Monday, April 8, 2024

GRICE ITALICO A/Z C

 

plausibile: ammettere che l’espressione abbia un senso, nella lettura parmenidea, proprio in relazione alle nozioni di περιέχον, ἄπειρον e ἀρχή, quasi 64 E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte Prima, vol. II: Ionici e Pitagorici, a cura di R. Mondolfo, La Nuova Italia, Firenze 1967, pp. 652-3. 65 Ivi, p. 653. 66 Su questo Conche, op. cit., pp. 143-4. 468 che alle concezioni dei pensatori milesi e pitagorici fosse connaturato il «non-essere». Aristotele è ancora prezioso: διό, καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν per questo diciamo che di esso [riferimento all’ἄπειρον] non c’è principio, ma che esso stesso sembra essere principio di tutte le cose e tutte comprendere [abbracciare] e tutte governare (Fisica IV, 4 203 b10-12; DK 12 A15). Marcando l’origine degli enti nel loro complesso da un ἄπειρον-ἀρχή che è anche περιέχον (avvolge «tutte le cose»), Anassimandro – così come i pensatori che ne ereditarono a vario titolo lo schema cosmogonico - ne avrebbe fatto un “non-ente”, qualcosa di diverso dagli enti di cui sarebbe stato principio. È chiaro, comunque, che in questa accezione l’ἄπειρον-ἀρχή difficilmente avrebbe potuto essere inteso propriamente come nulla e appare dubbia la possibilità che in questo senso Parmenide vi si possa rivolgere polemicamente. Giustizia e le sue catene A questo punto del suo ragionamento - una volta esclusa la possibilità di γένεσις sia dal non-essere sia dall’essere e ribadito che «ciò che non è» non è dicibile e pensabile - la Dea può concludere provvisoriamente (vv. 13-15a): τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene. 469 L’interesse del rilievo è legato al fatto che Parmenide sceglie, nel contesto della narrazione avviata con il proemio, all’interno del discorso che la Dea rivolge al proprio interlocutore, e in particolare di un passaggio argomentativo, di riconoscere a Dike – e poi a Ananke e Moira - un ruolo di garanzia: esso si presta a una lettura simbolica, quasi che la citazione della figura (e della funzione) mitica fosse semplice «metafora»67. Così intendono molti interpreti, per i quali i tre numi tradizionali, proprio per il loro intrinseco riferimento al rispetto dei limiti, sottolineerebbero la «ineluttabile legge dell’Essere» 68: in altre parole, come l’Essere debba sempre essere identico a se stesso. La questione è, in realtà, più complessa, sia dal punto di vista della costruzione del poema, sia da quello delle specifiche implicazioni: (i) Δίκη πολύποινος è elemento strutturale della narrazione: le sono espressamente attribuite una collocazione liminare e, in relazione a essa, una (tradizionale) mansione di sorveglianza; (ii) essa, tuttavia, sin dal proemio, è anche parte dell’azione: persuasa dall’intervento delle Eliadi, Giustizia vien meno al proprio compito di tutela del mondo infero e dei confini, consentendo l’accesso a un mortale; (iii) Θέμις e Δίκη sono espressamente evocate dall'anonima divinità all’esordio del suo discorso: il viaggio del poeta si compie non sotto l’impulso di Μοῖρα κακὴ, ma sotto l’egida della Giustizia. Le figure del mito (Dike, Ananke, Moira), insieme allo schema del «cammino» (ὁδός) - ovvero «pista» (πάτος) o «via» (κέλευθος), costituiscono la struttura portante nell'architettura dell’opera69, elementi di continuità nella sua articolazione, le sue condizioni “trascendentali”: il contesto entro cui le specifiche trattazioni su «ciò che è» e sulla Doxa assumono il proprio senso e statuto. Certamente le tre figure svolgono la propria mansione di 67 Ivi, p. 146. 68 Tarán, op. cit., p. 117. 69 Un aspetto, questo, registrato da Couloubaritsis nelle prime edizioni della sua opera e accentuato nell’ultima edizione, La pensée de Parménide, cit.. 470 garanzia “trascendendo” «ciò che è» (ἐόν), ovvero danno l’impressione, nelle parole della Dea, di sovrintendere (problematicamente) all’Essere dall’esterno70, a dispetto della sua assolutezza. In questa prospettiva, Dike, in particolare, assume nel poema una posizione peculiare: essa protegge τὸ ἐόν da γένεσις e ὄλεθρος avvolgendolo e trattenendolo in catene, in altri termini preservandone il perfetto equilibrio attraverso l’esclusione della coppia oppositiva nascita-morte71. Se nel proemio il suo ruolo era stato, secondo costume, quello di consegna al portale discriminante del mondo infero, di salvaguardia dei confini tra mondo della vita e mondo della morte, nel nostro passo tale connotazione si modifica nel senso che la garanzia passa per la discriminazione tra essere e non-essere, con conseguente immobilizzazione e omogeneizzazione dell’essere stesso: oltre l’essere non si dà un mondo altro. Possiamo solo registrare alcune espressioni indicative: οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (B8.13-15a) κρατερὴ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει Necessità potente nelle catene del laccio [lo] tiene (B8.30-31) Μοῖρ΄ ἐπέδησεν Moira [lo] ha costretto... (B8.37). La Robbiano ha accostato, su questo punto, la posizione di Parmenide a quella di Anassimandro, per cui, come sappiamo, l’ἄπειρον «circonda e governa» ogni cosa: Parmenide, reagendo 70 Robbiano, op. cit., pp. 166-7. 71 Ivi, pp. 174-5. 471 forse a questa soluzione e all’idea pitagorica di confine cosmico, avrebbe introdotto il riferimento a un limite estremo della realtà, sorvegliato da figure di garanzia. A dispetto delle differenze, entrambi gli autori avrebbero inteso marcare immutabilità ed equilibrio dell’universo, che nulla può giungere a turbare dall’esterno. Mentre l’ἄπειρον, tuttavia, appare come ipostatizzazione della causa dell’equilibrio, Dike, Ananke e Moira, pur sovrintendendo all’Essere dall’esterno (come l’ἄπειρον), non hanno consistenza ontologica, ma solo l’ufficio di orientare, guidare la comprensione dell’audience cui il poema si rivolgeva72. In realtà, il recupero del mito nel contesto, con la sua “eccedenza” rispetto al dato argomentativo, e la conseguente (apparente) «messa in questione» dell’assolutezza dell’essere, potrebbe segnalare, come vuole Couloubaritsis73, la difficoltà di Parmenide a giustificare argomentativamente uno stato limite o ultimo: nell’argomentazione sviluppata, infatti, nulla autorizzerebbe a ricavare non-miticamente la limitazione dell’essere. Il mito, attraverso l’uso che ne fa la dea, supplirebbe a questa mancanza, rivelando che il logos non ha autonomia assoluta: utilizzate per significare l’essere come se lo trascendessero, le figure delle tre divinità tradizionali acquisirebbero così uno statuto trascendentale e sarebbero il segno di un'integrazione, all’interno del poema, tra discorso significante e discorso mitico74. Giudizio ed essere D’altra parte, che la tutela di Giustizia sia essenzialmente logica si mostra nei vv. 15b-18: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής 72 Ivi, pp. 166-8. 73 Mythe et philosophie…, cit., p. 217. 74 Ivi, p. 250. 472 ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale. Il linguaggio e le immagini insistite - «sciogliendo le catene» (χαλάσασα πέδῃσιν v. 14), «nei vincoli di grandi catene» (μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν v. 26), «nelle catene del vincolo [lo] tiene» (πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει v. 31) – puntano, da un lato, direttamente alla pratica razionale della decisione giudiziaria, dall’altro alla conseguente restrizione di libertà: il vincolo che Giustizia impone non è arbitrario; la condizione che essa prescrive è logicamente incontrovertibile, donde la formula «secondo necessità» (ὥσπερ ἀνάγκη). Come abbiamo sopra ricordato, il passaggio evoca sinteticamente le ragioni della scelta dell’ἔστιν: (i) ripresa dell’alternativa tra le formule contraddittorie ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν; (ii) esclusione della via οὐκ ἔστιν: in quanto «non genuina» (οὐ ἀληθής), essa è anche ἀνόητον ἀνώνυμον; (iii) conseguente concentrazione su ἔστιν: «che l’altra esista e sia reale» (τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι). Sulla scorta di premesse individuabili negli esordi della sua comunicazione (B2), e di cui era stato opportunamente segnalato il rilievo, la Dea può ribadire l’impraticabilità del non-essere e delle nozioni che in qualche misura lo implichino, come appunto γενέσθαι e ὄλλυσθαι. Con una precisazione interessante: delineata come alternativa tra formule contraddittorie, ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, in verità la krisis di B2 è tale solo apparentemente, dal momento che - la Dea deve riconoscere - la via οὐκ ἔστιν non è «genuina», è via solo in teoria, in quanto costruita sulla contraddizione con l’unica realtà: ἔστιν. È da escludere, dunque, che la stessa divinità possa in qualche misura servirsene, per esempio nella seconda sezione del poema, come qualche interprete vorrebbe. 473 Essere e tempo I versi che seguono (vv. 19-21) e concludono la prima sezione argomentativa del frammento sono ancora di controversa interpretazione: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο; εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι. τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος ὄλεθρος E come potrebbe esistere in futuro l’essere? E come potrebbe essere nato? Se nacque, infatti, non è, e neppure [è] se dovrà essere in futuro. Così è estinta nascita e morte oscura. Che la dimensione temporale sia centrale è chiaro nell’uso dei tempi verbali e degli avverbi, così come è esplicita la connessione tra temporalità e γένεσις-ὄλεθρος. Il testo e la sua resa presentano difficoltà, di cui abbiamo dato notizia in nota. A un primo livello di lettura, appare evidente come Parmenide giochi sulla contrapposizione tra forme del verbo «essere» (εἶναι: ἔστι, ἔσεσθαι, τὸ ἐόν, ma anche πέλοι) e forme di «venire a essere» (γίγνεσθαι: γένοιτο, ἔγεντo, γένεσις). La convinzione da veicolare con tale costruzione verbale è che se l’essere (τὸ ἐόν) è coinvolto in processi («nacque» ovvero «dovrà essere [in seguito]»), e dunque diviene, esso propriamente «non è» (ovvero non è sempre allo stesso modo75), così contraddicendo l’immediata evidenza della «via: è» - che comportava l’altrettanto immediata ammissione: «non è possibile non essere» (ἔστι καὶ οὐκ ἔστι μὴ εἶναι). Ciò che è propriamente (τὸ ἐόν) è sempre uguale a se stesso, come suggerisce l’uso (durativo) di ἔστι; ciò che diviene (γένεσις può valere genericamente come «venire a essere»), come tale, è instabile, è e non-è (non è più o non è ancora). Già a livello verbale, dunque, Parmenide intende rilevare la reciproca incompatibilità delle condizioni designate dai due verbi. 75 Leszl, op. cit., p. 190. 474 Se τὸ ἐόν è venuto a essere, è ora diverso da come fu; se verrà a essere in seguito, ora è diverso da ciò che sarà76: il mutamento che implichiamo nelle espressioni temporali è inconciliabile con la natura dell’Essere (ingenerato e immortale). Interpretando, potremmo affermare, con Conche77, che quel che vale per la temporalità degli enti della nostra esperienza irriflessa non vale per l’essere di cui la Dea traccia i contorni: l’essere è «ora», nel senso che è sempre uguale a se stesso. In alternativa, in vece della polarità passato-presente ovvero «venire a essere»-«essere» (εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι), è possibile valorizzare l'implicazione tra «venire a essere» e «non-essere»: ogni venire all'esistenza, in effetti, presuppone sempre - indipendentemente dalla prospettiva temporale (passato remoto o futuro prossimo: εἰ ἔγεντo - εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι) - una non-esistenza (οὐκ ἔστι). In ogni caso, appare a questo punto evidente il nesso dell’argomento nel suo complesso con i vv. 5-6: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo. Negare il passaggio da non-essere a essere e viceversa – come nei vv. 6-18 – ovvero l’eventualità di un mutamento dell’essere nel tempo, significa riconoscere che «in ogni momento l’essere c’è tutto o non c’è per nulla»78 (ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί v. 11), e dunque collegare il ragionamento che porta a escludere γένεσις e ὄλεθρος al rilievo dell’identità di ciò che è con se stesso e alla problematica caratterizzazione di ἐόν rispetto alla temporalità che ritroviamo nei vv. 5-6. Interessante la ripresa del nesso in Melisso: 76 Tarán, op. cit., p. 105. 77 Op. cit., p. 148 78 Leszl, op. cit., p. 186. 475 ἀεὶ ἦν ὅ τι ἦν καὶ ἀεὶ ἔσται. εἰ γὰρ ἐγένετο, ἀναγκαῖόν ἐστι πρὶν γενέσθαι εἶναι μηδέν· εἰ τοίνυν μηδὲν ἦν, οὐδαμὰ ἂν γένοιτο οὐδὲν ἐκ μηδενός Sempre era ciò che era [qualsiasi cosa era] e sempre sarà. Se, infatti, fosse nato, è necessario che, prima di nascere, non fosse nulla; ora, se non era nulla, in nessun modo nulla potrebbe nascere dal nulla (DK 30 B1) […] εἰ γὰρ ἑτεροιοῦται, ἀνάγκη τὸ ἐὸν μὴ ὁμοῖον εἶναι, ἀλλὰ ἀπόλλυσθαι τὸ πρόσθεν ἐόν, τὸ δὲ οὐκ ἐὸν γίνεσθαι. εἰ τοίνυν τριχὶ μιῆι μυρίοις ἔτεσιν ἑτεροῖον γίνοιτο, ὀλεῖται πᾶν ἐν τῶι παντὶ χρόνωι [...] se diventa altro, infatti, è necessario che l’essere non sia uguale, ma che si distrugga ciò che era prima e si generi ciò che non è. Se allora si alterasse di un solo capello in diecimila anni, si distruggerebbe tutto quanto per tutto il tempo (DK 30 B7, §2) La stessa preoccupazione, di marcare l’indifferenza dell’essere rispetto al tempo, negare, in altre parole, la possibilità che il tempo possa comportare una differenza per l’essere, è espressa chiaramente in termini più lineari e immediati, sottolineando soprattutto la durevole identità temporale dell’essere. In questo senso, la sintetica connotazione melissiana di τὸ ἐὸν - «è eterno, infinito, uno, tutto uguale» (ἀίδιόν ἐστι καὶ ἄπειρον καὶ ἓν καὶ ὅμοιον πᾶν, DK 30 B7, §1) - interpreterebbe la formula parmenidea «è ora tutto insieme, uno, continuo» (νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές), in cui è necessario considerare l’avverbio unitamente agli attributi, per intendere correttamente il primo emistichio del v. 5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται. Ciò che la Dea sembra negare è la possibilità di pensare coerentemente: τὸ ἐόν «[in] un tempo [passato] era» ovvero «[in] un tempo [a venire] sarà». Accettando la nostra traduzione, espressioni verbali come «era» e «sarà» sono rifiutate in quanto modificate dall’avverbio ποτε («un tempo, una volta»). Il verso manifesterebbe allora il proprio senso nella contrapposizione tra tempi 476 verbali e forme avverbiali temporali: da un lato «né un tempo era» (οὐδέ ποτ΄ ἦν) e «né [un tempo] sarà» (οὐδ΄ ἔσται), dall’altro «è ora» (νῦν ἔστιν). Le due proposizioni coordinate sono a loro volta subordinate da un nesso causale - «poiché» (ἐπεὶ) – alla terza («è ora tutto insieme, uno, continuo»): in altre parole è il rilievo della completezza, omogeneità e integrità (ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές) di «ciò che è» a escludere qualsiasi forma di discontinuità e dunque di autentica discriminazione temporale. Questa costruzione si rifletterebbe anche nell’argomento complessivo dei vv. 6-21: la Dea dapprima si concentra sull’eventualità che «ciò che è» sia divenuto (nato e cresciuto), quindi (v. 19) considera interrogativamente che τὸ ἐόν possa esistere in futuro: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο; εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι E come potrebbe esistere in futuro l’essere? E come potrebbe essere nato? Se è nato, infatti, non è, e neppure [è] se dovrà essere in futuro. Se riscontriamo i vv. 5 e 20: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι possiamo notare come la Dea insista a marcare l'incompatibilità tra esistenza passata e\o esistenza futura (che implicano οὐκ ἔστι) e quella condizione presente (νῦν) che si esprime nell’«è»79 e ne riflette il valore «stativo»80. 79 Ma come insegna Palmer, ἔστιν è forma riassuntiva di ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι; o, come preferiamo, ἔστιν esprime immediatamente l’evidenza, di cui οὐκ ἔστι μὴ εἶναι è contestuale inferenza. 80 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit., p. 94. Sulla questione lo studioso italiano richiama i numerosi lavori di Kahn, ora riuniti in Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009. 477 Isolando (e assolutizzando) le espressioni verbali (ἦν, ἔσται, ἔστιν, ἔγεντο, μέλλει ἔσεσθαι), si è avvertito in queste battute il delinearsi di un punto di vista ardito: l’idea dell’eternità come atemporalità, totale estraneità dell’essere al tempo. Valorizzando, invece, le funzioni avverbiali (ποτε, νῦν), è forse più prudente limitarsi a segnalare come – pur sempre all’interno di una prospettiva temporale (che privilegia il presente) – la Dea rifiuti di riconoscere, in relazione a τὸ ἐόν, la validità (sensatezza) del riferimento alle dimensioni temporali del passato e del futuro. L’impressione che Parmenide insista sul presente per sottolineare l'identità dell’essere è rafforzata dalla reiterazione di formule di persistenza (e stabilità) già ricordate: τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει· né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (vv. 13-15a) κρατερὴ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει Necessità potente nelle catene del laccio [lo] tiene (vv. 30-31), cui possiamo aggiungere quella che è forse la formulazione più pregnante: ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (vv. 29-30), dove la costruzione verbale (μένον, κεῖται, μένει) e avverbiale (ἔμπεδον ma anche le espressioni ἐν ταὐτῷ, καθ΄ ἑαυτό) segnala nuovamente la preoccupazione di fondo dell’autore circa identità 478 e immutabilità di «ciò che è», e sua estraneità a processi che possano contraddirle. Al v. 21 si conclude il lungo argomento, con l’esplicita esclusione dei due indicatori fondamentali del divenire (e, per quel che abbiamo potuto notare, della temporalità): τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος ὄλεθρος Così è estinta nascita e morte oscura. In entrambi i casi, l’accettazione di un «venire a essere» ovvero di una «distruzione» dell’essere comporterebbe l’implicita ammissione di ciò che non è, il riferimento a un impraticabile passaggio dal o verso il nulla. Comunque sia tradotto il verso (si vedano le annotazioni al testo), sulla scorta delle argomentazioni precedenti, Parmenide chiude la propria esposizione relativamente a un punto essenziale nel quadro della cultura contemporanea: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν che senza nascita è ciò che è e senza morte (v. 3). L’estinzione dei processi veicolati dai termini γένεσις e ὄλεθρος passa attraverso (i) la decisione tra «è» e «non-è», (ii) l’inaccettabilità della loro commistione, (iii) il riconoscimento che il nulla è inindagabile: donde forse la caratterizzazione della morte (distruzione) come ἄπυστος, «inaudita», «inconcepibile». Omogeneo e continuo I vv. 22-25 costituiscono un nuovo blocco a giustificazione dei σήματα: οὖλον (intero), μουνογενές (uniforme), ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme), συνεχές (continuo): οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος. τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει. 479 Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. È perciò tutto continuo: ciò che è si stringe infatti a ciò che è. Impermeabile al non-essere, «ciò che è» non può che essere «omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον letteralmente «tutto uguale»), «pieno» (ἔμπλεόν), «continuo» (ξυνεχὲς): in altre parole, è «tutto» (πᾶν, termine ripetuto tre volte in quattro versi) identico a se stesso (uniforme). In questo senso, esiste indubbiamente, tra questo gruppo di σήματα, il precedente e i successivi, la forte connessione garantita dai versi sopra citati: ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (vv. 29-30). L’indivisibilità, l’irriducibilità dell’essere seguono alla sua omogeneità, alla sua densità, in ultima analisi al bando della via «non è»: nulla può inframezzarsi a «ciò che è». In poche battute la Dea sottolinea coerentemente tale omogeneità con una serie di espressioni: (i) «non c’è alunché che possa impedirgli di essere continuo»; (ii) «è tutto pieno di ciò che è»; (iii) «è tutto continuo»; (iv) «ciò che è si stringe a ciò che è». Ora, è chiaro che centrale risulta la (ii): πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος; una affermazione che sembra ricavata direttamente dalla enunciazione della tesi di fondo di B2 (ἔστιν τε καὶ [...] οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), esplicitata in B6.1-2a: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν. Dal riconoscimento dell’identità dell’essere con se stesso (ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι), e dal contestuale bando del nulla (μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν), seguono sia che «tutto pieno è di ciò che è», sia che nulla «possa impedirgli di essere continuo», e, ulteriormente, le due caratterizzazioni equivalenti del verso finale del passo: «è tutto continuo» e «ciò che è si stringe a ciò che è». Tutto intero, uniforme Parmenide suggerisce compattezza, coesione e identità, in forza di scelte espressive che escludono la possibilità di distinzione, riduzione, separazione: πᾶν ὁμοῖον, συνέχεσθαι, ἔμπλεόν, ξυνεχὲς πᾶν, πελάζει. Le implicazioni materiali e psicologiche della pienezza e dei vincoli evocati sono state messe in valore nell’analisi di Mourelatos81, il quale ha marcato la presenza sullo sfondo di due elementi: (i) la semplicità inqualificata di ciò-che-è; (ii) la negazione di dualismi. Questo consente di collegare il passo in questione con l’iniziale rilievo (v. 4) dell’espressione «tutto intero, uniforme» (οὖλον μουνογενές), che, sempre secondo Mourelatos82, anticiperebbe l’argomento a sostegno dell'indivisibilità, anche grazie all’amplificazione di B8.5b-6a: ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές. Come abbiamo segnalato in nota al testo, per il significato della formula μουνογενές lo studioso richiama un importante precedente esiodeo, che Parmenide avrebbe avuto ben presente e in opposizione al quale avrebbe coniato la propria espressione: Οὐκ ἄρα μοῦνον ἔην Ἐρίδων γένος, ἀλλ’ ἐπὶ γαῖαν εἰσὶ δύω· τὴν μέν κεν ἐπαινήσειε νοήσας, ἣ δ’ ἐπιμωμητή· διὰ δ’ ἄνδιχα θυμὸν ἔχουσιν Non vi era dunque un solo genere di Eris [Contesa], ma sulla terra ce ne sono due: l’una potrebbe onorare chi la comprenda; 81 Op. cit., pp. 111-2. 82 Ivi, p. 95. 481 l’altra è da riprovare; hanno animo diverso e opposto (Le opere e i giorni 11-13). Il segnavia μουνογενές indicherebbe dunque un'identità di genere, di natura, un’uniformità tale da escludere qualsiasi forma di potenziale discriminazione all’interno dell’essere: in questo senso sarebbe impiegato – nel nostro frammento – in antitesi alla dicotomia che il filosofo pone al fondo delle «opinioni mortali» (δόξας βροτείας v. 51), costruite intorno a una coppia di «forme» (μορφὰς δύο v. 53) distinte oppositivamente (τἀντία δ΄ ἐκρίναντο v. 55), e reciprocamente separate (σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων vv. 55b-56a). Accettando la lettura di Mourelatos, risulta ancora più evidente il ruolo decisivo della κρίσις richiamata al v. 16: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. È sulla scorta di essa, infatti, che la Dea può marcare l’inesorabile “uni-genericità” (o meglio uniformità) di «ciò che è», escluderne differenziazioni, proporlo come un blocco compatto nell’essere. Concentrandosi su ἔστιν ed escludendo οὐκ ἔστιν, è possibile affermare (di τὸ ἐόν): πᾶν ἐστιν ὁμοῖον. Una piena applicazione della formula della prima via di B2.3: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι. È possibile che l’insistenza su coesione e omogeneità dell’essere riveli ancora un'intenzione polemica nei confronti del modello cosmogonico ionico: come abbiamo già avuto modo di ricordare, le testimonianze su Anassimandro e Anassimene supportano uno schema di base, per cui l’origine del processo di formazione del mondo coinciderebbe con un atto di separazione da uno stato primitivo di indifferenziazione: φησὶ δὲ τὸ ἐκ τοῦ ἀιδίου γόνιμον θερμοῦ τε καὶ ψυχροῦ κατὰ τὴν γένεσιν τοῦδε τοῦ κόσμου ἀποκριθῆναι [Anassimandro] sostiene che ciò che, derivato dall’eterno, è produttivo di caldo e freddo fu separato alla 482 generazione di questo mondo (Pseudo-Plutarco; DK 12 A10) Ἀ. δὲ Εὐρυστράτου Μιλήσιος, ἑταῖρος γεγονὼς Ἀναξιμάνδρου, μίαν μὲν καὶ αὐτὸς τὴν ὑποκειμένην φύσιν καὶ ἄπειρόν φησιν ὥσπερ ἐκεῖνος, οὐκ ἀόριστον δὲ ὥσπερ ἐκεῖνος, ἀλλὰ ὡρισμένην, ἀέρα λέγων αὐτήν· διαφέρειν δὲ μανότητι καὶ πυκνότητι κατὰ τὰς οὐσίας. καὶ ἀραιούμενον μὲν πῦρ γίνεσθαι, πυκνούμενον δὲ ἄνεμον, εἶτα νέφος, ἔτι δὲ μᾶλλον ὕδωρ, εἶτα γῆν, εἶτα λίθους, τὰ δὲ ἄλλα ἐκ τούτων. κίνησιν δὲ καὶ οὗτος ἀίδιον ποιεῖ, δι’ ἣν καὶ τὴν μεταβολὴν γίνεσθαι Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, discepolo di Anassimandro, afferma, come quello, che unica e infinita è la natura soggiacente, non indefinita, tuttavia - come sosteneva quello - ma determinata, chiamandola aria. Afferma inoltre che essa si differenzia nelle sostanze per rarefazione e condensazione. Rarefacendosi, infatti, diventa fuoco, condensandosi invece vento, poi nuvola, e quando più condensato acqua, poi terra, poi pietre. Tutto il resto deriva da queste cose. Anch’egli pone eterno il movimento per cui si produce il mutamento. (Simplicio; DK 13 A5). Ἀ. δὲ καὶ αὐτὸς ὢν Μιλήσιος, υἱὸς δ’ Εὐρυστράτου, ἀέρα ἄπειρον ἔφη τὴν ἀρχὴν εἶναι, ἐξ οὗ τὰ γινόμενα καὶ τὰ γεγονότα καὶ τὰ ἐσόμενα καὶ θεοὺς καὶ θεῖα γίνεσθαι, τὰ δὲ λοιπὰ ἐκ τῶν τούτου ἀπογόνων. (2) τὸ δὲ εἶδος τοῦ ἀέρος τοιοῦτον· ὅταν μὲν ὁμαλώτατος ἦι, ὄψει ἄδηλον, δηλοῦσθαι δὲ τῶι ψυχρῶι καὶ τῶι θερμῶι καὶ τῶι νοτερῶι καὶ τῶι κινουμένωι. κινεῖσθαι δὲ ἀεί· οὐ γὰρ μεταβάλλειν ὅσα μεταβάλλει, εἰ μὴ κινοῖτο. (3) πυκνούμενον γὰρ καὶ ἀραιούμενον διάφορον φαίνεσθαι· ὅταν γὰρ εἰς τὸ ἀραιότερον διαχυθῆι, πῦρ γίνεσθαι, ἀνέμους δὲ πάλιν εἶναι ἀέρα πυκνούμενον, ἐξ ἀέρος < δὲ > νέφος ἀποτελεῖσθαι κατὰ τὴν πίλησιν, ἔτι δὲ μᾶλλον ὕδωρ, ἐπὶ πλεῖον πυκνωθέντα γῆν καὶ εἰς τὸ 483 μάλιστα πυκνότατον λίθους. ὥστε τὰ κυριώτατα τῆς γενέσεως ἐναντία εἶναι, θερμόν τε καὶ ψυχρόν [...] Anassimene, anche lui milesio, figlio di Euristrato, disse che il principio è aria infinita, da cui si generano le cose che nascono e le cose che sono nate e quelle che nasceranno e gli dei e le cose divine, mentre le altre cose derivano da quanto è da essa prodotto. (2) L’aspetto dell’aria è questo: quando è del tutto uniforme, essa risulta invisibile; si mostra invece con il freddo e il caldo e l’umidità e il movimento. Si muove sempre: le cose che mutano, infatti, non muterebbero, se essa non si muovesse. (3) Quando è condensata e rarefatta, infatti, appare in modo diverso: quando si dirada fino a essere molto rarefatta, diventa fuoco; mentre i venti, a loro volta, sono aria condensata; dall’aria poi, per compressione, si formano le nuvole, e, crescendo ancora la condensazione, l’acqua, e, crescendo di più, la terra, e, crescendo al massimo, le pietre. Così gli elementi fondamentali della generazione sono contrari, il caldo e il freddo (Ippolito; DK 13 A7). La fonte comune di Pseudo-Plutarco, Simplicio e Ippolito è Teofrasto, un teste affidabile: ricorrente - a dispetto della convinzione che di tutto unica sia la scaturigine in una φύσις ἄπειρος - è l’idea che: (i) fondamentale per la cosmogonia sia l’azione dei contrari (Ippolito lo afferma chiaramente: τὰ κυριώτατα τῆς γενέσεως ἐναντία): essa si dispiega, in Anassimandro, a partire da «ciò che è produttivo di», ovvero «ciò che può generare» (γόνιμον) caldo e freddo, ovvero, in Anassimene, dai processi di rarefazione e condensazione; (ii) la separazione del principio generativo degli opposti (γόνιμον), nel primo caso, ovvero la doppia azione esercitata sull’aria, nel secondo, sarebbero a loro volta effetto di un «movimento eterno» (κίνησις ἀίδιος) nella φύσις ἄπειρος, da Simplicio riconosciuto (per entrambi) come causa diretta del «mutamento» (μεταβολή). Il lessico peripatetico delle testimonianze fa intravedere la possibile sovrapposizione di due schemi esplicativi, che potrebbero ambiguamente essere stati compresenti nelle cosmologie (e cosmogonie) ioniche. Il primo – delineato dalle affermazioni di Simplicio su Anassimene secondo cui la «natura soggiacente» (ὑποκειμένη φύσις) «si differenzia nelle sostanze per rarefazione e condensazione» (διαφέρειν δὲ μανότητι καὶ πυκνότητι κατὰ τὰς οὐσίας), e confermato da qualche passaggio di Ippolito («condensata e rarefatta, infatti, appare in modo diverso» πυκνούμενον γὰρ καὶ ἀραιούμενον διάφορον φαίνεσθαι; ovvero «i venti, a loro volta, sono aria condensata» ἀνέμους δὲ πάλιν εἶναι ἀέρα πυκνούμενον) – è quello che prevale in Aristotele (e che è possibile ritrovare esplicitato in Diogene di Apollonia): la materia originaria ed eterna subisce alterazioni a causa del suo interno moto incessante, presentandosi così in varie forme fenomeniche. In questo schema le «sostanze» della lista proposta83 (fuoco, venti, nuvole, acqua, terra, pietre) non sarebbero realtà indipendenti, ma semplici stadi di passaggio nel ciclo di trasformazione dell’unico principio materiale. Conseguentemente, in questa prospettiva “monistica”, tutte le cose si ridurrebbero ad aria84. Il secondo è espressamente sottolineato da Simplicio in Anassimandro (citato in precedenza): [...] οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως [...] Egli poi non fa discendere la generazione dall'alterazione dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento eterno (DK 12 A9), 83 Che ha l’aria di essere citazione dall’originale teofrasteo: in questo caso non ritroveremmo una semplice parafrasi, con la proiezione della dottrina peripatetica dei 4 elementi, ma forse il riferimento a un elenco effettivamente anassimeneo. Su questo punto Kahn, Anaximander and the Origins of Greek Science cit., pp. 149-150. 84 Secondo un paradigma riduttivo già presente nel mito greco di Proteo, come segnala Kahn, op. cit., p. 151. 485 ma rilevabile anche nelle testimonianze su Anassimene, dove si marca la generazione di tutte le altre cose da un nucleo di «sostanze» (fuoco, vento, nuvola, acqua, terra, pietre). Secondo questo schema (pluralistico, con probabile eco del politeismo teogonico esiodeo), dal principio materiale (ἀέρα ἄπειρον ἔφη τὴν ἀρχὴν εἶναι) si sarebbero generate, come effetto di compressione e rarefazione, alcune realtà elementari indipendenti (le «sostanze» elencate), da cui risulterebbero tutte le altre cose. Una possibile, analoga oscillazione tra i due schemi si lascia cogliere anche nel contemporaneo Eraclito: κόσμον τόνδε, τὸν αὐτὸν ἁπάντων, οὔτε τις θεῶν οὔτε ἀνθρώπων ἐποίησεν, ἀλλ’ ἦν ἀεὶ καὶ ἔστιν καὶ ἔσται πῦρ ἀείζωον, ἁπτόμενον μέτρα καὶ ἀποσβεννύμενον μέτρα Questo mondo ordinato, lo stesso per tutti, nessuno degli dei o degli uomini produsse, ma fu sempre, è e sarà fuoco sempre vivo, che si accende secondo misura e si estingue secondo misura (Clemente Alessandrino; DK 22 B30) πυρός τε ἀνταμοιβὴ τὰ πάντα καὶ πῦρ ἁπάντων ὅκωσπερ χρυσοῦ χρήματα καὶ χρημάτων χρυσός Tutte le cose sono scambio con fuoco e il fuoco scambio con tutte le cose, come i beni sono scambio con oro e l’oro scambio con beni (Plutarco; DK 22 B90) ψυχῆισιν θάνατος ὕδωρ γενέσθαι, ὕδατι δὲ θάνατος γῆν γενέσθαι, ἐκ γῆς δὲ ὕδωρ γίνεται, ἐξ ὕδατος δὲ ψυχή per le anime è morte diventare acqua, per l’acqua, invece, è morte diventare terra, ma dalla terra si genera l’acqua, dall’acqua a sua volta [si genera] l’anima (Clemente Alessandrino; DK 22 B36) ζῆι πῦρ τὸν γῆς θάνατον καὶ ἀὴρ ζῆι τὸν πυρὸς θάνατον, ὕδωρ ζῆι τὸν ἀέρος θάνατον, γῆ τὸν ὕδατος 486 Il fuoco vive la morte della terra e l’aria vive la morte del fuoco, l’acqua vive la morte dell’aria, la terra la morte dell’acqua (Massimo di Tiro; DK 22 B76). Da un lato, soprattutto i primi due frammenti suscitano l’impressione che Eraclito riduca ogni cosa a fuoco, la natura originaria che si cela dietro ogni trasformazione; dall’altro il lessico (γενέσθαι, γίνεται, ζῆι, θάνατος) di B36 e B76 suggerisce l’idea di un ciclo di produzione di elementi, che scaturiscono gli uni dagli altri, senza una reale identità di base85. I limiti di documentazione (anche nel caso dei frammenti eraclitei) e il lessico e l’impostazione peripatetici delle testimonianze non consentono di stabilire con certezza quale schema fosse effettivamente operante negli autori ionici: in ogni modo è chiaro che, rispetto all’impegno argomentativo di Parmenide, essi potrebbero far sentire la loro presenza da due punti di vista. Intanto, come in precedenza segnalato, nell’insistenza parmenidea sul nesso γένεσις- ὄλεθρος e nell’eco biologica di molti termini ed espressioni ricorrenti nel poema (γενέσθαι, ὄλλυσθαι, γένναν, αὐξηθέν, ἀρξάμενον, φῦν), che potrebbero evocare la centralità della dimensione generativa decisiva nel secondo modello. Un lessico “biologico” è attribuito chiaramente, nelle testimonianze, in particolare ad Anassimandro, come rivelano l’uso del termine γόνιμον per indicare il nucleo originario dei processi reattivi che conducono alla formazione di un mondo (una sorta di base seminale del mondo stesso), e la scelta di un verbo - ἀποκριθῆναι (da ἀποκρίνεσθαι) – che evoca attività di secrezione. L’ἄπειρον stesso sarebbe stato proposto, allora, come fertile, feconda matrice, una sorta di “genitore” (in senso letterale), cui imputare in ultima analisi l’origine. In secondo luogo è evidente, nel poema, la riflessione sulle implicazioni “ontologiche” dei due possibili paradigmi esplicativi che possiamo cogliere nello schema attribuito dalle testimonianze ad Anassimene: (i) esiste una «natura soggiacente» (ὑποκειμένη 85 Graham, Explaining the Cosmos…, cit., pp. 124 ss.. 487 φύσις), «unica e infinita» (μία ἄπειρος), dalla quale, (ii) a causa di «movimento eterno» (κίνησις ἀίδιος), (iii) si produce «il mutamento» (τὴν μεταβολὴν γίνεσθαι), consistente nel (iv) suo differenziarsi «in sostanze» (διαφέρειν κατὰ τὰς οὐσίας), (v) «da cui» discenderebbero «tutte le altre cose» (τὰ δὲ ἄλλα ἐκ τούτων). A Parmenide non sarebbero sfuggiti: (a) la difficoltà di coniugare la consistenza d’essere della ὑποκειμένη φύσις, la sua eterna irrequietezza, e la realtà sostanziale delle «altre cose»; (b) il fatto che l’attività discriminante («differenziare», διαφέρειν) riferita alla realtà originaria ne minasse la compattezza (portando con sé la nozione di non-essere); (c) il problema della giustificazione dello stesso processo di generazione dal principio e\o della sua trasformazione. In effetti si tratta delle questioni di fondo che abbiamo ritrovato commentando i primi 25 versi di B8. Immobile e identico È probabile che allo stesso contesto rinviino i versi successivi (26-31), che sottolineano immobilità e immutabilità di ciò che è: αὐτὰρ ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν ἔστιν ἄναρχον ἄπαυστον, ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής. ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει· κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει, Inoltre, immobile nei vincoli di grandi catene, è senza inizio e senza fine, poiché nascita e morte sono state respinte ben lontano: convinzione genuina [le] fece arretrare. Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e, così, stabilmente dove è persiste: dal momento che Necessità potente 488 nelle catene del vincolo [lo] tiene, che tutto intorno lo rinserra. L’uso del termine ἀκίνητον non deve ingannare: ciò che è in gioco in questo passaggio non è tanto, nello specifico, il movimento, quanto il mutamento in generale, come suggerito da: (i) accostamento tra ἀκίνητον e altri due aggettivi – «senza inizio» (ἄναρχον) e «senza fine» (ἄπαυστον) – esplicitamente giustificati dalla precedente esclusione di γένεσις e ὄλεθρος; (ii) insistenza su identità durevole, fissità di stato e persistenza di τὸ ἐόν; (iii) variazione nel registro espressivo, con la reiterazione di immagini che suggeriscono certamente anche inabilità al moto, ma, nel contesto, soprattutto impossibilità di sviluppo, di cambiamento della propria situazione. Nell’identica condizione Insomma, Parmenide appare interessato a escludere dall’essere la possibilità di intrinseca motilità (connaturata invece, secondo le testimonianze, alla φύσις milesia) - donde forse l’aggettivo ἀτρεμὲς del v. 4 - e dunque, rispetto allo schema esplicativo che abbiamo riscontrato, di trasformazione (μεταβολή): da un punto di vista linguistico sono dominanti le espressioni che accentuano saldezza («stabilmente dove è persiste» ἔμπεδον αὖθι μένει) e staticità («in se stesso riposa» καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται), figurativamente accompagnate dalla suggestione dei «vincoli di grande catene» (μεγάλων δεσμῶν πείρατα), e del rinserramento dell’essere (τό μιν ἀμφὶς ἐέργει) a opera di «Necessità potente» (κρατερὴ Ἀνάγκη). Come abbiamo segnalato in nota al testo, il passo è ricco di echi letterari e riflette su un nodo (mutamento) ben documentato anche nella cultura filosofica arcaica: - ἀλλ’ ἀεί τοι θεοὶ παρῆσαν χὐπέλιπον οὐ πώποκα, τάδε δ’ ἀεὶ πάρεσθ’ ὁμοῖα διά τε τῶν αὐτῶν ἀεί. 489 - ἀλλὰ λέγεται μὰν Χάος πρᾶτον γενέσθαι τῶν θεῶν. - πῶς δέ κα; μὴ ἔχον γ’ ἀπό τινος μηδ’ ἐς ὅ τι πρᾶτον μόλοι. - οὐκ ἄρ’ ἔμολε πρᾶτον οὐθέν; —οὐδὲ μὰ Δία δεύτερον τῶνδέ γ’ ὧν ἁμὲς νῦν ὧδε λέγομες, ἀλλ’ ἀεὶ τάδ’ ἦς A. Ma sempre gli dei furono presenti e mai vennero meno: queste cose sono sempre uguali e sempre per sé stesse. B. Eppure si dice che Caos primo venne all’essere degli dei. A. Come possibile? Come primo non aveva da cosa derivare né verso cosa procedere. B. Nulla allora procedette per primo? A. Nemmeno per secondo, per Zeus,, almeno delle cose di cui ora stiamo discorrrendo in questo modo, ma esse furono sempre [...]. (Epicarmo; DK 23 B1) [...] — ὧδε νῦν ὅρη καὶ τὸς ἀνθρώπως· ὁ μὲν γὰρ αὔξεθ’, ὁ δέ γα μὰν φθίνει, ἐν μεταλλαγᾶι δὲ πάντες ἐντὶ πάντα τὸν χρόνον. ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει, ἕτερον εἴη κα τόδ’ ἤδη τοῦ παρεξεστακότος [...] [...] Così ora considera anche gli uomini: l’uno cresce, l’altro, invece, deperisce: tutti sono in mutamento durante tutto il tempo. Ora, ciò che muta per natura e non mai nella stessa condizione permane, sarebbe già diverso da quel che era [...] (Epicarmo; DK 23 B2) αἰεὶ δ’ ἐν ταὐτῶι μίμνει κινούμενος οὐδέν οὐδὲ μετέρχεσθαί μιν ἐπιπρέπει ἄλλοτε ἄλληι 490 sempre nella stessa condizione permane, e per nulla si muove, né gli si addice spostarsi ora in un luogo ora in un altro (Senofane; DK 21 B26). Le citazioni di Senofane ed Epicarmo attestano, nella elaborazione contemporanea, la preoccupazione per il mutamento in associazione al tempo: tradizionalmente riferite al rapporto tra l’umano e il divino (Epicarmo), esse complessivamente contrastano i processi di crescita e deperimento, l’instabilità sostanziale degli esseri umani, con l’immota identità delle realtà divine («uguali e sempre per sé stesse» ὁμοῖα διά τε τῶν αὐτῶν ἀεί), connotata sia rispetto al tempo («sempre gli dei furono presenti e mai vennero meno», ἀεί τοι θεοὶ παρῆσαν χὐπέλιπον οὐ πώποκα), sia rispetto allo stato («ciò che muta per natura, e mai nella stessa condizione permane», ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει) 86. Significativamente, nel suo breve frammento Senofane sembra giustificare l’immobilità divina con una considerazione di opportunità: «né gli si addice [ἐπιπρέπει] spostarsi ora in un luogo ora in un altro». La Dea di Parmenide, da parte sua, coniuga immobilità, immutabilità e identità sulla base di tre considerazioni: (i) generazione e corruzione sono state allontanate dallo scenario dell’essere con argomento conclusivo («convinzione genuina [le] fece arretrare» ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής): τὸ ἐόν è dunque indiscutibilmente sottratto alla linearità della relazione inizio-fine a causa della contraddizione che essa comporta; è ἄναρχον ἄπαυστον nel senso che non diviene; (ii) ingenerabilità, incorruttibilità, pienezza, omogeneità e continuità (sottolineate nei versi precedenti) pongono l’accento sull’identità di τὸ ἐόν con se stesso: essa appare il nuovo baricentro del discorso divino. La Dea, tuttavia, non propone un argomento a sostegno, né esplicitamente si appoggia al precedente, 86 È da osservare, in particolare, l’uso in entrambi gli autori dell’espressione ἐν ταὐτῶι μένει (in Senofane l’equivalente poetico ἐν ταὐτῶι μίμνει), nella duplice valenza (locativa e di stato) che ritroviamo in Parmenide. 491 limitandosi invece a citare la garanzia della vigilanza di Ἀνάγκη (Necessità-Costrizione) e, per due volte, dei suoi vincoli e catene; (iii) l’immobilità è collegata, attraverso la sottrazione dei processi di generazione e corruzione e il rilievo dell’identità di stato, all’argomento complessivo: il movimento viene assimilato a un mutamento di condizione dell’essere e quindi escluso87. Non incompiuto... Anche l’argomento a sostegno dell’immutabilità di «ciò che è» dipende dunque, in ultima analisi, dalla κρίσις dei vv. 15-16: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. Su quel giudizio, in effetti, poggia saldamente la πίστις ἀληθής che esclude, dall’orizzonte della riflessione sull’essere, γένεσις e ὄλεθρος. Tale immutabilità è, a sua volta, utilizzata (vv. 32-33) come prova a favore della perfezione di τὸ ἐὸν 88: οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο. E per questo non incompiuto l’essere [è] lecito che sia: non è, infatti, manchevole [di alcunché]; il non essere, invece, mancherebbe di tutto. Interessante nel passaggio il fatto che Parmenide ricorra a una congiunzione (οὕνεκεν, «per questo») che riferisce l’affermazione successiva a quel che immediatamente precede: l’argomento si sostiene quindi sia sulla κρίσις e le sue conseguenze, sia sulle immagini di vincoli e catene, immobilizzanti ma anche identitarie. La suggestione divina di Ἀνάγκη opera a garanzia della compiutezza dell’essere, sorvegliandone e salvaguardandone la pienezza (πᾶν ἐστιν ὁμοῖον; πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος). 87 Leszl, op. cit., p. 209. 88 Su questo passaggio P. Curd, Eleatic Arguments, in Methods in Ancient Philosophy, edited by J. Gentzler, Clarendon Press, Oxford 1998, p. 18. 492 La Dea, insomma, annoda immobilità, immutabilità, identità e perfezione: οὐκ ἀτελεύτητον – come οὖλον μουνογενές (intero, uniforme), ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme), συνεχές (continuo, coeso) – discende dal rigetto della via ὡς οὐκ ἔστιν, e rivela dunque un carattere essenziale dell’essere. L’alternativa radicale ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, con l’invito a valutare discorsivamente la robustezza degli argomenti (B7.5) e a concentrarsi su ἔστι e sui suoi «segnali» (B8.1- 2), comporta, infatti, la progressiva sottrazione di ogni negatività che potrebbe attentare all’integrità dell’essere, come manifesto nel v. 33, comunque lo si intenda: (i) l’essere non può essere in difetto in alcun modo (poiché «deve essere per intero o non essere per nulla»); il non-essere, invece, sarebbe totale assenza di realtà; (ii) traducendo diversamente, invece, avremmo: ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο non è, infatti, manchevole [di alcunché]; se non fosse [non-manchevole], invece, mancherebbe di tutto (v. 33); se l’essere fosse in qualche misura o per qualche aspetto carente, porterebbe con sé non-essere e ne sarebbe distrutto, come già marcato (o anticipato) al v. 11: ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί deve essere per intero o non essere per nulla. Se ora consideriamo, nel suo complesso, il nodo di questi versi centrali del frammento, possiamo forse cogliervi una presa di posizione nei confronti delle tesi che avevano delineato a un tempo il primato di un principio e i suoi sviluppi o le sue trasformazioni: che lo avevano considerato divino, attribuendogli eterna durata e vitalità, per garantire gli enti nella loro totalità; proteiforme (l’aria di Anassimene?) per giustificarne le traduzioni fenomeniche; infinitamente fecondo per sostenere gli incessanti processi di generazione e corruzione. 493 Essere e pensiero È appunto nella discussione di questo nodo che Parmenide inserisce (vv. 34-38a) quanto appare come un excursus, oggetto di un articolato dibattito, filologico e interpretativo, cui abbiamo accennato in nota al testo: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν· o;udèn γὰρ < ἢ > ἔστιν ἢ ἔσται ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος, ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι La stessa cosa invero è pensare e il pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è espresso, troverai il pensare. Né, infatti, esiste né esisterà altro oltre all’essere, poiché Moira lo ha costretto a essere intero e immobile. Accettando la nostra traduzione del v. 34, in effetti qui la Dea recupererebbe affermazioni avanzate in precedenza: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere (B3) χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι Dire e pensare: «ciò che è è», è necessario (B6.1a). Ribadendo la connessione, che fa da sfondo a tutta l’esposizione divina, tra νοεῖν e εἶναι - e dunque anche l’impossibilità che «ciò che non è» (μὴ ἐὸν) possa realmente essere oggetto del pensiero89, secondo le indicazioni di B2.7-8: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις 89 Questo è quanto i versi in questione mostrerebbero secondo Curd, Eleatic Arguments, cit., p. 19. 494 poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né indicarlo - l’obiettivo sarebbe quello di escludere che possa darsi per l’intelligenza della realtà oggetto diverso dall’«essere» (ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος), che possa in altre parole essere assunto come realtà quanto si manifesta a livello di senso comune. Questa lettura sembra confermata da quel che segue immediatamente (vv. 38b-41): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso [ciò che è] tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. Gli eventi che i «mortali» (βροτοί) registrano quotidianamente e che in modo irriflesso interpretano come fenomeni di mutamento («nascere e morire», «cambiare luogo e mutare luminoso colore») – designandoli, illusi (πεποιθότες) della loro genuina consistenza (ἀληθῆ) - si rivelano, all'intelligenza critica sollecitata dalla Dea, per quello che in verità sono: «nome». Gli uomini, in altre parole, utilizzano una pluralità di espressioni - dalla Dea già esplicitamente proibite: «nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo» - per articolare e cadenzare una realtà che, correttamente valutata, risulta essenzialmente estranea a ogni accadere e mutare. L’unico genuino (vero) oggetto di intelligenza e linguaggio è «ciò-che-è»: indipendentemente da quel che i mortali pretendono di riferire nei loro pensieri e discorsi, ciò cui essi realmente pensano e possono pensare è τὸ ἐὸν 90. 90 McKirahan, op. cit., p. 202. 495 Prima di tornare a discutere i «segnali» lungo la via ὅπως ἔστιν – in particolare prima di riprendere e ulteriormente determinare il nodo cruciale dell’immobilità, immutabilità e compiutezza dell’essere – la Dea di Parmenide richiama l’attenzione su quanto implicito nelle sue affermazioni iniziali (B2-B3): per un pensare intelligente, capace cioè di afferrare consapevolmente il proprio oggetto, non può darsi altro orizzonte che ἐόν, dal momento che «ciò che non è» (μὴ ἐὸν) è intrinsecamente inconsistente. Molto discussa la formula impiegata (vv. 34-36a): ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν La stessa cosa è pensare e e il pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è espresso, troverai il pensare. Rispetto ai due enunciati (B3 e B6.1a) sopra ricordati, qui non si tratta semplicemente di un’affermazione di identità (generica) tra pensare ed essere (B3) ovvero di una presa d’atto della necessità per il pensiero di ammettere che «ciò che è è» (B6.1a). Qui la Dea si spinge a delineare a un tempo due relazioni - di identità (ταὐτὸν ἐστὶ) e di dipendenza (espressa da οὕνεκεν, che traduciamo come equivalente a ὅτι «che»91) - i cui membri risultato da un lato νοεῖν, dall’altro appunto «il pensiero» (νόημα) «che "è"». Non c’è altro oltre all’essere, quindi l’essere non può che essere l’oggetto del pensiero: la Dea sottolinea, infatti, come l’essere sia propriamente ciò «in cui» il pensiero è espresso, il campo entro cui necessariamente il pensiero si manifesta. Dal momento che τὸ ἐὸν è in verità il solo contenuto realmente pensato ed espresso nel linguaggio, qualsiasi cosa i mortali pensino o dicano e in qualsiasi modo la pensino o dicano, essi stanno parlando di ciò-che-è 92. C’è tensione, dunque, tra quanto essi sono «convinti» di nominare e 91 Ma che altri scelgono di rendere come «a causa di». 92 McKirahan, op. cit., p. 205. 496 quanto in realtà essi nominano: sebbene non ne siano consapevoli, ogni nome afferma l’essere. All’orizzonte (trascendentale) dell’essere non può sottrarsi il nominare dei mortali93. Nel contesto, insomma, a dispetto di una lunga tradizione interpretativa, intenzione della Dea sarebbe non tanto aprire una parentesi per discutere dell'inattendibilità dell’esperienza umana, quanto rilevare l’illusione che altro (dall’essere e dai suoi «segnali») possa essere l’ambito del pensare. In questione sarebbe allora la consistenza del mondo attestato empiricamente, ma non in quanto di per sé illusorio, risultato di un inganno dei sensi, piuttosto perché non inquadrato coerentemente, da un punto di vista logico, nell'unitaria cornice d’essere, e dunque frainteso. In quest'ottica, al linguaggio inadeguato dei mortali è contrapposto il linguaggio della verità dell’essere94. A chi si riferisce il termine βροτοί? Agli esseri umani in genere, evocando il tradizionale rilievo della loro debolezza cognitiva (rispetto alla conoscenza divina) e dunque accentuando la natura eccezionale dell'esperienza del poeta? Ovvero a un gruppo o a gruppi di sapienti rivali? Osservando le scelte espressive di Parmenide (γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν), potremmo riconoscere sia una generica allusione alle modalità ordinarie di lettura della realtà (cambiamento di luogo, mutamento qualitativo), sia l’accenno a un linguaggio più specifico (nascere e morire, essere e non essere): quello che sopra abbiamo individuato nelle testimonianze relative agli schemi cosmologici (e cosmogonici) milesi e nei frammenti eraclitei. A noi sembra, tuttavia, che questo passo - apparentemente una pausa nella sequenza argomentativa del frammento – faccia emergere un aspetto peculiare dell’approccio di Parmenide, una nuova dimensione speculativa. Ipotizzando che l’Eleate abbia preso le mosse dall’analisi delle implicazioni (ontologiche) di affermazioni relative alla φύσις o all'ἀρχή, denunciando le incongruenze delle lezioni cosmologiche (e cosmogoniche) circolanti, è 93 Ruggiu, op. cit., pp. 307-8. 94 Ibidem. 497 possibile si sia a un certo punto concentrato sulle condizioni di comprensione della realtà (dunque sulla stessa attività di νοεῖν): questione di «secondo livello» 95 (meta-cognitiva), intesa a far prendere consapevolezza, oltre che dei «segni» dell’essere, anche dei presupposti del pensare. L’ontologia che viene delineata traccia così a un tempo i requisiti necessari (stabilità, identità) alla conoscenza: la comprensione (νοεῖν) esige determinate condizioni formali (proprietà) per l’intelligibilità del proprio oggetto; condizioni che Parmenide potrebbe aver fatto emergere nel confronto serrato (meta-critico) con le teorie della natura della tradizione ionica96. Moira lo ha costretto... Per la terza volta nel frammento, la Dea assicura il proprio ragionamento ricorrendo a un’immagine mitica (e a una formula epica): Moira «ha costretto» (ἐπέδησεν) ἐόν «a essere intero e immobile» (οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι). È in forza di tale “destino” che nulla «esiste o esisterà» (ἔστιν ἢ ἔσται) «oltre all’essere» (πάρεξ τοῦ ἐόντος): ciò, in primo luogo, comporta ancora (come nel caso di Giustizia e Necessità) che la garanzia di Moira risulti formalmente essenziale per affermare integrità, unicità e immutabilità dell’essere (e dunque per sostenere come i «nomi» dei «mortali» si riferiscano in vero sempre e solo all’essere). Ma la superiore tutela di Moira impone, in secondo luogo, anche l’identità di essere e pensiero, nel momento in cui marca, appunto, come non possa esistere ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος («altro oltre all’essere»). In questo senso, rispetto a νοεῖν e ἐόν, essa riveste una funzione “trascendentale”: richiamando implicitamente le immagini dei legami (πείρατα) e delle catene (δεσμοί) ed esplicitamente la fissi- 95 G.E.R. Lloyd usa l’espressione «second’ordine», per esempio nel suo Le pluralisme de la vie intellectuelle avant Platon, in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique?..., cit., p. 44. 96 Graham, Explaining the Cosmos…, cit., p. 166. 498 tà (ἐπέδησεν - ἔμπεδον) dei ceppi (πέδαι), con la figura di Moira la Dea, da un lato, ribadisce la stabilità dell’essere, dall’altro indica in quella invariabilità un carattere fondamentale della conoscenza. Questa connessione tra saldezza di «ciò che è» e costanza del νόημα che la coglie è la stessa allusa in B4.1-2: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere. La Dea le contrappone la precarietà tutta umana e artificiale («saranno nome» ὄνομ΄ ἔσται) di quanto (πάντ΄ [...] ὅσσα) «i mortali stabilirono» (βροτοὶ κατέθεντο), lasciandosi poi traviare (πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ). Compiuto e omogeneo I versi (42-49) che concludono la sezione sulla Verità ne riassumono l’ontologia, insistendo particolarmente su compiutezza e omogeneità di «ciò che è», attraverso un ampio ricorso a metafore “spaziali”: αὐτὰρ ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν, εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ. οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν, οὔτ΄ ἐὸν ἔστιν ὅπως εἴη κεν ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ἄσυλον· οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει. Inoltre, dal momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto da tutte le parti, simile a massa di ben rotonda palla, 499 a partire dal centro ovunque di ugual consistenza: giacché è necessario che esso non sia in qualche misura di più, o in qualche misura di meno, da una parte o dall’altra. Non vi è, infatti, non essere, che possa impedirgli di giungere a omogeneità, né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è - qui più, lì meno, poiché è tutto inviolabile. A se stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti rimane. I versi propongono contestualmente due diverse prospettive: l’accostamento alla «massa di ben rotonda palla» (εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ) presuppone infatti un punto di vista “esterno”, per comunicare un’impressione ottica (“da fuori”) della compatta estensione dell’essere, della sua compiuta integrità; d’altra parte, la sottolineatura dell’equa distribuzione (ἰσοπαλὲς πάντῃ) «a partire dal centro» (μεσσόθεν), manifesta piuttosto un punto di vista “interno” (dal centro alla superficie perimetrale). Complessivamente il testo vuol riproporre ἐόν come totalità piena, densa, uniforme, e a tale scopo fa leva sulla nozione di «limite estremo» (πεῖρας πύματον), di un confine che rende plasticamente l’assoluto discrimine tra ἐόν e μὴ ἐὸν, logicamente essenziale a tutto il ragionamento della Dea. C’è un limite estremo Anche in questo caso – come in altri passaggi del poema – appare evidente il debito nei confronti dell’immaginario epico: ἔνθα δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί περ· χάσμα μέγ’, οὐδέ κε πάντα τελεσφόρον εἰς ἐνιαυτὸν 500 οὖδας ἵκοιτ’, εἰ πρῶτα πυλέων ἔντοσθε γένοιτο, ἀλλά κεν ἔνθα καὶ ἔνθα φέροι πρὸ θύελλα θυέλλης ἀργαλέη· δεινὸν δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσι.] [τοῦτο τέρας· καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι Là della terra nera e del Tartaro oscuro, del mare infecondo e del cielo stellato, di seguito, di tutti vi sono le scaturigini e i confini, luoghi penosi e oscuri che anche gli dei hanno in odio, voragine enorme; né tutto un anno abbastanza sarebbe per giungere al fondo a chi passasse dentro le porte, ma qua e là lo porterebbe tempesta sopra tempesta crudele; tremendo anche per gli dei immortali è tale prodigio. E di Notte oscura la casa terribile s’inalza, da nuvole livide avvolta (Teogonia 736-745. Traduzione di G. Arrighetti). Il passo esiodeo è di un certo rilievo nel nostro contesto, in quanto lega il tema delle «scaturigini» e dei «confini» di tutte le cose (πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν) a uno scenario infero in cui è inserito il riferimento alla «casa terribile di Notte oscura» (Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ), probabile prototipo della «dimora della Notte» (δώματα Nυκτός) evocata nel proemio di Parmenide. Né va dimenticato che la Dea promette nel poema «di tutto informare» (B1.28): almeno didascalicamente, l’ottica della sua comunicazione è situata effettivamente al «limite» del dicibile (dell’essere). Agli interpreti non è sfuggito il peso peculiare che nello sviluppo argomentativo di B8 progressivamente assumono le immagini che afferiscono al limite (πεῖρας) vincolante per l’essere: τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (vv. 13b-15a) 501 ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν immobile nei vincoli di grandi catene (v. 26) ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι poiché Moira lo ha costretto a essere intero e immobile (vv. 37b-38a) κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει dal momento che Necessità potente nelle catene del vincolo [lo] tiene (vv. 30a-31b) ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί dal momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto (v. 42). Sono i legami variamente evocati a impedire all’essere di essere esposto a generazione e corruzione (ἀγένητον καὶ ἀνώλεθρoν), ovvero al mutamento (ἀκίνητον), e a garantirne integrità (o%ulon μουνογενές) e perfezione (οὐκ ἀτελεύτητον, τετελεσμένον). Come abbiamo in precedenza osservato, significativamente alle immagini di catene e vincoli sono associate figure di garanzia: Giustizia, Necessità, Moira. L’idea è quella di costrizione come destino ovvero legge dell’essere97, ma nel contesto, in relazione al pronunciamento circa l'esistenza di un «confine estremo» (πεῖρας πύματον), all'accostamento al «corpo di una palla ben rotonda» (εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ) e alle altre formule spaziali (πάντοθεν, μεσσόθεν) utilizzate, potremmo trovarci in presenza di una suggestione cosmologica. Secondo Schreckenberg98, l'idea di un estremo vincolo cosmico sarebbe antica e avrebbe avuto origine in ambiente pitagorico, come documenterebbe Aëtius: 97 H. Schreckenberg, "Ananke. Untersuchungen zur Geschichte des Wotgebrauchs", Zetemata 36, München 1964, pp. 75-6. Citato in Robbiano, op. cit., p. 141. 98 Op. cit., pp. 103 ss.. Citato in Robbiano, op. cit., p. 140. 502 Π υ θ α γ ό ρ α ς ἀνάγκην ἔφη περικεῖσθαι τῷ κόσμῳ Pitagora affermò che la necessità circonda il cosmo99, e confermerebbe la nozione pitagorica di ἄντυξ κόσμου («limite del cosmo»). In effetti, Aëtius attribuisce proprio a Pitagora l'introduzione del termine «cosmo» per indicare il tutto: Π. πρῶτος ὠνόμασε τὴν τῶν ὅλων περιοχὴν κ ό σ μ ο ν ἐκ τῆς ἐν αὐτῶι τάξεως Pitagora per primo chiamò l'insieme di tutte le cose cosmo, per l'ordine che vi regna (DK 14 A21) Ricordiamo, inoltre, come il tema dell’equilibrio del cosmo garantito dal confine cosmico si colleghi ad Anassimandro, del cui principio (l’apeiron) Aristotele afferma: [...] διὸ καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν [...] per questo motivo diciamo che di esso [principio] non vi sia principio, ma che sembra essere esso stesso principio di tutte le altre cose, e comprenderle [abbracciarle] tutte e tutte governarle (DK 12 A15). A suo modo Parmenide avrebbe potuto dunque fare proprio dall'ambiente culturale del tardo VI secolo il motivo dell'immutabilità e della stabilità dell’universo, espresso soprattutto nell'ultimo verso (v. 49) di questa sezione: οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει A se stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti rimane. Rispetto alla tradizione, tuttavia, muta profondamente l'ottica adottata: all'interno della sezione sulla Verità, l'Eleate rivolge il proprio sguardo alla realtà cosmica rilevando la dimensione d'es- 99 H. Diels, Doxographi Graeci, De Gruyter, Berlin 1965, 321 b4. 503 sere (ἐόν), rispetto alla quale svaniscono tutti gli elementi di discriminazione spaziale (così come erano stati neutralizzati tutti i riferimenti temporali)100. Nell'essere si riassumono omogeneamente tutte le cose: «ciò che è si stringe infatti a ciò che è» (v. 25: ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει). In considerazione dell'alternativa radicale «è-non è», «ciò che è» risulta compatto (v. 19: πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος), coeso (v. 25: ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν), compiuto (v. 27: οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι): οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν Non vi è, infatti, non essere, che possa impedirgli di giungere a omogeneità (vv. 46-47a). La proibizione di percorrere la via che pensa «che non è» fa sentire ancora la propria forza coinvolgente, nel determinare i contorni della realtà. In effetti, la recisa affermazione della Dea: «vi è un confine estremo» (πεῖρας πύματον) – sebbene ancora formalmente giustificata, a questo punto, dall'insistenza (mitica e\o metaforica) su vincoli e catene, e dalla sorveglianza dei relativi numi (Dike, Ananke, Moira) - interviene a completare il quadro ontologico, marcando in particolare l'integrità di «ciò che è» come totalità (v. 4: οὖλον μουνογενές; v. 5: ὁμοῦ πᾶν), di cui non a caso si enuncia: «è tutto inviolabile» (πᾶν ἐστιν ἄσυλον). La reiterazione di un avverbio connette inizio e fine del passo: τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν [ciò che è] è compiuto da tutte le parti (vv. 42b-43a) 100 Su questo punto il saggio di M. Kraus, Sein, Raum und Zeit im Lehrgedicht des Parmenides, in Frühgriechisches Denken, a cura di G. Rechenhauer, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2005, pp. 252-269, in particolare pp. 260-1 e 267-8. 504 οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει a se stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti rimane (v. 49). La compiutezza (in ogni direzione) di «ciò che che è» è sostenuta sulla base della sua "densità" ontologica: οὔτ΄ ἐὸν ἔστιν ὅπως εἴη κεν ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è - qui più, lì meno (vv. 47b-48a). Nulla può alterarne l'equilibrio, ovvero impedirne l'omogeneità (τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν): affermare l'essere comporta escluderne (con il non-essere) ogni possibile deficienza e dunque equivale ad affermarne eguaglianza, uniformità, totale identità con se stesso, in altre parole la inviolabilità (πᾶν ἐστιν ἄσυλον). Simile a massa... Estremamente controversa a livello interpretativo è la similitudine introdotta dalla Dea all'inizio del nostro passo (ma in conclusione della sua comunicazione di Verità!): εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ simile a massa di ben rotonda palla, a partire dal centro ovunque di ugual consistenza (vv. 43b-44a). Come abbiamo rilevato in nota al testo, tre punti sono criticamente determinanti: (i) il soggetto (sottinteso) della similitudine è ἐόν (con cui concorda ἐναλίγκιον); (ii) ἐναλίγκιον («simile») si riferisce non a «palla» (σφαῖρα) ma a «massa» (ὄγκος); 505 (iii) ἰσοπαλὲς («di ugual consistenza») è attributo del soggetto sottinteso («ciò che è») della affermazione iniziale, non di «massa di ben rotonda palla». Se è da escludere l'equazione tra «ciò che è» e corpo sferico, è difficile tuttavia – proprio in forza dell'eco spaziale di questi versi e dei successivi – sottrarsi all'impressione che Parmenide stia parlando di qualcosa comunque esteso: il tutto indifferenziato e omogeneo di cui si parla potrebbe dunque coincidere con la realtà universale (τὸ πᾶν, come suggerisce Furley101), colta "in quanto essere", in altre parole intuita appunto come ἐόν («ciò che è»), ovvero – più astrattamente – come τὸ ἐόν («l'essere»), con le relative conseguenze logiche. La novità della sezione sulla Verità (che culmina nei versi in esame) sarebbe, allora, non quella di volgersi a una realtà diversa da quella cosmica, ma quella di concentrarsi sul «tutto» (πᾶν, πάντοθεν, πάντῃ) - come già documentato negli autori ionici – in una prospettiva diversa dalla cosmologia milesia: le scelte espressive di Parmenide ci suggeriscono di definirla "ontologica". Essa consiste nel trasfigurare la realtà – la stessa realtà attestata dall’esperienza – alla luce di rigorose esigenze razionali, che la Dea introduce assiomaticamente in B2 e ribadisce in B8.15 (ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν). Parmenide indica questa attitudine con formule che evocano sia l'esame e la fatica argomentativa (B7.5: «valuta con il ragionamento la prova polemica», κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον), sia lo sguardo logicamente educato a evitare la contraddizione (B4.1: la possibile connessione tra λεῦσσε e νόῳ). Il risultato di questa considerazione originale della realtà cosmica è l'abbandono degli schemi esplicativi – cosmologici e cosmogonici – milesi e la riduzione del «tutto» alla compatta uniformità di τὸ ἐόν: nella sua identità logicamente garantita dall’effettiva indisponibilità di μὴ ἐὸν, ogni divenire e ogni discriminazione temporale sono sospesi, nell’eterna, continua gia- 101 D. Furley, The Greek Cosmologists. Volume 1: The formation of the atomic theory and its earliest critics, CUP, Cambridge 1987, p. 54. 506 cenza di «ciò che è» in se stesso (dunque nel presente); analogamente sono superate tutte le distinzioni di luogo, nella sua compiuta, omogenea, coesa estensione. Insomma, del cosmo milesio (e probabilmente pitagorico) sono evaporati i fattori cosmogonici - i contrari, la natura-principio, le masse elementari - ed è rimasto τὸ ἐόν, espressione che solo in questo senso designa qualcosa di astratto, non immediatamente riconducibile ai sensi: un intero indiscriminato102, in cui si riassume la realtà dell'universo, la totalità delle cose considerate appunto come essere103. Solo in coerenza con l'esigenza di permanenza, stabilità e identità incarnata da questa realtà-verità sarà possibile ripensare il mondo della esperienza. Se è vero che Parmenide non propone nella Via della Verità una propria cosmologia, ne fissa certamente le condizioni di possibilità, come la riflessione posteriore, da Empedocle agli atomisti, avrebbe mostrato. La similitudine con la «massa di ben rotonda palla» è introdotta per illustrare plasticamente un nodo decisivo della esposizione della Dea: ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν dal momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto da tutte le parti (vv. 42-43a). L'impressione è che Parmenide cerchi di utilizzare l'immagine della massa sferica per confermare l'intuizione della compiuta integrità dell'essere senza ricorrere a una tutela esterna, come avvenuto nei versi precedenti grazie alle figure divine (Dike, Ananke, 102 Kraus (p. 261) evoca in proposito una forma di esperienza immediata descritta da Ernst Mach, in cui l'universo nella sua interezza si sarebbe rivelato come massa indiscriminata e coesa. 103 Thanassas (Parmenides, Cosmos, and Being…, cit., p. 45) sottolinea in proposito come l'ἐόν di Parmenide sia direttamente comparabile alla espressione aristotelica tò $on *h? $on, in quanto denoterebbe la totalità degli enti (tò $on), richiamando tuttavia l'attenzione (nel secondo $on) sull’Essere di quegli enti. 507 Moira) e ai loro vincoli immobilizzanti, piuttosto attraverso il riferimento al carattere ultimo dell’estremità entro cui l’essere «uniformemente nei limiti rimane» (ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει) 104. Il limite è estremo: come in Esiodo si dà, rispetto all'abisso spalancato (χάος, χάσμ’ ἀχανές), una barriera insormontabile in cui tutte le cose hanno radice (πάντων πηγαὶ καὶ πείρατα), in Parmenide oltre il confine non c’è nulla, al di qua tutto l’essere, di conseguenza perfetto, compiuto (τετελεσμένον) da ogni parte (πάντοθεν) 105. La similitudine insiste sull’estensione compatta e sulla tensione uniforme: sull’uguale consistenza, dal centro al perimetro della sfera. Mourelatos ha osservato106 come la sfera si prestasse, tra le varie figure, all'estrazione di criteri di completezza, dal momento che è quella che ha estensione sempre «identica con se stessa». Che questi versi (i più citati del poema nell'antichità) fossero destinati a un forte impatto cosmologico, è rivelato soprattutto dalle riprese platoniche: come hanno puntualmente confermato le ricerche di Palmer107, la rappresentazione della grandiosa creazione del cosmo fisico da parte del demiurgo, sulla scorta del modello del vivente intelligibile, nel Timeo platonico propone un’impressionante concentrazione di allusioni (e parole) parmenidee: σχῆμα δὲ ἔδωκεν αὐτῷ τὸ πρέπον καὶ τὸ συγγενές. τῷ δὲ τὰ πάντα ἐν αὑτῷ ζῷα περιέχειν μέλλοντι ζῴῳ πρέπον ἂν εἴη σχῆμα τὸ περιειληφὸς ἐν αὑτῷ πάντα ὁπόσα σχήματα· διὸ καὶ σφαιροειδές, ἐκ μέσου πάντῃ πρὸς τὰς τελευτὰς ἴσον ἀπέχον, κυκλοτερὲς αὐτὸ ἐτορνεύσατο, πάντων τελεώτατον ὁμοιότατόν τε αὐτὸ ἑαυτῷ σχημάτων, νομίσας μυρίῳ κάλλιον ὅμοιον ἀνομοίου. λεῖον δὲ δὴ κύκλῳ πᾶν ἔξωθεν αὐτὸ ἀπηκριβοῦτο πολλῶν χάριν. ὀμμάτων τε γὰρ ἐπεδεῖτο οὐδέν, ὁρατὸν γὰρ οὐδὲν ὑπελείπετο ἔξωθεν, οὐδ’ 104 Couloubaritsis, Mythe et philosophie cit., p. 249. 105 Ruggiu, op. cit., p. 309. 106 Op. cit., pp. 127-8. 107 J. Palmer, Plato's Reception of Parmenides, O.U.P., Oxford 1999, pp. 193 ss.. 508 ἀκοῆς, οὐδὲ γὰρ ἀκουστόν· πνεῦμά τε οὐκ ἦν περιεστὸς δεόμενον ἀναπνοῆς, οὐδ’ αὖ τινος ἐπιδεὲς ἦν ὀργάνου σχεῖν ᾧ τὴν μὲν εἰς ἑαυτὸ τροφὴν δέξοιτο, τὴν δὲ πρότερον ἐξικμασμένην ἀποπέμψοι πάλιν. ἀπῄει τε γὰρ οὐδὲν οὐδὲ προσῄειν αὐτῷ ποθεν—οὐδὲ γὰρ ἦν [...] E gli diede una figura a sé congeniale e congenere. Ma la figura congeniale al vivente che doveva contenere in sé tutti i viventi non poteva essere che quella che comprendesse in sé tutte le figure possibili; per cui, lo tornì come una sfera, in una forma circolare in ogni parte ugualmente distante dal centro alle estremità, che è la più perfetta di tutte le figure e la più simile a se stessa, giudicando il simile assai più bello del dissimile. E ne rese perfettamente liscio l'intero contorno esterno per molte ragioni. Infatti, non aveva affatto bisogno di occhi, perché nulla era rimasto da vedere all'esterno, né di orecchie, perché nulla era rimasto da sentire; né vi era bisogno di un organo per ricevere in sé il nutrimento o per eliminarlo in seguito, dopo averlo assimilato. Nulla, del resto, poteva da esso separarsi e nulla a esso aggiungersi da nessuna parte, perché nulla vi era al di fuori [...] (Timeo 33b-c7)108. 108 Traduzione da Platone, Timeo, a cura di F. Fronterotta, BUR, Milano 2003.  [B8 VV. 50-61] Sin dalla antichità si è presentato il poema di Parmenide come suddiviso in un proemio e due sezioni, di diversa ampiezza: Verità (o via della Verità) e Opinione (o via della Opinione), secondo lo schema attestato da Diogene Laerzio: δισσήν τε ἔφη τὴν φιλοσοφίαν, τὴν μὲν κατὰ ἀλήθειαν, τὴν δὲ κατὰ δόξαν Disse che la filosofia si divide in due parti, l’una secondo verità, l’altra secondo opinione. (DK 28 A1). È plausibile che Proemio e prima parte complessivamente risultassero marcatamente più brevi rispetto alla seconda, di cui però abbiamo conservati soltanto quaranta versi (dei 150 circa complessivamente superstiti: 32 del solo B1 e 61 di B8!): 1/10, secondo le stime tradizionali, dell’intera sezione, che doveva coprire i 2/3 del poema1. Su questo elemento strutturale avremo modo di riflettere ancora più avanti. Discorso affidabile e opinioni mortali Gli ultimi 12 versi del frammento 8 DK, conservatici da Simplicio, segnano evidentemente il passaggio tra le due sezioni (Verità e Opinione), come rivela il contesto delle citazioni: συμπληρώσας γὰρ τὸν περὶ τοῦ νοητοῦ λόγον ὁ Π. ἐπάγει ταυτί [vv. 50-61] μετελθὼν δὲ ἀπὸ τῶν νοητῶν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ Π. ἤτοι ἀπὸ ἀληθείας, ὡς αὐτός φησιν, ἐπὶ δόξαν ἐν οἷς λέγει [vv. 50-52], τῶν γενητῶν ἀρχὰς καὶ αὐτὸς στοιχειώδεις μὲν τὴν πρώτην ἀντίθεσιν ἔθετο, ἣν φῶς καλεῖ καὶ σκότος < ἢ > πῦρ καὶ γῆν ἢ πυκνὸν καὶ 1 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 104. 510 ἀραιὸν ἢ ταὐτὸν καὶ ἕτερον, λέγων ἐφεξῆς τοῖς πρότερον παρακειμένοις ἔπεσιν [vv. 50-59] Concluso infatti il discorso intorno all'intelligibile, Parmenide aggiunge [citazione vv. 50-61] (Simplicio, Phys. 38, 28) Passando dagli intelligibili ai sensibili, o dalla verità, come lui si esprime, all'opinione, Parmenide, in quei versi in cui afferma [citazione vv. 50-52], pone a sua volta i principi elementari delle cose generate, secondo la prima antitesi che egli chiama luce e tenebra o fuoco e terra o denso e raro o identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in precedenza citati, [citazione vv. 50-59] (Simplicio, Phys. 30, 13). Pur ipotizzando la posteriorità della suddivisione e sottotitolazione (Verità e Opinione) delle sezioni, non rimangono dubbi circa la funzione di cerniera di questo passo. Il linguaggio peripatetico del commentatore riflette in effetti un'altra celebre testimonianza sulla Doxa parmenidea, proposta nel primo libro della Metafisica aristotelica: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...], ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. Costretto, tuttavia, a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi 511 dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (Metafisica I, 5 986 b 31- 987 a 2). Verità e opinioni Il testo del frammento è, d'altra parte, a sua volta esplicito nel rilevare la svolta nell'esposizione divina: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando, che può ingannare (vv. 50-52). Da un lato la Dea sottolinea al proprio interlocutore la conclusione della «comunicazione attendibile» (πιστὸν λόγον) e della «riflessione sulla verità» (νόημα ἀμφὶς ἀληθείης) e, insieme, l'introduzione di «punti di vista mortali» (δόξας βροτείας), mettendolo sull'avviso: la costruzione verbale (κόσμον ἐμῶν ἐπέων) potrà risultare fuorviante (ἀπατηλὸν). Dall'altro, è comunque la Dea a tenere lezione (donde l'esortazione al kouros: μάνθανε), e le stesse scelte espressive richiamano puntualmente il programma educativo del prologo del poema. La rivelazione della dea innominata comprevedeva tre momenti distinti (ma concettualmente correlati): (i) l'indiscutibile Verità, (ii) le inaffidabili opinioni dei mortali, (iii) un adeguato resoconto dei contenuti di quelle opinioni, τὰ δοκοῦντα - «le cose accettate nelle opinioni», ovvero «le cose che appaiono». Nostra convinzione è che le premesse di B2 consentano di individuare espressamente in B8.1-49 la trattazione del primo punto, e complessivamente in B6, B7, B8 allusioni al secondo, non fatto oggetto di riscontro puntuale, ma solo genericamente di rilievi di fondo 512 (che poi gli interpreti proiettano in una direzione o nell'altra). Quella che tradizionalmente è chiamata Doxa doveva invece svolgere l'ufficio positivo di rileggere il quadro dell'esperienza in termini compatibili con le indicazioni della Verità: in pratica – secondo il costume dei precedenti ionici – offriva cosmogonia, cosmologia e zoogonia, probabilmente con dovizia di contributi, come risulta limpidamente dalla preziosa testimonianza di Plutarco (Contro Colote 1114b; DK 28 B10): ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro. È significativo il fatto che di questo διάκοσμος così poco sia stato conservato: come documenta anche l'urgenza della citazione di B8 da parte di Simplicio, è plausibile che fossero gli elementi più originali del poema – soprattutto premesse ed esposizione della Verità - ad attrarre l'attenzione dei compilatori: καὶ εἴ τωι μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη τοῦ Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου συγγράμματος anche a costo di sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide 513 sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto parmenideo (DK 28 A21). La seconda parte, in fondo, rientrava nei canoni della produzione cosmogonico-cosmologica milesia: non è un caso che di essa siano state tramandate, probabilmente, apertura e conclusione. «...l'ordine delle mie parole...» Come abbiamo sottolineato in precedenza, la Dea mette sull'avviso il proprio giovane interlocutore circa il mutamento di registro: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando, che può ingannare (vv. 50-52). Due dati risultano fuori discussione: (i) l'abbandono dell'esposizione della «Verità»; (ii) il passaggio alla considerazione di «punti di vista mortali» (δόξας βροτείας), in altri termini di una prospettiva diversa rispetto a quella divina. Nel contesto della narrazione ciò comporta da parte della Dea – che si rivolge a un essere umano – adeguare il proprio registro espressivo: pur continuando la propria lezione, ella avverte circa il potenziale disturbo (alla corretta intelligenza della realtà) conseguenza dell'adozione di un lessico adeguato a quei punti di vista. Come im precedenza denunciato (B8.38b-42), il linguaggio della pluralità e del divenire è virtualmente foriero di contraddizione e il relativo correlato oggettivo, il mondo delle cose in mutamento, è, dal punto di vista dell’essere, apparenza. Dal momento che – nonostante le denunce di B6, B7 e dello stesso B8 – la 514 Dea insiste perché il kouros apprenda (μάνθανε) quei contenuti, possiamo inferire che la sua esposizione: (a) non si concentrasse su opinioni che il giovane allievo potesse da sé ricavare dall'esperienza; (b) né, diffondendosi (secondo quanto ci attesta Plutarco) sugli aspetti fondamentali della realtà naturale, avallasse opinioni erronee (per circa i 2\3 del poema!); (c) piuttosto riconducesse l'esperienza umana all'interno della cornice della verità. A sostegno di questa lettura possiamo addurre i versi conclusivi del frammento (vv. 60-61): τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti. Si tratta in pratica dell'osservazione finale di un inciso lungo 12 versi, a cavallo tra Verità e Opinione, in cui la Dea (e il poeta attraverso la Dea) offre indicazioni sul passaggio tra le due sezioni. Le scelte lessicali sottolineano che l'esposizione successiva riguarderà l'organizzazione di una pluralità: così al κόσμον ἐμῶν ἐπέων del v. 52 corrisponde, al v. 60 l'espressione διάκοσμον ἐοικότα πάντα. Che si tratti dell'ordine verbale ovvero dell'ordinamento cosmico, è comunque implicito il rinvio a una molteplicità di elementi da sistemare: è possibile che Parmenide giocasse proprio sulla doppia valenza semantica di κόσμος, costrutto, disposizione, ma anche «mondo», accentuando i rischi della costruzione verbale (che può risultare «ingannevole», ἀπατηλόν). L'enunciazione divina è comunque connotata positivamente: il rilievo dei pronomi personali (σοι, ἐγὼ, σε) marca l'impegno e la responsabilità della Dea, nei confronti del kouros, di fornire in ogni modo una ricostruzione almeno relativamente plausibile del quadro complesso dei fenomeni naturali. L'adozione di un'ottica «mortale» implica la dimensione qualitativa dell'esperienza (in questo senso sembrerebbe scontato il ri- 515 chiamo a τὰ δοκοῦντα), come rivelano in particolare le connotazioni delle «due forme» (μορφαί δύο), e dunque l'adeguamento della prospettiva della comunicazione divina: donde l'urgenza di ridefinire i tradizionali strumenti (il modello oppositivo) di illustrazione dei fenomeni naturali, così da evitare le contraddizioni stigmatizzate nei frammenti precedenti. Complessivamente la preoccupazione è quella di fornire una spiegazione del mondo naturale (διάκοσμος) comunque superiore a quella della concorrenza. Rispetto alla sezione sulla Verità, in cui era essenziale determinare, con lo sguardo dell'intelligenza, la compatta fisionomia dell'essere (attraverso i «segni» di B8), l'urgenza avvertita nelle parole della Dea è quella di non abbandonare all'insignificanza il mondo dell'esperienza. Un ordinamento verosimile Può essere utile, per comprendere le movenze intellettuali di Parmenide, richiamare il testo di B4: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον. Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere, né disperdendosi completamente in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi. Se B4, la cui collocazione nel poema rimane molto discussa, mostrava come per il νόος la molteplicità dispersa degli enti (ἀπεόντα) «nel cosmo» (κατὰ κόσμον) si riconducesse alla identità di τὸ ἐὸν, alla sua inscindibile connessione (τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος 516 ἔχεσθαι), a partire dalla conclusione dell'attuale B8, dopo aver illustrato quell’identità in cui tutte le cose si riassumono e averne analizzato le proprietà, la Dea percorre in un certo senso la direzione opposta. Ella indica, infatti, come quella molteplicità che si manifesta all'esperienza, in cui l'intelligenza riconosce l'identità dell'essere, possa essere correttamente intesa nelle sue dinamiche, senza pregiudizio per la realtà annunciata dall'intelligenza. Parmenide non annuncia una distinzione di piani di realtà (anticipando Platone), ma rileva come all'unica realtà si possa guardare nell'ottica immediata dell'esperienza, ovvero attraverso il sondaggio dell'intelligenza, ricavandone due immagini sostanzialmente diverse: nel primo caso il quadro multiforme e plurale di dati mutevoli, nel secondo la sua estrema rarefazione negli attributi di B8.1-49, in cui molteplicità, differenza, movimento ecc. sono evaporati nella compattezza dell'essere. A partire dalle consuetudini empiriche (richiamate in B7.3 nell'espressione ἔθος πολύπειρον, «abitudine alle molte esperienze») si è spinti a considerare reale una molteplicità di enti in divenire, che si rivelano in contraddizione con gli esiti dell'esame cui l'intelligenza sottopone «ciò che è» (ἐὸν). Si tratterebbe, in fondo, di una diversa, più coerente e radicale modulazione del progetto di indagine ionico, almeno dando credito alla interpretazione peripatetica delle origini, con la riduzione di «tutti gli enti» (ἅπαντα τὰ ὄντα) all'unità di una «sostanza soggiacente» (οὐσία ὑπομενούσα), a un tempo «principio» (ἀρχή), «elemento» (στοιχεῖον) e «natura» (φύσις) delle cose (τῶν ὄντων): ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ σωζομένης ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da cui dapprima si generano e verso cui infine si corrompono, permanendo per un verso la sostanza, per altro invece mutando nelle affezioni, questo sostengono 517 essere elemento e questo principio delle cose, e per questo credono che nulla né si generi né si distrugga, dal momento che una tale natura si conserva sempre (Aristotele, Metafisica I, 3 983 b8-13). Da un lato Parmenide riconosce nel fatto d'essere la dimensione omogeneizzante che raccoglie a identità gli enti, ricavandone – attraverso l'esclusione del non-essere – le proprietà. Dall'altro, dopo aver denunciato le contraddizioni di fondo che minavano le cosmologie contemporanee, offre nella Doxa una ricostruzione che colloca quanto si manifesta nell'esperienza (τὰ δοκοῦντα) in un sistema esplicativo (διάκοσμος) adeguato (ἐοικότα) – in esplicita coerenza con le indicazioni dei «segni» (σήματα) della via «che è» (ὡς ἔστιν), come evidenzia ancora B9: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno egualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla, impiegando un lessico che è indiscutibilmente quello della conoscenza e non dell'errore, come conferma B10: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων 518 Conoscerai la natura etereα e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche della luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo vincolò a tenere i confini degli astri. Diagnosi di un errore Dopo aver annunciato il passaggio dalla «riflessione intorno a Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης) alle «opinioni mortali» (δόξας βροτείας) e il mutamento di registro - dalla necessaria enunciazione di «ciò che è è» (χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι, B6.1) all'ascolto dell’«ordine delle mie parole che può ingannare» (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων, B8.52) – la Dea concentra la propria attenzione, con una formula non priva di ambiguità, su uno schema linguistico di cui riscontra e stigmatizza, in un verso dal significato molto discusso, il limite concettuale: μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν· τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν - · Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme, delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (B8.53-4). Di che cosa si tratta e a chi è riferita la decisione? Abbiamo indicato in nota al testo le principali opzioni interpretative contemporanee: in estrema sintesi, gli studiosi hanno individuato i destinatari della contestazione o genericamente nei «mortali», intendendo l'universale approccio umano al mondo naturale, o specificamente in una determinata posizione teorica (per lo più nel pitagorismo antico). Ma non appare plausibile che il modello 519 (dualistico) cui la Dea allude possa essere fatto valere in generale per gli esseri umani, né che esso, in particolare, possa univocamente riferirsi alla riflessione cosmologica milesia (sebbene lo schema polare vi svolga un ruolo rilevante). D'altra parte, la scelta di lasciare implicito il riferimento potrebbe spiegarsi – all'interno della cultura aurale in cui matura l'opera di Parmenide – con la possibilità da parte dell'audience di individuare facilmente il soggetto: in questo senso potrebbe considerarsi credibile, a dispetto delle nostre incertezze circa la sua fisionomia antica, la candidatura pitagorica. Riteniamo, in ogni caso, che il poeta intenda contestare non ogni possibile approccio "mortale", ma quello di un certo gruppo di pensatori, da cui evidentemente egli ha interesse a prendere le distanze, per introdurre poi un resoconto «appropriato», in relazione al quale impiega (in B9-10, come abbiamo sopra segnalato) espressioni indiscutibilmente positive, difficilmente riferibili a posizioni giudicate erronee. Due forme e la loro unità L'errore fuorviante (ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν: «in ciò sono andati fuori strada» v. 54b) che viene imputato dalla Dea è delineato dapprima in termini formali, distinguendone due momenti per focalizzare esattamente la sua genesi: (a) μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme... (v. 53) (b) τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare] (v. 54a). I due versi, come risulta anche dalla nostra rapida sintesi in nota al testo, sono stati oggetto di tormentate analisi linguistiche, per decidere della costruzione del primo e del significato del se- 520 condo. La nostra traduzione tiene conto delle diverse proposte interpretative (e filologiche), senza pretendere di fare chiarezza: è probabile, come suggerito da Mourelatos2, che il costrutto verbale fosse intenzionalmente ambiguo, se non addirittura ironico, forse concepito per un efficace attacco ad hominem. La diagnosi ruota intorno al punto (b): la Dea, in altre parole, stando alla nostra ricostruzione del significato dei versi parmenidei, censura (senza addebito esplicito) il mancato riconoscimento dell'unità nelle due «forme» introdotte per dar conto dei fenomeni. Una lettura nell'antichità già proposta da Simplicio: καὶ πεπλανῆσθαι δέ φησι τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας si sono ingannati coloro che non colgono l'unità nella opposizione degli elementi che producono la generazione (Fisica 31.8-9). Per quanto ci è dato ricostruire dallo scarso materiale conservato, nelle battute che segnano il passaggio alla Doxa la Dea si intrattiene dapprima su un errore che evidentemente Parmenide considerava strutturale almeno in certi resoconti cosmologici: ciò per assumerne un modello (pitagorico?), evitandone a un tempo le implicazioni contraddittorie con l'insegnamento della Alētheia. La preoccupazione di rilevare con precisione (ἐν ᾧ, «in ciò...») la natura dell'erranza è probabilmente indice dell'esigenza di procedere comunque con lo schema dualistico, tenendo lontano lo spettro del non-essere. Si spiegherebbe così la cautela della Dea, la sua segnalazione delle potenzialità fuorvianti del proprio discorso sulle «opinioni mortali»: non a caso, dello schema adottato, subito si denuncia un impiego improprio, per poi (B9) marcare la corretta impostazione ontologica: [...] πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν [...] tutto è pieno egualmente di luce e notte invisibile, 2 Op. cit., pp. 228-9. 521 di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9.3-4). Il riscontro tra il passo conclusivo di B8 e B9 – che doveva seguire dappresso, secondo le indicazioni di Simplicio (contesto di B9: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν..., «poco dopo aggiunge...») – può autorizzare la lettura di Thanassas, secondo il quale l'aggettivo ἀπατηλὸν andrebbe riferito alle «opinioni dei mortali» criticate in B8.54-9, in stretta relazione con la formula «in questo si sono ingannati» (ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν): essa esprimerebbe l’errore delle ingannevoli δόξαι βροτείαι, preparando la correzione della «appropriata» (ἐοικότα) Doxa divina3. In effetti la Dea così passa a determinare il modello dualistico introdotto al v. 53: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco, che è mite, molto leggero, a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (vv. 55-59). Rispetto alle precedenti allusioni agli errori dei «mortali», qui indubbiamente la situazione si presenta molto diversa. Confrontiamo, per esempio, questa analisi con la requisitoria contro la ὁδός διζήσιός richiamata ai versi B6.4-9: 3 Op. cit., p. 65. 522 αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν πλάττονται, δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον· οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος poi da quella [via] che mortali che nulla sanno s’inventano, uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti guida la mente errante. Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi, sgomenti, schiere scriteriate, per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso torna all'indietro. Nel contesto delle citazioni (DK 28 B6), Simplicio indica l'errore contestato: i «mortali che nulla sanno» hanno trascurato la κρίσις (decisione, scelta) tra τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν, imponendo così di fatto l'identità (εἰς ταὐτὸ συνάγουσι) tra essere e non-essere. Diverso il discorso a proposito delle «opinioni mortali» criticate in B8, ancora secondo Simplicio: καὶ πεπλανῆσθαι δέ φησι τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας si sono ingannati coloro che non colgono l'unità nella opposizione degli elementi che producono la generazione (Fisica 31, 8-9). In questo caso, ciò che viene censurato è sostanzialmente l'errore opposto: il mancato rilievo dell'unità delle «forme» nell'essere. Si può notare, allora, accostando l'attenzione descrittiva di B8.55-59 alla dura requisitoria contro la confusione dei δίκρανοι di B6, come nella conclusione di B8 la Dea manifesti una diversa indulgenza per quelle convinzioni, di cui sembra rilevare pregi e difetti. Ella in pratica parrebbe, a un tempo, insistere sullo schema oppositivo e prendere le distanze, per i criteri ontologici della Alētheia, da una sua specifica applicazione. In questo senso, in parti- 523 colare, l'insistenza su una opposizione i cui membri risultano interamente separati e indipendenti: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων [...] [...] ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία [...] Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente gli uni dagli altri [...] [...] a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche opposte [...]. Diventa allora difficile credere che in B8.60-61, laddove afferma che: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto adeguato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti, la dea si riferisca alle erronee concezioni dei mortali appena determinate 4, mentre si rafforza l'impressione che il materiale frammentario della Doxa costituisca il residuo di uno sforzo positivo di comprensione del mondo naturale, definitosi proprio in relazione alla revisione di quello schema oppositivo (come confermerebbe B9). 4 Su questo punto in particolare J.H. Lesher, Early interest in knowledge, cit., p. 239. 524 Un modello elementare Abbiamo inizialmente utilizzato il contesto della citazione dei versi conclusivi di B8 da parte di Simplicio per osservare come il commentatore segnalasse il passaggio tra le due sezioni del poema. Ora dobbiamo riprendere quel contesto per determinare il modello proposto nella Doxa: συμπληρώσας γὰρ τὸν περὶ τοῦ νοητοῦ λόγον ὁ Π. ἐπάγει ταυτί [vv. 50-61] μετελθὼν δὲ ἀπὸ τῶν νοητῶν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ Π. ἤτοι ἀπὸ ἀληθείας, ὡς αὐτός φησιν, ἐπὶ δόξαν ἐν οἷς λέγει [vv. 50-52], τῶν γενητῶν ἀρχὰς καὶ αὐτὸς στοιχειώδεις μὲν τὴν πρώτην ἀντίθεσιν ἔθετο, ἣν φῶς καλεῖ καὶ σκότος < ἢ > πῦρ καὶ γῆν ἢ πυκνὸν καὶ ἀραιὸν ἢ ταὐτὸν καὶ ἕτερον, λέγων ἐφεξῆς τοῖς πρότερον παρακειμένοις ἔπεσιν [vv. 50-59] Concluso infatti il discorso intorno all'intelligibile, Parmenide aggiunge [citazione vv. 50-61] (Simplicio, Phys. 38, 28) Passando dagli intelligibili ai sensibili, o dalla verità, come lui si esprime, all'opinione, Parmenide, in quei versi in cui afferma [citazione vv. 50-52], pone a sua volta i principi elementari delle cose generate, secondo la prima antitesi che egli chiama luce e tenebra o fuoco e terra o denso e raro o identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in precedenza citati, [citazione vv. 50-59] (Simplicio, Phys. 30, 13). La Dea prende dunque le mosse da uno schema in cui due μορφαί sono selezionate come «opposti nel corpo» (ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας) e connotate con proprietà reciprocamente ben distinte (σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων): i «segni» fisici erano essenziali e funzionali evidentemente alla concreta esplicazione dei fenomeni: τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, 525 ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἀτὰρ τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε da una parte, della fiamma etereo fuoco, che è mite, molto leggero dall’altra parte le caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (vv. 56b-59). Dalla testimonianza aristotelica sappiamo che, tra i primi seguaci di Pitagora, qualcuno produsse un sistema seriale di opposizioni entro cui è possibile riscontrare anche quella sfruttata da Parmenide: ἕτεροι δὲ τῶν αὐτῶν τούτων τὰς ἀρχὰς δέκα λέγουσιν εἶναι τὰς κατὰ συστοιχίαν λεγομένας, πέρας [καὶ] ἄπειρον, περιττὸν [καὶ] ἄρτιον, ἓν [καὶ] πλῆθος, δεξιὸν [καὶ] ἀριστερόν, ἄρρεν [καὶ] θῆλυ, ἠρεμοῦν [καὶ] κινούμενον, εὐθὺ [καὶ] καμπύλον, φῶς [καὶ] σκότος, ἀγαθὸν [καὶ] κακόν, τετράγωνον [καὶ] ἑτερόμηκες· ὅνπερ τρόπον ἔοικε καὶ Ἀλκμαίων ὁ Κροτωνιάτης ὑπολαβεῖν, καὶ ἤτοι οὗτος παρ’ ἐκείνων ἢ ἐκεῖνοι παρὰ τούτου παρέλαβον τὸν λόγον τοῦτον· καὶ γὰρ [ἐγένετο τὴν ἡλικίαν] Ἀλκμαίων [ἐπὶ γέροντι Πυθαγόρᾳ,] ἀπεφήνατο [δὲ] παραπλησίως τούτοις· Altri di questi stessi [Pitagorici] sostengono che i principi sono dieci, disposti in serie di opposti: limite e illimite, dispari e pari, uno e molti, destro e sinistro, maschio e femmina, fermo e mosso, diritto e curvo, luce e tenebra, buono e cattivo, quadrato e rettangolo. Analogamente sembra pensasse Alcmeone, sia che egli recuperasse da loro questa dottrina, sia che quelli la prendessero da lui: Alcmeone, infatti, fiorì quando Pitagora era vecchio e professò una teoria simile alla loro» (Metafisica I, 5 986 a22-31). Non è chiaro da dove Aristotele - che, secondo la tradizione dossografica, avrebbe sviluppato specifiche ricerche sui Pitagorici (Diogene gli attribuisce nel suo elenco delle opere sia un Πρὸς 526 τοὺς Πυθαγορείους sia un Περὶ τῶν Πυθαγορείων) – abbia ricavato quella tavola degli opposti, la cui antichità sarebbe attestata solo dal vago accostamento alle idee del contemporaneo di Parmenide Alcmeone. Gli specialisti sono divisi: Schofield5 ritiene che non ci siano in realtà elementi per stabilirne l'originalità pitagorica, ipotizzando piuttosto una sua dipendenza dal modello parmenideo. Più plausibile allora l'associazione con l'ambiente di Filolao (seconda metà del V secolo a.C.)6. Ma di recente Kahn7, pur rilevando nella doppia lista la possibilità di un'eco accademica, osserva come la modalità con cui opposti astratti e concreti, matematici ed estetico-morali sono combinati potrebbe rinviare effettivamente a uno schema arcaico. Essendo implausibile (a causa dell’espliito riferimento a una «decisione»: κατέθεντο ὀνομάζειν) che la fisica dualistica proposta rispecchiasse una prospettiva genericamente umana, e che si riferisse direttamente solo alle cosmologie milesie (in cui il dualismo oppositivo indubbiamente agisce), ammettendo che essa dovesse risultare in ogni caso perspicua agli originari destinatari del poema, la considerazione del contesto geografico e culturale entro cui Parmenide operò, e le tenui indicazioni della tradizione dossografica: di; meno affidabile Giamblico DK 28 A4): Ξενοφάνους δὲ διήκουσε Παρμενίδης Πύρητος Ἐλεάτης (τοῦτον Θεόφραστος ἐν τῆι Ἐπιτομῆι Ἀναξιμάνδρου φησὶν ἀκοῦσαι). ὅμως δ’ οὖν ἀκούσας καὶ Ξενοφάνους οὐκ ἠκολούθησεν αὐτῶι. ἐκοινώνησε δὲ καὶ Ἀμεινίαι Διοχαίτα τῶι Πυθαγορικῶι, ὡς ἔφη Σωτίων, ἀνδρὶ πένητι μέν, καλῶι δὲ καὶ ἀγαθῶι. ὧι καὶ μᾶλλον ἠκολούθησε καὶ ἀποθανόντος ἡρῶιον ἱδρύσατο γένους τε ὑπάρχων λαμπροῦ καὶ πλούτου, καὶ ὑπ’ 5 Nel suo rifacimento dei capitoli pitagorici di Kirk-Raven (nel capitolo su Filolao): G.S. Kirk, J.E. Raven, M. Schofield, The Presocratic Philosophy, C.U.P., Cambridge 19832, p. 339. 6 Una indicazione analoga si può ricavare dal saggio di C.A. Huffman, The Pythagorean tradition, in Early Greek Philosophy cit., p. 78 ss.. 7 Ch.H. Kahn, Pythagoras and the Pythagoreans, Hackett, Indianapolis 2001, pp. 65-6. 527 Ἀμεινίου, ἀλλ’ οὐχ ὑπὸ Ξενοφάνους εἰς ἡσυχίαν προετράπη Parmenide Eleate, figlio di Pireto, fu discepolo di Senofane (Teofrasto nella Epitome dice che costui fu discepolo di Anassimandro). Tuttavia, pur essendo stato discepolo anche di Senofane, non lo seguì. Secondo quanto ha affermato Sozione, egli si associò al pitagorico Aminia, figlio di Diochete, un uomo povero ma di grande valore. Costui preferì seguire, e quando morì, dal momento che Parmenide era di una distinta casata e ricco, gli eresse un monumento funebre. E da Aminia, non da Senofane, egli fu avviato alla tranquillità [della vita contemplativa] (Diogene Laerzio; DK 28 A1) Ζήνωνα καὶ Παρμενίδην τοὺς Ἐλεάτας· καὶ οὗτοι δὲ τῆς Πυθαγορείου ἦσαν διατριβῆς Anche gli eleati Zenone e Parmenide appartenevano alla scuola pitagorica (Giamblico; DK 28 A4), può suggerire l'ipotesi che l'Eleate abbia ricavato da contemporanee correnti pitagoriche lo schema cui sommariamente riferirsi8. In alternativa, sfruttando il prezioso lavoro di Charles Kahn sull'origine degli "elementi" nel mondo greco arcaico, si potrebbe rintracciare in Parmenide l'eco di una tradizione che aveva fatto di Gaia (γαῖα) e Urano (οὐρανός) i progenitori di tutti gli esseri, come si può ancora cogliere in Esiodo: χαίρετε τέκνα Διός, δότε δ’ ἱμερόεσσαν ἀοιδήν· κλείετε δ’ ἀθανάτων ἱερὸν γένος αἰὲν ἐόντων, οἳ Γῆς ἐξεγένοντο καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος, Νυκτός τε δνοφερῆς, οὕς θ’ ἁλμυρὸς ἔτρεφε Πόντος Salve, figlie di Zeus, datemi l'amabile canto; celebrate la sacra stirpe degli immortali, sempre viventi, 8 Dobbiamo tuttavia ricordare, con Patricia Curd, che non si conosce alcuna cosmogonia presocratica che cominci con Luce e Notte (The Legacy of Parmenides…, cit., p. 117). 528 che da Gaia nacquero e da Urano stellato, da Notte oscura e quelli che nutrì il salso Mare (Teogonia 104-107, traduzione Arrighetti), e più tardi nelle laminette orfiche (V-IV secolo a.C.): ὐιὸς Βαρέας καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος sono figlio della Greve e di Cielo stellante (laminetta di Ipponio) Γῆς παῖς εἰμι καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος sono figlio di Terra e Cielo stellante» (laminetta di Petelia)9. Un’opposizione ricorrente nella cultura arcaica, intrecciata a quella tra regione celeste (οὐρανός), e regione della oscurità (Ade, Notte), in cui, come mostra ancora Kahn10, αἰθήρ avrebbe poi sostituito οὐρανός, e ἀήρ assorbito i caratteri della oscurità (come rivela, anche etimologicamente, la formula omerica ζόφος ἠερόεις, «oscurità nebbiosa»). In Parmenide, insomma, sarebbe possibile rintracciare un’estrema essenzializzazione e concentrazione del lessico delle teogonie e cosmogonie, nell'alveo della riflessione cosmologica dei Milesi, la quale, in estrema sintesi, aveva ricostruito gli opposti elementari disponendo da un lato caldo, secco, luminoso e raro, dall'altro freddo, umido, oscuro, denso. In questo senso egli avrebbe estratto le sue due serie di proprietà (δυνάμεις) fondamentali: (i) αἰθέριον («etereo»), [ἀραιόν] 11 («rarefatto»), ἤπιον («mite»), μέγ΄ ἐλαφρόν («molto leggero») sono riferiti a φλογὸς πῦρ («fuoco di fiamma»); (ii) ἀδαῆ («oscura») è attributo diretto di núx («notte»), mentre πυκινὸν («denso»), ἐμϐριθές («pesante») concordano con δέμας («corpo»), a sua volta in apposizione a νύξ. 9 Testo greco e traduzione di G. Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, Milano 1977, pp. 172-175. 10 Anaximander and the Origins of Greek Cosmology, Hackett, Indianapolis 1994, p. 152. 11 Secondo alcuni codici di Simplicio. 529 Se consideriamo nel complesso le due liste, e riscontriamo l'incidenza di quelle connotazioni nella tradizione delle opposizioni e degli elementi, non abbiamo in realtà bisogno di coinvolgere indefiniti gruppi pitagorici: di quella tradizione Parmenide avrebbe semplicemente riferito alla polarità πῦρ\νύξ i poteri (δυνάμεις) cosmogonici essenziali, che altri avevano concentrato in sole e terra e che Anassagora fisserà in αἰθήρ e ἀήρ. È significativo che ancora in Empedocle, colui cui generalmente si riconosce l'introduzione del modello elementare (le quattro radici), l'opposizione luce-oscurità giochi un ruolo rilevante: ἀλλ’ ἄγε, τόνδ’ ὀάρων προτέρων ἐπιμάρτυρα δέρκευ, εἴ τι καὶ ἐν προτέροισι λιπόξυλον ἔπλετο μορφῆι, ἠέλιον μὲν λευκὸν ὁρᾶν καὶ θερμὸν ἁπάντηι, ἄμβροτα δ’ ὅσσ’ εἴδει τε καὶ ἀργέτι δεύεται αὐγῆι, ὄμβρον δ’ ἐν πᾶσι δνοφόεντά τε ῥιγαλέον τε· ἐκ δ’ αἴης προρέουσι θελεμνά τε καὶ στερεωπά. Orsù, considera questa attestazione delle cose dette prima, se mai anche nelle cose dette prima è mancato qualcosa alla forma: il sole splendente a vedersi e caldo dappertutto, quante cose imperiture sono immerse nel calore e nella luce irradiante, la pioggia in tutte le cose oscura e gelida; e la terra da cui sorgono cose compatte e solide (DK 30 B21.1-6). In ogni modo, come sappiamo, Parmenide intervenne a correggere quello schema cosmogonico su un punto essenziale: l'assoluta posizione della separazione delle due forme: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων [...] [...] ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία [...] 530 Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente gli uni dagli altri [...] [...] a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche opposte [...] (vv. 55-59a), emendata con la sottolineatura del fatto che esse sono e sono nell'essere: τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν - · delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (v. 54). Complessivamente il recupero e la correzione vanno nella direzione della determinazione di due elementi-principi, qualitativamente connotati in funzione della spiegazione dei fenomeni, di cui si rimarca che non sono frutto di una indebita confusione tra essere e non-essere: in questo senso, come ha rilevato Nehamas12, essi danno ragione di molteplicità e cambiamento nel mondo sensibile mescolandosi in proporzioni differenti, senza che nessuno dei due si trasformi nell'altro. Identico, non identico Comunque sia stato ricavato, dalla lezione di contemporanei pitagorici, come alcuni credono, ovvero distillando un modello dalla tradizione, come abbiamo ipotizzato, lo schema che Parmenide introduce ai vv. 53 ss. rivela, una volta sottoposto all'esame dei criteri ontologici di B8.1-49, la propria falla. Inquadrate all'interno della fondamentale alternativa «è-non è», le polarità oppositive, nella loro identità con sé stesse (ἑωυτῷ τωὐτόν) e reciproca 12 A. Nehamas, “Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, in Presocratic Philosophy, cit., pp. 61-62. 531 non-identità (τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν), ovvero nella mutua esclusione, appaiono foriere di potenziale contraddizione: donde l'esigenza di denunciare il rischio13. La situazione appare paradossale, perché da un lato Parmenide, di fronte al compito di spiegare τὰ δοκοῦντα, avrebbe recuperato il dualismo giudicandolo più coerente con i criteri ontologici, rispetto, per esempio, alla cosmologia ionica che cerca di dar ragione dei fenomeni facendo appello alle trasformazioni di un singolo principio di base14; dall'altro, però, avrebbe avvertito l'implicita debolezza del modello. Come abbiamo sopra sottolineato, il lessico dei frammenti superstiti – che è lessico di conoscenza (B10: εἴσῃ «conoscerai», πεύσῃ «apprenderai», εἰδήσεις «conoscerai») - segnala che in qualche modo tale debolezza era stata aggirata. La nostra lettura, tuttavia, non sembra aver superato il paradosso: perché introdurre «due forme» e poi insistere sulla loro unità? Aristotele, come abbiamo inizialmente avuto occasione di ricordare, interpreta a suo modo: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...], ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] 13 In questo senso la Curd riferisce correttamente la natura «enantiomorfa» del modello delineato nei versi conclusivi di B8, ma secondo noi sbaglia ad attribuirlo a Parmenide, il quale, invece, lo propone per sottolinearne il limite. 14 Nehamas, op. cit., pp. 61-62. 532 Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1). Solo per dar ragione dei fenomeni, Parmenide avrebbe recuperato due principi (secondo i precedenti cosmologici) e solo analogicamente avrebbe accostato la loro opposizione a quella di essere e non-essere15: Simplicio ne coglie il senso citando B9: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν [...] εἰ δὲ "μη δετέρωιμέτα μηδέν " καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται e poco dopo ancora [citazione B9]; e se "insieme a nessuna delle due è il nulla", egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che sono opposti. Il commentatore rileva l'interesse del passo parmenideo nell’esplicitazione del duplice aspetto di φῶς e νύξ: per le loro proprietà costitutive - che condensano le tradizionali opposizioni elementari – e nella misura in cui escludano il nulla, esse possono fungere da ἀρχαὶ. Pur opposte nei loro «segni», entrambe «sono»: «luce è» e «notte è». Insomma, l'Eleate avrebbe conservato un consolidato schema esplicativo del mondo fenomenico, emendandone le implicazioni inaccettabili sul piano ontologico: la mutua esclusione degli opposti doveva evitare la trasformazione dell'uno nell'altro, senza spingersi tuttavia fino alla loro assolutizzazione. Presero la decisione di dar nome... Il passaggio dalla prima alla seconda sezione del poema è sottolineato dalla antitesi tra «pensiero intorno a Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης)·e «opinioni mortali» (δόξας βροτείας): come già 15 Così interpreta Mansfeld, op. cit., pp. 137-139. 533 indicato nei versi che precedono, una componente essenziale dell'opinare umano è riscontrata nel linguaggio, o, meglio, nell'arbitrio delle convenzioni linguistiche. In questo senso era stata netta la presa di posizione di B8.38b-41: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso [ciò che è] tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. Alla necessità («unica parola ancora rimane», μόνος δ΄ ἔτι μῦθος λείπεται) con cui, in apertura di B8, si erano imposti la prospettiva della «via che è» (ὁδοῖο ὡς ἔστιν) e il riconoscimento della relativa sequenza di «segni» («su questa [via] sono segnali molto numerosi: che...», ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς...), la Dea ha modo di contrapporre, introducendo le «opinioni mortali», la decisione di «nominare» (κατέθεντο ὀνομάζειν), ovvero la scelta di «opposti» (ἀντία ἐκρίναντο δέμας) e l'imposizione di «segni» (σήματ΄ ἔθεντο). Non sorprende, dunque, che ella metta sull'avviso il kouros circa le potenzialità fuorvianti dell'espressione di quelle convinzioni umane (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων). Il passaggio fa registrare dunque una significativa svolta nell'atteggiamento intellettuale proposto all'interno dell’esposizione divina. Da una considerazione puramente razionale della realtà, che abbraccia con l'intelligenza il tutto come tale, omogeneizzandolo nell'essere e guadagnandone argomentativamente le proprietà, nella seconda sezione l'attenzione si sposta sul complesso dei fenomeni e quindi non può prescindere dal dato sensibile: questo non comporta comunque una forma di "empirismo", come confermano appunto i rilievi circa la rielaborazione "umana" della Doxa attraverso lo schema degli opposti. La posizione introdotta non è assimilabile a quella stigmatizzata in B7.3- 5a: 534 μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua. L'operazione di riduzione dei fenomeni naturali alla coppia «luce-notte» è certamente altra cosa rispetto alla meccanica e irriflessa assuefazione al dato empirico (ἔθος πολύπειρον), pur avendo di mira la stessa realtà attestata e accettata sulla scorta dell'esperienza (τὰ δοκοῦντα). La rielaborazione è valorizzata da Parmenide soprattutto nella sua dimensione linguistica e\o categoriale: l'insistenza su formule verbali che implicano valutazione (κατέθεντο, ἐκρίναντο) e disposizione (ἔθεντο) è infatti associata al rilievo del «nominare» (ὀνομάζειν). Così la Dea attribuisce il compito di ordinare il campo dei fenomeni all'umana risorsa del classificare (attraverso i nomi), sebbene ella individui esplicitamente nei nomi l'origine di un potenziale fraintendimento della realtà (come denuncia B8.38b-41). Anche questo contribuisce a spiegare il cambiamento di registro all'interno del poema e il richiamo ai rischi impliciti nella comunicazione della Doxa. Questi rilievi non devono spingere a concludere che il mondo della Doxa sia appunto un mondo puramente "verbale", inconsistente, illusorio: non condividiamo l'opinione di Nehamas, secondo cui la Doxa proporrebbe una descrizione accurata di apparenze, la quale, per quanto accurata, rimarrebbe pur sempre descrizione di apparenze, dunque di un mondo falso16. È vero piuttosto che Parmenide aveva denunciato tale illusione nell'immagine della realtà - in sé contraddittoria – caratteristica di coloro che in B6.4-5 sono apostrofati come βροτοὶ εἰδότες οὐδέν e δίκρανοι. La seconda sezione del poema, al contrario, era probabilmente intesa 16 A. Nehamas, “Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, cit., p. 63. 535 come alternativa alle cosmologie ioniche17: una grande sintesi enciclopedica che avrebbe dovuto illustrare la superiorità della sua analisi ontologica. L'orgoglio dell'impresa potrebbe ancora riflettersi nelle battute conclusive del frammento: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto verosimile, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti (vv. 60-61). D'altra parte, se l'intelligenza applicata alla riflessione su «ciò che è», alla totalità dell'essere, manifestava proprietà rigorosamente riconducibili all'alternativa «è»-«non-è», risulta invece evidente, nei versi tràditi della seconda sezione, l'impegno a dare conto dell'impianto della realtà fenomenica, delle strutture portanti del cosmo dell'esperienza umana. L'eco, nelle parole della Dea, del tradizionale motivo dell'opposizione di sapere umano e divino, nonché l'uso di espressioni, come δοκίμως (B1.32, «realmente», ma anche «plausibilmente») e ἐοικότα (B8.60, «appropriato», «adeguato», ma anche «verosimile», «probabile») potrebbero segnalare, da parte di Parmenide, la consapevolezza dei limiti della περὶ φύσεως ἱστορία. Spesso nella letteratura si è, su questo punto, evocato il possibile esempio di Senofane: καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔ τις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται Davvero l'evidente verità nessun uomo la conosce, né mai ci sarà 17 Come ipotizza Graham (Explaining the Cosmos…, cit., p. 184), è forse possibile che la sfida fosse lanciata anche a Esiodo, considerato alla stregua di un cosmologo. 536 chi sappia intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti, ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui stesso non lo saprebbe; opinione è data su tutte le cose (DK 21 B34) ταῦτα δεδοξάσθω μὲν ἐοικότα τοῖς ἐτύμοισι Siano queste cose credute simili a cose vere (DK 21 B35) ὁππόσα δὴ θνητοῖσι πεφήνασιν εἰσοράασθαι Tutte le cose che essi [gli dei] hanno mostrato ai mortali perché le osservassero (DK 21 B36) οὔ τοι ἀπ’ ἀρχῆς πάντα θεοὶ θνητοῖσ’ ὑπέδειξαν, ἀλλὰ χρόνωι ζητοῦντες ἐφευρίσκουσιν ἄμεινον Gli dei dall'inizio non hanno rivelato tutte le cose ai mortali, ma nel tempo ricercando essi trovano ciò che è meglio (DK 21 B18). Graham18 ha di recente rilanciato l'accostamento, rilevando come i frammenti di Senofane avrebbero presentato, tra VI e V secolo, qualcosa di simile a uno status quaestionis, una prima meditazione sui limiti della conoscenza del mondo naturale, concludendo che essa non sarebbe sicura. Posizione analoga a quella del giovane contemporaneo Alcmeone: περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν σαφή- νειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι Sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma gli uomini devono imparare per inferenza (DK 24 B1)19. 18 Explaining the Cosmos…, cit., p. 176. 19 Come abbiamo in precedenza ricordato, del testo greco esiste oggi una versione proposta da M.L. Gemelli Marciano (“Lire du début…, cit., pp. 7- 37), che ha espunto la virgola tra i due complementi iniziali, offrendo quindi un senso profondamente diverso: Il pensatore di Crotone (che Diogene Laerzio vuole discepolo di Pitagora e dunque proveniente dalla stessa area geografica e culturale di Parmenide) avrebbe ripreso la tradizionale opposizione (μὲν θεοὶ... δὲ ἀνθρώποις) per precisare come gli uomini abbiano solo la possibilità di procedere per evidenze sensibili e relative inferenze. Parmenide potrebbe aver reagito alle provocazioni di Senofane indicando come in realtà fosse possibile una conoscenza dimostrativa sicura di «ciò che è», sforzandosi poi, negli ultimi versi del nostro frammento, di rintracciare delle linee di stabilità che consentissero di riordinare il campo fenomenico alla luce delle indicazioni ontologiche, come rivelerebbero chiaramente i «segni» attribuiti alle due «forme». περὶ τῶν ἀφανέων περὶ τῶν θνητῶν σαφή- νειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo di trovare degli indizi.Simplicio offre, nel caso di B9, un'indicazione preziosa, ancorché approssimativa, circa la sua collocazione nel poema parmenideo. Afferma infatti il commentatore (contesto DK 28 B9): καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν [citazione B9] εἰ δὲ ‘μη δετέρωι μέτα μηδέν ’ καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται e dopo poco aggiunge ancora: [citazione B9]. E se "con nessuna delle due è il nulla", egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che sono opposti. Dal momento che il rilievo è posto subito dopo la citazione di B8.53-59, è facile concludere che i quattro versi di B9 seguissero dappresso la conclusione di B8, anche se non necessariamente come prosecuzione (come ipotizza Cerri1 ). Appare di conseguenza discutibile la scelta di alcuni editori (Coxon, Collobert) di collocarli dopo B10 e B11 (ovvero di ipotizzare la successione B11- B10-B9, come fa O' Brien), o addirittura, dopo altri intervalli testuali, subito prima di B19 (Mansfeld), nonostante l'evidenza di una relazione tra B9, 10 e 11, come introduzione generale all'esposizione cosmologico-cosmogonica della Doxa. Tutte le cose sono state denominate In effetti, dopo l'esordio di B8.50-61, B9 condivide con B19 l'importante riferimento agli ὀνόματα e all'attività di ὀνομάζειν, che abbiamo visto essere centrale nella costruzione della cosmologia parmenidea. In particolare, nelle prime battute di B9 troviamo un accenno al ruolo d'ordine delle due μορφάι: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς 1 Op. cit., p. 255. 539 Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle (vv. 1-2). Nella dimensione plurale delle cose (πάντα) attestate dall’esperienza e che l'intelligenza ha riassunto nell’omogeneità dell'essere, il compito di φάος καὶ νὺξ è quello di classificare e discriminare: secondo il modello che abbiamo riscontrato nel commento al frammento precedente, lo schema oppositivo distribuisce sul complesso dei fenomeni le «proprietà» (δυνάμεις, «potenze»), i σήματα che accompagnano le due μορφάι, così riordinando, attraverso un'articolazione elementare, il mondo empirico. Dopo aver messo a fuoco la nozione di τò ἐόν, comune denominatore che contraddistingue la realtà, raccogliendo a unità la totalità degli enti, e averne approfondito le implicazioni (alla luce della κρίσις: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν), Parmenide delinea una strategia conseguente di recupero del cosmo dell’esperienza umana: Luce e Notte dovranno spiegare l'apparire senza che venga ammesso come principio il nulla2. Alcuni accostamenti verbali manifestano questa operazione. Al verso B8.24b la Dea aveva sottolineato (i): πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος ma tutto pieno è di ciò che è, dopo aver ricordato (ii): οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere continuo, né [lì] qualcosa di meno (B8.23-24a), e soprattutto (iii): 2 Ruggiu, op.cit., p. 326. 540 οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo (B8.22). A questa rappresentazione della omogeneità e compattezza dell'essere possiamo far corrispondere l'affermazione centrale del nostro frammento: πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile di entrambe alla pari (B9.3-4a), dove l'originario nesso ontologico di totalità e pienezza (πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος) è declinato al duale (πᾶν πλέον ἐστὶν φάεος καὶ νυκτὸς), salvaguardando comunque l'esigenza di uniforme densità e continuità – veicolata in B8 da espressioni come ὁμοῦ πᾶν (B8.5), πᾶν ἐστιν ὁμοῖον (B8.22), oltre che da συνεχές (B8.6) e συνέχεσθαι (B8.23) e ribadita in B9 dalla formula πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ e dalla precisazione incidentale ἴσων ἀμφοτέρων. Insieme a nessuna delle due è il nulla Ma, al di là di queste convergenze che paiono indiscutibili, il διάκοσμος proposto dalla Dea esplicitamente rileva il dato discriminante rispetto alle narrazioni cosmogoniche, la preoccupazione ontologica essenziale a tutela della fondatezza della ricostruzione: ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9.4). Per quanto orientata a ordinare ciò che è registrato a livello empirico e che τὸ νοεῖν (il pensare) ovvero il νόος (l'intelligenza) o ancora il λόγος (il discorso argomentativo) confermano nell'unità di τò ἐόν, la scelta del modello oppositivo e della relativa disposizione seriale (l'aristotelica συστοιχία) di δυνάμεις (proprietà) riba- 541 disce l'assoluta esclusione del «nulla» (μηδέν). Insomma, il linguaggio della doxa ripropone quello della alētheia, sottolineando, sul terreno dell'apparire, la propria continuità con il νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης, quasi che la doxa, nel suo insieme e a dispetto dell'insidia degli ὀνόματα, ne costituisse la diretta prosecuzione3. Perché, ci si potrebbe chiedere, Parmenide avrebbe dovuto affiancare alla Verità il resoconto plausibile di una realtà già ridotta, nei suoi tratti caratterizzanti, ai σήματα di B8? B9 può contribuire a una risposta, soprattutto considerandone la collocazione a ridosso della dichiarazione conclusiva di B8: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti. L'orizzonte dell'esperienza è ineludibile per un mortale; così l'insegnamento divino della verità è proceduto di pari passo con una puntuale disamina degli errori umani, in larga misura condizionati da scriteriate assunzioni empiriche: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua (B7.3-5a). Proprio per la sua ineludibilità, la Dea si impegna a fornire gli strumenti per una ricostruzione adeguata di quell'orizzonte, che ne conservi la fisionomia pluralista e qualitativa, senza contraddire nella sostanza le indicazioni della Verità. B9 si inserisce appunto in questo contesto, con le sue "istruzioni" circa l'ordinamento lin- 3 Ibidem. 542 guistico del mondo dell'esperienza e il suo "riempimento" a opera delle due «forme» nominate, con opportuno esorcismo del «nulla». Una soluzione per garantire in ogni senso la superiorità del discente dalla concorrenza di potenziali resoconti alternativi. In questa prospettiva, la probabile ampia articolazione della Doxa ancora attestata – come sappiamo - da Plutarco (Contro Colote 1114b; DK 28 B10): ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro, può far sorgere il sospetto che la relativamente più contenuta trattazione della Verità fosse funzionale al coerente consolidamento della trattazione cosmologica e cosmogonica. Tutto è pieno di luce e notte Se osserviamo la costruzione del frammento, possiamo notare un passaggio significativo per la complessiva interpretazione della Doxa: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται [...] πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου 543 Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, [...] tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile. La consistenza del mondo della nostra esperienza dipende dalla coerenza della sua costruzione linguistica: dopo (i) aver rifiutato le interpretazioni che pretendevano coniugare essere e nonessere (B6 e B7), (ii) aver individuato un modello (linguistico) di base, imperniato sullo schema polare delle nozioni luce-notte (B8.53-4), (iii) averne rilevato i limiti (B8.55-59), e (iv) bandito esplicitamente l'implicazione del «nulla» (B9.4), Parmenide se ne serve (v) distribuendone le rispettive proprietà su tutte le cose. In altre parole, egli procede a connotare, attraverso gli ὀνόματα delle due μορφάι – e i relativi σήματα -, i vari aspetti fenomenici: la luce è associata a caldo, leggero, raro; la notte a freddo, pesante, denso, come possiamo evincere da B8.56-9 e dallo scolio a B8 di Simplicio: καὶ δὴ καὶ καταλογάδην μεταξὺ τῶν ἐπῶν ἐμφέρεταί τι ῥησείδιον ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου ἔχον οὕτως· ἐπὶτῶι δέ ἐστι τὸ ἀραιὸν καὶ τὸ θερμὸν καὶ τὸ φάος καὶ τὸ μαλθακὸν καὶ τὸ κοῦφον, ἐπὶ δὲτῶιπυκνῶι ὠνόμασται τὸ ψυχρὸν καὶ τ ὸ ζ ό φ ο ς καὶ σκληρὸν καὶ βαρύ· tra i versi è riportato un passo in prosa come fosse dello stesso Parmenide; esso afferma: «per questo ciò che è raro è anche caldo, e luce e morbidezza e leggerezza; per la densità invece il freddo è indicato come oscurità, durezza e pesantezza». Quanto è stato denominato conformemente a tale strategia assume lo spessore di un mondo comune, condiviso: non a caso, dopo aver impiegato in premessa l'espressione πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται, al v. 3 la Dea conclude che πᾶν πλέον ἐστὶν φάεος καὶ νυκτὸς. 544 Le due «forme» concorrono alla composizione del mondo: la loro complicità nell'opposizione assicura la stabilità del mondo4. Il fatto che entrambe siano parte dell'Essere rende possibile una fisica della mescolanza (κρᾶσις) 5. La κρᾶσις funge così da principio di costituzione di tutte le cose: l'uguaglianza delle due forme e la presenza delle rispettive potenze spiega come ogni cosa sia costituita insieme (anche se non nella stessa misura) di Luce e Notte6. È tuttavia necessario ricordare – con Conche 7 - che le due μορφάι parmenidee non sono assimilabili agli elementi di Empedocle o degli atomisti: non si tratta di principi eterni e immutabili, ma di «forme» nominate dai mortali, di cui la Dea si serve ad hoc, per una adeguata spiegazione dell'universo delle «opinioni mortali». Ciò deve rendere cauti rispetto a una loro ontologizzazione: nulla ne giustifica l'assolutizzazione al di fuori di questo mondo. 4 Conche, op. cit., p. 201. 5 Ruggiu. I tre frammenti B10-11-12 sono conservati da due fonti diverse: Clemente Alessandrino (II-III secolo d.C  .) e Simplicio (tuttavia B11 in un passo del commento al De caelo, B12 in due passi del commento alla Fisica): solo il secondo ci fornisce, per B12, un’indicazione approssimativa circa la collocazione relativa: μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως [...] poco più avanti [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente, dicendo così [B12.1-3] [...] Ricordiamo che con analoga approssimazione («poco dopo») era stata introdotta la citazione di B9, il cui testo avrebbe seguito dappresso B8.59. Almeno i versi di B12, dunque, dovevano trovarsi a ridosso di B8 e B9: certamente dopo B8. Il contesto delle altre due citazioni e il loro contenuto concorrono a suggerire una stretta relazione di B12 con B10 e B11, e, ulteriormente, dei tre frammenti con B9, anche se sono state proposte diverse soluzioni circa la loro effettiva sequenza. B13, infine, conservato da varie fonti (Platone, Aristotele, Plutarco, Sesto Empirico, Stobeo, Simplicio), viene citato da Simplicio in stretta connessione con B12. Clemente (autore che rivela dimestichezza con il poema, risultando unica fonte di quasi tutto quello che cita) introduce e accompagna B10 con queste parole: ἀφικόμενος οὖν ἐπὶ τὴν ἀληθῆ μάθησιν ὁ βουλόμενος ἀκουέτω μὲν Παρμενίδου τοῦ Ἐλεάτου ὑπισχνουμένου ‘ε ἴ σ η ι... ἄ σ τ ρ ω ν ’ pervenuto alla vera conoscenza [di Cristo], chi vuole ascolti Parmenide di Elea che promette «tu conoscerai... degli astri». Il commentatore neoplatonico, a sua volta, ci informa che: 546 Π. δὲ περὶ τῶν αἰσθητῶν ἄρξασθαί φησι λέγειν·[citazione B11] καὶ τῶν γινομένων καὶ φθειρομένων μέχρι τῶν μορίων τῶν ζώιων τὴν γένεσιν παραδίδωσι. Parmenide intorno alle cose sensibili afferma di aver intenzione di dire [citazione B11] e descrive l'origine delle cose che si generano e si corrompono, fino alle parti degli animali. Evidentemente la funzione dei due testi citati era prolettica rispetto alla vera e propria descrizione cosmogonica e cosmologica: dal momento che Plutarco (Contro Colote 1114b, contesto di DK 28 B10) ci documenta l'articolazione della Doxa parmenidea, utilizzando ancora la sua testimonianza possiamo tracciare una loro plausibile posizione: ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla Terra, e sul Cielo e sul Sole e sulla Luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro. Plutarco offre diversi spunti per il nostro orientamento nella seconda parte del poema, suggerendo almeno tre cose fondamentali sulla sua struttura: (i) intanto che la costruzione del «sistema del mondo», annunciata in conclusione di B8, è, per quanto consta all'autore, chiaramente responsabilità di Parmenide: διάκοσμον πεποίηται sottoli- 547 nea l'originalità dell'impresa scientifica. Ciò è ribadito in conclusione: «ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro» (συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν); (ii) poi che la scelta degli elementi (στοιχεῖα) è funzionale al progetto scientifico: la ricognizione cosmologica (διάκοσμον) implica la ricostruzione comogonica; la struttura del cosmo la sua produzione. Con la proposta di due principi il filosofo assicura la spiegazione fenomenica (conclusione di B8 e B9): «mescolando come elementi la luce e la tenebra» (στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν), egli produce il suo διάκοσμος. Da e per mezzo di quegli elementi (ἐκ τούτων [...] καὶ διὰ τούτων) ricava (ἀποτελεῖ) «tutti i fenomeni» (τὰ φαινόμενα πάντα); (iii) infine che il progetto scientifico doveva essere ambizioso, dire «molto» («molte cose», πολλὰ) «sulla Terra, e sul Cielo e sul Sole e sulla Luna»: si tratta evidentemente del tema cui alludono programmaticamente B10-11 e che B12 sviluppa. Doveva poi procedere a delineare l'«origine degli uomini» (γένεσις ἀνθρώπων): ne abbiamo tracce in B13 (e successivi). Potremmo così avere conferma della bontà dell'attuale successione, ovvero supporre una sistemazione leggermente diversa. La natura programmatica di B10 e B11, attestata dalla ricorrenza di formule illocutorie (εἴσῃ, πεύσῃ, εἰδήσεις) che ricorda la protasiinvocazione alle Muse della Teogonia esiodea1, unitamente alla considerazione che B9 ne costituisce il fondamento (funzione dei principi), potrebbe suggerire una posposizione dello stesso B92. A ciò osta sostanzialmente l'indicazione (comunque approssimativa) di Simplicio, nel contesto di B9, circa la prossimità della citazione alla conclusione della precedente (B8.53-9). D'altra parte è chiaro come B10 costituisca una sorta di indirizzo della Dea a Parmenide, analogo a quello che chiude il proemio: ci troveremmo in questo senso in presenza di un "secondo" 1 Cerri, op. cit., p. 263. 2 Ruggiu, op. cit., p. 332. 548 proemio3. B10 e B11 annunciano – Clemente parla di Parmenide «che promette» (ὑπισχνούμενος) - e descrivono sommariamente il programma scientifico (spiegazione cosmogonica e cosmologica) che B12 contribuisce a realizzare. Con B10 e B11 siamo, insomma, ancora al prologo, al profilo preliminare; con B12 alla descrizione dei processi e della struttura del cosmo, che Aëtius e Cicerone (DK 28 A37) ci aiutano a ricostruire. B9, in questo contesto, sembra effettivamente, più che una tessera programmatica vera e propria, un rilievo delle conseguenze immediate, sul piano cosmologico e cosmogonico, dell'opzione per le due «forme» (B8.53-59), e quindi fungere solo in questo senso da cerniera introduttiva. O'Brien4, in alternativa, vi ha colto, dopo l'annuncio degli argomenti principali (B11) e il passaggio alle «opere» del Sole e della Luna (B10), una precisazione sulla natura delle due «forme», prima dell'introduzione della δαίμων che le «governa» (la sequenza sarebbe dunque: B11-B10-B9- B12). La disposizione proposta da Diels-Kranz appare comunque credibile e soprattutto compatibile con le indicazioni di Simplicio. Conoscere la natura La Dea dunque preannuncia (promette) al proprio discepolo un grandioso disegno scientifico: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων. 3 Per questo in passato Bicknell propose di integrare i versi di B10 nel prologo del poema (P.J. Bicknell, «Parmenides, fragment 10», Hermes 95, 1968, pp. 629.631). 4 Études sur Parménide, cit., I, p. 246-7 (in particolare nota 33). 549 Conoscerai la natura eterea e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente Sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche della Luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo costrinse a tenere i confini degli astri. La promessa è quella di: (i) far «conoscere» (εἰδέναι) «la natura eterea» (αἰθερίαν φύσιν) e «tutti i segni» (πάντα σήματα) nell'etere; (ii) e le «opere invisibili (distruttive)» (ἔργ΄ ἀίδηλα) del Sole e «ciò da cui» (ὁππόθεν) esse si generarono (ἐξεγένοντο); (iii) far «apprendere» (πεύθεσθαι) «le opere» (ἔργα) della Luna e «la [sua] natura» (φύσιν); (iv) far «conoscere» (εἰδέναι) «il cielo» (οὐρανὸν) «che tiene tutto intorno» (ἀμφὶς ἔχοντα) e «da che cosa» (ἔνθεν) «scaturì» (ἔφυ); (v) far conoscere come Necessità (Ἀνάγκη) «incatenò» (ἐπέδησεν) il cielo a «mantenere nei loro limiti» (πείρατ΄ ἔχειν) gli astri. Il contesto della citazione di B11 (nel commento di Simplicio al De caelo) conferma questo disegno di Parmenide: Π. δὲ περὶ τῶν αἰσθητῶν ἄρξασθαί φησι λέγειν·[citazione B11] καὶ τῶν γινομένων καὶ φθειρομένων μέχρι τῶν μορίων τῶν ζώιων τὴν γένεσιν παραδίδωσι. Parmenide intorno alle cose sensibili afferma di aver intenzione di dire [B11] e descrive l'origine delle cose che si generano e si corrompono, fino alle parti degli animali. 550 Conche5 ha osservato, a proposito di questi rilievi, come Simplicio evidenzi l'ampiezza e la verticalità dell'indagine parmenidea, evocando nelle scelte verbali (generazione-corruzione, parti degli animali) i temi poi trattati da Aristotele, e la centralità dei processi naturali nell'esplicazione dei fenomeni: il mondo è opera della natura. D'altra parte non è sfuggita agli studiosi l'eco di questo indirizzo cosmogonico di B10 in Empedocle (DK 31 B38): εἰ δ’ ἄγε τοι λέξω πρῶθ’ † ἥλιον ἀρχήν †, ἐξ ὧν δῆλ’ ἐγένοντο τὰ νῦν ἐσορῶμεν ἅπαντα, γαῖά τε καὶ πόντος πολυκύμων ἠδ’ ὑγρὸς ἀήρ Τιτὰν ἠδ’ αἰθὴρ σφίγγων περὶ κύκλον ἅπαντα. Orsù, ti dirò delle cose prime e; da cui divenne manifesto tutto quanto ora vediamo, terra e mare dalle molte onde e aria umida e il Titano etere che cinge in cerchio tutte le cose. L'impressione è che Empedocle si sia direttamente ispirato al modello parmenideo introducendo la sezione astronomica del proprio poema 6. Le opere della natura Di questo programma scientifico (abbiamo già osservato, nel commento di B8.50-61, l'insistenza della Dea sulle formule di conoscenza di B10) sono da notare in particolare: (a) il nesso ribadito tra φύσις e ἔργα, e (b) l'uso di espressioni come ὁππόθεν ἐξεγένοντο (che abbiamo reso come «donde ebbero origine») e l'equivalente ἔνθεν ἔφυ. Al centro della comunicazione della Dea ritroviamo dunque un modello di sapere che si definisce per la capacità di ricostruire la «generazione» dei fenomeni, con l'esplicito accostamento di φύσις e γένεσις: nel contesto il primo termine 5 Op. cit., pp. 210-11. 6 Cerri, op. cit., p. 259. 551 – che abbiamo per lo più tradotto come «natura» - designa appunto ciò che dà origine (φύω, «dare origine»), la cui attività generatrice si traduce in ἔργα. Conoscere la natura significa allora riconoscere i processi di formazione, il manifestarsi dell'origine (φύσις, γένεσις) nei «segni» (σήματα), nei fenomeni celesti; Parmenide evidentemente non allude con φύσις a un’immota identità, a un'essenza che con la propria stabile determinatezza consenta di classificare i fenomeni 7: in questo senso la formula «donde ebbero origine» (ὁππόθεν ἐξεγένοντο) riprende e rilancia la ricerca milesia dell'ἀρχή8. Nell'indirizzo della Dea è allora possibile intravedere una doppia direzione di indagine: (i) quella che dai σήματα, dagli ἔργα, dai fenomeni astronomici risale alla natura che li esprime; (ii) quella che dalla φύσις discende ai relativi ἔργα 9. Nella stessa direzione, precisando il disegno, B11: πῶς γαῖα καὶ ἥλιος ἠδὲ σελήνη αἰθήρ τε ξυνὸς γάλα τ΄ οὐράνιον καὶ ὄλυμπος ἔσχατος ἠδ΄ ἄστρων θερμὸν μένος ὡρμήθησαν γίγνεσθαι. [...] come Terra e Sole e Luna, l'etere comune e la Via Lattea e l'Olimpo estremo e degli astri l'ardente forza ebbero impulso a generarsi. In questo caso, di alcuni elementi essenziali del quadro cosmologico si prospetta la genesi marcandone lo spunto immanente: a conferma del fatto che Parmenide non intende semplicemente descrivere un ordine cosmico, stabilire ruoli e posizioni relative, ma produrre una cosmogonia. La combinazione di ὁρμᾶν e γίγνεσθαι è indicativa della sua nozione di φύσις: essa in ogni fenomeno è la 7 In questa direzione anche la lettura di Conche, op. cit., pp. 204-5. A noi pare, tuttavia, che Parmenide intenda esporre anche la «costituzione» dell'etere o della luna, analizzarne la composizione. 8 Su questo punto si veda Ruggiu, op. cit., pp. 333-5. 9 Ibidem. 552 δύναμις che si esprime in «segni» e «opere». Ovvero, richiamando l'attacco di B9: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà [δυνάμεις], [sono state attribuite] a queste cose e a quelle (vv.1-2), potremmo concordare con Ruggiu10 che le due «forme» originarie – Luce e Notte – si manifestano come δυνάμεις nella φύσις di ogni cosa: esse, sotto questo profilo, costituirebbero l'unica natura delle cose. Opere invisibili, opere periodiche Quello che, nei versi del poema che ci sono conservati, ancora possiamo "catturare" della grandiosa sintesi cosmologica cui allude Plutarco è lo sforzo di elaborazione cosmogonica. Essa traspare, come abbiamo rilevato, nella insistenza sulla γένεσις, nella centralità del tema della φύσις, ma anche nelle scelte verbali che tendono a marcare - si veda, per esempio, il passaggio dal passato11 di πλῆντο al presente di ἵεται in B12.1-2 - gli effetti durevoli dei processi generativi nella struttura cosmica: αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς ἀκρήτοιο, αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα Quelle più strette [interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato; le successive [si riempirono] di notte, ma insieme si immette una porzione di fuoco. 10 Ibidem. 11 Sia nella forma, da noi accolta, dell'aoristo, sia in quella del perfetto medio (πλῆνται), proposta in alternativa. 553 È infatti probabile che B12 alluda proprio alla formazione e articolazione dello spazio cosmico (come vedremo meglio più avanti), delineando costituzione del centro terrestre del sistema (sfera terrestre e suo interno infuocato), della periferia celeste (sfera solida esterna e sfera ignea interna), e dello spazio intermedio in cui si muovono i corpi celesti. Esplicita in B12.3 è anche l'introduzione della «Dea che tutto governa» (δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ) e della sua funzione "copulatrice": ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6). Ma che lo sguardo del poeta – nei versi superstiti - non sia rivolto tanto alla contemplazione di un ordine da cui ricavare o in cui riscontrare armonie ed equilibri strutturali, ovvero modelli geometrici, quanto al compiaciuto rilevamento della fecondità, dell'impeto (μένος) generativo che nell'universo manifesta la natura, emerge nei versi in cui la Dea – riferendosi a Sole e Luna – insiste non sulla loro posizione relativa nel sistema o sulla loro relazione reciproca (a Parmenide dobbiamo il riconoscimento della riflessione lunare della luce solare), ma sulle loro «opere», rispettivamente «invisibili» (ovvero «distruttive») e «periodiche», cioè sul loro contributo ai processi cosmici. Articolando il programma scientifico annunciato in B10, B11 si riferisce al «come» (πῶς) Terra, Sole, Luna e etere «ebbero impulso a generarsi» (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), dunque al processo di formazione del cosmo a partire dalle due potenze originarie. Il legame con B9, infatti, doveva essere molto stretto, perché, come abbiamo già ricordato, la citazione dei primi 3 versi di B12 è registrata nel seguente contesto: μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως [...] poco più avanti [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente, dicendo così [vv. 1-3]. Se è valida la ricostruzione per lo più accettata, i versi di B12 dovevano seguire di poco B9, e dunque l'introduzione degli elementi materiali (στοιχεία); d'altra parte essere dappresso anche a un primo riferimento alla struttura delle «corone» (στεφάναι) cosmiche, di cui ci dà notizia Aëtius (A37), dal momento che a esse rinviano implicitamente in apertura: αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς ἀκρήτοιο, αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα· ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· Quelle più strette [interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato; le successive [si riempirono] di notte, ma insieme si immette una porzione di fuoco; in mezzo a queste la Dea che tutte le cose governa. Corone cosmiche Il processo cui alludono i versi doveva fornire le coordinate essenziali per la comprensione dell'universo parmenideo, relati- 555 vamente alla sua configurazione e composizione. La scarsità (nei numeri e nella consistenza) dei frammenti superstiti, purtroppo, non ci consentono di delinearle se non in modo estremamente approssimativo: così sappiamo (B10.5-7) del «cielo che tutto intorno cinge» (οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα) e di come esso sia stato vincolato da Necessità (ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη) «a tenere i confini degli astri» (πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων); B11 conferma la presenza di un «Olimpo estremo» (ὄλυμπος ἔσχατος) – il cielo di cui sopra, umschliessende Firmament come lo definisce Diels12 - e di uno spazio etereo (αἰθήρ τε ξυνὸς), con esso (ma la relazione è indefinita nel testo) nominando Terra (che secondo la tradizione delle testimonianze antiche consideriamo il centro del sistema) e pianeti; B12 poi, come abbiamo ricordato, sintatticamente sembra sottendere il riferimento a una struttura ad «anelli» o «corone» (στεφάναι) concentrici. Un senso complessivo a questi cenni cosmologici riusciamo a garantirlo grazie alla preziosa (quanto discussa) testimonianza di Aëtius, che fornisce, partendo da Teofrasto, il quadro d'insieme entro cui collocarli: Π. στεφάνας εἶναι περιπεπλεγμένας, ἐπαλλήλους, τὴν μὲν ἐκ τοῦ ἀραιοῦ, τὴν δὲ ἐκ τοῦ πυκνοῦ· μικτὰς δὲ ἄλλας ἐκ φωτὸς καὶ σκότους μεταξὺ τούτων. καὶ τὸ περιέχον δὲ πάσας τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν ὑπάρχειν, ὑφ’ ὧι πυρώδης στεφάνη, καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν στερεόν, περὶ ὃ πάλιν πυρώδης [sc. Στεφάνη]. τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην. καὶ τῆς μὲν γῆς ἀπόκρισιν εἶναι τὸν ἀέρα διὰ τὴν βιαιοτέραν αὐτῆς ἐξατμισθέντα πίλησιν, τοῦ δὲ πυρὸς ἀναπνοὴν τὸν ἥλιον καὶ τὸν γαλαξίαν κύκλον. συμμιγῆ δ’ ἐξ ἀμφοῖν εἶναι τὴν σελήνην, τοῦ τ’ ἀέρος καὶ τοῦ πυρός. περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων 12 Parmenides Lehrgedicht, cit., p. 104. 556 τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. Parmenide [afferma che] ci sono corone, l'una intorno all'altra in successione, una costituita dal raro, l'altra dal denso; tra queste ve ne sono altre miste di luce e oscurità. Ciò che tutte le avvolge è solido come un muro, sotto il quale è una corona ignea; solido è anche ciò che è al centro di tutto, intorno al quale è, ancora, una corona ignea13. Delle corone miste [di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa e Giustizia che tiene le chiavi14 e Necessità. L'aria è secrezione della Terra, evaporata a causa della sua [della Terra] compressione più intensa, e il Sole e la Via Lattea sono esalazioni del fuoco; la Luna mescolanza di entrambi, dell'aria e del fuoco. L'etere poi avvolge tutto dall'esterno [dalla posizione superiore], e al di sotto di esso è disposto quell'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo; sotto di questo le regioni intorno alla Terra (Aëtius; DK 28 A37). Parmenide avrebbe introdotto una cosmologia fondata sulla nozione di στεφάνη, da intendere probabilmente come «anello» cilindrico (Cicerone traduce coronae similem). Secondo Teofrasto, dunque, il cosmo celeste dell'Eleate era costituito da στεφάναι concentriche, anelli alternativamente di «rado» (ἐκ τοῦ ἀραιοῦ) e 13 Il testo greco καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν στερεόν, περὶ ὃ πάλιν πυρώδης sarebbe in realtà interpolato: come sottolinea Franco Ferrari (nel suo recente Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei presocratici, cit., pp. 88-9), στερεόν è infatti una integrazione, e περὶ ὃ un emendamento. Il testo alternativo restaurato sarebbe: καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν περι < ι > όν πάλιν πυρώδης, «e la circonferenza al centro di tutte [le corone] è di nuovo [una corona] ignea». 14 Il greco stabilito da Diels - κληιδοῦχον Δίκην – è emendazione del testo dei manoscritti: κληροῦχον Δίκην, «Giustizia che indirizza le sorti». Simplicio, dopo aver citato B13, osserva in effetti: καὶ τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν φησιν, «[Parmenide sostiene che la dea] invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso opposto». 557 di «denso» (ἐκ τοῦ πυκνοῦ), che presentavano quindi la purezza degli elementi-principi. Tra questi (μεταξὺ τούτων) erano poi dislocate altre corone «miste di luce e oscurità» (μικτὰς ἐκ φωτὸς καὶ σκότους), con una evidente corrispondenza nei «segni»: ἐκ τοῦ ἀραιοῦ/ἐκ φωτὸς, ἐκ τοῦ πυκνοῦ/ἐκ σκότους. Il cosmo finito era avvolto da una sfera solida (τὸ περιέχον δὲ πάσας τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν ὑπάρχειν), secondo quanto indicato in B10.5: οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, altrimenti evocato (B11.2-3) come ὄλυμπος ἔσχατος. L'espressione conclusiva τὰ περίγεια suggerisce che al centro del sistema cosmico si trovasse la Terra, come confermano, sempre sulla scorta di Teofrasto, Diogene Laerzio e Aëtius (DK 28 A1, A44): πρῶτος δὲ οὗτος τὴν γῆν ἀπέφαινε σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι κεῖσθαι questi [Parmenide] fu il primo a sostenere che la Terra ha forma di sfera e giace al centro [dell'universo] Π., Δημόκριτος διὰ τὸ πανταχόθεν ἴσον ἀφεστῶσαν [τὴν γῆν] μένειν ἐπὶ τῆς ἰσορροπίας οὐκ ἔχουσαν αἰτίαν δι’ ἣν δεῦρο μᾶλλον ἢ ἐκεῖσε ῥέψειεν ἄν· διὰ τοῦτο μόνον μὲν κραδαίνεσθαι, μὴ κινεῖσθαι δέ Parmenide e Democrito sostengono che la Terra, essendo a uguale distanza da tutte le parti, rimane in equilibrio, non avendo causa per cui debba inclinare da una parte piuttosto che dall'altra. Per questo trema soltanto e non si muove. La struttura del cosmo Seguendo le indicazioni di Teofrasto riferite da Aëtius, analogamente al centro sferico (τὴν γῆν [...] σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι κεῖσθαι) dobbiamo supporre sferica almeno la solida parete esterna (τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν) del cosmo - «ciò che tutto avvolge» (τὸ περιέχον δὲ πάσας). Qui incontriamo una prima difficoltà: la 558 consistenza attribuita al contenitore cosmico (appunto la parete solida esterna cui allude Aëtius) dovrebbe comportare – per rispettare i σήματα associati alle due μορφάι – la sua natura densa e oscura; d'altra parte Aëtius sottolinea come l'«etere» avvolga tutto «dall'esterno [ovvero dalla posizione superiore]» (περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος). Diels15 identificava tale «muro» (Mauer) con una sfera di pura Notte, esterna a una sfera di puro Fuoco, che complessivamente costituivano la coppia di στεφάναι concentriche periferiche, contrastate, al centro del sistema, da una coppia corrispondente: una sfera esterna di Notte densa (la superficie terrestre) e una interna di puro fuoco (fuoco vulcanico). Di recente Franco Ferrari 16 ha ribadito questo modello, tra l'altro proponendo una revisione del testo greco di Aëtius che rende coerente l'ipotesi di Diels con le indicazioni che giungevano da Teofrasto. Anche Tarán17 sottolinea la corrispondenza tra τὸ περιέχον στερεὸν (A37), οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα (B10) e ὄλυμπος ἔσχατος (B11), riducendolo a una solida sfera di Notte, sebbene poi la sua struttura cosmica diverga in parte da quella dielsiana, per una diversa interpretazione delle στεινότεραι στεφάναι (coincidenti, secondo lo studioso americano, con gli anelli che contengono le stelle). Altri, tuttavia, hanno contestato questa ricostruzione. Coxon18, per esempio, pur rilevando che la testimonianza di Aëtius appare parafrasi dei versi di B12, e concedendo che l'accostamento al muro di una città (τ ε ί χ ο υ ς δίκην) potrebbe essere stato dello stesso Parmenide (dal momento che ricorre in un contesto pitagorico alla fine di un saggio di Massimo di Tiro, II secolo), denuncia come l'asserzione su τὸ περιέχον στερεὸν risulti fraintendimento di ὄλυμπος ἔσχατος: l'οὐρανὸς di Parmenide non sarebbe dunque solido (cioè composto di Notte), ma etereo, come si ricaverebbe dall'incrocio delle attestazioni di Aëtius e Cicerone: 15 Nella sua edizione del 1897, cit., p. 104. 16 Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 88-90. 17 Op. cit., p. 241. 18 Op. cit., pp. 235-236. 559 περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. L'etere poi avvolge tutto dall'esterno [dalla posizione superiore], e al di sotto di esso è disposto quell'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo; sotto di questo le regioni intorno alla Terra (Aëtius; DK 28 A37) nam P. quidem commenticium quiddam: coronae simile efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et > lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum [...] Parmenide elabora qualcosa di fittizio: simile a una corona (egli la chiama στεφάνην), una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli denomina dio [...] (Cicerone; DK 28 A37). L'orbis lucis di Cicerone coinciderebbe con l'αἰθήρ di Aëtius: Parmenide distinguerebbe il fuoco dall'etere: l'etere – secondo Aëtius – costituirebbe in Parmenide la regione estrema dell'universo, governando il cielo delle stelle fisse (οὐρανὸς) 19. Ruggiu20 interpreta le indicazioni dei frammenti e delle testimonianze in modo analogo. Il termine στεφάνη nel pensiero arcaico designerebbe una formazione di tipo circolare sviluppata intorno a un punto centrale: dal momento che al centro delle στεφάναι in Parmenide sta la Terra, concepita come sferica, la struttura dei cieli sarebbe sferica: la periferia sarebbe occupata da una sfera di fuoco; l'elemento che tutto contiene, ancora igneo, sarebbe della consistenza di un solido muro. D'accordo sostanzialmente Cerri21: nel complesso delle στεφάναι – corone sferiche concentriche – la più esterna, il confine limite dell'universo visibile, sarebbe formata da uno strato di «etere rigido», avvolgente un'altra corona di etere rarefatto e igneo, denominata οὐρανός. 19 Ivi, p. 227. 20 Op. cit., p. 343. 21 Op. cit., p. 266. 560 Parmenide avrebbe previsto, nel suo cosmo, una doppia funzione per il cielo, che ancora può intravedersi nei frammenti: esso è, per un verso, (i) οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, quindi fisicamente limitante, circoscrivente; per altro (ii) vincolante: «Necessità guidando lo vincolò a tenere i confini degli astri» (ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων). Il cielo, dunque, è anche legame per tutti gli elementi celesti: gli astri, dislocati sulle στεφάναι, con i rispettivi moti, immersi al suo interno nell'etere (ἐν αἰθέρι) 22. In effetti risulta evidente, nelle testimonianze, il nesso tra cielo ed etere. Parmenide avrebbe indicato due aree nell'etere celeste: (i) l'etere che si estende tutto intorno al cosmo, libero da astri; (ii) l'etere popolato da astri, condensazioni di fuoco23. A questo alluderebbero le espressioni ἐν τῶι αἰθέρι·e ἐν τῶι πυρώδει di Aëtius A40a: Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι· μεθ’ ὃν τὸν ἥλιον, ὑφ’ ὧι τοὺς ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ ο ὐ ρ α ν ὸ ν καλεῖ Parmenide dispone per primo nell'etere Eos, considerato da lui identico a Espero. Dopo quello dispone il Sole, sotto il quale sono gli astri nella zona ignea che chiama cielo. Alla luce delle indicazioni che si possono ricavare dai frammenti e soprattutto da Aëtius, l'etere si estenderebbe tra la fascia più interna del sistema cosmico - densa di «aria» secreta dalla Terra (τῆς μὲν γῆς ἀπόκρισιν εἶναι τὸν ἀέρα A37) - e la volta esterna (ὄλυμπος ἔσχατος), che tuttavia potrebbe essere stata concepita a sua volta come etere rigido. Il termine οὐρανὸς appare nelle testimonianze di Aëtius con i significati correnti nella tradizione peripatetica (Teofrasto): molto chiaramente la struttura celeste delineata e il lessico adottato riflettono la lezione di Aristotele: 22 Ruggiu, op. cit., p. 336. 23 Conche, op. cit., p. 213. 561 Εἴπωμεν δὲ πρῶτον τί λέγομεν εἶναι τὸν οὐρανὸν καὶ ποσαχῶς, ἵνα μᾶλλον ἡμῖν δῆλον γένηται τὸ ζητούμενον. Ἕνα μὲν οὖν τρόπον οὐρανὸν λέγομεν τὴν οὐσίαν τὴν τῆς ἐσχάτης τοῦ παντὸς περινὸν περιφορᾶς, ἢ σῶμα φυσικὸν τὸ ἐν τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός· εἰώθαμεν γὰρ τὸ ἔσχατον καὶ τὸ ἄνω μάλιστα καλεῖν οὐρανόν, ἐν ᾧ καὶ τὸ θεῖον πᾶν ἱδρῦσθαί φαμεν. Ἄλλον δ’ αὖ τρόπον τὸ συνεχὲς σῶμα τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός, ἐν ᾧ σελήνη καὶ ἥλιος καὶ ἔνια τῶν ἄστρων· καὶ γὰρ ταῦτα ἐν τῷ οὐρανῷ εἶναί φαμεν. Ἔτι δ’ ἄλλως λέγομεν οὐρανὸν τὸ περιεχόμενον σῶμα ὑπὸ τῆς ἐσχάτης περιφορᾶς· τὸ γὰρ ὅλον καὶ τὸ πᾶν εἰώθαμεν λέγειν οὐρανόν. Τριχῶς δὴ λεγομένου τοῦ οὐρανοῦ, τὸ ὅλον τὸ ὑπὸ τῆς ἐσχάτης περιεχόμενον περιφορᾶς ἐξ ἅπαντος ἀνάγκη συνεστάναι τοῦ φυσικοῦ καὶ τοῦ αἰσθητοῦ σώματος διὰ τὸ μήτ’εἶναι μηδὲν ἔξω σῶμα τοῦ οὐρανοῦ μήτ’ ἐνδέχεσθαι γενέσθαι. Prima dobbiamo dichiarare che cosa diciamo essere il cielo e in quanto modi lo diciamo, perché diventi più chiaro l'oggetto d'indagine. In un senso dunque diciamo cielo la sostanza dell'estrema volta del tutto, cioè il corpo naturale nell'estrema volta del tutto; è appunto la regione estrema e più elevata che siamo soliti chiamare cielo, in cui affermiamo aver sede tutto quanto è divino. In altro senso [diciamo cielo] il corpo contiguo all'estrema volta del tutto, in cui sono la Luna e il Sole e alcuni degli astri; anche questi, in effetti, affermiamo essere nel cielo. In un altro senso ancora, diciamo cielo il corpo abbracciato [compreso] dall'estrema volta; siamo soliti, infatti, definire cielo l'universo e il tutto [ovvero: l'intero universo]. Essendo inteso il cielo in questi tre modi, l'intero abbracciato dall'estrema volta consiste di necessità di tutto il corpo naturale e sensibile, poiché nessun corpo esiste, 562 né è possibile si generi fuori del cielo (Aristotele, De caelo I, 9 278 a9-25). È plausibile che nella propria sintesi Aristotele tenesse conto anche della cosmologia parmenidea ovvero di un modello analogo o condiviso (pitagorico?) dall'Eleate: in effetti «il corpo naturale nell'estrema volta del tutto» (σῶμα φυσικὸν τὸ ἐν τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός) richiama sia «il cielo che tutto intorno cinge» (B10.5 οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα) sia l'«Olimpo estremo» (B11.2- 3 ὄλυμπος ἔσχατος), anche per la sua associazione al «divino» (ἐν ᾧ καὶ τὸ θεῖον πᾶν ἱδρῦσθαί φαμεν). È per altro chiaro che quando Aëtius (A40a) parla di «astri nella zona ignea che [Parmenide] chiama cielo» (ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ οὐρανὸν καλεῖ) si riferisce a ciò che Aristotele indicava come «il corpo contiguo all'estrema volta del tutto, in cui sono la Luna e il Sole e alcuni degli astri» (τὸ συνεχὲς σῶμα τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός, ἐν ᾧ σελήνη καὶ ἥλιος καὶ ἔνια τῶν ἄστρων). Interessante il rilievo aristotelico circa l'accezione "cosmica" di οὐρανός: «l'intero abbracciato dall'estrema volta consiste di necessità di tutto il corpo naturale e sensibile, poiché nessun corpo esiste, né è possibile si generi fuori del cielo». La tentazione di una lettura "cosmica" di Parmenide B8 è molto forte: la compiutezza dell'essere manifestata dalla sfericità, traduceva in immagine ontologica la perfezione che la doxa poteva riscontrare nell'universo compiuto e intero (τὸ ὅλον καὶ τὸ πᾶν) di cui parla Aristotele. In conclusione non si può dunque non ribadire la difficoltà nella ricostruzione del quadro cosmologico del poema: troppo frammentarie le citazioni e troppo condizionate dal lessico e dalla concettualità della posteriore tradizione le testimonianze. Come abbiamo constatato, sono pochi i dati certi sulla struttura cosmica: (i) la forma complessivamente sferica del centro (Terra) e della periferia (τὸ περιέχον, ovvero ὄλυμπος ἔσχατος, «Olimpo estremo»), pensata come una parete solida (τὸ περιέχον δὲ πάσας τείχους δίκην στερεὸν); 563 (ii) l'esistenza di una prima fascia celeste superiore eterea, composta cioè di corone, anelli cilindrici, di puro Fuoco; di una seconda fascia intermedia di corone in cui Fuoco e Notte sono compresenti; di una terza fascia a ridosso della superficie della Terra, corrispondente a una atmosfera aerea prodotta dalle evaporazioni terrestri; (iii) la distribuzione dei corpi celesti tra le prime due fasce (sulla loro disposizione le indicazioni non sono concordi). La δαίμων e il cosmo Il contesto e la citazione di B12, insieme alla relativa testimonianza di Aëtius, pongono un ulteriore problema interpretativo: quello relativo alla posizione e al ruolo della δαίμων che lì viene evocata: μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως ‘αἱ γὰρ... κυβερνᾶι ’. [...] καὶ ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων σαφῶς παραδέδωκεν ὁ Π. λέγων· ‘αἱδ ’ ἐπὶ... θηλυτέρωι ’. [...] καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μέσωι πάντων ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δαίμονα τίθησιν. poco dopo [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente, dicendo così [vv. 1-3]. [...] La causa efficiente non solo dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono alla generazione, Parmenide ha esposto chiaramente, dicendo [vv. 2-6] [...] Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει 564 πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6) τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone miste [di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità (Aëtius; DK 28 A37). Il neoplatonico Anatolio di Laodicea (III secolo d.C.) offre un'ulteriore indicazione: πρὸς τούτοις ἔλεγον περὶ τὸ μέσον τῶν τεσσάρων στοιχείων κεῖσθαί τινα ἑναδικὸν διάπυρον κύβον, οὗ τὴν μεσότητα τῆς θέσεως καὶ Ὅμηρον εἰδέναι [...]. ἐοίκασι δὲ κατά γε τοῦτο κατηκολουθηκέναι τοῖς Πυθαγορικοῖς οἵ τε περὶ Ἐμπεδοκλέα καὶ Παρμενίδην καὶ σχεδὸν οἱ πλεῖστοι τῶν πάλαι σοφῶν, φάμενοι τὴν μοναδικὴν φύσιν ἑστίας τρόπον ἐν μέσωι ἱδρῦσθαι καὶ διὰ τὸ ἰσόρροπον φυλάσσειν τὴν αὐτὴν ἕδραν Oltre a queste cose [i Pitagorici] sostenevano che nel mezzo dei quattro elementi sta un cubo unitario di fuoco, la cui posizione centrale era nota anche a Omero [...]. Sembra che abbiano in questo seguito i Pitagorici i discepoli di Empedocle e Parmenide e per lo più i [lett.: «quasi la maggioranza dei»] sapienti antichi, dal momento che affermano che la natura monadica è posta al centro come focolare [Estia], e che conserva la stessa sede in 565 forza dell'equiposizione [dell'equilibrio rispetto alla perimetro del sistema] (DK 28 A44). Indubbiamente il cosmo parmenideo presenta affinità con quello filolaico, quale possiamo ricostruire da frammenti e testimonianze: ὁ κόσμος εἷς ἐστιν, ἤρξατο δὲ γίγνεσθαι ἀπὸ τοῦ μέσου καὶ ἀπὸ τοῦ μέσου εἰς τὸ ἄνω διὰ τῶν αὐτῶν τοῖς κάτω. ἔστι < γὰρ > τὰ ἄνω τοῦ μέσου ὑπεναντίως κείμενα τοῖς κάτω. τοῖς γὰρ κατωτάτω τὰ μέσα ἐστὶν ὥσπερ τὰ ἀνωτάτω καὶ τὰ ἄλλα ὡσαύτως. πρὸς γὰρ τὸ μέσον κατὰ ταὐτά ἐστιν ἑκάτερα, ὅσα μὴ μετενήνεκται Il cosmo è uno; iniziò a formarsi dal mezzo e dal mezzo verso l'alto, e attraverso gli stessi passaggi verso il basso. Le cose che sono al di sopra del mezzo giacciono in senso opposto a quelle che sono al di sotto. In effetti le cose che sono in mezzo si trovano rispetto a quelle sotto come rispetto a quelle sopra e le altre in modo simile: dal momento che rispetto al mezzo entrambe si trovano nella stessa relazione, solo capovolte (DK 44 B17) Φ. πῦρ ἐν μέσωι περὶ τὸ κέντρον ὅπερ ἑστίαν τοῦ παντὸς καλεῖ [B 7] καὶ Διὸς οἶκον καὶ μη τέραθεῶν βωμόν τε καὶ συνοχὴν καὶ μέτρον φύσεως. καὶ πάλιν πῦρ ἕτερον ἀνωτάτω τὸ περιέχον. πρῶτον δ’ εἶναι φύσει τὸ μέσον, περὶ δὲ τοῦτο δέκα σώματα θεῖα χορεύειν, [οὐρανόν] < μετὰ τὴν τῶν ἀπλανῶν σφαῖραν > τοὺς ε πλανήτας, μεθ’ οὓς ἥλιον, ὑφ’ ὧι σελήνην, ὑφ’ ἧι τὴν γῆν, ὑφ’ ἧι τὴν ἀντίχθονα, μεθ’ ἃ σύμπαντα τὸ πῦρ ἑστίας περὶ τὰ κέντρα τάξιν ἐπέχον. τὸ μὲν οὖν ἀνωτάτω μέρος τοῦ περιέχοντος, ἐν ὧι τὴν εἰλικρίνειαν εἶναι τῶν στοιχείων, ὄ λ υ μ π ο ν καλεῖ, τὰ δὲ ὑπὸ τὴν τοῦ ὀλύμπου φοράν, ἐν ὧι τοὺς πέντε πλανήτας μεθ’ ἡλίου καὶ σελήνης τετάχθαι, κόσμον, τὸ δ’ ὑπὸ τούτοις ὑποσέληνόν τε καὶ περίγειον μέρος, ἐν ὧι τὰ τῆς φιλομεταβόλου γενέσεως, 566 ο ὐ ρ α ν ό ν. καὶ περὶ μὲν τὰ τεταγμένα τῶν μετεώρων γίνεσθαι τὴν σ ο φ ί α ν, περὶ δὲ τῶν γινομένων τὴν ἀταξίαν τὴν ἀ ρ ε τ ή ν, τελείαν μὲν ἐκείνην ἀτελῆ δὲ ταύτην. Filolao definisce il fuoco in mezzo attorno al centro «focolare del tutto [dell'universo]» e «casa di Zeus» e «madre degli dei», «altare» e «vincolo» e «misura della natura»; l'altro fuoco in alto invece «l'involucro». Sostiene che primo per natura sia quello in mezzo, intorno a cui si muovono dieci corpi divini, primo il cielo delle stelle fisse, poi i cinque pianeti, poi il Sole, quindi la Luna, poi la Terra, poi l'Antiterra; dopo queste cose il fuoco del focolare, che risiede intorno al centro. Chiama la parte più alta dell'involucro, in cui ritiene risieda la purezza degli elementi, «Olimpo»; quella che porta sotto l'Olimpo, in cui sono collocati i 5 pianeti con il Sole e la Luna, «cosmo»; dopo queste, poi, la parte sublunare e circumterrestre, entro cui sono le cose della generazione mutevole, «cielo». E intorno alla disposizione delle cose celesti verte la sapienza, intorno al disordine delle cose in divenire verte la virtù: quella perfetta, questa imperfetta (Aëtius; DK 44 A16). È probabile che alcuni particolari delle concezioni pitagoriche siano stati utilizzati per ricostruire a posteriori il quadro del cosmo parmenideo, sempre che quegli elementi non fossero sullo sfondo della stessa elaborazione eleatica, almeno come tratti consolidati di una tradizione. Aëtius (che si appoggia alla lezione di Teofrasto) riferisce come anche Filolao definisse ὄλυμπος «la parte più alta dell'involucro, in cui ritiene risieda la purezza degli elementi», distribuendo poi gli astri in due regioni – κόσμος e οὐρανός – compatibilmente con la rappresentazione parmenidea. La citazione filolaica sottolinea la preoccupazione per la struttura sferica, che potrebbe riflettersi nell’insistenza delle testimonianze sul modello arcaico delle «corone», probabilmente di matrice anassimandrea, in Parmenide: al pensatore di Mileto punta anche l'argomento per la centralità della Terra, precoce applicazione del principio di ragion sufficien- 567 te, impiegato da Parmenide anche in sede ontologica, nella sezione sulla Verità (vv. B8.9 ss.): Π., Δημόκριτος διὰ τὸ πανταχόθεν ἴσον ἀφεστῶσαν [τὴν γῆν] μένειν ἐπὶ τῆς ἰσορροπίας οὐκ ἔχουσαν αἰτίαν δι’ ἣν δεῦρο μᾶλλον ἢ ἐκεῖσε ῥέψειεν ἄν· Parmenide e Democrito sostengono che la Terra, essendo a uguale distanza da tutte le parti, rimanga in equilibrio, non avendo causa per cui debba inclinare da una parte piuttosto che dall'altra (Aëtius; DK 28 A44). L'accostamento alla posteriore cosmologia (e cosmogonia) filolaica - in cui si depositava e sistemava plausibilmente la primitiva lezione pitagorica - è utile, tuttavia, soprattutto nella determinazione del ruolo cosmico della δαίμων parmenidea. Simplicio, nelle due citazioni che costituiscono B12, sembra interessato a rilevare come Parmenide postulasse nella sua fisica una potenza distinta dalla forma Fuoco come «causa efficiente» (ποιητικὸν αἴτιον): «la dea che governa tutte le cose». Secondo Coxon24, il rilievo del commentatore sarebbe stato diretto contro il modello interpretativo della doxa proposto da Alessandro sulla scorta di Teofrasto, secondo il quale al Fuoco spettava il ruolo di ποιητικὸν αἴτιον e alla terra (Notte) quello di ὕλη: καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μέσωι πάντων ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione. D'altra parte in B12 leggiamo che: ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ al centro di queste [corone] la Dea che tutte le cose governa, 24 Op. cit., p. 234. 568 e Aëtius sottolinea come: τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone miste [di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità, mentre Plutarco, citando B13, osserva: διὸ Π. μὲν ἀποφαίνει τὸν Ἔρωτα τῶν Ἀφροδίτη ς ἔργων πρεσβύτατον ἐν τῆι κοσμογονίαι γράφων ‘πρώτιστον... πάντων’ «perciò Parmenide mostra Eros come la prima delle opere di Afrodite scrivendo nella cosmogonia [B13]». Le testimonianze e i frammenti superstiti consentono di affermare che effettivamente Parmenide attribuiva alla δαίμων una funzione cosmogonica (πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει, «di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione» B12.4). Evidentemente aperta è invece la questione della sua collocazione cosmologica e della sua identificazione. La dislocazione cosmica della δαίμων L'indicazione di Plutarco è un punto di partenza: oggi si è infatti convinti che Plutarco non solo avesse accesso a una copia del poema di Parmenide, ma potesse attingere a una versione attendibile25. Il passo propone di fatto l'identificazione della δαίμων con Afrodite: Simplicio sottolinea come la dea sia «causa efficiente 25 Su questo punto è molto importante la messa a fuoco di Passa, op. cit, pp. 27- 28. 569 non solo dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono alla generazione» (ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων); Plutarco fa di Afrodite la generatrice di Eros e dunque nomina la δαίμων. Ovviamente non possiamo stabilire se l'identificazione fosse per lui scontata o solo una speculazione ovvero riscontrata invece nel testo, ma la precisazione: «nella cosmogonia» (ἐν τῆι κοσμογονίαι) - sembra avvalorare l'ultima possibilità. In ogni caso, nella misura in cui B12 assegna alla δαίμων il governo di tutto, B13 sembra suggerire che ciò avvenga attraverso la generazione di Eros e il controllo dell'accoppiamento26. D'altra parte, poiché la testimonianza di Aëtius colloca la dea al centro degli anelli misti di Notte e Fuoco, assimilandola di fatto a uno di essi, è possibile, incrociando le due testimonianze, ipotizzare che essa coincidesse con un'entità astrale concreta, fonte fisica dell'influenza cosmogonica, Afrodite appunto. Parmenide, il primo a identificare Eos (Ἕως ovvero Fosforo/Φωσφόρος, la stella del mattino) e Espero (Ἕσπερον, la stella della sera): Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι Parmenide per primo pone nell'etere Eos, considerato da lui identico a Espero (DK 28 A40a), potrebbe aver dato per primo il nome di Afrodite all'astro27. Contro questa identificazione e collocazione si pongono le informazioni che giungono dal contesto delle citazioni di Simplicio, che chiaramente parla a favore della centralità cosmica della δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ: in effetti, l'espressione parmenidea - ἐν δὲ μέσῳ τούτων - con cui essa viene introdotta, è ambigua, potendosi riferire sia al centro delle corone miste (come appare più probabile nel contesto) sia al centro dell'universo. Difficile pensare, tuttavia, che il commentatore, che certamente disponeva di una 26 Cerri, op. cit., pp. 267-268. 27 Ibidem. 570 copia del poema, potesse fraintenderne il testo su questo punto; né la sua indicazione contraddice quella di Plutarco, il quale si limita a identificare la δαίμων come Ἀφροδίτης. La testimonianza di Anatolio di Laodicea è dello stesso tenore, marcando in particolare la continuità con le cosmologie e cosmogonie pitagoriche: la «natura monadica» (τὴν μοναδικὴν φύσιν) è posta da Parmenide (ed Empedocle) al centro (ἐν μέσωι) «al modo di un focolare» (ἑστίας τρόπον). I riscontri delle citazioni di Filolao e delle relative testimonianze confermano che nella tradizione pitagorica del V secolo «il fuoco in mezzo attorno al centro» (πῦρ ἐν μέσωι περὶ τὸ κέντρον) coincideva con il divino «focolare del tutto» (ἑστίαν τοῦ παντὸς), ovvero «dimora di Zeus» (Διὸς οἶκον) o «madre degli dei» (μητέραθεῶν), connotazione che ritorna anche negli Inni orfici: [Ἑστία] ἣ μέσον οἶκον ἔχεις πυρὸς ἀενάοιο Hestia [...] che hai dimora al centro del fuoco eterno (Orphica, Hymnii 84.1-2) ἐκ σέο [Ἑστία] δ’ ἀθανάτων τε γένος θνητῶν τ’ ἐλοχεύθη, da te [Hestia] ebbe nascita la stirpe degli immortali e dei mortali (Orphica, Hymnii 27.7)28, e che ritroviamo nel contesto simpliciano della citazione di B13: ταύτην [δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ] καὶ θεῶν αἰτίαν εἶναί φησι λέγων [B13] la [dea che tutto governa] considera causa anche degli dei, affermando [B13]. La collocazione della δαίμων al centro del sistema cosmico, le possibili convergenze con il pitagorismo del V secolo sul motivo della Hestia divina, potrebbero avvalorare il modello cosmologico 28 F. Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 104-5. 571 proposto da Diels, per cui il nucleo centrale dell'universo risulterebbe una sfera di puro Fuoco, circondata dalla superficie terrestre (sfera di pura Notte). Coxon29, rilevando le difficoltà implicite nelle testimonianze di Aëtius e Simplicio, ha sostenuto, sulla scorta di Cicerone (A37), una diversa soluzione circa natura e collocazione della divinità. Come abbiamo già riscontrato, in Cicerone, infatti, la dea appare come «una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo»: coronae simile efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et > lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum immagina una corona (egli la chiama στεφάνην), cioè una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli denomina dio; incrociando il dato cosmologico con quello fornito da Aëtius: περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. L'etere poi tutto avvolge dall'esterno [dalla posizione superiore] e al di sotto di esso è posto proprio l'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo (Aëtius; DK 28 A37), si potrebbe concludere – come abbiamo visto - che l'orbis lucis (secondo Cicerone, indicata da Parmenide come «dio»), la «corona» ignea e luminosa che abbraccia il cielo, coincida con l'αἰθήρ di Aëtius, che avvolge οὐρανόν. Questa identificazione sarebbe compatibile sia con la tradizione peripatetica (che attribuiva al fuoco il ruolo di principio efficiente), sia con i dati relativi alla tradizione ionica: ἅπαντα γὰρ ἢ ἀρχὴ ἢ ἐξ ἀρχῆς, τοῦ δὲ ἀπείρου οὐκ ἔστιν ἀρχή· εἴη γὰρ ἂν αὐτοῦ πέρας. ἔτι δὲ καὶ ἀγένητον καὶ ἄφθαρτον ὡς ἀρχή τις οὖσα· τό τε γὰρ 29 Op. cit., pp.239 ss.. 572 γενόμενον ἀνάγκη τέλος λαβεῖν, καὶ τελευτὴ πάσης ἐστὶ φθορᾶς. διὸ καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν, ὥς φασιν ὅσοι μὴ ποιοῦσι παρὰ τὸ ἄπειρον ἄλλας αἰτίας οἶον νοῦν ἢ φιλίαν. καὶ τοῦτ’εἶναι τὸ θεῖον· ἀθάνατον γὰρ καὶ ἀνώλεθρον, ὥς φησιν ὁ Ἀναξίμανδρος καὶ οἱ πλεῖστοι τῶν φυσιολόγων Ogni cosa, in effetti, è o principio o [deriva] da principio; dell'apeiron però non v'è principio, dal momento che vi sarebbe un limite di esso [apeiron]. E ancora, esso è ingenerato e incorruttibile, in quanto è un principio: è necessario, infatti, che ciò che è generato abbia una fine, e vi è un termine finale di ogni corruzione. Proprio per questo motivo diciamo che di esso [principio] non vi sia principio, ma che sembra essere esso stesso principio di tutte le altre cose, e comprenderle [abbracciarle] tutte e tutte governarle, come affermano quanti non pongono oltre all'infinito altre cause, per esempio Intelligenza o Amore. E questo è il divino: è infatti senza morte e senza distruzione, come sostengono Anassimandro e la maggioranza degli studiosi della natura. (Aristotele; DK 12 A15) Ἀ. Εὐρυστράτου Μιλήσιος ἀρχὴν τῶν ὄντων ἀέρα ἀπεφήνατο· ἐκ γὰρ τούτου πάντα γίγνεσθαι καὶ εἰς αὐτὸν πάλιν ἀναλύεσθαι. 'οἶον ἡ ψυχή, φησίν, ἡ ἡμετέρα ἀὴρ οὖσα συγκρατεῖ ἡμᾶς, καὶ ὅλον τὸν κόσμον πνεῦμα καὶ ἀὴρ περιέχει' (λέγεται δὲ συνωνύμως ἀὴρ καὶ πνεῦμα). Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, affermò che principio delle cose è l'aria: da essa tutto si genera e in essa di nuovo si risolve. Dice: «come la nostra anima, che è aria, ci governa, così soffio e aria abbracciano l'interno universo» (aria e soffio sono utilizzati come sinonimi) (Aëtius; DK 13 B2) εἶναι γὰρ ἓν τὸ σοφόν, ἐπίστασθαι γνώμην, ὁτέη ἐκυβέρνησε πάντα διὰ πάντων 573 esiste una sola sapienza: riconoscere la ragione, che governa tutto attraverso tutto (Diogene Laerzio; DK 22 B41) [λέγει δὲ καὶ τοῦ κόσμου κρίσιν καὶ πάντων τῶν ἐν αὐτῶι διὰ πυρὸς γίνεσθαι λέγων οὕτως] τὰ δὲ πάντα οἰακίζει Κεραυνός, τουτέστι κατευθύνει, κεραυνὸν τὸ πῦρ λέγων τὸ αἰώνιον. λέγει δὲ καὶ φρόνιμον τοῦτο εἶναι τὸ πῦρ καὶ τῆς διοικήσεως τῶν [ὅλων αἴτιον] [Eraclito sostiene anche che abbia luogo un giudizio sul mondo e su tutto ciò che si trova in esso, attraverso il fuoco, in tal modo:] il fulmine dirige il tutto, ossia [il dio] lo guida [con il fulmine], intendendo con fulmine il fuoco eterno. Dice anche che questo fuoco è dotato di intelligenza, e che esso è [causa] dell'ordinamento [dell'universo] (Ippolito; DK 22 B64). Le assonanze espressive potrebbero avvalorare la convergenza parmenidea sulle posizioni di coloro che, alle origini della speculazione cosmologica, avevano accennato alla divinità della naturaprincipio (καὶ τοῦτ’εἶναι τὸ θεῖον), assegnandole anche un compito direttivo sui processi cosmici: «abbracciare e pilotare tutte le cose» (Anassimandro: περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν), ovvero «abbracciare l'universo» (Anassimene: ὅλον τὸν κόσμον περιέχει), in analogia con il controllo dell'anima sulle nostre funzioni vitali (ἡ ψυχή συγκρατεῖ ἡμᾶς). In B12.4, in effetti, ritroviamo il verbo ἄρχει, che, come vuole Coxon30, potrebbe alludere direttamente ad Anassimandro (cui Teofrasto riconosce il merito di aver introdotto il termine tecnico di ἀρχὴ). È tuttavia possibile che la parmenidea δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ, da Plutarco identificata come Ἀφροδίτης, sia in realtà solo l'espressione mitica della potenza generatrice cui alluderanno Empedocle e Lucrezio, il quale - ci ricorda Ferrari31 - utilizzava espressioni analoghe a quelle del filosofo greco (quae... rerum naturam sola gubernas, I.21). A insistere per questa lettura è so- 30 Ivi, p. 242. 31 Ferrari, op. cit., p. 106 nota. 574 prattutto Ruggiu32, per il quale la δαίμων sembra essere la personificazione della stessa forza vivificatrice (mana) presente in tutte le cose: l'impulso immanente alla generazione (B11.3-4 ὡρμήθησαν γίγνεσθαι). Nel senso di una attribuzione ad Afrodite della forza demiurgica è orientato anche il commentatore (IV secolo) della teogonia (V secolo) del papiro Derveni, e conferme ulteriori si potrebbero cogliere nel riferimento alla nascita di Eros, che potrebbe coinvolgere il complesso sfondo delle presunte teogonie orfiche, documentate negli Uccelli (vv. 695-9) di Aristofane. La funzione cosmo-teogonica della δαίμων B12 allude quindi chiaramente a un processo cosmogonico e, in relazione a esso, al ruolo direttivo (κυϐερνᾷ, ἄρχει) della δαίμων, la quale «spinge all'unione» (πέμπουσα μιγῆν)·di «femminile» (θῆλυ) e «maschile» (ἄρσεν): ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6). Un ruolo, come sappiamo, ben documentato nel linguaggio peripatetico di Simplicio (contesto B12): 32 Op. cit., p. 344. 575 μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως ‘αἱ γὰρ... κυβερνᾶι ’. καὶ ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων σαφῶς παραδέδωκεν ὁ Π. λέγων· ‘αἱδ’ἐπὶ... θηλυτέρωι ’. [...] καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μέσωι πάντων ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν. poco dopo [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente, dicendo così [vv. 1-3]. [...] La causa efficiente non solo dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono alla generazione, Parmenide ha esposto chiaramente, dicendo [vv. 2-6] [...] Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione, e connesso a una (probabilmente correlata) analoga funzione teogonica: ταύτην καὶ θεῶν αἰτίαν εἶναί φησι λέγων ‘πρώτιστον... πάντων ’ κτλ. καὶ τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν φησιν. sostiene che questa stessa [la dea] sia causa anche degli dei, dicendo [B13], e sostiene che invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso opposto (Simplicio; contesto B13). L'indicazione di Simplicio suggerisce una prossimità almeno tematica tra B12 e B13: πρώτιστον μὲν Ἔρωτα θεῶν μητίσατο πάντων… Primo tra gli dei tutti ella concepì Amore, confermata dalla testimonianza di Plutarco (contesto B13): 576 διὸ Π. μὲν ἀποφαίνει τὸν τῶν Ἀφροδίτης ἔργων πρεσβύτατον ἐν τῆι κοσμογονίαι γράφων ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν... π ά ν τ ω ν ’ perciò Parmenide mostra Eros come la prima delle opere di Afrodite scrivendo nella cosmogonia [B13]. Un'ulteriore cerniera tra i due frammenti si può cogliere nel contesto della citazione aristotelica di B13 (Metafisica I, 4 984b23-7): ὑποπτεύσειε δ’ ἄν τις Ἡσίοδον πρῶτον ζητῆσαι τὸ τοιοῦτον, κἂν εἴ τις ἄλλος ἔρωτα ἢ ἐπιθυμίαν ἐν τοῖς οὖσιν ἔθηκεν ὡς ἀρχὴν οἷον καὶ Π.· οὗτος γὰρ κατασκευάζων τὴν τοῦ παντὸς γένεσιν ‘πρώτιστον μέν, φησίν Ἔρωτα … πάντων’ Si potrebbe sospettare che Esiodo per primo abbia ricercato una [causa] del genere, anche se qualcun altro pose negli enti, come principio, amore o desiderio, per esempio Parmenide. Questi, infatti, ricostruendo la genesi del tutto, affermò: [B13]. Ancora utile, sebbene condizionata dall'esplicita liquidazione (e incomprensione) della strategia parmenidea, è anche la testimonianza di Cicerone (DK 28 A37): nam P. quidem commenticium quiddam: coronae simile efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et > lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum; in quo neque figuram divinam neque sensum quisquam suspicari potest. multaque eiusdem < modi > monstra: quippe qui B e l l u m, qui Discordiam, qui Cupiditatem [B 13] ceteraque generis eiusdem ad deum revocat, quae vel morbo vel somno vel oblivione vel vetustate delentur; eademque de sideribus, quae reprehensa in alio iam in hoc omittantur Parmenide immagina qualcosa di fittizio: una corona (egli la chiama στεφάνην), una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli chiama dio; in cui non si 577 può supporre ci sia figura divina né sensibilità alcuna. Inoltre, indica moltre altre assurdità di tale specie: riferisce infatti dio a Guerra, Discordia, Passione [B13] e tutte le altre cose del genere, le quali sono distrutte o da malattia o dal sonno o dall'oblio o dalla vecchiaia. Le medesime cose sono dette anche degli astri: essendo già state criticate in altro luogo, possiamo ometterle in questo. Quelli che abbiamo elencato sono i testi che complessivamente autorizzano la speculazione sulla cosmo-teogonia parmenidea. Pochi gli elementi sufficientemente certi: (i) la testimonianza di Simplicio – che pone la funzione della δαίμων in relazione diretta con i «due elementi» (περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων) Fuoco e Notte – insiste decisamente sulla divinità come «causa efficiente» (ποιητικὸν αἴτιον) «una e comune» (ἓν κοινὸν), origine di ogni generazione (γένεσις); (ii) la sua causalità efficiente appare come impulso alla mescolanza (πέμπουσα μιγῆν) dei due contrari: la divinità è causa comune in quanto, attraverso la mescolanza delle δυνάμεις di Fuoco e Notte, rende possibile quanto i mortali definiscono generazione e corruzione33; (iii) a nascita e morte allude probabilmente Simplicio quando osserva che «[la dea] invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso opposto» (τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν); allo stesso fenomeno si riferisce Parmenide in B12.4 con l'espressione: πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει di tutte le cose sovrintende al doloroso parto e all'unione. Conche (tra gli altri) si è soffermato34 sull'uso di στυγερός (da στυγέω, «avere in orrore»), che a suo credere rivelerebbe il pessimismo di fondo di Parmenide, portato di una Stimmung riscontrata soprattutto nella poesia arcaica: un pessimismo proiettato nel 33 Ivi, p. 340. 34 Op. cit., pp. 225 ss.. 578 suo caso, rispetto alla poesia, dalla condizione umana al divenire nel suo complesso; (iv) la mescolanza (μῖξις) è ulteriormente connotata come (o almeno accostata a) una forma di unione sessuale: questo spiega probabilmente il ruolo di Eros. Simplicio, infatti, introducendo B13, precisa che la δαίμων è anche «causa degli dei» (θεῶν αἰτία), mentre Aristotele esplicitamente attribuisce al concepimento di Eros una funzione cosmogonica («ricostruendo la genesi del tutto», κατασκευάζων τὴν τοῦ παντὸς γένεσιν); (v) a dire di Cicerone, altre figure divine (Guerra, Discordia, Passione) dovevano cooperare all'attività direttiva della δαίμων: evidente l'analogia con le forze cosmogoniche di Empedocle (che, ribadiamo, potrebbe essersi ispirato direttamente al modello parmenideo). In quella che Plutarco chiama κοσμογονία, è possibile dunque che Parmenide impiegasse un doppio registro: l'esposizione propriamente cosmogonica era accompagnata e intrecciata a una versione immediatamente teogonica. Ciò è suggerito, da un lato, dall'uso, in B11.3-4, della formula «ebbero impulso a generarsi» (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), che sembra implicare una spinta immanente, dall'interno della natura stessa del cosmo, dall'altro, dalla attribuzione aristotelica a Eros di una funzione analoga. Secondo Ruggiu35 l'impulso (cosmogonico) a congiungersi e mescolarsi (e quindi il processo di costituzione delle cose) sarebbe guidato dalla potenza immanente, da quella forza vivificatrice denominata δαίμων (o forse Ἀφροδίτης), di cui Eros (insieme alle altre divinità cui allude Cicerone) sarebbe espressione teogonica e cosmogonica a un tempo, nella misura in cui l'unione sessuale rientra tipicamente nelle forme di congiunzione\mescolamento, essenziali, nello schema parmenideo che prevedeva due principi elementari di base, per produrre generazione e corruzione. Sarebbe, insomma, in vista dell'«odioso parto» e dell'«unione» che la dea avrebbe «concepito» (letteralmente «meditato, pensato») Eros36. Si può dunque osservare ulteriormente che: 35 Op. cit., p. 340. 36 Coxon, op. cit., p. 242. 579 (vi) la δαίμων, di cui si sottolineano, con linguaggio nautico (κυϐερνάω: pilotare, timonare), sia il ruolo di governo, sia l'azione di dare inizio ai processi, sembra dominarli in ultima analisi attraverso il pensiero (μητιάω: meditare, deliberare, ma anche concepire, inventare). A dispetto del contesto e della tradizione teogonica evocata, il poeta intenderebbe così rilevare «un rapporto di pura filiazione concettuale»37. 37 Cerri, op. cit., p. 273. I quattro frammenti sono propriamente delle schegge del testo del poema (B14a, per altro, normalmente non considerato frammento autentico ma imitazione aristotelica), di difficile contestualizzazione, e il cui valore è discusso. È significativo, in particolare, il fatto che B14 e B15 siano citati da Plutarco non per documentare il sistema astronomico di Parmenide, ma, strumentalmente, per illustrare altre relazioni (B14) ovvero (B15) per le implicazioni etiche (obbedienza volontaria a un superiore)1: οὐδὲ γὰρ ὁ πῦρ μὴ λέγων εἶναι τὸν πεπυρωμένον σίδηρον ἢ τὴν σελήνην ἥλιον, ἀλλὰ κατὰ Παρμενίδην [B14: νυκτιφαὲς περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς] ἀναιρεῖ σιδήρου χρῆσιν ἢ σελήνης φύσιν. nemmeno chi nega che il ferro incandescente sia fuoco o la Luna Sole, ma come Parmenide: «di notte splendente, vagando intorno alla Terra, luce d'altri» – elimina l'uso del ferro o la natura della Luna. τῶν ἐν οὐρανῶι τοσούτων τὸ πλῆθος ὄντων μόνη φωτὸς ἀλλοτρίου δεομένη περίεισι κατὰ Π. αἰεὶ παπταίνουσα πρὸς αὐγὰς ἠελίοιο. Nell'abbondanza di tali entità nel cielo la sola [Luna] va in giro bisognosa di luce altrui, secondo Parmenide....sempre rivolta verso i raggi del sole. Nella tradizione è stato a essi attribuito sostanzialmente un significato poetico e solo subordinatamente astronomico. Si è insistito sulla costruzione ritmica2 ovvero sull'immaginario sentimentale cui ricorre Parmenide: la Luna come donna innamorata rivolta a contemplare il proprio amante (il Sole), illuminata dai suoi sguardi (raggi). Situazione e immagine che Empedocle avrebbe poi puntualmente ripreso, come abbiamo segnalato in nota al testo. 1 Coxon, op. cit., pp. 244-5. 2 Cerri, op. cit., p. 274. 581 Dai pochi versi si possono tuttavia ricavare anche interessanti indicazioni cosmologiche: (i) la conferma della natura circolare del moto di rivoluzione della Luna («vagante intorno alla Terra», περὶ γαῖαν ἀλώμενον); (ii) donde l'inferenza circa la probabile sfericità della stessa, confermata dalle testimonianze teofrastee; (iii) l'attestazione della relazione di dipendenza della luce lunare dalla luce solare (ἀλλότριον φῶς). Su questo punto è necessario precisare che, attraverso Aëtius, siamo informati della origine e composizione di Luna e Sole: Π. τὸν ἥλιον καὶ τὴν σελήνην ἐκ τοῦ γαλαξίου κύκλου ἀποκριθῆναι, τὸν μὲν ἀπὸ τοῦ ἀραιοτέρου μίγματος ὃ δὴ θερμόν, τὴν δὲ ἀπὸ τοῦ πυκνοτέρου ὅπερ ψυχρόν. Parmenide sostiene che il Sole e la Luna si siano formati per distacco dal cerchio della Via Lattea: il primo è costituito dalla mescolanza più rarefatta, che è calda; l'altra dalla più densa, che è fredda (DK 28 A43) συμμιγῆ δ’ ἐξ ἀμφοῖν εἶναι τὴν σελήνην, τοῦ τ’ ἀέρος καὶ τοῦ πυρός La luna è mescolanza di entrambi, di aria e di fuoco (DK 28 A37) Π. πυρίνην [sc. εἶναι τὴν σελήνην]. Π. ἴσην τῶι ἡλίωι [sc. εἶναι τὴν σελήνην]· καὶ γὰρ ἀπ’ αὐτοῦ φωτίζεται. Θαλῆς πρῶτος ἔφη ὑπὸ τοῦ ἡλίου φωτίζεσθαι. Πυθαγόρας, Παρμ.... ὁμοίως Parmenide sostiene [che la Luna è] di fuoco. Parmenide sostiene [che la Luna è] simile [per grandezza] al Sole: è in effetti illuminata da esso. Talete per primo disse che [la Luna] è illuminata dal Sole; analogamente Pitagora, Parmenide...... È la diversa commisurazione degli elementi base, pur derivando Sole e Luna dalla stessa fascia celeste (la Via Lattea), a produrre, nel caso della seconda, effetti fisici (fenomenici) più deboli 582 rispetto a quelli del Sole (giustificandone così la dipendenza): il pallore della Luna è connesso al fatto che il fuoco non riesce a renderla calda e quindi neppure splendente3. 3 Conche, op. cit., pp. 235-6. Frammento di interpretazione estremamente controversa, B16 costituisce effettivamente una sfida per il traduttore: accanto ai problemi di determinazione del testo all'interno della tradizione manoscritta, troviamo nello specifico difficoltà per quanto concerne la sua comprensione. In assenza del contesto immediato, infatti, la costruzione sintattica non è del tutto perspicua e univoca, e le possibili, diverse soluzioni producono per lo più significati diversi. Incerta risulta anche la sua collocazione all'interno della struttura del poema. Prevalente è l'orientamento di Diels, che considerò i versi come appartenenti alla sezione sulla Doxa, ma non sono mancate - in passato e tra gli studiosi contemporanei (Mourelatos, Robinson, Stemich, Ferrari) – le proposte di assegnarlo alla sezione sulla Verità, analogamente a B4: per gli uni il frammento esprimerebbe una concezione soggettivistica del comune pensare umano, costantemente condizionato dalla situazione fisiologica dell'individuo pensante; per gli altri, invece, esso affermerebbe la stretta relazione tra pensiero e realtà. L'esame del contesto delle citazioni può aiutare a comprendere il senso dei versi parmenidei e a decidere del suo posizionamento nell'opera. Il contesto peripatetico Abbiamo di B16 due citazioni integrali peripatetiche - in Aristotele (Metafisica IV, 5 1009 b21) e Teofrasto (De sensu 3) – e due parafrasi – Alessandro di Afrodisia e Asclepio nei loro commenti al testo aristotelico. Aristotele Aristotele cita il frammento all'interno di una disamina critica delle dottrine relativistiche di stampo protagoreo (tutte le opinioni sarebbero egualmente vere ed egualmente false), che lo Stagirita 584 fa derivare dalla combinazione di un assunto teorico di fondo e di due assunti specifici. Per quanto riguarda il primo, lo scenario entro cui il filosofo posiziona gli autori citati, egli osserva (a più riprese): ἡ περὶ τὰ φαινόμενα ἀλήθεια ἐνίοις ἐκ τῶν αἰσθητῶν ἐλήλυθεν la verità circa le cose che appaiono ad alcuni è derivata dalle cose sensibili (Metafisica IV, 5 1009 b1) αἴτιον δὲ τῆς δόξης τούτοις ὅτι περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν, τὰ δ’ ὄντα ὑπέλαβον εἶναι τὰ αἰσθητὰ μόνον causa di questa convinzione per costoro è che essi ricercavano sì la verità intorno agli enti, ma supponendo che gli enti fossero solo quelli sensibili (1010 a1-3). Il discorso aristotelico che coinvolge anche Parmenide verte, dunque, in generale, su una ontologia "materialistica" e sulla conoscenza associata all'esperienza sensibile. Le assunzioni specifiche riguardano invece la sensazione (αἴσθησις): essa è intesa come (i) pensiero (φρόνησις), ovvero (ii) processo di alterazione fisica (ἀλλοίωσις). La citazione di B16 avviene appunto in questo contesto: ὅλως δὲ διὰ τὸ ὑπολαμβάνειν φρόνησιν μὲν τὴν αἴσθησιν, ταύτην δ’ εἶναι ἀλλοίωσιν, τὸ φαινόμενον κατὰ τὴν αἴσθησιν ἐξ ἀνάγκης ἀληθὲς εἶναί φασιν· ἐκ τούτων γὰρ καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Δημόκριτος καὶ τῶν ἄλλων ὡς ἔπος εἰπεῖν ἕκαστος τοιαύταις δόξαις γεγένηνται ἔνοχοι. καὶ γὰρ Ἐμπεδοκλῆς μεταβάλλοντας τὴν ἕξιν μεταβάλλειν φησὶ τὴν φρόνησιν· “πρὸς παρεὸν γὰρ μῆτις ἐναύξεται ἀνθρώποισιν.” καὶ ἐν ἑτέροις δὲ λέγει ὅτι “ὅσσον < δ’ > ἀλλοῖοι μετέφυν, τόσον ἄρ' σφισιν αἰεὶ | καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίστατο”. καὶ Παρμενίδης δὲ ἀποφαίνεται τὸν αὐτὸν τρόπον·[B16] 585 Generalmente, poiché pensano che la sensazione sia pensiero e che sia una alterazione, sostengono che ciò che appare secondo la sensazione di necessità sia vero. È partendo in vero da queste considerazioni che Empedocle, Democrito e, per così dire, ciascuno degli altri [naturalisti] si sono ritrovati soggetti a tali opinioni. Empedocle, infatti, afferma che, mutando la condizione, muti il pensiero: «in relazione alla situazione presente, in vero, agli uomini cresce la mente»; e altrove dice che: «per quanto mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose diverse». Anche Parmenide si esprime nello stesso modo: [B16]. È interessante notare come Aristotele interpreti Empedocle: Empedocle, infatti, afferma che, mutando la condizione (μεταβάλλοντας τὴν ἕξιν), muti il pensiero (μεταβάλλειν τὴν φρόνησιν), prima di citarlo (due volte), facendo corrispondere ἕξις e φρόνησις, come, a suo dire, Parmenide avrebbe fatto nei suoi versi: καὶ Παρμενίδης δὲ ἀποφαίνεται τὸν αὐτὸν τρόπον anche Parmenide si esprime nello stesso modo. In effetti i primi due versi del frammento parmenideo sono costruiti sulla connessione ὡς.... τὼς: ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχει 1 κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, τὼς νόος ἀνθρώποισι παρίσταται2 come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra molto vaganti, 1 È questa la forma verbale prevalente nei codici: nello stabilire il testo abbiamo accolto tuttavia la lectio difficilior ἔχῃ (congiuntivo). 2 Nella versione greca del frammento abbiamo accolto la versione παρέστηκεν dei codici di Teofrasto. 586 così il pensiero si presenta agli uomini, così che la citazione, nel contesto del discorso aristotelico, suggerisce di riscontrare la correlazione precedente (ἕξιςφρόνησις): si è spinti, insomma a leggere l'espressione ἔχει κρᾶσιν μελέων come corrispettivo di ἕξις, e νόος come corrispettivo di φρόνησις. A ciò va aggiunto che la seconda citazione empedoclea: ὅσσον < δ’ > ἀλλοῖοι μετέφυν, τόσον ἄρ' σφισιν αἰεὶ καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίστατο per quanto mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose diverse, richiama, nella formulazione, a sua volta i primi due versi parmenidei, in particolare per l'espressione νόος ἀνθρώποισι παρίσταται, in cui il comune verbo παρίστημι è riferito in un caso a τὸ φρονεῖν nell'altro a νόος. Indubbiamente, anche evitando il commento diretto, Aristotele imponeva di fatto le coordinate di lettura di B16. Al medesimo nodo teorico, lo stesso Aristotele si richiama ancora in De Anima: Ἐπεὶ δὲ δύο διαφοραῖς ὁρίζονται μάλιστα τὴν ψυχήν, κινήσει τε τῇ κατὰ τόπον καὶ τῷ νοεῖν καὶ φρονεῖν καὶ αἰσθάνεσθαι, δοκεῖ δὲ καὶ τὸ νοεῖν καὶ τὸ φρονεῖν ὥσπερ αἰσθάνεσθαί τι εἶναι (ἐν ἀμφοτέροις γὰρ τούτοις κρίνει τι ἡ ψυχὴ καὶ γνωρίζει τῶν ὄντων), καὶ οἵ γε ἀρχαῖοι τὸ φρονεῖν καὶ τὸ αἰσθάνεσθαι ταὐτὸν εἶναί φασιν—ὥσπερ καὶ Ἐμπεδοκλῆς εἴρηκε ‘πρὸς παρεὸν γὰρ μῆτις ἀέξεται ἀνθρώποισιν’ καὶ ἐν ἄλλοις ‘ὅθεν σφίσιν αἰεὶ καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίσταται’, τὸ δ’ αὐτὸ τούτοις βούλεται καὶ τὸ Ὁμήρου ‘τοῖος γὰρ νόος ἐστίν’, πάντες γὰρ οὗτοι τὸ νοεῖν σωματικὸν ὥσπερ τὸ αἰσθάνεσθαι ὑπολαμβάνουσιν, καὶ αἰσθάνεσθαί τε καὶ φρονεῖν τῷ ὁμοίῳ τὸ ὅμοιον, ὥσπερ καὶ ἐν τοῖς κατ’ ἀρχὰς λόγοις διωρίσαμεν 587 L'anima è per lo più definita in base a due elementi: il movimento locale e il pensare, il riflettere e il sentire. Sembra che il pensare e il riflettere siano qualcosa come il sentire (in entrambi i casi, infatti, l'anima discrimina e conosce qualcosa degli enti), e del resto gli antichi sostengono che il pensare e il sentire siano la stessa cosa. Così Empedocle affermò: «in relazione alla situazione presente, in vero, agli uomini cresce la mente»; e altrove: «per quanto mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose diverse». La stessa cosa intende l'affermazione di Omero: «tale è infatti la mente». Tutti costoro, in effetti, sostengono che il pensare sia qualcosa di corporeo come il sentire, e che sentire e pensare siano del simile attraverso il simile, come abbiamo detto inizialmente nel nostro discorso (De Anima III, 3 427 a17-29). Benché non evocato direttamente, Parmenide rimane coinvolto doppiamente: perché l'equazione aristotelica tra «pensare» e «percepire/sentire» (τὸ φρονεῖν καὶ τὸ αἰσθάνεσθαι) è genericamente rivolta agli «antichi» (οἵ ἀρχαῖοι), analogamente alla connotazione conclusiva del pensare come «qualcosa di corporeo come il sentire» (τὸ νοεῖν σωματικὸν ὥσπερ τὸ αἰσθάνεσθαι), attribuita a «tutti costoro» (πάντες οὗτοι, cioè, ancora, «gli antichi»). Significativi il costante riferimento a Empedocle e la citazione omerica (in Metafisica IV, 5 1009 b28-30 si evocava Iliade XXIII, 698), di cui molti studiosi ritrovano eco in B16: τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε tale è il pensiero degli uomini che vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei (Odissea XVIII, 136-7). Il testo di Omero, in effetti, intende marcare la costitutiva debolezza della comprensione umana e la sua totale dipendenza dall'operare divino. Esso riflette un punto di vista che circolava nella poesia arcaica: il νόος dell'uomo come ἀμήχανος (impotente) rispetto a quello divino. Possiamo rintracciare lo stesso motivo in 588 Archiloco (fr. 68.1-2 Diehl), Simonide (fr. 1.1-5) e Teognide (vv. 1171-4). Teofrasto Secondo Coxon3, Teofrasto avrebbe avuto chiaramente presenti l'argomento e la citazione del maestro, pur utilizzando il frammento per motivi diversi e ricavandolo da un testo indipendente: non si comprenderebbe altrimenti su quali basi B16 troverebbe collocazione all'interno di una riflessione περὶ αἰσθήσεως (De Sensu) e come potrebbe riferirsi al dibattito sull'origine della sensazione (dal simile o dai contrari), se non appunto per la precedente (incrociata) lettura aristotelica: περὶ δ’ αἰσθήσεως αἱ μὲν πολλαὶ καὶ καθόλου δόξαι δύ’ εἰσιν· οἱ μὲν γὰρ τῶι ὁμοίωι ποιοῦσιν, οἱ δὲ τῶι ἐναντίωι. Π. μὲν καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Πλάτων τῶι ὁμοίωι, οἱ δὲ περὶ Ἀναξαγόραν καὶ Ἡράκλειτον τῶι ἐναντίωι. (3) Π. μὲν γὰρ ὅλως οὐδὲν ἀφώρικεν ἀλλὰ μόνον, ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις. ἐὰν γὰρ ὑπεραίρηι τὸ θερμὸν ἢ τὸ ψυχρόν, ἄλλην γίνεσθαι τὴν διάνοιαν, βελτίω δὲ καὶ καθαρωτέραν τὴν διὰ τὸ θερμόν· οὐ μὴν ἀλλὰ καὶ ταύτην δεῖσθαί τινος συμμετρίας· ‘ὡς γὰρ ἑκάστοτε, φησίν, ἔ χ ε ι... ν ό η μ α ’ (B 16). τὸ γὰρ αἰσθάνεσθαι καὶ τὸ φρονεῖν ὡς ταὐτὸ λέγει· διὸ καὶ τὴν μνήμην καὶ τὴν λήθην ἀπὸ τούτων γίνεσθαι διὰ τῆς κράσεως· ἂν δ’ ἰσάζωσι τῆι μίξει, πότερον ἔσται φρονεῖν ἢ οὔ, καὶ τίς ἡ διάθεσις, οὐδὲν ἔτι διώρικεν. ὅτι δὲ καὶ τῶι ἐναντίωι καθ’ αὑτὸ ποιεῖ τὴν αἴσθησιν, φανερὸν ἐν οἷς φησι τὸν νεκρὸν φωτὸς μὲν καὶ θερμοῦ καὶ φωνῆς οὐκ αἰσθάνεσθαι διὰ τὴν ἔκλειψιν τοῦ πυρός, ψυχροῦ δὲ καὶ σιωπῆς καὶ τῶν ἐναντίων αἰσθάνεσθαι. καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν. οὕτω μὲν οὖν αὐτὸς ἔοικεν ἀποτέμνεσθαι τῆι φάσει τὰ συμβαίνοντα δυσχερῆ διὰ τὴν ὑπόληψιν. 3 Op. cit., p. 247. 589 Riguardo alla sensazione le opinioni più numerose e diffuse sono due: gli uni la fanno derivare dal simile, gli altri dal contrario. Parmenide, Empedocle e Platone dal simile, i seguaci di Anassagora e Eraclito dal contrario... Parmenide, in effetti, nell’insieme non ha precisato alcunché, ma solo che, essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo l'elemento che prevale: qualora infatti prevalga il caldo o il freddo, il pensiero cambia [diventa altro], ma migliore e più puro è comunque quello secondo il caldo. Anche questo, tuttavia, richiede una certa proporzione. [citazione B16]. Parla del percepire e del pensare come della stessa cosa: perciò anche la memoria e l'oblio derivano da queste cose attraverso la mescolanza. Non precisa ulteriormente invece circa l'eventualità che gli elementi siano equivalenti nella mistione: se ci sarà pensiero o no, e quale la sua costituzione. Che egli faccia dipendere la percezione anche dal contrario in sé considerato [cioè dal freddo], è evidente laddove afferma che il morto non percepisce né luce, né caldo, né suono, per la perdita del fuoco, ma che percepisce freddo, silenzio e i contrari. Nel complesso sostiene che tutto l'essere abbia una qualche capacità conoscitiva. Così, dunque, egli sembra eliminare in apparenza le difficoltà che derivano dalla sua teoria. A differenza della discussione aristotelica dei presunti presupposti ontologici materialistici e del conseguente sensismo soggettivistico di marca protagorea, il contesto teofrasteo è quello di un'analisi decisamente gnoseologica. Dobbiamo tuttavia trattenerci dall'intendere il frammento in chiave di gnoseologia generale4: né Aristotele né Teofrasto utilizzano i termini parmenidei νόος e νόημα, limitandosi a correlare τὸ αἰσθάνεσθαι e τὸ φρονεῖν ovvero i derivati αἴσθησις e φρόνησις. È possibile, dunque, che nessuno dei due intendesse realmente attribuire a Parmenide la riduzione della conoscenza a percezione5, riferendosi entrambi piuttosto alla sua teoria della conoscenza del mondo sensibile. 4 Cerri, op. cit., pp. 277-8. 5 Coxon, op. cit., p. 251. 590 In ogni caso, Teofrasto introduce il riferimento a Parmenide all'interno dell'esame delle due opinioni prevalenti (secondo lo schema delle testimonianze aristoteliche che doveva già risultare condizionante6 ): la prima novità rispetto all'indicazione del maestro, infatti, interviene proprio su questo punto: περὶ δ’ αἰσθήσεως αἱ μὲν πολλαὶ καὶ καθόλου δόξαι δύ’ εἰσιν· οἱ μὲν γὰρ τῶι ὁμοίωι ποιοῦσιν, οἱ δὲ τῶι ἐναντίωι. Π. μὲν καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Πλάτων τῶι ὁμοίωι, οἱ δὲ περὶ Ἀναξαγόραν καὶ Ἡράκλειτον τῶι ἐναντίωι Riguardo alla sensazione le opinioni più numerose e diffuse sono due: gli uni la fanno derivare dal simile, gli altri dal contrario. Parmenide, Empedocle e Platone dal simile, i seguaci di Anassagora e Eraclito dal contrario. Parmenide viene classificato tra i sostenitori della derivazione della percezione dall'azione del simile sul simile, sebbene all'inizio della trattazione specifica Teofrasto segnali come: Π. μὲν γὰρ ὅλως οὐδὲν ἀφώρικεν Parmenide, in effetti, nell’insieme non ha precisato alcunché [...]. La seconda novità della testimonianza teofrastea è che, immediatamente di seguito, essa valorizza un particolare trascurato da Aristotele: ἀλλὰ μόνον, ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις [...] ma solo che, essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo l'elemento che prevale. Si tratta probabilmente di un riferimento proprio alla conclusione di B16: 6 Su questo B. Cassin-M. Narcy, "Parménide sophiste. La citation aristotélicienne du fr. XVI", in Études sur Parménide, cit., vol. II, p. 281. 591 τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ νόημα ciò che prevale, infatti, è il pensiero. Dal punto di vista di Teofrasto è questa la peculiarità del contributo parmenideo in campo conoscitivo: il principio della dipendenza del pensiero dall'elemento che prevale nella mescolanza. Il terzo rilievo interessante della testimonianza è quello conclusivo: καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν Nel complesso [sostiene] anche che tutto l'essere abbia una qualche capacità conoscitiva. La convinzione espressa potrebbe discendere dai fondamenti della "fisica" parmenidea: i due costitutivi "materiali" (Fuoco e Notte) presenti in tutte le cose hanno «proprietà» (δυνάμεις) per cui funzionano anche come principi di movimento e conoscenza. Possiamo così riassumere le preziose informazioni teofrastee sulle concezioni gnoseologiche di Parmenide: (i) due sono gli elementi coinvolti nella conoscenza (γνῶσις): «il caldo» (τὸ θερμὸν) e «il freddo» (τὸ ψυχρόν); (ii) essa si produce con il prevalere di uno dei due (κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις): a seconda della preponderanza, «il pensiero cambia [diventa altro]» (ἄλλην γίνεσθαι τὴν διάνοιαν); (iii) il pensiero (διάνοια) qualitativamente migliore (βελτίω δὲ καὶ καθαρωτέραν) è «quello secondo il caldo» (τὴν διὰ τὸ θερμόν); (iv) «una certa proporzione [degli elementi]» è tuttavia sempre implicata (δεῖσθαί τινος συμμετρίας); (v) percepire e pensare sono considerati la stessa cosa (τὸ αἰσθάνεσθαι καὶ τὸ φρονεῖν ὡς ταὐτὸ); (vi) la percezione è del simile attraverso il simile (evidentemente Teofrasto ha presente una parte del poema per noi perduta): ὅτι δὲ καὶ τῶι ἐναντίωι καθ’ αὑτὸ ποιεῖ τὴν αἴσθησιν, φανερὸν ἐν οἷς φησι τὸν νεκρὸν φωτὸς μὲν καὶ θερμοῦ καὶ φωνῆς οὐκ αἰσθάνεσθαι διὰ τὴν 592 ἔκλειψιν τοῦ πυρός, ψυχροῦ δὲ καὶ σιωπῆς καὶ τῶν ἐναντίων αἰσθάνεσθαι Che egli faccia dipendere la percezione anche dal contrario in sé considerato [cioè dal freddo], è evidente laddove afferma che il morto non percepisce né luce, né caldo, né suono, per la perdita del fuoco, ma che percepisce freddo, silenzio e i contrari; (vii) tutta la realtà è dotata di capacità di conoscere (καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν): è chiaro nel contesto, dove ripetutamente si accenna ai due elementi, che Teofrasto riferisce questa asserzione agli enti sensibili, al mondo fisico. Al centro dell'esposizione della dottrina parmenidea sono comunque i punti (ii) e (iii), che giustificano la citazione di B16: Teofrasto ritrova evidentemente nel poema il rilievo esplicito dell'incidenza della κρᾶσις μελέων sulla qualità del pensiero, ma solo sotto il profilo della prevalenza di uno dei due «elementi» (στοιχεία), sottolineando invece l'assenza in Parmenide di una perspicua considerazione degli effetti dell'eventuale loro equilibrio. L'impressione è che il frammento parmenideo sia impiegato non tanto per sostenere una prospettiva rigorosamente conoscitiva (non per marcare la relazione tra il pensiero e il suo oggetto), quanto piuttosto per rimarcare la relazione psico-fisica che vi è tematizzata7. Ricostruzione dei vv. 1-2a I primi due versi del frammento sono di interpretazione relativamente più agevole rispetto agli ultimi due: nonostante le divergenze nella ricostruzione sintattica, il senso generale non cambia di molto: ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχῃ κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, 7 M. Marcinkowska-Rosół, Die Konzeption des "Noein" bei Parmenides von Elea, De Gruyter, Berlin-New York 2010, p. 181. 593 τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν Come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra molto vaganti, così il pensiero si presenta agli uomini. Come abbiamo segnalato in nota al testo, esistono varie soluzioni per il soggetto del primo verbo (ἔχῃ) e per il suo valore (transitivo, intransitivo). Complessivamente, tuttavia, si conferma un'indicazione fondamentale: la condizione mentale degli uomini è correlata alla loro situazione fisiologica. Negli esseri umani in generale (ἀνθρώποισι), alle variazioni (ὡς ἑκάστοτ’ ἔχῃ) dell'amalgama corporea (κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων), corrisponde il manifestarsi (τὼς παρέστηκεν) del pensiero (ovvero della «mente», νόος). Come abbiamo registrato, è quanto Aristotele rendeva con la correlazione ἕξις-φρόνησις. Si tratta di una tesi di antropologia generale che trova indirettamente conferma nella tradizione dossografica: δύο τε εἶναι στοιχεῖα, πῦρ καὶ γῆν, καὶ τὸ μὲν δημιουργοῦ τάξιν ἔχειν, τὴν δὲ ὕλης. γένεσίν τε ἀνθρώπων ἐξ ἡλίου πρῶτον γενέσθαι· αὐτὸν [?] δὲ ὑπάρχειν τὸ θερμὸν καὶ τὸ ψυχρόν, ἐξ ὧν τὰ πάντα συνεστάναι. καὶ τὴν ψυχὴν καὶ τὸν νοῦν ταὐτὸν εἶναι, καθὰ μέμνηται καὶ Θεόφραστος ἐν τοῖς Φυσικοῖς, πάντων σχεδὸν ἐκτιθέμενος τὰ δόγματα. Disse che due sono gli elementi – fuoco e terra – e che l'uno ha funzione di artefice, l'altro di materia. Disse che la generazione degli uomini deriva in primo luogo dal Sole e che a quello [uomo] spettano come elementi il caldo e il freddo, da cui tutte le cose sono costituite. Disse anche che l'anima e l'intelligenza sono la stessa cosa, come ricorda anche Teofrasto nella sua Fisica, dove espone le dottrine di quasi tutti [i filosofi] (Diogene Laerzio; DK 28A1). Parmenides ex terra et igne [sc. animam esse]. Π. δὲ καὶ Ἵππασος πυρώδη. Π. ἐν ὅλωι τῶι θώρακι τὸ ἡγεμονικόν. Π. καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Δημόκριτος 594 ταὐτὸν νοῦν καὶ ψυχήν, καθ’ οὓς οὐδὲν ἂν εἴη ζῶιον ἄλογον κυρίως Parmenide dice che l'anima è costituita di terra e fuoco (Macrobio; DK 28 A45) Parmenide e Ippaso dicono che l'anima è ignea. – Parmenide dice che in tutto il petto ha sede l'egemonico. – Parmenide ed Empedocle e Democrito dicono che l'intelligenza e l'anima sono la stessa cosa; secondo loro nessun animale sarebbe completamente senza ragione (Aëtius; DK 28 A45). Parmenide avrebbe ricondotto rigorosamente ai suoi principi (Fuoco e Notte, ovvero Fuoco e Terra) la natura umana, attribuendo alla loro interazione la stessa attività percettiva e conoscitiva. In particolare, la scelta di κρᾶσις potrebbe rivelare la vicinanza di Parmenide alle scuole mediche (il termine ritorna in Alcmeone ed Empedocle, nonché in Democrito): l'idea trasmessa sarebbe quella del temperamento delle componenti in un'amalgama coesa. Nel testo, comunque, il genitivo μελέων (πολυπλάγκτων) non si riferirebbe (se non indirettamente) agli elementi, ma immediatamente alle «membra» corporee, secondo il costume omerico di designare il complesso fisico con il rinvio alle parti. L'Eleate pare dunque, in primo luogo, attento a rilevare, nella relazione psicofisica, l'interdipendenza tra disciplina delle «membra» e condizione della mente 8: in tal caso, il tradizionale motivo poetico dell'instabilità ed eteronomia9 della comprensione umana risulterebbe decisamente piegato all'esigenza di marcare non tanto una generica dipendenza del pensiero (νόος) umano dalle circostanze esterne - come nella formula omerica sopra ricordata (ed evocata anche da Aristotele in De Anima): τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε tale è il pensiero degli uomini che vivono sulla terra, 8 Su questo M. Stemich, op. cit., pp. 139-142. 9 Riprendo l'espressione da Marcinkowska-Rosół, op. cit., p. 162. 595 quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei, quanto il suo condizionamento da parte del mutevole equilibrio fisiologico corporeo10. L'attenzione di Parmenide sembrerebbe allora, in secondo luogo, tesa a marcare proprio la mutevolezza, l'instabilità della situazione psico-fisica, come rivelerebbe la scelta dell'avverbio ἑκάστοτε («ogni volta, di volta in volta») e dell'aggettivo composto πολυπλάγκτων («molto vaganti, dai molteplici movimenti, volubili»). Nel complesso, quindi, nella prospettiva antropologica adottata nei versi in esame, non v'è dubbio che sia proposta una concezione del pensare come attività (e del pensiero come prodotto: νόημα) che sopravviene (anche in questo caso la scelta espressiva è indicativa: παρέστηκεν, «si presenta») dall'esterno, dal temperamento cangiante di «membra che molto si agitano» (μελέων πολυπλάγκτων), di cui, insomma, il soggetto non sembra essere in controllo11. Ricostruzione dei vv. 2b-4 Il frammento prosegue: τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει μελέων φύσις ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί· τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ νόημα perché è precisamente la stessa cosa ciò che pensa negli uomini, la costituzione del [loro] corpo, in tutti e in ciascuno: ciò che prevale, in vero, è il pensiero. 10 Ivi, p. 176. 11 Ivi, pp. 162-3. 596 Si tratta di uno dei passaggi più controversi dell'intero poema sopravvissuto. Nella nostra ricostruzione sintattica del testo greco, la Dea, riferendosi alla propria asserzione secondo cui la qualità del pensiero dipende dal temperamento delle membra (vv. 1-2a), precisa dapprima come ciò accada in virtù del fatto che «ciò che pensa negli uomini» (ὅπερ φρονέει ἀνθρώποισιν) coincide (τὸ αὐτό ἔστιν) con «la costituzione del loro corpo» (μελέων φύσις). La soluzione interpretativa seguita nella traduzione è, nella sostanza, quella proposta originariamente da Diels (1897), che appare, rispetto all'insieme del frammento, la più equilibrata, a dispetto del limite denunciato nella tradizione critica (Fränkel, Hölscher): la costruzione richiesta, con μελέων φύσις come apposizione (con valore esplicativo12), risulta un po' artificiosa13. A questo chiarimento la Dea fa seguire una puntualizzazione: il pensiero (νόημα, qui da intendere come «contenuto di pensiero») coincide con «ciò che prevale» (τὸ πλέον). Il senso è chiarito nella testimonianza teofrastea, come abbiamo avuto modo di registrare: ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις [...] essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo l'elemento che prevale. Il lessico di Teofrasto è lessico di "conoscenza" (γνῶσις); quello del frammento appare piuttosto lessico di "pensiero" (νόος, νόημα): in assenza del contesto, è la determinazione del pensiero attraverso gli equilibri fisiologici che sembra posta al centro dell'attenzione. La Dea, secondo costume (Omero, Archiloco), informa il κοῦρος, destinatario diretto della comunicazione, circa l'inevitabile condizionamento del pensiero umano: in altre parole, all'interno della complessiva illustrazione della realtà cosmica e 12 Come spiegano nel loro contributo B. Cassin e M. Narcy (p. 290). 13 Per una aggiornata disamina della discussione critica in merito alle possibili soluzioni nella traduzione si veda ora Marcinkowska-Rosół, op. cit., pp. 164 ss.. 597 dei suoi processi di formazione, ella inserisce un resoconto dei meccanismi fisiologici alla base delle attività spirituali. In realtà, la sua è una modalità didascalica per mettere in guardia la propria audience. Soprattutto se consideriamo che, a differenza di quel che accadeva nella rappresentazione omerica che teneva unite dimensione corporea e dimensione spirituale, il ricorrente impiego di νόος, νόημα, νοεῖν (B2, B3, B4, B6, B7, B8) suggerisce, nel caso di Parmenide, una consapevole distinzione delle nozioni di «corpo» (μέλεα) e «spirito/pensiero» (νόος) e la conseguente valutazione delle loro implicazioni reciproche. Il κοῦρος è stato invitato a: (i) sottrarsi al giogo della assuefazione empirica: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua (B7.3-5a), (ii) tenersi lontano dalla strada per lo più battuta dai «mortali»: una strada che disorienta, ottundendo i loro sensi e la loro comprensione della realtà: ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται >, δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον· οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα da quella [via di ricerca] che appunto mortali che nulla sanno, uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti guida la mente errante. Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi, sgomenti, schiere scriteriate (B6.4-5a), 598 (iii) imparare attivamente, giudicando criticamente la comunicazione della Dea: κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον Giudica invece con il ragionamento la prova polemica (B7.5b), (iv) riflettere sulla specifica capacità di attualizzazione del pensiero: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti (B4.1), (v) e sulla effettiva natura del suo oggetto: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere (B3). In B16, infine, la Dea esplicitamente ricorda come il prodursi del pensiero sia da inquadrare all'interno di un'ineludibile cornice psico-fisica: averne cognizione e coscienza comporta, in prospettiva, potersene avvantaggiare, garantendo al pensiero le condizioni ideali14. Potrebbe allora non essere casuale la relazione lessicale tra «mente errante» (πλακτὸν νόον, B6.5b-6a): ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον impotenza davvero nei loro petti guida la mente errante, e «membra molto vaganti» (μελέων πολυπλάγκτων, B16): ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχῃ κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra molto vaganti, 14 Così la Stemich, op. cit., pp. 164-5. 599 così il pensiero si presenta agli uomini. Forse proprio il disordine e l'agitazione del corpo, espressi da πολυπλάγκτα μέλεα, possono spiegare la confusione che domina il pensiero dei «mortali». Per converso, possiamo ipotizzare che ai «segni» di stabilità e compattezza del νόημα ἀμφὶς ἀληθείης (B8) dovesse corrispondere il miglior temperamento degli elementi corporei: nella testimonianza teofrastea «il pensiero secondo il caldo» (διάνοια διὰ τὸ θερμόν). Forse l'illustrazione dei meccanismi fisiologici condizionanti aveva (direttamente o indirettamente) la specifica funzione di guidare il kouros a una loro corretta gestione: difficile, infatti, immaginare che il νόημα ἀμφὶς ἀληθείης potesse essere affidato a un accidentale equilibrio psico-fisico, su cui il destinatario non avesse opportunità di controllo15. Queste supposizioni assumono maggiore consistenza se accettiamo i riscontri giunti dalla ricerca archeologica16, i quali, dopo i ritrovamenti dell'ultimo mezzo secolo, fanno intravedere la possibilità che la «scuola eleatica» fosse qualcosa di molto diverso da un «cenacolo di filosofi razionalisti»17: probabilmente un sodalizio consacrato ad Apollo Οὔλιος (guaritore, risanatore), dunque una scuola di medicina, istituita forse dallo stesso Parmenide, il quale è evocato in un’iscrizione recuperata a Velia (l'odierno sito dell'antica Elea) come Πα[ρ]μενείδης Πύρητος Οὐλιάδης φυσικός (Parmenide, figlio di Pyres, medico di Apollo Guaritore). Altre iscrizioni recuperate nello stesso luogo confermano l'esistenza di una tradizione locale di guaritori - apostrofati come Οὖλις ἰατρός φώλαρχος, letteralmente «risanatore medico signore della caverna» -, che onoravano un Οὐλιάδης ἰατρόμαντις, un medico- 15 A meno di non interpretare il discorso della Doxa, come si è fatto tradizionalmente, come una messa in guardia nei confronti di una elaborazione segnata strutturalmente dall'illusione e dall'inganno: abbiamo visto, però, che ci sono motivi per credere che non fosse questa l'intenzione del pensatore di Elea. 16 In precedenza richiamati nel commento al proemio. 17 Passa, op. cit., p. 17. 600 indovino sacerdote di Apollo, da identificare probabilmente con lo stesso Parmenide18. È possibile, dunque, che egli praticasse un'arte che si collocava tra medicina e mantica vera e propria, ricorrendo al φωλεύειν, cioè a una sorta di "incubazione", analoga alla letargia invernale dell'animale nella tana (φωλεός). Non dovrebbe allora sorprendere il rilievo circa la relazione psico-fisica all'interno della esposizione della Doxa. Il medico-indovino, in effetti, diagnosticava il male in uno stato di trance, decifrando segni e ricavandone indicazioni terapeutiche idonee19. Nel caso dell'«incubazione», l'esperienza avveniva, dopo una adeguata preparazione cultuale, rimanendo immobili in assoluto silenzio, in un luogo consacrato, inaccessibile ai profani: il sonno avrebbe portato con sé il manifestarsi del dio in sogni e visioni, che lo iatromantis poteva interpretare. Parmenide potrebbe aver suggerito al kouros una trasformazione della condizione psicofisica, così da garantire, attraverso il suo controllo, la perfetta amalgama dei dati percettivi, la loro omogenea fusione nel pensare corretto. 18 Per queste notizie Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, cit., pp. 55 ss.; Gemelli-Marciano, Die Vorsokratiker, cit., II, pp. 42 ss.; Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 141 ss.. 19 Kingsley, op. cit., pp. 120-7. 601 MASCHI E FEMMINE [B17 E B18] I due frammenti (B18 può essere solo impropriamente definito tale) trattano della differenziazione dei sessi (B17) e della trasmissione dei caratteri sessuali (somatici e psichici), delineando un abbozzo di spiegazione embriogenetica. Non a caso sono il risultato di citazioni scientifiche: a Galeno dobbiamo quella di B17, che doveva corroborare la sua opinione circa l'originaria formazione del feto maschile: τὸ μέντοι ἄρρεν ἐν τῶι δεξιῶι μέρει τῆς μήτρας κυΐσκεσθαι καὶ ἄλλοι τῶν παλαιοτάτων ἀνδρῶν εἰρήκασιν. ὁ μὲν γὰρ Π. οὕτως ἔφη Molti altri tra gli antichi affermarono che il maschio sia concepito nella parte destra dell'utero. Parmenide in effetti dice [B17]. Proprio l'intenzione di confermare le proprie convinzioni biologiche e l'assenza di indicazioni che attestino il rimando diretto al poema hanno fatto avanzare dubbi sull'attendibilità di quella che rimane comunque una "scheggia" testuale1. A Celio Aureliano (V secolo?), traduttore di opere della tradizione medica greca - in particolare, nel caso specifico, delle due parti del monumentale Περὶ ὀξέων καὶ χρονίων παθῶν (Sulle malattie acute e croniche) di Sorano di Efeso (I-II secolo) - dobbiamo invece la parafrasi in versi che Diels-Kranz hanno classificato come B18. La citazione è proposta nel seguente contesto: Parmenides libris quos d e n a t u r a scripsit, eventu inquit conceptionis molles aliquando seu subactos homines generari. cuius quia graecum est epigramma, et hoc versibus intimabo. latinos enim ut potui simili modo composui, ne linguarum ratio misceretur. ‘femina... sexum ’. Parmenide, nei libri Sulla natura, afferma che, secondo le modalità di concezione, si generano talvolta 1 Conche, op. cit., p. 258. 602 uomini molli e sottomessi. Dal momento che il suo testo greco è in versi, lo proporrò io pure in versi: ho composto, infatti, versi latini di tenore analogo, per quanto mi è stato possibile, per non confondere il carattere specifico delle due lingue. [B18] [...]. Celio Aureliano mette dunque sull'avviso: la sua non è citazione letterale, ma traduzione-rielaborazione2, sebbene, come ha osservato Coxon3, la facilità con cui si possono volgere in greco i suoi versi latini attesta la loro fedeltà al greco (come segnalato dalla precisazione: «ut potui simili modi»). Per mettere a fuoco il nodo cui i passaggi del poema evocati dalle citazioni si riferivano, sono essenziali le testimonianze di Aëtius e Censorino: Ἀναξαγόρας, Π. τὰ μὲν ἐκ τῶν δεξιῶν [sc. Σπέρματα] καταβάλλεσθαι εἰς τὰ δεξιὰ μέρη τῆς μήτρας, τὰ δ’ ἐκ τῶν ἀριστερῶν εἰς τὰ ἀριστερά. εἰ δ’ ἐναλλαγείη τὰ τῆς καταβολῆς, γίνεσθαι θήλεα igitur semen unde exeat inter sapientiae professores non constat. P. enim tum ex dextris tum e laevis partibus oriri putavit Anassagora e Parmenide sostengono che i semi della parte destra sono gettati nella parte destra dell'utero, quelli della sinistra nella parte sinistra. Se la fecondazione è invertita, si generano femmine. Tra i cultori della sapienza non vi è certezza circa la provenienza del seme [lett.: da dove esca il seme]. Parmenide, infatti, credeva che provenisse ora dalla parte destra, ora dalla parte sinistra (28 DK A53). Evidentemente Parmenide prendeva posizione nel confronto scientifico circa natura e meccanismi del concepimento, e loro effetti sul sesso dell'embrione. In particolare, la testimonianza di Aëtius interviene a integrare e correggere l'indicazione di Galeno. Questi richiama Parmenide come uno dei primi sostenitori della 2 Cerri, op. cit., p. 285. 3 Op. cit., p. 253 603 tesi secondo cui il maschio sarebbe concepito nel lato destro dell'utero: tesi attribuita da Aristotele (De generatione animalium IV, 1 763 b30 ss.) ad Anassagora e «altri fisiologi» (ἕτεροι τῶν φυσιολόγων): φασὶ γὰρ οἱ μὲν ἐν τοῖς σπέρμασιν εἶναι ταύτην τὴν ἐναντίωσιν εὐθύς, οἷον Ἀναξαγόρας καὶ ἕτεροι τῶν φυσιολόγων· γίγνεσθαί τε γὰρ ἐκ τοῦ ἄρρενος τὸ σπέρμα, τὸ δὲ θῆλυ παρέχειν τὸν τόπον, καὶ εἶναι τὸ μὲν ἄρρεν ἐκ τῶν δεξιῶν τὸ δὲ θῆλυ ἐκ τῶν ἀριστερῶν, καὶ τῆς ὑστέρας τὰ μὲν ἄρρενα ἐν τοῖς δεξιοῖς εἶναι τὰ δὲ θήλεα ἐν τοῖς ἀριστεροῖς Alcuni sostengono che tale opposizione si trovi già in origine nei semi, come Anassagora e altri fisiologi. Il seme, infatti, origina dal maschio, la femmina invece fornisce il luogo; e il maschio viene da destra, la femmina da sinistra, e i maschi si formano nelle parti destre dell'utero, le femmine nelle parti sinistre, e associata a quella secondo cui il carattere sessuale preesiste nel seme (fornito esclusivamente dal genitore maschio) al concepimento: il seme che trasmette carattere maschile proviene dalla parte destra, quello che trasmette carattere femminile dalla sinistra. Integrando Galeno, si può fondatamente avanzare l'ipotesi che Parmenide facesse derivare i maschi e le femmine rispettivamente dalla parte destra e dalla parte sinistra dei genitali maschili e femminili. La versione latina di Celio Aureliano aiuta in particolare a chiarire la posizione di Parmenide circa il contributo al concepimento: Femina virque simul Veneris cum germina miscent, Venis informans diverso ex sanguine virtus Temperiem servans bene condita corpora fingit. Quando femmina e maschio mescolano insieme i semi di Venere, la potenza formatrice nelle vene, che [deriva] da sangue opposto, 604 conservando la giusta misura plasma corpi ben fatti (B18.1-3). Il testo (di tenore parmenideo4 ) offre, in effetti, alcune informazioni importanti: (i) i semi originano dal sangue (maschile e femminile); (ii) esistono quindi due tipologie di semi, rispettivamente maschile e femminile: essi sono opposti come il sangue da cui provengono5 («da sangue opposto», diverso ex sanguine); (iii) i due semi, maschile e femminile, cooperano nella riproduzione. Incrociando queste informazioni con i riferimenti delle testimonianze e dei contesti delle citazioni, possiamo così ricostruire la probabile posizione parmenidea sulla relazione genetica dei figli ai genitori6: entrambi i semi delle parti (genitali) destre generano maschi simili ai padri; entrambi i semi delle parti sinistre generano femmine simili alle madri; negli altri due casi (semi delle parti sinistra e destra, maschile e femminile), maschi simili alle madri o femmine simili ai padri. Parmenide probabilmente riteneva che dalla corretta mescolanza di seme maschile e seme femminile dovesse scaturire un'equilibrata costituzione psico-fisica: le due tipologie di seme, infatti, conferivano specifiche proprietà (virtutes, δυνάμεις), che, mescolandosi i semi, erano destinate a combinarsi in un'unica potenza formatrice (informans virtus). È quanto si ricava dal rilievo in negativo che chiude B18: Nam si virtutes permixto semine pugnent Nec faciant unam permixto in corpore, dirae Nascentem gemino vexabunt semine sexum. Se, infatti, una volta mescolato il seme, le forze confliggono e non diventano un'unica potenza nel corpo prodotto dalla mescolanza, malefiche 4 Conche, op. cit., p. 262. 5 Ibidem. 6 Coxon, op. cit., p. 253. 605 affliggeranno il sesso nascente con il [loro] duplice seme (B18.4-6), e dal commento di Celio Aureliano alla sua citazione: vult enim seminum praeter materias esse virtutes, quae si se ita miscuerint, ut eiusdem corporis faciant unam, congruam sexui generent voluntatem; si autem permixto semine corporeo virtutes separatae permanserint, utriusque veneris natos adpetentia sequatur Pretende infatti che i semi abbiano, oltre a materia, anche virtù formatrici (virtutes), le quali se si mescolano così da produrre dello stesso corpo una sola virtù, generano carattere (voluntatem) conforme al sesso; nel caso in cui, invece, una volta mescolato il seme corporeo, le virtù siano rimaste separate, deriva ai nati desiderio di entrambi i tipi di amore. Se la misura nella opposizione dei semi fosse stata rispettata (temperiem servans) nella loro mescolanza (permixto semine), si sarebbe realizzata complementarità nelle loro proprietà, garantendo così un'unione equilibrata e armoniosa (unam permixto in corpore). In caso contrario la disarmonia si sarebbe instaurata nei corpi, producendo disagio sessuale e psichico7: lo sviluppo coerente della personalità sessuale (congruam sexui voluntatem) era funzione dell'armonia dei contrari nella costituzione dell'essere umano. Le presunte tesi biologiche di Parmenide presentano certamente affinità con quanto attestato del pensiero del contemporaneo Alcmeone, nella tradizione dossografica proposto come «discepolo di Pitagora» (Diogene Laerzio; 24 DK A1). Nel frammento B4 del suo Περὶ φύσεως leggiamo infatti: Ἀ. τῆς μὲν ὑγιείας εἶναι συνεκτικὴν τὴν ἰ σονομίαν τῶν δυνάμεων, ὑγροῦ, ξηροῦ, ψυχροῦ, θερμοῦ, πικροῦ, γλυκέος καὶ τῶν λοιπῶν, τὴν δ’ ἐν αὐτοῖς μοναρχίαν νόσου ποιητικήν· φθοροποιὸν γὰρ 7 Ivi, p. 254. 606 ἑκατέρου μοναρχίαν. [...]. τὴν δὲ ὑγείαν τὴν σύμμετρον τῶν ποιῶν κρᾶσιν Ciò che mantiene la salute, afferma Alcmeone, è l'equilibrio di forze: umido, secco, freddo caldo, amaro, dolce e così via; la supremazia di una di esse, invece, è foriera di malattia: micidiale è, in effetti, il predominio di ognuno degli opposti. [...] La salute, invece, è mescolanza misurata delle qualità. Sono evidenti le consonanze lessicali (δυνάμεις, κρᾶσις) ed è probabile l'accordo sulla tesi fondamentale di Alcmeone: che la salute del corpo sia funzione della isonomia degli elementi contrari, e la malattia espressione di uno squilibrio. Le testimonianze accentuano le convergenze anche nello specifico: ex quo parente seminis amplius fuit, eius sexum repraesentari dixit A. Alcmeone afferma che il feto ha il sesso di quello, tra i genitori, il cui seme è stato più abbondante» (Censorino; DK 24 A14). Alcmeone condivideva con Parmenide la convinzione che entrambi i genitori contribuissero con semina (σπέρματα) al concepimento, pur avendo sull'origine dello sperma un'opinione diversa: Ἀ. ἐγκεφάλου μέρος (sc. εἶναι τὸ σπέρμα) Alcmeone sosteneva che [il seme fosse] parte del cervello (Aëtius; DK 24 A13). Mentre Coxon8 nota in questo senso come Parmenide seguisse Alcmeone, Ruggiu9 tende a rovesciare la relazione, convinto che nello specifico l'influenza sia stata esercitata da Parmenide su Alcmeone. La questione è in effetti complessa. È probabile che Alcmeone ricavasse le proprie opposizioni (umido-secco, freddo-caldo, amaro-dolce ecc.) dalla più antica 8 Op. cit., p. 252. 9 Op. cit., p. 366. 607 tradizione ionica, la stessa che dovette ispirare le tavole pitagoriche, ma anche il modello parmenideo: l'orizzonte fisico appare ancora quello delle origini e non va dimenticato che le osservazioni biologiche di Parmenide sono inquadrate all'interno di una complessiva interpretazione del mondo naturale in chiave oppositiva (Fuoco-Notte). Il primo riferimento all'unione sessuale e alla riproduzione che abbiamo registrato nell'analisi dei frammenti (B12) le introduceva direttamente in chiave cosmica: ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ. in mezzo a queste la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6). È possibile, come abbiamo in precedenza argomentato, che Parmenide abbia effettivamente elaborato il proprio sistema (διάκοσμος) misurandosi con le proposte pitagoriche proprio sul terreno decisivo della cosmogonia e cosmologia; probabile che ciò sia avvenuto comunque tenendo ben presenti le soluzioni ioniche. Dal momento che le testimonianze, soprattutto i recenti rilievi archeologici, fanno supporre uno specifico interesse medico, non deve sorprendere la possibilità che un confronto sia intervenuto anche in ambito biologico. Il tema dell'opposizionericomposizione degli elementi risulta per altro ricorrente: come sottolineava Maria Timpanaro Cardini a proposito di Alcmeone: come alla fisica ionica si ricollegava probabilmente la primitiva dualità pitagorica ἄπειρον-πέρας [...], così da quella stessa fisica trasse verosimilmente Alcmeone 608 alcune opposizioni [...] le cui potenze egli constatava nella pratica della medicina10. Su questo sfondo piuttosto sfumato è possibile parlare di comuni obiettivi scientifici nella ricerca di Parmenide e Alcmeone, di convergenze nei risultati, sulla scorta di paradigmi esplicativi condivisi, forse anche pitagorici. A Crotone una fiorente scuola medica preesisteva all'arrivo di Pitagora, a testimoniare l'autonomia dell'indagine e della pratica medica, sebbene poi esse siano documentate anche nell'ambito della tradizione pitagorica antica, a conferma che la medicina fu avvertita come μάθημα essenziale11. 10 M. Timpanaro Cardini, Pitagorici antichi. Testimonianze e frammenti, Bompiani, Milano 2010 (edizione originale 1958-1964), pp. 134-5. 11 Ivi, p. 133. 609 B19 Il frammento B19 ci è conservato esclusivamente da Simplicio (In Aristotelis de caelo 558), in un contesto particolare (557-8), in cui si susseguono in poche righe tre citazioni del poema parmenideo (B1.28-32, B8.50-53 e appunto B19): οἱ δὲ ἄνδρες ἐκεῖνοι διττὴν ὑπόστασιν ὑπετίθεντο, τὴν μὲν τοῦ ὄντως ὄντος τοῦ νοητοῦ, τὴν δὲ τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ, ὅπερ οὐκ ἠξίουν καλεῖν ὂν ἁπλῶς, ἀλλὰ δοκοῦν ὄν· διὸ περὶ τὸ ὂν ἀλήθειαν εἶναί φησι, περὶ δὲ τὸ γινόμενον δόξαν. λέγει γοῦν ὁ Παρμενίδης [B1.28-32]. ἀλλὰ καὶ συμπληρώσας τὸν περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγον καὶ μέλλων περὶ τῶν αἰσθητῶν διδάσκειν ἐπήγαγεν [B8.50-53]. παραδοὺς δὲ τὴν τῶν αἰσθητῶν διακόσμησιν ἐπήγαγε πάλιν [B19]. πῶς οὖν τὰ αἰσθητὰ μόνον εἶναι Παρμενίδης ὑπελάμβανεν ὁ περὶ τοῦ νοητοῦ τοιαῦτα φιλοσοφήσας, ἅπερ νῦν περιττόν ἐστι παραγράφειν; πῶς δὲ τὰ τοῖς νοητοῖς ἐφαρμόζοντα μετήνεγκεν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ χωρὶς μὲν τὴν ἕνωσιν τοῦ νοητοῦ καὶ ὄντως ὄντος παραδούς, χωρὶς δὲ τὴν τῶν αἰσθητῶν διακόσμησιν ἐναργῶς καὶ μηδὲ ἀξιῶν τῷ τοῦ ὄντος ὀνόματι τὸ αἰσθητὸν καλεῖν; Quegli uomini [Parmenide, Melisso] posero una duplice ipostasi: quella dell'essere che è veramente, dell'intelligibile, e quella dell'essere che diviene, del sensibile, il quale essi non ritennero opportuno chiamare essere in senso assoluto, ma essere che appare. Per questo afferma[no] che la verità riguarda l'essere, l'opinione il divenire. Parmenide, infatti, dice: [B1.28-32]. Ma anche una volta completato il ragionamento intorno all'essere che è veramente, e sul punto di introdurre [la trattazione sul]l'ordinamento delle cose sensibili, aggiunse: [B8.50- 53]. Dopo aver fornito esposizione sistematica delle cose sensibili, aggiunse ancora: [B19]. Ma come ha potuto Parmenide supporre esistessero solo le cose sensibili, lui che intorno alle cose intelligibili era stato in grado di condurre riflessioni di tale consistenza e mole da non 610 poter ora essere riportate qui? Come ha potuto trasferire le caratteristiche proprie delle cose intelligibili alle cose sensibili, lui che con chiarezza distingue tra l'unità dell'intelligibile e del vero essere e l'ordinamento delle cose sensibili e non ritiene opportuno indicare il sensibile con il nome di essere? Riflettendo sulle indicazioni qui fornite da Simplicio, e incrociandole con le sue stesse citazioni, dovremmo concludere che: (i) il poema si articolava in due sezioni principali, per le quali il commentatore trova conferma in B1.28b-32; (ii) il passaggio tra le due sezioni avviene ai vv. B8.50-53; (iii) il nostro B19 era apposto a compimento di quella che il commentatore designa come διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν (sulla scorta del διάκοσμος di B8.60): ciò non autorizza tuttavia la deduzione che esso chiudesse il poema1. Ancora sulla doxa parmenidea Il contesto ci fornisce dunque una prospettiva d'insieme - ovviamente quella culturalmente e teoreticamente condizionata dell'intellettuale neoplatonico del VI secolo - sulla struttura del poema. Il proemio, in effetti, avrebbe, secondo Simplicio, delineato nel programma espositivo della Dea (B1.28-32) due ambiti: (i) il primo dedicato al «discorso/ragionamento sul vero essere» (περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγος), in altre parole alla «verità riguardo all'essere» (περὶ τὸ ὂν ἀλήθεια): nel lessico della tradizione platonico-aristotelica si tratta dell'ambito dell'«intelligibile» (τὸ νοητόν), che costituisce l'«essere in senso assoluto» (ὂν ἁπλῶς); (ii) l'altro, relativo all'illustrazione sistematica dell'«ordinamento sensibile» (διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν, ma anche περὶ τῶν αἰσθητῶν διδάσκειν), si riferisce all'«essere in divenire» (τὸ γινόμενον), il cui statuto ontologico è quello di «essere che 1 Non tutti concordano su questo punto: Conche (op. cit., p. 265), per esempio, non concede che il frammento – naturale conclusione della cosmologia del poema – ne costituisse anche la vera e propria chiusa. 611 appare» (δοκοῦν ὄν): Simplicio insiste sulla sua natura «sensibile» (τὸ αἰσθητόν), dunque sul suo manifestarsi nell'esperienza. La trattazione specifica è designata – in contrapposizione alla verità che concerne l'essere in senso pieno - come «opinione riguardo all'essere in divenire» (περὶ τὸ γινόμενον δόξα). È chiara, nel contesto del discorso, l'interpretazione di Simplicio dei versi conclusivi (28b-32) del proemio: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα. La struttura effettiva del poema doveva, dopo l'introduzione, prevedere: (i) la rivelazione circa «di Verità ben rotonda il cuore saldo » (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ): si tratta di ciò cui allude Simplicio con περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγος; (ii) la ricostruzione effettiva (δοκίμως) di τὰ δοκοῦντα, delle «cose che appaiono», ovvero delle «cose accettate nelle opinioni», che corrispondono a quanto il commentatore designa come δοκοῦν ὄν: la rivelazione della Dea avrebbe dunque investito anche l'ambito «sensibile», proponendo appunto una διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν. Il contesto delle citazioni fa intravedere come, per Simplicio, l'articolazione del Περὶ φύσεως fosse essenzialmente positiva, non prevedendo una specifica sezione riservata all'esame degli errori umani – alle «opinioni dei mortali, in cui non è reale credibilità» (βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής) -, che doveva invece essere distribuito nelle altre due. Negli interrogativi retorici che seguono la citazione di B19, troviamo conferma di una linea di lettura del poema che, all'interno della tradizione platonica, ha per noi un importante precedente in Plutarco: ὁ δ’ ἀναιρεῖ μὲν οὐδετέραν φύσιν, ἑκατέρᾳ δ’ ἀποδιδοὺς τὸ προσῆκον εἰς μὲν τὴν τοῦ ἑνὸς καὶ ὄντος 612 ἰδέαν τίθεται τὸ νοητόν, ὂν μὲν ὡς ἀίδιον καὶ ἄφθαρτον ἓν δ’ ὁμοιότητι πρὸς αὑτὸ καὶ τῷ μὴ δέχεσθαι διαφορὰν προσαγορεύσας, εἰς δὲ τὴν ἄτακτον καὶ φερομένην τὸ αἰσθητόν. ὧν καὶ κριτήριον ἰδεῖν ἔστιν, ‘ἠμὲν Ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεκ< ὲς ἦτορ >’, τοῦ νοητοῦ καὶ κατὰ ταὐτὰ ἔχοντος ὡσαύτως ἁπτόμενον, ‘ἠδὲ βροτῶν δόξας αἷς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής’ διὰ τὸ παντοδαπὰς μεταβολὰς καὶ πάθη καὶ ἀνομοιότητας δεχομένοις ὁμιλεῖν πράγμασι. καίτοι πῶς ἂν ἀπέλιπεν αἴσθησιν καὶ δόξαν, αἰσθητὸν μὴ ἀπολιπὼν μηδὲ δοξαστόν; οὐκ ἔστιν εἰπεῖν. [Parmenide] non elimina alcuna delle due nature, ma a ognuna conferendo ciò che le è proprio, pone l'intelligibile nella classe dell'uno e dell'essere, definendolo «essere» in quanto eterno e incorruttibile, e ancora uno per uguaglianza a se stesso e per non accogliere differenza; il sensibile invece in quella di ciò che è disordinato e in mutamento. Il criterio di ciò è possibile vedere: «il cuore preciso della Verità ben convincente», che raggiunge l'intelligibile e quanto è sempre nelle medesime condizioni, e «le opinioni dei mortali in cui non è vera certezza», perché esse sono congiunte con cose che accolgono ogni forma di mutamento, di affezioni e disuguaglianze. Come avrebbe potuto allora conservare sensazioni e opinione, non conservando il sensibile e l'opinabile? Non è possibile sostenerlo (Plutarco, Adversus Colotem 1114 d-e), e nella dossografia peripatetica (Teofrasto): Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης ἐπ’ ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. 613 Parmenide figlio di Pyres, da Elea […] percorse entrambe le strade. Mostra, infatti, che il tutto è eterno, e cerca anche di spiegare la generazione delle cose che sono, non avendo sulle due vie le stesse convinzioni: piuttosto, secondo verità egli sostiene che il tutto è uno e ingenerato e di aspetto sferico; secondo l’opinione dei molti, invece, al fine di spiegare la generazione delle cose che appaiono, pone due principi, fuoco e terra, l'uno come materia, l'altro invece come causa e agente (DK 28 A7). Ma chiaramente all'origine di questa valutazione delle prospettive (in termini di contenuto e struttura) del poema parmenideo troviamo l'analisi aristotelica: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...] ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1). Possiamo leggere il passo aristotelico proprio come un tentativo di sottrarsi agli schemi della originaria ricezione sofistica (giorgiana in particolare) del pensiero eleatico: Aristotele intende marcare, nello specifico, l'opzione teorica di Parmenide da quella di Melisso, il monismo «rispetto alla definizione (ovvero ragio- 614 ne)» (κατὰ τὸν λόγον) dell'uno, da quello «rispetto alla materia» (κατὰ τὴν ὕλην) dell'altro. Anticipando l'argomento di fondo della polemica plutarchea contro l'epicureo Colote, lo Stagirita poteva sottolineare come «ciò che è» (τὸ ὄν) è «uno» (ἓν) «secondo ragione» (appunto κατὰ τὸν λόγον), «molteplice» (πλείω) «secondo la sensazione» (κατὰ τὴν αἴσθησιν). Si evitava in questo modo di fare di Parmenide il sostenitore di un mero «uno-tutto» ovvero «essere-uno» (ἓν τὸ πᾶν, ἓν τὸ ὄν) - formule cui era stata ridotta l'essenza della filosofia eleatica soprattutto in alcuni dialoghi della maturità di Platone (Teeteto, Parmenide, Sofista, Timeo) 2 – che avrebbero ridotto il mondo molteplice e cangiante dell'esperienza a pura illusione. Come rivela il caso di Colote (e la risposta di Plutarco), si trattava effettivamente di una ricezione diffusa, probabilmente proprio sulla scorta dello schema gorgiano del Περὶ τοῦ μὴὄντος ἢ Περὶ φύσεως. Ripercorrendo le testimonianze e valutando gli interrogativi retorici che Simplicio faceva seguire alla propria citazione di B19 e dunque al riferimento al complesso della doxa parmenidea, appare giustificata una lettura "costruttiva" della seconda sezione del poema. In Teofrasto e Simplicio – che certamente disponevano di copie diverse del poema, trasmesse da tradizioni testuali almeno parzialmente alternative 3 - si conferma, in particolare, la prospettiva aristotelica di un doppio resoconto della stessa realtà4: secondo ragione e secondo esperienza. Parmenide, in altre parole, pur avendo coerentemente messo a fuoco i caratteri dell'oggetto dell'intelligenza – e quindi correttamente distinto tra i due ambiti (τὴν μὲν τοῦ ὄντως ὄντος τοῦ νοητοῦ, τὴν δὲ τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ) -, avrebbe poi mancato di individuarne la specifica realtà intelligibile: come sottolinea Simplicio, egli di fatto «proiettò sugli enti sensibili quanto adeguato agli enti intelligibili» (τὰ τοῖς νοητοῖς ἐφαρμόζοντα μετήνεγκεν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ). 2 Su questo in particolare Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, cit., p. 23. 3 Ivi, pp. 25 ss.. 4 Per questa linea interpretativa si veda J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 32 ss., in particolare pp. 38-41. 615 B19 e la doxa I tre versi del nostro frammento, poco più di una scheggia testuale, ribadiscono sinteticamente i termini della discussione: come abbiamo indicato in nota, la formula οὕτω τοι introduce effettivamente la ricapitolazione del discorso sulle cose «fisiche» considerate nel loro insieme (e ne traggono, in questo senso, la lezione «metafisica»5 ): οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ Ecco, in questo modo, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, in seguito sviluppatesi, avranno fine. A queste cose, invece, un nome gli uomini imposero, distintivo per ciascuna. Il punto di vista adottato - κατὰ δόξαν – giustifica l'insistenza sulla dimensione temporale delle forme verbali impiegate: ἔφυ, νυν ἔασι, τελευτήσουσι τραφέντα. Non è difficile intravedere la corrispondente prospettiva del νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης, espressa in B8.5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν. Il rilievo del divenire passa, in vero, attraverso scelte espressive ben ponderate: a) il passato espresso con ἔφυ richiama etimologicamente (φύω) la centralità della φύσις (B10) nella ricerca condotta (διάκοσμος) nella seconda sezione del poema; b) il presente connotato avverbialmente (νυν) limpidamente evoca, per contrasto, il νῦν di B8.5, caricandosi, rispetto all'immutabile stabilità di quel contesto, di un senso di precarietà e sfuggente puntualità; c) lo sviluppo, il mutamento e la caducità sono resi come τελευτήσουσι τραφέντα, marcando, insomma, il nesso tra fine e compimento, con la ripresa di una forma verbale – τελευτάω - de- 5 Conche, op. cit., p. 265. 616 rivata da τέλος e τελέω, ma, nuovamente, con un valore diverso rispetto a quello di analoghi derivati in B8 (B8.4: ἀτέλεστον; B8.32: οὐκ ἀτελεύτητον; B8.42: τετελεσμένον): il senso è qui quello di «concludersi in quanto giunto al proprio fine e al proprio compimento»6. Per la terza volta, dopo B8.38b-41 e B8.53, i versi del poema insistono sullo spessore linguistico della doxa: e ancora, come nei due precedenti, essenzialmente per rilevarne gli effetti distorcenti. L'origine dell'erranza umana, dello sviamento che gli uomini perpetrano e perpetuano nel linguaggio, risiede nell'ordinamento dei contenuti fenomenici all'interno di una determinata cornice linguistica, in cui appare implicita la possibilità di qualcosa di diverso dall'essere stesso7. Non a caso l'interpretazione κατὰ δόξαν parmenidea si era aperta stabilendo principi (B9) di cui esplicitamente si escludeva la partecipazione al nulla. In questo senso, Ruggiu8 ha colto nel linguaggio di Parmenide - in particolare in questo passaggio - il tentativo di elaborare un lessico più vicino alla verità delle cose; come in B4, dove l'apparire era stato proposto non nei termini ontologici dell'«essere» e del «non-essere», ma in quelli della «presenza» e dell'«assenza». Un sforzo che ancora ci riporterebbe ad Aristotele, che ne avrebbe colto alcuni aspetti nella sua polemica antieleatica: ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. Ruggiu. Coloro che per primi hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti, dall'inesperienza furono spinti su una via diversa: essi sostengono che delle cose che sono nessuna si generi o si distrugga, poiché ciò che si genera origina o da ciò che è o da ciò che non è; ma è impossibile da entrambi i punti di vista. Ciò che è, infatti, non si genera (dal momento che è già); né da ciò che non è è possibile si generi alcunché: è richiesto in effetti qualcosa che funga da sostrato [soggiacia]. Così si spinsero, aggravando le cose, ad affermare che non esistano i molti ma che esista solo l'essere (Fisica I, 8 191 a25 ss.).  Verb fīō (present infinitive fierī, perfect active factus sum); third conjugation, semi-deponent  (passive form of) faciō (copulative) I become, am made Vōs ōrāmus ut discipulī ācerrimī fīātis. We are begging you so that you may becomevery keen students I happen, take place, result, arise – quotations, synonyms. Synonyms: interveniō, ēveniō, expetō, obtingō, incurrō, accēdō, incidō, accidō, contingō ut fit ― as happens usually/as is customary fit ut ― it happens that Titus Livius, Ab Urbe Condita I, 13: silentium et repentina  fit quies A stillness and a sudden hush took place I appear quotations: Titus Livius, Ab Urbe Condita I, 10: fit obvius cum exercitu Romulus Romulus appeared with his army Conjugation Edit While it does have a fourth conjugation pattern when conjugated, this verb has an irregular infinitive (fierī), and is therefore third conjugation. Conjugation of fīō (third conjugation iō-variant, irregular long ī, suppletive in the supine stem, semi-deponent) indicative singular plural first second third first secondthird activepresent  fīō fīs fit fīmus fītis fīunt imperfect fīēbam fīēbās fīēbat fīēbāmus fīēbātis fīēbant future  fīam fīēs fīet fīēmus fīētis fīent perfect factus + present active indicative of sum pluperfect factus + imperfect active indicative of sum future perfect factus + future active indicative of sum subjunctive singular plural first second thirdfirstsecondthird active present fīam fīās fiat fīāmus fīātis fīant imperfect fierem fierēs fieret fierēmus fierētis fierent perfect factus + present active subjunctive of sum pluperfect factus + imperfect active subjunctive of sum imperative singular plural first second third first secondthird activepresent— fī — — fīte — future—fītō fītō—fītōte fīuntō non-finite formsactivepassive presentperfect future presentperfect future infinitives fierī factumessefactum īrī participles factus verbal nounsgerundsupine genitivedative accusativeablativeaccusativeablative fiendīfiendō fiendum fiendō factum factū Usage notes Edit This verb ousted Facior, Facī in the sense of "to be made".  Verb Edit fīō  first-person singular present passive indicative of faciō Related terms Edit faciō fīat lūx fīat jūstitia ruat cælum Descendants Edit Vulgar Latin: *fiō (see there for further descendants) → English: fiat References Edit fio in Charlton T. Lewis and Charles Short (1879) A Latin Dictionary, Oxford: Clarendon Press fio in Charlton T. Lewis An Elementary Latin Dictionary, New York: Harper & Brothers fio in Gaffiot, Félix (1934) Dictionnaire illustré Latin-Français, Hachette.  Eliadi, Meleagridi, Pandionidi. Osservazioni sulla metafora mitica in Parmenide Author(s): Antonio Capizzi Source: Quaderni Urbinati di Cultura Classica, New Series, Vol. 3 (1979), pp. 149-160 Published by: Fabrizio Serra Editore. JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR. Accademia Editoriale, Fabrizio Serra Editore are collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Quaderni Urbinati di Cultura Classica This content downloaded from 128.143.23.241 on Wed, 22 Jun 2016 10:52:17 UTC Eliadi, Meleagridi, Pandionidi. Osservazioni sulla metafora mitica in Parmenide.  Non posso fare a meno di ringraziare Fajen per la dura critica che ha rivolto alia mia interpretazione dei frammenti di Parmenide. Devo ringraziarlo perche, a differenza di altri critici non meno duri, prima di giudicare il mio saggio lo ha letto da cima a fondo e lo ha compreso assai bene, dato che i punti da lui attaccati sono in effetti gl’argomenti portanti della mia dimostrazione. Ma soprattutto devo essergli grato perche, attaccando quei punti, mi ha costretto ad approfondirli, e conseguentemente a scoprire nuovi e piu validi argomenti in loro favore. A questo punto, pero, i ringraziamenti finiscono. Gli argomenti di Fajen colpiscono i bersagli giusti, ma li colpiscono assai debolmente. Vediamoli in breve uno per uno. a) lo ritengo che la mia intera interpretazione del frammento 1, e cio? la lettura realistica e topografica del viaggio di Parmenide sulla "via del nume", poggi sui solido pilastro dei tempi verbali “Sulla natura”; sui fatto cio? che, nei due punti in cui il viaggio si localizza, in quanto vengono nominate prima la via e poi la porta, la narrazione passa dai tempi storici ai tempi principali. Fajen invece del parere che, in qualunque modo la narrazione venga considerata, sia come preparatoria ad una specie di rivelazione o simili, sia come esposizione di un viaggio storico, i tempi sono comunque privi di un qual siasi peso. Premetto che il “Sulla natura”, formalmente parlando, in ogni caso "preparatorio ad una specie di rivelazione". Il contenuto del “Sulla natura” viene presentato come il discorso di una dea, Dike, a Parmenide, cosi come il contenuto della Teogonia una rivelazione che altre dee, le muse, hanno fatto ad Esiodo. E la divergenza tra le varii interpretazioni verte sulla localizzazione dell’incontro tra la divinita e il poeta, localizzazione inesistente nelle letture mistiche e [Gymnasium, La porta di Parmenide, Roma] allegoriche, esistente nel mondo celeste nelle esegesi astronomiche, e infine esistente in una citta reale di questo mondo -- certamente Velia -- nella mia interpretazione. Ora, Fajen puo pensare cio che meglio crede sui significato dei tempi verbali nei vari tipi di narrazione; ma tanto il suo parere quanto il mio restano inverificabili se non si basano su esempi concreti. Concretamente parlando, i filosofi precedenti Parmenide, o a lui contemporanei, non ci forniscono esempi di narrazioni allegoriche in prima persona. E, per quanto concerne viaggi nel Pal di l? (celeste, infero o mistico che sia questo al di l?), non ci danno che la Nekyia omerica. Ma anche la sola Nekyia, analizzata strutturalmente, ? assai significativa per il nostro problema. Essa si compone di tre parti: il passaggio di Ulisse e dei suoi compagni per l’ultimo agglomerato umano, abitato da esseri viventi e definibile come un 8?po<; e come una toXic 3, e cio? per il paese dei Cimmerii {k 1-19); il loro inoltrarsi nei luoghi indicati da Circe4, e cio? nel bosco di Persefone, dove viene scavata una fossa alla quale le ombre dei morti giungono uscendo fuori dalPErebo 5 (k 20-565); infine la penetrazione di Odisseo (preannunciata da un intermezzo in cui Al cinoo assicura il suo ospite che ci? che dira verra creduto 6 anche se narrera "avvenimenti straordinari"7) nella casa stessa di Ade8, dove pu? vedere anche personaggi (Minosse, T?ntalo, Sisifo) impos sibilitati ad uscire dalPErebo (k 583 sgg.). La seconda parte, la pi? lunga, si svolge tutta presso la fossa, in mezzo ad una nebbia che a mala pena lascia vedere i contorni delle persone, ed ? quindi priva di localizzazioni; la prima e la terza, invece, contengono localizzazioni e descrizioni rispettivamente di cose del nostro mondo (appunto la citt? e la terra dei Cimmerii) e del mondo dei morti (il lago e Palbero di T?ntalo, il monte e il macigno di Sisifo). Ora, parlando dei Cim merii il poeta interrompe la serie degli aoristi e degli imperfetti, che punteggiano il viaggio della nave, con un presente (xccTaS?pxETai, v. 16) e con un perfetto equiparabile ad un presente (Texaxai, v. 19); mentre ci? non avviene per i luoghi delPErebo, e cio? per il lago (Xlexvtq-Tzpoff?Tzko?^z, v. 583; uSwp anokzcrxzio, v. 586), per la 3 Evfra 8? KiujXEptcov ?vSpcov 5?p?<; te tc?Xic te (0?. XI 14). 4 ocpp' e<; x&pov a^xou-eft' ov cppacTE K?pxiQ (ibidem, 22). 5 ai 5' ?y?povTo ipuxai ?rc?? 'Epa?eix; (ibidem, 36-37). 6 J??, 363-366. 7 dicrxzka spy a (ibidem, 374). 8 xoct' E?puTCuX?? "A?5w? 565 Eliadi, Meleagridi, Pandionidi 151 terra lasciata scoperta dal ritirarsi del lago {ycda piXaiva cp?vECXE, v. 587), per gli alberi (S?vSpea .. . x&, v. 588), per il macigno (tot' ?-Koo-zpityaaxz xpotTout;, v. 597), e soprattutto per la cintura di Era cle, la cui descrizione ? an?loga a quella parmenidea della porta (fr. 1, vv. 11-13), ma ne differisce appunto perch? alP dai iniziale si sosti tuisce un Tjv (v. 610). II processo, per cui i tempi storici di una nar razione si interrompono e lasciano il posto ai tempi principali ogni volta che il narratore vuole localizzare con precisione il racconto rea l?stico, non ? limitato all'inizio della Nekyia: molti dei numerosi rac conti contenuti nelPultima parte dtWOdissea vi fanno ricorso9; ed ? presente anche nei tragici, come nella narrazione della sconfitta di Salamina fatta in Eschilo dal messaggero persiano 10, allorch? questi vuole localizzare un'isola n e un fiume 12, o l? dove il "pedagogo" di Euripide, riferendo di av?re udito la gente parlare di un decreto di Creonte 13, allude a una fontana ben nota (come la porta e la via di Parmenide) ai suoi ascoltatori. b) Pi? centrata ? Posservazione di Fajen a proposito del termine aorxu: per me la oS?? TO^?cpirpoc Sai[jiovo<; r\ xax?c tc&vt' ?cron, cp?psi elS?toc cpwTa ? la via principale della citt?, che congiunge tutti i quar tieri cittadini; Fajen mi osserva che acnu non significa "quartiere cit tadino", ma la citt?, o una sua parte composta di pi? quartieri. Fin qui il critico ha probabilmente ragione: "quartiere" implica un cen tro compatto, magari diviso in quattro parti come nelle citt? nate da accampamenti; e xgct<x tuocvt' ?o*TT] significa "attraverso tutte le cit 9 Tra i molti racconti che punteggiano la storia di Odisseo approdato ad Itaca ve ne sono due, quello di Eumeo a Odisseo (XV 390-486) e l'altro di Odisseo a Penelope che ancora non lo ha riconosciuto (XIX 165-202), che sem brano ricalcati su uno stesso clich?: entrambi infatti contengono un'introdu zione, nella quale l'oratore acconsente a parlare e spiega le ragioni del suo as senso (XV 390-402; XIX 165-171); una localizzazione, in cui vengono descritte rispettivamente le isole di Siria e di Creta (XV 403-412; XI 172-178); e la narra zione vera e propria, legata alia localizzazione in entrambi i casi dal ricordo di un re che regnava nelle terre descritte (XV 413-486; XIX 178-202). La localiz zazione ? sempre caratterizzata da tempi principali, la narrazione da tempi sto rici; e ci? avviene anche in altri racconti deH'ultima parte d?iVOdissea (cfr. ad es. XXIV 331-344). 10 Pers. 272 sgg. 11 Ibidem, 447-449. 12 Ibidem, 487. 13 Med.  ta" (in quanto forse la Via del Nume non aveva solo un tratto citta dino, ma congiungeva Velia a Posidonia e alle altre citt? costiere) o "attraverso tutti i nuclei abitati" (nel senso che la strada univa i due porti, Pacropoli e magari la fortezza di Moio della Civitella, avam posto velino verso il retroterra 14. Ma, anche concedendo la corre zione, non ci ritroviamo sempre in una lettura topogr?fica, e cio? pro prio in quella lettura che Fajen ritiene inammissibile? Dato che Fajen non propone interpretazioni alternative, devo supporre che egli opti per le interpretazioni non topografiche ten?ate fino ad oggi. Ora, se si accetta la lettura che fa del proemio un'allegoria speculativa simbo leggiante il viaggio delPintelletto verso la conoscenza (Fr?nkel, Bowra, Deichgr?ber), gli occttt) sono le province del sapere; se si propende per Piniziazione religiosa o mist?rica (Diels, Mondolfo, Zafiropulo, Jaeger, Verdenius, Untersteiner, Mansfeld, ecc), dobbiamo intendere per ?o-rr] i gradi delPilluminazione; se infine si sceglie Pesplorazione c?smica, e cio? la corsa sui carro del sole lungo le orbite celes ti (Gil bert, Kranz, Capelle), i "centri abitati" simboleggiano i segni dello zodiaco o qualcosa di simile. Fajen, cosi scrupoloso nel consultare gli autori antichi in cerca delPesatto significato di acrru, ha trovato in qualche scrittore traslati di questo genere? Se si, sar? lieto di saperlo. c) Diels ritiene che il izk?-zTovai = -rcXoco-crovTai di Parm. 6,5 non sia una forma regolare di rcXacrcrG), ma una forma an?mala di izka?u, e puntella la sua ipotesi con esempi tratti dal tarantino; Fajen mi concede il diritto di rifiutare gli esempi, "non essendo plausibile un dorismo in quel contesto", ma non di invalidare Pipotesi, essendo Pipotesi stessa {Tzkavvovzai per TcXa?ovTcci) fondata su "un'intera se rie di verbi in -o"o*co invece del -?w che ci si aspetterebbe" citata nella grammatica greca di Schwyzer 15. Non credo che sia necessario rileg gere le grammatiche per sapere ehe in greco le reg?le sulla formazione del presente dal tema verbale sono alquanto precarie: ma icX?Cco ha un presente regolare attestato da numerosi scrittori, e Diels non lo ha certo negato. Diels ipotizza un hapax, e cio? una forma irrego lare che sarebbe attestata dal solo Parmenide, e solo in quel passo; e non devo essere io a ricordare al collega che un'ipotesi di hapax (cosi corne anche un emendamento) viene a cadere appena si dimostri che 14 Si veda in proposito E. Greco, 'Il (ppo?piov di Moio della Civite?V, Riv. studi salern. 1969, pp. 389-396. 15 E. Schwyzer, Griechische Grammatik I, M?nchen  il passo ha senso compiuto senza di essa. Anche se Fajen trovasse non una serie di presenti irregolari o di doppi present? (come quelli elen cati da Schwyzer), ma addirittura una serie di hapax analoghi a quello presunto da Diels, Poner? della prova resterebbe sempre a lui. Alla fine della sua breve ma densa recensione Fajen mi accusa "di non essere al servizio della scienza", e non posso dargli torto: se scienza ? quella che traspare dalle sue argomentazioni, essa consiste nelPaccettare il vecchio perch? vecchio e nel rifiutare il nuovo perch? nuovo; e scienziato ? chi (come Cesare Cremonini) rifiuta di guardare nel cannocchiale se il cannocchiale non mostra Puniverso descritto da Aristotele. II servizio di questo tipo di scienza lo lascio volentieri al mio c?rtese obiettore. 2. Ho tralasciato volutamente il primo argomento di Fajen, quello riguardante la mia interpretazione delle "fanciulle Eliadi", citate in Parm. 1,9, come pioppi fiancheggianti la strada, dato che in tutte le fonti, tranne che in Omero, le 'HXi?S?<; compaiono trasformate in pioppi o in altri alberi: Fajen obietta che in questi autori vi ? sempre (tramite il nome di Fetonte o Paccenno al pianto delle fanciulle) al lusione al mito metamorfico, allusione che in Parmenide viene a man care. Se accettiamo il criterio qui proposto, ci troviamo al di fuori di ogni possibilit? interpretativa: le Eliadi non possono essere a?YSi?poi come in Eschilo perch? Parmenide non si riferisce al mito di Fetonte, ma neanche possono essere v?^cpai come in Omero perch? Parmenide non accenna al mito di Odisseo. Se poi cerchiamo di completarlo con altri criteri, Pallusione al mito di Fetonte ? preferibile non solo per la quantit? delle fonti, e per la contemporaneit? tra Parmenide ed Eschilo che ? la pi? antica di esse, ma anche e soprattutto perch? Pespressione 'HXi?SEc (a volte accompagnata da xo?pai e a volte no) ci risulta esclusivamente nelle narrazioni del mito metamorfico. Ma anche ammettendo che la mia lettura incontri qualche difficolt?, Pin terrogativo ? lo stesso che ci siamo posti a proposito di rcavi' ?crn}: quai ? Palternativa, e che cosa ? stato proposto fino ad oggi? Ancora una volta: se optiamo per la lettura speculativa, le Eliadi sono forze intellettuali; se riprendiamo Pipotesi mistica, sono potenze divine; se ripieghiamo sull'interpretazione astron?mica, sono ?nergie cosmi che. In quale mito troviamo le Eliadi come equivalenti di cose del genere? E quali riferimenti di Parmenide ci riportano a miti consimili? Ci? che Fajen sembra trascurare ? il fatto che fino ad oggi nes suno ha letto il proemio di Parmenide come una narrazione mitica mai esistito un mito di cui fosse protagonista lo scrittore che lo nar rava) : i moderni fautori delle tre interpretazioni menzionate pi? sopra hanno visto tutti nelle Eliadi una met?fora; quanto agli antichi (il cui giudizio Fajen mi rimprovera di trascurare), Sesto Emp?rico, P?nico che abbia tentato un'interpretazione del proemio, riduce anch'egli a met?fora le figlie del sole (che simboleggerebbero le sensazioni)I6, mentre Proclo 17 attesta il continuo uso di metafore (xp^oflai [XETacpo pa??) da parte di Parmenide, e il retore Menandro 18 precisa che fece uso di quelle particolari metafore mitiche consistenti nel dire "Apol lo" per sole, "Era" per aria, "Zeus" per calore, ecc. Si tratta di metafore comunissime in tutta la letteratura antica, da Omero in poi, e costruite proprio nel modo che io propongo per le Eliadi parme nidee e che Fajen ritiene inammissibile: il personaggio m?tico viene nominato al posto delPoggetto cui ? associato, senza alcun riferimento al mito che giustifica Passociazione. Queste considerazioni sarebbero sufficienti per rispondere alie contestazioni di Fajen; ma, come ho detto, la mia inveterata abitudine di rimettere in questione le mi? tesi mi ha spinto a fare ulteriori ri cerche sulle strutture della met?fora mitica. Ho osservato, ad esempio, che questo tipo di met?fora, pur essendo forse il pi? fr?quente nel Pantichit?, compare assai di rado nel lungo elenco di metafore poe tiche e retoriche fornitoci da Aristotele 19, e il fatto non mi ? sembrato casuale: Panomalia dipende, a mio avviso, "dal carattere sincr?nico e non diacronico delPindagine aristot?lica, alia quale ? estraneo il pro blema della genesi e delPevoluzione della lingua e dei suoi modi"20. Aristotele scrive in un'epoca nella quale i poeti cominciavano gi? a comporre pensando ad altri poeti, i retori in pol?mica con altri re tori, cosicch? le metafore erano soprattutto preziosismi stilistici (?cTTEia): tutta Pindagine aristot?lica valuta le metafore a seconda del loro valore est?tico, e non c'? una volta che il filosofo di Stagira si ponga il problema del rapporto tra efficacia e comprensibilit?. Per Aristotele la met?fora ? letteraria, non popolare; ed ? per questo che lo interessano assai poco le metafore mitiche, che sono allusioni dei 16 Sext. Adv. Math. VII 112. 17 Parm. I 665,17. 18 Rhet. I 5,2. 19 Poet. 21-22; Rhet. Ill 2-4; 10-11. 20 G. Morpurgo Tagliabue, Ling?istica e stilistica di Aristotele, Roma poeti e degli oratori a modi di dire gi? esistenti e diffusi tra la gente del pop?lo che (in ?poca di viva tradizione orale) li ascolta diretta mente. Aristotele, insomma, non pensava mai che gli aedi omerici dovevano farsi capire dalla gente delle citt? che visitavano; e che i poeti e gli oratori del sesto e del quinto sec?lo avevano un ben pre ciso uditorio 21, nel quale le loro met afore dovevano suscitare reazioni immediate. Nessun cantore o parlatore avrebbe detto "Ares" per indicare la guerra se non av?sse saputo che i suoi ascoltatori usavano gi? la stessa met?fora; e le metafore mitiche erano popolari prima di essere letterarie. La popolarit? delle metafore cui pi? sopra ho accennato era senza dubbio estesa all'intero mondo di lingua greca, e la ragione ? f?cil mente intuibile: si tratta di metafore o gi? presenti nei poemi ome rici, o da essi der?vate. Ma esistevano metafore mitiche popolari di origine postomerica o extraomeriea: Empedocle, che subi fortemente la suggestione stilistica di Parmenide, e che gi? il retore Menandro accomunava a Parmenide proprio per Puso di metafore mitiche22, usa per i suoi elementi tre nomi di divinit? omeriche, Zeus, Era e Edoneo (= Ade), ma per il quarto elemento, Pacqua, si serve di Nesti23, una divinit? siciliana24; e abbiamo qui un chiaro esempio di met?fora po? tica che riproduce una met?fora mitica popolare locale, e cio? di poesia adattata ad un uditorio limitato, come era anche quella di Parmenide. Le Eliadi pero, pur non essendo un mito omerico, non sono neanche un mito locale campano, o pi? in gen?rale italiota: sono, nel momento in cui Parmenide compone il suo poema, un mito tr?gico. I miti metamorfiei e i miti dionisiaci sono i due pi? importanti gruppi di miti non omerici, ed hanno entrambi la stessa origine: i sa tiri e i sileni della mitografia dionisiaca, le donne-uccello e le donne albero della mitografia metamorfica, derivano tutti certamente dai riti di caccia, raccolta e agricoltura in cui i danzatori o le danzatrici si camuffano con pelli di animali o con fronde vegetali per mimare 21 Rinvio, per lo sviluppo di questa prospettiva storica, a B. Gentili, 'Aspetti del rapporto poeta committente uditorio nella lirica c?rale greca', Stud. urb. 39, 1965, pp. 70-88: per Parmenide si vedano le pp. 87-88. 22 Menand. loc. cit. 23 Emp. fr. 6, v. 3; fr. 96, v. 2. Un altro personaggio facente parte di un mito siceliota, Baub?, la nutrice di Persefone, viene nominato da Empedocle (fr. 153) metaf?ricamente per indicare il ventre. 24 Lo attestano Eustazio {ad II. p. 1180,14) e Fozio (s.v. N^ctttic). appunto le operazioni di sostentamento collettivo e propiziarne la buona riuscita. Tali miti hanno dunque, fin dalle origini, uno stretto l?game con la tragedia ^ ?(che ricorda nel suo stesso nome il travesti mento con pelli di capra): non c'? dunque da meravigliarsi se fu la tragedia a renderli popolari in tutta la Grecia, man mano che le com pagnie girovaghe li rappresentavano. Le metafore popolari nate da questi miti sono chiaramente di origine tr?gica. I miti metamorfici hanno scarse metafore, ed ? facile capire il perch?: nella maggioranza di essi (Aracne, Dafne, Cieno, Atlante, Aretusa, ecc.) il personaggio che si trasforma ha gi? il nome della cosa nella quale si trasformer?, essendo costruito solo in funzione della metamorfosi. Ma spesso si tratta in vece di personaggi gi? no ti fuori del mito metamorfico, o comunque dotati di nomi propri, e allora la met?fora ? possibile: ? questo appunto il caso delle Eliadi, gi? pre sent? in Omero in una narrazione non metamorfica, e che rientrano nella tipolog?a delle "sorelle trasformate mentre piangono la morte di un congiunto". Una variante del mito delle Eliadi ? la storia delle Meleagridi, anch'esse "sorelle piangenti", che differiscono dalle Elia di per il nome del fratello morto (Meleagro anziehe Fetonte) e per il tipo di metamorfosi (uccelli anziehe pioppi), ma ad esse strettamente si l?gano per il fatto che dopo la metamorfosi piangono lacrime d'am bra: in effetti Plinio il vecchio cita entrambe le favole nella sua lunga elencazione delle opinioni sulPorigine dell'ambra, e ne mette anche in evidenza la comune origine tr?gica, attestando come la storia delle Eliadi derivi dalPomonimo dramma di Eschilo 26 e quella delle Me leagridi dal Meleagro di Sofocle. Ma la leggenda delle Meleagridi presenta analogie anche con quella delle Pandionidi, figlie di un m? tico re di Atene, che probabilmente nella versione originaria erano 25 Questo l?game ? ancora rintracciabile, ad esempio, nel Prometeo inca tenato, dove lo, fanciulla trasformata in vacca cui continuamente si allude anche nelle Supplici, viene d?fini ta ?ouxepcoc irapdevoc (v. 588): ? chiaro che ancora in Eschilo il personaggio trasformato in animale compariva sulla scena con una maschera atta a ricordare l'animale stesso. ? probabile che anche negli Uccelli di Aristofane Procne entrasse in scena con qualche attributo legato alla sua me tamorfosi in uccello: alla maschera animalesca alludono chiaramente i due per sonaggi che commentano la sua comparsa (vv. 672-674). 26 ?piufumi po?tae dixere, primique, ut arbitror, Aeschylus, etc." {N.H. XXXVII 2, 11,31). 27 "Super omnis est Sophocles po?ta tragicus [...] Hic ultra Indiam fieri dixit e lacrimis meleagridum avium Meleagrum deflentium" [ibidem, 41). This content downloaded from 128.143.23.241 on Wed, 22 Jun 2016 10:52:17 UTC All use subject to http://about.jstor.org/terms   Eliadi, Meleagridi, Pandionidi 157 state trasformate in rondini mentre piangevano anch'esse un parente morto (e ce lo suggerisce il fatto che tanto Esiodo28 quanto Saffo29, due poeti vissuti assai lontani Puno dalPaltra nel tempo e nello spa zio, chiamino IIav8iovi<; la rondine): divenute uccelli corne le Melea gridi, esse esprimono il loro dolore non con lacrime, ma con strid?i. Nei tragici, prima in forma allusiva nel primo coro delle Supplici di Eschilo, poi per esteso nel Tereo di Sofocle, troviamo questo mito gi? contaminate (probabilmente per la somiglianza tra i patronimici Ilav Siovi? e navSapTQi?) con quello di Aedone, figlia di Pandareo, che uc cide per errore il proprio figlio Itilo e si trasforma in usignolo M, oltre che con la truce storia (variante tessala del mito di Medea) della vendetta di Procne su Tereo: ne vien fuori un complesso mito meta morfico, dove le Pandionidi si sono prec?sate nelle due sorelle Procne e Filomela, mutate Puna in usignolo e Pa?tra in rondine, mentre Tereo si trasforma in upupa; tuttavia anche in questo caso il mito diventa popolare (e ce lo attesta perfino Aristofane)31 quando si rappresenta pubblicamente la tragedia sofoclea che narra la metamorfosi. Tutti e tre questi miti diedero luogo a metafore popolari, e Ate ne, proverbialmente ricca di uccelli, appunto la sua attenzione sui due miti sofoclei, ritrovando le Pandionidi e le Meleagridi nelle colonie avicole locali: la rondine dovette essere chiamata abitualmente Filo mela, se tutti compresero a vol? quando Gorgia ne apostrofo una con questo nome (una met?fora famosissima, evidentemente, se perfino Aristotele32, che abbiamo visto cos? restio a citare metafore mitiche, la ritenne degna di menzione); e Meleagridi furono chiamati, pi? in gen?rale, gli uccelli che nidificavano numerosi nelPAcropoli e che ri chiamavano con immediatezza agli Ateniesi le immagini e i cori del Meleagro 33. A Velia, ricca di pioppi **, suscito invece maggiore im 28 Op. 568. Probabile reminiscenza esiodea in Mnesalc. Anth. Palat. IX 70. 29 Fr. 88 Bergk. 30 Od. XIX 518-523; Apollod. III 5,6. 31 Toia?Ta uivToi Eo<poxX??}? )apa?v?Tai ?v to?? TpaY^Siaiciv ?ui t?v Trjp?a (4i;. 100-101). 32 Rhet. III 3, 1406 b 16-19. 33 Hesych.: MeXeocyp?Se? opv?i?, ai ?v?u-ovco ?v t^ ?xpoitoXei. 5W.: M? X?aYP?8?c * opv?a, ?citep ?v?p,ovTO ?v xfi ?xporcoXei X?Youca 8? o? uiv tgc? ?SfiXcp?? toO M?X?aYPOu [xz-zct?aXzl^ ?i? tgc? u-?X?aYp?8a<; apvida? xtX. Phot. s.v. = Sud. 34 Cfr. L# porta di Parmenide cit. pp. 33-34. This content downloaded from 128.143.23.241 on Wed, 22 Jun 2016 10:52:17 UTC All use subject to http://about.jstor.org/terms   158 A. Capizzi pressione la metamorfosi delle Eliadi messa in scena da Eschilo: gli abitanti del centro campano cominciarono a chiamare "fanciulle Elia di" gli alberi che fiancheggiavano la Via del Nume, tanto che Par menide utilizz? Pimmagine mitizzata degli alberi per caratterizzare la "famosa via". Ma il fatto significativo ? che chiunque alludesse alle metafore popolari locali non mancava di riferirsi anche, pi? o meno apertamente, alle trag?die cui il suo uditorio riallacciava le metafore. Gorgia lo fece da oratore, dato che si rivolse alla rondine-Filomela "col pi? elevato tono dei tragici"35; Parmenide invece si comporto anche in questo da poeta, illuminando la met?fora popolare di origine eschilea con altre metafore tratte dai testi stessi di Eschilo, come Tuso di "xaX?-rcTpi?]" per "?ocpo?" e di "x??P" per "o?o?" e l'?vidente gioco sui doppio significato di "x?pa" ("testa" e "cima"36 che ritroviamo nella splendida immagine del verso 10: "xaX?-rcTpa" per "velo di t?n?bre" ? in effetti accertato come espressione eschilea37, mentre le immagini della trasformazione delle braccia in rami e della testa in cima frondosa sono anche nei versi dedicati aile Eliadi da Ovi dio 38, versi che nella parte finale (allorch? le sorelle si lamentano tutte insieme con un andamento che richiama i cori tragici)39 sembrano fortemente influenzati dalle Eliadi di Eschilo, dove le figlie del Sole costituivano appunto il coro. ? anche significativo come queste metafore popolari abbiano dato, in epoca pi? tarda, esiti assai simili: mentre i mitografi conti nuavano a narrare la metamorfosi senza discostarsi molto dalla versione tr?gica, gli scienziati attingevano ai nomi mitici per denominare ani mali o piante poco conosciuti. Il nome di Filomela, che i latini usa 35 aplata twv TpaYixwv (Arist. loe. cit.). Aristotele aveva coito bene l'al lusione perch? conosceva il testo del Tereo (cfr. Poet. 16, 1454 b 37). 36 Per x?pa significante "cima d'albero" cfr. Soph. fr. 23 Nauck. 37 Cfr. Choeph. &14. Ma va chiarito che i versi di Parmenide risentono con tinuamente di quelli di Eschilo: si cfr. per es. Eum. 516 con Parm. 1,25; Eum. 538-542 con Parm. 1,14; Prom. 210 con Parm. 8,53-54; Prom. 447 con Parm. 7,5; ecc. 38 Tertia cum crines manibus laniare pararet, avellit frondes. Haec stipite crura teneri, ilia dolet fieri longos sua brachia ramos (Met. II 350-352). 39 Parce, precor, mater, quaecumque est saucia clam?t, parce precor: nostrum laniatum in arbore corpus vano come sin?nimo di "uccello"40 o pi? specificamente di "ron dine"41, venne dato dai naturalisti greci prima ad una specie di cuculo (la "filomela maggiore")42, poi per estensione al pesce-cuculo (trigla cuculus)43, cosi detto perch? si diceva emettesse un suono simile al canto delPuccello omonimo; e Pequivalenza tra "rondine" e "Pan dionide" fece si che la celidonia (la comune "erba da porri"), detta dai Greci per la sua forma "x^S?viov pi?Ya" {= "rondinella mag giore") venisse detta a volte anche "tcocvSlo? pt?oc"44, certamente, come ben vide Wellmann, corruzione di un originario "IlavSiovic; pi?a". "Uccello meleagride" fu, a cominciare da Aristotele45, e so prattutto dal suo discepolo Clito da Mileto, che ne fece una minuziosa descrizione46, il nome dato dagli ornitologi47 alla gallina faraona, e cio? a quello, tra gli uccelli comuni nelPAcropoli, che si riteneva ori ginario dall'Etolia48, sede del mito di Meleagro. Non ce dunque da stupirsi se, con un processo del tutto id?ntico, i botanici chiamarono "pioppo eliade"49 una certa variet? di quella pianta. L'unica differenza tra i miti di questo gruppo sta dunque nel fatto che i glossari e i trattati di retorica ci hanno trasmesso le meta fore popolari zoologiche di Atene e non quelle botaniche di Velia; e la ragione ? quella che deduciamo da Diogene Laerzio ^: la maggior notoriet? e anche la maggior presunzione (\xzyaka\)yi*v<) della metr?poli attica rispetto alia piccola e poco nota polis italiota, "capace solo di allevare uomini di valore". Ci? non ci impedisce pero di ritrovare 40 Qualis populea moerens philomela sub umbra amissos queritur fetus, quos durus ara tor observans nido implumes detraxit (Verg. Georg. IV 511-513). 41 "Mortalium penatibus fiducialis nidos philomela suspendit, et inter commanentium turbas pullos nutrit intr?pida" (Cassiod. Var. VIII 31). 42 Mey<xXtq (piXou//)Xa (Ptochoprodr. Ms. c. Hegumen.). 43 Aristot. Hist. anim. IV 9; Lexicon Ms. Cyrill. s.v.; Gloss, ad Oppian. Hal. s.v. K?xxuyEc. 44 [Diosc] De mat. med. II 180. 45 Hist. anim. VI 2, 559 a 25. 46 Riportata testualmente da Athen. XIV 655 B-E. 47 Diod. Ill 39,2; Paus. X 9,16; Pollux, V 90; Plin. N.H. X 26,74. 48 Menodot. Sam. ap. Athen. XIV 655 A. 4* ttqv T?pa?5a ai'YEipov (Philostr. V. Apoll. T. V 5,87).  quelle metafore nei versi del pi? illustre figlio di Velia, n? di rico noscerle come tali anche se in quei versi essa compare disgiunta dalla nota narrazione cui fa evidente riferimento.  . Antonio Capizzi. Keywords: Velia, la scuola di Velia. Zenone, sono/fui, il latino no necesita il verbo divenire, perche usa la radice de fui-. +l’adolescenziale, conversazione, calogero, veliatichi, veliadi meleagridi, pandionidi veliatico, eliadico, meleagride, pandionide,  fieri, in esse, in fieri.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capizzi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Capocasale—segni di dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza  (Montemurro). Filosofo italiano. Grice: “You gotta love Capocasale; my favourite is his ‘corso filosofico,’ which the monks rendered as ‘CVRSVS PHILOSOPHICVS,’ almost alla Witters! Capocasale multiplies the principles of reason – I thought there was just one – On top, he uses the trouser-word, ‘vero,’ – so he thinks he is philosophising about the ‘vero principio della ragione,’ or its plural! In fact, he is philosophising about conversational implicature!” Figlio di Lorenzo e Maria Lucca, sin da ragazzino aiuta il padre nel suo mestiere di fabbro ferraio. Nel tempo libero si dedica alla filosofia, mostrando grande attitudine nella filosofia romana antica in particolare. Con la morte del padre, avvenuta quando Capocasale aveva 15 anni, visse tra Corleto Perticara, Stigliano e San Mauro Forte, procurandosi da vivere come insegnante privato, dedicandosi contemporaneamente allo studio della filosofia e del diritto.  Dopo esser stato governatore baronale di Sarconi, incarico ottenuto appena ventenne, lasciò la Basilicata per trasferirsi a Napoli, conseguendo la laurea in giurisprudenza. Dopo gli studi universitari, insegnò filosofia nella scuola dallo stesso fondata a Napoli. Dal 1801 vestì l'abito talare e, dal 1804, fu nominato da Ferdinando IV precettore di logica e di metafisica all'Napoli.  Perse tale incarico con l'arrivo di Giuseppe Bonaparte: sotto il suo governo gli fu concessa solamente la docenza privata. Con la restaurazione, Ferdinando IV lo nominò vescovo di Cassano nel 1816. Capocasale, tuttavia, preferendo l'insegnamento, rinunciò alla carica, così come fece più tardi con l'incarico di pari grado conferitogli per la diocesi di Sora-Aquino-Pontecorvo. Sempre nell'ateneo partenopeo ebbe, dal 1818, la cattedra di diritto di natura e delle genti: i suoi teoremi, di stampo lockiano, ebbero una certa risonanza, tanto da essere citati da filosofi come Francesco Fiorentino, Giovanni Gentile e Eugenio Garin.  Alcuni suoi discepoli divennero importanti personalità culturali del tempo come Francesco Iavarone, Giustino Quadrari, Giuseppe Scorza, Gaetano Arcieri e Giuseppe Mazzarella. Sempre fedele alla monarchia borbonica, si schierò contro le insurrezioni carbonare del 1820. Dal 1822 fu precettore del futuro re delle Due Sicilie: Ferdinando II. Fu inoltre membro di varie Accademie come la Parmense, la Fiorentina, la Cosentina, l'Augusta di Perugia, Aletina e Renia di Bologna, degli Intrepidi di Ferrara, de' Nascenti e degli Assorditi di Urbino, dei Filoponi di Faenza. Altre opere:“Divota novena del gloriosissimo taumaturgo S. Mauro” (Roma); “Esercizio di divozione verso il glorioso confessore S. Rocco” (Napoli); “Cursus philosophicus” (Napoli); “Saggio di politica privata per uso dei giovanetti ricavata dagli scritti dei più sensati pensatori” (Napoli); “Catechismo dell'uomo e del cittadino” (Napoli); “Codice eterno ridotto in sistema secondo i veri principi della ragione e del buon senso” (Napoli); “Saggio di fisica per giovanetti” (Napoli); “Istituzioni elementari di matematica” (Napoli); “Corso filosofico per uso dei giovanetti”.  Dizionario biografico degli italiani -- un filosofo lucano alla corte dei Borboni. Quoniam philosophia est scientia, quae viam ad felicitatem sternit. Ea vero rationis solius ductu cognoscitur, ac demostrationis ope vernm investigat. In vero autem inveniendo methodus utramque facit paginam: patet primum philosophi studium esse debere, intellectum, sive facultatem cogitandi, ad veritatem methodice investigandam, ac diiudicandam aptum reddere, eumque mediis opportunis acuere, vel, si morbo aliquo laboret, salutaribus eidem mederi remediis. Et quia veritas per demonstrationem invenitur, et iudicatur. Demonstratio vero methodo perficitur, ut supra iam dictum est; liquet, ei pecessarium esse, mentem quoque ad demonstrationem, ac methodum adsuefacere, ut in eo habitum adquirat, in quo philosophi scientia consistit. Quamvis vero omnes homines naturali quodam verum cognoscendi, iudicandi, rationes denique conficiendi facultate praediti sint, eaque a multis usu, atque exercitatione ad summum usqne perfectionis gradum sit redacta: quum tamen plurimis erroribus sint obnoxii, nisi facul tatem illam regulis quibusdam certis, at que indubiis dirigant, disciplina aliqua in veniatur, oportet, quae regulas ac prae cepta tradat, quibus naturalis illa cogi tandi vis augeatur, perficiatur, et ad ve ritatis investigationem inoffenso pede dirigatur. Naturalis haec percipiendi, iudicandi, ratio cinandique vis LOGICA NATURALIS appellatur, quae qunn in casuum similium observatione, adeoqne in sola praxi consistat, non solum erroribus est obnoxía sed rerum caussas et rationes ignorans, confusam tantummodo co gnitionem, non vero scientiam producere pol est. Ex quo legitime fluit Logicae artificialis necessitas. Disciplina haec vulgo LOGICA ARTIFI Cialis appellatur, quam definimus per do ctrinam, qua regulae traduntur, quibus, humana mens in cognoscenda, et diiu; dicanda veritate dirigatur. * * Vocatur haec a ' nonnullis PHILOSOPHIA RATIONALIS, ARS COGITANDI, et kat i Sony LOGICA. Logicae Prolegomena quae tantum abest, ut essentialiter a Naturali differat, ut sit potius distincta eiusdem explicatio, adeoque tanto illa praestantior % quanto distincta cognitio praestat confusae. Ex quo patet, Philosophum sola Logica natu rali esse non posse contentum, sed ei colen dam esse artificialem. 14 Quandoquidem autem Logica artifi cialis leges explicat naturalem iudicandi fa cultatem dirigentes: sequitur 1. ut eas ex mentis humanae natura deducat, adeoque 2. mentis operationes prius, carum que naturam distincte explicare; deinde vero eam in veritatis investigatione, atque exa mine veluti manuducere debeat: uno verbo, ut prima theoriam, deinde praxin ostendat. Vltro ergo mihi sese offert genuina Logicae divisio, in THBORETICAM ET PRACTICAM. Atque hinc est, cur opusculum boc in duas partes distribuerimus: in quarum prima de mentis operationibus; in altera de legitimo carum usu, quantum satis erit, tractabimus. Quoniam autem humana mens tria bus modis res cognoscit; vel enim eas tan tummodo percipit, vel de iis iudicium pro fert, vel denique rationes conficit: * de tribus his mentis operationibus priore pår te agemus. Quumque veritates vel per se pateant, vel per rationem et meditationern inveniantur, vel denique ex aliorum scri Prolegomena. ptis hauriantur: inventae vero cum aliis communicentur: de omnibus his parte se cunda nonnulla haud proletaria monebi mus. } Experientia namque constat, nos omnis cognis tionis expertes in mundum prodire (quidquid pro ideis innatis Platonici, et Cartesiani cla mitent ), atque primo res simpliciter perei pere, earumque ideas adquirere, deinde bi nas inter se conferre, tandem eas cum aliqua tertia idea comparare, indeque novas verita tes deducere. Mentis actio, qua res aliquas sensibus obvias percipit, aut ab iis abstra hendo novas imagines sibi format, PERCEPTIO, sive idea dicitur: quum hinas ideas invicena confett, IVDICIVM: dum vero eas cum aliis comparat, atque inde novas veritates elicit RATIOCINIŲm nominatur. Nec aliae attente con sideranti mentis operationes occurrere pote runt. Scholion. De Logicae utilitate non est, quod plura dicamus. Quamvis enim quam plurimi eam scriptis suis ad astra tulerint; quisque tainen in se huiusmodi periculum facere poterit: nam qnidquid ex recta ra tione capiet emolumenti, id omne huic disciplinae se debere, aperto cognoscet. Prima mentis hnmanae operatio est SIMPLEX PERCEPTI, sive notio, quam de finimus per simplicem rei alicuius reprae sentationem in mente factam. praesentationem autem intelligunt adcura tiores assimilationem eorum, quae sunt exlra ens, in eodem ** Dici quoque solet idea, conceptus, vel sim ** Per rea plex apprehensio, ut Scholis placuit. Sunt, qui perceptionem ab idea distinguendam pu tant, atque illam esse aiunt, mentis actio nem in obiecto percipiendo; hanc vero ipsam abiecti imaginem menti percipienti obviam, Sunt, qui eas terminis tantum differre do cent. Quidquid id est, nobis placuit percep tionem cum idea confundere: adeoque nusquain hic de huiusmodi distinctione sermo cadet. Ideam alii definiunl per imaginem menti ob versantcm. Buddeus Phil. instrum. cum observ. alii per exemplar rei in cc gitante. Hollmannus Log. Sed hae, aliaeqne definitiones eodem redeunt. *** Repraesentationis vox absque definitione ad sumi poierat, quum sit cuique nota: sed ut methodici rigoris amatoribus nonnihil daremus eam ita explicavimus, sequuti Baumeisterum Quoniam itaque notio est rei reprae sentatio: in omni autem reprae sentatione duo considerarida veniunt, nem, pe modus repraesentandi, et obiectum, sive res ipsa quae repracscntatur: liquet, in qualibet idea itidem duo animadverti posse, scilicet percipiendi modum, et ob iecta nempe res perceptas; quorum ille FORMA, haec MATERIA idearum recte di, cuntur. Si ergo ideae ad formam referan tur consideratio illa dicetur FORMALIS; si vero ad nıateriam, OBỊECTIVA, vel Rialis appellabitur, Et quia utroque re spectu ideae inter se differunt: de forma li, ac materiali earum differentia diversis sectionibus agemus. MATE B nos De formali idearum differentia Experi Xperientia abunde constat quaedam ita percipere, ut ca ab aliis in ternoscere possimus, quaedam vero non ita. Repraesentatio illa, quae sufficit ad rem perceptam ab aliis dignoscendam, idea di citur CLARA; OBSCURA contra, quae ad eam discernendam est insufficiens. Vnde idea recte dividitur in claram, et obscuram E. Rosae ideam claram habes, ei eam a lilio, hiacynto, aliisque floribus distinguere scias, et quotiescumque tibi occurrit, eam dem agnoscas; contra si arborem peregrinam videas, eamque a reliquis plantis discernere nequeas, arboris illius ideam habes obscuram. Huiusmodi sunt ideae infantum recens nato rum, hominum bene potorum, eorumqne, qui lethargo oppressi reperiuntur. CLARITAS enim Physicis est ille lucis effectus, cuius operes externas circa nos positas alias ab aliis distingnere possumus; contra vero OBCVRITAS est claritatis absentia, scilicet tenebra rum eftectus: nam quun tenebrae in lucis privatione consistant, haec vero obiecta exter pa distinguere faciat; deficiente luce, deficit distinctionis facilitas: adeoque obscuritas in distinguendi impotentia sita est. Quum res existentes innumeris de terminationibus, et circumstantiis involutae observentur, ut infra dicemus; hae vero, nisi attente consideranti, sensuumqne aciem ad obiecta convertenti, innotescere non possint, ut experientia patet: recte infer tur 1. éo clariorem fieri ideam, quo plu. ra possunt in obiecta distingui; * adeoque 2. ad claram idean adquirendam requiri sensus cum attentione coniunctos, qua des ficiente, ideas fieri deteriores ** Esenplo sit hono in maxima distantia con stitutus, qnem qui vilet, primo dubius hae ret, utrum corp is quidlibet sit, an vivens; deinde in obiectum illud oculorun aciem at tente convertens, a motu animal esse compe rit, sed cuiusnam speciei, nescit; propius ve ro'accedenten, ho nisen distinguit; tandem ex corporis habiti, facie, aliis que circumstan tiis Titium agnoscit. Vides quan attente spe-. ctator consideraverit, ut Titium cognosceret! Quemadmodun ideae meliores funt, si ex obscuris clarae evadant, ex confusis distin ctae, ex inadaequatis adaequatae: ita deterio res redduntur, si ex claris fiant obscurae ex distinctis confusae ex adaequatis inadaequatae. Quia vero ab attentione penlet cla ritas idearum, eaque gralus ha bet, nec semper, aut in omnibus eadem est: liquet 3. res alias aliis clarius a no 7 38 Logic. Pars 1. bis percipi posse, ideoque obscuritatem dari non modo ABSOLVTAM sed RELATIVAM. Hinc 4. obscuritatis caussam plerumquc in hominibus, raro in re percepta quaeren dam esse; ac proinde praecipitanter iu dicare illos, qui absolute obscura esse di cunt, quae eorum superant captum: quo ut quae ignorant (ut Aesopica vul pes ) exsecrentur. * Obscuritas vel absoluta est, vel relativa. Illa habetur quum res percepta ab aliis prorsus internosci' non potest; haec autem, quando rem qampiam aliqui subobscure, quidam clar re, clarius alii percipiunt. Quod quum acci dit, illorum claritas respectu maioris horum claritatis est obscuritas relativa. fit, 21. Quoniam autem ad idearum clarita tem utramque facit paginam attentio, qua deficiente deteriores fiunt: con Sequens est 6. ut obscurae eyadant perce ptiones, si alicui meditationi defisi alia percipiamus, vel 7 si unico actu plura 0 aut animo subiiciamus, 8. denique si ab una perceptione ad aliam celerrime transeamnus. Et quia adfectus attentionem turbant, ut cxperientia docet: infertur 9. menten adfectibus agitatam * ad ideas cla ras vel numquam, vel raro admodum per, venire. Adfectus enim sunt motus quidam vehementiores appetitus sensitivi ex idearum obscuritate, et confusione orti, de quibus abunde in Psy chologia disseremus, adeoque iis praedominan tibus nullae, nisi obscurae confusaeve ideae haberi possunt. Si namque in ideis claritas et distinctio adesset, nullis adfectibus animus ve xaretur. Hinc ergo est, ut a Philosophis ad fectus inter errorum caussas enumerentur. E. xemplo sit homo ira aestuans, qui donec ea agitatur, nec res clare percipere, nec perce ptionum suarum conscius esse potest. Vid. Seneca de Ira Lib. I. cap. 1. et apud Virg. Aen. II. v. 315. Furor, iraque mentem prae cipitant.Vides hinc, obscuritatis caussas easdem esse, quae attentionem turbant vel minuunt: nem pe 1. distractionem, 2. obiectorum multipli citatem, 3. praeproperam festinationem, 4. denique adfectuum praedominium. Quae omnia mentem frustra fatigant, et ad proficiendum în studiis ineptam reddunt. 22. Sed quia Philosophus non solis stare sensibus; rerum autem latebras et recessus idest caussas et rationes inve stigare debet: per se patet 10. eum claris notionibus adquiescere non pos * adeoque il. in distinctarum et adae quatarum perceptionum statu versari debe re ut infra dicemus. 2 se; · Clarae namque ideae attento sensuum usu ad 40 Logic. Pars I. quiruntur; sensus autem, ut mox adparebit, res tantummodo exsistentes confuse repraesentant', in quarum cognitione nullum ra tio habet exercitium: nihil ergo Philosophus age Tet; nec hihim quidem in scientia proficeret si claris dumtaxat ideis contentus rationem ne gligeret, nec in caussarum inve stigatioue adlaboraret. > 2 23. Eadem experientia docet, nos re rum quas clare percipimus, vel notas sive characteres quibus ab aliis discer nuntur, distincte nobis sistere posse, eo rum scilicet ideam claram nabere; vel characteres illos invicem non posse digno sive ipsos obscure percipere. Re praesentatio clara' notarum obiecti, quod percipimus, idea dicitur DISTINCTA: repraesentatio contra notarum obscura, vo catur idea CONFUSA. Idea clara proin de merito dividitur in distinctam, et con fusan. seere 8 Si quis invidiam novit esse taedium ob alterius felicitatem, illius characteres sibi clare sistit, adeoque invidiae ideam habet distin ctam. Si vero coloris nigri notas distinguere nequeat, licet eum ab aliis coloribus discer nat, ejusdem ideam habet confusam: uti sunt omnes ideae colorum, saporum, sonorum, odo rum, etc., quorum characteres prorsus igno ramus. Distinctio haec a Cartesio, et Leibnią * E. Cap. I. De Ideis. 41 tio inventa fuit: alii namque grammatica vo cum significatione decepti, ideas claras'ét di stinctas obscuras et confusas 'unum idemque esse docebant. Quum idea distincta sit notio clara notarum; ad claritatem autem notionum permultum conferat attentio: consequens est 12 ut clarae ideae di stinctae fiant potissimum attentione, qua deficiente, etiamsi distinctae sint, confu sae evadant. Et quia singulae notae peculiaribus gaudent nominibus, qui bus exprimuntur: infertur CRITERIVM ideae distinctae id esse, si cogitala nostra aliis.cxponere, atque con is com municare queainus; oppositum autem ess: indicium ideae confusae. Hinc 13. idcas confusas aliis referre volentes, objecta, quae confuse percepimus, ipsis ostendere, vel cum alia re, de qua ideam habent claram, comparare debemus. * Res clarior fiet exemplis supra allatis. Qui notionem invidiae habet distinctam, is eam verbis explicare poterit: quod recte ex sequetur, si notas, quib:is a:lfectuš iste ab aliis distinguitur, eau neret. Contra ei, quo modo coloris albi aut rubri nolas proferet, ut cum aliis eius notionenı corninunicet? Pro cul dubio, ut ab illo intelligatur, colorem illum, aut rem quampiar confuse perceptam, ipsius oculis admovere, vel cum alia re iarna nota conferre oportebit, sicque in altero con fusa quoque idea orietur. Hinc est, ut colo rum ideas coeco nato nullo modo explicarc possimus, isque visu carens nullam, nequi dem obscuram, umquam huiusmodi notionem adquirere queat. ** 25. Porro rei, cuius distinctam habe mus ideam, vel omnes novimus characte res ad eam in statu quolibet agnoscendam sufficientes, et tunc idea distincta erit COMPLETA; vel quosdam tantum · eosque insufficientes, eaqne INCOMPLETA dicetur. * Idea ergo distincta dispescitur in completam, et incompletam. * Sic invidiae idea iam tradita completa est: adsunt enim notae sufficientes ad eam in statu quolibet internoscendam. Si ve ro hominem cum Platone definires per ani mal bipes implume, notionem haberes incom pletam: * hae namque notae non sufficiunt ad hominem semper ab aliis rebus discernendum, ut ostendit Diogenes Cynicus, dum hanc Pla tonis sententian irridendo improbavit. Nec eam postea coinpletam reddere potuerunt Platonis discipuli, addito latorum unguium charactere: nusquam enim homines a simiis discernere illa nota valebat. Laert. Lib. VI. cap. 2. segm. 40. ** Licet duo clarissimiViri Leibnitius, et Wol. Cap. 1. de Ideis. 43 fius semper et ubique in eamdem sententiam ierint: in hoc tamen hic ab illo discessit. Quumque Leibnitius omnem ideam distinctam completam esse docuerit: Wolffins contra eam in completam, et incompletam dividi debere, docuit et demonstravit. a * 26. Denique eadem experientia edocti scimus, nos quaedam ita percipere, ut non solum eorumdem characteres singilla tim agnoscamus, sed et novas characte rum notas enumerare queamus;. quorum dam vero solis distinctis ideis adquiescere. Quum notarum characteristicarum notione gaudemus distincta; idea totalis erit ADAEQUATA; quum antem notas neb; confuse repraesentamus, idea oritur INA DAEQUATA. Quo fit, ut distinctam ideam rursus dividanius in adaequatam, et inadaequatam. * E. g. Si quis invidiae notas rursus evolvat, sciatque taedium esse sensum imperfectionis, et felicitatem determinet per siatum durabilis gaudii: is invidiae idlea adaequata gandebit. Si vero in solis invidiae characteribus ail juie scat: nec ulterius in iis evolvendis progredia tur, tunc ideam habebit inadaequitam. Ob servandum tamen, quod quo novas notas, donec fieri possit, invenire liceat, eo adaequatior evadet notio. * Hanc porro doctrinam Leibnitio debemus, qui eam in Actis Erud. Acad. Lips. ann. 1684. semper 44 Logic. Pars I. p. 437. seqq. proposuit, eumque suo more sequutus est Wolffius Logic. cap. i. f. 9. seqq. ANALYSIS IDEARUM est formas tio idearum adaequatarum. Quumque idea fiat adequatioi, si novos semper cha racteres invenire liceat: patet 15. eo adaequatiorem fieri notionem, quo longius eius analysis procedere. Quoniam vero ob sensuura limites non possumus plura distincte percipere: infertur 16. nos in notionum analysi" in infinitum progredi non posse: ideoque 18. quum ad notas vel simplices, vel cuique claras perven. tum fuerit uiterius eam instituere prohi bemur. ** * Notionum analysis Medicoruin anatomiae simi lis est. Quemadinodum enim Medici corpus humanum in partes dividunt, easque depuo in alias aliasque particulas resolvunt, donec ad exilissima tandem filamenta perveniant, om nes interim earum connexiones, structuram, et proprictates attente perscrutantes: ita et Phi Josophi idearum noías singillatim perquirunt, easque iterum atque tertio in novas notas mente resolventes, minima quacque adcurate contemplantur. ** Sicuti ergo Medicis, quum ad indivisihiles particulas pervenerint, eas in novas rursus se care non licet: Philosophis etiam ea facultas Cap. I. De Ideis. 45 ademta est in analysi notionum, si vel ad simplicia et indivisibilia, vel ad clara et evi dentia fuerit pervenlum, vel finis obtentus sit, ob quem fuerat analysis instituta. SECTIO II. De obiectiva, sive materiali idearum differentia. 28. Haecaec de divisione idearum formali. Ad, materialem, sive obiectivam quod at tinet, primo res, quas nobis repraesen {are possumus, vel sunt exsistentes, vel proprietates iis communes. Quidquid exsi stit dicitur INDIVIDVVM, sive RES SINGULARIS: individuum autem defiuiri po test id, quod est omnimode determina tum. Repraesentatio ergo individui vo catur idea SINGULARIS sive INDIVI DVALIS. E. g. “Socrates”, “Plato”, Aristoteles, Caius, Titius, haec dumus, haec mensa, hic liber quem legis, sunt individua, quia in unoqucque eorum adsunt tales circumstaniiae et detern ina tiores, ut Socrates sit Socrates, et non Plato, Caius sit praecise Caius, et non alius: ita ut si aliqua earum desit, desinant esse quae prius erant. Hinc individuum idem est cum uno mathemat.co, quod concipitur tanquam 46 Logic. Pars 1. * > individuum in se, et ab aliis separatum. Iu re igitur individuum res singularis; ideoque eius perceptio singularis pariter adpellatur. 29. Quamvis autem individua sint omni mode determinata hoc est innumeris circumstantiis involuta (S. 27:), quae efficiunt, ut ea longe inter se differant: 11 bent tamen aliquas determinaliones, in quibus perpetuo conveniunt. ** Harum de terminationum complexus aliam ideam su periorem constituit, quae SPECIES dici. tur. Non iniuria ergo species a recentio. ribus definitur per similitudinem indivi duorum. Determinationis vocabulum, licet barbariem redoleat, iure tamen hic a nobis adhibetur, et quia civitate donatum, et oh termini pu rioris deficientiam. Absque definitione por, ro sumitur utpote experientia seusuque com muni satis notum; eius vero completam no tionem dabimus in Ontologia, ubi methodici rigoris amatóribus abunde satisfiet. E. g. Socrates, Plato, Caius, Titius, li cet aetate, ingenio, roribus, conditione, habitu, ceterisque inter se multum distent, habent tamen commuue corpus organicum, et animain ratione praeditam. Duae hae de terminationes speciem constituunt, qnae ho m, dicitur. Hinc vides, haec omnia individua in eo siunilia esse, quod sint homincs. Si plurium specierun pariter cir cumstantias consideremus videbimus eas in plurimis toto, ut aiunt, coelo differre; in aliquibus vero perpetuo similes esse. Atque hae determinaciones, in quibus spe. cies, licet diversissimae, perpetuo conve. niunt, novam ideam, eamque supremam, constituunt, quae GENVS vocatur. Genus ergo recte definitur per similitudinem specierum. E. g. “homo”, “equus”, leo, canis, quantumli bet in tot determinationibus invicem diffe rant, habent tamen in vita et sensione con venientiam. His circumstantiis conflatur genus, cui animalis nomen inditum. Observes ita que, omnes illas species in hoc esse per petuo similes, quod animalia nominentur, adcoque legitimam esse definitionem generis traditam, 31. Quum genus sit similitudo specie rum (S. 30. ), idque constituatur a com plexu circumstantiarum, in quibus species perpetuo conveniunt; in speciebns autem aliae determinationes exsistant, quibus il lae inter se differunt: sequitur 1, ut non abs se harum proprietatuin di versificantium summa a Philosophis voce tur DIFFERENTIA SPECIFICA * E. g. Invidia et commiseratio id habent commune, quod sint taedium. En genus. In eo ve ro differuut, quod invidia sit taedium ob alte rius felicitatem; commiseratio vero ob infelici tatem. Id ipsum constituit differentiam specificam. 32. Repraesentatio, quae exhibet pro prietates rebus exsistentibus communes, di citur idea VNIVERSALIS. Et quia notio nes generum et specierum determinationes continent pluribus speciebus vel individuis communes (SS. 29. 30. ): infertur 2. i deas generum et specierum esse universa Jes. Rursus quoniam hae ideau couficiun tur, si determinationes aliquas ab aliis se paratas consideremus; unum vero sine altero considerare dicitur AB STRAHERE; liquido patet 3. ideas uni versales esse quoque ABSTRACTAS. * Hinc est, ut vulgo dicatur, ideas esse vel concretas, in quibus omnes simul adsunt de terminationes; vel abstractas, quae aliquas tantum exhibent mentis abtractione ab aliis seiunctas: quod idem est, ac si dicas, omnes ideas vel singulares esse, vel universales. 53. Ex dictis porro consequitur 4. ideas universales non exsistere, nisi in singula ribus, nempe speciem ac genus nusquam inveniri, nisi in individuis; adeoque 5. plus esse in individuis, quam in specie; plus quoque in speciebus, quam in genere.  Ex quo patet 6. quam scite Logici pro puntiaverint: Notionis extensionem esse in retione inversa comprehensionis. * Regula haec aliter ab aliis enunciatur, sci licet: Ono maiorem habet idea comprehensio nein, eo minorem habet extensionem, ct con tra. Comprehensio dicitur complexus determi dationum, quae ideam aliquam constituunt. Ex tensio vero est consideratio subiectorum, qui bus delerminationes illae tribui possunt. Vid. la Logique, ou l'art de penser. part. 1. chap. 6. Quum ergo individuum omnimodas determina tiones complectatur (9. 28. ), ad unum tantum subiectum extenditur; genus vero paucissimas comprehendens circumstantias (5. 30. ) ad plu rima subiecta referri, nemo non videt. Posita igitur regulae illius veritate, nullo negotio intelligitur 7. nec ab individuo ad speciem, neque a spe cie ad genus umquam posse duci conclu sionem; ac proinde 8. non licere generi tribui, quod speciei convenit, aut ab illo removeri, quod huic repugnat; contra vero 9. a genere ad speciem, atque ab hac ad individuum bene concludi, ideoque 10. individuo dandum, quod speciei convenit, pariterque speciei tribuendum esse quidquid generi convenire observatur. ** * T.I. C 50 Logic. Pars I. * Et recte ! nam nam in individuo comprehensio maior est, extensio minor, quam in specie, ut et in hac relate ad genus. Quidquid ergo de individuo enunciatur, eius proprietates differentiales; si ita loqui fas sit, respicit, quae in speciem non ingrediuntur: ac proin de de hac enunciari nequit. Eodem modo, quae de specie dicuntur, differentiam tantum specificam spectant: genus autem proprieta tes multis speciebus communes continet; adeo que speciei attributa nullo modo cum genere coniungi possunt. Res clarior fiet exemplo. Socrates est individuum, in quo omnimoda invenitur determinatio; id vero sub hominis specie comprehenditur. De So crate' recte enunciabis, quod fuerit philoso phus, quia attributum hoc ei convenit ob scientiam, qua praeditus erat (S. 3. 4. ), quaeque inter Socratis proprielátes individua • les enumeratur. Possesne id de specie, idest de homine pronuntiare? Minime quidem: in determinationibus enim hominis specificis non scientia, sed scientiae capacitas, nempe ra tio ', invenitur. Contra hanc regulam peccare solent susurrones quidam, qui vitia vel de fectus in aliquo, vel aliquibus individuis for san occurrentia toti speciei, coelui, vel clas si imputare non erubescunt. ** Quum enim genus in specie, species pariter in individuo, contineatur (§. 23. ): quidquid generi conyepit, cum specie coniungi; et quik uid speciei convenit, de individuo quo Cap. I. de Ideis. 51 que enunciari debet aeque, ac ab his removeri quod ab illis discrepat.E. g. Animal sentit, ergo homo sentit: homo est intelligens, quia libet igitur homo intelligens est etc. 35. Res exsistentes rursus vel inira nos sunt vel extra nos. Prioris classis sunt omnes animae actiones; posterioris vero obiecta quaecumque sensibus nostris obyer santia, vel mutationes in corpore humano ciusque organis supervenientes. SENSV INTERNO percipiuntur, sive REFLEXIONE, hae contra SENSIBVS EXTERNIS. Liquet ergo 10, ideas omnes singulares sola sensionc adquiri * Illae * Intra nos sunt affectus, et cogilationes vo strae, quae interno sensu, conscientia refle xione (haec opinia idem significant ) perci piuntur. E. g. si quis tristitiam, vel metum sentiat, ciusque idcam sibi formet, hanc sensu intern:), sive conscientia, nempe atlen tione ad proprias actiónes adplicatà, adqui sivisse dicitur. Extra nos porro sunt omnia alia obiecta etsistentia sensibus obvia. Sic in deas omnes singulares, quaecumque illae sint, sensibus percipi, nemo ignorat: superfluun enim ' esset id ' exemplis illustrare. ** Cuilibet autem de plebe noturn est, exter sensus quinque numerari, visum nein pe, auditum, olfactnm, gustum, et tactum, nos C 2 52 Logic. Pars 1. iisque totidem organa esse destinata; visui scilicet cculum, auditui aurem, olfactui na res, gustui linguam, tactui denique specia tim manus, generaliter vero totam corporis humani superficiem. 36. Quum ergo res exsistentes sensibus percipiantur; ideoque ideae sin gulares sensione adquirantur; ex singula ribus vero universales sola mentis abstra ctione formentur (S. 32. ): liquido infer tuir 11. omnes ideas vel SENSIÚNE, vel ABSTRACTIONE fieri dooque adeo esse ideas adquirendi mcdos. ** * nem * Et hoc est, quod a multis docelur, omnes ideas partim SENSIONE, partim ABSTRACTIONE, partim CONSCIENTIA, vel REFLEXIONE adquiri. Vid. Heinec. Logic. S. 22. Nos enim sensio cum conscientia et reflexione confundi debere, docuimus supra ſ. 35. ** Addunt alii tertium adhuc ideas formandi modum ARBITRARIAM scilicet COMBINATIONEM, veluti quum quis ideam hominis cum idea equi componit, novamque Centauri notionem conficit: cuius census sunt etiam notiones montis aurei, intellectus perfectissimi etc., quae nihil aliud revera sunt, nisi ice rum prius sensione adquisitarum combinatiores ab intellectu, vel phaniasia in unum redactae, pro quarum veritate generalem tradunt regulam: Si ideae arbitrio coniunctae sibi con tradixerint, impossibiles sunt, adeoque fal sae (quae alio nomine CHIMERICAE, a Scola sticis ENTIA RATIONIS vocantur ); si vero inter se non repugnent, pro possibilibus, adeoque pro veris sunt habendae. TITIAS esse, 37. Ex quibus omnibus plane consequi tur 12. recte adfirmari a Philosophis, i deas omnes ex earum origine vel ADVEN. vel FACTITIAS. * INNA TAE namqne ab omnibus negantur, quid quid de iis praedicent Plato, Cartesius eorumque asseclae, quorum tamen au ctoritas tanta non est, ut eorum insomniis a sanioris Philosophiae cultoribus praebea tur adsensus, ut in Psychologia distinctius adparebit. Per adventitias enim intelligunt notiones sen sique adquisitas ($. 36. ): per fictitias vero illas quae vel abstractione vel arbitraria combinatione fiunt. Plato namque animas humanas ab aeterno praeexsistentes posuit singulas singula astra inhabitantes, qnibus Deus monstruvii universi naturam, ac leges frtales edixit: sed quum a diis inferioribus Dei ministris mones 'vocat in corpora fatali necessitate inclusa fuissent eo rum omnium, aeternis ideis prius e rant intuitae, statim ob quos dae. quae in с 3 51 Logic. Pars I. ' Jitas, non nisi longo sensuum usu, àc nedita tione pristipam cognitionem recuperare. Plat. in Timaeo. Hinc vulgatum eius effatum: Stu et discere idem esse, ac reminisci. Cicero Tuscul. quaest. 1. 24. Illas ergo ideas, quas antea habebant, vocavit innatas. Sed quum id purum putumque sit Platonis som nium, nequaquam erimus de eo refutando solliciti. Cartesius hoc nomine donavit facul tatem homini competentem omnia intelligibilia videndi. Tom. I. ep. 99. Respons, ad art. 14: progranm. ann. Sed pèr hanc rectam rationem intelligi, quisque videt, quam proin de ideam adpellare est potentiam cum actu confundere. Cartesiani denique per ideas in natas intellexerunt axiomata quaedam eviden tia, quae ab ipsa cogitaudi facultate ortum ducunt, veluti: totum csse maius qualibet sui parte; non posse idem simul csse, et non esse ctc. At quis rerum omnium ignarus iguo rat, haec esse pura judicia, quae a termino runi illorum relatione, ac ab ideis totius et partis, exsisteniiue et non exsistentiae, sen su et abstractione prius adquisitis immediate pendent? Quae quum ita sini, ideas invatas nullo modo dari posse, merito concludimus. 38. Ideae praeterea sunt aliae SIMPLICES, a quibus nihil mente abstrahere pos sumus, ** aliae COMPOSITAE, bus per mentis abstractionem plura divi dere, atque invicem separare licet. ** in qui Ex quo necessaria consequutione conficitur 13. simplices ideas claras esse, at confu sas; compositas vero etiam distinctas. Tales sunt ideae omnes colorum, sonorum saporum, voluptatis, taedii, quas ideo aliis explicare non possumus, nec illarum chara cteres invicem discernere, ut ita üs'definien dis omnino incapaceś simus. ** Sic in idea mensae cuiusdam separatim con siderare possum matericm, formam, figuram, colorem, magnitudincm, et id genus alia. His addunt aliqui ideas ASSOCIATAS, si ve coniunctas, eas scilicet, quae ita simul a nobis adquisitae sunt, ut quum una nobis occurrit, altera quoque menti obversetur: veluti si rosain olim videns odoris simul no tionem accepi, quotiescumque odorem illum sentio, rosae etiam idea menti fit praesens.Denique quuin vel substantias, vel modos, vel relationes pobis repraesentare queamus, ideae sunt vel SVBSTANTIARVM, vel MODORVM, vel RELATIONVM. Per SVBSTANTIAM intelligimus ens, cui atiributa ei accidentia tan quam subiecto,: veluti inhaerere conci piuntur.. *., MODI sunt adfectiones, et attributa substantiis inhaerentia, a qui bus + D4 56 Log. Pars I. sola mentis abstractione separantur. RE LATIONVM denique ideae sunt, quarum unius consideratio alterius considerationem includit ita, ut haec sine illa non possit intelligi. *** figura, * Veluti diximus, ut nostram imbecillitatem adivemus: id enim in substantiis creatis lo cum habet, non autem in increata, in qua nulla inter essentiam et attributa, nec inter ipsa attributa realis distinctio dari potest, ut in Theologia naturali demonstratum ibimus. * MODI vero sunt vel INTERNI, si in ipsa substantia. occurrant, ut dimensio, color etc. in corpore; vel EXTERNI, si in hominis mente sint, et tamen substantiae tribuantur, veluti quum dicimus- virtutem ma sni aeslimatam, quae tamen aestimalio est in hominum opinione. **** Relationes sunt ideae omnes quantitatum, item Patris, Domini, Regis, et cetera id ge pus. Videatur abunde ea in re Clericus in Logic. part. I. cap. 4. §. 2. seqq., et in Arta Grit. part. 1. cap. Ex quibus plane colligitur 14. nas in substantiis nihil aliud cognoscere, nisi mo dos, ips4s vero substantias prorsus ignora re; idcoque 15. substantiarum ideas esse in relatione ad mentem nostram omnino sed tantummodo abstractas et confuses, ram intelligibiles;. quinisomo ló. rerun natu eo magis agaosci, quo plures modi nobis innotescunt; maximam adhiben dam esse cautionem in perpendendis re lationibus, ne vel earum fundamentum non recte considerantes, vel absolute de relativis ideis enunciantes, praecipitantiae errorisque arguamur, * Quantum haec doctrina roboris habeat in se dandis hominum adfectibus, dici profecto, non potest. Exemplo sit is, qui se paupe rem esse dolet, quia divitum opes non ha bet, et id absolute profert. Si vero relationis pondus expendat, observetque alterum omnia bus necessariis rebus egentem: declamare de sinet, quia sibi tantum superflua desunt. Be ne ergo Seneca in Troad. v. 1016. Est mi ser nemo, nisi comparatus, Schol. Explicatis iam notionum diffe rentiis, ad huius doctrinae usuin acMilanius, quem paucis, iisque perutilibus, include mus regulis. Quisquis ergo Philosophiae operam navas si solidae cognitionis es cupidus, sequentes animo infigito. CANONES. i. Curato, ut rerum, quas pertra ctare cupis ', claram semper et distin ctam cognitionem adquiras: attentionem proinde, quae ad idearum perfectionem utramque facit paginam, in omni re adhibeto. Quoniam vero Matheseos studium mirifice at tentionem acuit: hinc est, ut hodie studio rum initium a Mathesi capiatur, exemplo Platonis., qui neminem erudiendum suscipie bat, nisi Geometria instructum. 2. In studendo praeproperam vitato festinationem; praecipue in primis scien tiarum principiis diu haereto, nec, nisi iisiprobe intelleétis, ad cetera pergito.* * Quantum enim festinatio idearum claritati osobsit, diximus in. 21. adeoque in adole. soentibus naturalis illa festinatio, et praeci pitantia caute est obtundenda, ne superficia rie discant et errores saepe labantur. Vnde VERVLAMIVS opportune docuit: Ius venum ingeniis, non plumas vel alas, sed plumbum el punderą auditinus. Caveio, ne nimia rerun varietate mentem obruas, neve plura semel simul que addiscenda putes. - Panca discito, eaque bune digesta contemplator. * Quum eaim attentio ad plura dividitur, minor fit atque inepia: proindeque ideae deteriores fiant: ita ut de iis perbelle dicat Seneca Ep. 2.: Nusquam est, qui ubique est. Qua de re Plinius VII. ep.9. praeclaram il lud monitum studiosae iuventuti perutile prae buit: Non multa 7, sed multum. to 3 * AC 4. Priusquam ulterius progrediaris ad idearum tuarum relationem attendi si qua sitt:: ne relativa pro absolu tis accipiens in errores incidas, 5. Mentis solitudinem, animique tran quillitaiem amato; ne affectibus attentionem iurbes, iran, tristitiam, an liaque pathemata; adeoque sodalitates, compotationes., spectacula fugito. ** * Bene monuit Ovidius Tristium l. v. 30. Carmina proveniunt animo dédlicta serenos * Comessationibus enim corporis inertia aus getur, mens obstupescit et habetatur, ani mus ad voluptates inclinatur s spectaculis ve vero attentio distrahitur, i sensimqué a studüs 1 C 6 6o Logic. Pars I. animus avertitur, quo fit, ut aut nullae ad quirantur ideae, vel saltem obscurae, a qui bus errores ortum ducere infra docebimus. aut mie 6. Quae legisti, audivisti > ditatus es, ita familiaria tibi reddito, ut eorum notas aliis indicare queas. Ea proinde vel in chartam coniicito, te ipsum saepe examinaudo, idcarum tuarum distinctionem experitor. ** * vel * Stilum Cicero vocat oplimum, et praest an tissimum dicendi effectorem, et magistrum. De Orat. l. 33. ** Notum est vulgatum illud; docendo disci mus. Rationem huius canonis invenies supra.  nes, utpote rei immaterialis a stiones, nullo modo sensibus percipiuntur: ea non nisi signis, quae in sensus incur ruot;; abis potefieri possunt. SIGNUM enim est, res quaedam sensibilis quae praeter sui notionem excitat in mente ideam alterius rei, Sed quum ideae ng  ** strae ordinario vel voce, vel scripto patefiant: binc prioris gencris signa VOCES, posterioris TÈRMINI, ntraqne vero VERBA dicuntur. Hinc verba per idearum nostrarum signa recte definiuntur, ut et voces signa quaedam sono articulato prolata, mentis nostrae conceptus indicantia. Signa quidem generatim appellantur, quia praeter soni vel scripturae; nationum nostrarum ideam in audientibus vel legentibus excitant. E. g. Lacrimae sunt signum tristitiae: quia quum hominem videmus lacrimantem, illico eum tristitia adfectum esse cogitamus. Fumus quoque est SIGNVM ignis, quia eo viso non solum fumi, sed ignis etiam notionein ad quirimus. Quae de signorum diversitate Scha Jastici docent  utpote ad rem impertinentia, praetermittimus: astin Ontologia quaedam observatu digna obiter attingemus. Cave tamen credas, voces esse SIGNA conceptuum necessaria. Quum enim eaedem res non iisdem vocibus a diversis gentibus exprimatur: liquet, tas ab hominum ARBITRIO pena der, adeoque esse SIGNA conceptuum arbistraria. Cuique vero notum est, ad sona nar ticulatum sex requiri, nempe PVLMONES, qui follis vice funguntur, ORGANUM VOCIS scilicet trachea, eique apposita larynx cum suis apparatibus; LINGVA, cuius vis Braliones vocem prae ceteris articulatam red dunt; PALATVM, nempe fornicem, ubi lingua stras vid rationes exercet; quatuor DENTES incisores dicti, quibus sibilantes litterae efformantur, et in quos nedum lingua, sed et labia vibrant; ac denique LABIA, quae in se invicem et in dentes, inpingunt, ut fu sjus coram ostendemus. Ex qua definitione patet verba et voces inter se differre: quum verba et iam scripto, voces autem non nisi sono articulato proferri possint. Nos ideo voces adhibere, ut ab aliis intelligamur; proindeque. Iita loquendum, easque vo ces adhibendas esse, ut alii, quibuscum loquimur, mentem nostram intelligere pos sint; adeoque non licere terminis in anibus vet notionem deceptricem continentibus uti; sed tantum ii, qui ali quam notionem habent adlixam; quitinimo, singulis terminis eamdem semper ideam, eamque claram, respondere debere; ideo que cos, qui vel obscuram, vel non semper eamdem exprimunt notionem, om nino esse proscribendos. Alterius vero mentem intelligere dicimur quum, terminis easdem notiones adggimus, quas loquens cum iis coniunxit. mus TERMINUS INANIS dicitur, qui nulla, habet notionem sibi coniunctam: adeoque nis hil, praeter solam soni ideam, excitare potsest: quapropter vocari solet vor mente case' sâ, vel sonus sine menie, a Scholasticis terminius insignificativus. Talis est versus ille, quemia Nimiodo prolatum in infimo Tartari aditu fingit Dyinus Poeta Etruscus: Raphel mai umech zabi alini. Dant. Inf. cant: Quoties autem vocem proferentes, aliquid cogitare videinur, quum tamen nihil cogita puldaunque sententiam cum ea donium ginius: tunc terninus ille NOTIONEM DECEPTRICIM continere dicitur. Huiusmodi sunt casus Epicuri, sensibilitas physica Hel yetii, historia e rationis penu depromta Boulangeri et Rousseau, quorum analysin cora, et in Metaphysica conficiemus. Si nam que vox aliqua vel non eamdem seniper, vel obscuram notionem habeat adfi xam. In primo casu auditor dubius haerebit, quamnam cum ea loquens, coniunxerit ideam, adeoque cui non intelligent. In secundo ves ro, quomodo mentem eius poterit intelligere, qui se non intelligit TERMINVS CLARVS est, qui claram coiitinet notionem, OBSCVRYS, qui eamdem habet obscuram. Terminusi qui eamdem semper exprimit ideam, FIXVS vel DETERMINATV; qui vero incon der stantem vagunite tabet significatum, VAGVS aut INDETERMINATVS dicitur, Plurės autem termini eandem rem significantes, SYNONYMA, sive termini synonymici. adpellantur, Scolasticis eum adpellare placuit univocum, sive unicam rem indicantem, ut ignis, aqua, A Scholis dicitur “aequivocus”, hoc est plura aeque significans. E. g. Cultus varios habet significatus: saepe enim pro adoratione Deo debita: quandoque pro honore: nonnumquam pro corporis, vel animi decore; non raro quo que pro telluris cultura accipitur, Tales sunt gladius, ensis, qui idem ar morum genus exprimunt. Eos e Scholis qui dam vocant “paronymos”, id quod ad intelligendas barbaras huiusmodi loquutiones breviter adnotavimus. Non heic inquirere licet: utrum in quolibet idiomate revera dentur synonyma? quaestio namque haec ad philologiam pertinent. Philosophia contra in exprimendis animae cogitationibus usum loquendi servat, et colit, quem penes arbitrium est, et ius, et norma loquendi (Horat. De Art. Poet. 8. 27). Terminus CONCRETVS est qui qualitatem expriinit sabiecto inhaerentem, ABSTRACTUS vero qui qualitatem illam a subiecto separatam indicat, Terminus PROPRIVS dicitur, quando rem exprimit, cui significandae est destinatus; IMPROPRIVS vero, sive METAPHORICVS ad rem aliam indicandam transferatur ob quamdam similitudinem. si Sic “pius” est terminus concretus, “pietas” terminus abstractus, Concretus porro a Wolffio dicitur, qui notionem exprimit concretam (sive singularem); abstractus contra, qui ideam continet abstractam (sive universalem ).  Haec autem omnia idem significant. E. g. Vox oculis proprie sumitur, si organum visui destinatuin indicet. Ubi vero Cicero Corinthum Graeciae oculum adpellat, eius uippe ornamentum ac pracsidium: improprie sive metaphorice vocem illam usurpat, Hinc vide, voces improprias esse vagas et indeterminatas. USVS LOQVENDI est significatio vocum in communi sei mone propria. At quoniam in familiari sermone voces aliquae occurrunt quas intelligimus quidem, li, cit ad notiones ipsis adiixas animum non hae voces dicuntur termini FAMILIARES, et ad usum loquendi non advertamus pertinent, Si quis ergo oculi vocem ad significandum organum sensorium visui destinatum usurpet, is loquendi usum servabit. Tales sunt voces omnes, quas frequentissime proferimus, ac memoriae mandavimus: ees enim intelligimus, sed usu et consuetudine adeo familiares evaserunt, ut eas proferentes ad sensum notionesque ipsis adfixas nusquam attendamus. Patet igitur Philosophum servare debere usum loquendi, adeoque terminis claris, fixis, atque in sensu proprio usurpatis ei utendum esse. Quod idem est, ac si dicas a terminis vagis, obscuris, impropriis, et familiaribos esse abstinendum: aliter enim non intelligeretur. Hic porro. Ex pluribus vocibus inter se apte connexis oritur SERMO, sive ORATIO sive PROPOSITIO. Definitur autem sermo per nexium plurium terminorum mentis nostrae conceptıbus exprimendis idoneum. а Logicis dispesci solet in CIVILEM, et TECHNICVII, sive eruditim, quorum ille in vita civili ab omnibus; hic in coinmunicandis ideis ad disciplinas pertinentibus, vocabulorum technicorum pe, ab eruditis adhibetur. Nisi enim ideis nostris explicandis sit idoneus, non sermo, sed confusus inanium vocum cumulus dici poterit. Dicuntur autem verba, vel voces technicae, quae ideas scientificas quibusdam disciplinis peculiares, usu annuente, exprimunt: cuiusmo di non pauca occurrunt in qualibet disciplina. Schol. Quae hactenus de vocibus dicta sunt, inania faere evaderent, nisi doctrinae usum auditoribus nostris ostenderenus. Quae igitur de iis observanda putamus paucis, isque tam familiari quain erudito sermoni inservientibus, complectemur re gylis. Philosophus ergo noster scquentes observet CANONES. Antequam oum aliis congrediaris, tecum attente perpendeto, quid cogites: Cogitationes porro tuas totidem vocibus exprimilo, quot ideas hubes. Quantum adiumenti adfcrat hic canon adolescentibus, ia promtu est. Quun enim fis familiarissima sit inanis illa et garrnia loquacitas, fua fit, at persaepe in te veritatis notam incurant des alimchanab inconsiifera to loquendi puriniz násvatur; facile parei, cur qui cogitationibus suis atteindlit', nulla, nisi benedigestum, emitiere posse verbum. Caveto, ne ideam soni habens, rei quoque notionem habere te credas; aut voces coniunctas intelligere quas disiunctas intelligis. Falluntur enim persaepe homines, quum ter minos inanes, et notionem deceptricem con. tinentes effutiunt, in quibus solam ideam $ 9. ni habent, et nihil cogitantes aliquid se cogitare creduat. E. g. Idea materiae et idea cogitationis possibiles sunt, pariterque voces, quibus illae exprimuntur singulae intelliguntur. Coaiunclae vero impossibiles evadunt, atque adeo intelligi nequeunt. Ecquis enim materiam cogitantem exsistere posse imquam probavit? Vid. Inst. nostr. Meiaph. P. 11. Cap. 4.  eas 3. sum loquendi semper servato, nec novas temere cudito voces: quod si ad id quandoque necessitate cogaris, adcurate definito, ne obscurus fias. In hanc regulam peccatur, si quando vocabula technica, utut civitate donata, furene novitatis amore mutantur; iis novae voces substituuntur, quamvis rem, de qua a gitur, adcurate exprimant. Et si houe termini philosophici, reiecta barbarie, pristinae restituuntur puritati, ea non novatio dicen et proda est, sed renovatio, idest vocum ad pro prium avitumque decus restitutio Peregrina vocabula Latino, vel Italico sermoni ne iminisceto, nisi vel Tocendi, vel amici cuiusdam oblectandi caussa: alias eniin in paedantismum Empinges. Vid. Heineccium in Fundam. Stil. cultior. Id vero egisse Ciceronem ex eiusdem scriptis didacticis, et Epistolis ad Atticum abunde colligitur. Quum eniin paedantismus sit inanis glorio lae cupiditas in minotüs, ineptisque rebus sectandis quaesita; paedagogi vero, a quibus hoc nomen obvenit, id quoque habeant in vitio, qnod singulis verbis latinas interse runt phrases ac textos: ideo hanc notain incurruut quicumque, vel ad ostentandam e ruditionis niultiplicitatem, vel ob nimium tem poribus inserviendi studium, nullum, nisi pe regrino sale conditum, queunt formare ser monem. 5. Si aliis displicere non vis, quoties cumque loqui oportuerit, modesto vultu atque amoeno fuam proferto sententiam: ne docere ex cathodrá potius, quam veruin dicere, videaris. 7Est et haec paedagogorum nota, qui pueris in docendo imponere adsueti, inagisiral e illud supercilium ubique servant, seque invisos au dientibus, maximo veritalis detrimento, red dunt. Vid. Buddei Oratio de bonarum littera rum decrcinento nostra aetate non tenere me tucndo. Dea rei distincia completa verbis expressa dicitur DEFINITIO. Res vero ipsá, sive definitionis obiectum, vocatur DEFINITVM. Ordo igitur po stálat, ut post'ideas earumque signa; bre vein de ddinitionibus tractationem hic sub iungamus, Quid sit idea distincta, et qua ratione ad quiratur, dixiinus supra. seq. De idea completa cousule, quae breviter do cuimus g. 25; diffusius enim hic, quae de illa dici merentur, enodabimus.Quemadmodum antem idea voce prolata di citur terminus, isque clarus si claram expri mat notionem; ad exprimendam, vero ideami distinctain, sive ' emuinerando; il dias characteres, non uno, sed pluribus claris opus est termiuis: ita complexus ille yocum, * Cap. HI. De definitionilus. 71 hoc est idea distincta completa sermone expli cata, definitio dici consuevit; adeoque non abs re tractatus bic doctrinain sequitur ter minorum. 2. eas ** ne 49. Ex qua definitione consequitur 1. in definitione notas et characteres enume rari oportere, qui sulliciant ad definiturn in statu quolibet agnoscendum, et ab aliis rebus distinguenduin; notas tales esse debere, ut nulli, nisi so li definito in tota eius extensione, conve niant; quare 3. merito a Logicis ad firmari, definitionem neque latiorem que angustiorem sno definito, sed ipsi aco, qualem esse debere, ut sibi invicem sub stilui possint. *** * Id autem, per quod res ab aliis rebus distin guitur, eius essentia a Metaphysicis adpellari consuevit: inde ergojest, ut definitionem Lo gici esse dicant orationem, qua rci essentia explicatur. Quia vero per extensionem intelligimus quod cuinque subiectum, cui determinationes ideam aliquam constituentes tribui possunt; perinde est, ac si dicas, definitionis notas tales esse debere, ut omnibus subiectis, spe ciebus nempe, et individuis sub definito con tentis conveniant. Porro inter characteres il los insunt proprietates genericae, et specifi ** Logic. Pars I. *** Si cae, quae integram definili essentiam expo. nunt, et repraesentant. Non iniuria igitur adfirmari solet, definitionem ex genere et differentia specifica constare debere. Si namque definitio talis non sit, ut possit definito substitui, vel (ut aliis placet ) cam eo reciprocari, vel illo latior, vel angustior erit, adeoque deficiens. Substitutio autem in co consistit, ut definitio pro subiecto, defini tum pro attributo, et contra, adsumi possit. E. g. Spiritus est substantia intellectu et vo luntate praedita: contra vero substantia intel lectu et voluntate praedita dicitur spiritus. 90. Ex eodem quoque fluit 4 in defini tionem ingredi non posse, nisi ea, quae Jei perpetuo et constanter insunt, idest ATTRIBUTA, vel ESSENTIALIA; proin deque 5. locum in ea non habere ACCIDENTIA, seu MODOS. * * Quaenam sint essentialia, et attributa, pate bit in Ontologia. Id unum hic notasse sull ciet, tam essentialia, quam attributa rei cou stanter ac immutabiliter inesse: nam attributa sunt eiusmodi characteres, quorum ratio suf ficiens cur rei insint, in eiusdem essentia et natüra continctur: ut sunt tria latera et tres anguli in triangulo. Quoniam vero definitio est idea rei distincta; haec autem est no  nec tio clara notarum (5. 23. ): sequitur ut ea vocibus claris sit exponenda, obscuri quidquam continentibus; ideoque 7. nec vagis ($. 43. ), nec metaphoricis nec negativis ** terminis in illa sit locus. Imo vero 8. eam in vitio poni perspicuum est, si sit IDENTICA vel CIRCVLVS in definiendo committatur. Si tameu termini definitionem ingredientes ob scuri quid habere videantur, prius adcurate definiantur, ut claritatem adquirant. Sic in vidiae definitionein supra allatam nemini proferre licebit, nisi prius taedii si gnificatus alia definitione sit determinatus. Terminis negativis concipitur definitio > si explicet quid res non sit: ut si dicas, invi dia non est commiseratio. Hinc vides, eam esse vagam et indeterminatam, adeoque defi niti ideane inde oriri confusissim un, quod est contra definitionis indolem: Exceptio tantum datur in rebus contradicto riis nullun inedium adinittentibus, quarum una recte definita, altera negativis terminis explicari potest. Sic ens simplex non immeri to dicitur quod partibus caret, substantia, quae non exsistit in alio, tamquam in subie *** Definitio identica est, quae idlem per idem explicat, cuiusmodi suut nonnullae Scholarum cio etc. definitiones quas confusiones rectius dixeris. Exemplo sit quantitatis definitio ab iis allata per accidens, a quo res dicitur quanta. Quid, quaeso, haec verba significant, nisi quod quantitas sit quantitas? Cui vero usui definitiones istae esse possint, tironibus ipsis iudicandum relinquimus. **** Circulus enim Geometris est figura plana linea curva in se redeunte terminata: in defi niendo ergo circulus committitur, si in evol vendis definitionis characteribus, eorumque novis definitionibus formandis, in aliquam ipsarum definitum ingrediatur. Tunc enim per definitum explicaretur id, per quod defini lum ipsum explicari deberet; adeoque res re diret ad definitionem idemlicam, quae in vi to posita est. Illa notas et characteres e numerat sufficientes, quibus definitum ab aliis rebus in siatu quocumque discerni possit; haec autem rei definitae genesin et originem exponit, ** unde et GENETICA dicitur. * Per definitionem nominalem veteres intelligc bant grammaticam vocis explicationem, qua vel radix sive origo nominis investigabatur, et tunc Etymologia dicebatur: vel multiplex eiusdem significatio, eoque casu Homonymia; Cap. III. De definitionibus. 25 vel denique plures voces eumdem sensum ha bentes, et Synonymiae nomine veniebat. Quae enim nobis nominalis est, realis inter illos audiebat. ** Nominalis ergo est definitio spiritus, si eum definiveris per substantiam intellectu et volun tate praeditam: realis autem, si invidiam definias per taedium ob alterius felicitatem: in ea enim eiusdem caussa et origo explica tur. Vides hinc, nominales definitiones esse arbitrarias: reales contra necessarias. > 53. Si vero idea rei distincta quidem sit sed incompleta: tunc non definitio, sed DESCRIPTIO nominatur; adeoque in descriptione accidentia qnoque locum inve piunt, qnae quum in individuis tantum concreta observentur, hinc est, ut res sin gulares describantur, abstractae vero deti niantur; ** proinde illae Oratorun et Poe tarum hae Philosophorum propriae sint. Descriptio itaque, licet plures enumeret no tas; quam definitio, eas tamen ad rem in sta tu quolibet agnoscendam exhibet insufficien tes. Tales notae non exsistunt, nisi in rebus singularibus;, utpote omnimode determinatis: universales namque ab iis mentis abstractione erguntur, paucio resque adeo, ac sufficientes ipsis distinguendis . 76 Logic. pars I. > continent characteres. Inde ergo fit, ut ha definiri possint, illae tantum describi. Intelligitnr hinc: cum generum et specierum definitiones apud Philosophos inveniamus, in dividuorum nihil nisi meras descriptiones Poetis ac Oratoribus familiares, et si ab his definitiones proferri videmus, eas vel incom pletas novimus, vel magno verborum ambitu expressas, ubi accidentia attributis, caussas effectibus permixta observamus, quas tamen Philosopho imitari nefas erit, quippe cui idearum analysis, essentiae rerum investiga. tio, verborum praeterea praecisio in deliciis esse debent. Schol. Superest, ut quae studiosae iu ventuti utilitatem adferre possunt, ea pau eis exponamus regulis huius doctrinae usum continentibus. Philosophiae igitur initiatus, si quid a studiis suis commodi percipere cupit, sequentes animo imbibat CANONES. 1. Definitiones, utpote rei naturam et essentiam explicantés, ciim cura disci to, ' ạtque teneto. ' Iudicium porro cum m moria coniungito: ideoque aliorum definitionibus ne adquiescito; sed ope rum dato, ut eas intelligas, et ad tru tiram revoces. re Sunt enim, qui soli memoriae consulentes, quidquid in aliorum scriptis repererint, id omne discunt, ac turpe putant ab eo discedere. Hinc fit, ut si memoriae pondus inutile au feras, nihil, praeter arroquarov quoddam, maneat. Homunciones isti memoriae dumtaxat exercendae intenti, iudicii vero prorsus ex pertes, libros quosvis sine delectu memoriae mandare adsueti, innumeris snnt expcsiti er roribus; quotcnmque eorum oculis subiiciun tur. Ne igitur adolescentes, qui memoriam tantum in Scholis huc usque exercuerunt, eamdem premant viam, sibique pessime cou sulant: visum est, cautionem hanc eo neces sariam, quo prima scientiarum hic funda menta sternuntur, ipsis suggerere et inculca re, ut iudicium excolentes in aliorum senten tiis ad examen rcvocandis, et ad eruendas inde propria meditatione veritates apti red dantur. ver 2. In legendis Auctorum libris, prum phrasiumque lenociniis ne conti eto: sed ut sententiam ipsis subiectam lare, ac distincte intelligas, pro vi ili curato. Ita vitabitur stupida illa aliorum sententiis adquiescendi consuetudo, quae in caussa fuit, ut liberculi aliquot ex transmontanis, transma rinisque regionibus huc appulsi stilo quodam auribus pruriente tot incautos captarint ado D 3 78 Logic. pars. I. lescentes, quos inter crassae incredulitatis te nebras errabundos non sine magno dolore vi demus. Hi namque culpabili ignorantia verbis tantummodo adquiescentes, nec sententias in tellexerunt, nec eas ad trutinam revocare sunt ausi, iudicandi quippe facultate destituti. 3. Rerum, quas nondum distincte in telligis, definitiones proprio marte con ficito, ut ex iteratis' actibus, continua que exercitatione habitum in eo adqui ras. Res quidem non parvi momenti erit, multun que laboris impendendum, pauco forsan aut irrito eventu. Animo tamen non deficiant a: dolescentes: ab exiguis enim initiis maxima procedunt, atque experientia tandem, qui sit huius canonis fructus, addiscent. Poterit autem quisque imitando incipere, experiundo prosequi, ac notionum analysi sednlam na vans operam felici demum exitu proficere. Vi de quae docebimus infra. Caveto, ne res omnes definiri pos. vel debere, credas; * aut definitio nes verbis diversas re quoque differre putes. ** * Videantur interim a nobis ante dicta G. 27. Gap. III. De definitionibus. 79 ¥ Si namque dantur synonyma, verba nempe et phrases eumdem habentes significatum, quidni definitiones illae verbis diversae synonymicis erunt expressae terminis, adeo que re unum idemque significare poterunt? 5. Si e Philosopho Orator aliquan dofieri cupis, definitiones pro definitis adhibeto: tunc enim auditorum animos inani verborum ambitu non fatig abis solidaeque doctrinae clarissimum dabis indicium. Exemplo sit elegantissima M. Ant. Mureti pe riodus Part. I. Orat. 1. ubi de laudibus Theo logiae acturus, amplificat syllogismun quam brevissimum has continentem propositiones: Facultas hominem Deo con ugens est omnium praestantissima. Egpyas a eius talis est. Nam si eorum omnium, quae in hac inmensa re rum universitate cernuntur, unumquodque per ficiendi sui desiderio tenetur; et animus no ster ad similitudinem Divinitatis effictus tan to perfectior est, quanto propius ad illud, a quo ductus et propagatus est, exemplar ac cedit: dubitari profecto non potest, quia ea sit omnium praestantissima facultas, quae, quoad eius fieri potest, cum humanis divi na copulando, mortalitatem nostram, quantum illius imbecillitas patitur, Divinae natura e ar ctissima colligatione devincit. Vides hic Theo D 4 80 Logic. pars 1. logiae definitionem, oratorio licet more pro latam, multum orationi pulchritudinis ac di gnitatis adferre. 6. Definitionem tuam, si ab aliis di stingui exoptas, efformare curato; id que obtinebis, si intellectuales morales que virtutes tibi comparare studueris. * Hi namque definitionis characteres esse de bent. Quod ni facias in vulgi turba confu sus eris, nomenque tuum in tenebris, ob scurumque manebit ila, ut vel patrio, vel alio adpellativo nomine indigitari debeas. Notional Otionum analysin in adaequatarum idearum formatione consistere, snpra iam ostensum est. Porro in hac o peratione ideam aliquam in partes, sive notas dividi, hasque rursus in alias disper tiri, quisque novit qui earum naturam habet exploratam. Tunc igitur idea illa ut totum consideratur, characteres autem ut eius partes: adeoque non abs re analysis idearum verbis expressa DIVISIO nominatur, * quae recte definitur, quod sit to tius in partes resolutio. * Quum autem in divisione novae notarum de finitiones suppeditentur: iure doctrinam hanc definitionibus subiungimus. 2 55. Quoniam vero quidlibet ut totum considerari potest: variae totius relationes sunt enatae. Et quidem 1. totum essan tiale quod constat ex partibus ad ajus essentiam pertinentibus, 2. totum integra le, compositum nempe ex corporibus, quorum snmma eius integritatem constituit, 3. genus, quod plures species suo ambitu comprehendit, 4. subiectum, quod plura accidentia sustinet, 5. accidens quod pluribus subiectis inhaerere potest, 6. caus sa, quae plures producit 7 effectus, qui a pluribus potet procedere caussis. Quidquid tandem pro ratione obiectorum, circa ' quae versatur in tot partes distribui potest, quot sunt objecta. Inde ergo est, ut va riae a Logicis tradantur divisionis species veluti TOTIVS sive essentialis, sive in tegralis, in suas partes, GENERIS in suas species subordinatas, SVBIECTI in sua Accidentia in suos effectus, EFFECTVS CAVSSAE, ACCIDENTIS in sua snb 7, D 5 82 Logic. pars 1. iecta, rei in suas caussas, denique caiusvis per sua OBIECTA. Primae classis est haec: Homo dividitur in animam et corpus; vel as dividitur in duo decim uncias. Secundae: Animal dividitur in hominem, et brutum. Tertiae: Homo est, vel doctus vel indoctus. Quartae: Bonum est. vel animi, vel corporis. Quintae: Philoso phiae dogmata alia intellectuin instruunt, a. lia voluntatem dirigunt. Sextae: Veritatis impugnatio, vel ab ignorantia, vel a malitia procedit. Septimae denique: Philosophia theo retica alia circa res corporeas, alia circa incorporeas et intellectuales versatur. 56. Totum illud, quod in divisionem cadit, DIVISUM; partes vero, in quas dispertitur, MEMBRĀ DIVIDENTIA no minantur. Sin membra haec in novas rur sus partes resolyamus., SVBDIVISIO di citar. * * E. g. Homo dividitur in partes suas essentia les animam nempe et corpus; hoc autem in caput, truncum o et artus reliquos. En subdivisionem, 57. Ex membrorum itidem dividentiam numero nova quoque divisionis oritur dif ferentia. Si namque duo fuerint membra Cap. IV. De divisionibus. 83 dichotomia sive DIMEMBRIS; si tres? trichotomia seu TRIMEMBRIS; quatuor tetrachotomia hoc est QVA TRIMEMBRIS divisio, appellabitur. SI Sic bimembris erit divisio lineae in rectam, et curvam, trimembris trianguli in aequila terum, isosceles, et scalenum; quatrimembris denique parallelogrammi in quadratum, rc ctanguluin, rhombum, et rhomboidem., 58. Quoniam divisio est totius in par tes resolutio; totum autem ae quale partibus simul sumtis esse debet: consequens est 1. ut membra dividentia simul totum adaequare debeant divisum adeoqne nec plus illo, nec minus compre hendant; * 2. ut non sibi coincidant, sed repugnent, sintque per novas definitiones, easque oppositas, distincta; ** 3. ut ex ipsa rei dividendae natura petantur, scili cet in tot membra totum dividatur, capax est; 4. denique ut ad confusio nem vitandam prius idea totalis ab am biguitate liberetur, posteaque divisio insti tuatur. i quot *** * Contra hanc regulam peccant, qui angulum dividunt in rectilineum et curvilineum, vel qui lineam esse aiunt, vel rectam, vel curvam & derari potest: vel mixtam. In primo enim casu membra di videntia simul sunt diviso minora; in se cundo autem eodem maiora. ** Huic quoque regulae adversantur ii, qui bo. num dividunt in honestum, utile, et iucundum: haec enim membra simul in uno coexistere debent, ut genuinam boni denominationem tue ri possit: adeoque non sunt repugnantia. Peccant etiam ii, qui licet totum in membra opposita distribuant, ea tameu definitionibus non repugnantibus determinant, ut quum cns in simplex et compositum diviserunt, et hoc esse dicunt, quod partibus constat: illud contra definiunt per id, in quo nihil consi *** Repréhensionem ergo.eruditorum merito incurrunt Ramistae, qui tam superstitiose di.chotomiis adhaerent, ut in plura membra totum dividere irreligiosum putent. Nec ali ter iụdicandum est de iis, qui nimiae mem brorum multiplicitatis sunt amatores. Idem enim vitii, inquit Seneca, habet nimia, quod nulla divisió. Ep. 89. 59. Quum autem divisiones et subdi visiones potionum analysin contineant, haec autem in idearum adaequa tarum formatione consistat, ideo que ad maiorem distinctionem in nobis producendam sit comparata: sequitur 5. ut divisionibus aeque, ac subdivisionibus, quae iisdem ' reguntur regulis, omnia vi tentur, quae confusionem adferre possunt; proindeque 6. liquido patet, non licere p? as ter necessitatem subdivisiones multiplicare, ne memoria fatigetur, ac intellectui veių. ti tenebrae offundantur, Schol. Haec de divisione. Ad hujus porro doctrinae usum nunc transeamus quem paucissimis inde nascentibus include mus regulis. Logicae itaque Tiro utilissi mos aeque, ac necessarios hosce discat CANONES, In dividendo subdividendove non aliorum systemata, sed naturam tantum consulito. Confusionem aeque, ac tae dium vitare curato. Hoc namque modo nec Ramistarum supersti tiosa restrictio, nec Scholasticorum nimia di visionum membrorumque multiplicatio locum habebit. Natura enim omnium optima, et ad curatissima est magistra. 2. Divisiones ne per saltum facito. * Ordinem ac seriem in unaquaque re ser vato. Dicitur autem civisio per sattum, quae ordi... nem non scrval, et in qua ea, quae in sub divisione cxprirai deberent, comprehendun tur: e.g. si ideam diviseris in claram et ina daequatam, divisionem conficies per saltum; inadaequatam enim quae in subdivisionem ingredi deberet in divisione locum habere observas. Series ergo atque ordo ne pertur betur, quisque in studia incumbens cavere stu deat. CAPVT QUINTVM De iudiciis, et propositionibus, 6o. Hactenus de ideis, earumque ana lysi, quantum instituti brevitas tulit, actum. Eas vero si comparemus, scilicet si duas ideas inter se coniungamus vel separemus, alia mentis oritur operatio, quae IVDI CIVM adpellatur. Est autem iudicium duarum idearum comparatio earumque relationis perceptio. Iudicium porro ver bis expressum dicitur PROPOSITIO vel ENUNCIATIO. E. g. Si ideam spiritus cum idea indestructibi litaiis conferas, videasque unam alteri conve nire, tunc spiritum esse indestructibilem ndi cas: contra, si indestructibilitatis ideam cor Cap. V. De iud. et prop. 87 separas: haec poris notioni non convenire observes,corpus non esse indestructibile colligis. In primo ca su ideas coniungis; in altero mentis operatio, qua earum relationem ex pendis, iudicii nomine venit. ** Nonnulli discrimen inter haec duo nomina statuunt: ut prius locum inveniat, si in syllo gismo spectetur; posterius vero, si extra id inveniatur. Sed in re tam parvi momenti diu immorari, foret ineptum. 61. Quoniam iydicium duas ideas compa rat, et si verbis exprimatur, propositio di citar ($. 60. ); idearum vero signa sunt voces seu termini: liquet, quam libet enunciationem duobus constare termi nis, quorum ille, cui aliquid convenire vel discrepare ennuciatur, SVBIECTVM; is vero, qui subiecto tribuitur vel ab eo removetur, ATTRIBVTVM vel PRAEDICATVM nomiuatur, qui duo simul pro positionis EXTREMA dici consueverunt. Quumque eorum nexus verbo substanti vo exprimatur: merito vox illa ex hoc verbo desumta, quae propositionis extrema coniungit, COPVLA vocatur. E. g. In hac propositione, “Deus est aeternus,” Deus est subiectum, quia ipsi tribuitur aeternitas; aeternus dicitur attributum, quia Deo convenire enunciatur; vox deniqne “EST”, quae duo haec extrema coniungit, atque unum al teri convenire indicat, copula, hoc est coniunctio, adpellatur. Hinc ergo colligitur, quain cumque propositionem SUBIECTO, COPVLA, et ATTRIBVTO constare debere, ut enunciatio LOGICA PERFECTA dici pos sit. Si namque horum aliquis lateat, CRYPTICA, vel IMPERFECTA dicilur, quia naturalis compositio crypsi aliqua tegitur: id autem accidit, quum verbuin aliquod copulae et attributi vices sustinet e. g. Deus mundum creavit: idem enim esset ac dicere: Deus est Creator mundi. Est et alia propositionum crypticarum species, iu quibus sub uno verbo tota enunciationis latet compositio per ellyp sin eruenda: ut in illis: veni, vidi, vici: hic namque tres iusunt enunciationes ex iis dem verbis repetendae, nempe: “Ego fui-ve nens, ego fui videns, ego fui vinccns.”  QvanVandoquidem in qualibet idearum comparatione sex potissimum con fiderari possunt, scilicet: materia, sive ideae quae comparantur; forma, seu comparatio ipsa; qualitas comparationis; eiusdem quantitas; objectum, 6. denique evidentia relationis: ideo sub totidem adspectibus propositiones intueri possumus; videlicet, ratione MATERIAE, FORMAE, QVALITATIS, QVANTITATIS, OBIECTI, et  EVIDENTIAE. Quamvis autem hunc ordinem divisionis natura suppeditet: liceat nobis in hac tractatione qualitatem ante omnia perpendere, utpote quae in aliis distributionibus usui esse debet; quaque postposita, nonnulla obscuritate laborarent. Propositionis QVALITAS consistit in extremorum combinatione tione. Quum ea coniungimus, scilicet prae vel separa dicatum subiecto convenire enunciamus ADFIRMARE dicimur; NEGARE contra, si illa seiungamus, seu unum ab altero discrepare pronuntiemus. Recte igitur omnis propositio, si qualitatem spectes, dividitur in AIENTEM et NEGANTEM. E. g. Quum dico, “Mundus est contigens”, praedicatum cum subiecto coniungo, adeoque de mundo adfirmo esse contingentem. Quando vero enuncio, “Mundus NON est aeternus”, extrema seiung, idest aeternitatem a mundo removeo et hoc est quod dicitur negare. Ex quo vides, negationem (“NON”) copulae praepositam reddere propositionem negantem: quod si non copulam, sed terininorum ali quem, vel eius partem negatio afficia, non negans, sed INFINITA orietur enunciate. E. g. Marcus Aurelius Romano Imperio pote ral non nocere, quia Philosophus. Distinctio haec aliter ab aliis enunciatur, scilicet in adfirmativam et negativam. Vtrum que apte. 64. Si ad propositionum materiam attendamus, eae sunt vel SIMPLICES, vel COMPOSITAE. SIMPLEX enunciatio dicitur, cuius termini plures non sunt sed unuin habet subiectum, et unum prae dicatum; COMPOSITA vero, quae plura > Cap. V. De iud. et prop 91 continet vel subiecta, vel attributa; eaque est vel EXPLICITA, si compositio sit mania festa, vel IMPLICITA, Scholastico nomine EXPONIBILIS, si compositionem habeat latentem, et paullo obscuriorem. Addunt alii enunciationem COMPLEXAM eamque haberi aiunt, quoties terminus ali. quis propositionem contineat incidentem sibi adnexam, quae, licet ad essentiam proposi tionis non pertineat, ad eam tamen intelli gendam plurimum confert, exprimiturque per pronomen relativum QVI. E. g. Plato, qui divinus fuit dictus, ideas innatas admisit. Propositio illa, qui divinus fuit dictus, in, çidens est. Sed distinctio haec in Logica aut parvi, aut nullius fere est momenti. Simplex ergo erit propositio: Deus est ae. ternus, iten que: aer est gravis. *** In quo vero consistat palens, vel latens compositio, ex sequentibus abande patebit, ubi de explicitarum implicitarum que enuncia tionum speciebus sermo erit. Id porro sedulo observandum, in compositis non unam, sed plures contineri enunciationes, id quod ex earum analysi poterit elucescere. EXPLICITA enunciatio dividitor in CONDITIONALEM; CONIVNСТАМ; DISCRETAM; CAVSSALEM; DISIVNCTAM et RELATAM. Conditionalis, alio nomine hypothetic, est, quae praedicatum habet subiecto tributum sub aliqua conditione: e. g. “Si mundus est ens contingens, non exsistit a se” -- in qua prima pars conditionem, altera propositionem continet. De hac autem observandum. I. conditio existentiam non largitur: visi enim veritatem adquirat, enunciatio vera esse non potest. Sic si dicas, “Si navis ex Asia venerit, centum tibi me daturum promitio”: promissio vera non erit, nisi navis ex Asia redux fuerit; 2. conditio impossibilis habet vim negandi. Et -recte: nam conditio impossibilis numquam in exsistentem abire poterit; adeoque enunciatio nullibi veritatem adquiret. Vnde idem est di cere: si digito Coelun tetigeris, centum ti bi dabo, ac si diceres: numquam tibi dabo centum: conditio namque impossibilis est. Coniuncta, sive copulativa dicitur, in qua termini ita connectuntur, ut de pluribus su biectis idem attributum; vel plura altributa de eodem subiecto enuncientur. E. g. “Iustitia et prudentia sunt virtutes”; “Deus est aeternus et omnipotens”.  Disiuncta, vel disiunctiva est, in qua uni subiecto plura tribuuntur praedicata, vel u Cap. V. De iud. et prop. 93 num attrubutum pluribus subiectis, ut plu ribus unum, vel uni plura conveniant, licet indeterminate. E. g. Aut doctus eris, aut in doctus. Quae de hac observari merentur, con fer in S. 58. cur (1 ) Caussalis est, in qua ratio additur, praedicatum subiecto tribuatur. E. g. Vitia nostra, quia amamus, defendimus: Politicas quia prudentiae regulas tradit, sedulo exco lenda, 1 Discreta dicitur, quae duo de eodem s biecto judicia continet qualitate diversa: ut illud Horatii. Coelum, nou animum mutant, qui trans mare currụnt. Item illud Terent. andr. 1. SC. 2. Davus sum, non Oedipus. Relata, seu relativa est, cuius una pars ab altera vim sunnit, ad eamque refertur  ut il lud Virgilii Georg. II. v. 291. et quantum vertice ad auras Aetherias, tantum radice in Tartara tendit. IMPLICITAE vero species sunt EXCLVSIVA;  EXCEPTIV;  COMPARATA RESTRICTIVA: licet alii quoque inceptivas, desitivas, et 'reduplicativus adiungant. Exclusiva est, in qua sensus duplicatur per particulas exclusivas solum, tantum, dumta xat etc., estque vel exclusi praedicati, e. g. oculus tantummodo videt. Exceptiva est, in qua particulae exceptivae praeter, nisi, et similes, sensum multiplicant. E. g.: “Omne ens, praeter Deum, est contingens.” Comparata cicitur propositio, vel particu la quaedam comparativa relationem adferat inter subiectum et praedicatum, ita ut ge mipus inde emergat sensus e. g., “ira est amore validior.  Restrictiva denique est, quae multiplicem continet sensum per particulas restrictivas. quatenus, in quantum, quoad etc. geminatum. E. g.: Ilomo, quoad corpus ', est mortalis. INCEPTIVAS vocant, quae actionem aliquam in principio enunciante, ut: successio temporum a creatione incoepi; DESITIVAS, inquibus ejus cessatio et finis praedicatur, ut: tutela pubertate finitur: REDVPLICACIVAS denique, in quibus subiectum geminalum at liud iudicium continet tacitum. E. g. “Corpus, qua corpus est, a spiritu differt. Sed de his plura coram. Si enunciationis FORMAM spectemus, erit NECESSARIA, CONTINGENS (fortuitam Cicero adpellat), POSSIBILIS, IMPOSSIBILIS: in quibus si necessita, contingentia, possibilitas etc. reticeantur, ABSOLVTAE dicentur; si vero exprimantur, MENTALES. Necessariam dicimus, cuius extrema ita contiunguntur, ut aliter se habere non possint. E. g. “Circulus est rotundus”. Contingens est, cuius termini nullam neces sariam habent connexionem, sed ita cohaerent, ut aliter esse queant. E. g.: “Crastinus dies erit serenus”.  Possibilem vocamus, in qua attributum sn biecto non repugnat, ut cera liquescit. Impossibilis dicitur proposition, cuius termini inter se repugnant, ut, “Circulus est quadratus”. Ratione OVANTITATIS enunciatio dividitur in VNIVERSALEM, si attri butum subiecto in tota huins 'extensione conveniat; PARTICVLAREM, si ad aliquas tantum species, ant individua in subiecti notione contenta extendatur; denique SINGVLAREM, si individuum subiecto exprimatur, Addunt alii inde finitam, sed eam non esse ab universali dstinctam, infra abunde patebit. in. Alia universalem vocant propositionem, qua ratio sufficiens, cur praedicatum subie cio tribuatur, latet in ipsa subiecti natura, scilicet, si praedicatum sit attributum essentiale subiecti. Ita haec enunciatio, “Homo est libertatis capax”, est universalis tum quia subiectum in tota eius extentione sumitur nullus enim homo invenietur, nullus enim homo invenietur, cui libertate careat; tum quia ratio sufficiens, cur libertas homini trihuitur, latet in ipsa hominis ESSENTIA et natura, hoc est, ut Scolastici aiunt, rationalitate. Signum universitatis in aiente propositione est “OMNIS” (italiano: “ogni”); in negante NVLLVS. Quae de universalitate metaplıysica et morali Philosophi docent, ea hic persequi brevitas non patitur, sed in ipsis praelectionibus aliqua no tabimus. Particularem propositionem alii esse dicunt, in qua ratio sufficiens; cur praedicatum subiecto naturam est repetenda; E. g. “quidam homines sunt crudili”. Vides hic subiectum non in tota sua extensione accipi, sed ad aliqua tantum individua extendi, ita ut ratio sufficiens, cur homini eruditio tribuatur hominis naturam inveniatur, scilicet in studio aique exercitatione. Particularitatis nota est QUIDAM, ALIQVIS; in negante vero additur particula NON.  E. g., Livius Romanorun historiam ad sua usque tempora scripsit. En propositionem singularem: subiectum enim est terminus singularis. 6g. Ex quibus omnibus consequitur v. ad essentiam propositionis universalis non reqniri notam uuiversitatis, sed eam pro lubitu exprinii vel' omitti posse; INDEFINITAM dici propositionen in qua pota reticetur ac proinde recte a Philosoplus adfirmari, propositiones in definitas aequipollere universalibus; qui nimmo, signum universale numquam efficere posse, ut enunciatio talis evadat; falli ergo eos, qui universalem propositio hem defipiunt per eam, cuius subiectum signo aificitur universali; particula rem facile in universalem commutari pos se, si subiecto addatur ratio suficiens, cur ei convcniat allributum, Ecquis enim propositionem hanc: “Omnis homo est doctus”, ideo universalem esse aufirmabit, quia signo universali subiectum adficintur? Hinc si propositionem universalem particularibus, vel particularem universalibus terminis signisque exprimamus a veritate deficiet, ut suo loco dicemus. Sumas e. g. hanc propositionem: “Quidam homo est philosophus”, habes propositionem particularem. Adde snbiecto caussam, cur de homine esse philosophum enunciatur. scilicet scientiam; eamque sequenti modo exprimito: “Omnis homo scientia praeditus est philosophus”, ex particulari in universalem abibit. Mirum quantum transmulalio ist haec in scientiis prodest. Ab ea enim pendet propositiomm analysis; puta earumdem resolutio in hypothesin ct thesin. Nobis in secunda part, ubi de experientia sermo erit, huius modi commutationis usus erit obiter attingen dus. Iuvat hic compendii loco addere, veteres harum propositionum differentiam quatuor vocalibus indicasse: “A”, “E”, “I” et “O”, id quod se quentibus expressere versiculis: Asserit “A”, negat. “E”, verum universaliter ambae. Asserit I, negat O, sed particulariter ambo: De rat. et Syll. De propositionibus mathematicae methodo inservientibus. Ostrema enunciationum divisio quae earum obiectum, et evidentiam res spicit, ea est, quae in recentioribus Phi osophorum et Mathematicorun scriptis pas sim observatur peculiaribus desiguala nominibus, quaeque a nobis ideo distincte tradenda, quia me!l dun mathematicas in hisce justitutionibus sequi statuimus. Ratione ilaque OBIECTI pto positio est vel THEORETICA, in qua a liquid de subiecto enuncialur, vel PRACTICA, quae aliquid fieri posse aut debere adfirmat. Sic propositio theoretica est haec, “Omnes ro dii eiusdem circuli sunt aequales”. Practica vero: “Quovis centro et intervallo circulus describi potest. Vides hinc, theoreticam propossitionem veritatis alicuius enunciationem; pra cticam vero operationis faciendae expositiouera continere, Quo ad EVIDENTIAM enunciatio vel talis est, ut extremorum nexus per se clare pateat, vel quae demonstratione in digeat. Illa INDEMONSTRABILIS, haec DEMONSTRABILIS dici consuevit. Quibus enodatis, ad peculiaria propositionum nomina explicanda transcamus. Indemonstrabilis ergo est enunciation, “Totum sua parte maius est”. Demonstrabilis. contra haec: “Scientia Philosopho est necessaria”, ea enim ex collatione definitionum scientiae et philosophi debet demonstrari. Propositio indemonstrabilis theoretica dicitur AXIOMA. Si vero practica fuerit, POSTVLATVM vocalır.  E.g. “Totum est aequale omnibus suis partibus simul sumti”. D. de Tschirnausen axioma vocat quamcumque propositionem ab unica definitione immediate deductam; Euclides au tem illam, quae primo intuitu ab unoquoque perspici potest. Res eo redit, ut axioma vo cemus enunciationem per se claram, adeoque demonstratione non indigentem, sive a defini tione, sive aliunde evideutiam suam repetat: ac proinde nostra definitio utramque amplectitur sententiam, ut diffusius coram ostendemus. ** E. g Quovis centro ac quovis intervallo cir culum describere. Coguita enim circuli defini tione, postulati huius veritasan. scitur, Cap. V. De iud. et prop. IOL Enunciatio theoretica demonstrabilis THEOREMA vocatur; practica contra dicitur PROBLEMA. In Theoremate ergo propositionis veritas ex plurium definitionum collatione demonstrari debet. E. g., “Deus est aeternus” Huius enim demonstratio ex definitionibus Dei, et aeter ni inter se collatis peti debet. Hinc est, ut duabus illud constet partibus, nempe enunciatione, qua veritas șive propositio theoretica enunciatur, et demonstratione, qua ea dein confirmatur: ideoque in fine demonstra tionis addi solet Q. E.'D., hoc est, “quod erat demonstrandum.” Quum Problema sit propositio practica, pa lam est, illud tribus absolvi, propositione sci licet, quae quid faciendum proponit, solutione, quae modum, quo fieri potest, ostendit, et demonstratione, quae rem bene processis se concludit, addends, “Q. E. F”. idest, “quod erat faciendum”. Sic problema est haec enunciatio: Commiserationem in altero excitare. COROLLARIVM, sive CONSEOTARIVM dicitnr quaevis enunciatio, quae ab alia immediate, et necessariae consequutione oritur. E. g. Cuum demonstraveris propositionem E T. hanc: Nihil est sire ratione sufficiente, per teris inde eruere corollarium; Ergo, id omne, quod ratione sufficiente destituitur, nec est, nec esse potest.  SCHOLION, seu SCHOLIVM, est oratio, qua illustratur quidquid in propositione obscurum videbatur. In eo igitur doctrinae usus exponitur, historia narratur, auctorum sententiae referuntur aliorum obiectiones proponuntur et refelluntur, ce teraque observatu digna enucleantur: ut videre est in omnibus Mathematicorum, et Philosophorum recentium scriptis.  LEMMA est proposititio ex aliena disciplina desumta, quae tamen ad demon strandum aliquid in doctrina, quam tra ctamus in subsidium adhibetur. Ita Aritmetici in costructione quadratornm et cuborum lemmata ab Algebra muluantur, ut est propositio illa: Cuiuscumque numeri bi partiti quadratum aequatur quadratis parti una cum facio dupli partis unius in al teram lucti. um Cap. V. De iud. et prop. 103 S E C T10 lll. De propositionum adfectionibus. HaecAec de enunciationum diversitate. Superest, ut de earum adfectionibus pau ca dicamus, de quibus quamplurima in Scholis praecipiuntur laboris quidem plena, vtilitatis autein expertia. Ad propositionum adfectiones referuntur: OPPOSITIO,  SVBALTERNATIO, CONVERSIO, et AEQVIPOLLENTIA. OPPOSITIO est duarum proposi tionum inter se pugnantium collatio: estque vel CONTRARIA, si earura utra que sit universalis in qua propositio nes ambae possunt esse falsae, sed non ambae verae; vel CONTRA-DICTORIA, si etiam quantitate differant, *** in qua enunciationum illarum necessario una ve ra esse debet, altera falsa; vel deni que SVBCONTRARIA, si ambae sint par ticulares, **** in eaque propositiones am bae verae, at non ambae falsae esse possunt. * Sic oppositae sunt hae propositiones: Omnis E 4 spiritus cogitat; nullus spiritus cogitat: pu. gnant enim inter se, quum de eodem subie cto idem una adfirmet, altera neget. ** E. g. Omnis homo est ratione praeditus: nullus homo est ratione praeditus, quarum una vera est, altera falsa. Possunt tamen da ri casus, in quibus ambae falsae sint, veluti huum unirersaliter enunciatur, quod particu lariter proferri debebat. E. g. Omnis homa est eruditres: nullus homo est eruditus. Om nibus enim tribuere quod quibusdam tan tum convenit, est falsum dicere dicere, ut infra videbimus. *** Ita propositiones: Omnis spiritus cogitats quidain spiritus non cogitat, sunt contradi ctoriae, earum enim una universaliter ait, al. tera particulariter negat. Iure igitur exclusa altera includitur, et contra: nam falsum est a quibusdam removere quod omnibus con renit, vel aliquibus tribuere quod nulli com petit. ***** Talis est sequens oppositio Quidam ko mines sunt divites: quidam homines non sunt divites: Vides hic ambas propositiones veras esse. Quod si dicas: quidam homo est liber: quidam homo non est liber, quum haec falsa sit, altera vera esse debet. Rationem eius re gulae, ne longius provehamur, coram dabi una, mus. 7SVBALTERNATIO est duarum Cap. V. De iud. et prop. 105 propositionum sola quantitate differen tium, sed eosdem terminos habeniium mutua quaedam relatio. Vniversalis enun ciatio SVB-ALTERNANS; particularis vero SVB-ALTERNATA, a Logicis dici con suevit. * De qua adfectione duo notanda occurrunt: 1. Veritatem subalternantis veritas quoque subalternatae consequi tur, non contra **. 2: Falsitas propo sitionis ' subalternatae falsitatem etiam subalternantis arguit, non autem con tra. E. g. Duarum propositionum:, Omnis homo est eruditionis capax; quidam, homo est eruz ditionis capax, illa subalternans, haec subal ternata dicitur. ** Sic quum ia superaddito exemplo verum sit, omnes homines doctrinae esse capaces, verum quoque erit, quosdam homines doctrinae capa ces esse. Ratio huius regulae est. Contrariae ambae verae esse non possunt (S. 78. ). Si ergo 'subalternans vera sit; eius contrará falsa erit. Quum autem huic contradıcat subalterna ta, et in contradictoriis necessario una sit, altera falsa (C. eod. *** ), liquet subal ternatan necessario verum esse debere; alias, enim in contradictione falsitas ex utraque par te daretur, quod est absurdu:n. Contra ea si verum est, quosdam hom nºs esse eruditos vera E 5 106 Logica Pars. I. cui quum non certe infertur omnes homines eruditos esse. *** Si namque subalternata est falsa, eius con tradictoria vera erit; sit contraria subalternans, haec non poterit non esse falsa, adeoque subalternae falsitatem necessario sequi. E.g.Falsum est, aliquem spiri tum esse mortalem: falsum qnoque erit, omnem spiritum esse mortalem. At şubalternantis fal sitas non ita subalternatae falsitatem includit. Quum enim in subalternante, utpote univer sali, subiectum in tota sua extensione suma tur ($. 68. ), poterit attributum aliquod extra subiecti naturam rationem sui habere sufficientem, adeoque aliquibus tantum spe ciebus, aut individuis conveniens propositio piem efficere particularem (f. eod. *** ). Fal sa in hoc casu' erit subalternáns, non vero subalternata. Hinc si falsuin est, omnes homi nes ésse doctos, non ita falsum erit, quosdam homines esse doctas. CONVERSIO est mutua extremorum salva enunciationis veritate, substitutio Ea fit tribus modis, scilicet 1. SIMPLICITER, quum eadem qualitas et quantitas manet; 2. per ACCIDENS, quin quan titas sola mutatur; 3. denique per CONTRA-POSITIONEM, quum salva pro, positionis quantitate, terminis additur ne galio, qua fit, ut enunciatio lex determi pata in infinitam abeat. Cap. V. De iud. et prop: 107 * Scholerum est ha ec doctrina a nobis recensi ta in gratiam eor um, qui huiusmodi loquite tiones scire cupiu nt; sed non caret sua uti litate; imo haud raro est necessaria, Sim plex igitur est conversio: Omnis spiritus est substantia cogitans: omnis substantia cogi tans est spiritus. E. g. Omnis doctus est homo, copyertitur per accidens hoc modo: ergo quidam homo est doctus. *** Sic: Quidam homo non est. pius, per con trapositionem convertitur: ergo quoddam non pium est homo. Sed quorsum haec? ais. Con fer, Dan. Richterum diss. de convcrs. propo • sition. Halae 1740 AEQUIPOLLENTES denique dicun tur enunciationes, quae verbis licet di versae, cumdem tamen sensum habent. * Duae ergo propositiones synonymicis termia nis expressionibusque prolatae aequipollentes sunt, nempe eumdem valorem habentes. Ego Omne animal vivit et sentio: nihil tam ani manti proprium est, quam vita et sensie. Quae de his postremis propositionum adfectionibus laboriosius a Scholasticis traduntur, tempus terendum potius, quam ad rationein excolendam sunt adcommodata. Nobis haec tantum notasse sufficiet. Schol. Quae de iudiciis, ac propositio nibus cupidae iuventuti observanda arbitra. mur, ea paucis exponenda supersunt. Qua propter tironi Philosopho sequentes tenea di sunt CANON ES, 1, Q Voniam iudicia sunt sapientiae, vel stultitiae fidelia indicia, par cius iudicato ne aliis sis ludibrio teque in errorem temere coniicias. 4 * Sensus namque communis a iudicandi peritia scientiam hominis metiri solet. Ea de re quum de alterius sapientia vel stultitia iudicium proferre volumus eum criterio pollentem pel carentem adpellamus. 2. De nuila re, nisi cuius adaequa tam, aut saltem distinctam habes ideam, iudicium proferto, tuum. Idearum enim confusio praeiudiciorum mater est fera cissima. * Quum enim rerum, de quibus iudicare volu mus, distinctatu vel adaequatam habemus ide am: tunc eas undequaque cognoscimus, re lationesque perpendimus; adeoque termino rum nexibus optime coguitis, recte iudiça þimus, Cap. V. De ind. et prop. 109 4. In vel tuo i quocumque iudicio vel alieno caussam et rationem atten te perspicito, cur tales ideae tali modo coniungantur vel scparentur, nec alio. * * Etenim infra abunde patebit, verae prope, sitionis criterium esse, si ratio sufficiens ad. sit, cur praedicatum subiecto tribuatur, vel ab eo removeatur. Tali ergo ratione perspem cta, non poterit iudicium non esse verum; ac proinde errandi metus procul aberit. 4. Praecipitantiam fugito: ideoque in iudicando tardus, in enunciando tardior esto, ne levitalis errorisve arguaris. Me mento Augustini praeclarum illud: ver IA BIS AD LIMAM, SEMEL AD LINGUAM, Ne cit enim, monente Horatio, vox missa Leverti. Notum est responsum illud nescio cui num quam loquuto, ac pro sapiente seinper habi. to, datum, postquam semel toqui voluit: Si tacuisses, Philosophus mansisses. 51. De moribus, et viia hominum num uam iudicato. Nemo enim alterius in er est a Deo constituius: > Hinc sapientissimum illud Servatoris nostri 110 Logica Pars. I. monitom gauctiope muniiuin habemus Matth. VII. 1. Nolite iudicare, ut non iudicemini. Qua vero ratione praeceptum istud homini bus inculeatum sit, ostendemus in Iure Naturae. Quoniam duarum idearum convenien tia, aut discrepantia non semper unica intuitu aguosci potest, adeoque dan tur veritates demonstrabites(s 71. ); de monstratio autem ratiociniorum serie absol vitur: ordinis ratio postulat, ut de ratiocinatione verba faciamus. Est vero RATIOCINATIO, sive RATIOCINIVM, actio mentis, qua ex duobus iudiciis no tionein communem habentibus tertium eli citur; vel practice est duarum idearum cum teriia comparatio', earumque rela tionis. deductio. Ratiocinium porro verbis expressa dicitur SYLLOGISMVS. * Quando igitur mens de veritate iudicii alicu ius nouduin certa, eius extrema, sive ideas confert cum idea aliqua tertia, et ab earum convenientia vel discrepantia, tertium elicit Cap. IV. De rat. et Syll. III iudicinm: tunc ratiocinatur, hoc est rationes conficit, ut veritatem inveniat. E. g. Ut sciat, an aer sit gravis comparat ideam aeris, et ideam gravis; cum tertia idea corporis, ob servatque, num inter eas adsit convenientia: qua comperta, duas illas ideas inter se quo que convenire concludit hoc modo: Omne corpus est grave: Aer est corpus; Ergo aer est gravis. En ratiocivium. Quod si verbis exprimatur, erit syllogismus. 83. Experientia teste scimus, duas ide as cum tertia triplici modo comparari pos se: vel enim cum illa conveniunt, vel u na convenit, altera discrepat, vel ambae ab ea discrepant. In primo casu elicitur ter tium iudicium aiens, in secundo negans, in tertio vero nihil exsurgit. Totum ergo ratiocinii pondus duobus his axiomatis con tinetur: nempe 1. Quae conveniunt cum aliquo tertio ea conveniunt inter se: 2. Quorum unum tertio cuidam convenit, alterum autem ab eo discrepat, illa in ter se quoque discrepant * Primum axioma est ratio sufficiens syllogismi aientis ut videre, est in exemplo supra al lato; alterum negantis: e g. Qui Deo servit non servit Mammonae: sed Christianus Deo. 1. servit: ergo Christianus non servit Mamm onae. Vides hic duaru n idearum Christiani et Mam monae servientis., alteram convenire cnm ter tia Deo serviendi, alteram vero ab ea di screpare: unde infertur a se invicem discrepare. 84. Ex quibus rebus clare consequitur 1. in omni ratiocinatione tres tantummodo ideas esse debere, adeoque 2. in omni syllogismo tres tantuin terminus; * unde 3. si plures ad sint tirinini; guain tres, syllogisuum es se falsum. ** Quumque tres ideae totidem combinationes adinittant (per exper. ): sequitur 4: ratiocinium tria quoque iudicia continere; ac proinde 5. syllogismum tres, nec plures, enunciationes admittere) Advertendum hic, tam terminos, quani pro positiones syllogismums, componentes y pecu liaribus a Logicis ' donata fuisse nominibus. Et ut a teruninis incipiamus, praedicatum tertiae propositionis,, quae principalis dici potest, MATOR adpellatur, subiectum eiusdeni, MINOR; {erminus vero, qui tertiam ideanı ex. primit, quique rationem continet suffizientem couvenientiae, vel repugnantiae termini ma ioris cum minore, MEDIUS voćatur. E pro, Cap. V. De iud. et prop. 113 > positionibus etiam illa, in qua medius cum maiore confertur, MAIOR, vel PROPOSITIO simpliciter; illa, in qua medius cum minore comparatur, MINOR vel ASSUMPTIO; ambae vero PRAEMISSAE dicuntur, propositio denique, quam principalem supra, adpellavimus CONCLUSIO COMPLE xto, a Scholasticis CONSEQUENTIA nos minantur. Sic in primo exemplo gravis est terminus maior, aer minor, cor pus est terminus medius, adeoque prima pro positio est maior, altera minor, tertia con clusio. * Solet enim quandoque quartus irreperę ter. minus, et syllogismum corrumpere, idque raro patenter; nam saepius in termino aliquo, vel compositione latet. Fieri hoc potest 1. per aequivocationem, ut fi terminuin aliquiem yagnum adhibeas in sensu diverso: eg: Vilpes habet qualuorpedes, Herodes est vulpes; er go Herodes habet quatuor pedes. In quo ob servas vocem vulpes prino proprie; secundo vero metaphorice suintam; 3. per supposi tionis mutationem, ut si idem terminus ma terialiter in una, formaliter in premissarum altera sumatır. E. g. Iinne ens est generis neutrius: femina est ens, ergo fernina est ge neris ncutrius, in quo nocens in miori gran. matice; in minori philosophice anceptum est; 3. per confusionem termini abstracti cum con creto. E.g. Omnis prudentia est habitus bo nus: Titius est prudens: ergo Titius est ha bitus bonus. Tres ergo enuuciationes syllogismi materia dici possunt: forma namque legibus absolvi tur, quas infra 'exibebimus. 85. Quamvis vero ratiocinium tam fa cilis exequutionis primo intuitu videatur: difficilis tamen admodum est termini me dii, qui communis idearum mensura est inventio. Sed ut omois difficultas evanescat, experientiam philosophiae matrem consule re decet. Ea enim duce discimus, mentem postrani in ratiocinando duplieem ingredi viam: vel enim notionum alteram ad pro prium genus, vel speciem revocat, et quid quid his convenit, illi quoque tribuit, vel definitionis characteres evolvit, eosque al. teri convenire observans definic tum quoque coniungit. Duplex ergo est medium inveniendi methodus: altera sub iectum ad genus, vel speciem, sub qua continetur, reducendi, eique tribuendi, vel adimendi quidquid ideae genericae con vepit, vel ab ea discrepat; altera attributi definitionem cum subiecto comparandi, et ab eorum convenientia vel discrepantia, praedicati quoque cum subiecto coniunctio nem eruendi. cum ea Cap. IV. De rat. et Syll. Exemplo sit sillogismiis supra adductus. Scire cupis, aer sit gravis? Reduc subiectum sub genere corporis, et vide, utrum huic conveniat gravitas, eam de aere quoque enunciabis, ita ratiocinando. Quodlibet corpus est grave, aer est corpus: ergo aer est gravis. Haec erit prima medium inveniendi methodus. Rursum gravitatis defi nitionem evolve, eiusque characteres, nem pe corporum inferiorum pressionem confer cum aere. Quumque ei conveniant, attribu tum cum subiecto coniunges hoc modo: Quidquid corpora inferiora premit, est grave: Aer premit corpora inferiora: Ergo aer est gravis Habes hic alteram medium inveniendi me thodum. Eodemque modo in aliis ratiociniis investigando procedes: quod si adcurate ser ves, numquam tua te fallet ratiocinatio. 86. Ex hoc principio fluunt sequentes regulae ratiocinii fundamentales. I. Quid quid convenit generi vel speciei, conve nit etiam omnibus speciebus, et indivi duis eorum ambitu conteniis. 2. Quid quid repugnat vel generi specici, repugn it omnibus quoque speciebus, et individuis sub iisdem contentis. * 3. Cui convenit  definitio, convenit pariter definitum: ac proinde 4. a quo discrepat definitto, di screpat etiam definitum. * Vides ergo ideam mediam semel universaliter sumi debere, quia ideam universalem, ge. mus nempe vel speciem, exhibet. Quod si bis particulariter sumeretur, ratiocininm vi tio laboraret, ut infra dicetur. Quumque praedicatum tam latc pateat, quam subiectum cui tribuitur, ut cuique manifestum est: li quet, propositionem, in qua medius vicem praedicati sustinet, particularem esse. Debet ergo medius terminis universaliter sumi in ea propositione, cuius subiectum constituit Et quoniam propositio, in qua subiectum in tota sua extensione sumitur, est universalis: liquido infertur, saltem unam praemissaram esse debere universalem. Variae syllogismorum figurae Scho lasticis fuere in deliciis, quas barbaris ali quot vocabulis, versibusque distinguere consueverunt. Nos, missis futilibus tracla tionibus, regulas quasdam Tironibus ma xime inservituras, quibus syllogismi leges breviter exponuntur, hic subiiciinus, quas. sequcntes exhibent. Cap. IV. De rat. et Syll. 119 CANONES. In syllogismo non plures termini sunto, quamtres. Si quartus irrepserit, vitiosusiesto. Est lex eo magis observanda, quo omnia sophismata, si bene perpendantur, contra illam peccare observamus. Ecquid enim sunt fallaciae tanto labore a Scholis evolutae, an liquitatis, amphboliae, dictionis composi tionis, divisionis, caussae, dicti simpliciter, con e juentis, accidentis, cetera, nisi syllogi smi e quatuor terminis conflati, in quibus quarins cryptice latet? Veritas hace altcate consideranti baud aegre patescet. Vide quae de quatuor terminis diximus g. Medius terminus numquam conclu sionem ingreditor. Monstruosuin enim es set, caussam in effectus constitutionem immisceri.: * → Intellectus enim in ratiocinando vice Mathe matici fungitur. Quia vero Mathematicus dua rum magnitudinuin aeqnalitatem ex cniusdam tertii adplicatione cognoscit, nec, nisi in comparatione, mensuram adhibet: ita et in tellectus in ratiocinando ex duobus indiciis 118 Logica Pars. I. * tertium ervit, in quod medium comparatio nis ingredi, valde foret absurdum. Vitiosum ergo esset ita raziocinati: Omnis bonus Phi losophus est homo: Titius est bonus Philo sophur: ergo Titius est bonus homo. Medius Damque terminus ex parte in conclusionem irrepsit. 4. Non esto plus minusve in conclu sione, ac fuit in praemissis, ne quatuor inde éxoriantur termini. Si nanque praemissae sunt veluti comparatio nes duarum magnitudinum cụm tertio eisdem adplicato, scilicet mersura: iudicium ex comparatione ipsa procedens, perfecte com parationibus ipsis convenire debet. Quando vero in conclusione plus minusve continetur, quam in praemissis, idem esset, ac si dice res productum maius vel minus esse altero, quod ex iisdem factoribus est ortum Plus cotineret conclusio, si ita diceres: Qui alium l'aesit, puniendus est: Cajus alterum laesit: Cajus ergo morte puniendus est. Minus con tra, si sic ratiocinaris: Qui furium commi sit, restitutioni et poenac subiacet: Titius fur tum commisit: tius restitutioni subiacet. 4. Ex puris particularibus, vel ne gantibus (praemissis ) nihil sequi, ius estc. Cap. V. De rat. et Syll. 119 * Diximus enim f. 86. *, praemissarum unam saltem esse debere universalem: unde si am hae essent particulares, impingeretur in regulam 1.1. S. cit.; si vero ambae negantes, tunc duarum idearum neutra cum tertia conveniret, adeoque nihil sequeretur per S. 83. Falsum ergo esset dicere: Quidam bo mines suni doeti: quidam homines sunt in docti: ergo quidam docti sunt indocti. Item Nullus impius salvatur: nullus impius est pius: ergo nullns pius salvatur. 5. Conclusio partem sequatur debilio rem, probe curato, ne in superiora pecces. * Pars debilior est propositio particularis, vel negativa. Si ergo una praemissarum fuerit particularis, conclusio quoque particnlaris, conclusio quoque particularis esse debet, alias plus esset in conclusione, quam in praemissis; quod est contra regulam 3.: si vero una praemissarum fuerit negans con clusio adfirmans contra regulam 2. In hoc eniin casu extremorum conclusionis unum cum medio convenit, alterum ab eo discre pat; adeoque ea inter se quoque discrepare concludendum est; quare conclusio negans esse dcbet. Quae de diversis syllogismorum figuris regulae vulgo traduntur, eae ad rem non faciunt; ac proinde a nobis tuto prae terinittuntur, 120 Logita Pars. I. CAPVT SEPTIMVM. De aliis ratiocinandi modis. 38. Sunt et aliae ratiocinandi formae, quae licet a syllogismo diversae adpareant syllogismum tamen continent vel 1. CRYPTICVM, vel 2., COMPOSITVM, vel 3. MVLTIPLICEM. De his obiter praesenti ca pite agemus. SYLLOGISMUS CRYPTICVS est, in quo forma ordinaria (*. 71 * ) quo modolibet périurbatur, aut occultatur. CRYPSIS ergo inducitur i. per ordinis perturbationem, *. 2. per propositionum aequipollentiam per propositionis alicuius omissionem, quo casu dicitur ENTHYMEMA, 4. denum per contractionem. * Ordo perturbatur, ai quando propositiones transponuntnr: ut si prino conclusionen vel minorem, de nde maiorein vel conclusio riem ponas. E. g. Quum ira sit adfectus minor ), debei omnino compesci (conclusio); omnis namque adfectus est compesccn dus (maior ). ܪ Cap. VII. De aliis rat. " modis. 121 ** E: 8. Adfectus est attentionem turbare. Quum ergo ira sit molus vehementior appe tus sensitivi ': infertur, in iracundo attcntio nem mirifice perturbari. *** ENTHYMEMA igitur est syllogismus dua bus constans propositionibus, quarum prima ANTECEDENS altera dicitur CONSEQUENS. In hac argumentandi forma praemise sarum aliqua reticetur, speciatim vero illa, quae cuique patet, ut: omnis adfectus tur bat attentionem: ergo ira turbat attentionem. Minor deest, utpote quae ab audiente sup pleri potest. Eodem modo et maior retice ri, minor contra exprimi solet: e. g. ir & est adfectus: ergo estcompescenda. SYLLOGISMUS CONTRACTUS dicitur in quo solus maior cum medio termino pro punijatur, relicto iniuore cum omni combi patione. Talis est Cartesii syllogismus. Cogi 10, ergo sum: ubi eogito est medius, est terminus maior; adeoque minor, scilicet ego, cum tota propositionum connexione reticetur: integrum enim ratiocinium lioc,mo do exponendum erat: Quid juid cogitat,exsistit ego cogiio: ego igitur exsisto. SYLLOGISMVS COMPOSITVS est, in quo adest aliqua' propositio composiía, estoque vel HYPOTHETICVS; * vel CO PULATIVUS, ** vel DISIVNCTIVVS, vel tandem ex hoc primoque coalescens, qui proprio nomine vocatur DILEMMA. Tom. I. F. Sun: Hypotheticus, sive conditionalis est, eut ius maior est propositio hypothetica: é g. Si homo est rationalis, sequi tnr, ut sit libertatis capax: atqui est ratio nalis; ergo est capax liberatis De hoc te nenda regula: Adfirmata conditione, adfir matur conditionatum; et negato conditionato, negatur conditio. Quum enim in hypothesi contineatur ratio sufficiens veritxtis proposi tionis, adfirmata caussá adfirmatur effectus contra vero negato effectu, eius quoque caus sa negari debet.. ** Copulativus, sive coniunctus est, qui malo. iorem habet duas simul propositiones coniun gentem, et negantein, quarum unam minor adfirmat, alteram conclusio negat. E. g. Non potest anima sinni aeternum vivere, et cum corpore perire, atqni aelernum vivit: ergo non perit cum corpore. ** Disiunctivas est cuius propositio maior est dis iunctiva. E. &. Aut anima cst ens ' simple: aut compositum: sed non est cns compositum, ergo est simplex. Notanda crgo regula: Ad firmato uno disi!ınctionis membro, reliqua negantur; ct negatis rcliyuis, unuin ad fir tur. Confer tamen quae de disiunctivis pro positionibus diximus. Si ergo in maiori propositio bypothetica cum disiunctiva copuletur, DILEMMA con surgit quod argumentatio bicornis vel crocodilina vocari solet. Id vero definitur: Syllogismus hypotheticus, cuius mai oris ' al 7 Cap. VII. De aliis rat. mo dis. Tera pars est disiunctiva, quae in minore negatur, et in conclusione totum destruitur. E. g. Si ens simplex naturaliter cx alio en te oritur tunc aut ex alio simplici, aut e composito oriri debet: sed neque ex alio ente simplici, neque c composito oriri potest: ergo naturaliter ex alio ente non potest orlum du cere. Mirificum est Dilemma AVGVSTINI Tract. 1. in Joann, quo Arianorum errorem circa Verbi aeternitatem egregie confutarit Huc referenda quae diximus de divisione MVLTIPLICEM SYLLOGISMVM, licet imperfecte exhibent 1. EPICHERE MA, in quo alterutri, vel utrique prae missarum probatio additur; * 2 PROSYLLOGISMVS, in quo ' prioris syllogismi conclusio posterioris eidem iuncti maiorem constituit POLYSYLLOGISMUS, qui plurium syllogismorum connexionem contínet, e SORITES, qui plures ita connectit propositiones, ut prioris aliribu tudi si ! posterioris subicctum. EPICHEREMA ergo rsl syllogisms. cuius praemissis compendii caussa ralio Quirlitur Exemplum habes iu Cic. pro Sex Rusc. MAI. Vt quis parricidii sit suspectus, is sce lestissimus ét audacissimus sit, oporlei. RATIO est enim crimen horrendum. NIIN. Sex Roscius non est talis PROB. Non est audax, non luxuriosus mon avarus. 124 Loigica Pars. I. CONCL. Non ergo est parricidii suspectus. ** In PROSELLOGISMO itaque duo adsunt syllogismi coniuncti, quorum posterior ma iorem habet in prioris conclusione contentam: quapropter eius minor SVBSVNTA vocatur MAI. Omnis spiritus est ens simplex, MIN. Anima humana est spiritus: CONCL. Ergo anima humana estens simplex. MIN. SVBSVMTA. Atqui ens simplex est indestructibile. CONCL. Ergo anima humana est indestructibilis. Si prosyllogismus uiterius procedat, aliae que minores subsumtae et conclusiones snb inugantnr, dicetur polysyllogismus, hoc est plurium syllogismorum connexio legitime fa cta. Exemplum habebis infra Part. II. Cap.3. Sect. 2. ubi demonstrationis specimen dabimus. SORITES a Cicerone de Divin. Lib II. cap. 4. acervalis dictus, est plurium propos sitionum cumulus ita connexarum, ut unius praedicatum sit alterius subiectum, adeoque tot syllogismos continet, quot sunt propo sitiones, demptis duabus, eodem fere modo, quo polygonum aa Geometris per diagonales in tot triangula resolvi potest, quot sunt la tera demtis duobus. Haec autem argumenta tio nisi cautiones quedam adhibeantur ad fallendum aptior est. Cautiones istae funt. 1. Nulla praemissarum diibia sit, aut falsa: > 1 Cap. VII. De aliis rał. modis. 123 coram. ex falso enim antecedente non potest verum consequens oriri.2. Non insint in Sorite duae propositiones negantcs. Hoc enim casu in eius resolutione aderit syllogismus ambas praemis sarum negantes habens, quem vitio laborare supra observavimus (F. 87. can. 4. ). En Soritis exemplum. Quodlibet corpus est ali quo loco: quod est in uno loco, potest etiam esse in alio: quod potest esse in alio loco, potest rnutare locum: quod potest mutare lo cum, est mobile: ergo quodlibet corpus est mobile. Eius vero analysis rationem reddemus 92. Syllogismo, eiusque speciebus. e diametro opponitur INDVCTIO, quse vere ac proprie dici potest argumentatio a posteriori, quippe quae a singularibus ad particularia, alquc ab bis ad universa lia procedit. Haec autem syllogismo prior est: nam quum ope experientiae praemis sas conficiat, indeque conclusiones eliciat universales, hac vero syllogismi praemissas constituant, utpote qui ab universalibus ad particularia, vel ab his ad singularia gra dum facit: hunc sine illa construi non posse, quisque videt, INDVCTIO itaque est argumentatio, in qua quiquid de singulis speciebus vel individuis speciation praedicatur, generatim quoque de toto genere vel speeie enunciatur; adeoque in ea tot minores adsunt, quot species vel in F 3 dividua exprimuntnr. E. g. aurum, argentuan orichalcum, cuprum, stannum, plumbun, ferrum, igni inieclun liquefiunt: ergo omne metallum igni ni ectum liquefit. Ad inductio nem ergo duo requiruntur, 1. plena partium enumeratio, 2. ut quod inferioribus tribuitur, ile superiori pariter enuncietur. Si ergo par tes omnes enuncientur, inductio dicelur com pleta, sin aliquae tantum, incompleta erit: si denique una dumtaxat fars proponatur, EXEMPLUM adpellabitur, quod tamen ad oratores non ad Philosophos pertinet, quum sit contra 34. S. n. 6. ** Ex iis enim, quae diximus Cap. 1., liquet, ideas universales abstractionis ope a singulari bus erui. Eodem modo Par. 11. Cap. 4. Sect. I. ostendemus, indicia universalia a sin gularibus abstrahendo confici. Id vero est, quod Inductionem constituit. Quum autein praemissarum syllogismi saltem una debeat es se universalis, patet, In ductionem syllogismo principia praestruere: adeoque illo priorem esse. Schol. De hụius doctrinae usu tandem pauca delibare juvabit. Quae de universa hac tractatione homini philosopho servanda sunt, qui sequuntur, exponunt. Cap. VII. De aliis rat, modis.127 CANONES, QVandaquidem ratiocinando veritas + vi. innotescit, principia prius con siderato num solida sint et indubia. Propositiones deinde ad trutinam revo cato, ac denique eurum connexionem adcurate perpendilo, ne in quolibet r'a riocinandi modo fallaris: “. Quum enim syllogismus materia et forma con siet: illan vero propositiones, hanc propo sitionum connexio, lioc est syllogismi "leges constituant; cuiuslibet autem rei bonitas materiae soliditate ac formae aptitudine absolvatur: patet; Philosophum de utraque sollicitum esse debere, ut ratioci. nia sua tulo proferre possit. 2. Quoniam omnis argumentatio ad unum redit syllogismum, id agito, ut huius leges nocturna diurnaque manu verses: alioquin loqui scies, non ratio cinari. Exploratum namque est, quamcumque ar gumentationem syllogismuni esse vel crypti cum ", vel compositum, vel multiplicem: nisi ergo syllogismi probe gnaa rus, nulliusmodi argumenta poterit quisque proferre. Qua de remiramur, viros alioquin F4 doctissimos, et de Philosophia optime atque abunde meritos, syllogismo fuisse adeo in fensos, ut eum inutilem, immo nullins bo ni effectorem esse clamitarint. Infra vero ab unde patebit, scientificam methodum sola syllogismorum concatenatione absolvi: unde evidenter proseguisque deducet, syllogismum homini philosopho esse omnino necessarium Videatur Wolffius in Log. Germ. S. III. seq., ubi mathematicas demonstrationes absque illo fieri non posse, experiundo ostendit 3. Si cum alio res tibi fuerit, omnia eius argumenta in syllogismos resolvito: tunc enim clare perspicies, cunctane re. cte procedant, an aliquis lateat error, an sub ambagibus fallacia occultetur. Varii namque sunt fallcndi inodi a Scholasti cis magno labore evoluti, qui tamen si ad sillogismum eiusque leges, tamquam ail ly, dium lapidem, exigantur, oppido evanescent, Ut hoc exempli loco addamus, si soriten duas propositiones negantes habentem in syl logismos resolvas: 'nonne statim patescet do lus, quum tres negantes propositiones in ra tiocinio, adeoqoe contra quartam eiusdem " legem peccatum esse, observabis. Praeclaro igitur hoc duce uti nolle idem esset, ac in. ventis frugibus, glandibus vesci. Hucusque usque satis satis.dede mentis mentis ope ope rationibus actum. Quum autem Logicae sit non contentiones nequicquam fovere, sed hominum vitae consulere, atque intel lectum in veritatis investigatione dirigere: doceamus, oportet, qua ratio ne tribus hisce mentis operationibus in cognoscendo diiudicandoque vero recte uti debeamus. Quod ut commodius effici pos sit, pauca quaedam de veritate generatim spectata, eiusque genuina tessera, hic prae mittemus, VERITAS est, vel METAPHYSICA, quum ens aliquod actu exsistens suam habet essentiam; vel ETHICA quando quilibet sermo interno sensųi, F 5 130 Logica Pars. II. scilicet conscientiae, respondet; ** vel denique LOGICA, si cogitationes nostrae obiectis suis sint conformes. Quia vero hic cum Metaphysica atque Ethicą nihil no bis est negotii, de veritate logica verba tantummodo faciemus. Metaphysice ergo verum dicitur quidquid om nibus gaudet proprietatibus, quae ad con stituendam eius essentiam sunt necessariae: adeoque huic falsum opponi nequit, qoia es: sentia entis est necessaria et immutabilis ut in Metaphysica fusius docebimus, ac proin de nequit ens exsistere, et sua simul essen. tia carere. Ita aurum est verum aurum, qu pin omnia auri adsunt requisita. At non_da tur, inquies, falsum aurum? Minime. Tunc enim non aurum, sed cuprum, orichalcum, aliudve, aut e pluribus metallis revera mi xtum erit. Illud autem verum aurum iudica. re, est nubem po lunone amplecti, atque a veritate Logica aberrare. ** Verę loqui dicimur, quum secundum cong scientiam loquimur, idest dicimus quae trinsechs sentimus. Atque ḥaec veritas dicitur moralis sive ethica, cui opponitur falsilo suium, quod est sermo contra concientiam prolatus, de in Moralibus agemus. quo 93. VERITATIS LOGICAE vocabulo itelligimus convenientiam cogitationum no strarum cum rebus ipsis, Quumquç no. De ver. eiusq. crit. 131 stra congitandi facultas tribus tantum mo dis sese exserat, vel in ideis forinandis vel in iudiciis eruendis vel denique in rationibus conficiendis (S. 15. ): liquet, logicam veritatem vel in ideis, vel in iu diciis, vel in ratiocinatione reperiri. * Hac definitione veritatem abstracto modo con sideramus: concreto namque definiri posset per cogitationem obiecto suo consentaneam. Porro veritasa Logicis dispescitur in FORMALEM, et OBIECTIVAM. Illa est, cuius obiea ctum extra nos vel non existit vel non tale ut a mente nostra concipitur: quales sunt veritates omnes purae geometricae; haec ve ro, cuius obiectum extra nos realiter exsistit. Ham alii INTERNAM hanc EXTERNAM adpellare consueverunt. Illa est clara, distin cta, et indeficiens, quippe qua mens de se suisque operationibus iudicat, haec vero ob scura, dubia, et fallibilis: non enim per eam, scire possumus, utrum cogitatioues nostrae obiectis suis extra nos positis conveniant necne? adeoque quum veritatem habemus in ternam, de reali extra nos obiecti exsistentia iudicare non possumus; quum contra veritatis externae compotes certi simus obiectum in cogitatione exsistens extra eamdem etiam rea liter existere. 96 IDEA VERA dicitur, si quando nca bis rem, uti in seu est, repraesentemus: *verum est lyDICIVM, siconiungenda co 2 F 6 132 pulemus, separanda seinngamus; 've rum itidem RATIOCINIVŇ, si ' neque in materia, neque in forma peccaverit, * Idea ergo singularis ($. 28. ) vera est, si quando eius obiectum extra nos realiter exsi stat, eoque modo, quo nobis illud reprae sentamus: vera pariter dici debet idea uni versalis, dum compositio vel abstractio a re rum natura non recedit, ita ut characteres illam comitantes simul in uno inveniri pos sint. Vides hinc, ideas deceptrices, chimae ricas, aliasque obiectis suis nullo modo re spondentes dici non posse veras. Advertas - tamen, absolutam obiecti deficientiam, vel ideae ab eo discrepantiam veritati nocere. Si namque obiectum non sit evidens, nec ideae characteres eum eo conferre queamus; con tra vero sufficientibus indiciis de eius verita te certi simus: notionem illam deceptricem vel terminum eam exprimentem inanem ad pellare, est contra Logicae regulas, ac pri ma cognitionis humanae principia tnrpissime peccare. In hunc errorem incidunt quicum que de mysteriis Sanctae Religionis sermonem instituentes, aliquam credentibus notam inu rere conantur, quod vocabula mente cassa proferant e id quod alibi diffuse enodabimus. ** Nimirum si de re quapiam aliquid adfirme mus vel negernus, quod adfirmari aut negari oporteret: veluti quum soli spendorem iri, buimus vel tenebras ab removemus? tunc judícia nostra veritate gaudebunt, f 2 2 eo 2 Cap. I. De ver. eiusq. crit. 133 *** Ratiocinationis, sive syllogismi materiam es se tres illas propositiones, e quibus confla tur; formam vero leges. (S. 87. ) expositas, supra docuimus (6- 84.** ). Si ergo pro positiones fuerint verae: leges autem adcuras te servatae, ratiocinium non poterit non es se verum: quia, quum qualis est caussa, ta lis esse debeat effectus, non potest ex veris praemissis falsa legitime fluere conclusic. Ex quo liquido colligi potest, eum, qui prae missas concessit, non posse negare conclusio nem ex iis legitimo nexu fluentem. Cave tas men, ne ex conclusione, licet evidenter ex praemissis deducta, de hárum veritate audeas áudicare: potest enim conclusio vera legitime ex falsis ambabus oriri praemissis. Talis es, set sequens syllogismus: Omnis virtus est fugienda: Avaritią est virtus; Ergo avaritia est fugienda, Vides hic veram conclusionem legitime ex fal sis praemissis deductam. Possesne conclusionis veritate praemissarum quoque veritatem ar 97. Quoniam iudicium verbis expres sumi propositio dicitur (§. 60. ): evi dens est. propositionem dici veram, quae adfirmanda adfirmat negandaque ne gat, servata ubique quantitate. * Sed quia non omnium cnunciationum veritas, nec ab omnibus distincte perspicitur: criterium aliquod inveniatur, oportet, ad quod guere? 134 Logica Pars. I1. tamquam ad lydium lapidem, propositio nem quamcuinque exigentes, eius verita tem dignoscere queamus. ** • Veluti quum particulariter enunciatur de su biecto quidquid extra illius naturam; vel uni versaliter quidquid in eius essentia rationem habet sufficientem. Vid. supra Part. I. Cap. 5. Sect. 1.. 68. ** Hoc autem criterium exsistere debet quo propositiones veras a falsis, a phanta smatis, realitates ab insomniis discernere pos simus: alias enim homo in perpetua illusia ne versaretur, id quod est Divinae sapientiae, homini, ipsiqne humanae menti iniurium. Quia de te Philosophi omnes in eo consenserunt, li cet in adsignanda illa tessera in contrarias partes opinando ierint, res 98. CRITERIVM VERITATIS est ra tio quaedam sufficiens, per quam intel. ligitur cur praedicatum subiecto tribua tur, vel ab eo removeatur. * Nimirum ut cogitationum nostrarum cum obiectis suis conformitatem perspicere possimus in 93. ), eiusmodi characteres in promtu haberi de bent, quibus attributi cuin subiecto con venientia vel discrepantia ita determinetur, nt mens adquiescat, nec ullus de earum veritate supersit dubitanli locus. Qua propter characteres illi REQVISITA ad peritatein recte dicuntur, *** Cap. I. De ver. eiusq. crit. 135 Variae de veritatis criteriis omni aetate fuere Philosophorum opiniones, exceptis Academi cis, üsqne, qui Scepticismum ad furorem usque provehere ausi, atque a Pyrrkone Pyr. rhonistarum nomine insigniti, nihil a nobis vere sciri posse, temerario ausu adfirmarunt, quorum insania comploranda potius esset, quam confutanda. PLATO yeri tesseram es se statuit, evidentiam intelligibilem aeterna rum idearum mentibus participatarum; EPI CURUS fidem sensuum. ARISTOTELES medium inter hos iter tenens, utramque evi dentiam veri criterium posuit: illam nempe in intelligibilibus; hanc in iis, quae sensi bus percipiuntur. STOICI, secundum Laer, tium, veri indicinm aibeant comprehensibilcm phantasiam hoc est, evidentiam &maginationum; CARTESIUS cum recentioribus, elaram, et distin ctam perceptionem: in Medit. 4.; MALEBRANCHIUS cam evidentiam, quam inter na animi coactio sequitur, ut ei adsensum denegare nequeamus. Lib.I.de inquir. verit. LEIDNIȚIUS in triplici evia dentia, intellectus, sensus et auctoritatis criterium illud posuit. Quae vero de his ob servari merentur, in ipsis praelectionibus ex ponemus. In hac ergo propositione: Aer est gravis, qualitas attributi, hoc est gravitas, per no tionem aeris determinatur: in hac enim inest ratio sufficiens cur ipsi illam tribuatur. Quum enim aer corpora inferiora premat; idque > 136 Logica Pars. U. ad costituendam gravitatis notionem requira tur: clare patescit, aerem esse gravem, adeo que propositionem esse veram. Et hoc est, quod Wolffius, criterium verae proposi, tionis ésse determinabilitatem attributi per notionem subiecti. 7 *** E. In hac propositione: Caius est invia dus, requisita ad veritatem sunt invidiae cha racterés alibi enumerati, qni in Caio deprehenduntur, quique rationem con tinent sufficientem, cur Caio to invidum es se tribuatur, Quum igitur veritatis criterium in ratione sulficiente consistat, et a requisitorum collectione constituatur sequitur 1. ut inter veritatis crite ria adnumerari debeant quaecumqne iis de terminationibus praedita sunt, ut a mente, quamvis invita, adsensum extorquere pos sint. At quia experientia quotidiana docet, mentem nostram non convinci, nisi ' sen suun testimonio in rebus sensibilibus, * in tellectus evidentia in intelligibilibus, auctoritatis deuique pondere in iis, quae neque sensu, nec ratione percipi possunt: liquet 2. criteria illa pro rerum di. versitate tria statuenda #Y *** esse, intellectus sensuum et auctoritatis EVIDENTIAM. nempe, Cap.II. De ver. eiusq. crit. 137 * Per res sensibiles intelligimus non modo cor poreas quae sensibus exsternis, sed et ipsas animae actiones, quae sensu interno perci piuntur. Quum igitur:Naturae sa pientissimus Auctor hominem conscientia, sen suque cum omnibns organis instruxerit, ut: omnium cogitationum suarum obiecta distin gueret, eorumque conscius esset: non ab re vera esse pronuntiamus, quae internus eter nique sensus ita se habere testantur. ** Et quidem omnium axiomatum evidentia a primo cognitionis humanae principio, nempe non posee idem simul esse et non esse, ori ginem suam repetit; hoc vero principium in timo sensu cunctis innotescit. Quaecumque porro propositiones a veritatibns evidentibus legitimo nexu deducuntur eamdem evidentiam adquirunt, quam illae habebant, id quod ra tione duce ac demonstratioris ope conficitur quibus intellectus convincitur,et mens adquie scit: evidens ergo est, veritates tam demon strabiles, quam indemonstrabiles ad Logicae reguias cxactas revera exsistere, ab homini bus certo cognosci posse, earumque criterium in intellectus adquiescentia reponi debere nempe ut Malebranchius ait, iu ea 'eviden ' tia, qnae internam producit coactionem, at que a mente adsensum extorquet. Huiusmodi sunt propositiones humanum ca ptum superantes, nobisque ideo imperviae, quae quum ab Ente intelligentissimo tantum agnosci possint, revelatae tandem addiscun tur, fidemque mereatur: quum entis illius perfectiones sint infinitae, nec de illarum 2 I veritate addubitari sinant. Eiusdem commatis sunt facta, sive propositiones singulares, quae in locis temporibusve remotis extiterunt, qnae que nec. sensibus, nec ratione a nobis una quam erui possunt, quidquid contra dicat D. Rousseau Disc. sur l ' inegalité parmi les ho mm.; sed sensibus olim ab adstantibus coaevis que percepta, ab his vero vel scriptis vel per manus tiadita ad. nos pervenerunt: ct quia narrantium auctoritas suspecta non est, certitudinem, aut saltem probabilitatem in mente producunt. Vides hinc, sententiam nostram in intelli gibilibus rationem, in sensibilibus experien liam, in factis rebusve humanum captum ex superantibus auctoritatem commend.ve; adec que eamdem asse cuin Cartesiana, Malebran chiana, et Leibnitiana. Sed quia tessera haec certitudinem potius, mentis scilicet nostrae statum, quam rei veritatem respicit, de ea, quam producit, evidentia plura infra, ubi de veritate certa sermo erit, haud spernen da dicemus. Interim confereudus Io.And. Osiander Diss. de Crit. Verit. Tubingae 1748. FALSITAS veritati opposita est di screpantia cogitationum nostrarum ab obiectis. Quumque oppositorum contrariae sint adfectiones, patet, falsitatem vel in ideis, vel in judiciis, vel in ratiociniis reperi ii; * adeoque FALSITATIS CRITERIVM esse manifestum rationis illius sufficientis defectum. Cap. I. De ver. eiusq. Falsa ergo est idea, quum aliter se habet a re repraesentata; falsum iudicium aiens., si quando subiecto non conveniat attributum, negans vero quoties boc illi conveniat; adeo que falsa propositio, quae neganda adfirmat, adfirmandaque negat, vel quae universaliter enunciat quod particulariter enunciari debe. bat; falsum denique ratiocinium, quod in materia vel forma peccat: i illa, quando propositiones sunt falsae; in bac vero, quum syllogismi leges, violatae sunt. ** Propositionis falsae rera tessera est, si non modo desit ratio sufficiens, cur praeuicatum subiecto tribuatur, vel non; verum adsit rl tio, cur contrariuin enuncietur: tunc enim subiecti notio determinal qualitatem attribu ti oppositi. Porro in ratiociniorum forma fal sitas esse potest vel patens, vel latens. Si vitinn sit manifestum, dicuntur PARALOGISMI; si vero crypsi aliqua tegatur, vo cantur SOPHISMATA A Scholasticis am bo vocantur FALLACIAE. Paralogismus est sequens: Omne homicidium est vitandum, nullum furtum est homicidium ergo nullum furtum est vitandum. In co enim aperto peccalum est colra Can. 4.6. 87.: me dius enim terminus his particulariter sumtus est. Sophisma contra crii, si sie ratiocinabea ris: Populus ex terra crescit: mulliluilo ko. 140 Logica Pars. II. minum est populus: ergo multitudo hominum ex terra crescit: quatuor namque termini ir repsere per aequivocationem termini populus, qui in maiori arborem, in minori hominum multitudinem siguificat. ** Plurima de fallaciis ad nauseam usque a Scho laflicis tradita invenientur, qui tamen tot tan tisque tractationibus nullum fecerunt operae pretium. Quia vero in huiusmodi failaciis, fi ve dictionis, five (ut ipsi aiunt) extra di ctionem, vitium plerumque latet in quarto termino cryptice tecto: Auditorum nostro rum mentes non ultra fatigabimus: attamen, si sapient, syllogismi leges memoriae inscul pent, et ad terminorum numerum semper animum adverlut. Quibens relligiose servatis, aut nihil scimus, aut numquam, neque de cipi ratiocinando, nec alios deçipere pote runt. Schol. De huius tandem docirinae usu opus cst, ut aliqua addamus. Ea paucis iisquo baud spernendis comprehendemus regulis. Qui ergo Philosophi nomen adse qui cupit, hos probe teneat. Cap. 1. De ver. eiusq. crit. CANONE S. I Dea, quae characteres continet si * bi invicem repugnantes, deceptrix est: imaginaria vero, qua ob similitudinem quampiam nobis fingimus quod non est, ut quasi per imagniem oculis obiectum praesens sistamus. ** * Hae igitur ideae proprie loquendo non falsae, sed potius impossibiles dici possunt, quia nihil sumt: ut ' idea circuli quadrati, ligni ferrei, creaturae infinitue', ec. ** Vocantur istae a Wolffio vicariae realium, quia earum vices gerunt, ut si memoriam ti bi rapraesentes per receptaculum idearumi: licet enim nulla adsit analogia inter spiritum el corpus, atque adeo inter eorum proprie lates: ob similitudinem tamen, quod, sicut in receptaculo plura servamus, quae inde, quum opus fuerit, depromiinus, ila memoria plures ideas, quae tamdiu latuere nobis sug gerit, memória ipsam veluti receptaculum nobis sistinus 2. De eo, cuius clare et distincte ra tionem perspicis sufficientem, tuto adfir mato: negalo vero, quod eidem pari ratione refragari cognoscis. Si eam non adhuc nosti: licet pro incerto haberi 142 Logica Pars. II. ſas sit, ne temere iudicato, donec veri tatis eius, falsitatisve criterio polleas. Hoc quidem modo vitari poterit audax illa in iudicando praecipitaptia, quae incautos maxime adolescentes quamplurimis subjicit erroribus. Hi ramque sola suarum virium praesumtione freti iudicia sua nec rationc ful ciunt, nec ad criterium aliquod exigunt; quo fit, ut ea praecipitanter nimis prouentiare adsueti, ratione tandem destituantur, et quid quid in buccam venerit effutiant. 5. Si diu in veritate invenienda fru. stra taboraveris, examen reintegrato. Si ne id qutdem profuerit, ne rem pro falsa, aut impossibili venditato, nitam ridiculus sis, qui mentem tuam veri ful sigue mensurani esse existimes. * * Perutilem harc cautionem inculcat Genu eusis noster, quae dici non potest, quanto sit omuibus adiumento. Quum enim obscurilas plerumque sit relativa, eiusque caussa in - bo mirum n.entibus, raro in re percepta, sit quaerenda (S. 20. ): nullum est huiusmo di iudicium, quod non ex praecipitantia fluat. Qui enim ita se gerunt, ni mia de in tellectus sui viribus praesamtione laborant, idque agunt, perinde ac si supremum persprie caciae cognitionisge gradum obtineant, cui an tefcratur remo, pauci pares putentnr. In hanc rigrilam offendunt quicumque mundi creatio Cap. II De ign. et er. cor. caus. 143 nem iu tempore, aliasve doctrinas, quas intellectu adsequi nequeunt, proimpossibi libus venditant, ut fusius in Metaphysica docebimns. Id vero quam ridiculum sit, nemo non videt. De ignorantia et errore, eorumque caussis. A Ctio mentis, qua verum (S. 94. ) agnoscit, resque sibi re praesentat ac percipit, COGNITIO adpellatur. Eius vero absentia dicitur IGNORANTIA, quae definiri pot est per statum mentis cognitione desti tulae. * Sic e g. qui disciplinae alicuius veritates ac praecepta novit, eaque mente tenet, illius cognitione gaudet: contra vero, si ea cogni lione sit 'destitutus, disciplinam illam igno rare diciiur. 103. Experientia quisque sna it aliena doceri potest, hominnm plerosque nihil aut minipium admodum in rebus cogno scere; plurima quoque nesciri ab iis, qui acriori se praeditos ingenio jactant: cos vero, qui doctissimorum virorum nomine gaudent, quo longius sua sese exserit co gnitio, eo plurima se ignorare comperient. 144 Logic. Pars II. * Ex innumerabili rerum, quae sciri possunt, puniero ingenii cuiuscumque vires superante, domesticaque experientia fluxit mos ille lau dabilis ad utilium rerum cognitionem ani mum adplicandi, neglectis iis, quae ad cu iusqne statum minime pertinentes, inter su ferflua et inuțilia referuntur. Recte namque observaverat Seneca necessaria a nobis igno rari, quia superflua discimus. Id ipsum er go argumento est, homines, postquam ad sublimiorem, ut aiunt, cognitionis apicem pervenerint, quamplurima adhuc habere, quorum nulla se gaudere cognitione animad vertant, illoruinqe esse admodum ignaros. 104. Ex quo patet 1. omnes homines in stalu verae ignorantiae versari, ac ne minem un quani reperiri posse, qui omui moda rerum cognitione praeditum se tuto adfirmet: quapropter oportere 2. ordine na in studiorum curriculo servari, ut primo necessaria * deinde ütilia, postremo iu cunda discantur; adeoque 3. eruditorum reprchensionem merito incurrere eos, qui neglecta hac methodo ad superfluarum re rum siudiuin animum adplicant, param curantes ea, quae ad interni extervique status suiperfectionem sunt necessaria. Necessaria dicuntur, quae Dei suique cogni tionem spectant, item quae facultatem quam quisque profitetur, postremo quae ad socie tatis commoda promovenda pertinent. Cap. II. De ign. et er. eor. cans. 1.45 ** Suo itaque officio deesset Medicus, si ne glecta medendi arte, eruditioni, hoc est quid quid extra Medicinae ambitum est, operam daret. Ignorantiam quoque suam magis pro moreret Legisperitus, si pro legum codici bus, medicos aliosve sibi inutiles libros evol veret. Alque utinam nostro hoc aevo Lit teratores isti extra aleam aberrantes defide, rarentur ! 105. Ad ignorantiae porro caussas de tegendas nobis lucem quam maximam ail fert experientia. Ea enim duce scimus igno rantain oriri a 1. DEFECTV IDEARVM, non solum in iis rebus, quae nostrum si perant captum, sed etiam in iis, quae iu jus limites von excedunt, 2. MENTIS IMBECILLITATE, sive impotentia co gnoscendi idearum nostrarum relationem, LABORIS IMPATIENTIA, qua fit, ut attentio minuatur, ideaeque fiant deterio res, STVDIORVM CONFVSIONE, MEMORIA vel nimia, vel labili, 6. denique SVBSIDIORVY INOPIA. (t ) Impotentia haec ab idearum mediarum defe ctu pendet: quo fit, ut communi illa defi ciente mensura, nec conferre inter se nolis nec propterea vertalem delegere quaemus. (ones T. 1.  ** Confusio studiorum habetur, vel quia fine attentione aut ordine fiunt, vel quia plurima eodem tempore cursimque discuntur: ex quo pluribus intentus minor est ad singula sen sus. Hinc nimia illa sciolorum turba, solis frontispiciis praefationibusque furfuroscrum, nostram invasit aetatem, ** Nimia namque memoriae praestantia laboris impatientiam, adeoque ignorantiam parit; illius vero infidelitas cognitionis defectum au get. Ecqua enim cognitio ei, qui unam al teramve propositionein memoria retinere non valet? (+ ) Subsidiorum nomine veniunt Magistri, si ve viventes illi sint, sive mortni, scilicet li bri. Ex horum enim defecte lici non po test, quot sublimia vilescant ingenia, quae vel mechanicis adeo artibus, aut otio et libidi ni se addicunt. Elegantissimum est Alciati em blema, quo ingenia ista iuveni euidam com parat, cuius sinistra manus duabus alis in Coclum tollitur, dextera vero ingenti pon dere impedita deorsum fertur. Cujus em blematis dilucidationem reddemus Dolendum autem magnopere est, quod si quando iuvenes isti litterario furfure vix in crustati Rempublicam invadunt, societatis perturbatores, bilingues, susurrones, ad pessima demum et turpissima quaeque, (si paucos excipias ) parati evadunt. 106. Haec de ignorantia. Quando au tem propositicni verre dissensim, falsae contra adsensum praebemus, tunc ERRA coram Cap. II De ign. et ei. cor. caus. 147 RE dicimur, sive judicia confundere. Qua propter ERROR definiri potest, quod sit confusio iudiciorun. Error autem in iu dicando commissus PRAEIVDICIVM * adpellatur, quod esse dicimus iudicium erroneum praecipitanter et sine maturi tale latum. Dicitur vero praeiudicium, vel quia sanae mentis praevenit iudicium, vel quia praema ture et fine criterio profertur. Talia sunt pleraque vulgi praeiudicia, veluti: discum solis diametrum habere circiter bipalmarein: cometas esse bellorum caussas: et alia eius modi. 107. Quum praejudicium sit iudicium erroneum; error vero confusio iudiciorun: evidens est s. praeiudicia na sci ex idearum ob curitate et confusione, adeoque 2. eorum originem ab intellectus corruptione unice esse petendam. Equidem sunt plerique, qui praeiudiciorum originem a voluntaté repetunt, eamque pri us emendandam esse aiunt; ii tamen io to aberrant coelo: voluntariam namque praeiudiciis adhaesionem vel negligen liam animum ab iis liberandi, pro praeiudia ciis venditant. Si vero rem probe per penderint videbunt, ea, quae voluntatis vitia asserunt, ab intellectus vitiis vel imagin natione pendere: et si qui méntem obun brant ad feclus, appetitus quippe sensitiyi * * 7 G 2 148 Logica Pars. It. ** vehementiores molus, non aliunde, quam ah ideis obscuris et confusis ortum trahunt. Qua de re legatur Syrbius in Phil. rat p: 5. 108. Duo intérim sunt praeiudiciorum genera, AVCTORITATIS scilicet, et NIMIAE CONFIDENTIAE. * Illa sunt, quae nostris viribus parum confisi, nimi aque oscitantia laborantes ab aliorum, quorum apud nos plurimum valet ancio ritas, scriptis vel sententiis kausta adopta mus, eaque pro sanctis habenda puta mus; hec vero, quae nostris viribus niinium fidentes, quamquam praecipitan ter et sine meditatione prolata., tainquam vera lamen adsumunus illis firmiter achae remus, et proeiis, veluti pro aris et fo. cis, pugnamus. * Addunt alii praeiudicia AETATIS. At quum illa non sint, nisi opiniones praeconceptae a nutricibus parentibus, atque magistris a teneris, ut aiunt, unguiculis haustae: ea ad auctoritatis praeiudicia referri, nemo non ri det. Illustris VERULAMIUS de augm. scient V. 4. praeiudicia,, quae iilola vocat, in quatuor dividit classes, quarum prima am plectitur idola tribus, scilicet quae in ipsa hamana natura fundata sunt; altera idola specus, hoc est hypotheses a nobis ipsis provenientes; tertia i: lola fori, idest prae concept as opiniones, quae ab hominum com mercio mabant; quarta denique idola the *** Cap. II. de ign. et er. eor. caus. 149 atri, videlicet erronea iudicia, quae ex Phi losophorum sententiis bauriuntur. Quae 0 mnia ad duas, quas retulimus, classes com mode referri possunt, ut coram ostende mus. * Auctoritatis praeiudicia sunt ea, quae a nu tricibus, magistris (vivis illis mortuisve ), aut populo haurimus: eiusmodi sunt opinio pes omnes aliquibus civitatibus, familiis, vel.: sectis familiares, quarum cultores illis, tam quam glebae, adscripli, nulloque utentes iu dicio, eas, tamquam oracula, pronuntiant seque inde dimoveri non patiuntur. Curio sissima est Galilaei narratio in Systemate co smico, de viro quodam nobili Peripatheticae philosophiae addicto, qui qunm Venetiis in domo cuiusdam Medici sectionem anatomicam perfici vidisset, in qua maximam nervorum stirpem e cerebro exeuntem, per cervicem transire, per spiralem distendi, ac postea per totum corpus divaricari observasset, nec, nisi tenue filamentum, funiculi instar, ad cor pertingere, a Medico rogatus, adhuc in Aristotelis sententia manere vellet rumque originem a corde repelere? non sine magno adstantium risu respondit: Equide:n ita aperte rem oculis subiecisti, ut nisi tex tus. Aristotelicus aperto nervos corde deducens obstaret, in sententiam tuam per tracturus me fueris. Quis, quaeso, haec au diens a risu ' temperaret? *** Vocari quoque solent praeiudicia receptae hypotheseos, novitatis, similia: ut sunt sy nervo e G 3 750 Logica Pars 11. MAE, stemata omnia ab eruditis inventa, quibus tam acriter inhaerent, ut uullum sit rationis pondus, quo ab opinione sua dimoveri pa tiantur. 109. De errorum caussis, restat, ut paulo ca addamus, Eae vel REMOTAE sunt quae mentem ad errores ac praeiudicia praeparant et disponunt; vel " PROXI., quae mentem ipsam ad iudicio rum confusionem impellunt, erroresque producunt. Remotae rursus in generales dividuntur, et speciales. Caussae generales sunt ATTENTIONIS DEFÈCTVS, qui ideas reddit deteriores ADFECTVS, quos attentionem turbare, idearumque obscuritatem parere supra ob. Servavimus, SCIENDI LIBRO ciun ralurali corporis inertia, COMPENDIA et DICTIONARIA disciplinarum, in quibus nulla idearum analysis reperitur MALVS vocabulorum VSVS, quo fit, ut auctorum sensus non intelligatur denique LIBERTAS PHILOSOPHANDI. Praeiudiciorum cnim origo ab idearum ob scuritate repetenda est, idearum vero obscuritatem pariunt attentionis defe clus et adfectus er his ergo caussis praeiudicia nasci, quisque intelligit. Quainvis enim corporis inertia laboris impa Cap. 11. De ign. et er. Cor. caus. ¥ tientiam creet, adeoque ignorantiae tantum Caussa esse possit (* 105. ): cum sciendi tamen libidine conjuncta errorum genitrix est: etenim sciendi pruritus efflcit, ut intellectus tali cupiditate ductus intra ignorantiae fuae te niebras consistere nolit, opportunisque prae • diis vacuus ea investiget, quibus par non est, ac proinde in plurimos lahatur errores. ** Libertas enim philosophandi iuxto maior in receptas hypotheses illidit; nimis autem con etricia in auctoritatis praeiudicia nos urget, sel saltem crassam parit ignorantiam. 110. Speciatim autem AVCTORITA TIS praeiudicia oriuntur harum trium abaliqua EDVCATIONE, scilicet, CONVERSATIONE [conversazione], et CONSVETVDINE; ut et praeiudicia NIMIAE CONFIDENTIAE aa nimia INGENII FIDUCIA. Et ut de educatione quaedam singularia attingamus, id sedulo notandum: praeiu dicia, quae ab ca procedunt, tribus cha racteribus optime distingui, temporis BREVITATE, 2. loci RESTRICTIONE, cognitionis DEFECTV. Qui quidem characteres si desint, propositio non in ter praeiudicia, sed inter veritates com muni hominum consensione probat as est referenda. Quot mala hominibus adferat educatio, vix dici potet. Parentes enim tantum abest, ut puerorum intellectum perficere eorumquemor is mederi curent, ut potius eorum aninum maximis praeiudiciis, anilibus fabeliis, erro neisque opinionibus imbuant. De magistrorum educatione nihil dicemus, ab iis enim quam multa hauriuntur praeiudicia, quum iuvenes in magistrorum verba iurantes quaeuis eo run effata sancta esse putent, ac de illis veluti de Religione, dimicent ! Conversatio cuin libris et eruditis, consuetudo cum po pulo quot foveant errores, quum res sit me ridiana luce clarior, in ea explicanda nihil immorabimur Legatur interim Tullius Tuscul quaest. Lib. III. cap. 1. Qui nimium suo indulget ingenio, fieri non potest, quin in errores incidat, el pacdın tismum vel contradictionis spirituin induat, quae duo vitia aliorum aversionem odiuinque conciliant. Praeterquam quod novitatis studi um quanta hominibus mala produxerit, ii sciunt, qui Ecclesiae vel litterarum vices er annalibus didicerunt. *** Nimirum educationis praeiudicia tantisper in animo sedent, donec ad maturitatem ra tionisque perfectionem sit perventum; nou sunt ubique earlem, sed quamvis in cuius cumque Regionis gentibus praeiudicia sedeant, diversa tamen pro educationis morumque di versitate inveniuntur; rudium tandem von eti am sapientum mentes occupant ita, ut dum illi inter praeconceptas opiniones erroresque iacent, hi eorum insipientiam ac ignorantiam destruere nullo modo valentes vel rideant, vel de ea conquerantur. Cap. II, De ign. ei er. eor. caus. 253 mus Omnes illae, quas recensuimus caussae praeiudiciorum remotae sunt; pro Xima namque est PRAECIPITANTIA. Quae quum ita sint, optimum, idqne uni cum, ad praeiudicia vitanda remedium est iudicium suspendere, seu DUBITARE: est: enim DUBITATIO « prudens iudicii su spensio. Tanc autem iudicium suspendi quum propositionein aliquam nec adfirmamus neque negamus. * Cave la nen credas, ad praeiudicia vitandą conferre Scepticismum, vel Pyrrhonismum insanam nempe illum de onnibus dubitandi miorem, quo hodiernos incredulitatis fauto. res uii, non sine dolore videmus. Stolidi tas enim, nedum temeritas infanda foret sine sufficienti ratione dubitare. Sobriam quip pe ac prudentem commendamus dubitationem eo fine institutam, ut suspendatur iu licium, donec mens ad ideas distinctas clarasve per veniat. ** Totum hoc de rebus intra rationis fines ex sistentibus, nullaque evidentia suffultis est intelligendum. Etenim quae Divina auctorita te nituntur, aut mathematica gaudent eviden tia de illis dubitare, impium; de his ve ro, foret adprime stullum. Schol. Espositis mentis humanae imbe. cillitate et vitiis, reliquum est jis praebeanius medelam. Quamvis Feromul, 7 ut aptam ti philosophicarum rerum Magistri, inter quos Nicolaus Malebranchius, et Antonius Genuensis, quamplurima ad id remedia. proposuerint, quibus vel minimum quidem addere, non opis est nostrae; licebit ta men, ad Auditorum nostrorum instructio nem, si plura n quimus, eadem saltem ab ipsis tradita paucis repetere. Quisquis ergo ignorantiam errorenive yitare cupis, hos menti infigito CANONES. MEREntem sedulo studio attentio ne, meditatione ab obscuritate et confusione liberato. * In hoc enim in. tellectus perfectio sita est, a qua exsu lant ignorantia et praeiudicia. * Ut id consequantur adolescentes, prae ocnlis habeant quae in prima harum Institutionum parte observavimus, ea praecipue, quae de ideis cap. 1. Schol. adnotavimus. 2. Ad studia praeiudiciis liber ac do cilis, uti modo in lucem editis infans, accedito. Magistrum eligito optimum ab eoque necessaria atque utilia disci io, nihil verens ab eius, qui te ad sa pientiam manuducit, prius ore pendere: Cap. II. De ign, et er. eor. caus. 155 ut praecepta demum, quum te ignoran tia deseruerit ad examen revocare possis. * In Magistrorum electione magna cautio adhi benda est: abea namque pendet cognitionum nostraram soliditas et rectitudo. Ad eorum dotes praecipue attendendum, de quibus ideo pauca inferius delibabimus. 3. Methodum ubique atque ordinem cordi habeto. In studiis eapraecedant per quae sequentia intelliguntur. Ex hujus canonis neglectu oritur studiorum confusio, quam ignorantiae caus sam haud postremam esse, experientia sensusque com munis evidenter ostendit Auctoritati nec nihil, nec multum deferto. Nimia namque aliis adhaesio servum pecus; sensus vero communi ne glectus audacem efficit, omniaque sibi permittentem. 5. De iis, quae vel Divina auctori tate, vel maxima evidentia destituta sunt, prudenter dubitato, donec certus fias. Rectam rationem prius, sensum dein de optimorum communem consulito. Quae captum vero tuum superant ne perqui rito, nisi prius opportunis mediis probę fueris instructus. * G6 156 Logica Pars. II. * Si vero captum humanum superent, ca non investigare omnino, recta ratio docet. 6. Laboris patiens, memoriae ac per spicaciae tuae ne nimis fidens esto. Me mento Poetae illud: ABSQUE LABO RE.NEMO MUSARUM SCANDIT AD ARCEM. Vides hinc, quam immerito a nostrae aetatis adolescentibus voluptati ac vanitati deditis laboremque horrentibus cognitio studiorum que felix exitus expectetur. Compendia et dictionaria, quippe quae nihil solidi profundique continent, ne multum amato. Paucos habeto libros, eosque lectissimos. * Cum lectione me ditationem semper coniungito  Non nostrum est praeceptum, sed Senecae, qui ut facilem Lucilio suo viam ad virtutem aperiret, librorum paucitatem diserte com mendat his verbis: Cum legere non possis quantum habueris, sat est habere quantum legas. Ep. 2. Vide quae diximns Part. I. 8. Poetas caute legito, ne inanibus fabellis animunı imbuas. Populum, utpo te pessimi argumentum, ut anguem fu gito. Senecam audito dicentem: SANA TIMUR, SIMODO SEPAREMUR A ÇOETU, cap. 1. Schol. Cap. II. De ign. et er. cor. caus. 157 Ad poetas quod attinet, eorum lectionem adolescentibus vel omnino interdicendan, vel arctissimis includiendam cancellis cuperernus, quippe qui vivida phanthasia pollentes ima ginationi retinere potius, quam laxare debent habenas: id quod ia legendis Poetis contra evenit. Populi porro damna paucis expressit idem Seneca, quum ait: Inimica est mullorum convcrsatu. Ep. 7. De Veritate ceria, melliisque ad cam perveniendi. $ 12. sis ad veritatis investigationem gradum faciamus. VERITAS vel CERTA est, si in ea adsint omnia veritatis requisita, ut nulla nobis de illa re maneat suspicio aut dubium, vel PROBABILIS, si propius ad certitudinem acce dat, nempe quum non omnia insunt re quisita. De illa nunc, de hac subsequen ti Capite agemus. CERTITUDO est mentis status veritati adensum ita praebentis ut nulla de opposito adsit sollicitudo Ex consequitur i, ut si quam minima adsit suspicio non certitudo, sed INCERTITUDO vocetur. Et quia non idem est om. nibus mentis status, sequitur 2. eamdem evunciationem uni certam esse posse, al teri incertam. Tandem quoniam quisque mentis suae statum agnoscit, consequens est 3. ut nemo aliorum certitudinis sed suae tantum iudex esse possit. * Quia omne, quod verum est, vel absolute et in se tale est vel in relatione ad mentem, quae non semper terminorum nexum distincte percipit: ideo Philosophi certitudinem divide bant in OBIECTIVAM et FORMALEM, il lamque esse, aiebant, nexum propositionis in trinsecum, hanc mentis nostrae statum respi cere. Nos illam proprie VERITATEM, hanc CERTITUDINEM adpellamus. E. 8. Axioma; Totum est maius sua parte, si absolute et in se spectetur, VERUM dicitur, si vero ad men tem referatur, CERTUM est, quia talia ad sunt indicia, ut ipsi absque ulla oppositi formi dine adsensuin praestemus. Quoniam indicia ad certitudinem ducentia trium generum esse possunt, sci licet vel absolute infallibilia vel dalis tantum permanentibus caussis naturalibus, vel denique sccundum huinanae prudentiae leges: evidens est 4. triplicem etiam esse certitudinem, METAPHYSICAM nempe yel MATIEMATICAM, quae illis; PHY. Cap. 111. De veritate certa etc. 159 SICAM, quae istis; MORALEM tandem, quae his fulcitur indiciis, quaeque alio no mine FIDES HUMANA adpellatur. * Primi generis sunt axiomata, aliaeque pro positiones nullis obnoxiae vicibus;alterius haec propositio: corpus non suffultum cadt: pos fremi vero haec: Augustus fuit primus Ro manorum Imperator. 115. Experientia abunde constat, men tem nostram non statim, nec semper, quod verum est, certo cognoscere- Via ergo quaedam ipsi monstranda est, qua tuto ad certitudinem perveniat: eaque, pro certitudinis varietate, diversa est; spe ciatim vero triplex, EXPERIENTIA sci licet, RATIO seu DEMONSTRATIO, et AUCTORITAS, de quibus singillatim, et quantum res ipsa furet, breviter agemus. Uidquid a nobis sciri potest, vel singulare est vel universale (S. 26. seqq. ); itemque vel effectus, vel caussa. Singulares porro ideas sensibus ad quirimus; universales' vero in 160 Logica Pars II. tellectus abtractione conficimus. Rursus quaelibet caussa effecluin salte in natura, praecedit, ut in Metaphysica do. cebimus. Duae igitur cognoscendi viae no bis aperiuntur, altera, quae a singulari bus ad universalia; itemque ab effectibus ad caussas ascendit, nemp: a sensibus, si ve experientia incipit; ideoqne dicitur co gnitio a posteriori: altera, quae ab uni versalibus ad particularia, a caussis ad ef fectus rationis ope descendit descendit,, ac proinde vócatur cogniíio a priori. De illa nunc; de hac sequenti sectione agemus. Omue itaque, quod experientiae ope scimus, dicitur COGNITIO A POSTERIORI. Est autem EXPERIENTIA cognitio adqui sita ex attentione ad obiecta sensibus obvia, Sic per experieutiam novi'nus aquam made. facere, ignem col fucere, ceram igni admo tam liquefieri, ct id genus alia. 117. Quum experientia sit in rebus sen sibus obviis; sensibus auien percipianlur les exisientes sive indiviadua: patet 1. a uobis res tan tum singulars experimento addisci, * extra eas nsilium alind esse experientiae obiectum, adeoque 3. eam in abstractiş 2 2. Cap. Ill. de Veritate certa ctc. 161 sensus et universalibus locum non habere, licet haec ab ipsa deriventur. Igi tur 4. qui demonstrationem aliqu am posteriori conficere vult, is casum singu larein, allegare debet, dummodo experien tia non sit cuivis obvia; 5. denique, ex perientia non datur in iis, quorum n ullam habenius ideam. * Quoniam vero est vel internus, vel externus experientia quoque est vel INTERNA, vel EXTERNA. Illa habetur qnum nobis ipsis attendentes aliquid in anima nostra contingere percipimus: e. g quoties nobis malum aliquod repraesentamus; toties taedio nos adfici animadvertimus; haec ve ro, si res in organis nostris mutationem pro ducentes percipimus: ut si manu igui admota, calorem igui inesse observemus. "Experientia rursus dividitur in VVLGAREM, quae mnibus aeque patet, ut calor ignis, et ERVDITAM, quae speciali studio, atque adhi bitis necessariis mediis cooficitur, arleoque so lis innotescit eruditis, ut ' aeris gravitas, elasticitas ctc. 118. Habitus, sive promtitudo aliorum vel propria esperimenta colline andi, et ex iis conlusiones elicianendi, dicitur ARS EXPERIVNDI. Quae quidem ab experientia tam longe distat, quantum ba bitus dfert ab actu. * Non ergo sufficit unam alteramye experientiam peragere, aut aliquot instrumenta s ertractan. 162 Logica Pars II. di peritiam habere, ut experiundi arte prae ditus quis dici possit, sed opus est habitn longa exercitatione adquisito, non solum res experimento subiiciendi, sed propria aliorum que experimenta ad critices regulas exigendi, atque ex iis conclusiones scientificas, sive corolla ria legitimo rationis usu deducendi 119. Quoniam experientia sensibus ni titur; ad sensionem autem duo requiruntur, scilicet mutatio in or ganis sensoriis ab externis obiectis produ cta, et repraesentatio in anima huic obie cto conformis (ut in Psychologia ostende mus ): consequens est 6. ut sensus, po sitis ad sentiendam requisitis quam fallant; * proindeque 7. nos non & sensibus, sed a iudicio, quod ani ma praccipitanter fert super experientia, persaepe falli. Rinc. 8. cautiones quaedam ad errorem hunc vitandum adhibendae > num sunt. et Requisita ad sentiendum tria sunt, orga norum sensoriorum sanitas 2. attentio, 3. justa obiecti distantia. Quotiescumque ve ro de visu agitur, et quartum requisitum adesse debet, nempe èiusdem mcdii in ter obiectum et organum interpositio. Quum enim in visione radii lucis in corporum superficiem incidentes reflectantur, et in acre prius, deinde in oculi humoribus ac lente cristalli ua refracti ad retinam usque pertingaat, u Cap. 111. De Veritatė certa etc. 163 hi motum in nervo optico, quod sensationis caput est, producunt: si partim in aere partim in aqua aliove densiori medio obie clum ponatur, non eadem erit lucis refra ctio, adeoque non idem locus obiecti parti ' bus adsignabitur: unde fit, ut illud fractum vel recurvum adpareat. Si ergo neglecto hoc requisito adparentiam illam pro realitate sumamus, non sensuum, sed judicii defectú id provenire, fatendum est. Cautiones, quas inculcamus sunt 1. ut sior gana sensoria paullo debiliora fuerint, debi tis armentur instrumentis, 2. ut obiecta in iusta ab organis distantia posita attente ob serventur 3. ad tot sensus, ad quot redi gi possunt, redigantur. Si cautiones istae adhibeantur nullus in percipiendis rebus sensibilibus irrepere poterit error: si vero quae dicta sunt probe attendantur, non in surgent amplius difficultates, nec erunt qui vetustissimam cipionis in aqua fracti, turris que emimus rotundae adparentis cantilenam ad nauseam usque repetentes, sensuum fal laciam ulterius inculcare velint. 120. Quia vero per experientiam sin gularia tantum cognoscimus sequitur ut VITIVM SVBREPTIONIS incurrant ii, qui ea, quae minime ex perti sunt, vel quae imaginationi aut ra tiociniis experientia deductis debentur, pro experientia obtrudunt. * Tales sunt, qui pliaenomeni alicuius caussam raperientia constare adserdut. Veluti si quis 164 Logica Pars II. ferrum a magnete altrahi videns, experien. tia compertum esse diçat, ex magnete efflu - via exire ferrurn attrahendi vim habentia, vitium subreptionis incurret. Quum ergo res singulares tantum modo experiamur; earum ve ro repraesentatio dicatur idea singularis: recte infertur 10. notiones expe rientiae ope immediate formatas esse ideas singulares, ut et 11. singularia iudicia ipsis innixa. * Quumque his nova deducta iudicia non nisi ratiocinationis ope eruan tur: evidens est 12. haec nova iu dicia di ci non posse singularia, sed DIANOETICA sive ratiocinantia.Vocantur huiusmodi iudicia INTVITIVA, quia in his, quae in rei cuiusdain notione comprehensa intuemur, eidem tribuimus: ut ignis est rulidus: aqua madefacit. Scholastici ea vocabant discursiva: ratioci nium namque ab iis dicebatur discursus. E. g. ignis est cctivus: vapor est elasticus. Quandoquidem indicia intuitiva conficiuntur tribuendo rei quidquid in ipsi us potione comprehenditur: sequilur. 13. ut ea conficianlur accipiendo rem perceptam pro subiecto, eique tribuen I 22. Cap. III De Veritate certa ete. 165 do quidquid attente consideranti in ipsa occurrit, vel ab ca removendo quod in aliis, non etiam in illa observatur. * remove * In primo casu habebis iudicium aiens, in secundo negans. E. g. Ignem percipis eique calorein inesse observas. Sume ergo ignem. pro subiecto, calorem pro attributo, et ha bebis iudicium aiens: ignis est calidus. Contra quia alias observasti aquam madefa cere, id vero in igne non intueris: ab igne hoc attributum, eritque indiciun negans: ignis non adefacit. 123. Quemadmodun autem enunciatio. nes particulares in universales comunitari possunt: ita, quamvis notiones et iudicia ab experientia deducta sint singularia, commode tamen in u niversalia transmulari possunt, si regulae sequenies exacte servcolur. 12. Quoniain individua'sunt omnimo de determinata ($. 18., et variis circum stantiis involuta: 14. at tente separari a re percepta debent acci dentia sive modi ab attributis essentialibus, quibus tantumu modo est attendendun: 15. allributa haec essentialia onipibus speciebus vel individuis 166 Logica Pars II. convenientia abstractionis ope retinenda, atque inde notae characteristicae depro mendae sunt, quae ad rem illam ab a liis discernendam sulliciant. Hi quidem ermut characteres definitionis a posteriori ex in dividuis casibus eruendae. 125. Vt antem operatio recte procedat, oportet 16. tot facere iudicia intuitiua quot res ipsa percepta suppeditat, 17. ac cidentia omittere, 18. attributa, quae non seinper eadem sunt, determinationis bus particularibus liberare, ac tandem 19. plura ea in re adducere exempla magna pe sollertia attendere in quibus perpcluo conveniant, aut inter se discrc pent. * E. g. Vt scias quid sit commiseratio, ob serva casum aliquem, in quo videas te, aut alium alterius commiseratione percelli. Ad duc et aliam huius modi speciem, aut plu res etiam, si id res exigat, videtoque cir cumstantias, quae sunt perpetuo similes. Hoc modo in notescet tibi commiserationis idea universalis, cuius notae definitionem suppe ditabunt realem, commiserationem nempe es. se tacdinm ob alterius infelicitateir. Conf Wolfi. Log. Lat. §. 492. 126. Nunc quo modo iudicia universa lia a posteriori coulcianlur, observemus. Cap. III. De Veritate certa etc. 167 Quia ab experientia oriuntur iudicia intuitiva: videatur primum, num praedicatum sit attributum rei perceptae essentiale: quo casu enunciatio erit uni versalis ($. 68* ). Deinde experientiam multoties repetendo dispiciatur, utjum at tributum illud rei perceptae perpetuo et costanter insit. Quod si non semper illud inveniatur, investiganda est ratio, cur in ea aliquando deprehendatur, eamque biecto addendo, indiciuin enascetur uni versale (5. 69. ): * Ita e. g. esperientia novimus, igni semper calorem inesse, ceram autem non seinper es se liquidam. Iudicium ergo ignein esse cali dum erit universale: at non universaliter ius ferre poterimus ceram esse liquidam;sed opor tet invenire rationem cera aliquando liguescat, quae quun sit in igne, cui tunc admovetur, hac subiecto addita, universalis orietur ennnciatio: cera igni admota li quescit. cur > 1 127. Philosophus interim in rerum ca ussis et rationibus investigandis studiose versatus regulas quasdam sequa tur oportet, ut veriiates ex experientia de ducere queat. llae regulae sunt: 1. Si in obiecto aliquo mutatio observetur, qun ties obiecto alteri iungitur, idquc con 168 Logica Pars I. stanter: tunc hoc esse illius caussano 3 tuto concludi potest. * 2. Si duo vel plura, licet perpetuo, coexsistere wel se mutuo sequi observeniur, sta tim inferre licet, unum esse alterius ca ussam, nisi prius recta rario sic esse convicerit. non * Id clare patet exemplo cerae liquentis igni, aut solis radiis admotae. ** Si ergo bellum simul cum cometa existat, vel eumdem sequatur: praecipitantia erit iu dicare, hunc esse caussam illius. 21. 128 Ex quibus omn: bus clare deducitur 20 propositiones ex experientia legitime uistitala confectas esse certo veras; quouicumque sensioni omnibus requisitis in stuctae convenit, pro certo haberi, adeo. que 22. et definitiones experientiae adiu mento legitime efformatas, et 23. axio mata vel postulata ex his de ducta itidem certitudine pollere.  Rationem definivimus per facile tum distincte perspiciendi. Il la ergo utimur si qnando enunciationem, de cuius veritate iudicium ferre volumus, ita cuin aliis connectimus, ut inde ter minorum nexus ctare perspiciatur: id ve. ro est, quod dicimus COGNITIONEM A PRIORI. Connexio isthaec vocatur DEMONSTRATIO, cuius est veritates ex certis principiis per legitimam ratioci nandi seriem eriiere (š. cod. ). SERI ES porro RATIOCINÀNDI habetur, si ex pluribus syllogismis invicem connexis conclusio prioris sit praemissa sequentis ut inox adparebit: qni quidem SYLLOGIS MI CONCATENATI dicuntur. 130. Ex quibus nullo negotio sequitue 1. in omni demonstratione duo requiri, nempe principia demonstrandi certa it in: dubia, eorumqne cum conclusione coone xionem. Et quia experientiae rite institu definitiones, axiomata et postulata T. 1. tae, 2 > H 170 Logic. Pars II. certitudine gaudent (s. 128. ): infertur 2. ea ad eiusmodi principia esse referen da, proindeque 3. illum adserta sua nou demonstrare, qui ea ex incertis dubiisque principiis deducit. 131. Quia vero duplex cognitio datur, a priori scilicet, sive per rationem; et a posteriori, seu per expe rientiam: sequitur hiec 4. duplicem quoque dari demonstrationem, earoque vel A PRIORI confici vel A PO. STERIORI: illam haberi, quando veri tatem aliquam a principiis legitime connexis deducimus, vel effectum per suas caussas probamus; si quando eam ex experientia reete institu ta, vel caussam per suos effectus demon stramus. ** Quum ergo a priori demonstrare volumus, principia statuamus necesse est, antequam ad syllogismorum concatenationem deveniamus. Id darius fiet exemplo. Ponamus hanc proposi tionem: Deus caret adfectibus. Eam a prio. ri sic demonstrabimus. DEFINITIONES. 1. Deus estens perfectissimun. 2. Intellectus perfectissimus est, qui omnia * hanc vero, sibi distinctissime repraesentat, 3. Appetitus sensitivus est. qui oritur ex idea boni confusa. 4. A'fectus sunt motus vehementiores appe 1. tu sensitivi. Cap. II!. De Veritate certa etc. 1. ): sed era mo AXIOMATA. 1. Ens perfectissimum gaudet in tellectu perfectissimo. 2. Distinctissima omnium repraesentatio ex cludit quamcumque idearum confusionem. THEOREMA. Deus caret adfectibus. DEMONSTRATIO. 1. Ens perfectissimum in tellectu gaudet perfectissimo (ax. Deus cst ens perfectissimum (def. 1. ); go Deus gaudet intellectu perfectissimo. 2. Quicumque intellectu gaudet perfectissi omnia sibi distinctissime repraesentat. Deus vero gaudet intellectu perfectissimo (num. 1. ): onania ergo sibi distinctissime repraesentat. 3. Qui omnia sihi distictissime rapraesentat, ideis caret confusis (ax. 2. ): at Deus om niasibi distinctissime repraesentat. (num. 2 ): ergo Deus caret ideis confusis. 4. Ab ideis boni confusis oritur appeti !us ser sitivus (def.?. ): quuin ergo Deuts careat idcis confusis (num.' 3. ); liquet, eum care re quoque appetitus sensitivi. 5. Qui appetău caret sensitivo, is caret adfe clibus (def. 4. ): atqui Deus carct appetitie sensitivo (num. 4. ): ergo Deus caret adfe ctibus. Vides hic syllogismorum connexione a principiis ceriis deducta confectam esse demonstratio nem. ** A posteriori demonstratur animae in nobis exsistentia hoc modo. EXPER. Si nobis ipsis attendamus, obserica biinus, aliquid in nobis esse, cuius ope nosa H 2 172 Logic. Pars. II. metipsos ab aliis rebus extra nos positis, inter eas vero alias ab aliis distinguiinus, boc est nostri rerumque extra nos positarum conscii sumus. DEFINITIO. Id. ipsum, quod nobis sui rerumque extra se positarum est conscium, dicitur anima. TIIEOREMA. Exsistit in nobis anima. DEMONSTRATIO. Experientia enim constat, aliquid in nobis esse nostri rerumque extra nos positarum conscium: id ipsiin autem est quod dicitur anima (per defin. ): e: c sistit ergo in nobis anima. Demonstratio iterum est, vel D. RECTA sive Ostensiva * vel INDIRE DIRECTA seu apogogica. **. Illa est qua ex notione subiecti colligitur eius nexus cum attributo; haec autem in qua oppositum tamquam verum assumen tes, conclusionem falsam inde deduci mus, ut propositionis nostrae veritas elucescat. Directa ergo erit demonstratio, si ordinem sequatur hactenus explicatum ($. 131., si ve a priori sil, sive a posteriori: ut videre est in superadductis exemplis ($: 131 " ); ** Indirecta demonstratio vocari quoque solet redactio ad impossibile vel ard absurdum, quia oppositam propositionem ut veram alla sumens, ex ea absurdum aliquod, sive cou clusionem impossibilem, eruit. Talis crit de monstralio scyueas. THEOREMA. Nibil est sine ratione sufficiente. DEMOSTRATIO. Ponamus aliquid esse sine ratione sufficiente. Ratio ergo, cur id sit aut fiat, erit in nihilo: adeoque nihilum ex sistet simul, et non exsistet. Essistet, quia aliter non posset esse caussa alterius: non exsistet, quia aliter non esset nihilum. Quod quum contradictionem involvat, sitque ideo impossibile: ergo nihil est sine ratione suffi ciente. 133. Ex hactenus dictis patet 1. quam cumque propositionem legitime demonstra tam esse certo veram idest certitudine gaudere metaphysica, proindeqne 2. de inonstrationem csse viam ad certitudinem perveniendi praestantissimam. Quumque ex perientiae et demonstraționis excellentiam ostenderimus: ' recie concludi mous 3. veritatem certain dici. dubia ' sensione, vel evidenti principio ni titur, dummodo in demonstrando CIRCU LUS non irrepscrit. In hoc vitiuni incurrunt ii, qui propositio nem probantem demonstrant per propositio nem probandam: quia in tali casu idem per idem demonstratur. Huic adfiuis est illa, quae a Scholasticis adpellari solet PETITIO PRINCIPII, nempe quum principium de monstrandi vel nullum est, vel nulla certi tudine aut ' evidentia gaudet. Huiusmodi sunt pleraeque enunciationes Epicuraeorum, Pla quae in H 3 174 Logic. Pars Ir. quis tonicorum, Stoicorum, aliorumque, de bus in Metaphysica erit disserendi locus. 134. Quoniam autem in detegendis per demonstrationem veritatibus ordo, sive methodus requiritur: ne longius hic pro grediamur, de ea sequenti capite, prout res exegerit, breviter enodateque tracta bimus. R Elite ut de AVCTORI TATE pauca dieamns. Ea non scientiam, ut experientia et rutio; sed FIDEM parit. Est autem FIDES: ad sensus propositioni datus, alterius te stimonio itinixus. Ex quo patet, rationem fidei sufficientem esse narrantis auctorita tem. Quumque auctoritas vel Divina sit, vel humana: fides quoque in DIVINAM et HVMANAM recte dispertitur. 136. Ex qnibus liquido infertur 1. fidei fundamentum in eo consistere, ut narrans taliasit, qui nec falli nec tallere possit; ac proinde 2. eo firmiorem esse fidem quo certiores sumus de scientia et veraci tate narrantis. Et quia Deus est omniscius Gap. VI. De Veritate certa 175 et infinite verax, quippe in quem nulla cadere potest ' imperfectio (per princip; Theo. nat. ): evidens est 3. fidem Dic vinam parere certitudinem omni exceptione maiorem; pariterque 4. Dei loquentis au ctoritatem esse fundamentum veritatis com pletum, omnibusque numeris absolutum; adeoqu 5. debere nos Deo loquenti ad quiescere, nec umqnam Dei testimonio demonstrationem ullam opponere, utpote vel falsam prorsus, vel indigestam. * Non potest enim certitudo certitudini adver: sari, quia si id esset, tunc contrariarum propositionum utraqua vera esset, adeoque idem simul esset et non esset: quod quum repugnet, non potest ergo fidei Divinae demonstratio ulla obiici. Quumque Dei verbum sit fundamentum veritatis com pletum (num. 4. f. huius. ): patet, quam cumque demonstrationem ei adversantem esse falsam. Quandoquidem autem auctoritas humana fidem parit bumanam, et certitudinem moralem: de ea pauca adhuc addenda supersunt. Et primo quidem, quum fundamentum fidei sit opi nio, quam de narrantis scientia bitate habemus; eoque fir mior sit fides, quo certiores sumus de hu et pro H 4 196 Logic. Pars II. jasmodi dotibus (S. eod. ): liquet 6. l dem humanam parere in nobis certitudi Nem moralem completam, si non adsit ra tio, cur in narrante aut imperitiain, aut malitiam supponere possimus: veluti si evidentia scientiae probitatisque indicia de derit si nihil emolamenti ex iis, quae narrat, perceperit, si ' parratio rectae ra tioni non repugnet; si denique pro nar rationis suae veritate dimicaverit, vel per secntionem passus sit. * Deinde quoniam non omnes homines eadem praediti sunt scientia et probitate, nec de his semper certo iudicare possumus, quum id io so la opinione versetur: exsurgit hinc probabi litas, de qua paullo post praecepta dabimus. * Postremâ haec conditio maius certitudini mo rali pondus adiungit: si vero deficiat, liu modo priores adfint circumstantiae, certilu do vim suam non amittit.. Schol. Nunc in eo sumus, ut explica tae doctrinae usum paucis tradamus. Qua propter Philosophus noster hos, qui se quuntur, observet. CANON E S. AMD quidlibet erudite experiundum, nisi necessariis praemunitusa in strumentis me accedito. Si haec desint, Cap. III. De Veritate certa etc. 177 aliorum experimenta consulito, dummo do eorum integritatis scientiaeque con stiterit, atque inde tuas deducito con clusiones. Si per insrumenta liceat, aliorum experimenta ad examen revo cato ut sacriorem eorum ideam ad quiras, caussasque facilius investigare possis. * Et quidem experientia erudita instrumentis opus habet, sine quibus experimenta fieri nequeunt. Si ergo desint, observationes nul lae erunt: ac proinde aliorum experimenta consulenda, praemissis cautionibus, quae de eorum veritate dubitare non sinant. Hinc Physicis admodum necessarius est machina rum instrumentorumque apparatus, ut phaea nomena observari possint, a quibus ad caus sas proximas rationis ope concludendum est. 2. Ne phantasiae partus, aut ratiocim nia ex experimentis deducta pro expe rientia venditato ne subreptionis ar guaris. *. Quidquid enim imaginationi debetur, reale non est, sed phantasticum. At in experientia realis rerum exsistentia observatur; adeoque qui phantas mata pro rebus obtrudunt, su bripiendo a dsensum extorquere conantur: et tunc evenit, ut cum ratione experientia pu gnare videatue, de quo infra sermo erit. Quod sem el expertus es, ne teme? depromito, sed experimenta saepius H 5 178 Logic. Pars II. repetens, an costantia sint, observato; nec, nisi certior omnino factus, de iis enunciato. Saepe enim accidit, ut effectus aliqui a cir cumstantiis oriatur accidentalibus, vel caus sae cuidam externae debeantur. Repetenda er go experimenta, ut diiudicari possit, utrum principali, an accessorüs caussis, effectus il le tribuendus sit, adeoque non mirum, si facta semel observatione, effectus productio propriae caussae non tribuatur, 4. Demonstrationes non nisi certis in dubiisque principiis superstruito. Ratio ciniorum catenam ne interrumpito; sed sequentium veritas ex antecedentibus patefiat. * Eo namque modo habebitur legitima syllo gismorum concatenatio in qua demonstras tionis essentia sita est, ut supra diximus. Ne ciedito, quamcumque enuncia tionis probationem pro demonstratione sumi posse: qaamvis omnis demonstra tio sit probatio. Ex debilibus enim prae inissarum probationibus exilis enervisque exsurgit demonstratio cui nihil potest roboris accedere. * Nimiruni demonstrationis robur a praemis stabilitate, legitimaque connexione procedit, adeoque pro; earum firmitate con clusionis pondus augetur, vel minuitur. sarumriat, 6. Demonstratio, ut certitudinem ра talis esto, quae neque per mate riam, neque per formam ulla possit ra tione convelli. Iunc enim adsensum etiam ab invito, extorquebis. 7. Si metaphysicae certitudini expe rientia adversetur, haecfallax esto. Absurdum namque foret id exsistere, quod rectae rationi repugnat. * Eo namque casu duas habemus 'propositiones inter se contradicentes, alteram singularem, quae quidpiam exsistere pronuntiat, univers salem alteram, quae idem existere posse ne gat; adeoque duo haec enunciata inter se pugnantia ita comparata sunt, ut quod pri mum sensibus perceptum fuisse ait, illud alte rum solidis rationibus intrinsecus impossibile esse demonstrat. Quum itaque ab impossibi litate ad non exsistentiam conclusio duci pose sit (per princ, Ontol, ): recte colligitúc, in hac collisione rationem vincere, ac proinde experientiam dici debere fallacem, quippe non experientia, sed subreptionis vitium rea pse adpellanda. Et hoc universali omnium phi losophorum consensione pro inconcusso axiom mate habendum est: ut ita Genuensis noster praecipuum inter suos de veritatis criterio cả nones illum posuerit: Si intellig:bili evidentiae physica adversetur, FALLAX HABETVR PHYSICA, est enim haecminor, cui proii # 6 180 Logica Pars 11. + de vals dicere, quam de intelligibili subdubitan re, quae summa est, acmathematicam parit certitudinem, par est. Cui deinde subiungit: Fingamus (quaquam id falsum keputo, ma thematica evidentia demonstrari terram mye veri: si qui sensuum evidentiam reponeret, non esset audiendus, nisi matorem minori evi dentiae praeferre velimus. Art. Lozicocrit Lib. IIT. cap. 3. 15. can 1, Sed quid, in quies, alienam auctoritatem in re tam evi, denti confulere conaris? Nimirum quia canon bic a quibusdam, apud quos Genuensis no stri plurimum valet auctoritas, nigro lapillo notatus est: ut sciant sententiam nostram non singularem aut phantasticam, sed ratio De aç unanimi hominum ratione utentium consensione fultam. cum eius quoque Viri ipsis non suspecti adsertione congruere. 8. Nihil Divinae auctoritatį opponere fas esto, Quum Deum loquutum esse con stal, cuncta silento. Huic metaphisicą, certitudo numquam refragator: sed si per rationem liceat, demonstrationes ad calculum revocato; * vel si Dei vera bum explicatione egeat, Ecclesiam in, fallibilem eius interpretem con sulit o. * Referentes nồs ad ea, quae diximns, quia demonstratio Dei verbo repugnans fal sa est, dummodo intra rationis fines quaer stip sit rationes,iterum conficiautur, e de Cap. IX. De. Methodo. 181 monstrationes ad calculum revocentur, ut adpareat, undenam oppositio illa ortum duxe rit, principiisne dubiis et incertis,, an a defectu legitimae connexionis? * Ratio huius canonis haec est, Onnis lex eiusdem Legislatoris spiritu est explican da Si enim leges humanae difficultate aut: ob scuritate aliqua laborent, earum explic atio et interpretatio tantum a Legislatore, eius que Administris est petenda, non a pri vatis Doctoribus proprio marte cudenda. Quan to magis ergo Divina lex quae verbo Dei con tinetur, ab eo qui eiusdem Dei spiritu gau det est explicanda. Ecclesiam autem Dei spi șitum habere, patet ex ipsis Servatoris no stri verbis Matth. ult, ubi Apostolis ait Ec ce ego vobiscum sum omnibus diebus usque ad consumationem saeculi. Et loan. XVI. 18. Cum, venerit ille Spiritus veritatis (Pa. raclitus ), docebit vos omnem veritatem. Quid quid ergo Ecclesia pronuntiat, assistente su premo animarum Pastore Christo, et docente Spiritu Sancto pronuntiat; adeoque per eana Deus ipse suum interpetatur verbum 182 Logica Pars. Į1. G A PUT QVARTV M De Methodo. 138. Vum in demonstrationibus con clusiones ex certis principiis per legitimam ratiociniorum seriem dedu ci debeant; illa vero series arglimentorum METHODVS dicatur: non abs re brevem hanc de metho do tractationem doctrinae de demonstrationis bus subiungiinus. 139. Quilibet experiundo agnoscere po - test, enunciationis cuiusvis veritatem du plici modo detigi posse, scilicet vel eam dividendo, et ope analyseosed prima simpliciaque principia perveniendo, vel componendo idest, principiis ad conclu siones sensim ac legitimo nexu progre. diupdo. Vnde clare patet, methodum esse vel ANALYTICAM sive divisionis, vel SYNTHETICAM seu compositionis. * Methodus ergo anulytica a principiatis ad principia, synthetica a principiis ad princi piata (uti Scholae aiunt ) procedit. Dla composita resolvit. haec simplicia componit, Rem exemplis illustrabimus. Ad demqnstran dam enunciationem alibi (S. 131, ) allatam? Deus earet adfectibus: analytice ita ratio cinabimur. 1. Quicumque caret appeti tusensitivo, caret @ap. IV. De Methodo, 183 etiam affectibus (per defin. aff. ): atqui Deus caret appetitu sensitivo; ergo Deus caret affectibus. a, Min. prob. Quicumque caret repraesentatio nibus confusis, caret quoque appetitu sensi tivo (per defin. app. ): Deus vero caret repraesentationibus confusis, ergo Deus ca. ret appetitu sensitivo. 3 Min prob. Quicumque omnia sibi distinctist sime repracsentat, repraesentationibus caret confusis (est axioma ): sed Deus omnia si bi distinctissime repraesentat: caret ergo repraesentationibus confasis. 4. Min. prob. intellectu gaudens perfcctissi mo omnia sibi distinctissime repraesentat (per defin. intell. Quum igitur Deus gau deat intellectu perfectissimo: omnia sibi distictissime repraesentat 5. Min. prob. Ens perfectissimum intellectu gaudet perfectissimo (est axioma ): Deus autem est ens perfectissimum (per defin. Dei ): ergo Deus gaudet intellectu perfe ctissimo Eamdem propositionem synthetice demonstravi mus ($. 131. * ). At in gratiam Tironum, quos ad Philosophiam manuducere instituimus, aliam adhuc dabimus demonstrationem, bre vem illam, at mathematico more confectam hoc modo: THEOREMA, Deus caret affectibus. DEMONSTRATIO. Est enim ens perfectism simum (defin. 1. ), cuius est intcllectu gaudere perfectissimo (ex 1. ), qmniaque 184 Logica Pars ir. sibi distinctissime repraesentare (defin. 2. ) id quod omnimodam ab eo idearum confu şionem excludit (ax. 2. ), Quum itaque ab idearun confusione pendeat appetitus sen sitivus (defin. 3. ) ', cuius vehementiores motus dicuntur affectus (defin. 3. ): iure colligitur, Deum omnino affectibus carere. Vides hic, quam bene monuerimus in fine primae partis, maximum atque insignem esse usum syllogismorum in conficiendis mathema ticis demonstrationibus: atque hinc patet, quam inepti ad demonstrandum sint ii, qui syllogisınıim eiusque leges negligunt, et igno rata vituperante 140. Quoniam methodus analytica a dif ficilibus ad facilia, a compositis ad sim. plicia progreditur (s. 139. ); synthetica vero a principiis ad conclusiones (S. eod. ) conséquens est 1. ut illa in veritate inve nienda, haec in alios docendo adhibeatur; * adeoque 2. eruditorum reprehensionem in currant qui ip docendo illam potius, quain hanc sequi amant. Et quia feracior illa est, haec sterilior **: novit quisque 3. docendi ordinem id exigere, ut post quan auditoribus synthetice veritas fuerit explanata, iisdem "analytice modus. indi cetur, quo fuit ab auctore inventa. Analyticam enim methodum in docendo ad bibere idem esset, aç opposita et difficili ti 9 Cap. IV. De Methodo. 185 rones ducere via, eosque ad veritatem vel numquam, vel raro admodum pervenire ** Feracior quidem est analytien methodus quia singula ad examen revocat, minuta quae que considerat, atque possibiles omnes fin git casus, inde ab hac quasi sylva conserta, enodatis extricatisque ambagibus, ad rem ipsam perveniat; synthetica vero sterilior, & generalibus namque principiis brevi atque ex pedita via pergit conclusiones. Eadem autem ratione illa difficilior, haec facilior est: adeoqne illa viatori tramitis inscio, qui di vinando et om nia tentando difficiliter quo tedebat pervenit: haec eidem perito similis, qui brevi apertaque via iter conficit, et finem ideo suum cito consequitur, 541. Iam ad melhodi leges, tum utri que communes cum alterotri peculiares, tradendas acMilanius. Eas aliquot complc clemur regulis; quarni quinque genera les, ceterae vero speciales sunt, analyticae praesertim methodo inserviturae. Quicum que igitur veram: methodum in veritatis investigatione cailere cupit, hos rigides servet. 186 Logica Pars. II. CANON E S. I. Q Votiescumque ad demonstrandum accedis, cur ato, ut a facilibus notisque incipias, indeque ad ignota et difficilia gradatim progrediaris. Prin cipia itaque solida, ideasque selig ito medias, atque ea semper cordi habelo * Est haec lex, quam inculcavimus ($. 130. ) et alibi retulimus. In -singulis ratiocinationis gradibus eamdem semper servato evidentiam, ut altei um ab altero derivari clare sentias. * * Ita vitabitur paedantismus, hoc est inutile illud memoriae pondus iudicio destitutum, et in minimis quibusque sectandis vanam quae ritans gloriolam, de quo vide supra Part. I. Cap. 3. Schol. Can. 4 3. Stilo utitor facili, ac naturali, non oratorio vel ampulloso. Verborum tantum, quantum ideis clare exprimen dis satis est adhibeto: nec, nisi in ideis claris, quidquam tentato. * Verborum enim copia ignorantiae confusioni sve indicium est: quae namque ignoramus vel confuse scimus, ea nimia verborum cir cuitione explicare cogimur. Cap. IV. De Methodo. Argumentum pertractanduſ ab am biguitate, si quafuerit, liberato prius; deinde in tot membra dividito, quot ca pax est: singula attente examinato ac definito: * omnia clarissimis explica to verbis, ac quaestione quam simplicis sime exprimito. * Prae oeulis tamen habeantur, quae de de finitionibus diximus Verba: quce obscuritatis aliquid habent, adcurata definitione dctermina to, in eoque semper sensu adhibeto. * Confer quae diximus SS. 5. 46. De methodo analitica livec habeto: 6. Ad veritatem inveniendam, quae stionemve solvendam, ne nudus princi. piorumque inscius accedito: num sorida cognitione ad id paratus advenias, se dulo perpendito. * Sinamque incapax principiisque destitutus rem aliquam adgrederis, fieri non poterit, quin inepta et ridicula effutias. 7. Quaecumque cum proposita quae stione aliquam habent connexionem di 88 Logica Pars II. ligenter exquirito: omnes possibiles ti bifingito hypotheses: quaecumque ei lu men adferre possunt, ne rciicito sed Omnia simul colligito et comparato. 8. Principia quaeque atque ideas mutuo conferto: omnium relationes perpendito efinesque sectator, eaque, superflua de mendo in parvum referto numerum. Omnia deinde corrigito diuque considera to, ut tibi familiaria fiant. * Speciatim vero principiis diu haereto. Repetitione namque attentio renovatur ius ope ideas meliores fieri docuimus F. 19. Schol. Quas de syudetica methodo tradenda forent, ea partim a nobis incul. cata sunt, partim infra, ubi de modo alios docendi sormo erit, enodabuntur. Si quis autem metho dum hanc callere cupiat, is Christiani Wolf fii tractatum de methodo mathematica, universae Matheseos elementis * praemis-. sibi curet reddere familiare CU sum * Exstant haec 5. voluminibus in 4. excusa Ha lae Magdeburgicae. Cap. V. De Veritete Probabili. GA P VT QUIN T V M De Veritate probabili -542. o 142 Eritatein dici certam mnia adsunt requisita quamcum que oppositi formidinem excludentia, su pra docuimus. At intellectus nostri infirmitas persarpe impedimento est, quo minus nobis illa veritatis indicia pa. teant ita, ut veram absque ulla oppositi suspicione perspiciamus. Hinc ergo est, cur in praesenti capite de probabilitate, quantum satis erit, dicere instituerimus. Est autem PROBABILITAS status mentis ex indiciis insufficientibus verita ti adhaerentis, cum aliqua tamen op positi formidine, PROBABILIS ergo di cilur enunciatio in quc adest ratio in sufficiens, cur praedicatum subiecto tri bu atur. * Ita Cicero pro Milon. cap. 10 probabilibus argumentis probat, Clodium Miloni insidias struxisse. Ait enim: Clodium dixisse, Milo nem esse occidendum; 2. eum Miloni neces sarium iter Lanuvium facienti obviam ivisse, 3. idque itinere effecisse maxime expedito, et praeter consueludiuem; 4. servos cu: n les lis ante fundum suum collocasse. Probat id 190 Logica Pars I. esse > in quidem, sed probabiliter, insufficientibus quippe indiciis, adeo ut aliqua adhuc adsit oppositi formido. Ex quibus definitionibus clare de ducitur 1. eo probabiliorem esse proposi tionem, quo plura adsunt veritatis indicia 2. dici vero DVBIAM, si ex alterutra parte aequalia fuerint rationum momenta, adeoque 3. IMPROBABILEM qua paucissima inveniuntur; quibusque e contrario fortiora indicia opponuntnr; 4. omne probabile, esse quoque possibile, quamvis 5. non omne possibile dici pro babile possit. * Probabilitas enim supponit possibilitatem: quum enim probabilitas veritatis alicuius exsi sicntiam indicet, exsistere vero nequeat, cui deest possibilitas, liquet, tunc de pro. babilitate qnaestionem institui posse quum rei possibilitas firmata sit: ut ita qui eam esse im possibilem demonstravit, uihil aliud oneris habeat, omnemquede probabilitate contro versiai tollat. Possibilitas autem non infert probabilitatem: nam quum possibile sit, quod non involvit contradictionein (per princ. Onol. ), non ideo probabile dici potest, nisi quaedam adsint circumstantiae, quae id revera exsislere evincant. 145. Quia dantur enunciationes probabi les, sillogismus autem propositionibusconstat: liquet 6. Cap. V. De Veritate Probabili. 191 dari quoque syllogismum probabilem. Et quia couclusio sequidebet partem debiliorem; debilior vero est pro positio probabilis, prae certa: consequens est 7. ut conclusio sit probabilis, si alte rutra praemissarum talis sit. Sed quoniam conclusionis vis est aggregatum virium praemissarum (s. 82. seqq. ), infertur 8. ut si utraque praemissarum sit probabilis, conclusionis probabilitas minuatur pro sum ma graduum, quibus illae a certitudine recedunt. * Denique quum demonstra tiones coficiantur ex syllogismis concatena tis, quorum unus ab altero vim sumit: evidens est 9. integram de monstrationem, in qua vel una probabi lis propositio irrepsit, non esse, nisi 7 pro babilen. * Certitudo namque in philosophicis se habet, ut aeqealitas in mathematicis. Sicuti ergo ae qualitatis nulli sunt gradus, ita et certitudi nis. Probabilitas autem maior est vel minor provt minus magisve a certitudine recedit,ut et inaequalitas servata proportione. Ponamus ergo certitudinem constare gradibus 12. Si una prae missarum tantum certa sit, altera duobus gradibus ab ea recedat, habebimus conclu sionem probabilem duobus dumtaxat gradi 192 Logica Pars II. Io bus a certitndine distantem: tunc enim ma ior erit Ei, minor -, quibus addie tis, babetur in conclusione summa = 2. quae duobus tantum gradibus ab unitate, sive certitudine diftat. Ponamus porro prae missarum unam ita probabilem esse, ut duo bus gradibus a cerit udine deficiat, altera ve ro tribus; habebimus conclusionem sive summam fractorum et E quae quinque gradibus ab uuitate pe a certitudine recedit, quot deerant in am babus praemissis. Dem. 146. His generatim expositis, ad pro babilitatis species transeamus. Probabilitas recie dividitur ib HISTORICAM, PHYSICAM, POLITICAM, PRACTICAM, et HERMENEVTICAM. De singulis pau ca delibabimus. A probabilitate differt OPINIO, quae est propositio insnfficienter probata, scilicet a principiis nondum certis, et precariis dedu cta, quae ideo est mutabilis, ac proinde po test ut plurimum esse falsa: unde opinio di viditer in PROBABILEM, et IMPROBA, BILEM, prout principia sunt prout princi pia sunt probabilia, vel precaria, omni nem pe rationis auxilio destituta. Sap. 7. De Veritate probabili. He completanarratio eae De probabilitate historica. SISTORIA, est factorum fidelis et. Eius au ctores sunt homines: fidem ergo parit hu mapam. Homo vero factum aliquod fideliter et complete narrans, HISTORICUS vel TESTIS dicitur. Sed quia aliorum narrationes neque experientia, nec demonstratione ad examen revocari possunt ob vitae intellectusque nostri brevitatem mentisque imbecillitatem, nec de omnium probitate certo constare potest: quando ` id in sola opinione versetur, non certitudinem, sed probabilitatem in nobis gignunt. Quumque hominum aucto ritate freti adsensun historiae praebeamus: evidens est, historicae probabilitatis funda mentum esse fidem humanam. * Ut autem narratio historia dicatur, dcbet non modo esse fidelis, hoc est res clare, eoque, quo contigerunt, ordine narrare, sed completa etian ', omnia scilicet factorum adiuncta, circumstantias, relationes, caussas; et fines amplecti.Hinc Cicero Historici perinde, ac Oratoris dotes paucis expressit, nempe talem esse debere ne quid falsi dicere audeat ne quid veri non audeat.Quia fides aliorum testimonio in nititur, estque fundamentum pro babilitatis historicae; homines autem ob ignorantiam malitiamve, aut fal li aut fallere possunt, ut experientia testa tur: consequens est, ut ad adsequendam probabilitatem historicam cautiones quae dam adhibendae sint, quibus testium an ctoritas, factorum genuinitas, natrationuin qucque veritas dignoscatur. eam * Hinc ergo enata est ARS CRITĪCA, sive habitus aliorum auctoritatem ad trutinam re. vocandi, recte adhibendi, factaque scienter ac sine erroris nota dijudicandi:Tapinps 1 namque indicium notat. Et quamvis artis cri ticae officium, vulgarem sequuti opinionem, infra ad solum librorum examen atque in terpretationem restringamus; non ideo no bilissimam hanc artem cancellis adeo angu stis coarctare volumus; sed quidquid de usi auctoritatis, rernm gestarum examine ac in dicio dicenda sunt, ea ad artem criticam: pertinere, qnisque sciat: id quod semel pro sem per observandum. 119. Quia ergo in omni narratione tria considerari possunt; narrans nempe, bar ratiun, et ipsa narratio: hinc est, ut in fide humana ad tria potissimum attendi so leat, scilicet i. ad homines narrantes, ad res narratas, 3. ad modima parran di. * Ab hominibus nunc ordiamur. * Atque in his, quae sequuntur, regulis tam historicam, quam hermeneuticam probabilita tem respicientibus, nedum librorum genui nitatem integritatsmve expendentibus, gene rales totius críticae leges ad singulares spe cies et circumstantias adplicandae consistunt, in quibus addiscendis eo maiorem operam collocare debet, qui philosophi nomen tue ri cupit, quo frequentius in evolvendis li bris, factisque diiudicandis erit ei, re exi gente, versandum, Quoniam hominibus, licet eadem natura, non cadem tamen est perspicacia, mcrumque probitas, nec omnes iisden sensibus eamdein rem percipere possunt (per cxper. ); hoinnes autem factum aliquod narrantes testes vocantur 147. ): patet in quolibet teste tria concia derari posse, scilicet INTELLECTVM, VOLUNTATEM et SENSUS, Si intellectus spectetur, testesa sunt vel PRVDENTES ac PERSPICACES, yet RVDES et IGNARI; si VOLVNTAS,idem sunt vel NEVTRI PARTI, vel VNITANTVM faventes, itemque vel PROB!, vel IMPROBI; si denique SENSVS, sunt vel I 2 ATI 196 Logica Pars II. OCVLATI, qui factum quod narrant ocu lis perceperunt, vel AVRITI, qui illud ab aliis audiverunt; et hi denno vel Co AEVI sunt, qui eodem facti tempore vi xerunt, vel RECENTIORES qui id postea ab aliis acceperunt.  Sic Livius inter testes prudentes est referen dus: multo namque po!lebat iudicio. Idem tamen Romariorum parti favebat, quippe Romanus et ipse. Tandem factorum, quae sua aetate evenerunt, testis coaevus, eorum autem, quae ante conditam condendanıve urbem, ac per tot saecula ad sua usqne tem posa accidisse tradebantur, recentior dicen dus est. 152. Ex quibus omnibus patet 1. in fa cti alicuius narratione, quod attentionem iudiciumque requirit, homines prudentes et perspicaces rudioribus ignavisque esse antehabendos; promiscue vero se habe re in rebus solis sensibus, non etiam iu dicio, indigentibus, dummodo in illis af fectus partiumve studium non metuatur: tunc enim rudiorum testimonium proba bilius erit; 3. testes neutrales alterutri parti faventibus recie pracferri, nec non 4. oculatos auritis, 5. coaevos recentiori. bus,  inter auritos autem prudentes ru dioribus, eos tamen, ad quos ex oculato Cap. IV. De Veritate Probalili. 197 nullam esse, fide digno magnaque auctoritate pollente facti fama pervenit, ceteris incerto alio. quin rumore ductis esse anteferendos, ac denique 8. coaevi testimonium plurium contestium narratione augeri, cui nescio quidnam ad probabilitatem ultra deesse possit, 153. Quod altinet ad res ipsas narratas síve facta; observandumu 9. probabilitatem si circumstantiae adsint sibi invicem repugnantes;nihil enim impossibi le potest esse probabile (S. 144. ); 10. nullam quoque esse probabilitatem, si testis unicus factum aliqnod insolitum et mira bile narret: licet 11. probabilius id ha bendum sit, si a pluribus probatae fidei viris unico contesta narretur; 12. nulla itidem probabilitate gaudere, narrationem, quae claris rationibus -aperto repugnat; 13. non idem tamen dicendum de ea, quae moribus opinionibusque nostris ad versatur, *** nec 14. si caussa modusque ignoretur, aut vim artemque nostram su peret. Sic pleraque prodigià ab uno Livio narrata nullam merentur fidem, utpote omni proba bilitate destituta: veluti quod scribit Lib. 1. ca. 12. post pugnam Romanorum cum Albanis, Tullo ' Hostrilio Rege 1 factam, I 3 198 Logica Pars. II. in Monte Albano lapidibus pluisse; vel quando, Tarquinio Prisco regnante, Au guris Attii Nevii cotem novacula discissam refert Lib. I. cap. 25.: id enim mirabile quidem et insolitum, sed a Livio tantum relatum. Qua de re iure idem Historicus de his, fimilibusque factis improbabilibus vocabulo ferunt fidem suam sartam tectam servat, non modo singulorum narratione, sed et in historiae suae proaemio, ubi cas ideo nea adfirmare, nec refellere velle fatetur, ut potc poeticis magis decora fabulis, quam incor. ruptis rerum gestarum monumentis confirm mata. nempe Lu nam ** Huiusmodi sunt fabulae illae, quibus Mu hamedanum scatet Alkorauum, a Muhamede bifarian digito divisam partemque in vestis manicam delapsam iterum in coelum repositam; palmae eiulatus in eius absentia, et id genus alia. > *** Sunt enim, mores pro regionum ac tem porum varietate, varii. Quidquid ergo mori bus nostris turpe est, fortasse apud alias Gentes honestum erit, et quod nostro sae culo nefas habetur id licitum esse alio: tempore potuit. Quis enim ut cum Cornelio Nepote loquamur, non vitio verteret The bano Epaminondae, saltasse eumcommode scienterque tibiis cantasse? Et tamen haec aliaque nostris moribus indecora inter eius virtutes commemorantur. Nepos. in Proem. Cap. V. De Veritate probabili. 199 154 Quoad modum narraudi tandem, id sedulo advertendum, facta stilo simplici non oratorio aut poetico, narrari debere. Si itaque simpliciter atque historice nar ratio scripta legatur, maiorem meretur lidem, quam quae poeticis pigmentis aut oratorio fuco lasciviens aures demulcere conatur. SECTIO II. De Probabilitate physica, politica, et practica. 153.TJAEc de fide humana, quam qui ritatis praeiudicio occupatus conseri debet. Ad alteram nunc probabilitatis speciem ac Milanius, nempe PHYSICAM; quae ha betur, quum ex pluribus phaenomenis ad caussam aliquam physicani concludimus, cui illos tribuimus effectus. Gravesandius eas vocat hypotheses. 8 Probabile est, fluxum maris à lunae solisque attractione pendere: nam ex plurie. bus phaenomenis hanc illius caussam ess posse, compertum est. Ad physicam probabilitatem eruen dam quatuor adhibendae sunt cautiories: 1. ut phaenomenon adstumtum sit certum, eiusque distincta idea, aut clara saltem, habeatur, ne chimaeram pro re, aut nu bem pro Iunone amplectamur; 2. si phae nomenon illud sit ab alio relatum ad historicae probabilitatis regulas, tamquam ad lydium lapidem, exigatur: 3. eius porro caussae omnes pose sibiles investigentur, et.cum phaenomeno conferantur; ac denique 4. ex iis una plu resvc adsumantur, quae cum omnibus cir cumstantiis apte conveniant. * Quum autem doctrina haec ad Physicam fa cultatem pertineat: sufficiat de ea quaedam tantum hic notasse: commodius enim in Phi. sica tractabitur. POLITICA probabilitas ea est, qua ex alicujus personae phaenomenis in dolem animi arguimus. ' Quumque in ex propensiopuni signis ad ipsas propen siones concludamus: evidens est tracta tionem hanc ad Ethicam potius, quam ad Logicam pertinere: adeoque non mirum, si eam inoffenso pede oniittamus. ea Ut clarius politica probabilitas intelligi pos sit, sumamus e. g. aliquem, in quo vultus hilaritas, iocandi studium, corporis mobi litas, laboris impatientia, prodigalitas', in constantia, garrulitas etc. observentur: non ne eum statim voluptati deditum esse con Cap. V. De Veritate probabili. cludes: Haec erit probabilitas politica. Lega tur interim Cl. Heineccii dissertatio: Dein cessu animi indice. Quae de probabilitate PRACTICA dici inerentur, ea fusius persequuti sunt Andreas Rutigerus in Lib. de sensu peri et falsi. III. 8., et Ludovic. Mart. Kallius in Elementis Logicae probabilium Nos paucis rem expediemus. Eam Rudige rus vocat, qua ex physicis vel moralibus principiis futurum aliquem praedicimus even tum. Quod quum in practica casuum si milium expectatione consistat, eaque ex pectatio vocetur analogia evidens est practicam probabilitatem recte adpellari ARGUMENTUM AB ANALOGIA; id quod maximo apud Politicos usui esse solet. * * Politici namque in gubernandis rebus publi cis probe versati probabiliter unius aut alterius Regni praedicunt eversionem, propte rea quod aliae res publicae post easdem cir cumstantias subversae sint: adeoque a simi Jium casuum exspectatione practicam eruunt probabilitatem. CA habetur, quum a quibus dam in Auctoris scripto obviis eius sen. surn eruimus. Saepe enim accidit, ut in auctoris alicuius interpretatione quaedam occurrant, quae multiplicem sensum ad mittunt: tunc ex auctoris fine, verborum significatione, locorumque collatione pro babiliter colligitur, quidnam auctor ille voluerit intelligere, idque fit ope ARTIS HERMENEUTICAE, quae definiri potest per habitum Auctorum loca interpretan, di, sive eorum sensum eruendi. SENSUS AUCTORIS est ceptus, quem scriptor vel loquens vult in legentium auditorumve animis per ver ba produci. Auctorem ergo interpretari dicimur, qumun ex legitimis principiis eius sensus investigamus. Et quia ars hermes neutica est facultas auctorum loca inter pretandi; consequens est 1., ut eius sit genuinum auctoris sensum erue Te; adeoque 2. regnlae tradantur, opor tet, quarum ope sensus ille quam proba, bilius investigari possit, соп Cap. v. De Veritate,probabili. 203 Quumque in his regulis totius Hermeneuticae adeoque et Criticae artis leges Auctorum in terpretationem respicientes pofitae fint: non mirum, si a canonibus huic sectioni subii.. ciendis abstineamus, quippe qui superflui omnino forent, et loquacitatem potius, quam logicam praecisionem arguerent. Quoniam Scriptoris sensus perver ba significatur: colligitur in de 3. ut interpres linguam, qua scriptor conceptus suos expressit, eiusque idiotis, mos probe calleat: adeoque patet 4. falli eos, qui linguam illam ignorantes aliorum versionibus translationibusque fidunt; 5. ut ad scriptoris sectam, finem, affectus,mu nus, aetatem, gentis suae mores ' attendat: unde 6. integrum Auctoris systema prae oculis babeat, ac de eo secu dnm dome sticas notiones, non ex propriis opinioni bus, iudicium ferat., quid > * Praeclare id monet Clericus Arte Critica Part. Il Sect. 2. cap. 2. $. 7. et 8. Opor tct, inquit Vir eruditissimus, nostrarum opi nionum veluti oblivisci, el quaerere, veteres illi Magistri senserint non quod sentire dcbuisse nobis videniur, ut sape rent. 162. Ex eodem principio fluit 7 inter pretein affectibus, praeconceptisque opinionibns omnino vacuum esse debere; nee 8. Auctoris verba extra contextum legere aut considerare, sed antecedentia et con sequentia attente conferre: multoque ma gis y. loca parallela auctoris eiusdem sol licite comparare, ut quod obscuritatis ir, repserat, statim evanescat. Quumque ad cognitionis claritatem ac distinctionem om ne momentum ferat attentio (m. 19. ): sequitur 10. ut qui librum aliquem probe interpretari vult, eum attente atque ordi ne legat, et codicem habere ' curet quam emendatissimum. ' * Quantum ad librorum interpretationem con ferat editio, ratio in promptu est. Videmus enim, quam multis scateant erroribus edi tiones quaedam ab indoctis ignarisque con fectae typographis, ut Delio saepe notatore opus habeant. "Nitidissimae prae ceteris sunt editiones a Viris claris, qui id oneris susce perunt, effectae, quibus multum iure merita debet Respublica litteraria, Cop. V. De Veritate probabili. Uoniam magno Hermeneuticae adiumento est Ars Critica: non abs re fuerit, pauca de hac illustri arte haud contemnenda degustare. Quam bene de ea meritus sit Vir multiplici eruditione praeditus Ioannes Clericus, communi sa pientum consensu probatur. Nos eius du ctu regulas saltem generales nostris audi toribus trademus ut quantum fieri pote rit, libros genuinos a nothis, integros a corruptis discernere valeant. Res quidem foret laboris plenissima et satis prolixa, si Critices distincte praecepta trade re conaremus. Id adcurate cxsequutus est Clericus, quo'nemo elaboratius eam pertra ctare, operaeque pretium facere posset. Nos autem tironibus scribentes, notiones maxime genericas jis suppeditare adlaboramus; quia, quum perfectum fuerit ipsorum iudicium, et matura aetas, omnia, quae hoc super argu mento scienda forent, in eodem Clerico legent. ARS CRITICA est habitus libro Fum genuinitatem et integritatem diiudi, 20 Logica Pars I. Candi. * Quae definitio ut intelligatur, oportet claras notiones genuinitatis, et in tegritatis librorum in legentium animis excitare. * Notandum tamen hic Crilices vocabulum strictissimo iure usurpari', regulasque ea in re generales tironibus suppeditari: latiori Damque significatione tam historicam proba bilitatem, quam hermeneuticam amplectitur, de quibus per summa capita praecedentibus sectionibus sermonem instituentes praecepta, yeluti per lancem saluram, ex hibuimus. Earum. LIBER GENUINUS dicitur, qui ab eo, cuius nomen prae se fert,-. fuit exaratus; SUPPOSITUS autem, qui ab alio, quam cuius nomine insignitúr, scripius est. * Liber dicitur INTEGER, si tantum contineat, quantum Auctor in eo descripsit, CORRUPTUS vero al quid ab alio additub sit, vel demtum: speciatin Viro si additum INTERPOLATVS; sin den tuni, MVTILVS appel. latur. si 2 * Dici quoque solet spurius fictus vel fictitius: liniec vocabula ab aliis distinguantur. Sed non est idoneus huic quaestioni locus, Cap. V. De Veritate probabili. 2014 * Huius corruptionis quatuor caussas tradit Clericus: nempe Librarios (dictantes perin de, ac scribentes ), Criticos, impostores, tempus. Satis erit haec generatim scire guia singillatim percurrerenon vacat. 166. Criticae leges ab eodein Clerico de cem adisignantur. Eas nos sequentibus ex ponemius regulis, quas philosophus nos ter observabit. Sequantur ergo. CANONES t. " S " ppositum habeto librum, qui in vetuslis codicibus alii tribuitur Auctori; interpolatum, si in aliis de sideretur, quod in eo reperitur; muti lum denique, si quae in ipso desunt in antiquis codicibus inveniantur. 2. Si a veteribus quaedam a libro ali quo exarata sint, ea vero nunc in li eadem inscriptione. insignito deside rentur: aut alius esto, aili muiilus. Si aliter legantur, suspeciels. Si vero omnia aptu cohaereant, genuinus esto et inte ger, nisi alia adsit ratio dubitandi. 3. Liber, cuius nulla fit inentio in veteribus catalogis, aut a scriptoribus proxime sequentibus, plerumque fictus esto, cut saltem suspectus,. 209 Logica Pars I. > 4. Scriptá a veteribus diserte reiecta, aut in dubium vocata, nequit recentio, rum auctoritas, nisi gravissimis rationi. bus,, pro genuinis admittere. 5. Liber dogmata continens iis con trária, quae scriptor cuius nomen praefert, alibi constanter defendit, ut plurimum aut spurius esto, aut interpo latus. 6. Idem iudicium ferto de eo, in quo personae, facta, uut nomina com memorantur Auctore, cui tribuitur, recentiora. 7. Spurium quoque aut interpolatum iudicato librum in quo controversiae tractantur post Scriptoris tempora na tae, vel adest scriporis imitatio. 8. Talis quoque ut plurimum esto si fabulis scatens, aut ineptus, viro docto minimeque imperito tribuatur. 9. Liber stilo scriptus diverso a stilo Auctoris aut saeculi, in quo ille vixit, spurius esto, eiusque censendus, ius stilo est conformis. In. Vocabula recentiora Auctorem arguunto recentiorem, aut libri interpo Talioncm: in translatione vero, si ni hil est quod sapiet linguam, in qua scripsisse constat Auctorem, cui tribyi: utr, translatio non esto, cu * Cap. V. De Veritatc probabili. 209 * Pluribus hanc doctrinam persequi deberemus, idoneisque illustrare exemplis: sed res est maximi momenti, et nimis implicata, nec in stituti brevitas eam disquisitionem patitur. Quivero plura cupit, adeat Clericum in Ar te Critica, ubi plurima inveniet suo gustui. adcommodata. Id interim notasse sufficiet, in hisce omnibus ad praxin adplicandis ma gna cautione opus, esse ne in praecipitan tiam, adeoque in errores prono cursu la bamurSendus pecialior Logicae usus nunc evol vendus, nempe PRAXIS, qua mentis nostrae operationes sint in verita tis investigatione dirigendae.Veritas inveni tur vel proprio marte, sive per meditatio nem rite institutam; vel ab aliis inventa quaeritur et ud trutinam revocatur. Quia vero nec meditationi, nec bonae lectioni par est, qui hasce lautitias nondum degus tavit: Logicae est regulas suppeditare quibus mapuducti adolescentes et recte mea ditari, et libros cum fructu legere dis cant. Quumque nostrum sit auditorum nos trorum utilitati studere: de duobus his veri tatem inveniendi modis hoc capite agemns. MEDEDITATIO est conformis co gitationum nostrarum bonae methodi legibus adplicatio. Meditamur itaque, quum cogitationes nostra's bonae methodi legibus g. 138. seqq. ) ita dirigimus, ut veritates ex veritatibus, co gnitiones ex cognitionibus eruamus. Ex qua definitione sequitur 1. ait quantum diſfert regula ab eius adplica tione, tantum optima methodus a medi tatione distet,. meditaturus leges quibus bona methodus absolvitur (S. 141. ), callere debeat; adeome 3. eo felicius meditetur, quo exactius leges illas esequitur; nec non 3. aliquarum saltem veritatum debeat es se gnarus, ut ex ijs veritates aljas erue re legitime possit (S. 167. ). 5. Tirones ergo, aliique bonae methodi, veritaium que ignari ad meditandum sunt inepti. * Cui enim serei principium deest, nullo mo do seriem ipsam, hoc est veritatum catenam conficere potest. Pari modo qui concatenationis leges ignorat, quantumvis veritatum mente te *} Cap, VI. De Veritat. inquisitione. 211 neat, nec illas recte disponere, nec ordina tam seriem formare valet. 170. Quia ad bonam methodum requi ritur idearum claritas (5 141. cap. 3. ); ad claritatem autem confert attentio (S. 19. );consequens est 6. ut qui feliciter meditari vult, attenitonem praecipue colat; quin 7. et praeiudiciis liber et 8. certis indubiisqoe principiis (S. 131 ) praemunitus ad meditandum accedat. Quum que ad principia referantur praecipue de finitiones (f. eod. ): recte consequi tur 9. ut res de qua institui vult mcdi. tatio, edcurate definiatur, f. 141. cap. 5. ), ac inde novis definitionibus omnia dividantur. El * Serventur tamen, quae de definitionibus (Par. I. Cap. 3. ), et divisionihu:s (Cap. 4. ) docuimus, et quomodo definitiones ex ex perientia eruantur. quoniam inter principia etiam axiomata et postulata enumerantur (S. 130 ), eaque es definitionibus legitimue eruuntur: liquido infertur 10. medita turo innotescere quoque debere modum ex definitionibus axiomata eruendi, * ut om nes principiorum species probe tencat. Quonam autem modo ex unica definitione ar. iomata et postulata formentur, hic adden dum. Tribus quidem modis id effici posse certum est: scilicet PARTIS OMISSIONE, nempe quum genus vel differentiam specificam omittimus. E. g. ab hac definitio ne: Invidia est taedium ob alterius felicita tem, omitte genus, et habebitur axioma: Invidia respicit felicitatem alterius: omitte differentiam, eritque aliud axioma: Invidia est taedium 2. INVERSIONE, si definitio in definiti locum substituatur. E. g. Qui er alterius felicitate taedium percipit est invi. dus 3. CONVERSIONE, si aientes pro positiones in negantes convertamus E. g. Qui ex alterius felicitate non percipit taedium, -non esi invidus; vel eum, qui non est in vidus, alterius feliciiaiis non taedet. Postu lata eadein ratione conficiuntur, si nempe modus exprimatur, quo quid fieri potest: sed ea melius ex realibus, quam ex nomi nalibus definitionibus deducuntur. Sic ex ea dem definitione habebis postulatum: Invidia excitatur, si invido alterius felicitas reprae sentetur. 172. Praestructis ita principiis, opor tet il. ut ex eorum collatione THEO REMATA, vel PROBLEMATA compo nantur, j 12. et unde consequentiae im mediatae sese offerunt, COROLLARIA deducantur, vel 13. ubi maiori explicatio ni locus erit SCHOLIA subiungantur. De Veritatis Inquisitione. 213 Est enim Theorema propositio theoretica de monstabililis, demonstratio autem ex principiorum collatione conficitur, ut videre est in superioribus Cap 3. Sect. 2. et Cap. 4. Hoc modo ex principiis (§. 171. * confectis erui poterit theorema: Invidia oritur ab odio, et similia. Pari mo do quia Problema est propositio practica, eius solutio et demonstratio ex eorumdem principiorum collatione petitur. Ita ex eisdem principiis orietur problema: Juvidiam in altero excitare; cuius solutio haec erit Invidia ex odio nascitur. Fac er go ut is, in quo invidiam excitare vis, ala terum odio prosequatur, cuius inde felicita tem ei ostende: ex ea namque taedium per cipiet, adeoque in eo invidia excitabitur. Corrollaria vero tam ex indemonstrabilibus, quam ex demonstrabilibus enunciationibus des duci possunt. Sic ex superioribus axiomatis varia oriuntur corollaria, veluti ergo qui tae dii non est capax, invidus esse non potest: item ex postulato: ergo ubi non adest feli citatis repraesentatio, locum non habet invi dia ex secundo item theoremate ergo qui alterum amat, ei non invidet; atque ita porro. 173. Haec omnia vero praecepta, ut aemoriae infingantur, brevissimis ample temur regulis, quas, qui sequuntur, shibent 214 Logica Pars II. CANONES. ANicquam meditationem instituas, ipsam quantum natura ipsa fert, exa cte dividito. 2. Ex definitionibus axiomata, item postulata deducito, atque ab his per im mediatas consequutiones corollaria con ficito. 3. Plura principia vel antecedentes propositiones mutuo conferto, et sic theoremata vel problemata efformabis, ex quibus, quae haberi poterunt, erues consectaria. 4. Propositiones - inventas bona me thodo legitimoque nexu comparato, et id agito, ut omnia per demonstratio nes apte cohaereant. 1 * Ita novae orientur veritates, novaque semper ratiocinia fluent. Perinde ' vero est, qua met hodo ratiociniorum series in ordinem rediga tur, modo regulae alias ($. 141. ) propositae rite observeutur. Scol. Sint haee satis de meditatione, ei usque legibus, quae numerosias protra here non fert instituti compendium. Qui Cap. YI. Da Veritatis Inquisitione. 115. vero longius et distinctius meditandi re gulas vellet addiscere, ei Baumeisteri dis sertatio de arte meditandi attente legen da foret, eaque in syccuin et sanguinem vertenda. Interim ad auditorum nostrorum instructionem hic brevem subiicere praxin censuimus, quo facilius artem hanc per discere possint. Qua de re eruditissimiVic ri exemplopi addncemus pulcherrimum. Si quis AMICI characteres sit exploratu. rus, absque librornm auxilio, sequentem instituens meditationen, haec habibit. §. I. Ex casuum sin vularium observa tione g. 124. seq. ) critor Amici DEFI TIO: Amicus est persona, quae nos amat, f. II. Ad definitionis porro notas atten dens quisque videt, notionem amoris de. finitione indigere. Eodem igitur modo. hacc noya definitio eraalur. Sic. amare alierum nihil aliud significat, quam ex alterius felicitatc volup'atem percipere. 6. JIÍ. Ex his definitionibus eo, quo diximus, artificio axiomata de dacantur. Et quidem ex prima definitione (1. ) fiunt AXIOMATA. 1. Amicus al terum amat. 2. Qui alterum non amat non est amicus.3.Quicumque obligatur ad ali un amandum, ad amicitiam ei praestan 116 Logica Pars 11. dam obligantur.4. Vbi nullus amor, ibi nulla omicitia. 5. Quamdiu durat amor, tamdiu durat amicitia. 6. Qui efficit, ut ab alio ametur, eum sibi red dit amicum. Quidquid amorem in altero excitat amicitiam foret. 8. Quid quid amorem impedit, amicitiam tollit. Ex amoris defimtione ori untur sequentia. 1. Qui alinm amat, ex illius felicitate deleciatur. 2. Quicumque obligatur ad volupiatem ex aiterius fe licitate capiendan, obligatur ad alte rum amandum. 3. Qui iubet, ut volup tatem ex a terius felicitate capiamus, alterum, iubet, ! ť umemus. 4. Quid quid promovet voluptatem, ex alterius felicitate capiendain, promovet amo rem. 5. Qui illum impedit, hunc sis tit. V. Collatis inter se duabus illis de. finitionibus, nascitur. THEOREMA. Amicus alterius feli. citate delectatur. DEMONSTRATIO. Qui alterum a. mat, alterius felicitate delectatur (s. 1. ): amicus alteruu amat (§. III. cud 1. ); ergo amicus alte rius felicitaie delectatur. 5. VI. Ex quo inmediata consequutico ne cequentia fluunt, IV. AX Cop. IV. De Veritatis Inquisitione. 217 COROLLARIA. 1. Anicus ergo ex amatae personaefelicitate nullo taedio afficitur. 2. Sed potius ex eius infeli citate taedium sentit. S. VII. In quibus, quum taedii facta sit mentio, perapte addi potest. SCHOLION. Est autem invidus, qui, ex alterius felicitate taedium percipit misericors vero, quem alterius infelici. tatis taedet. $. VIII. Hinc ergo habentur THEOREMA I. Amicus non est in vidus. DEMONSTR. Invidus enim est, qili ob'alterius felicitatem taedio adficitur (S. VII. ): Quod quum in amico non reperiatur: amicus " go non est invidus. THEOREMA. Amicus est mise ' icors. DEMONSTR. Taedium enim percipit x personae amatae infelicitate ) $. II. or. 2: ): quod quum dicatur coinmise atio (5. VII. ): amicus ergo commi eratione tangitur erga personum ama zm. §. IX. Nova rursus inde sequenlur COROLLARIA. 1. Invidus ergo non si bonus amicus. 2. Qui ergo nescit Tom. 1. 218 Logica Pars. Ij. > novae r'e commiserari alterius vices, eumque ab infelicitate, dum potest, non vult eri pere, non se dicat amicum. 6. X. Si meditatio continuetur inde sequentur veritates. Et quidem defi niendo rursus notas voluptatis et felicita tis, maxima enunciationum seges adpare bit. Sint ergo. DEFINITIONES. Voluptas sive delectatio est sensus perfectionis. 2. For licitas est status durabilis gaudii.. XI. Ex quarum prima oriuntur AXIOMAT'A. 1. Delectutio ex aliqua supponit eius bonitatem ac per feciionem, earumque repraesentationem. 2. Quicumque obligatur ad sensum per fectionis in altero promovendum, obli gatur. ad voluptatem in eo excitandum. 3. Oui - iubet primum, praecipit secun dum. §. XII. Ex altera vero fluunt sequentia AXI. 1. Qui alterius felicitate dele ctatur, ex eius statu durabilis gaudii voluptatem capit. 2. Qui alterius statum durabilis gaudii promovet, eius felici tatem promovet. 3. Qui illud iubet, hoc quoque iubet. 4 Quicumque obligatur ad primum, obligatur ad secundum. 1. XIII. Conferantur definitiones cum antecedentibus, indeque nasceutur. Cap. VI. De Veritatis Inquisitione. THEOREMA I. Amicus alterius feli citatem sibi, tamquam bonum, reprae sentat. DEMONSTR. Alterius enim felicita te delectatur ($. V. ): quod quum fie ri nequeat, nisi illam sibi, iamquam bonum, repravsentet. Ergo amicus alterius felicitatem sibi tamquam bonum, repraesentat. THEOREMA II. Amicus delectatur alterius statu durabilis gaudii. DEMONSTR. Quum enim ex alterius felicitate delectetur; felicitas vero sit status durabilis gaudii (S. X. def. 2. ): ex hoc patet, amicum, quo que va luptatem percipere, THEOREMA. Amicus alterius gauuium durabile sibi, tamquam bonum repraesentat. DEMONSTR. Eius namque statu de lectatur (per theor. 2. ), quod fieri non potest, nisi id, tamquam bonum, sibi repraesentet. Ergo amicus alterius gaudiun durabile si bi, tamquambonum, repraesentat. §. XIV. SCHOLION. His praemissio succurrit lex appetitus, qua anima id, quod sibi, tamquam bonum repraesen tal, adpetit, et promovere studet. Plurimae hinc propositiones de duci poterunt. Et quidem THEOREMA. Amicus alterius felici tatem, idest gaudium durabile, adpe tit, et promovere studet. DEMONSTR. Omne, quod nobis, tamqnam bonum, repraesentamus, ad petimus et promovere studemus (XIV. ) amicus sibi alterius felicitatem statum que durabilis gaudii, tamquam bonum, repraeseníat: er go ea omnia adpeiit; et promovere stil det. *. XVI. Ex quo, sponte manant, COROLLARIA. Ergo amicus om nia cavet, quae alterum taedio affi ciunt 2. nec ullam omittit occasionem quai personae amatae iucunditatem et voluptatem promovere possit. S. XVII. Durabilis gaudii porro notio nem evolvendo occurret. DEFINITIO. Durabile gaudium est voluptas eminentior ex possessione ve iarum perfectionum grta. 9. XVI. Ex qua ultro sese off -rt. AXIOMA. Qui alterius gaudium du rabile promovet, eius quoque proinovet perfectiones. Atque inde exurget novum THEOREMA. Amicus alterius per fectiones promovet. DEMONSTR. Eius enim gaudium durabile promovet ($. XV. ), quod idem est ac promovere eius perfections.  F. XX. SCHOL. Est autem legis Natu rae iussum: Tuas aliorumque promove to perfectiones. S. XXI. Jude ergo oriuntur. COROLLARIA. 1. Amicus ergo legem Naturae observat 2. Nos ergo obligati sumus ad amicitiam colendam, 3. Adeoque,qui homines sibi reddit ini. micos Naturae legem violat. 4. Vo. luntati ergo Divinae: conveniens est, ut aliis simils amici. etc. Haec brevi meditatione compertae sunt veritates, Quod si modilatio aliquamdiu proferretur, dici non potest, quot novae propositiones exurgerent. Huic autem exer citationi si adolescentes adsueverint, aut nostra nos fallit opivio, aut sine multa lectione, brevi tempore, minimoque la bore Philosophi acutissimi evadent. K 3 2? 222 Logica Pars IT S E C T I O. II. De librorum lectione. Q" non 174 Vum intellectus noster arctis simis sit limitibus circumscrip tus, atque adeo veritatibus omnibus pro pria meditatione eruendis incapax:facile est and intelligendnm, cur aliorum scripta le genda sint, ut quae proprio marte possumus, ab alis detecta inueniamus. Sed quia non omnia ab omnibus adcurate scri pta, plerique etiam intellectus voluntatis vitio laborant, ideoque errare possunt: cautio quaedam adhibenda est in legendis eorum libris, ac proinde Lo gicae interest praecepta tradere, quibns in jis ad examen revocandis, dijudicandisqne veritatibus ab aliis inventis aut exaratis mens dirigatur: id quod in praesenti se ctione docendum. 175. LIBER est aut HISTORICVS, aut ŚCIENTIFICVS.Ille, in quo facta, seu enunciationes singulares; hic, in quo pro positiones universales et dogmata traduntor.* * Hac librorum divisione nulla alia exactior. Quorum eum librorum habemus notitiam, Cap. VI. De Veritatis Inquisitione. 223 nihil, nisi duorum, quae enunciavimus, ar gumentorum alterutrum esse potest obiectum Patet ergo ratio, cur libros omnes in histo ricos, et didacticos sive scientificos distri buerimus. 176. HISTORIA, quum sit rerum quae acciderunt fidelis narratio (S. 147. ), facta vero vel Naturae opera, vel Societatem vel fidelium communionem nempe Eccle siam, vel deniqne litterariam Rempublicain spectent, esse potest NATVRALIS, ClVILIS, ECCLESIASTICA, vel LITTERARIA. * Rursus quoniam omnium, aut quo rumdam, vel alicuius ex quatuor illis, fa cta refert, dividitnr in UNIVERSALEM, PARTICULAREM, et SINGULAREM. Jarum prima Naturae opera enumerat, altera hominum vices et facta commemorat, iertia Ecclesiae vicissitudines et annalia narrat, po strema vel disciplinarum et librorum, vel eru ditorum vitas et fata omnia refert. ** Historia Naturalis ergo erit VNIVERSA LIS, si omnia in ea Naturae opera eno dentur; PARTICVLARIS si alicuius tantum classis, veluti ex Regno vegetabili, fossili, ani mali etc. SINGVLARIS si alicuius tantummo do plantae, lapidis, metalli, aut viventis inventio, usus, incrementum etc, narrentur. K 4 224 Logica Pars II. civili, ecclesiastica, et litteraria, de quibus plura coram 177. Quia libri vel scripta ideo. legun tur ut veritates ab aliis inventae et dete ctae discántur (5. 274. ); ea vero verbis referta sunt, ut auctoris sensus intelliga. tur (§. 160. ), idest eaedem ideae ver bis adsignentur, quas Auctor cum iis con iunxit (S. eod. ): per se patet genera lis in legendo servandus. CΑΝΟΝ. IMN legendis, aliorum scriptis curato, uit easdem notiones cum verbis con iungas, quas Auctor voluit iisdem adfigi. 178. Ex quo legitima consequutione na scitur i. in cuiuscumque libri lectione at tendendum esse ad definitiones, quibus sin gularum significatio determinatur, vel and conceptum ab usu loquendi tributum 11s, quae sine definitione adsumuntur. Et quia claras ideas ac distinctas adquirere si ne attentione non possumus (9. 19. ): se quitur 2. ut ad id potissimum requiratur attentio, crebriorque repetitio, in libris praecipue historicis ut facta facilius me inoriae mandentur. * 9 Cap. VI. De Veritatis Inquisitione. 225 * Vide quae de attentione ac repetitione dixi mus in Part. I. cap. 1. Seol. can. ult. 179. Et quoniam in historia tria potis simum spectantur, nempe veritas, ordo ac finis, facile patet 3. in libris histori cis legendis attendi debere ' ad rerum sive factorum veritatem, ad eorum ordinem et legitimam seriem et ad finem an sci licet liber Auctoris scopo respondeat. > * Pro diiudicanda rerum VERITATE, bislo ricae probabilitatis regulae traditae sunt($.152. seqq. ). ORDO vero tuin in locorum, tuna in temporis circumstantiis consistit. Eius ergo legiiimitatem quoad loca suppeditat GEO GRAPHIA, circa teinporis autem seriem CHRONOLOGIA. FINIS demum ex üsdem scriptis abunde patebit, adeoque, an ei res pondeant, ex eorum lectione diiudicari pote rit Historiae nituralis finis est obiecta rario ra adcurate describere, phaenomeni alicuius cuncta notatıı digna, partiunqne nexum di stincte exponere; Civilis est politices civilis que prudentiae regulas exemplis et factis con firmare; Ecclesiasticae scopus est, statum Ecciesiae, incrementin, in file costantiain, in profligandis erroribus - prudentiam Su premi item Numinis, in ea conservanda au gondaque Providentiam, 2 gelis, ostendere; Litteraria? tandeſ, inveniendi arlena, quam EVRISTICAM vocant, aptis aliaque id K 5 226 Logica Pars II: subsidiis, et veritatum a veteribus invenla rum cognitione perficere. Cognito itaque libri scopo, restat ut attente legatur (S. 178. ) statimque innotescet, utrum suo fini respon deat. 1 180. De librorum scientificorum lectio ne sat erit, si pauca degustemus. Quo niam in scriptis didacticis methodus reqni rit, ut nullus adsumatur terminus, nisi notionem habeat sibi adiunctam, atque ut ea praemittantur, per quae sequentia in telliguntur: consequens est 4. ut in iis legendis singulae veritates prius in classes dispescantur, ibique videatur utrum ad principia an ad propositiones iu de deductis pertincant; deinde 5. ad sin gulas voces et notiones jis ab Auctore ad fixas attendatur; (ac deni que 6. ut legens veritates antecedentes si bi reddat familiares, nedum demonstratio nes in syllogismos resolvat, in quibus vi. deat, si quid doli contineatur. 181. In scriptorum porro didacticorum examine ad eorum dotes potissimum respi ciendum, de quibus sequenti capite age. mus. Id unum porro meminisse juvabit; ad illorum examen conficiendum requiri absolụtam et continuatam libri lectionem, Cap. VII. De l'erit. comm. 227 attenta mque veritatum earumque nexus con templationem: * quae omnia si desint, le ctio dicetur SUPERFICIARIA. * Ad id ergo ineptissimi videntur scioli quidam in sola romanensiiim fabellarum lectione ver sati, qui in dijudicandis per tabernas comoe diis scurrilibus, aut ephemeridibus omnia studia sua contulerunt; vel adolescentuli vo culis tantum, phrasibusque meinoriae infi gendis adsueti, qui vix e paedagogorum fe rula manum subduxerunt: " Requiritur autem laboris patientia, attentio, mens methodo ac meditationi adsuefacta, non vero in expen ex. dendis rerum corticibus solo sensuum et phan tasiae ductu exercita. OVampdoquidem a Platone * monitum non praeclare, non est no bis solum nati sumus, adeoque nec nobis sed aliorum commoda pro movere debemus: veritates a nobis dete ctas, vel quae ab aliis inven tae nobis ope lectionis innotuerunt, aliis proponere Natura obligamur. Qui vero verbis alium ad ignotarum veri talum cognitionem perducit, is eum Do 5 K 6 228 Logica Pars. Ir. CERE dicitur adeoque DOCTOR CO gnominatur. 7 * Ip Ep. ad Archytam Tarentium. Vid. Cic. de Fin. Lib. II. cap. 14. ** Latius hic patet docendi vocabulum, qu am a Cicerone de Offic. Prooem. usurpatur. Id ve ro ex definitione admodum completa prono, ut aiunt, alveo fluit. Ceterum in hoc usum loquendi sequuti sumus: vulgari namque ser mone tritum est, Magistrorum alios esse vi VOS, alios mortuos, qui Scriptorum vel Auctorum nomine distinguuntur, ita ut libros melonymicę magistros mortuos vulgo appel lent. 183. Et quoniam verba vel voce profe runtur, vel scripto exaranțur (S. 42. ): patet, duplicem esse docendi modum, vo ce scilicet, atque scriptis; adeoque MA GISTRUM dici debere, tam eum qui li þros in lucem edit, quam cum qui in A cademiis iuventutem instruit. Speciatim autem in sequentibus eum, qui scripta didactica (de quibus hic tantum ser mo est ) conficit, SCRIPTOREM vel AU. CTOREM; eum vero, qui adolescentes ro ce docet DOCENTEM, DOCTOREM, MAGISTRVM dicemus: idque ad evitan dam confusionem, atque inutilem verborum repetitionem. Sed quia doctrinam hanc in dus as dividere instituimus sectiones, nt de utri Cap. VII. De Verit. commun. 229 se esse usque virtutibus ac vitiis aliqua dicere posse mus: nunc, quae utrique communia sunt, dispiciemus. Ad calcem denique capitis quae dam de discentium dotibus ae naevis com pendii loco addemus. 184. Quia vero docents est, alios ad ignotaruin veritatum cognitiovem prducere; cognitio avlein debet certa et distincta eaque vel a posteriori vel a priori: consegucas esi 1. ut lectores vel auditores de veritatibus certi reddendi sint, adeoque 2, indiciis sufficientibus at que inf.l.bilibus ad veritatis cognitionem adducendi ($. 1: 4. ). quod ut fiat, 0 portet 5. ut docens ab iis intelligatur, ideoque 4. sit perspicuus, ad quod requiritur 5. ut artein, in qua versatur, distincte intelligat * ($. 24 ) 6. bonam methodum rigide servet (. 138. seqq. ), 7. et si quid implicatum confu suinque occurrat, distincte explicet. > * Criterium enim notionis distinctae est, si cum aliis eam possimus per verba communi Care: nisi ergo distincta artis suae docens cognitione gaudeat, fieri non potest, ut eius praecepta perspicue aliis proponere queat. CONVICTIO est actio, qua al terum de veritate certum reddimus. Quod quum fiat demoustrationis ope (. 133. ) quisque videt, convictionem sola demon stratione absolvi. * Ex quo liquet 8. do centem alios de veritate, quam docet, debere convincere, ** ac proinde 9. pro babilibus argumentis uti ei non licere: *** nisi res talis sit, ut sola probabilita te cognosci possit. * Quoniam ergo convictio demonstratione ab solvitur demonstratio vero est vel directa vel indirecta, vel a priori vel a poste riori: non abs re convictioni ea dem nomina, prout veritates demonstrantur, a Philosophis tributa sunt. ** Vt vero rationis pondus in convincendo ani mum sese insinuet, oportet, ut iHe sit atten tus, in demonstrationibus versatus, et talis; qui rationum momenta perpendere possit. Quapropter solidis demonstrationibus, non conviciis, irrisionibus, dictisque iniuriam in ferentibus ad veritatem est trahendus. Convi cia nanque odium iramque pariunt, et atten tionem turbant. *** Dici haec solet PERSUASIO, quae quum sit rationibus insufficientibus innixa, convi ctio dici nequit, quippe quae a convictione longe multumque distat. " Hinc vides, convictio sit Philosophcrum propria, perсиг Cap. VII. De Verit. commun. 231 suasio vero Oratorum, qui in investigatione verosimilium argumentorum versantur, quan tum sufficiat ad caussam probabilem redden dam, de quo conferendus est Cicero de In vent. cap. * 186. SOLIDITAS est completa artis, quam profitemur, methodique cognitio, Hinc ergo patet 10 maximam et praeci puam doceotium dotem esse soliditatem, adeoque 11. litteratos superficiarios es se ad scribendum aeque, ac docendum ineptos. * Vitium vero soliditati oppositum in speciali bus tractationibus infra explicabimus. Ad eas itaque progrediamur, SECTIO I. De Librorum dotibus. IBER, in quo veritates continen tur, SCIENTIFICVS dicitur, alio nomine SCRIPTUM DIDACTICVM. Eius dotes sunt SOLIDITAS, PERSPICVITAS, METHODVS, et SVFFICIENTIA. SOLIDITAS consistit in principio rum firmitate, ac deinonstrationum stabi 232 Logica Pars II. bilate. Solidus ergo dicitur liber 1. si eius dim principia certa fuerint atque indubia ($. 150. ), 3. si propositiones singulae rig de sini demonstratae, si bona me thodus in demonstrando adbibita  pec in demonstrando cir culus irrepserit. Si vero bonae methodi leges fuerint negle ctae, tunc liber SVPERFICIARVS dice tur. Huiusmodi vero libris Rempublicam ca rere litterariam, foret maguopere optandum. 189. PERSPICVITAS in verborum pro prietate, iustaque eorum cum ideis pro portione sita est. Verborum PROPRIETAS es'git, ut voces omnis secundum usum loquendi fixo sign ficatu adbibeantur, adcuratisque definitionibus deter spineniar. Iusta verborum cum ideis PROFORTIÓ requirit, ut liber non sit prolixior, nec brevior, quam scopo SIO conveniat. * Quemadmodum enim prolixitas verborum mul titudine mentem obruit: ita et nimia brevi tas Auctoris sensum occultat, adeoque am bae oliscuritatem pariunt, scilicet vitium per spicuitati oppositum Vid. Heinec. Fundam. Stili culiior. Part. S. cap. 2 §. 50. Cap. VII.De Verit. comm un. nexu 190. METHODVS in eo est ut veri tates ex veritatibus et principiata, ut aiunt, ex principiis legitimo et continuo sint deducta, nihilque confusionis vel perturbationis inveniatur; denique si ea praecesserint, per quae sequentia intel. ligi possunt. SVFFICIENTIA tandem id exigit, ut liber sit COMPLETVS, idest veritates et propositiones exhibeat Auctoris fin i suf ficientes: qui namque finem non ahso lvit, INCOMPLETVS adpellatur. * Longum valde foret, si sufficientiae particu lares characteres, hoc est fines lot tantorum que librorum percurrere vellemus. Sufficiat tamen generales eiusdem notas evolvisse: id enim ex attenta cuinsque libri lectione quisque poterit diiudicare. 192. SYSTEVIA est congeries verita tum inter se connexurum, et a prin cipiis suis legitime deductarum. Et quia id quatuor, quas recensuimus, dotibus absolvitur: hinc est, ut Logici dicant, librum quemcumque scien titicum systematice scribi oportere. * Non omnes tamen qui libros scribunt systema conficere possunt; sed ii tantum qui veritates a se detectas, et ad eumdem 234 Logica Pars IT. > scopum tendentes in libros referunt. Eorum autem, qui alienis laboribus insudant, alii sunt COMPILATORES, qui aliorum opera hinc inde dispersa colligunt, atque in lucem edunt, mulla ordinis habita ratione; E PITOMATORES qui brevius aliorum scripta prolixiora componunt. Et hi qui dem reprehensionem numquam, quandoque vero laudem (illi praecipue ) ab eruditorum universitate reportant. Sunt vero quidam, qui aliorum scripta suffurantes ea typis man dant, impudentique fronte suo nomine inscrie bunt, iique PLAGIARII nuncupantur. De his autem quidnam dicendum, sit, omnes no runt. SECTIO II. De Doctorum virtutibus et vitis. DOCTO OCTOR appellatur, qui alios voce ad rerum ignotarum co gnitionem perducit, vcos de veritatibus, qnas tradit, certos reddit, atque convincit. Eius virtutes partim ab inte !lectu, par tim a natura, partim a voluntate penden tes, sunt quatuor: ab intellectu SOLIDITAS, et in doendo PRUDENTIA; a na tura DOCENDI DONUM; a volnntate ve ro AMOR. De singulis pauca disquiremus. Cap. VII. De Verit. Commun. Ex doctoris definitione sequitur 1. ut generales docentis characte res possidere debeat is, qui doctoris munere fungi vult; adeoque 2. prima et praecipua eius virtus sit SOLIDITAS qua fit 3. ut res abstractas et intellectu difficiles exemplis illustret, at que propositionum omnium sive a se, si ve ab aliis enunciataruin analysin instituat. Nisi enim exemplis ac similitudinibus res dif ficiles illustrentur, aegre ab auditoribus au dietur, quibus abstrahendi ars vel ignota prorsus est, vel laboriosa: adeoque taedium concipientes attentione carebunt nihilque intelligentes doctorem fine suo frustrabunt. 195. Quia vero doctor auditores suos de veritate cerlos reddere debet (S. 184. ); ad certitudinem autem ducit demonstratio: consequens est 5. nt scientia praeditus, verborum facilitate in fructus ct ad rationem de omnibus red dendain promlus esse debeat. Et quia au ditores convincendi sunt, et ad hoc in eis attentio requiritur: patet 6. Doctorem DOCENDI DONO in. signitum esse debere, idest dicendi promti tudine et suavitate, quo deficiente, ad proprium munus obeundum ineptus erit. 236 Logica Pars II. parvum in eo 9 a do * Vt enim auditor sit attentus, cavere debet qui eum docet, ne taedio, eum adficiat. Tae dium autem haud excita bit, si verborum inopia, dicendi infelici tate, animique imbecillitate laboret. Eo nam que casu non modo attentionem minuet sed et illius ludibrio se exponet. Qui ergo se huiusmodi suavitate ac promtitudine senserit destitutum, ei auctores fuerimus, ut cendi munere se abstineat, si operae preti um perdere nolit. 196. Quoniam autem non eadein omni bus est adolescentibus perspicacia, que non tam voce, quam exemplo erudiuntur: liquido infertur 7. ut doctor facoltate gau deat doctrinas ad discentium captum ge niumgne adcommodandi. ac media ad fi nem rite disponendi, nec non 8. in ex sequendis praeceptis auditores manuducat, seque iis pracheat antecessorem: praecipue veio 9. si in moralibus vitaque civili ver setur institutic, animum ipse prius ad vir tutem instruat, ut ad hoc vivum exemplar omnes conformari studeant. * Et hoc est, quod dici soiet PRVDENTIA INDOCENDO. * Si namque docentis actiones a praeceptis dis crepent, nequicquam laborum suorum fru ctum exspectabit, et adolescentes exemplum potius malum, quam bonam vocem sequuti Cap. VII. De verit. commun. 237 nihil, praeter praeceptoris imitationem, prae se ferent: quum bene monuerit Iuvenalis: Omnes duciles sumus pravis ac turpibus imi tandis suos.Postrema doctoris virtus eaque magni momenti, est AMOR erga Quum enim in erudiendis pueris aut ado lescentibus permulta opus sit fidelitate inserviendi promtitudine, patientia patientia, et labore haec auien omma nisi ab iis, qui nos amant, sperare non possumus: recte infertur 10. doctorem sincero audi tores suos amore prosequi; adeoque 11. et studio; 7 commoda promoveadi adfcctum esse debere. eorum * Quam necessaria sit haec in doctore virtus, ex sequentibus alimde patebii. Si namque amor deficiat, et studium deerit disceniium utilitati inserviendi: ac proinde pro doctore exsurget mercenarius vel utilitati, vel existi mationi propriae consulens; et tanc nec morun ratio umquam habebitur, et omnes lucri fa cendi artes promovebuntur. Si haec omnia ponantor, habebimns magistrum, vel leo poribus inservientem, in muneris exercitio ne gligentem, timidum, sui dumtaxat studio abreptum, et ad vilissima quaeqne facilem; vel inaccessibilem, clatum, ' omnia sibi per mitientem, quandoque etiam garrulum, ét e cathedra, tamquam e suggestu, aliorum no mina lacerantem, quo tutius possit de suis virtutibus declamare. 198. Si virtutum quas recensuimus opposita evolvautur, illico doctorum vi tia ad parebunt, quae breviter enumera bimus. Eorum primum et praecipuum est IMPERITIA, idest artis methodique-igno. ratio. Huius effectus sunt 1. obscuritas, qua fit, ut talis doctor terminis inanibus, vagis obscuris, nec recte definitis sit con tentus, resque difficiles exemplis illustrare nequeat: 2. confusio quae methodi negli gentiam, analyseos ignorantiam, ac con vincendi impoientiam parit: 3. docendi ineptitudo; quum enim ars ignoratur et methodus, deficit prompitudo et suavitas, quibus ducendi donum absolvitur * (S. 95.): 4. molesta prolixilas, aut obscurabre vitas; ignorata namque arte vocabula quoque technica ignorantur, quo fit, ut vel inanibus circumloquutionibus, vel paucis et insufficientibus rei explicandae verbis uta tur: 5. superfluorum tractatio et necessa riorum omissio, quam veram ignorantiae causam esse ait Sencea (S. 103. * ): 6. ser monis barbarics, cui proxima est obscuri. tas et taediuin, adeoque ad minuendam ten dit attentionem. Non desunt equidem, qui naturali quodam suavitatis defectu laborantes nec genio, nec captui auditorum se accommodare sciunt, li cet doctissimi sint et omnimoda, eruditione praediti. Naturalis autem haec imbecillitas non inter vitia sed inter defectus est referen da, adeoque imperitia dici neqnit. Quamvis enim huiusmodi doctoribus lepor desit: me diorum tamen excogitatio aliaqne pruden tiae subsidia praesto sunt. Ineptitudinis ergo caussa non alia adsignari debet, quam impe ritia, scilicet soliditatis absentia. > 199. Alterum doctoris vitium a primo oilum ducens est IMPRVDENTIA in docendo, quae in caussa est, ut auditorum Caplui genioque se adcommodare, atque media ad finem ducentia excogitare, ac proinde animis morbo aliquo laborantibus mederi nesciat. Quae enim prudentia in imperito? Imprudentiae quoque debetur illa paedagogo rum imbecillitas, qua inter se invicem de futilibus inoptisque rebus decertantes, vel aliis invidentes discentium animos adversus aemulos stimulanti. et ad pueriles irrisiones dicacitatesque concitant: quo fit, ut ipsi in spretum et abietionem incidant, adolescentes contra pessimos, audaces, ridiculosque mo res induant. 240 Logica Pars II. 200. Ad voluntatis vitia, quae amorem excludunt, referuntur: AMBITIO, si ve nimia gloriae laudisque cupiditas, qua fit, ut vana eruditionis, autº eloquentiae ostentatione, nimioque sermonis fuco di sciplinarum praecepta non explicentur, sed implicentur, propriaeque existimationi potius, quam discentium utilitati doctores consulant. - 3. AVARITIA, quae omnia trabit commodum efficitque, ut sola sit utilitas iusti prope mater et aequi: VOLVPTATIS CONSECTATIO, quae ignaviam, laboris im pa tientiam oilierique neglectum parit, atque soliditatis defecium arguit, quum bene monterit Genuensis.noster: difficile esse reperire hominem vere doctum simul autem et mollem, ad suum > * * * * Inde quoque fluxit Cynicus iile mos, et ef fraenis alios lacerandi consuetndo, quae in caussa fuit, ut de quorumdam adolescentum petnlantia ad satyras proclivium emunctae nae ris homines conquesti · gint: videbant enim pravam consuetudinen a pessimo doctorum exemplo vatan in naturam paullatim ac cor ruptionem abituran Ex codem tandem fons te manat ctiam illa docentium praesumtio, qui, ne discipulus supra magistrum esse vie deatur, vel aliquot sublimiores doctrinas sla Cap. VII. De verit: commun. 241 bi solis reservant, vel sublimia auditornm in genia deprimunt ac despiciunt. Praeterquam quod ambitio in doctoribus novitatis amorem gignit, eosque opinionum singularium et ab surdarum, saepe etiam impietatis studiosos efficit: id quod maximo adolescentihus detri mento est, praecipue quum auctoritatis prae indicium altius in iis radices agat. Vid Hei nec. Ethic. l. 77. ** Quando quis avaritiae studet, non aliorum, sed sua tantum commoda promovet, idque per fas an nefas, nihil sua referre videtur. Hinc auditorum quosdam opibus pellantes, vel praeceptorum gratiam muneribus ementes reliquis praeferunt, eos seorsum instruunt, ac speciali cura in aliquibns reconditis rebus erudiunt, eaque praedilectione prosequuntur, ut se aliorum odio, invidiae vero illos expo nant, adeoque nihil neque hi pro. ficiant. *** Art. Logicocritic. Lib. I. cap. Voluptati nanque dediti plerumque sunt ignavi, desides, et laboris impatientes; atque inde fit, ut non satis praeparati ad doces dum accedcntes in lycaeo quidquid in buccain vererit effutiant, et quia ex abundantia cor dis, ut Servator ait, os loquitur, bonos persaepe mores verbis factisme corrumpant. Delicatuli isti suat etiam meticulosi, adeoque veritatem, quam alias intrepido vultu, si ri te munere suo fungi vellent, dicere debe ne aliorum indignationen incurruni Tom. I. L neque illi reni, ) 242 Logica Pars II. aut dissimulant, aut tegunt, aut (quod val de dolendum ) foede corrumpunt. Praeterea in huiusmodi hominibus ridicula quaedam et thrasonica reperitur ambitio, scilicet paedan tismus', quo furentes nusquam, nisi de suis rebus gestis plurima exaggeranti, auditorum, que risui se exponunt. 201 • Superest, ut doctrinae usum do etorumque officia exponamus, ut si qui munus hoc inire cupiunt, bene incipere, feliciusque prosequi possini. Quicunque cr go ad istruendam iuventutem animum ad. pellis, hos diligenter observato: CANON ES. Avditores eligito perspicaces, mui toque supientiae umore Nagrantes. Eo rum porro attentionem excitato sae pius, ac vitia, quibus eos laborare per cipis, prudenter sensimque corrigito. 2. Doctoris munus, nisi solida artis methodique cognitione imbutus, ne te mere suscipito: idque summa fidelitate, prucuttia, ac sincero erga discentes amore absolvito. 3. Adolescentes in moralibus civili Cap. VII. De Verit. comm. 243 busque disciplinis non tam voce, quam exemplis erudito. Evidentissimum numiz que, teste Augustino, docendi genus est subiectio exemplorum. 4. Religionis amorem, morumque in tegritatem in discentibus foveto, neque te illis familiarem nimis reddito, ne, excusso subiectionis fraeno, doctores parvipendentes nihil proficiant, et ad pessima quaeque praecipites ruant. "De Discentium dotibus ac naevisn's 202, Am de dotibus IAm vitiisque discça tium pauca apperidicis loco ad damus. Eorum est de veritatibus certos reddi; solidache imbui co gnitione, quae non nisi es claris distinctisque oritur notionibus. Ad claras vero ac distinctas ideas adquirendas requiritur attentio et libertas a praeiudiciis: Quidquid ergo attentionem tur bat, vel praeiudicia fovet, ab iis abesse debet. 203. Priina ergo et maxima discentium dos est BONA NENS, DOCILITAS, ATTENTIO sincerus erga stu. dia et docentes AMOR,  LABORIS PATIENTIA et otii fuga, + 6. de. nique ANIMI SOLITUDO. It * Bonae mentis vocabulo intelligimus non mo do naturalem ingenii perspicaciam, cuius de fectus hominem reddit cognitionis incapacem, verum etiam animum bene educatum vcrae que Relligionis amantem: quum Divino oracu lo monituin sit initiuin om nis sapientiae esse timorem Domini.  Hoc est libertas a praeiudiciis,ut supra di clum est, animique inclinatio ad quaecunque praecepta ediscenda, et ad pra xin adplicanda. ID adeo Si namque Doctores et studia amemus, his sedulam navamus operam, illosque atter te auscultamus: si vero amor hinc absit, taedium supervenit., attentio minuitur, que aut parum aut nihil in studiis profie mus. | Laboris enim impatientia ignorantiae cause est, ut dixiinus; quoniam veri tates vel propria meditatioue vel Aucts rum lectione inveniuntur, medtatio vero perinde ac lectio laborem cai gunt, ut ex superioribus abunde constat. De verit. eomm. 245 # Multitudo namque non modo praeiudicio rum fons est sed at tentionem quoque distrahit aut saltem mi nuit: adeoque solum oportet esse, qui sa pientiae sentit amorem. Ex iisdem principiis sponte manant discentium vitia, qualia sunt 1. Religionis spretus, quem conse quitur voluntaria praeiudiciis adhaesio, 2. mentis hebetudo, 3. attentionis distra ctio, 4. otium et laboris impatientia a dolescenlibus familiarissima, 4. aversio a studiis vel doctoribus, 6. denique spe ctaculorum, multitudinis, et sodalita tum amor, quo fit, ut attentio distraha tur ($. 40. Schol. Can. 5. ), et ad voluptatem inde ac perditionem praccipiti Cursu ruant. Schol. Quae de discentium officiis tra lendae forent regulae, eae ab eadem do trina huc usque exposita facile deduci po erunt. Quapropter hic a canonum addi tione con mode abstinemus. De litterario certamine. zv ERTAMINIS LITTERARII no Emine intelligimus quascumque disputationes, quae pro veritatis disquisitione vel diiudicatione instituuntur. Hae disceptationes similiter vel scriptis, vel vo. ce liont: et quidem SCRIPTO, vel alio rum errores confutamus, vel nosmet ab eorum imputationibus defendimus: VOCE autem rationes utrinque conficiuntur, et ad examen revocantur. Si ergo alterius errores scripto detegantur, actio haec dicilnr CONFITATIO; si pro positiones ab alterius impugnatione vindicentur, DEFENSIO, si denique coram disce platio instituatur, propio nomine DISPVTATIO adpellatur. De harum qualibet diversis sectionibus agemus qua alium erroris convincimus. Ex qua definitione patet 1. confutantem de Cdium erroris convincimus. Ex bere falsitatem propositionis, quam alter pro vera asseruit demonstrare, idque a priori vel a posteriori, directe aut apogogice indiciis sufficientibus, hoc est principiis demonstrandi certis ei utendum esse. Etquia eadem propositio non potest esse simul vera et falsa (alias in contradictionem inpingeretur ): evidens est. propositio nem legitime denionstratam confutari non posse, adeoque. eius demonstration, nem esse contrariae confutationem. Antequam vero confutatio instituatur opore tet STATVM QVAESTIONIS conficere, idest verum suctoris sensum intelligere, ut propositionem falsam ex ipsius auctoris men le demonstret. Eo enim ipso vitabitur LOGOMACHIA, qua propositio vera impetitur, cuius veritas, licet ab adversario sit cognita, aliis tamen verbis expriiuiiur et impugnatur, adeoquc insurgit quaestio de verbis. Vid. Weienfelsium de logomachiis eruditorum. Si vero indicia fuerint insufficientia, scilicet principia probabilia et precaria, tunc non con L'utilis, sed IMPVGNATIO dicetur. Impugnari tamen potest, nempe dubiis au dificultatibus quisbusdam subiici, ut eius veritas clarius elucescat, nec ulla remaneat op positi suspicio, id quod infra in Seet. 3. docebimus. Quoniam confutatio ost convictio; haec autein requirit, ut con vincendus sit attentus, nec adfectus in eo attentionem turbantes exciteptur: liquido infertur 5. confutantem ea omnia quae attentionem in altero per turbant, atque adfectus excitant, vitare debere; consequenter 6. a conviciis, ir risionibus, vel consequeniiis periculosis, quae confutandi famam laetlunt, abstinen dum esse. Sunt autem PERICVLOSAE huiusmodi CONSEQVENTIAE, quae non quidem ex genui no Auctoris sensi, sed ex confutantis opi nione eruuntur, quaeque non veritatis de fendendae gratia deducuntur, sed ut adver sarii fama in discrimen vocetur, isque alio rum ludibrio exponatur. Harum porro con sequentiaruin confectores proprio nomine CONSEQVENTIARII vocantur. 208. Qaum ergo consequentiae pericu losae aliorum odium Auctori concilient eique invidiam creent: non abs re a Philosophis argumenta ab invi L4 1 + Cap. ult. de titt. cerlamine. 249 * dia fuerunt appellatae. Ex quo patet ARGUMENTUM AB INVIDIA ductum in confutando sollicite esse vitandum; a deoque 8.non abs re consequentiarios a Wolfio PERSECUTORES cognominari. * Logic. Lat. pag. 752. Idque iure merito. Nam confutator vere dicitur, qui veritatem ab al terius paralogismis vindicare studet. At qui non veritatem, sed adversarii famam perse quitur, nullo inodo confutator dicendus est, sed alterius persecutor, quia id non rationis auxilio, sed invidiae stimulo perficit. Schol. Quoniam itaque in confutante solius veritatis amor exigitur: ut in con futatione nihil vel minimum peccetur, hos qui sequuntur, servare curato. CAN ONE S. I. A, D confutandum solo veritatis a more, non odio adversus alte rum ductus accedito. Adversarium soli dis rationibus non conviciis, dictisve famae nocentibus de errore et falsitate convincito. 2. Si obscuro impropriove stilo ad edəssarius scripsit, ut dictionem corriagat, seque intelligendum praestet, ad wertito. Si quid ab altero in demonstran do peccatum, sive principia falsa sint, sive connexio illegitima, cuncta distincte modesteque patefacito. Demonstrationis rigidus custos principiorum diligens investigator esto, ne tibi ab adversario nota inuratur. E tenim TURPE EST DOCTORI, QUUM CULPA RE DARGUIT IPSUM. DEFENSIO est propositionis ab alterius impugnatione vindi catio. Ex eadem ergo definitione sequitur 1. ut propositio legitime confutata defen din non possit, ut et 2. ad defensionem propositionis sufficiat eius veritatem solide demonstrare, aut 3. si de terminis tan tum quaestio sit, eos adcuratis definitio nibus determinare. Duobus vero modis defensio insti taitur. Vel enim propositionis veritatem ab alterius impugnatione vindicamus, vel Cap. ult. De litt. ccrtumine. 251 impugnantis errores itidem detegimus. Pri mae classis seripla dicuntur APOLOGE TICA; alterius vero POLEMICA vel E RISTICA. * jin, * Horum quidem scriptorum minorem num rum Respublica optaret litteraria. His nam que nec veritas invenitur, nec ratio perfici tur, sed contentiones animique perturbatio nes aluntur, nulla prorsus utilitate, magno autem Societatis, ac iuventutis studiosae malo.? 211. Defendenti ergo, ne a recto. aber ret, Sequentes proponimus., C ANONES. 1. PhoRopositionem a te légitime demon Stratam, aut notionem cum ver bis rite ' conjunctam ab alterius cuiusvis impugnatione ne defendito. Pro të nam que evidentia pugnabito?? 2. Eius, qui te maledictis conviciis que laesit, scriptis modesto respondeto silentio. * la cedendo victor abibis. * Si namque simili stilo, respondeas, nullum operae pretium facies, adversarii petulantiam temeritate lua iustificabis, inque idem vitium incides, quod in alio reprehendis. Quidquid ab altero tibi impugnari sentis, in eo tua versetur defensio. * Si vero argumentis ab invidia periculosis que consequentiis ab aliquo persecutore adfectus fueris, sat est eius malitiam et nocendi studium ostendere teque commiseratione potius, quam ira per citum perhibere. Si ergo deverborum sensu quaestio sit, eum te explicasse sufficiet: si principia impugna tor urgeat eorum certitudinem ostendas oportet: si in demonstrationibus te ar guere velit, earuin legitimam connexiouem prae oculis ponere; si vero aliqua consequen tia absurda tibi impPombaur, aut ipsius conse quentiae veritatem, aut eam ab adversario non recte deductam, demonstrare debebis. Quod si persecutor obscurae famae sit, te tacente veritas ipsa loqietur, tuaque mo destia impudeutem adversarium confusione " obruet. Ad veritatis tandem disquisitionem acMilanius, quae non scripto, sed voce fit, quaeque disputationis no. De litt. certaminemine venit. Est igitur DISPUTATIO -aru ritatis alicuius discussio voce facta. Ea tribus ' personis absolvitur, quarum una propositionem'impugnat, altera eamdem defendit, tertia vero huic suppetias fert. * Adeoque qui veritatem difficultatibus du bisque implicat, OPPONENS; qui vero eaka ab eiusmodi impugnatione vindicat, DEFENDENS, vel RESPONDENS; qui deni que huic aliquid adiumenti adfert, PRAESES aupellatur. Ex qua definitione liquet 1. di-, sputationem esse impugnationem proposi tionis veraen eiusque. defensionem; ideo que 2., utramque demonstratione absol vi, ut disputantium alteruter de veri tate convincatur; quare 3. quidquid ge neratim de convictione dictum, de disputatione etiam intelligatur, prae cipue vero 4. status quaestionis formandus  et 5. oportet, ut lingua loquantur clara et intelligbili, hoc est amboruin captui adcommodata 6. ut u trique nec animus nec lingua deficiat. Su per omnia autem 7 affectibus carcant, odio, praesertim et invidia, Non enim ad rixandum, sed ad disputandum. descendunt. At affectus convicia iniuriasque pariunt, quibus attentio turbatur (S. 207. ): ac proinde a disputantibus louge debent ab esse, ne ira odiove perciti tantum absit ut veritatem inveniant, ut potius.a convicis ad manus transeánt. Ex eadem definitione fluit 8. di sputantes debere in terminis contradicto. riis versari, hoc est ut idein ab uno a d. firmetur, ab altero negetur'. Et quia idem subiectum in contradictione requiritur; eruitur 9. disputantes debere in terminorum notionibus convenire: quapro pter 10 si verborum sensus- lateat, eorum explicationem a respondente peti posse, ut in claris distinctisque rebus incidat contro versia, ct ' sic logomachiae vitentur. Disputatio vel' ACADEMICA est, vel DIALECTICA. Illa continuato ac paene oratorio dicendi genere, haeć syllo gistico more conficitur. In illa opponens disscrtatione quadam propositionis veritatem impugnat, respondens contra eodemstilo obiectiones diluit, ihesiique defendit; in hoc vero syllogisniis aliisque ratiocinandi modis chunciationem opponens inpugnat, ' et ex Cap. ult. De litt. certamine. adverso respondens ratio cinia ad trutinam revocans propositiones veras concedit, falsas negat, dubiasque distinguit, eoque progre diuntur, donec ad principia perveniant.Addi potest methodus disputandi SOCRATI CA, quae Opponentis interrogationibus, et Defendentis responsionibus dialogico stilo ab solvitur. Sed quum ea iam pridem ab usu recesserit: ab eius explicatione merito ab stinemus: in ipsis tamen praelectionibus, quae de ill a dicenda forent, paucis expe diemus. Vides ergo methodum Academicam ad eru ditionis et eloquentiae ostentationem in Aca demiis prae se ferendam unice inventam esse. In disputando autem, quum homini pede stanti in uno ñec eruditio, nec verborum copia praesto esse possit, Dialectica metho dus merito praeterenda, Vtcumque vero disputatio instituatur invabit disputantiirin munera paucis expo nére: id quol sequentibus exequemur re gulis. Et primo quidem amborum, dein de opponentis; postremo respondentis mu nia recensebimus. Quisquis ergo ad dis putandum accedis, hos religiose castodito: Phim Rimum omnium controversiae sta tum conjici ! ). Nihil porro, nisi terminis claris fixisque expressum, in e am incidito. Obscura quaeque explica to. 2. Dispu'ans adfectibus vacuus, veria tatis tantum amans, eiusque invenienda cupidus esto. Cuncta modeste, suaviter, amice proferto. Convicia et dicta mor dacia, velut angiem, fugito. OPPONENTIS hae fere partes sunto. 3. Quacunque meihodo thesin aliquam adoriris, syllogisticam artem cuidi ha beto. Argumentu solida non sophismata ineptasve fallacias, proponito. Conclu sio thesi impugnatae semper e diametro contraria esto 4. Si quid a respondente tibi propo nitur explicandum, explicato: si vero probandum, tamdiu syllogismorum, au xilio probato, donec ad principia per veneris. Ad singula respondentis verba et distinctiones attendito. Si illa obscura sint, illi explicanda dato; si vero clara, Cap. ult. De litt. certamine. 257 novas exceptiones, prout res tulerit, contra formato. Praecipue videto, si ad versarium ex assertis suis convincere et refutare, proprioque, ut aiunt, gladio iu gulare possis Et hoc est, quod vocari solet ARGVMENTVM AD HOMINEM, de quo tamen videa tur lo. Lockius de intell. bum. IV. 17., qui eius insufficientiam in vero inveniendo et de bilitatem ostendit. Nos autem tantum in ex ercitationibus litterariis, quae coram fiunt id commendamus: de veri namque investiga tione fusius supra tractavimuis. RESPONDENS demum id sibi negotii sciat praecipue datum. Argumentum opponentis prius repe tito, deinde sedulo perpendito, num de bila gaudeat soliditate. Praenissarum quae tibi dubiae videbuntur, probatio nem postulato. 7. Syllogismum in forma peccantem totum reiicito. Si haec bene processerit materiam ad examen reyocaio. Propo sitiones falsas negato, veras concedito, dubias vero distinguito: sed de omnibus rationem reddere memento., ne ridiculas, evadas. 258 Logic. Pars. ii. Perridicula ergo est illa Scholasticorum regula: Semper nega, numquam concede raro distingue. Si namque casu neges, duo rum alterum exspectare debebis, vel ut ne gationis caussam adferas, vel ut lucem quo que neges meridianam: utrumque homini sen sibili acerbissimum.. 8. Si oppositae propositionis impossi bilitatem demostrare possis; nihil ultra oneris habebis. Si vero in auctoritate probatio ' versetur: sat erit adversarii te.ctus obscuros claris auctoritatibus re fellere. 9. Caveto, ne propositionem concedas, in qua adversarius struxit insidias: ne cx eius admissione incidas in laqucos. Schol. Ceterum disputandi regulac usu magis ct exercitio, quam praeceptis, ad discuntur '. Si tamen dicendum quod res est, in huiusmodi litterariis contentionibus von soliditas, sed promtitudo, immo ve ro impudentia valet et veritas amittitur potius, quam invenitur: Qua de re vide inus eruditos doctosque viros raro admodum ad disputandum descendere. Legatur Bud seus Obseru. in Plit. instrum. Pur: III. Cup. 3. g. 11. AN OUTLINE OF SEMATOLOGY;  OR, AN ESSAY TOWARDS ESTABLISHING A NEW THEORY OF GRAMMAR, LOGIC, AND RHETORIC. “Perhaps if words were distinctly weighed and duly considered, they  would afibrd us another sort of Logic and Cretic, than what we have been  hitherto acquainted w4th." — Locke.     LONDON :  JOHN RTCHARDSON, ROYAL EXCHANGE. G WOODPALL, AHQEh COUBT, •KllfWl* tTRWT, LOWDON. I PUT not my name to these pages, nor shall  I, beyond this notice, speak in the first per-  son singular, but assume the pomp and cir-  cumstance of the editorial "we". Why I  choose for the present to remain unknown, I  leave the reader to settle as his fancy pleases.  He is at liberty to think that, being of no  note or reputation, and fearing for my book  the fate of George Primrose's Paradoxes, I do  not place my name in the title page, because  it would inevitably make that fate more cer-  tain. Or, if he chooses, he may imagine a  better motive. He may suppose me to be  the celebrated author of ***** *, with half  the alphabet in capitals at the end of my  name ; and that I prefer an incogfiito, lest  he, my " cotirteous reader", should relax the  rigour of examination, and receive as true,  on the authority of a name, a theory that  may be false. In the last chapter of Locke's Essay on the  Human Understanding , there is a threefold  division of knowledge into ^uo-t*^, TrpaxriK^,  and trtjfieiaTiK'^. If we might call the whole  body of instruction wliich acquaints ua with  TO. <f>v<TtKa by the name Physicology, and  that which teaches to -irpaKTixa by the name  Practkology, — all instruction for the use of  TO <7?j^aTo, or the signs of our knowledge,  might be called Sematology. Physicology, far more comprehensive than the  sense to wliich Physiology is fixed, would in this case  signify the doctrine of the nature of all things what-  ever which exist independently of the mind's concep-  tion of them, and of the human will ; which things in-  clude all whose nature we grow acquainted with by ex-  perience, and can know in no other way, and therefi>re  include the mind, and God ; since of the mind as well  as of sensible things we know the nature only by ex-  perience, and since, abstracted from Revelation, we  know the existence of a God only by experiencing His  providence, Practicology, the next division, is the  doctrine of human actions determined by the will to s  preconceived end, namely, something beneficial to in-  dividuals, or to communities, or the welfare of the  kJ     The signs which the mind makes use of  in order to obtain and to communicate know-  ledge, are chiefly words ; and the proper and  skilful use of words is, in different ways, the  object of, 1. Grammar, of 2. Logic, and of  3. Rhetoric. Our outline of Sematology  will therefore be comprised in three chap-  ters, corresponding with these three di-  visions.   species at large. As to Sematology, the third division,  it is the doctrine of signs, showing h ow the mind ope-  rates by their means in obtaining the knowledge com-  prehended in the other divisions. It includes Meta-  physics, when Metaphysics are properly limited to  things TB /*ETa Tct pi/fiKa, i. e. things beyond natural  things — things which exist not independently of the  mind's conception of them ; e. g. a line in the abstract,  or the notion of man generally: for these are merely  signs which the mind invents and uses to carry on a  train of reasoning independently of actual existences ;  e. g. independently of lines in concrete, or of men in-  dividually and particularly. But as to the class of  signs which the former of these instances has in view,  and which are peculiar to Mathematics, there will be  no necessity, in this treatise, to make much allusion to  them: it is to the signs indicated by the other example  that reference will chiefly be made: for these are the  great instruments of human reason, and we believe  they have never yet had their suitable doctrine.  To ascertain the true principles of Gram-  mar, the method often pursued will be adopt-  ed here j namely, to imagine the progress of  speech upward as from its first invention. As  to the question, whether speech was or was  not, in the first instance, revealed to man, we  shall not meddle with it : we do not propose  to inquire how the first man came to speak ^^   ^ Beattie and Cowper, poets if not philosophers, ate  among those who insist that speech must have been  revealed. The former thus turns to ridicule the well   L   known passage in the Satires of Horace, Cvm pro-   repseruntf &c. lib. I. Sat 3* v. 99 : —  ^^ When men out of the earth of old  A dumb and beastly vermin crawled.  For acorns, first, and holes of shelter, •  They, tooth and nail, and bdter dceker,   B 2     4 ON CiSAUMAH. [CHAP. I.   but whether language is not a necessary effect  of reason, as well as its necessary instrument,  Fought fist to fist ; then with a club  Each learned hia brother brute to drub ;  Till more experienced grown, these cattle  Forged fit accoutrements for battle.  At last, (Lucretius Bays, and Creech,)  They set their wits to work on speech :  And that their thoughts might all have marks  To make them known, these learned clerks  Left ofi' the trade of cracking crowns,  And manufactured verba and nouns."   Theory of Language, Part I.  Chap 6. (in a note.)  The other poet does not, on this occasion, appear in  metre, but is equally merry.   " I ta';e it for granted that these good men are phi-  Bophically correct in their account of the origin of  language ; and if the Scripture had left us in the dark  upon that article, I should very readily adopt their  hypothesis for want of better information. I should  suppose, for instance, that man made his first effort in  speech in the way of an interjection, and that ah ! or  oh ! being uttered with wonderful gesticulation and  variety of attitude, must have left hia powers of ex-  presdon quite exhausted ; that, in a course of time, he  would invent many names for many things, but first  for the objects of his daily wants. An apple would  consequently be called an apple ; and perhaps not     SECT. 1.] ON GRAMMAR. 5   growing out of those powers originally bestow-  ed on man, and essential to their further deve-  lopment.   many years would elapse before the appellation would  receive the sanction of general use. In this case, atid  upon this supposition, seeing one in the hand of  another man, he would exclaim, with a most moving  pathos, * Oh apple !' Well and good, — ' Oh apple,** is  a very affecting speech, but in the mean time it profits  him nothing. The man that holds it, eats it, and he  goes away with ' Oh apple!** in his mouth, and nothing  better. Reflecting on his disappointment, and that  perhaps it arose from his not being more explicit, he  contrives a term to denote his idea of transfer,, or  gratuitous communication, and the next occasion that  offers of a similar kind, performs his part accordingly.  His speech now stands thus — * Oh give apple ! ** The  apple-holder perceives himself called upon to part with  his fruit, and having satisfied his own hunger, is  perhaps not unwilling to do so. But unfortunately  there is still room for a mistake, and a third person  being present, he gives the apple to him. Again dis-  appointed, and again perceiving that his language has  not all the precision that is requisite, the orator retires  to his study, and there, after much deep thinking,  conceives that the insertion of a pronoun, whose office  shall be to signify, that he not only wants the apple to  be given, but given to himself, will remedy all defects; Now instead of taking it for granted, as  others have done who have pursued the method  proposed, that men sat down to invent the  parts of speech, because they found they had  ideas which respectively required them, we as-  sert that men have originally no such ideas as  correspond to the parts of speech. The im-  pulse of nature is, to express by some single  sound, or mixture of sounds (not divisible in-  to significant parts) whatever the mind is  conscious of; nor is there any thing in the na-  ture of our thoughts that leads to a different  procedure, till artificial language begins to be   he uses it the next opportunity, succeeds to a wonder,  obtains the apple, and, by his success, such credit to  his invention, that pronouns continue to be in great  repute ever afl^er. Now as my two syllable-mongers,  Bcattie and Bl^r, both agree that language was  originally inspired, and that the great variety of  languages we find on earth at present, took its rise from  the confusion of tongues at Babel, I am not perfectly  convinced, that there is any just occasion to invent  this very ingenious solution of a diiEculty, which  Scripture has solved already."   Letter to the Rev. Wm. Unwin, April 5, \'J8i.      invented or imitated. Let us take, for our first  fact, the cry for food of a new-born infant: that  is an instinctive ciy, wholly unconnected, we  presume, with reason and knowledge. In pro-  portion as the knowledge grows, that the want,  when it occurs, can be supplied, the cry be-  comes rational, and may at last be said to sig-  nify, " Give me food," or more at full," I want  you to give me food." In what does the ra-  tional cry, (rational when compared with the  instinctive cry,) differ from the still more ra-  tional sentence? Notin its nieaning,but simply  thus, that the one is a sign suggested directly  by nature, and the other is a sign aijsing out  of such art, as, in its first acquirement, (we are  about to presume,) nature or necessity gradu-  ally teaches our species. Now, that the arti-  ficial sign is made up of parts, (namely the  words that compose the sentence,) and that  the natural sign is not made up of significant  parts, we affirm to be simply a consequence of  the constitution of artificial speech, and not to  follow from any thing in the nature of the com-       munication which the mind has to make. The  natural cry, if understood, is, for the purpose  in view, quite as good as the sentence, nor  does the sentence, as a whole, signify any thing  more. Taking the words separately, there is  indeed much more contained in the sentence  than in the cry ; namely, the knowledge of  what it is to give under other circumstances  as well as that of giving food ; — oi'Jbod un-  der other circumstances as well as that of be-  ing given to me; — of me under other circumt \  Btances as well as that of wanting food:  but all this knowledge, in this and similar  cases for which a cry might suffice, is un-  necessary, and the indivisible sign, if equally  understood for the actual purpose, is, for  this purpose, quite adequate to the artificially  compounded sign.   S. The truth is this, that every perception  by the senses, and every conception* which     • *' By Conception I mean that power of the mind,  which enables it to fonn a notion of an absent object of  perception ; or of a sensation which it has formerly       follows from such perception, as well as every  desire, emotion, and passion arising out of  them, is individual and particular; and if lan-  guage had continued to be nothing more than  an outward indication of these its passive affec-  tions, it would have consisted of single indivi-  dual signs for single individual occasions, like  those which are originally prompted by na-  ture. But it was impossible to find a new sign  for every new occasion, and therefore an ex-  pedient was of necessity adopted; which ex-  pedient, from its rudest to its most refined ope-  ration, will be found one and the same, — an  expedient of reason, and that through which  all the improvements of reason are derived.  The expedient is nothing more than this : —  when a new expression is wanted, two or more  signs, each of which has served a particular  purpose, are put together in such a manner as  to modify each other, and thus, in their united     fclt." — Dugald Stewart : I'hilos. of the Human Mind,  Vol. I. Chap. 3.  [capacity, to answer the new particular purpose  in view. In this manner, words, individually,  cease to be signs of our perceptions or con-  ceptions, and stand (individually) for what are  properly called notions', that is, for what the  mind knows ; — collectivelif, that is, in sen-  tences, they can signify any perception by the  senses, or conception arising from such per-  ception, any desire, emotion, or passion — in  short, any impression which nature would  have prompted us to signify by an indivisible  sign, if such a sign could have been found : —  but individually, (we repeat,) each word be-  longing to such sentence, or to any sentence,  is not the sign of any idea whatever which the  mind passively receives, but of an abstractiont   • Notio or notitia from «o«co, I knov. (It is a pity  we cannot trace the word to ado instead of noac.->.)  Note, Locke will be mucli more intelligible, if, in the  majority of places, we substitute " tlie knowledge of"  for what he calls " the idea of" His wide use of the  word idea has been a cause of the widest con&slon in  other writers.   t Home Tooke's doctrine is very different from     wliich reason obtains by acts of comparison and  judgment upon its passively-received ideas.   tbis. He says (Diversions of Purley [2d edit. 1798]  Vol. I. page 51,) " That the business of the mind, as  far as regards language, extends no further than to re-  ceive impressions, that is, to have sensations or feel-  ings"; — he affirms (pa££^im) that what iscalled abstrac-  tion has no existence in the mind, but belongs to lan-  guage only, and that " the very term metapht/sic is  nonsense "' {page 399). It is hoped that what follows in  the test will prove these opinions to be erroneous.  Could the proper name John, or any word being an ar-  tificial part of speech, have been invented, if the mind  had not exerte  d its active powers upon its passively r&-  ceived ideas ? For whatever ideas of this last kind we  have of John must be ideas arising out of particular  perceptions ; and ve must irame him to our minds  standing, or sitting, or walking; talking, or silent;  dressed or undressed, with other circumstances which  imagination can vary, but cannot set aside. It is only  by comparison that we know John to be independent  of all these, and the name is the effect of this know-  ledge, not the cause of it. The abstraction is not in  the word only ; for till we know that Jolm is separate  (abstract) from whatever circumstance the perception  of him includes, how can his name exclude it ? Neither  is the terra iiietaphysic nonsense when applied to this      The sentence " John walks " may express  what is actually perceived by the senses ;     or any other abstraction. For John separate from cir-  cumBtancea that must enter into an actual perception,  ifithe nameof anotion /iCTa^ua-ixii, i.e.outof nature, or of  which we have no example in external nature, though  it may esist in our minds, like a line in mathematics,  which is deifined as that which has length without  breadth, and which is therefore, for the same reason,  properly called a metaphysical notion, and pure  mathematics are justly considered a part of metaphysics.  It was because H. Tooke set out with these principles  thus fiindamentally erroneous, that he could not com-  plete his system when he had brought it to ail but a  close. With admirable acuteness of inquiry, he had  tracedup every part of speech till he found it, originally,  either a noun or a verb, and he then left his book im-  perfect, because he could not, on the principles he had  started with, explain the difference bet ween these : — he  promised indeed to return to the inquiry, but he never  fiiliilled his promise for the best of reasons, that there  was no pushing it further in the way he had gone ; he  must have contradicted all his early premises to have  reached a true conclusion. The whole cause of his  error seems to havebeen a too unqualified understanding  of Locke's doctrine, that the mind has no innate ideas.    but neither word, separately, can be said to  express a part of that perception, since the  perception is of John walkmg, and if we per-  ceive John separate from walking, then he is  not walking, and consequently it is another  perception ; and so if we perceive walking se-  parately from John, it must be that we per-  ceive somebody else walking, and not him.  The separate words, then, do not stand for  passively received ideas, but for abstract no-  tions ; — so far as they express what is pec- ij  ceived by the senses, they have no separate  meaning ; it is only with reference to the un-  derstanding that each has a separate meaning.  The separate meaning of the word John is a  knowledge (and therefore properly called a I  notion not an idea*) that John has existed and ]   Hence, Tooke acknowledges nothing originally but ]  the senseB, and the experience of those senses, calling reason " the effect and result of those senses and that  experience." See Vol, II. page 16.   " If indeed the word idea were uniformly employed  to signify what is here meant by notion, and nothing  else, little objection could be made : such use would  will exist, independently of the present per-  ception, and the separate meaning of the word  •walks, is a linowledge that another may waik as  well as John. This is not an idea of John or an  idea of walking such as the senses give, or such  as memory revives : for the senses present no  such object as John in the abstract, that is,  neither walking, nor not walking ; nor do they  furnish any such idea as that of •walking inde-  pendently of one who walks. There is then  a double force in these words, — their separate  force, which is derived from the understanding,  and their united force, by which, in this in-  stance, they signify a perception by the senses.   nearly correspond in effect though not in theory, with  the old Platonic Bcnse, and in the Platonic sense  Lord Mooboddo constantly employs it in his work on  the " Origin and Progress of Language." But as Dr.  Reid observes, ** in popular language idea signifies  the same thing as conception, apprehension. To have  KD idea of a thing is to conceive it." This sense of  the word Dugald Stewart adopts. (Philos. of the  Human Mind, Vol. L Chap. 4. Sect. 2.) Locke, as  already intimated, uses the word in all the senses it  will bear. In otlier instances, the united significa-  tion of words may not be a perception of the  senses j but whatever may be their united  meaning, they will separately include know-  ledge not expressed by the whole sentence,  though, if the meaning of the sentence be ab-  stract, the knowledge included in the separate  words will be necessary to the knowledge ex-  pressed by the sentence. " Pride offends,"  is a sentence whose whole meaning is abstract;  but pride separately, and offends separately,  are still more abstract, and in using them to  form the sentence, we refer to knowledge be-  yond the meaning of the sentence as a whole,  namely, to pride under other circumstances  than that of offending, and to offending under  other circumstances than that of pride offend-  ing ; and here, tlie knowledge referred to  seems necessary, in order to come at the know-  ledge expressed by the sentence. " John  walks," (or, according to our English idiom,  " John is walking,") is a perception by the  senses, and does not therefore depend on a knowledge of John, and of walking in the ab-  stract ; (though to express the perception in  this way requires it;) but " Pride offends,"  does not express an individual perception, nor  would many individual perceptions of pride  offending give the knowledge which the sen-  tence expresses : we must have obser\'ed  what pride is, separately from its offending,  and we must have observed what offending is,  separately from pride offending, before we  can rationally understand, or try to make  known to others, that Pride offends. In this  DOUBLE force of words, by which they signify  at the same time the actual thought, and re-  fer to knowledge necessary perhaps to come  at it, we shall find, as we proceed, the ele-  ments, the true principles of Logic and of  Rhetoric; while in tracingthe necessity which  obliged men to signiiy in this manner even  tliose individual perceptions which nature  would have prompted them to make known  by a single sign, (if such sign could have been  found,) we shall ascertain the true principles   of Gkammau. The last mentioned subject  must occupy our first attention.   5. To get at the parts of speech on our hy-  pothesis, we must consider them to be evolved  from a cry or natural word. Not that this  is the present principle on which words are  invented ; for art having furnished the pattern,  we now invent upon that pattern j but our  purpose is to consider how the pattern itself  is produced by the workings of the human  mind on its first ideas. Those ideas can be  none other than the mind passively receives  through the senses ; and perhaps the first ac-  tive operation of the mind is to abstract (sepa-  rate) the subjects or exterior causes of sensa-  tion from the sensations themselves. When  we see, we find we can touch, or taste, or  smell, or hear ; and when the perception  through one of these senses is different, we  find a difference in one or more of the others.  We also recollect (conceive) our former per-  ceptions, and finding the actual sensations  not recoverable by an effort of the mind alone,    we recognize the separate existence of the ma-  terial world. All this is Knowledge, ac-  quired indeed so early in life, that its com-  mencing and progressing steps are forgotten ;  but we are nevertheless warranted in affirm-  ing that not the least part of it, is an original  gift of nature. Along with this knowledge  we acquire emotions and passions ; for to knoia  material objects, is to know them as causes of  pleasurable or painful sensation, and hence to  feel for them, in various degrees, and with  various modifications, desire and aversion, joy  and grief, hope and fear. And here, as the  same object does not always produce the same  emotion, or the same emotion arise from the  same object, we begin a new class of abstrac-  tions : we separate, mentally, the object from  the emotion or the emotion from the object :  we are enabled in consequence to abstract and  consider those differences in the objects, from  which the different effects arise, and to ascer-  tain, by trial, how far they yield to volition ope-  rating by the exterior bodily members, which     SECT. we have previously discovered to be subservient  to the will. In this new class of abstractions,  and the consequences which arise from them,  we shall find the beginning of that knowledge  which human reason is privileged to obtain,  compared with that which the higher orders  of the brute creation in common with man,  are able to reach j and from this point we  shall be able to trace how man becomes /ie'poyjr,  or divider of a natural word into parts of  speech *, while other animals retain unaltered  the cries by which their desires and passions  are first expressed.   6. As we are able to separate, mentally,  the object from the emotion, and to remem-  ber the natural cry after the occasion that  produced it ceases, the natural cry might re-  main as a sign either of the object or of the  emotiont. But this does not carry us beyond   • Thia is the sense in which we choose to under-  stand the word, and not merely voice-dividing or ar-  ticulating.  f For instance, as, in the present state of language,  the exclamation of surprise ha-ha '. is either an inter-     to    the mind which forms the abstraction, and  has the power to establish a sign (wliether  audible or not) to fix and remember it: — our  inquiry is, how a communication can be made  from mind to mind, when the signs which na-  ture furnishes are inadequate to the occasion.  And first be it observed, that only such occa-  sions must, at the outset, be imagined as do  but just rise above those for which the cries  of nature are sufficient: — we must not sup-  pose a necessity for communicating those ab-  stract truths which grow out of an improved  use of language, and which could not there-  fore yet have existence in the mind. And  we have further to observe that no com-  munication can be made from one mind to  another, but by means of knowledge which  the other mind possesses; — the cries of na-  ture can find their way only into a conscious  breast, — that is to say, a breast that has known,     jection eignifyiDg that emotiou, or the n  so placed ae to give occasion to it.  or at least can know, the feelings which are  to be communicated, and is capable, therefore,  of sympathy or antipathy ; and knowledge  of whatever kind can be conveyed to another  mind only by appealing to knowledge which is  already there. To suppose otherwise, would  be to attribute to human minds what has been  imagined of pure spirits, — the power of so  mingling essences that the two have at once  a common intelligence. To human minds It  is certain that this way of communicating is  not given, but each mind can gain knowledge  only by comparing and judging for itself, and  to communicate it, is only to suggest the sub-  jects for comparison. Let us suppose that a  communication is to be made for which a na-  tural cry is not sufficient, — the difficulty, then,  can be met only by appealing to the know-  ledge which the mind to be informed already  possesses. The occasion will create some cry  or tone of emotion ; but this we presuppose  to be insufficient. It will however be under-  stood as far as the hearer's knowledge may enable him to interpret it — that is, he will  know it to be the sign of an emotion which  himself has felt, and he will think perhaps of  some occasion on which himself used it. But  the cry is to be taken from any former par-  ticular occasion, and applied to another; and  he who has the communication to make, will  try to give it this new application by joining  another sign, such as he thinks the hearer is  hkewise acquainted with. The natural cry  thus taking to its assistance the other sign, and  each limiting the other to the purpose in hand,  they will, in their united capacity, be an ex-  pression for the exigence, and will, to all in-  tents and purposes, be a sentence.   7. In some cases, nature seems to furnish  an instinctive pattern for the process here de-  scribed : —a man cries out or groans with pain ;  he puts his hand to the part affected, and we  at once interpret his cry more particularly  than we could have done without the latter  sign. In other cases, we are driven to the  same process not by an instinct, but by the ingenuity of reason seeking to provide that  which nature has not furnished. If a man  unskilled in language, or not using that which  his hearers understand, should try to make  known what art expresses by a sentence such  as " I am in fear from a serpent hidden there,"  his first effort would be the instinctive cry of  fear ; but aware that this could be particularly  interpreted only of a known, and not of an un-  known occasion, he would, by an easy effiirt of  ingenuity, fix it for the present purpose by add-  ing a sign or name of the reptile, (for mimick-  ing the hiss of the reptile would obviously be  a name,) and by joining to both these a ges-  ticulative indication of place. The instinctive  cry thus newly determined and appUed, is a  sentence ; and however clumsy it may seem  when compared with the more complicated  one previously given, yet the art employed is  of the same kind in both. We leave the read-  er to smile at the example as he pleases, and  will join in his smile while he compares it with  that in the epistle of the poet in the note at       Sect. 1.; and, if he is disposed to smile again,  we will suppose another example : — Two men  going in the same direction, are stopped by  an unexpected ditch, and ejaculate the na-  tural cry of surprise ha-ha/ This is remem-  bered as the expression suited for that par-  ticular occasion; and the mind, the human  mind, seems to have the power of generalizing  it for every similar object. Suppose one of  these men finding another ditch very offensive  to his nose, signifies this sensation by screwing  up the part offended, an d uttering the nasal  interjection proper for the case ; — the inter-  jection may not be sufficient j for the other  man may remain to  be informed of what his  companion knows, namely that the offence  proceeds from the ditch. To fix the mean-  ing, therefore, o f the interjection to the case  in hand, the communicator adds the former  natural cry in order to signify the ditch, and  the two signs qualifying each other, are a  sentence.   8. An artificial instrument as language is,     growing (as we suppoaej out of necessity, and  adapted at first to the rudest occasions ; per-  fected by degrees, and becoming more com-  plicated in proportion as the occasions grow  numerous and refined ; — such an instrument,  when we compare its earliest conceivable state  with that in which it  has received its iiighest  improvement, must appear clumsy and awk-  ward in the extreme. But in the very rude  state in which we here suppose it, the art em-  ployed is essentially the same as afterwards :  — two or more signs are joined together, each "  sign referring separately to presupposed know-  ledge, but in their united capacity communi- i  eating what is supposed to be unknown. Of  the signs used, that must be considered the ,  principal by which the speaker intimates the ,  actual emotion j the other signs, which do but j  fix its meaning, are secondary. Thereforej ;  though the appellation word (that is p^/io, i  dictum, or communication,) strictly belongs  to the whole expression or sentence, we may  reasonably give that appellation to the principal sign. According to this supposition,  the original verb was an expression equiva-  lent to what we now signify by I hunger, I  thirst, I am warm, I am cold, I see, I hear,  IJeel, &c., / am in pain, I am delighted, I am  angry, 1 love, I hate, I fear, I assent, I dis-  sent, I command, I obey, &c. Whether this  a priori conjecture has any facts in its favour,  is an inquiry suitable to the etymologist, but  fo reign to our purpose, because, whether true  or not, the general argument by which we in-  tend to prove the nature of the parts of speech,  will remain the same*.     " Vet it may be worth while to quote the coinci-  dent opinion of another writer. " It may be asked "  says Lord Monboddo, " what words were (irst invented.  My answer is, that if by words are meant what are  commonly called parts of speech, no words at all were  first invented ; but the first articulate sounds that were  formed denoted whole sentences ; and those sentences  expressed some appetite, desire, or inclination, relating  either to the individual, or to the common business  which I suppose must have been carrying on by a herd  of savages before language was invented. And in this    We have next to imagine the use of  any of the foregoing verbs in the third per-  son ; for that, it should seem, would be the  next step. In communicating that anothet-  hungers or thirsts, or sees or hears, or is angry  or pleased, &c., the difficulty would be to give  the word this new application, and a limiting  sign would, as usual, be necessary. A proper  name would be the sign required ; and if not  too great a tax upon fancy, we may conceive  the invention of these from the mimicking of a  man's characteristic tone, or his most frequent  cry ; not to mention the assistance of gesticu-  lative indication. But when verbs had thus  lost the reference which, at first we presume,  they always bore to the speaker, a sign,  whether a change of form, or a separate word,  would be wanted to bring them back to their  early meaning as often as occas ion required.  A gesticulative indication of the speaker and     way I believe language continued, perhaps for many  ages, before names were invented." — Origin and Pro-  grese of Language. Vol. I. Book 3. Chap. 1 1-  of the person spoken to, can easily be con-  ceived : how soon tliese would give place to  equivalent audible signs, the reader is left to  calculate j and as to the pronoun of the third  person, he may allow a longer time for its in-  vention, especially as even in the finest of lan-  guages, tliere is no word exactly answering to  ille in Latin and he in English.   10. We have suggested a clew to the in-  -yention of proper names, and (for the reader  jnust allow us much) we will suppose these,  L ^ far as need requires, to be invented. But  r piost of these, from the difficulty of inventing  a new name for every individual, would gra-  dually become common. If a man has called  I the animal he rides on by a proper appellation  I corresponding to horse, what shall he call  t Other animals that he knows are not the same;   and yet resemble? Because he is unprovided ..  r jwith a name for each individual, he will call'  I each of them horse*, and the name will then   " Compare Adam Smith, " Considerations con-  cerning the First Formation of Languages," appended no longer be proper but common. But the  same powers of observation which acquaint  us with the points of resemblance, likewise  show the points of difference, and when we  wish to distinguish the animals from each  other, how is this to be done ? The question  is easily answered when we have a perfect lan-  guage to refer to, but it was a real difficulty  when the expedient was first to he sought.  Yet the difficulty not unfrequently occurs  even in a mature state of language, and the  manner in which it is overcome, will enable  us to conceive how, in the rude state of Ian-  guage we are supposing, itwas universally met,  till the noun-adjective became a part of  speech*. Of two horses, we observe that one   to his work on the Theory of Moral Sentiments. As a  proof how prone we are to extend the appellation of  an individual to others, he remarks that " A child just  learning to speak, calls every person who comes to the  house its papa or its mamma ; and thus bestows upon  the whole species those names which it had been taught  to apply to two individuals."   ' The Mohegans " (an American tribe) " have     so has the colour of a chestnut, and the other is  variegated hke a pie ; and we call the former  a cfieslnut horse, and the other a pied or piebald  horse. Here we perceive are two nouns-sub-  stantive joined together to signify an indivi-  dual object, and employed, Ui their united ca-  pacity, to signify what would otherwise have  been denoted by an individual or proper name.  This, then, is their meaning, respectively,  as a single expression. In their abstract or  separate capacity, the one word denotes either  one or the other of the two animals without  reference to the difference between them : the  other word denotes, not a chestnut or a pi^  but that colour in a chestnut, and those varie-  gated colours in a pie, by which one of the  animals is distinguished from the other, and  these words are no longer nouns-substantive  DO adjectives in all their language. Although it may  at first seem not only singular and ciuious, but im-  possible that a language should exist without adjectives,  yet it is an indubitable fact," — Dr. Jonathan Edwards  — quoted by H. Tooke, Diversions of Purley, Vol. II.  p. 463.   but nouns-adjective *. And here the ques-  tion will naturally occur, how would a hearer  know when a noun was used substantively,  and when adjectively ? As this would often  be attended with doubt and ambiguity, the  necessity of the case would soon suggest  some slight alteration in the word as ofi;en as  it was used adjectively ; and the same all-  powerful cause would likewise, in time, dia-  tinguish adverbs from adjectives : for at first  an adjective would be used without scruple to  limit the verb, as to limit the substantive j since     • " The invention of the simplest nouns-adjective,*'  says Adam Smith, " must have required more meta-  physics than we are apt to be aware of." But the dif-  ficulty he imagines is done away by the hypothesis  suggested above ; and how near it is to the truth, will  fae conceived by calling to mind the ready use of al-  most any substantive as an adjective, as often as need  requires : e. g. a chestnut horse, a horse chestnut ; a  grammar school, a school grammar ; a man child, a  cock sparrow, an earth worm, an air hole, a (ireking,  a water lily ; not to mention the innumerable com-  pounds that are considered single words ; as, seaman^  Iiorsenian, footman, inkstand, coalhole, bookcase, Sic.     «t       this is often done even in the present state of  language j but the doubt whether it was to be  taken with the substantive or the verb* would  soon produce some general difference of form ;  and thus the adverb would be brought into  being as a distinct part of speech.   11. Still it would often happen, that in  endeavouring to limit a verb to the particular  communication in view, no substantive or pro-  noun joined to it, not even with the further  aid of an adjective or adverb joined to the  substantive or verb, would suffice ; and failing,  therefore, to convey the communication by  one sentence, it would become necessary to  add another to limit or determine the significa-  tion of the first. Now a qualifying sentence  thus joined, when completely understood in  connexion with that it was meant to qualify,  would be esteemed as a part of the same sen-  tence, and the verb, in the added sentence,     • E. g. whether " I love much society " is to be  understood / much-li/ve suciety, or, / Iwe 7iutch-  society.      would possibly then lose its force as the sign   of a distinct communication. This again, will  easily be understood by a reference to what  occurs in the present state of language. Look-  ing at the sentence, " In making up your par--  ty, except me," no one hesitates to call concept  a verb ; but in this sentence, *^ All were there,  except me," although the word except has pre^^  cisely the same meaning, yet, as we do not con^  sider the clause except TTie to be a distinct com-  munication, but only a qualification to suit the  whole sentence to the purpose in view, we call  except a preposition *, that is, a word put be^     * This solution of the difficulty in the invention  of prepositions, which seems so considerable to Adam  Smith, is suggested, as the reader will perceive, by  the etymological discoveries of Home Tooke, and will  receive complete confirmation by the study of his ad-  mirable work. Let it not be supposed, however, that  we have nothing to object to in the Diversions of  Purley : some ftmdamental principles we have already  marked for inquiry ; and on the point before us, we  have to observe on that curious way of thinking, which  leads him, because a word was once a verb or a noun.      fore another to join it to the sentence that  goes before.   12. But in thus qualifying sentence by sen-  tence, it may sometimes be necessary to use  three verbs, one of them being merely the sin-  gle verb that joins the two sentences together ;  as, " I was at the party, and (i. e. add, or join  this further communication) I was much de-  lighted." Sometimes a noun will be used in  this way ; as, " I esteemed him, because (i. e.  this the cause) I knew his worth." Any par-  ticular form of verb or noun used frequently  in this manner to join sentence to sentence,  will cease at last to be considered any thing  more than a conjunction *.   IS. As to the article, we have only to sup-  to esteem it always so ; on the same principle, no doubt,  that, because the word truth comes from he trou-eth or  thinkelh, a.aA a man's thoughts are always changing,  he denies that there is any such thing as eternal, im-  mutable truth.   * Again the reader is referred to the Diversions of  Purley, for a confirniation of this account of the birth  of conjuncticms.      pose some adjective used in a particular limit-  ing sense so frequently, that we at last regard  it as nothing more than a common prefix to  substantives : — as to a participle^ it is confess-  edly, when in actual use, either a part of the  verb, or a substantive, or an adjective : — and  as to an interjection^ this we have supposed to  be the parent word of the whole progeny ; and  if it is sometimes used among the parts of  an artificial sentence, it is only as a vibration  of the general tone of feeling that belongs to  the whole.   14. In this manner, or in a manner like  this in principle and procedure, would lan-  guage grow out of those powers bestowed on  man by his Creator, even though it had not  been directly communicated from heaven :-—  in this manner is the progress from natural  cries to artificial signs contemplated and pro-  vided for by the constitution of the human  mind; — in this manner would the parts of  speech be developed j and men placed in so-  ciety, and endowed with powers for observation, reflexion, comparison, judgment, would,  in time, become fiepoire^f or dividers of a na-  tural word into significant parts, with the  same kind of certainty that they become bipeds  or walkers on two legs* ; being bom neither  one nor the other.   * And according to Monboddo, with the same  certainty that they lose their tails; for when they  were mutu/m, et turpe pecus^ he appears to think  they might have been so appendaged ; nay, he knew a  Scotchman that had a tail, though he always took care  to hide it : (his lordship was surely in luck^s way to  find it out.) After all, it would be difficult to prove,  notwithstanding the authorities Monboddo quotes, that  herds of men were ever found destitute of language.  Leaving, therefore, the origin of the first language,  and the subsequent confiision or division of it precisely  as those two &ct8 stand in Genesis, all we mean to  assert in the text is this, — that if a number of children  having their natural faculties perfect, were suffered to  grow up together without hearing a language spoken,  they would invent a language for themselves : though,  for a long time, it might remain nothing better than  that of the Hurons described by Monboddo, (Origin  and Progress of Lang. VoL I. Book 3. Chap. 9.) in  which the parts of speech are scarcely evolved, from  the original elements, but what in a formed language     But the object of the foregoing at-  tempt, was not so much to trace the origin     is expressed by several words, is expressed by a sign  not divisible into significant parts. Thus, he says,  there is no word which signifies simply to cut, but many  that denote cuttingjish^ cutting wood^ cutting chaths,  cutting the heady the arm^ &c. And so of the language  throughout. More than one generation would be re-  quired, and very favourable stimulating circumstances,  to bring such a chaos of a language into form ; but  that the human mind has within itself the powers for  accomplishing it sooner or later, we see no cause to  doubt — These words, and the whole of the hypothesis  in the text above, were written before the third Volume  of Dugald Stewart's Philosophy of the Human Mind  had been seen. From that part which treats on Lan-  guage we quote the following passages :   ^^ That the human faculties are competent to the  formation of language, I hold to be certain.* Language in its rudest state would consist partly  of natural, partly of artificial signs ; substantives being  denoted by the latter, verbs by the former.*"   These are among the many passages which coincide  with the views opened in the previous hypothesis. It  is to be added, that D. Stewart considers the imperative  mood to be the first form in which the artificial verb  would be displayed.   and first progress of language, as to get at  the real ground of diflference among the se-  veral parts of speech. On this subject, there  prevails a universal misconception. Prom the  definitions and general reasoning in Gram-  mar ; — from the theories laid down in Logic ;  — and the basis on which the rules and prac-  tice of Rhetoric are presumed to stand, this  principle seems to be taken for granted, that  the parts of speech have their origin in the mind  independently of the outward signs, when, in  truth, they are uothing more than parts in the  structure of language ; contrivances adopted  at first on the spur of theoccasion, the shifts  and expedients to which a person is driven,  ■when not being able to lay bare his mind at  once according to his consciousness, he tries,  by putting such signs together as were used  for former occasions and therefore known as  regards them, to form an expression, which, as  a whole, will he a new one, and meet the pur-  pose in hand. True indeed it is, that these  very contrivances become, in their more refined use, the great instruments of hmnan rea-  son by which all improvement, all extensive  knowledge, is obtained; but we are not to  confound the instrument with the intelli-  gence that uses it/ nor to suppose that the  parts of which it is composed, have, of ne-  cessity, any parts corresponding with them in  the thought itself. It is not what a word signi-  fies that determines it to be this or that part  of speech, but how it assists other words in ma-  king up the sentence. If it is commissioned to  unite the whole by the reference immediate  or mediate which all the other words are to  bear to it, and to signify that they are a sen-  tence, that is, the sign of a purposed commu-  nication, then it is the verb : — if it has not  this power, (namely, of uniting the other words  into a sentence,) and yet is capable, in all other  respects, of standing as an independent sign,  (this sign not being the sign of a purposed  communication) then it is a substantive .-—if it  is the implied adjunct of a substantive, it is an  adjective or an article^ — if of a verb^ an adverb : — if we know it to be a word, which, in  a sentence, is fitted to precede a substantive,  (or words taken substantively) in order to con-  nect such substantive with -what goes before,  then it is a preposition : — and if it goes before,  or mingles in a sentence, in order to connect  it with another sentence, then it is a conjunc-  tion. These are the only real differences of  the parts of speech : — as to the meaning, that  does not of necessity differ because a word is  a different part of speech ; — the following  words, for instance, all express the same notion :   Add   Addition   Additional   Additionally   With*   Andt   * The imperative of the Saxon verb Jpi^an to join.   -|- The imperative of the Saxon verb ananab to add.   The place and ofHce of these six words in a sentence  would of course differ, and the sentences in which they  were respectively used would require a various arrange-  Our definitions reach the real differences  among these words, and they will be found  adequate to all differences, when, by the ob^  servation hereafter to be made, we are quali-  fied to make due allowance for the licences  assumed by the practical grammarian *• In   ment to meet the same purpose, but as to the meaning  of the words, it would be the same in whatever  sentence : e. g.   Add something to our bounty.   Make an addition to our bounty.   Give an additional something to our bounty.   Give additionally to our bounty.   Increase o ur bounty with the gift of something.   Consider our bounty and give likewise.  * To suit our definitions to an elementary grammar,  they must be quaUfied and circumstanced: — a verb,  for instance, must be shewn to be a word that is by  itself a sentence, as esurio ; or which signifies a  sentence, as I am hungry ; or which is fitted to sig-  nify a sentence, as am, lovest. A verb in the infinitive  mood, is a verb named but not used ; a8 to be, to love ;  or if used in a sentence, it is not the verb. A noun-  substantive is a name capable of standing independently,  but it cannot enter into a sentence except by being  connected directly or indirectly with a verb. The in-  flexion of a noun-substantive, as Mard, Mark'' 8^ is  the mean time, in order to throw as much  light as possible on the nature of the con-  nexion between thought and language, let us  look back a little on foregoing statements,  and partially anticipate those which are to be  opened more at full under the heads of Logic  and Rhetoric.   called a substantive, bnt in so calling it, we must say  a Bubstantive in the genitive, or other case. A noun-  adjective is a name not fitted to stand independently,  but to be joined to a noun-substantive, and so to form  with it one compound name. An adverb is a word not  fitted to stand independently, but to be joined to a verb,  and to form with it one compound verb, A preposition  ig a word governing as its object a substantive or pro-  noun in the manner of a verb, but not an obvious part  of a verb, nor capable, like a verb, of signifying a  sentence. The article, pronoun, participle, conjunc-  tion, and interjection, may be defined as usual. We  would suggest moreoverthat in an elementary grammar,  no definition, and no part of a definition, should  be brought forward, till absolutely required by the  examples that are immediately to follow it. In  teaching a child, it is the greatest absurdity in the  world to set out with general principles, when the  business is, to reach those principles by the eiiamina-  tion of particulars. It may be that the organs of sensation  are not all fully developed in a new-born in-  fant ; but if, for the sake of our argument, we  allow that they are so, this is as much as to  say, that our earliest sensations from the ob-  jects of the material world, are the same that  they are afterwards. But there must be this  most important difference, — that the early  sensations are -wilkoui knowledge, and the lat-  ter, with it. I know that the object which now  affects my sense of vision, is a being like my-  self, — I know him to be one of a great many  similar beings ; — I know him to be older or  younger than many of them, — to be taller or  shorter; — I know pretty nearly the distance  he is from me ; — 1 know that the particular  circumstances under which he is now seen,  are not essential to him, but that he may be  seen under other circumstances : — I know that  what now affects my sense of hearing, is the  cry or bark of a dog j — I know, although my  eyes are shut, that there are roses near me,  or something obtained from roses j — I knoie     u      that sometliing hard has been put into my  mouth ; — and now I know it to be part of an  apple. All the sensations by which the  various knowledge here spoken of is brought  before the mind, the new-born infant may  possibly be capable of; but as to the know-  ledge, there is no reason to believe he lias the  least portion of it. For the knowledge is  gained by experience, requiring and com-  prising many individual acts of observation,  comparison, and judgment j all which we  suppose yet to take place in the new-born  infant. Now, in looking back to what has  been said on the acquirement of language, we  find the effect of our progressing knowledge  to be this, that every sign arising out of a par-  ticular occasion, will lose that particular re-  ference in proportion as we find it can be used  on other occasions j and so all words will, at  last, in their individual capacity, become ab-  stract or general. This is as true of such  words as yellow, white, heat, cold, soft, hard, .  bitter, sweet, and the like signs of what Locke    calls simple ideas as of any other * : for we  can evidently use these words on an infinity  of different occasions j and the power of so  using them is an effect and a proof of our  knowing that the different occasions on which  we use the same word, have a something in  common, or in some way resemble. But  while all words thus acquire an abstract or  general meanipg, every communication which  we purpose to make by their means, must, in  comparison with their separate signification,  be particular ; and our putting them together  in order to form a sign for the more particular  thought, will be to deprive them of the abstract  or general meaning which they had indi-  vidually. If this is the real nature of the  process, we are completely mistaken if we  suppose that every word in a sentence sig-  nifies a part of the whole thought, and that  the progression of the words is in corre-  spondence with a progression of ideas which  the mind first puts togetlier within, and then  * Vide Locke, Book II. Chap. 1. Sect. 3.    signifies without What deceives us into this  impression, is, that on considering each word  separately, each is found to have .1 meaning.  Let us try, however, whether the joining of  words into a sentence, does not take from them  the meaning they have separately. Put to-  gether the three words " My head aches,"  and we have an expression, namely the whole  sentence, which signifies what, from a want  of clearness in our remarks, may possibly be  the reader's present particular sensation: hut  my, separately, signifies the general knowledge  I have attained of what belongs to ine as dis-  tinguished from what belongs to another j a  knowledge which is not at all necessary (that  is, the ^'•CTJcra/ knowledge) to the sensation it-  self, nor even to the expression ofit, if we could  find any single sign in lieu of the three which  we have put together. Accordingly, the  word my, as soon as it is joined to the other  words, drops that meaning which it had  separately, and receives a particular limitation  from the word head, which word head is likewise limited by the word rrof ; and the more  particular meaning which both these receive  by each other, is limited to the particular oc-  casion by the word aches. Yet, it may perhaps  be thought, that in this, and in every other  sentence, each word, as the mind suggests it  to the lips, is accompanied by the knowledge  of its separate meaning, and that, in this  manner, if we use the word idea in the un-  restricted sense familiar to the readers of  Locke, each word may be said to represent an  idea. Without entirely denying the justice  of this view of the matter, we offer in its place  the following statement :   17. In forming a sentence for its proper  occasion, the knowledge of which each sepa-  rate word is fitted to be the sign, may, or  may not be in the mind of the speaker: it  may be entirely there, or only in part, or not  at all there ; that is to say, the speaker may  not know the separate meaning of a word,  but only the meaning it is to have in union  with the other words. And even if the speaker does know the full separate meaning  of each word, yet he is not under the neces-  sity of thinking of that separate meaning  every time he uses it : nor does he, in fact,  think of the separate meaning of words while,  in putting them together, his purpose is to ex.  press what has been often expressed before, but  only (and even then but partially and occa*  tonally) when he uses words to work out some  conclusion not yet established in his own mind,  or when a train of argument is required to  convince or persuade other minds. This  statement will of course require some con-  siderations in proof.   18. And first, as to the knowledge of  which each separate word is fitted to the sign,  it is to be observed that our knowledge grows  with the use of words, and therefore our firet  use of them is unaccompanied by that know-  ledge which we gain by subsequent use.  This is true, whether we invent words, or  adopt those already invented. In the rude  beginning of language, the first use of a word for head, would be a use of it for a particular  occasion, and the word would be particular or  proper. If the speaker used it with reference  to himself, it would signify what we now sig-  nify fay the two words my head ". By observ-  ation and comparison, he would find he could  extend the meaning of the word, and apply it  with reference to his neighbours as well as  himself, and it would then no longer be proper  but common ; that is to say, it would signify  a human head, and not mj/ head. Extending  his observations still more widely, he would ap-  ply it with reference to every other living crea-  ture, and it would accordingly then signify a /(u-  ing creature's head. Looking and comparing  still further, he would apply it with referenceto  every object, in which he discovered a part  having the same relation to the whole as the  head of a living creature has to its remaining  parts ; and the word would then, and not till  then, have its present meaning ; that is to   " Compare the characteristics of the Huron lan-  guage referred to in the note appended to Sect. 14.    say, in a separate unlimited state it would  signify neither my head, nor a human head,  nor a living creature's head, but the top,  chief part, beginning, supremacy of any  thing whatever. Nor is the process essentially  different in acquiring the use of words already  invented. A child does not at first put words  together, but, if his head aches, he will say  perhaps "head! head!" using the single  word in place of a sentence. At length he  will say mi/ head, and brother's liead, and  horse's head, and cradle's head. Still there  are other applications of the word to be  learned by use ; and it surely will not be  contended that any one knows the meaning  of a word beyond the cases to which he can  apply it. The knowledge which a separate  word is fitted to signify, may then be wholly  or may be partly in the mind of him who  uses it in a sentence ; and it is very possible  not to be there at all. A foreigner, for in-  stance, who had beard the phrase the head of  the army applied to the general-in-chief, would know the meaning of the phrase, but  might be quite ignorant of the meaning of  the separate words, or even that it was com-  posed of separable words : and probably most  people can look back to a time in early life,  when they were in the habit of using many a  phrase with a just application as a whole,  without being aware that it was reducible  into parts in any other way than as a poly-  syllabic word is reducible.   ig. But even when the speaker, in form-  ing a sentence, has previous possession of all  the knowledge of which each word is sepa-  rately fitted to be the sign, yet he does not in  general think of their separate meaning while  he is putting them together, but only of the  meaning he intends to express by the whole  sentence. For through the frequent use of  phrases and sentences whose forms are hence  become familiar, there is scarcely any senti-  ment, feehng, or thought, that suddenly arises  in the mind, that does not as suddenly sug-  gest an appropriate form of expression. This     [chap.   is manifestly the case with such sentences as  arc in constant use for common occasions :  these the speaker cannot be said to make,  they occur ready-made, and he pronounces  the words that compose them with as little  thought of their separate meaning as if he  had never known them separate. Even when  sentences ready-made do not occur, yet the  forms of sentences will occur, and the speaker  will, in general, do nothing more than insert  new words here and there till the sentence  suits his purpose. Thus he who had said  " My head aches," will recollect the form of  sentence when his shoulder aches, and in  using the sentence, will only displace head  for shoulder: or if his head " is giddy," he  will only displace aches for the two words  quoted, in order to say what he feels.   20. When indeed we use language for  higher occasions than the most ordinary in-  tercourse of life ; when by its means we pro-  secute our inquiries after truth, or use it dis-  cursively as an instrument of persuasion, then the operation itself is carried on by dwell-  ing on and enforcing the abstract mean-  ing of some of the words and some of the  phrases whUe in their progress towards form-  ing sentences, as of the sentences while in  their progress toward forming the whole ora-  tion or book. But in such cases, language  may more properly be said to help others to  come at our thoughts , than to represent our  thoughts : although it is likewise true, that  we could not ourselves have come at them  but by similar means. Independently of the  words, therefore, the thoughts would have  had no existence j neither should we have  proposed the inquiry after the truths we seek,  nor have imagined any thing in other minds,  by addressing which they could be influenced.  Still, however, in these higher uses of lan-  guage, (uses which are to be dwelt on more  at full in the chapters on Logic and Rhe-  toric,) there is the same difference between  words separately, and the meaning they re-  ceive by mutual qualification and restriction ;     «*    that is to say, in these higher uses of lan-  guage, 83 well as in those already remarked  upon, the parts that make up the whole ex-  pression, are parts of the expression in the  same manner as syllables are parts of a word,  but are 7tol parts of the one whole meaning in  any other way than as the instrumental means  for reaching and for communicating that  meaning. And suppose the communication  cannot be made but by more signs than use  will allow to a sentence, — suppose many sen-  tences are required — many sections, chapters,  books, — we affirm that, as the communica-  tion is not made till all the words, sentences,  sections, &c. are enounced, no part is to be  considered as having its meaning separately,  but each word is to its sentence what each  syllable is to its word ; each sentence to its  section, what each word is to its sentence ;  each section to its chapter what each sen-  tence is to its section, &c. Thus does our  theory apply to all the larger portions of dis-  course, and to the discourse itself, Aristotle's definition of a word, namely, ** a sound sig.  niiicant. of which no part is by itself signi^  ficant ;" * for if our theory- is true, the words  of a sentence, understood in their separate  ^rapacity, do not constitute the meaning of the  whole sentence, (i. e. are not parts of its  whole meaning,) and therefore, as parts of  that sentence, they are not by themselves  significant ; neither do the sentences of the  discourse, understood abstractedly, constitute  the meaning of the whole discourse, and  therefore, as parts of that discourse, they are  not by themselves significant : they are sig-  nificant only as the instrumental means for  getting at the meaning of the whole sentepce  or the whole discourse. Till that sentence  m oration is completed, the Word t is unsaid  which represents the speaker's thought- If   ♦ 4^6jvii (ni/xAVrixiii vi'; A*sf oj oOih B<rri xalP abrh arif/iotv-i   rikiv. De Poetic c. 20.   f In this wide sense of the expression is the Bible  called the Word of God. We shall distinguish the  term by capitals, as often as we have occasion to use it  with simitat comprehensiveness erf meaning.        it be asserted that the parallel does not hold  good with regard to such words as Aristotle  has in view, because, of words ordinarily so  called, the parts, namely the syllables, are not  significant at all, while words and sentences  which are parts of larger portions of dis-  course, are admitted to be abstractedly sig-  nificant, however it may be that their abstract  meaning is distinct from the meaning they re-  ceive by mutual limitation, — we deny the  fact which is thus advanced to disprove the  parallel : we affirm that syllables are signifi-  cant which are common to many words ; for  instance, common prefixes, as wn, mis, corif  dis, bi, tri, &c.; and common terminations,  as nesSjJul, hood, tion, fy, &c. j and so would  every syllable be separately significant, if it  occurred frequently in different combinations,  and we could abstract out of such combina-  tions the least shade of something common in  their application : nor is it peculiar to syllables  to be without signification individually; the  same thing happens to words when they are always combined in one and the same way in  sentences *. Conceiving, then, that we are  fully warranted in the foregoing statement, we  affirm it to be the true basis of Grammar, Lo-  gic, and Rhetoric. Leaving the latter two  subjects for their respective chapters, we pro-  ceed, in this chapter, with such further proofs  as may be necessary to confirm our position  as far as Grammar is concerned.   21. We have imagined the gradual de-  velopment of all the parts of speech recog-  nized by grammarians ; but no reference has  yet been made to the inflexions which some  of them undergo; nor to the diflference of  meaning they receive in consequence of such  inflexion ; nor to interchanges of duty among  the several parts of speech ; nor to pecu-  liarities of use, which so oflen take from them  their characteristic differences; nor to va-   " What separate meaning, for instance, is there,  now, in the words which compose such phrases as, by-  and'bij, goodJi'ye, ftatc-du-you-do, 8cc.     I ON GEAMMAB. t^CHAP. I.   riety of phrase in expressing the same mean-  ing j nor to the power which we frequently  exercise of making the same communication  by one or by several sentences ; nor, in  short, to the multitude of refinements which  grow out of an improving use of language,  many of which seem to confound and destroy  the definitions we obtain from the first and  simplest forms of speech. All these seeming  irregularities will, however, find a ready key  in the general principles we have ascertained.  For our general principles are these : i. That  two or more words joined together in order  to receive, by means of each other, a more  particular meaning, are, with respect to that  meaning, inseparable j since, if separated,  they severally express a general meaning not  included in the more particular one. Hence  it follows, that words may as easdy receive a  more particular meaning by some change of  form, as by having other words added to  them : nay, it seems more natural, when the  principle is considered, to give them a more particular meaninjj by a change of form than  fay any other way. — ii. That a word is tliis or  that part of speech only from the. office it  fulfils in making up a sentence. From this  principle it follows, that a word is liable to  lose its characteristic difference as often as it  changes the nature of its relation to other  words in a sentence ; and it also follows, that  every now and then a word may be used ia   L8ome capacity wliich makes it difficult to be  assigned to any of the received classes of  words. — iii. That since the parts of which a  sentence is composed denote general know-  ledge, distinct from the more particular mean-  ing of the whole sentence, it may be possible i  to work our way to a particular conclusion,  either in reasoning for ourselves or in per- j  auading others, by putting such words to-  gether as form a sentence, that, as a whole,  expresses the particular conclusion; but that  when, from the length of the process, this  cannot be accomplished in a single sentence,  we shall be obliged to work our way by many sentences, whicli will bear the same relation  to the conclusion implied by them as a whole,  as the parts of each sentence bear to what  the sentence expresses. From this principle  it follows, that using many or fewer sentences  to arrive at the same result, will frequently  be optional. The examination of these se-  veral consequences a Httle more in detail  with reference to the principles from which, i  they flow, will complete the chapter.  It is well known, that the inflexions  which nouns, verba, and kindred words are  liable to in many languages, are comparatively  unknown in English, the end being for the  most part attained by additions in the shape  of distinct words. Thusthe particular re-  lation of the word Marcus to the other words  in the sentence, which in Latin is made  known by altering the word into Marco, is  signified in English by the word io ; and to  MarcuSy esteeming the two words as one ex-  pression, is the same as Marco. So likewise  the word amo, which in English signifies /       Gl     l&ve, is adapted to a different meaning by  being changed into amabit, which in English  is to be signified by he mil love, the three  words, taken as a whole, being the same as  the single Latin word. Shall we call to Mar-  cus the dative case of Afarcus, and he will ,  love, the third person singular of the future  tense of / love, as Marco and amabit are re-  spectively called with reference to Marcus  and amo? or shall we parse (resolve into  grammatical parts) those English sentences,  and so deny, in our language, a dative case and '  a future tense ? It is evident that this is a  question which only the elementary grammar-  writer is concerned with : he may suit his own  convenience, and contend the point as he -I  pleases. Thus much is certain, and is quite  sufficient for our purpose, — that to Marcus ,  cannot be considered a dative case, nor he wiU ]  love a future tense, on any other principle than  the one it is stated to flow from, namely;  that marked i. in Sect. 21.   23. To the practical grammarian we may likewise frequently allow, for the sake of con-  venience, the continuing a word under its  usual denomination, when its office, and con-  sequently its character, are essentially changed.  He will love, taking the three words as one  expression, are a verb both on the principles  we have ascertained, and in the practice of  the elementary grammarian : but in parsing  tliis verb — this p^iio, dictum, communication,  01 sentence, — only one of the three words  can properly retain the denomination of verb,  viz. that word to which the others have a re-  ference, by which they hang together, and  are signified to be a sentence, namely, ■will.  As to the word love, which the practical  grammarian will tell us is a verb in the infi-  nitive mood, it does not in fact fulfil the  office of a verb, but of a substantive. But if,  by calling it a verb in the infinitive mood, its  character for practical purposes is con-  veniently marked, we may fairly leave the  matter as it stands. All we insist upon is,  that the doubtful character of the word is a     consequence of the principle marked ii. in  Sect 21."     I • Strictly, there is no verb but when a c  cation ib actually made ; and that word is then the  verb, which expreaseB the communicatioti, or which,  when several words are necessary, ie the sign of union  among the whole of them. A verb not actually in  use is acaptain out of commission, and if we still call  it a verb, it is by courtesy. Home Tooke never an-  swered his own question, " What is that peculiar dif-  ferential circumstance, which added to the definition  of a noun, constitutes a verb ?" (Diversions of Purley,  Vol. II. p. 514),) because he bad previously blinded  himself to the perception of what it is, by laying down  the principle already animadverted upon in a note ap^  ponded to Sect. 3., namely, that the business of the  mind, as far as regards language, extends no fiirther  than to receive impressions: the consequence of which  priuciple would be, (if it could have any consequence  at all,) that the first invented elements of speech were  nouns, or names for those impressions ; which accord-  ingly seems to be his notion, and that verba afterwards  arose from nouns, by assuming the difierential some^  thing that was found to be wanting. Our doctrine is,  that the original element of speech contained both the  artificial noun and the artiiicial verb ; that the mind  exerted its active powers in order to evolve the artir  ficial parts ; that the act of joining them together   It might also perhaps admit of dis-  pute, whether substantives in what are called  their oblique cases, do not, by being the ad-  juncts to other words, and taking a change  of form to signify their servitude, cease in  fact to be substantives, and merit no higher  name than adjectives or adverbs. But here  again we consult convenience by using the  descriptive title, a substantive in the geni-  tive, dative, accusative, or ablative case. We  only need insist, as philosophical inquirers,  that the definition of a substantive in Sect.  15., is not less correct, because it does not in-  clude a substantive in these oblique cases*.   i^ain, made them a verb ; but if the title was given to  one more than to the other, it was given to that which  arose most immediately from the occasion, and took  the other to fis or determine it ; and that subsequently  that word in a sentence came to be coneidcred the  verb, which joined the parts K^ether, and signified  them to be a sentence.   * The only oblique case in English substantives,  is the genitive terminating in 'fi or having only the  apostrophe, the s being elided. Grammarians, in-  deed, have found it necessary to allow an accusative. The very doubt itself which so often  arises, whether a word is this or that part of  speech, — the varying classification of the parts  of speech by different grammarians, — are cir-  cumstances entirely favourable to the theory  advanced, and adverse to any theory which  attempts to explain the parts of speech by a  reference to the nature of our thoughts in-  dependently of language. For if the parts of  speech had taken their origin from this cause*   because pronouns have it : for if  in the sentence Cas-  s-iua loved him, we put the noun where the pronoun  stands, and say, Casmus loved Brutus, it seems con-  venient to consider the noun to be in the same case  that the pronoun was in. On the same principle, the  substantives which, in the classical languages, have no  accusative distinct from the nominative, are neverthe-  less considered to have an accusative, because, lite  other substantives, they can be used objectively with  regard to verbs active and certain prepositions. On  the score of convenienee this must be allowed. But  when words are taken separately, (and this, by  the very delinttion of the word, is the business of  parsing,) it is evident that only those substantives  are, strictly speaking, in the accusative case, which,  when uaed as just staled, have a form to signify it.   surely we could never have been in doubt  either as to vskat, or koio many, they were.  But our theory accounts at once for the in-  certitude on these, and many other points.  We admit no original element of speech but  the VERB, or that one sign which denotes what  the speaker wishes to communicate. If no  one sign can be found adequate to the occa-  sion, then we must make up a sign out of two  or more. Now the division of a verb into  these parts of speech, is necessarily attended  by the consequence, that each part is insigni-  ficant of a communication by itself, and that  they signify it only by being joined together.  Supposing a sentence never consisted but of  two parts, the mere act of joining them to-  gether, would be sufficient to signify that  they were a sentence or verb. But the ne-  cessity or usage of speech being such, that  the hearer knows a sentence may consist of  two or of many words, how is he to be warned  that a sentence is formed, unless to certain  words is given the power of signifying a sentence, while to other words this power is de-  nied until associated with a word of the for-  mer class? Hence the distinction between  noun and verb ; a distinction arising out of  the necessities of speech, and not out of the  nature of our thoughts. The noun and the  verb, then, are the original parts of speech, the  verb beingthepreviouselementof both. But  as each derives its office and character solely  from an understanding between the speaker  and the hearer, a change of understanding  may make them change their offices, and so  the verb shall sometimes be a noun, and the  noun a verb. These changes occur in fact  so frequently, as to require no example.  Then, as we have seen, a noun will frequently  be used as the adjunct of another noun, and  so become an adjective j an adjective or other  word may be joined to a verb, and so become  an adverb j and any of these, by frequent use  in particular combinations, may acquire, or  seem to acquire, a new and peculiar office,  and so become articles, prepositions, and conjunctions. But who can ascertain that de-  gree of use, which, to the satisfaction of every  grammarian, shall fix them in their acquired  character • ? Nay, must not every such word,  of necessity, while in transitu, be at one period  quite uncertain in its character ? In this man-  ner do the effects arising out of such a theory of  the parts of speech as we have supposed, agree  with actual effects, and fully explain them.  26. Again, on any other hypothesis than  the one before us, what are we to think of  compounded nouns, adjectives, verbs, adverbs,  &c., of which all languages are full ? With-  out adverting to established compounds, such  as (to take the first that occur) husbandman.     * What, for instance, shnll we call the word fi/ce in  such phrases as like him, like me? Originally theword  unto intervening between it and the pronoun, govern-  ed the latter ; but unio cannot now be aid to govern  the pronoun, since it has been so long disused, as to be  no longer mtderstood. We miglit therefore say, that  like is a preposition governing the pronoun : — the  point perhaps is disputed ; — be it so : for this fact jugt  serves our argument.     :    m     worJcmanlike, waylay, browbeat, nevertheless ;  without bringing words from the ilUmitably  compounded Greek language, — we may refer  to such as are not established, but compounded  ibr the particular purpose ; as when Locke  speaksof '* Mr. 'Nev/ton'sjiever-enough-io be ad-  mired book," where the words in italic are an  adjective; and when some old lady pettishly  says to her grandchild " Don't dear Grand'  mother me i" v/here the whole sentence, ex-  cept the pronoun governed in the accusative,  is a verb. So in the phrases to fiAxov <rvvoia-eiv  7^ iroXei the being-about-to-be'prqfitable-to-t/ie-   Ci'/y,— and, TO Tct Tou iroXefiov raj^ii xal Kara   Kaipov Trpa.TTea$at, the completing-spcedili/'and-  seasonablif-the'lhings-for-the-war, we are war-  ranted in considering the whole of the words  following the article, to be, in each instance,  a noun-substantive. For these, and for every  other species of compound, the theory before  US at once accounts. For it shows that the  use of many words to form one sentence, arises  out of the necessities of language only, the na-      tiira] impulse of the mind being tomake its com-  munication by a single expression. Having  complied, then, with the necessities of lan-  guage, and rendered it capable of serving as  the interpreter of much more knowledge than  we could have attained without its help ; we  then return on our steps, and give a unity to  our expressions in every possible way.   27. The corruption of early phrases, by  which, in so many instances, they come under  the denomination of adverb, will be found  another obvious consequence of the present  theory, while they abundantly perplex the  grammarian who attempts to reconcile them to  any other system. "Omnis pars orationis"  says Servius, "quando desinit esse quod est,  migrat in adverbium." " I think" says Home  Tooke, " I can translate this intelligibly —  Every word, quando desinit esse quod est,  when a grammarian knows not what to make  of it, migrat in adverbium, he calls an ad-  verb."* What indeed can be made of such     ' Divctsioiia vi Puiky, Vol. I.     expressions as at all, by and by, to be sure, for  ever, long ago, no, yes. They are adverbs,  say the grammarians. But (to take the  phrases first) what are the words, individually,  of which the adverbs are composed? The  answer will be, they are prepositions, adjec-  tives, &c., which remain from the corruption  of regular phrases once in use. This is a true ,  account of the matter : — yet it leaves us still  to ask, what ai'e these single words, now that  the phrases which produced them exist no  longer in their original state. Let any gram-  marian, if he can, prove their right to the  name of any of the received parts of speech.  Our system, if it does not make a provision  tor them by a name for a new class of words,  at least shows the cause and the nature of their  difference. For according to our principles,  words have both a separate and a, joint signifi-  cation. But if words should be constantly     another place, he says " that this class of words, (ad-  verb,) is the common sink and repository of all hetero-  geneous, unknown corruptions."    occurring in particular combination, this ef-  fect will enaue, — that their separate significa-  tion in such hackneyed phrase, will at last be  quite unattended to, and their joint significa-  tion alone regarded ; — and such phrases will  then be as liable to be clipped in the currency  of speech, as any long word which is trouble-  some to be uttered at full : — thus will the re-  maining parts of the phrase be fixed for ever  in their joint, and lose for ever their separate  signification*. So much for the words com-  posing adverbial phrases. But what are we  to say for no, yes, which probably had the  same origin as the phrases ? These have not,  Hke the phrases, a compound form, nor do  they, like the phrases, always assist in making  up a sentence, but are frequently and proper-  ly pointed oft' by the full stop. Are we, un-  der such circumstances, to call them adverbs P  •• Yes." This is the answer our grammarians  make. But is there, in these words, any     • Thcwordtoas asignofthcinfiiiitivL'moodcumcs  onilcr this doicnption.    thing which gives them a just claim to be  ranked with any of the received classes of  words? " No." This is an assertion it would  be difficult to gainsay. For consider them  well, and we shall find, that, in their present  use, they are not j3ar/s of speech at all, except  with reference to the larger portions of dis-  course of which all the sentences are parts :  they are sentences ; and they afford a striking  example of what was intimated in the prece-  ding section, namely the tendency oflanguage,  in a mature state, to return on its early steps  as far as can be done without losing the ad-  vantages gained : for not only do we, when-  ever we can, bring the smaller parts of speech  into such union as to form larger parts, but  in some instances, (as in these last,) we come  round again to the simpHcity of natural signs.  28. This union of the smaller into larger  parts of speech, and the power we have to dis-  pose the same materials into more or fewer  sentences, will furnish further proofs, that the  present theory of language can alone be the true one. A proper examination of compound  sentences will show, that the grammatical  parts into which they are first resolvable, are  not the single words, but the clauses which  are formed by those words ; which clauses are  substantives, and verbs, and adjectives, and  adverbs, with respect to the whole sentence,  however they may, in their turn, be resolva-  ble into subordinate parts of speech bearing  the same or other names. To take the fol-  lowing as an example : " The sun which set  this evening in the west, will rise tomorrow  morning in the east." The two parts into  which this sentence is resolvable, are, to all  intents and purposes, a noun-substantive and  a verb, if considered with respect to the whole  sentence*. This is the first, or broadest ana-   * And HO may the two parts (technically called the  protasis and apodosis) of every periodic sentence be  considered : for every period, (TEfi'ofos, a circle,) is re-  solvable into two chief parts, the one assimilated to  the semicircle tending out, the other to the rendering-  in, or completing semicircle. These answering parts  ate commonly indicated in Greek by iJth — ft; in En- ]lysis. Then taking the former of these two  chief constructive parts, we shall find it re-  solvable into these two subordinate parts, viz.  the sun, a noun substantive, and w?iick set this  evening in the west, its adjunct or adjective : —  the latter chief constructive part being in the  same way resolvable into will rise, a verb, —  and, tomorrow morning in the east, its ad-  junct or adverb. Returning to the adjective  of the former chief constructive part, we shall   gUsh very frequently by as — so; though — yet, &c.  There may exist a doubt in most sentences so construct-  ed, whether the one part has a claim to be considered  tlie verb more than the other : each part is meant to be  insignificant by itself, and, {as was lately supposed of  the parts of speech in their early institution, before a  sentence was composed of more than two words,) they  Bifrnify a communication by the very act of being join-  ed together. Yet as the protasis is a clause in sus-  pense, and so resembles a substantive in the nomina-  tive case before the verb is enounced ; — as the apodo-  618 removes the suspense, and so resembles the verb in  its effect on tlie substantive ; — it seems that in con-  Hidering the protasis as a nominative case and the apo-  dosis aa its verb, we shall not be far from taking a ,  right view of the principle and procedure.     7find it, if separately viewed, to be a sentence  having its nominative which, its verb set, and  the latter having its adverb tins evening in the  ivest ; which adverb is resolvable into two  clauses of which the former consists of the de-  monstrative adjective this, and evening, a sub-  stantive used objectively with relation to the  preposition on understood •• The latter clause  in the west is nearly similar in its grammatical  parts ; but the preposition it depends upon, is  not understood. This subordinate or adjec-  tived sentence which we have thus taken to  pieces, (viz. which set this evening in the west,')  is however no sentence when considered with   " Or more properly this eeening is an adverb ; for a  word cannot justly be called understood, when its ab-  sence is not suspected till the grammarian informg us of  it : — on before euch phrases when the custom to omit  it had just begun, was indeed understood; it is now  understood no longer, and what remains of any such  phrase is an adverb. As the next clauses, in the tceat,  retains its preposition, we are at liberty to parse the  clause, instead of considering it, in the whole, as an  adverb attcndijig the verb set, though we are also ab  liberty to consider it in the latter way.     reference to the larger sentence of which it is  a grammatical part : but it might, if the  speaker had pleased, have been kept distinct,  and the same meaning have been conveyed by  two simple sentences, as by the one com-  pound one : e. g. " The sun set this evening  in the west : — It will rise tomorrow morning  in the east." Here, we have two sentences or  commuuications. But this is nothing more  than a difference in the manner of conveying  the thought, precisely analogous to the using  of two words that restrict each other, in place  of a single appropriate sign. In the instance  before us, the thought, whether expressed by  the one sentence or the two, is the same ; and  it is one and entire, whatever the expression  may be. For we must not confound the two  facts referred to in the sentences, with what  the mind thinks of the facts : — it is the con-  nexion of the facts that the speaker seeks to  make known. Yet he may imagine he can  best make it known by using the two sen-  tences ; for though, it is true, that while they  are in progress, they will be understood se-  parately, yet no sooner will they be com.  pleted, than the hearer will understand them  limited and determined the one by the other,  and no longer abstractedly as while they were  in progress. In this manner, in correspond-  ence with the principle stated Sect. 21 . iii., will  the same result be obtained by the two, as by  tlie one sentence.   29. This power, which exists in all lan-  guages, of expressing the same thought in a  variety of different ways, is, one would think,  a suiEcient proof, by itself; that thoughts and  words have not the kind of correspondence  whicli is commonly imagined : for if such cor-  respondence had existed, the same thoughts  would always have been expressed, if not by  the same words, yet by words of similar mean-  ing in the same order. Let us suppose that  tlie expressing a thought by several words,'  I had been, (which it is not,) a process analo-  gous to that of expressing the combined sounds  of a single word by several letters. There is  the more propriety in instituting tlie compa-  rison, because men were driven to the latter  expedient by a necessity similar to that which  drove them to the former. For, no doubt,  the first idea of the inventors of writing was,  to appropriate a character for every word ; and  we are told that, to this day, a practice near  to this prevails in China, But it was soon  found that the immense number of characters  this would require, must make the completion  of the design next to impracticable ; and the  expedient was at length adopted of spelling  words. By this expedient, twenty four cha-  racters, by their endless varieties of position  with each other, are capable of signifying the  multitude of words, and the innumerable sen-  tences, which constitute speech. The parts  of speech were set on foot by a similar urgency,  and in tlie same way. At first, every sound  was a sentence. But the communications  which the business of life required, far, far  outnumbered every possible variety of sound.  It was fortunate, therefore, when a necessity     eo     ON C   arose to give to some of the sounds a less par-  ticular application ; for then the requisite sign  was formed out of two or more sounds already  in use, and no new sound was required. So  far the parallel holds ; but it will go no further.  In the spelling of words by letters, the same  letters must always be used, — if not the same  characters, yet characters of the same power.  And it would have been the same in spelling  a thought by words, if the process had been  what it is commonly supposed to be :— that is  to say, the same thought would always have  been expressed by the same words, or if  the words had been changed, the change  must have been word for word, as in a  completely literal translation from one lan-  guage to another. How different this is  from fact, hardly needs further examples in  proof. Mr. Harris attempts to shew *, that     • Hermes, Book I. Chap. 8. We cordially agree  in Home Tooke's opinion of thia well-known work,  that it is " an improved compilation of almost all the  enors which grammarians liave been accumulating     S     tlic different forms or modes of sentences,  depend on the nature of our thoughts. That  the character of a thought has an influence in  determming our preference of this or that  mode of speech, needs not be questioned; but  all the modes of speech, are interchangeable  at pleasure, and therefore they cannot aub-  stantiallydepend on thenature of our thoughts.  An affirmative sentence, " 1 am going out of  town," ma be made imperative, " know,  that I am going out of town ;" or interrogative,  *' Is it necessary to say, that I am going out  of town ?" A negative sentence, " No man is  immortal," maybe made affirmative, "Every  man is mortal." It would waste time and  patience to multiply examples. The con-  clusion, then, is, that the parts of speech and   from the time of Aristotle, to our present days." Di-  versions of Furley, Vol. I. page 120. Vet occasionally,  when our etymologist runs a little bard on this Com-  piler of errors, the theory we advance, opposite as it ib  in its general tenor to all that the Hermes conttuns,  will be found to lend its author a lift. See the section  ensuing in the text.     the forms of sentences, are alike attributable  to the necessities and conveniences of lan-  guage, and not to the nature of our thoughts  independently of language. Perhaps by this  time it may almost seem that an opinion con-  trary to this has no defined existence, and that  the combat has been against a shadow. But  this is not true. If the opinion opposed to the  principles contended for, is seldom ^rwio%  expressed, it is nevertheless universally under-  stood — it is at the bottom of all the systems  of grammar, of logic, and of rhetoric, which  we study in our youth, and which we after-  wards make our children study ; and as it is  an opinion radically, essentially wrong, the  pains employed to overthrow it, cannot, if  successful, have been supeiHuous. In no  other way was a preparation to be made for  an outline of the higher departments of Sema-  tology.   30. New, however, as we believe our  theory to be, yet it is not without authorities in  its favour ; and with these we shall conclude the chapter. Harris, the author of" Hermes,"  in treating of connectives, stumbles unawares  on the fact, that a word which is significant  when alone, may he no significant part of  what is meant hy the expression it helps to  form. He makes nothing indeed of the fact,  further than to lay himself open to the ridicule  of Home Tooke for tKe inconsistent assertions  in which it involves him. " Having" says  Tooke *, "defined a word to he a sound significant, he (viz. Harris) now defines a pre-  position to be a word devoid of signification ;  and a few pages after, he says, ' prepositions  commonly transfuse something of their own  meaning into the words with which they are  compounded.' Now if I agree with him,"  continues Tooke, " that words ai'e sounds  significant, how can I agree that there are  sorts of words devoid of signification ? And if  I could suppose that prepositions are devoid  of signification, how could I afterwards allow,     ' Diversions of Purley, Vol. I. Cliap. 9.     9»    that they transfuse something of their own  meaning?" Yet with all this, Harris is right,  only that he is not aware of the principle,  which lies at the bottom of his own doctriue.  A preposition, as well as every other word,  is a sound significant j — it has an independent  abstract signification : but being joined into a  sentence, it is devoid of that signification it  had when alone : it has then transfused its  own meaning into the word with which It is  compounded, as that word has transfused its  meaning into the preposition — that is to say,  they have but one meaning between them.   31. But Dugaid Stewart, in his Philoso-  phical Essays, furnishes a direct, and a more  satisfactory authority in favour of the theory  we have advanced. " In reading " says he •,  " the enunciation of a preposition, we are apt  to fancy, that for every word contained in it,  there is an idea presented to the understand-  ing ; from the combination and comparison of  which ideas, results that act of the mind  • Philosophical Essays, Essay 5. Chap. I.     called judgment. So different is all this from  fact, that our words, when examined sepa-  rately, are often as completely insignificant aa  the letters of which they are composed, de-  riving their meaning solely from the connexion  or relation in which they stand to others." —  Again : " When we listen to a language which  admits of such transpositions in the arrange-  ment of words as are familiar to us in Latin,  the artificial structure of the discourse  suspends, in a great measure, our conjectures  about the sense, till, at the close of the  period, the verb, in the very instant of its  utterance, unriddles the jenigma. Previous  to this, the former words and phrases resemble  those detached and unmeaning patches of  different colours, which compose what op-  ticians call an anamorphosis ; while the effect  of the verb, at the end, may be compared to  that of the mirror, by which the anamorphosis  is reformed, and which combines these appa-  rently fortuitous materials, into a beautiful  portrait or landscape. In instances of this sort, it will generally be found, upon an  accurate examination, that the intellectual  act, as far as we are able to trace it, is  altogether simple, and incapable of analysis ;  and that the elements into which we flatter  ourselves we have resolved it, are nothing  more than the grammatical elements of  speech j — the logical doctrine about the com-  parison of ideas, bearing a much closer  affinity to the task of a school-boy in parsing  his lesson, than to the researches of philoso-  phers able to form a just conception of the  mystery to be explained." — Had this acute  philosopher brought these views of language  to the elucidation of Grammar, Logic, and  Rhetoric, and so have cleared them from the  incrusted errors of immemorial antiquity,  the reader's patience would not have been  tried by the chapter now finished and those  which are to follow.   Say, first, of God above, or man below.   What can we reason, but from what we know.   POPE.   1. In commencing this branch of Semato-  logy, it may be as well to define not only this  but the other branches, that their presumed  relation and difference may at once appear :   i. Grammar, then, is the right use of  words with a view to their several functions  and inflexions in forming them into sentences ;   ii. Logic is the right use of words with a  view to the investigation of truth ; and   iii. Rhetoric is the right use of words with  a view to inform, convince, or persuade *.   * This definition includes the poet^s use of words  as well as that of every other person, who, having one  or more of the purposes mentioned in view, speaks or     fts          2, The object of the present chapter  will be, to show that there is no art of Logic  (except sucli as is an imposition on the un-  derstanding but that which arises out of the  principles ascertained in the previous chap-  ter ; — that tliis, which is the Logic every man  uses, agrees with the definition in the previ-  ous section; —and that we cannot carry the  definition further, without transgressing a  clearly marked line which will usefidly distin-  guish between Logic and Rhetoric.   3. In affirming that there is no art of Lo-  gic but that which arises out of the use of  signs, we do not mean that reason itself is de-  writes skilfully. Should it be said, that the poet's end  is to delight, — we answer that he gains this end by in-  forming, convincing, or persuading. The true dis-  tinction between the poet and any other speaker or wri-  ter, lies iu the different nature of their thoughts, In  communicating his thoughts, the poet, like others who  are skilful in the use of words to inform, convince, or  persuade, is a rhetorician ; although, with reference to  the creative genius displayed, {iroix^n a jrcn'm,) and al-  so with reference to the added ornament of metre or  rhyme, we chU the result, a poem.         pendent on language. Reason must exist pri-  or to language, or language could not be in-  Vented or adopted. What we affirm is, that  prior to the use of words or equivalent signs,  »o art exists : the mind then perceives, as far  fts its powers extend, intuitively; and thus  working without media, it can no morye ope-  rate otherwise than as at first, than the eye  can see otherwise than nature enables it. The  mind can, however, invent the means to assist  its operations, as it has invented the telescope  to assist the eye ; the difference being, that  the telescope is not such an instrument as all  minds would invent, but the use of signs to  assist its operations, grows out of the human  mind by its very constitution, and the influ-  ence of society upon that constitution.   4. That writers on Logic do not in gene- '  ral view the matter in this light, is evident  from this, that they devote, or at least they  persuade themselves and their readers that  they devote, a great pait of their considera-  tion to the operations of the mind indepeud-     9entlyof language, which, for any practical end,  must evidently be nugatory on the supposi-  tion stated above ; since, if the mind, without  the aid of signs, can but operate as nature en-  ables it, all instruction concerning what the  mind does by itself*, will but be an attempt   * WattB Bays t&at " the design of Logic, b to  teaeli us the right use of our reason." Recurring to   our comparisDU in the previous section, this is as if any  one had proposed to teach the right use of the eye. It  is true indeed, a man may be taught a right use of the  eye, — that is, he may be taught to observe proper ob-  jects by its means ; and so may he be taught a right  use of reason by applying it to those things which are  conducive to his improvement and happiness. But all  this belongs to Morals not to Logic ; nor was this  Watts's meaning. He imagined a man could be tattght  how to use his reason independently of any considera-  tion of an instrument to work with ; as if any one had  offered to teach mankind how to sec with their eyes.  Now, there is nothing preposterous in offering to show  how a telescope is to be used in order to assist the  eye ; nor any thing preposterous in trying to show  how words may be used in a better manner than com-  mon custom instructs us, in order to assist the  mind. — Be it observed that the objection here made,  is to what was proposed to be done by Watts, and not to teach us that which every one does with-  out teaching, and which no teaching can  make us do better : but if, by the use of signs,  the mind can carry its natural operations to  things which it could not reach without signs,  the instruction of the logician should at once  begin by pointing out the use and the abuse  of signs. Now this is in fact the point at  which every teacher of logic does begin, how-  ever he may disguise the real proceeding from  himself, and whatever confusion he may throw  over his subject, by not knowing in what way  he is concerned with it. In pretending to  teach us the nature of ideas j logicians do no-  thing but teach us what knowledge we attain   to what he actually does, except so far as he has done  it amiss from setting out badly. What follows in the  text will explain this last observation.   Our illustration must not lead the reader to think  we are ignorant of the fact that men do learn to see,  that is, to correct, by experience and judgment, the im-  pression of objects on the retina. We take the matter  as commonly understood, namely, that men see correct-  ly by nature, which is near enough to the truth for our  present purpose.     by means of words-, and when Home Tooke  says of Locke's great work, that it is " merely  a grammatical Essay or Treatise on words," *  be comes so near the truth, that it is wonder-  ful he should have so wrongly interpreted  other parts of that philosopher's doctrine.  Putting a wrong construction on Locke's just  fundamental principle, that the mind has no  innate ideas, Tooke affirms that '* the busi-  ness of the mind, as far as it regards language,  extends no further than to receive impres-  sions, that is, to have sensations or feelings.  What are called its operations are merely the  operations of language." t This is palpably  absurd ; ftx how can language operate of it-     • Diversions of I'utley, Vol. I. page 31, note.   -j- Diversions of Purley, Vol. I. page 51. We have  already quoted this passage ; and perhaps more than  ontc : but it is hoped we need not apologise for the re-  petitions whicli may be found in this and the next  chapter. Our purpose is to trace Grammar, Logic, and  Rhetoric, to a common source, and in doing so, if they  really have an origin in common, we must necesEarily  traverse the same ground repeatedly to come at it          aelf? The mind must observe, compare, and  judge *, before it can invent or adopt the lan-  guage of art ; and having adopted it, every  use of it is an exercise of the reasoning facul-  ty, excepting only that kind of instinctive use,  in which some short sentence takes the place  of a natural ejaculation. Feelings or sensa-  tions we cannot help having ; but these do not  help us to language. This requires the ac-  tive powers of the mind ; and every word, in-  dividually, will accordingly be found the sign  of something we kno-w, obtained, as every  thing we know must be obtained, by previous  acts of comparison and judgment, involving,   * These powers of the mind are innate, — that is  to e&y, they belong to tlie mind by its constitution, al-  though sensation is the appointed means for first call-  ing them forth. It should seem as if Tooke thought  nothing was bom with man except the power to receive  senEStionB or feelings, and that reason comes from Un-  guage ; an opinion so preposterous that we can hardly  think him capable of it ; and yet, from what he says,  no other can be understood : — " Jleason,"" he says, " ia  the result of the senses, and of experience." Diver-  sions of Purley, Vol. 11, p^e 16.     J^    in every instance beyond that which sets the  sign on foot, an inference gained by the  use of a medium. And such, as we have seen,  are the necessities of speech, that tliey lead  us constantly to extend the application of  words ; which extension requires new acts of  comparison and judgment; and thus, by  means of words, (or signs equivalent to words,)  we are constantly adding to our knowledge,  still carrying the signs with us, to mark and  contain it, and to serve afterwards as the media  for reaching new conclusions. It is only ne-  cessary to read Locke's Essay with this ac-  count of the matter in view, to prove that it  is the true account j so readily will all that he  has said on ideas, yield to this simple inter-  pretation *, He who first made use of words     * " Read," saya Home Tookc, " the Essay on the  Underslnnding over with attention, and see whether  all that its immortal author has justly concluded, will  not hold equally true and clear, if we substitute the  composition, &c. of lerraa, wherever he has supposed a  composition, Sec. of ideas. And if that, upon strict  examination, appear to you to be the case, you will equivalent to yellow, white, heat, cold, soft,  hard, bitter, sweet*, used them, respectivelyy  to signify the individual sensation he was con-  scious of, and in that first use, the expression  must have been a sentence, or tantamount to  a sentence. By experience, he came to know  the exterior cause of that sensation, and after-  wards, by the same means, to know that other  need no other argument against the composition of  ideas : it being exactly similar to that unanswerable one  which Mr. Locke himself declares to be sufficient  against their being innate. For the supposition is un-  necessary : every purpose for which the composition  of ideas was imagined being more easily and naturally  answered by the composition of terms, whilst at the  same time it does likewise clear up many difficulties in  which the supposed composition of ideas necessarily in-  volves us." Diversions of Purley, Vol, I. page 38.  In this, and other passages, H. Tooke is very near  the trutli ; but he nevertheless misses it. " The com-  position, Sic. of terms "' in lieu of " the composition, &c.  of ideas," does not describe the actual process. But  Tooke, who discovers that Locke has started at a  wrong place, begins his own theory from a false found-4  ation.   • yide Locke, B. 2. ad initium : we have used  the examples before. Chap. I, Sect. 16.      ol^ects produced the same sensation. To  these several objects he would naturally apply  the expression (originally tantamount to a sen-  tence) by which he first signified the sensa-  tion ; and suppose those objects already pro-  vided with namesj the expression would, in  such pew application, be tantamount to a  name or noun-adjective. Thus in the several  instances, he would use two names for one  thing, in correspondence with our present  practice when we say, yclhw flower, yellow  sky, yellow earth, yellow skin. Such a proce-  dure is an effect and a proof of what the speak-  er has observed in common, and of what he  observes to be different, in the several ob-  jects; and this is a knowledge evidently ob-  tained from comparison and judgment exer-  cised on many particulars. The same know-  ledge enables us, when we please, to drop the  words which name the objects accojding to  their differences, and to retain only that which  signifies their similarity, and the name-adjec-  tiv e then becomes a name-substantive standing for the sensation itself whenever or how4  ever produced, and not standing for it in amy  particular case, until limited to do so by the  assistance of other words. Individually and  separately, then, these words^ viz. yellow;  white, heat, cold, soft, &c. are, to him who  has properly used them in particulars, tiie  eigns of the knowledge he ha^ gained by com^  paring those particulars :«^hey denote con-  clusions arising out of a rational process which  has been carried on by their means ; which  conclusion, as to the word^elloWf for instaop^  is this, — ^that there are » great mwy Qbjepte  which produce the same sensation, or a sensar  tion very nearly the same j*— ^(very nearly the  same, since yeU&w^ by all who have acquired  a full use of the word, is applied to different  shades of yellow j — ) and to understand the  word, is to have arrived at, or kno^ this cof^-  elusion.   5. The words so far referred to, are those  which denote what Locke calls simple ide^js.  Now, we may reasonably doubt wheth^ the mind could have obtained the knowledge,  which, as we have seen, is included even in  a word of this kind, if it had not been gifted  with the power of inventing a sign to assist  itself in the operation. That sign needs not  be a word, though words are the signs com-  monly used. He who remembers the sensa-  tion of colour produced by a crocus, is re-  minded of the crocus the next time he has  the same sensation from a different thing ;  and the crocus may become the sign of that  sensation arising from the new object, and  from every future one. And this is the way  in which the mind probably assists itself an-  tecedently to the use of language, or where,  (as in the case of the totally deaf *,) the use of     * Though long for a quotation, yet we cannot re-  sist transcribing, from a work by Dr. Watson, master  of the Deaf and Dumb Asylum, Kent Road, near  London, the following able remarks : — they will help  to shew how for superior are audible signs to every  other kind, and place in its proper light the misfor-  tune of being naturally incapable of them. He is  speaking of the comparative importance of the two  it, by the ordinary means of attainment, is  precluded. But for this power of the mind,   senBES, hearing and seeing. " Were the point," he  says, " to be determined by the value of the direct  sensations transmitted to the sensorium through each  of them, merely as direct sensations, there could not  be any ground for a moment's hesitation in pro. ,  nouncing the almost infinite superiority of the ej/e to ]  the ear. For what is the sum of that which we derive I  from the car as direct sensation P It is sound ; and  sound indeed admits of infinite variety ; but strip it of j  the value it derives Irom arbitrary associations, and it  is but a titillation of the organ of sense, painful or  pleasurable according as it is shrilly soft, rough, dis-  cordant, or harmonious, Sec. Should one, on tlic con-  trary, attempt to set forth the sum of the information we  derive from the eye " — independently of the aid derived  from arbitrary means — " it is so immense, that volumes  could not contain a full description of it ; so precious,  ' that no words short of those we apply to the mind itself,  can adequately express its value. Indeed, all lan-  guages bear witness to this, by figuratively adopting  visible imagery to signify the highest operations of in-  tellect. Expunge such imagery from any language,  and what will be left ! What, in this case, must be-  come of the most admired productions of human ge-  nius P Whence then (and the question is often asked) 1  does it arise, that those bom blind have such su-  h2    which seems pecuHai* to man, and is the  cause of language, (not the effect of it, as     perlority of imelligence over those bom deaf? Take,  it miglit be said, ii boy nine or ten years of age who  has never seen the light, and you will find him con-  versable, and ready to give long narratives of past oc-  currenceH, &c. Place by his side a boy of the same  age who baa had the misfortune to be bom deaf, and  observe the contrast. The latter is insensible to all  you say : he smiles, perhaps, and his countenance ie  brightened by tlie beams of ' holy light;' he enjoys  the face of nature; nay, reads with attention your  features ; and, by sympathy, reflects your smile or  your frown. But he remains mute : he gives no ac-  count of past experience or of future hopes. You at-  tempt to draw something of this sort from him : he  tries to understand, and to make himself understood ;  but he cannot. He becomes embarrassed : you feci  for him, and turn away from a scene so trying,  under an impression that, of these two children of mi^  fortune, the com])ari8on is greatly in favour of the  blind, who appears, by his language, to enter into all  your feelings and conceptions, while the unfortunate  deaf mute can hardly be regarded as a rational  being ; yet he possesses all the advantages of vi-  sual information. All this is true. But the cause  of this apparent superiority of intelligence in the blind,  is seldom properly understood. It is not that those    H. Tooke seems to tliiak,) we never should  have been able to arrange olyects in classes,   who are blind possess a greater, or anything like an  equai stock of materiak for mental op^adons, but bs-  cause they possess an invaluable etigine for forward-  ing those operotioiis, however scanty the materials to  operate upon — artificial language. Language is de-  fined to be the expression of thought ; so it is : but it  is, moreover, the medium of thinking. Its value U>  man is nearly equivalent to that of his reasoning fa-  culties: without it, he would hardly be rational. It  is the want of language, and not the want of hearing,  (unless as being the cause of the wont of language,)  that occasions that deficiency of intelligence or ine&.  pansion of the reasoning faculty, so observable in the  naturally deaf and dumb. Give them but language,  by which they may designate, compare, classiiy, an4  consequently remember, excite, and express their sen^  sations and ideas, — then they must surpass the origin<  ally and permanently blind in intellectual perspicuity  and correctness of comprehension, (as far as having  kctual ideas afiixed to words and phrases is concerned,)  by as much as the sense of seeing, furnishes matter for  mental operations beyond the sense of hearing, con-  Eidered as direct sensation. It is one thing to have a^  fluency of words, and quite another to have correct no-  tions or precise ideas annexed to them. But though  the car furnishes us only with the sensation of sound,  and reason on them when so arranged ; nor to  consider some common quality in many ob-  jects, separately from the objects themselves.  Every object might have produced the same  individual effect by the senses, which it now  produces, and have been recognized as the  same object when it produced the effect  again ; for all this happens to other animals,  as to man ; but to know a something in each  which is common to many, implies a remem-  brance of that something in the rest at the  time of perceiving each individually j and  how can this remembrance, (a remembrance   and sound, merely as such, can stand no comparlEOD  with the multiform, delightful, and important informa-  tion derived from visual imprestiioDS ; yet as sound  admits of such astonishing variety, (above all when  articulated,) and is associablc, at pleasure, in the mind  with our other sensations, and with our ideas," (notions,)  " it becomes the ready exponent or nomenclature of  thought ; and in this view is important indeed. It is  on thie account, chiefly, that the want of hearing is to  be deplored as a melancholy chasm in the human  frame.'" Instruction of the Deaf and Dumb,  not of the objects, but of a common some-  thing in all of them,) how can it be kept up,  but by a sign fitted to this duty ; which sign,  as just observed, may be either a word, or  one of the objects set up to denote the com-  mon characteristic, and retained in mind  Bolely for this purpose, in this representative  capacity ?   6. In proceeding from what are called by  Locke simple ideas to those he denominates [  complex, we shall find the account just given  equally applicable. The words he refers to .  under the threefold division of Modes, Sub-  stances, Relations, are, as our last examples,  signs of certain conclusions obtained from s  comparison of particulars. This is true even \  of a proper name ; for a proper name, as was '  shewn Chap. I. Sect. 3., does not denote an  individual as we actually perceive him, or as. J  we remember him at any one time ; but it J  denotes a notion, that is, a knowledge of him I  drawn out of, or separated from all our par- '     I04f oNr Lo&ic. [cHap. ii.   ticular perceptions *• For such an effect of  reason^ we have however nb certainty that  the superior powers of the huknan mind ar«  indispensable; nor is it eiisy to ascertaiq  any peculiar privilege it enjoys till we find  it rising from individuals to classes. As  soon as it sets up a sign to represent some  property, whether pure or mixed, which has  been observed iA many individuals,— or to re-   * It id aft efifect of reaisoiiing to know that a pa]>>  ticular act or situation, which enters into our percep-  tion or conception of an object, is not essential — to  know, for instance, tliat the act of walkiAg is ftot es-  iBentiAl to John. The reasoning by which «uch k^w-  ledge is acquired, occurs indeed so early, that the  operation is forgotten ; but there was a time when our  perceptions were without the knowledge, because they  had not been repeated i^ isu^ti^t hUtiibet to leHkbl^  the mind to make the BCcessary ootaipluidcms^ Th^  natives of the South Sea Islands^ when Cttptaia Cook  <8nd his companions first made their appearance among  them, took every sailor and his garments to be one  creature, and did not arrive at a different condhision,  but by o{>portuiiitte6 fdr comparicon.     present the whole class of individuals, so  classed because of the common property, — ^it  displays a power of assisting itself which we  have no cause to think any of the inferior  animals enjoy. To ahew how this takes place  in producing what Locke calls complex ideas,  and which he subdivides into Modes, Sub-  stances, Relations, would only carry us onc^  more over the ground we have so often cur-   Lsorily traversed. We should have to shew,  for instance, how some word, at first equiva-  lent to a sentence, by which a man expressed  his delight at a particular visible object, came  to be a name for the object ; how this name  beauly, came to be applied as a noun-adjec-  tive to the nouns-subatantive of other objects  producing the same or a similar emotion j  how, by the continued application of this  noun-adjective, we kept on comparing innu?  merable particulars, till our knowledge (no-  tion) included a very wide class of things  very different indeed in other respects, — nay^  including objects of other senses than sight—   but still, agreeing with each other in a certain  effect produced on the mind : and that then,  dropping the nouns-substantive of the nu-  merous individuals, we retained solely in con-  templation the noun beautiful or beauty, the  sign of the knowledge we had gained from  this extensive comparison— of the induction  derived from these numerous particulars *.   • Very few persons reach so wide a knowledge of  the subject as we here refer to, and books may be, and  have been written, to teach us how to apply the word  beautiful with taste, and critical — nay, moral pro-  priety. Having attained so far, we are not to suppose that  beautiful or beauty is a real existence independently  of the classification of objects we have thus established.  All we have learned is, to know the objects which pro-  duce a certain elfect ; to know why they produce it ; to  enjoy, it is probable, the pleasure of that effect with  higher relish ; and to be prepared, by means of the  classiUcation we have formed, to lise, in our reasonings  on the objects it contains, to higher truths, and still  more important conclusions. Now, if the reader would  see how a business so plain and simple, may appear  very complex and mysterious, let him consult  Plato  on the beautiful or t'o xayjtv, as he will find it treated,  for instance, in the dialogue called STMHOSION :  Let him admire as he will, (for who can help it. We should again have to shew, (to take  another instance,) how a word once expres-  sive of some sentiment or recognition of  which a horse was the subject, came to be  used as a name for that particular horse i  that the name came afterwards to be given to  another resembling creature, — thence to  another, — and to others, till the points of re-  semblance which led to this extension of the  word, could be found no longer *. We should   especially in company with Cicero, — witness his Errare  tnekercule malo cum Plaione, quam cum istia vere  sentire?) let him admire the sublimity which the  amiable and highly-gifted Athenian throws over his  doctrine ; but let him not be betrayed into an opinion,  that a speculation which is in the most exalted etriun  liipoeh'y, belongs to the sober, the undazzled, and tin-  dazzling views of philosophy.   • Compare Chap. I.Sect, 10. We may be per-  mitted once more to observe, that, with regard to sab-  stances at least, the sign of the class needs not be a  word : one individual set up for all, will equally serve  the purpose. Not that the boundaries of a class are  plain, till an accurate logic determines them ; but the  general differences (as of the horse, for instance) are  sufficiently obvious to prevent a person from being  likewise have toshew, (totake a third instance,)  how some word,-^originally equivalent, like  the others, to a sentence, — by which a man  expressed his gratitude for kind offices, might  come to be a name for every one to whom  gratitude for similar offices was due; and  how this ua.me,Jriend, applied at first only to     misled, who carries one individual in his mind ae the  eign of all he has seen, and all he calculates on seeing,  and reasonB on this one, with a conviction that the  reasoning includes all the others. The idea of an in-  dividual thing which is thus set up as the represent-  ative of a class, may perhaps, without impropriety, be  called a general idea ; and if Locke had never used  the expression but in subservience to such an cxplana-  uon, little or no exception could have been taken to  it. There is a passage (Essay on the Understanding,  Book III., Chap. 3. Sect. Jl.) which perfectly ac-  cords with the doctrine in the text, and proves that  though Locke had misled himself by setting out with  an opinion that the operations of the human under-  standing could be treated of independently of words,  he had more correct thoughts on the subject as he  proceeded. Another passage, giving a correct account  of abstraction with reference to language as the instru-  ment, will be found Book IL Chap. II- Sect. 9-     one who stood in this ration to the speaker,  came at last, by observing and comparing  other cases, to be applied to all who stood in  the same relation to any other person. We  should, in short, have to shew the same pro-  cess with regard to all the examples of modes,  substances, and relations, which Locke's Es-  say supplies; but with these brief hints to  guide him, the reader may be left, in other  instances, to trace the process for himsdf.  It will now be time, — still witii reference to  the principles ascertained in the last chapter,  —to examine some other points of doctrine in-  sisted upon by writers on Logic.   7. The operations of the mind necessary  in Logic are said to be three, viz. Percep-  tion or Simple Apprehension ; Judgment ;  and Reasoning. Under the first of these di-  visions, writers on Logic treat of ideas, or  the notions denoted by separate words, that  is, words not joined into sentences ; — under  the second, they give us separate sentences,  technically called propositions j — ^and under  the third, they shew how two propositions  may of necessity produce another, so that the  three shall express one act of reasoning. Now,  that perception, judgment, and reasoning,  are all essential to Logic, needs not be called  in question ; but if the theory we have before  us in this treatise be true, the common doc-  trine will appear, by the manner in which it ex-  emplifies these acts of the mind, to have com-  pletely confounded what really takes place, in  the preparation for, and in the exercise of this  art. What, in the first place, is perception but a  sensation or sensations from exterior objects  accompanied by a judgment ? Our earliest  sensations are unaccompanied by any judg-  ment upon them ; for we must have ma-  terials to compare in order to judge ; and  these materials, in the earliest period of our  existence, are yet to be collected. At length,  we can compare j and because we can com-  pare, we judge, and hence we come to know :  — " I know that the object which now affects  my sense of vision is a being like myself; I        know him to be one of a great many similar  beings j I know him to be older or younger,  &c. ; I know that what now affects my sense of =  hearing, is the cry or bark of a dog" •, &c.j  I could not know all this, if I had had no  means of judging ; and I can have no means  of judging which the senses do not originally  furnish or give rise to. Perceptiouj then,  (which in every case is more than mere sen-  sation,) always includes an act of judgment ;  and to treat of Perception and Judgment  under different divisions of Logic, must pre-  vent the proper understanding of both. In-  stead, however, of the term Perception, some  writers t use that of Simple Apprehension.  *' Simple apprehension," says Dr. "Wliately,  *' is the notion (or conception) of any object  in the mind, analogous to the perception of  the senses." t The examples appended to     • See Chap. I. Sect. 16.  of- Viz. Professor Duncan and Dr. Whately.  J Elements of Logic by Dr. Whately, Chap. II.  Part I. Sect. 1.      this definition, are, *'inan;" "horse;"  •'cards ;" " a man on horseback ;" " a pack  of cards." Now, if the notion or conception  of tliese, 13 analogous to the perception of  them by the senses, — then, as the perception  includes an act of judgment, so Ukewise  does the conception. But, in truth, the no-  tion corresponding to any of these expressions,  is very different from the perception of a  man, a horse, a man on horseback, &c. ;  and the word or phrase in a detached state  does not stand for a perception or concep-  tion inclusive only of an act of judgment,  but signifies an inference obtained by the use  of a medium, — in other words, a rational  conclusion. For in all cases, what gives the  name and character of rational to a proceed-  ing, is the use of means to gain the end in  view. When we perceive intuitively of two  men, that one is taller than the other, al-  though the judgment we form may be an  e0ect of reason, yet we do not describe it as  a rational process ; but if the investigator,  not being able to make a direct comparison  between them, introduces a medium, and by  its means infers that one is taller than the  other, then we say the conclusion has been  obtained by a process of reason *. So, in  applying a common name to two individuals  that are intuitively perceived to resemble,  we may be said to exert the judgment, and  nothing more ; but if we apply it to a third,  and a fourth, and a fifth, it is a proof that we  measure each by the common qualities ob-  served in the first two, and that we carry in  the mind a sign of those common qualities  (whether the name, or one of the former in-  dividuals) for the purpose of carrying on the  process. In this way, an abstract word or  phrase, let it signify what it will, provided it  be but abstract, is both the sign of some ra-     • Reasnn is the capacity for using mpdia of any  kind, and it consequent capacity for language : — the  term reasoning has reference to tlie act of thinking,  with the aid of media in order to reach a couclu-     tional conclusion the mind has already come  to, and the means of reaching other conclu-  sions : which statement is true even of a  proper name. For the name John, for in-  stance, underetood abstractedly, does not sig-  nify John as we now perceive him, or as we  have perceived him at any one time ; but it  signifies our knowledge of him separately  from any of those perceptions. But we could  not know of him separately from our percep-  tions, unless we had the power of setting up  some sign (whether the name or aught else)  of what was common to all those perceptions,  and comparing them all with that sign *.   • It is not meant that we could not know him  every time we perceived him, but that we could not  know of him separately from our perceptiong, if we bad  not the power spoken of in the text. It might be  curious to trace this distinction in the case of a dog.  A dog knowE his master every time he perceives him :  — when he does not perceive him, he is reminded of  his absence by some change in his sensations, — (smcU,  for instance, as well as sight, and perhaps some  others ;) he therefore seeks him, and irets if he cannot  find him. But abstracted from all perception, and     It appears, then, from what precedes,  that words and phrases which writers on  Logic give as examples of Perception or  Simple Apprehension distinct from Judg-  ment and from Reasoning, are no examples  at all of the first distinct i'rom the latter two ;  and equally groundless will appear that dis-  tinction which refers a proposition to an act  of judgment separate from reasoning. Not  that an act of reasoning takes place whenever  a proposition or sentence is uttered. For, as  we have seen in the previous chapter, (Sect.  19.) a speaker does not always think of the  separate meaning of the words when he utters  a sentence ; and if a sentence denotes, as a  whole, some sensation or emotion not de-  pendent on reason, (for instance, " My head  aches;" •' My eyes are delighted,") the ut-  tering of it as a whole, without attending to  the sqiarate words, will no moj'e express aa     from all notice by change of sensation, it will scarcely  be contended that a dog knows of his master, as a ra-  tionsl being knows of his absent friend.     act of reasoning, or even of judgment, than  would a natural ejaculation arising out of the  occasion, and used in place of the sentence.  But the following propositions, " Plato was a  philosopher;" "No man is innocent ;" which  are given in Watts's Logic as examples of the  act of the mind called Judgment, stand on a  different footing ; and we affirm that, being  used Logically, they involve not an act of  judgment merely, but express a conclusion  drawn from acts of reasoning.   9- Previously to shewing what has just  been asserted, let us distinguish a grammati-  cal, and an historical understanding of these  sentences ; for a mere grammatical under-  standing of them must be, and an historical  may be, essentially different from the logical  understanding of them. A grammatical un-  derstanding, for example, of the sentence,  Plato was a philosopher, is merely a recog-  nition of its correctness as a form of speech  without considering whether it conveys any  meaning or not ; and it would be grammatically understood if any words whatever were  substituted for those that compose the sen-  tence, provided they had a proper syntactical  agreement. An historical understanding im-  plies some concern with the meaning of the  sentence ; but this may be very different in  kind and degree, as depending on the know-  ledge whicli the mind is previously possessed  of. If the hearer did not know what Plato waa  previously to the communication, but knew the  meaning of the word philosopher, he would,  by the sentence, be informed what he was, If  he previously knew, from history, how Plato  lived, thought, and acted, but did not know  the meaning of the term philosopher, the ad-  ditional information conveyed to him by the  sentence, would be but little : he would be in-  formed. Indeed, that he was called a philoso-  pher, but why or wherefore, he could, for the  present, only guess. Let us suppose, however,  that before he comes to calculate why Plato is  called a philosopher, he had heard the word  plied to others : if he bad heard Socrates     m     [chap. II.     called a philosopher, and Confucius a philosopher, he would, on hearing Plato so called,  compafe the individuals in order to ascertain  some common qualities in all, of which the  word might be the sign, and getting these,  he would know or have a notion of the word  philosopher ; though the notion would pro-  bably undergo many modifications as otlier  individuals, Solomon, Seneca, Locke, Rous-  seau, Newton, were successively subjected to  the common sign : — for if the hearer fixes his  notion at once, many individuals will perhaps  be excluded from his class of philosophers,  which other people include under that term ;  and perhaps he will include many, which the  usage of the term excludes. In this way,  then, while our knowledge of what is included  in separate words or phrases is imperfect, we  may nevertheless have some understanding of  the sentences we hear or read ; and this his-  torical understanding suggests the reasoning  process just described, by which we get a  logical understanding of the separate words. But now to make a logical use of  tfaem in framing a proposition. We suppose  the preliminary steps, namely the knowledge  included in the separate words ; we suppose  it to be known, from history, how Plato lived,  thought, and acted ; we suppose it to be  known what is meant by philosopfier, by  having heard the word applied to many indi-  viduals i but we have not yet applied it to '  Plato ; in other words, we have yet to ascer-  tain whether Plato belongs to the class of in-  dividuals denominated philosophers. Writers  on Logic talk of a comparison of ideas for  this purpose, and of an intuition or judgment ;  but this, to say the best of it, is an imperfect  and bungled account of the matter. If, in-  deed, to know how Plato lived and acted can  be called an idea, it is necessary to have this  idea ; it is further necessary to have a clear  notion of the term philosopher, — if this again  can be called an idea: — and it is true enough  that in comparing Plato with this sign, we  judge or know their agreement intuitively. But out of this intuitive judgment an infer-  ence arises, and the sentence expresses that  inference : a comparison has been instituted  through the intervention of a medium, in  order to ascertain whether Plato is to be as-  signed to a certain class of individuals ; we  intuitively perceive his agreement with the  medium, and draw or pronounce our infer-  ence accordingly, — " Plato was a philoso-  pher." Nor is this the splitting of a hair,  but a real distinction, marked and determined  by that difference in the words so often  pointed out, when understood detachedly,  and when understood as a sentence. The  proposition, Plalu was a pJiilosopher, may be  understood as a whole, without making the  comparison in the mind between what Plato,  and what philosopher, abstractedly signify j  but this, with a full understanding of the  whole sentence, can be done only after the  comparison has once at least been effectually  made : — then indeed, when the comparison  has been made, and the inference drawn, the sentence which expresses that inference, be-  comes, like any single word, the sign of knowledge deposited in the mind, and, like  such single term, it is fitted to be an instru-  ment of new comparisons, and further con-  clusions.   11. Let us now take another proposition :  *' A philosopher, or every philosopher," (for  the meaning is the same,) " is deserving of  respect." This, hke the other, is an infer-  ence from a comparison which took place in  the mind ; previously to which comparison,  the notion or knowledge included in the word I  philosopher was obtained in the manner lately  described (Sect. 9.) : and the notion included  in the phrase to be deserving of respect was  similarly obtained, but independently of the  knowledge denoted by the other expression ;  — that is to say, the phrase deserving of re-  spect, was originally, we suppose, a sentence  applied to some one thing deserving of re-  spect J whence it was successively applied to  other things till a class was formed — in other  words, till a notion (knowledge) was esta-  blished in the mind of what things are de-  serving of respect. Now, the present ques-  tion is, whether a philosopher is deserving of  respect ? To determine this, we consider  what a philosopher is, (it is presupposed tliat  we have this knowledge,) and we then niea-  Bure our notion of a philosopher with our no-  tion of what is deserving of respect, and thus  £nd that a philosopher is to be admitted  among the things to which we had been ac-  customed to apply the designation deserving  qf respect : that is to say, we come to the  conclusion, that a philosopher is deserving of  respect. Here, therefore, as before, there has  been a reasoning process previously to the  proposition, and the proposition expresses the  inference from it. And the comparison  having once been made in this instance as in  the other, the sentence becomes, like any  single term, the sign of knowledge deposited  in the mind, and like such single term, is  fitted to be an instrument of new compsrisons, and further conclusions. Well then, we know  from reasoning these two things, that " Plato  IB a philosopher," and that " a philosopher is  deserving of respect." These are detached  WORDS* or sentences : but the mind, in com-  paring them, at once comes to the inference  that Plato is deserving of respect: and the  whole may be expressed in one sentence ;  thus ; " Plato, who is a philosopher, is deserv-  ing of respect j" where Plato-who-is-a-pJiiio-  sopher, is equivalent to a noun-substantive in  the construction of the whole sentence ; and,  deserving-qf-respect is equivalent to another ;  and thus the two, with the assistance of the  verb which signifies them to be a sentence,  are but one proposition. Here, as in the  former cases, a comparison has been made \ij.  means of the signs of deposited knowledge ^  for we knew that Plato was a phUosopher;  we knew a class of things or persons deserv-  ing of respect: — comparing our knowledge by   • See the second note (Aristotle's definition of a'  vord bcuig the first) appmded to Sect. 20. Chap. I.    ir.   means of the sign deserving-of-respect, the in-  ference follows, that " Plato, who is a philo-  sopher, is deserving of respect." And the  comparison having once been made in this  instance as in the others, the sentence be-  comes, like any single terra , the sign of know-  ledge deposited in the mind, and either in  this or any other equivalent form, is fitted to  be an instrument of new comparisons and  further conclusions. And in this manner are  we able, ad infinitum, to investigate new  truths by means of those already ascertained,  always making use of former words or their  equivalents, as the means of operation.   12. Now, so far as Logic is the art of in-  vestigating truth, (and we intend to show that  its office ought not to be considered of further  extent,) this is the whole of its theory. We  have defined it as the right use of words with  a view to the investigation of truth ; and the  way in which words are used for the purpose,  is that which has been described : — in brief,  they are used by the mind in making such comparisons as it cannot make intuitively. Of  two objects, or of a sensation or emotion  twcie experienced, we can intuitively judge  what there is in common between them;,  l< suppose a third object, or a sensation, &c«  thrice experienced, an intuitive judgment can  still be applied only to two at a time, and wei  can but know in this way what there is  common to every two. But if we set up tf  sign of what is common to two, we can compare  with the sign a third, and a fourth, and a  fifth, and judging intuitively how far it agrees  with the sign, we infer its agreement in thq  same proportion with the things signified,  In Logic, the sign used is always presumed  to be a word. Now, in our theory of Ian-  guage, every word was once a sentence ; and  every sentence which does not express the  full communication intended, but is qualified  by another sentence, or becomes a clause of a  larger sentence, is precisely of the nature of  any single word making part of a sentence *.  • See Chap. I. Sect. 28.     IM     I^CMAP. 11,     From the first moment, then, of converting  the expression used for a particular communi.  cation, into an abstract sign of the sentiment  or truth which that communication conveyed,  the mind came into possession of the instru-  mental means for furthering its knowledge :  and this means always remains the same in  kind, and is always used in the same way.  The word which once signified a present par-  ticular perception, ceased, through the ne-  cessities of language, to signify that percep-  tion in particular, and came to signify, in the  abstract, any perception of the same kind, or  the object of any such perception. In this  state, it no longer communicated what the  mind felt, thought, or discovered at the  moment, but was a sign of knowledge gather-  ed by comparisons on the past. By u«ng this  Bign, the mind was able to pursue its inves>  tigations, and every new discovery was de-  noted by a sentence which the sign helped to  form, its general application being limited to  the particular purpose by other signs. But if  one WORD"  ' may lose its particular pnrpose,  and become an abstract sign, so may another,  and be the means, in its turn, of prosecuting  further truths, and entering into the com-  position of new WORDS. Thus will the procesa  which constitutes Logic, be aiways found one  and the same in kind, having for its basis the  constitution of artificial language, such as it  was ascertained to be in the previous chapter.   H 13. Now of this Lc^ic, — the Logic, uni-   H versally, of ntpotres, or woKD-dividing men, —   H let the characteristics be well observed, in order   H to keep it clear from any other mode of using   H signs for the purpose of reasoning, to which   H the name of Logic is attributed. The Logic   H here described, is a use of words to regista-   H our knowledge as fast as we can add to it, by   H new examinations, and new comparisons of   I things } each new esamination, each new   H sen!     • The reader will bear in mind the comprehenBive  sense of the term which we have in view, when it is  printed in capitate.  comparison, being made with the help and  the advantage of our previous knowledge.  The reasoning takes place in the mind in such  a manner that it is not a comparison of terms,  but a comparison of what we newly observe,  with what we previously knew. Words indeed  are used, because without signs of one kind  or of another to keep before the mind the  knowledge already gained, we could compare  only individuals j but however words may in-  tervene, it is always understood that the mind,  at bottom, compares the things, A man  may be informed, that, " Plato who is a phi-  losopher, is deserving of respect;" that,  " William who is recommended to his service,  is an honest man ;" that, *• A particular tree  in his garden, is a mulberry tree ;" that,  " Stealing is a vice, and temperance is a  virtue ;" that, " Throughout the Universe, all  greater bodies attract the smaller ;" that, " A  triangle described within two circles in such  a manner that one of its sides is a radius of  both, and the others, radii of each circle respectively, is an equilateral triangle;" — a  man may be informed of these and similar  ^'things, and may entirely believe the inform-  ation; nay, hemayjustifiably believe it J for he  may know of those who give it, that their ho-  nesty is such, that they would not wilfully de-  ceive him ; that their intelligence and inform-  ation are such, that they are not likely to say  what they do not know to be true : but a man  can be said to know these things of his own  knowledge, and in this way to be convinced  of their truth, only by a process of reasoning  that musl take place within his own mind ; a  process which can take place only in a mind  by nature competent to it, and which requires,  in every case, its proper data or facts, aided,  it is true, by language, or by signs such as Ian-  guage consists of, to register each inference *,  • The necessity of language, as a means of in-  vestigation, applies not to our last example. The mincl  may investigate (though no one can demonstrate)  mathematical truths, with no other aid than visible  diagrams ; or even diagrams that are seen only by  " the mind's eye." and so to get from one inference to another,  and thus, ad infinitum^ toward truth. Be-  cause the several steps, leach of which is a  conclusion so far attained, cannot take place,  without the instrumentality of signs to assist  the mind, we consider the process an art ; and  if the signs used are words, the art is pro-  perly called Logic. But whatever aid the  reasoner may borrow from words, the only  true grounds of his knowledge are the facts  about which the reasoning is employed.  Without them, no comparison of the terms  can force any conviction further than that  the terms agree or disagree. He may be told  that — " Every philosopher is deserving of  respect,*' and that, — " Plato is a philosopher :**  but if he knows not what a philosopher is, or  what it is to be deserving of respect, the  comparison of the terms in order to draw a  conclusion from them, will be a mockery of  reason : — it will be reasoning indeed, but  reasoning without a rational end. And suppose  the knowledge to have been acquired of what  a philosopher is by the application of the word  to many particulars, and by a consequent  classification of them in the mind, — supposing  the knowledge of what is deserving of respect  to have been acquired in the same way, —  supposing the inquirer has learned from history  what Plato was in his opinions and manner of  life, — the conclusion takes place by a com-  parison of the thingSj by means indeed of  words, but not by any comparison of the terms  independently of the things ; nor is the con-  viction in the least fortified, or the process ex-  plained, bya demonstration that in reasoning  with the terms alone, independently of their  meaning, we get at the conclusion ; — by  shewing, for instance, that the terms which  include the facts, may be forced into cor-  respondence with the following ^nwwfa;  Every B is A :  C is B :  Therefore C is A.  Every philosopher — is— deserving of respect :   Plato — is— a philosopher :  Therefore Plato — ^is — deserving of respect. This way of drawing a conclusion from a  comparison of terms, is. properly speaking, to  reason or argue with words ; but in the Lo-  gic we have ascertained, every conclusion is  required to be drawn from a comparison of  the facts which the case furnishes ; and words  being used only for the purpose of registering  our conclusions, such Logic is properly de-  fined the art of reasoning by means of words.  The inquirer who seeks to know, of his own  knowledge—" Whether William who is re-  commended to his service, is an honest man",  — will gather facts of William's conduct by  his own observation ; and these he will com-  pare by the light of his previous notion (i. e.  knowledge) of what an honest man is : but  then he must have that previous notion, or he  cannot make the comparison ; and the notion  will have been gained by a process just like  that he is pursuing : and so downwards to the  original comparison of individiial tJujigs, from  which all knowledge begins. So again, if an  inquirer seeks to know that " a particular tree is a mulberry tree", — he must first know  what a mulberry tree is; and how can he  know this but by a comparison of different  trees? There must be some art employed to  classify the individual trees, otherwisehe could  never know more than the difference between  every two trees. By setting up one tree, or  some equivalent sign, as a word, to denote  the common qualities observed in many, he  comes to know what a mulberry tree is ; and  looking at the particular tree in question, he  sees that it has the common qualities indica-  ted by the sign, and infers that it is a mul-  berry tree. So likewise, if an inquirer seeks  to be convinced that " SteaUng is a vice",  or that "Temperance is a virtue", — he  must have such facts before him as will  enable him to come to a clear conclusion as  to what is vice, and what is virtue : and  this conclusion will either include or ex-  clude stealing with respect to his notion  of vice, and temperance with respect to his  notion of virtue, and he will consequently be convinceti or not convinced of tlie proposition  in question. So, once more, if an inquirer  desires to know, of his own knowledge,  *' Whether, throughout the universe, all  greater bodies attract the smaller", — he must  first observe certain facts from which the ge-  neral law may be assumed hypothetical ly : —  he must then ascertain what, according to  other notions gained from experience, would  be the effect throughout the universe of the  general law which he has so assumed ; and if  the effects arising out of the hypothesis cor-  respond with actual effects, and no other by-  pothesis to account for them can be framed,  he will have all the proof the subject permits,  and know of his own knowledge, as far as can  be known, the conclusion asserted. So, lastly,  if an inquirer seeks to be convinced that "a  triangle described within two circles in such  a manner that one of its sides is a radius of  both, and the others radii of each circle re-  spectively, is an equilateral triangle", — he  must first form within his mind the notions of a triangle, and of a circle, the latter of which he  will find can be conceived perfect in no other  way than in correspondence with this definition :  — "a plane figure bounded by one line called-  the circumference ; and is such that all straight  lines, (called radii,) drawn from a certain  point within it to the circumference, are equal  to one another. " Having formed this notionr^  he will find, by certain acts of comparison^  (which must take place within the mind, al-  though they may be attsisted by a* visible sign-J^  that the previous proposition is an inevitable  consequence of the notfon so formed, and his'  conviction: wiU be comffiete. If the convic-  tion, in the previous ifrstances, has not the  same force as iiti the last^ — ^if, in those instances,  the force may be diffident m. degree, while in  the last there can be no coD^victioa short of  lliat which iS' absolute an4- entire, the cause^  in not that the reasoning process^ is different  in kind, but that the facts or data about which"  it is' employed are dii&re»t. In the last in^  stance^ the reasoning is employed about notions, which admit uf being so defined, that  every mind capable of the reasoning at  once assumes them before the reasoning pro-  cess begins ; but in the other instances, the  facts or the notions may be attended by cause  for doubt. A man, if he have any notion of  a philosopher at all, cannot indeed but be  quite sure (consciously sure) of his own no-  tion of a philosopher j but how can he be sure  that others have the same notion, or even  quite sure that Plato had the qualities that  conform to his own notion ? In the same  way, he will be quite sure (consciously sure)  of his own notion of an honest man ; but he  may be deceived as to the facts which bring  William within that notion. He will be quite  sure (consciously sure) of the notion he has  in naming a tree a mulberry tree ; but that  notion may be totally unlike the notion which  other people entertain ; or if the general no-  tion agrees, he may mistake the characteristics  in the particular instance. He will be quite  sure (consciously sure) of his own notion of vice or of virtue, and whether it includes or  excludes this or that conduct, action, habit,  or quahtjr ; and in this case the conviction is  absolute and entire while the reasoner confines  himself to his own notion ; but the moment  he steps out of this, and begins to inquire  whether it agrees with that of others, he finds  cause to doubt. He must be quite sure (sen-  sibly sure) that bodies near above the earth's  surface have a tendency towards it ; and by  proper experiments he may convince himself  that all bodies without exception which are  so situated, have the same tendency. In sup- ,  posing the fact universal of the tendency of  smaller bodies to the greater, his conviction  of the consequences involved in that hypo-  thesis, must, as soon as he has mentally traced  them, be absolute and entire ; but he has yet to  find whether reality corresponds with the hy-  pothesis. The strongest proof of this will  be, the correspondence of the consequences of  the hypothesis with the phenomena of na-  ture, joined to the impossibility of forming     138 ON LOGIC. [chap. II.   another hypothesis which shall account for  these phenomena; and the doubt, if any,  will attach to that impossibility, and to the  accuracy of bis observatioda of the pheno*  rneoa* I^ then, there is roonr for doubt, and  cocise^aently for various degrees of assent, in  all the instances except m that whose facts or  data are notions which the mind is bound to  tstke up according to the definitions before it  enters on the argument, we are not to con-  clude that the reasoning process is different in  kind iti any of them ; since the difl^ence in  the facts or data about which the reasoning  process i& employed, fully accounts for the ab-  solute and entire conviction which takes place  in one instance, and the degrees of convictioti  which are liable to happen in such cases as^  the others.   14. But what IB a process or act of rea^  soning? Is it, abstractedly from the means'  u£^d to register its conclusions, and so pro-  ceed to new acts of the same kind, — ^is it aa  act which rules can teach, or any generalbsau-  tion make clearer, or more satisfactory than it  is originally ? We shall find, upon examina-  tioH, that any such pretence resolves itself in- i  to a mere verbal generalization, or the appli-  cation of the same act to itself; and that this  does in no way assist the act of reasoning, or  explain, or account for, or confirm it. A man  requires not to be told — *' It is impossible for  the same thing to be and not to be," in order  to know that himself exists ; he requires not  the previous axiom, " The whole is greater  than its part, or contains its part, " in order to  know that, reckoning his nose a part of his  head, his head is greater than his nose, or his  nose belongs to his head ; neither is the previous  axiom, " Things equal to the same, are equal  to one another", necessary to be enounced,  before he can understand, that if he is as tall  as his father, and his father as his friend, he  is as tall as his friend *. Whatever neatness of  arrangement a system may derive from being   • Compare Lofku's Essay, Book IV. ChajHeis 7  and 12.     1headed with such verbal generalizations, it is  manifest that they neither assist the reasoning  nor explain it : nor must a generalization of   , this kind be confounded with the enunciation  of what is called a law of nature*, — (the law  of attraction and gravitation for instance, — )  since this last is a discovery by a process of  experiment and reasoning, but a verbal gene-  ralization is no discovery at all ; — it is merely  a mode of expressing what is known by every   " rational mind at the very first opportunity for  exercising its powers. Or more properly  speaking, the laws of reasoning, which are  gratuitously expressed by what are called  axioms, are nothing else than a mode of de-   * See Whately's Logic, Chap. I. Sect. 4, where he  attempts to evade Dugald Stewart's oh^ection to the  Ariatotelian syllogism, that it is a demonstration of b  demoiigtration, by comparing the Dictum de omni et  de nullo to the enimciation of a law of nature. — It is  rather pleasant, in the first note of the Chapter referred  to, to hear the doctor running riot upon Locke's con-  fuinon of thought and common place declamation, be-  cause the latter had the sense to sec the futility and  puerility of the syllogism.     SECT. 14.] ON LOGIC. 141   scribing the constitution of a rational mind.;—*  they are identical with the capacity itself for  reasoning: to view them in any other light is  to mistake a circumlocution for the discovery  of a principle. And this kind of mistake  every one labours under who supposes that,  by any means whatever, an act of reasoning  is assisted or explained, accounted for, or con-  firmed. Nothing is more certain, than that if  two terijns agree with a third, they agree with  each other, — if one agrees and the other dis-  agrees, they disagree with each other: but  every other act of reasoning has a conclusion  equally certain (the facts or data about which  an act of reasoning is conversant being the  sole cause of any doubt in the conclusion*,)  and this or any other attempt at explaining or  accounting for the act, will therefore only   . * And note, that when people are said to draw a  wrong conclusion from facts, the correct account would  be, that they do not reason from them, but from some-  thing which they mistake for them, through their ina-  ability to understand, or their carelessness to the na-  ture of, the facts given.     I4!l     [chap. ir.     amount to the placing of one such act by the  side of another; as if any one should set a  pair of legs in motion by the side of another  pair, and call it an explanation of the act of  walking. Such would at once appear to be  the character of the Aristotelian Syllogism,  were it not for the complicated apparatus ac-  companying it ; an apparatus of distinctions  and rules rendered necessary by the nature of  the terms compared. For these terms being  obtained by the division of a sentence, are  such that they agree or disagree with each  other only in the sense they bore before the  division took place. Our theory makes this  plain; for it shows that words which form a  sentence limit and determine each other, and  thus have a different meaning from tliat which  belongs to them when understood abstracted-  ly. Therefore, though it may be true that  " Plato is a man deserving of respect, '  does not follow that " Plato " and " A maai  deserving of respect " shall agree togetiier as  abstract terms : accordingly the latter term  understood abstractedly, signifies any or every  man desei-ving of respect, and does not agree  with Plato. It must be obvious, then, that  terms obtained iirthis way, can be compared  with other terms similarly obtained, only un-  der the safeguard of certain rules. Such rules  are accordingly provided ; and tliat they may  not want the appearance of scientific general-  ization and simplicity, they are all referred to  one common principle, — the celebrated dic-  tum de omni et de nullo ; whose purport is,  that what is affirmed or denied of the whole  genus, may be affirmed or denied of every  species or individual under it ; — which indeed  is nothing more than a verbal generalization  of such a fact as this, that what is true of every  philosopher, is true of any one philosopher.  All tliese pretences to the discovery of a uni-  versal principle, do but leave us just where we  were, a few high-sounding empty words ex-  cepted; and this must ever be the case when  we seek to account for that which is, by the  constitution of things as far aa we can ascertain them, an ultimalefact. An act of reason-  ing is the natural working of a rational mind  upon the objects, whatever they may be, which  are placed before it, when, having formed one  judgment intuitively, it makes use of the re-  sult as the medium for reaching another: and  the pretence to assist or explain this operation  by the introduction of such an instrument as  the syllogism, is an imposition on the under-  standing.   15. This will more plainly appear when we  examine the real use, (if use it can be called,)  of the Aristotelian art of reasoning. It may  be described as the art of arguing unreason-  ably, or of gaining a victory in argument  without convincing the understanding. As  it reasons "with words, and not merely by  means of words, it fixes on expressions not on  things, and is satisfied with proving a conse-  quence, or exposing a non-sequitur in those,  without inquiring into the actual notions of  the speaker. " Do you admit " says a syllogi-  zer, " that every philosopher is deserving of respect? " " I do;" says the non-syllogi-  zing respondent. " And you admit, (for I  have heard you call him by the name,) that  Voltaire is a philosopher : you admit, there-  fore, that Voltaire is deserving of respect. "  Now, if the notion of the respondent is, that  Voltaire is not deserving of respect, here is a  victory gained over him in spite of his con-  viction. Arguing from the words, and allow-  ing no appeal from them when once conceded,  the conclusion is decisive*. But in looking  beyond the words to the things intended, we  shall find that the respondent either did not  mean every philosoplier, as a metaphysical,  but only as a moral universal, or else (and the  supposition is the more likely of the two) that  in calling Voltaire a philosopher, he called   • " If," says a. doughty Aristotelian doctor, " a  imiyeraity is charged with cultivating only the mere  elements of mathematics, and in reply a list of the  hooks studied there is produced, ^should even any one  of those books be not elementary," [" / day here on  my biynd,''] " the charge is in fiiirncss refuted."  Whately's Logic, Chap III. Sect. 18.    . II.   him so according to the custom of others, and  not according to his own notion. In a Logic  whose object is truth and not victory, the  business would not therefore end here. An  attempt would be made to change the notion  of the respondent (supposing it to be wrong)  by an appeal to things. His mind might in-  deed be so choked with prejudice as to be in-  capable of the truth ; but at least would the  only way have been taken to remove the one  and procure admission for the other. — To the  foregoing, let another kind of example be add-  ed : " Every rational agent is accountable ;  brutes are not rational agents ; therefore, they  are not accountable." * " Non sequitur*^  cries the Aristotelian respondent. The other  man, who reasons by means of words and not  merely mth words, is certain that the internal  process by which he reached the conclusion is  correct ; nor is he persuaded to the contrary,  or at all enlightened as to his fault, when he  is told that he has been guilty of an illicit pro-   ♦ From Whately's Logic, Chap. I. Sect. 3.  cess of the major. He is informed, however,  that his mode of reasoning finds a parallel in  the following example : " Every horse is an  animal ; sheep are not horses ; therefore they  are not animals.'* * But this he denies ; be-  <:ause he is sure that his mode of reasoning  would never bring him to such a conclusion  as the last. All this time, while the Aristo-  telian has the triumph of having at least  puzzled his uninitiated opponent, the real  cause of diflference is kept out of sight, name-  ly, that the one refers to that reasoning which  is conducted merely with words, and not by  means of words only, while the other refers to  that reasoning which looks to things, inatten-  tive perhaps, as in this instance, to the expres-  sions. If the latter had used no other ex-  pression than " Brutes are not rational agents ;  therefore they are not accountable ;•" — the as-  sertion and the reason for it, must have been  suffered to pass; but because another sen-  tence is prefixed to these two, and the whole   * Whately'*s Logic, Chap. I. Sect. 3.   l2     F   1    of them happen to make a violated syllogism,  the speaker is charged with having been guilty  of that violation, when in fact he has not at-  tempted to reason syllogistically at all ; i. e. to  draw his conclusion from a comparison of the  extremes with the middle, but from a judg-  ment on the facts of the case. In a Logic  which gets at its conclusions by jneans of  words, and not by the artifice we have just  referred to, an expression which does not  reach the full facts reasoned from, (every  rational agent, for instance, where it should  have been said none but a rational agent,J  would not be deemed an error of the rea-  soning, but a defect in the expression of the  reasoning.   ] 6. These examples will, it is hoped, be  sufficient to show the real worth of the Aris-  totelian syllogism, ft is indeed, as its advo-  cates assert, an admirable instrument of ar-  gumentation ; but of argumentation distinct  from the fair exercise of reason. It is a pro-  per appendage to the doctrine of ReaUsm,      SECT. 16.]]     149     and with that exploded doctrine it should long  ago have been suffered to sink. While ge-  nera and species were deemed real independ-  ent essences, to argue from words was con-  sistently supposed to be arguing from things :  but now that words are allowed to be only  counters in the hands of wise men, the Logic  of Aristotle, which takes them for money,  should surely be esteemed the Logic of fools".  The claim for its conclusions of demonstrative  certainty, rests solely on the condition that  words are so taken. Every conclusion from  an act of reasoning, would have that charac-  ter, if the notions about which it was employ-  ed were notions universally fixed and agreed  upon. In mathematics, this circumstance is  the sole ground of the peculiar certainty at-  tained. All men agree in the metaphysical  notion of a point, of a line, a superficies, a  circle, and so forth t : if all men necessarily     * " Words are the counters of wise men, but the  money of fools," — Hobbes.   f According tu Sugald Stewart, mathematical  agreed in the notion of who is a philosopher  and who is not, of what is vice and what is  virtuBj and so forth ; our conclusions on these  and similar subjects, would, as in mathematics,  be demonstrative : but till definitions can be  framed for Ethics in which men must agree,  there is little chance of erecting this branch  of learning, with any praciical benefit, into a  science, according to the notion insisted on  with some earnestness in Locke's Essay*,  lu Physics we can do more ; for men agree  pretty well as to what is a mulberry tree, and  what is a pear tree ; what is a beast, and what  is a bird ;— by experiment they can be shewn  what are the component parts of this sub-  stance, what the qualities of the other j and  so forth : so that here, our conclusions need   definitions are mci-e hypotheses. Do they not rather  describe notions of and relating to quantity, which, by  the congtitution of the mind, it must reach, if, setting  aside the sensible instances of a point, a line, a circle,  &c., it tries to conceive them perfect ?   * Book IV. Chap. III. Sect. 18,: and the same  book Chap. XII. Sect. 8.    not be wanting in all necessary certainty;  although, as that certainty depends on the  conformity between our notions, and the out*  ward or sensible objects of them, it will be of  a different kind from the certainty obtained  in meta-Phi/sicSj and therefore not called de-  monstrative. In the latter department, (Me-  taphysics,) the chain of evidence has its first  hold, as well as every subsequent link, in the  mind, and the mind cannot therefore but be  sure of the whole.   17. As we propose to limit the province  of Logic to the investigation of truth, the re-  marks and examples in the section preceding  the last (15.), might have been spared till we  come to consider Rhetoric, to which we in-  tend to assign, among its other ofiices, that  of proving truth. How far the form of ex-  pression which corresponds to the syllogism,  is calculated to be useful to a speaker or wri-  ter, may at that time draw forth another ob-  servation on the subject. Meanwhile we pro-  pose to exclude it entirely from Logic; and   in truth the common practice of manlcind out  of the schools, has never admitted it as an in-  strument either for the one purpose or the  other. Common sense has always been op-  posed to it ; and Logic is a word of bad reputa-  tion, because it is supposed to mean the art  of arguing for the sake of victory, and not for  the sake of truth. In vain have Locke,  Campbell, Reid, Stewart, and other sound  thinkers, endeavoured to clear the art from its  reproach by detaching the cause : the Aristo-  telian Syllogism has been repeatedly over-  thrown ; yet some one is ever at hand to set it  on its three legs again, and argue in defence  of the instrument of arguing : — some per-  tinacious schoolmaster may always be found  Who e'en though vanquished yet will ahgue still;  While words oflearncd length and thundering sound*.  Amaze the gazing rustics ranged around.     * Videlicet, Terms middle and extreme ; premiss  major and minor ,- quantity and quality of propositions ;  Universal affirmative ; Universal negative ; Particular  affirmative ; Particular negative ; Distribution and non-  distribution of terms; Undistributed middle; Illicit pro-     So much — (till, in the next chapter we come  to a parting word — ) so much for the Aris-  totelian Syllogism.   18. As to the Logic which we have en-  deavoured to ascertain, it is, we repeat it, the  Logic which all men learn, and all men ope-  rate with in gathering knowledge ; and the  only inquiries which remain are, i. Whether,  so far as we have gone, there is ground or ne-  cessity for principles and rules in the exercise  of Logic, as there is for grammar in speaking  a language; and ii. Whether we ought to  consider its limits as extending beyond the     cBss of the major ; Illicit piocese of the Tninor ; Mood  itnd figure— Barbsrs, Celarent, Darii, Ferio, Cesare,  CameBtres, Festino, Baroko, Darapti, Disamis, Datisi,  Felapton, Bokardo, Feriso, Bramantip, Camenes, BU  maris, Fesapo, FrcBison ; Categoricals, Modals, Hypo-  theticals. Conditionals, Constructive form. Destructive  form, Oatcnsive reduction, Illatire conversion, &c. kc  &c. Well may we join with Mons. Jourdain —  " Voila dee mots qui sont trop rebarbatifs. Cette  logique ]& ne me rcvient point. Apprcnons autre chose  qui soit plus joli.'*    . [chap. II.   bounds proposed at tlie commencement ot*  this Chapter.   19. Though few persons would be dis-  posed to answer the former question in the  negative, yet an analogous case may induce a  moment's pause in our reply. At the conclu-  sion of the first note appended to Sect. 4.,  allusion was made to the fact, that men do  not see truly by nature, but acquire, through  judgment and experience, the power of know-  ing by sight the tangible qualities of objects  and their relative distances. Now, the in-  terference of rules, supposing them possible,  to assist this early discipline of the eye, would  be useless — perhaps raiscliievous : — why are  we to think differently of the discipline of the  mind, as regards the use of those signs which,  if our theory is true, are forced upon us at  first by an inevitable necessity ? Because the  art of seeing truly is necessary to the preserva-  tion of the individual ; and nature takes care,  therefore, that we do not teach ourselves im-  pertectly or erroneously ; but the conducting  of a train of reasoning with accuracy and pre-  cision into remote consequences, is unne-  cessary in a rude state of society j and man,  who is left to improve his physical and moral  condition, has the instrument of that improve-  ment confided to his own care, that he may  add to its powers, and form for himself rules  for using it with much more precision and  much more effect, than any random use of it  can be attended with. Accordingly, if we  look to that department of knowledge which  Locke calls ipvaiK^ * , we shall find that it owes  its existence to the accurate Logic by which  inquirers registered all their observations and  all their experiments, and by which they as-  cended from individuals to classes, till each  had comprehended in his scheme all he de-  sired to consider. Here then begins the pro-  per business of Logic as a system of instruc-  tion : it ought to lay open all the various me-  thods of arrangement and classification by     ' Vide the lutrixluction to this Treatise.       which science is acquired and enlarged ; and  if something may yet be done toward im-  proving these methods, it should open the  way to such improvement. The Aristotelian  rules for definition, which are a sound part of  Logic, should be explained and illustrated ;  and the nomenclatures invented by various  philosophers, particularly that which is used  in modern chemistry, should be detailed and  investigated.   SO. But if, by the application of a more  accurate Logic than belongs to a random use  of language, men have been able to accom-  plish so much in ^uo-ik^, it does not appear  that they have great cause to boast of their  success in the other department, namely  ■n-paKTiK-^. Do they act, whether as com-  munities or individuals, muck better with a  view to their real interests, than they did two  thousand years ago ? If improvement here,  as in the other department, is possible, how  is it to be accomplished ? We live in an at-  mosphere of passions, prejudices, opinions,     which mould our thoughts, and give a cer-  tain character and hue to all the objects of  them ; — these we do not examine, but take  them as they appear to us, and our reasonings  too often start from them as from first facts.  As to the process itself, — a process which  every individual conducts ■within his avra  mind according to the power which nature  gives him, — we affirm that it cannot be other  than it is, and that, provided it starts from  true data, it can never lead us wrong : but if  that is false which at the outset we take for  true, then indeed our conclusions may be  perniciously, ruinously erroneous. It is ac-  cordingly the business of the moralist to re-  move the false hue which habit, opinion, and  passion, cast over the surface of things ; and  it should be the business of the politician to  examine the principles on which the general  affairs of the world are conducted, and open  the eyes of mankind to their pernicious ten-  dency, if in the whole or in part they are per-  nicious. But neither the moralist nor the politician can come at the necessary truthis  intvitiveljf : they must use the mediaj and the  media consist in that use of words which con-  stitutes Logic, as we have described it. We  do not intend to say that language affords  the means of reaching equal results to every  person who makes the right logical use of it ;  for men's minds are very different in natural  capacity; and some are able to perceive  truths intuitively, which others attain only by  a slow process; as tall men can reach at  once, what short men must mount a ladder  to : but we do intend to say, that, let the  natural powers of any human mind be what  they will, there is no chance for it of any ex-  tensive knowledge, but through the employ-  ment of media to assist its natural operations ;  <and, we repeat it, the media which nature  suggests, and leaves for our industry to im-  prove, is language *. Well then, if our im-   * The reader does not understand us, if he  deems it an objection to our reasoning, that many  highly gifted men in point of understanding, do not provement in ntpaKrucrfj is, at this time of ^ay,  less than we might expect, is it not reason-  able to think that, with regard to this depart-  ment, we do not quite understand the instru-  mental means, and consequently do not ap-  ply them with complete effect ? Surely there  is some ground for such a suspicion, when we  find a doctor (of some repute we presume) in  one of our two great places of learning, de-  claring that '^ the rules of Logic have nothing  to do with the truth or falsity of the premises,  but merely teach us to decide (not whether  the premises are fairly laid down, but)   appear to have a skilful use of language. A man may  be rhetorically unskilful in language without being  logically so ; — he may be imable to convey to others  how and what he thinks ; but he may make use of  media in the most skilful manner to assist his own  thoughts. And if his capacity is such that he seei  many truths intuitively for which others require  media^ it is evident that he cannot convey those  truths to them till he has searched out the means.  The nature and the principle of such an operation be-  longs to our next chapter on Rhetoric.     fim         whether the conclusion fairly follows from  the premises." * We acknowledge that the  Logic to which this description applies, has  never been the Logic of mankind at large,  however it may have been the baby-game of  men in colleges ; but that the office of Logic  should be described so completely opposite  to what it really is, at a time when its proper  office and character ought to have been long  ago thoroughly understood, is not a little  surprising, and may reasonably warrant the  suspicion stated above. We have no doubt  our reader is by this time convinced, that  men who reason at all, do not want rules for  drawing their conclusions fairly, if we could  but get them to draw those conclusions from  right premises ; and that to get at right pre-  mises is every thing in Logic. For this end,  it is our business to set all notions aside that  have not been cautiously acquired ; and to  begin the formation of new ones at the point   * Whateiy'a Logic. Provinceof Reasoning, Cliap-  I. Sect. 1.     sf;ct. 20.]     IGI     where all genuine knowledge commences, —  the intuitive comparison of particulars or  single facts ; to make use of the knowledge  (notions) hence obtained as media for new  comparisons or judgments; and so on ad in-  Jinitum. Alas! it is but too certain, that  though we draw our conclusions faiily enough,  our premises, in a vast proportion of cases,  are laid down most foully, because they are  laid down by our ignorance, our passions,  and our prejudices ; and because language  itself, when its use is not guarded, is a means  of deception*.   • We arc somewhat backward in offering examples  of general remarks, such as is this last ; because it is  scarcely possible to be particular without touching on  questions in religion or politics that carry with them,  either way, a taint of parti zanshi p ; and we hold it to  be very impertinent in a writer on Logic, to turn  those general precepts for the discovery of truth  which he is bound to ascertain, into a particular chan-  nel in order to serve his own sect or party. What  business had Watts to exempliiy so many of hU  cautionary rules by the errors of Papistical doctrine,  at a time when its doctrine was a subordinate and     But can the assistance which lan-  guage is intended to furnish, be rendered such   party queBtioit, and be himself was a sectarian opposed  to it ? We trust that no exception of the same kind  can be taken {particularly as we give them only in a.  note) to two examples we are about to submit of  the remark in the text, that language itself may lie  the means of deceiving us into wrong premiseB : — they  are by no means singular, hut Guch as may he met  with every hour on almost every question. The  ph rase natural state is, as we all know, a very com-  mon expression, which we are much in the habit of  applying to things that have not been abused or per-  verted from the form or condition in which nature  first placed them. Now, because the same phrase  happens to be frequently applied to man in a rude  state of society, we start, in many of our reasonings,  with the notion, that in proportion as we have depart-  ed from such a state, we have perverted and abused  the purposes of nature ; when, in truth, it seems wiser  to inquire, whether we have yet reached the state  which nature means for creatures such as we are, and  whether she is not constantly urging us on to such an  unattained state. Our other example is of narrower in-  terest, and belongs to politics, or rather to what is  called political economy. The word price, in general  loose speaking, means that which is given (be it what  it may) to obtain some other thing ; but in a strict as to lead us to truth in spite of ignorance,  passion, and prejudice, and in spite of the  delusions of which it is itself the cause? Why  not, if the guarded and careful use of it, is  fitted to diminish these obstacles, and if we  do not look for the ultimate effects -faster  than, by the use of the means, the obstruc-  tions ^ive way ? Nor are mankind inattentive  to improve the means, nor are the means     and mercantile Bense, it has a uniform reference, direct  or indirect, to the quantity of precious metal given for  commodity ; inasmuch as gold and silver are the sole  universal medium of barter throughout the world, and  every promise to pay has reference to a certain quan-  tity of one or the other of these metals. These things  premised, it must be obvious that the phrase price of  gold, using price in a strict sense, is an abeurdity, and  could arise only from confounding the meaning which  prevails in ordinary speech with the meaning in which  the merchant uses it. What, then, are we to think of  an English House of Commons, which, some twenty  years ago, deputed to a committee the task of in-  quiring into the causes of the high price of bullion ?  Might not the committee, with as much reason, have  been deputed to inquire, why the foot rule was more  or less than a foot ?    without effect : for when we ask, whether their  moral and political condition is much ad-  vanced beyond what it was in the most pro-  mising state of the world in past days *, we do  not mean to deny what every one of common  knowledge and observation is aware of, that  it has advanced : all we urge is, that a sys-  tematic attention to the means of investigating  truth, might, peradventure, in politics and  morals, as it has in physics, have been at-  tended with effects more widely beneficial.  Neither do we afSrm that existing works on  Logic are destitute of many admirable pre-  cepts for investigating truth, although we  assert that the precepts are referred either   * Note, that it is unfair to fix on a particular part  of the world in proof of what it was in the whole. States  and cities may advance themselves for a time by a  partial policy which keeps others backward : but the  policy will fail in the end. By a natural course of  things the advanced state will merge in the mass and  improve it : and thus the world will keep on advancing,  although the spectator, who contemplates only the  particular state, will think it is retrograding.   to a false principle, or to no principle at all  fitted to unite them into one body of sys-  tematic instruction. The work lately referred  to *, fnrnishes, for instance, many excellent  precepts for avoiding errors in the use of  words, and for guarding against the snares of  sophistry; and if such precepts and such ex-  amples as it offers, distinct from the doctrine  of the syllogism, were industriously collected,  and brought forward in aid of the Logic  which all men learn and all men use, they  would be of inestimable value. A useful  system of Logic will guard our notions from  error not only while we think, but while we  are reasoned witht: for one chief way by  which truth enters the mind, is through the     * Viz, Whately's Logic.   + Our meaning will be understood ; but wc express  it by ii distinction which is grounded on no real dif-  ference. He who is reasoned with, if he understands  the ai^ument, is set a thinking ; and his agreeing or  disagreeing with the argument is the effect of his own  thoughts, however these may be set in motion, and  perhaps unreasonably influenced, by what he hears.  medium of language as employed by others :  and Logic should therefore arm us with all  possible means for coming at truth so offered,  through the various entanglements by which  the medium may be accompanied. Hence,  the various sophisms of speech accompanied  by their appropriate names, would still occupy  a place in such a Logic ; nay, for this purpose,  and for this alone, would the Aristotelian  doctrine of the syllogism deserve explanation ;  namely to understand how a conclusion drawn  from mere terms, may, as a conclusion from  them, be perfectly true and perfectly useless,  and thus to induce us to bottom all our  reasoning on things. — Having thus offered,  on the first of the questions proposed in Sect.  18, such observations in the affirmative as we  thought it required, we now proceed to the  second question.   22. That question was. Whether we ought  to consider the limits of Logic as extending  beyond the bounds proposed at the com-  mencement of this chapter : towards answering  which, we may first inquire how far other  views of it extend. By the Scotch metaphy-  sicians, and generally in the schools of North  Britain, the word Logic seems to be so used  as to imply the cultivation of the powers of  the mind generally, correspondently with  M'atts's definition of tlie purpose of Logic,  namely, " the right use of reason." " I  have always been convinced," says DugaJd  Stewart*, " that it was a fundamental error  of Aristotle, to confine his views to reasoning  or the discursive faculty, instead of aiming at  the improvement of our nature in all its parts."  And he then goes on to mention the following  as among the subjects that ought to be con-  sidered in a just and comprehensive system  of Logic. " Association of ideas ; Imagina-  tion ; Imitation j the use of language as the   GREAT INSTRUMENT OP THOUGHT ; and the   artificial habits of judging imposed by the  principles and manners in whicli we have     * Fhilotiuphical Essays.  Chap.    16s been educated." * Now if the threeibld di-  vision of human knowledge is a just one,  which, in the Introduction of this work, was     his     * io the same purpose,  Philosophy of the Humat     n the second volume of  Mind, (Chap. III. Sect.     S.) he speaks thu^     ' The following, (which     mention by way of specimen,) seem to be among the  most powerful of the causes of our felse judgments.  The imperfections of language both as an instru-  ment of thought, and as a medium of philosophical  communication. 2. The difficulty in many of our  most important inquiries of ascertaining the facts on  which our reasonings are to proceed. 3. The partial  and narrow views, which, from want of information,  or some defect in our intellectual comprehension,  we are apt to take of subjects which are peculiarly  complicated in their details, or which are connected  by numerous relations with other questions equally  problematical. And lastly, (which is of all perhaps  the most copious source of speculative error) the pre-  judices which authority and fashion fortified by early  impressions and associations, create to warp our  opinions. To illustrate these and other circumstances  by which the judgment is apt to be misled in the  search of truth, and to point out the most effectual  means of guarding against them, would form a very  important article in a philosophical system of Logic,"    borrowed from Locke,— namely into, it., the  knowledge of things tiiat are, — ii., of things  fitting to be rfonc, — and, Hi., of the means of  acquiring and improving both these branches  of knowledge;— it wUl at once appear that  all the subjects referred to in this enumeration  of Stewart's, except the fourth, which we print  in capitals, come under the denomination of  physica : — they are energies or tendencies of  the mind derived from nature, or habits  arising out of natural causes ; and they come  accordingly under the division of things ex-  isting in nature, which things, as they all  concern the mind, it is the business of the  Pliilosophy of the human mind to explortf:  but the fourth of the subjects mentioned in  the quotation from Stewart, viz •* the use of   LANGUAGE AS THE GREAT INSTRUMENT OF   THOUGHT," comes under the third of the  divisions laid down by Locke, and ought cer-  tainly to be distinguished from the other  subjects, because it is the means of becoming  acquainted with them : it is the instrument.     m  and they are among its objects. True, we  discover, as we proceed in the use of it, and  we are properly warned by those who have  used it before, that its efficacy is assisted or  impeded by extraneous causes, as well as by  defects in the instrument itself: similar dis-  coveries will be made, and similar warnings  must be given, in the practice of almost every  art: but these ought not to enter into the de-  finition of the art, although it will be proper  to bring them forward, incidentally, as we  open its rules. " A method of invigorating  and properly directing all the powers of the  mind is indeed," says Dr, Whately, " a most  magnificent object, but one which not only  does not fall under the province of Logic, but  cannot be accomplished by anyone science or  system that can even be conceived to exist.  The attempt to comprehend so wide a field is  no extension of science, but a mere verbal ge-  neralization, which leads only to vague and  barren declamation. In every pursuit, the  more precise aud definite our object, the more   likely we ai'e to obtain some valuable result j  if, like the Platonists, who sought after the  avTodyaSov, — the abstract idea of good, —  we pursue some specious but ill-defined  scheme of universal knowledge, we shall lose  the substance while grasping at a shadow, and  bewilder ourselves in empty generalities." *To these just remarks, we may add our ex-  pression of regret that Dugald Stewart never  had opportunity to do more than speak pro-  ^'^ectively of *' a just and comprehensive  system of Logic ;" " to prepare the way for  which, was," he says, " one of the main  objects he had in view when he first entered  upon his inquiries into the human mind."t  Had he himself completed such a design in-  stead of leaving it for others, we doubt not he  would have found the necessity of circura-  scribing Logic within the bounds we have  proposed, in order to give it existence as an     • Whately's Logic ; Introduction,  t Pliilos. Essays. Prelim. Diss. Chap. II.: in the  paragraph immediately following the last quotation.     fjtt ON LOGIC. [chap. U.   art distinct from the wide ocean of intellectual  philosophy.   23. But Dr. Whateiy, who deems, with  us, that every consideration of the mind con-  ducted without reference to its making use of  language as its instrument, lies out of the de-  partment of the teacher of Logic*, com-  pletely differs from us, as to the province of  the art. Of the question, " whether it is by  a process of reasoning that new truths are  brought to light," he maintains the negative t,  and consequently denies that investigation be-  longs to Logic. Afler what has been ad-  vanced in the former sections of this chapter,  we think it quite unnecessary to combat this  opinion here ; and as Dr. Whateiy concedes,  that " if a system could be devised to direct     • Dr. Whateiy defines Logic (Chap. II. Part I.  Sect. 2.) " the art of employing language properly for  the purpose of reasoning." But with him, reasoning  B argumentation.   t Whateiy "s Logic, Province of llcasoning, Chap.  II. Sect. 1.     ^     the. mind in the progress of inveBtigation ", it  might be " allowed to bear the name of Lo-  gic, since it would not be worth while to con-  tend about a name " *; — as, moreover, we  propose to comprehend under Rhetoric all  that belongs to the proving of truth — that is,  convincing others of it after we have found it  ourselves ; — we might be satisfied with stating  that this is the distribution we choose to  adopt, and there let the matter end. Be-  lieving, however, that our reasons will shew  this distribution to be not only useful, but al-  most indispensable, we proceed to offer them.  24, And first, that, so far as we have  gone, the art we have described ought to be  called Logic, we think will hardly now be de-  nied: — for we have proved that from be-'  ginning to end, it is a process of reason, that  is to say, a process to reach an end by mediae  and we have shown that the media are     • Whalely't* Logic, Province of Jteasoiiing, Chap.  II. Sect. 4.     Wi        words, (Xo'yoi.) If the term Logic is not pro-  perly applied to such an art as this, we know  not where an instance can be found of pro-  priety in a name. But shall we include the of-  fice of proving truth under this name, as well  as that of investigating it ? We answer, no, for  these two reasons : first that the things them-  selves are difierent, and ought therefore to be  assigned to different departments ; since it is  one thing to find out a truth, and another to  put a different mind in a posture for finding it  out likewise : And, second, that persuasion by  means of language, which is the recognized  office of Rhetoric, is not so distinct from con-  viction by means of language, as to admit of  our saying, precisely, where one ends, and the  other begins. That common situation in life.  Video meUora proboque, deteriora sequor,  proves indeed there are degrees of conviction  which yield to persuasion, as thei'e are other  degrees which no persuasion can subdue : yet  perhaps we shall hereafter be able to show,  that such junctures do but exhibit one set of  motives outweighing anol^ier, and that the ap-  plication of the term persuasion to the one set,  and of conviction to the other, is in many cases  arbitrary, rather than dictated by a corre-  spondent difference in the things. If, then, the  finding a truth, and the proving it to others,  ought to be assigned to different departments  of Sematology, why not, leaving the former to  Logic, consider the latter as appertaining to  Rhetoric, seeing that convincing is not always,  and on every subject, clearly distinguishable  from persuading, which latter is the acknow-  ledged province of Rhetoric ? Thus will ana-  ^5ii' uniformly belong to Logic, and synthesis  to Rhetoric. While we use language as the  medium for reaching further knowledge than  the notions (knowledge) we have already  gained, we shall be using it logically : when,  knowing all we intend to make known, we  employ it to put others in possession of the  same knowledge, we shall be using it rhetorically. As learners we are, according to  this distribution, to be deemed logicians }— .as     176     [chap, II.     teachers, rhetoricians. The two purposes are  quite distinct, though they are often con-  founded under the same name, reasoning ;  which sometimes means investigation, and  sometimes argumentation*, or a process with   • 111 spite of all we have said against taking up no-  tions from mere terms, (for " what's in a name ?") we  confeES a strong antipathy to the word argumentatmi.  It no sooner meets our eyes, than, fearing the approach  of some Docteur Pancrace, we instinctively put our  hands to our ears. " Voub voulez peut-etre savoir, si  la substance et Vaceident sont termes synonymes on  equivoques k I'egard de Tetre? Sganarelle. Point  du tout. Je... Pancrace. Si la lo^ que est un art, ou  une science.^ Sgan. Ce n'est pas cela. Je... Pancr.  Si elle a pour objet les trois operations de I'esprit, ou  la troieieme seulement ? Sgan. Non. Je... Poner. S'il  y a dix categories, ou s'il n'y en a qu'une ? Sgan.  Point. Je... Pancr. Si la conclusion est Vessence  du sylle^sme ? Sgan. Nenni. Je... Pancr. Si  fessence du bien est mise dans I'appetibilite, ou dans  la convenancc? Sgan. Non. Je... Pancr. Si le  bien se rcciproque avec la fin ? Sgan. He, non! Je...  Pancr. Si la fin nous pent emouvoir par son etre reel,  ou par son Stre intentionel ? Sgnn. Non, non, non,  non, non, dc par tons lea diables, non. (Moli&re's  Mariage Force.) We join in our friend Sganarelle'g    a view to proof: and the confusion is promoted by the circumstance, that the two pro-  cesses are often used in subservience to each  other. Thus, when a writer sits down to a  work of philosophical investigation, it is to be  expected that the general truths he designs to  prove, are already in his possession ; but he  has to seek the means of proving them. Now  in searching for these, it is not unlikely, that,  with regard to the detail, he will frequently  come to conclusions different from those he  was inclined to entertain, though the final re-  sult he had entertained may remain un-  changed. At one moment, therefore, he is a  logician, at another, a rhetorician. His reader,  on the other hand, is a logician throughout :  in following and weighing the arguments offer-  ed, he is an investigator of the truths which   deprecation, wishing to shun all argumentation, except  of that quiet kind which takes place when the talkers  on both sides are disposed to truth, ilot victory. If  the word conveyed to us the notion of so peaceable a  meeting, we should have no objection to it ; but we  have confessed our prejudice.    the other undertakes to prove. In this man-  ner may the same composition, accordingly  as it exercises the inquiring or the demon-  strating mind, be considered at one time with  reference to Logic, at another with reference  to Rhetoric. Still must it be admitted, that  to investigate and to prove are different  things ; and conceiving there is sufficient  ground for confining Logic to the former  office, we shall conclude our chapter as we  began it, by defining Logic to be the right  use of WORDS with a view to the investiga-  tion of truth.    Non posse Oratorem esse nisi viriim bonum.   AKG, CAP. I. LIB. XII. QtriN. 1N3.  In the chapter just finished, it was shown  that the use of language as a Logical instru-  ment, entirely agrees with the theory of Gram-  mar we ascertained in the first chapter, and  that, on no other principles than those which  arise from that theory, can Logic be pro-  fitably studied. We have now to show that  the use of language as a Rhetorical instrument  agrees with the same theory, and that the  view of the art hence obtained, lays open its  true nature, and the proper basis for its rules.  2. The language of cries or ejaculations,  which in the first chapter we started with,  may be called the Rhetoric of nature. To  this succeeds the learning of artificial lan-  guage ; and the process, whether of invention  or of imitation, brings into being the Logic  described in the preceding chapter. For  whether we invent a language, or learn a lan-  guage already invented, (presuming it to be  the first language we learn,) we must learn,  (if we do not learn like parrots,) the things of  which language is significant. All words  whatever, not excepting even proper names *,  express notions (knowledge) obtained from  the observation and comparison of many par-  ticulars ; and singly and separately, each word  has reference to the particulars from which  the knowledge has been gained. But it is by  degrees we reach the knowledge of which  each single word is fitted to be the sign. We  begin by understanding those sentences, or  single words understood as sentences>, that  signify our most obvious affections and wants,  and which, taking the place of our natural  cries, retain the tone of those cries as far as  the articulate sounds they are united with  permit. In all cases, as a sentence expresses   * Vide Chap. II. Sect. 7- ad fincm.    a particular meaning in comparison with the  general terms of which it is composed^ the  hearer may be competent to the meaning of  the sentence, who is not competent to the  full meaning of the separate words. A cry,  a gesture, may deprecate evil, or supplicate  good ; and a sentence which takes the place  of, or accompanies that cry or gesture, will,  as a whole, be quickly interpreted. But the  speaker and the hearer must have made con-  siderable progress in the acquirement of know-  ledge by means of language, before the one  can put together, and the other can separate^  understand, such words as, ^^ A fellow  creature implores"; "A friend entreats *\   It is by frequently hearing the same word in  context with others, that a full knowledge of  its meaning is at length obtained * ; but this  implies that the several occasions on which it   * Consult, on this subject, Chapter 4th of Du-  gald Stewart's Essay " on the Tendency of some late  Philological Speculations,^ being the fifkh of bis " Phi-  losophical Essays^.     [chap. hi.   is used, are observed and comjiared; it im-  plies, in short, a constant enlargement of our  knowledge by the use of language as an in-  strument to attain it.   3. But he who uses language as a logical,  will also use it, when need requires, as a rhe-  torical instrument. The Rhetoric of nature,  the inarticulate cries of the mere animal, he  will lay aside ; or at least he will employ them  (and he will then do so instinctively) only on  tliose occasions for which they are still best  suited, — for the expression of feelings re-  quiring immediate sympathy. On all other  occasions, he will use the Rhetoric by which  a mind endowed with knowledge, may expect  to influence minds that are similarly endowed ;  and our inquiry now is, how the effect is pro-  duced;— how, by means of words, (taking  words to be nothing else than our theory of  language has ascertained them to be,) — how,  by such means, we inform, convince, and  persuade.   4. According to our theory, wobds are to be considered as having a double capacity ;  in the first, as expressing the speaker's actual  thought ; — ^in the second, as being the signs  of knowledge obtained by antecedent acts of  judgment, and deposited in the mind ; which  signs are fitted to be the means of reaching  further knowledge. Now, when we use lan-  guage as a rhetorical instrument, we use it,  or at least pretend to use it, in order to make  known our actual thought, — in order that  other minds should have that information, or  be enlightened by that conviction, which we  have reached. Could this be done by a single  indivisible word — could we realize the wish  of the poet —   Could I embody and unbosom now   That which is most within me ; could I wreak   My thoughts upon expression, and thus throw   Soul, heart, mind, passions, feelings, strong or weak.   All that I would have sought, and all I seek,   Bear, know, feel, and yet breathe, into One Word*   Were this instantaneous communication with-  ♦ Byron's Childe Harold, Canto III. Stanza 97- in our power. Rhetoric would be a natural  faculty, not an art, and our inquiry into  its means of operation would be idle. But  getting beyond the occasions for which the  Rhetoric of nature is sufficient, and for which  those sentences are sufficient that serve the  most ordinary purposes of life, an instan-  taneous communication from mind to mind, is  impossible. The information, the conviction,  or the sensitive associations, which we have  wrought out by the exercise of our observing  and reasoning powers, can be given to another  mind only by giving it the means to work out  the same results for itself ; and, as a rhetorical  instrument, language is, in truth, much more  used to explore the minds of those who are  addressed, than to represent, by an expression  of correspondent unity, the thought of the  speaker ; — rather to put other minds into a  certain posture or train of thinking, than pre-  tending to convey at once what the speaker  thinks. Contrary as this doctrine will ap-  pe$ir to common opinion on the subject, a very little reflection will show that it must be true.  For a word can communicate to another mind  what is in the speaker's, only by having the  same meaning in the hearer^s : but if it have  the same meaning, then it signifies no more  than what the hearer knows already, or what  he has previously experienced. And this is  plainly the case with sentences (words) in  familiar use, which signify what all have at  times occasion to express, which are used  over and over again for their respective pur-  poses, and of which, while uttering or hearing  them, we do not attend to the meaning of the  separate words, but only to the meaning of  the whole expression *. Here, it is confessed,  the communication is made at once ; but then  it is a communication which the hearer is pre-  pared to receive, because he has himself used  the same expression for the same purpose.  What is to be done when the information or  the conviction is altogether strange to the  mind which is to receive it ? In this case the   ♦ Refer to Chap. I. Sect 19.     ON RHETOKIC. QCHAP. HI.     speaker will seek in vain, as in the first case,  for an expression previously familiar to the  hearer; and he will have to form an expres-  sion. But how shall he form it? As words  have the power of representing only what is  known on both sides, he must form it not  with signs of what is to be made known, but  of what is already known. In this way, he  may produce an expression — whether that  expression take the name of sentence, oration,  treatise, poem, &c. * — which, as a whole, de-  notes that which his mind has been labouring  to communicate — the information, the con-  viction, or the sensitive associations he is de-  sirous that others should entertain in common  with himself. The necessity of so protracted,  so artful a process, must be set down to the  hearer's account, not to the speaker's. The  latter is (or ought to be) in previous possession  of what he seeks to communicate — he has  been through the process, and reached the  result : but that result he cannot give at once  ' Compiirc Chap. I. Sect. 20.      and gratuitously to others : he can but lead  them to it, as he himself was led, by address-  ing what they already know or feel ; and his  skill in rhetoric will be the skill with which,  for this purpose, he explores their minds. It  will be a process of synthesis on his part, and  of analysis on theirs. He will form an ex-  pression out of WORDS which signify what  they already know, or what they have already  felt : and the separate understanding of these  on their part, will enable them to understand  his expression as a whole. This being the  theory of Rhetoric which grows out of our  theory of language, we now proceed to show  that the actual practice of every speaker, and  of every writer, is in accordance with it.   5. To begin with Description and Narra-  tion : — Is it not obvious, that, to procure in  another mind the idea of things unknown, we  proceed by raising the conception of those  that are known ? An object of sight which  the party addressed has never seen, we give  an idea of by allusions made iu various ways to objects he has seen :— or if, being new as a  whole, it is made up of parts not new, we give  the idea of the whole by naming the parts,  and their manner of union. An unknown  sound, or combination of sounds, an unknown  taste, smell, or feel, is suggested to another  mind by a comparison, direct or indirect,  with a known sound, taste, smell, &c. As to  conceptions purely intellectual, it is a proof  how little one mind can directly represent or  open, itself to another, that, in the first in-  stance, such conceptions can be made known  not by words that directly stand for them, not  by comparisons with things of their own  nature, but only by comparisons with affec-  tions and effects outwardly perceptible; as  would at once be obvious in tracing to their  origin all words that relate to the faculties and  operations of the mind *'y although it is true   * Thus afdrnvs^ amma^ +*'%»», originally signify  wind or breath : ^vfiog /Mevog^ mens^ impetuosity ; in-  tellect is from inter and lego, I collect from among ;  perception and oonceptUm are from capio I take, — a     that these words at last become well under-  stood names, that at once suggest their re«  spective objects, without bringing up the ideas  of the objects of comparison that once in-  tervened. In narration we proceed by similar  means. We presume the hearer to be ac-  quainted with facts or events of the same  kind as that which is to be made known,  though not with the particular event ; for we  \x%Q generalievmSy i. e. terms expressing kinds  or sorts, in order to form every more par-  ticular expression. If the hearer should be  unacquainted with facts or events of die same  kind, the communicator then has recourse to   use of the verb still common in such phrases as ^^ I  take in with my eye,'' and, " I take your meaning ;''  judgment is from jus dicere ; understanding suggests  its own etymology ; refleadon implies a casting or  throwing back again; imagination is from imago^  an image or representation; to thinks according to  Home Tooke, is from thing ; — " Res-^k thing (he says)  gives us refyr I am thinged,'' i. e. operated upon by  things. These are etymologies suggested by authori-  ties universally accessible ; — the curious in this depart-  ment of learning would be able to add much more.      circuitous comparisons. If nothing is pre-  viously known to wliich the action or event  can, however remotely, be compared, the  attempt to make it known must be as fruitless  as that of giving an idea of colours to one  bom blind, or of sounds to one born deaf*.   * Not without reason does the angel thus speak to  Adam in the Paradise Lost :  High matter thou enjoin'st me, O prime of men,   — and hard : for how shall I relate  To human sense the invisible exploits  Of warring spirits ?  And he proposes to overcome the difficulty in the only  way in which it can be concaved possible to be over-   — what surmounts the reach  Of human sense, I shall delineate so  By likening spiritual to corporal forms,  As may express them best.   Far. Lost. Book 5. 1. 5G3.  Still must the discourse of the Angel have been unin-  telli^ble to Adam : for the latter must be supposed  ignorant not only of the things to be illustrated, but  of far the greater part of the illustrations. There  was no keeping clear of this defect in the philosophy  of die jwem, if, in a poem, we arc to look for philoso-  phy. The discourse even of Adam and Eve, though   Thus, then, when we make use of  words in order to inform, we produce the  effect by adapting them to what the hearer  already knows. In using words in order to  convince and persuade, we produce the effect  in the same way. But to convince, it is ne-  cessary to inform — to acquaint the hearer  either with something he did not know before,  or with something he did not attend to ; and  the information is called the argument * or  proof. Thus the information that "Plato was  a philosopher," is an argument or proof that  he is deserving of respect: and the clear  testimony that " a man has killed another  maliciously," proves that the perpetrator is  guilty of murder. But why do we account  the information in the respective instances an  argument or proof of the conclusion ? For   Iieautifully fiimple, is tilled with alluaions to things  which the least philosophy will teach us they could not  be acquainted with.   * The word argument is commonly used iii the  sense we here assign to it ; though it is likewise often  used with » more coniprelicnBivc meaning.  no Other reason than this, that it is addressed  to a notion (knowledge) previously acquired  of what persons are deserving of respect, (in  the first instance,) and of what constitutes the  crime of murder, (in the second instance.)  Take away this previous knowledge, and the  information remains indeed, and may perhaps  be clearly understood, but in neither instance  can it lead the hearer to the conclusion, —  that is to say, it will not then be an argument  for the end in view : it will communicate,  perhaps, what it professes to make known, but  there the matter will end. In every process,  then, by which we propose to convince others  of a truth, there are three things implied or  expressed : i. that which we intend to prove  true, and which, if stated first, is called the  proposition, if last, the conclusion : ii. the in-  formation by which we try to prove it, and  which is accordingly called the argument or  pro of; iii. the previous notion (knowledge) to  which the information is addressed, and  which is frequently called the datum ; being that which is presumed to be already known,  and therefore conceded or given by the person  reasoned with ; on account of which, and  solely on this account, the information is  offered in the capacity of an argument or  proof. Now, here we have the parts of a  syllogism, (though in reversed order, viz. the  conclusion, the minor, the major,) and this  may serve to show, without having recourse  to the Aristotelian doctrine of the comparison  of a middle with extremes, why the form of a  syllogism, where necessary, must always be a  forcible way of stating an argument. For  first we state that which our hearer cannot  but. concede j (major ;) then we state that  which he did not know or attend to, in such  a way that he must receive it on our testi-  mony, or admit as evident as soon as it is  attended toj (minor;) and these two being  admitted, they are found to contain what we  proposed to prove: which we then draw  from them without the possibility of a rational  contradiction; (conclusion.) For example;   o    our hearer knows by experience what persons  are deserving of respect: he knows, then,  that   ** Every philosopher is deserving of respect.^   We then remind him of the fact which he has  learned from history, that   " Plato is a philosopher :''   Hence on his own knowledge we advance  the undeniable conclusion,   " Plato is deserving of respect''   Is this conclusion at all fortified — is the  process which led to it explained — by shew-  ing that a comparison of the terms independ-  ently of the things, produces the proposition  which expresses it ? Both the hearer and the  speaker must have the kno'wledgevfYiicYi the first  two propositions refer to, or the conclusion can-  not be drawn for any rational end : and if they  have the knowledge, they have the conclusion  in that knowledge. In convincing the hearer,  the speaker does nothing but remind him  that he (the hearer) has the necessary knowledge ; and the syllogism, we admit, puts the  matter home in a very forcible way : but that  is all : another form of speaking will oflen do  equally well : for instance, " Plato who is a  philosopher is deserving of respect." Whether  the truth is stated in this way, or in the for-  mer way, or in any other way, the extract-  ing of a middle and extremes out of the ex*  pression, and demonstrating that these agree  or disagree, is, we repeat it, a puerile addition  to the process that has previously taken place.  Again, with regard to the other example at  the beginning of the section: — Our hearer  knows, (suppose him to be a juryman,) either  of his own knowledge, or by the definition  laid down by the judge, that   ^^ Maliciously killing a man is murder.''^   This is the datum, or major. He receives in  charge, i. e. he is informed that A. B. killed a  man maliciously, which is tantamount to  saying that   " What A. B. did, is killing a man maliciously.*"   o 2     196 ON RHETORIC. [CHAP. Ill,   This information is to be the argument or  minor by which the conclusion is to be esta-  blished; but the juryman must be made sure  of its truth, — he must know it, — before he  can receive it in this capacity : — well, he is  made sure of its truth : — must he then go to  Aristotle, and be taught to compare the  middle with the extremes, in order to pro-  nounce his verdict that   " What A. B. did, is murder:''   that is, he is guilty of murder? Will he be  MORE satisfied with his own verdict, if he is  able to do so ? Common sense pronounces,  no. Let us, then, for ever have done with  the Aristotelian Syllogism ; admitting, how-  ever, in favour of the form of expression, that  to express (i.) the datum, — (ii.) the inform-  ation which, because it is addressed to the da-  tum, is an argument,— and (iii.) the conclusion  from them — in three distinct propositions, is a  very forcible way of stating a truth which we  have reason to believe our hearer is prepared to admit the moment it is so stated. But  the syllogism thus detached from the artifice  of comparing a middle with extremes, is only  one among the innumerable ways of express-  ing a truth, which the custom of language  permits, and is no more the invention of  Aristotle in particular, than any of those  other forms that might be used instead  of it *.   7. This brief notice of the syllogism in  addition to what was advanced in the last  chapter, occurs by the way : — ^the point we  had in hand, was, to show that in convincing  others by means of words, we adapt our words  to what they already know. And this must  be evident from what has preceded. For we  previously proved, that, in order to inform,   * Our observations on the syllogism are not meant  to call in question the intellectual capacity of the in-  ventor. For what we conceive to be a just estimate  of his merits, we refer to Dugald Stewart'^s Second  Vol. of the Philos. of the Human Mind, Chap. III.  Sect. 3., near the middle of the section.     we adapt our words to what our hearers al-  ready know ; and we have just shown that the  process of convincing them, is a process in  which we address some information to a pre-  existing notion. Let us now see how this  doctrine tallies with the terras of art which  are already in recognised use ; and, as occa-  sion may offer, let us inquire if there be any  difference, and what, between conviction and  persuasion.   8. That every argument used to influence  others, is considered to derive its efficacy  from some pre-existing notion, opinion, or rul-  ing motive, whether permanent or transitory,  in the hearer, is evident from the following  and similar expressions : argumentum ad Judi-  cium, by which we signify that our inform-  ation is addressed to such general principles of  judgment as mankind at large are guided by :  argumentum ad hominem, by which we imply  that we address those peculiar principles by  which the individual man is actuated. Again ;  argumentum ad vtrvcundiam, argumentum ad ignorantiam, argumentum ad Jidem, argumcn-  tum ad passiones, all imply arguments (infoim-  ation) addressed to some partial motives of  judgment and action ; and in all these, the  conclusion arising out of the reasoning has  the same validity, as far as regards the mere  act of reasoning : it is the difference of the  data that makes it of very different value. A  conclusion from an argument addressed to  principles which all men recognise, is obvious-  ly a conclusion of universal force; but one  which arises from an argument addressed to  peculiar principles, can of course be convinc-  ing only to such as admit those principles.  So likewise a conclusion which arises from the  reverence entertained for the author of the  principles professed ; — or which follows in the  hearer's mind from his limited notions, and  would not follow if he were better inlorra-  ed ;— or which follows because of his faith,  and would not follow, if he had not that  iaith J— or because his passions are previously  disposed, and would not follow, if they were otherwise disposed: — in these and in similar  cases, the argument is valid, and therefore ef-  fective with respect to the minds for which it  is adapted, but addressed to other and more  general motives or knowledge, it may be no  argument at all *. Here, then, we may  perhaps see how the difference arises between  conviction and persuasion ; — mere persuasion  is conviction as far as it goes ; but it is con-  viction arising out of partial data : the person  persuaded is conscious that the reasoning  process itself is right, but he suspects —  perhaps more than suspects — tliat the data  which he has permitted his inclinations to lay   • Hence, what is Rhetoric at one tune and to one  set of auditors, may be none whatever at another time.  Who has not admired tlie Rhetoric of Marc Antony,  (the Hpeecb over Ciesar's body,) in Shakspeare's play  of Jnhua Caesar ? But why do we admire it F Is it  such Rhetoric as would persuade all people under the  circumstances supposed ? No. But it is just such  Rhetoiic as was fitted for the multitude under those  circumstances; and we admire the dramatist who so  completely suits the oration to the art of the speaker,  und the minds of those whom be has to operate upon.      down, are wrong: he perceives another con-  clusion from other and less suspicious data,  though he has not resolution enough to em-  brace it : so that the case we referred to in  the last chapter* as being so common in life,  Video meliora proboque^ deteriora sequor,  amounts to this, — that we are divided between  two conclusions, the one drawn from data  which we know to have the sanction of uni-  versal consent, the other from data supplied  by private motives. Thus, when Macbeth is  bunging in doubt between the suggestions of  duty and ambition t, the conclusion from each  source is reasonably drawn : but he is not  ignorant of the different value of the respec-  tive sources. He has nearly determined in  favour of the conclusion drawn from duty,  when his wife enters, who, by addressing con-  siderations (information, arguments,) to his  known sentiments of greatness and courageous   * Chap. II. Sect. 2+.   f Shakspcare's Macbetb, Act I. Scene 7-     daring, persuades him to murder Duncan and  seize the crown.   9. So much for the terms of art by which  we signify the quaUty of the arguments we  use, as depending on the known motives, or  information, or disposition, of the persons  addressed : which terms suit our theory so  well, that they seem to be invented for it.  Nest, for the terms by which the arguments  themselves are technically distinguished.  First, we have a distinction of them into Ex-  ternal and Internal. Now, according to our  theory, every argument consists of some in-  formation which we communicate to the per-  son reasoned with : — but this information  may be something that he could not possibly  have discovered by any consideration of the  subject itself J or it may be something that he  might have so discovered ; in which latter  case, our information will amount to nothing  more than making him aware of what he had  overlooked. The former, then, will be an ex-      temal argument or proof; the latter, an in-  temal argument. Of the former, the evidence  in a court of justice is an example ; as are al-  so proofs from history and other writings, and  irom the testimony of the senses. Of the lat-  ter kind, are all arguments from what are call-  ed the topica or loci communes : — for instance,  from the definition or conditions of a thing j  as when certain lines are inferred to be equal  to each other from their nature or conditions  as being radii of the same circle : — from  enumeration ; as when we prove that a whole  nation hates a man, by enumerating the  several ranks in it, who all do so : — from nota~  tion or etymology ; as when we infer that Lo-  gic has reference to the use of words in  reasoning, from its connexion with the Greek  Xt'yw I speak, and \6yoi a word :— from genus f  as when we prove that Plato is deserving of   respect, by showing that he is one of a getius  or kind that is deserving of respect : — from  species ; as when we infer the excellence of ^  virtue in general from that which we observe      eo*      [chap. lit.     in some particular act of virtue : — anil so like-  wise of the same kind, namely internal, are  aiguments from the other well known topics ;  (not to prolong the instances, which are easily  imagined ;) from cause, whether efficient, JiJial,  Jbrmal, or material; from adjuncts, antecedents,  consequences, contraries, opposiles, similitudeSy  dissimilitudes, things greater, less, or equal:  &c. The deriving of arguments from these  internal topics*, is nothing more, on the part  of the speaker, than turning a subject into  every point of view that may suggest a some-  thing relating to it, overlooked perhaps by  the hearer, and which, by being brought to  his notice, and addressed to his pre-existing  notions, may prove, or render probable, the  proposition in hand ; and according to the de-  gree of force which the argument carries, it is   • The reader needs not be reminded how largely  this subject of topics, (or places for finding the internal  or artiiicial proofs in contradiGtinction to the external or  artificial,) ia treated by the ancients : for instance, by  Aristotle, by Cicero, (vide the book called Topu-a,)  and by Quinctilian.     deemed an instrument of conviction or of  persuasion. An argument from defimlion ; — -  (for instance from the conditions of a problem  or theorem j as where lines are required to he  drawn which are to be radii of the same cir-  cle J ) which argument is addressed to a notion  assumed among the general conditions of the I  reasoning ; (for instance, that " a circle is suct]^ ]  a figure that all lines, (called radii,) drawn, j  from a certain point within it to the circum-  ference are equal " ;) — an argument so derived  and so addressed, is demonstrative of the pro-  position which it is brought to prove : (e. g^  that the lines are equal.) An argument froni[1  enumeration, — (for instance, from a statement 1  of the several ranks that are found in a n&- ]  tion,) addressed to a notion that the parta J  enumerated are all the parts, (for instance^ j  that the several ranks of people that hate A. j  B. comprise the whole nation,) is also de-  monstrative with respect to that notion ; but  if the enumeration should not comprehend all  the parts in the hearer's notion of the whole, or if the hearer should doubt whether his own  notion is sufficiently comprehensive, no ab-  solute conviction takes place. Still, the enu-  meration may induce belief, and will in such  case be said to persuade, though not to con-  vince. The same might be shown of the ar-  guments derived from all the other topics.  Entire conviction would follow from any of  them, if the hearer were fully satisfied both of  the truth of what is offered in the way of ar-  gument, and of the correctness of his own no-  tion to which the argument is addressed : but  greater or less degrees of doubt may accom-  pany each of these, and greater or less de-  grees of doubt will therefore attach to the  conclusions which flow from them. We may  moreover observe, that the truths a speaker  has in view, do not always stand in need of  demonstration : they are perhaps admitted al-  ready, but it may be that they do not suffici-  ently influence the hearer's sensibilities. The  object of an argument will then be, to awaken  those sensibilities, and with this effect its purpose wiU stop : as, for instance, when in or-  der to awaken sensibility to the frail nature  of man's existence, (not to demonstrate it,)  the speaker draws his argument from simili-  tude :   Ah ! few and full of sorrows are the days  Of mieerable man ! his life decays  Like that fair flower that with the sun's uprise  Its bud unfolds, and with the evening dies.   Here, the argument is obviously meant for  persuasion. There may, at the same time, be  an ultimate truth in view, which the speaker  designs to enforce when he has prepared the  mind for receiving it; and he will then employ  arguments of a different kind, and address  them to notions of universal dominion. — But  with regard to any of the arguments which,  in this brief review we have glanced at —  whether external or internal, whether demon-  strative, or only inducing belief, whether de-  signed to convince, or fitted but to per-  suade, — the process accords with the theory  assumed: — the speaker adapts words to knowledge the hearers have already attained, or  to feeliugs they have already experienced, in  order to conduct them to some discovery he  wishes them to make, or to some unexperienc-  ed train of thought conducive to such dis-  covery.   10. The assumption of this as the great  principle of the art, will, in the next place,  enable us to clear it from certain misdirected  charges to which it has always been liable.  The expedients which the orator employs,  the various tropes and figures of which his  discourse is made up, are apt to be looked  upon as means to dissemble and put a  gloss upon, rather than to discover his real  sentiments*. That, like all other useful   * We refer more especially to the following pas-  sage with which Locke concludes his Chapter ^^ on the  Abuse of Words ;^ being the 10th of his 3d book.  ^^ Since wit and &ncy find easier entertainment in the  world than dry truth and real knowledge, figurative  speeches and allusion in language will hardly be ad-  mitted as an imperfection or abuse of it. I confess  in discourses where we seek rather pleasure and de-     SECT. 10.] ON RHETORIC. 209   things, they ^re sometimes abused*, nobody   • E/ 3f, ort /jieyaKa jSxa\J/£(£v av b xi^f^^^°^ d^Uag  Tn roKzuTn ^uvifAEi tcHv Aoywv, touto re Jtoivov eo'ti Kara  ^ivruv Tuv ayaOav* Arist. Rhet. I. 1.     light than information and improvement, such orna-  ments as are borrowed from them can scarce pass for  faults. But yet if we would speak of things as they  are, we must allow that all the art of rhetoric, besides  order and clearness, all the artificial and figurative ap-  plication of words eloquence hath invented, are for  nothing else but to insinuate wrong ideas, move the  passions, and thereby mislead the judgment, and so  indeed are perfect cheats : and therefore however  laudable or allowable oratory may rehder them in ha-  rangues and popular addresses, they are certainly, in  all discourses that pretend to inform or instruct, wholly  to be avoided ; and where truth and knowledge are con-  cerned, cannot but be thought a great fault either of  the language or the person that makes use of them.  What, and how various they are, will be superfluous  here to notice ; the books of rhetoric which abound in  the world, will instruct those who want to be informed :  only I cannot but observe how little the preservation  and improvement of truth and knowledge is the care  and concern of mankind ; since the arts of fallacy are  endowed and preferred. It is evident how much men will deny : but to consider them by their very  nature as instruments of deception, only  proves that the objector utterly misconceives  the relation between thought and language.  These expedients are, in fact, essential parts  of the original structure of language ; and  however they may sometimes serve the pur-  poses of falsehood, they are, on most occa-  sions, indispensable to the effective communi-  cation of truth. It is only by expedients  that mind can unfold itself to mind;— lan-  guage is made up of them ; there is no such  thing as an express and direct image of  thought. Let a man's mind be penetrated   love to deceive and be deceived, since rhetoric, that  powerftil instrument of error and deceit, has its esta-  blished professors, is publicly taught, and has always  been had in great reputation : and I doubt not but  it will be thought great boldness, if not brutality in me,  to have said thus much against it. Eloquence, like  the fair sex, has too prevailing beauties in it, to suf-  fer itself ever to be spoken against. And it is in vain  to find fault with those arts of deceiving, wherein men  find pleasure to be deceived.'*'  with the clearest truth — let him burn to com-  luunicate the blessing to others ; — ^yet can he,  in no way, at once lay bare, nor can their  minds at once receive, the truth as he is con-  scious of it. He therefore makes use of ex-  pedients : — he conceals, perhaps, his final pur-  pose ; for the mind which is to be informed,  may not yet be ripe for it :— ^he has recourse  to every form of comparison, (allegory, simile,  metaphor*,) by which he may awaken pre-  disposing associations : — he changes one name  for another, (metonymy,) connected with  more agreeable, or more favourable associa-  tions : — he pretends to conceal what in fact  he declares ; — (apophasis ; — ) to pass by what   * In referring to these and other figures of speech,  it is impossible not to be reminded of Butler'^s distich,  that   All a rhetorician'^s rules   Teach nothing but to name his tools.   The fact is as the satirist states it. But then it is  something to a workman to have a name for his tools ;  for this implies that he can find them handily. — May  we add to our remark, that the world is scarcely yet in truth he reveals ; — (paraleipsis) he interrogates when he wants no answer ;— (ero-  tesis ; — ) exclaims, when to himself there can  be no sudden surprise;— (ecphonesis) he  corrects an expression he designedly uttered ;  — (epanorthosis) he exaggerates ;— (hyperbole) he gathers a number of particu-  lars into one heap; — (synathroesmus) he  ascends step by step to his strongest position ;  — (climax ) he uses terms of praise in a  sense quite opposite to their meaning ; — (ironia) he personifies that which has no life,  perhaps no sensible existence ; — (prosopopoeia) he imagines he sees what is not actually present ;— (hypotyposis) he calls upon aware how much it owes to such men as Butler, Moliere,  Shakspeare, Pppe ;r-^men who joined to other rich gifts  of intellect, that of plain sound sense, which enabled  them at once to see, in their true light, the vanities and  absurdities of (misqalled) learningp But for the histo-  rian of Martinus Scriblerus, his predecessors and suc-  cessors, the world might still be under the dominion of  a set of solemn coxcombs, whose whole merit consisted  in making small matters seem big ones, and themselves  to appear wiser than their neighbours.   the living and the dead ; — (apostrophe) all  these, and many more than these, are the ar-  tifices which the orator* employs ; but they  are artifices which belong essentially to lan-  guage ; nor are there other means, taking  them in their kind and not individually, by  which men can be effectually informedy or  perstuidedj or convinced. Could the prophet  at once have made the royal seducer of  Uriah's wife fully conscious of the sin he had  committed, he would not have approached  him with a parable t : that parable was the  means of opening his heart and understanding  to the true nature of his crime ; and it is a  proper instance of the principle on which all  eloquence proceeds. It is true, we do not   * We trust the reader scarcely needs to be remind-  ed, that the word Orator isused throughout this treatise,  in the comprehensive sense which includes all who  wield the implements of Eloquence. In modem times,  the influential orator is read not heard ; or if heard,  his hearers are few in number compared with his  readers.   t 2 Sam. 12.     now make use of parables fully drawn out ;  but all metaphorical expressions, all compa-  risons direct or indirect, are to the same pur-  pose ; namely, that of bringing the mind of  the hearer into a state or temper fitted for the  apprehension of truth. Nor, (we repeat,)  must it be thought that the means referred  to, (excepting some instances in bad taste,)  are ornaments superinduced on the plain mat-  ter of language, and capable of being detached  from it : they are the original texture of Ian-  guage, and that from which whatever is now  plain at first arose. All words are originally  tropes ; that is, expressions turned (for such is  the meaning of trope) from their first pur-  pose, and extended to others. Thus, when a  particular name is enlarged to a general one,  as our theory shows to have happened with  all words now general, the change in the first  instance was a trope. A trope ceases how-  ever to be one, when a word is fixed and re-  membered only in its acquired meaning ; and  in this way it is that all plain expressions have originated. In a mature language, a speaker  or writer may, therefore, if he pleases, avoid  figurative expressions. But the same neces-  sity, the same strong feelings, which originally  gave birth to language, will still produce new  figures, or lead the speaker to prefer those  already in use to plain expressions, if, by  the former, he can touch the chords, or awaken  the associations, that are linked with the truths  iie seeks to establish.  Our theory of language, and consequent theory of Rhetoric, will, in the next  place, no longer leave us to wonder at an ef-  fect, which Dr. Campbell has laboured to  account for with much ingenuity; namely,  that nonsense so often escapes being detect-  ed both by the writer and the reader*. For  according to our theory, words have a sepa-  rate and a connected meaning, each of which  is distinct from the other. Now, suppose a  succession of words to have no connected     Chap. VII.      See Philosophy of Rhetoric, Vol. II. Book II.      meaning, which is as much as to say, suppose  them to be nonsense ; yet, in their separate  capacity, they will nevertheless stand for  things that have been known and felt ; and  if both the speaker and the hearer shbuld be  satisfied with the vague revival of this know-  ledge and of these feelings, they will neither  of them seek for, and consequently will not  detect the absence of an ulterior purpose.  The effect which is produced by words thus  used, (or rather misused,) extends no further  than that produced by instrumental music,  and is of the same kind. For no one will  pretend that a piece of niusic expresses, or can  express, independently of words, a series of ra-  tional propositions ; yet it awakens some sen-  timents or feelings of a suflSciently definite cha-  racter to occupy the mind agreeably. Now  perhaps it is not an unwarrantable libel on  one half of the reading world, if we affirm,  that they read poetry and other amusing  composition for no further end, and with no  further effect, than the pleasure of such vague    Sentiments or feelings as spring from music :  and to such readers it is of little moment  whether the words make sense or not. Ac-  cordingly, when composition like the follow-  ing is put before them^ which presents striking  though incongruous notions, in words gram-  matically united, agreeably jingled, and having  a connexion, probably, with certain sensitive  associations, they are liable to read on, not  only without feeling their taste shocked, but  perhaps with some pleasure.   Hark ! I hear the strain erratic  Dimly glance from pole to pole ;   Raptures sweet and dreams ecstatic,  Fire my everlasting soul.   Where is Cupid's crimson motion,   Billowy ecstasy of wo ?  Bear me straight, meandering ocean,   Where the stagnant torrents flow.   Blood in every vein is gushing,  Vixen vengeance lulls my heart ;   See, the Gorgon gang is rushing !  Never, never let us part *.   * " Rejected Addresses ;^ the particular example     Nor is it in (pretended) poetry alone, that the  eflFect here alluded to tahes place. Bring to-  gether the rabble of a political party, and  place before them a favourite haranguer: — it  13 not by any means necessary that he should  make a speech which they understand, or even  himself: he has only to string, in plausible  order, the accustomed slang words of the  party, and to utter them with the usual fer-  vour ; the wonted huzzas will follow as a  matter of course, and fill each pause that the  speaker's art or necessity prescribes. And  BO likewise in an assembly of a different de-  scription, — the piously disposed congregation     above being in ridicule of Rosa Matilda's style. See  also Pope's " Song by a Person of Quality." The  reader whose taste is gratified by such composition as  is here caricatured, stands at the other extreme from  that mathematical reader, who returned Thomson's  Seasons to the lender with an expression of disgust,  that he had not been able to find a single thing proved  from the beginning to the end of the book. The  reader for whom the genuine poet writes, is equally  removed from each extreme.  of a conventicle : the good man whom they  are accustomed to hear has but to put to-  gether the words of familiar sound and evan-  gelical association — grace, and spirit, and  new light, regeneration and sanctification,  edification and glorification ; an inward call,  a wrestling with Satan, experience, new birth,  and the glory of the elect ; interweaving the  whole with unceasing repetitions of the sa-  cred name, accompanied by varied epithets of,  blessed, holy, and divine : and with no further  assistance than the appropriated tone and  frequent upturned eye, he will throw them  into a holy transport, and dismiss them, as  they will declare, comforted and edified.  This effect, which is apt to be attributed to  hypocrisy because the ordinary notions of  language suggest no cause for it, our theory  explains with no heavy scandal to the parties.   12. Concerning the elements of Rhetoric  ranged under the divisions of Invention and  Elocution, we have now made what remarks our object required. There yet remains one  division, namely, Pronunciation *; which will,  however, scarcely furnish occasion for extend-  ing our observations ; since our theory is not  in any peculiar manner concerned with it.  As we started with the Rhetoric of nature,  namely, tone, looks, and gesture, so we are at   * Disposition and Memory are in general adde4  to these three. " Omnis oratoris vis ac facnltas,'*^  says Cicero, ^^ in quinque partes est distributa ; ut  deberet reperire primum, quid diceret; deinde in-  venta non solum ordire, sed etiam momento quodam  atque judicio dispensare atque componere ; tiun ea de-  nique vestire, atque omare oratione ; post, memoria  sepire; ad extremum, agere cum dignitate et venustate.^  De Orat. 1. 31. As to two of these divisions, we have  no occasion to notice them, because there is nothing  in our theory of language which requires them to be  viewed in a new or peculiar light : — We may take oc-  casion to observe, before' concluding the note, that the  modem use of the term Elocution, assigns it to sig-  nify what the ancients denoted by Pronunciation or  Action : and Dr. Whately sanctions this modem sense  by adopting it in his Rhetoric. We have used it  in the foregoing page in the ancient sense : ^^ quam  Graeci f^aa-iv vocant,^ says Quinctilian, ^^ Latine  dicimus Elocutionem.'*'* Ins. viii. 1.    once ready to admit that these may, and  ought to accompany the language of art ; —  that they ought not to be absent even from  the recollection of him who writes, lest  his style be deficient in vivacity. In union  with these parts of Pronunciation, is that ele-  ment of artificial oral speech called Empha-  sis ; and it will be to our purpose to observe,  how very inadequate are the common notions  of language to account for the actual practice  of emphasis, as it may be observed in English  speech. The common view of words that  make up a sentence, is, that they respectively  correspond to ideas that make up the thought :  and therefore, in a written sentence, if we  would know the emphatic word, we are de-  sired to consider which word expresses the  most important idea*. Thus, when Dr.   * To this end some teacher of elocution (elocution  in the modem sense) somewhere says : ^^ If, in every  assemblage of objects, some appear more worthy of no-  tice than others ; if, in every assemblage of ideas,  which arc pictures of those objects, the same difference  Johnson was asked how we ought to pro-  nounce the commandment, ** Thou shalt not  bear false witness against thy neighbour/* he  gave as his opinion that not should have the  emphasis, because it seemed the most im-  portant word to the whole sense. But Garrick  influenced by no assumed theory, pronounced  according to the practice of English speech,  ** Thou shalt-not bear," * &c. There is in fact  no other rule than custom in English speech  for the accenting of words in a sentence, any  more than there is for accenting syllables in a  word. A peculiar or referential meaning  may indeed disturb the usual accent of a   prevail, — it consequently must follow, that in every  assemblage of words, which are pictures of these ideas,  there must be some that claim the distinction called  emphasis.^ All this ingenious parallel, with Aristotle^s  authority to back it, we affirm to be purely visionary,  and we hope the reader by this time thinks as^ we do.  Yet is the passage in entire accordance with the no-  tions of language that commonly — nay, it should  seem, universally prevail.   * The story is somewhere related by BoswelL  word : for instance, the common accent of  the word for^ve, will be displaced if the  word is pronounced referentially to a word  that has a syllable in common ; as in saying  to give and loj'drgive. And just so will it be  in a sentence which is pronounced refer-  entially to an antecedent or a subsequent  sentence, either expressed or understood :  which would be the case, if we pronounced tie  ninth commandment in contradiction to one  who had said "Thou shaltbear false witness,"  &C., for then we should accent it in Johnson's  way, and say " Thou shalt n6t bear," &c.  Now this is what is properly called emphasis,  namely, some peculiar way of accenting a  sentence in order to give it a referential mean-  ing. A sentence pronounced to have a plain  meaning has its customary accents, but no  emphasis. The commonest example will be  the best ; and therefore we will quote one  that may be found in every book in which  emphasis is treated of: "Do you ride to town to-day?" If this is pronounced without allusive meaning, ride, town, and day,  are equally accented by the custom of the  language, and there Is no emphasis properly  so called : which, by the way, is a pronunciation of the sentence that teachers of read-  ing, in their search after its possible oblique  meanings, forget to tell us of. Suppose we  give an emphasis to ride, then lide-to-toivn-to  day will be allusive to ■wdlk-to-town-to-day, as  we might accent the word intrinsical in the  mauner marked with a reference to the word  Extrinsical, although the plain accentuation is  intrinsical. So again to-loTvn-lo-day is allusive  to the-country-to-day, and to-town-to-ddy is al-  lusive to to-town-to-m6rrow ; as the word  powerless might be accented on the last syl-  lable with a view to poweiiful. That the ac-  tual practice of emphasis corresponds with  this account, the reader may satisfy himself  by observing the conversation of the well-  bred, — not their reading, for that is oflen  conducted on mistaken principles : — and we  scarcely need point out how completely this practice accords with our theory of language.  For with us, a sentence is a word, not more  resolvabie into parts that constitute its whole  meaning, than a word made up of syllables ;  and as with regard to a word of the latter de-  scription, the accent is determined to one syl-  lable by custom, but is disturbed and placed  on another syllable in making allusion to  another word having syllables in common ;  so with regard to a sentence (word) made up  of words, the accents are likewise determined  to certain words that usually bear Ihem, but  these accents are disturbed and placed on  other words in making allusion to a meaning  which has, orwhich, if expressed, would have,  words in common. And here, with this new  kind of proof in favour of our theory, and  with the last subject usually treated of in  Rhetoric, we might stop the hand that has  traced this OutHne. But there remain a few  remarks that could not be introduced earlier,  for which the patience of the reader is en-  treated a little longer. We may take the liberty in the first  place to observe, that, with regard to the  materials of Sematology which have been con-  sidered, our theory leaves them what they  were : it pretends only to show the true basis  on which they stand, and that the learned  distribution of them, is not that which accords  with the actual practice of mankind. Suppose  then, (if we may suppose so much,) that our  Grammars, our Books of Logic, and our In-  stitutes of Rhetoric, are to be altered in con-  formity with the views which have been  opened, the changes will not affect the detail,  but the general preliminary doctrine, and the  subsequent arrangement. As to doctrine,  the changes will mostly consist of omissions.  In Grammar, if we omit the common de-  finitions of the parts of speech *, and allow   * God help the poor children that are set to learn  these, and other of the definitions in elementary  grammars, particularly English grammars; for the  Latin ones are a little more sensible. That jumble of  a grammar that has the name of a Lindley Mturay in  the title page, after defining a verb to be ^^ a wend     the tyro to learn what they are by the parsing  of sentences — that is, to ascend from par-   ihat Bignifiea to be, to do, or to suffer," {as if no other  part of speech signified to be, to do, or to suffer,) —  after saying what is true enough, but cannot be under-  stood by a child till he has practically discovered it,  that " common names stand for kinds containing many  sorts, or for sorts containing many individuals under  them;" — with many like things, picked up from  Lowth and others, equally fitted for the instruction of  young minds; condescends to give a few plain di-  rections for knowing the parts of speech, such as the  tyro is likely to understand: but the author, as if  ashamed of having been intelligible, remarks that  " the observations wliich have been made to aid  learners in distinguishing the parts of speech from one  another, may afford them some small assistance ; but  it will certainly be mucli more instructive to distinguish  them by the definitions, and an accurate knowledge of  their nature" Now the observations referred to, are,  in fact, the only passages calculated to give a just un-  derstanding of the parts of speech ; the definitions  wliich the writer enhances, being founded in an es-  sentially wrong notion of the nature of grammar. It  is speaking to the purpose to tell the tyro that " a  substantive may be distinguished by its taking an  article before it, or by its making sense of itself;"^ that,  " an adjective may be known by its making sense with  ticulars to generals instead of descending  from generals to particulars, — there la nothing   the wortl thing, or any particular Gubstantive ;" that,  " a verb may be diBtinguishcd by its making sense  with any of the personal pronoiuiB ;" that, " a preposi-  tion may be known by its admitting after it a personal  pronoun in the objective case ;" and so forth. These  are not only plain directions for the purpose professed,  but they suggest the real differences among the parts  of speech; and if the compiler had condescended  throughout his book (or books, for there are appen-  dages) to adapt his explanations, in the same manner,  to the minds of those who were to be taught, he would  have avoided the errors of doctrine which he always  runs into when be attempts to give, what as the author  of an elementary grammar he has never any buaiiiesa  to give, namely a philosophical or general principle.  Moreover, in the arrangement of his materials, he  seems incapable of, ot at least is inattentive to, the  clearest and most necessary distinctions. Thus, (to  take at random two examples from liis book of ex-  ercises,) he gives the following as instances of bad  grammar : " Ambition is so insatiable, that it will  make any sacrifices to attain its objects." (12mo. edit,  p. 128.) " When so good a man as Socrates fell a  victim to the madness of the people, truth, virtue, re-  ligion, fell with him." (Ibid 116.) The former of  these sentences exemplifies the Logical fault, non-   in what remains that can be objected to : the  declining of nouns, the conjugatiiig of verbs,   scquitur, and the latter will advantageouBly receive  the Rheimcal ornament polysyndeton : but to give  them as instanccB of defective Grammar, b to blind  the learner to the nature of the art he is studying. —  The grammatical works wc are referring to, seem,  from the number of editions they have gone through,  to be in very general iise, or we should not have  deemed them worth so long a note. \Ve pass to a  remark on another grammatical work of very different  character and value, the Greek grammar of Matthise.  This work has justly won the approbation of the  learned throughout the world; but we conceive the  praise belongs to its elaborate detail, and not to such  principles as the following. " Every proposition, even  the simplest, must contain two principal ideas, namely  that of the Subject a thing or person, of which any  thing is asserted in the proposition, and that of the  I'redicate, that which is asserted of that person or  thing." (Matth. Gr. § 293.) To state our objections  to tliis passage is difficult, because we do not know how  the author or translator may define a propositic»i, or  what they may mean by the principal ideas in it.  Perhaps they may consider no expression a proposition  which does not consist of a subject and predicate. Wc  deny that, from the nature of the thought, any commu*  nication requires these grammatical parts, {they are     A    and the other business of the grammar-scliool,  we deem, as it has always been deemed, in-  dispensable. In Logic, if we omit ail that is  taught concerning ideas independently of  words ; if we omit what ia taught concerning  the two operations of the mind, Perception  and Judgment distinct from Reasoning, not  because those operations do not take place,  but because every single abstract word fully  understood, (and Logic begins with words,)  expresses a conclusion from a rational process  as efTectually as a syllogism ; and if we further  omit (and the omission is important) whatever  is peculiar to Aristotelian Logic ; — all that  remains will, on the principles we have had  before us, be essentially useful to the learner ;  namely, the precepts for accurate definition ;  the precepts against the assumption of un-  warranted premises j the precepts for guarding  against the false conclusions to which we are     merely g^rammalical,) though the necessities of lan-  guage in general prescribe them. See Chap. I. SecL  25. ; about the middle of the Section.    liable when we reason tvith words, and not  merely by means of words; the precepts for  guarding against being led away by true con-  clusions, when there may be conclusions like-  wise true and more important from other  data ; which data, with their conclusions, are,  kept out of sight by the art of the speaker, or .  the blindness of the inquirer*. In Rhetoric,  there is less to be omitted than in the other  branches ; but in this department, the general  views we have opened are important, because  they exhibit the art in connexion with a great  and worthy end; an end which, it should seem>  has not always been thought essential to it.     * We mean to say, that the7na(e)'taZsof acomplete  budy of ioEtructioD ia Logic already exist in Literature ;  but tliey esisE not in any one system. They are more-  over BO mingled with what is erroneous hi doctrine, that  the good is difficult to reach, without imbibing a great  many wrong notions that frustrate the practical benefit  How can it be otherwise, if what we have endeavoured  to prove, is true, that the principle of the Logic which  all men use and all men operate witli, has never yet  been cxpIaiRvd ?     For as Rhetoric is an instrumental art, we  are told that it ought to be considered ab-  stractedly from the ends which the speaker  or writer may propose in using it j and  Quinctilian who insists that the Orator, (that  is, of course, the consummate orator,) must be  a virtuous man, lias been classed with those  whom atraihevffla, and aXai^ovela have betrayed  ioto a wrong estimate of the art*. As we  think the good old Roman schoolmaster is  not quite beside the mark in his notion on  this point, we propose to inquire wliether  the placing of Rhetoric on the basis we have  ascertained, does not lead to the position he  so stoutly maintains. Now, the immediate  basis of Rhetoric is Logic ; and our remarks  will therefore begin with the latter.   14. Logic as well as Rhetoric is an in-  strumental art ; but if our definition is correct,  it is an instrument for the discovery of truth,  and it is then only perfect as an instrument  when it is completely adapted to that end.  • See Whately's Rhetoric. A great and worthy end is therefore essential  to Logic ; and a correspondent effect will  appear in those who have made a skilful use  of it. But the Logic we speak of, is that  which is applied to things, namely to Physicot  and Practica *; that is to say, which is em-  ployed to ascertain the constitution of the  world in which we Uve, and of ourselves who  live in it, and thence to deduce what we  ought to do: — but the examination of the  world, and of ourselves, and of our duties, is  the examination of particulars ; and our Logic  has recourse to universals for no other purpose  than to understand particulars the better. If  there is a Logic, which, resting in universals,  confers the power of talking learnedly and  wisely, yet leaves a man to act the part of an  Ignoramus and a fool in the commonest  concerns of life, this is not the Logic we have  had in view. There is indeed a learned ig-  norance, aa there is an ignorance from want  of learning ; there is also an ignorance from natural incapacity, and an ignorance from  superinduced insanity ; by any one of wliich  tbe mind may be prevented from reaching  truth. Not that in any case whatever the  reasoning process is wrong ; but if the  reasoning proceeds on wrong or insufficient  premises, which it will in any of these cases,  the conclusion will of course be wrong. Some  one has said that " the difference between a  madman and a fool is, that the former reasons  justly from false data, and the latter erro-  neously from just data." This is incorrectly  said : — the idiot who walks into the water  because he knows no better, is incapable of  the just datum, and therefore cannot be said  to reason from it : if he knew the datum,  namely that the water would drown him, he  would not walk into it ; but he does not  know this, and therefore he walks into it : in  doing which, he reasons, so far as his know-  ledge goes, as justly as the madman, who  walks into it because his disturbed fancy  makes him take it for a garden. Wlien the     SECT. 14.] ON RHETORIC. 235   road to truth is blocked up by either of these  two causes, namely irabeciUty or insanity.  Logic can do nothing ; but ignorance whether  from wrong learning or from want of learning,  is to be removed by the appUcation of ge-  nuine Logic to P/it/ska and Praclica. Still,  independently of tlie toil to be encountered,  there are obstructions and delusions which  are liable to turn the most ardent inquirer out  of the path. There may not be natural im-  becility, nor permanent insanity ; yet there  may be an habitual incapacity of judgment  from the influence of prejudice, and aa  occasional insanity of judgment from the in-  fluence of passion. But among other things  we learn in Pki/sica, these facts are to be  reckoned ; and the precepts which warn us of  them, are among the most important of those  which belong to Praclica. In the mean  time, that we may be induced to persevere in  the search after truth, till our real interests  become so plain that we cannot but embrace  them, we are not permitted to feel at ease   under the mists which passion and prejudice  create. The fool and the madman to whom  mists are reaUties, are satisfied in their judg-  ments; but it is not so with those who see  dimly through the fog, and suspect there may  be better paths than those they are pursuing.  This suspicion, as light breaks in, may at last  become conviction, strong enough to subdue  even the habit or inclination by which a  wrong path is made easy, and a departure  from it difficult. True, indeed, such over-  powering conviction may not reacii the ma-  jority of mankind at present: they may be  compelled, as heretofore, to wear out life in  struggles between right and wrong, between  inclination and duty, between future good  and present solicitation : but are we forbidden  to hope, for future generations, a gradual  alleviation of so painful a conflict, in propor-  tion as what is good and what is evil shall be  made plainer to the eye of reason • P At least   > * All vice is ignorance or habit. Who would not  take the best way of being happy, if he knew it — that may we affirm, that all learniag has, or ought  to have, this consummation in view.   is, knev it to conviction — and his habits did not prevent  him ? But he may discover the best way when hia  bahitE are fixed; as a miEerable dnmkard, who drinks  on to escape from utter dcepair, sees with bitter regrel  the happiness of a sober life. With a common notion  of learning and ignorance, an objector will demur to  our statement ; but such an objectot should be told,  that a man may have run the circle of the sciences aa  they are commonly taught, and yet remain in ignorance  of what is most important to be known. This is s  truth which not only Christian teachers, but the wise  among the heathen inculcate. In that admirable relic  of Socratic philosophy, £;EBHT02 niNAH, there  are, among the personifications, two that bear the  names of naiitia and "Htuimaihla, (Learning and  Counterfeit-learning,) by the latter of which is ligured  all that, independently of the knowledge which makes I  men permanently happy, passes under the name of I  learning. Now, in that knowledge which alone ia |  valuable, a man cannot be called learned, whose coik  viction is not strong enough to determine his practice.  The thirsty wight Tiho, in a state of profuse perspira*  tion, calls for a glass of iced-water, may know there is  danger in the draught : but if his knowledge is not  strong enough to prevent the act, what is its value ?—  at the moment, it is even worse than useless ; since   Such then is the aim and scope of Lo-  gic in relation to Physica and Pracika : it is   may be sufficient to disquiet the luxury of the draught,  though not sufficient to subdue the desire for it.  When Macbeth, (for the case is not dissimilar,)  resolves to gratify his ambition, he is not ignorant of  the danger he runs, and the secure happiness he leaves  behind him ; but he is so far ignorant as to prefer the  phantom of happiness to the reality. Yet he is not so  ignorant as his wife, and he reaps, in consequence, less  immediate gratification. Having once held the balance,  with some impartiality, between right and wrong, he is  incapable, even for a moment, of being a triumphant  villain. The crooked-baek Richard, (for having begun  our examples with Shakspeare, we will continue with  him,) is not so distracted by divided data. " Securely  privileged," says Mr. Foster, " from all interference of  doubt that can linger, or hiunanity that can soften, or  timidity that can shrink, he advances with a grim con-  centrated constancy through scene after scene of  atrocity, still fiilfilling his vow to ' cut his way through  with a bloody ase.' He does not waver while he  pursues his object, nor relent when he seizes it."  (Essays on Decision of Character, &c.) Yet both he  and Macbeth's wife at length get nervous in their  sleep : for so it is, that if one scruple of conscience lurk  in the soul, it will produce its effect sooner or later;  and tliat effect will begin when the bodily powers are  the means of discovering truth in botli these  departments. Now we assume, that the pro-  weakest; and as body and mind have a mutual in-  fluence, the former -will sicken and perpetuate the  horrors of the latter, unless, as with Richard, a violent  death intervene. The three wretches vc have thus  far referred to, have this in common, that they do not  embrace vice for its own sake, but as a means of reaching  the phantom of happiness that dances before them.  But there is a state of vice brought on by habit, in  which a man finds a pleasure in doing evil, and is in-  capable of any other pleasure. lago is our example —  a character which, it is to be feared, is by no means  out of life. Imagine a shrewd and selfish child per-  mitted from infancy to create for himself a satis-  faction in the disquietude of others — a little worrier of  defenceless creatures— a petty tyrant indulged in his  worst caprices ; — imagine such a one, as he grows up,  placed where his habits cannot be indulged but in  secret, and where those around him are such, that he  must, in his own mind, either hate them, or hate  himself: imagine all this, and lago will appear too  possible a character. Some critics have objected, that  there is no sufficient motive for the mischief he brings  on Othello, Desdemona, and Cassio. Can there be, to  Aim, a stronger motive, than that they arc noble-  minded, benevolent, and happy, and tacitly remind  him, at every instant, that he is in all respects a  per business of Rhetoric is to make truth  known when found j which assumption, if ad-  mitted, would at once establish our position ;  for to suppose a consummate orator would, in  such case, be to suppose one who is too fully  possessed of truth not to be led by it himself,  while acting as a guide to others. After ad-  mitting the assumption, it would signify little wretch? He knows and bitterly feels, tliat each  " hath a daily beauty in his life that makes him ugly-"  The only pleasure which habit has given him, in lieu  of those of which it has made him incapable, is, to  torture the beings that wound his self-love to the quick,  and to destroy the happiness he cannot partake in.  Such is the power of habit. Though the means, when  properly applied, of putting a human being in train to  become an angel, yet added to, and encouraging the  tendencies of his uninstructed nature, it will render him,  prematurely, a fiend. lago is utterly depraved — a be-  ing incapable of Paradise if placed in it — more odious  tlian Milton has been able to depict even Satan him-  self; for that majestic bdng, (the hero of the poem as  Drydeu truly says he is,) never appears " less than  arcliangel ruined. " The " demi-devil " of the dra-  matist, excels, in mental deformity, what the epic muse  has been able to conceive of " the author of all evil. "    to object the actual characters of those who  speak and write ; for they may be pretenders  in Rhetoric j or their advance in it, though  real, may be very inconsiderable toward the  perfection we are supposing. But it may be  said that the assumption begs the question,  and leaves us still to show that the office of leading men to truth is essential to Rhetoric,  in contradiction to those who view it as a mere  instrument equally fitted for the purposes of  truth and falsehood. Now, it must be con-  fessed, with regard to the means employed in  Rhetoric, that they frequently seem adapted  to the prejudices of men, — to meet rather than  to oppose their ignorance and their passions.  And if there were any way of conveying truth  at once into minds unfitted to receive it *, the     * It is a comiuoii thing to say of a person, that he  vtiU not be convinced. The fact generally stands  thus : we use arguments that convince ourselves, and  presume they are fitted to convince him, not knowing  or not observing, that all argument derives its force  &om the previous knowledge in the mind to which it  is addressed ; and that our hearer may have been so use of such means would be conclusive against  an honest purpose in the speaker. But the  instantaneous communication of truth, is, un-  der most circumstances, impossible ; and there-  fore we may next ask, what interest a writer  or speaker can have in an ultimate purpose to  deceive. The answer will be, — to serve one  or other of those partial purposes, of which  the common business of life, whether we look  into its private circles, or into the forum or  senate house, furnishes hourly examples. But  may we not describe all this as a conflict, in   educated as to render convicUon impoBsible by iuch  arguments as we offer him. Suppose, however, it be  true, that our hearer mill not be convinced, — thai is  to say, does not wish to be convinced, because his par-  ty perhaps, or his profession, or the career (be it what  it may) into which he has entered, does not agree witli  what is sought to be established : let us in candour  consider in such a case what a vantage ground we oc-  cupy, inasmuch as we see our own interest, temporal  or eterual, coupled with the proposition in view ; and  let us condescend, by the argumeittum ad homhiem,  to give him a similar advant^e, before we expect his  conviction from the argumentum ad judicium.     which each is eager to show just so much  truth as suits the present purpose, and to veil  the rest? And will not the whole of truth be  shown in this manner, as far at least as men  have discovered it, although not shown at  once ? Of these skirmishers that use the arms  ufiensive and defensive of the art, each takes  credit for a certain degree of skill j but among  them all, which is thg Orator? Is it not he  who soars above partial views and partial pur-  poses, who unites into one comprehensive  whole what others advocate in parts, who  teaches men to postpone petty for greater ad-  vantages, and to seek the welfare of the indi-  vidual in the happiness of the kind ? If, then,  the palm of eloquence is permanently his alone,  who contends for it in this manner, our chain  of argument will not want many links before  we reach the conclusion, that to undertake  the art on a valid principle, we must con-  sider its purpose to be that of leading men  to truth.   16. A Rhetoric growing out of the Logic of Aristotle *, which, as we have seen, is the  art of reasoning mlh words, and not merely  by means of words, may indeed well be sus-  pected as a specious and delusive art. Aim-  ing at plausibility alone, it gives the power of  talking largely without requiring the know-  ledge which grows up Irom experience in  particulars ; and thus we have statesmen,  who, if we listen to them, are capable of setting  the world in order, but know not how to re-  gulate their households ; we have financiers  ready to accept the control of a nation's     • Aristotle's own treatise on Rhetoric is a work  completely to its purpose ; that is to say, fitted to make  men prevailing speakers at the time in wliich he wrote,  by exhibiting comprehensively the bearings of the ques-  tions they would have to discuss, and the various kinds  of persons they would have to influence. It is indeed  remarkable how little Aristotle's other works are of a  piece with his Logic ; nor is it without some show of  reason that Dugald Stewart supposes he was aware of  its empty pretensions, and was too wise to be deceived  by it himself, though lie chose to impose it on others.  Sec Vol. II. of the Philosophy of the Human Mind,  Chap, III. Sect. 3.   wealth, that have never learaed to manage  their own estates; we have lawyers, whom  the simplest questions of right and wrong  would be sufficient to pei-ples * ; and priests  who, once a week, discourse " in good set  terms " to well dressed congregations, of vir-  tue and of vice, of this world and the next j but  who would be incapable of oifering, from their  own stores, a single argument fitted to deter  a plain thinking, ignorant man from vice, or  to stop the commission of a specific offence  by remonstrance adapted to the case. This  specious eloquence, however, like the Logic  from which it springs, has almost lost its re-  putation and influence: we now require from  speakers and writers more substantial recom-  mendations than the power of dwelling on  vague generalities ; and in proportion as   • But perhaps, with regard to lawyers, we are  requiring knowledge, which, as matters stand, would  be an incumbrance to them. A special pleader may  Bay, " what have I to do with simple right and wrong ?  My business is to see how the letter of the law can be  applied or evaded."     Mfi     genuine Logic enlarges the empire of truth,  will the necessity appear of seeking in an en-  lightened mind, and a heart kindled by active  philanthropy, for the true springs of elo-  quence. Thus will ambition be brought to  side with virtue} because there will be no  way of winning distinction, but by cultivating  the powers of language in subservience to  that knowledge, which gives a man the de-  sire and the faculty of beiug useful to others,  and governing himself.  To conclude ; — the theory which, in  this treatise, we have endeavoured to establiah  is this, — that we come at all our knowledge  by the use of media, which media are, chiefly,  words; and that, as the words procure the  notions, the notions exist not antecedently to  language : —that when, by these means, we  have gained knowledge, and try, by similar  means, to communicate it to others, we do  not, while the process is going on, represent  our own thoughts, but we set their minds a  thinking iu a particular train ; that our own thought 13 represented by nothing short of  the completely formed word, whose parts, if  any or all of them are separately dwelt upon,  are not parts of our thought, but signs of  knowledge which we and our hearers possess  in common, and which, by bringing their  minds into a particular attitude, enables them  to conceive our thought, when the whde  WORD that expresses it, is formed : — that i§  before this word is formed, there are parts by  which something is Communicated not known  before, yet, being communicated, it is still  but a part of the means toward knowing  something not yet communicated, and stiU,  therefore, the principle holds good, that we  are adding part to part of the whole word  which is to express something not yet com-  municated ; which word, even though it ex-  tend to an oration, a treatise, a poem, &c., is  as completely indivisible with respect to the  meaning conveyed by it as a whole, as is a  word which consists only of a single syllable,  or a single sound. If this doctrine truly de-  scribes the nature of the connexion between thought and language, we claim for it the  merit of a discovery, because the common  theory, that is, the theory which men are  presumed to act upon, and to which all pre-  ceptive works are adapted, — not the theory  which, unawares, they really act upon, — ex-  hibits that connexion in a very different light.  And, as a discovery, we are the more dis-  posed to urge attention to it, because our  soundest metaphysicians have expressed them-  selves as if there 'ooas something to be dis-  covered as regards the connexion we speak of,  before a system of Logic could be establisiied  on a just foundation. Locke says that when  he first began his discourse on the Under-  standing, and a good while after, he thought  that no consideration of language was at all  necessary to it. At the end of his second  book, he discovers, however, so close a con-  nexion between words and knowledge, that  he is obliged to alter his first plan ; and having  reached his concluding chapter, he speaks as  if he still felt that he had not yet ascertained  the full extent to which language is an instrument of reason. Dugald Stewart, too, from  whom, in the conclusion of our first chapter,  we quoted a passage which entirely agrees, so  far as it goes, with the views we have opened,   ' has the following remark in his last work, the  third volume of the Philosophy of the Human   ' Mind : " If a system of rational Logic should  ever be executed by a competent hand, this **  (viz. language as an instrument of thought)  '* will form the most important chapter."  Our doctrine is, that this will not merely form  the most important chapter, but that it wtU  be the only chapter strictly belonging to Jjo^ I  ^c ; and yet the theory we offer keeps deaf  of the extreme which betrayed Home Tooke,  who appears to consider reason as the result  of language. We pretend, then, to have inade  the discovery which Locke felt to be necessary,  and the nature of which Stewart more than i  conjectured j but oura is only " «?i Outline ; '*  and the system of rational Logic which the  Scotch metaphysician speaks of, yet remains to  be "executed by a competent hand:" — we  pretend but to have ascertained for it the  true foundation. — Something might be add-  ed on the importance which the subject de-  rives from the aspect of the times : for the  most careless observer cannot but remark,  how the rapid communication of knowledge  from mind to mind moulds and forms public  opinion ; and how the opinion of the many, ac-  quiring, day by day, a character and a weight  that never distinguished it before, threatens to  become the law to which not only individuals,  but governments, and eventually the common-  wealth of nations, must conform ; and hence we  might be led to urge that Philosophy cannot  be employed more opportunely, than in a new  examination of the instrument by which so  much has been, and so much more is likely  to he effected. The consideration is, how-  ever, too obvious not to have occurred to the  reader, and we therefore close our remarks.  At page 55, the assertione, that the words of a sentence, " as parts of that sentence'''', and the sentences  of a discourse, " na parts of that discourse"", are not  by themselves significant, would perhaps sound a little  less paradoxical, if, instead of each of the phrases quo-  ted, the reader were to substitute " as parts of that  completed expression ".   At page 88, supply the other parenthetical mark  after " imderstanding" in line 4.   At page 196, line 6, the question is asked, whether  the juryman must go to Aristotle, and be taught to  compare the middle with the extremes ? The reader  will observe that the example is already farced into a  form, namely that of a syllogism in barbara, which a  juryman untaught by Aristotle would probably never  think of giving it, the other way of speaking being by  far the more obvious, viz. To kill a man maliciously  is murder ; A. B. killed a man maliciously ; therefore  A. B. is guilty of murder. Here, instead of the Aria-  totclian names major and minor, we prefer calling the  first proposition the datum, and the second, with re-  ference to the datum it is addressed to, the argument ;  and the truth of the argument having been proved by  testimony, we atfirm that the conclusion is as evident  as a conclusion can be, and that the Aristotelian  formula is a needless and puerile addition to a process  already complete — a proof of what is proved : — it is a  use of language for the purpose of reasoning which  does not identify with, but goes beyond, and childishly refines upon that use of language in which the logic  of mankind at large consiets.   The doctrine of the whole work may receive some  light from the following way of stating it : — Man, in  common with other animals, derives immediately from  nature the power to express hie immediate, or, as they  are commonly called, his natural wants and feelings.  But he also possesses the power of inventing or learn-  ing a language which nature does not teach ; and it is  solely by the exertion of this power, which we call  reason, that he raises himself above the level of other  animals. By media such as artificial language consists  of, and only by such media, he acquires the knowledge  which distinguishes him from other creatures ; and  each advance being but the step to another, he is a  being indefinitely improveable. But if words are the  means of knowledge, it is an error to describe or con-  sider them in any other light ; and we accordingly  deem them not as, strictly speaking, the signs of  thought, but as the means by which we think, and set  others a thinking. This principle being admitted, renders unnecessary Locke's doctrine of ideas ; and Sematology stands opposed to, and takes the place of,  what the French call Idealogy,   With respect to these addenda, should the reader ask, whether they are to be esteemed a part of our  WORD, we answer in the affirmative. We imagined  our woED complete. If, on further consideration, we  had supposed so, we should not have added another  SYLLABLE. {^uT^Qh a ffvMMiiSavuv.)   G. WoedbUi Frlnlei, Angd Courl, SkJnnsi Street, Londoo.  Giuseppe Capocasale. Keywords: sematologia, la sematologia di Vico, dialettica, assoc: ‘a tear’ may be a sign of sadness – or love – (‘una furtiva lagrima – ‘m’ama’) but the kind of sign that an idea or conception of the soul, or ‘rivelazione’ of the animus -- are related with are arbitrario – ad placitum -- arbitrary, not necessarily a natural causal sign or nature. The correlation between the segnans and the segnato may be ‘imitativa’ or iconic, arbitrary, arbitraria, associative, associative, etc. A sign is not essentially connected with the purpose of communication (smoke means fire, spots mean measles, a tear means love). Grice is into ‘communication,’ not sign as such – a theory of communication, not a semeiotic. Capocasale does not expand on the intricacies of the cocodrile’s tears (fake tears – or Grice’s frown), because he is not interested, but it woud just take a footnote to his comment on ‘lacrima’ being a ‘signum’ traestitiae. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capocasale” – The Swimming-Pool Library

 

Grice e Capocci – significare e santificare – il sacramento evangelico significa grazia e sanctifica grazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Viterbo). Filosofo italiano. Grice: “I like Capocci; he was a Griceian; he opposed Aquinas on the dependence of will and intellectus – surely they are independent, and possibly the will is more basic! La ‘volonta,’ as the Italians call it! -- “That’s how I shall call himothers favour “Giacomo da Viterbo.”” Essential Italian philosopher – Di famiglia nobile, studia a Viterbo. His monicker was ‘il dottore speculativo”. Insegna a Napoli. Il suo saggio più conosciuto, “De regimine christiano” Approfondisce i temi della teocrazia, e del potere temporale del cesare e il suo stato. Altre opere: “Quaestiones disputatae de praedicamentis in divinis”. “Summa de peccatorum distinctione” – “there are surely more than seven sins – Multiply sins beyond necessity --. Dizionario Biografico degli Italiani.Vi sono in cui Giacomo viene raffigurato con un'aureola – segno naturale accordo di Peirce del santo.Mariani identified two manuscripts containing a Summa de peccatorum distinctione: Biblioteca Nazionale di Napoli, cod. vii G. 101 and Biblioteca di Montecassino, both of which ascribe the work to James. Ypma does not mention. Summa de peccatorum distinctione Fratris Jacobi de Viterbio Sacrae Theologiae Professoris, Fratrum Eremitarum Sancti Augustini, Archiepiscopi Neapolitani.  D. AMBRASI, La Summa de peccatorum distinctione del b. Giacomo da Viterbo dal ms. VII G 101... D. GUTIERREZ, De vita et scriptis Beati Iacobi de Viterbo, “ Analecta Augstiniana ”, XVI, 1937 Lectura super IV libros Sententiarum Quaestiones Parisius disputatae De praedicamentis in divinis Quaestione de animatione caeli Quaestiones disputatae de Verbo Quodlibeta quattuor Abbreviatio In Sententiarum Aegidii Romani De perfectione specierum De regimine christiano Summa de peccatorum distinctione Sermones diversarum rerum Concordantia psalmorum David De confessione De episcopali officio Like many of his contemporaries, James devotes serious attention to determining the status of theology as a science and to specifying its object, or rather, as the scholastics say, its subject. In Quodlibet III, q. 1, he asks whether theology is principally a practical or a speculative science. Unsurprisingly, perhaps, for an Augustinian, James responds that the end of theology resides principally not in knowledge but in the love of God. The love of God, informed by grace, is what distinguishes the way in which Christians worship God from the way in which pagans worship their deities. For philosophers—James has Cicero in mind—religion is a species of justice; worship is owed to God as a sign of submission. For the Christian, by contrast, there can be no worship without an internal affection of the soul, i.e., without love. James allows that there is some recognition of this fact in Book X of the Nicomachean Ethics, for the happy man would not be “most beloved of God,” as Aristotle claims he is, if he did not love God by making him the object of his theorizing. In this sense, it can be said that philosophy as well sees its end as the love of God as its principal subject. But there is a difference, James contends, in the way in which a science based on natural reason aims for the love of God and the way in which sacred science does so: sacred science tends to the love of God in a more perfect way. One way in which James illustrates the difference between both approaches is by contrasting the ways in which God is the “highest” object for metaphysics and for theology. The proper subject of metaphysics is being, not God, although God is the highest being. Theology, on the other hand, views God as its subject and considers being in relation to God. Thus, James concludes, “theology is called divine or of God in a much more excellent and principal way than metaphysics, for metaphysics considers God only in relation to common being, whereas theology considers common being in relation to God” (Quodl.). Another way in which James illustrates the difference between natural theology and sacred science is by using St. Anselm's distinction between the love of desire (amor concupiscientiae) and the love of friendship (amor amicitiae). The love of desire is the love by which we desire an end; the love of friendship is the love by which we wish someone well. The love of God philosophers have in mind, James contends, is the love of desire; it cannot, by the philosophers' own admission, be the love of friendship, for according to Aristotle, at least in the Magna Moralia, friendship involves a form of community or sharing between the friends that cannot possibly obtain between mere mortals and the gods. Now although James concedes that a “community of life” between God and man cannot be achieved by natural means, it is possible through the gift of grace. The particular friendship grace affords is called charity and it is to the conferring of charity that sacred scripture is principally ordered.Like all scholastics since the early thirteenth century, James subscribes to the distinction between God's ordained power, according to which “he can only do what he preordained he would do according to wisdom and will” (Quodl.) and his absolute power, according to which he can do whatever is “doable,” i.e., whatever does not imply a contradiction. Problems concerning what God can or cannot do arise only in the latter case. James considers several questions: can God add an infinite number of created species to the species already in existence (Quodl. I, q. 2)? Can he make matter exist without form (Quodl.)? Can he make an accident subsist without a substrate (Quodl.)? Can he create the seminal reason of a rational soul in matter (Quodl.)? In response to the first question, James explains, following Giles of Rome but against the opinion of Godfrey of Fontaines and Henry of Ghent, that God can by his absolute power add an infinite number of created species ad superius, in the ascending order of perfection, if not in actuality, then at least in potency. God cannot, however, add even one additional species of reality ad inferius, between prime matter and pure nothingness, not because this exceeds his power but because prime matter is contiguous to nothingness and leaves, so to speak, no room for God to exercise his power (Côté). James is more hesitant about the second question. He is sympathetic both to the arguments of those who deny that God can make matter subsist independently of form and to the arguments of those who claim he can. Both positions can reasonably be held, because each argues from a different (and valid) perspective. Proponents of the first position argue from the point of view of reason: because they rightly believe that God cannot make what implies a contradiction, and because they believe (rightly or wrongly) that making matter exist without form does involve a contradiction, they conclude that God cannot make matter exist without form. Proponents of the second group argue from the perspective of God's omnipotence which transcends human reason: because they rightly assume that God's power exceeds human comprehension, they conclude (rightly or wrongly) that making matter exist without form is among those things exceeding human comprehension that God can make come to pass.Another question James considers is whether God can make an accident subsist without a subject or substrate. The question arises only with respect to what he calls “absolute accidents,” namely quantity and quality, as opposed to relational accidents—the remaining categories of accident. God clearly cannot make relational accidents exist without a subject in which they inhere, for this would entail a contradiction. This is so because relations for James, as we will see below, are modes, not things. What about absolute accidents? As a Catholic theologian, James is committed to the view that some quantities and qualities can subsist without a subject, for instance extension and color, a view for which he attempts to provide a philosophical justification. His position, in a nutshell, is that accidents are capable of existing independently if they are thing-like (dicunt rem). Numbers, place (locus), and time are not thing-like and are thus not capable of independent existence; extension, however, is and so can be made to exist without a subject. The same reasoning applies to quality. This is somewhat surprising, for according to the traditional account of the Eucharist, whereas extension may exist without a subject, the qualities, color, odor, texture, necessarily cannot; they inhere in the extension. James, however, holds that just as God can make thing-like quantities to exist without a subject, so too must he be able to make a thing-like quality exist without the subject in which it inheres. Just which qualities are capable of existing without a subject is determined by whether or not they are “modes of being,” i.e., by whether or not they are relational. This seems to be the case with health and shape: health is a proportion of the humors, and so, relational; likewise, shape is related to parts of quantity, without which, therefore, it cannot exist. Colors and weight, by contrast, are non-relational, according to James, and are thus in principle capable of being made to exist without a subject.The fourth question James considers in relation to God's omnipotence raises the interesting problem of whether the rational soul can come from matter. James proceeds carefully, claiming not to provide a definitive solution but merely to investigate the issue (non determinando sed investigando). The upshot of the investigation is that although there are many good reasons (the soul's immortality, its spirituality and its per se existence) to say that God cannot produce the seminal reason of the rational soul in matter, in the end, James decides, with the help of Augustine, that such a possibility must be open to God. Thus, it is true that in the order which God has de facto instituted, the soul's incorruptibility is repugnant to matter, but this is not so in absolute terms: if God can miraculously cause something to come to existence through generation and confer immortality upon it (James is presumably thinking of the birth of Christ), then he can make it come to pass that souls are produced through generation without being subject to corruption. Likewise, although it appears inconceivable that something material could generate something endowed with per se existence, it is not impossible absolutely speaking: if God can confer separate existence upon an accident—despite the fact that accidents naturally inhere in their substrates—then, in like manner, he can confer separate existence upon a soul, although it has a seminal reason in matter. Scholastics held that because God is the creative cause of all natural beings, he must possess the ideas corresponding to each of his creatures. But because God is eternal and is not subject to change, the ideas must be eternally present in him, although creatures exist for only a finite period of time. This doctrine of course raised many difficulties, which each author addressed with varying degrees of success. One difficulty had to do with reconciling the multiplicity of ideas with God's unity: since there are many species of being, there must be a corresponding number of ideas; but God is one and, hence, cannot contain any multiplicity. Another, directly related, difficulty had to do with the ontological status of ideas: do ideas have any reality apart from God? If one denied them any kind of reality, it was hard to see how they could function as exemplar causes of things; but to attribute full-blown essential reality to them was to run the risk of introducing multiplicity in God. One influential solution to these difficulties was provided by Thomas Aquinas, who argued that divine ideas are nothing else but the diverse ways in which God's essence is capable of being imitated, so that God knows the ideas of things by knowing his essence. Ideas are not distinct from God's essence, though they are distinct from the essences of the things God creates (De veritate). One can discern two answers to the problem of divine ideas in the works of James of Viterbo. At an early stage of his career, in the Abbreviatio in Sententiarum Aegidii Romani­—assuming one accepts, as seems reasonable, the early dating suggested by Ypma (1975)—James defends a position that is almost identical to that of Thomas Aquinas (Giustiniani). In his Quodlibeta, however, he moves to a position closer to that of Henry of Ghent. In the following I will sketch James' position in the Quodlibeta as it provides the most mature statement of his views. Although James agreed with the notion that ideas are to be viewed as the differing ways in which God can be imitated, he did not think that one could make sense of the claim that God knows other things by cognizing his own essence unless one supposed that the essences of those things preexist in some way (aliquo modo) in God. James' solution is to distinguish two ways in which ideas are in God's intellect. They are in God's intellect, firstly, as identical with it, and, secondly, as distinct from it. The first mode of being is necessary as a means of acknowledging God's unity; but the second mode of being is just as necessary, for, as James puts it (Quodl. I, q. 5, p. 64, 65–67), “if God knows creatures before they exist, even insofar as they are other than him and distinct (from him), that which he knows is a cognized object, which must needs be something; for that which nowise exists and is absolutely nothing cannot be understood.”  But James also thinks that the necessity of positing distinct ideas in God follows from a consideration of God's essence. God enjoys the highest degree of nobility and goodness. His mode of knowledge must be commensurate with his nature. But according to Proclus, an author James is quite fond of quoting, the highest form of knowledge is knowledge through a thing's cause. That means that God knows things through his own essence. However, he does so by knowing his essence as a cause, and that is possible only by knowing “something (aliquid) through a cause, not merely by knowing that which is the cause (i.e., God)”. Although James' insistence on the distinctness of ideas with respect to God's essence is reminiscent of Henry of Ghent's teaching, it is important to note, as has been stressed by M. Gossiaux (2007), that James does not conceive of this distinctness as Henry does. For Henry, ideas possess esse essentiae; James, by contrast, while referring to divine ideas as things (res), is careful to add that they are not things “in the absolute sense but only determinately,” viz., as cognized objects (Quodl. I, q. 5, p. 63, 60). Thus, divine ideas for James possess a lesser degree of distinction from God's essence than do Henry of Ghent's. Nevertheless, because James did consider ideas to be distinct in some sense from God, his position would be viewed by some later authors—e.g., William of Alnwick—as compromising divine unity. The concept of being, all the medievals agreed, is common. What was debated was the nature of the commonness. According to James of Viterbo, all commonness is founded on some agreement, and this agreement can be either merely nominal or grounded in reality. Agreement is nominal when the same name is predicated of wholly different things, without there being any objective basis for the application of the common name; such is the case -of equivocal names. Agreement is real in the following two cases: (1) if it is based on some essential resemblance between the many things to which a particular concept applies, in which case the concept applies to these many things by virtue of the self same ratio and is said of them univocally; or (2) if that concept is truly common to the many things of which it is said, although it is not said of them relative to the same nature (ratio), but as prior to one and posterior to the others, insofar as these are related in a certain way to the first. A concept that is predicated of things in this way is said to be analogous, and the agreement displayed by the things to which it applies is said to be an agreement of attribution (convenientia attributionis). James believes that it is according to this sense of analogy that being is said of God and creatures, and of substance and accident (Quaestiones de divinis praedicamentis I, q. 1, p. 25, 674–80). For being is said in a prior sense of God and in a posterior sense of creatures by virtue of a certain relation between the two; likewise, being is said first of substance and secondarily of accidents, on account of the relation of posteriority accidents have to substance. The reason why being is said in a prior sense of God and in a secondary sense of creatures and, hence, the reason why the ‘ratio’ or nature of being is different in the two cases is that being, in God, is “the very thing which God is” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 1, p. 16, 412), whereas created being is only being through something added to it. From this first difference follows a second, namely, that created being is being by virtue of being related to an agent, whereas uncreated being has no relation. These two differences can be summarized by saying that divine being is being through itself (per se), whereas created being is being through another (per aliud) (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 1, p. 16, 425–6). In sum, being is said of God and creature, but according to a different ratio: it is said of God according to the proper and perfect nature of being, but of creatures in a derivative or secondary way.James' most detailed discussion of the distinction between being and essence occurs in the context of a question that asks if creation could be saved if being (esse) and essence were not different (Quodl. I, q. 4). His answer is that although he finds it difficult to see how one could account for creation if being and essence were not really different, he does not believe it is necessary to conceive of the real distinction in the way in which “certain Doctors” do. Which Doctors does he have in mind? In Quodl. I, q. 4, he summarizes the views of three authors: Godfrey of Fontaines, according to whom the distinction is only conceptual (secundum rationem); Henry of Ghent, for whom esse is only intentionally different from essence, a distinction that is less than a real distinction but greater than a rational distinction; and finally, Giles of Rome, for whom esse is one thing (res), and essence another. Thus, James agrees with Giles, and disagrees with Henry and Godfrey, that the distinction between being and essence is real; however, he disagrees with Giles about the proper way of understanding the real distinction.The starting point of his analysis is Anselm's statement in the Monologion that the substantive lux (light), the infinitive lucere (to emit light), and the present participle lucens (emitting light) are related to each other in the same way as essentia (essence), esse (to be), and ens (being). The relation of lucere to lux, he tells us, is the relation of a concrete term to an abstract one. To-emit-light denotes light as an act, just as to-be (esse) denotes essence from the point of view of an act. Now, a concrete term signifies more things than the corresponding abstract term, e.g., esse signifies more things than essence, for essence signifies only the form, whereas esse signifies the form principally and the subject secondarily. By ‘subject’ James means the actually existing thing, which he also calls the aggregate or supposit (Wippel 1981). Esse and essence thus signify the same thing principally, but differ in terms of what they signify secondarily. Although this difference is only conceptual in the case of God, it is real in the case of creatures. It is this difference that explains why one does not predicate to-emit-light (lucere) of light itself (lux) or being of essence: what properly exists is that which has essence, viz., the supposit. Esse denotes essence as existing in a supposit.The kernel of James' solution, then, lies in the distinction between what terms signify primarily and secondarily. To his mind, this is what makes his solution closer in spirit to Giles of Rome than to either Godfrey or Henry, without committing him to a conception of the distinction as rigid as that of Giles. The distinction is real for James, but in a qualified way (Gossiaux 1999). Because identity or difference between things is determined to a greater degree by primary rather than by secondary signification, it follows that essence and existence are primarily and absolutely the same (idem) and conditionally or secondarily distinct. Yet, although the distinction is conditional or secondary, it is nonetheless James devotes five of his Quaestiones de divinis praedicamentis (qq. 11–15), representing some 270 pages of edited text, to the question of relations. It is with a view to providing a proper account of divine relations, he explains, that it is “necessary to examine the nature of relation with such diligence” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 11, p. 12, 300–301). But before turning to Trinitarian relations, James devotes the whole of q.11 to the status of relations in general. The following account focuses exclusively on q. 11. James in essence adopts Henry of Ghent's “modalist” solution, which was to exercise considerable influence among late thirteenth-century thinkers (Henninger 1989), although he disagrees with Henry about the proper way of understanding what a mode is.The question boils down to whether relations exist in some manner in extra-mental reality or solely through the operation of the intellect, like second intentions (species and genera). Many arguments can be adduced in support of each position, as Simplicius had already shown in his commentary on Aristotle's Categories—a work that would have a decisive influence on James' thought. For instance, in support of the view that relations are not real, one may point out that the intellect is able to apprehend relations between existents and non-existents, e.g., the relation between a father and his deceased son; yet, there cannot be anything real in the relation given that one of the two relata is a non-existent. But if so, then the same must be true of all relations, as the intellectual operation involved is the same in all cases. Another argument concerns the way in which relations come to be and cease to be. This appears to happen without any change taking place in the subject which the relation is said to affect. For instance, a child who has lost his mother is said to be an orphan until the age of eighteen, at which point it ceases to be one, although no change has occurred: “the relation recedes or ceases by reason of the mere passage of time.”But good reasons can also be found in support of the opposing view. For one, Aristotle clearly considers relations to be real, as they constitute one of the ten categories that apply to things outside the soul. Furthermore, according to a view commonly held by the scholastics, the perfection of the universe cannot consist solely of the perfection of the individual things of which it is made; it is also determined by the relations those things have to each other; hence, those relations must be real.The correct solution to the question of whether relations are real or not, James contends, depends on assigning to a given relation no more but no less reality than is fitting to it. Those who rely on arguments such as the first two above to infer that relations are entirely devoid of reality are guilty of assigning relations too little reality; those who appeal to arguments such as the last two, showing that relations are distinct from their subjects in the way in which things are distinct from each other, assign too great a degree of reality to relations. The correct view must lie somewhere in between: relations are real, but are not distinct from their subjects in the way one thing is distinct from another.That they must be real is sufficiently shown by the first Simplician arguments mentioned above, to which James adds some others of his own. However, showing that they are not things is slightly more complicated. James' position, in fact, is that relations are not things “properly and absolutely speaking,” but only “in a certain way according to a less proper way of speaking.” A relation is not a thing in an absolute sense because of the “meekness” of its being, for which reason “it is like a middle point between being and non-being” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 11, p. 30, 668–9). The reasoning behind this last statement is as follows: the more intrinsic some principle is to a thing, the more that thing is said to be through it; what is maximally intrinsic to a thing is its substance; a thing is therefore maximally said to be on account of its substance. Now a thing's being related to another is, in the constellation of accidents that qualify that thing, what is minimally intrinsic to it and thus farthest from its being, and so closest to non-being. But if relations are not things, at least in the absolute sense, what are they? James answers that they are modes of being of their foundations. “The mode of being of a thing does not differ from the thing in such a way as to constitute another essence or thing. The relation, therefore, is not different from its foundation” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 11, p. 33, 745–7). Speaking of relations as modes allows us to acknowledge their reality, as attested by experience, without hypostasizing them. A certain number's being equal to another is clearly something distinct from the number itself. The number and its being equal are two “somethings” (aliqua), says James; they are not, however, two things; they are two in the sense that one is a thing (the number) and the other is a mode of being of the number.In making relations modes of being of the foundation, James was clearly taking his cue from Henry of Ghent, who has been called “the chief representative of the modalist theory of relation” (Henninger 1989). For Henry and James, relations are real in the sense that they are distinct from their foundations and belong to extra mental reality. However, James' understanding of the way in which a relation is a mode differs from Henry's. For Henry, a thing's mode is the same thing as its ratio or nature; it is the particular type of being that thing has, what “specifies” it. But according to James' understanding of the term, a mode lies beyond the ratio of a thing, like an accident of that thing (Quaestiones de divinis praedicamentis, p. 34, 767–8). In conclusion, one could say that in his discussion of relations, James was guided by the same motivation as many of his contemporaries, namely securing the objectivity of relations without conferring full-blooded existence upon them. Relations do exhibit some form of being, James believed, but it is a most faint one (debilissimum), the existence of a mode qua accident. James discusses individuation in two places: Quodl. I, q. 21 and Quodl. II, q. 1. I will focus on the first treatment, because it is the lengthier of the two and because the tenor of James' brief remarks on individuation in Quodl. II, q. 1, despite certain similarities with his earlier discussion (Wippel 1994), make it hard to see how they fit into an overall theory of individuation.The question James faces in Quodl. I, q. 21 is a markedly theological one, namely whether, if the soul were to take on other ashes at resurrection, a man would be numerically the same as he was before. In order to answer that question, James tells us, it is first necessary to determine what the cause of numerical unity is in the case of composite beings. There have been numerous answers to that question and James provides a short account of each. Some philosophers have appealed to quantity as the principle of numerical unity; others to matter; others yet to matter as subtending indeterminate dimensions; finally, others have turned to form as the cause of individuation. According to James, each of these answers is part of the correct explanation though it is insufficient if taken on its own. The correct view, according to him, is that form and matter taken together are the principal causes of numerical identity in the composite, with quantity contributing something “in a certain manner.” Form and matter, however, are principal causes in different ways; more precisely, each accounts for a different kind of numerical unity. For by ‘singularity’ we can really mean two distinct things: we can mean the mere fact of something's being singular, or we can point to a thing qua “something complete and perfect within a certain species” (Quodl. I, 21, 227, 134–35). It is matter that accounts for the first kind of singularity, and form for the second. Put otherwise, the kind of unity that accrues to a thing on account of its being a mere singular, results from the concurrence of the “substantial” unity provided by matter and the “accidental” unity provided by quantity. By contrast, the unity that characterizes a thing by virtue of the perfection or completeness it displays is conferred to it by the form, which is the principle of perfection and actuality in composites.Although James thinks he can quite legitimately enlist the support of such prestigious authorities as Aristotle and Averroes in favor of the view that matter and form together are constitutive of a thing's numerical unity, his solution has struck commentators as a somewhat contrived and ad hoc attempt to reach a compromise solution at all costs (Pickavé 2007; Wippel 1994). James, it has been suggested, “seems to be driven by the desire to offer a compromise position with which everyone can to some extent agree” (Pickavé 2007: 55). Such a suggestion does accord with what we know about James' temperament, namely, his dislike of controversy and his tendency, on the whole, to prefer solutions that present a “middle way” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 11, p. 23, 513; Quodl. II, q. 7, p. 108, 118; De regimine christiano, 210; see also Quodl. II, q. 5, p. 65, 208–209). However, James' professions of moderation must sometimes be taken with a grain of salt, as there are some positions he wants to pass off as moderate that are quite far from being so, as we will see in Section 7 below.The belief that matter contains the ‘seeds’ of all the forms that can possibly accrue to it is one of the hallmarks of James of Viterbo's thought, as is the belief that the soul pre-contains, in the shape of “propensities” (idoneitates), all the sensitive, intellective, and volitional forms it is able to take on. We will look at James' doctrine of propensities in the intellect in Section 5, and his doctrine of propensities in the will in Section 6. In this section, we present James' arguments in favor of seminal reasonsOne important reason for subscribing to the existence of seminal reasons is that the doctrine enjoys the support of Augustine.  Although James is sometimes quite critical of his Augustinian contemporaries, including his predecessor Giles of Rome, he is an unreserved follower of Augustine, especially when it comes to the greater philosophical issues, such as knowledge and natural causation. However, what is particularly interesting about James is the way in which he enlists such decidedly un-Augustinian sources as Aristotle, Averroes, and especially Simplicius in the service of his Augustinian convictions (Côté 2009). James offers a thorough discussion of seminal reasons in Quodl. II, q. 5.   The question he raises there is not so much whether there are seminal reasons, for this is “admitted by all Catholic doctors” (Quodl. II, q. 5, p. 59, 16), but rather, how one is to properly conceive of them. A seminal reason, according to James, has two characteristics: it is (1) an inchoate state of the form to be, and (2) an active principle. Most of the discussion in Quodl. II, q. 5 is devoted to establishing the first point. James thinks that the thesis that forms are present in potency in matter is consonant with the teaching of Aristotle, who, he claims, follows a “middle way” on the issue of generation, eschewing both the position that forms are created, and also Anaxagoras' “hidden-forms hypothesis,” according to which all forms are contained in act in everything. Now to say that forms are present in matter inchoately or in potency, according to James, entails that the potency of matter is something distinct from matter itself. One argument in favor of this thesis is that matter is not corrupted by the taking on of a form: it remains in potency towards other forms. Also, potency is relational, whereas matter is absolute. When James states that matter is distinct from potency he does not mean to say that they are entirely distinct or unconnected, quite the contrary: potency is the potency of matter. However, potency adds three characteristics to the concept of matter. First, it adds the idea of a relation to a form (matter is in potency towards a form); second, it adds the idea that the form to which it is related is a form it lacks; finally, it implies that the form which matter lacks is a form it has the capacity to acquire, for as James explains, one does not say that a stone is in potency toward the power of sight merely because it lacks sight. In order for something to be in potency toward a particular form it must both lack that form and also possess an aptitude to take it on. James neatly summarizes his views in the following passage: “[the potency of matter] denotes a respect of the matter toward the form, attendant upon its lacking that form and having the aptitude to take it on, so that four properties are included in the concept of potency, namely matter, lack of form, aptitude toward the form and a respect toward the form insofar as it is educible by an agent and motor cause” (Quodl. II, q. 5, p. 69, 359 – p. 70, 363). The originality of James' position lies in the way in which he conceives matter's aptitudes. The term “aptitude” has a precise technical meaning, which he fleshes out with the help of Simplicius' commentary on the Categories. It denotes a certain incipient or inchoative state of the form in matter. Potency and act, James tells us, are two states or modes of the same thing, not two distinct things. What exists in the mode of actuality must preexist in the mode of potency, but in an inchoate way. James is aware of the several objections that may be leveled against his conception of aptitudes or propensities. The most serious of these is perhaps the charge that their existence makes generation, i.e., the production of new beings, impossible or useless. James replies by suggesting that those who argue in this fashion misconstrue Aristotle's doctrine of change. For change, according to Averroes' understanding of Aristotle (see Quodl. III, q. 14), does not result from an agent's implanting a form in a receiving subject, for this would imply that forms “migrate” from subject to subject; it results rather from an agent's making that which is in potency to be in act. For this to occur, however, more is required than the mere passive potency of matter: the seminal reason must also be viewed as an active principle. The activity of potency manifests itself in the shape of a natural inclination or tendency to attain its completion.  Generation thus requires two things (besides God's general operative causality): the “transmutative” agency of an extrinsic cause and the intrinsic agency of the formae inchoativum which inclines the potency to attain its completion. James' doctrine of seminal reasons would elicit considerable criticism in the early fourteenth century and beyond (Phelps 1980). The initial reaction came from Dominicans, e.g., Bernard of Auvergne, the author of a series of Impugnationes (i.e., attacks) contra Jacobum de Viterbio, and John of Naples who argued against James' distinction between the potency of matter and potency. But James' theory would also encounter resistance from within the Augustinian Order, e.g., from Alphonsus Vargas of Toledo. James' doctrine of cognition must also be understood in the context of his thoroughgoing Augustinianism and against the backdrop of the late thirteenth-century arguments against Thomistic abstraction theories. According to Thomas Aquinas' theory of knowledge, the agent intellect abstracts a thing's form or essential information from the image or representation of that thing. The outcome of this process was what Aquinas called the intelligible species, which was then taken to “move” the possible intellect to conceptual understanding. However, as thinkers such as Vital du Four and Richard of Middleton were to point out (see the articles by Robert and Noone), the information coming in through the senses is related to a thing's accidental properties, not to its substance. How, then, could abstraction from the senses produce an intelligible species relating to the thing's essence? Although James of Viterbo agreed by and large with the spirit of this objection and believed that the replies by proponents of abstractionism were unsuccessful, he had another reason for rejecting the theory. This was because it implied a view of the intellect which he thought to be profoundly mistaken, namely, the view that there is a real distinction between the agent intellect (which abstracts the species) and the possible intellect (which receives it). If it were truly the case, he reasoned, that one needed to posit a distinct agent intellect because phantasms are only potentially intelligible, then, by the same token, one would have to posit an “agent sense”, because sensibles “are only sensed in potency” (Quodl. I, q. 12, p. 164, 234). But given that no proponent of abstraction admits an agent sense, one should not allow them an agent intellect. Furthermore, if there were an agent intellect distinct from the possible intellect, it would be a natural power of the soul and so would be required for the cognition of all intelligibles, not just a certain class of them. Similarly, qua natural power, its use would be required not only in the present life but also in the afterlife. But of course that would be absurd, as the agent intellect, ex hypothesi, is only necessary to abstract form from matter, something the mind does only when it is joined to a corruptible body. James was well aware that by denying the distinction between the two intellects, he was opposing the consensus view of Aristotle commentators. Indeed, his views seem to run counter to the De anima itself, though, as he would mischievously point out, it was difficult to determine just what Aristotle's doctrine was, so obscure was its formulation (Quodl. I, q. 12, p. 169, 426—170, 439). He replied that what he was denying was not the existence of a “difference” in the soul, but merely that the existence of a difference implied a distinction of powers (Quodl. I, q. 12, p. 170, 440–45). The intellect, he held, was both in act and in potency, active and passive, but one could account for its having these contrary properties without resorting to the two intellect model. This is because intellection is not a transient action (like hitting a ball), requiring an active subject distinct from a passive recipient; rather, it is an immanent action (like shining). James' solution, in other words, was to conceive of the intellect (as indeed the will) as essentially dynamic, as an “incomplete actuality”, its own formal cause, spontaneously tending toward its completion, much in the way seminal reasons tend toward their completing forms—indeed both discussions drew their inspiration from the same source: Simplicius' commentary on Aristotle's analysis of the second species of quality. The intellect was described as a general (innate) propensity made up of a series of more specific (equally innate) propensities, the number of which was a function of the number of different things the intellect is able to know: “The intellective power is a general propensity with respect to all intelligibles, that is, with respect to the actual conforming to all intelligibles. On this general propensity are founded other specific ones, which follow the diversity of intelligibles” (Quodl. VII, q. 7, p. 93, 453–55). Of course, as James readily acknowledged, although the intellect is its own formal cause, it cannot issue forth an act of intellection without some input from the senses. However, the type of causality the senses were viewed as exercising was deemed to be purely “excitatory” or “inclinatory” (Quodl. I, q. 12, p. 175, 613–16), making the senses not the principal but rather an instrumental cause of intellection. In all, three causes account for the operation of the intellect, according to James: 1) God as efficient cause; 2) the soul and its propensities as formal cause, and 3) the object presented by the senses as “excitatory” cause. Although, as we have just seen, James rejected the distinction between the agent and possible intellects, there was another, equally widely-held distinction in the area of psychology that he did maintain, namely the distinction between the soul and its powers.For the purposes of this article, it will suffice to think of the debate regarding the relation of the soul to its powers as being motivated at least in part by the need to provide a coherent understanding of the soul's structure and operations in view of two inconsistent but equally authoritative accounts of the soul's relation to its powers. One was that of Augustine, who had asserted that memory, intelligence, and will (i.e., three powers) were one in substance (De trinitate X, 11), and so believed that the soul was identical with its powers; the other was Aristotle's, who clearly believed in a certain distinction, and whose remarks about natural capacities (dunameis) as belonging to the second species of quality, in Categories c. 8,14–27, and hence to the category of accident, making them distinct from the soul's essence, were commonly applied by the scholastics to the soul's powers. Each view, of course, had its supporters; and, naturally, as was so often the case, attempts were made to find a middle way that would accommodate both positions. During James' tenure as Master at the University of Paris, the majority view was very much that there was a real distinction. It was the view held by many of the scholastics whose teachings he studied most carefully, namely Aquinas, Giles of Rome, and Godfrey of Fontaines. There was, however, a commonly discussed minority position, one that eschewed both real distinction and identity: that of Henry of Ghent. Henry believed that the powers of the soul were “intentionally”, not really, distinct from its essence. James, however, sided with Thomas, Giles, and Godfrey, against Henry (Quodl. II, q. 14, p. 160, 70–71; Quodl. III, q. 5, p. 83, 56—84, 63). His reasoning was as follows. Given that everyone agreed that there was a real distinction between the soul and one of its powers in act (between the soul and, e.g., an occurrent act of willing), then if one denied that there was a real distinction between the soul and its powers, as Henry had, one would be committed to the existence of a real distinction between the power in act (e.g., an occurrent act of willing) and that same power in potency (that is, the will, qua power, as able to produce that act), since the power in act is really the same as the soul. But as we saw in the preceding section, something in potency is not really distinct from that same thing in act. This followed from James' reading of Simplicius' account of qualities in the latter's commentary on Aristotle's Categories. For instance, seminal reasons are not really distinct from the fully-fledged forms that proceed from them, nor are intellective “propensities” really distinct from the fully actualized cognized forms. Hence, James concluded, the powers must be really distinct from the soul's essence. The question of the will's freedom was of paramount importance to the scholastics. Unlike modern thinkers, for whom establishing that the will is free is tantamount to showing that its act falls outside the natural nexus of cause and effect, showing that the will is free, for medieval thinkers, usually involved showing that its act is independent of the apprehension and judgment of the intellect. Although the scholastics generally granted that a voluntary act results from the interplay between will and intellect, most of them preferred to single out one of the two faculties as the principal determinant of free choice. Thus, for Henry of Ghent, the will is the sole cause of its free act (Quodl. I, q. 17), so much so that he tends to relegate the intellect's role to that of a sine qua non cause. For Godfrey of Fontaines, by contrast, it is the intellect that exercises the decisive motion (Quodl. III, q. 16). Although James of Viterbo sometimes claims to want to steer a middle course between Henry and Godfrey (Quodl. II, q. 7), his preferences clearly lie with a position like that of Henry's, as can be gathered from his most detailed treatment of the question in Quodl. I, q. 7. James' thesis in Quodl. I, q. 7 is that the will is a self-mover and that the object grasped by the intellect moves the will only metaphorically. His main challenge is to show is that this position is compatible with the Aristotelian principle that whatever is moved is moved by another. As we saw in the previous section, James believes that the soul is made up of what he calls “aptitudes” or “propensities” (idoneitates), which are the similitudes of all things knowable and desirable, “before [the soul] actually knows or desires them” (Quodl. I, q. 7, p. 91, 407 – p. 92, 408). The pre-existence of such aptitudes implies that the soul is neither a purely passive potency nor made up of fully actualized forms, but rather an “incomplete actuality” or, perhaps more correctly, a set of “incomplete actualities,” which James describes as being “naturally inserted in [the soul], and thus, remaining in it permanently, though sometimes in an imperfect state, sometimes in a state perfected by the act” (Quodl. I, q. 7, p. 92, 419–24). In order to show how this view of the soul is compatible with Aristotle's postulate that every motion requires a mover distinct from the thing moved, James introduces a distinction between two sorts of motion: efficient and formal. Efficient motion occurs when motion is caused by a thing that possesses the complete form of the particular motion caused; formal motion occurs when the moving thing has the incomplete form of the thing moved. Heating is given as an example of the first kind of motion; “gravity” or rather heaviness, i.e., the tendency of heavy bodies to fall, is cited as an example of the second kind of motion. Aristotle's principle applies only to the first kind of motion, James asserts, not the second. Things which possess an incomplete form naturally—i.e., in and of themselves without an external mover—tend to their completion and are prevented from reaching it only by the presence of an external obstacle. For instance, a heavy object naturally tends to move downward and will do so unless it is hindered. Such, mutatis mutandis, is the case of the soul and especially of the will: the will as an incomplete actuality naturally tends to its completion; in that sense, that is, formally but not efficiently, it is self-moved. The difference between it and the heavy object is that whereas the object moves upon the removal of an obstacle, the will requires the presence of an object; it requires, in other words, the intervention of the intellect in order to direct it to a particular object. However, once again, the intellect's action is viewed by James as being merely metaphorical, that is, extrinsic to the will's proper operation. Like Albert the Great and Thomas Aquinas, James of Viterbo holds that the moral virtues, considered as habits, i.e., virtuous dispositions or acts, are connected. In other words, he believes that one cannot have one of the virtues without having the others as well. The virtues he has in mind are what he calls the “purely” moral virtues, that is, courage, justice, and temperance, which he distinguishes from prudence, which is a partly moral, partly intellectual virtue. In his discussion in Quodl. II, q. 17 James begins by granting that the question is difficult and proceeds to expound Aristotle's solution, which he will ultimately adopt. As James sees it, Aristotle proves in Nicomachean Ethics VI the connection of the purely moral virtues by showing their necessary relation to prudence, and this is to show that just as moral virtue cannot be had without prudence, prudence cannot be had without moral virtue. The connection of the purely moral virtues follows from this: they are necessarily connected because (1) each is connected to prudence and (2) prudence is connected to the virtues (Quodl. II, q. 17, p. 187, 436 – p. 188, 441). Since the time of Augustine, theologians had agreed that man needs the gift of grace in order to love God more than himself, and that he cannot do so by natural means. However, in the early thirteenth century, theologians raised the question of whether, at least in his pre-lapsarian state, man did not love God more than himself. That this was in fact the case was the belief of Philip the Chancellor as well as Thomas Aquinas. Other authors, such as Godfrey of Fontaines and Giles of Rome, argued further that to deny man the natural capacity to love God more than himself, while allowing this to happen as a result of grace, was to imply that the operations of grace went counter to the those of nature, which was contrary to the universally accepted axiom that grace perfects nature and does not destroy it. By contrast, James of Viterbo famously argues in Quodl. II, q. 2, against the overwhelming consensus of theologians, that man naturally loves himself more than God. He has two arguments to show this (see Osborne 1999 and 2005 for a detailed commentary). The first is based on the principle that the mode of natural love is commensurate with the mode of being and, hence, of the mode of being one. Now a thing is one with itself by virtue of numerical identity, but it is one with something else by virtue of a certain conformity. For instance Socrates is one with himself by virtue of his being Socrates, but he is one with Plato by virtue of the fact that both share the same form. But the being something has by virtue of numerical identity is “greater” than the being it has by reason of something it shares with another. And given that the species of natural love follows the mode of being, it follows that it is more perfect to love oneself than to love another (Quodl. II, q. 20, p. 206, 148 – p. 149, 165). The second argument attempts to infer the desired thesis from the universally accepted premise that “the love of charity elevates nature” (Quodl. II, q. 20, p. 207, 166–67). This is true both of the love of desire and the love of friendship. In the case of love of desire, grace elevates by acting on the character of love: by natural love of desire we love God as the universal good. Through grace God is loved as the beatifying good. Regarding love of friendship, James explains that God's charity can only elevate nature with respect to its “mode,” that is, with respect to the object loved, by making God, not the self, the object of love. In other words, James is telling us that if we are to take seriously the claim that grace elevates nature, there is only one way in which this can occur, namely by making God, not the self, the object of greatest love, which implies that in his natural state man loves himself more than God. James' opposition to the consensus position on the issue of the love of self vs. the love of God would not go unnoticed. In the years following his death, such authors as Durand of Saint-Pourçain and John of Naples criticized him vigorously and attempted to refute his position (Jeschke 2009). Although James touches briefly on political issues in Quodl. I, q. 17 (see Côté, 2012), his most extensive discussions occur in his celebrated De regimine christiano (On Christian Government), written in 1302 during the bitter conflict pitting Boniface VIII against the king of France Philip IV (the Fair). De regimine christiano is often compared in aim and content with Giles of Rome's De ecclesiastica potestate (On Ecclesiastical Power), which offers one of the most extreme statements of pontifical supremacy in the thirteenth century; indeed, in the words of De regimine's editor, James' goal is “to formulate a theory of papal monarchy that is every bit as imposing and ambitious as that of [Giles]” (De regimine christiano: xxxiv). However, as scholars have also recognized, James shows a greater sensitivity to the distinction between nature and grace than Giles (Arquillière 1926). De regimine christiano is divided into two parts. The first, dealing with the theory of the Church, is of little philosophical interest, save for James' enlisting of Aristotle to show that all human communities, including the Church, are rooted in the “natural inclination of mankind.” The second and longest part is devoted to defining the nature and extent of Christ's and the pope's power. One of James' most characteristic doctrines is found in Book II, chapter 7, where he turns to the question of whether temporal power must be “instituted” by spiritual power, in other words, whether it derives its legitimacy from the spiritual, or possesses a legitimacy of its own. James states outright that spiritual power does institute temporal power, but notes that there have been two views in this regard. Some, e. g., the proponents of the so-called “dualist” position such as John Quidort of Paris, hold that the temporal power derives directly from God and thus in no way needs to be instituted by the spiritual, while others, such as Giles of Rome in De ecclesiastica potestate, contend that the temporal derives wholly from the spiritual and is devoid of any legitimacy whatsoever “unless it is united with spiritual power in the same person or instituted by the spiritual power” (De regimine christiano: 211). James is dissatisfied with both positions and, as he so often does, endeavors to find a “middle way” between them. His solution is to say that the “being” of the temporal power's institution comes both from God—by way of man's natural inclination—in “a material and incomplete sense,” and from the spiritual power by which it is “perfected and formed.” This is a very clever solution. On the one hand, by rooting the temporal power in man's natural inclination, albeit in the imperfect sense just mentioned, James was acknowledging the legitimacy of temporal rule independently of its connection to the spiritual, thus “avoid[ing] the extreme and implausible view of [Giles of Rome]” (Dyson 2009: xxix). On the other hand, making the natural origins of temporal power merely the incomplete matter of its being was a way of stressing its subordination and inferiority to the spiritual order, in keeping with his papalist convictions. Still, James' very choice of analogies to illustrate the relationship between the spiritual and temporal realms showed that his solution lay much closer to the theocratic position espoused by Giles of Rome than his efforts to find a “middle way” would have us believe. Thus, comparing the spiritual power's relation to the temporal in terms of the relation of light to color, he explains that although “color has something of the nature of light, (…) it has such a feeble light that, unless there is present a more excellent light by which it may be formed, not in its own nature but in its power, it cannot move the vision” (De regimine christiano: 211). In other words, James is telling us that although temporal power does originate in man's natural inclinations, it is ineffectual qua power unless it is informed by the spiritual. Bibliography Modern Editions of James' Works Abbreviatio in I Sententiarum Aegidii Romani, dist. 36. Edited by P. Giustiniani, Analecta Augustiniana, 42 (1979): 325–338. De regimine christiano. A Critical Edition and Translation by R.W. Dyson, Leiden: Brill. 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Come elemento figurativo, la sua origine è stata codificata iconograficamente fin dagli albori della figuratività cristiana, ovvero nel IV secolo.   Gli esempi del Mausoleo di Sant’Elena a Roma e della Chiesa di San Vitale a Ravenna (IV e VI sec.) Testimonianza preziosa e paradigmatica sono, ad esempio, i due mosaici delle calotte absidali del Mausoleo di Santa Costanza a Roma. Si tratta di un cimelio architettonico costruito attorno alla metà del IV secolo per la sepoltura della figlia di Costantino. Nei due mosaici, parzialmente restaurati e tra i pochi ad essersi conservati delle volte, si trovano due rappresentazioni di Cristo. La prima lo vede seduto sul Globo, mentre consegna le chiavi del Regno dei Cieli a Pietro (traditio clavium).  La seconda, invece, lo identifica giovane e apollineo mentre si erge sul monte da cui sgorgano i quattro fiumi dell’Eden, consegnando a Paolo la parola/legge della Nuova Alleanza (traditio legis). In entrambe le rappresentazioni musive, che costituiscono alcuni dei primi esempi di iconografia cristiana a Roma, il volto di Cristo è circonfuso da un’aureola blu-azzurra. Quest’ultima conferisce e immediatamente attribuisce alla figura un alone di divinità, disancorandolo dalla contingenza terrena e proiettandolo nella dimensione del trascendente.  Traditio clavium (a dx) e traditio legis (a sx) in due calotte del deambulatorio del Mausoleo di Santa Costanza a Roma (IV secolo) L’aureola è anche regale Talvolta, poi, sono i sovrani-imperatori stessi ad auto-rappresentarsi col capo circonfuso da aureola, come negli straordinari mosaici che arricchiscono il presbiterio della chiesa di San Vitale a Ravenna.Quest’ultimo, databile al secondo quarto del VI secolo, raffigura, tra gli altri, anche i ritratti degli imperatori Giustiniano e della moglie Teodora,entrambi corredati da aureola dorata.    L’imperatrice Teodora (a sx), moglie dell’imperatore Giustiniano (a dx), in due mosaici del presbiterio della Chiesa di San Vitale a Ravenna (VI secolo) Entrambi gli esempi, sebbene distanziati da ben due secoli, testimoniano alle origini del Cristianesimo ufficiale (ossia istituzionalizzato in una ecclesiae) un’iconografia dell’aureola già compiutamente codificata diffusa.   I primi esempi figurativi di aureole Sebbene, come detto, l’aureola costituisca un inconfondibile attributo iconografico cristiano, non è però nel Cristianesimo (che del resto si istituzionalizza nei primi secoli d.C.) che affondano le radici della sua nascita. Queste infatti, come del resto molti altri aspetti della liturgia e religione cristiana, devono essere rintracciate ben prima della nascita del Cristianesimo stesso.   Tale scelta figurativa risale a diversi secoli, se non millenni prima di Cristo.  Consiste nel rappresentare divinità (qualora queste potessero essere rappresentate) inscritte, totalmente o parzialmente, in aloni di luce funzionali a proiettare le figure in dimensioni ultraterrene ed evocarne la natura divina.  Per esempio, nella pittura parietale egizia, il dio Ra è quasi sempre rappresentato con un disco solare situato sopra il suo capo e inglobato da un cobra. In questo caso dunque, nelle rappresentazioni di Ra, il disco solare  ha soprattutto la funzione di rappresentare l’attributo del sole, di cui Ra, secondo la cosmologia egizia, era il dio referente.    Rappresentazione di Ra e Imentet (a sx.) sulle pareti della tomba di Nefertari nella Valle delle Regine a Luxor (Egitto) Quando l’aureola era ancora una corona raggiante Tuttavia, per poter conoscere i primi veri esempi di aureole, occorre risalire alle prime rappresentazioni della divinità di Mitra. Questa è nata in origine dallo Zoroastrismo (dal profeta Zarathustra, o Zoroastro) e successivamente, soprattutto presso l’Impero Romano, si è costituita come divinità indipendente e inscritta in uno specifico culto (quasi monoteista), detto appunto Mitraismo.  Nella fase imperiale soprattutto, il Mitraismodivenne la religione dominante dell’ecumene (sebbene non la sola) e poi concorrente al Cristianesimo delle origini. Quello che interessa rilevare però è che, in quanto dio solare e dunque simbolo di vita, anche nelle rappresentazioni di Mitra, la divinità venne ben presto corredata con attributi iconografici quali, per esempio, una “corona” raggiante.    Rappresentazione di Mitra come Sol Invictus su un disco argenteo romano Un simbolo trasversale della divinità tra Occidente e Oriente  Possono forse essere questi i primi significativi antecedenti dell’iconografia dell’aureola? Ben presto questa divenne un vero e proprio simbolo trasversale adottato in molte altre religioni di origine orientale. Forse la sua adozione è legata all’efficacia visiva con cui riesce a restituire allo sguardo un immediato riferimento alla dimensione trascendente e/o spirituale. Dapprima adottato nel Cristianesimo, questo riferimento venne poi, attraverso scambi culturali, trasmesso anche ad altre religioni orientali, tra le quali il Buddismo.   Sotto questo profilo appare infatti singolare che proprio negli stessi secoli in cui l’iconografia cristiana si codifica (tra il IV e il VI secolo), l’adozione dell’aureola come attributo iconografico si manifesta anche in diverse rappresentazioni buddiste in area cinese. Come si spiega questo utilizzo pressoché contemporaneo dell’aureola come attributo figurativo del divino, in due religioni così distanti e appartenenti a mondi diversi?  La chiave di volta è costituita ancora dal Mitraismo.    Reliquiario di Bimaran, I sec. d.C. circa Il Mitraismo è la chiave di lettura Per comprendere infatti la trasmissione di tali scelte figurative tra la cultura latina e quella asiatica, occorre risalire al primo secolo d.C. Per precisione quando gli Indo-sciti (popolazioni nomadi originarie dell’attuale Iran, dove lo zoroastrismo e con lui il Dio Mitra ebbero origine) e alcune popolazioni dell’Impero Kusana (originario dell’attuale Afghanistan), invasero e conquistarono alcuni territori degli attuali Pakistan e India. Portarono dunque  con sé e trasferirono alle popolazioni conquistate alcuni tratti della loro cultura e della loro religione, tra cui anche il Mitraismo con i rispettivi attributi iconografico-rappresentativi.  Nella latinità mediterranea, dunque, l’iconografia di Mitra avrebbe influenzato parzialmente quella cristiana. Parallelamente, attraverso un processo di osmosi culturale, la medesima iconografia veniva trasmessa anche alle culture e alle religioni orientali (Pakistan, India meridionale e, attraverso questa, la Cina), tra le quali anche il Buddismo. Questo processo pare avvenne precocemente, come testimonia il celebre reliquiario di Bimaran (città al confine con il Pakistan), databile al primo secolo d.C.   Dipinto cinese raffigurante Buddha (al centro) Ci sono poi altre importanti manifestazioni figurative del Buddismo, quali ad esempio alcune statue di Buddha risalenti al II sec. d.C. e oggi conservate al Tokyo National Museum. Oppure ancora diverse pitture cinesi raffiguranti Buddha sempre con il capo circonfuso da aureola.  Insomma, dalla pur brevissima disamina effettuata, ci si rende conto di quanto la cultura occidentale e quella orientale, dopo tutto, non siano poi così distanti. In questo senso, le testimonianze figurative nate dalle rispettive pratiche cultuali e religiose ne costituiscono un memorandum preziosissimo. Capocci. Keywords: peccatum – sin – holiness – aureola segno naturale della santita.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capocci” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Capodilista --  in principio era la conversazione – filosofia fascista – filosofia italiana – Luigi Speranza (Battaglia Terme). Filosofo italiano. Grice: “I like Capodilista – good vintage (literally)! – Capodilista is difficult to comprehend, but when I was struggling to find examples of implicatura due to exploiting ‘be perspicuous,’ he was whom I was thinking! Keywords in his philosophy are ‘il non-detto,’ ‘homos eroticus’ – filosofia dell’espressione – metafisica – equilibrio apolineo-dionisiaco, positive-negativo –“  “Un pensiero perfetto in sé non esiste; un pensiero è perfetto solo nella serie innumerabile dei pensieri che nascono da esso.»  (Quaderni). Appartenente ad una famiglia veneziana di nobili origini, nacque nella villa di famiglia da Angelo Emo e da Emilia dei baroni Barracco. Studia a Roma sotto Gentile. Le sue riflessioni sul nihilismo sono un'anticipazione della filosofia di Heidegger.  Debitore dell'attualismo gentiliano. Partendo da questo, giunse a trasformarlo in una filosofia dove l'atto è la re-figurazione dell'auto-negazione del nulla che comunque conserva una sua funzione positiva così come nela religione romana la morte del corpo ha la funzione di salvezza nella redenzione dello spirito (animo). La forma superiore dello spirito intristisce e cerca invano di uscire da sé per trovare qualcosa che lo salvi. Un'istanza di salvezza che trova senso nella religione romana. Dio espia la sua universalità. Distrugge ogni valore e il proprio, sì che lo sparire, il nascondersi di Dio nella sua espiazione non è altro che la nuova creazione dei valori, e così il ciclo ricomincia. Dio si abolisce col suo stesso realizzarsi. Un altro punto fondamentale di sua filosofia è la figura centrale dell’intersoggetivita., del rapporto concreto particoare, particolarizato, inter-personale contrapposto all’astrazioni di una collettività IMpersonale generalizato (universalita, universabilita, generalita formale, generalita applicazionale, generalita di contenuto --, sia quella esaltata da uno stato etico (la communita, la popolazione, la societa). Una diada conversazionale non può essere un dato. Una diada conversazionale può essere solo un rapposro inter-soggettivo, cioè due resurrezioni. Il filosofo è assillato da questo fondamentale problema. Il problema è questo: di quali fedi si nutre e sussiste il mondo? Quale è la fede autentica che lo sostiene nella vita che gli dà la forza dell'attività e la convinzione di partecipare con la sua vita (o la sua azione o il suo essere) alla immortalità, cioè all'assoluto? La diada conversazionale ha bisogno dell'assoluto (l’universabilita) e pertanto il suo problema è questa partecipazione all'assoluto. Come raggiungerà l'assoluto le due uomini – le due maschi -- della diada conversazionale? Quale sarà la sua fede laica? Non certo quella collettivistica-sociale che ha fatto uso della violenza, la forza, e la autorita illegitima, e ha fallito ma neppure quella etrusca che ha compresso la libertà di coscienza.  I etruschi sono nati sotto il segno dello scandalo. Ma il sacro si è allontanato dalla sua scandalosa azione originaria.  Perché in ogni fede vi è qualcosa di scandaloso e di vergognoso? Perché vi è qualcosa di vergognoso nella verità e nella vita stessa? Forse l'elemento vergognoso è l'intersoggetivita pura attorno a cui verte la fede e che si crea con la sua negazione. L’intersoggetività è sempre nuda e la nudità è scandalosa. I vestiti sono l'uniforme innecessari della società. Invano due maschi credono di distinguersi con le vesti; e credono che le due nudità sia uniformità. Le vesti sono il riconoscimento della società, del sociale. Ma le vesti sarebbero nulla se non fossero animate dalla vita intersoggetiva di due nudità. Le veste sono orgogliose delle due nudità che  socializzanoa. È quindi con la libertà degl’entrambi della diada, con le due nudità, con il rifiuto di ogni veste di uniformità, IM-personalita, ed obbedienza all'autorità ad una dottrina o scuola di mistica pitagorica collettivizzante, che la diada recupera la sua essenza duale intersoggetiva interpersonale particolarizata che si fonda sull'amore -- alta espressione del "singolare duale".  Altre opere: “Il dio negative” (Marsilio, Venezia); “La voce d’Apollo musogete: arte e religione nella Roma antica” (Marsilio, Venezia); “Supremazia e maledizione” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “Il mono-teismo demo-cratico” (Mondadori, Milano); “Metafisica” (Bompiani, Milano); Il silenzio (Gallucci, Roma); “La meraviglia del nulla” Dizionario Biografico degli Italiani. Le parole che si riferiscono a dei valori, si svalutano progressivamente come le monete, come, appunto, i valori.  Quando pensiamo troppo profondamente, perdiamo l’uso della parola. La parola si può “usare”, cioè profanare, quando non se ne comprende il significato. Se comprendessimo il significato delle parole, non usciremmo mai più dal silenzio.  La conversazione è pericolosa per un’idea, per uno spirito, per una verità che non resiste alla lieve immediatezza (e cioè rapidità) che è l’anima irriducibile di una conversazione e di una comunicazione tra viventi (e che altro è l’arte?). E così l’idea è pericolosa per una conversazione. Conversazione (espressione, comunicazione ecc.) e idea tentano continuamente di sopraffarsi. Appunto perché l’una non può vivere senza l’altra.  È lecito ad un artista prendere sul serio ciò che scrive? Non decade dalla sua qualità di artista e di creatore per divenire soltanto un credente? Il torto dei romantici è stato principalmente quello di prendersi sul serio; i più antichi scrittori prendevano sul serio il loro argomento, ma sempre conservandosi estranei ad esso; senza considerare la loro soggettività di creatori come l’oggetto stesso della loro creazione. I romantici invece prendevano sul serio se stessi, e ciò li rendeva ridicoli, perché ovviamente non potevano più mantenersi al di sopra del loro argomento. Si dovette, pertanto, da Baudelaire in poi, ricorrere ad una forma di ironia. Ciò che distingue la sfera (moderna) del sacro è la mancanza di ironia; eppure può anche darsi che l’universo che abitiamo sia una forma dell’ironia divina, manifestatasi come creazione. Nella sfera antica del sacro, gli Dei di Democrito e di Epicuro ridevano negli intermundi. La sfera della sacralità antica si differenzia dalla sfera della sacralità moderna appunto perché gli antichi Dei, grazia alla loro pluralità, conoscendosi l’un l’altro, ridevano. Un’ilarità che non si addice a un Dio unico e solitario, ma che potrebbe, se l’Unico non fosse troppo preso da se stesso e dalla sua onnipotenza, tradursi nel termine più moderno di ironia. A noi uomini accade appunto di osservare che l’ironia è il solo modo di distaccarci dalla nostra onnipotenza, di uscire all’esterno della nostra assolutezza.  Le opere d’arte, come tutte le immagini, sono in realtà dei ricordi. Sono la memoria. Noi amiamo un’opera d’arte perché essa è la nostra memoria che si risveglia, che riprende possesso di noi, e del suo universo, cioè di tutto. La memoria talvolta dimentica; ed essa ricorda quando dimentica.  La forma letteraria in cui meglio ci si può esprimere è appunto la lettera (l’epistola). Perché l’altro è sempre presenta mentre scriviamo e abbiamo la facoltà di creare il destinatario. Abbiamo la facoltà di creare un pubblico come destinatario? Se non avessimo la facoltà di creare un destinatario, individuale e universale, non scriveremmo mai. Forse non penseremmo neppure. Nessuno scrive per sé.  L’immagine e la rappresentazione, che dovrebbero essere la fedeltà assoluta delle cose rappresentate, sono allora infedeltà altrettanto assoluta, diversità radicale dal rappresentato? Il rappresentato in quanto oggetto è per definizione diversità assoluta dal soggetto; come allora, con quale sintesi si può superare questo iato? In quanto differenza dal soggetto, l’oggetto ne è la negazione, la pura negazione; e questa negazione, in quanto puramente essa stessa, è soggetto essa medesima, cioè è il soggetto che si nega; è l’atto del soggetto, in quanto questo atto è l’atto del negarsi. Quindi noi siamo la rappresentazione, siamo l’atto in cui tutte le cose sono e vivono, cioè l’attualità, in quanto siamo autonegazione. La negatività è l’universalità dell’atto. (Q. 331, 1970)  L’eco è la voce del nulla, la parola del nulla, appunto perché è esattamente la nostra voce e la nostra parola, obiettivata, ripetuta. L’obiettività è la ripetizione del soggetto che non può mai ripetersi? (Q. 336, 1970)  Tutto ciò che pensiamo o scriviamo è nell’atto stesso una metamorfosi. Il nostro pensiero non ha altro oggetto che il proprio nulla. (Q. 336, 1970)  L’arte dello scrivere è l’arte di far dire alle parole tutte le trasmutazioni che esse contengono e sono – tutta la loro attuale diversità, tutta la negazione che esse sono quando si affermano, e tutta l’affermazione che viene espressa dalla negazione. Mediante la loro trasmutazione, che è l’affermarsi dell’attualità di una negazione (cioè dell’attualità dell’atto che si riconosce come negativo), le parole finiscono per creare un organismo, un organismo di parole, cioè la frase: L’organismo della frase e del verbo che trasforma la negatività della parola in un atto. La parola è la diversità dell’atto. Negarsi e attualità, negarsi e trascendenza e diversità, sono sempre, e sempre attualmente congiunti; perciò la parola contiene il seme della frase, del discorso. Forse il nostro nome è soltanto uno pseudonimo; forse anche i nomi delle cose sono pseudonimi. Ma qual è il vero nome? È più probabile che le cose come crediamo di vederle siano soltanto gli pseudonimi di un nome; e noi stessi e il nostro essere siamo pseudonimi; di un nome che forse non conosceremo mai e che appunto per questo ha una realtà suprema. Una realtà unica. Una sintesi invisibile di realtà e verità. Una realtà che la conoscenza (la scienza) non può dissolvere, analizzare. Gli scritti di aforismi o di idee frammentarie, di epigrammi o di formule, sono i modi di esprimere l’assoluto, o qualche assoluto, qualche verità in forma breve. Ma ognuno di questi frammenti vuole essere l’espressione dell’assoluto, e quindi non può essere frammentario. Frammenti e parti che sono relative all’assoluto, senza esserlo, si trovano nelle opere di una certa ampiezza, ampie come la vita. La vita, essendo universale, può essere plurale. Il Mangiaparole rivista n. 1Il Mangiaparole 6 Mario Gabriele Lo scrivere è una forma silenziosa (fonicamente) del parlare; ma è un parlare che ha il singolare privilegio di non essere interrotto, se non dalla propria coscienza; la coscienza è la madre, l’origine del discorso, ma è anche la coscienza che fa al discorso, cioè a se stessa, le continue obiezioni. La coscienza è il maggiore obiettore di coscienza. La coscienza parla per affermarsi o per smentire? La nostra scrittura è geroglifica come la nostra parola, che non coincide con ciò che vuole esprimere, ma soltanto vi allude simbolicamente; allude a qualcosa di originariamente noto od originariamente ignoto. A qualcosa di diverso. La parola stessa è originariamente diversità. La Parola è diversità da se stessa e perciò coincide con la diversità dell’atto, con la diversità originaria che vuole esprimere? Questa coincidenza era l’ideale, lo scopo, la fede dell’età dell’autocoscienza. L’età dell’autocoscienza e la tirannia; vi è sempre un quid al di là dell’espressione, senza questo quid l’espressione non sarebbe una metamorfosi. La metamorfosi vuole esprimere se stessa con la negazione; noi alludiamo alla diversità con la negazione, con la identificazione. Noi siamo la verità; è proprio per questo che ci è impossibile conoscerla. la conosciamo quando diventa altro da noi. La conoscenza, l’espressione, la stessa memoria creano l’anteriorità della verità e della sua attualità. Se la verità è un Eden, noi possiamo conoscerla solo quando ne siamo fuori, quando ne siamo espulsi ed esiliati. L’arte dello scrittore consiste nel creare una complicità nel lettore; e di quale colpa diviene complice il lettore? Non lo si è mai saputo. Esistono innumerevoli sistemi di estetica e di spiegazioni complesse e fallaci di un atto che è la semplicità originaria. Una complicità del lettore con l’autore. Il delitto (e il diletto) perfetto. Soltanto l’inesprimibile è degno di un’espressione. La parola è un irrazionale ed è strano che essa esista in un mondo razionale e quantitativo; nel mondo dell’identità. la razionalità è soltanto nel numero; la Parola è divina, anzi la scrittura ha identificato la Parola (il verbo) e la divinità; per gli antichi il numero aveva significati simbolici, cioè spirituali. Oggi il numero privato di ogni significato è identificato dalla sua «posizione» (nello spazio è o sarà il vero successore della parola – ma troverà in se stesso una nuova irrazionalità?) Il numero è la massima razionalità e insieme la massima irrazionalità come serie infinita; non possiamo vivere senza irrazionalità, appunto perché la vita è essa stessa irrazionalità; il numero può vivere? Noi parliamo, noi scriviamo, senza ricordarci la suprema scadenza del silenzio. L’espressione più perfetta è quella che crea l’inesprimibile. L’aforisma e l’ironia sono una professione di scetticismo nei confronti della poesia. L’aforisma è la definizione, l’analisi, la spiegazione, la risoluzione in termini umani della lirica; l’ironia è la scoperta dei suoi motivi non lirici: uno sguardo dietro le quinte. Come esprimerò io il mio pensiero, la mia vita, la mia esperienza? Questa dovrebbe essere l’interrogazione da ogni uomo posta a se stesso. Vero è però che in genere l’inesprimibile è ciò che per noi ha più valore e importanza; quello verso cui ci sentiamo più attirati; quello per cui sentiamo come un’antica, istintiva e simpatica affinità e parentela… (Q. 9, 1929)  La quantità di parole inutili che uno scrittore inserisce nel suo scritto è inversamente proporzionale all’importanza dello scrittore stesso. Vi sono scritti in cui nessuna, o quasi, parola può essere tolta senza grave danno per l’opera e per noi; altri in cui si possono togliere tutte… (Q. 14, 1932).   Il caso della vendita della Palladiana Villa Emo a un magnate straniero. SEMBRA CHIUDERSI UN LUNGO MINUETTO DURANTE IL QUALE LA BANCA DI CREDITO TREVIGIANO HA CONCRETIZZATO L’INTENZIONE (SINO AD ORA MAI UFFICIALMENTE AMMESSA) DI ALIENARE IL BENE.    La vendita della Palladiana Villa Emo a Fanzolo di Vedelago è stata ufficializzata lunedì 28 gennaio. Il consiglio di amministrazione di Banca di Credito Trevigiano, che ne detiene la proprietà dal 2004 (da quando per 15 milioni di euro la acquistò dall’ultimo erede, il conte Leonardo Marco Emo Capodilista) ha messo ai voti il suo destino e ha deciso: accetterà l’offerta di uno sconosciuto magante straniero.  IL PERCORSO Sembra chiudersi così un lungo minuetto durante il quale l’istituto di credito ha concretizzato l’intenzione (sino ad ora mai ufficialmente ammessa) di alienare il bene. Il 9 gennaio la prima avvisaglia attraverso un comunicato stampa che parlava di un’offerta d’acquisto misteriosamente pervenuta “da un privato appassionato del Palladio, e desideroso di riportare la Villa (Patrimonio Unesco dal 1996) al suo originario splendore”. Ora la conferma di cedere “il solo edificio storico e non gli adiacenti cespiti occupati dalla banca. L’immobile oggetto della trattativa -specifica l’ultima comunicazione- non rappresenta un asset strumentale all’attività bancaria e il Consiglio di amministrazione (…) ha deciso di dare il via libera alle attività propedeutiche alla due diligence di tipo tecnico per giungere all’eventuale chiusura della transazione entro l’anno 2019. Fatto salvo il diritto di prelazione previsto dal D.lgs. 42/2004 a favore del Ministero dei Beni culturali e delle altre competenti autorità”. Nota, quest’ultima, che, ad onor del vero, suona un po’ come una beffa: se lo stesso ente di credito ad oggi dimostra di non poter investire nel mantenimento del bene (ordinario e straordinario inclusi i restauri di cui gli affreschi dello Zelotti avrebbero urgenza), ancor più lontana appare l’ipotesi che possa farsene carico un ente pubblico.  LA STORIA La storia recente del resto lo conferma: dopo il commissariamento (seppur temporaneo) da parte di Bankitalia nel 2014, la fondazione appositamente creata per la gestione della villa ha dovuto dire addio ai 325mila euro annui che Credito Trevigiano versava. Insufficienti i proventi derivanti da bigliettazione e affitto degli spazi. Così i bilanci in perdita, primi licenziamenti per il personale della fondazione, le dimissioni, nell’ottobre scorso del presidente Armando Cremasco. Poi, reciproche accuse tra parti, la preoccupazione del sindaco, la petizione “No alla vendita di Villa Emo a Fanzolo di Vedelago” su change.org che raggiunge in pochi giorni quota 975 firme. Tentativo inutile ma che tocca, negli intenti, un nodo fondamentale della vicenda: i firmatari sono soci, clienti della banca e semplici cittadini che riconoscono in Villa Emo il bene più rappresentativo della loro comunità. Un bene acquisito da una banca strettamente legata al territorio e che su di esso ha come stesso suo mandato quello di reinvestire. Una banca della comunità in cui però la comunità, a seguito di questo atto, non si riconosce più.  IL CASO DI VILLA EMO Il caso di Villa Emo, generalizzando, appare uno fra molti nell’inarrestabile processo di alienazione del nostro patrimonio storico. Perché agitarsi tanto se, solo per citare i casi territorialmente più prossimi, la magnate cinese Ada Koon Hang Tse ha recentemente acquisito Villa Cornaro a Piombino Dese (Padova) e il veneziano Palazzo Pisani Moretta sul Canal Grande? Perché forse, per fare un po’ d’ordine, ogni singola vicenda necessiterebbe d’un corretto approccio, di una corretta lettura, esercitando invece proprio il diritto a una non generalizzazione in polemiche a catena. Polemiche aventi nel nostro paese sempre le stesse parole-chiave: sostenibilità, valorizzazione, gestione strategica, autosufficienza nonché il terribile reiterato “fare sistema”. Anche il caso di Villa Emo (per la verità per ora confinato alla cronaca locale) si presterebbe quindi benissimo a dibattiti e disquisizioni filologiche in rapporto al paesaggio, alla fruizione futura (sarà ancora accessibile?) agli immancabili paragoni gestionali (esteri) qui in Italia spesso apparentemente inattuabili. Ma servirebbero, ancora una volta, a tener desta per un po’ l’attenzione e nulla più. L’analisi dei fatti dimostra solamente una sola, nuda verità: siamo bravissimi a scatenare il dibattito e a proporre a parole soluzioni possibili ma anche stavolta, conti alla mano, non siamo stati capaci di elaborare un piano di sostenibilità per tenerci stretto qualcosa che appartiene alla nostra storia. Non resta che augurarci che il nuovo proprietario si riveli un illuminato signore in villa. Così potremo risolvere il tutto con la consueta, amara alzata di spalle: “molto rumore per nulla”. Rodenigo Villa Emo is one of the many cre­ations con­ceived by Ital­ian Re­nais­sance ar­chi­tect Andrea Palladio. It is a pa­tri­cian villa lo­cated in the Veneto re­gion of north­ern Italy, near the vil­lage of Fan­zolo di Vedelago, in the Province of Tre­viso. The pa­tron of this villa was Leonardo Emo and re­mained in the hands of the Emo fam­ily until it was sold in 2004. Since 1996, it has been con­served as part of the World Her­itage Site »City of Vi­cenza and the Pal­la­dian Vil­las of the Veneto«.[1]  History Andrea Palladio's ar­chi­tec­tural fame is con­sid­ered to have come from the many vil­las he de­signed. The build­ing of Villa Emo was the cul­mi­na­tion of a long-lasting pro­ject of the pa­tri­cian Emo fam­ily of the Re­pub­lic of Venice to de­velop its es­tates at Fan­zolo. In 1509, which saw the de­feat of Venice in the War of the League of Cam­brai, the es­tate on which the villa was to be built was bought from the Bar­barigo fam­ily.[2] Leonardo di Gio­van­nia Emo was a well-known Venet­ian aris­to­crat. He was born in 1538 and in­her­ited the Fan­zolo es­tate in 1549. This prop­erty was ded­i­cated to the agri­cul­tural ac­tiv­i­ties that the fam­ily pros­pered from. The Emo family's cen­tral in­ter­est was at first in the cul­ti­va­tion of their newly ac­quired land. Not until two gen­er­a­tions had passed did Leonardo Emo com­mis­sion Pal­la­dio to build a new villa in Fan­zolo.  Historians un­for­tu­nately do not have firm chronol­ogy of dates on the de­sign, con­struc­tion, or the com­mence­ment of the new build­ing: the years 1555 or 1558 is es­ti­mated to have been when the build­ing was de­signed, while the con­struc­tion was thought to have been un­der­taken be­tween 1558 and 1561. There is no ev­i­dence show­ing that the villa was built by 1549: how­ever, it has been doc­u­mented to have been built by 1561. The 1560s saw the in­te­rior dec­o­ra­tion added and the con­se­cra­tion of the chapel in the west barchesse in 1567.[1] The date of com­ple­tion is put at 1565; a doc­u­ment which at­tests to the mar­riage of Leonardo di Alvise with Cor­nelia Gri­mani has lasted from that year.[3] Par­tial al­ter­ations were made to the Villa Emo in 1744 by Francesco Muttoni. Arches within both wings that were close to the cen­tral build were sealed off and ad­di­tional res­i­den­tial areas were cre­ated. The ceil­ings were al­tered. The villa and its sur­round­ing es­tate were pur­chased in 2004 by an in­sti­tu­tion and fur­ther restora­tions were made.  Since 1996, it has been con­served as part of the World Her­itage Site »City of Vi­cenza and the Pal­la­dian Vil­las of the Veneto«.[1]  The villa is at the cen­tre of an ex­ten­sive area that bears cen­turi­a­tion, or land di­vi­sions, and ex­tends north­ward. The land­scape of Fan­zolo has a con­tin­u­ous his­tory since Roman times and it has been sug­gested that the lay­out of the villa re­flects the straight lines of the Roman roads.[2]  Architecture Marcok The main building (casa dominicale). Villa Emo was a prod­uct of Palladio's later pe­riod of ar­chi­tec­ture. It is one of the most ac­com­plished of the Pal­la­dian Vil­las, show­ing the ben­e­fit of 20 years of Palladio's ex­pe­ri­ence in do­mes­tic ar­chi­tec­ture. It has been praised for the sim­ple math­e­mat­i­cal re­la­tion­ships ex­pressed in its pro­por­tions, both in the el­e­va­tion and the di­men­sions of the rooms. Pal­la­dio used math­e­mat­ics to cre­ate the ideal villa. These «harmonic pro­por­tions» were a for­mu­la­tion of Palladio's de­sign the­ory. He thought that the beauty of ar­chi­tec­ture was not in the use of or­ders and or­na­men­ta­tion, but in ar­chi­tec­ture de­void of or­na­men­ta­tion, which could still be a de­light to the eye if aes­thet­i­cally pleas­ing por­tions were in­cor­po­rated. In 1570, Pal­la­dio pub­lished a plan of the villa in his trea­tise I quat­tro libri dell'architettura. Un­like some of the other plans he in­cluded in this work, the one of Villa Emo cor­re­sponds nearly ex­actly to what was built. His clas­si­cal ar­chi­tec­ture has stood the test of time and de­sign­ers still look to Pal­la­dio for in­spi­ra­tion.[1]    Renato Vecchiato [CC-BY-SA-3.0] Another view of Villa Emo. The layout of the villa and its es­tate is strate­gi­cally placed along the pre-existing Roman grid plan. There is a long rec­tan­gu­lar axis that runs across the es­tate in a north-south di­rec­tion. The agri­cul­tural crop fields and tree groves were laid out and arranged along the long axis, as was the villa it­self.[1]  The outer ap­pear­ance of the Villa Emo is marked by a sim­ple treat­ment of the en­tire body of the build­ing, whose struc­ture is de­ter­mined by a geo­met­ri­cal rhythm. The con­struc­tion con­sists of brick-work with a plas­ter fin­ish, vis­i­ble wooden beams seen in the spaces of the piano no­bile, and coffered ceil­ings like that within the log­gia. The cen­tral struc­ture is an al­most square res­i­den­tial area.[4] The liv­ing quar­ters are raised above ground-level, as are all of Palladio's other vil­las. In­stead of the usual stair­case going up to the main front door, the build­ing has a ramp with a gen­tle slope that is as wide as the pronaos. This re­veals the agri­cul­tural tra­di­tion of this com­plex. The ramp, an in­no­va­tion in the Pal­la­dian vil­las, was nec­es­sary for trans­porta­tion to the gra­naries by wheel­bar­rows loaded with food prod­ucts and other goods. The wide ramp leads up to the loggia which takes the form of a col­umn por­tico crowned by a gable – a tem­ple front which Pal­la­dio ap­plied to sec­u­lar build­ings. As in the case with the Villa Badoer, the log­gia does not stand out from the core of the build­ing as an en­trance hall, but is re­tracted into it. The em­pha­sis of sim­plic­ity ex­tends to the col­umn order of the log­gia, for which Pal­la­dio chose the ex­tremely plain Tuscan order.[2] Plain win­dows em­bell­ish the piano no­bile as well as the attic.  The cen­tral build­ing of the villa is framed by two sym­met­ri­cal long, lower colon­naded wings, or barchesses, which orig­i­nally housed agri­cul­tural fa­cil­i­ties, like gra­naries, cel­lars, and other ser­vice areas. This was a work­ing villa like Villa Ba­doer and a num­ber of the other de­signs by Pal­la­dio. Both wings end with tall dove­cotes which are struc­tures that house nest­ing holes for do­mes­ti­cated pi­geons. An ar­cade on the wings face the gar­den, con­sist­ing of columns that have rec­tan­gu­lar blocks for the bases and capi­tols. The west barchesse also con­tains a chapel. The barchesses merge with the cen­tral res­i­dence, form­ing one ar­chi­tec­tural unit. This ty­po­log­i­cal for­mat of a villa-farm was in­vented by Pal­la­dio and can be found at Villa Bar­baro and Villa Baroer.[1]  Andrea Pal­la­dio em­pha­sises the use­ful­ness of the lay-out in his trea­tise. He points out that the grain stores and work areas could be reached under cover, which was par­tic­u­larly im­por­tant. Also, it was nec­es­sary for the Villa Emo's size to cor­re­spond to the re­turns ob­tained by good man­age­ment. These re­turns must in fact have been con­sid­er­able, for the side-wings of the build­ing are un­usu­ally long, a vis­i­ble sym­bol of pros­per­ity. The Emo fam­ily in­tro­duced the cul­ti­va­tion of maize on their es­tate (and the plant, still new in Eu­rope, is de­picted in one of Zelotti's fres­coes). In con­trast to the tra­di­tional cul­ti­va­tion of mil­let, con­sid­er­ably higher re­turns could be ob­tained from the maize.[5] It is not clear if the long walk, made of large square paving-stones, which leads to the front of the house, served a prac­ti­cal pur­pose. It seems to be a fifteenth-century thresh­ing floor.[6] How­ever, Pal­la­dio ad­vised that thresh­ing should not be car­ried out near a house.  Hans A. Rosbach. Frescoes by Giovanni Battista Zelotti, west wall of the hall Frescoes Hans A. Rosbach [CC BY-SA 3.0] Hall West The ex­te­rior is sim­ple, bare of any dec­o­ra­tion. In con­trast, the in­te­rior is richly dec­o­rated with fres­coes by the Veronese painter Gio­vanni Bat­tista Zelotti, who also worked on Villa Foscari and other Pal­la­dian vil­las. The main se­ries of fres­coes in the villa is grouped in an area with scenes fea­tur­ing Venus, the god­dess of love. Zelotti ap­pears to have com­pleted the work on the fres­coes by 1566.[1]  In the log­gia, the fres­coes have rep­re­sen­ta­tions of Cal­listo, Jupiter, Jupiter in the Guise of Diana, and Cal­isto trans­formed into a Bear by June. The Great Room is filled with fres­coes that were placed be­tween Corinthian columns that rise from high pedestals. The events in the fres­coes con­cen­trate on hu­man­is­tic ideals and Roman his­tory al­lud­ing to mar­i­tal virtues. Ex­em­plary scenes in­clude Virtue por­trayed in a scene from the life of Sci­pio Africanus. On the left wall is the scene of Scio­pio re­turns the girl be­trothed to Al­lu­cius and the right wall a scene show­ing The Killing of Vir­ginia. The sides  of these fres­coes have false niches that con­sist of mono­chrome fig­ures: Jupiter hold­ing a torch, Juno and the Pea­cock, Nep­tune with the Dol­phin, and Cy­bele with the Li­oness. These fig­ures al­lude to the four nat­ural el­e­ments (fire, air, water, earth). Side pan­els con­tain enor­mous pris­on­ers emerg­ing from the false ar­chi­tec­tural frame­work. On the south wall of the great hall to­ward the vestibule is a false bro­ken ped­i­ment that ap­pears above a real en­trance arch. A fresco of two fe­male fig­ures, Pru­dence with the Mir­ror and Peace with an Olive Branch, can be seen. The North wall at the cen­ter of the upper part of the build­ing con­tains the crest of the Emo Fam­ily. It is carved and gilt wood, sur­rounded by trompe-l'œil cor­nices and festoons.[1]  To the left of the cen­tral cham­ber is the Hall of Her­cules. It con­tains episodes re­fer­ring mainly to the mytho­log­i­cal hero. The in­tent was to em­pha­size the vic­tory of virtue and rea­son over vice. The fres­coes are in­serted in a frame­work of false ionic columns. The east wall con­tains scenes of Her­cules em­brac­ing De­janira, Her­cules throw­ing Lica into the sea, and The Fame of Her­cules at the cen­ter. The west wall is Her­cules at the Stake, placed within false arches. On the south wall is a panel above the door­way that de­picts a Noli me Tan­gere («Touch Me Not») scene.[1]  To the right of the cen­tral cham­ber is the Hall of Venus. This hall con­tains episodes that refer to the God­dess of Love. On the west wall within false arches are the scenes of Venus de­ters Ado­nis from Hunt­ing and Venus aids the Wounded Ado­nis. The east wall fresco shows Venus wounded by Love. On the south wall is a panel above the door­way that shows Pen­i­tent St. Jerome.[1]  The Ab­sti­nence of Scipio ap­pears fre­quently in cy­cles of fres­coes for Venet­ian vil­las. For ex­am­ple, the Villa la Porto Colleoni in Thiene and Villa Cordel­lina in Mon­tec­chio Mag­giore, built nearly 200 years later, also use this image, fos­ter­ing ideals which, had in the 15th and 16th cen­turies, re­sulted from the re­newed dis­cus­sion of the de­prav­ity of town life, in con­trast to the tran­quil­ity, abun­dance, and free­dom of artis­tic thought as­so­ci­ated with rural ex­is­tence. Hence, an­other room in the villa is called the Room of the Arts, fea­tur­ing fres­coes with al­le­gories of in­di­vid­ual arts, such as as­tron­omy, po­etry or music.[7]Within the many fres­coes are de­pic­tions of dif­fer­ent flow­ers and fruit, in­clud­ing corn, only re­cently in­tro­duced into the Po Val­ley. Many of the frescoes are pre­sented within false ar­chi­tec­ture, like columns, arches and ar­chi­tec­tural frame­work.[1]  Media Markhole [CC BY-SA 4.0] Perspective view of the front grounds Marcok / it.wikipedia.org [CC BY-SA 3.0] Perspective view of the rear garden. In the 1990s Villa Emo was fea­tured in Guide to His­toric Homes: In Search of Palladio,[8]Bob Vila's three-part six-hour pro­duc­tion for A&E Net­work.  The 2002 movie Ripley's Game used the Villa Emo as a lo­ca­tion. The City of Vicenza and The Palladian Villas in the Veneto: A Guide to the UNESCO Site. Italy: The Unesco Office of the Municipality of Vicenza, the Ministry of Cultural Assets and Activities. 2009. pp. 186–191. ^ a b c Wundram (1993), p. 164 ^ Wundram (1993), p. 165 ^ Beltramini, Guido (2009). Palladio. Italy. . ^ Wundram. Palladio Centre ArchivedJune 10, 2008, at the Wayback Machine (in English and Italian)Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio, accessed September 2008 ^ Wundram (1993), p. 173 ^ BobVila.com. »Bob Vila's Guide to Historic Homes: In Search of Palladio«. ^ »Ripley's Game News« ArchivedJune 9, 2008, at the Wayback Machine Retrieved on 2008 05 31 Sources The City of Vicena and The Palladian Villas in the Veneto: A Guide to the Unesco Site. Italy: The Unesco Office of the Municipality of the City of Vicenza. 2009. pp. 186–191. Wassell, Stephen R. (Fall 2018). »Andrea Palladio (1508-1580)«. Nexus Network Journal: 213–222. Beltramini, Guido, Palladio. Italy. pp. 100–108, 258–322. ISBN 978-1-905711-24-6. Boucher, Bruce (1998) [1994]. Andrea Palladio: The Architect in his Time (revised ed.). New York: Abbeville Press. Rybczynski, Witold (2002). 'The Perfect House: A Journey with Renaissance Master Andrea Palladio. New York: Scribner. Wundram, Manfred (1993). Andrea Palladio, Architect between the Renaissance and Baroque, Cologne, Taschen.  Andrea Emo Capodilista. Emo Capodilista. Keywords: in principio era la conversazione, filosofia fascista, I taccuini del barone Capodilista, il taccuino del barone Capodilista. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capodilista” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Capograssi – gl’eroi di Vico – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sulmona). Filosofo italiano. Grice: “I love Capograssi; at Oxford we’d call him a lawyer, but the Italians call him a philosopher! My favourite of his tracts is his attempts – linked as he was to the Napoli area – Vico relevant! Oddly, he stresses the ‘Catholic,’ or RC, as we say at Oxford, rather than the heathen, pagan, side, of this illustrious philosopher who Strawson – as along indeed with Speranza -- think as the greatest Italian philosopher that ever lived – I mean, what can be more Italian than Vico?!” Si occupa principalmente di filosofia del diritto. Fu membro della Corte costituzionale. Da un'antica famiglia nobile che vi si era trasferita da un comune della provincia di Salerno nel 1319, a seguito del vescovo Andrea. Si laurea a Roma con “Lo stato e la storia", in cui già affiorano le problematiche connesse alle interrelazioni fra individuo, società e stato: problematiche che impegneranno tutta la sua filosofia. Insegna a Sassari, Macerata, Padova, Roma, e Napoli.Nel luglio del 1943 prese parte ai lavori che portarono alla redazione del Codice di Camaldoli.  La sua filosofia si centra nell’esperienza giuridica ed è rivolta alla centralizzazione della volontà del soggetto agente, che si imprime nell'azione stessa, vera fonte di espressione giuridica e di vita. La filosofia dovrebbe quindi occuparsi della vita e dell'azione, avendo a centro della sua speculazione la "persona".  Il suo pensiero si ricollega al personalismo. Il ponere al centro della sua filosofia il rapporto essenziale che intercorre fra il diritto inteso come esigenza giuridica e la vita consente alla filosofia del diritto di superare il campo della tecnica giuridica per pervenire ad una visione organica e totale del reale, cioè a Dio.  Fede e scienza; Lo Stato; Riflessioni sull'autorità; democrazia diretta; Analisi dell'esperienza comune; L’esperienza giuridica; La vita etica; Il problema della scienza del diritto); Incertezze sull'individuo, Milano, Giuffrè).  “Pensieri” sono alcuni scritti vergati su foglietti e conseglla. Nei Pensieri, poi raccolti e pubblicati, si colgono i momenti salienti della sua filosofia. La teoria dei valori. Il personalismo.  Il positivismo giurdico in Italia. Decentramento e autonomie nel pensiero politico europeo.  I sentieri dell'uomo comune. Dizionario biografico degli italiani. Kelsen avrebbe, invece, potuto utilizzare la stessa idea di una Norma Fondamentale come un principio etico-politico costituente. Anzi, proprio perché essa è tale, non si identifica con la pura fatticità della Forza, come, invece, pensa Capograssi. Ed è rivendicando la funzione costituente della Norma Fondamentale che Bobbio può osservare: Il Capograssi sostiene che tutta la costruzione kelseniana è così solida solo perché poggia su alcuni presupposti, e che questi presupposti non sono soltanto delle ipotesi di lavoro utili alla ricerca, ma si fondano su una vera e propria concezione della realtà. E che questa concezione è che il diritto è forza (N. BOBBIO, La teoria pura del diritto ecc., cit., p. 24. Per la posizione di Capograssi si veda: Impressioni su Kelsen tradotto, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», poi in Opere, Giuffrè, Milano). Le argomentazioni di Capograssi, secondo Bobbio, rinviano a una concezione giusnaturalistica del diritto che confonde «il criterio di validità e il criterio di giustificazione del diritto», e aggiunge che il Kelsen si limita a dire che il diritto esiste (indipendentemente dal fatto che sia giusto o ingiusto) solo quando la norma, oltre che valida, è anche efficace (il cosiddetto principio di effettività). Non si potrebbe mai trarre dalla concezione kelseniana il principio che il diritto è giusto in quanto è comandato, perché da nessun passo del Kelsen si può trarre la conclusione che il diritto, il quale esiste in quanto è comandato (e fatto valere colla forza), sia anche giusto53. Dunque, l’insoddisfazione di Bobbio per la soluzione kelseniana nasce dal fatto che il giurista viennese lascia aperto il problema del che cosa fondi e legittimi il sistema normativo e l’ordinamento giuridico, con la 50 N. BOBBIO, La teoria pura del diritto e i suoi critici, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», poi ristampato in ID., Studi sulla teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1955, pp. 75-107. Il saggio è ora in ID., Diritto e potere, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1992. Utilizzo quest’ultima edizione. La citazione è alla p. 39. 51 Cfr. N. BOBBIO, MaxWeber e Hans Kelsen, «Sociologia del diritto», (1981) 8, pp. 135- 154, ora in ID., Diritto e potere, BOBBIO, La teoria pura del diritto ecc., cit., p. 24. Per la posizione di Capograssi si veda: Impressioni su Kelsen tradotto, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», (1952), 4, pp. 767-810, poi in ID., Opere, vol. V, Giuffrè, Milano, BOBBIO, La teoria pura del diritto, BISIGNANI conseguenza che la stessa funzione costituente della Norma Fondamentale non viene esplicitata. L’esigenza di superare i limiti teorici di Kelsen non comporta, però, il recupero del giusnaturalismo come ideologia (come idea di una fondazione del diritto su valori assoluti e trascendenti), ma sollecita il pieno recupero di quelle ragioni etiche e sociali che, dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale e dopo l’olocausto, si erano manifestate come una “rinascita del giusnaturalismo”54. Per queste ragioni Bobbio non si lascerà mai tentare dal ridurre lo Stato al suo ordinamento giuridico; a quello Stato-Forza che Capograssi rinfaccia a Kelsen. REFS.: Impressioni su Kelsen. CAPOGRASSI E IL NICHILISMO GIURIDICO. ASPETTI DELLA CRISI DELLA SCIENZA GIURIDICA. Le “Impressioni su Kelsen tradotto” come critica all’astratto formalismo giuridico kelseniano e alla teoria del diritto come “forza e forma”. La “pars destruens” di Capograssi. Capograssi scrisse le “impressioni su Kelsen tradotto” poco dopo la traduzione della teoria generale del diritto e dello stato da Cotta e Treves, edita dalle Edizioni di Comunità. Si tratta di un saggio denso, in cui la prosa capograssiana e la sua cifra stilistica è mossa, libera, sinuosa, andante come sempre, ma particolarmente severa, austera, critica, propositiva, concettualizzante, come dappresso noteremo, sia nella “pars destruens” che nella “pars costruens” del saggio. La pars destruens è chiara e persuasiva. La dottrina kelseniana dello stato e del diritto si pone fuori i reali problemi della scienza giuridica ed una prima immediata impressione ha il lettore, e deve subito dirla, una impressione singolare di riposo. Sarebbe così bello se uno potesse accettare questo pensiero. Come si capisce il successo che ebbe quando nacque, in un’epoca e in un mondo, che ci è ormai così lontano e che era così facile ad accogliere ogni genere di illusioni. Qui non ci sono più problemi. Come per un’operazione di magia i problemi sono spariti. Non ci sono più disordini, incertezze, incoerenze, nel pensiero e nella realtà. Ogni cosa è sistemata ordinata disegnata in una specie di piano regolatore, che smista e distribuisce tutto in compartimenti separati. Se uno potesse accettare. Con tanto più impegno di attenzione il lettore è indotto a leggere.  Il diritto come concepito e teorizzato dal Kelsen è una scienza esangue. Lo notava pure  Pigliaru, in “Persona umana ed ordinamento giuridico” richiamando proprio in nota il pensiero capograssiano testè citato. E’ un diritto scisso dall’essere e dalla storia, fondato su un’astratta idea di dovere contrapposta all’essere, entro una rigida separazione, che Kelsen svolge nell’opera surriferita, ma anche in altri scritti, tra natura (essere) e spirito (devere). Si tratta di un’idea di scienza giuridica totalmente formale, fondata sulla norma giuridica, monade, essenza, fondamento del sistema kelseniano. Il diritto è un ordinamento coercitivo basato sulla validità, cioè la forza vincolante e sull’efficacia cioè l’effettiva applicazione delle norme giuridiche. L’ordinamento giuridico è un sistema di norme connesse fra loro in base al principio che il diritto regola la propria creazione. Lo stato, il potere dello stato, i tre poteri dello stato, gli elementi dello stato, sono soltanto stadi diversi nella creazione dell’ordinamento giuridico. Così come, in questa intelaiatura teoretica, per Kelsen quelle che per lui sono le due fondamentali forme di governo, democrazia ed autocrazia, sono modi diversi di creare l’ordinamento giuridico. Lo stato, entro una simile ed asfittica concezione, è un ordinamento giuridico espressione di norme giuridiche valide ed efficaci, collocate in un sistema giuridico gerarchico, in cui ogni norma trae il fondamento della sua validità dalla norma gerarchicamente superiore e la stessa costituzione è ridotta a norma sulla normazione, sulle procedure di formazione della legge. Capograssi nota opportunamente che lo stato è, altresì, un ordinamento relativamente accentrato, a differenza dell’ordinamento internazionale più decentrato. Un ordinamento che produce diritto e da cui deriva la giurisprudenza normativa, che coincide con un sistema di norme valide, che è l’unico sistema che deve riguardare l’indagine del filosofo della giurisprudenza. Capograssi osserva, inoltre, che in Kelsen il diritto in senso sociologico che descrive l’effettivo comportamento umano che rappresenta il fenomeno del diritto e cerca di predire l’attività degli organi creatori del diritto e specialmente quella dei tribunali e lo stato in senso sociologico riguardano la sfera dell’ efficacia del diritto, delle norme, e sono condizionati dal diritto normative, così come quest’ultimo concerne la sfera della validità delle norme e condiziona la scienza sociologica del diritto. Ma scienza delle norme e scienza dei fatti sono scisse, ciascuna vive di vita propria, sono parallele e non interferenti, sempre rigorosamente distinte ed eterogenee. In questi due mondi così puri l’uno e l’altro, il filosofo si muove con la libera facilità con cui l’uccello vola nell’aria. Di conseguenza, la giurisprudenza normativa non si interseca mai con la giurisprudenza sociologica, il diritto come tecnica della sanzione ed ordinamento coercitivo può rivestire qualsiasi contenuto, in una concezione del dovere assolutamente formale che non ha nemmeno per così dire il contenuto di sé stessa come dovere, perché questo dovere  non ha nulla del dovere reale. E afferma altresì l’insigne autore, citando Bobbio e comparando la teoria generale del Kelsen a quella di Carnelutti, che se la teoria generale è teoria generale del diritto POSITIVO, sicuramente quella del Carnelutti, a differenza di quella del Kelsen, è relativa alla vita stessa della realtà giuridica, perché muove dalla nozione di diritto come composizione di conflitti di interesse. La teoria generale del Kelsen è astratta e resta sulla superficie della norma e della vita dell’esperienza giuridica comunale, perché il sistema gerarchico di norme valide trae il suo fondamento da una norma non da un fatto, da una norma fondamentale, una “Grundnorm”, presupposta ed ipotetica, ricavata con procedimento interpretativo dal filosofo. Quest’ultima pone una data autorità, non si fonda su nessuna norma, è valida» in virtù del suo contenuto e non «perché è stata creata in un certo modo, al pari di una norma di diritto naturale, a prescindere dalla sua validità puramente ipotetica, ed il suo contenuto è il fatto storico particolare qualificato dalla norma fondamentale come il primo fatto produttivo del diritto. La norma fondamentale cioè significa in un certo senso, la trasformazione del potere in diritto. La perfetta separazione della forma dal contenuto, la perfetta indifferenza della forma da qualsiasi contenuto, che è la base di tutto questo sistema, non vale per la norma fondamentale, che da validità a tutte le norme, che si caratterizzano proprio perché il contenuto è per esse indifferente…perché è proprio il contenuto a dare qui validità alla norma fondamentale». L’«identificazione perfetta» tra diritto e Stato, inoltre, fondata sulla “Grundnorm” e “l’esteriorità” del diritto, osserva il Nostro, deriva da una concezione del diritto «come forza», come «diritto naturale della forza». E’sistema di «norme sanzionatorie» che, formalmente, sono «un aliquid di stabile di fronte al perpetuo oscillare della forza», ma la cui validità è “emanazione” di una “norma fondamentale”, la quale trae il proprio contenuto dall’ «evento di forza che si è assicurato il potere vale a dire il diritto di riempire le forme vuote delle norme».Questo è il «residuo giusnaturalistico kelseniano»: il «diritto naturale della forza» che fonda il diritto positivo statale. La prosa capograssiana sul punto è vibrante, incisiva: «qui il diritto è forza organizzata, cioè forza e forma; la forza sostiene e riempie la forma, la forma riveste la forza». La “pars destruens” del saggio in esame giunge al suo acme con una metafora corrosiva: «la rappresentazione del diritto che è in questo libro…richiama la visione di quegli spettri di città e paesi, che i bombardamenti avevano demolito in modo che erano rimasti in piedi muri e travi: non c’era più nulla tranne quel tragico scheletro di case nude e vuote, terribili sotto la luna», «ma che si sarebbe detto di uno di noi che avesse preso quei “cadavera urbium” per città viventi, per le case dove gli uomini vivono? Ci sarebbe stato errore pari a questo? E così accade per il diritto, come è esposto in questo libro». Il diritto è, in definitiva, confuso dal Kelsen per «eventi di forza», «dispositivi di sanzioni», «sistemi coercitivi». La “pars costruens” capograssiana ed il richiamo al pensiero del Vico ed alla concezione del “diritto come esperienza” La “pars costruens” dello scritto oggetto delle presenti considerazioni richiama, con riferimenti sintetici ma convincenti, il pensiero del Vico, sempre presente nella riflessione del Capograssi, la storia e lo storicismo, la nozione di esperienza. Capograssi indica come prioritaria la necessità «di non mutilare l’oggetto della scienza del diritto, cioè l’esperienza», «riducendola tutta al cosiddetto valore o alla cosiddetta forma o alla cosiddetta forza», alla «nuda forza» e alla «vuota forma»; la «necessità di vedere l’oggetto, cioè l’esperienza, nella sua integralità vivente, nella sua natura, cioè vichianamente nel modo di nascere perenne e quotidiano del diritto come vita e come esperienza, e quindi con tutto quello per cui nasce, per cui si afferma, per cui si concreta in forme concrete nella realtà». Al riguardo si accennano idee di grande importanza che hanno più ampi sviluppi nell’opera principale del Nostro, “Il problema della scienza del diritto”: la possibilità della conoscenza della realtà e del diritto si compie «nella comune coscienza umana di colui che osserva e conosce e di colui che opera nella realtà che è osservata e conosciuta. In quanto chi osserva partecipa della stessa vita, degli stessi principi, delle stesse esigenze di chi opera, è il segreto per cui chi osserva riesce a rendersi conto di quello che fa colui che opera». Ne “Il problema della scienza del diritto” si legge, infatti, ad esempio, che «con tutto il suo lavoro l’intelletto riflesso che si pone come scienza viene faticosamente e lentamente, perché fa il suo cammino momento per momento e tappa per tappa, scoprendo quella che è l’idea viva del diritto, la viene scoprendo traverso tutte le forme concrete e particolari dell’esperienza che essa forma». E «l’idea viva del diritto» si forma come «parte essenziale dell’esperienza», «momento e parte della vita stessa dell’esperienza» che «conosce sé stessa nella sua effettiva e determinata puntualità e riesce a conservare la realtà di sé stessa nelle sue molteplici e puntuali determinazioni». Capograssi, inoltre, soffermandosi ulteriormente sull’opera del Kelsen richiama anche «la grande verità vichiana che il mondo storico lo conosciamo perché lo facciamo…»; richiama il monito, proprio del Vico, di non «mettersi fuori dall’umanità…»E rileva che «se uno si mette al mondo supponendolo già compiuto…e quindi estraneo all’osservatore, necessariamente l’integralità dell’esperienza gli sfugge». In tal modo l’insigne autore coglie, dunque, il punto di maggiore fragilità dell’impianto teorico del Kelsen, cioè la netta, irriducibile, incolmabile separazione tra la “norma giuridica” e la “coscienza dell’individuo”, tra l’ “oggetto” ed il “soggetto”, tra la «norma estrinseca al soggetto e il soggetto estrinseco alla norma». La “pars costruens” capograssiana ruota, quindi, intorno al concetto di «unità in perenne movimento che è tutta la natura dell’oggetto» del diritto, «l’esperienza nella sua vivente umana unità» che è “falsata” (perché l’ “oggetto” è falsato) dai presupposti e dai postulati della teoria generale del diritto e dello Stato di Kelsen. E l’illustre autore, perciò, individua la «positività del diritto» come «coerenza intrinseca al processo di vita», «coerenza interna e vitale», e non «coerenza formale e artificiale», delle «determinazioni della vita giuridica», che «vivono nel concreto», ricordando un’opera in tal senso significativa, gli “Orientamenti sui principi generali del diritto” del civilista Antonio Cicu. 3. – Sull’attualità del pensiero di Giuseppe Capograssi e su alcuni aspetti significativi dell’attuale crisi della scienza giuridica alla luce di recenti saggi monografici sull’argomento. Per una critica del “nichilismo giuridico” (ontologico) Perché è attuale la critica capograssiana al formalismo giuridico kelseniano? Perché nell’ “ambiguità del diritto contemporaneo”, per riprendere il titolo di un notissimo saggio del grande pensatore abruzzese, si parla di frequente di “crisi”, con ciò indicando, per riprendere il linguaggio dello stesso Capograssi, «una situazione che non vorremmo», «un elemento di disapprovazione» ed «un elemento di speranza», il richiamo di una «situazione passata» o «pensata», «che crediamo migliore, vale a dire che preferiremmo». Ora, tra gli autori che hanno approfondito gli aspetti dell’attuale crisi della scienza giuridica sono di notevole importanza, a parere dello scrivente, tre saggi monografici, il “Diritto senza società” di Pietro Barcellona, il “Nichilismo giuridico” (e la più recente opera dello stesso autore, “Il salvagente della forma”) di Natalino Irti ed “Il diritto e il suo limite” di Stefano Rodotà. Ritengo che la sfida più radicale ed invasiva[46], tra le teorie sviluppate in questi saggi, sia quella del “nichilismo giuridico” (più precisamente del “nichilismo giuridico ontologico”, riprendendo la ricostruzione di una recente monografia di Mario Barcellona, “Critica del nichilismo giuridico”, che lo distingue dal “nichilismo giuridico cognitivo” nordamericano) e quest’idea è affermata dall’angolo visuale di chi cerca, come lo stesso Rodotà si propone con lucidità, risposte alternative al nichilismo. Il nichilismo, senza voler entrare nel merito di tutti i suoi significati, secondo il filosofo Emanale Severino ed il giurista Natalino Irti, significa, in un senso specifico al diritto ed alla tecnica economica, «ricavare le cose dal niente» e «riportarle al niente». Franco Volpi scrive che esso è «la situazione di disorientamento che subentra una volta che sono venuti meno i riferimenti tradizionali, cioè gli ideali e i valori che rappresentavano la risposta al “perché”e che come tali illuminavano l’agire dell’uomo». Nietzsche ne parla come «il più inquietante tra tutti gli ospiti». Sul punto penso al “Dialogo su diritto e tecnica”, scritto in più atti dai due stessi importanti autori surrichiamati, Irti e Severino, in cui l’Irti afferma che «l’unica superstite razionalità riguarda il funzionamento delle procedure generatrici di norme», «la validità non discende più da un contenuto, che sorregga e giustifichi la norma, ma dall’osservanza delle procedure proprie di ciascun ordinamento» ed il Severino ritiene che «la tecnica è destinata a diventare principio ordinatore di ogni materia, la volontà che regola ogni altra volontà», «la “capacità” della tecnica è la potenza effettiva (“potenza attiva” nel linguaggio aristotelico) di realizzare indefinitamente scopi e di soddisfare indefinitamente bisogni». L’idea di sistema giuridico unitario e di diritto statale «portatore di valori», in un simile orizzonte, è ormai destinato al declino irreversibile, sul viale tramonto. Il diritto della globalizzazione, e questo è il “topos” di crisi più acuta, porta alle estreme conseguenze quella scissione tra “liberalismo” e “liberismo” che Benedetto Croce già tracciava negli anni trenta. Lo stesso Irti scrive che «la tecno-economia non conosce differenze soggettive ma soltanto variazioni di quantità». Il “diritto globale”, come nota un altro grande giurista, Francesco Galgano, fondato sul principio di effettività e non su quello di legalità, è pienamente funzionale all’ “idea di produzione” che viene dall’economia e, come scrive l’Irti, «caratterizza l’economia globale», i cui spazi sono fluidi e sottratti al controllo giuridico e politico degli Stati nazionali sovrani. E’ in crisi, come opportunamente pone in risalto lo stesso insigne autore ne “Le categorie giuridiche della globalizzazione”, il «dove del diritto», il «dove applicativo», il «dove esecutivo» delle norme, «l’intrinseca ed originaria spazialità del diritto», l’idea di “confine” consustanziale allo Stato nazionale moderno che si afferma con il capitalismo mercantile. Non solo: i ritmi produttivistici della tecnica e della sua volontà di potenza, posti in evidenza e criticati, pur se ritenuti ineluttabili da Severino, secondo lo stesso Irti «producono un vorticoso succedersi di norme giuridiche…» che «attesta la “nientità” del diritto, i canali delle procedurequesti che potremmo chiamare nomo-dotti, poiché conducono le volontà dalla proposizione alla posizione di norme - sono pronti a ricevere qualsiasi contenuto.Ogni ipotesi può scorrere in essi: la disponibilità ad accogliere qualsiasi contenuto è indifferenza verso tutti i contenuti…». Per cui, l’attuale crisi del diritto, «nella postmodernità giuridica», è «l’indifferenza contenutistica” che “sospinge verso il culto della forma” e costituisce perciò realizzazione ed inveramento dello “Stufenbau” kelseniano, “capace di tradurre in norma qualsiasi contenuto” (“la Grundnorm di Kelsen – che Severino definirebbe “logos ipotetico”- spiega la validità di qualsiasi ordinamento», è il trionfo del vuoto formalismo giuspositivista che «si svela nelle procedure produttive di norme», nella razionalità tecnica e nell’«autosufficienza della volontà normativa». Al riguardo si deve porre l’accento su un altro notevole autore, di diversa formazione culturale, il filosofo marxista Galvano Della Volpe, che in un saggio dal titolo emblematico, “Antikelsen”, contenuto nel suo volume “Critica dell’ideologia contemporanea”, individuava i limiti propri della dottrina del diritto e dello Stato del Maestro di Praga, del Kelsen, proprio riferendosi ad una concezione meramente formale, raffinata e colta espressione di un’idea borghese del diritto, della democrazia e dell’eguaglianza. Ma sono altrettanto importanti le profonde ed intelligenti critiche di Nicola Abbagnano, che ha giustamente parlato del formalismo giuridico nei termini di una dottrina adattabile a qualsiasi regime politico e quindi sprovvista di sostanza, di contenuti. Per tornare all’analisi di alcuni rilevanti aspetti dell’attuale crisi della scienza del diritto, “nichilismo e formalismo” sono i due aspetti pregnanti di un diritto “tecnico”, “autoreferenziale”, “senza società”, come scrive Pietro Barcellona realizzazione anche, secondo quest’ultimo autore, delle distorsioni della teoria sistemica di Luhmann. Rodotà nella sua opera summenzionata scrive che «il diritto deve misurarsi con una tecnica di cui è stata da tempo esaltata l’irresistibile potenza, la continua produzione di fini, alla quale sarebbe ormai divenuto impossibile opporsi. Così la tecnica annichilirebbe il diritto, condannato ormai ad una umile funzione servente. Ma questa è una profezia destinata a realizzarsi solo se la politica diviene progressivamente prigioniera di una logica che la induce a delegare alla tecnologia una serie crescente di problemi…e se il diritto, seguendola in questa deriva, accettasse un’espulsione da sé di valori e scopi, determinado quella che Michel Villey ha chiamato una “mutilazione del diritto per ablazione della sua causa finale”»[68]. Per cui viene da chiedersi, in termini comunque molto problematici, se è possibile individuare una via d’uscita al declino dei sistemi giuridici e della certezza del diritto, alla “crisi di razionalità”, per riprendere Habermas, delle società capitalistiche postmoderne, all’oscuramento dei contenuti essenziali degli ordinamenti giuridici democratici, tra cui rientrano, anzitutto, i diritti fondamentali (lo stesso Rodotà ritiene altresì che «la ricostruzione di un fine del diritto intorno ai diritti fondamentali si presenta così come una guida quotidiana, come un test permanente al quale sottoporre anzitutto le scelte giuridicamente rilevanti. E’un impegnativo programma, che mette alla prova politica e diritto. La politica, considerata non più nell’area dell’onnipotenza, ma del rispetto. Il diritto, non più vuoto di fini, ma strettamente vincolato a un sistema di valori, dunque in grado di offrire una guida pur per le scelte tecnologiche») Insomma: qual è oggi lo scopo del diritto? Ed in che senso l’antikelsenismo vichiano e personalista di Capograssi[71] è attuale e può costituire, “storicizzato” ed adeguato al “presente storico”, una chiave di lettura delle asimmetrie e degli scompensi dei sistemi giuridici vigenti e degli attuali “usi sociali del diritto”?  La critica capograssiana al formalismo costituisce un richiamo al presente. Essa rappresenta una delle più significative alternative teoriche agli esiti del nichilismo formalista; essa, per riprendere le parole del Maestro che ricordiamo, è «sforzo per costruire la storia», per «realizzare la vita nei suoi termini di attualità», e quindi il diritto «nella profonda vita delle sue determinazioni positive»; anche perché il diritto, come scriveva un altro importante giurista, Salvatore Satta, è «dover essere dell’essere» e non «dover essere» contrapposto all’«essere»[74], “Sollen” staccato dal “Sein”. Capograssi ne “L’ambiguità del diritto”propone delle conclusioni dense di speranza, affermando che «quest’epoca…pur muovendosi in un macrocosmo di dimensioni così gigantesche…non fa che mettere al centro di questo mondo e delle sue creazioni niente altro che l’uomo». Ed esse possono essere un’alternativa alla “nientità” del diritto globale contemporaneo ed al liberismo tecnicistico, produttivistico e massificante; al trionfo dell’ «Apparato tecnocratico», di cui parla Severino ne “La filosofia futura”, che quasi lascia presagire la «fine della storia» e del «divenire storico» come «farsi dell’esperienza umana» e, per riprendere Jhering, della “lotta per il diritto”. Il presente testo riprende, nelle linee essenziali, la relazione presentata al convegno di studi internazionale sull’ “Attualità del pensiero di Capograssi”, Sassari, Mulino”. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”,1952/4, 767-810, ora in ID., Opere, Milano, KELSEN, General theory of law and State (1945), Teoria generale del diritto e dello Stato, tr. it., a cura di S. Cotta e G. Treves, Milano, 1952. [3] V. P. PIOVANI, Introduzione a G.Capograssi, Il problema della scienza del diritto, Milano, CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 314. Per una differente concezione del diritto critica verso il formalismo gradualista di Hans Kelsen v. G.WINKLER, Teoria del diritto e dottrina della conoscenza.Per una critica della dottrina pura del diritto (1990), tr. it. di A. Carrino, Napoli, 1994, 249 (ove è scritto che «la dottrina pura e generale di Kelsen è stata…, sin dall’inizio, nelle sue premesse epistemologiche e gnoseologiche, priva di fondamenta solide…»); 189 (pagina in cui si afferma che «la dottrina pura del diritto di Kelsen si impiglia inevitabilmente in molteplici dilemmi. Un aspetto di questi dilemmi risiede nel tipo di determinazione dell’oggetto, un altro nella concezione della scienza. Un altro ancora nella ipostatizzazione di un orientamento metodologico che deifica il concetto teoretico del diritto, lo interpreta nel senso della logica formale, lo deforma e lo priva al tempo stesso del suo oggetto empirico»). [5] V. A. PIGLIARU, Persona umana ed ordinamento giuridico, Milano, 1953, 98. Su quest’opera v. G. BIANCO, Prefazione ad Antonio Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico, in “Diritto @ storia”, n. 5, 2006 = http://www.dirittoestoria.it/5/Contributi/Bianco-Pigliaru-persona-umana-ordinamento-giuridico.htm ed in A. PIGLIARU, op.ult.cit., Nuoro, KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano, KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 30 ss., 111 ss., 125ss. [8] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 18 ss. [9] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 29 ss., 123. [10] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 111ss. e G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 316-317. [11] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 274 ss. [12] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op. cit., 288 ss. [13] V.H.KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 126 ss. Peraltro Kelsen sull’argomento introduce una sua distinzione tra “Costituzione formale” e “Costituzione materiale” specificando che «presupposta la norma fondamentale, la costituzione rappresenta il più alto grado del diritto statale. La costituzione è qui intesa non già in senso formale, bensì in senso materiale. La costituzione in senso formale è un dato documento solenne, un insieme di norme giuridiche che possono venir modificate soltanto se si osservano speciali prescrizioni, la cui funzione è di rendere più difficile la modificazione di tali norme. La costituzione in senso materiale consiste in quelle norme che regolano la creazione delle norme giuridiche generali, ed in particolare la creazione delle leggi formali». Questa distinzione è, ovviamente, eterogenea rispetto al dualismo “Costituzione formaleCostituzione materiale” proposta dai “realisti”, in particolare da Costantino Mortati, Carl Schmitt, Giuseppe Guarino, peraltro con connotazioni peculiari in ciascuno degli autori richiamati. V. in argomento G. Bianco, Quel che resta della Costituzione materiale (tra congetture e confutazioni), in “La Costituzione materiale. Percorsi culturali e attualità di un’idea”, a cura di A. Catelani e S. Labriola, Milano, 2001, 487-502. [14] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 315. [15] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 318. [17] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 319. [18] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 320. [19] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 327, nt. 1. [20] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 328. [23] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 328-329. [24] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 331. [25] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 332. [26] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 333. Ed il nostro aggiunge nella stessa pagina, con il consueto tono intelligente ed appassionato, che «concepito il diritto come forza e come forma, è evidente che l’ordinamento giuridico ha una doppia faccia, la forza, cioè l’efficacia, la forma, cioè la validità. La seconda dipende dalla prima ed è condizionata dalla prima; la prima finchè dura si esprime nella seconda; la validità è l’espressione formale dell’efficacia, e l’efficacia è la realtà sostanziale della validità. Per questo i due diritti in senso normativo e in senso sociologico si rispecchiano e vanno di conserva: sono due facce dello stesso fatto»(p. 333). Dappresso è scritto che «la forza è il principio del diritto; gli interessi, le passioni, le ideologie sono il contenuto; e la forma è la norma come puro dispositivo della sanzione, e l’ordinamento che è il sistema delle norme valide fondato sull’evento di forza che costituisce il contenuto della norma fondamentale. Si può dire, può non chiamare nuda, perché non ha in sé nulla di razionale: forza nuda dall’esterno, poiché s’impone per qualsiasi via e vince se è legittimata, forza nuda dall’interno di sé stessa, perché non è altro che il (preteso) fondo irrazionale e cieco dell’azione umana. Rare volte la concezione del diritto come nuda forza è stata espressa e svolta con più riuscita e più completa coerenza sia in sé sia nel suo naturale esplicarsi e compiersi nelle forme vuote delle norme. Abbiamo qui nella forma più razionale e perfetta il diritto naturale della forza e la sua dogmatica». CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto,  CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 353 e 351. [30] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 353. [31] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 353. [32] V. G. CAPOGRASSI, Il problema della scienza del diritto (1937), Milano, 1962 (con introduzione di Pietro Piovani) CAPOGRASSI, Il problema della scienza del diritto. CAPOGRASSI, Il problema della scienza del dirittv btg55zo, op.cit., 353. [35] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 354. [36] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 355. [40] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 356. Molto intense e particolarmente significative sono le vivaci conclusioni del saggio in considerazione: «Quello che è essenziale è questo riportare a questa unità vivente, a questa coerenza intrinseca al processo di vita, proprio le profonde esigenze e funzioni per cui il diritto costituisce un interesse formativo della vita; quel cogliere dall’interno e come componente il diritto tutta la sostanza etica del fenomeno giuridico. Qui il giurista è non il tecnico che fa uno sforza di costruzione puramente formale, per raggiungere una coerenza puramente formale, ma l’uomo, proprio l’uomo nell’alto senso della parola, che cerca di cogliere il diritto nella profonda vita delle sue determinazioni positive e nelle profonde e immutabili connessioni, con i principi e le esigenze costitutive della vita e della coscienza. Qui il giurista è proprio il collaboratore della vita, il collaboratore indispensabile del segreto processo traverso il quale la vita concreta si trasforma in esperienza giuridica, e l’umanità del mondo della storia viene perpetuamente difesa contro la barbarie sempre presente e sempre immanente della forza. E se non è questo, che cosa è il giurista? Che cosa ci sta a fare nella vita? Perché vive?» [41] V. G. CAPOGRASSI, L’ambiguità del diritto contemporaneo, in AA.VV., La crisi del diritto, Padova, 1953, 13-47, ora in ID., Opere, V, op. cit., 385 ss. [42] V. G. CAPOGRASSI, L’ambiguità del diritto contemporaneo, op.ult.cit., 387. [43] V. P. BARCELLONA, Diritto senza società, Bari, IRTI, Nichilismo giuridico, Bari, 2004; ID., Il salvagente della forma. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, 2006. [46] Sia consentito di rinviare a G. BIANCO, Nichilismo giuridico, in Digesto IV, disc.priv., sez.civ., III vol. di agg., Torino, 2007, BARCELLONA, Critica del nichilismo giuridico, Torino, RODOTÀ, La vita e le regole, op.ult.cit., 9 ss. Si legge, in particolare, tra i molti spunti presenti nel saggio monografico, che «sullo sfondo scorgiamo la fine di un’epoca nella quale esistevano valori generalmente condivisi, mentre oggi viviamo in un tempo caratterizzato da un politeismo dei valori e da controversie intorno al modo di dare riconoscimento al pluralismo…Si scorge una frontiera mobile, addirittura sfuggente, tra diritto e non diritto…»(p. 16); «il percorso tra diritto e non diritto porta al disvelamento progressivo dell’inadeguatezza della dimensione giuridica tradizionalmente conosciuta rispetto alla vita quotidiana…nello stesso ordine giuridico possono annidarsi i fattori che si oppongono al dispiegarsi della personalità, alla pienezza della vita» (p. 23); «non siamo più di fronte all’astrazione, ma alla cancellazione del soggetto»(p. 25). [49] V.in modo particolare sul punto M. HEIDEGGER, Il nichilismo europeo, tr. it., a cura di F. Volpi, Milano, 2003, 108; F. NIETZSCHE, La volontà di potenza, frammenti postumi ordinati da P. Gast e E. Forster-Nietzsche, nuova ed. italiana a cura di M. Ferraris e P. Kobau, Milano, 2005, 7, 8, 17. [50] V. N. IRTI, Atto primo, in N. IRTI-E. SEVERINO, Dialogo su diritto e tecnica, Bari, 2001, 8 ss.; ID., Nichilismo e metodo giuridico, in “Nichilismo giuridico”, op. cit., 7. [51] V. F. VOLPI, Il nichilismo, Bari, 1996, 4. [52] V. F. NIETZSCHE, La volontà di potenza, IRTI, Atto primo, in N. IRTI-E. SEVERINO, Dialogo su diritto e tecnica, SEVERINO, Atto primo, in op. ult. SEVERINO, Atto primo, in op. ult. cit., 28-29. [56] Su cui v. B. CROCE, Liberismo e liberalismo, in “Elementi di politica”(1925), Bari, 1974, 69 ss. v. al riguardo N. IRTI, Il diritto e gli scopi, in “Esercizi di lettura sul nichilismo giuridico”, op. cit., 115 ss. Sull’argomento v. pure le riflessioni contenute in B. LEONI, Conversazione su Einaudi e Croce, in ID., Il pensiero politico moderno e contemporaneo, a cura di A. Masala e con introduzionedi L.M. Bassani, Macerata. IRTI, La rivolta delle differenze, in “Esercizi di lettura sul nichilismo giuridico”, in Nichilismo giuridico, op. cit., 144. [58] V. N. IRTI, Nichilismo e formalismo nella modernità giuridica, in Nichilismo giuridico, op.ult.cit., 25. Sul pensiero del Galgano v. ID., Lex mercatoria, Bologna, 2001, 234 ss. [59] V. N. IRTI, Le categorie giuridiche della globalizzazione, in Norme e luoghi. Problemi di geodiritto, Bari, 2006 (2a ed.), 143 ss., 144. [60] v. tra i molti scritti dell’illustre filosofo Id., La filosofia futura, Milano, 2006, p.150sgg.; Id., Destino della necessità, Milano, 1980, p.41sgg.; Id., Essenza del nichilismo, Brescia, 1972, p.227sgg. [61] V. N. IRTI, Atto secondo, in E. SEVERINO-N. IRTI, Dialogo su diritto e tecnica. IRTI, Atto primo, in op.ult.cit., 8. [63] V. G. DELLA VOLPE, Antikelsen, in ID., Critica dell’ideologia contemporanea, Roma, ABBAGNANO, Stato, in Id., Dizionario di filosofia, Torino, 1983 (2a ed.), 835. [65] V. P. BARCELLONA, Diritto senza società, op. cit., 87 ss. e 151 ss. [66] V. P. BARCELLONA, Diritto senza società, op. ult. cit., 9 ss., 11, in cui si legge che l’epoca della globalizzazione «appare essenzialmente come definitivo tramonto della società come istituzione (come tecnica organizzativa), attraverso la quale si realizza la mediazione tra l’istanza di libertà e l’ordine prodotto dall’autogoverno della società, e come fine della storia intesa come metamorfosi dell’orizzonte di senso entro il quale si sviluppa la dialettica sociale…I concetti di Stato nazionale, che aveva rappresentato la forma dell’organizzazione sociale, e di sovranità, che aveva individuato nella democrazia, come governo di popolo, la base di ogni ordinamento, sono inutilizzabili per descrivere e comprendere le forme della globalizzazione». BARCELLONA, op. ult. cit., 151 ss., ove si afferma che nella teoria surrichiamata «il sistema può fare a meno delle intenzioni e dei progetti, della volontà e della coscienza e, in definitiva, degli uomini in carne ed ossa. Perché il suo destino si compie nella perfetta circolarità della riproduzione auto-referenziale e auto-riflessiva dei suoi “dispositivi” e della sua logica. Luhmann ha scoperto il segreto del moto perpetuo e per questo la sua teoria è ormai il nucleo vero di tutte le rappresentazioni della modernità…»(p. 152). V. al riguardo N. LUHMANN, La differenziazione del diritto (1981), tr. it., Bologna. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto. Su cui v. in generale le classiche pagine di JHERING, Lo scopo del diritto, tr. it., con introduzione di M.G. Losano, Torino, 1972, 6, in cui è scritto che «lo scopo è il creatore di tutto il diritto; non esiste alcuna norma giuridica che non debba la sua origine ad uno scopo; cioè ad un motivo pratico». Sul tema è stato opportunamente notato che «là dove si parla di scopo…si allude a processi intenzionali, consapevoli, voluti» (R. RACINARO, Presentazione di “La lotta per il diritto” di R.von Jhering, tr. it., Milano, 1989, XX). [71] Sull’attualità del pensiero del Capograssi v. anche il paragrafo quarto di BIANCO, Nichilismo giuridico. Al riguardo v. la ricostruzione contenuta in S. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, op.cit., 9 ss. [73] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 356. [74] Sul tema v. S. SATTA, Norma, diritto, giurisdizione, in “Studi in memoria di Carlo Esposito”, III, Padova, Capograssi, in “Raccolta di scritti in onore di Arturo Carlo Jemolo”, Milano, 1963, IV, 589 e ora in ID., Soliloqui e colloqui d’un giurista, Padova, 1968, 433 ss. Sull’argomento sia consentito rinviare, per una più articolata ed ampia trattazione, a G. BIANCO, Crisi dello Stato e del diritto in Salvatore Satta, in “Clio”. L’ambiguità del diritto contemporaneo. SEVERINO, La filosofia futura. La volontà che nell’Apparato si vuole sempre più potente e decide in questa direzione, in ogni momento del suo sviluppo decide innanzitutto di eseguire quell’insieme determinato di azioni che in quel momento aumentano determinatamente la sua potenza. In quantoè questa decisione, la volontà è quindi certa dell’accadimento di tali azioni e pertanto è certa di esistere nel futuro in cui tali azioni sono compiute. Ma la volontà che si vuole sempre più potente non è solo questa certezza di esistere in quel momento del futuro in cui la sua potenza riceve un incremento determinato: è anche la certezza che in ogni momento futuro essa sarà il tentativo di aumentare la propria potenza e cioè di trasformare ogni stato dell’essere. E’ certa del proprio tentativo. Decide che, in ogni momento del futuro in cui essa si troverà esistente, tenterà di aumentare la propria potenza», pur non essendo «certa che il divenire sia eterno» perché «la volontà che si vuole sempre più potente riconosce la possibilità del proprio annientamento»).  JHERING, La lotta per il diritto. Sostiene l’Insigne giurista che “il diritto ci presenta, pertanto, nel suo movimento storico, il quadro del tentare, del combattere, del lottare, in breve dello sforzo faticoso…il diritto come concetto rivolto a uno scopo, posto nel mezzo dell’ingranaggio caotico di scopi, aspirazioni, interessi umani, è costretto incessantemente a tastare, saggiare per trovare la via giusta, e, quando l’ha trovata, ad atterrare ancora innanzi tutto l’opposizione, che gliela preclude” (pp. 91-92). Giuseppe Capograssi. The Antiquity of the Italian NationThe Cultural Origins of a Political Myth in Modern Italy, 1796-1943 Antonino De Francesco. Oxford. With Italy under Napoleon, the antiquarian topic of anti-Romanism is turned against the dominant French culture and becomes a pillar of the nation-building process. The antiquity of the Italian nation — prior to the Roman dominion — is evoked in order to support an inveterate Italian cultural primacy and proves very useful for creating Italian nationalism. The issue is completely forgotten today because Italian studies of Roman history, following the example of Mommsen, would drape a long veil over the period of earliest Italy, while, subsequently, Fascism openly claims the legacy of the Roman Empire. Italic antiquity, however, remains alive throughout those years and it often returns as a theme, intersecting deeply with the political and cultural life Italy. Philosophy examines the constantly reasserted antiquity of the Italian nation and its different uses in history, archaeology, palaeoethnology, and anthropology, from the Napoleonic period to the collapse of Fascism. Examining the fortunes and misfortunes of this subject, it challenges the view of 19th-century Italian nationalism as an ethnical movement, suggesting how deeply the image of pre-Roman Italy forged the political and cultural sensibility of modern Italy. Page of  IntroductionIntroduction Chapter: (p.1) Introduction Source: The Antiquity of the Italian Nation. Francesco. Oxford. The resumption of studies on Italian nationalism focuses upon the aggressive forms that Fascism comes to represent. The introduction discusses the easy notions of ethnic or racial nationalism, questioning these categories and suggesting how complex Italian nationalism is. Regarding this, the theme of the antiquity of the Italian nation—that is, the myth of a perpetual presence in the country substantiating a cultural primacy—represents an important example. An examination of the earliest Italy, as it was proposed in 19th-century Italian culture, suggests how it did not have a racial or ethnic basis, its main feature being cultural. This peculiar aspect of early Italian nationalism is outlined in its historical perspective, and the structure of the essay is described, indicating how the topic will be followed from its birth during the Napoleonic years to its final demise shortly after the fall of Fascism.  Keywords:   Italian nationalism, Fascism, earliest Italy.The historic past of the nation The Antiquity of the Italian Nation. Francesco. Oxford. This philosopher is devoted to the first explicitly nationalizing reading of the myth of antiquity developed by  Cuoco, who, in his “Platone in Italia”, recalls the existence at the dawn of humanity of a civilizing people, the Etruscans. In this way, Cuoco, aiming to establish antecedents for the Italian nation as it measures itself against the French cultural model, could propose the ethnic-cultural unity of the peninsula’s inhabitants since ancient times. Italian nationalists rediscover Cuoco’s thesis and see it as the basis of  Italian political identity. However, some philosophers have underlined how this can be regarded as a predatory operation, which overvalues the actual significance of “Platone in Italia” in the cultural context of Italy. It also shows how “Platone in Italia” remains known mainly for emphasizing the cultural primacy of the Italians rather than its assertion of their ethnic uniformity. Cuoco, Platone in Italia, Etruscans, Italian nationalists. A plural Italy. The Antiquity of the Italian Nation. Francesco. Oxford. Cuoco’s interpretation of Italian antiquity does not hold up against Micali’s Italy before the dominion of Rome. Micali responds to Cuoco’s view, suggesting that cultural unity does not lead one to believe that the country’s peoples necessarily share a common origin. It is Micali rather than Cuoco that come to dominate the patriotic culture of the Italians. The significant impact that Micali has is shown by the fact that Micali became a subject of great interest throughout the country, accompanying the national movement -- the so-called Risorgimento -- on its progress towards the events of the  revolution. Micali, Italy before the dominion of Rome, Cuoco, Risorgimento,  revolution. Unity in diversity. The Antiquity of the Italian Nation. Francesco Publisher: Oxford. We measure the impact of Micali on the political culture of the Risorgimento, testing the importance of his “Storia degl’antichi popoli italiani” on the studies of the Italic past published in several areas around the peninsula, especially in Lombardia, which remains the main Italian publishing centre, Napoli, and Sicilia. The analysis shows the multiple and different nationalizing uses of Micali’s works in tthese regions and confirms how his reading of a cultural, rather than ethnic, uniformity of the Italian people, is overwhelmingly accepted by the patriots on the eve of the revolution. Micali’s model appears, in fact, to be the only one that could be followed in a country which, though culturally united for centuries, is at the same time deprived of political cohesion.  Micali, Storia degl’antichi popoli italiani, Risorgimento, Naples, Sicily, Lombardy. The other Italy. The Antiquity of the Italian Nation. Francesco. Oxford. Micali’s model comes under fire when, after the political unification of the Italian peninsula, it becomes clear that the encounter between the various parts of Italy is not particularly harmonious. The problematic area of southern Italy seems to obstruct, rather than smoothen, the way towards a rapid process of stabilization for the newly unified state. We cast light on how the southern regions’s difficulty in becoming an integral part of the new unified Italy determine the reflections on the roots of a diversity which wocomes home to roost in the considerations concerning the Aryan race which populates ancient Italy. Unified Italy, southern Italy, Micali, Aryan race, Mediterranean race. The anthropology of the nation. The Antiquity of the Italian Nation. Francesco Publisher: Oxford Those who insist on the racist nature of the unified state improperly rely on Sergi’s anthropology as demonstrating firm evidence of his racist tendencies and establishing a connection between liberal Italy and Fascism. Philosophers have reconstructed Sergi’s career in order to re-situate him in his specific political and cultural context. From this point of view, his theme of racial differences within the nation suggests the existence of two different peoples on the peninsula: one northern and Aryan, the other southern and Mediterranean. This distinction remains popular and rapidly becomes a political matter, pertaining to the left of the political spectrum rather than the right. It is used to explain the reasons why the modernization of Italy seems to be grinding to a halt, as well as to help sustain the political struggle that the radical left launches against liberal Italy. Sergi, anthropology, racist tendencies, liberal Italy, fascism  Return to Rome. The Antiquity of the Italian Nation. Francesco Publisher: Oxford. The Italian state seems to be heading for an irreversible crisis. Faced with this challenge, many academics are quick to reaffirm the value of the unified state and reject every reading of Italian identity which does not sustain the idea of complete uniformity. This area is covered by philosophy, which deals with the renewal of the study of Roman history through the example of the work of Pais. A keen admirer of Micali, Pais soon adopts the model suggested by Mommsen, which sees in Roman expansionism a work of political and cultural unification of the whole of Italy. Pais’s main concern, therefore, is the construction of the nation’s common historical identity. That is why he aligns himself with all the political choices of the nationalist movement, from colonialism to the interventionism of The Great War and the acceptance of Fascism. Pais, nationalist movement, colonialism, Fascism. The Italian Fascist Empire, racial policy and Etruscology. The Antiquity of the Italian Nation. Francesco. Oxford. Romanism does not eradicate the tradition of Italian plurality, founded on the specific contributions of peoples of different origins. The theme of Italic antiquity is useful during fascism. Following the war in Ethiopia and the foundation of the Italian Empire, the idea of italic antiquity is used to reject the mixing of races in the name of a civilising policy with regard to populations held to be inferior. This theme helps to bring about a significant return of academic interest in relation to the origins of Italy’s ancient civilisation.  Basing his ideas on the example of the ancient Romans, Pallottino is able to re-read Etruscan origins as the result of the meeting of different peoples through a cultural model that becomes common property. In this way, the process turns full circle and the work of  Micali makes a powerful comeback.   Romanism, Pallottino, Italic antiquity, Etruscan origins, Italian Empire, Micali. Keywords: gl’eroi di Vico, il culto degl’eroi, positivismo, positivismo giuridico, H. L. A. Hart, Kelsen, il concetto di stato, stato italiano, il mito dell’Italia nuova -- stato come forza, stato come autorita, Capograssi contro Bobbio. La critica di Bobbio a Capograssi, essere/devere – Capograssi/Hart – Capograssi e il fascismo – la nazione d'Italia previa all’unificazione -- in concetto di stato come medimen, medimen medimen medimen previous drafts --  il concetto di stato com medimen --– kelsen, positivismo giuridico – l’esperienza giuridica, azione giuridica, due tipi d’obbedenza: formale (vacua) e materiale (intenzione inclusa), intenzione, agire, vita etica, intersoggetivita, intersoggetivo, soggeto, individuo, interpersonalismo, l’interpersonalismo di Capograssi – Aligheri, Leopardi, Zibaldone, Rosmini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capograssi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Caporali – Pitagora, l’italiano -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Como). Filosofo italiano. Grice: “You gotta (as we say at Berkeley) love (as we say at Berkeley) Caporali – typically Italian he dedicates his life to philosophise on Pythagoras (or Pitagora, as he prefers) just because he is ‘italico,’ or ‘Italiano,’ with the capital I that was then in fashion!” Grice: “What I like about Caporali is that, unlike the 98% of Italian philosoophers, he detests German philosophy, as represented by Muri – “See how clear the religion of the Italian anti-clerics is compared to the German obscurity of Muri!’ And right he is, too!”   -- Grice: “For the Oxonians I always recommend his “epitome di filosofia italiana,’ which, I subtitle it as “From Pythagoras to Pythagoras, and back!” – His three-part tract on Pythagoras (Natura, Uomo, Other) is fascinating – especially the other – he also philosophised on ‘scienza nuova.’” --   Enrico Caporali (Como), filosofo. Laureatosi in giurisprudenza all'Padova, studiò anche storia e geografia presso l'ateneo bolognese, così come approcciò, sia Italia che all'estero, le scienze naturali e la matematica.  Nel corso dei suoi viaggi si avvicinò al movimento metodista, tanto che nel 1875 a Milano, dove l'anno prima aveva dato alle stampe la Geografia enciclopedica, ne ricevette l'ordinazione a evangelista, mentre quella a diacono la ricevette a Terni nel 1879. E, non a caso, Caporali è stato segnalato fra le menti più eccelse dell'evangelicismo.  Dal 1876 a Perugia, e poi come ministro a Todi dalla fine del 1881, finì per distaccarsi dal movimento metodista. È in quel contesto che diede vita alla rivista La nuova scienza, uscita in 6 volumi tra il 1882 e il 1896. La notorietà che ne conseguì gli portò l'offerta di reggere come titolare, su indicazione di Nicola Fornelli, la cattedra di filosofia all'Bologna, che tuttavia Caporali rifiutò.  Dal 1905 riprese e approfondì le questioni filosofiche, studiando, in particolare, la dottrina di Pitagora, che avrebbe ricondotto, da nazionalista qual era, ad una tradizione italica e latina, in funzione anti-straniera. Secondo Caporali, la formulazione pitagorica del numero reale consentiva di riconoscere la relazione dell'espressione della coscienza e della volontà umane con i problemi della vita.  Opere principali Geografia enciclopedica rispondente al bisogno degl'italiani ordinata alfabeticamente, Politti, Milano 1873. Epitome di Filosofia italica della nuova scienza. Vademecum delle persone colte che vogliono diventare filosoficamente italiane, Tip. dell'Umbria, Spoleto 1911; La natura secondo Pitagora, Atanor, Todi; L'uomo secondo Pitagora, Atanor, Todi 1915; Il pitagorismo confrontato con le altre scuole, Atanor, Todi 1916; La Chiara religione degli anticlericali italiani con la nebbiosa tedesca di Romolo Murri (della pubblica opinione moderatore), Tip. Tuderte, Todi. L'Enciclopedia Italiana, vedi, indica il 1841 come anno di nascita.  V. Vinay, Luigi Desanctis, Claudiana, Torino 1965240.  In tal senso B. Croce, Pescasseroli, Laterza, Bari 192255, che lo cita con i filosofi protestanti Taglialatela e Mazzarella.  G.B. Furiozzi, Enrico Caporali tra politica, religione e filosofia, in Idem, Dal Risorgimento all'Italia liberale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli  R. Mariani, Del sommo filosofo pitagorico Enrico Caporali da Como (1838-1918): da Pitagora ad Alberto Einstein, Domini, Perugia 1955. Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Enrico Caporali  M.C.C., «CAPORALI, Enrico», in Enciclopedia Italiana, I Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1938. Luca Pilone, «Enrico Caporali», in Dizionario biografico dei protestanti in Italia, Società di studi valdesi, sito studivaldesi.org. Filosofia Filosofo del XIX secoloFilosofi italiani Professore Como Todi Scrittori italiani del XX secoloPersonalità del protestantesimo.  LA NUOVA SCIENZA. Alcuni pedanti, non intendendo la sacra scienza dei Numeri, o dei Principii Universali, che Pitagora fece il centro del suo sistema, attribuirono a questo grande Maestro teorie confuse e assurde. Così gli studiosi, i quali non seppero discernere il pensiero Pitagorico dalle aggiunte e dalle non scientifiche interpretazioni che ne fnrono fatte dopo Pitagora, supposero che la radice e i rampolli della Antiquissima Italicorum Sapientia fossero ormai disseccati, e trascurarono l'Italo Maestro per andare ad abbeverarsi a fonti straniere. Con tutta fede dunque, e sicuro di fare opera veramente italiana, il Prof. Enrico Caporali, più di trentacinque anni fa, si ritirò nella misteriosa solitudine della sua villa presso Todi per dedicarsi tutto alla restaurazione del Pitagorismo tra il plauso e l'ammirazione dei migliori pensatori nostrani e stranieri. Redasse allora la Nuova Scienza e in seguito pubblicò altre opere fra le quali i volumi della Sapienza Italica presso questa Casa Editrice. La quale, avendo ora rilevato dall'eredità giacente dell'illu stre estinto, quel che rimaneva della sua prima opera suddetta, la presenta agli studiosi. La Nuova Scienza è composta di 25 spessi fascicoli in-8°, e va dal 1884 al 1892. Restano quarantasette copie dell'Obera completa e si vendono al prezzo di L. 125 ognuna. Si vendono anche separatamente alcuni fascicoli che possediamo in maggior numero, al prezzo di L. 5 ciascuno. Diamo qui i titoli delle principali dissertazioni contenute nella detta opera La Nuova Scienza: L'odierno pensiero Italiano. La Formula Pitagorica della Cosmica Evoluzione. L'Evoluzione anti-clericale Germanica nella disperazione. L'Evoluzione anticl. germ. negli errori finalisti. L'Evoluzione malin tesa e la sua negazione. Monismo Pitagorico antico. Perpetua voce umana— Commedia degli Spiriti. La psicogenia pitagorica di Pauthan . La sostanza impasticciata di Pozzo. Il principio Eraclitico con frontato col Pitagorico -- Pitagorismo di Bruno. La formula Pitagorica dell'Evoluzione Sociale. La Sapienza Italica mmfà i opera insigne del filosofo nella quale facendo rivivere il Pitagorismo alfa luce dello scibile moderno sì mira alla restaurazione della nazionale *coltura Casa Editrice " Atanòr „ - Todi 1914  La Natura secondo Pitagora ossia La progressiva concentrazione e sistemazione delle unità senzienti. Tov ò\ov oòpavóv àp|iovóav sivat xat àpt&fiov. Tutto l'iTiiiverso è numero e armonia. Pitagora. Oùx' fircstpog èaxl [isxa^oXr] où5s(iia oì)xs auvsx^SNiente può cambiare nell'indeterminato e nel continuo. Aristotele (Phys8).  La Sapienza Italica i La Natura secondo Pitagora opera insigne del filosofo Enrico Caporali il - nella quale facendo rivivere il Pitagorismo alla luce dello scibile moderno si mira alla restaurazione della nazionale coltura Con cenni storici su Pitagora e la sua Scuola Casa Editrice " Atanòr „ – Todi. MI STORICI SO PITAGORA E LA SUA SCUOLA. Pitagora, secondo Teopompo, Aristossene e Aristarco (citato da Clemente), e figlio di un gioielliere etrusco, che mercanteggia a Samo. La Pitonessa di Delfo, consultata mentre la sua madre e incinta, dice: Avrai un figlio che sarà utile a tutti gl’uomini, in tutti i tempi. Pitagora, fin dalla sua prima gioventù avido di scienza, segue le lezioni d’Ermodamate e quelle di Ferecide a Siro. Visita in Mileto Talete, l'iniziatore della filosofia, e per suo consiglio viaggiò in Egitto. A Memfi, presentato a quei sacerdoti d'Iside dal Faraone Amasis, al quale, dicesi, e stato raccomandato da Policrate il tiranno di Samo, e da essi ricevuto nel loro tempio e iniziato alle loro dottrine segrete. Così, durante gli anni di questa sua iniziazione, il saggio di Crotone puo bene internarsi in esse, e principalmente versarsi con ardore in quella sacra scienza del numero e dei principii universali, che egli fece di poi il centro del suo sistema e formida in un modo originale. Egli arriva agli alti gradi del tempio, ma, essendo avvenuta in questa epoca una ribellione in Egitto, dopo aver assistito al saccheggio dei santuarii e allo scempio compiuto su le opere millenarie dalle orde della plebe, e condotto insieme con altri adepti a Babilonia. A Babilonia accresce il suo sapere ed ha rivelati gli arcani dell'antica sapienza Caldea. Da qui ritorna a Samo, che un usurpatore straniero, dissoluto e crudele, ora tiranneggia, e volle subito fuggirne. Venne in Crotone, ove si stabilisce. Crotone, nel Golfo di Taranto, e, con Sibari, la città più fiorente d' Italia. Ora egli che ha attinto a sì pure fonti di filosofia e acquistato grande esperienza della vita, nauseato dalla indisciplinatezza delle democrazie, dalla insipienza dei altri filosofi, dall' ignoranza dei sacerdoti, dalla dissolutezza che venne a diffondersi, ha visione di un rinnovamento da effettuare fra gl’uomini. Onde stabilì di fondare una setta dalla quale usceno, non dei politicanti e dei sofisti, ma dei uomoni dall'animo nel vero senso della parola virile, e che e il nucleo, come il punto di partenza per la trasformazione graduale dell'organamento politico di Crotone, in corrispondenza al suo ideale filosofico. Secondo questo ideale, affinchè lo stato e ordinato armonicamente, dovesi conciliare il principio elettivo con un reggimento della cosa pubblica costituito per la selezione dell'intelligenza e della virtù. Sorse dunque a Cotrone il più grande istituto pedagogico di quei tempi, che è pur da considerarsi come il più nobile tentativo d'iniziazione laica che sia stato mai impreso; e in breve ha a fiorire in tal modo che, non solo nell’area, come a Metaponto, a Taranto, e più tardi a Eraclea, sono stabilite filiali, ma anche in altre parti d'Italia e principalmente in Etruria, la sacra terra donde il maestro e oriundo. Egli si circonda di scelti discepoli, e tutti seduce, poiché avviluppa di grazia l’austerità dei suoi insegnamenti. Essi doveno levarsi all'alba, adorare il sole, seguendo una dorica danza, quando il sole appare su l'orizzonte, passeggiare nel parco dell' istituto dopo le abluzioni di rigore, recarsi nel tempio di Apollo in silenzio, affinchè l'anima, così nella sua verginità, si raccoglia all'inizio del giorno. Indi, in ampie sale, venneno istruiti nella matematica, nell'astronomia, nella medicina e nelle scienze naturali, o nella politica, nella morale e nella religione, secondo le classi o gradi d'iniziazione, e in altre ore nella musica istrumentale e corale. A mezzogiorno, dopo la preghiera al sole, si fa un pasto frugale di pane, mele, noci e olive, e quindi si anda allo stadio per gli esercizi ginnastici, che tutti, fuor che la lotta e il pugilato, sono tenuti in onore. Poi si discute di amministrazione della città, di morale e di 'politica generale, e in fine si anda a cena, dove si mangia anche carne in piccola quantità e si beve vino, sedendo intorno a ogni tavolo in numero di X, poiché X è il numero perfetto. Durante la cena, si fa una lettura ad alta voce, e questa lettura e seguita da libere obiezioni e discussion. Poi si ricordano le regole dell' Istituto, e, cantando un inno ad Apollo, si anda a letto. Il vestito di tutti i discepoli era di bisso, a forma egiziana o etnisca. Pitagora ha due figli, Arimneste e Telangete. Arimneste e autore di prose e poesie morali. Telangete divenne più tardi il maestro di Empedocle di Girgenti e a lui trasmise i secreti della dottrina. Altro pitagorico fu il più celebre degli atleti, Milone di Crotone. Dall'Istituto pitagorico usceno anche geometri, medici, artisti, amministratori ed uomini politici ragguardevoli, che portano, sotto certi aspetti, la Magna Grecia al disopra della Grecia. Non si concede di entrare nell' Istituto a scolari di famiglie non onorate o di costumi cattivi. Fa per avere rifiutato un certo Cilone, ricchissimo, il quale desidera di far parte dell'Istituto, che Pitagora venne una sera assalito mentre sta in casa di Milone. E, cogliendo pretesto dal voto contrario che Pitagora da sulla distribuzione delle terre di Sibari, che i Crotoniati hanno conquistate, il suo nemico Olone induce la plebaglia a dare l'assalto all'Istituto, uccidendo e ferendo molti alunni. Pitagora si rifugia negli istituti filiali di Locri, di Taranto e di Metaponto, dove muore. Pitagora non crede nella metempsicosi, ma sol-tanto nella immortalità dell'anima razionale. Però permise che la metempsicosi dei Misteri Orfici e presentata al popolo come opportuna per spronare alla virtù ed impedire la delinquenza. Infatti egli non ha collegato in nessun modo la metempsicosi al suo sistema filosofico. Egli si sforzava sempre di liberare gli schiavi e di dare agli umili cittadini il sentimento della dignità morale, e dice che la virtù non è perfetta se non è accompagnata dalla fede nel Sole, perchè l'ordine universale si regge sulla mente divina ordinatrice e perchè il Sole solo può dare alla morale sanzioni efficaci. Diogene Laerzio narra che Pitagora scrive tre saggi, uno sulla Educazione, uno sulla Politica ed il terzo più importante sulla Natura. Ma andarono tutti e tre perduti e ne rimangono soltanto i frammenti citati da Aristotele e da altri filosofi posteriori. Fra i discepoli di Pitagora si distingueno Archita di Taranto, Timeo di Locri, Ocello di Lucania, Ecfanto di Siracusa, Filolao, Eudossio, Alcmeone, Epicarmo ed Ipparco. Quando Platone viaggia in Italia, e Archita di Taranto che gì' insegna la dottrina del numerante. Ma Platone la guasta nell' intrecciarla alla sua teoria delle idee eterne ossia concetti gènerali delle cose ch'egli suppone esistere da se, indipendenti e separati dalle cose. Nella filiale pitagorica di Girgenti sorge Empedocle, il quale abbraccia con ardore lo studio della Natura comune ai Pitagorici. Ma mentre Empedocle osserva  da vicino una eruzione dell’Etna soccombette asfissiato. Nella filiale pitagorica di Siracusa brilla Archimede, il fondatore della idrostatica, il quale scopre anche la quadratura della parabola, oggi ancora ammirata dai Matematici. Ma qual era il carattere della filosofia di questa setta di Crotone? Pitagora e l’enciclopedista del suo tempo. Fonda la Filosofia Italica. Come fa notare Zeller gl’errori di Platone e di Aristotele erano quelli del popolo ellenico, troppo idealista e portato a giudicare le cose colla fantasia, ed a studiare poco la natura. Gl’ellenici sono artisti e poeti, non filosofi o scienziati. Appena hanno fatto dell’osservazioni superficiali, volano a stabilire delle massime generali. Invece Pitagora e in stretto senso uno scienziato, un appassionato scrutatore della natura, sicché puo fondare il Naturalismo Italiano. Da per primo il nome alla filosofia, come lo da al mondo, chiamandolo “cosmo”, che vuol dire ‘ordine’, vale a dire che porta in se la gran legge della tendenza di le IV elementi a formare più alta unità: in modo che ogni particella sta in armonia col Tutto ed è fatta da una forza numerante. L'Universo, secondo Pitagora, è la manifestazione dell’energia divina, che si contrappone i punti di forza o atomi, i quali, derivando da una potentissima Unità, tendono a riunirsi ed a ritornare alla unità primitiva, sicché tutte le cose si fanno dal di dentro al di fuori. E un Monismo del Noumenon vivente in ogni individuo, che fa i fenomeni della Sensazione e del Moto. Gli Organismi sono governati dal Sentimento, trovando piacere nell’assurgere a più alta Unità, e dolore nello scomporsi. Anche la Natura inorganica sente e vuole il suo sviluppo, il suo godimento, benché non sia provvista di nervi. Ma è da essa e dalla sua rudimentale sensazione e volontà, che a poco a poco, attraverso la evoluzione delle attrazioni molecolari chimiche dei colloidi, si vanno formando, per successiva divisione del lavoro, gl’organi ed i nervi. Egli precisa con ripetuti esperimenti il rapporto fra la lunghezza, il diametro e la tensione delle corde sonore e la qualità dei suoni; indovina per il primo che la terra è sferica e gira attorno al sole, che le stelle sono altrettanti soli in movimento. Scopre il teorema sulle proprietà del quadrato della ipotenusa nel triangolo rettangolo. Calcola la teoria degl’ isoperimetri, dimostrando non commensurabile il rapporto fra la diagonale ed un lato del quadrato. Introduce nell’aritmetica il sistema decimale X, e nella musica l'ottava, VIII, la quarta IV, e la quinta, V.. Il filosofo Lucio (in Plutarco Symp.) narra che gli’eruschi, che stimano Pitagora quanto i Greci, osservano i simboli di Pitagora. Ad un acuto osservatore come Pitagora non puo sfuggire la legge di attrazione e coesione che forma e tiene assieme tutti i corpi gazosi, liquidi e Egli ne supponeva la causa nella tendenza di tutti gli elementi a riunirsi ed a formare più alta Unità, ed invano i fisici moderni ne cercarono la causa in pretese pressioni dell'etere cosmico. Empedocle di Girgenti la chiama poeticamente “amore universale”, contraponendovi l'odio o repulsione, che avviene contro tutto ciò che disturba il piacere dell'unione. Empedocle pensa la Natura organica, piante ed animali, come un processo di crescente unificazione e sistemazione -- benché non conoscesse la cellula -- e la malattia e la morte come un processo di dissoluzione delle particelle senzienti. L'Essere non è per Empedocle in continuo flusso, il diventare non è un formarsi di cose nuove -- come pretendeva Eraclito, l’eleno che emula Pitagora), ma è l'unirsi delle particelle, lo ascendere a pnu alta Unità, il formarsi dai molti l'Uno: mentre il morire discioglie la Unità nella Molteplicità. Era bene istruito del pensiero pitagorico Anassagora, il primo filosofo che separa lo spirito dalla materia, e che suppose le anime degli animali e degli uomini come formate di Omeomerie, specie di Numeranti, che separano, distinguono, scelgono, conoscono le cose utili e respingono le inutili al bene dell'individuo e della specie. Ma i suoi discepoli Socrate e Platone intesero poco il pitagorismo, in modo che dopo Anassagora la filosofìa d’Atene si allontana dalla Italica. Pitagora e il genio tutelare del pensiero laico Italiano, e da sempre il midollo alla coltura nazionale. E grazie a Pitagora che nell'antichità e nel Medio Evo l'Italia non e una provincia della filosofia ellenica. E grazie a Pitagora che un po' alla volta e sorpassato il Platonismo ed e vinto l'Aristotelismo. Nel Rinascimento con le invasioni dei barbari dal Nord si oscura ogni luce di pensiero. Ma la idea pitagorica torna a brillare per la prima e a dare impulso alla nuova filosofia italiana grazie a Cuza, educato in Italia. Cuza scrive: «Ratio est mensura quae omnia in multitudinem, magnitudinemque resolvit. Mens est viva mensura quae mensurando alia, sui capacitatem atiingit. La mente è la unità che si esplica nella diversità. Essa discerne confrontando e misurando. L' investigazione della Natura, che era stata lo scopo principale della setta Pitagorica venne promossa dall'Accademia di Cosenza, a 40 miglia da Cotrone, fondata da Parrasio - dalla quale sorge Telesio che scrive: « Della natura delle cose secondo i propri principii » -, dall'apertura in Padova del primo Orto Botanico, dall’Aliatisi botanica iniziata nei giardini di Alfonso aVEsie, dall’Accademie dei Lincei a Roma, del Cimento a Firenze, dei Segreti a Napoli con Porta, le quali servirono di stimolo e di esempio ai popoli di oltralpe per la fondazione delle loro accademie maggiori. Bruno sostenne poi contro i filosofi del Lizio che gli elementi medesimi della natura si ritrovano in terra e in cielo, indovina la trasformazione degli organi animali secondo l'uso che se ne fa, nota che la Unità domina nell'uomo e che alla sua Monade centrale convergono quelle periferiche del corpo, sicché l'organismo è come un dispiegarsi dell'anima. Lontano dalla luce del Pitagorismo, Cartesio trasse per alcuni anni in errore col definire la Materia come Res extensa, confondendola con lo Spazio, fantasticandola come piena di vortici, credendola sostanziale. Ma la verità Pitagorica della Attrazione e dimostrata da Newton e il newtoniano Boscovich concepì gli Atomi come punti di forza. Ad essa furono poi aggiunte l'attrazione molecolare chimica, elettrica e magnetica, le quali danno ragione agli antichi Pitagorici e ad Empedocle. Supponiamo che Pitagora siasi istruito dello scibile moderno, e consideriamo la Natura dal punto di vista pitagorico, che è il più fecondo per intenderne le leggi. La Nafta secondo Pilajora La progressiva concentrazione e sistemazioni delie unità senzienti. Noi fondiamo la filosofìa sopra la totalità del- l'Esperienza, ossia stiamo sempre sulla base dei fatti, come li prende, li elabora e li interpreta il nostro stromento del conoscere (lì. Nessuno vorrà ammettere che una volta non ci fosse niente: e che dal Niente venisse fuori l'Essere. Ex nihilo nihil. L’Hegelismo, che, invece di stare ai fatti, fonda la filosofìa sui Concetti, e quindi prende il Concetto del Nulla come equipollente a quello del- VEssere li ha sposati per farne uscire il Diventare: ma per noi il Nulla è un vero Niente e lo la- sciamo nei cervelli che lo pensano come reale. Dunque un Essere vi è sempre stato. Che questo essere eterno fosse molteplice, nes- suno che guardi il mondo e conosca la Unità delle forze fisiche che si manifesta, non solo sulla (1) Non bisogna esagerare il bisogno di gnoseologia al punto di farla precedere ad ogni studio filosofico. Di gnoseologia parleremo nel Volume L' uomo secondo Pitagora di prossima pubblicazione. Coloro che non vogliono filo- sofare senza prima determinare i confini della ragione, somigliano a colui che non vuol entrare nell'acqua, se prima non ha imparato a nuotare. Terra, ma in tutti i 50 milioni di stelle visibili nelle notti serene (anche in quelle più lontane la cui luce impiega più di diecimila anni per ar- rivarci, quando si studiano colFanalisi spettrale) nessuno potrà affermarlo. Dunque YEssere eterno era Uno. Che cosa era questo Essere uno eterno? Ardigò dice che era la Sostanza Psicofisica, ossia psiche (unità), e poi forza materiale (molteplicità). E così può essere. Nel voi. IV. delle sue opere (pag. 270) egli ci dice che questo primo Essere ha cominciato a sdoppiarsi in Spazio e Tempo, per poter fare la esteriorità, ossia il Mondo: ed aggiunge che lo spazio era allora convertibile nel tempo e viceversa, senza dirci a quanti anni, mesi, giorni ed ore corrisponda un determinato spazio. Noi c'inchi- niamo al prof. Ardigò per questa bella trovata, la più positiva e la più radicale della sua filosofìa, così immaginosa, che la bellissima Cerezada, per divertire il potente sultano Sciariar nelle Mille ed una notte, non avrebbe saputo inventare. Il male si è che (se fosse vera la convertibilità dello spazio nel tempo e viceversa), sarebbe impossibile la Natura. Il Senatore B. Croce poi, di natura non ne vuol sapere affatto e nel gennaio 1909 scrisse nella sua Critica che la filosofia può abolire la natura (1). Questa è fatta di sensazioni, di senti- menti, di volontà, di movimenti, dei quali è dif- (1) S'intende che egli non pretende di abolire la Natura, bensì, come dice a pag. 75, il concetto di Natura. E la filosofia ha da essere tutta dello spirito, senza impicciarsi di Natura. fìcile formarsi concetti esatti, e si richiede, per intenderla, uno studio vastissimo e profondo. Sarebbe comodissimo di risparmiarlo. Le scienze naturali, dice il Croce, sono fatte con concetti sbagliati, e la pratica che ne consegue, è fatta di volere e di azione, ossia di soggetto fatto oggetto. Sia come ipostasi della scienza, sia come forma pratica dello spirito, che diventa volontà ed azione, e quindi oggetto, è meglio tagliar corto, e considerare come abolito il Concetto della Natura. Fino ad ora nessun filosofo, neppur Hegel, ha potuto ^fare a meno di tentare una Filosofìa della Natura. E vero che sarebbe stato prudente abolirla, come la volpe dichiarava non matura quell'uva, alla quale non poteva arrivare. Se vi è un lettore inimicato contro la Natura, potrà con essa conciliarsi in questo Libro, nel quale cercheremo di penetrare appunto nella Natura. Avvertiamo che V Essere eterno ed uno ha dovuto essere attivo sempre, estrinsecandosi (poiché essere vuol dire essere attivo) pensando prima i due sistemi di punti e di istanti (lo Spazio ed il Tempo) e poi contrapponendosi i punti di energia. Dunque il nostro studio deve cominciare da queste estrinsecazioni primissime dell'Essere Eterno; vale a dire la matematica in spazio e tempo, e la fisica in atomi eterei ed atomi ponderali. La fisiologia dei sensi ha mostrato come dal tatto, dalla vista, dal senso muscolare sorga in noi l'idea dello spazio e le condizioni in cui questa intuizione si forma ancora nei bambini. Questa esperienza è sempre diretta dalla Unità di coscienza. Altro è la intuizione di spazio e il concetto dello spazio, ed altro è lo Spazio, ossia il fondo eterno. Se un centimetro quadrato contiene 1.000.000 di punti, mezzo centimetro quadrato dovrebbe con- tenerne mezzo milione. Ma non si può ficcarvene dentro altri milioni allo infinito; altrimenti i punti si toccano e diventano di due o tre un punto solo. Chi nega la realtà dello spazio, nega la realtà del mondo, che è tutto esteriorità. Se fosse puramente nostro subbiettivo e continuo, non vi sarebbero punti fissi, uno fuori dell'altro, non vi sarebbe alcun luogo; quindi il moto, cioè il passaggio di un corpo da un luogo ad un altro, non avrebbe realtà. Zenone di Elea infatti negava la realtà del moto, perchè lo riteneva continuo, come spazio e tempo, e diceva che, se il veloce Achille sta un passo dietro la tartaruga, non la potrà mai raggiungere. Ma quando si considera lo spazio come un si- stema bene connesso di punti pensati dall'Essere Divino e quindi reali, e il tempo come un seguito di istanti, divisi da minimi intervalli, allora si ca- pisce che il moto reale è possibile, perchè il corpo che si muove va a scatti, cessando di essere nel punto dove era, per cominciare ad essere laddove non era. Altrimenti un corpo in moto non sarebbe in nessun luogo. Celere è il moto i cui intervalli o riposi sono brevi. Lento è quel moto i cui in- tervalli sono meno brevi. Lo spazio ed il tempo non hanno energia motrice, ma non sono nulli ed hanno una realtà numerica. E siccome il Numero è la realtà maggiore della Logica, come dimostra Hegel, così la loro realtà è certa (1). Kant suppose che noi creassimo lo spazio ed il tempo, ossia che fossero come occhiali colorati o nostre intuizioni che ci obbligassero a vedere e toccare le cose esteriori in un modo subbiettivo della nostra coscienza. Ipotesi resa impossibile oggidì, giacche le fotografìe e le fonografìe ci di- mostrano che le macchine fotografiche vedono le cose come noi e notano così le divisioni dello spazio come noi, e le macchine fonografiche dividono il tempo come i nostri orecchi, riproducendo le vibrazioni fonografate e quindi i suoni. È vero che riconosciamo dapprima lo spazio ed il tempo em- (1) Lo spazio, il tempo, gli atomi, sono la molteplicità del mondo che non può essere fatta se non da una Unità spirituale. Se tutte le cose hanno relazioni numeriche tra loro, la sostanza comune numerica dello spazio, del tempo e delle minime unità atomiche, va considerata nella Unità Cosmica.piricamente: e che per i bambini non sono altro che forme della distanza degli oggetti voluti e del moto necessario per raggiungerli. Più della vista e del tatto è il senso muscolare, ossia il senso dinamico della forza ricevuta e spesa, il senso del moto, e della resistenza, che ci dà lo spazio ed il tempo: è questo il primo senso a comparire nella evoluzione animale e nel feto. La realtà dello spazio è il da mihi ubi constitam della filosofìa scientifica. Nella « Teoria del cielo » Kant riconobbe la realtà dello spazio, e lo disse un assoluto, indi- pendente dalla materia, anzi base della possibilità di sviluppo delle forze, eterno, infinito, vuoto: e aggiungeva « dubito che se ne sia mai data una « definizione adeguata. Le determinazioni dello « spazio non sono conseguenze del posto che oc- « cupano reciprocamente gli atomi, ma queste sono « conseguenze dello spazio, e le diversità nei corpi si « riferiscono sempre allo spazio assoluto, che non è « oggetto di sensazione, ma è una idea fondamen- « tale, la quale rende possibile tutte le altre. Di « modo che non si può percepire un corpo se non in « relazioni spaziali con altri corpi ». Più tardi però Kant concepì spazio e tempo come forme subiettive della visione e dell' intelletto, con le quali noi mettiamo ordine nei fenomeni e fu in questa stra- nezza seguito dallo Schopenhauer. Non però dagli altri maggiori pensatori della Germania, non da Jacóbi, da Schelling, da Hegel, da Herbart, da Beneke, da Schleiermacher, da Bitter, da Weisse, da Ueberweg, da Wundt, da Hartmann, da Zeller, da Trendelenburg, da Lazarus) da Dilhring, da Baumann. Il danese Kromann ed altri provarono che le difficoltà che Kant trovava nello spazio obbiettivo, rimangono anche se lo spazio fosse meramente subbiettivo. Alcuni matematici, come Riemann, credettero che, oltre al nostro, vi fosse uno spazio a molte dimensioni. Ma, se lo spazio avesse più di tre dimensioni (larghezza, lunghezza e profondità), tutti i corpi varerebbero di massa e di volume. Ogni azione a distanza ritornerebbe sopra se stessa. La gravitazione sarebbe proporzionale inversamente del cubo, e non già del quadrato della distanza, come dimostrò A. Wiessner. Le leggi di gravità stabilite dal genio di Isacco Newton ci provano che lo spazio a tre dimensioni è il solo reale; giacche la irradiazione degli atomi si ripartisce sulla periferia interna delle sfere; appunto per il rapporto inverso del quadrato della distanza. E se lo spazio avesse due sole dimensioni, si ripartirebbe sulla periferia interna dei circoli. In altre ipotesi la gravitazione sarebbe in rapporto inverso di ogni altra funzione delle distanze. — Anche i tre assi perpendicolari dei cristalli ed altre leggi fisiche, ci provano che lo spazio reale ha tre sole dimensioni. E lo dimostra anche il chiaris- simo professore Federico Enriquez trattando della Geometria non Euclidea e non Archimedea nei suoi « Problemi della scienza » Bologna 1905. La realtà dello spazio assoluto a tre dimensioni, è tanto sicura, che il maggior fisico del nostro tempo sir W. Thomson (creato poi Lord Kelvin), mostrò che si deve prenderlo per base di tutte le misure (1). (1) Abbiamo riassunto le ragioni e le proposte del Thomson nel volume quarto della nostra Nuova Scienza pa- gina 81 a 84.  La realtà del tempo poi che (come dice Neioton) « fhixus mutari nequit, equabiliter fhlit » è dimostrata vera da molte leggi. Se non vi fosse un centro immobile nell'Universo, tutta la meccanica serebbe fallace. Se non fosse reale il Moto assoluto, addio astronomia. Tutto cangia o di luogo, o di forma, o di qualità, e nessun cangiamento può av- venire se il tempo non fosse una realtà. Si potrebbe dubitare della realtà del tempo soltanto se niente si cambiasse. Non sono inerti spazio e tempo, perchè assoggettano, come sistemi inalterabili di punti e di istanti, a regole certe i moti, le azioni e le resistenze. Lo spazio ed il tempo sono così obbiettivi come subiettivi, sono i due Oceani della possibile espansione di qualsiasi energia. Il fondo eterno non può essere che uno. Lo implica la interazione delle forze; lo implica il coesistere di un numero enorme di scopi e di azioni e di moti che si incontrano e lottano fra loro senza confusione. Se non vi fosse la sistemazione dei punti di spazio e degli istanti di tempo, sistemazione che è tutta dovuta alla Unità Reale eterna {Numerorum Fons di Giordano Bruno) discontinuando il tempo e lo spazio, il Moto che è l'espansione della Energia in questi due Oceani, non avrebbe mai precisione; anzi non sarebbe possibile. La possibilità dei coesistenti (spazio) e dei successivi (tempo) rende facile l'azione dei punti di forza. — Spazio e Tempo esistono per se come sistemi di termini puntuali indivisibili (1) e tra i termini puntuali ci (lì Una superfìcie è definita lunghezza e larghezza, senza profondità. Una linea lunghezza, senza larghezza, ne profondità. Un punto, ciò che manca di larghezza, di sono intervalli infinitesimi, ma non nulli. Se fos- sero nulli non sarebbe possibile il moto e specialmente il moto curvilineo, die si calcola col diffe- renziale. Infatti una curva cambia continuamente di direzione, con grandezze infinitesime, che cre- scono o diminuiscono. Il differenziale è un valore che limita e non una grandezza numerata. Per variare la direzione in una curva qualsiasi, vi è bi- sogno di un nuovo impulso, sia pure infinitesimo, ma non nullo. Possiamo pensare come infiniti lo spazio ed il tempo, ma lo infinito non è mai una realtà. La loro connessione e tale che sembrano continui e si trattano come tali; nondimeno i punti dello spazio e gl'istanti del tempo sono realmente fuori gli uni degli altri e quindi numerabili, senza tener conto degl' intervalli infinitesimi (1). Ogni punto è numelunghezza e di profondità. Se i punti, le linee, le superficie non avessero per limiti dei punti indivisibili, questi limiti sarebbero composti di molte parti, di cui nessuna sarebbe l' ultima; non vi sarebbe alcuna figura definita, non vi sarebbe linea lunga e linea corta perchè tutte sarebbero composte di parti infinite, mentre in realtà la linea corta è quella composta di minor numero di punti. Ecco la realtà dello spazio: sta nell'essere numerabile. Il tempo poi è composto di istanti indivisibili, perchè se non si potesse arrivare alla fine della sua divisione, vi sarebbe un numero infinito di istanti (ossia di elementi del tempo) contemporaneamente. Locchè è assurdo. Il tempo è fatto dalla Unità cosmica e intuito dalla nostra Unità intima e non è un concetto empirico. Senza l'Unità in- tima non riveleremmo il Moto e il cambiamento delle cose tutte, come lo rilevano anche gli animali, perchè non si confronta se non vi è l' Uno vivente. Gli istanti sono reali e numerabili e fanno la realtà del Tempo. (1) Contro questi intervalli Pascal diceva che i punti dello spazio o si toccano interamente e allora invece di rato, ogni istante del pari, sono tutti diversi e discernibili, hanno tutti una esistenza separata e permettono di evitare la confusione nel Cosmo e nella Scienza. Cartesio rinnovò la geometria cambiando la qualità, ossia la forma dei corpi, in quantità; riducendo la forma alla posizione e determinando la posizione con le linee coordinate potè sostituire alla misura diretta la indiretta e trovare le quadrature, le cubature ecc. Egli applicò l'al- gebra alla geometria, osservando che ogni spazio chiuso può determinarsi dalla lunghezza delle li- nee perpendicolari abbassate su due linee rette o su tre piani che si taglino nello stesso punto ad angolo retto. Così le linee e le superfìcie curve possono determinarsi dalle loro equazioni, in cui le relazioni variabili sono combinate con quantità costanti, ed i numeri servono a constatare le proprietà dello spazio. Il che sarebbe impossibile se lo spazio non fosse realmente composto di punti separati indivisibili. Inversamente, le proprietà dello spazio, può dirsi che dipendano dalle proprietà del numero; sicché lo spazio si risolve in un sistema di numeri, pensato dalla Unità suprema del Cosmo. Galilei scoprendo le leggi d' inerzia, scoprì an- che la necessità del moto assoluto, almeno nel calcolo, e quindi del Tempo assoluto. — Kuno Fischer ha dimostrato (contro Trendelenburg) che il moto è preceduto e spiegato dal tempo e non gedue sono uno: o si toccano soltanto in parte e allora sono divisibili. E sbagliava, perchè non sono circoli, ma punti e non hanno parti, ma essendo fuori l'uno dell'altro non si toccano. L'estensione dello spazio deriva appunto da questo, che non si toccano.nera né il concetto ne la intuizione pura del Tempo. Nei suoi « Philosophiae naturalis Principia », 1714, (Def. Vili) Newton scrive: «Eadem est Buratto seu perseverantia rerum, sive motus sint celeres, sive tardi, sive nulli ». Il tempo sarebbe il medesimo anche se l' Universo e i suoi, moti fossero affatto diversi da quelli che sono. È un pensiero della Eagione eterna di cui Descartes (Lettera a Vatier nov. 1643) scriveva: « Tempus non est affectio rerum sed modus cogitandi ». Aristotile. Phys. IV. 10 chiama àpi&iioc, x^viqaeos ossia numero del moto. 11 tempo è eguale da per tutto e questa sua ubi- quità non permette di prenderlo per una linea, benché sugli orologi e nelle clessidre lo si misuri sopra una linea. Newton dice che il tempo è un sistema d' istanti che non dipende dalla nostra coscienza. Ogni fi- nalità si appoggia sulla idea del tempo, senza la quale niente si farebbe, non potendo aspettarsi effetto alcuno dalle proprie azioni. La legge d' inerzia prova che il moto è assoluto come lo spazio ed il tempo. Essa è dimostrata vera da tutte le esperienze (benché sia impossibile la esperienza fondamentale perché stiamo in un pianeta del sistema solare e non nel centro universale). Essa prova la realtà dello spazio e del tempo e la loro uniformità. Che lo spazio ed il tempo per noi sieno concetti a priori o sieno in- tuizioni, poco importa. Quello che importa di sa- pere è quello che sono in se stessi. Sono due sistemi di punti e di istanti separati e discernibili, perchè numerati. La realtà che hanno è minima, mancando di energia, ma se non vi fosse, si avrebbe il caos e la indeterminazione. Spinoza diceva: « Quo plus realitatis aut Esse unaquaeque res habet, eo plura attributa ei competunt » e questi due sistemi di punti e d'istanti non hanno altro attributo che l'ordine, il mimerò, la realtà dell' Essere puro, del Numero. Lo esigono la Meccanica, l' Astronomia e tutte le scienze esatte. Al principio delle cose non vi poteva mai essere (come supposero parecchi Metafìsici, ed anche YArdigò) Vessere indeterminato. Come prova il grande matematico Cantor, lo spazio ed il tempo sono due oceani di punti e di istanti nei quali anzitutto si estrinseca l'Essere Uno Reale. Il Numero è così alla genesi di ogni possibile energia. Pitagora, dando al Mondo il nome di xoajjto? (ossia ordine) comprese che il generatore dell'ordine era il Numero. E Leibnitz scrisse che « omnibus ex nihilo ducendis sufficit unum ». La seconda estrinsecazione dell' Essere Primo (Atomi eterei e ponderali) Come non sono continui lo spazio ed il tempo, così non è continua la Materia (come crede Ardigò)1 e se lo fosse, non opporrebbe resistenza, come dimostrarono Poisson e Cauchy. La forma sferica non basterebbe all'equilibrio di un corpo di materia continua; una siffatta materia si dissi- perebbe nello spazio: sarebbe una specie di atmosfera diffusa allo infinito, con strati concentrici, sempre più rarefatti. Parti di numero indeterminato, mai non potrebbero fare un tutto di numero determinato, come dimostrò fin dal 1844 Saint-Venant. Nella « Révue du mois » 1906, Jean Perrin provò la discontinuità della materia con la radioattività e con altri fatti. Ciò che è sostanziale non può concepirsi come indeterminato o indefinito, quindi l' indistinto di Ardigò è un concetto inapplicabile in fìsica. Tutte le leggi fisiche e chi- miche ci provano concordi che gli atomi serbano sempre proporzioni definite nello scambiare le loro forze (attrazione, calorici specifici, equivalenti elettrici e chimici, ecc.). Il Secchi (« Unità nelle forze fìsiche » ) fa os- servare che teoricamente l'equivalente definito e multiplo esige che la materia sia composta di centri distinti e semplici. Questo lo aveva già in- tuito Pitagora, quando distinse nettamente il nu- merato o numero concettuale dalla Unità Reale o sostanziale: e fu svolto il suo pensiero da Ecfante di Siracusa, il quale mostrò che le Unità reali erano Atomi, intendendoli come unità immateriali, esistenti a se, come punti di energia propria se- movente, prevenendo così le obbiezioni degli Eleatici contro la possibilità del moto. Spazio e tempo sono le condizioni numeriche nelle quali ci si presentano la materia e il moto nelle esperienze di forza, mentre l'energia atomica, come vedremo, sente e vuole e fa il moto opponendo alle forze incidenti la forza propria della impenetrabilità. L' Essere atomico non si lascia annichilire. Il dire che persiste la forza, la volontà, ossia una attività, una realtà indeterminata, è vago e per nulla scientifico, se non si dice che è la medesima in quantità. Bisogna dire che quello che persiste è Vertergià, la Unità Reale. Il carattere distintivo della scienza italica fu di eliminare l'in- determinato, e di cercare il concreto misurabile. Il Moto non è altro che un rapporto di spazio e di tempo e non ha esistenza in se stesso. La realtà sta nell' Atomo senziente e volente. Lo ammise il Taine nel 1892 e lo aveva, dodici anni prima, ammesso anche Herbert Spencer scrivendo nella Revue Philosophique de la France « La forza « cosmica non può somigliare alla nostra: ma sic- « come la genera, devono essere modi diversi della « stessa energia. Il potere manifestato in tutte le « cose è alla fine quello che in noi scaturisce sotto «forma di coscienza. La materia vive in ogni « Atomo per se stessa. Questo centro, questa Unità « interiore di tutte le cose e inaccessibile alla nostra « coscienza: le scienze studiano i loro fenomeni « e non la realtà conscia che li fa. Ma siccome « noi dobbiamo sempre pensare la manifestazione « esterna nei termini della Energia intima, così, « (conclude l'eminente filosofo inglese) si arriva « ad un concetto psichico degli Àtomi ». Quando si dice che gli atomi sentono un tantino, è inutile spiegare che non si parla dei nostri sensi, che sono frutto di lunghissima evoluzione, nella quale gradualmente si sono accmnunati il sentire ed il volere di milioni di Atomi, dividendosi il la- voro fisiologico, e formando così organi perfezionati. Ma si intende che gli Atomi debbano avere il solo senso dinamico (o della forza fondamentale che tende a formare più alta unità). Infatti la coe- sione è universale e non è mai un moto, ne fatta da moti esterni. E se viene disturbata, fa il moto termico o calorico e la elettricità dinamica. In al- — 32 — tre parole si parla di quella sensazione primitiva minima dell' Èssere in se, dalla quale derivano tutte le altre più complicate e più raffinate della chimica e della biologia. Quando la violenza del verito fa accavallare le onde del mare, un buon Capitano (come ce lo de- scrive l'ammiraglio francese Cloué) fa portare in- torno i sacchi di telaforte, pieni di stoppa imbevuta di olio di pesce, di foche o di marsuini, fa forare con aghi da vele i sacchi, legandoli alla poppa o alla prora, non mai più vicini di dieci metri fra loro. Ogni ora escono da tutti i sacchi da due a tre litri di olio, formando quasi una strada piana, larga 50 a 80 metri, che manda lembi di olio fino a 400 o 500 metri ai due lati della nave. Questa pellicola di olio che si diffonde sul mare e calma le onde furiose, non può mai essere piegata dal vento, per quanto sia veemente. Eppure questa pellicola ha lo spessore di i /QQ, 0QQ di millimetro (poco più delle bolle di acqua saponata), e basta a far cambiare la direzione alle molecole dell'acqua che arrivano con impeto. E perchè? Unicamente per la forza di coesione delle minime molecole dell'olio. Il Cloué ha avuto più di duecento rapporti concludenti da varie società di salvataggio, da molti capitani di lungo corso, che attra- versano periodicamente 1' Oceano Atlantico. La coesione è dunque una gran forza, se in una pellicola poco più grossa della bolla di sapone può arrestare i marosi in burrasca ! ! Ed è una forza indipendente da qualsiasi altra, che non deriva da cause meccaniche, ma unicamente dalla sensazione dinamica, dal piacere di unirsi delle molecole di olio. L'atomo di una goccia di acqua non vede, non ode, non ha ne palato, ne olfatto, ne udito, né vista, ne tatto; ma ha bensì il senso rudimentale, dal quale (con lunga evoluzione) uscì il tatto chi- mico e quello delle cellule degli organismi inferiori. E quando milioni di atomi fanno la goccia di acqua senza esserci costretti da alcun moto, da nessuna pressione di etere (come fu constatato), la fanno godendo, altrimenti non la farebbero. Il maggior neocritico tedesco, il Wundt, con- cepiva gli atomi come volontà elementari, come es- seri attivi che sentono (benché più semplicemente di noi): e li aveva concepiti così anche Antonio Rosmini, come si vedrà nel terzo Volume. Materia inerte non esiste che in apparenza. « Instar arcus tensi, qui non indigent stimulo alieno, sed sola suòlatione impedimenti» diceva Leibnitz. La Materia è un Concetto vuoto di una cosa che la Scolastica credeva sostanziale, che non ha qualità propria, ma si supponeva servisse di base alle forze, le quali sarebbero state (secondo gli scolastici) meri accidenti: mentre sono le vere realtà. La Materia (dice Righi) ha per proprietà distintiva Vinerzia; e gli elettroni (o atomi veri), benché non sieno materiali, perchè le loro masse crescono colla velocità (Moderna Teoria dei fenomeni fisici, 1907, pag. 234), la mostrano in molti casi, quando stanno fermi, come punti di forza disposti simmetricamente intorno ad un centro positivo; ma in moltissimi casi non la mostrano, cambiando il modo di sentire e di volere. La cosa reale non può essere che un sistema di punti di energia senziente. Anche nell'urto meccanico, il corpo urtato si muove per una intiina reazione, ossia perchè le molecole ritornano al posto in cui trovavano la coesione gradita. Nessuno misura la Materia se non come peso, massa o volume: di cui i primi due si risolvono in forze e il terzo in spazio occupato dalle forze. Gli atomi sono punti, ma fanno la massa e la densità, perchè vi è fra loro dello spazio, anche nei liquidi e nei solidi: ciascuno esiste in sé, e persistendo in relazioni diverse, si sviluppa in molteplice. La causa del moto è sempre intima, nella sensazione delle forze. Gli atomi veri che il prof. Stones ha chiamato Elettroni, non sono estesi, perchè, se fossero estesi, sarebbero divisibili: ma sono punti di energia, che irradiano nell'Etere il quale è pure discontinuo e (secondo Helm e Vogt) darebbe origine agli Elettroni. Invece di Materia, si dica dunque Corpo, vale a dire complesso di energie: e si lasci la Materia alla scienza morta di Aristotile e degli scolastici medioevali e moderni. L' Energia di qualsiasi specie si trasforma con- servando il suo valore numerico: ogni Energia è potenziale rispetto a quella in cui si trasforma. L'Energia è sempre misurabile ed è l'unica che ci interessa. Si compra la materia come la- boratorio di energia. L'Elettrica ha un valore commerciale, dunque è realissima, benché la parte materiale degli impianti elettrici non si alteri, né diminuisca col consumo. Sembra che il calore sia energia cinetica, ma non si può trovare la sua potenziale, se non è nel disturbo della coesione, che è un modo di avvicinarsi godendo l'armonia. Nessuno sa se la Elettricità sia energia cinetica oppure Energia potenziale: non è fatta dal movimento dagli atomi complessi di Thomson, ma soltanto dal moto degli Elettroni. Questi sono punti di forza senza nucleo materiale, senza caput mor- tuum che li porti, come la terra va attorno al sole senza essere portata dall'Elefante o dalla tartaruga degli Indiani. « Omnis Ens, aut in se, aut in alio est » diceva Spinoza e gli Atomi sono in se, elementi psichici che non si lasciano distruggere e se disturbati reagiscono. Lotze osserva che la reazione non è mai simile all'azione, ne Veffetto somiglia alla causa, almeno nella qualità. Chi è colpito si difende in modo diverso (Microcosmos I 165 a 168). E Lasson filosofo di non minor valore del Lotze, aggiunge: « Non esistono cose meramente oggettive, passive, esterne». Una energia reale (osserva Guyau) deve avere un modo interno di essere: un appetito, una sensazione rudimentale. Così pensarono eminenti fisici (oltre ai filosofi), quali furono: G. Bruno, Leibnitz, Kant, Boscowich, Maupertius, Cauchy, Moigno, Ampère, Faraday, Tyndall, Zóllner, Fechner, Wundt, Haeckel, Delboeuf, Cournot, Cope, Vacherot, Fouillée, Preyer, Ostwald, Mach (1). Nella sua « Mechanik in ihrer Entwickelung » ossia « La meccanica nel suo sviluppo, il Mach scriveva che « La mitologia Meccanica è sbagliata. (1) Il Marchesini e gli altri discepoli di Ardigò credono che gli Atomi siano materiali e si affannano a combattere la falange dei, veri pensatori di cui qui abbiamo dato alcuni nomi. E giusto però osservare che hanno male inteso Ardigò, il quale scrisse che « la Materia è Pensiero ». S'intende non dei sassi, né dell'uomo, ma della Sostanza Psicofìsica, di quella divinità inconscia dello Schelling ch'egli chiamò V Indistinto. - 36 - « La nostra fame non è molto diversa dal bisogno « di combinarsi delle molecole. La nostra Volontà « non è molto diversa dalla pressione del tetto « sulle pareti di una casa ». E Kromann, filosofo di Copenhagen (Unsere Natur Erkentniss) osserva: « se l'Atomo fosse ma- « teriale, non opererebbe se non nel posto ove si « trova, non irradierebbe energia termica o elet- « trica; anzi non si continuerebbe il moto dopo « V urto, se non per alcuni istanti, e andrebbe « estinguendosi per l'attrito. Avviene l'opposto: « dunque l'Atomo è Energia psichica ». Il considerare la Fisica come una estensione della Meccanica va bene fino ad un certo punto, per la comodità dello studio esteriore, ma la filo- sofia non è limitata dagli orizzonti della Materia estesa e cerca la realtà intima che fa le forze originali. Bisogna evitare di fare della scolastica positivista una Metafisica di Materia, di Forza, di Massa, di Moto, di finzioni logiche, che si pigliano per reali quanto più sono lontane dalla realtà, mentre sono meri simboli, meri concetti astratti. I fatti reali di coesione, di solidarietà dell'etere e dell'aria, senza la quale non vedremmo la luce, non ci arriverebbero ne luce, ne suoni, ci con- vincono che sotto le astrazioni della scolastica materialista, ci sono le realtà psichiche indivi- duali minime. L'Etere cosmico forma un tutto solidale ed elastico, è quindi composto di tanti punti di forza che reagiscono. Quando questi punti di forza si scindono in due elettricità, l'una positiva al centro e l'altra, composta di elettroni negativi, alla periferia, fanno gli atomi ponderali, che tendono ad unirsi, se vicini, con la coesione, e se lontani colla gravitazione, in ragione inversa del quadrato della distanza. L'etere è il mezzo che porta istantaneamente l'attrazione da un punto al- l'altro, per quanto sia lontano, Coesione e gravitazione, ossia le forze attrattive, ci indicano che la prima tendenza intima degli atomi è quella di formare più alta unità (1) anzi ce lo indica già la costituzione degli atomi sferici in due specie di elettricità, il cui centro è positivo e la periferia è negativa, ossia composta di elettroni negativi (2). La massa è il numero degli atomi di un corpo, il peso è invece relativo al corpo celeste sul quale si sta; cosicché un corpo pesante un chilogramma sulla Terra, peserebbe sul Sole 28 chili, su Marte 4 /2 chilo, sulla Luna 37 centigrammi. Ma il platino pesa 80 volte il sughero di egual volume in qualunque posto si trovi. Le prime forze dunque sono di elettricità statica. Quando questa è disturbata, ne segue un moto disordinato e dispersivo che si dice calorico e sembra spiacevole, perchè appunto è disordinato e ogni corpo cerca di rigettarlo sui vicini e si di- sperde. Questa è la seconda forza fondamentale della Natura. Ed è sempre un eccitamento a ri- (1) Ben inteso che l'attrazione o coesione incomincia a una distanza minima sì ma non quasi nulla, perchè quel punto che si dice atomo non può essere annichilito. (2) Nella nostra Nuova Scienza abbiamo lungamente mostrato che i tentativi di Lesage, Secchi, Isenkrahe ed altri di spiegare la coesione e la gravitazione per pres- sione dell'Etere, erano falliti; e di questa opinione sono tutti i maggiori fisici, fra cui l'eminente prof. Augusto Righi. tornare all'armonia facendo la elettricità dinamica, ossia quelle correnti che divennero nella moderna industria mezzi di grande efficacia. Già nei vecchi esperimenti di Siebeck e di Nobili il calorico si trasformava in elettrico contrasto. Che dal calo- rico (moto disordinato) gli atomi appena lo possono, passino all' elettricità ed al magnetismo (moti ordinati e piacevoli), venne recentemente dimostrato dai professori Ettingshausen e Nernst, mettendo in un campo magnetico una piastra di bismuto, perpendicolarmente alle linee di forza: poi riscaldando la piastra da una parte, si vede dall'altra parte sorgere una corrente galvanica. Una data quantità di energia termica è sempre equivalente ad una determinata quantità di ener- gia elettrica (2) qualunque sia la sua temperatura; si ottiene sempre lo stesso valore trasformando una nell'altra. L' Elettricità che non si manifesta in tensione (statica) si manifesta in corrente (di- namica) o in rotazione (magnetica) o irradiando e vibrando. Le proprietà di isolare o di condurre la elettricità dipendono dall'aggregazione molecolare, p. es. il Carbonio nel diamante isola, nella grafite conduce; i corpi a molecole bene orientate si elettrizzano bene scaldandosi poco (come l'ambra, la ceralacca, il vetro); ma i metalli composti di atomi neutri, avendo le molecole male (1) Avendo Carnot provato che il calorico non si con- verte in lavoro meccanico se non quando passa dai corpi caldi ai freddi, Thomson ne dedusse che una parte sempre maggiore della Energia convertita in calorico si disperde nel cielo e il lavoro scema: così alcuni credono che l'ener- gia dopo molti milioni di secoli si estinguerà; ma questo sarebbe già raggiunto (se fosse vero), perchè l'Universo non ha avuto principio nella sua energia potenziale. — 39 — orientate, si lasciano molto riscaldare con lo sfre- gamento senza elettrizzarsi, sono elettropositivi, e si possono jonizzare con poca energia. Un corpo carico di elettrico, sebbene isolato, produce nei vicini uno stato elettrico di specie opposta (negativa o positiva) in ragione inversa della distanza. Con una macchina di induzione si elettrizzano migliaia di cilindri di latta. La elettricità è un contrasto di correnti bipartite e non si ricompone se non allora che la positiva è posta in contatto improvviso colla negativa. Niente passa dal corpo inducente al corpo indotto; ma gli atomi di questo assumono la corrente, senza che l'e- tere frapposto si elettrizzi ne si polarizzi - e questo ci prova che non è l'etere che fa la elettricità. La fisica nuovissima fa oggi sugli elettroni ossia sugli atomi elettrici ricerche perseveranti. Studiando la conduttibilità della Elettricità attraverso i li- quidi ed i gas, si vide che era costituita da Elettroni, ossia da Atomi elettrici, rispetto ai quali le cariche sono multiple, come numeri interi di atomi elettrici. Helmholtz l'aveva intuito e Lorentz lo dimostrò. Lodge e Righi trovarono che l'Etere è elettri- cità di forza minima ed il principio di ogni materia, ha una massa ed una forza viva, che dal punto centrale dell' Atomo fa i vortici elettrici, l'atomo vorti- coso di sir William Thomson (lord Kelvin) il quale conteggiò il numero degli Atomi minimi (Elettroni). Gli Elettroni sono emessi con enorme velocità dal catodo, nei tubi a vuoto (raggi catodici) e dal radio (raggi beta). Questi risultano da cariche elettriche in moto rapido assai e sono deviati dalle calamite (1). fi) Kauffmann: La costituzione dell'Elettrone, 1906. - Annalen der Physik. Il prof. Abraham di Gottinga nel 1902 ha cal- colato la massa apparente dell'Elettrone per le diverse velocità, supponendo che abbia causa elet- tromagnetica e che l'Elettrone sia sferico e rigido. Kauffmann confermò che non vi è nocciuolo materiale nell'Elettrone. Un magnete, ossia una pietra di ferro sulla quale si scaricò probabilmente il fulmine e nella quale le due elettricità restano separate ed in contrasto continuo, attrae il ferro, come tutti sanno. Il magnete non attrae cei*to per la pressione dell'etere, che si esercita su tutti i corpi. Dopo il ferro, il nikel e il cobalto sono i metalli più magnetizzabili: un pezzo di acciaio che subisca un forte sfregamento con un magnete, diventa un magnete e serve a fare altri magneti. I gas e le materie contenute nelle fiamme sono magnetizzabili e di- vidono le fiamme in due corni. Jonizzare vuol dire separare da un atomo neutro alcuni suoi elettroni negativi: e si fa facilmente nei metalli, composti di atomi neutri. Si jonizza sia col gran calore, sia con urti violenti che scal- dano molto, sia coi raggi catodici, di Rontgen o di Becquerel. Un filo arroventato jonizza il gas che lo tocca, ed i gas delle fiamme sono tutti for- temente jonizzati e ridotti ai più semplici elementi Uberi. Le scariche elettriche sono fatte dai joni dei gas, urtati violentemente, scomposti in elet- troni negativi. La luce deriva da vibrazioni elettriche trasversali e perpendicolari ai raggi da destra e da si- nistra. Se la destrogira o la levogira ritarda, non danno più una riga sola nello spettro, ma due. I raggi scoperti nel 1895 da Rontgen che partono dai catodi ossia dai poli negativi in sfere di gas rarefatti, hanno onde quindici volte più corte di quelle della luce del sole, e non si vedono, ma fotografano e non si rifrangono, non sono carichi di elettricità come i raggi catodici; ma fanno sor- gere l'elettricità nei corpi conduttori. I raggi scoperti da Becquerel nel 1897 non partono da sfere di gas rarefatti, ma da corpi estratti dalla pecliblenda (q sono i seguenti: radio, uranio, torio, bario, attimo) vengono emessi anche nel vuoto ed a temperatura glaciale e sono di tre specie: alfa, beta e gamma. Gli alfa sono fatti da joni positivi e deviabili e jonizzano i gas che urtano. I beta più forti anche nel fotografare, si comportano come raggi catodici e deviano in senso opposto agli alfa. I gamma sono più veloci e più penetranti degli alfa e dei beta. Trasformano l'ossigeno in ozono, il fosforo bruno in rosso. Non derivano da scomposizione chimica, ma da emissione di elettroni. Arrestano le scintille di, una fortissima macchina elettrica, perchè egualizzano le elettri- cità accumulate, e le scaricano da se. I raggi Rontgen sono esplosioni elettriche (materia radiante di Crookes, il quarto stato di Faraday) e scompongono gli atomi dei gas nei loro Elettroni negativi. Traversano i corpi opachi, fanno vedere le ossa e le palle di fucile rimaste nelle ferite. I raggi Becquerel dei corpi radio attivi permettono di scoprire in un miscuglio di gas elementi in proporzioni assai più piccole di quelli indicati dallo spettroscopio. Intorno agli Elettroni negativi l'Etere è teso in lunghezza e premuto dalle parti trasversalmente. Le linee di forza magnetica sono cerchi perpendicolari alla trajettoria centrale. Una corrente elet- trica è un flusso di Elettroni negativi equidistanti: se il moto non è uniforme si ha Vinduzione, come dice Righi - (La moderna teoria dei fenomeni fi- sici, 1907, Bologna, p. 257). Le aurore boreali e le corone dipendono dal magnetizzarsi della luce. La efficacia della elet- tricità e del magnetismo diminuisce col quadrato della distanza. Scaricando una corrente elettrica sopra un disco di vetro, la positiva fa raggi diritti, mentre la negativa fa delle ramificazioni si- mili alla radice di una pianta. R. Hertz trovò che l'elettricità si propaga con onde dell'Etere cosmico che nel suo oscillatore erano ridotte a 6 centimetri, ma colle bottiglie di Leyda superano 300 metri e nelle macchine dei telegrafi senza fili arrivano a 7000 dalla stazione di Coltano. — Le onde di Hertz dipendono da esplosioni per urto (1). La elettrolisi è la scomposizione in joni degli elementi delle molecole: p. es. il sale di cucina sotto l'azione di una pila e di due elettrodi, si di- vide in joni di Jodio positivi che vanno al polo negativo, o Catodo, e in joni di Cloro, negativi, che vanno al polo positivo o Ànodo. E l'acqua si scompone in ossigeno, che va al polo positivo, o Anodo, ed in idrogeno, che va al polo negativo o Catodo. Sulla elettrolisi si fondano gli accumulatori, o casse cariche di elettricità, ottenuta separando il (1) Le scariche oscillanti, come quelle fatte negli Oscillatori di Marconi sono prodotte da molti alternati passaggi, da una serie rapida di flussi che, urtando violente- mente l'Etere, vi fanno delle onde concentriche assai lunghe. Il ricevitore o coherer alternando lo stato magnetico permette di far segnali. piombo dall'ossido di piombo (che si adoperano per muovere i tram elettrici). La genesi degli elementi ossia delle varie specie di Atomi fu studiata dal Crookes in Inghilterra, dal Mendelejew in Russia e da altri (1). Dalla in- focata nebulosa, per la irradiazione del calorico, e l'abbassarsi della temperatura, si formarono dapprima i 14 elementi leggeri (2) e poi, per successivi raffreddamenti, anche gli elementi pesanti fino all'Uranio che pesa 240 volte l'Idrogeno. Ogni elemento leggero diventò capolista di un gruppo, per successive differenziazioni e complicazioni. — Raffreddandosi le stelle, la elettricità ci va for- mando nuovi elementi e si complica la loro strut- tura. Così nelle stelle bianche non vi è che Idrogeno, e poco Magnesio. Nelle stelle gialle, come il sole, vi sono i metalli: ma non ancora i metalloidi. Nelle stelle rosse che si raffreddano poi, come Ercole, ci sono metalloidi, e i metalli sono (1) Tutti sanno che la piccolezza delle molecole è estrema. Gli Elettroni non sono che punti di forza. Si può assottigliare l'oro in lamine di cinque milionesimi di millimetro. Certi infusori provvisti di organi hanno un diametro minore di un millesimo di millimetro. (2) Idrogeno, Litio, G-lucinio, Boro, Carbonio, Azoto, Ossigeno, Fluoro, lodo, Magnesio, Alluminio, Silicio, Fosforo, Solfo disposti in due serie: la elettrizzata positivamente e la elettrizzata negativamente, ciascuna di 7 ele- menti. (Per gli elementi seguenti vedi Wendt, Evolution der Elemente, 1891, Berlino). L'analisi spettrale datante linee quanti sono gli elementi che compongono i corpi incandescenti. Nei laboratorii chimici è difficile superare 2.400 gradi centigradi, tuttavia gli atomi di idrogeno vibrano del pari nelle stelle, nel sole, nelle nebulose o in un tubo di Geissler riscaldato, perchè danno lo stesso spettro. tutti combinati. Ma ad altissima temperatura gli elementi si dissociano, perchè gli Elementi non sono gli Elettroni o Atomi veri, ma sono atomi composti vorticosi, che Thomson mostrò essere circolari, non tagliabili che vibrano quando sono urtati. Dissociando gli elementi, diventano radioattivi, come dicemmo sopra, e la dissociazione può arri- vare a tale energia che, col disgregare un soldo di rame, si avrebbe forza bastante per far muovere un treno di centinaia di quintali. Il prof. Ramsay vide il radio trasformarsi con- tinuamente in elio. Le cinque leggi principali della fìsica pura mostrano la Unità ideale e reale di azione e sono: Inerzia, Indipendenza delle Forze, Eguaglianza fra Azione e Reazione, Conservazione della Materia e Conservazione della Forza potenziale (non della manifestata). Del resto il principio di conservazione della Energia, ha valore per i fatti osservati; ma è inesatto l'applicarlo agli altri. Tutti i fatti meccanici, sono nello stesso tempo fatti elettrici o chimici. La meccanica ne coglie un solo aspetto: risolvere il mondo in figure è una mitologia. Le forze interne sono le essenziali, sono psichiche. Il nostro Giambattista Vico diceva che il conato o virtus movendi è fatto dall'appetito, dal desiderio. Del resto tutte le spiegazioni meccaniche, quando escono dal problema dei tre corpi, ossia cercano di determinare le variabili che preponderano, di tro- vare le relazioni funzionali tra loro, per predire lo stato futuro di un sistema di corpi, non danno mai la certezza e sono soltanto approssimative. Se si considerano sistemi isolati come conservativi, vi s' introducono delle variabili, riguardandoli 45 come porzioni di un sistema conservativo più ampio: ma gli attriti, le viscosità e le complicazioni dei moti di altri corpi, e sopratutto le rotazioni, rendono la soluzione impossibile: come ben dice E. Picard (La mécanique classique, 1906). Laplace, invece di supporre che l' impulso fosse proporzionale alla velocità, ritenne che fosse una funzione della velocità e variasse con la velocità, come si è trovato poi per gli Elettroni, le cui masse crescono con la velocità, per cui non sono materiali. Così bisogna abbandonare le equazioni differenziali e cercare le equazioni funzionali, se si vuol prevedere l'avvenire di un sistema di corpi. I corpi non sistemati o che sono in moto lento, sono soggetti a cambiare direzione e velocità, se vengono urtati. Non è l'urto, ne la pressione che si converte in calore: bensì l'urto eccita le forze- interne a difendersi con moto rapido irregolare che dilata e si disperde. Se si urtano due palle lanciate una contro l'altra, le forze che risultano sono momenti eguali, ma opposti: così che entra nel corpo urtato la sola differenza. II moto che segue all'urto non avviene mica per una infusione di moto come suppongono gl'ingenui: ma esso si verifica sempre per la solidale elasticità delle molecole, che ritornano al loro stato abituale di coesione, come ha dimostrato fin dal 1887 Todhunier (nella sua bella Theory of Elasticity). Fin qui abbiamo considerato la Materia nel minimo, ossia nei suoi Atomi eterei e ponderali, cercando (per quanto era possibile) le sue forze intime. Se ora la consideriamo nel massimo, dobbiamo riconoscere che l'Universo non può essere infinito, come è sempre ripetuto nella filosofia del prof. Ardigòy ne in massa, ne in energia potenziale, perchè allora, come ha provato l'astronomo Olbers, il centro di gravità sarebbe in ogni punto del mondo e la meccanica e l'astronomia se ne andrebbero a rotoli: ed anche perchè, come notava Angelo Secchi (Le stelle, pag. 334 a 336) se il mondo fosse infinito e popolato di infinite stelle, la vòlta celeste ci comparirebbe lucida come il sole in tutta la sua estensione. Chi avesse occhi sarebbe subito accecato, ma nessun occhio avrebbe potuto nem- meno formarsi. Zollner credeva che l'Universo finito evaporerebbe nello spazio: ma questo è impossibile, perche, alla temperatura di 270 gradi sotto zero, (che è quella della Via Lattea) e tanto meno ai freddi maggiori delle regioni più lontane della Via Lattea, nessun corpo può svaporare. Le forze della Materia sono anzitutto attrattive, e di queste parleremo nel seguente Capitolo. Le ripulsive sono quelle della impenetrabilità, del calorico, dell'elettricità che abbia eguale dire- zione e le esplosive dei composti chimici in cui entri l'azoto e delle cariche elettriche. Derivano dal disturbo del godimento che è caratteristico delle forze attrattive. La solidarietà degli Atomi in generale Coi principii delle scienze fìsiche insegnati da Cartesio in poi, non si è riusciti mai a spiegare l'attrazione e la coesione, che tengono insieme tutti i corpi e sono le prime forze iniziali (1). Quanto tendano a stare insieme gli Atomi Eterei lo prova la flessibilità ed elasticità dell'Etere. Quanto tendano a stare congiunti gli Atomi ponderali, ognuno lo vede nelle goccie di acqua, nelle colle, nei cementi, nei marmi, nei legni duri, nei corami, nelle corde di canapa, nei diamanti,. in molti metalli e specialmente nei fili di ferro: anzi in tutti i corpi liquidi o solidi compreso il proprio. Al di là di una piccola frazione di millimetro, la coesione diminuisce e si estingue e su- bentra l'attrazione in ragione inversa del quadrato della distanza, perchè gli Atomi irradiano sopra superfìcie tanto più grandi quanto più sono lontane. Newton e Faraday hanno intavolato bene il problema dell'Attrazione Universale. Ma gli Empirici,, ed anche il gesuita padre Secchi (che non era punto filosofo, e credeva come tutti i Tomisti, nel Motore immobile divino) lo hanno oscurato. (1) L'amore degli animali e anche dell'uomo è la su- blimazione di quella tendenza fondamentale che tiene as- sieme tutti i corpi del mondo. — 48 — Newton per un quarto di secolo ci meditò so- pra (1) e stabilì due punti vale a dire che l'agente della gravitazione non può essere meccanico (nella Prefazione ai suoi Principii 1713), e che l'agente immateriale muove. Dunque è la unità energica psichica degli Atomi ponderali, che trasmette per l'Etere la tendenza a congiungersi. Quando questa calma, istantanea irradiazione arriva ad altri Atomi ponderali è sentita, ed avviene la attrazione reciproca. Faraday commentando (nel Philosophical Magazine, 1884, pag. 143 del Volume XXIV), scriveva « Nella gravitazione la forza va per l' Etere alle « maggiori distanze, partendo dai punti Atomi di « Boscovich. Ogni Atomo irradia dal suo centro a « tutto il sistema solare ». Newton non ammise che la gravitazione fosse dovuta ad una causa immateriale (che sarebbe la psichica Unità reale degli Atomi) perchè come fi- sico diceva « hypothesis non fìngo » ma non lo escluse e lo lasciò pensare al lettore. Egli vide bene fin dal principio e concluse definitivamente nel 1681 che ogni teoria meccanica sulla gravità non si può sostenere mai, perchè non si propaga, non si al- tera, non devia per l'interporsi di qualsiasi so- (1) Newton studiò la ipotetica pressione dell' Etere per spiegare la gravitazione fin dal 1675, e ne scrisse una Memoria che lesse alla Royal Society. Ma nel 1686 di- chiarò in una Lettera ad Halley che tale ipotesi non aveva il minimo fondamento. Sfortunatamente per loro e per la scienza fìsica alcuni Empirici ed anche il padre Secchi nei due ultimi secoli perdettero il tempo nel tentare di scoprire come V Etere facesse tale pressione, che già il genio di Newton, dopo maturo esame, aveva trovata impossibile. — stanza gazosa, liquida o solida, non prende mai la direzione di una risultante, non si rinette, non si rifrange, non si trasforma come la luce, non può essere un moto, ne derivare da un moto, è istantanea. I tentativi di Lesage, di Schramm e di Secchi di far derivare la coesione e la gravità dal flusso e dalla pressione dell'Etere, per quanto ingegnosi, rimasero così imbrogliati da difficoltà enormi che non persuasero alcun filosofo. Arago in Francia, Maxwell in Inghilterra ed altri grandi fisici li dimostrarono inani. Clerk Maxwell ne enumerò così gli assurdi: 1. — Eichiedono un punto motore che agisca fuori e al di là dell'Universo. Esigono che la materia sia ora creata ed ora annullata, giacche ora la forza è esaurita ed ora acquista una enorme velocità. 3. — Riducono la gravità, che è forza perenne in- distruttibile, ad un semplice effetto di di- verse forze che ci sono ignote. Implicano la esistenza di capitali strabocchevoli di energia nell' Etere, capitali che nes- suno ci ha trovati. 5. — Se fossero vere, farebbero andare in frantumi varie volte al giorno tutti i sistemi solari. II padre Secchi altro non fece che generalizzare per isbaglio un caso speciale di Poinsot (N. Scienza,. IV voi., 282 e seg.) (1). (1) È molto deplorevole che alcuni giovani, unicamente^ mossi dall'orrore per la psiche e per ogni interiorità (senza- badare che essi sentono, vogliono e pensano) e volendo spie- gare tutto il mondo con la esteriorità, ossia meccanicamente, sprechino oggi il loro ingegno nel cercare a quali squili- Newton (nell' Ottica) dichiarò assurdo che la gra- vitazione fosse proprietà dovuta a moto di materia. Il suo concetto si trova nei Principia (alla fine del libro) dove suppone che la forza psichica degli atomi faccia la gravità; benché, come dice- vamo or ora, seguisse la regola del suo tempo, fondata sul pregiudizio di Cartesio che la Materia nulla avesse di psichico, che « in Philosophia experimentali hypotheses locum non habent » „ — Egli veramente non arrivava fino a supporre che gli atomi avessero un germe di sensazione, ma cre- deva in uno spirito pervadente gli atomi, e lasciò (come Cartesio) la materia inerte passiva, mossa dallo spirito divino. Fu Voltaire che presentò alla Francia il Newton della gravitazione universale, considerata come una brìi dell'etere possano attribuirsi la coesione e la gravita- zione; dando prova unicamente della insolubilità del pro- blema. Fra questi va notato l'egregio ingegnere M. Barbèra nel suo libro «L'Etere e la materia ponderale» uscito a Torino sulla fine del 1902, nel quale, in meno di 140 pa- gine fa 1400 ipotesi: ma nella Prefazione del quale egli ha però il buon senso di confessare che il meccanismo di ogni fenomeno fisico « rimane affatto misterioso, e che i risultati della ricerca di esso sono quasi sempre concezioni stranissime ed assurde, ma spera nondimeno che non sieno dannose ». Dal momento cbe fu riconosciuto da eminenti fisici, fra cui in Italia da Righi ed altri, cbe gli Elettroni (elementi degli Atomi) non hanno nucleo materiale, sarebbe meglio fare a meno di scervellarsi per restare materialisti, limi- tandosi a dire: « Sic volo, sic jubeo: sit prò ratione vo- luntas ». Se non è assurdo cbe io, cbe sono composto di Atomi, senta, non sarà assurdo cbe un atomo abbia un germe di sensazione gradita, nella Coesione. proprietà della Materia, e divulgò quello che Newton dichiarò assurdo, vale a dire che la materia agisse dove non era. Ma Voltaire non era che un letterato. Nella evoluzione fìsica in grandi masse, come nella evoluzione chimica in piccole masse, più o meno lentamente, le parti si rendono solidali nella sensazione rudimentale dinamica (o della forza): perciò tutti i corpi (siano allo stato gasoso, liquido o solido), sono elastici. Alla superfìcie di una massa liquida, per 10 a 12 milionesimi di millimetro, la coesione è massima. Alla profondità doppia è diminuita di 3/4. Rucker nel 1885 con esperimenti ottici elettrici confermò questi risultati. Quincke nel 1887 ha analizzato le pellicole liquide che bagnano i solidi e disse che a meno di 25 milionesimi di millimetro incomincia la coesione per le molecole dell'ac- qua. Nelle bolle di sapone la pellicola è costante, se lo spessore eccede cinque soli milionesimi di millimetro, e torna a crescere, se lo spessore viene ridotto ad un milionesimo. Un liquido è formato da diversi strati, cosicché due porzioni di acqua si attraggono quanto più stanno alla superfìcie: alla distanza di un dieci- milionesimo di millimetro si attraggono con una forza massima. Thomson nel 1886 disse che l'at- trazione capillare non è altro che l'attrazione Newtoniana resa più intensa per le molecole mobilissime che fanno il liquido. La forza di coesione è tanta da resistere a grossi pesi. Da oltre un secolo Barton prese molti cubi di rame aventi le loro superfìcie ben levigate e liscie, li mise sul tavolo uno sopra l'altro e vide che, prendendo in mano il più alto, gli restavano attaccati tutti i sottoposti. I fenomeni della capillarità nei tubi stretti sono ben conosciuti da tutti. Centinaia di esperimenti svariati della solidarietà furono fatti da Plateau (Statique expérimentale et théorique des liquides soumis aux seules forces moléculaires). Facendo ca- dere a goccie certi olii sopra l'acqua, si distendono come piani: mentre le goccie di altri olii cadendo si dispongono in forma di lenti più o meno convesse. La coesione delle molecole di olio è tanta che i marinai calmano le onde furiose del mare vicino alla loro nave col versarvi sopra un sottile strato di olio nel modo indicato nel Capitolo precedente. La natura numerica della coesione si può in- vestigare pigliando certe soluzioni, fortemente colorate, di permanganato di potassa e facendone cadere alcune goccie sull'acqua, a minima distanza da questa, e lentamente. Si vedrà che la sostanza colorata, nel suo discendere e nel modificare l'as- sociazione molecolare assume la forma di anelli vorticosi, cinti da una pellicola, che, sempre più assottigliandosi, si rompe: ed ogni frammento degli anelli maggiori, discendendo, assume subito la forma di minore anello vorticoso e via di se- guito, dando una figura di polipo che genera sempre nuovi e minori anellini vorticosi fino a che diviene invisibile. — Con una goccia di inchiostro il fenomeno succede lo stesso ma con tanta velocità che riesce impossibile di studiarlo. Gli anelli vorticosi sono sempre fatti in questo esperimento dalla forza di coesione in lotta col peso: prova che molti atomi simili sempre tendono ad unirsi e uniti una volta stentano a disunirsi, e che l'unità domina i molti. Per quanto siano caldi i liquidi riescono a for- mare delle goccie. L'astronomo Young (Il Sole, — 63 — p. 220) dice che il Sole (che sembra sia in gran parte gazoso) deve formare la sua fotosfera con goccioline di metalli. Non vi è corpo gazoso che non possa gustare la coesione. Infatti Cailletet e Wriblowcki, con macchine possenti, sono riusciti a rendere liquidi quasi tutti i gas. La teoria cinetica dei gas di Clausius, Joule e Maxwell non si regge più, perchè gli urti obliqui farebbero roteare le molecole, il moto di traslazione si rallenterebbe e cesserebbe, e perchè la legge di Mariotte e Gaylussac (essere a temperatura costante il volume di un gas in ragione inversa della pressione) non si verifica che poche volte, come provò Regnatili: anzi Hirn variò a piacere la temperatura senza che cambiasse la resistenza (1). Clausius cre- dette che le molecole dei gas corressero senza vi- brare e spiegava così la discontinuità degli spettri dei gas, dei liquidi e dei solidi. Ma recentemente vari fisici hanno attribuito gli spettri lineari dei gas alla piccolezza delle loro molecole, invece che alla fantasticata loro corsa vertiginosa, e fu tolto al Clausius l'ultimo suo rifugio che era lo spettroscopio. Venne allora Hirn a provare che, se le molecole dei gas corressero in linea retta, non vibre- rebbero e non potrebbero mai dare un suono. Il suono ci prova che i gas hanno le loro parti solidali e sistemate, come una corda tesa vibra; ma se non è tesa, non vibra più. Per vibrare occorre (1) Tait nel suo bel libro Heat, nell'ultimo Capitolo indicava fin dal 1884 le gravissime difficoltà che presen- tava l' ipotesi cinetica dei gas del Clausius, che venne accettata per alcuni anni provvisoriamente. 4 che le molecole ritornino allo stato di prima. L'aria vibra (come le lamine sonore di Chladni e di Savart perchè è elastica e solidale. D'altronde se l'aria fosse costituita al modo escogitato dal Clausius, essa non si alzerebbe più di dodici chilometri, secondo Hirn, mentre si eleva a cento e più. Bisogna anche pensare che tutti i corpi premuti si riscaldano e così si riscaldano anche le onde di aria vibrante. Se non si riscaldasse, dice Hirn, il suono si propagherebbe in un minuto secondo a 288 metri, mentre si propaga a 340, perchè il suono passa da onda ad onda più calda. Il prof. Hirn conclude che gli atomi dei gas non corrono, non si urtano, ma formano un sistema elastico solidale, che deriva dalla stessa tendenza intima che fa la coesione dei solidi, dei liquidi e la gravitazione. La facilità con cui si mescolano i gas, le leggi della pressione, si spiegano senza bisogno che cor- rano molti chilometri al minuto e senza che su- biscano tanti urti. — Il Sisifismo di Clausius può essere eliminato. La solidarietà non è un moto, è uno stato psichico, in cui si forma un essere collettivo, una grande unità. E il godimento è evidente in un esperimento che tutti possono fare, mettendo dei cavalierini di carta sopra due o più corde vibranti vicine e lontane. Quando due corde danno il medesimo suono, appena si tocca coll'archetto una corda, si vede che dall'altra i cavalierini saltano via, anche se la corda è lontana molti metri. Mentre, se non danno il medesimo suono, anche se sono avvicinate quasi a toccarsi, i cavalierini delle corde non toccate rimangono fermi ed indifferenti. Dunque l'aria è solidale, di una solidarietà così intima da far vibrare tutto ciò che vibra nel medesimo tempo e non ciò che vibra in altri tempi. Così se abbiamo due coristi eguali, battendone uno, suona anche l'altro; se ne abbiamo cento o mille, tutti vibrano del pari. Il rinforzo di un suono avviene sempre quando, in vicinanza del corpo so- noro, ce ne sono altri che dieno lo stesso suono. I fabbricatori di stromenti musicali applicano con- tinuamente questa legge, che prova la solidarietà degli Atomi anche allo stato gasoso. Questa solidarietà è evidente non soltanto fra gli Atomi ponderali allo stato solido, liquido e gasoso. ma anche fra gli Atomi eterei, che sono infinitamente più piccoli degli Atomi ponderali. Locke (nel suo Saggio sull'umano intelletto, II, 23) fece notare quanto sia stupido cercar di spiegare la Coesione degli Atomi ponderali inventando una pressione dell'Etere, perchè gli Atomi dell'Etere che sono coerenti e solidali fra loro, esigerebbero per spiegare questa pressione un secondo Etere che premesse il primo e questo esigerebbe un terzo etere e via di seguito all'infinito. Sopra un'onda di luce rossa stanno 200 Atomi Eterei. Faraday provò che il mezzo etereo è elastico, col mostrare che le sue linee di forza si curvano. Hirn ne dedusse che gli Atomi Eterei sono solidali e formano un tutto elastico persino nelle suddivisioni infinitesime. Se l'Etere fosse in flusso continuo, se fosse di densità variabilissima come supponeva il padre Secchi per poter darsi l'aria di spiegare la coesione, non potrebbe mai trasmettere la luce con tanta regolarità e delicatezza. Questo è evidente se si riflette un poco. Secondo Lorentz l'Etere deve — 56 — essere in stato di relativa quiete e di solidarietà nel suo complesso, per permettere il moto della Elettricità e della Luce. Senza questa solidarietà non avremmo la luce del sole e delle stelle, come senza la solidarietà dell'aria non avremmo il suono: quindi non si sarebbero formati ne occhi, ne orecchi; ed è alla solidarietà dell' Etere e dei gas che dobbiamo la civiltà ed i maggiori piaceri della parola e dell'arti belle. Alla stessa solidarietà dobbiamo le onde scoperte dal prof. Hertz assai grandi, sulle quali si fondano i telegrafi senza fili. Quando la coesione degli atomi e la loro solida- rietà vengono disturbate, sorge il moto irregolare del calorico, che allontana gli atomi gli uni dagli altri, dilata i corpi, liquefa i solidi, volatilizza i li- quidi, disperde e non si concentra mai. Hirn schiacciando il piombo (senza accrescerne la densità) provò che il calore deriva dal disturbo della coe- sione e che è un moto degli atomi e non delle molecole. Ben a ragione dunque il fondatore della ter- modinamica Mayer diceva che la coesione e l'at- trazione non sono moti, ma tengono della natura della sensazione, sicché la Materia bruta inorganica ha un senso di solidarietà innegabile e l' Unità do- mina la moltiplicità, il molteplice tende ad unirsi e di questa tendenza sono visibili gli effetti in tutta quanta la fìsica. Fra le soluzioni separate da membrane permeabili ha luogo sempre uno scambio, nel quale la più densa assume più che non ceda e la meno densa perde più che non acquisti; fatto che prova la tendenza ad associarsi di tutti gli atomi. Il disturbo dell'armonia fa l'allontanamento degli atomi, la dilatazione dei corpi, la disgregazione.  La tendenza all'armonia fa i contrasti elettrici della luce, la solidarità dell'Etere e dei gas, la coesione dei liquidi e dei solidi, e l' attrazione dei corpi lontani. Così si manifesta nella fisica la tendenza a for- mare più alta Unità, che si accentra poi e si rende manifesta nella Chimica, e, ancor meglio, nella Biologia e nell'Amore delle Piante e degli Animali, sempre per cause intime e non mai per le forze incidenti dell'Ambiente. Nel succitato libro sul Calore il Prof. Tait di- ceva bene: senza moto non vi è Calore, ma non ne segue che il Calorico sia un moto: come senza Fosforo non vi è Pensiero; ma non ne segue che il Pensiero sia Fosforo. Il Moto che fa la gravitazione, il Calorico e 1' Elettricità, ossia le forze fondamentali dell'Universo, deve essere fatto dalla sensazione rudimentale degli atomi e deve essere una manifestazione della loro volontà primitiva. Come dicea Herbert Spencer: gli specialisti stu- dino pure i fenomeni fisici come meri movimenti; ma la filosofìa badi alla realtà conscia, ossia alla Unità interna di tutte le cose. (Vedi sopra Cap. II, pag. 20) (1). Siamo coerenti e riconosciamo che la (1) Lo stesso Ardìgò scrisse, come Schelling, che la Materia è una forma del Pensiero (e doveva dire non del Pensiero, ma della sensazione della Volontà), ma in tutto il suo sistema non seppe spiegarlo e adottò la fisica che attribuisce agli urti delle forze incidenti ogni fenomeno. Newton aveva ben capito che della materia si poteva affermare una forza sola generalissima, cioè la resistenza, scrivendo nei suoi Principia Definitio IIIa: « Materiae « vis insita est potentia resistendi ». Egli aveva pure compreso che l'aria e l'etere erano elastici fé quindi solidali) scrivendo nella sua Ottica (Questione XVIII) che l'aere è assai più elastico e più attivo dell'Aria. 58 vera filosofìa della Natura non può bandire la psiche dalla fisica, ma può andare sotto la scorza delle cose e indovinare la loro intimità. I filosofi che dicessero che noi fin qui abbiamo fatto della fìsica e non della filosofia, mostrerebbero corto intelletto; perchè abbiamo stabilito e provato che la Materia sente e che è tutta solidale. Il materiale dei cristalli è chimico: ossia fatto da molecole; ma la costruzione è fisica, e conserva le proprietà fìsiche delle molecole, orientandole secondo le direzioni dei tre assi; e specialmente il calorico, la elettricità e la luce. Chi non ammette la psiche nella Materia e si affanna a spiegare la coesione delle molecole di una goccia di acqua, inventando la assurda pressione dell'Etere, ha bisogno poi di tutt' altra pressione, per spiegare la formazione di un cristallo e deve fare mille ipotesi di un Etere più schiacciante (1). (1) L'Illustre Presidente della Società Geologica Inglese, il prof. Judd diceva che « Each minerai like each plant, or animai, possess its own individuality ». Le forze a tergo, gli urti, le pressioni non spiegherebbero mai la gran varietà di strutture che presentano i cristalli (Sulla formazione dei cristalli parlammo nella nostra Nuova Scienza, voi. IV. pag. 479 a 481 e in altri siti). La coesione geometrica cristallina indica chiaramente la tendenza a godere la Eleatica quiete fra i contrasti elettrici. Evers disse che la preparazione biotica è evidente nei cristalli; è l'alba della vita che si chiude fra le pareti; è una vita modesta, casalinga, incipiente, quella che si rappiatta fra i tre assi di coesione geometrica e mantiene le loro pareti. Le molecole allo stato liquido, quando si abbassa la temperatura (se trovano la calma e le soluzioni necessarie) tendono a cristallizzarsi. E, dalla vescicola centrale che fa il cristallo, gli Atomi della soluzione vanno disponendosi in tre assi perpendicolari (i quali rivelano che sono tre e non più le dimensioni dello spazio reale, come nel Capitolo I fu detto). E prendendo le forme di tetraedri, di prismi, a base triangolare o parallelopipedi (1) non le prendono per quelle forze esterne a cui lo Spencer e VArdigò ricorrono, e che non possono riunire altro che detriti, arena, polveri e spazzature: le prendono per la tendenza delle Unità interne a formare, unite coi simili, dei sistemi di equilibrio stabile di godimento durevole, fra i contrasti elettrici. Il punto centrale dove si intersecano i tre assi rimane indifferente fra le polarità. Scaldando un (1) Ai sistemi cubico, prismatico, romboidale ecc. si aggiungano le strutture lamellari dei marmi, la granulare del gres, la ramificata delle miche, del bismuto, del cobalto grigio, la capillare dell'asbesto, dell'amianto, quella a pagliette o lamine sottilissime degli scbisti. In qualunque forma gli spigoli opposti si modificano insieme. Il clivaggio o spaccatura produce polveri della forma medesima a quella di ogni cristallo. Soltanto il granato e lo smeraldo si rompono in frammenti irregolari. cristallo, l'asse dominante si dilata per primo e maggiormente; il polo positivo si riscalda, il negativo si raffredda. Le proprietà ottiche variano secondo che la luce segue l'asse principale o gli assi secondari. Nei cristalli della neve cinque o sei aghi diacciati a forma di stella formano l'ossatura. Tra questi gli aghetti trasversali formano un ricamo regolare. Si crede che le forme dei cristalli sieno, se non eguali, almeno analoghe a quelle delle molecole della medesima sostanza; perciò l'acqua, avendo le molecole semplicissime, di quasi nove decimi di ossigeno e poco più di un decimo di idrogeno, cristallizza in forma di aghi. Non cristallizzano i Colloidi, perchè le loro particelle o molecole sono in moto irregolare e senza centro, e si ritengono essere reti di cristalli filiformi, entro le quali si organizzano gruppetti di molecole che tendono ad una elasticità variabile: però si induriscono facilmente in colle, in pelli, in unghie, in corna. Nella parte non cri- stallina, non filiforme dei colloidi, ossia nella parte elastica, la tendenza alla vita è di un altro genere (gomma, amido, colla, destrina, tannino, albumina ecc.) diverso dal cristallino, ma non an- cora cellulare. Lo stato colloidale si verifica anche nell'argilla ed in qualche metallo. Le sostanze amorfe sembrano gelatine compatte, come il vetro, il quale, benché assai duro, è elastico, probabilmente per la gelatina inserita nella rete dei minimi filetti cristallini di silice, dai quali derivano le sue proprietà ottiche di trasparenza. Nelle vere gelatine le parti molli si ingrossano nell'acqua, assorbendola per endosmosi. Nelle roccie cristalline vi sono molti cristalli. I metalli sono miscugli di cristalli e di sostanze amorfe, che non lasciano passare la luce e la as- sorbono o la riflettono. Per lo più le terre sono metalli ossidati. L'interna struttura dei cristalli non è in generale omogenea: essi sono divisi in magazzini, che contengono acido carbonico, ed alcuni liquidi ed hanno delle vescicole che si muovono da se. I cristalli si formano subito nell'acqua ipersaturata, quando vi sia un minimo frammento della loro specie. Il Thoulet professore di mineralogia a Nancy col signor Germez, preparavano, ad esempio, soluzioni ipersaturate contenenti del borace ottaedrico a 5 equivalenti di acqua, e del borace rombico a 10 equivalenti di acqua e poi vi immergevano corpi di diversa qualità senza che il liquido perdesse la sua purezza. Ma appena si poneva nella prima un minimo frammento di bo- race ottaedrico e nella seconda un minimo poliedro di borace rombico, la vita cristallina si cominciava, la temperatura si elevava, ed in pochi minuti tutto quanto il borace disciolto veniva cristallizzato. Sicché si può dire che ogni cristallo imita il tipo della sua famiglia. Nessun cristallo scende verso gli inferiori; tutti cercano di innalzarsi, di ascen- dere a più alta Unità. E se non arrivano ad imitare le forme superiori, vi si avvicinano. Così il feldspato potassico triclinico si trasforma in monoclinico, l'assofìlite monoclinica diventa tetra- gona ecc. ecc. (Vedi Nuova Scienza, Voi. II, p. 94). II principio della inerzia o della eredità, lotta an- che nei cristalli, come nelle cellule, col principio — 62 — della variazione, secondo le circostanze valutate dalla Natura che si fa ossia dall'intima Unità. Soltanto la formazione e lo adattamento e perfezionamento dei cristalli sono molto più lenti e la loro vita è molto più semplice di quella delle cellule. Link vide che il principio di ciascun cristallo che si forma in una soluzione ipersaturata, sta in una vescicola più ipersaturata nella quale le molecole si concentrano meglio. Attorno alla vescicola si formano globuliti, mentre fanno i tre assi e le figure geometriche, rivestendosi di pareti. Dalla molecola integrante di Hauy, alla molecola fìsica di Delafosse, alla maglia cristallina di Bravais, si elevano, mediante il polimorfismo, a forme più complesse. I cristalli mutilati, se hanno la soluzione conveniente, si rifanno e si ripresentano intieri. Anche adulti, essi variano per la pressione, il calore, la luce, e sentono ogni variazione del- l'ambiente. Ma sempre e tutti si fanno dal di dentro al di fuori per virtù propria, per la tendenza ad unirsi ed a godere e non per le forze incidenti dall'ambiente, come pretende il falso Positivismo di Ardigò. La durezza, la conduttibilità del calorico e delle elettricità, la fosforescenza ed altre proprietà di- pendono dalla simmetria con cui sono disposte le molecole del cristallo. La opacità dei cristalli deriva da squilibri termici, da incipienti efflore- scenze e da disgregamenti molecolari. I minerali giovani sono molto diversi dagli antichi. La Petrografia è la Paleontologia dei Minerali. I cambiamenti vitali delle rocce provengono dalia- tendenza di quello che è instabile a divenire stabile. Judd ha visto che esiste una perfetta gradazione fra le roccie cristalline (granito, diorite, gabbro), i tipi vulcanici (riobiti, basalti) ed i vetri vulcanici. La temperatura delle lave uscenti dai vulcani è di 2,000 gradi centigradi. Alla superfìcie si raffreddano, nell' interno restano semiliquide e vi- scose, solidificandosi mano mano che corrono giù per il declivio del monte, in masse vitree oscuredi cui la metà è silice (combinata sotto forma di sili- cati coll'allumina, col ferro, colla calce, colla magnesia, con la potassa, colla soda). Queste masse vitree mostrano al microscopio milioni di cristallini inci- pienti chiamati microliti. Ve ne sono anche di più grossi, formati nell' interno del vulcano, prima di essere eruttati, ma rotti dal magma infocato. Alcuni geologi scozzesi, inglesi e francesi ten- tarono di riprodurre artificialmente, da un secolo in qua, tali eruzioni vulcaniche. Daubrée, Fouqué, M. Levy scaldando i minerali al bianco abbagliante, abbassandone poco a poco la temperatura al rosso aranciato (punto a cui si fonde l'acciaio), alzando allora il crogiuolo sul forno e riducendo la temperatura al rosso ciliegio (punto a cui si fonde il rame) e ritirando poi dal forno, lasciarono tempo sufficiente alle molecole di cristallizzarsi (1) in serie. Ed ottennero in tal (1) A rinforzare quanto nella Introduzione dicevamosulla Unità della Natura, parliamo qualche minuto dei Cristalli formati fuori della nostra Terra. Chi guarda una Meteorite entrare nella nostra Atmosfera, a 60 chilometri di altezza, accendersi, correre 30 chi- modo la leucotefrite del Vesuvio, la onte dei Pirenei, i Basalti e molte altre roocie, della cui ori- gine ignea non si era ancora ben certi. Le più difficili ad ottenersi sono le roccie primitive acide che racchiudono quarzo, mica ed ortosi. Si è tentato recentemente di esperimentare i miscugli di detriti organici nella formazione dei Cristalli e si sono ottenuti degli accentramenti misti di forme nuove. Un sale in soluzione amorfa omogenea diede al prof, von Schrón di Napoli delle petrocellule che si riprodussero per endogenesi. Il prof. Dubois di Lione, depose sul brodo di gelatina dei cristalli di cloruro, di bario e di radio, e ne fece sorgere muffe e granulazioni pseudovegetali, che si dupli- carono. Hennequey di Parigi le disorganizzò presentandole al radio. lometri al secondo e talvolta il doppio, chi ascolta le de- tonazioni che ne succedono, crederebbe che si fondano. Invece alle volte si rompono, ma rimangono solidi e freddi nel loro interno. La più grossa cadde a S. Caterina nel Brasile e pesa 250 quintali: in termine medio non vanno oltre mezzo quintale. Tre quarti cadono nei mari; delle altre ben poche in terre coltivate. Le meteoriti ci mettono nella condizione di un generale che riesce ad impadronirsi di qualche prigioniero, e lo interroga su tutto quello che si è fatto nel cielo, perchè ogni minerale testimonia delle circostanze in cui nacque. Ebbene, questi avanzi condensati delle nebulose, hanno gli elementi delle primitive roccie Terrestri. Vi si trovano delle specie mineralogiche identiche, che possiedono i medesimi angoli, le stesse faccie nei loro cristalli, e sono spesso associate nel medesimo modo. La silice o acido silicico (tanto energico nelle temperature elevate), ci testimonia l'alto calore in cui furono generate le Meteoriti. Il Peridoto (il quale si forma allor- ché nelle officine viene ossidato il silicio) lo si trova an- Nel 1904 BurTce mettendo sopra uno strato gelatinoso del cloruro o bromuro di radio, guadagnò i primi Radichi, o microbi del radio, in uno, due o tre giorni. Crescevano fino ad Vìooo ^ m^~ limetro, mai di più, avevano nuclei oscuri, si segmentavano e si scioglievano nell'acqua. Il radioli distruggeva e finivano col cristallizzarsi. Ben si vede nella materia inorganica una ten- denza ad unificarsi sempre maggiore. Essa assuma aspetti diversi (come li abbiamo ora indicati) nei colloidi, nelle gelatine, nei vetri, nei metalli, nei cristalli: sempre la intima unità generatrice della forma cristallina, che dalla vescicola centrale dispone le molecole in contrasti elettrici, o della forma colloi- dale che fra le reti cristalline dà origine a gruppi elastici, o della forma pseudocellulare che fa muffe e granulazioni nei miscugli di detriti organici coi minerali, va assurgendo ad armonie speciali. che nelle meteoriti e nelle roccie profonde del nostro globo e può dirsi la scoria universale. La contestura soprafina delle Meteoriti rassomiglia a quella della neve, ed è do- vuta all' immediato passaggio del vapore di acqua allo stato solido. Come la neve, e malgrado la loro tendenza ad una cristallizzazione nettamente geometrica, le combinazioni silicato delle Meteoriti presentano cristallini confusi e minutissimi. Il silicio che sulla Terra ha bruciato, formando l'acido silicico, deve essere stato causa di un gran riscaldamento degli astri quando si combinò con l'ossigeno. Cuocendo il ferro fuso, per trasformarlo in ferro malleabile od in acciaio, l'ossigeno dell'aria brucia il carbonio ed il silicio ed una parte del ferro, producendo una scoria nera che contiene un Peridoto a base di ferro che ha V identica chimica costituzione e la medesima forma cristallina del Peridoto magnetico delle Meteoriti conser- vate nei principali Musei. Sono frammenti di vecchi corpi celesti, errabondi fra i sistemi stellari. Sono le forme primitive, spesso non ancora ben -definite della vita, la quale diventerà poi libera e forte nell'accentramento Cellulare e più che mai nell'Organico. Ogni forza attrattiva della Natura è ministra di ordine, che parte dalle Unità senzienti, le quali non sono essenze incaliginate di una filosofìa nebulosa, non sono Concetti antitetici da conciliare, uè Indistinti che si vadano distinguendo colla di- visione delle forze come nello Hegelismo e nell'^lr- digoismo, ma sono intime cause di fenomeni e di atti della Natura che si fa coadunando, anno- dando, stringendo, godendo. Non è un lume pallido ed intermittente quello che mandano i mille fatti fin qui accennati della coesione e della solidarietà, ma diventa, raffron- tato con altri della Chimica, un cardine di principii naturali, dei quali la scienza del pensiero è tenuta a fare indagini nuove. Non si dirà, speriamo, che in queste pagine abbiamo fatto della cristallografìa, perchè nelle descrizioni e nelle misure degli angoli di questa non siamo entrati (e di goniometri e di polariscopi non abbiamo fatto alcun cenno); abbiamo soltanto passato in rivista le diverse tendenze della materia che si crede morta, stupida ed inerte alla finalità del piacere, all'esercizio sempre più elevato •e complicato della coesione geometrica. L'ascesa alle chimiche combinazioni La combinazione chimica è un perfezionamento notevole e graduale della Coesione. Diciamo graduale perchè prima si fa coi simili e poscia impara a sposarsi con altri elementi. Così l'ossigeno libero, il cloro libero, lo idrogeno libero, lo azoto libero, il silicio libero sono sempre appaiati in molecole di due atomi. Che l'energia chimica non derivi dagli urti di particelle solide o liquide è dimostrato dal fatto che la energia di qualsiasi elemento non sta in proporzione delle masse, e che i loro equivalenti meccanici sono enormi. Ad esempio se si combi- nano per formare 36,5 di acido cloridrico, un gramma di idrogeno con 35,5 di cloro, svolgono tanto calore da innalzare di un grado la temperatura di venticinque chilogrammi di acqua (come osserva Stallo). Non è certo per cause meccaniche che V azoto (il quale forma quasi quattro quinti dell'aria) resta sempre il più inerte ed il più indifferente di tutti gli elementi, non entra in alcuna combinazione se non vi è spinto dalla elettricità. Ed è sempre pronto ad uscirne, abbandonando i compagni. Non è per cause meccaniche che V Ossigeno si combina con quasi tutti gli elementi con grande facilità od ardore. Unito con poco più di un decimo di idrogeno fa l'acqua, così benefica in tutta la natura. Ma unito coi metalli fa gli ossidi e le terre. Unito con corpi combustibili brucia, fa la fiamma del legno, delle candele, dell'olio, ecc. e forma e conserva e rinnova i corpi organici. Unito coll'azoto fa gli esplosivi, i cui atomi si spaccano, slanciano i projetti con velocità di chilometri per minuto secondo (2 la polvere di fucile, 7 ad 8 la nitro manite). Non è per cause meccaniche che il Carbonio e sempre un elemento di accentrazione, il quale con l'ossigeno, l'idrogeno e l'azoto serve a comporre i corpi organici, che vogliono continuamente scambiare i loro elementi. Non è per cause meccaniche che tutti gli ele- menti i quali si trovano in equilibrio instabile si combinano con ardore. La polvere da fuoco alla prima scintilla svolge un grande volume di gas acido carbonico, grazie all'azoto indifferente ed inerte, per cui l'ossigeno ed il carbonio si trovano in equilibrio instabile. E più ancora nella nitro- glicerina e nella dinamite. Non e per cause meccaniche che le combinazioni chimiche cambiano profondamente il modo di sentire e di operare dei loro elementi. Chi ravviserebbe nel sale di cucina, bianco, cristallino i suoi due componenti, vale a dire il cloro (gas giallo attivissimo) ed il sodio (metallo argenteo leggerissimo). Chi riconoscerebbe nell'acqua, composta per quasi nove decimi di ossigeno comburente, con oltre un decimo di idrogeno, combustibile, i suoi elementi? Chi troverebbe nel quarzo che cri- stallizza in aghi esagoni trasparenti, il silicio nerastro ed il gas ossigeno che lo hanno formato? ~L'Ardigoismo venga un po' qui col suo Indistinto, col suo incrociarsi delle famose linee del tempo e dello spazio, e con la sua legge di formazione, dividendo la linea e suddividendo all' infinito. Non è,'col dividere, ma coll'unire che si trova piacere e si fa l'evoluzione. Lo Hegelismo spieghi un po' col processo antitetico dei suoi concetti universali e concreti queste combinazioni chimiche ed i loro effetti, dovuti evidentemente a modi diversi di sentire e di volere. Non è per cause meccaniche che le sostanze iso- mere, vale a dire composte della stessa qualità e del medesimo numero di Atomi, hanno spesso un modo diverso di sentire e di operare. Ad esempio il fosforo bianco è velenoso; ma, scaldato nel vuoto, fa il fosforo rosso, che è innocuo. Il cianato di ammoniaca è velenoso, mentre non lo è l'urea. Sono Isomeri molte glucosi e saccarosi, l'amido, il legno e la destrina. Se le cause meccaniche facessero le combinazioni chimiche, la atomicità o valenza degli ele- menti (che si può chiamare la loro dose di energia) avrebbe una legge invariabile. Questa fu supposta quando nel 1855 il compianto senatore Cannizzaro (allora professore a Pisa) provò che non esiste contraddizione fra la legge di Avogadro che determina il peso delle molecole e quella di Dulong e Petit che determina il peso degli Atomi. Ma la ipotesi svanì ben presto (1). (1) L'idrogeno ed il cloro valgono 1, l'ossigeno 2, l'azoto 3, il carbonio 4, e pochi elementi hanno una valenza superiore. Infatti il carbonio si combina con 4 atomi di idrogeno e con 4 di cloro, o con 3 di idrogeno ed 1 di cloro, o con 3 di cloro ed 1 d' idrogeno. Invece 2 atomi di ossigeno, che è bivalente, si combinano con 1 atomo di carbonio. Nelle sostituzioni la valenza ha importanza, p. es. 1 di azoto che è trivalente, può surro- Anche i pronubi delle nozze (che sono in generale il calorico e la elettricità) non danno il modo di predire le combinazioni. Quelle che si fanno sviluppando calorico, dette esotermiche, hanno meno energia della somma dei loro componenti, essendo rimaste esauste. Quelle invece che si fanno convertendo subito il calorico in elettricità, senza perdita, dette Endotermiche, hanno energia maggiore della somma dei loro elementi. Armstrong considera la chimica affinità come una Elettrolisi rovesciata, in cui l'azione è eguale alla reazione. L' intimo fattore delle formazioni chimiche pare sia la tendenza a formare più alta Unità: infatti garsi a 3 di idrogeno, oppure a 1 di idrogeno e 1 di ossi- geno. Se uno di carbonio sposa 3 atomi di idrogeno non è saturato, e può appetirne e guadagnarne un altro di cloro o di idrogeno. Sempre univalenti sono idrogeno, cloro, argento, ed i metalli alcalini terrosi. La valenza è di 1, 3, 5, 7 in alcuni gruppi, di 2, 4, 6, 8 in altri. Una combinazione non saturata serve di radicale per nuove combinazioni. La ipotesi delle leggi di Atomicità o Valenza svanì quando si vide che l'ossigeno non è sempre bivalente e si fa valere come tetravalente quando vuol combinarsi con elementi più pesanti e che l'azoto non è sempre trivalente, perchè nella Urea 2 atomi di azoto ne sposano 1 di car- bonio ed invertendo l'urea in cianato di ammoniaca la diversità aumenta con 4 di idrogeno. E si vide pure che il ferro vale 2 nel bicloruro e vale 4 nel bisolfuro; si as- sodò che il solfo, il selenio ed il tellurio valgono 2 con l'idrogeno e 4 negli acidi anidri e nelle anidridi, e si constatò che l'azoto ed il fosforo che in generale sono tri- valenti, in alcuni casi si fanno valere come 5. Anche il Carbonio che vale 4, quando fa l'ossido di carbonio, di- venta soltanto bivalente. i fermenti o catalizzatori le accelerano. La meccanica chimica è fondata sulle leggi di Newton che non sono meccaniche. I composti binari della chimica organica (idrogeni carburati), i composti ternari (alcool, olii, grassi, acidi) ed anche i quaternari (amidi, ligneo, aldeidi, destrine, gomme, gelatine, albumine) esi- gono lungo tempo per formarsi, moltissime essendo le loro molecole. Quando un tipo è formato, questo si ripete e si sviluppa in una lunga serie: p. es. il tipo dell' idrato di potassa, o quello dell' ammoniaca. Quando si presenta un tipo di formazione superiore, è imitato e moltiplicato. E questo prova il principio pitagorico dell'ascesa a più alta Unità per godere, insito in tutti gli Atomi. Se non si frappongono ostacoli, la moltiplicazione dell'azione chimica è continua. Così nelle fabbriche di acido solforico, pochissimo biossido di azoto basta a provocare l'unione dell' ossigeno dell' aria con grandi quantità di acido solforoso. Come è naturale le combinazioni chimiche du- rano e resistono quanto più sono semplici. Fra i minerali, i protossidi, le terre e gli alcali. Resistono meno i deutossidi, i tritossidi ed i perossidi nei quali 2, 3, 4 Atomi di ossigeno stanno congiunti ad un Atomo di metallo o di altro elemento. I sali poi, che sono composti di 5 o più Atomi, non resistono al forte calore: meno che mai i sali doppi. Appena 30 o 40 gradi centigradi bastano per danneggiare i composti organici, come è noto a chiunque: e per poco che si vada oltre i quaranta si distruggono. La vita non sta mai nelle sostanze chimiche, ma nella morfologia, ossia nella capacità unitaria di fare funzioni ed organi, scambiando e dominando le sostanze chimiche. Perciò i chimici non arriveranno mai a fare nei loro laboratori nna cellula. Nondimeno l'analisi e la sintesi degli elementi organici si è ottenuta da mezzo secolo in qua sempre meglio, nelle sostanze meno essenziali alla vita. Berthelot sperava di arrivare a formare gli zuccheri. E. Fischer ottenne le sostanze zuccherine naturali semplici. Nessuno arrivò ancora a fare le albumine. Hegel definiva la vita e V idea arrivata alla esi- stenza immediata »; sicché le forze fìsiche avrebbero, secondo Hegel, soltanto una esistenza mediata, ossia non esistono in se: non sentono, non sof- frono, non godono. Ma allora sarebbero esseri puramente passivi e quindi non esseri. L'Unità assimilafrice cellulare L'acqua alla sua superficie, di 1 /25000 di milli- metro, tende a colloidare. E sotto una atmosfera gravida di carbonio, e dopo che un vulcano abbia versato solfo e fosforo, nel periodo geologico Laurenziano, sembra che alcuni Atomi isolati di car- bonio si sieno combinati con l'ossigeno, con l'idro- geno dell'acqua e con un po' di azoto dell'aria, per formare i primi biomori o granuli invisibili, i quali poi diedero origine al bioplasma reticolato, visibile eoi microscopio. Dal bioplasma si formarono i plastiduli ed i citodi che si sono concentrati in cellule. Concentrazione mille volte disfatta e mille volte rifatta forse, secondo le intemperie. Grazie alla intima tendenza delle molecole di formare più alta unità, e di accrescere e rendere durevole il godimento, acquistando capacità di fare moti volontari, tale concentrazione ha finito per durare. Da queste prime Cellule è uscita tutta quanta la Natura organica sopra la Terra. La forma sferica persistette poi in tutta la flora e la fauna allora quando, abbondando gli alimenti, si moltiplicarono rapidamente e si concatenarono, formando colonie di cellule. L'acqua rimane, anche negli organismi superiori, l'elemento necessario ed universale, perchè tutte le reazioni chimiche vitali avven- gono in essa, essendo essa composta, per quasi nove decimi, di ossigeno. L'acqua discioglie e mette in circolazione ed in conflitto le sostanze di ogni organismo, essa dissolve i sali in acidi ed in basi libere, come lo farebbe un forte riscaldamento, perchè libera il suo calorico la- tente (Gautier). E quando l'uomo stesso sente diffondersi sostanze inette alla vita, bevendo ac- qua si prepara ad eliminarle. — I sali, e specialmente il marino, o cloruro di sodio, rialzano lo scambio vitale, penetrando da per tutto, per la piccolezza delle loro molecole e determinando la solubilità o insolubilità di molte so- stanze proteiche. L'agente della vita non è una pretesa forza vitale staccata dagli Atomi; ma è Velevazione delle Unità atomiche ad Unità più alta e a godimenti maggiori (1). Se si guardano le cellule dal punto di vista della Unità formatrice si intendono e si penetra nella causa che è la Natura che si fa; mentre, se si guardano dal punto di vista del molteplice materiale, non si hanno che dei frammenti slegati ed inerti. Delle prime cellule viventi ci può dare un'idea oggidì il protoplasma o parte sempre giovine delle piante. La cellula si forma unificando e restando una nella varietà. Infatti le molecole binarie, ter- narie o quaternarie della sostanza proteina del protoplasma (per la instabilità dell'azoto), sentono le variazioni di temperatura, e le vibrazioni elettriche e luminose, come la coesione e l'attrazione molecolare. Il protoplasma delle piante è colloide, viscoso, non traversa mai le membrane per diffusione, ed è formato da due o più sostanze albuminoidi (2), con acqua e sali. Non si scioglie nell'acqua, ma ne assorbe moltissima, e senza essa non vive. Si muove sempre ed ha granuli (3) che vanno alle pareti della cellula a prendere aria ossigenata (1) A questo innalzamento giovano molto gli accelera- menti dei processi chimici che sono cagionati per Catalisi, ossia per la presenza di una minima quantità del prodotto della combinazione bramata, che ecciti al piacere della sensazione superiore. (2) Una molecola di albumina ha 72 Atomi di carbonio al centro, che trattengono in un solo sistema sociale pa- recchie centinaia di Atomi di idrogeno, di ossigeno e di azoto. (3) Questi granuli sono per lo più di materie proteiche, però ve ne sono di grasse e di minerali e luce ed a nutrirsi di polveri e fanno appendici come amebi, variando la vita a seconda delle cir- costanze, finché queste non sono troppo avverse. Nei nostri laboratorii si studiano le combinazioni in proporzioni costanti delle sostanze non più viventi, perchè le viventi variano troppo le loro combinazioni per essere osservate con sicu- rezza. Con l'acido acetico si scioglie il protoplasma delle cellule, ma non il loro nucleo. Il protopla- sma staccato dalla sua colonia è sempre morto, ed assorbe indifferentemente tutte le sostanze, anche il cloruro di sodio ed il nitrato di potassa. Ma quando è vivente, respinge queste e tutte le sostanze nocive, e non assorbe se non quelle che può assimilare, provando così che la Unità interna fa la vita, e che la struttura materiale, ossia la Natura fatta ne dipende. Infatti il protoplasma perde ogni irritabilità e vitalità se viene sottoposto all'azione dell'etere e del cloroformio, come se fosse un animale. Del protoplasma quattro quinti sono acqua, un quinto è formato dalla materia granulosa vitale della quale ora parleremo. Questa massa granulosa è sempre molle ed estensibile, ma non è densa se non attorno al nucleo. Ogni varietà di granuli si assimila le materie opportune. Senza sensazioni gradevoli o spiacenti, senza figurazioni non si sarebbero mai fatte le cellule del protoplasma. La funzione precede la struttura; ma il protoplasma rimane sempre allo stato ameboide. Una macchina a vapore è fatta dal di fuori, unendo pezzo a pezzo, come l'uccello fa il suo nido e il castoro la sua capanna; se viene guastata, non si accomoda da se, non si provvede da se di ac- qua e di carbone, ed è indifferente se invece di carbone si ponga materia non combustibile sotto la caldaia, e se dentro questa si metta dell'arena invece di acqua, e se invece di vapori arrivi ghiaccio nel suo distributore. Ma il protoplasma si fa da sé stesso, come una società cooperativa, dal di dentro, per slancio delle energie chimiche, intente ad accrescere le loro sensazioni rudimentali di os- sidazione. Perciò è pronto a riparare una ferita, un danno. Non vi è una forza vitale particolare: ina tutte le forze fisiche e chimiche cooperano nell'ascesa alla Unità Cellulare. 1j assimilazione è una prima funzione delle Unità confrontanti, e sta nel fare (come lo dice il nome), simili alla propria cellula le sostanze diverse che incontra. L'azoto non serve se non come elemento indifferente, dando agli elementi attivi (carbonio, ossigeno, idrogeno e sali) la facilità di scomporsi e di ricomporsi, onde cambiare le molecole inerti e semplici in molecole operose e composte, ascen- dendo (se l'ambiente è favorevole) a maggior pia- cere di vivere. La cellula scompone le materie incontrate, trat- tenendo quelle che può appropriarsi, dando loro il SUO tipo, e respingendo od escretando le altre, conservandosi nella sua forma e nella sua chimica composizione, nella sua armonia, come un Tutto bene sistemato. Il protoplasma è una continua affermazione dell'Unità reale, ossia dell'Essere Uno, per se. Quando una cellula è ben nodrita e si gonfia, la Unità formatrice si raddoppia, divide le sue molecole in due segmenti, che diventano ciascuno eguale alla cellula madre, e così di seguito. Ogni cellula ha il suo nucleo, distinto dai granuli microscopici che lo attorniano. Il nucleo (nel quale ci è sempre un po' di fo- sforo) è una minima cellula interna centrale, con sugo alcalino e molti granuli, di cui il maggiore si dice nucleolo. Nella segmentazione (chiamata Cariocinesi) vi è un centro-soma, ossia corpo centrale, che fa un citoplasma (rete di fili colorati che contengono il protoplasma). Dal centro-soma cominciano, nel momento della segmentazione, i due Astri (Aster) o centri di fibre diramate verso la periferia e contenenti, nella loro rete, materie contrattili e sostanze nutrienti. Ingrossandosi queste, e formando un solco, la cellula madre si divide in due parti. Non vi sono genitori ne figli, ma la Unità del Tutto che determina le parti, si ripete vitalmente migliaia e milioni di volte. Questo processo di segmentazione continua nella nutrizione delle piante e degli animali. La Unità cellulare è una legge sociale, che si conserva in tutte le cellule derivate, con la stessa forza assimilatrice. La spiegazione meccanica qui è, non solo impotente, ma diventa assurda; giacche tutti sanno che dall' 1 al 2 non vi è frazione che possa condurre 1 +- V2 + 7^ -b 78 4- 716 ecc. ecc. Ed anche coi Differenziali, non si è mai trovata la costante degli Integrali. L'agente della Cariocinesi è la Unità sociale ereditata, il tipo assimilato?^ che sa conservare la sua identità in tutte le cellule che ne derivano, distinguendosi sempre dall'ambiente. Chi volesse vedere la vita incipiente non ha che a passeggiare lungo gli stagni. Se si raccoglie in uno stagno una goccia di acqua, e se la si osserva col microscopio, si ve- dranno cellule non protoplasmiche, ma separate le une dalle altre; cioè Amebi privi di colore, che si muovono con lentezza e si nutrono di pol- vere vegetale, facendo una lunga digestione e rigettando il soverchio. I più sviluppati sono la Terricola, la Guttata, ed il Limax. Benché gli Amebi e le Molière non abbiano struttura, hanno sensazioni e volontà e rispondono agli eccitamenti. Guardando col microscopio la materia granulosa delle muffe, degli Amebi, non presenta cel- lule: è un plasma semifluido con granuli che as- similano e si nutrono. In questi, come in molti altri esempi, risulta chiaro che non è il tessuto che fa la vita dal di fuori al di dentilo; ma all'opposto, la vita, che è tendenza all'unità superiore e al piacere, funzionando dal di dentro al di fuori fa poco a poco le strutture. Il prof. Verwoorn studiò le cellule dei Protozoari, prima che divengano animali o piante, e vide che sentono gli eccitamenti, si nutrono, as- similano, escretano, si adattano all'ambiente, ed accumulano energia chimica. Cercano di acquistare materiali per rendersi indipendenti (ecco il principio della vita, l'opposto dello Ardigojano che fa sorgere gli individui per le forze incidenti dello ambiente) per rendersi indipendenti nel nutrirsi, nel respirare e nel lottare. Esse manifestano la facoltà di discernere quello che è utile da quello che è dannoso nel sistema di armonia che si ven- gono formando, in cui trovano piacere (1). (1) Nessuna bestia mangia erbe velenose. Nella putrefazione della carne, nascono in un paio di giorni innumerevoli bacteri, i quali nel giorno seguente fanno cigli e flagelli, ed arrivano alla lungezza di i j iQQ o 2/ l00 di pollice; poi si gonfiano e seminano un liquido da cui nascono punti vivi, che diventano granuli e germinano i figli per segmentazione. In alcuni infusori il protoplasma si differenzia in parte contrattile e sensibile e parte digerente, che trasforma in clorofilla. In essi si vede la ge- nesi dei due regni animale e vegetale. Quando la parte nutritiva di una massa di cellule prevale sulla contrattile, sensibile, la vita ameboide si ri- trae in pochi punti e si rivivifica solamente nella stagione degli amori. Gli esseri inferiori assumono, a seconda dell'ambiente, il carattere vegetale o iL carattere animale. Ad es. le Euglene, benché provvedute di bocca e di apparato digerente, si nutrono come vegetali, prevalendo in esse la clorofilla. — I Protozoari o Protofiti non sono organismi, perchè cambiano di struttura: ma sentono il calore, la luce, l' umidità, il contatto, e si nutrono, si moltiplicano. Alcuni tastano, gustano, nuotano, vi- vono in società e spiegano i loro pseudopodi, ten- dono ad impadronirsi dei frammenti vegetali che trovano vicini. Sono i viventi più piccoli e più allegri e non hanno struttura visibile. I preludi delle azioni vitali sono per lo piùfatti dai fermenti. I fermenti, figurati o no, aiutano l'assimilazione nelle piante e negli animali, come Catalizzatori, accelerando o ritardando le reazioni, senza prendervi alle volte parte attiva,, come fa la polvere di platino nella fabbricazione dell'acido solforico. I fermenti aerobi respirano l'ossigeno dell'aria. I fermenti anaerobi pigliano l'ossigeno senza contatto con l'aria, cercandolo nei liquidi dove si trovano. Ogni fermento è una vitalizzazione od unificazione (animale o vegetale) di succhi, e l'agente che li fa può essere solubile, ossia senza forma organica, ma la sua solubilità è però soltanto apparente. Ve ne sono in ogni protoplasma vivente; ce ne sono dei digestivi, degli idratanti, che sa- ponificano i grassi (come la steapsina) degli ossi- danti (come la laccasi) dei coagulanti (come la caseasi), degl' invertivi (sucrosi) che, se affondati nel glucosio, scompongono lo zucchero per cavarne l'ossigeno, sia nel mosto, sia nei frutti carnosi; se ne trovano anche nei germogli del grano e della barbabietola. Il fermento lattico inacidisce lo zucchero del latte; il mycoderma aceti ossida il vino e l'alcool, il mycoderma vini cambia l'al- -cool in acqua e acido carbonico, alcune muffe di- struggono aerobicamente lo zucchero e la celluiosi. Il lievito di birra, secondo le circostanze, è aerobio o anaerobio. Invece il butirico e la maggior parte dei bacteri sono anaerobi; tolgono l'os- sigeno agli zuccheri ed agli amidi e fanno all'oscuro la loro sostanza albuminoide. Quasi tutte le terre contengono fermenti, i quali trasformano l'azoto dei concimi animali in azoto nitrico. Le terre di leguminose sono abitate da colonie di bacteri sopra le radici e nel 1886 furono descritte da parecchi biologi. Nel 1906 l'inglese Bootmley ha scoperto il modo di modificarli e di renderli adattabili anche ad altre piante coltivate, sicché ogni coltura diventerebbe capace di ingras- sare la terra da se, senza sfruttarla mai, come fanno adesso le lupinelle, i trifogli e le erbe me- — 81 — diche, utilizzando tutto lo azoto che fa quattro quinti dell'aria e sotto l'azione della elettricità investela terra arativa e fino ad oggi andava perduto. Si intravvede così la possibilità di rendere facile la coltura intensiva anche nelle terre inferiori. I batteri di radici non somigliano affatto a quelli di cui parleremo nel Capitolo seguente, ne a quelli di cui fu detto nella pagina precedente. Nei diversi modi di essere, di sentire, di operare delle Cellule, vi sono tre fatti che altamente interessano la filosofia, vale a dire il Dominio del nucleo sopra le parti circostanti, la Segmentazione che è chiamata anche Cariocinesi, e VAssimilazione, Il dominio del nucleo ci prova che le unità delle molecole e dei biomori accentrano il loro senso* rudimentale, facendo delle moltissime piccole Unità solidali, una Unità centrale. La segmentazione prova che questo governo centrale non riesce a dominare un molteplice maggiore, per cui allorché questo supera il numero di Atomi governabili, la solidarietà si divide in due cellule. Jj Assimilazione dimostra che la Unità centrale così formata, rende gli Atomi nuovi inesperti,, (che entrano con gli alimenti), solidali degli Atomi vecchi non soltanto, ma che li sa ridurre (come lo dice il nome) simili ai precedenti facendo le medesime chimiche combinazioni; e rigettando le materie inette ad essere vivificate. Ecco il vero principio della vita. Questa tendenza, differenziata in apposite funzioni, per diverse specie di cibi, formerà poi, negli organismi superiori, le-' funzioni digestive. Fatti che non si spiegano certo con le sole forze chimiche, e tanto meno con le sole forze incidenti dell'ambiente, al modo Ardigojano; ossia dal di fuori al di dentro; ma che sorgono dalla forza unitaria del piacere. E sono dovuti al grande progresso che ha ot- tenuto nella cellula la originaria tendenza a più alta Unità, e ad accumimare stabilmente il sentire e il volere degli atomi. Così avviene anche nelle società umane: p. es. la Repubblica Portoghese non fu fatta nell'Ottobre 1910 da forze incidenti, venute dal di fuori al modo Ardigojano per caso; ma dalla tendenza -a godere la libertà ed a governare dei cittadini più istruiti, irradiando dall'Accademia a tutta la Nazione la volontà e la forza che rovesciò la.Monarchia clericale dei Braganza. Come le Unità Cellulari si accentrano nelle Piante per godere l'amore Nelle grandi associazioni di cellule, le varie parti hanno sensazioni assai diverse, perchè la Unità generale del Collettivismo dà a ciascuna parte funzioni specifiche, e quindi si vanno for- mando differenti strutture. Però la chimica composizione è presso a poco la medesima. Questa è una prova palmare che le diverse tendenze e funzioni non dipendono da cause materiali. Ogni cellula dell'organismo (oltre la funzione nutritiva e la facoltà di segmentarsi in due) ha una funzione sociale, che le viene imposta dalla collettività nell'atto della segmentazione. In generale le piante sono fatte da idrati di carbonio (amido, zucchero, grassi, albumine e clorofille). L' amido diventa celluiosi e legno, e nutre le piante dietro la luce che passa per le parti verdi o clorofille. Anassagora ed Empedocle insegnarono per i primi che le piante crescono per appetizione (éTuifruiila) e che la vita incomincia sentendo pia- cere o dolore. In generale le piante sono colonie o collettivi- smi di amebi protoplasmici che, facendo prevalere la parte nutritiva sulla semovente, si sono fatte delle costruzioni sufficienti a ricoverarli moltiplicati, per godere gli alimenti, l'aria, l'acqua, e la comodità di copularsi senza essere disturbati. In- vece di essere fatte dall'ambiente (come pretende lo Ardigoismo), cercarono fino dall'inizio di premunirsi e difendersi contro il medesimo. La natura che si fa cerca sempre di rendersi indipendente dall'ambiente. Noi vediamo le sole costruzioni e non i microscopici costruttori. Questi differenziano una parte del protoplasma in piccoli dischi di clorofilla con pigmento colo- rato in verde, per impedire la soverchia ossidazione dei carbonati e per moderare la propria respirazione dell'ossigeno. Della clorofilla due terzi sono carbonio, un sesto è ossigeno, 1' 11 °/ idrogeno, il B °/ azoto. Essa respira in modo contrario della parte animale delle piante, cioè assorbe il gas acido carbonico, ed emette l'ossigeno, e serve a proteggere gli amebi. Senza la clorofilla il protoplasma animale non resisterebbe al sole e si dissolverebbe sotto la pioggia. Le cellule o dischi verdi sovrapposte sopra le coste dei mari, fecero le Alghe ora in linee semplici, ora a lamine, ed ora a rami. Si ingrandirono, riunendo le tre dimensioni, e si ingrossa- rono, mentre il protoplasma animale ascendeva e le soluzioni saline col gas acido carbonico penetravano per endosmosi attraverso le membrane di celluiosi. Il protoplasma animale andava intanto concentrando il senso della coesione e delle chimiche combinazioni in modo sempre più perfetto, ed ar- rivava così a fare dei punti sintetici di amore ossia delle spore incipienti. Il diletto dell'unione si affinò e le colonie vegetali crebbero d' importanza. Come diremo nel Capitolo XIII, non si può chiamare memoria la riproduzione del collettivismo vegetale, perchè è piuttosto una legge sociale diventata meccanismo, come nella cellula la segmentazione in due cellule riproduce raddoppiata la cellula prima, per un modo di associarsi divenuto abituale a tutte. Le prime specie vegetali andarono così formandosi dal di dentro al di fuori. Alcune specie di Alghe crebbero fino a cento metri. E nelle prime Epoche Geologiche non vi furono altri vegetali che questi. Tutti sanno che le Epoche Geologiche anteriori alla Quaternaria, in cui noi viviamo, furono quattro, e che si dividono ciascuna in tre Periodi. Forse non tutti sanno che, ritenendo che, per i detriti delle roccie e le terre portate dai fiumi, il fondo del mare si alzi di un millimetro al se- colo (in termine medio) e misurando lo spessore dei sedimenti sottomarini che, per le sollevazioni delle Catene montuose (1) vennero in parte portati alla luce dalla prima Epoca in poi, si calcola che sono passati 40 milioni di anni divisi così: PERIODI Nell'Epoca Primitiva o Arcaica Laurenziano — 10 Milioni di anni Cambrico — 6 » > Siluriano — 7 » » Neil' Epoca Primaria o Paleozoica Devoniano Carbonifero Permiano 12 Neil' Epoca Secondaria o Mesozoica Trias Giurese Cretaceo Neil' Epoca Terziaria o Ceiiozoica ) Eocene Miocene Pliocene (1) Una volta il sollevamento delle Catene montuose veniva attribuito a spinte verticali date dal magma centrale dal sotto in su. Elia de Beaumont, Machperson, Suess, Lapparent e molti altri, fra cui Federico Sacco, professore di Paleontologia nella Università di Torino, dimostrarono che deve attribuirsi invece al raffreddamento del globo, che obbligò la prima crosta a corrugarsi, facendo delle catene montuose per la j^ressione laterale. Ripetendosi la causa, si formarono molte catene parallele una sotto l'altra come nelle Alpi, nell'Himalaya, nelle Cordigliere delle Ande e nelle Montagne Rocciose: oppure 6 In tutto 40 o 41 milioni di anni dopo le roccie primitive della scorza terrestre, e prima del periodo in cui viviamo (1). Quando le acque si ritiravano per l' innalzamento graduale di qualche costa, poco a poco le Alghe mandarono al fondo alcune appendici, che si tra- sformarono in radici. In pari tempo si andarono complicando e perfezionando gli organi della nutrizione, della re- spirazione e di difesa. Questi progressi furono lenti e graduali e sempre la Natura che si fa restò la parte minima, mentre la Natura fatta o meccanismo fu la parte una a distanza dall'altra in linee arcuate o diritte. E lungo queste Catene si sprofondarono i mari, il cui fondo, alle volte, veniva poi sollevato in parte. I vulcani trovansi sopra le linee soggette a movimenti più pronunciati. I terremoti avvengono dove il corrugarsi continua. L'eminente geologo prof. F. Sacco ha in molte memorie chiarito queste ed altre leggi di orogenia, e specialmente nell' « Essai sur l'Orogénie de la Terre», 1895, Turin. Clausen. Egli segue la nostra filosofìa pitagorica e desi- dera che essa venga accolta dalla maggioranza degli scienziati - anzi crede che questo dovrà verificarsi in un tempo più o meno prossimo. (1) Si crede che soltanto al principio dell'Epoca Terziaria cominciassero i ghiacci ai poli e sopra le più alte catene di montagne, ossia un milione di anni fa, dice il Falsan « La période glaciaire », pag. 221. Sicché per 30 milioni di anni la nostra Terra potè svi- luppare una vegetazione di paesi caldi. Ma i ghiacci si estesero in Europa soltanto quando il Sahara diventò un mare e quando cambiò il corso del Gulf Stream dell'Atlantico. E il clima mite nostro ritornò al disseccarsi del mare sahariano e al modificarsi della cor- rente calda dell'Atlantico dalle Canarie alla Norvegia ed all'America. —massima della vegetazione. Però la minima parte della Natura che si fa bastava a fare l'Evoluzione ed a dare origine a migliaia di specie diverse, sempre più rigogliose. Ancora oggi nelle Alghe Desmidie, nelle Diatomee, nelle Spirogire, tutte Alghe unicellulari e microscopiche, la copula è di semplice condensazione, e il protoplasma viene scambiato sotto la vecchia scorza e le fa ringiovanire. Per dare un' idea del numero immenso di queste semplici Alghe basterà dire che la scorza silicea delle Diatomee (numerosissime in tutte le acque dolci e salate del mondo), forma quella terra fina detta tripoli che serve a pulire i metalli. Benché una goccia di acqua contenga delle migliaia di* queste minime Alghe, pure il loro numero è così grande, che ne sono formati degli strati estesis- simi prima della Epoca Terziaria. Nelle Alghe composte di molte cellule si formarono le prime spore come centri dell'Amore. La filosofìa ha trascurato finora lo studio delle prime manifestazioni dell'amore, che tanti insegnamenti racchiudono. Le zoospore, animaletti microscopici, riuniscono in se la energia morfologica delle piante primitive, che non è Memoria come pretendeva Federico Deipino « La psicologia dell'avvenire », ma è una legge sociale la cui sintesi s'impone nel protoplasma animale delle piante. Nelle più semplici Alghe Porfirie, le spore cadute si muovono strisciando come gli Amebi. In altre Alghe esse si riuniscono in gruppi di cellule ovoidi, con delle appendici vibranti, le quali, col fissarsi in terra e col segmentarsi, produssero i primi talli germinanti. Molte Alghe per le inondazioni morirono nella melma; ma dai loro frammenti privi di clorofilla, uscirono i Funghi composti di filamenti ramificati. Da quelle poi che erano più putrefatte si crede che siensi formati i Bacteri, i quali rimasero sempre minutissimi, ma si moltiplicarono assai, re- stando innocui finche vivevano all'aria (1). Nelle Alghe superiori cominciò la divisione delle spore in femmine ed in maschi. I due sessi si as- sociarono per fare gli Sporangi od Oogoni capaci di germinare. Nei posti dove le Alghe erano prossime ai Funghi si unirono con questi per formare i Licheni. Ma i Funghi ed i Licheni (essendosi dati a vita parassita) rimasero piccoli e deboli. Le Alghe Characee popolarono le acque dolci e gli stagni. (1) È noto che quando i Bacteri penetrano nel sangue di un animale ferito, avendo bisogno di ossigeno, ne alterano il sangue, producendo una malattia contagiosa. Sopra di essi venne studiato il processo di evoluzione con facilità, perchè ve ne sono di quelli che in due ore si raddoppiano, sicché in pochi anni si possono ottenere molte migliaia di generazioni. E così si vide che era possibile col variare la loro ali- mentazione e l'ambiente e di rendere innocue le specie più virulenti. Pasteur li coltivava nel brodo, che presto si altera e non si coagula che a 0° gradi. Roberto Koch di Berlino li coltivò nella gelatina, che si solidifica a 16 gradi centigradi e quindi nel clima di Berlino permette quasi tutto l'anno (meno il breve estate) di fissare i bacteri sopra una lastra di vetro in un sottile strato di gelatina e di osservarli col microscopio fornito del così detto « Mare di luce Abbe ». Il Koch arrivò così a scoprire i bacilli della tisi, del colera, della febbre gialla, della peste; riformò la teoria Le Fucacee furono le più diffuse nei mari e formarono delle masse estese dette Sargassi. Al- cune Alghe come la Macrocystis arrivarono alla lunghezza di centinaia di metri. Le Alghe dei terreni che andavano asciugandosi, rese robuste, aspirando bene l'ossigeno, si trasfor- marono poco a poco in Muscinee o Muschi non più alte di mezzo metro. Nei Muschi acrocarpi le piante femmine producono degli archegoni o sacchetti in cui si sviluppa l'oosfera che, fecondata, fa l'uovo che germinerà, mentre le piante maschie fanno le anleridie o sacchetti dai quali scappano gli anterozoidi, che vanno a fecondare le oosfere delle sorelle. Dalle Muscinee vennero le Epatiche piene di spore, anch'esse per lo più divise in piante maschie con anteridie e piante femmine con gli archegoni, piene di acido malico, che attrae i maschi. delle infezioni ed ebbe numerosi discepoli, fra cui il nostro Gosio professore a Roma. Anche la muffa delle cantine (Pennicillum glaucum) le cui spore sono tanto minute che girano nell'aria, messa nel sangue di un animale senz'altro muore; ma, se viene coltivata ed abituata poco alla volta a stare nel sangue caldo, può far morire un coniglio in due giorni. I Bacteri sono a milioni nei paesi tropicali e in certi paesi sono cospersi o influiti da corpi radioattivi tanto da^ far luccicare le acque del mare. Se ne raccolgono molti di questi innocenti bacteri per farne in Germania delle lam- pade a luse verdastra-azzurra, le cui onde sono molto brevi, e si conservano senza rinnovare l'aria per parecchi mesi, permettendo di leggere i giornali di notte e di fare qua- lunque lavoro. Invece nei paesi assai freddi i Bacteri mancano, o sono pochi. Per questa ragione la carne degli animali uccisi si conserva benissimo nelle terre polari, giacche la causa della putrefazione delle carni non è il calore, ma sta nei Bacteri. Le proporzioni crebbero nelle Felci e nelle Preste. I vasi interni lunghi si moltiplicarono, per mandare in alto i succhi nutrienti e per formare edifìci e magazzini dove albergare e gustare la vita e l'amore, formando dei 'protalli. Alle Felci aventi spore, seguirono i protalli a Félce, con generazione alternante: l'una intenta ad accrescere la nutrizione, riproducendosi senza nozze; l'altra a gustare l'amore ed a migliorare la morfologia, mediante la riproduzione sessuale. Nella Età paleozoica le Crittogame avevano raggiunto proporzioni colossali anche ai poli: ma oggi si sono ristrette alle regioni tropicali. Nelle Preste dove i maschi erano separati dalle femmine, intorno al tallo permanente, ne sorsero altri più piccoli, a formare lo sporogono nelle Ofioglossee. Lo sporogono o sporangio, diventò il più gradito convegno di spore dei due sessi, e servì alla evo- luzione morfologica delle specie superiori, fino alle Fanerogame del nostro tempo. Dal periodo Devoniano al Permiano la vegetazione fu superba in Crittogame ed in Gimnosperme, soprattutto in Pini, mentre nessuna Angiosperma era ancor nata. Le Crittogame e Gimnosperme si svilupparono per milioni di anni e lasciarono, laddove si sono fossilizzate, il Carbon fossile, che contiene quattro quinti di Carbonio puro. Si restrinsero dopo il periodo Permiano e allora prevalsero le Conifere e le Cicadee. Nel Trias co- minciarono le Angiosperme. Dopo il periodo giurese prevalsero le Fanerogame, che prima erano piccole, e crebbero in al- tezza. Fin dalle prime Ofioglossee il tallo dell'amore si era impiccolito e fatto incoloro e sotterraneo, e si moltiplicarono gli sporogoni o sporangi: il tallo poi fu ridotto quasi a nulla nelle Rizocarpee, mentre lo sporogono dominando si divise in spore maschie e spore femmine nei Licopodi. Finalmente nelle Fanerogame (Gimno ed Angiospermé) lo spo- rogono nascose il tallo facendo spore maschili o polline e spore femmine od ondi. Il protoplasma maschio non si organizzò più in corpuscoli, ma attraversò per endosmosi le pareti del tubo pollinico e andò ad impregnare i corpuscoli dell'ar- chegono. Le foglie dello sporogono furono trasfor- mate per la festa dell'amore in variopinti e vellutati petali, stami e pistilli, emulando le spighe a sporangio floreale delle Crittogame. Nelle Gimnosperme (conifere e cicadee) la macrospora, ossia il sacchetto embrionale contenuto nell'ovulo (macrosporangio) diede luogo ad un piccolo protallo che rimase nel- l'ovulo e ad un endosperma con archegoni, che il polline andò a fecondare; dopo di che YOosporo potè fare il granulo del seme. Il polline è un surrogato dell'anterozoide delle Crittogame e non ha l'aspetto di ainebo, ma ne ha la virtù, senza sforzare le piante a perdere la vigoria nutritiva; è un perfezionamento che fa godere l'amore senza perdere la robustezza. In questa lunga evoluzione degli organi sessuali riesce evidente che la psicogenia è fatta dalla sen- sazione piacevole e che la somagenia non è altro che un risultato della psicogenia ripetuta con per- severanza. La Natura che si faceva nelle foreste era la parte minima, ma era piena di vita allegra. Nelle antere, nei pistilli dei fiori è evidente la vita animale: sono relativamente caldi e respirano più ossigeno che il resto della pianta. Uovulo ha molte cellule irritabili, il cui nucleo si segmenta e fanno il sacco embrionale, composto di due cellule che ricevono il polline, e sono nodrite dalle vicine: una di esse farà il germe con due cotile- doni che diverranno la radichetta e la piumetta. Nella Fanerogame la riproduzione è assicurata in tutte le parti giovani. I Protonti tendevano a fare un protallo sessuale permanente: ma non vi riuscirono: e già nelle Crittogame superiori e nelle Gimnosperme il protallo sessuale era stremato. L' indirizzo assunto dalla maggior parte delle specie vegetali fu quello invece di fare degli sprorogoni perpetui, nei quali per spore e per germorgli si gode una riproduzione più diffusa, benché i germogli non si stac- chino dalla pianta madre, come facevano le spore delle Felci. — Rosai, Viti, Ciliegi, Peri, Meli, Spine e migliaia di altre specie meno comuni nel clima temperato, si moltiplicano per germogli, quanto per semi - perchè spore o germogli di spore sono quasi dapertutto. In generale nelle piante attuali prevale la generazione agamica o la sessuale; ed è rara la generazione alternante (fuorché nelle Conifere-vascolari). Nelle Fanerogame le parti giovani hanno sempre spore e possono germogliare; tutti sanno che nelle Begonie persino ogni foglia fa germogli avventizi, capaci di produrre una pianta perfetta. Nelle Fanerogame il nodo del picciuolo delle fo- glie parte dal centro del midollo e dà la morfologia e la chimica delle parti che ne derivano, poco meno dei fiori. I fiori degli alberi corrispondono alle Meduse ed ai Polipi idroidi e si individualizzano, mentre i nodi e le foglie si riproducono senza nozze. Nelle miriadi di specie erbose ci sono individui agami alla radice, e nel fusto: mentre in cima al fusto sorgono individui fiori. Il fusto risulta dai fusticini posti a capo uno dell'altro, tutti con ra- dichette, con fibre, con vasi, con trachee. Mirabile composizione, formata lentamente nell'ascesa a più alta unità del collettivismo di ogni specie. Nelle Piante (come negli Animali) il fattore delle maggiori trasformazioni fu l'Amore. L'ambiente, il clima, l'uso e il non uso degli organi influirono meno della sintesi goduta nei piaceri intimi della Natura che si fa liberamente. Dorhn variando Fambiente, vide che gli organi restavano a lungo i medesimi, ma le funzioni variavano subito; poco a poco la funzione che era secondaria, diventava primaria, modificando in alcune generazioni tutta la struttura. Ed oggi il De Vries attribuisce la evoluzione delle piante a rapide mutazioni. La maggior cernita sta nelle mutazioni del si- stema riproduttivo, più che nell'adattamento al- l'ambiente: perciò la prima cura dei giardinieri (come degli allevatori del bestiame) è d' impedire Vincrociamento coi tipi vecchi e di somministrare all' individuo che si vuol variare una forte nutrizione. L'Embriogenìà, origine dell'individuo organico, è un raccorcio della Filogenìa, origine della specie, anche fra le piante. Nelle Fanerogame si tro- vano reminiscenze delle Thallofiti, delle Muscinee e delle Crittogame. Dove la pianta ha vita più attiva è aerobia ed animale, come nel seme che germina, nella gemma che si sviluppa, nella foglia che cresce, nel fiore che matura: e consumano molto ossigeno riscal- dandosi. I fiori assorbono in 24 ore tanto ossigeno quanto l'uomo (a parità di volume). Le parti più vive sono sempre più azotater giacche l'azoto, essendo indifferente ed instabile, favorisce la decomposizione e la ricomposizione delle molecole a seconda dei bisogni. Queste parti sono le più calde e le più zoidi; però la parte animale delle piante resta sempre minima, benché diffusa. Le piante più attive, come la sensitiva, si affaticano e poi dormono. La Dionea chiude le foglie e stringe gli insetti in trappola. La Drosera segrega in pari tempo un vischio che li uccide e li digerisce. Sono le piante più azotate di tutte. — In tre piante insettivore fu scoperto nel 1900 da Huberland un vero organo del tatto, sopratutto nella Mimosa pudica. Nel 1904 Kollwitz vide il principio di una struttura nervosa anche in altre piante. F. Hook attribuisce alle piante anche sentimenti e volizioni (1). La lenta Evoluzione delle varie specie di piante compiuta in milioni di anni nelle Epoche geologiche indicate fin qui, smentisce affatto gì' influssi delle idee- eterne del Platonismo e dello Hegelismo e più ancora la pretesa formazione naturale dell'Ardigoismo, che avverrebbe per lo incrocio della linea del tempo nei punti dove si tagliano le tre linee fra loro perpendicolari dello spazio e prova la verità del Pitagorismo, dimostrando che le piante si sono formate per sensazione e volontà, cercando ed ottenendo il godimento e la moltiplicazionedelie spore e dei germi di riproduzione. In generale le radici sono coperte di uno strato di cellule piene di aperture, le quali (quanto più si trovano verso la punta), assorbono per endo- (1) Sind Pflanzen und Thiere beseelt? 1906, Lipsia. smosi i succhi minerali disciolti. L'acqua passa più presto del fluido denso che empie le cellule e dietro essa i succhi minerali e sopratutto la soda vicino al mare e in terra ferma soda, potassa, calce, silice e talvolta il ferro. Darwin as- somigliava le radici a talpe, che volessero andare a cercare il cibo sotterra e col muso procurassero di stendersi nel terreno umido e grasso, evitando i sassi e all'occorrenza sciogliendoli nell'acqua un po' alla volta. Alcune arrivano, perseverando, a sciogliere marmi e silicati. Il moto di circumnutazione di queste radici sembra fatto dalla intelligenza, per evitare o superare gli ostacoli; poco sopra delle punte vi sono dei peli, che assorbono sempre succhi minerali. Nei fusti e nelle foglie il protoplasma fa un moto di circumnutazione che si alza la sera e si abbassa la mattina, ed è forte sotto i tropici* giovando a diminuire l'irradiazione notturna. L'energia della pianta viene dalla combustione in piccola parte, ma assai più dal sole; perchè i suoi cibi sono inossidabili ed inerti come lo sono l'acqua, l'acido carbonico, i nitrati ed alcuni sali e quindi incombustibili. Ma la luce fa operare la clorofilla, che aspirando il gas acido carbonico, lo scompone e rigettando l'ossigeno (1) mette il carbonio in grado di far zucchero, amido, grassi e albumine, e anzitutto l'amido (C6 H10 O 5 ) e la glucosi (C6 H12 O 6 ); poi anche molecole azotate, (1) Di notte la pianta vive come un animale assorbendo cioè l'ossigeno ed emettendo carbonio. Una foglia, re- stando all'oscuro, prende in un giorno circa 8 volte il suo volume di ossigeno, mentre l'uomo ne prende 14 vo- lumi ed un passero 200 a 260. pigliando l'azoto dalla terra e non dall'aria, ossia pigliandolo dai nitrati. Con questi elementi saturati incombustibili la pianta fa molecole combustibili non saturate e cariche di energia. Lo sviluppo della clorofilla comincia nei punti gialli dei cotiledoni chiamati leuciti, che alla luce fanno diventare verde il loro pigmento. Sono glomeruli che dal calore del sole e dalla luce assumono l'energia termico-elettrica, trasformandola in energia chimica che assorbe il carbonio. Ogni specie ha una clorofilla apposita, e ad esempio negli spinacci è fatta di C 40 H62 A2 O 4, nella erba medica G 42 H63 A2 O 4. Nelle piante acotile- doni è ancora assai diversa. Assorbendo il carbonio, i glomeruli verdi formano le aldeidi, gli zuccheri, gli amidi, i corpi grassi, il tannino e le materie albuminoidi, con un lungo e fecondo lavorìo. Negli albuminoidi, oltre al carbonio e agli elementi dell'acqua e dell'aria, entra sempre qualche po' di solfo e alle volte anche di fosforo: elementi accentratori, che vedremo cre- scere negli animali e di cui vi sono traccie già nei nuclei delle cellule degli amebi e del protoplasma. L'acqua col carbonio fa l'aldeide più semplice, il quale polirnerizzando fa lo zucchero. I fermenti della cellula, sotto la luce del sole fanno nelle foglie zucchero ed amido. Tenuto al- l'oscuro l'amido si cangia in celluiosi o mucilaggine. La celluiosi è una sostanza idrocarbonata insolubile negli acidi e nelle basi (che sotto l'in- fluenza degli alcali può tornare amido) con cui si fanno le parti più solide delle piante C 12 H10 O i0. Le piante prendendo l'azoto non dall'aria, ma dalla terra, riducono i nitrati ad acido cianidrico. Nelle sementi a lungo private di qualsiasi umidità i gruppi di cristalli poliedrici delle aldeidi, gruppi (che si chiamano i miceli) si toccano. Mase penetra l'acqua, si rianimano ossigenandosi, e, se la temperatura è dolce, germogliano. Mettendo del grano di frumento nell'acqua te- pida, non si cambia il suo amido finche non germina. Ma appena principia a germogliare, l'amido si idrata e si trasforma in glucosi. Ed ora veniamo alle analogie interne fra le piante e gli animali. Il liquido assorbito dai succhi digestivi in cui le radici hanno trasformato i sali ed altre sostanze minerali ascende nel fusto, sciogliendo alcune so- stanze che trova nel passaggio e diventa linfa. Quanto più questa ascende, tanto più diviene densa. Essa forma dei canali o arterie capillari, nei quali scorre, attratta dalle gemme sbocciate sul fusto, ed arriva agli stomi, ossia alle bocche delle foglie, dove si ossigena, evaporando l'acqua. Da queste foglie il succhio ridiscende sotto la corteccia, divenuto latice (piccolo sangue, di cui la parte essenziale si coagula, come il sangue ani- male). Come latice empie i canali laticiferi ramificati dal parenchima, e fa, nelle fibre allungate, il così detto Libro. Il latice è pieno di granuli vitali, che, come i globuli del sangue, circolano e depongono il nutrimento nelle varie parti, fino alle radici e nel midollo, formando quel deposito di materie nutritive che sta fra il legno e la corteccia delle piante dicotiledoni, chiamato Cambio. Nelle piante monocotiledoni mancano le gemme laterali, e le fibre del libro ed i vasi laticiferi sono contenuti nei fasci fibrosi vascolari arcuati sparsi nel fusto. E perciò nelle monocotiledoni il cambio si deposita in masse sparse. La gemma terminale unica di queste Monocotiledoni approfitta del succhio elaborato dalle foglie precedenti; e così avviene anche nelle Acotiledoni vascolari. I vasetti laticiferi abbondano presso le ghiandole e sopratutto in quelle della resina e delle gomme sotto la corteccia. Vere ghiandole sotto l'epidermide sono quelle dell'arando, del mirto, della ruta, che secernono olii volatili. Le ghiandole interne ed opache son fatte da peli gonfiati, come nelle ortiche. Le materie resinose, la cera impermeabile all'acqua sono vernici utilissime, le quali moderano la evaporazione, e non sono escre- menti. Così nei pini, nei pioppi, nei castagni d'India. Nel Chili e nel Perù quasi tutti gli arboscelli hanno il trasudamento resinoso, perchè il clima è asciutto e senza di esso svaporerebbero troppo i succhi: la polvere di cera segregata da peli glandulosi copre le foglie dei cavoli ed altre specie, le prugne, le uve, ed altri frutti. Molte piante sommerse nell'acqua si rivestono di uno strato vischioso che impedisce all'acqua di macerarle. Le resine e le gomme non sono escrezioni: lo sono invece quelle •che escono nelle radici dai fiocchi gelatinosi. F. Loed (The dinamics of living matter, 1906,.New-York) considera ogni organismo come una macchina chimica, di colloidi; ma non può spiegare l'assimilazione e la morfologia senza Vunità senziente collettiva, che provvede ad ogni bisogno interno ed esterno delU piante. Le albumine vegetali sono eguali a quelle animali. Tutte si coagulano a caldo, tutte reagiscono del pari agli acidi, alle basi ed ai sali.Le globuline vegetali o Edestine, sono fatte per metà di carbonio, per un quinto di azoto, per quasi un quarto di ossigeno: il resto è idrogeno, con pochissimo solfo. I bacteri che (come dicevasi nel Cap. VI) in- grassano le piante sono fatti di una globulina so- lubile nell'acqua chiamata myco-proteina. Le caseine vegetali (tutte insolubili nell'acqua) fanno il glutine e sono affini alle legumine estratte dai legumi. II protoplasma è alcalino, ma il liquido che lo circonda è acido trasparente. Le fibrille vive pulsano, e nei vacuoli si depongono sali, acidi, zuccheri, grassi, amidi, tutti len- tamente segregati. Le glucosi formate nelle foglie di un albero, scendendo nel cambio sotto la corteccia del fusto, e poi nelle radici, perdono la loro acqua, e vanno depositando l'amido insolubile e la celluiosi. Rie- scono polimerizzando a fare alcuni principii aro- matici. Una parte importante l'hanno i fermenti. Dove la pianta cresce presto, lo si deve a fermenti ossi- danti detti ossidasi. Ossidando molto le aldeidi si ottengono gli acidi. Nelle sementi del papavero, del ricino, della canapa, del fico, del lino, della veccia, del granturco, ci sono le steapsine che sa- ponificano i corpi grassi ed idratano. Nel latice della pianta a lacca del Giappone ed in molti Funghi vi è la laccasi, fermento che provoca la ossidazione dei tessuti ed agisce sui germogli e fu trovato anche nella Dahlia e nella Barbabietola. Wiirtz trovò la papeina, fortissimo fermento in altre specie vegetali. Vedremo negli Animali quante funzioni vengano attivate dai fermenti. I fenomeni vitali aerobi, distruggono nelle piante, come negli animali, i grassi, gl'idrati di carbonio, con lenta combustione, che riscalda alquanto le cellule. Da per tutto dove si moltiplicano le cellule in- terne e si organizzano, vi è combustione e riscal- damento, emettendo gas acido-carbonico ed acqua, precisamente come si verifica in un animale. Le diverse funzioni interne delle piante che abbiamo indicate sono dunque analoghe a quelle di certi animali inferiori (meno la clorofilla o parte verde). Non siamo entrati nella Botanica descrittiva, limitandoci ad investigare la Natura che si fa delle Piante, le cause intime della loro formazione ed evoluzione. I Botanici si arrestano quasi sempre alla Natura fatta delle Piante e trascurano la Natura che si fa. Questa invece interessa altamente la Filosofìa della Natura, perchè presenta una serie ricchissima di fatti, che ci convincono che la parte materiale dei Vegetali è la persistenza ereditata dei movimenti funzionali che, molte volte ripetuti, diventarono strutture ed organi. Dalla psiche del Proto- plasma, non già dall'Inconscio Indistinto, né dal caso, uscirono tutte le funzioni: e tutte le forme mirabili della vegetazione universale, le cui centinaia di migliaia di specie abbelliscono la faccia della Terra. Tutto si è fatto dal di dentro al di fuori, all'opposto di quanto insegna VArdigoismo. « E questo fia suggel ch'ogni uomo sganni ». Origine psichica delle specie animali Ogni forza nella sua intimità, lo abbiamo visto fin qui nella Natura inferiore, è sentire e volere: sentire il contatto delle cose esteriori portate nella propria unità; e poi volere l'allontanamento di ciò che fa male e l'avvicinamento di ciò che fa bene: e giova a sviluppare la propria vita ed a renderla indipendente. Quindi ogni forza organica ha la sua finalità, benché si manifesti come Materia. La Natura che si fa era, ed è ancor sempre nelle specie vegetali ed animali sentire, desiderare e volere. Il sentire precede il desiderio, il volere e il muoversi lo seguono. Negli animali più che nelle piante si manifesta la causa evolvente, cioè la tendenza di elevarsi a sensazioni più armoniche, ad unità più complesse, operando e dominando in relazione. « Et mihi res, non me rebus submittere amor ». Orazio. Nel processo chimico la distruzione provoca a rimettersi; nel processo morfologico la Vita è la evoluzione a forma più alta, e più sicura di dominare gli ostacoli. Se fosse un mero processo chimico di combustione, si potrebbe mantenere la vita nei membri mutilati degli animali superiori, di cui si può conservare per alcune ore la digestione, la respirazione, la circolazione del sangue e la secrezione delle ghiandole. La formazione lenta e perseverante degli Organismi per fuggire il dolore e procurarsi il piacere è universale. Essa fa le funzioni e le consolida in organi, dapprima deboli e semplici, poi, con l'esercizio, vieppiù complicati e robusti. La funzione è la distribuzione della forza che un organismo oppone a quanto inceppa il suo libero sviluppo, ossia lo sviluppo del piacere. Il materialista crede che le Turbellarie non re- spirano, perchè prive di branchie, che i Polipi non sentono, perchè non hanno nervi, che gli Insetti non hanno circolazione perchè non hanno arterie, né vene; ossia credono che la funzione dipenda dall'organo, il quale organo poi si sarebbe fatto miracolosamente per virtù dell'ambiente. Invece secondo Schelling, Hartmann si sarebbe fatto per virtù dell'Inconscio, Indistinto, Infinito, secondo Ardigò da tutti e due. Ma il zoologo filosofo sa che le funzioni prive di organi si compiono meno bene, ma si compiono: e che ci vuole molto tempo a fare gli or- gani. La vita intensa non si manifesta se non quando le materie azotate si scompongono, per ricomporsi con atti Unitari Morfologici, che ordi- nano le funzioni e formano poco alla volta gli organi. Le correnti interne delle Monere fanno le prime appendici e la contrattibilità: esse non hanno ah tro organo della volontà che i così detti falsi piedi, formati dal loro protoplasma esterno viscoso: e quando hanno finito di muoversi, li ritraggono nella massa comune. I cigli permanenti principiano negli Actiniferi ed irradiano da un centro. Nelle specie superiori degli Infiisorii (1) si riuniscono in una coda, detta flagello (anche le spore delle Alghe verdi hanno cigli vibratili). Le larve dei Celenterati ne sono coperte. Engelmann distinse i moti degli Amebi, che sono sarcodici o ad appendici brevi, o fila- mentosi, dai moti oscillanti dei Bacteri. Gli animali sono in generale assai più azotati delle piante; e quindi di composizione più instabile, più facile ad adattarsi alle nuove circostanze e tendenti a dominarle. La loro psicogenia fa la somagenia più presto che nei vegetali. Dalla gelatina che è Valfa delle materie proteiche, essi arrivano in poco volgere di tempo a far Valbumina che ne è Vomega. L'albumina, con 14 elementi diversi, forma molecole composte di centinaia di Atomi, la cui struttura si presta alle più diverse funzioni, grazie alle isomerie, per le quali (con l'aumento di Atomi della medesima specie nella stessa molecola (polimerie) oppure con la metameria (che lascia lo stesso numero di Atomi di ogni specie, cangiandone soltanto la disposizione) si ottengono nuovi adattamenti all'ambiente e nuove forze per svilupparsi (2). (1) Fin dal 1848 il prof. Ehrenberg di Berlino scoprì 400 specie di Infusori microscopici che vivono in diversi strati dell'atmosfera, ed altre centinaia se ne scopersero poi, di una piccolezza tale da essere invisibili, nella pioggia, nella nebbia, nella neve, nel mare, negli stagni. La vita ani- male pullula dapertutto dove vi è ossigeno, anche in forme minutissime. Ci sono animaletti che si muovono con molta alacrità, sanno evitare gli ostacoli che si oppongono al loro corso: i grossi vanno a caccia dei piccoli. Se ne sviluppano molti nelle infusioni fredde o macerazioni vegetali. (2) Queste materie proteiche vengono nei Laboratori delle Università, cimentate con l'idrato di barite, con poco risul- tato, perchè l'albumina morta non è più capace di nulla. La sintesi piacevole o dolorosa guida l'animale a fare le funzioni più adatte, trovando mezzi migliori, e respingendo, abbandonando i meno utili per nutrirsi, per respirare, per muoversi e per riprodursi. L'organo deriva dalla funzione, la quale (come dicevamo) si compie anche se gli organi sono di- fettosi o mancano del tutto, benché allora si compia meno bene. Così distrutti i reni, l'urea viene estratta dal sangue nella superficie mucosa dell' in- testino. Quando una funzione comincia a localizzarsi, è sempre confidata ad un vecchio organo leggermente modificato. La Natura che si fa, tende sopratutto a modificare opportunamente la Morfologia. La formazione degli organi di relazione e so- pratutto degli organi dei sensi, ci mostra che una continua crescente attenzione a determinati scopi fu rivolta dai più semplici animali. Le successive accumulazioni di energia e di abilità acquisita, benché piccole negl'individui, da- vano una grande somma, dopo una lunga serie di generazioni, con la legge ben nota della diminuzione del lavoro biologico generale a vantaggio di un organo particolare. Furono certamente figurate con perseveranza le varie maniere di difesa che si fecero animali di scarsa intelligenza. Quando un atto nuovo, per speciale combinazione, è trovato utile, i più stu- pidi animali arrivano a farne una funzione, e ri- petendola per varie generazioni in favorevoli cir- costanze un organo efficace. Così i Bagni in ori- gine segregavano un liquido viscoso per farsene bozzoli; ma discendendo dalle frasche mentre il vento li gettava sui rami prossimi, videro che ritornando più volte al primo ramo ed incrociando i fili, pigliavano mosche, finche impararono a far reti geometriche, che all'aria si induriscono. Alcune Formiche, il Bombardiere, alcuni Scarafaggi videro che getti e spruzzi loro servivano ad allontanare i nemici e ne appresero l'arte. La Seppia imparò ad intorbidare le acque. Le Torpedini del Mediterraneo, i Siluri del Nilo e del Senegal, il Gimnoto dell' Orenoco ed altri Pesci, con apparati nervosi pieni di cellule prismatiche di gelatina, si fecero delle batterie elettriche con le quali danno scosse violenti a chi li insegue. In un Vademecum destinato alle persone colte in generale, per far meglio intendere la multiforme attività della psiche, che va facendo e moltiplicando ogni specie, ci sembrò utile di dare alcuni esempi caratteristici. Se una divinità inconscia presiedesse alla evoluzione degli organismi o se questi fossero fatti dalle forze incidenti dell'ambiente (che YArdigò, seguendo lo Spencer, crede tanto influenti), non sarebbe vero il fatto osservabile in tutti gli ani- mali e nell'uomo stesso, che le funzioni fatte con coscienza e ripetute, rendono i moti più facili e più coordinati, omettendo gli inutili, per insistere sugli utili, con teleologia sempre più chiaroveggente, interna dell'animale e non esterna dell' Inconscio cosmologico universale. Quando la funzione, ripetuta per alcune generazioni, ha formato sarcodi, muscoli, nervi e moti riflessi, cessa il lavoro di convergenza che atten- deva ad un determinato progresso morfologico: la coscienza se ne ritira, dirigendosi a soddisfare nuovi bisogni; ma la coscienza e la convergenza ritornano sopra quei punti, quando cambiano le — 106 — circostanze, e l'animale tituba sul da farsi, e deve fare nuovi movimenti e quando impara un mestiere. La convergenza assomma le Unità senzienti come un fiume assomma le acque di tutta una valle. La convergenza della Natura che si fa, trova i moti migliori e li combina. La Natura fatta delle cellule associate per fare i moti nuovi, dopo averli imparati, li continua come una macchina, come i soldati, dopo aver imparato l'esercizio dagli uffi- ciali, li continuano da se soli e li ripetono centinaia di volte facilmente. E questo meccanismo si fa poco a poco, perchè, con la semplice ripetizione di un movimento, l'ani- male, sente fortificarsi i muscoli che contrae, le ossa sulle quali i muscoli si inseriscono, ed i centri nervosi che li eccitano. Un animale superiore racchiude in se milioni di sensazioni delle sue cellule dei suoi organi, che egli, nella sua vita conscia generale, non avverte. Se le sentisse sarebbe confuso, come un generale condannato ad udire i discorsi dei suoi gregari. La cenestesia o sentimento comune, accentra le Unità organiche e fa la sensazione interna sintetica, che ^impone di esercitare o di trascurare le funzioni. È un tatto interno, che sente la vita scorrere nei visceri, nelle membrane mucose, nelle ghiandole, nei muscoli, nelle arterie, nei polmoni, nelle articolazioni, nei nervi: è, come vedremo nel Capitolo XIV, la base dell'anima giacche ne fa i sentimenti, le sensazioni, i ricordi e le voli- zioni: base psichica, che viene dalle singole unità delle cellule e degli organi e non dall'ambiente, ne dall'Inconscio, Infinito, Indistinto. L'eredità ci dà gli organi, senza che il neonato sappia ancora farli funzionare: la coscienza degli antenati li ha fatti poco a poco, ma facilmente l'animale diventando adulto impara ad usarli. La funzione va presto nell'animale nato da poco, da se come un meccanismo: senza nuove aggiunte: finché non cambino le circostanze e non sorgano ostacoli impreveduti. Per modificare le funzioni ci vuole la coscienza, l'attenzione, la Natura che si fa, la sìntesi chiaroveggente, gaudente o sofferente. Essa per fare dei cambiamenti minimi esige un grande lavoro, come osserva il Pouchet, mentre il lavoro della psiche inconscia, passiva, che va come un meccanismo, ossia della Natura fatta, non spende energia visibile, perchè si fa per con- vergenze particolari, minute e locali, senza cercare nuove combinazioni. I vantaggi acquisiti da poco tempo, si perdono, se non sono conservati e rafforzati coll'esercizio, e se la Volontà li abbandona, gli organi si atrofizzano. La selezione fatale per la sopravivenza dei più adatti a vivere in un determinato ambiente (the sunnvance of the fittest) propugnata da Carlo Darwin esigerebbe molti più milioni di anni di quelli che attesta la stratificazione dei sedimenti geologici. Quindi bisogna con Naegeli dare molto maggiore importanza alle cause intime, alla Unità noumenica, ossia non fenomenica, la quale sentendo, desiderando, volendo, cambia le funzioni e le perfeziona. Romanes ha mostrato che VAmore ha separato le specie animali, perchè, fra certe famiglie si stringevano alleanze, che escludevano gli altri, e le isolava; cosicché alla fine, le nozze con altre famiglie restavano sterili. Infatti la prima cura degli allevatori è eli impedire l' incrociamento delle nuove varietà coi vecchi tipi. — La figurazione amorosa, separando ed isolando, fece e fa le specie nuove. La umana imaginazione è una piccola parte delle combinazioni di imagini e di sen- sazioni che ebbero gli Animali, e sopratutto di quelle relative al miglioramento delle proprie condizioni e dei propri organi ed alle scelte sessuali. Sembra che le modificazioni degli animali su- periori sieno avvenute bruscamente, nell'ovario o nella prima fase dell'embrione, quando erano state lungamente richieste dalle circostanze e vi- vamente figurate e bramate dai genitori. L' imaginazione della madre ha la più grande influenza sull'Embrione, non soltanto nel concepirlo, ma anche quando si va svolgendo nel ventre, come lo provano tanti fatti di cui alcuni ne ci- teremo in seguito (molti somigliano a mostruosità). Ohi guarda le miriadi di specie minute resta meravigliato di vedere come siensi fornite di organi così diversi, così opportuni per la vita, nelle fo- reste, sui monti, sul mare, sulle acque dolci, correnti o stagnanti. Gli Insetti che volano hanno valvole pulsanti sparse in tutto il corpo e perfino nelle zampe, ed un intricato sistema di vasi e di tubetti secretori che fanno sughi gastrici e in al- cune specie (numerosissime sulle rive del fiume Orenoco in America) veleni per i nemici. GÌ' Insetti hanno foggiate le membra loro a mille usi per afferrare o masticare i cibi, per succhiare od incidere le piante e le carni (mandibole, palpi labiali, proboscidi, trombe, lancette). Alcune specie, come VElater tropicale e le nostre Lucciole, sono fosforescenti e la fosforescenza è dominata dalla loro volontà. Il verme di acqua dolce fa le branchie dalla pelle; il Crostaceo phyllopodo le fa dalle zampe. Nel Gambero gli anelli sono assai diversi: gli uni portano antenne, i seguenti mascelle, zampe e l'addome. E tra le zampe, ve ne sono di ambulanti, di prensili, di respiranti e di natanti. Tutti conoscono molte specie di Molluschi, le quali si fecero un mantello, emettendo, a lamine di carbonato di calce, una Conchiglia del colore del mantello, piccola casa portatile. Così gli Uccelli fanno le uova con guscio calcare. In generale le parti mediane cambiano difficil- mente. Invece le estremità vennero adattate fa- cilmente in tutta la Fauna ai nuovi bisogni, quando duravano per varie generazioni. Il graduale innalzarsi (con sentimento, desiderio e volontà) delle specie animali, fu studiato da C. Darwin e da Haeckel e tenteremo di darne le linee principali (per quanto si può in un paio di pagine), onde mostrare l'efficacia delle leggi generali di evoluzione sopra esposte. Haeckel, con mente scrutatrice e geniale ha li- brato i fenomeni della Embriologia e le testimonianze della Paleontologia, dando un quadro approssimativo della generale evoluzione morfologica dalle prime colonie di cellule. Dai Polipi idroidi derivano le Meduse e stac- candosi, formando la testa, gli Anellidi. Gli Articolati (Anellidi, Miriapodi, Insetti, Ragni e Crostacei) saldarono i loro muscoli ai tegumenti esteriori, che in principio erano semplici indurimenti della pelle e poi si coprirono di chitina. Come dagli Articolati venissero i Molluschi non è deciso, vi sono due spiegazioni. (Vedi Capitolo XIII). Dai Molluschi si staccarono i Tunicati, animali assai piccoli, per la tunica a sacco, nella quale chiusero le branchie, gl'intestini, il cuore, ed i vasi sanguigni (Ascidìe, Bifore,.Pirosome, ecc. a generazione alternante. Si crede che dai Tunicati, per mezzo dei Cordati e dello Amphioxus (che non ha ancora cervello) sieno derivati i primi Pesci, alcune specie dei quali sono prive di ossa ed hanno soltanto cartilagini ancora oggidì. Tutti i Pesci hanno un cuore, che corrisponde alla metà del nostro, e sangue freddo: tutti hanno molte dita per nuotare. Se ne staccarono i Dispneusti, nel periodo Devoniano, i quali resero la loro vescica natatoria capace di funzionare come polmoni, entrando per molte ore al giorno nelle foreste prossime al mare. Per cacciare animaletti vivi i Dispneusti ridussero a poche le dita e le accorciarono. Dai Dispneusti provennero gli Amfibi, i quali nascendo respirano ancora con le branchie, ma nella età adulta respirano coi soli polmoni, abituandosi a vivere sulla terra. Essi ridussero a 5 sole le dita di ogni membro e queste rimasero poi 5 in tutti i Vertebrati, compreso YUomo. Le Rane inghiottiscono l'aria per la bocca. Perdendo affatto la respirazione bronchiale, complicando il cuore, ed acquistando quella membrana detta Amnio che riveste il feto e li fece chiamare Amnioti, si formarono dai più elevati Amfibi gli Stegocefali, che divennero padri dei Rettili. Come le più energiche forze plutoniche erano necessarie per dare origine ai basalti ed alle altre Ili roccie ignee della prima scorza terrestre, così le forze organiche più energiche erano necessarie a dare i primi abbozzi della Flora e della Fauna. E le Unità intime confrontanti in tanto carbonio e calore, come ne avevano i mari nell'epoca Primaria o Secondaria, dovevano aver maggiore facilità di oggi nel cambiare e scegliere le forme fondamentali. Perciò si trovano fino dalla Età Mesozoica i tipi fondamentali delle varie specie già pronunciati. Nel periodo Siluriano, ossia nell'Epoca Arcaica (subito dopo il Cambrico), vi erano già Molluschi superiori ed anche Pesci. 1 Pesci Ganoidi del Si- luriano avevano un sistema nervoso dorsale, di molto superiore a quello radiato o bilaterale o centrale dei Molluschi. Questo ci prova che, fino dall'origine, vi erano diversi tipi fondamentali e che non è vera la Evoluzione sopra una sola linea. Nel periodo Cambrico, vi erano già Crostacei di forme gigantesche. Dal Cambrico al Devoniano, abbondarono le Trilobiti (1), che sembrano essere stati i primi Crostacei, tanto numerosi da formare coi loro scheletri dei depositi estesissimi, ma estinte dopo il periodo Devoniano. Si moltiplicarono gli Amfibi e i Rettili. Alla fine di questo periodo si alzarono le piante terrestri e formarono grandi foreste che crebbero poi nel periodo Carbonifero. Nel Devoniano erano Felci arboree colossali, Si- gillane e Lepidodentri) tutte Crittogame, mentre nelle acque si moltiplicarono i Molluschi, i Cro- (1) H. E. Ziegler: «Die Descendenz Theorie in der Zoologie », 1902, Iena. -Piate: « Das Darwinistische Prinzip der Selection», 1905, Lipsia. stacci, i Zoofiti, i Pesci. Parecchi degli Amfibi e dei Rettili raggiunsero dimensioni assai notevoli. Alcuni Lepidodentri erano alti 30 metri e il loro tronco aveva un diametro di 3 a 4 metri, che si trovano spesso nei sedimenti di quel periodo. Le Sigillarle erano anche più alte, fino a 40 metri, con tronchi enormi e cicatrici alla base delle loro lunghe e durissime foglie; bastino questi esempi per mostrare in quale magnifica vegetazione si movessero quei grossi e feroci Vertebrati. Dal Trias al periodo Permiano, Amfibi e Rettili divennero padroni delle terre boscose e delle ac- que dolci. Il sangue restava freddo, e si mescolava nel cuore, il venoso con lo arterioso, senza passare per i polmoni. I più grossi furono gli Ictiosauri, carnivori per lo più, a lingua secca, con pochissimo senso del gusto. Nel periodo Cretaceo, dalle Lucertole derivarono i Fisomorfi e gli Ofidi o Serpenti, perdendo per inerzia ed atrofìa le membra, e facendosi ad ogni vertebra una costola, perchè vivevano sempre sdraiati e si limitavano a poltrire e strisciare (1) nel fango e fra le alte erbe. Gli Amfibi antichi erano coperti di squame, mentre i viventi sono ignudi avendo degenerato. Invece i Rettili antichi erano nudi, per lo più, e i viventi arrivarono ad agguerrirsi con squame e con corazze. (1) L'apparato velenoso delle Serpi sta nelle ghiandole salivari, che in parte secernono materia gialla velenosa, che passa poi per i denti forati superiori, mentre la bestia afferra la vittima (Vipera, Aspide, Sonagli, Crotalo o Tri- gonocefalo, Najadi). Dai Rettili ai staccarono i Draghi, piccole lucertole che rivolsero una parte delle costole a destra e a sinistra per sostenere due prolungamenti della pelle che, senza permettere loro di volare, gio- vavano però a sostenerli come paracadute nel sal- tare da un albero ad un altro lontano alcuni metri. Essi non stanno quasi mai per terra, ma vi- vono sulle cime degli alberi o si gettano nelle acque in cui nuotano con grande facilità, per prendere gl'insetti che mangiano. Ve ne sono molte specie ancor oggi nell'India orientale e nelle Isole della Sonda. Furono questi i primi Rettili che riuscirono a rendere caldo il loro sangue. Pare che anche i Dinosauri ed i Plesiosauri avessero il sangue caldo; essi vivevano nell'acqua ed erano provvisti di grossa coda, di natatoie potenti, avevano un collo serpentino assai lungo, per lanciare la testa sopra le prede, e sbranarle coi loro formidabili denti. Formati nel periodo Giurese si estinsero nell'Epoca Terziaria. Erano lunghi da 4 a 6 metri. Fra le specie affini ai Draghi e ai Dinosauri o Plesiosauri ve ne furono al principio dell'Epoca Terziaria di quelle più piccole, che diedero ori- gine agli Uccelli, diventando bipedi. A quelli che si appoggiavano sulle gambe di dietro, si allargarono le membra anteriori, che si coprirono di piume, per far salti e volate ed in- nalzarsi sulle Piante. Il passaggio dai Rettili agli Uccelli si vede nel periodo Giurese nello Hesperornis senza ali, che viveva nell'acqua e mangiava pesce, nello Ictyomis della Creta Americana e nell: " Archaeopterix di Germania: tutti avevano denti e coda da Rettili. An- oor oggi gli embrioni degli Uccelli sembrano Rettili, come le Rane neonate paiono Pesci. Nei Pesci come nei Rettili e così negli Uccelli il cervello manca di circonvoluzioni. Manca pure ad essi la vescica, e l'orina sbocca in un prolungamento del retto, detto cloaca. I polmoni degli Uccelli continuano in tutto il corpo, con le cel- lule membranose, perfino nelle ossa, per il grande esercizio della respirazione che fanno volando. Lo sterno è grande e solido, dovendo sostenere le ali. Per cercare sementi ed Insetti o Vermi ridussero la faccia a due mascelle, formando il becco, ren- dendo così impossibile la masticazione; per cui in pari tempo modificarono l'apparato digestivo, incominciando a digerire nel ventricolo succenturiato, per continuare poi nel ventriglio, dove si forma il chilo. Neil' Epoca Terziaria le specie degli Uccelli si moltiplicarono assai ed arrivarono a proporzioni enormi. Alcune di queste poco o nulla volavano come YEpyornis del Madagascar, oggi estinto, che era alto 4 metri, i Dinorni della Nuova Zelanda alti 2 metri e mezzo, lo Struzzo dell'Africa e dell' India, alto anche più e più grosso, ma che non vola più e corre fornito di cosce grosse come quelle di un uomo, colle sue gambe alte 130 cent, più del cavallo. Vive in truppe e mangia erbe; oggi si alleva con profìtto. Gli sono omologhi ed analoghi, ina un po' meno alti, il Casoar nell'isole della Sonda, lo Emù dell'Australia, il Nandù del- l'Argentina. Gli uccelli rapaci non raggiunsero mai quelle dimensioni: VAquila dell'Europa e dell'Asia, il Condor delle Ande non superano quasi mai il metro in lunghezza. Essi rappresentano nell'aria quella caccia fe- roce che è stata continua sulla terra e nell'acqua, caccia clie si esercita sempre contro altre specie. Fra i membri di una famiglia, fra quelli di una società animale, regnano l'amore o l'amicizia, e vi sono esempi numerosi di abnegazione e di sacrificio. Il numero delle specie di animali che vivono di erbe supera quello delle specie che vivono di carni, come il numero delle tribù selvaggie pacifiche, supera quello dei selvaggi feroci, e quello degli uomini civili e laboriosi supera quello dei delinquenti. E bisogna guardare all' origine dell' egoismo feroce. Come nella Fisica e nella Chimica le forze fondamentali ed universali sono le attrattive, e sol- tanto quando l'armonia e l'esistenza è minacciata sorgono le ripulsioni, così, quando le specie animali imparano a far caccia e guerra, è per lo più quando sono minacciate nel pacifico possesso dei loro mezzi di vivere, quando non trovano da sfa- marsi (1). I primi Mammiferi furono i Sauro-mammoli ed i Monotremi nel Trias e ne vennero 3400 specie, (1) Gli animali domestici ben trattati restano come fanciulli affezionati, mentre quelli maltrattati perdono la natura pacifica ereditata. All'opposto gli animali di specie feroce sono più o meno adatti a diventare domestici. Così si fa con gli orsi nelle locande del gran Parco Nazionale del Yellowstone negli Stati Uniti, così si fa con gli alligatori ed i coccodrilli negli Stati meridionali di quella grande Repubblica, i quali ornai nel Mississipi si allevano per venderli come carne da macello. delle quali metà sono già estinte. Il periodo glaciale le obbligò a surrogare alle squame i peli, mandando molto sangue alla pelle a formarvi le ghiandole pilifere per ripararsi dal freddo; così si fecero anche le lane delle pecore. Meno gli Equidi e le Antilopi, che impararono a correre più veloci, gli Ungulati, che tanto si erano moltiplicati, furono tutti mangiati dai Carnivori, derivati nel periodo Eocene dai Marsupiali, Laddove la persecuzione dei carnivori era più minacciosa, i Cetacei, che erano e sono ancora Mammiferi {Balene, Delfini) ed i Pinnipedi (Foche) si salvarono nel mare, lasciando inerti le membra posteriori, svilupparono in natatoie le membra anteriori; ingrossarono la musculatura della coda ed impararono ad allargare sempre più la bocca, per ingoiare molti pesciolini ad una volta. Invece sui grassi pascoli del Miocene e del Plio- cene dove i Carnivori non penetravano, i Ruminanti, riposando quando erano satolli, digerendo lentamente, si fecero quattro stomachi, risalendo i cibi dal pansé nella bocca per essere macinati, e tornare poi nel secondo stomaco {cuffia) e nel terzo (centopelli) e passare finalmente nel caglio che termina la digestione. I più grossi Mammiferi furono i Mammuti della Russia. Per prendere i cibi nelle paludi, per bere, per sollevare qualsiasi piccolo oggetto, gli Elefanti prolungarono il naso in proboscide, onde restare comodamente piantati sulle grossissime gambe poco pieghevoli. Per scavar la terra le Talpe cambiarono le zampe anteriori in uncini e zappe; per mangiare le foglie più alte delle Palme le Giraffe allungarono molto il collo; per nutrirsi di mosche e di farfalle not- turne il Pipistrello distese sopra le membra anteriori un mantello, facendo crescere sulle 5 dita assai lunghe una membrana che serve come di ali; ed anche il Pesce Dattilottero allargò le natatoie del petto e le allungò in ali. Per difendersi, i Ruminanti si fecero spuntare sulla testa le corna; per arrampicarsi sugli alberi le Scimmie cambiarono le zampe in mani; per armarsi di sassi e di bastoni con le mani alcune di esse si abituarono a stare dritte sulle membra posteriori e ne vennero i nostri piedi, e quell'af- flusso di sangue al cervello durante la gestazione del feto, che aumentò l'intelligenza. Studiando le differenze fra Scimmie ed Uomini il prof. Keit trovò che 312 caratteri morfologici sono propri di questi; 186 sono comuni all'Uomo ed al Gibbone, 272 all'Orangutano, 385 al Gorilla e 396 allo Scimpanzè. Selenica mostrò che la embriogenià umana somiglia moltissimo a quella di queste specie. Certo è che l'embrione nostro diventa successivamente in nove mesi: Monerula, Morula, Blastosfera, Gastrula, Cordoniano, Acranio, Ictioide, Àmnioto, Mammifero placentato e Primate, giacche la Ontogenia o evoluzione dell'individuo è un raccorciamento della Filogenia o evoluzione della specie. Il posto relativo delle parti negli animali di un medesimo tipo non cambia mai; benché se ne foggino stromenti tanto diversi (come ne abbiamo indicati parecchi) a seconda della loro volontà. Bisogna ben distinguere la Omologia o somiglianza delle forme, dalla Analogia o somiglianza delle funzioni, giacche la modificazione degli organi per farli servire a funzioni nuove è stata assai frequente in tutti i tipi. Vi sono specie fluttuanti per i molti incroci (cani, sorci, uomini ecc.). Il sentire-volere ha fatto tutte le specie estinte o viventi, compendiando le anteriori. Quindi con perseverante volontà l'uomo può perfezionare il sistema nervoso, il cervello sopratutto, il sistema vasomotore, il muscolare, il cuore, i polmoni. Tutte le volte che i figli tendono al medesimo scopo dei genitori, rinforzano la Natura che si fa e perfezionano il corpo, facendo ereditare capacità fisiche ed intellettuali migliori. Vi sono famiglie di atleti, di Boxers, di ballerine, e famiglie di pittori, di musici e di scienziati. La Civiltà è una gara continua nel far atten- zione a nuovi oggetti, un eccitamento perenne ad osservare, a pensare, e quindi a sviluppare gli strati corticali del cerebro. L' Inconscio è sempre un risultato della perse- veranza del Conscio nell'attivare nuove funzioni. Ne abbiamo addotte in prova centinaia di fatti, mentre nessun fatto può addursi per dimostrare che dall' Inconscio esca il Conscio. Ex nihilo nihil. Ciò nullameno Schelling nel 1799 diede all'In- conscio la parte di fare l'Ordine nel mondo, ed Ardigò lo riprodusse. « Die Materie ist erstarrte Intelligenz, disse Schelling, la materia è pensiero congelato ». Ed Ardigò Voi. IV, p. 269 « Il contenuto di ciò che si dice Materia, non è altro che lo stesso Pensiero del quale è una forma ». «L'Infinito inconscio fa l'Ordine nel mondo» disse Schelling. Ed Ardigò lo riprodusse, II, 235.  « La Unità ordinatrice dello Indistinto assoluto fa la Natura », p. 247. « Tutto risulta da urti: lavoro meccanico: ma in fondo vi è una razionalità sapientissima », p. 249. « L' Indistinto Universale, per cui tutto è uno, è la causa dell'ordine », p. 250. « L'ordine nel caso, e il caso nell'ordine: ecco la ragione della distinzione o formazione naturale », p. 129. «Lo Indistinto è Infinito, ed è l'ambiente che sta sotto ad ogni distinto », p. 183. E Ardigò conchiude che 1' Indistinto assoluto esclu- de il sopranaturale. E fa alcune osservazioni al padre Secchi, cercando di provare che la Natura è infinita e che l'Ordine viene da questa Infinità. Però noi abbiamo dimostrato nei primi Capitoli di questo Libro che l'Infinito non è mai una realtà, che non vi può essere materia continua, che il mondo non può essere infinito. Dalla falsa premessa che il mondo è infinito, non si può tirar fuori l'ordine; e dal cambiare il sopra naturale in sotto naturale non si può tirar fuori nulla, perchè l'effetto è lo stesso, che venga dal di sotto o dal di sopra, V Indistinto è la causa dell'ordine. Però VArdigò si contradice volendo parere positivista. Ed a tal uopo scrive, p. 249: « La Intelligenza viene dopo e non prima dell'ordine e ne è un effetto ». I suoi discepoli poi ripetono sempre questa seconda parte, e non la prima schellinghiana, del loro maestro: Marchesini (« Vita e pensiero di Ardigò », 1907, p. 338), scrive: «L'umano pensiero si è formato per la continuazione di accidentalità infinite, succedentesi ed aggiuntesi a caso, le une alle altre ». E a pag. 259 ci dà questa bella genesi degli Uccelli: « La specie della Gallina è un apparato  « fisiologico riuscito, per aggiunte e modificazioni « casuali, occasionate dalle azioni e reazioni del- « Vambiente ». Qui dunque lo Indistinto Inconscio, razionalità sapientissima, non fa più nulla: è il caso, è l'ac- cidente che fa tutto. E il ritmo che è la semplice ripetizione di un moto ad intervalli eguali, viene ad aiutare il caso. L' Indistinto a che cosa è ridotto? Si vuol ne- gare che venga da Schelling, da Hegel, da Hart- mann. Si vuol tirarlo fuori dal nostro sentire: « Potendo invertire le sensazioni che fanno il Me « da quelle del Mondo o Non Me, dice il Mar- « chesini (pag. 308 a 312) si scopre che la sen- « sazione in se stessa è indifferente ad essere « oggetto o soggetto, ed abbiamo così lo Indi- « stinto sottostante ad ogni distinto. Indistinto po- « sitivo trovato per induzione. « Via i misteri della divinità, avanti la conti- « nuità funzionale della Natura infinita, che si « manifesta come Materia, come Spirito. La espone rienza della nostra sensazione ci dà il sottostante « indistinto ». È questo il Positivismo radicale delVArdigò. È facile osservare che questo sforzo di far apparire come Positivo lo Indistinto Inconscio è impotente, perchè nessuno ha mai avuto una sensazione che sia sensazione di nulla, vuota ed indistinta, indifferentemente Oggetto o Soggetto: nessuno invertisce il proprio Io nelle cose o le cose nel proprio Io. Ne Ardigò, ne alcun suo discepolo ha mai ten- tato di spiegare l'ordine e la formazione delle specie vegetali ed animali, fuorché con trovate come quella della gallina or menzionata. La me- schinità dell' Ardigoismo si vede dai suoi frutti. L'oscillare continuo fra il Positivismo e l'Indistinto Infinito ha costretto VArdigò a continue contraddizioni ed oscurità. La verità è che la Natura che si fa, più o meno conscia e libera, ha fatto nella lunga evoluzione le varie specie animali, organizzando la psiche inconscia o passiva Natura fatta che va per necessità come un Meccanismo. Non andiamo a cercare la causa delle varie specie animali nelle stelle, nelle nebulose, nello ambiente infinito di Ardigò, nel caso e simili; siamo un po' più modesti e positivi, e cerchiamola in quella Unità intima che ha fatto le cellule ed i primi viventi, e che sentiamo capace di modificarci e di svilupparci ancora. Questo è il vero Positivismo armonico, pitagorico, Italico. Come la psiche fa la vita interna sana Fa sorridere il vedere Marchesini (nella sua- « Crisi del positivismo » ) stentar tanto a far venir fuori la sensazione dai corpi inorganici e il pensiero dagli animali, mentre Ardigò d'accordo con (1) Non è una divinità inconsapevole, inconscia, che rivolge l'attenzione a determinati scopi al disopra o al disotto degli animali lasciandoli inerti materie, che si muovano senza sapere perchè. Ma sono gli animali stessi che senza aspettare il caso, come la gallina sopralodata, desiderano ed ottengono col perseverare il proprio sviluppo. lo Schelling (nel Voi. IV sul compito della filo- sofia) scriveva che la Materia è una forma del Pensiero: e negli altri Volumi insistè sulla unità del Pensiero con la Materia. Per quanto cerchi di far prevalere nelle dot- trine contradittorie del suo maestro la parte positivista sulla parte schellinghiana panteista, pure egli è costretto a dire, p. 250: «L'Indistinto è « la nebulosa verso il sistema solare, è l' Embrione rispetto all'animale adulto. 253: L'In- « distinto è la realtà unica fondamentale della « Unità e molteplicità della Natura. 254: la realtà «della psiche e della materia insieme. 260: L'or- « dine si spiega per le due leggi dell' Indistinto « e del ritmo. Per l'Indistinto ogni accidentalità « è subordinata all'ordine universale. Per il ritmo « vi è ordine e numero (tautologia). 296: A sostrato « dei due mondi psichico e fisico sta l'Indistinto psi- « cofisico che ne è la ragione esplicativa (mentre « Ardigò diceva che l' Indistinto non si può spie- « gare, perchè spiegare vuol dire distinguere e « questo è l'art. 6 del suo Catechismo). 331: Il « che cosa sia non si rivela che sentendolo e si « risolve nel Divenire che è VEssenza dell'Essere « (frase presa da Hegel). E il divenire è per noi « ed in noi necessariamente sensazione ». Marchesini non ha capito che, se il divenire è sensazione per noi, lo sarà anche per gli animali, le piante, le cellule e le molecole. Quando Ardigò fu accusato di aver preso il suo Indistinto dall'Omogeneo dello Spencer ebbe facile la risposta. — Io non l'ho preso (come Spencer) dalla fisiologia, ma l' ho preso dal ^pensiero filosofico, e poteva aggiungere tedesco. E in- fatti il Panteismo di Schelling ed egli non ha mai negato di averlo preso dalla Germania: fu sempre studioso assai della filosofia tedesca, citò nella Psicologia molti autori tedeschi, per cento pagine, e quando fu accusato di essere Metafìsico, si schermì evasivamente (come diremo nel nostro III Volume). Se prendiamo V Indistinto deìYArdigò non verniciato di Positivismo,. non mascherato dal manto di pontefice dell'Ateismo Italiano, vedremo che è una nebbia panteistica, che (a quanto egli dice) contiene in sé la ragione della differenziazione e della continuità fra i differenziati. Infatti il suo discepolo G. Marchesini sostiene che la gran legge di formazione delle cose è questa: che una linea si suddivida in punti infiniti (pag. 115). Certo la linea è continua e contiene in se i punti. Ed è tutto. Questa è la sua gran spiegazione. Chi non se ne contenta, non ha capito come si sono fatte le piante, le bestie, gli uomini e pretende troppo dall'Ardigoismo. Ora questo Indistinto nebuloso e vago non ha fatto, secondo noi, veramente niente. Tutto era preciso e numerato fin dalle prime nebulose e dall'Etere. Quelle che hanno fatto l'ordine della flora e della fauna sono le Unità viventi, distin- tissime e precisissime della Natura che si fa, che cerca di aumentare la sensazione piacevole e di evitare la dolorosa, formando le più utili funzioni (e con la loro ripetizione, gli organi), della di- gestione, della respirazione, della sanguificazione o Ematosi, dell'assimilazione, della generazione. Per poco che noi penetriamo nella genesi della vita interna, potremo ben convincerci, sulla base dei fatti. Digerire vuol dire scomporre, macerare, idroliz- zare le materie ingerite e poi combinarle con le proprie sostanze. Arthus (Nature des Enzymes, 1896) suppone che i fermenti sieno sostanze non materiali, formate dalla Unità generale dell'organismo. Nei Protozoi comincia a separarsi la funzione digestiva dalla motrice. Nei Celenterati si può già distinguere 1' Entoderma che modificando gli ali- menti accumula energia, dall' Ectoderma che fa tentacoli. Gl'Infusori hanno bocca, faringe e ca- vità digestiva protoplasmica. Ma nei Polizoari YEntoderma diventa un canale alimentare, che si divide in esofago, stomaco ed intestino. Nelle Ascidie il sugo nutriente si separa dalle feci. In principio il fegato, il pancreas, sono semplici cellule escrementizie biliari: poi si riuniscono in sacchetti con piccoli canali ramificati. A misura che l'assimilazione si afferma, vengono segregandosi gli Enzimi o succhi digerenti come nelle Salpe. Le ghiandole segreganti crescono negli Aneh lidi (1), negli Echinodermi, negli Artropodi, e nei Molluschi: questi ultimi hanno un vero fegato. I Crostacei si sono già formato un fegato di cellule peptiche ed epatiche. In tutte le cellule delle ghiandole, che ricevono dalla unità generale dell' organismo la funzione di secernere, si compie un delicato lavoro di scelte feconde, e finiscono alcuni nervettini (i quali provengono negli animali superiori, sia dal gran simpatico, sia dal sistema cerebro-spinale). Meno nella Tenia ed in altri parassiti. Il corpo della Tenia riceve dapertutto gli alimenti, senza farsi un apparato circolatorio, ne digestivo. Tutte le sue cellule si nutrono e respirano. Sono questi nervettini che dirigono la funzione speciale del secernere. E non hanno bisogno di essere animati dallo Inconscio di Schelling e di Hartmann ne dallo Infinito sottonaturale che, se- condo Ardigò, è la causa dell'ordine. Il parenchima (o epitelio ghiandolare) attrae dapprima dal sangue l' acqua ed i principi in essa disciolti: la ghiandola, che era pallida, si ar- rossa, e si riscalda, elaborando sotto l'azione del sentire - desiderare - volere, mediante i nervettini, il suo secreto, traendo dal sangue, che filtra at- traverso ai capillari ed ai tubi porosi, la sostanza specifica. Le ghiandole sono i chimici o farmacisti del collettivismo organico. Il tessuto retico- lare delle ghiandole è privo di fibre. Mettendo della pepsina e dell'acido lattico con- tenuto nel sugo gastrigo in un bicchiere, si può fare una digestione artificiale. Ma non si può nei laboratori chimici far nascere il sugo gastrico. Per farlo è necessaria la sintesi organica, non fatta per accidente ad uso Marchesini, ma per godere la vita. Tutte le secrezioni sono finaliste, tutte si compiono per atto unitario sintetico, così quella del sugo gastrigo, come quella della saliva, della bile, della milza, o dei reni. E una finalità fatta poco alla volta, non venuta giù dall'Indistinto Infinito di Ardigò, provando e riprovando, insistendo sulle sensazioni piacevoli ed evitando quelle che dispiacciono. Per eredità della specie la digestione si fa anche nell'embrione, che non è ancora provvisto di nervi. Negli animali superiori la digestione rende i cibi capaci di essere assorbiti dalla mucosa inte- stinale ed assimilati nel sangue e nei tessuti. Gli animali, mangiando vegetali, ne desumono Carbonio, Azoto, Solfo, Idrogeno, Ossigeno, che sono pronti nelle albumine e nei grassi. Se gii animali dovessero prendersi l'azoto ed il zolfo fuori delle albumine vegetali, morirebbero: perchè essi non possono cavarli dalla terra, ne dall'aria, come fanno le piante. La maggiore vitalità e mobilità ottenuta dagli animali, dipende non già dall'Indistinto della teo- logia germanica o dell'Ardigoismo, ma dalla facilità di alimentarsi mangiando i vegetali, perchè le Unità senzienti formano più presto e più gagliarda la unità organica dell'Animale. Il riassorbimento del chilo nell' intestino, è fatto dalle cellule epiteliali (che tappezzano la parete interna dell'intestino) che assumono il cibo per contrazione attiva, come fanno gli Amebi ed i Rizopodi. Una parte più vitale l'hanno le cellule linfatiche, le quali emigrano dal tessuto adenoide, vanno fra le cellule epiteliali fino alla superficie dell'intestino, per ghermire le gocciole di grasso, e non lasciano passare veleni. Va notato che le sostanze alimentari solubili nell' acqua, non scendono mai dall' intestino al cuore per il condotto toracico, ma per la vena porta e per il fegato (che le assimila prima che entrino nel sangue). Le cellule linfatiche assu- mono sole il peptone disciolto nell'acqua. Le sostanze velenose ingoiate si fermano tutte nella bile. La linfa empie gli interstizi fra i tessuti ed i vasi linfatici ed è un complesso di trasudati non utilizzati, composto di plasma liquido e di corpuscoli, granuli o globuletti bianchi (circa 8.000 per millimetro cubico), e goccie di grasso. Quando ar- rivano nel sangue questi globuletti, diventano globuli bianchi (più grossi), e poi rossi. Nella linfa vi sono già gli elementi chimici del sangue (acqua, siero, albumina, fibrina, grassi, e specialmente 1' acido butirico, cholesterina, glucosio, leucina, urea, sali, carbonati e fosfati). Ma la linfa (che aumenta sempre durante la digestione), si coagula più lentamente del sangue ed è meno alcalina. Contraendosi ritmicamente il cuore, il sangue inturgidisce le arterie formando il polso. I globuli rossi trasfusi in animali di altra specie si combattono e si uccidono a vicenda, non già perchè abbiano una diversa composizione chimica, ina perchè è diversa la loro sintesi, ossia l'impulso loro dato dalla Unità generale organica, il che prova ad un tempo la individualità dei globuli rossi, e la psiche passiva loro imposta dall'Unità generale (1). Le unità dei globuli rossi debbono adunque es- sere formate da elementi morfologici vitalissimi. Sono clorotici coloro, i cui globuli rossi sono piccoli (una metà od un terzo del giusto), hanno cuore piccolo e vasi troppo stretti. — Nelle morti apparenti, il sangue non è morto. Se si fa entrare per due terzi nelle carni un ago pulito, dopo un'ora, se il sangue vive, l'ago si può ritirare an- cora pulito: ma se il sangue è morto, l'ago sarà arrugginito. — L'asfissia uccide i globuli rossi e (1) Va notato che (come provarono Friedental ed altri), il sangue di un uomo si può mescolare senza recare grave danno alla salute col sangue dello scimpanzè e viceversa, mentre non sopporta la mescolanza con altre specie ani- mali, locchè prova una certa consanguineità fra questo troglodite dell'Africa e l'uomo. l'ossido di carbonio uccide la emoglobina del san- gue ed i tessuti. La formazione del cuore non si spiega senza sintesi morfologica dell 1 Unità confrontante perchè nessuna persistenza della forza può formare ventricoli ed orecchiette, arterie e vene contemporaneamente. Ci vogliono figurazioni e moti sintetici mirabilmente accordati in tutta la lenta formazione della specie, che viene accorciata nel feto. Così la formazione del cuore insegna quanto sia falso at- tribuire l'evoluzione alle forze esterne, come fanno il Positivismo e \Ardigoismo. Bisogna penetrare nella intima compagine degli Organismi animali per vedere la sintesi organica nella sua formazione sotto l' impulso del Noumenon e della Volontà. L'assimilazione collettiva non dipende dalle materie che furono mangiate, come si credeva dai naturalisti tedeschi mezzo secolo fa, che scrissero Der Mann ist was er isst, ossia l'uomo è quello che egli mangia. Che una donna mangi fratti o legumi, carne o formaggio, uova o patate, pasticci dolci o erbe condite, le materie albuminoidi di questi alimenti si trasformano nel suo sangue in serina, fibrinogene e globulina, nei suoi muscoli in muscolina, nelle sue mammelle in caseina, nelle sue ossa in osseina, nel tessuto congiuntivo in congiuntina, ed in elastina: tutte sostanze chimiche fra loro differenti. La chi- mica organica ha ornai assicurato queste leggi (dice Gautier). Se la Evoluzione si facesse dal di fuori al di dentro (come pretende Ardigò) non vi sarebbe ne digestione, ne assimilazione. Perchè le stesse albuminoidi, tratte da cibi molto diversi fra loro, si trasformano nelle varie parti del corpo in sostanze chimiche così adatte a sviluppare o il sangue, o i muscoli, o le ghiandole, o le ossa, o il tessuto congiuntivo? forse per le accidentalità del Marchesini? venute non si sa da qual corpo estraneo? forse per l' Infinito causa dell'ordine o per l'Indistinto sottostante ad ogni distinto, il quale non ha altra legge di formazione se non la divisione della linea in parti infinite? Dividere non è fare nuove sostanze chimiche. Dividere e suddividere, distinguere e sotto di- stinguere non è fare da artista morfologo. Dunque bisogna riconoscere che la Unità or- ganica intima, il Noumenon reale, che cerca il piacere e fugge il dolore esercitando le funzioni essenziali del digerire, del far sangue, della assi- milazione, organizza le materie in modo da mantenere e sviluppare il proprio piacere ossia la propria Vita, combina le molecole in guisa da dar loro efficacia, e esercitando la funzione si fa la compagine fisiologica, adatta a lottare contro le dif- ficoltà ed a rendersi indipendente dall'ambiente. Non è dividere e distinguere: è piuttosto co- struire, riunire, combinare, disegnare nuove forme, nuovi sistemi di forze: è unificare, in una paro] a r e quindi godere la varietà nella Unità. La legge della Natura è l'ascesa a più alta Unità e non la divisione e suddivisione di un Indistinto in pezzettini. Per la stessa forza di assimilazione, l'animale trasforma gli idrati di carbonio che mangia in glicogene nel fegato, in glicosi nel chilo e nel sangue, in inosite ed acido lattico nei muscoli, in lat- tina nelle mammelle, in tunicina nella pelle dei Tunicati, sempre sotto la influenza del sistema nervoso, che sente il dolore e il piacere. Lo stesso dicasi dei grassi. Qualsiasi cibo prenda un animale, egli farà (senza aiuto dello Inconscio Indistinto sopra o sotto naturale) nelle cellule adi- pose della pelle butirina ed oleina, nel tessuto cel- lulare del ventre stearina oleina e palmitina; nelle mammelle butirina e margarina; nelle api farà della cera, e via dicendo. Eppure nel chilo, nei gangli del mesentere, vi sono sostanze omogenee: ma questi grassi, quando.sono arrivati nei diversi organi, si differenziano assai, ossia si specificano in sostanze nuove. L'assimilazione non. è una scelta dei materiali portati dal sangue. È piuttosto una metamorfosi operata da ogni cellula, sotto la influenza del si- stema nervoso, ordinato dalla Unità organica del- l'animale, dando origine, col medesimo chilo e con lo stesso sangue a nuove sostanze, le quali nel sangue e nel chilo non esistevano. Anzi l'assimilazione complessiva, sotto la in- fluenza del sistema nervoso, allorché l' animale non riceve più grassi, né principi amilacei, lo rende capace di formarsi le sostanze occorrenti, traendole dai suoi propri albuminoidi, idratandoli, ossidandoli ed arrivando a farsi nella milza la Emoglobina o materia rossa del sangue, la quale pesa il doppio della albumina, ed è assai più complicata delle albuminoidi mangiate. Tra i fattori dell'Ordine secondo VArdigoismo primeggiava dal 1870 in poi l'Indistinto, pallida luna, la cui luce rifletteva il sole dell'Inconscio di Schelling. Degenerando (per la sua intrinseca contraddizione di essere in fondo panteismo germanico e di voler parere ateismo positivista) ha finito col ridurre lo Indistinto ad una astrazione dalla sensazione indifferente tra soggetto ed oggetto, tra spirito e materia, e a renderlo così impotente a fare l'Ordine come da pag. 308 a 312 ci diceva, nel suo tentativo di popolarizzare l'Ardigoismo, il Marchesini (vedi sopra). Restarono così a far l'ordine in generale e Vor- dine biotico in particolare il caso ed il ritmo. Ma il ritmo non è altro che la ripetizione ad intervalli dello stesso moto e non può fare del nuovo, e il caso è antiscientifico. Così VArdigoismo per la sua intrinseca contraddizione ed oscurità e per la sua ostinata trascuranza di studiare la natura vegetale ed animale e le leggi di tutti gli organismi, va isterilendosi in una ontologia e fraseologia d'indistinto, d'infinito, e di casi. Perciò gli scienziati Biologi Italiani che non seguono il Pitagorismo oggi si sono dati alla fi- losofia dell' Inconscio di Schelling e di Hartmann (Die Philosophie des Unbewussten, 2 voi.) altri- menti, per fare codazzo al rispettabile prof. Ardigò, sarebbero stati condotti a dare di ogni or- ganismo una origine del tutto casuale, come quella insegnata dal Marchesini (vedi sopra) (1). Ad ogni modo, se VIndistinto che sta sotto ad ogni distinto è (come credeva VArdigò) un pensiero, ci si dica se questo pensiero che opera sotto, en- tra davvero nélVanimale e lo fa sentire, volere, godere o soffrire. Se sì, allora è inutile l' Inconscio e si viene nel nostro Positivismo Pitagorico bruniano, ossia nella filosofìa Italica. (1) Si legga la splendida Conferenza tenuta nell'Acca- demia dei Lincei dall'illustre fisiologo prof. Giulio Fano di Firenze dinanzi a S. M. il Re nel 1910. Se no, allora l'animale resta un trastullo della divinità. E nello Ardigoismo (che nega la unità intima di ogni organismo) se non si ricorre al- l'Indistinto Inconscio divino, manca ogni principio informatore, e la gallina e l'uomo stesso (compreso il prof. Ardigò) diventano prodotti del caso cieco e sterile. Nel delicatissimo lavorìo che prepara i succhi nutritivi, si manifesta la vita sintetica della Unità organica generale, che determina le funzioni di ciascuna ghiandola. I globuli bianchi sono preparati dal fegato e dalla milza, la quale può dirsi una doppia ghiandola linfatica, sierosa, chiusa, piena di vasi sottili, intrecciati in fitta rete, specialmente nei corpuscoli del Malpighi. Dal fegato, dalla milza, dal chilo, dalla linfa, escono i globuli rossi nuotando nel siero senza imbeversene, contrattili, e si chiamano Ematite, Il plasma in cui le Ematie sono sospese contiene la fibrina (che manca nel siero) e risulta dallo sdoppiamento del fibrinogene. La trama delle Ematie o globuli rossi è fatta da un albuminoide ferruginoso detto Emoglobina, da globulina, lecitina, cholesterina e sali minerali, per assimilazione sintetica senza che intervenga nessun Inconscio Infinito. Di pari passo con la funzione circolatoria procede quella di respirazione, che rinnova ad ogni istante il sangue venoso a contatto con l'ossigeno. La pelle, fatta di tessuto connettivo molle, non contrattile (ossia privo di muscoli) ma indurito all'aria, emette sempre vapore acqueo, gas acido carbonico, ed un po' di azoto, assorbe ossigeno, e fa, negli animali inferiori, quello che nei superiori è affidato alle branchie ed ai polmoni. La funzione respiratoria si svolge lentamente come la digestiva e la circolatoria. Nei Vermi marini le branchie sono foglietti di vasi capillari. Nei Vermi superiori ed in alcuni Crostacei sono a fasci di fili od a pennacchi. Nei Molluschi maggiori e nei Pesci diventano interne, quasi fogli di un libro. 'NegYInsetti le trachee conducono l'aria dapertutto e così anche in alcuni Ragni e negli Uccelli. Negli animali superiori, poi si sono formati quei milioni di alveoli o sacchetti polmonari, fatti di fibre muscolari liscie che nell'uomo presentano all'aria penetrata nei polmoni la superfìcie di una sala (circa 200 metri quadrati) dove il sangue venoso cambia la sua emoglobina in Oxy-emoglobina. Secondo Smith un uomo sdraiato prende un litro di aria nel medesimo tempo in cui un uomo seduto ne piglia 1.18, ed un uomo in piedi 1.33, chi cammina lento 1.90, chi va presto 4, chi corre 7 litri. La funzione respiratoria tra le vitali è quella che si può aumentare e perfezionare con maggiore facilità. In ogni organismo, oltre gli atti vitali, vi sono quelli non vitali. Ogni cellula fa prima le sostanze azotate, poi le non azotate, cioè i corpi grassi, la saccarosi, l'amido, la inosite, il glicogene. Il sangue si depura per atto vitale nei reni, che spremono fuori dal sangue la orina. Ma non è per atto vitale (bensì per forze chi- miche soltanto), che le albuminoidi coli' idratarsi si cambiano in creatina, lisatina, urea ed acido lattico. E per forze chimiche soltanto che la urea fa il carbonato di ammoniaca. — 134 — Il sangue sano contiene mezzo grammo per litro di acido urico che si idrata e si ossida e si elimina nei sani allo stato di urea, di acido os- salico e di acido carbonico. Tutte le perdite di carbonio, che è l'elemento accentratore, si fanno per atti non morfologici, non vitali, non diretti dalla Unità organica generale, appena l'ascesa a più alta unità, ossia al piacere di vivere, si rallenta in qualche parte. Queste perdite avvengono disassimilandosi, idra- tandosi, e facendo i rifiuti da espellere. Le funzioni principali della vita interna sana e specialmente l'assimilatrice sono sempre fatte dalla Psiche poco a poco e diventano abituali, regolari, quanto più sono ripetute di generazione in generazione e quanto più la specie ha imparato a rendersi indipendente dall'ambiente, ed anzi padrona dell'ambiente nel trovare abbondanti cibi, aria ed acqua salubri e nel perfezionare la facoltà di vitalizzare il chilo, la linfa, ed il sangue. CAPITOLO X. Come la Psiche fa le guarigioni. Come le malattie mentali derivano per lo più da disturbi o da irregolarità della convergenza nervosa che fa l'Unità conscia generale, la Per cezione e la Memoria, così le malattie del corpo dipendono spesso da disturbi e da irregolarità nella irrigazione sanguigna. I vasetti capillari sono lunghi nell'uomo 500 volte più delle arterie e delle vene non capillari. Ogni capillare è composto di cellule fusiformi con un nucleo in cui arriva il nervettino vaso- motore. Ogni organo può rendere indipendente dalla circolazione generale la sua particolare. Vi sono due provenienze dei nervettini vasomotori: quelli che dipendono dal gran simpatico, nelle emozioni si restringono e quindi rallentano il corso del sangue; quelli invece che dipendono dal sistema cerebro-spinale, si allargano, accele- rando il corso del sangue. Nell'uomo sano, bene equilibrato, queste due azioni si alternano e si combinano in guisa da mantenere l'armonia fra tutte le funzioni. Nell'uomo immorale si disturbano a vicenda. I delinquenti ed i pazzi sono più o meno inetti a regolare i vasomotori: ora la reazione è scarsa ed ora è eccessiva. La sfiducia e l' inquietudine guastano le ghiandole e l'assimilazione, e quindi anche la ematosi o sanguificazione e il sistema nervoso, ossia le vie per le quali corrono la sensibilità e la volontà. Queste sono prove palmari che gli animali si fanno dal di dentro al di fuori e sono sempre sintetizzati dalla propria unità generale. I sentimenti di fiducia e di bontà sono i migliori per regolare la Ematosi e quindi la nutrizione di tutti i tessuti. La psicogenia fa la somagenia, ossia la psiche fa il corpo. I vasomotori sono i primi ministri della natura che si fa col sentimento. La immoralità ed il vizio si traducono in una natura che si fa morbosa. I capillari venosi, col sangue reso inetto, per avere deposto, nel tessuto che irriga, gli elementi dei quali ha bisogno (1) portano verso le uscite anche i veleni prodotti dalla fatica o ponogeni (dal greco nóvoc, fatica) che sono l'acido lattico ed i leucomani, i quali impediscono di rimanere attivi. La circolazione nutritiva della notte rifa le forze esaurite nel lavoro diurno. I vasi capillari asportano per i reni, per i polmoni e per la pelle i veleni ponogeni. I vasomotori regolano sempre la produzione del calore animale. Si restringono se fa freddo, si dilatano se fa caldo per far sudare e svaporare. Per molte ragioni adunque, guastare i vasomotori è guastare la salute; e la Unità disordinata da desideri immorali e da passioni li guasta. La febbre è fatta dal sistema nervoso del gran simpatico irritando i nervettini vasomotori ed il cuore, e le arterie; alza la temperatura da due a sette gradi sopra la normale, e stanca i muscoli. È una reazione naturale che eccita gli organi ad eliminare le cause di malattia esterne ed interne e specialmente le alterazioni del sangue: perciò questa reazione salutare (a parità di cause) è maggiore nei fanciulli e minore nei vecchi. La reazione salutare è sempre più benefica quanto più vi è fede, speranza e piacere e non avviene o resta debole e fiacca in chi ha sfiducia o paura. Del resto gli animali tengono nella loro milza un serbatoio di fagoceti. La milza fa (oltre ai globuli bianchi e rossi della linfa e del sangue) anche i così detti Lenii) Anche calce e fosfati per darli alle cellule del periosto e per rendere possibile la formazione e lo induri- mento delle ossa, quanto più i muscoli vi si appoggiano. coceti o Fagoceti che sono amebi atti a fare il tes- suto congiuntivo attorno alle ferite ed a guarirle, cacciando via le infezioni. Infatti gli animali privati della milza soffrono di infiammazioni. Nelle infiammazioni essudative i Leucoceti cor- rono verso la parte che trovasi minacciata, come i medici corrono agli ammalati. La infiammazione in generale come la febbre è un processo salutare. Non è un processo fisico chimico, ma è una reazione di queste guardie sanitarie benefiche che si chiamano Fagoceti o Leucoceti. I quali corrono a prendere quella parte dei tessuti che si è guastata per portarla fuori verso le uscite. Nelle malattie acute scendono a milioni a purificare i tessuti, ed agguerriscono il corpo a procedere sicuro tra le insidie dell'ambiente ed a rendersene indipendenti, all'opposto di quanto pretende YArdigoismo. E sono sempre diretti dalla Unità generale dell'organismo e non dall'Inconscio Infinito sopra o sotto naturale. Grazie alla polizia sagace che viene esercitata dai Leucoceti, nelle orine dei malati si trovano leucomani basiche dannosissime. Ma la psiche riesce diffi- cilmente ad impedire il moltiplicarsi dei bacilli. Moltissime malattie sono formate dal moltiplicarsi dei Bacteri e specialmente le contagiose: I microbi anaerobi fanno escrezioni velenose che il prof. Selmi ha chiamate dal greco Ptomaine. Sono malattie ve- nute dall'esterno, che poco dipendono da disturbi della irrigazione sanguigna. Sono regali dell'ambiente, che fanno ammalare e mai guarire. Un'altra causa di gravi morbi è l'eccesso del mangiare e del bere liquori e vini alcoolizzati, che produce una combustione vitale non completa, arrivando a quadruplicare l'acido urico. L'inazione, l'inerzia, produce gli stessi effetti della fatica eccessiva, cioè acido urico, che si depone nelle giunture, perchè l'ossigeno del san- gue stenta molto ad ossidare le cellule organiche. Le malattie per combustione incompleta producono erpeti alla pelle, depositi artritici presso le ossa, guasti epatici ed ingrossamenti del fe- gato, nefriti e litiasi: e cagionano le così dette diatesi braditrofiche, ossia malattie croniche per rallentamento della nutrizione. Poco a poco, col massaggio e la ginnastica, la psiche può libe- rarsene. Tutti conoscono la riparazione dei tessuti che si opera rimarginando le ferite con tessuti nuovi e simili, anche il nervoso. L' uomo può riprodurre il cristallino dell'occhio (se non era stata levata la capsula), può rinsaldare le ossa rotte, e rifarne la parte che manca (se è rimasto il periosto). Gli animali inferiori riparano anche più presto. Tagliando la zampa ad un Tritone, i Leucoceti gli fanno un tessuto embrionale con vasi e pelle. Tagliandogli la coda può rifare le cellule grigie del midollo, i gangli nervosi ed i muscoli. Se una impressione morbosa ha cagionato una negmasia che ostruisca i vasi dei tessuti, si fa una neomembrana, detta Essudato, in cui si or- ganizzano nuovi vasetti capillari, che riassorbono il male, per espellerlo nel torrente della circola- zione. Se l'Essudato è soverchio, e non può essere -assorbito, si liquefa, si cambia in pus, e va verso le cavità sierose o verso la pelle. Se un corpo straniero è penetrato nell' organismo, provoca una acuta negmasia, con suppurazione per espellerlo; se poi il corpo estraneo è penetrato nelle parti profonde, dalle quali non si può mandarlo via, viene circondato da vasetti capillari nuovi, che formano una membrana di rivestimento o cisto, isolandolo per proteggere i tessuti. Anche nei tumori del fegato formati da entozoari, avviene lo incistimento con membrane apposite. I tumori fibrosi dell' utero si empiono di concrezioni calcari che loro impediscono di cre- scere. I flemmoni acuti della fossa iliaca dell'ovario e degli annessi dell' utero vanno nella vescica e negli intestini, cercando l'uscita. Se un'arteria o una vena si chiude, si organizza una vascolarità collaterale. Se entrano a piccole dosi delle sostanze vele- nose, la Unità organica fa poco a poco i contraveleni. L'animale vaccinato con le antitossine, diventa immune, anche con dosi di un cinquemilionesimo di grammo (1). (1) Due o tre secoli fa quando moltissimi contadini inglesi andarono a lavorare nelle fabbriche, la tisi fece strage. Nel secolo decimonono i loro organismi in poche generazioni divennero resistenti ed oggi la mortalità per tisi è inferiore in Inghilterra a quella di ogni altro paese, perchè, come dimostrò il prof. Sanarelli della Università di Bologna, gli organismi (quando se ne lasci il tempo oc- corrente) tendono ad immunizzarsi. Così nelle Pelli Eosse e fra i Negri, i germi della tisi portati dagli Europei fecero morire a centinaia, perchè i loro organismi non erano abituati a lottare ed a vincere i bacilli di Koch. Tra gli emigranti Italiani che andarono a stare nelle città industriose dell'America soccombettero alla tisi quelli che provenivano da provincie Abruzzesi, Calabresi dove la tisi è rara, mentre quelli venuti dalla Lombardia o dalla Liguria dove è frequente hanno resi- stito assai meglio.Le malattie croniche sono per lo più cattive abitudini della natura che si faceva, ossia meccanismi formati da errori e trascuranza dell'Unità di coscienza. Creighton (Inconscious Memory in di- sease, 1886, London) attribuisce alle cattive abitu- dini dei tessuti certi moti riflessi patologici, ed a quelle dei tessuti certe febbri persistenti, certe affezioni cutanee ed anche catarri cronici. Quando la legge sociale morbosa si è radicata, si forma una diatesi, che viene ereditata. Ma l'esercizio muscolare e il sudore guariscono un po' alla volta anche queste, e la Unità generale invita l'animale a far moto celere per sudare. Il sudore (che traspira per la secrezione dell'acido lattico, dovuta all'aumento della innervazione e della circolazione, al riscaldarsi del sangue che corre verso la pelle per raffreddarsi) è il caccia- mali per eccellenza, portando via ogni acidità e lasciando l'organismo alcalino e sano. Quante guarigioni ha fatto il sudore! Il maggior vantaggio dell'esercizio muscolare (sia fatto per lavoro professionale, o sia fatto per sport), sta nell' accelerare la circolazione sanguigna, e quindi lo scambio dei materiali inetti coi vitali, giacche in un muscolo che lavora passa 9 volte più sangue che in un muscolo che riposa, mentre si rende più. facile la innervazione e la dilatazione dei vasi. E siccome l'esercizio muscolare è sempre re- golato dalla coscienza dell'individuo, ognuno ha il mezzo più sicuro per guarire dai suoi mali. Il movimento non è necessario solamente al- l'apparato circolatorio, respiratorio e al digestivo; ma a tutti gli altri apparati semplici e locali. Lo stato liscio delle cartilagini, la secrezione regolare del liquido sinoviale, la flessibilità dei ligamenti, tutte le condizioni anatomiche, indi- spensabili al funzionare di un'articolazione, spariscono man mano che si sta fermi, arrivando ad ossificare le fibre dei ligamenti, a fare delle ossa vicine un solo osso; mentre chi molto si muove conserva benissimo le giunture e moltiplica le fibre ligamentose. I muscoli stessi che, nella inazione si ritraggono, e perdono ogni elasticità, l'acquistano a misura che vengono esercitati. Però va notato che il moto non è mai un tocca e sana, un rimedio istantaneo, e produce le sue modificazioni salutari soltanto un po' per giorno, sicché tardano per settimane e per mesi a manifestarsi pienamente, dovendosi colla nostra natura che si fa, formare una natura fatta, cioè un meccanismo che vada poi da se solo, salubremente, regolarmente. Un poeta inglese disse: Mentre sei nella tua casa di carne muoviti; ci sarà tempo di riposare poi nella casa di creta. Gli Inglesi se lo ripetono e nella età matura non poltriscono, ma accrescono gli esercizi. Il football da ottobre ad aprile è frequentato assai in tutti i prati che rompono la monotonia dei sobborghi di Londra. Si corre, si salta, si danno pugni non solo i diritti ma anche gli storpi. E in pari tempo si con- serva la tranquillità dell'animo, la fiducia e l'al- legria. In America, Mistress Mary Eddy Baker ha fondato una religione che chiamò « Christian Scientism », ha i suoi templi in Boston ed altre città e diffonde la fiducia nella salute; guarisce anche realmente molti mali e mantiene migliaia — 142 — di Ladies Cureers (1). A questo proposito non è inutile di ricordare che in tutte le religioni si sono curate le malattie con la fiducia e che a Cachemire, nella moschea maggiore, si conser- vano tre peli della barba di Maometto i quali ogni anno fanno delle cure mirabili. E chi se ne potrà meravigliare, se pensa che in tutti gli atomi e specialmente in quelli che appartengono ad un organismo, nel quale hanno accomunato il sentire ed il volere per un certo tempo, vi è un unanime accordo nelVassurgere a vita più intensa e ad unità più alta? Accordo delle Unità molecolari cellulari ben inteso, senza che venga giù dal Cielo Infinito di Ardigò, dalla sotto natura o dalla sopra natura, alcuna di quelle cause alle quali VArdigoismo attribuisce l'ordine. Si promuove la guarigione col crederci e col volerla. Spesso gli organismi inferiori che parevano morti, ma dei quali non si era guastata la morfologia, risorgono (come lo descrisse fin dal 1860 il Pouchet nelle sue « Récherches et expériences sur les animaux résuscitants » ). Egli fece risusci- tare fino a dieci volte dei Rotiferi disseccati col tornare a bagnarli. E così pure fece rivivere degli Ostracodi e dei Radiati, delle ova di Apus, e delle Anguillide. Gli atomi di ossigeno, di idrogeno, di carbonio, e d'azoto, si elevano nella mor- (1) Educate nel « Theological Metaphysical and Psychological College » di Boston. Il Finot nella sua Revue disse che la volontà ha sopra l'organismo la potenza di ringiovanirlo, guarirlo, raffor- zarlo. E consiglia di svolgere tutte le forze con fiducia ottimista, preparandosi robusta salute e vita lunga. fologia cellulare che trovano, rifacendo la Unità generale degli animali che sembravano rigidi. Perfino dei Vertebrati offrirono non dubbi esempi di risurrezione. Certe Rane chiuse da secoli fra le roccie appena ebbero l'aria si mossero. Certi Pesci agghiacciati dai crudi inverni, quando ri- sentivano l'aria e l'acqua tepida, poco a poco ricominciavano lo scambio col mondo esterno e ritornavano sani. Qui non ci entra affatto l'Ipnotismo. Gli organismi si sono fatti un po' alla volta per il piacere; e se la morfologia non è guastata, appena il piacere ridiventa possibile {perchè ritorna la umidità od il calore che mancavano)y ritorna la vita. Sopratutto nelle malattie che dipendono da stasi sanguigne e in molte altre, la Psiche guarisce agevolmente. In quanti sono i morbi che affliggono l'uomo poi, i bravi medici cercano sempre di inspirare fiducia e coraggio, ben conoscendo che questi hanno maggiore efficacia della Farmacopea. Non mancheremo, terminando questi cenni sulla guarigione, di osservare che la Natura che si fa per guarire, non è solamente la Unità generale dell'organismo; ma che vi concorrono le Unità dei singoli organi, essendo tutti intenti, anche quelli della psiche passiva diventata meccanismo, a conservare e ristabilire la salute. Come la Psiche fa il Sistema Nervoso. Le due funzioni del sentire e del muoversi, quando furono ripetute, depositano nelle vie per- corse delle sostanze più instabili, che sono deli- catissime e dalle quali si formano i nervi e servono col semplice rivolgersi delle loro molecole, a tra- smettere sensazioni e volontà. Il sistema nervoso è assai rudimentale nei Celenterati, nei Polipi e Acalefi, come le Meduse, nelle Pholades (molluschi inferiori). Diventa visibile nei Vermi inferiori, e cresce bene nei Crostacei, nei Ragni e negl' Insetti, con- centrandosi in fili bianchi formati da molti fasci e formando dei gangli o gruppi. I gangli si avvicinano specialmente nel torace e nella testa. Nei Molluschi Cefalopodi i gangli si accostano tanto da formare una sola massa attraversata dallo eso- fago. Negli Scorpioni vi è quasi un piccolo cervello in due lobi, poco separato dal grosso ganglio del petto. Le larve degli Insetti sembrano Vermi, e con- servano come i Vermi la catena dei gangli: ma nella metamorfosi il sistema nervoso si concentra in una massa, tripartita in testa, torace ed addome. I Tunicati e YAmphioxus sviluppano meglio il sistema dorsale ed il cervello; e nei Pesci inferiori questo si divide in midollo allungato o cervelletto, cervello medio (di lobi ottici e tubercolari) e cervello anteriore, in due emisferi, che ingrandiscono poi nei Vertebrati superiori. Sotto queste cinque forme (la diffusa dei Protozoari, la disseminata dei Radiati inferiori, la ra- diata delle Meduse e degli Echinodermi, la bilaterale ventrale dei Vermi, degli Artropodi e di alcuni Molluschi e la mediana dorsale dei Tunicati e dei Vertebrati), la composizione della sostanza nervosa si perfeziona gradualmente e arriva nei Primati e nell' Uomo ad avere molta lecitina, che è la sostanza la più instabile e la più adatta a ricevere impressioni. I fili nervosi fanno cilindrassi, chiusi in fo- dere di Keratina e dal neurilemma. Della sostanza nervosa tre quarti sono acqua, il quarto che resta solido è per metà di albumina e gelatina, e per l'altra metà di lecitina, cholesterina, e di altre sostanze grasse e di fosfati. I fosfati predominano nelle cellule grigie, che stanno alla fine di ogni nervo sensibile ed al principio di ogni nervo motore, ed hanno l'ufficio di ricevimento o di trasmissione dei dispacci. Nelle cellule grigie quasi nove decimi è acqua,, il 12 °/ è solido. La sostanza bianca che arriva nei gangli e nel cervello non ha che il cilindrasse e la myelina, senza fodere; è acida, con poca lecitina. La lecitina si compone di molto carbonio, ed ossigeno, con qualche grasso, con neurina ed acidi fosforici. La convergenza che fa sorgere la Unità intima generale dell'organismo va sempre a finire nelle cellule grigie. La Natura che si fa, col ripetere i moti, li fa andare con crescente facilità, finche di- ventano moti riflessi, ossia Natura fatta. Nell'uomo il centro moderatore degli atti riflessi della spina dorsale sta nel cervello, dietro ai tubercoli quadrigemini. Vi sono nel cervello molti altri riflessi, grazie ai quali vengono imparati i mestieri e si arriva a parlare presto. Tutti gli atti riflessi si compiono senza V imagine} e non vengono impediti dal cloroformio (1), mentre gli atti volontari non solo, ma anche gli abituali, e quindi di psiche passiva, ma recente, in- dividuale, non ereditata (come lo scrivere, il nuotare, la scherma, ecc.), esigono V imagine e sono arrestati dal cloroformio. — Nella scherma si fanno per abitudine istintivamente delle celerissime parate opportune che, pensandoci avrebbero voluto dieci volte più tempo, e queste, come i mestieri imparati da lungo tempo da operai provetti, sono impossibili sotto l'azione del cloroformio. Ma i veri atti riflessi ereditari non soffrono per il cloroformio (2) e predominano in tutta l' infanzia e l'adolescenza ed anche negli adulti nelle funzioni interne, quali sono il deglutire, i moti peristaltici degli intestini, l'animazione dei globuli rossi, il ritmo della respirazione, la contra- zione dei muscoli, la defecazione, il parto, la regolazione del corso del sangue che fanno i minutissimi nervettini vasomotori. (1) L'imperatore Commodo dava nel circo al popolo Romano lo spettacolo di parecchi struzzi che, presa la corsa, erano decapitati col lanciare frecce a falce al loro collo: essi compivano gli altri tre quarti della corsa nell'anfiteatro, per puri atti riflessi della loro spina dorsale. (2) Gli anestesici, cioè gli Eteri ed il Cloroformio, sono volatili ed il loro effetto è passeggero. — I nervi motori si avvelenano col curaro, i sensibili colla stricnina, e questi, essendo contripeti, basta avvelenarne uno per ucci- dere l'animale. I muscoli si avvelenano col cianuro di potassio. Nei moti riflessi abbiamo la prova evidente che il Conscio fa l'Inconscio. Questi moti riflessi sono stati una volta imparati dalla psiche attiva dei genitori, giacche l'In- conscio non può fare mai il Conscio. Ex nihilo nihil. E dalla unità generale di coscienza dell'or- ganismo animale deriva la combinazione di tutti gli scopi assunti nella evoluzione, che esprimono lunghe serie di atti compiuti per godere la vita, e deriva pure la prevalenza nell'uomo dei nervi sensibili sui nervi motori (1). La maggior parte dei moti riflessi dipende dal sistema del gran simpatico, che va dal midollo allungato al petto ed al ventre ed a tutte le ghiandole. Dipende pure in parte dal medio simpatico detto anche nervo vago, o pneumogastrico, che regola i moti del cuore. Il midollo allungato o bulbo, regola la respirazione, la deglutizione, e la voce (nodo vitale). Il nervo splanchico può inibire l'intestino tenue. Il moto del cuore e quello degl' intestini è fatto dai gangli delle loro pareti. Gli altri moti riflessi dipendono dal si- stema rachidiano della spina dorsale, in cui, in- trecciandosi i due sistemi nervosi (del cerebro e del gran simpatico), vi sono quattro colonne: due dei nervi sensibili e due dei nervi motori. Anche le cellule grigie sono doppie. (1) Sherrington mostrò nel 1906 (The integrative action of the nervous system. New York) che i riflessi maggiori sono composti di riflessi semplici e successivi, sopra una serie combinata di archi riflessi, divisi ciascuno in metà efferente e metà afferente; ossia partendo dalle cellule grigie ed andando al muscolo o alla ghiandola. Il nervo conduttore è fatto di neuroni che si toccano, ma non sono mai continui.  Nel cervello la sostanza grigia trovasi alla periferia, sotto la corteccia nelle circonvoluzioni e supera la metà, e la bianca con poca grigia sta nel centro; ma nel midollo la disposizione è in gran parte contraria, ossia la bianca sta alla periferia e la grigia nel centro. Però questa si con- tinua nella grigia del cervello fino allo strato ot- tico e al corpo striato, dove si agglomera nel mezzo del cervello. Le cellule grigie sono moltipolari, ossia hanno molti poli o prolungamenti e sono alcaline. Quando una sensazione colpisce una cellula grigia, segue l'assimilazione nuova. Il nervo in riposo è alcalino: lavorando diventa acido e le sue sostanze più vitali cominciando a guastarsi, fanno la cholesterina. Alla filosofìa importa molto la distinzione fra la Natura che si fa ed i moti riflessi, e tra la scomposizione e la ricomposizione delle cellule grigie. Herzen credeva che si avesse coscienza quando le cellule grigie si disintegrano; ma appena si di- sintegrano la convergenza nervosa che fa la co- scienza le reintegra, con una nuova figurazione. Allora alla negazione di ciò che sembrava male fondato, ossia alla imagine difettosa, succede l'af- fermazione di quello che dall'animale o dall'uomo è ritenuto vero, utile o bello, una imagine cor- retta o nuova. Per sistemare il nuovo, occorre prima disgregare la formazione erronea. Ritorneremo a parlare della Natura che si fa sotto quattro nuovi diversi aspetti nel Cap. XII sui Muscoli, nel Cap. XIII sulla Psiche generatrice, nel XIV sul Sentimento e nel XV sulla Volontà. Insistiamo sopra questi rapporti, perchè la Natura che si fa è conscia: mentre la Natura fatta è necessitata e va come un meccanismo, come quegli struzzi privati della testa, che l'Imperatore Commodo dava in ispettacolo ai Romani. (Vedi sopra, la noterella pag. 146). Come il midollo spinale ha quattro colonne, due dei nervi sensibili e due dei nervi motori, così il cervello ha quattro parti, di cui le due anteriori piò. alte giudicano e muovono in quei centri che il prof. Flechsig chiamò i quattro centri spirituali; dopo che le due posteriori e più basse hanno sentito in quei centri che lo stesso fisiologo ha chiamati i cinque centri sensitivi. La massa delle cellule grigie nel cervello alto è distribuita intorno sotto le meningi in 9 strati doppi sottili. Ha circa mezzo miliardo di cellule, ciascuna delle quali mediante 4 fili comunica con le vicine e con la sostanza bianca e grigia, che sta al centro del cervello. I cervelli sono magazzini d'imagini che con- servano nelle cellule grigie le più minute divi- sioni dello spazio e del tempo di quello che si è veduto, toccato ed udito. La convergenza dei nervi per l'attenzione, si porta appunto sopra quelle cellule grigie, dove si fa la percezione o che dopo fatta questa, in- teressano per ravvivare nella memoria alcune determinate imagini. II punto focale della convergenza generale è la vera Unità dell'organismo, e fa l' Io che gode, soffre e pensa: e al di là, subito al di là di questo punto focale, una minutissima divergenza delle stesse linee arrivate colla Convergenza, lascia sul piano delle cellule grigie l'imagine di quello che si è percepito e che si può in seguito rammentare, ritornando a convergervi le forze. Io. Il punto focale della convergenza adunque è mobile, si forma a seconda dei bisogni di questa o di quella parte. Le cellule grigie dove si riuniscono le imagini fatte nel cervello basso o strato ottico, stanno negli strati corticali interni, mentre nei seguenti, fino alle meningi le cellule grigie diventano sempre più piccole e contengono probabilmente gli estratti dei simboli delle imagini. Quando si pensa le cellule grigie cerebrali si consumano e si rinnovano cinque volte più presto di quando non si pensa. Quando si fanno le percezioni o le astrazioni o si correggono gli errori, si fanno nuove forme nelle cellule grigie corticali. Mentre quando non si pensa, il rinnovamento delle cellule grigie av- viene poco a poco per semplice nutrizione e scambio di materiali, senza cambiare le forme delle impressioni ricevute o dei segni astratti, i quali ultimi però rimangono sempre in stretta relazione con le imagini materiali, ossia con le minime suddivisioni dello spazio e del tempo delle cose vedute, toccate ed udite, ecc. Meno precise sono le imagini prodotte dai sensi dell'odorato e del palato, anzi non sono imagini, ma reazioni sentite pensando ai cibi e ai fiori o ad altre cose odorate. Precisissime sono invece quelle del senso muscolare, che sono sempre collegate con quelle delle cose vedute, toccate od udite. La Energia pensante ha le stesse origini della Energia fisiologica e chimica e risulta dalla Convergenza che percepisce, ricorda, rammenta o combina le imagini confrontando e giudicando. Dunque il Pensiero è un lavoro che distrugge la sostanza nervosa più delicata, come il lavoro dei muscoli consuma gli zuccheri ed i grassi che sono nascosti nella carne contrattile. Il Pensiero ha il suo equivalente meccanico, ma è impossibile sta- bilire quanto sia, per la difficoltà dell'esperimento. Il cervello anteriore regola le correnti nervose di tutto il corpo. Il cervelletto regola il senso muscolare ed il tatto, ed un poco anche l'udito, e ne partono i cordoni posteriori del midollo. Per agire il cervello abbisogna di sangue arte- rioso e ci arriva da due parti. Quella meringe che avvolge gli strati corticali ed è chiamata la pia madre, riceve un gruppo di arterie per il cervello alto, ed un altro per il cervello basso e posteriore. La rete chiamata nevroglie, sotto le meningi, protegge i nove strati doppi di cellule grigie, del cervello alto, i cui vasetti capillari venosi portano via i solfati ed i fosfati consumati nel pensare. Se si arresta la irrorazione arteriosa del cervello, avvengono svenimenti, sincopi, vertigini o colpi apopletici. Se la normale contrazione dei vasetti capillari, per causa di qualsiasi sentimento, cessa ad un tratto, si dilatano le arterie della faccia umana, che arrossisce. Basteranno questi pochi cenni, per intendere quanto diremo sul Pensiero nel Volume Secondo «L'Uomo secondo Pitagora». Il cervello umano pesa un solo quarantesimo del corpo, ma riceve un sesto del nostro sangue per le due arterie carotidi e le due vertebrali. Il cervello sta al peso del corpo come 1 a 5600 nei Pesci (che sono i più stupidi fra i Vertebrati), come 1 a 1300 nei Rettili, come 1 a 212 negli Uccelli, come 1 a 186 nei Mammiferi; numeri soltanto approssimativi e presi in termine medio fra le varie specie di ogni ordine. Un cavallo che pesa come sette uomini ha due libbre di cervello. Un uomo ne ha quattro libbre. Dunque, relativamente, l'uomo ha quattordici volte più cervello e più pensiero del cavallo. Come la Psiche fa il Sistema Muscolare Nei precedenti Capitoli abbiamo veduto il progresso graduale mirabile della Natura che si fa. In questo vedremo come ordina i moti. La Volontà si manifesta senza aver ancora al- cun organo negli amebi e nei nostri globuli bianchi, il cui protoplasma contrattile si compone di albumina coagulabile e di sostanze proteiche non solubili. Il protoplasma contrattile degli Embrioni degli animali inferiori vi somiglia assai. Tutti i muscoli cominciano nel feto allo stato di sarcodi amorfi: i nervi li fanno diventar muscoli. Il primo muscolo a formarsi, e V ultimo a morire, è quello che governa la circolazione del san- gue e non si arresta mai: è il cuore. Al momento in cui dal sarcode si sviluppa in un uccello il muscolo che pulsa (fra le ore 26 e 30 dalla incubazione della gallina), i suoi movimenti sono rari e poco percettibili. Poco a poco si ac- celerano e si pronunciano: ed allora si formano i vasi, pei quali si caccia il sangue (arterie) e quelli per cui ritorna (vene) ed un'area vascolare provvisoria, una vescicola che si allunga in ventricolo di sopra e in orecchietta di sotto: diventa un cuore di pesce. Poi si contorce, mentre il ventricolo va sotto, la orecchietta va sopra e diventa cuore di rettile con tre cavità. Finalmente fa la quarta ca- vità e si completa come cuore di uccello o di mammifero. Come avviene la contrazione dei muscoli? Avviene grazie a molecole di protoplasma assai grosse, chiamate sarcous, che mutano forma con grande facilità, essendo molto eccitabili e gonfiandosi col prendere il liquido ad esse vicino. Naturalmente nel gonfiarsi si avvicinano e costringono così le fibrille intrapposte a contrarsi, come ha dimostrato il prof. Arndt (Psychiatrie). Il sangue porta continuamente ai muscoli car- bonio, sotto forma di grassi e di zuccheri (che sono ambedue ossidi di carbonio). Il muscolo contraendosi non consuma la propria sostanza, ma si bruciano questi materiali portati dal sangue arterioso; anzitutto i ternari o idrocarbonati, cioè i grassi ed i zuccheri; e poi in grado minore i quaternari cioè gli azotati (1). E la combustione non avviene (1) I prodotti della combustione completa dei ternari sono l'acido carbonico e l'acqua, e il prodotto della combustione completa dei quaternari è l'urea. Ma se la combustione fu incompleta, il prodotto dei ternari è l'acido lattico, e quello dei quaternari o azotati è l'acido urico, la creatina e la creatinina, cause di grassezza, di artrite, di gotta, di renella, di calcoli orinari e di nefrite. se non allora che la Volontà fa contrarre i muscoli gonfiando i sarcous. Il gonfiamento dei piccoli in- visibili sarcous produce quello dei muscoli visibili. Dunque la Psiche, che ha fatto i muscoli, è quella che li fa contrarre. La combustione dei grassi e zuccheri è la principale sorgente del calore animale. La contrazione è atto vitale psichico della Unità intima volente, esercitata nella syntonina di cui fanno parte i sarcous. Invece la elasticità, per cui le fibre muscolari ritornano ad allungarsi dopo che erano contratte, è una proprietà fìsica della fodera delle fibre muscolari detta sarcolemma. L' Unità intima col ripetere i moti, li fa diventare abituali ed atti riflessi. Il plasma muscolare dei sarcous, detto myosina o syntonina, che sta fra le fibre, si coagula come il sangue. I muscoli viventi sono elastici, mentre i morti sono rigidi. Un muscolo affaticato non si contrae più. Ma se la Volontà è forte, ed esercitata, bastano 2 minuti per riattivare tutti i muscoli. I boxers inglesi ogni 3 minuti di lotta ne prendono 2 di riposo e così continuano per parecchie ore. Ogni 3 minuti l' Unità intima raccoglie la sua energia per tornare a gonfiare i sarcous. II sistema muscolare è una batteria di archi intrecciati; ma chi lancia la freccia è la Volontà, forza unitaria più delicata. Due uomini della stessa musculatura, lavorano molto diversamente, secondo la loro volontà. La differenza può andare dall'uno al dieci. Quando i nervi eccitano i muscoli a contrarsi, il sangue ci corre per avidità dell' influsso nervoso — 155 — dal quale furono fatti, essendo il sistema muscolare una continuazione dei nervi motori. E va notato che lo stesso nervo motore può contrarre il muscolo e può anche inibire il movimento, secondo che comanda la Unità intima, per il bene del Collet- tivismo organico. Il nervo motore comincia a deperire nella cel- lula grigia cerebrale, perchè la volontà è centri- fuga; mentre i nervi sensibili cominciano e deperiscono a partire dalla periferia, essendo emissari del cervello, che devono prendere le impressioni dell'ambiente. Perciò le sensazioni si diffondono; mentre il nervo motore muove un solo muscolo. I muscoli sono un po' innervati continuamente, quanto maggiore è la Energia della Natura che si fa; e sono quindi elastici, perchè gli estensori ed i Settori si equilibrano. Marey dice che, se i muscoli non fossero elastici, dovrebbero fare un lavoro decuplo, con un risultato ridotto al decimo. La loro elasticità si può far crescere con la Volontà e con l'esercizio, fino al punto da eseguire facilmente quei lavori di equilibrismo, di acrobatismo, di ballo o di operazioni manuali difficili in alcune professioni, che si ammirano. La Natura fatta della Volontà si può vedere sui corpi delle persone addestrate da lungo tempo alle ginnastiche: ed è un complesso di vasomotori, di nervettini del senso muscolare, di arterie, di vene, di muscoli collegati, che permettono di fare con prontezza movimenti impossibili a chi non è esperto, sempre diretti dalla Unità intima Volente. Quando danno spettacolo di sé le ballerine, gli atleti, gli acrobati, gli equilibristi, questa Natura fatta è già divenuta un Meccanismo. Allora i pròtagonisti, stanno attenti con la Natura che si fa soltanto alle nuove circostanze che si presentano nei loro compagni o nel pubblico. (Vedi Zucca, Acrobatica ed atletica, 1902). I corpi di essi sono continuamente addestrati ad innervare le spalle, i fianchi, le braccia, le gambe ed il ventre: e sono incomparabilmente più elastici di quelli di chi fa vita sedentaria. I muscoli hanno dei nervettini sensibili nelle loro fibre, che danno il senso muscolare, col quale noi proporzioniamo tutto quello che facciamo. Le isteriche anestesiche possono fare dei lavori di ago e di ricamo delicati, con la sola sensibilità muscolare. Il senso muscolare è il primo ministro della Volontà. Fra i muscoli bisogna distinguere quelli a fibre striate da quelli a fibre liscie. Le fibre liscie (lunghe cellule nucleate) stanno nell'uretere, nella vescica, nelle ghiandole, nello stomaco, nell'intestino, sempre alcaline e si con- traggono ad ogni improvvisa emozione, avendo nervetti vasomotori assai delicati che vengono dal gran simpatico, per atti riflessi. Dipendono dal gran simpatico anche i muscoli che fanno rigettare gli alimenti dannosi (contraendo l'addome ed il diafragma più dello stomaco). I più utili ad esercitarsi per sviluppare la salute sono i muscoli psoailiaci del retro venfre, vicini alla colonna dorsale, che sono i più ricchi di arterie, ed i più prossimi agi' intestini. Piacere e dolore crescono con le fibre striate. I più dipendenti dal^ cervello sono quelli della laringe. E evidente la Natura numerica della Unità in- tima quando cantano Uccelli, Scimmie ed Uomini, perchè, senza una interna ed elevata capacità di proporzionare la lunghezza delle corde vocali, rie- sce impossibile di emettere i suoni voluti. A tal uopo la struttura fatta dalla Volontà di cantare deve essere diventata un Meccanismo. Nell'uomo la laringe ha due corde che fanno le note basse, vi- brando in tutta la loro lunghezza. La glottide le ravvicina per farne vibrare una parte soltanto, a misura che il suono si vuol fare più acuto. Finite le note di petto, la sola parte che vibra dà un falsetto, perchè manca l'aria. Per fare le note gravi la faringe si contrae, la epiglottide si alza. Un tenore, un baritono, un basso profondo, un soprano, col muscolo tiroide (se hanno una Natura fatta esercitata) possono, senza preamboli, emettere quella Nota che desiderano. Basterebbe osservare questa facoltà di proporzionare i movimenti muscolari ed emettere le varie Note per far diventare pitagorico chiunque vi rifletta. Abbiamo indicato alcuni fatti della fisiologia utili a dar fondamento alla filosofia della vita. Il Pitagorismo esclude l'indeterminato e vuole che tutto sia definito se è possibile matematicamente, giacche la matematica è l'ossatura delle forze fìsiche, chimiche e biotiche come disse il Galilei. In fisiologia questa ossatura è determinata dalla Natura che si fa della Unità organica distinta e precisa, che numera col numero reale (e non col concettuale) intenta ad esercitare le funzioni es- senziali: digerire, respirare, sanguifìcare. assimilare e generare, attenta a cercare il piacere e fuggire il dolore, bramosa di ascendere a più alta unità e di affermarsi. Più che in tutti gli altri muscoli, in quelli della laringe, i nervi nel farli, nell' intrecciarli, nell'educarli, misurano col Numero reale. Della Parola diremo nel Yol. II. La Psiche generatrice Vedemmo ette gli organismi sono associazioni collettivismi di cellule, formati sentendo, desi- derando e volendo. Fra il sentire e il volere, vi è di mezzo non già il Concetto Hegeliano, ne lo Indistinto Ardigojano, ma una figurazione dell'atto necessario per svilupparsi. Ripetendo quell'atto, la Natura che si fa lo cambia in Natura fatta poco a poco. All'individuo bastano pochi giorni per fare un'abitudine: alla specie abbisognano molte generazioni. Le abitudini di due o tre generazioni non divengono Natura fatta della specie, ma quelle conti- nuate da molte generazioni rendono durevole la modificazione. Nel Oap. sul sistema nervoso abbiamo distinto gli atti riflessi che sono di natura fatta individuale o di poche generazioni, da quelli di molte generazioni, che si compiono senza avere la imagine e non vengono impediti dal cloroformio. Le parti più antiche, cioè i tessuti epiteliali, sono quelle che resistono più di tutte agli anestesici. 1 muscoli resistono meno assai dei tessuti epiteliali, ma continuano ad essere irritabili se non sopravvengono gravi guasti nell'organismo generale. Meno dei muscoli resistono gl'intestini, le ghiandole, il senso nutritivo, il senso respiratorio, il senso erotico. Invece la sensibilità conscia è subito abolita, appena vengono somministrati Etere o Cloroformio. Gli atti della sensibilità conscia progrediscono poco a poco e sono essi che fanno i piccoli perfezionamenti degli organi digestivi, dei respiratori, della circolazione, delle secrezioni, della sen- sazione e della locomozione clie vanno complicando e perfezionando gli organismi, facendoli passare dallo stato di Protozoari a quello di Animali più evoluti. La Natura fatta acquisita è una consuetudiner una legge, un esercito addestrato in modo diverso e proprio di ciascuna specie, in cui si riflettono tutte le sensazioni, tutte le volizioni, tutti i coefficienti del passato: cosicché ogni dettaglio nelle forme e nelle funzioni di un animale, ha avuto la sua causa intima. Questa legge di evoluzione si riproduce rac- corciata nel seme, nell'embrione, nel suo modo di crescere e di fruttificare — il che si esprime dicendo che la filogenia (origine della specie) si ricapitola nella ontogenia (origine dell'individuo). Quindi bisogna precisare che non è una memoria, come la chiamano molti naturalisti poco filosofi, quella che fa uscire dal seme l'una o l'altra pianta, e dal seme di un animale l'uno o l'altro tipo zoologico. Non è una Memoria,, ma è una Legge, una forma di moto, una psiche obbediente, passiva, inconscia nel suo complesso. Da molte uova di pesci e di uccelli di specie diversa, escono pesci ed uccelli assai diversi. Da spermatozoidi e da ovuli di Rettili, di Quadrupedi, di Primati, di Uomini, escono Vertebrati assai differenti, senza che la psiche sociale inconscia, nel ricapitolare la lunga evoluzione della specie,. mostri mai una libertà di volere, un qualsiasi arbitrio. Tutto va meccanicamente, necessariamente; ed anche le mostruosità, le forme terato- logiche hanno sempre cause straordinarie di di- sordine. I moti una volta imparati vanno senza imagine, sono ornai voluti fortemente, organizzati, diventati meccanici: camminando non pensiamo al moto delle gambe. Non si può chiamare Memoria se non quella dell'Individuo, al quale ricorda le sue percezioni, i suoi atti. Non si può avere Memoria senza possedere il sistema nervoso e specialmente la so- stanza grigia, in cui deporre e conservare le inda- gini. Hering professore a Vienna è stato il primo a chiamare erroneamente Memoria questa Legge o statuto sociale, progressivo delle specie che si -evolgono. Nella sua Dissertazione all'Accademia Viennese 1870 disse che la Memoria è una funzione generale della natura organica, e questa parola male applicata ha generato poi molta con- fusione così in zoologia, come in fisiologia ed in psicologia. La Legge o statuto sociale organico procede sicura fintanto che l'ambiente non sia troppo av- verso. E intimamente connessa con la Unità che la figurò. Le filosofìe straniere non spiegano il mistero della vita. Lo Inconscio di Ed. Hartmann come può far tante meraviglie nella sua inconsapevolezza? A che servirebbero il dolore ed il piacere degli organismi, se questi sentimenti non governassero la loro vita e la loro evoluzione e tutto fosse operato da una divinità inconscia? Tanto più che nello Inconscio di Hartmann la Volontà lotta sempre con l'Idea.  In realtà non vi è affatto questa pretesa lotta; anzi non vi è neppure l'Idea: ma fra il Sentire e il Volere vi è la figurazione del moto che può giovare, figurazione che non si può chiamare Idea, Concetto o Pensiero. Le altre scuole non facendo la distinzione fondamentale fra la Natura che si fa, libera, e la na- tura fatta, necessitata restano impotenti nei problemi essenziali della vita e dimenticano la Unità intima che dà il piacere di vivere, fattore primo ed essenziale. Piacere che è più che mai sentito e goduto nell'Amore, quando tutte le psichi degli organi si fondono in una grande unità, ed è sentita colla figurazione delle forme teleologiche del sistema di forze proprio di ogni specie, ossia della legge o statuto sociale dell'organismo. Un sentimento finalista, prepara in questa figurazione le generazioni future. La sintesi del collettivismo organico, agognata e goduta con sentimento, figurazione e volontà, è la causa della Eredità e somiglianza dei figli agli antenati, salvo quelle piccole modificazioni che furono vivamente bramate. I passi più notevoli nella bellezza e nell'utilità della struttura, si preparano a lungo e si fanno prontamente nella sintesi Erotica, e nell'Embrione quando il Collettivismo organico è vivamente sintetizzato. Platone vedeva il divino nell'Amore ses- suale, perchè (egli diceva) prende tutta l'idea della specie, e la realizza. Possiamo dire che è la tra- smissione della Legge sociale del Collettivismo. La forza di ogni cellula dell'organismo, con- verge e concentra sopra poche cellule tale funzione, sia che si faccia per germinazione, sia che si faccia per fusione di nuclei germinativi sessuali. Dapprima il piacere di congiungersi si compie senza sessi, ringiovanendo i nuclei delle cellule, per semplice fusione, come nei Ciliati, nei Rizoidi e nei Magellati. Le cause meccaniche non bastano per aggruppare intorno ad un progenitore, per riproduzione senza nozze, individui primordiali, per formare un individuo superiore, e tanto meno a dar ra- gione delle forme seriate, ossia disposte in serie, e meno che mai a spiegare la differenziazione autonoma. Sono necessarie le cause interne vitali (sensazione, desiderio, figurazione, volontà) a trasfor- mare gli organi. Ci vuole poi gran concentrazione morfologica per moltiplicare l' individuo e fare le -colonie. E gli animali inferiori stentano tanto a fare tale concentrazione, che la prole resta impotente a diventare adulta in breve tempo, ma gli embrioni gradatamente si sviluppano fino a divenire adulti. Negli organismi inferiori {Celenterati, Crinoidi, Vermi e Crostacei inferiori) l'uovo non produce quasi mai un organismo uguale al genitore: ma sviluppa un essere embrionale, che ri- corda il primo individuo delle colonie lineari (Idromeduse) od il centro dei Corollari, e degli Echinodermi, che crescono a raggi (Radiati). Quando si muove, diviene un primo anello, che ne germina dei successivi, ai quali servirà poi di testa nei Vermi {Trochosphera) e negli Articolati (Nauplius). Nell'Idra di acqua dolce non vi sono che quattro o cinque individui in colonia, ma nei Polipi idrati sono migliaia. La Medusa in colonia non fa uova: ma quelle •che si isolano nuotando per godere le nozze, le fanno. Un siconoforo è una federazione fluttuante di Meduse, divise in prensori, locomotori, riproduttori e nutrici. I Polipi del Corallo formano grandi co- lonie; ma anche fra essi vi è VAnemone che vive isolato. Nei Briozoari e nei Tunicati si vede sempre il rampollo, come nei Celenterati. Nei Vermi, negli Artropodi non si vede; ma sono formati essi pure da meridi (ossia parti), derivate rampollando le une dalle altre. Negli Anellidi la bocca e gli organi dei sensi stanno nella sola testa, ma ogni anello ha le proprie gambe, il proprio canale digestivo, il suo ganglio nervoso, e i suoi vasi saguigni, il suo sistema riproduttore. Se si separano, fanno la generazione alternante, ora a gemme, ora ad uova, come le Salpe, nuotatrici, tunicate, le une grosse come aranci e dedite all'amore, le altre piccolissime, associate in catene fosforescenti. Così lo Sciphystoma, alterna le funzioni riproduttive, in modo che il sessuato fa le uova, ma non le vede nascere, e le nutrici allevano le larve nate dalle uova. I Vermi si distendono con nuovi anelli sopra una linea lunga e diritta. Ma in alcuni la progressione si fece per asse trasversale, obbligando ad accentrare e differenziare, portando al centro gli organi di nutrizione e di circolazione, e ne vennero i Molluschi, cancellando i segmenti; eppoi si fecero la conchiglia, per ripararsi dai ne- mici (come pensano Perrier e Gegenbaur). Però nella loro Embriogenià, non mostrano mai di es- sere segmentati, e possono anche non essere derivati dai Vermi, come pensano Rabl e Cattaneo. La facoltà di rigenerare le meridi o parti ta- gliate è evidente nell'Idra e nella Stella di mare, come nelle Piante. I Crostacei derivano in gene- — 164 — rale da specie che avevano venti segmenti. Il Pe- neonauplio aumenta gradatamente i suoi segmenti, mentre il gambero ha 21 segmenti fin dalla nascita. Le larve degli insetti sono Embrioni nati avanti tempo, ma capaci di svilupparsi con l'aiuto di nutrici, ed anche senza di esse, quasi sempre con Metamorfosi, come nel Baco da seta. Questo ani- maletto, finche mangia sul gelso, non ha sessi: farà le ghiandole sessuali quando sarà crisalide e farfalla, giacche la Muta o Metamorfosi è sem- pre una crisi di maturità genitale. E per godere l'amore che si chiudono ed elaborano i germi della loro Unità più alta. Gli Artropodi fanno diverse mute, rigettando il guscio. Il bruco, con bocca masticante, diventa farfalla, con bocca da succhiare. Il verme bianco diviene scarafaggio senza mutar bocca. Nelle Api, nelle Vespe, nelle Pidci, nei Lepidotteri, e nei molti Vermi inferiori, si osserva la partenogenesi. La partenogenesi artificiale è sempre impossibile senza le forze che accumulano le ener- gie delle precedenti generazioni (1). La concentrazione erotica arriva a perfezionarsi negli spermatozoidi e negli ovidi. I sessi si svolgono in ghiandole ermafrodite, nelle quali il di fuori è maschile, il di dentro è femminile. Se prevale l'assimilazione si ha la femmina: se prevale l'azione si avrà il maschio. (Vedi: Thomson Geddes: Evolution of sex. 1890, Londra). (1) Nella « Biologia taurinensis » di A. Gìglio 1906, il prof. A. Ceconi dice che chi vuol spiegare fisicamente la vita, prende sempre per isbaglio delle analogie parziali, come se avessero valore totale. L'ovulo nasce nella donna dall'epitelio dell'ovario, che è uno dei tessuti più bassi, e più antichi dell'organismo. Anche gli spermatozoidi nascono dal tessuto epiteliale dell' uomo. L' uovo fecondato del maschio non si sviluppa in modo molto diverso dalle uova partogenetiche. Loeb e il prof. Delage della Sorbona 1906, trovarono il modo (con so- luzioni saline e semidolci miste a tannino), di pro- vocare la fecondazione artificiale delle uova di al- cuni minuti animaletti marini, alternando la coa- gulazione (con acidi) e la liquefazione (con alcali) delle albumine dell'uovo. L' uovo femmina ha molto citoplasma ed un pronucleo privo di corpo centrale. Il maschio ha un centrosoma, un pronucleo, e quasi nessun ci- toplasma. Il centrosoma maschio si biparte fecondando la femmina. Ogni organismo superiore esce da uno sper- matozoide che, nel suo mezzo milione di cel- lule, riunisce l'idea vitale da svolgere, ossia la psiche passiva degli antenati, in sintesi morfologica, che incomincia il suo impulso nell'astro del coito. Lo Spermatozoide e quasi uguale in tutte le specie superiori, ma ben diversa è la psiche passiva che riceve dai genitori. Entrando nell'ovulo lo irradia e lo vivifica, e ben presto la cellula uovo principia a segmentarsi ed a sviluppare (con struttura semifluida) l'embrione, dotato di una psiche passiva uguale a quella dei genitori. L'ovulo prodotto in una delle vescicole dette di Qraaf, quando è maturo, riceve molto sangue, gonfiandosi e rompe il follicolo, andando nelle trombe falloppiane, facendo mestruare la scimmia e la donna (non i quadrupedi). 11 L'uovo dei mammiferi è piccolissimo, ha quattro parti, cioè la vitellina, o zona pellucida esterna, il vitello pieno di granuli, e fra queste la vesci- cola germinativa di Purkinje e quella embrionale di Balbiani. Nelle uova degli Uccelli vi è di più l'albume ed il guscio calcare, dovendo essere nutrito e riparato fuori dell'alvo materno, covato tre settimane, mentre nei mammiferi l' uovo prende i materiali nutrienti dalla placenta (che nella donna è una, nelle pecore e nelle vacche sono parecchie). Il testicolo è fatto da molti tubetti stretti e lunghi contorti, che sboccano nel canale eiaculatorio: in ogni tubetto si formano strati di cellule di cui le più centrali allungano una coda e divengono così Spermatozoidi. Brown Séquard iniettando sotto la pelle dei neurastenici l'estratto dei testicoli di giovani animali fatto a freddo, ne guarì molti. La spermina iniettata sotto la pelle è tonica per due settimane e non fa mai male. Lo sperma contiene un numero enorme di sper- matozoidi ed uscendo si accompagna al liquido delle ghiandole del canale eiaculatore, al fluido delle ghiandolette del prostata ed a quello delle ghiandolette Cooper dell'uretra. Evaporato, lo sperma cristallizza alla superfìcie il fosfato di spermina. Gli acidi estinguono i movimenti degli spermatozoidi, gli alcalini a 35 gradi li conservano. La testa dello spermatozoide è ricchissima di acido nucleinico, il corpo è fatto da materie albuminoidi con lecitina e ce- rebrina, e il 5 °/ di fosfati (1). La Psiche ge- (1) Hofmeister vide che le protamine sembrano fatte dal trasformarsi delle proteine nel dar vita a spermatozoidi. Infatti nel Salinone, il testicolo cresce a spese della neratrice è affidata a questi elementi chimici, in- vestiti dalla Volontà o Legge o Statuto sociale ereditario. Quando corre molto sangue all'utero fecondato, incomincia alle mammelle la secrezione de] latte, umore albuminoso pieno di globuli bianchi e di cellule nucleate dolci, che dopo il parto diventa un composto di caseina, di lactosi, di sostanze grasse neutre e di sali. Siccome il sangue non contiene caseina, ne zucchero di latte, così è certo che vengono segregate nelle mammelle che gonfiano i loro acini. La caseosi emulsionata ed i globuli butirici rendono opaco il latte. Nei giorni della mestruazione il latte si altera: ma presto ritorna normale. Che cosa avviene nell'utero a cui corre il sangue dopo la fecondazione dell'ovulo? Il suo nucleo, come quello di tutte le cellule nella cariocinesi (di cui parlammo nal Cap. VI) fa una segmentazione che si moltiplica, finche si forma la così detta Morula; un assieme di palline come mora di gelso. Là si sgomitolano le membra venture dell'uomo. Nel centro della Morula si apre una cavità, in cui corre un liquido che gonfia e spinge le pareti, formando la Blastosfera. Questa va pigliando la musculatura del corpo, intanto che gli animali non mangiano. — Secondo Bang, invece di protamine vi sono istoni negli spermatozoidi in via di formazione e questi si sviluppano più tardi in protamine e proteine, che for- mano le teste degli spermatozoidi. Del resto la composizione chimica importa poco, poiché è la sintesi morfologica di tutto il collettivismo organico che dà la vita agli spermatozoidi come agli ovuli. Questa sintesi è del tutto psichica, come è evidente. forma di un ferro di cavallo, detta Gastrula, ed ha di dentro VEntoderma e di fuori VEsoderma. Neil' Entoderma (che diventa poi il canal digestivo) si fa un terzo foglio cioè il Mesoderma in- vaginando: il Mesoderma svolge il cuore ed i vasi sanguigni. L'Esoderma si sviluppa in sistema ner- voso muscolare, con un primo tubo di nervettini liquidi viscosi; e questo tubo farà la spina dorsale ed il cranio. La legge o statuto sociale è così divisa in tre dipartimenti. L'Embrione è un corpicino animato dalla legge intima ereditaria, che riproduce gli antenati, fa- cendo ogni giorno crescere la sensazione ed il moto del feto. La Unità che diventa organica svolge la legge sociale formata nell'atto della fecondazione: è V anima che fa il corpo, dal di dentro al di fuori, come dal di dentro al di fuori si è fatta la specie. Lo studio degli embrioni e dei feti presenta molte difficoltà per determinare nella Ontogenia la Filogenia, ossia per scoprire la genesi della specie, perchè l'acceleramento embriogenico modifica nel feto gli organi ed anche perchè si esige un magazzino di materie nutrienti che altera le forme, come dice il Perrier (Philosophie zoologique). In uno stesso gruppo zoologico la nascita avviene in stadi diversi; alle volte si saltano delle fasi, o le cavità e gli organi che esse contengono si costituiscono diversamente. La funzione generativa conferma adunque tutte le leggi di formazione delle specie animali che si sono esposte nei capitoli precedenti. La Unità infima nel Sentimento Il sentimento è il Governo del collettivismo organico, ed è piacevole o doloroso. Esige più tempo delle sensazioni. La sensibilità organica (che Rosmini chiama il sentimento fondamentale della vita animale, tenendone gran conto, a differenza di tutti gli altri Metafisici) detta in greco Cenestesia, in tedesco Gemeingefiihl, o tatto interno di tutti i muscoli, nervi, della circolazione sanguigna, delle funzioni digestive, della respirazione, delle secrezioni ghiandolari, del senso erotico, abituata da milioni di anni ad unificare il suo tatto interno ed il piacere della vita e della salute, è il fondamento delle tendenze individuali e del carattere: ed è ereditata come psiche passiva, che può fare l'attiva convergendo nella Unità. Il carattere viene dal complesso di tutte le cel- lule nervose, mentre l' intelletto viene da una piccola parte di esse. Nelle malattie la cenestesia è dolorosa quanto più vengono disturbate o minacciate le funzioni essenziali. Nella convalescenza è piacevole, quando si va guarendo ed eliminando le ultime stasi sanguigne; nella salute si gode fa- cendo una ginnastica, aumentando la circolazione del sangue, la respirazione e la innervazione delle membra. Dicemmo che il sentimento esige più tempo delle sensazioni, non però più di due secondi minuti, dopo l'eccitamento; tempo necessario per fare il bilancio dei vari organi e sapere se l'organismo guadagna o perde. Sono confronti fatti dalla Unità generale, in cui il Numero concettuale non entra mai, relativi all'ambiente, alla nutrizione, alla salute o malattia, all'età ed alle forze dell'in- dividuo; sono dunque calcoli dell' Unità numerante intima. Il tempo è abbreviato assai nelle gravi ferite. Le sensazioni sono reazioni localizzate nei sensi speciali dalla cenestesia: ed avvengono in generale in 2 centesimi di minuto secondo dopo l'ec- citamento. La differenza del tempo dal sentimento alle sensazioni può dunque arrivare al centuplo. Ogni sentimento eccita il cervello e qualche gruppo di ghiandole. Nella paura quelle degl'intestini, nella collera quelle del fegato, nelle in- quietudini i reni e la vescica depuratori del san- gue; nel dispiacere e nel dolore le lagrimali. Nei sentimenti che deprimono, il cuore si ral- lenta e nel primo istante si arresta. In quelli stellici il cuore batte più celere e le arterie si al- largano, il cuore si vuota più facilmente, nelle emozioni liete, e più difficilmente nelle emozioni tristi, per cui il popolo attribuisce i sentimenti al cuore. I sentimenti di piacere e dolore, salute o malattia, coraggio o paura, simpatia od antipatia esprimono il rapporto in cui stiamo con le cose e in massima parte dipendono dal sistema nervoso del gran simpatico, operando sui nervettini vasomotori. Essi promuovono la Evoluzione destando i desideri e facendo la convergenza sulle sensazioni e sulle imagini che più giovano a preparare il proprio vantaggio. Esprimono a fondo la Unità numerante, perchè consistono dal principio alla fine in confronti di proporzioni (benché fatti senza Numero astratto) e sono comuni agli animali ed all' uomo. Le scelte fatte fra le varie vie, i cibi, le bevande, le azioni di ogni specie, i diversi modi di condursi, le risoluzioni importanti prese d' improvviso e anche le meditate sono suggerite dal sentimento e fatte con lampi di attenzione. Sotto l'azione del sentimento il sistema vaso- motore modifica la digestione e la secrezione della saliva, dei reni, delle lagrime, del latte (1) ecc. Il piacere ed il dolore sono i due modi sostanziali dell'essere noumenico, dell'Intensivo conti- nuo nella sua intima forza: Varmonia che fa espandere le Energie, la disarmonia che le co- costringe a soffrire e ad estinguersi. Ogni piacere aumenta la forza muscolare; prova che ogni energia vuole ascendere. La felicità corporea sta nell' accumulare forza nervosa; è salute il condensarla ed è vizio il dissiparla. Il piacere, in chi non degenera, è una continua nascita ed è quindi ascendente in ogni specie, in ogni individuo che progredisce. Ogni Io sorge in condizioni diverse dagli altri, e (come diceva Góihè) chi gode meno è chi scimiotta i godimenti degli altri. Ogni uomo intelligente è originale nel modo di godere. Ogni acquisto di nuova sensazione armonica fa piacere più assai che la ripetizione delle co- (1) La gioia aumenta la secrezione del latte, la paura la diminuisce e l'arresta. La vacca e la capra munte da mano straniera non danno latte. nosciute e già provate: e questo è lo stimolo che fa ascendere i piaceri e specialmente quelli artistici. Ogni allargamento del dominio sopra le cose è piacevole, ogni restrizione ed asservimento è doloroso. L'ambizione di promovere il bene comune è sempre piacevole e non è vero quel che disse Bahnsen (nella sua Charactérologie) che sia mossa dall'egoismo. La gioia giova molto al cuore, ai vasomotori, allo stomaco, al fegato, a tutto il sistema nervoso e ghiandolare. L'amor sessuale aumenta molto la circolazione del sangue, la respirazione, il godimento del tatto, del senso muscolare. Ogni espansione di vitalità e di forza, che non esaurisca, fa bene: rende l'occhio più vivo, il cuore batte più celere, le narici si allargano, la respirazione si fa più frequente e profonda, i muscoli si alzano, il sugo gastrico corre allo stomaco, la saliva alla bocca, tutto il corpo aumenta la Cenestesia, non soltanto nei piaceri corporei della tavola, dell'alcova, della ginnastica, ma anche negl'intellettuali, come la contemplazione di un ca- polavoro dell'arte, di un bel paesaggio alpestre, di un progetto industriale promettente, o l'ascol- tazione di una musica che gradevolmente ci molce l'orecchio (1). Le teorie che fanno derivare i sentimenti benevoli dalla esperienza, dalla utilità sono superflue e false. L'amore infatti pervade tutto l'uni- verso e dà maggiore piacere che la malizia ed il calcolo egoistico, anche ai più vili animali. (1) Nei piaceri intellettuali l'aumento della circolazione, della innervazione è minore in paragone con i piaceri del corpo. Le carezze eccitano piacevolmente i vasomotori ed il gran simpatico, aumentano la vitalità, specialmente se sono variate di modo e di posto. La emozione tenera (da non confondersi con l'erotica) aumenta le secrezioni, la circolazione, la re- spirazione, e la vita e dà un piacere calmo e durevole. La gioia se è forte può far piangere per la pressione sanguigna degli occhi. Anche il pianto cagionato da dolore aumenta la circolazione del sangue ed è un mezzo indiretto per cacciar via le imagini tristi. La simpatia deriva da sinergìa di moti, da ammirazione per la bellezza, la bravura e la bontà (1) per cui si entra nel modo di sentire dell'ammirato e la Unità intima dell'ammiratore si mette all'uni- sono con quella di colui che lo incanta. La collera e la gioia aumentano la innervazione dei muscoli, dilatando i vasi, mentre la paura e la melanconia abbassano V innervazione e restrin- gono i vasi. La paura fa impallidire perchè re- stringe i vasomotori, raffredda il corpo, rilascia gli sfinteri, peggiora le malattie. Il terrore inibisce ed arresta il cuore. La melanconia è l'atonia di spirito deprimente, è un rinunciamento ad ogni convergenza, e se dura a lungo, sconcerta ogni funzione vitale e si co- munica altrui, come gli altri sentimenti. Il disgusto deriva dal palato e dall'odorato, che sono legati al pneumogastrico, promovendo moti ri- (1) Ed è comune anche fra gli animali. Si sono visti vertebrati di varie specie rifiutare il cibo e morire d'ina- zione per aver perduto l'amante, cani desolati per la morte del loro padrone, e persino oche ed anitre zoppe sostenute amorosamente nel camminare da amanti e da sorelle. flessi intestinali e del canale digestivo e quindi nausea e vomito. Paura e disgusto hanno un fondo comune, cioè la tendenza a fuggire e a respingere: sono movimenti di avversione. La collera astenica è penosa, la stenica non lo è, perchè lotta sperando di vincere e di farsi giustizia. Quando si intellettualizza, genera l'in- vidia, e il risentimento, composti dallo istinto ag- gressivo e del calcolo che inibisce ed arresta gl'impulsi distruttivi, per evitare le vendette e le pene sociali o religiose. I sentimenti malvagi che hanno le varie specie di delinquenti non vanno ascritti a necessità ere- ditata (benché si erediti il carattere) ma assai più a cattivi esempi ed a seduzioni nuove. Esagerando le ipotesi di Ferraz, Destine, Morel, Lubbock, corredandole di un gran numero di osser- vazioni personali sui delinquenti e sui pazzi, so- vente male applicate, Cesare Lombroso ha insegnato e fatto credere a moltissimi italiani viventi che i selvaggi sieno fatalmente malvagi e che i nostri delinquenti sieno uomini che ritornano allo stato dei loro antenati selvaggi. Però non è così; se vi sono e vi furono popolazioni selvaggie feroci, ve ne sono e ve ne furono molte pacifiche e buone. La guerra fra tribù e tribù, fra popolo e popolo va ascritta più che a nativa malvagità, alla debolezza del pensiero ed alla incapacità di estendere il proprio ideale sociale al di là di certi limiti, di fiumi, di monti, di laghi, di mari o di razza o di abitudini di lavoro. Infatti (come osserva l'eminente economista prof. Achille Loria), i delinquenti convicts, deportati dalla Grande Brettagna, nell'Australia si trasformarono in una sola generazione in gentiluomini e diedero impulso alla stupenda democrazia del « Common Wealih of Australia » dove due città più popolose di Roma e di Napoli (Sidney e Melbourne) ed altre parecchie accentrano istituti di beneficenza ed hanno meno delinquenti della madre patria. Non è il corpo che fa l'anima: ma è l'anima che fa il corpo. I sentimenti si comunicano facilmente: chi è triste rende tristi i suoi confabulatori, chi è al- legro tiene allegra la brigata, un buon libro fa buoni i lettori, unibro cattivo li corrompe: le carceri, il domicilio coatto sono semenzai di delinquenti, ad onta di tutte le conformazioni dei cranii e di ossa e di altri dettagli morfologici che il Lombroso ha descritto con tanta diligenza. Queste conformazioni non sono la causa, ma Veffetto degli animi pravi. La delinquenza, quando non sia passionale, è un vile mestiere che ha rischi come alcuni mestieri onesti, e che si sceglie a piacere o per suggestione, per imitazione, come gli altri, che forma le sue abitudini e adatta i suoi organi e perciò finisce per modificare la fìsonomia e per abbrutire anche l'aspetto. Ma in principio della loro- carriera molti delinquenti sembrano, a guardarli,, simili agli onesti. Si dimentica che la Natura fatta del delinquente è un'abitudine, un meccanismo fabbricato poco a poco dalla Natura che si faceva e che il primo indizio fisico del disordine del carattere non è il cranio, ne l'orecchio ad ansa, ma è il disordine del sistema vasomotore, per cui la reazione ora è ec- cessiva, ora insufficiente e manca l'equilibrio, la. facoltà di calcolar bene le conseguenze dei propri atti e di moderarsi. Il valentissimo propagatore delle idee Lombrosiane, l'eminente penalista prof. Enrico Ferri, le rese più dannose colla sua dottrina fatalista, at- tribuendo le passioni perverse ed ogni delitto ad una malattia, di cui l'uomo è irresponsabile ed insegnando che il criminale non va dispregiato più che non si disprezzino i pazzi e gli appestati. La nuova scuola penale, quando guarda l'albero genealogico di un delinquente dà la parte del leone ai parenti malsani e quella del lepre ai parenti sani. Eppure il Maudsley (Crime et folie, p. 255) dice che allorquando il cervello ha principiato a degenerare, l'uomo può prevenire o con- tenere la pazzia o il delitto con lo sviluppare il controllo della volontà e col proporsi un alto scopo. Non è la morfologia, ne l'atavismo che fa i cri- minosi, ma l'educazione data al popolo dai cattivi Governi. Nel Veneto la delinquenza è la minima d' Italia perchè l'Austria amministrava onesta- mente, come la Repubblica Veneta. Invece nel Lazio dove l' ipocrisia era obbligatoria prima del 1847, dovendo ogni cittadino comunicarsi a Pasqua, e dove non vi era giustizia, tutto si con- cedeva per favore a chi obbediva e serviva al clero; in Sicilia, dove la polizia dei Borboni stava agli ordini dei Feudatari, e l'autorità sembrava disonesta e nemica del popolo (il Colajanni assi- cura che facilmente ancor oggi si depone e si giura il falso in giudizio); nel Napoletano, dove a questi mali si aggiungevano i cattivi esempi, venuti dalle alte classi, la delinquenza è massima. Bisogna badare alle fonti dalle quali provengono i germi di degenerazione delle idee e dei sentimenti. A guastare le idee provvede fra noi una filosofìa balorda, a guastare i sentimenti provvedono i teatrali dibattimenti nelle Corti di Assise e le cronache giudiziarie dei periodici, la pornografìa, le carceri, il domicilio coatto ecc. Le missioni cristiane in Africa ed in Oceania riuscirono a convertire a buoni costumi milioni di uomini che il Lombroso riteneva inconvertibili. Tutta la storia ci testimonia che, quando le classi diri- genti erano morali, lo diventavano anche i popolani e viceversa. I sacerdoti ed i feudatari malvagi hanno diffuso la diffidenza e la ferocia. L'eroismo e l'esal- tazione, quanto il panico e la paura, e i sentimenti di odio e di vendetta, passano dai caratteri forti ai deboli, come provarono il prof. Sigitele ed altri. Chi non ha conosciuto l'ardore di sacrificio dei Mille? Chi non sa quanto gli occhi dolci, ma al bisogno fulminei, di G. Garibaldi valessero ad in- fiammare i giovani? Chi non ha respirato l'ideale della patria libera quando era serva? Come avvenne la comunicazione dell'eroismo, allorché Medici ed i suoi trecento, difendendo il Vascello, versarono il miglior sangue come un sol uomo? Dunque i sentimenti, buoni o cattivi, si comunicano. Il sentimento religioso, come lo ispirano i sa- cerdoti, colla paura dell'inferno, può trovarsi negli animali domestici verso i loro padroni. Ardigò e Trezza lo intesero così basso. Certe specie di scimmie fanno atti di ammirazione e di adorazione al levarsi del sole e seppelliscono i loro morti. Il sentimento religioso (come lo dice il nome) è quello che fa sentire la parentela che abbiamo con tutte le cose, con tutti gli esseri, e la derivazione dalla conscia Unità del Cosmo. Ma non si è sviluppato se non molto tardi nella storia. Vico e Comte sbagliarono supponendo che la prima età fosse quella degli Dei. Era piuttosto consacrata al culto dei defunti e delle forze naturali. I selvaggi primitivi credevano che la Natura fosse un seguito di fatti causati dagli spiriti incorporati nel sole, nelle stelle, nella luna, nei monti, nei numi, nei mari, nelle piante, negli animali e persino nelle rupi. Tiele provò che tutte le religioni più antiche cominciarono dall'adorazione delle forze naturali e dal culto degli antenati, dei genii protettori, o dei genii malvagi che mettevano paura. Lo spiritismo odierno ci mostra con quale fa- cilità uomini anche istruiti, ma inetti a pensare, si danno a credere alla esistenza di spiriti invisibili ed alla loro influenza. E infatti, in moltissime tribù selvagge, divengono sacerdoti o maghi coloro che possono ipnotizzarsi ed entrare in estasi, costringendo i de- moni a desistere dai loro perfidi propositi, ed invocando l'aiuto dei buoni genii. Le tribù tu- ramene dell'Asia centrale e settentrionale e quelle di varie parti dell'Africa credevano tutte che, per- dendo la coscienza e lasciandosi ispirare dalle potenze occulte si trovasse il rimedio ad ogni male. Del resto gli Dei dei popoli selvaggi, anche se più evoluti, operano sempre come uomini, capaci d'ira e di vendetta. L'origine dei miti sta nella combinazione d'idee che è propria dei selvaggi, per cui si rassomigliano le leggende dei Greci, dei Celti, dei Lapponi, degli Eschimesi, degli Iro- >ehesi, dei Cafri e dei Boscimani, come li ha confrontati fra loro Andrea Lang. Il progresso mitologico consisteva nel conside- rare come astratti, vecchi e privi di attività gli Dei di prima e come realissimi quelli immaginati dopo. Così al Cielo e Terra dei Turanici, gli Ari opposero Varuna o Ritam che fa l'ordine; ma poi Varuna tramontò e si fece annanzi Indra il dio della luce. Allora la religione ascende di grado e diviene più razionale ed intima. Si fanno sagrine! e scongiuri magici, nel mentre si prega come persona a persona e già nei più antichi inni Vedici, Varuna è invocato a perdonare i peccati. La lode della divinità si accende per la speranza nella vittoria dei propri fini individuali o sociali: e per conseguirla si viene accentuando la potenza e la generosità del Dio; gli si fanno offerte, sagrine!, gli si erigono templi, si stabilisce un culto. Il Cielo degli Indiani è anche il Dyaus Patir, il Padre celeste; il Tien dei Cinesi è il padre degli Dei e della Natura simbolo del maggior Dio; in Egitto il sole unificava gli dei locali primitivi, e così fra i Summeri e Accadi sull' Eufrate e fra i primi Semiti. Il culto del sole prevalse fra i Malesi, i Baici, primi immigranti nella China, e nei Sinto del Giappone, ed anche nel Messico e nel Perù, quando passarono in America la magìa e l'astro- logia dell'Asia. Ra, Dio del sole, ispira a Tot o Ermete i quarantadue libri sacri degli Egiziani, che insegna- vano la eternità della vita e del pensiero. Il Dio accadico del fuoco, Kebir, si fuse col Dio iranico del fuoco e col Bel, Dio del sole. Nell'India andò perduto il carattere personale del Dyaus Patir degli Ari primitivi e si pensò Brama come spirito assoluto, volontà impersonale che fa la Maya o illusione del mondo. Invece nell'Iran (Sogdiana, Battriana) fu concepito un Dualismo del Dio buono Ahura Mazda o Yaruna contro Arimane capo dei demoni. L'idea di un regno di Dio in cui tutti sono solidali e il merito di alcuni si estende a tutti i fedeli è di Zoroastro. Dalla piccola città di Ur, dove fio- riva una delle scuole teologiche di Zoroastro uscì Abramo, capostipite degli Ebrei che conservarono il dualismo iranico, di angeli e demoni. Il riformatore dell'India si limitò a predicare l' eguaglianza, la grazia eguale per tutti, anche per le donne, gli schiavi, i criminali, abbattendo le Caste. Secondo Badda la convinzione di essere peccatori ed il pentimento rigenerano, e si prova col lenire i dolori degli uomini e degli animali, liberandosi dalla Maya o illusione del mondo. Il riformatore della Palestina Gesù fu il maggior genio del sentimento e rese la religione un affrancamento dalla necessità, una viva fiducia nell'Essere trascendente, una speranza di vita celestiale, che contrasta coi bassi ideali di ric- chezza e di potenza dei sacerdoti del suo tempo e di quelli del nostro. I suoi discepoli avrebbero dovuto essere focolari di rinnovamento della coscienza morale, centri degli assetati di giustizia, intenti a diffondere luce ed amore; quindi non potevano abbracciar mai la universalità di un popolo. Il Cristianesimo non si limita, come il Buddismo, a svincolare da ciò che è illusione, interesse, va- nità e superbia; ma contempla il sole della vita nella sua unità ed onnipotenza. Consiste essenzialmente nella comunicazione dei sentimenti di amore, di abnegazione, di fede, spe- ranza, che aveva Gesù. E stupido quindi l'abbassare Gesù a livello di profeti volgari. Per operare il bene, per muovere gli uomini all'altruismo, alla solidarietà, si esige un centro, un faro, un modello, il maggior genio del sentimento. Risuscitò l'Italia, da Arnaldo di Brescia a Dante (Vedi Gebhart, «L'Italie mystique», 1890), dandole il sentimento profondo che i preti non conoscevano. Risuscitò l' Europa, per mezzo della Riforma e della Rivoluzione francese, che rovesciò quella che Voltaire chiamava l' Infame, dando al popolo per lievito: Liberté, Egalité, Fraternité. E sempre sarà necessario, più dei geni della scienza, delle arti belle, della politica, il genio del sentimento, centro motore dell' umanità buona, perchè i sentimenti non s'insegnano, non s'imparano da pochi, ma si comunicano a tutti.  La Unità Numerante nella Volontà Se il Sentimento è il Governo di ogni Collet- tivismo organico animale, la Volontà è il suo ministro esecutore ed ha per ufficiali i nervi motori e per soldati i muscoli. Nell'uomo, dal sostrato frontale parte l'ordine, e per il fascio piramidale va alle circonvoluzioni motrici e per il centro ovale arriva alla capsula interna che penetra nel corpo striato. I corpi striati (sul dinanzi del cervello basso, nel corno maggiore), sono grossi come due uova 12 di tacchino e rossi, formati di cellule grandi grigie poligone. Ogni corpo striato dirige i movimenti del lato opposto. Al corpo striato seguono il peduncolo cerebrale ed il bulbo, e nel midollo spinale fa agire i nervi motori ed i muscoli. L'esercizio muscolare volontario è sempre preceduto dalla attività del cervello e del cervelletto, posto in azione dalla Volontà: Questo fattore psichico è il yero motore dei muscoli (1). I moti riflessi sono effetto della Volontà degli antenati diventata meccanismo. I più invariabili dipendono dalla spina dorsale. I riflessi cerebrali si adattano a complicate reazioni. I sensori motori vengono dal bulbo, dai corpi striati e dagli strati ottici. Ferrier (The functions of the Brain), vide che i centri inibitori impediscono la distra- zione. Il moto inibito si disperde in gesti a metà, ed in disturbi viscerali. Se un moto riflesso non si compie, è sempre segno che venne contrariato per inibizione, voluta dai lobi frontali. Un ragazzo che impara a scrivere muove la faccia, le gambe, finche poco a poco si riduce a muovere solamente gli occhi e la mano. Sempre gli animali sostituiscono alla diffusione illimitata inutile, una diffusione ristretta e limi- tata al movimento che serve al loro scopo, e fin qui è Natura che si fa con attenzione. In seguito, La Volontà non può essere Elettricità: come di- cemmo sopra, perchè va infinitamente più lenta; è tutta psichica, e può così bene contrarre, come rilasciare i vari muscoli. Essa spende la forza nervosa accumulata e chiama sangue arterioso a vivificare i muscoli che lavorano. quanto più si ripete, tanto più si moltiplicano le fibrille, i vasi capillari, e si consolida in moto riflesso, ossia in meccanismo di Natura fatta. Abbiamo esposto la graduale formazione del meccanismo nei Capitoli XI sul sistema nervoso, XII sul sistema muscolare, XIII sulla Psiche generatrice, e altrove sotto diversi punti di vista, perchè la Natura che si fa va sempre distinta dalla Natura fatta che è necessitata. Non manca, anche ai più semplici animali, la libertà di volere nella Natura che si fa. La Necessità regna in tutta la Natura fatta, che è la parte massima, mentre la Natura che si fa è la parte minima, ma è libera. Gli atti volontari liberi sono assai pochi al paragone degli atti che si fanno per abitudine e per moti riflessi, anche nell'uomo educato. Un moto che si fa per abitudine esige ancora l'imagine: mentre un moto riflesso, che è ereditato, non ha più bisogno della imagine, e si compie macchinalmente. Ogni organismo esprime quello che gli antenati hanno voluto per il proprio bene, e l'istinto è una combinazione di processi appetitivi e di atti riflessi. Maudsley (Body and Will) dice che l'energia volontaria registra le sue esperienze modificando la struttura nervosa, acquistando nuova potenzialità, tanto nell' operare certi atti, quanto nello inibire quelli che sarebbero abituali. Nella proporzione che si arresta la tendenza a diffondere il movimento delle membra, la co- scienza si va concentrando in un modo specialmente voluto. Tutte le specie animali si sono svi- luppate coordinando e subordinando i moti secondo che erano utili e piacevoli. E quanto più questi movimenti venivano ripetuti, tanto più diventavano facili, finche si resero moti riflessi irresi- Questa genesi della Natura che si fa e della Natura fatta è di grande luce nella scienza e nella vita pratica. Ma nelle filosofie dialettiche dello Hegelismo e dell1 Ardigoismo che negano l'indivi- duo e riducono la coscienza ad un'astrazione, ri- sultato del processo di antitesi dei concetti per l'uno, e risultato delle forze incidenti dell'ambiente per l'altro, è ignorata. Anzi YArdigò confonde insieme sentire, volere e pensare negando sempre il soggetto che pensa e vuole. Nelle sue Opere, Voi. I, p. 141 a 185 egli scrive che il soggetto è un concetto astratto. « La coscienza non è altro, egli dice, che l' insieme delle rappresentazioni o esterne (dalle quali si astrae il il concetto di materia) o interne (dalle quali si astrae il concetto di spirito o di anima). Il riferimento delle sensazioni al soggetto pensante ed agli oggetti esteriori, non ha luogo per intui- zione immediata: ma è un puro effetto di esperienza, per la quale ne facciamo poco a poco l'abitudine. Dunque non vi sono schemi a priori dell'intelligenza: non vi sono elementi primitivi; ma sono tutti, anche il Me, prodotti da abitudine empirica (pag. 150). La coscienza è un risultato delle forze incidenti. Non è vero che il fenomeno non si possa pensare senza il soggetto relativo. Il Soggetto è un concetto al quale si può arrivare, ma non un dato, dal quale si debba partire. Il Soggetto dei fenomeni psicologici non è altro che un astratto che si chiama Anima, è in- stabile, e segue le variazioni logiche per le quali passa l' induzione, dopo lo esame dei fatti » (pagina 163). « Non vi è differenza radicale fra Sentìmento, Volontà e Pensiero: Gli atti volontari altro non sono che sensazioni e sono riferiti all'anima per errore (pag. 180). Le facoltà rappresentative, affet- tive e volitive, sono solamente combinazioni variate dei medesimi elementi di sensazione, come altret- tante parole formate col medesimo alfabeto (pagina 181). Le cognizioni, gli affetti, i sentimenti, i voleri, sono tutte sensazioni o ricordanze di sen- sazioni, e dipendono dall'organismo ». Così l' Italia non si faceva dal di dentro al di fuori, da un eroe ai suoi compagni garibaldini e alle masse: no, erano gli effetti inconsci dell'ambiente che spingevano Garibaldi a Calalafìmi a rispondere a Bixio: « Non ci ritiriamo: qui si fa l' Italia o si muore ». E dall'ambiente che i martiri e gli eroi antichi e moderni attinsero il coraggio e l' entusiasmo: risultati delle forze incidenti, sentire, pensare, volere: tutto è uguale per Ardigò, ò]xbu xà Travia. Ogni uomo ha i suoi doveri: e se li segue è come una nave che va al porto, per forza propria, avendo buon capitano, buona bussola, buona macchina, buone vele, e questo è l'uomo pitagorico bruniano. Mentre, se non li segue, somiglia ad una nave che non sa andare in porto se non per caso, e che, quando i venti sono contrari, ed i marosi minacciano, si lascia travolgere dalle forze inci- denti, come un trastullo. E questo è l' uomo Ardigotico. Ardigò ha negato la Coscienza, il Soggetto, e la Natura che si fa. Ed in questo egli non ha fatto altro che seguire il Positivismo anglo-fran cese e contraddire al suo pensiero fondamentale dello Indistinto che sta sotto ad ogni distinto e che somiglia allo Inconscio di Schelling. L'armonia fra la filosofia di Schelling e quella di Feuerbach e di Spencer non è stata trovata à&WArdigò: né poteva trovarla. Il disaccordo è evidente nella teoria della Volontà. Chi è che vuole quello che fac- ciamo noi? Se è l'ambiente non siamo noi. Se noi andiamo contro l'ambiente (e lo fanno tutti gli animali) siamo snaturati, delinquenti che vanno contro il loro papà l'Indistinto. Così il Signor Ardigò non è più Ardigò: e una eco della gente che lo circonda. Il prof. Giuseppe Sergi poi, nella sua « Psychologie physiologique » 1888, fa derivare gli atti volontari dai moti riflessi/ e tratta della prima differenza tra la volizione e l'atto riflesso, nel sospendere dopo l'eccitamento il moto, per cer- care una via nuova e arrivare così all'atto spontaneo, il quale, deriverebbe dall'attività automatica (sic) degli elementi nervosi e muscolari. È inutile proseguire. Intelligenti pauca. Il confusionismo è madornale. Gli atti riflessi non si sa- rebbero mai formati, se non fossero stati voluti e ripetutamente voluti dagli antenati degli ani- mali che oggi ne sono forniti. Se la Volontà uscisse dai moti inflessi, sarebbe perfettamente inutile, essendo meccanismi che vanno per necessità. Grazie a queste false ed assurde teorie, oggi nell'antica patria del diritto (che era tutto fondato sulla libertà), si crede che l'uomo sia schiavo delle proprie passioni: e la scuola Lombrosiana, attribuendo i delitti, le malattie mentali e anche il genio alla epilessia larvata, è ^esagerata a tal punto che il Morselli scrisse nella Cronaca d'arte di Milano che, con tali teorie, si può giungere a chiamare l'uomo un animale epilettico. La nostra dottrina della Natura che si fa e della Natura fatta fu, non solo adottata da valenti professori Italiani di filosofia del diritto, ma approvata anche all'estero e specialmente dallo eminente magistrato e pensatore francese Tarde, il quale la segnalò nella Reme Philosophique come «profonde et habituelle distinction ». Essa concilia in modo strettamente scientifico il sentimento della libertà, i bisogni della giurisprudenza, della politica, della morale, con le esigenze del Determinismo; ed è tutta fondata sui fatti. Altri due illustri filosofi francesi più del Tarde espliciti amici della nostra Nuova scienza cioè B. Perez, «Le caractère de l'Enfant à l'homme», 1892, e Fr. Paulhan, « Les caractères », 1894, opposero egregiamente i padroni di se stessi, ossia gli uo- mini riflessivi, che sanno sistematicamente inibire i movimenti superflui o dannosi, agi' incoerenti, agl'impulsivi, ai suggestionabili, ai deboli, ai di- stratti, agli storditi, ai frivoli, insomma a coloro che si lasciano imporre dalla società e trastullare dalle forze incidenti (agli uomini ardigotici). Sono questi i mezzi caratteri o i senza carattere, assai numerosi nelle grandi agglomerazioni umane. Però i veri caratteri si possono ridurre a tre, cioè quelli in cui predomina V intelligenza, che sono pochissimi, calcolatori, i quali nulla lasciano al caso; i sentimentali che vivono sopratutto nella loro intimità, suscettibili, meditativi; e i volitivi che vivono molto all'esterno, nell'azione, audaci ed ottimisti (1). (1) Tutti sanno che gli antichi Greci distinguevano quattro temperamenti e li dicevano base di quattro ca- ratteri: il sanguigno leggero, versatile, corrisponde ai 1 veri caratteri sono unificati e stabili, durevoli, cambiano poco e difficilmente (1). Le divisioni fon- damentali dei caratteri sono date adunque nella distinzione delle tre facoltà psichiche: sentimento, pensiero e volontà. Se fosse lecito trovare qualche analogia nel mondo fisico si potrebbe osservare che gli uomini nei quali prevale il sentimento corrispondono al Carbonio (elemento accentratoro); quelli nei quali è maggiore la volontà all' Ossigeno, (elemento che si combina cogli altri più facilmente); quelli senza carattere o di semicarattere all' Azoto (elemento in- differente ed inerte); quelli finalmente che pen- sano più di tutti, non hanno naturalmente corri- spondenza nella natura bruta; corrispondenze che forse hanno poco valore. I grandi capitani, come Napoleone, i grandi uomini di Stato, i maggiori industriali sanno mezzi caratteri, tipi misti; il melanconico che Lotze chiamò sentimentale, esitante e profondo; il collerico che ha molta imaginazione e passioni intense, corrisponde ai volitivi; e il flemmatico o linfatico molle, di poca imaginazione, freddo, agisce lentamente, corrisponde ai senza carattere. Cabanis vi aggiunse il nervoso, che è una varietà del sentimentale, e il muscolare che è una varietà del volitivo. B. Perez classifica, osservando i moti, in vivi, lenti, ardenti, e tipi misti. F. Paulhan osservando la legge di associazione delle idee, ossia l'attitudine di ogni ele- mento, desiderio, idea a suscitarne altri, per uno scopo comune. Veggasi pure Janet, « Des caractères dans la sante et dans la maladie ». (1) Le conversioni sincere come quella di S. Paolo, di Lutero, Agostino ecc. lasciavano stare il fondo del carattere, mutandone solamente l' indirizzo e gli scopi. I can- giamenti di carattere dovuti a malattie od a ferite della testa non sono conversioni ma caratteri nuovi, dipendenti da organismo modificato. combinare questi caratteri, in modo da trarne il maggior frutto per la guerra, la politica e gli affari: e se mancano il carbonio o l'ossigeno, Velemento indifferente mette in equilibrio instabile alcune società, alcune burocrazie, alcuni organismi, che guidati da mano più sapiente prospererebbero. Il Volere fa tutti i moti. La volontà è la finalità resa causale, giacche al sentimento ed al giudizio fa seguire l'atto di difesa e di sviluppo. Maine de Biran vide che il tipo su cui percepiamo le cause esterne è la nostra volontà, poiché essere vuol dire sentire, volere, agire, ed infatti Schopenhauer concepì il mondo come fatto da Volontà cieca. Ed il viennese professore Stricker, che meglio degli altri pensatori lo interpreta, os- serva che la Volontà è la vera causa (Ursache, Urquelle), che essa è il tipo della forza universale. Con l'esperimento si provoca, a nostro piacere, un fenomeno, e si riconosce il modo di agire delle energie cimentate: assimilando le forze della natura alla volontà nostra. iSTon è tanto il succedersi co- stante dei fenomeni, che ci assicura sulla vera causa, quanto il cooperarvi col nostro senso muscolare e con la nostra Volontà. Siamo costretti a considerare ogni moto come causato e trasferito da una Volontà, da una forza simile alla nostra Volontà. Huxley e Dubois Reymond credevano che ci fosse un abisso fra la volontà e il moto, fra la psicosi e la neurosi. Però l'abisso non vi è punto,se si pensa che l'Intensivo continuo della coscienza volente è il centro attivo del moto centrifugo. E la Volontà è misurante in tutto quello che si fa, anche in una carezza ad un bimbo: se non misurasse, invece di fare una carezza darebbe uno schiaffo e per farsi la barba si taglierebbe la pelle: ne cucire, ne scrivere, ne disegnare, né lottare e tirar di scherma, ne eseguire qualsiasi lavoro si potrebbe se la Volontà col senso muscolare non fosse misurante e non sapesse continuamente proporzionare i movimenti. La volontà che misura senza numero concettuale è sopratutto evidente nelle partite di boxe, dove la direzione e la veemenza dei colpi sono calcolate ad ogni istante con colpo d'occhio si- curo nei minimi atteggiamenti. Spettacolo interessante la ginnastica; e specialmente una partita di boxe. Johnson campione della razza negra del Texas e Jeffries campione della razza bianca dell'Ohio, nel luglio 1910 presso la Università di Reno, città universitaria del Nevada, mostrarono tutte le risorse della Volontà più esercitata a forza di pugni: e vinse il Negro, benché meno alto e meno robusto. La Volontà non sta punto in proporzione della intelligenza. I Batraci sono meno intelligenti dei Rettili, ma non meno risoluti. Fra i Mammiferi, che superano per intelletto gli altri Vertebrati, la Volontà è sovente inferiore a quella dei Rettili, e gli Uccelli spesso fra i tropici si lasciano affascinare. Certi serpenti affascinano uccelli, scimmie, conigli, col solo guardarli concentrando la loro Volontà. Mentre i piccoli animali che vor- rebbero divorare stanno sugli alberi, il serpente che sta per terra, li aspetta, li attrae: ed essi si sentono paralizzati, e mezzi morti di paura: fin- che vanno nella bocca del tiranno, per un ipnotismo che li conquide a far loro rinunciare alla propria volontà, alla distanza di alcuni metri, e mentre potrebbero ancora scappare volando o sal- tando altrove (1). Torneremo sulla fascinazione nel Voi. II: L'uomo secondo Pitagora, Cap. IX. Spesso un uomo d' ingegno ha volontà mediocre \ ma viceversa grandi passioni, desideri violenti sor- gono non di rado in uomini di cervello debole. Oltre ai mille modi di esercitare la Volontà nel lavoro e nella lotta per la vita, vi è la scarica leggiera e piacevole del Riso, che non ha alcuno scopo di utilità conoscitiva, ne economica, ne estetica, ma si fa spontaneamente, come esplosione di libertà, quando ci colpisce qualche contrasto improvviso di idee che si escludono, o qualche notizia gradita che promette lo sviluppo del be- nessere nostro o dei nostri cari o quando si fa un giuoco ginnastico divertente, o quando ci minaccia chi non può misurarsi con noi. Si comincia col sorriso, che increspa le labbra e mostra i dentini delle Delle donne; si accresce facendo brillare gli occhi e mostrando (come disse il Fiorenzuola), l'anima nel suo splendore, si arriva a scuotere piacevolmente il petto e il diaframma^ ad abbracciare i vicini ed a saltare. Il giudizio muove il riso: ma è la volontà che scarica la forza nervosa. Un giovanetto che studia Tlnglese, p. es., e pronuncia Shakespeare ora come Schiacciaspie, ora come l' immortale Scappavia, desta l' ilarità irresistibile; ridono anche le scimmie. (1) Per suicidarsi ci vuole, oltre ad una forte volontà, un giudizio sentimentale sul minore dei mali inevitabili: giudizio che in generale manca agli animali. Però gli scorpioni, se messi vicino al fuoco, si suicidano, alzando la coda e cacciando il loro dardo avvelenato nel mezzo della testa. Il riso è sempre giovevole: allarga il torace, fa emettere il gas acido carbonico, ed aspirare os- sigeno, vivifica il sangue, abbassa il diafragma, dilata i polmoni ed i vasomotori, rischiara le idee, dà innervazione a tutto il corpo. È una esplosione di libertà, di superiorità, di vittoria, ed è probabile che nella civiltà possa generalizzarsi. Certo negli uomini poco civili è più raro, e negli ani- mali inferiori ai quadrumeni manca. Schopenhauer scrisse che gli uomini volgari si annoiano stando soli, perchè non hanno la potenza di ridere da sé. La umanità nel ridere dimostra che è libera, e gode ogni qualvolta s'innalza sopra l'ambiente, e si svincola da ogni ostacolo, da ogni ceppo, da ogni meschinità.Cenni storici su Pitagora e la sua Scuola.. La prima estrinsecazione del- l'Essere Divino (Spazio e Tempo) »  La seconda estrinsecazione del- l'Essere Primo (Atomi eterei e ponderali) » 29 Id. III. - La solidarietà degli Atomi in generale » 47 Id. IV. - La solidarietà geometrica cri- stallina » 58 Id. V. - L'ascesa alle chimiche combinazioni » L'Unità assimilatrice cellu- lare » Come le Unità cellulari si ac- centrano nelle Piante per godere l'amore »Origine psichica delle specie animali » 101 Id. IX. - Come la Psiche fa la vita in- terna sana »Come la Psiche fa le guarigioni Pag. 134 Id. XI. - Come la Psiche fa il Sistema Nervoso » Come la Psiche fa il Sistema Muscolare »  La Psiche generatrice... » La Unità intima nel Senti- mento » La Unità Numerante nella Volontà. » 181 ^  LBOL'20 SAN TOMASO D'AQUINO Della Pietra filosofale e dell'Arte dell'Alchimia, con una Introduzione L. 3,- SAUNIER La Leggenda dei Simboli filosofici, religiosi e massonici.... L. 6,- ERMETE TRIMEGISTO Il Pimandro e altri Scritti Ermetici, tradotti dal greco per il D.r Bonanni, con una Introduzione L. 3,- CIRO ALVI L'Arcobaleno L. 3,50 Frate Elia » 2,— Vangelo (II) di Cagliostro, con una Introduzione di Pericle Maruzzi L. 3, — Prossimamente: Gr. Uebini - Arte Umbra. L. Fumi - Eretici e ribelli nell'Umbria. Dr. Keller - Le basi spirituali della Massoneria e la yita pubblica. La filosofia di Pitagora che è generalmente conosciuta  appena in alcuni dei suoi punti fondamentali come la  metempsicosi, l’armonia delle sfere, la scienza dei numeri, l'astensione dai cibi carnei e dalle fave, e in  realtà un complesso assai vasto e profondo di dottrine, un ve?v e propìzio sistema di speculazione e di morale,  la cui conoscenza ci è tuttavia possibile soltanto in piccola parte sì per la scarsità dei documenti scritti originali, dovuta alla nota tradizione della segretezza che i più dei suoi cultori osservarono scrupolosamente, sì  per le amplificazioni, le falsificazioni, e le invenzioni  che partorirono le fantasie di tardi seguaci di pseudo-eruditi e di mistificatori. E però indubbio che tale filosofia e non dilettantismo di mistici fanatici, ma vera  e ragionata speculazione a cui si accompagna, parallela,  ima conseguente e logica ragione di vita, sì che, mentre da un lato potè attrarre, seducendole col fascino  delle verità da essa chiarite e coll’armonica bellezza dei suoi insegnamenti. le anime di molti cui pungeva  r assillante aculeo della conoscenza., incontrò daW altro ostacoli e derisioni da parie di aristocrazie interessate  o di volghi ignobili e sciocchi.   Divulgata. se non creata interamente ex novo, per opera di Pitagora, del quale, come  di Omero, alcuni misero perfino in dubbio Vesistenxa e coltivata prima che altrove, sulle rive dell' Ionio nella  Magna Grecia e in Sicilia., di dove si diffuse, sebbene  osteggiata., nella Grecia ed in Roma. Ricca., com'essa  era., di principii che oggi si direbbero idealistici e tra-  sceridentali., ed accompagnandosi., come ho detto., a una  sua particolare armonica concezione della vita individuale e collettiva teorica insomma e pratica nello stesso  tempo., essa era ben atta ad informare di se religione  e scienza., politica e morale. consuetudini e leggi. Essa w da molti connessa non pure con anteriori antichissime dottriìie della Grecia^ deW Egitto^ delV India  e per fin della Cina, dalle quali sarebbe in tutto o in  parte derivata e con le quali ebbe non dubbi punti di  somiglianza, ma altresì con la posteriore filosofia di Platone, in molte parti ricalcata sulle sue orme. Conservata  poi per lungo tempo immune da elementi estranei, e tramandata, senza il sussidio della scrittura, nel segreto  delle scuole, essa ebbe nuovo rigoglio per opera dei filosofi, quando, inalveatesi nel suo letto altre correditi di pensiero, alimenta le speculazioni della teosofia neoplatonica e nieopitagorica di Plotino, di Porfirio e di altri molti, e diede origine a molteplici scritture, quali più quali meno profonde ed attendibili, intorno alla vita ed ai primi insegnamenti dell’antico  maestro. Da essa infine trassero ispirazione alcuni filosofi della rinascenza, e qualche sua derivazione può  dirsi non del tutto spenta anche oggi.  Importantissimo e utilissimo sarebbe dunque massime  per noi italiani, lo studiare la storia di questa dottrina e il ricercarne e ìiarrarne le vicende nei vari tempi  e nei vari paesi: poiché sebbene molti abbiano fatto studi e ricerche in proposito — basta ricordare fra tanti, i lavori di Bitter, Zeller, Gomperz, Chaignet e Mullach, e, in Italia, di Capellina, Centofanti, Gognetti, Martiis, Ferrari e Ferri  -- e benché da tutti     (1) Heinrich Ritter, Oeschichte der Pythagor. Philosopkie, Hamburg, Zellbe, Pythagoras und die Pythagorassage, in Vortràge und Abhandlungen geschichtlichen Inhalts^ Leipzig, 1865 e  Die Philosopkie der Oriechen ecc.., voi. P  Gomperz. Les penseurs de la Grece, trad. de la 2*  ed. alleni, par A. Raymond, Paris, Alcan, Chaignet, Pythagoi^e et la philosopkie pythagor., Paris, Mullach, De Pythagora eiusque dìseipulis et suc-  cessoribus, in Fragmenta philosoph.. graecor. v. II, Paris, Capellina, “Delle dottrine dell'antica scuola pitagorica contenute nei Versi d'oro, in Memorie della R. Aecad. di  Scienxe di Torino -- Centofanti, Studi sopra Pitagora, in La letteratura greca, Firenze, Le Monnier -- CoGNETTi De Martiis, L'Istituto Pitagorico, in Atti della R.  Accad. delle Scienxe di Torino, Socialismo antico, Torino, Bocca -- Ferrari, La scuola e la filosofia pitagorica, in Rivista ital. di Ulosofia, Ferri, Sguardo retrospettivo alle opinioni degl'Italiani  intorno alle origini del pitagorismo, in Atti della R. Accademia  dei Lincei, Rendiconti, -- questi e da altri studiosi non solo si siano raccolte molte  notizie ma si siano anche esaminate e discusse quistioni importaìitissiìne pure troppe cose ancora rimangono  da chiarire e da risolvere della storia ch'io chiamerò esterna del Pitagorismo. E fors'anche^ riprendendone i?i  esame il contenuto, ossia tenendo l’occhio alla sua storia interna, che è poi, per la filosofia, la sola importante, qualche verità, io penso, già acquisita e insegnata  dall'antico saggio, potrebbe dimostrarsi anche oggi validamente fondata e tale da poter resistere agli assalti del  nostro più acuto criticismo.   Gli studi raccolti in questo volume furono già da me  in gran parte pubblicati in Riviste; ma poiché ho dovuto, ìiel corso delle mie  ricerche, modificare alcune delle conclusioni alle quali  ero giunto, e nuovi fatti ho potuto chiarire, mi sono  indotto, anche per aderire al desiderio e alle sollecitazioni di be7ievoli amici, a ristamparli tutti insieme.   Spero che il tenue contributo chHo porto alla storia  che or ora dissi esterna del Pitagorismo varrà almeno  a dimostrare che intorìio a queste importantissime dot-  trine non si è detto ancora tutto e che inolio ancora si  può indagare e scoprire. Da diverse tradizioni furono connessi i piiì antichi istituti  religiosi e politici di molte città dell'Italia meridionale con il Pitagorismo. Ne fa meraviglia che alle dottrine di  Pitagora si fa risalire anche le prime istituzioni e  le più antiche leggi di Roma. Numa, il sacro legislatore  della città capitolina, e ritenuto scolaro di Pitagora, e le  stesse leggi di Le XII Tavole, copiate dalle legislazioni  della Magna Grecia e della Sicilia, che alla loro volta  traevano ispirazione, se non origine, dal Pitagorismo, sono altresì ricongiunte con questo. Sarebbe indubbiamente assai utile e interessante poter  determinare in che consistessero questi legami di dipendenza e stabilire con precisione quali furono gl'influssi  dell'antica sapienza italica sulla formazione delle credenze  e degli istituti religiosi e della fondamentale legislazione   -- Seneca, per esempio, (Epist. ad Lucilium) sull'autorità  di Posìdonio, dice, parlando dei grandi legislatori dell'Italia. Hi  non in foro, nec in consultorum atrio, sed in Pythagorae ilio sanctoque secessu didicerunt jura, quae fiorenti lune Siciliae et  per Italiani Oraeciae ponerent --  romana; ma purtroppo, sebbene qualche lieve tentativo si  sia fatto in proposito, non è, per ora, possibile una determinazione neppure approssimativa. Ma insieme con questa azione, da alcuni ritenuta soltanto leggendaria, su ciò che costituì l'anima della vita  civile di Roma, esercitò il Pitagorismo un ulteriore influsso, determinando attraverso le  vicende della sua storia vasta e complessa, una corrente  di filosofia sua propria, continua o interrotta, palese o  recondita? Di vera e propria tradizione scritta non ci restano tracce, se non frammentarie; di una tradizione orale abbiamo  invece meno scarsi indizi e con certezza sappiamo di non pochi seguaci che la dottrina pitagorica ha in Roma. Anzi noi possiamo rilevare fin d'ora, anticipando in parte  le conclusioni di queste nostre ricerche, che questi innamorati cultori di una così riposta e difficile sapienza non  furono già uomini oscuri nè poeti o scrittori di second’ordine, ma cittadini illustri, grandi poeti e celebri letterati,  pensatori insigni e grandi uomini politici. Cosicché la filosofia pitagorica, non morta nella scrittura o negli insegnamenti orali, ma viva e operante nelle menti di magistrati  famosi, come APPIO CLAUDIO e il maggiore SCIPIONE, nelle  fantasie di autori eccellenti, come ENNIO e VIRGILIO, nei  cuori di cittadini nobilissimi, come FIGULO, VARRONE e i  SESTII, accompagna in certo modo passo per passo il progredire della potenza e della grandezza di Roma; finché  poi, sopra la sua efficienza pratica e la sua virtù fattiva prevalendo l'elemento speculativo, che, data la naiura e  l'indole dei romani, e il meno idoneo ad allettarli, e  all'antica razionalità delle dottrine sovrapponendosi da un  lato fantasticherie e aberrazioni come quelle di un ApolIonio di Tiana, e dall'altro frammischiaudosi elementi eterogenei di origine greca, orientale e forse anche cristiana,  essa si ritira di nuovo nel silenzio e nella segretezza di  qualche scuola, illumina appena la vita e lo spirito di  qualche solitario amante della verità e del sapere, e finì  per disperdersi e dileguare nelle acque torbide delle speculazioni di un Macrobio o di un Eulogio. Se io mi sono indotto pertanto a raccogliere con la maggior diligenza possìbile i ricordi, le testimonianze, le tracce, o. palesi o recondite, o tenui o larghe, che di sé  lascia il pensiero pitagorico nella storia e nella letteratura dell'antica Roma, gli è che altri lavori e studi esaurienti intorno al mio tema non mi è accaduto di trovare. Brevi cenni riassuntivi si trovano bensì nelle opere di Zeller, Chaignet, Mullach, nella “Storia di  Roma” del Pais, e in storie generali e particolari della  letteratura romana; ma in sostanza io ho dovuto fare lunghe e pazienti indagini, per mettere insieme notizie sparse  qua e là un po' dappertutto. L'importanza e il valore delle  mie ricerche non consistono dunque nella novità dei risultati, ma piuttosto nello svolgimento dato a un tema fin  qui appena malamente sfiorato da qualche erudito, nella  quantità delle notizie raccolte e nell'ordinamento che ne  ho fatto, seguendo l'ordine cronologico; e qualche questione spero anche di avere maggiormente chiarita, sebbene, per la scarsità dei dati sui quali era concesso costruire, non sempre abbia potuto giungere a conclusioni  definitive. Che molte delle antiche istituzioni di Roma sono derivate dalla filosofia pitagorica e riconosciuto ed ammesso esplicitamente da CICERONE, il quale nelle Tusculane scrive: “Pythagorae doctrina cum longe lateque flueret, pernianavisse mihi videtur in hanc civitatem, idqtce cum coniectura probabile est, tum quibusdam etiam vestigiis indicator.” A conforto dunque della sua opinione CICERONE adduce  due argomenti, uno congetturale e uno di fatto. “Quis  enim est qui putet cum fiorerei in  Italia Graecia potentissimis et maximis urbibus, ea quas Magna dieta est, in eisque primum ipsius Pythagorae,  deinde postea Pythagoreorum tantum nomen esset, nostrorum hominum ad eorum doctissimas voces aures olausas  fuisee f Quin etiam arhitror propter Pythagoreorum admistrationem NUMAM quoque regem pytagoreum a posterioribus existimatum. Nam cum Pythagorae dìsciplinam et  instituta cognoscerent regisque eius aequitatem et sapientìam a maiorihus suis accepisseut aetates autem et tempora ignorarent propter vetustatenii eum, qui sapientia  excelleret, Pythagorae auditorem crediderunt fuisse.” E  questa è la congettura. L constatazione di fatto poi è,  che nelle istituzioni romane e in alcune antiche scritture  vi sono molte non indubbie tracce di pitagorismo. Quanto  alle istituzioni, CICERONE trova materia di raffronto nell'uso dei  canti e della musica. “Vestigia autem Pythagoreorum,  quamquam multa colligi possunt, paucis tamen utemur. Nam cum carminibus soliti illi esse dicantur et praecepta quaedam occultius tradere et mentes suas a cogitationum  intentione eantu fidibusque ad tranquillitatem traducere,  gravissimus auctor in Originibus dixit CAIO morem apud  maiores hunc epuìarum fuisse ut deinceps qui accubarent,  canerent ad tibiam clarorum virorum laudes atque virtutes. Ex quo perspicuum est et cantus tum fuisse discriptos  vocum sonls et carmina. Quamquam id quidem etiam XII TABULAE declarant, condi iam tum solltum esse carmen, quod ne licer et fieri ad alter ius iniuriam lege sanxerunt.  Sec vero illud non eruditorum temporum argumentum est,  quod et deorum puloinaribus et epulis magistratuum fides  praecinunt, quod proprium eius fuit, de qua loquor, disciplinae.” E quanto alle antiche scritture CICERONE ricorda un  carme di APPIO CIECO, che a lui pare pitagoreo. “Mihi  quidem etiam APII CACCI  carmen, quod valde PANAETIVS  laudat epistula quadam, quae est ad Q. TVBERONEM, Pythagoreum videtur.” CICERONE conclude: “Multa etiam  sunt in nostris institutis ducta ab illis; quae praetereo,  ne ea, quae repperisse ipsi putamur aliunde didicisse vi-deamur.” È davvero un peccato che Cicerone, per sentimento d’orgoglio nazionale — che non doveva peraltro  essere soltanto suo — e forse anche per ragioni, se non  di stato, come oggi si direbbe, almeno di prudenza e di  utilità pubblica, *tace* intorno  a queste molte altre derivazioni d'istituti romani dal pitagorismo, alle quali, come si è visto accenna per ben due  volte; tanto piii che CICERONE e per le cariche da lui coperte,  e per la conoscenza che aveva della scienza augurale e  sacerdotale, e, in genere, per la sua larga e profonda  cultura storica, letteraria e FILOSOFICA, e bene in grado  di fornirci in proposito notizie, documenti e prove certo  assai interessanti. Ci è forza dunque accontentarci di questa sua affermazione categorica, per quanto generica, e  vedere, anzitutto, se e quanto i suoi argomenti siano validi e, in secondo luogo, se ci si offrano altri indizi prò contro la sua tesi.  Che in verità il pitagorismo importato nella Magna  Grecia “temporihiis isdem”  — come dice lo Cicerone — “quibus L. Brutus patriam liberavit” -- e propagatosi in tutta l'Italia meridionale, dove si conserva, non dove rimanere ignoto ai romani e dove esercitare su di loro,  presto tardi, qualche influsso notevole, è ovvio, e le  presenti ricerche dimostrano appunto la cosa alla luce dei  fatti. Ma, la questione è ora di vedere se tale influsso si  possa far risalire veramente ai tempi di Pitagora e dei    --  [E detto che Pitagora venne in  Italia “superbo regnante” -- suoi primi seguaci, come Cicerone crede, oppure, come  crede LIVIO, se esso si fa sentire soltanto, per opera di neo-pitagòrici, dopo la  conquista della Campania e della Magna Grecia --  e, d' altra parte, se  questa azione sia stata così larga e profonda da dover  lasciare molte tracce di sé negli istituti politici e religiosi  di Roma, o se si sia esercitata solo sulle prime manifestazioni dell'arte musicale e letteraria e sulle prime speculazioni filosofico-religiose.   Due fatti, piccoli ma significativi, pare a me che dimostrino, anzitutto, come già parecchie generazioni prima  dell'Arpinate, e precisamente PRIMA della conquista dell'Italia meridionale, dove  essere convinzione di molti in Roma che a Pitagora, alla  sua dottrina e alle sue leggi e debitrice di molto Roma. Il primo di questi fatti è che durante la guerra sannitica e innalzata a Pitagora ai lati del comizio in  Roma, per volere di Apollo, una statua, che vi rimase  poi sino ai tempi di Siila. Ora la guerra contro i San-niti si combattè in tre periodi. Pais crede che la cosa si debba  ritenere avvenuta appunto in questi ultimini anni. Ma in realtà  non vi sono ragioni che ci vietino di farla risalire anche ad uno dei due periodi precedenti. L'altro fatto, un  poco posteriore, è che dopo la presa di Turis, di Eraclea     -- La cosa ci è attestata da Plinio, il quale però non cita la  fonte da cui ha attinto la notizia. Dice PLINIO infatti. “Invento et Pythagorae et Alcibiadi in eornibus Comitii positas statuas, cum, bello Samniti Apollo Pythius iussisset fortissimo Oraiae gentìs et alteri sapientissimo simulacra celebri loco dicari.” Cfr. Plutarco, Numa.  -- e di Taranto e con l'arrivo nella città di Livio  Andronico, che ne divenne il poeta sacro ed ufficiale,  sono dichiarati cittadini romani, Pitagora e il suo alunno  Zaleuco. Ora perche mai sono stati concessi a Pitagora due onori così distinti e di carattere pubblico, se  non si sono riconosciute le sue benemerenze verso Roma? Evidentemente, in quei tempi più antichi, l'orgoglio  nazionale non ha ancora oscurato, come più tardi, il  senso della verità storica! Ciò premesso, veniamo ad esaminare la possibilità degl'influssi pitagorici sulla più antica civiltà capitolina, secondo le prove che ce ne dà CICERONE. I carmina convivalia che, ormai disusati nell'età  ciceroniana, sono invece ancora in uso al tempo della  seconda guerra punica e che risalivano,  come afferma CATONE, a molte generazioni prima di lui,  sono certamente anteriori alla legislazione decemvirale. Cicerone, infatti, per  dimostrare l'esistenza di canti accompagnati da strumenti  musicali, e quindi di una civiltà abbastanza evoluta nei  tempi più antichi di Roma, ricorda nel passo citato, insieme con la testimonianza di CATONE, il fatto che le leggi  di Le XII TABULAE comminavano gravi pene a chi avesse usato quei canti “ad alterius inkiriam.” Senonchè  Cicerone, come appare da un altro passo dei suoi scritti -- Vedasi il framm. nei Fragni. Hist. Graec. e  Symm. ep. X, 25.   -- Cfr. De rep. IV, fr, 12 – “Nostrae XII tabulae quuni  perpaueas res capite sanxissent, in his hane quoque saneiendam pukiverunt, si quis occentavisset sive earmen condidisset quod infamiam faeeret fìagitiumve alteri” --  e vedi auche Plinio, Nat. Hist.   -- audò anche più oltre, ritenendoli già esistenti a tempo  del re NUMA. Se così è, non avrebbe dunque dovuto valere anche per essi l'obiezione che l'Arpinate moveva, come si è veduto, alla leggenda che il re Numa e stato scolaro di Pitagora? Neppure di questi antichissimi  canti egli puo logicamente ammettere la derivazione  dall'analoga costumanza dei Pitagorici, se Numa che Ji  istituì visse, secondo la cronologia ufficiale, a cui il nostro  autore credeva, piti di cento anni innanzi la venuta del  filosofo di Samo. Cosicché o il raffronto istituito da Cicerone e la analogia da lui messa in rilievo non ha alcun  valore storico — e così dovrebbe ritenersi senz'altro, se  fosse indiscutibilmente fondata la cronologia della più antica storia di Roma — , oppure, come è più probabile,  in conformità dei risultati generali e particolari a cui è  giunta la critica storica nell'esame delle primitive leggende  romane — l'ipotesi della derivazione dei canti dal pitagorismo ha un fondamento di vero, e in tal caso è da ritenere che fosse errata la tradizione cronologica, in quanto  fa risalire all’antico un'usanza che dovette essere piu nuova. Quanto poi all'analogia considerata in se, in che consisteva essa? Semplicemente   --  (De orai. “Nikil est autem tam eognatum mentibus  nostris quam, numeri atque voces; qtiibus et excitamicr et ineendimur et lenìmur et languescimus et ad hilaritatem et ad tristitiam  saepe deducimur; quorum Ula sumnia vis carminibus est aptior  et eantibus, non neglecta ut mihi videtur, a NUMA rege doctissimo  maioribusque ìiostri ut epularum sollemnium fides ac tibiae Saliorumque versus Indicarli ; maxime autem a Graecìa vetere celebrate.” Di questi canti poi Cicerone parla anche altrove, e cioè  nel Brutus e nelle Tusculane. Si vedano anche TACITO, Ann. Ili, 5, Val. Massimo II, 1, 10, Nonio ad assa voce  ed ivi Yabbone, de vita pop. rom.^ fi. II, 20, Kettner.  nell'uso comune del canto e della musica in occasione di  feste religiose e di banchetti pubblici, non già nel contenuto dei canti stessi, che gli uni. -- cioè i Pitagorici, adoperarono come mezzo terapeutico e di insegnamento esoterico, e gli altri invece, cioè i Komani, per esaltare la  memoria degli antichi eroi; come i Pitagorici erano soliti  tramandare sotto il vincolo della segretezza certi insegnamenti in forma di canzoni e riposare per mezzo di canti  accompagnati dalla lira le menti affaticate dalla lunga  meditazione, così gl’antichi Romani soleno, al principio  dei banchetti, cantare al suono delle tibie le lodi e le virtù  degli eroi, ed hanno anche l'usanza di far precedere tanto  alle mense in onore del divino, quanto ai banchetti dei magistrati, il suono delle lire, il che fu pure caratteristico dei Pitagorici. Insomma, le piu antiche manifestazioni dell'arte musicale in Roma si ha per l'influsso diretto  del Pitagorismo. A quel modo che si è dimostrata la possibilità che sono derivate dal pitagorismo queste antichissime manifestazioni dell'arte musicale, si puo anche riconoscere  come verisimile — contrariamente a ciò che ne pensa Cicerone — la notizia dei rapporti fra Numa e Pitagora.   La notizia che il re Numa e stato scolaro di Pitagora  è probabilmente vecchia. Anzi il  Pais afferma che essa si deve forse far risalire ad Aristosseno. Ma in tal caso e necessario credere che Aristosseno conosce una cronologia della storia romana diversa da quella che fu poi consacrata dalla storiografia  ufficiale, secondo i computi della quale l'esistenza di Nu-     [Storia di Roma] ma e anteriore a quella di Pitagora.  Tanto è vero che quasi tutti i filosofi presso i quali  troviamo ricordata tale notizia — Cicerone, Dionigi d'Alicarnasso, Diodoro Siculo, Livio, Ovidio, Plutarco, Plinio —  notano e discutono variamente questa inconciliabilità cronologica, concludendo tutti press'a poco come fa Manilio  nel De re publica di Cicerone, che dice la storia di queste  relazioni non sufficientemente provata dai pubblici annali  e quindi da ritenersi un errore inveterate. Ora che  dal punto di vista romano o di scrittori romanizzanti così  dovesse concludersi, è troppo naturale. Data la indiscutibile verità della tradizione e della relativa cronologia, non puo esservi dubbio per loro sulla impossibilità per parte  di Numa di essere alunno di Pitagora. Ma tale impossibilità non esiste per noi, che sappiamo come la storia  delle origini di Roma sia di formazione relativamente assai  tarda, come i computi cronologici che a quella si riferiscono siano il risultato di una lunga elaborazione tradizionale, quasi interamente destituita d'ogni fondamento di  verità, e infine come molte figure della leggenda siano soltanto dei simboli rappresentativi di un complesso di  fatti di istituzioni appartenenti talvolta a tempi successivi e diversi. Tolto dunque l'ostacolo cronologico che, se  e validissimo per i contemporanei di Cicerone, non sussiste più oggi che la critica storica ha demolito l'antichissima cronologia di Roma, non rimane altra obiezione che     [De re publ.: «Inveteratus ho77tinum errore.  Cfr. DioN. Halic. II, 59 ; Diod. Sic. Vili, 14 {.Exc. de vlrt. et vii.  p. 549); Livio I, 18 e XL, 29; Plut. iVwma I, 3; YIII, 5 sgg.;  Plinio, Nat. Hist. XIII, 27.  quella sollevata da LIVIO, il quale ritenne impossibile ogni  rapporto fra Numa e Pitagora anche per ragioni di distanza e DI LINGUA. Dice Livio infatti. “Auctorem doctrinae  Numae quia non exstat alius, falso Samium  Pythagoram edunt, quem Servio Tullio regnante Romae,  centum amplius post annos, in ultima Italiae ora circa METAPONTUM HERACLEAMQUE ET CROTONA iuvenum aemulantium studia coetus habuisse constai. Ex quibus locis, etsi eiusdem aetatis fuisset quae fama in Sabinos e aut quo LINGVAE commercio quemquam ad cupiditatem discendi excivisset e quove praesidio unus per tot gentes dissonas sermone moribusque pervenisset e suopte igitur  ingenuo temperatum animum virtutibus fuisse opinor magis instructumque non tam peregrinis artibus quam disciplina tetrica ac tristi veterum Sabinorum quo genere nullmn quondam incorruptius fuit.” Ma nel  campo della storia, come giustamente osserva De Marchi, è forse detta l'ultima parola sui rapporti che legarono in antico la civiltà della Magna Grecia con le più barbare popolazioni italiche del centro? E d' altra parte la esistenza ammessa da Livio di una “disciplina tetrica ac tristis” presso i sabini non è  cosa molto più problematica di quello che non sia probabile l'andata di qualche sabino o romano nella Magna Grecia nel secolo sesto? La leggenda dei rapporti fra  Numa e Pitagora dovd dunque, a parer nostro, accettarsi come rispondente a verisimiglianza, e il regno di  Numa, se questi è realmente esistito, o, in ogni modo,   -- “Passi'scelti da Livio ad illustrare le istituzioni religiose, politiche e militari di Roma antica” (Milano, Vallardi il formarsi di tutti quegli istituti di carattere religioso che  la tradizione riporta a Numa, dovd ritenersi posteriore  almeno al tempo di Pitagora, appunto perchè dalla tradizione e tenuto in stretto  rapporto di dipendenza dal pitagorismo. In tal modo non  e più necessario, come fa il Pais, di ritenere inventata d’Aristosseno l'altra notizia, che risale appunto a  questo filosofo che parla genericamente  di Romani accorsi ad ascoltar Pitagora, e piu facilmente si comprendeno alcuni dati della leggenda di Numa, la scoperta dei famosi libri pitagorici di questo re, e il fatto che qualche scrittore, per esempio Ovidio, ammetta la realtà dei rapporti, senza neppure discuterla. Racconta ancora la tradizione che Numa ha tanta  venerazione per il suo maestro Pitagora, che volle dare  a un proprio figlio il nome di “Mamerco”, in onore dell'omonimo figlio del filosofo. Che significato può avere questo  nuovo particolare? Alcuni hanno creduto di scorgere in  esso un tentativo da parte degl’Emili Mamertini di far  risalire in tal modo le proprie origini al tempo di Numa.  Se così e, noi doviamo allora ammettere che quando  il particolare e inserito nella leggenda, la cronologia di  questa non e ancora quella ufficiale. Altrimenti il tentativo e puerile. Ma così non è, come  e giustamente osservato da Mtille. Probabilmente il     (lì npoo'^X'9'Ov S'aùxcp -- cioè Pitagora --  &<; cpvjoiv 'Apiaxógsvog, xal  Asuxavol xal MsooàTiiot xal Hsuxéxioi xal 'Ptojjtalot. Così dice Porfirio nella sua Vita di Pitagora; e il medesimo affermano,  senza citare Aristosseno, Diogene Laerzio e Giamblico (Vita Pythag.). Quanto a Pais, vedasi St. di Roma -- Plutarco, Numa -- Emilio -- Q. Ennius, Pietrob. -- particolare non ha altro ufficio che di avvalorare con  un indizio di piu la leggenda. Un'altra notizia, a proposito della quale non è veramente fatta menzione alcuna di Pitagora, è quella che si riferisce alla Musa Tacita, per  la quale Numa ha particolare venerazione. Allude  forse essa alla pratica del silenzio e della segretezza, di  cui parla costantemente la tradizione pitagorica? È possibile. E il miracolo della mensa carica di ricco vasellame,  che il re avrebbe fatto apparire dinanzi agli occhi di coloro che dubitano delle sue facoltà soprannaturali,  non ricorda le analoghe facoltà magiche attribuite a Pitagora dalla tradizione? Veramente queste due notizie, per  il loro carattere favoloso, pouo indurci a credere  l'austera e quasi mistica figura di Numa una proiezione  storica immaginaria, plasmata, in parte, a immagine del  saggio di Samo. Ma un altro fatto, sulla cui verità storica  non è possibile il dubbio, sembra indurci a conclusione  diversa. Voglio alludere al fatto della scoperta dei famosi  libri di Numa, avvenuta in occasione di  uno scavo sul Gianicolo. Ora data la realtà della scoperta  e la inverosimiglianza di una falsificazione, noi dobbiamo ammettere, con la tradizione, che questi libri sono antichi. Siano  poi essi stati opera del saggio Numa — la cui esistenza,  come s'è già detto, dove necessariamente porsi in  un'epoca posteriore  — o di qualche altro  sapiente imbevuto di sapienza italica, essi starebbero  sempre a dimostrare che effettivamente il pitagorismo esercita una qualche azione sull'antica civiltà di Roma. Plutarco, Numa -- DioN. Hauc. Dal complesso di queste notizie e di questi fatti noi  possiamo dunque inferire che non solo la leggenda dei rapporti fra i due legislatori dove essere assai diffusa  ed antica, ma che altresì essa ha un certo fondamento di vero. Di guisa che se Cicerone la disce “inveteratus hominum error” noi possiamo senz'altro accettarne la vetustà. E,  quanto all'erroneità, essa e probabilmente soltanto  un desiderio di uomini di stato e di eruditi animati da un eccessivo orgoglio nazionale. Per la qual cosa Ovidio, che pure scrive dopo che diversi filosofi hanno mosso  alla leggenda le critiche accennate, puo ben accettarla  senza discuterla affatto come una cosa ovvia e risaputa e fare in certo modo dipendere le istituzioni religiose attribuite a Numa, persino la sua riforma del calendario – gennaio, febbraio --, dalla educazione pitagorica da lui ricevuta.  Anche alcune disposizioni legislative di Le XII TABVULAE sono messe in relazione col Pitagorismo. Cosa ben naturale, se si pensi alla loro origine. Non sono esse infatti  ricalcate sulle orme delle legislazioni della Magna Grecia,  che, alla lor volta, com'è ben noto, si informano ai principii di quella dottrina? Ora questa, che sarebbe, per dirla  con CICERONE, semplice coniectura, ha poi la sua riprova  nel contenuto delle leggi stesse, quale può desumersi dai  frammenti che ce ne rimangono. Infatti il diritto punitivo  in esse sancito s'ispira al principio del taglione: « Si     [Metam., Fast., Pont.]. e.  membrum rup{s)it^ ni cum eo pacit^ TALLO està », dice il  secondo frammento della XVIII TABVLA, e questo principio,  che, come attesta Demostene, ha largo svolgimento nelle  leggi di Zaleuco, e indubitatamente tolto dai pitagorici, i quali lo ricollegavano alla dottrina dei numeri. Dice  infatti Aristotile che la giustizia e da loro consideata come ràvTi7i;£7cov'9'ó(;, perchè consisteva in una proporzione — non inversa, ma diretta, come notò bene Zeller  — fra l'offeso, l'offensore e il Giudice. Nel che essi applicarono, secondo la critica aristotelica, i criteri della giustizia commutativa ad un ordine in cui non può aver luogo che la distributiva. Ora, dice Chiappelli -- in qual modo si determinasse dal pitagorismo e quali applicazioni avesse questa teorica del taglione non possiamo dire, né possiamo quiudi sapere quali elementi di essa penetrassero in le XII TABVLAE e  a quali trasformazioni anda soggetta in Roma. Un punto  tuttavia è possibile stabilire, sebbene solo in modo negativo. Alla legge generale, in le XII TABVLAE segueno  le leggi speciali: la prima di esse riguardava la diversa     Timocr.  « ò'^xoz yàp aòxó^t vó|i.oo, èdtv tig òcp'S-aXiJLÒv  è%xó4>ì|7, àvTsxxócIjat itapaaxsiv xòv éauxoQ xal oò XP'^M-*''^^^ xt|i7j-  oswg oòSs|Jtiac, àTceiÀTjaat xtg Xéyexat èy^d-pòg è/.'^-pcp Iva Ixovxt òcpS-aX-  jjiòv Sxt aòxoù èxxóc|^st zoùzo'* xòv §va ». Le medesime parole si  ritrovano in quello che 1' autore della Grande Morale ci riferisce  dei pitagorici, il ohe è una riprova del rapporto storico fra questi  e Zaleuco.  -- Eth. Nic.-- xst 5s xtat  xal xò àvxt7C£7iov'9'òc slvat ànXGòq dCxatov còaicep oi nuO-ayópsiot  Icpaaav. è^pL^o'^xo yàp àuXwc '^à SCxaiov xò dcvxtTCSTtovO'òc dcXXcp ».  Sopra alcuni frammenti di le XII TABVULAE nelle loro relazioni  con Eraclito e Pitagora, in Areh. Giuria 00 misura della pena per l'ingiuria recata a un libero o ad  uno schiavo. Ora i Pitagorici non pare che avessero  fatta questa distinzione, se l'autore della Grande Morale  combatte la dottrina pitagorica del taglione, come quella  che non si può applicare incondizionatamente al servo o  al libero, poiché di quanto quello cede a questo, di tanto,  se gli abbia fatto ingiuria, deve accrescersi la pena corrispondente. E in verità siffatta distinzione e bensì  impossibile nel sistema dei pitagorici, per i quali il corpo  e come il carcere dell'anima, che vaga in una perenne  trasmigrazione, e il più alto precetto etico e l'imitazione  del divino per via della virtù, l'osservanza della legge e il  rispetto verso tutti gl’uomini. Ma e invece possibilissima, anzi necessaria, nella legislazione di Roma, dove così  netto e il distacco fra cittadini liberi e schiavi.  Abbiamo anche veduto come a Cicerone paresse  ispirato ai principii della filosofia pitagorica il poemetto di APPIO CLAUDIO CIECO, che, censore e console, e indubbiamente uno dei personaggi  storici più importanti e, se non il primo, certo uno dei  primi rappresentanti di una larga cultura. Orbene, che il  giudizio di Cicerone non e errato parrebbero dimostrare  a sufficienza i pochi frammenti che di quella poesia ci sono  rimasti. E in verità la famosa sentenza “fabrum esse suae  quemque fortunae” non puo esprimere meglio il fondamento della dottrina morale di Pitagora. L’altra, altis-     [Si veda il fr. 3 della stessa tav. Vili ; « Manu fustive si os  fregit libero CCC, si servo GL poenani subito.” Magn. Mar.  « xò Si^ TotoaTov o5x èaxt  Tipòg &7iavxag* oò yàp laxi Stxaiov olxéx^ Tcpòg èXsud-spóv xaOxóv »] sima, come dice Pascoli, se fosse certa la lezione e  l’interpretazione – “amicum cum vides obliscere miserias;  inimicus sies; commentus nec libens aeque idem tamen  teneto” -- «tu dimentichi  la tua miseria quando vedi un amico; ora sia tuo nemico  "quello che tu vedi: ebbene, pensatamente, e non volentieri come con l'amico, tieni lo stesso contegno, tuttavia” ,  è pure strettamente conforme alla dottrina pitagorica, che  insegna amore e fratellanza. Il terzo infine « sui quemque oportet animi coìnpotem esse semper nequid fraudis  stuprique ferocia pariat” non e certo disforme dalle pratiche e dagl’esercizi spirituali degli adepti al pitagorismo,  che dovevano acquistare padronanza assoluta non pure del  proprio corpo, ma anche delle proprie attività interiori,  per dirigerle al bene. Non si apponeva dunque male Cicerone. Senonchè anche intorno all'autenticità di questo antico poema, che e una delle prime manifestazioni letterarie di Roma,  si sono sollevati dei dubbi. Il fatto che la notizia di esso  e data da Panezio in una sua lettera a Quinto Tuberone  ha indotto per esempio Pais a pensare che si tratti  di una falsificazione posteriore, da collegarsi con le altre  falsità che andavano sotto il nome di Aristosseno intorno  ai romani scolari di Pitagora e su Pitagora cittadino di  Roma. Ma come è ciò possibile, se Aristosseno e Appio  furono contemporanei? E se Appio visse, come è certo,  nel tempo in cui furono sottomesse la Campania e la Lucania che ragione c'è per negare che Appio conosce quelle dottrine e da esse trarre ispirazione per    [Lyra romana, Livorno,St. di Roma] il suo poemetto? E poi come dubitare con qualche fondamento dell'autenticità dell'opera che un Panezio e un Cicerone, a distanza di tempo relativamente breve, attribuirono ad Appio stesso, tanto più che il medesimo Pais riconosce che l'efficacia della filosofìa tarentina si esercita sopra gli uomini di stato romani dal tempo di Appio e  di Pirro? L' ipotesi di una falsificazione, della quale poi  non si vedrebbe neppur chiaramente la ragione, non ci  sembra dunque per nulla fondata. Sì che noi possiamo  con chiudere che la dottrina del filosofo di Samo, in conformità dei dati tradizionali, esercita una qualche azione  tanto sulla più antica civiltà di Roma, quanto sui primi prodotti del pensiero e  dell' arte -- Chi, più d'ogni altro, contribuì a diffondere in Roma  la conoscenza delle dottrine di Pitagora e senza dubbio ENNIO, il padre della filosofia romana. Nativo di Rudie, paese  fortemente ellenizzato fra Brindisi e Taranto, Ennio studiato a Taranto, che era il centro italico, in  cui si conservavano più pure le tradizioni pitagoriche.  Versato nell'osco, nel latino, e nel greco, Ennio diceva scherzando di avere tre cuori. Si trova a militare  in Sardegna fra gl’ausiliari che Taranto manda -- Gellio, N. A. --  ai Romani, e quivi da Catone e invitato a recarsi a Roma.  Come si spiega tale invito? Quali vincoli si stabilirono fra  questi due uomini, destinati a sì grandi cose, che si incontrarono fra gli orrori di una guerra di conquista? Sono vincoli di simpatia e di amicizia creati dalla comune grandezza d'animo e da comuni aspirazioni? Si sono essi  già conosciuti prima, quando Catone e in Taranto ospito del pitagorico Nearco? Questo mi sembra più probabile. D'altra parte la profonda  scienza e il forte intelletto del rudino dovettero certo  colpire l'animo eletto e la mente aperta di Catone, che  alle qualità pratiche dell’uomo di stato une l’attitudine del filosofo. In virtù della sua sapienza Ennio dove apparire  al nobile cittadino di Roma come assai atto a cantare le  antiche gesta di Roma; ed è forse per questo che Catone, ragionando con lui delle istorie primitive della patria  e delle relazioni che essa ebbe con la Magna Grecia, dove  suggerirgli l'idea del poema, che quegli poi realmente  scrive, e per la composizione di esso ojffrirsi di agevolargli la conoscenza dei documenti e dei materiali storici e  promettergli tutto il suo aiuto -- il quale, e per la condizione e per l'ingegno dell'offerente, non poteva non apparire ad Ennio prezioso e inestimabile. Ad ENNIO d'altro  lato, piena l'anima dell'antica sapienza della sua terra, di  quella sapienza che nessuno   in somnis vidit priu' quam sam discere coepit -- Plutarco, Gaio maior, — Cicerone, Caio maior -- Annalee, (Yalmagoi)] dovette balenare come in uno splendore radioso l'idea di  illustrare col suo canto le antiche imprese di Roma e, al  tempo stesso, di farsi banditore di una sapienza sconosciuta alla città che forse il suo spirito veggente presagiva  sarebbe stata nuova fucina di cultura e di sapere e maestra  di nuova civiltà alle più lontane generazioni! Venuto in Roma, Ennio vi si dedica totalmente a diffondere fra i romani colti l'amore del sapere. Ennio chiama intorno a sé,  a formare un circolo di studiosi, i piti influenti e noti  cittadini e da essi seppe farsi amare ed onorare per le  cognizioni vaste e profonde, per la nobiltà dell'animo e  l'integrità del carattere, per la modestia della vita e dei  costumi, per la dolcezza dei modi e del parlare. Ad ascoltarlo accorsero fra gli altri SCIPIONE Africano, Scipione  Nasica, Aulo Postumio Albino, Marco e Quinto Fulvio  Nobiliore, e con tali amicizie Ennio sa vivere sempre sereno, mostrando così con l'efficacia dell'esempio, che le verità da lui insegnate e praticate sono le più atte a dare la felicità e la  pace. Se vogliamo credere a Gelilo, il grammatico Lucio  Elio Stilone sole dire che Ennio fa il ritratto di sé  medesimo nei seguenti versi degli Annali, che descrivono  il vero amico – “Haece locutus vocat, quocum bene saepe libenter  mensam sermonesque suos rerumque suarum  comiter inpartit, magnam cum lassus diei  partem trivisset de summis rebus regundis    -- E « decemvir sacrorum » (Livio).  Consilio indù foro lato sanctoque senatu;   quo res audacter magnas parvasque iocumque  eloqueretur cuncta simul malaque et bona dictu  evomeretj si qui vellet, tutoque locaret;  quocum multa volup et gaudia clamque palamque, ingenium quoi nulla malum sententia suadet   ut faceret facinus levis aut malus ; doctus, fidelis,  suavis homo, facundus, suo contentus, beatus,  scitus, secunda loquens in tempore, commodus, verbum  paucum, multa tenens antiqua sepulta, vetustas quem facit et mores veteresque novosque tenentem  multorum veterum leges divomque hominumque,  prudenter qui dieta loquive tacereve posset.” In questo ritratto tu vedi l'immagine del vero sapiente  pitagorico, che sa trattare le faccende pubbliche e raccor  gliersi nella meditazione, che sa parlare con piacevolezza  e con facondia e tacere a tempo opportuno, che non commette mai il male, neppure per leggerezza, fedele nell'amicizia e servizievole contento del suo, felice, che infine  sa molte cose profonde e recondite, ma le tiene ermeticamente chiuse nel fondo della sua anima, per non darle  in balìa di inetti, e le svela soltanto a chi si mostri atto  ad intenderle.  E anche possibile, come osserva acutamente Pascal, che in questi versi Ennio vuole altresì rappresentare i suoi rapporti col grande SCIPIONE, del quale si puo dire assai piu convenientemente quello che Macrobio scrive d’'Emiliano, che cioè e “vir non minus     [Gellio – “L. Aelium Stilonem dicere solitum  ferunt, Q. Ennium de semet ipso haec scripsisse picturamque istam  morum et ingenii ipsius Q. ENNI factam esse.” I versi sono secondo il testo dato da Valmaggi (Mìjller, Baehrens).  Antologia latina, Milano] philosopMa quam virtute praecellens -- e l'ipotesi tanto  pili è accettabile se pensiamo che Scipione e forse il migliore dei discepoli d’ENNIO, il quale lo ha in tanta  considerazione da comporre intorno a lui un poemetto  — Scipione — e da fargli dire – “A Sole exoriente supra Maeotis paludes nemo est qui factis me aequiperare queat. Si fas endo plagas caelestum ascendere cuiquam est, mi soli caeli maxima porta patet.” Cicerone stesso, appunto per la sua sapienza, oltre  che per la fama delle sue imprese, non lo scolge come  protagonista del Sogno famoso col quale terminava il De  Repuhlica  [Di Ennio e notissimo ai Romani il sogno col quale  incominciavano gl’Annales e di cui ci sono rimasti appena alcuni frammenti insieme con le testimonianze di  Lucrezio, Cicerone, Orazio, di Persio e altri -- In Somnium Seipionis^ I, 3.   (2) Cicerone, Tusc., Seneca, e/),, 108 e altri. Seneca poi,  nell'ep. 86, dice, parlando appunto di Scipione – “animus eius in  eaelum ex quo erat rediisse persuadeo rtiihi.” Vedili in V. J. Vahlen Enn. poes. rei., Lipsiae, ediz. MuELLEE, Q. Enni carm. rei., Petrop. e nei Frag. poet. rovn. coli. Baehrens, Lipsiae, Vedi  anche le osservazioni del Mueller, Q. Ennius, Pietroburgo, e lo studio di Valmaggi pubblicato nel Bollettino di  filai, classica – Lucrezio -- Cicerone, Somn. Scip., -- Aead, -- Orazio, Ep.  -- Persio, -- Schol. in Pers. Sehol. Cruq. in  Orazio, Ep. Il, 1, 52; Frontone, ep.12, p. 74 Nab.; Sergio,  ad Aen. Questo sogno che leva grande rumore nel mondo romano e di cui spesso si parla, ora con serietà filosofica,  ora per ischerzo, tanto che divenne quasi proverbiale -- dove essere abbastanza lungo. Al poeta addormentato  sarebbe apparso sul monte Parnasso il fantasma piangente di Omero a dargli lunghe spiegazioni intorno  all'ordine dell'universo, alle trasmigrazioni di ogni anima umana attraverso un proprio ciclo di vite e alla  sopravvivenza nelle caverne d'Acheronte di una forma  intermedia fra l'anima e il corpo e a ricordargli le  mutazioni della propria anima, trasformatasi, dopo la morte  del corpo, in un pavone e rinata appunto in lui, il   -- Pasdera, Il sogno di Scipione, Torino, Loescher, -- Persio, Prol. “Nec fonte labra prolui eaballino Nee in  bicipiti sommasse Parnasso Memim., ut repente sic poeta prodirem », e Schol. ad V. 21 « tangit Ennium qui dicit se vidisse  sommando in Parnaso Homerum sibi dicent em quod eius anima  in suo esset eorpore. La ragione di questo pianto non è detta. Era forse pianto di  gioia per il momentaneo ritorno a contatto con un essere terreno?   -- Lucrezio, “rerum naturam expandere dictis”   -- Lucrezio, “an contra nascentibus insinuetur anima” “ pecudes alias insinuet se ».  Lucrezio,  « Etsi praeterea tamen esse Acherusia  tempia Eìinius asternis exponit versibus eidem Quo ncque permaneant aniìnae ncque corpora nostra, Sed quaedam simulacro modis  palleniia miris » .  Persio, Sat. « Cor iubet hoc Enni, postquam  destertuit esse Maeonides Quintus pavone ex pythagoreo. Tertulliano, de an., “pavum se meminit Homerus Ennio sommante » ; Hbid.  « perinde in pavo retunderetur Homerus, sieut in Pythagora Euphorbus » ; cfr. eiusd. de resurrectione I,  G. 1, e AcRON, in carm. I, 28, 10; Persio, YI, 9, e schol. ; Lattanzio in Theb. Ili, 484.  discendente del re Messapo, il poeta rudino. Tale,  press'a poco, il contenuto di questo sogno, notevolissimo  non solo per l'esposizione delle dottrine filosofiche, ma  altresì per l' accenno alle trasformazioni e incarnazioni  dell' anima di Omero, e per 1' affermata parentela spirituale dei due poeti.   Che il pavone poi, importato dall' Oriente in Samo, la patria di Pitagora,  ha nella filosofia mistica di questo iniziato un'importanza considerevole, è certo (2): e poiché era anche —  per la colorazione delle penne - simbolo del cielo stellato, al quale salivano dopo ogni morte corporea le anime  umane -- onde l'espressione per me simbolica del fieri pavom usata da Ennio) -- opportunamente fu scelto dal  poeta e dalla tradizione che egli seguì, per accogliere l'anima di Omero, già ritenuto per samio, come Pitagora.  Il fatto che il grande poema storico degli Annales,  il quale hada par te dei Romani un culto analogo a  quello che noi tributiamo alla Divina Commedia, incomincia con tale sogno, ha grande importanza per la diffusione e conoscenza del pensiero pitagorico in Roma. Poiché, appunto per lo studio che del poema si fa, fin     [Servio, ad Aen. VII. 691 ; Silio Italico, XII, 393.  MuELLER, Q. Ennius Cfr. Hehn, Kulturpflanxen  und Hausthiere. Dall'interpretazione letterale data a tale espressione o ad altre  consimili nacque forse presso gli antichi — uno dei primi e Senofane, contemporaneo di Pitagora, nei versi citati da Diogene Laerzio i quali peraltro hanno un' intonazione scherzosa, se  non satirica — l'opinione che Pitagora crede nella metempsicosi  anche animale.    nelle scuole di grammatica e di  rettorica (e per le pubbliche letture di esso, ancora in  uso nelle città di provincia ai tempi d'Aulo Gelilo, si  dovette necessariamente mantenere viva in Roma stessa e in Italia la conoscenza di quella parte della dottrina di  Pitagora, che nel sogno si ricorda e che era poi una  delle principali di detto sistema. Difatti sono assai frequenti nella letteratura posteriore le allusioni alla teoria della metempsicosi; la quale del  resto e forse introdotta in Roma anche per altro tramite,  sia cioè per mezzo dei misteri, nei quali si insegnano  appunto dottrine per molti rispetti somiglianti alle pitagoriche, sia per mezzo della filosofia platonica e quella del PORTICO,  che, secondo una tradizione abbastanza diffusa e anteriore  air apparire del neo-pitagorismo, e derivata almeno in  qualche parte fondamentale, dalle dottrine pitagoriche  stesse.  Se nel poema di Ennio vi e altri accenni  alla filosofia pitagorica non ci è dato conoscere dagli scarsi  e slegati frammenti che ce ne restano. Ma non è improbabile che, a proposito di NUMA, e non solo notate  incidentalmente, ma fors'anche illustrate con una certa  ampiezza le somiglianze fra la sua legge ed istituzioni e  quelle del filosofo di Samo. In tal caso da Ennio per la  prima volta e stata inserita in un'opera filosofica latina la notizia desunta dalla tradizione orale anteriore, che il gran re Numa ha  a maestro Pitagora -- SvETONio, de gramm.  Noctes Atticae, MuELLBB, Q. Ennius.   In altro scritto invece noi sappiamo con certezza che  Ennio tratta ancora delle dottrine pitagoriche: e precisamente ìieìVUpicharmuSy un poemetto così intitolato dal nome del filosofo siciliano, che era tenuto per uno dei più  valenti seguaci della scuola italica. Anche in questo  lavoro, il nostro scrittore finse un sogno. Nam videbar somniare med ego esse morluum” e che il filosofo Epicarmo gli comunicasse, nelle  regioni infernali, dottrine di filosofia naturale sull’origine  e sulla natura delle cose. Notevole, fra gli altri, è il verso  nel quale si identifica il corpo alla terra e, secondo il  noto simbolismo mistico, l'anima al fuoco – “terra corpus est, et mentis ignis est.” Al qual proposito Yarrone, citando, un altro verso dello  stesso Ennio, scrive – “animalium semen ignis qui anima  ac mens: qui caldor e caelo quod Mnc innumerahiles et  immortales ignes. Itaque Epicharmus de mente umana dicit:   istic est de sole sumptus isque totus mentis est.: Yahlen, 0. e, p. XCII-XCIII e cfr. L. Y. Schmidt, Quaest.  epich.  Yedasi anche lo studio del Pascal, Le opere spurie  di Epicarmo e l'Epieharmus di Ennio in Biv. di fìlol. e di istrux.  classica^ a.-- Cicerone, Aead. pr.^ II, 16, 51.   -- Prisciano, YII, p. 764 P. (I, p. 335 K.). Cfr. gli scolii all'Eneide, YI, -- De lingua latina^ Y, 39. Cfr. Mueller, op. cit., p. Ili sg.  -- Un'altra sentenza pitagorica è quella che ricorda Cicerone (“de divin.”) a proposito dei sogni : « aliquot somnia vera inquit Ennius sed omnia  noenum necesse est.”  Ma oltre che alle opere filosofiche, le quali, hanno tarda efficacia, Ennio rivolge l'attività dell' ingegno, trasfondendovi  i tesori della sua sapienza, all'insegnamento orale. Senza  dire poi che l'esempio della sua vita intemerata sprona  all' esercizio costante della virtù tutti quelli fra i nobili  cittadini di Roma che accostandolo l'amarono. Ennio si studia di volgere le loro menti ad una libertà di pensiero e  ad una concezione individuale delle cose, alla quale non  sono certo avvezzi i romani, educati sotto una disciplina  ferrea. Abituando le loro intelligenze alle bellezze ed alle  sottigliezze della filosofia, insegnando in privato le  dottrine di Pitagora, combattendo nel nome di Evemero  le superstiziose credenze popolari, e deridendo i sacerdoti  ignoranti, predicando infine che l'uomo ha da trovare in  se stesso, nelle profondità dell'anima, il fondamento del  proprio valore, della propria libertà e della propria felicità, da impulso a una vera rivoluzione razionalistica  nello spirito romano. Sì che fra quei valorosi soldati  e pratici legislatori comincia ad essere tenuta in conto la filosofia, ad esercitarsi la libera attività del pensiero anche  in fatto di fede, e a formarsi un'aristocrazia vera e legittima, fondata su ciò che l' uomo ha di più sostanziale e  di proprio, cioè su l'intelligenza e sullo spirito. Non è improbabile che appunto per questo CATONE, il  quale, sopra tutto e innanzi tutto, vede l'interesse e il  bene dello stato romano, osteggiasse il movimento a cui ha  dato egli stesso involontario impulso e perseguitasse l'A-    [ (1) GiussANi, Letterat. romana^ Milano, Yallardi, Si veda  anche su Ennio il saggio critico del Lenchantin De Gubernatis (Torino, Bocca).     - Bl -   fricano (1); tanto che questi, avendo suscitato contro di sé  molte ire violente e molte accuse politiche, si ritira sdegnosamente nella sua villa di Literno, nella Campania. Proprio in questi anni, facendosi uno scavo, sono scoperti i famosi libri di Numa, i quali, per un caso assai  strano, venneno molto opportunamente a confermare gli  insegnamenti pitagorici di Ennio. La notizia della scoperta risale, per quel che ci è noto, all'annalista Cassio Emina, il quale, secondo ci riferisce Plinio narrava  come un impiegato di nome Cneo Terenzio, facendo dei  lavori in un suo podere sul Gianicolo, ha scoperta e   [Livio, -- Sull'esilio e sulla morte di Scipione Africano Maggiore vedi  C. Pascal, Fatti e leggende di Roma antica -- Si veda, intorno a questi libri, lo studio del Lasaulx, “Ueber  die Bueeher des Numa”, negli Atti dell' Accademia di Monaco -- Nat. Eist. XIII, 84 = Hist. Rom. rell. I, p. 106-107 Peter:  “Cassius B. Emina vetustissimus auctor annalium, quarto eorum,  libro prodidit Cn. Terentium, scribam agrum suum, in laniculo  repastinantem offendisse arcani in qua NVMA qui Romae regnavii situs fuisset. In eadem libros eìus repertos P. Cornelio L. f.  Gethego^ M. Bebio Q. f. Pamphilo coss. ad quos a regno NVMAE colliguntur anni DXXXV, et hos fuisse a charta maiore etiam num mir acuto quod tot infossi duraverunt annis. Quapropter in  re tanta ipsius Heminae verba ponam; mirabantur alii quomodo  ìlli libri durare potuissent^ ille ita rationem reddebat : « Lapidem  fuisse quadratum cireiter in medio arde vinctum, candelis quoque versus. In eo lapide insuper libros inpositos fuisse propterea arbitrarier tineas non tetigisse: IN HIS LIBRIS SCRIPTA ERANT PHILOSOPHIAE PYTHAGORICAE – EOSQUE COMBVSTOS A Q. PETILIO PRAETORE QVIA PHILOSOPHIA SCRIPTA ESSENT.” --  scavata la tomba del re Numa, che conteneva i libri di  lui ; e, cosa di cui molti si meravigliarono, cotesti libri di  carta s'erano perfettamente conservati. Ma, come spiega Terenzio, tale conservazione era dovuta al fatto  che, essendo posti sopra una pietra quadrata che si trova quasi nel mezzo della tomba, erano rimasti immuni dall'umidità, ed essendo spalmati di cedro, le tignole non li avevano rosi. I libri stessi poi contenevano scritti di filosofìa pitagorica, per la qual ragione furono poco dopo bruciati dal pretore Quinto Petillio. Lo stesso racconto fa pure l'annalista X. Calpurnio Pisone Censorio Frugi, secondo il quale però detti libri erano VII di diritto pontificio e altrettanti pitagorici. XIV ano  pure, secondo 1' annalista C, Sempronio Tuditano e  contenenti i decreti di Numa. Secondo Valerio Anziate  infine essi sono invece XXIV, XII pontificali e XII di filosofia, e non  si sarebbero trovati proprio nella tomba di Numa, ma in un'arca adiacente. Se il racconto è vario nei particolari, tuttavia questi     [Plinio, /. e. = H. R. rell. I, p. 122-123, P. : “Hoc idem tradii O. Piso censorius primo commentari or um, sed libros VII  iuris pontifìcii totidemque Pythagoricos fuisse.” (2) Plinio l. e. = H. R. rell. I, p, 142-143 P : “Tuditanus  decimo tertio Numae decretorum fuisse”   Plinio /. e. : « Libros XII fuisse ipse Varro Humanarum  antiquitatum septimo. Antias secundo libros fuisse XII pontificales totidem praecepta philosophiae continents. Cfr. Plutarco, Numa, 22 ; Livio, XL, 29, ^ =z H. R. rell. I,  p. 240-241 P. Si noti però che Peter crede (/. e. p. CC.) che  Livio cita per errore Valerio Anziate invece di Calpurnio  Pisone] ed altri autori (1) sono concordi nell'affermare sia la scoperta dei libri, durante il consolato di P. Cornelio Cetego  e di M. Bebio Panfilo sia la loro pronta distruzione per opera del pretore Petillio. Cosicché non è  possibile dubitare che il fatto e avvenuto. Senonchè la  critica piu recente si è affrettata ad affermare che essi  dovettero essere un'abile falsificazione di qualche scrittore,  fanatico dell’idee pitagoriche, in quegli anni appunto diffuse in Roma dal grande Ennio, e accettate da  Scipione Africano e da altri illustri cittadini. Ma ad una  grossolana falsificazione fatta in quei tempi medesimi noi non vogliamo credere. Non ci racconta costantemente la  tradizione pitagorica che base dell' insegnamento di questa  dottrina era la segretezza e il mistero? E proprio un  pitagorico divulga le dottrine della sua scuola,  in un'opera così voluminosa, ricorrendo a uno stratagemma  così poco serio, ed anche così inutile, dal momento che già  la tradizione ammette la filiazione degli istituti e delle  leggi religiose di Numa dal pitagorismo? Ed è poi possibile che fra i senatori romani, i quali decretarono, su parere del pretore, l'abbruciamento dei libri così miracolosamente scoperti, non vi e alcuno in grado di comprendere una così grossolana mistificazione? Poiché non c'è dubbio che i libri furono bruciati con la convinzione che essi sono quelli del re sapiente e perchè contenneno,     [V. ancora le testimonianze di Yarrone, conservataci da Agostino (De civ. dei), di Livio (XL, 29, da cui ha desunto  la sua narrazione Lattanzio, Inst. I, 22), di Valerio Massimo (I, 1,  12), di Festo (p. 173 M. = p. 182 Thewr.), di Plutarco {Numa,  22) e del de vir. ili. 3.  Livio osserva che questa convinzione deriva dall' opinione  diffusa che Numa e discepolo di Pitagora, opinione che   [secondo la testimonianza di Varrone la spiegazione degli  stituiti religiosi di Numa (“cur quidque in sacris fuerlt  institutum”) fondati, come quelli di tutte le religioni, su  ragioni fisiche e filosofiche e sopra una concezione particolare della natura.   Ora, dice assai giustamente  Chaignet, questa interpretazione razionale ed umana delle credenze e delle istituzioni religiose, togliendo ad esse un' origine e un fondamento sovrannaturale, ha certo, divulgandosi, tolta  ogni consistenza a quella religione di stato che, come  tutte le religioni dogmatiche, si esauriva per i più nelle  pratiche del culto (le « religiones » di cui parla Livio)  esigendo, come condizione della propria esistenza, la fede  cieca e l'ignoranza superstiziosa. E proprio a questo pensarono il pretore urbano e il senato, che si affrettarono a far scomparire sul rogo i pericolosi libri, nei quali e filosoficamente provata ed attestata 1' origine del diritto  pontificale romano, cardine e fondamento primo dello stato,  dall'occultismo pitagorico. Se pure il motivo di tale distruzione non fu quello stesso per il quale Cicerone non volle troppo approfondire la ricerca e la dimostrazione dei rapporti fra il Pitagorismo e  i piu antichi istituti di Roma. Stando al racconto di Plu-     [egli, certo per ragioni cronologiche, chiama un « mendacio »  (XL, 29).   (1) Pythag. et la philos. pytkag.^ Parigi, Didier, [È interessantissimo a questo proposito il passo d’Agostino (De civit. dei), il quale spiega per quali ragioni demoniache Numa compone i suoi libri e poi li fece seppellire  nella sua tomba, e il Senato li fa abbruciare. Né meno interessante è il capitolo seguente in cui si parla delle arti « idromantiche » e delle evocazioni di Numa.]  arco, infine, questi libri erano stati scritti da Numa stesso  e per ordine suo sepolti con lui. E ciò perchè, secondo  la massima pitagorica, non era bene affidare la conservazione d'una dottrina segreta a caratteri senza vita, anziché alla sola memoria di quelli che ne sono degni. E,  forse, per questa medesima ragione i pitagorici romani  non dovettero fare molta opposizione alla proposta di  distruggere i libri stessi, gelosi come sono delle loro  dottrine, allora, come sempre, facilmente suscettibili di  scherno e di riso, se male interpretate o fraintese. Nel tempo in cui Ennio si adopera così efficacemente per introdurre in Roma l' antica sapienza della  Magna Grecia, di qui si diffondevano per l' Italia e penetrano nella grande metropoli anche i culti bacchici  e le sette orfiche, intimamente legate con le pitagoriche  per gli stretti rapporti che vi sono fra le due dottrine  segrete. Contro gli uni e le altre si pubblicano II senato-consulti e si istituirono tribunali (quaestiones de Bacchanalibus sacrisque noeturnis extra ordinem), che ne di-     [Sklden, nell'intro-  duzione dell'opera De jure naturali et gentium iuxta diseìplìnam, volendo sostenere ch.e  ogni sapienza viene dall’Oriente tre  volte rinnovata, di cui gli orientali erano i depositari, afferma invece  che Numa Pompilio e in segreto un adoratore del vero divino, che  i libri da lui lasciati e scoperti solo parecchi secoli dopo la sua  morte sono la giustificazione della sua fede e la glorificazione del  divino d’Oriente, e che appunto per questo il Senato ne ordina la  distruzione, perchè racchiudevano la condanna della religione di stato.    Ne pubblicò per tutta l'Italia uno (scoperto in Calabria) che ordina, fra le altre cose: Bacas vir ne-  quis adiese velet eeivis romanus neve nominus latini » .   mostrano la diffusione e la forza: e Livio ci riferisce il  violento discorso che il pretore Lucio Postumio Tempsano  pronunciò nell'anno 186 a. C. contro i seguaci dei mal-  vagi culti forestieri : « contra pravìs et externis religionidus captas mentes » (1). E ben vero che queste associazioni misteriose — “clandestinae conmrationes” come dice  Livio  — e questi culti sempre perseguitati dall' ortodossia romana venneno in parte dall' Etruria e dalla Campania, ma le ricerche giudiziarie ne fa scoprire diversi focolari nell'Apulia, in tutta l'Italia meridionale, e specialmente a Taranto, uno dei  centri d'origine del Pitagorismo. Così delle tavolette d' oro, scoperte recentemente in  tombe dell'Italia meridionale, presso l'antica Thiirium ci conservano l'eco di versi orfici che  sino ad ora non si conoscevano per altro che per una citazione di Proclo, neo-pitagorico. « lo     “L. Postumius praetor, cui Tarentum provincia evenerat reliquias Bacchanalium quaestionis cum omni  exsecutus est cura” – “L. Duronio praetori cui provincia Apulia evenera adiecta de Bacchanalibus quaestio est :  cuius residua quaedam velut semina ex prioribus malis iam priore  anno adparuerant ».  Cfr. Kaibel, Inscr, graecae Siciliae et Italiaè. Alcuni testi da lui omessi si trovano in Comparetti, Notixie degli  scavi^ e nel Journal of Hellenic Studies. Cfr. anche Comparetti Laminette orfiche edite ed illustrate^ Firenze. Framm. 224 Abel: «ótctcóte S'Sv^pcDTtog izpoXinx) ^àog "^sXCoio »  quasi uguale al fr. n. 642, 1 : « àXX' Ó7ióxa|j, ^^ux^ KpaXin-Q cpàog   sono sfuggita al cerchio delle pene e delle tristezze»,  grida in uno slancio di speranza l'anima che ha « subita  tutta intera la pena delle sue azioni inique » e che ora  « implorando il suo soccorso », s'avanza verso la regina  dei luoghi sotterranei, la santa Persefone, e verso le altre  divinità dell'Ade; essa si vanta di appartenere alla loro  «razza felice», e domanda ad esse che la mandino ora  nelle « dimore degl'innocenti » e attende da esse la parola di salvezza : « Tu sarai dea e non piìi mortale! »  In questi brani, dice Gomperz, bisogna vedere  redazioni diverse d'un testo comune piti antico. Parecchie  altre tavole, che risalgono in parte alla stessa epoca, trovate nelle stesse località. Altre sono state scoperte  nell'isola di Creta e datano dall'epoca romana posterior. Tutte prescrivono all'anima la sua strada nel mondo  sotterraneo. Ora è notevole il fatto che un cap. del  « Libro dei Morti » egiziano contiene una confessione negativa dei peccati, che sembra 1' amplificazione di quello  che le tre tavole di Turio condensavano in poche parole. In queste, come in quello, l'anima del defunto proclama  con enfasi la sua « purezza » e solo su questa purezza     YieXloio*. Il Kern (Aus der Anomia^ Berlino, richiama 1' attenzione su queste ed altre coincidenze. Y. anche  H. DiELS, nella raccolta dedicata al Gomperz, Vienna, -- Cioè alla serie delle rinascite e delle esistenze terrestri.  Gomperz, Les penseurs de la Qrèce^ Paris, Alcan, Y. JouBiN, Inscription crétoise relative à l'Orphisme, Bull.  de corr. héll.Y. qualche parallelo buddico in Rhys Davids, Suddhism,  Cfr. Maspéro, Bibl. Egyptol. e Brttgsoh, Steinin-schrift und Bibelwort. Y. anche Maspero, Hist. ancienne -- fonda la sua speranza in una felice immortalità. Se l' anima dell'orfico pretende di avere espiato « le azioni  inique » e quindi si sa liberata dalla sozzura che ne deriva, l'anima dell' Egiziano enumera tutte le colpe che ha  saputo evitare nel suo pellegrinaggio terrestre. Pochi fatti,  dice Gomperz, nella storia della religione e dei costumi sono tali da meravigliarci piii del contenuto di quest'antica confessione, in cui si vedono accanto alle colpe  rituali, e ai precetti di morale civile accolte da tutte le  comunità incivilite, l'espressione d'un sentimento morale  non comune e che ci può persino sorprendere per la sua  squisita delicatezza: « Io non ho oppresso la vedova! Non  ho allontanato il latte dalla bocca del lattante ! Non ho  reso il povero più povero! Non ho trattenuto, l'operaio  ai suo lavoro più del tempo stabilito nel contratto ! Non  sono stato negligente! Non sono stato fiacco! Non ho  messo lo schiavo in cattivo aspetto presso il suo padrone! Non ho fatto versare lacrime a nessuno!» Ma  la morale che scaturisce da questa confessione non si è  contentata di proibire il male; ha anche prescritto degli  atti di beneficenza positiva : « Dappertutto, grida il morto,  ho sparso la gioia! Ho cibato chi aveva fame, dissetato  chi aveva sete, vestito chi era nudo! Ho dato una barca  al viaggiatore in pericolo di arrivar tardi !» ET anima  giusta, dopo aver subito iiyiumerevoli prove, arriva finalmente nel coro del divino. « La mia impurità, grida piena  di gioia, mi è tolta, e il peccato che mi stava addosso  l'ho gettato. Giungo in questa regione degli eletti gloriosi.... » « Yoi che mi state dinanzi aggiunge rivolta agli  dei già nominati, tendetemi le braccia...., sono anch' io  uno dei vostri ! »  Nessuna meraviglia quindi che i filosofi del tempo  di ENNIO, quasi tutti venuti a Roma dal mezzogiorno,  fossero più o meno imbevuti di così fatte dottrine.   Di Stazio Cecilio, che fa parte del collegium poetarum dell'Aventino  e abita in Roma nella stessa casa con Ennio, ci restano  troppo scarsi frammenti perchè possiamo dir nulla del  contenuto morale e filosofico dell'opera sua. Certo però  r intimità sua col filosofo di Rudie dove esercitare un  qualche influsso sulla formazione del suo gusto e della  sua arte.   Con Ennio visse pure in Roma, frequentando anch'egli il circolo degli Scipioni, il nipote  Marco Pacuvio, che, nato a Brindisi, si ritirò poi  a Taranto. Che egli  dipendesse spiritualmente da Ennio, ne fanno fede, oltre  che l'esplicita dichiarazione di Pompilio: “Pacvi diseipulus dieor ; porro is fuit Enni^  Emiius Musar um^ Pompilius clueor^   -- i due frammenti del suo Ghryses^ nel primo dei quali  mostra la stessa libertà di spirito e di parola, rispetto ai  falsi sacerdoti, che anche notata Ennio:   .... nam istis^ qui linguam avium intellegunt,  plusque ex alieno iecorc sapiunt^ quam ex suo,  magis audiendum quam ausoultandum eenseo (1) ;     (1) pr. Cic. de div. I, 57, 181 ; il terzo verso anche pr. Nonio  246, 9. -- Si confrontino i versi di Ennio : Sed superstitiosi vates  impudentesque arioli, Aut inertes aut insani aut quibus egestas  imperai, Qui sibi semitam non sapiunt^ alteri monstrant viam. Quibus divitias pollicentur, ab eis draeumam ipsi petunt’, e gli   e nel secondo esprime intorno all'etere un concetto affatto,  pitagorico, che troveremo anche in Virgilio: v   hoc vide circum supraque quod complexu continet   terram....   solisque exortu capessit candorem, oecasu nigret, id quod nostri eaelum memorante Orai perhiheni àethera:   quidquid est hoe^ omnia animai format alit\ auget^ creai,   sepelit recipitque in sese omnia omniumque idem est pater,   indidemque eadem aeque oriuntur de integro atque eodem occidunt.  mater est terra; ea parit corpus^ animam aether adiugat. Istic est is lupiter' quem dìco quem Or acci vocant  a'érem: qui ventus est et nuhes; Ì7nber postea,  atque ex imhre frigus : ventus post fit, aer denuo,  kaece propter luppiter sunt ista quae dico tibi,  quia mortalis aeque turhas beluasque omnes iuvat.   Il passo, dice il Pascal {Antol. latina^ Milano.)  era libera traduzione del Crisippo euripideo, del quale è rimasto il  fr. 836 Nauck'; e trovò altro traduttore in Lucrezio. Se il pensiero esposto da Euripide del Cielo o Giove nostro padre  e della Terra madre risale al suo maestro Anassagora e peraltro indubbiamente abbastanza comune fra i mistici.    Questi versi ed alcuni altri, se sono per sé poca  cosa, tuttavia, tenuto conto della scarsità dei frammenti  superstiti di questi primi filosofi di Roma, mostrano una  certa continuità di pensiero, che non può sfuggire neppure  ad un esame superficiale. Così, per lasciare in disparte i     altri : « Qui sui quaestus causa fìctas suscitant sententias » e  « Omnes dant consilium vànum atque ad voluptatem omnia ».   (1) Congiunse così questi versi (citati in diversi luoghi da Varrone, Cicerone e Nonio) lo Scaligero. Questo concetto dell'aria poi  ricorda i versi dell' Epickarmus di Ennio :   (2) Y. per es. i fr. 46 e 52 del Pascal (p. 30 e 35).   versi di Accio, che ritornano sullo stesso concetto, e che  si possono anche spiegare con la dipendenza dai tragici  greci, nonché il suo concetto della virtu, come non  pensare alle dottrine pitagoriche — diretto o indiretto ne  sia stato r influsso — quando leggiamo sentenze come  queste di Sesto Turpili, l’una che  ci afferma la felicità consistere nella limitazione dei desiderii. “Profecto ut quisque minimo contentus fuit ita fortunatam vitam vixit maxime ut philosopki aiunt isti^ quibus quidvis sat est -- e l'altra che così definisce la difficoltà del sapere :   Ita est: verum haut facile est venire ilio uhi sita est sapientia.  Spissum est iter: ajnsci haut possis nisi cum magna miseria? E se i grammatici che ci hanno conservato i frammenti  di questo poeta (200 versi appena), avessero badato piu  al pensiero che alla forma e quindi ci avessero dato una  raccolta di sentenze, piuttosto che un catalogo di arcaismi     [V. i fr. 60 e 61 del Pascal (p. 41) e le note.   (2) Pascal (p. 42) : “nam si a me regnum Fortuna atque  opes Eripere quivit^ at virtutem non quìit » e « Scin ut quem-  eumque tribuit fortuna ordinem^ Numquam ulta humilitas ingenium infirmai bonum ?    (3) pr. Pbisciano III, 425 Keil. Il Pascal (p. 67) sl pkilosophi...  isti annota : « i Cinici ? » Io credo piuttosto che qui il filosofo, imitatore di Monandro, ha alluso ai Pitagorici, dei quaU sappiamo  quanto si siano burlati i comici ateniesi della commedia di mezzo,  di cui Gellio {N. a. IV, il) puo scrivere: mediae comoediae proprium argumentum fuit Fythagoreorum exagitatio ».   (4) pr. Nonio 392, 26 (Pascal, p. 67). Si notilo spissum iter.,  che forse può intendersi in senso proprio, non traslato.   e di idiotismi, potremmo forse citare altri passi ugualmente notevoli e significativi.   Così veramente notevoli sono le sentenze di comici  ignoti citate dal Pascal, che certo non sarebbero fuor  di luogo nei carmina aurea pitagorici e che riprendono  motivi etici, già da noi accennati, proprii tanto del Pitagorismo quanto di altri sistemi posteriori. Sui quique mores fingunt fortunam hominihus. Non est beatus esse se qui non putat. Is minimo egei mortalis, qui minimum cupit.  Quod vult habet qui velie quod satis est potest. In nullum avarus bonus est in se pessimus. Ab alio expectes alteri quod feceris. Beneficia in volgus eum largiri institueris  perdenda sunt multa^ ut semel ponas bene. Quid ? tu non intellegis   tantum te adimere gratiae quantum morae  adicis ? (S)     (1) pag. 68 sg.   (2) pr. Cic, Farad. 5, 35, che lo riferisce ad un sapiens poeta;  esso ricorda la sentenza di A. Claudio su citata. Secondo alcuni si  tratterebbe di un altro verso, che Lachmann ricompone così :  “suis fingitur fortuna cuique moribus. V. anche pr. Nepote, Vita  Att. Il, 6 ed altri, di cui Ribbeck, Gom. Fragm.^ p. 147.   (3) pr, Seneca, epist. 9, 21. Che la felicità e 1' infelicità, come  dice questa sentenza, siano proiezioni subbiettive dello spirito o non  l'effetto di cause esterne, è verità che i Pitagorici affermano ripetutamente Cfr. PuBL. Siro I, 56, Q, 7 Meyer.  Questa e la precedente pr. Seneca, epist. 108, 11. Cfr. la  prima sentenza di Turpilio su citata.   (5) pr. Seneca, ejìist. 108, 9.   (6) pr. Lattanzio, div. inst. I, 16, lO. Cfr. pr. Lampeid. Alex.  Sever. 51 : « quod tibi fieri non vis., alteri ne feceris » e nei Garm.  epigr. lat. 192, 3 Buecheler: «^ab alio speres, alteri quod feceris».   (7) pr. Seneca, de benef. I, 2 ; cfr. Ennio pr. Cic. de off. 18, 62:  « benefacta male locata malefacta arbitror » .   pr. Seneca, de benef. II, 5, 2. Così pare degni di nota sono i seguenti frammenti:   Felicitas est quam vocant sapientiam. Tutare amici eausam, potis es, suscipe.  Obicitur erimen eapitis^ purga fortiter.   In amici causa es, imm,o certe potior es. Iniuriarum remedium, est oblivio. Ma queste sono quisquilie, che, se pur dimostrano una  certa diffusione del pensiero pitagorico in Roma, non possono tuttavia essere prese per se come indizi di una vera  e propria tradizione locale. Poiché per le dipendenze della filosofia latina dalla ellenica è da credere  che anche gli accenni, spesso accidentali, a quelle dottrine  filosofiche, fossero presi di sana pianta dalle opere che i filosofi latini imitano o traduceno. Il fatto tuttavia di trovarli frequenti anche in opere  prettamente romane dimostra che le dottrine stesse avevano un contenuto ideale — morale specialmente — con-  sono allo spirito e ai bisogni del popolo romano, il quale,  sopra ogni cosa, ha un profondo senso del giusto, che  poi attuò nel suo mirabile sistema di leggi. Infine, anche dalle poesie satiriche di Caio Lucn.10  noi potremmo certo aver notizia del Pitagorismo, quale egli potè osservarlo praticato e seguito in  Roma al tempo suo, se ci restassero, dei suoi trenta libri  di satire, i libri XXVIII e XXIX, nei quali pare che si  occupasse principalmente di mettere in parodia e in derisione, ed anche di sottoporre a critica seria, sì pel conte-     [QuiNTiL. YI, 3, 97.   (2) Charis. V, p. 253 P.   (3) Seneca, epist.^ 94, 28.] nuto che per la forma, i filosofi, le loro opere e i loro  sistemi. Ma disgraziatamente anche di questo filosofo poco  o nulla ci resta. Anch'egli, bensì, come Ennio, ebbe mente  libera dai pregiudizi volgari. Ut pueri infantes credunt signa omnia ahena   vivere et esse homines^ sic ist soinnia fèda   vera putant credunt signis cor inesse in ahenis sono versi del 1. XV delle Satire. E un altro bellissimo  frammento, forse del libro IV, ci dimostra quanto alto e  nobile fosse il concetto ch'egli ebbe della virtu. Virtus, Albine, est pretium persolvere rerum quis in versatnm quis vivimus rebus potesse,   virtus est homini seire id quod quaeque valet res. Virtus seire homini rectum utile quid sit honestum quae bona, quae mala item, quid inutile, turpe, inhonestum ;   virtus quaerendae fène^n rei seire modumque ;   virtus divitiis pretium persolvere posse ;   virtus' id dare^ quod re ipsa debètur honori ;   hostem esse atque inimicum hominum morumque malo rum,   contra defensorem hominum morumque bonorum,   magnifècare hos, his bene velle his vivere amicum ;   commoda praeterea patriai prima putare deinde parentum^ tertia iam postremaque nostra. (1)     (1) fr. 354 del Bàhrens = Latta.nzto. I, 22, 13.  (1) fr. 119 del Bàhr. = Latt. VI, 5, 2.    D’Agostino (ci è stato conservato, dell'opera Yarroniana De gente populi romani un passo per  noi importantissimo: « Genethliaci quidam scripserunt esse  in renascendis Jiominibus quam appellant TraXtyysveatav  Graeci ; hanc scripserunt confici in annis numero CDXL ut idem corpus et eadem anima j quae fuerint coniuncta  in cor por e aliquando, eadem rursus redeant in coniunetionem » . Chi erano mai questi scrittori, i quali credevano  nella risurrezione dell'anima e della carne e ne fissavano  persino il compimento nello spazio di quattrocento e quaranta anni? Essi erano studiosi di discipline magiche ed  astrologiche, a cui si davano anche i nomi di magi di  caldei e di matematici. Abbastanza numerosi in Roma col decadere dei culti ufficiali e l'in-     [De civitaie dei, XXII, 28.] filtrarsi di riti stranieri, massimamente dall'Egitto e dall'Asia, divennero a grado a grado così potenti da trovarsi persino ad essere qualche volta arbitri delle sorti dello  stato. Poiché, come dice Pascal in un suo geniale e  interessante studio, svolgendo in particolare la dottrina  della resurrezione dei morti (filiazione diretta della metempsicosi pitagorica) la fecero entrare in un sistema di loro  particolari teorie, la congiunsero con predizioni contenute  nei sacri oracoli della Sibilla, e presunsero anche di conoscere dall'osservazione delle stelle il corso degli eventi  umani. Essi non partivano, come gli aruspici e gl'indovini,  dal concetto che gli dei manifestassero la volontà loro per  mezzo di segni particolari, ma dal concetto, razionalmente  svolto, « che tutto fosse armonico e regolato da leggi e da  rapporti immutabili nell'universo e che quindi, all'apparire  di determinati fatti o fenomeni dovesse normalmente seguire l'avverarsi di determinati eventi umani » . Era dunque,  aggiunge Pascal, « un tentativo di giustificazione scientifica, tratta dal fondo della dottrina pitagorica e platonica,  della credenza popolare che la vita di ciascun uomo fosse  regolata dall' astro che lo aveva visto nascere. Strani  davvero questi filosofi che si sforzano di ribadire  con argomenti razionali e di ridurre a ragioni scientifiche  le superstiziose credenze del volgo! e che riescono tanto  bene nel loro proposito da far sentire a Favorino il bisogno di abbattere con una confutazione sistematica il loro edifizio logico, ancora saldo sulle sue basi   [La resurrezione della carne nel mondo pagano, in Atene e  Roma, e in Fatti e leggende di Roma antica, Firenze, -- AULO Gellio, Noct. Att. XVI, 1, riporta quasi testualmente  il discorso di Favorino a più di due secoli di distanza! Io in verità non posso acconsentire col Pascal che quest'idea di un ciclo mondano computato a quattro secoli di 110 anni ciascuno venisse ai Genetliaci dalla tradizione popolare: gli argomenti che Pascal porta a sostegno della sua affermazione  mi inducono piuttosto a credere il contrario e cioè che  l'idea stessa fosse comune alla filosofia mistica greco-italico-romana e da, questa passasse poi al volgo per  mezzo dei responsi sibillini e dei poeti che l'accolsero  e la diffusero per il popolo. Di più, un'altra credenza  notevolissima fu propria e del Sibillismo e dei Genetliaci:  la credenza cioè che ultimo dio del ciclo mondano dovesse  essere il Sole od Apollo che avrebbe bruciato l'universo e riportata l'età dell'oro, con gli antichi uomini  rinnovati alla vita; quell'Apollo che pure Orazio (Carm.  I, 2) invoca perchè venisse a redimere l'umanità dal  peccato. Tandem venias precamur^  ISube candentes umeros amictus  Augur Apollo.  Così Cicerone ci parla nel De divin. II, 46, 97 di un' altra  scuola di astrologi per la quale 1'estensione di tempo era molto  maggiore, e cioè di 470000 anni !   (2) pr. Probo a Yirg. Ed. IV, 4 : « La Sibilla cumana ha pre-  detto che dopo quattro secoli sarebbe avvenuta la palingenesi ».   Orazio, I, 2, v. 29 e sg. ; Virgilio, Ed. IV, lO ; Aen. VI,  748-751; Ovidio, Melavi. I, 89 sgg.; Persio, Sat. V, 47 sg.   Servio nel commento al v. 10 della IV ecl. di Virgilio riporta  il seguente passo del quarto libro de diis di P. Nigidio Figulo :  “Quidam deos et eoì'um genera temporibus et aetatibus fdistin-  guunt)., inter quos et Orpheus; prim,um, regnum, Saturni^ deinde  lovis^ tum Neptuni^ inde Plutonis ; nonnuUi etiam^ ut magi, aiunt  Apollinis fore regnum,, in quo videndum est., ne ardorem sive illa  ecpyrosis adpellanda est., dieant » . Vedasi anche il Lobeck, Aglaophamus^ pag. 791 sgg.   La rigenerazione degli uomini e la conflagrazione dell'universo per virtù di Apollo — conflagrazione probabilmente simbolica e che tuttavia potè essere aspettata da  alcuno come reale ed effettiva — furono dunque due  concetti paralleli ed uniti anche nel dogma pagano, e più  precisamente in quelle dottrine mistiche, nelle quali sappiamo quanta parte e che profonda significazione avesse  il mito apollineo e solare, E come può tutto questo essere  stato creazione popolare? Veramente forse un po' troppo,  e non solo in fatto di mitologia e di credenze, si vuole  attribuire al popolo, a questo essere impersonale, così immaginoso e così balordo, così ricco di fantasia e così credenzone! Non è assai più verosimile pensare a una genesi  più elevata e razionale, a una creazione veramente intellettuale e FILOSOFICA, che, passando dai dotti agli indotti,  dai sapienti agi' ignoranti, si materializza e degenera dall'essenza primitiva, o, meglio ancora, acquista con moto  parallelo e continuo, nuovi aspetti e nuove significazioni  realistiche e concrete?  In ogni modo siamo così arrivati alle più grossolane  deformazioni che il pensiero pitagorico dovette subire in Roma, uscendo dal segreto sacrario delle scuole dei saggi  e mescolandosi, in mezzo al popolo, a credenze d'altra derivazione. Non è quindi meraviglia che siffatte credenze,  aberrazioni d'un pensiero originariamente profondo, fossero,  come vedremo più innanzi; oggetto di riso nel teatro popolare, e d'altra parte si spiega assai bene come i seguaci  del Pitagorismo dell'antica maniera, per sottrarre le loro     [Y. il passo dei Garm. Sih.JN^ 175 sgg., forso dell'Sl od 82  d. C, citato dal Pascal e che questi crede composto da qualche  terapeuta od esseno.  dottrine al ridicolo cui venivano esposte nei loro contatti  col popolo, sentissero il bisogno di raccogliersi nuovamente  in segreto, nel silenzio delle loro case e delle loro scuole,  per meditare, lontano dal profanum vulgus, V antica sapienza loro tramandata attraverso tante generazioni.   Chi sopra ogni altro si curò di far rivivere la filosofìa di Pitagora, che, in un certo senso, poteva dirsi ormai  estinta come complesso di teorie e d'insegnamenti pratici  ben distinti da quelli di altre scuole, fu un grande sapiente,  del quale in verità ben poco sappiamo, contemporaneo e  amicissimo di CICERONE. Il quale appunto nel proemio del  Timaeus seu de Universo lasciò scritto parlando di P.  Nigidio FIGULO: « Fuit vir ille cum ceteris artihus, quae  « quidem dignae libero essente ornatus omnibus^ tum acer  « investigator et diUgens earum rerum quae a natura invo-  « lutae videntur » . E poi continuava: « Deniqiie sic ludico  « post illos nobiles Pythagoreos^ quorum disciplina exstincta  « est quodam modo^ ìiunc extitisse qui illam renovaret » .   Senatore, pretoro, legato in Asia, e infine esiliato da C.  Griulio Cesare, forse non soltanto,mper  aver seguita la causa di Pompeo. (2).     (1) Cicerone nel Timeo ir. 1, t. Vili p. 131 Bait. ci dà notizia  di questa sua legazione con le parole : « Nigidius, eum. me  in Gilieiatn profieiscentem Ephesi expectavisset, Romam, ex legatìone ipse decedens.” SvETONio fr. 85 = Hieron. ad Euseb. ckron. olimp. 183,4 = 45  a. C. : « Nigidius Figulus Pythagoricus et MAGVS in exsilio moritur ». Si noti che ancora una volta vediamo qui congiunti, come  nella tradizione che si riferisce a Numa e come, del resto, sempre,  il Pitagorismo e la magia. S. Agostino (De civ. dei) parlando  di Nigidio, lo chiama « mathematicus ».   Per il suo sapere fu giudicato secondo ai solo Yarrone,  e benché non ci restino che pochi e scuciti frammenti  dei suoi scritti, pure sappiamo che FIGULO scrive molto e  con profondità di ricerche « che arrivava fino all'astruseria », come dice il Giussani, cioè oltrepassava quel limite  al di là del quale gli equilibrati uomini comuni non vedono che nebbie e fantasmi, immaginazioni e utopie. Sam-  MONico, come ci riferisce Macrobio (II, 12) lo disse « maximus rerum naturaUum indagator », e lo stesso Macrobio  [Sat. YI, 8) lo dice « homo omnium bonàrum artlum di-  scipUnis egregius » , e così pure Cicerone, come s'è visto,  lo giudica acuto e diligente studioso dei più involuti fenomeni naturali, e precisamente di quelle ricerche e di quegli  studi, che furono la cura di pochi solitari d' ogni tempo,  quasi sempre, forse a torto, misconosciuti dai più. AGOSTINO lo disse * matematico ' e Svetonio ' pitagorico e  mago '. Ora, che Nigidio fosse, o almeno tosse ritenuto  mago, dimostrano anche altre testimonianze e dello stesso  SvETONio e di Apuleio e di Dione Cassio. Il primo racconta  come cosa nota a tutti che il giorno in cui Ottaviano nacque, discutendosi in Senato intorno alla congiura di Catilina, ed Ottavio, per causa appunto della moglie partoriente,  essendo arrivato un po' in ritardo, Publio Mgidio, conosciuta la causa dell'indugio e l'ora precisa del parto, afferma  che era nato uno che sarebbe stato signore di tutta la terra. Una predizione, dunque, dovuta, secondo il racconto     [Cfr. NiGiDii FiGULi operum reliquiae collegit A. Swoboda, 1889.   (2) Storia della Ietterai, romana^ Vallardi, 1902, p. 230.   (3) SvETON., Aug. 94: “a quo natus est die, cuni de Catilinae coniuratione ageretur iti Curia et Octavius ab uxDris puerperium  serius adfuisset, nota ac vulgata est res P. Nigidium comperta     — si-  che di essa fa, con qualche leggera variante, Dionb Cassio  (1. XLY, cap. T), alle elucubrazioni astrologiche di Nigidio. Apuleio a sua volta riferisce di aver letto in  Varrone che un certo Fabio, avendo smarrito una forte  somma di denaro, anda da Nìgidio per consultarlo e questi,  per mezzo di fanciulli eccitati (instinctosj con sortilegi ed  incantesimi (Carmine) ossia, coma oggi si direbbe, ipnotizzati con parole o formule magiche, gli seppe dire dov'era  stata sepolta la borsa con una parte delle monete, che le  altre erano state distribuite, e che una ne aveva anche il filosofo Catone; ciò che fu pienamente confermato dai  fatti. E dove mai aveva acquistate il nostro filosofo siffatte  conoscenze magiche ed astrologiche? Forse durante un  viaggio in oriente? Non sappiamo, sebbene d'altro lato sappiamo che appunto in oriente o nella  Grecia impara che la terra si muove con la velocità della  ruota di un vasaio (2).     – “morae causa, ut horam quoque partus acceperit, adflrmasse domù  num terrarum orbi natum.” (1) De magia 42, p. 53, 9 Krueg. « Mernini me ajìud Varronem philosophum, virum accuratissime doctum atque eruditum,  eum alia eiusm,odi, tum, hoc etiam, legere... item,que Fabium,^ cum  quingenios denarium perdidisset ad Nigidium consultum, venisse;  ab eo pueros cannine instinctos indicavisse ubi locorum defossa  esset crumena cum, parte eorum, celeri ut forent distribuii^ unum  etiam denarium^ ex eo numero habere CATONEM philosophum^ quem  se a pedissequo in stipem Apollinis accepisse Caio confessus est ».   Ciò si desume da una nota del Commentum a Lucano dove è detto che Nigidio ha il soprannome di Figulo perchè « regressus a Oraecia dixii se didicisse orbem ad celeritaiem rotae  figuli torqueri.” Del soprannome altri davano una ragione un po'  diversa, in rapporto con la famosa obiezione dei due gemelli così  spesso fatta agli astrologi e di cui fanno ricordo, fra gli altri, lo     [Quanto alle opere di Nigidio, del quale sappiamo ancora  che usava una dieta assai parca, possiamo dire che  furono molte e di varia natura. Nigidio scrive di filosofia,  di astrologia e anche di filologia. Di lui si ricorda  un'opera intorno agli dei in almeno XIX libri, nel quarto  dei quali, per esempio, trattava dei vari regni ed età degli  dei, secondo Orfeo e i Magi, e nel sesto e nel decimo  accennava alla teoria etrusca delle quattro specie di dei  penati : quelli di Giove, quelli di Nettuno, quelli degl'Inferi e quelli degli uomini, cioè, probabilmente, gli spiriti celesti, acquatici, terrestri (gli elementari dell' occultismo) ed umani. Perchè di quest'opera ci  restino così pochi frammenti, appena dieci, lo dice il grammatico Sp:rvio in una nota slU.^ Eneide (X, 175): <i^ N'igidius  solus est post Varronem ; licet Varrò praecellat in theologia^ Me in eommunihus litteriSy nam uterque utrumque  scripserunt » . La luce di Varrone dunque oscura quella  di Nìgidio, i cui libri intorno agli dei erano letti soltanto,  come dice lo Swoboda, dagli investigatori della dottrina stoico Diogene presso Cicerone (De divinai. II, 43, 90), Gellio,  N. A. XIV, 1, 26, lo PsEUDO Quintiliano {Deelam. Vili, 12) e S.  Agostino 1. e.   (1) IsiDOR., Origin. XX, 2, 10: Nigìdius : nos ìpsi ieiunìa ientaeulis levibus solvimus.   Egli sostenne, come ci attesta Gellio N. J.., X, 4, CHE IL LINGUAGGIO E D’ORIGINE NATURALE E NON CONVENZIONALE. Arnob. adv. nat. Ili, 40, p. 138, 5 seg. Reiff : « idem (Ni-  gidius) rursus in libro VI exponit et X, disciplinas etruseas sequens, genera esse Penatium quattuor et esse lovis ex his alios^  alios Neptuni.^ inferorutn tertios, mortalium hominum quartos.,  inexplicable nescio quid dieens » .   (4) P. NiGiDU FiGULi operum reliquiae coli, emend. enarr. quaestiones nigidianas praemisit Ant, Swoboda, Vindob., 1889, p. 25, ] più recondita, come, ad esempio, quel Cornelio Labeone,  uomo assai dotto. Di  Nigidio sono ricordati anche tre scritti intorno alla divinazione per mezzo delle viscere e intorno ai sogni,  una Sphaera graecanica e una Sphaera barbarica,  un libro intorno agli animali ed altri, interamente o quasi interamente perduti.  Un'altra causa di questa perdita è spiegata in parte da  Gellio (N. a.) il quale ci fa sapere precisamente che mentre le opere di Varrone erano lette e conosciute da tutti « Nigidianae commentationes non proinde  in vulgus exibant et obscuritas subUlitasque earum tamquam parum utilis derelicta est » . Dunque gli scritti di  Nigidio hanno un carattere piuttosto riservato e segreto,  sono poco intellegibili ai piìi per la loro sottigliezza. E  che significa cotesta oscurità e sottigliezza che è poi ab-  bandonata perchè poco utile? e da chi fu abbandonata?  dai lettori o dagli scrittori in genere o dai cultori di quelle  stesse dottrine filosofiche ? Se noi pensiamo alla diffusione  delle conoscenze pitagoriche, sempre maggiore dal tempo  della morte di Figulo a quello in cui Gellio scriveva e all'infinito numero di profezie, di predizioni, di oracoli che sempre piìi chiaramente annunziavano  l'avvento di un'età nuova e di uomini migliori ; se pen-  siamo che fu questa appunto l'età nella quale,     (1) Si veda, intorno a lui, Kettner, Cornelius Labeo, Progr. Port,  dell'anno 1877.   (2) Gellio, N. A. XVI, 6, 12.   (3) Giov. LoR. Lido, de ostentìs e. 45 p. 95, 14 — 96, 3 Wachsm.   (4) Serv. ad Georg. I, 43 e I, 2l8.   (5) Serv. ad Qeory. I, 19.    [in Roma fece la sua apparizione  la strana figura di Apollonio di Tjana, il Pitagora redivivo, che ebbe immagini e culto divino da parte degl'imperatori, non può esservi alcun dubbio. Se Figulo e costretto ad insegnare in segreto e a pochi fedeli amici  le conoscenze che aveva, avvolgendole in oscure sottigliezze  nei suoi scritti (e, non ostante tale precauzione, ha molte  noie) ; se lo stesso dovettero fare, dopo di lui, i Sestii, che sono ugualmente perseguitati; le  vecchie dottrine di Pitagora andano tuttavia sempre più  diffondendosi, sì che fu permessa via via maggior libertà  di parola e d'azione ai loro seguaci, che poterono finalmente abbandonare in gran parte la segretezza e il mistero in cui si chiudevano e il simbolismo oscuro di cui  si servivano prima. LUCANO nella sua “Farsaglia” riferisce una  oscura predizione di Nigidio, che com'egli dice, si studia di conoscere il divino e i segreti del cielo e in queste conoscenze astrologiche e superiore ai sapienti dell'Egizia  Menfi – “At Figulus, cui cura deos secret ac/ue caeli  nosse fuit quem non stellarum Aegyptia Memphis  acquar et visu numerisque moventibus astra aut hic errata ait, ulla sine lege per aevum  mundus et incerto discurrunt sidera motu :  aut, si fata 7novent, orbi generique paratur  humano maturalues  Nigidio predice dunque alla terra e agli uomini un vicino  flagello, proprio come, prima di lui, avevano fatto e con  lui facevano i Genetliaci. Ora, dobbiamo noi veramente  pensare, a proposito di siffatte predizioni, che si tratti di semplici manifestazioni sentimentali del desiderio di tempi  migliori? Certo le condizioni dei cittadini romani e del  mondo, su cui l'aquila di Roma anda stendendo e allargando sempre più le sue ali insanguinate, erano assai tristi. Ma d'altra parte le predizioni sono troppe e troppo precise  talvolta per non dover pensare a qualche relazione, misteriosa  senza dubbio e in parte inesplicabile, ma pure innegabilmente certa.   Comunque sic^, poiché, secondo le parole surriferite di  Cicerone, con Nigidio Figulo si inizia in Roma un vero  e proprio risveglio delle dottrine pitagoriche, vediamo ora  in qual guisa egli tentasse questo rinnovamento dell'antica disciplina italica.   Noi possiamo desumerlo da altre testimonianze, le quali  non solamente accennano a una vera e propria scuola, a  un sodaliciumy a una factiOy ma vi accennano in modo,  che possiamo anche comprendere quale fine il sodalizio  stesso abbia avuto, o almeno in quale considerazione fosse  tenuto da chi, forse troppo tenero e non disinteressato  amico del nuovo ordine di cose creato in Roma dal trionfo  di Cesare, accoglieva, senza approfondirle uè vagliarle troppo, accuse vaghe e imprecise formulate contro i fautori  dell'antico regime repubblicano. Si leggono infatti negli  scolii bobbiensi all'orazione di Cicerone contro Vatinio  queste notevolissime notizie. “Fuit autem illis temporibus NIGIDIUS quidam vir doctrina et eruditione studiorum praestantissimus, ad quem plurimi conveiiiebant. Haec ab obtrectatoribus velati factio ininus probabili s iactiabatnr, qaamvis ipsi Pythagorae sectatores existimari vellent.”    l(1) V. tomo V, part. 2, p. 317 delI'Orelli.   -- A altrove si dice di un tale che € ablit  “in sodalicium sacrilegii Nigidiani.” In casa sua dunqae  Nigidio radunava molte persone, che vi si iniziavano ai  misteri della filosofia pitagorica e forse anche vi si dedicano a pratiche mistiche, come ci persuade la ciarlataneria di quel Vatinio, che, volendo farsi credere pitagorico  e dottissimo, fa evocazioni di morti e si abbandona  a nefandità d'ogni genere. E questi convegni finirono  col suscitar dicerie, maldicenze, sospetti, calunnie, e vi  furono degli ohtrectatoreSy i quali andavano sussurrando  qua e là che quella era una setta riprovevole e sacrilega;  le quali calunnie, credute tanto più facilmente quanto minore era il numero degli onesti in quei tempi così torbidi,  furono forse un ottimo pretesto per legittimare l'allontanamento da Roma e l'esilio di un uomo d'antica tempra  repubblicana. Che poi il tentativo di NIGIDIO ha un  carattere anche politico e che egli vagheggiasse, nella rico-  stituzione del sodalizio pitagorico e quindi nella eguaglianza  sociale e nella comunanza dei beni, il sogno della nuova  felicità umana, è cosa più che probabile, ma non certissima. E così il sapientissimo mago, il maestro pitago-    [PsEUD. CicER. in Sali.]   – “Tu qui te Pythagoriaum soles dieere et hominis doctissitni  nomen tuis immanibus et barbar is moribus praetendere cum  inaudita ac nefaria saera susceperis eum infernrum animas elicere, Gum puerorum extis Deos manes rnaetare soleas » Cicesone,  in Vatinium. Dal che si può vedere, sia detto incidentalmente, che lo spiritismo non è un'invenzione moderna!   V. quanto afferma a proposito di lui e dei Sestii Pascal. Il rinnovamento umano negli scrittori di Roma antica (Riv. d'I-  talia, Fatti e leggende, Firenze,  Le Monnier).  rico, il matematico P. Nigidio muore nell'esilio, nel tempo stesso che ìp Roma intercedeva per lui, allo scopo di ottenerne il richiamo in patria, l'amico Cicerone. Ma dove  essere davvero tenuto per uomo assai pericoloso il sacrilego Figulo, se, non ostante che i famigliari di Cesare e  quelli ch'egli ha più cari ne parlassero con ammirazione  e ne avessero alta stima, il divo lulio non si lascia troppo  commuovere, a favore del fiero repubblicano ! Gli è che  in verità in quel momento di trapasso dalla repubblica  (o meglio dall'anarchia) all'assolutismo l'interesse dello  Stato e della giustizia aveva assai piccolo valore, di fronte  agli interessi e alle ambizioni dei singoli competitori.  Tutto questo si rileva da una lettera, fortunatamente conservataci, nella quale Cicerone, dando notizia all' esiliato  delle pratiche ch'egli fa indirettamente presso Giulio Cesare  e delle speranze che aveva di poter presto riuscire a ottenergli il perdono, dice cose così interessanti e adopera  espressioni di così alta stima, che metterebbe conto davvero  che la riferissimo per intero. Basti accennare tut-  tavia che egli si rivolge a lui come ad uomo « uni  omnium doctissimo et sanctissimo et maxima quondam  gratta e suo amicissimo, e che accingendosi a conso-     [È la lettera 13* del quarto libro Ad familiars. In essa dice bensì Cicerone : « Videor mihi prospicere primum ipsius animuìn, qui plurimufn potest, propensum ad salutem  tuam », ma questa era la semplice illusione, creata in lui dall' amicizia che aveva per Figulo e dal desiderio che sentiva del suo  ritorno ; poiché in realtà il filosofo e lasciato morire in  esilio. E sì che — come aggiunge ancora Cicerone — « familiares  eius (cioè di Cesare), et ii quidein, qui UH iucundissimi sunt,  mirabiliter de te et loquuntur et sentiunt » e di piii « accedit eodem  vulgi voluntas vel potius consensus omnium » !]  larlo crede opportuno di premettere : « at ea quidem facultas vel tui vel alterius consolandi in te summa est si  umquam in ullo fuit.” Cosicché, “eam partem quae ab exquisita quadam ratione et doctrina proficiscitur, non  attingam: tibi totani relinquam -- e concliiudendo termina  col pregarlo “animo ut maximo sis nec ea solum memineris, quae ab aliis magnis virls accepistij sed illa etiam,  quae ipse ingenio studiisque peperisti. Quae si colliges et  sperabis omnia optime et quae aecident, qualiacamque erunt,  sapienter feres. Sed haec tu melius vel optime omnium.” Ora se insieme con queste eloquenti e perspicue parole  si ricordano i versi citati della “Farsaglia”, e se si pensa  ancora al contenuto dei frammenti che di questo sapiente  ci sono rimasti e ai titoli delle opere ch'egli scrisse, possiamo formarci un'idea approssimativa del genere di dottrina e di conoscenze che ha e di cui si fa maestro:  il misticismo pitagorico, la dottrina dei numeri, la divinazione (quella che oggi si dice chiaroveggenza) in tutte  le sue forme, l'astrologia; il tutto espresso e significato in  un modo oscuro e involuto, forse per via di simboli, che  fu poi una delle cause maggiori, se non la maggiore di  tutte, per la quale le opere di lui furono poco lette e a  poco a poco caddero nell'oblio.  E dopo la morte del maestro, che ne fu dei suoi  seguaci? Probabilmente non si dispersero e continuarono  a riunirsi. Tanto piu che non manca certo fra loro chi  potesse indirizzarli e illuminarli con la sua autorità e la  sua dottrina. In quegli stessi anni infatti, o poco dopo,  ci fu in Roma un'ALTRA setta, ch'io non dubito punto fosse  continuazione di quella di Nigidio, o certo frutto dei suoi  insegnamenti: voglio alludere alla “Sextiorum nova et  romani rohoris seda » la quale però « Inter initia sua,  quum magno impetu coepisset, extincta est » Decisamente i tempi non erano favorevoli alla filosofìa, anzi a  certa filosofia! E in verità non potevano essere molti quelli  che, in Roma, desiderassero di attendere sul serio alle  speculazioni filosofiche: le ricchezze e la potenza della  nuova Roma imperiale offrivano troppi svaghi, troppi divertimenti, troppe orgie, perchè vi fosse tempo e voglia  di dedicarsi a meditazioni gravi ed ingrate! Cosicché gli sforzi di quei pochi, i quali avrebbero pur voluto richiamare i concittadini alla serietà d'una vita meno fatua e  più dignitosa, dovevano riuscire vani o sortire effetti poco  duraturi.   Chi furono cotesti Sestii, ai quali accenna Seneca? Le  notizie che ce ne sono rimaste sono assai scarse, ma sufficienti tuttavia a farceli ammirare, in tempi di tanta corruzione, come uomini desiderosi piu delle gioie del pensiero che di quelle dei sensi, amanti più della verità e della  scienza che delle ricchezze e degli onori; come uomini  infine, nei quali tanto più risplende l'onesta virtù, quanto  maggiori intorno si addensano le tenebre del vizio. Del primo di essi, di nome Quinto, parla specialmente,  e sempre con parole di profonda e sentita ammirazione,  il più grande dei moralisti romani, SENECA, in quelle sue  mirabili Lettere a Lucilio piene di tanta filosofica sapienza  e così degne d'essere studiate e meditate più che non  siano! In una di queste, la novantottesima, volendo Seneca provare al suo alunno Lucilio che spesso molti disprezzarono quei  beni che i più desiderano come fonti di felicità, cita gli  esempi di Fabrizio e di Tuberone, e poi aggiunge che il     [ Seneca, Quaest. nat. cap. ultimo.] padre Sestio, pur essendo nato in tali condizioni da dovere  un giorno governare la cosa pubblica, rifiuta persino la  carioa di senatore, offertagli da Giulio Cesare. Poiché egli  non annette alcuna importanza ai pubblici onori, ritenendoli, come sono, troppo incerti e transitory. Una  rinunzia di questo genere non e certamente cosa che  tutti sapessero e volessero fare in quei tempi di sfrenate  ambizioni ; e tanto meno poi per ragioni filosofiche! Ma  tanfo: il nostro Sestio ambiva per la sua persona altro ornamento che non fosse il laticlavio : ornamento meno  visibile e meno ricercato, ma più dignitoso e più vero,  che fosse conquista della sua intelligenza e della sua virtù,  che nessuno potesse riprendergli e che egli potesse liberamente trasmettere senza pericolo di manomissioni o di  latrocinii, l'ornamento insomma della sapienza; per la quale e acceso di tanto amore, che non facendo, in sul principio,  progressi sufficienti a soddisfare appieno il suo vivo desiderio, fu sul punto, un giorno, di suicidarsi. Come degli onori, ei non fu avido neppure dolle ricchezze; anzi si racconta di lui che, trovandosi in Atene,  ripete quanto fa il filosofo Democrito, il quale,  avendo previsto da certi segni astrologici una carestia d'olio,  prima dell'epoca del raccolto — che la bellezza delle olive  faceva sperare sarebbe stato abbondante — comperò a buon     [€ Honores repulit pater Sextius, qui, ita natus ut rempuhlicam deberet capessere, latum clavum, divo lulio dante, non recepii; intelligehat enim, quod dari posset, et eripi posse.” Plutarco, « Del modo di conoscere i propri progressi nella  virtù », § 5: « KaGànep cpaol Ségxtóv xs xòv 'Pa)|iaIov àcpetxóxa xàg  èv x-^ TióXst xtjjiàg xal ipxàg 5ià cpiXoaocpiav èv òè xqi cptXoaocpsIv  aB TiàXiv 5uo7ia'9-oQvxa xal xp(tà\),e>foy xtp Xóyt}) x^^®'^"^? "^^ np{bzo)t,  dXtyow Ssyjaat xaxa3aX«tv éaoxòv ix xivog Sti^poug ». mercato tutto l'olio del paese, e poi, sopravvenuta realmente la carestia, restituì ai primi proprietarii la merce  acquistata, appagandosi d'aver provato così che gli sarebbe  stato facile arricchirsi quando lo avesse coluto. Ma che uomo era Sestio! Che scrittore vigoroso e ardito,  e come diverso da tanti filosofi che scrivendo siedono in  cattedra, discutono, cavillano, e non danno all'anima alcun  vigore perchè non ne hanno! A leggere Sestio — son parole di Seneca - si sente ch'è pieno di vita e di vigore,  uno spirito libero e superiore, uno che ha virtù d'ispirarti  sempre una gran fiducia in te stesso ! In qualunque stato  d'animo, quando si legge il suo libro, si sfiderebbe la  fortuna e si avrebbe la forza di lottare contro qualsiasi ostacolo! Poiché Quinto Sestio ha questo grande merito, che, pur  mostrandoti tutta la grandezza della felicità suprema, non  ti fa disperare di raggiungerla. Quinto Sestio la mette bensì molto  in alto, ma in luogo accessibile a chi la voglia conquistare, sì che ammirandola tu speri. Quale più alta lode     [Plinio, Naturalts Historia: “Ferun  Demoeritum, qui primus intellexit ostenditque curri terris caeli  societatem, spernentibus hanc curam eius opulentissimis civium,  praevista ohi cavitate ex futuro Vergiliarum or tu.... magna tum  vìlitate propter spem olivae, coemisse in toto tractu ornne oleum,  mirantibus qui paupertatem, et quietem doctrinarum ei sciebant  in primis cordi esse. Atque ut apparuit causa, et ingens divitia-  rum cursus, restituisse mercem anxiae et avidae dominorum, poe-  nitentiae, contentwm ita probasse opes sibi in facili, quum vellet,  fore. Hoc postea Sextius e romanis sapientiae adsectatoribus Atkenis  fecit eadem ratione.”   (2) Seneca, Epistola – “Lectus est deinde liber Quinti  Sextii patris; magni, si quid miài credis, viri, et, licet neget.  Stoici. Quantus in ilio, Dii boni, vigor est, quantum anim,i! Hoc  non in omnibus philosophis invenies. Quorumdam, scripta clarum] per un uomo, di questa entusiastica esaltazione fatta da  Seneca ?   E i suoi insegnamenti poi quanto erano sentiti e pro-  fondi, altrettanto erano semplici ed eificaci. Vuoi tu persuadere un uomo della bruttezza dell'ira? egli ammaestrava:  portalo, mentr'è adirato, innanzia uno specchio e fa che  vi si veda riflesso ; poi fagli intendere che s'ei vedesse a  quel modo anche l'orridezza dell'anima sua sconvolta ed  agitata ne sarebbe atterrito. Della onestà e della virtù  egli ebbe così alto e giusto concetto che sostenne l'uomo   habent tantum nomen, cetera exsanguia sunt. Instìtuu7it, dìspu-  tant, cavillantur : non faciunt animum, quia non habent. Quuni  legeris Sextium, dices: Vivit, viget, liber est, supra hominem est,  dimittit tne plenum ingentis fiduciae. In quacumque positione  mentis sim; quum hune lego, fatebor tibi, libet omnes casus pro-  vocare, libet exelamare : Quid eessas, Fortuna? congredere! para-  tum vides. Illius animum induo, qui quaerit ubi se experiaiuT,  ubi virtutem suam ostendat,   Spumantemque davi pecora inter inertia votis  Optai aprum, aut fulvum descendere monte leonem.   Libet aliquid habere, quod vincam, cuius patientia exereear.  Nam hoc quoque egregium Sextius habet, quod et ostendet Ubi  beatae vitae ìuagnitudinem, et desperationem eius non faciet. Seies  illam, esse in excelsOy sed volenti penetrabilem. Hoc idetn virtus  tibi ipsa praestabit, ut illam admireris, et tamen speres.” Seneca, De ira^ lib. II, oap. 36 : « Quibusdam, ut ait  Sextius iratis profuit aspexisse speculum; perturbavit illos tanta  mutatio sui: velut in rem praesentem adducti non agnoverunt se,  et quantulum ex vera deformitate imago illa speculo repercussa  reddebat ? animus si ostendi^ et si in ulta materia perlueere pos-  set., intuentes nos confunderet, aier maculosusqite, aestuans., et  distortus, et tumidus. Nunc quoque tanta deformitas eius est per  ossa carnesque, et tot impedimenta., effiuentis : quid si nudus o-  stenderetur ? et e. onesto non per altro essere inferiore al sommo Giove, che  per avere una virtù meno stabile e duratura ; ma per tutto  il tempo in cui si conservi onesto essere altrettanto felice  quanto Giove, non essendovi tra la perfezione e quindi  la felicità umana e la divina differenza se non di durata.  Ond'è che egji potè veramente additare ai volonterosi il  bel cammino della virtù ed esclamare : « Di qui si monta  alle stelle! di qui: seguendo frugalità, temperanza^ for-  tezza » — e non già (par quasi sottintendere) per decreto di  popolo di senato ! — e potè confortare anche all'ascesa,  persuadendo che gli dei aiutano i buoni stendendo ad essi  la mano. . . . (1).     (1) Seneca, Epistola LXXIII: “Solebat Sextìus dicere^ « lovem  plus non posse ^ quam honum virum,^. Plura lupiter habet^ guae '  praestet hominibus; sed inter duos honos non est melior, qui lo-  cupletior : non magis^ quam inter duosj quibus par saientia re-  gendi gubernaeulum est^ meliorem dixeris, cui maius speciosiusque  navigium est. lupiter quo antecedit virum bonum! Diutius bonus  est. Sapiens nihilo se minoris aestimat.^ quod virtutes eius spatio  breviore clauduntur. Queniadmodum ex duobus sapientibus^ qui  senior decessiti non est beatior <?o, euius intra pauciores annos  terminata virtus est : sìe Deus non vincit sapiente ut felicitate^  etiam, si vincit aetate. Non est virtus maior^ quae longior. lupi-  ter omnia habei; sea nempe aliis tradidit habenda. Ad ipsum hie  unus usus pertinet.^ quod utendi omnibus causa est: sapiens tam  aequo omnia apud alias videi contemnitque^ quam lupiter., et hoc  se magis suspicit., quod lupiter uti illlis non poteste sapiens non  vult. Credamus itaque Sextio monstranti pulcherrimum iter et  clamanti : * Hac itur ad astra ! hae, secundum frugalitatem:, hac,  secu7idum fortitudineyn ! » Non sunt Dii fastidiosi, non invidi ;  admittunt, et ascendentibus manum porrigunt. Miraris hominem  ad deos ire? Deus ad homines venit\ immo., quod propius est., in  hom.'ines venit. Nulla sine Beo mens bona est. Semina in corpo-  ribus kumanis divina dispersa sunt; quae si bonus cultor excipit.” Questa sicura fede, questa virile forza di pensiero suscitatrice di virtù, era la nota caratteristica di  Sestio, di quest'uomo profondo, che filosofa scrivendo con gravità romana, e che paragona l'uomo  sapiente, cinto di tutte le buone energie del suo animo,  a un esercito che, in paese nemico, marcia compatto e  pronto alla battaglia. Ed esercitando sui migliori uomini di Roma, come per  esempio quel Lucio Grassizio di cui parla Svetonio,   simìlia origini prodeunt; et paria his, ex quibus erta sunt^ sur-  gunt: si malus^ non aliter quam humus sterilis ac palustris^ ne-  cat, ac deinde creai purganienta prò frugihus » .   (1) Seneca, Epistola – “Sextium ecce quam maxiìne lego^  virum acrem^ graecis verbis^ romanis moribus philosophantem.  Movit me imago ab ilio posila : ire quadrato agmine exercitum^  ubi hostis ab omni parte suspectus est, pugnae paratum. Idem^  inquit^ sapiens facere debet; omnes virtutes suas undique expan-  dat^ ut ubicumque infesti aliquid orietur, illic parata praesidia  sint^ et ad nutum regentis sine tumultu respondeant. Qitod in  exercitibus his^ quos imperatores magni ordinant, fieri videmus^  ut imperium ducis simul omnes copiae sentiant^ sic dispositae,  ut signum ab uno datum, peditem simul equitemque percurrat ;  hoc aliquanto magis necessarium esse nobis Sextius ait. UH enim  saepe hostem timuere sine causa ; tutissimumque illi iter, quod  suspeetissimum fuit. Nihil siultitia pacatum habet ; tam superne  UH meius est, quam infra ; utrumque trepidai latus ; sequuntur  pericula^ et occurrunt\ ad omnia pavet ; imparata est^ et ipsis  terretur auxìliis. Sapiens autem^ ad omnem incursum munitus  est et intentus: non si paupertas^ non si luctus, non si ignomi-  nia^ non si dolor impetu?n faciat^ pedem referet. Interritus et  contra illa ibii^ et inter illa. Nos multa alligante multa debilitante  diu in istis vitiis iacuimus ; elui difficile est : non enim inquinati  sumus, sed infecti ».   (2) Nel De illustr. grammat., § 18, rammenta di lui che « ad  Q. Sextii philosophi sectam transiisse dicitur ^ . Alcuni codici  però invece di Q. Sextii leggono Q. Septimii.] questa sua efficace robustezza di pensiero, e affascinandoli  col vigore della sua persuasione e con la nobiltà della sua  vita, sdegnosa d'ogni viltà e d'ogni bassezza, potè far sorgere quella « romani rohoris seda » , di cui abbiamo fatto  già cenno e che, se fu subito soffocata, ebbe tuttavia dei  seguaci e prosecutori isolati, come lozione di Alessandria,  che fu maestro anche di Seneca, Cornelio Gelso,    [Dì lui parla Lattanzio, Divin. institui. lib. VI, § 24.  Vedi anche Gellio, èi. A., I, 8. Nella interessante epistola, Seneca, parlando di se al suo Lucilio, gii dice come oltre all'avere imparato ad astenersi per sempre dalle ostriche, dai funghi, dai profumi, dal vino, dai bagni, e ad usar materassi duri,  aveva anche incominciato, da giovane, ad astenersi dalla carne, e  ciò per gli insegnamenti di Soxione che dimostrava la inutilità e  i danni di questo cibo, valendosi, oltre che degli argomenti di Pitagora e di QUINTO SESTIO, anche di ragioni proprie. Riporto quasi per intero il passo di Seneca, che suona così : « Quonìam coepi Ubi ex-  ponere quantum maior impetu ad philosophiam iuvenis aeeesse-  rhn, quam senex pergam^ ?ion pudebit fatevi^ quem mihi amorem  Pytkagorae iniecerit Sotion. Docebat^ quare ille animalibus ab-  siinuisset^ quae postea Sextius. Dissimilis utrique causa erat^ sed   uirique magnifica. Rie etc... At Pythagoras Haee quum ex-   posuisset Sotton et implesset argumentis suis: Non credis^ inquit,  aììimas in alia corpora atque alia describi., et migrationem esse  quam dicimus mortem? Non credis in his pecudibus ferisve aut  aqua m,ersis illum quondam hominis animum morari? Non cre-  dis nihil perire in hoc mundo, sed anulare regionem? nec tantum  caelestia per eertos circuitus verti, sed ammalia quoque per vices  ire., et animos per orbem agi ? Magtii ista crediderunt viri. Ita-  que iudicium quidetn tuum sustine: ceterum omnia tibi integra  serva. Si vera sunt ista., abstinuisse animalibus innoeentia est.,  si falsa frugalUas est. Quod istic credulitatis tuae àamnum est ?  Alimenta tibi leonum et vulturum. eripio. His instinstus abstinere  animalibus coepi., et anno peracio non tantum facilis erat m,ihi  consuetudo., sed dulcis... »   [Quintiliano, Lib. X, 1, 124: « Scripsit non parum multa  Cornelius Celsus., Sextios secutus., non sine cultu ae nitore.”]   Papirio Fabiano, Moderato di Cadice, ed altri.   I Sestii dei quali abbiamo notizia furono due. Il primo  quello di cui si è parlato finora, che sarebbe vissuto al  tempo di Ottaviano e anche di Cesare, se, come dice Seneca^ rifiutò il laticlavio « divo lulio dante », e avrebbe  pure, secondo il surriferito passo di Plinio dimorato,  non sappiamo quando né per quanto tempo, in Atene. L’altro QUINTO SESTIO, suo figlio, anch'esso di prenome Quinto, che prosegue l'insegnamento paterno, che fu ritenuto, sebbene a  torto, autore delle sentenze filosofiche note sotto il nome  di Sesto pitagorico, della cui vita infine non sappiamo  assolutamente nulla.   Ora, di qual dottrina furono maestri questi filosofi, ricercatori di verità in un mondo di gaudenti e di tristi?     [Seneca, Epist. C; cf. Seneca il retore al lib> II delle Controversie^ prefaz.   Questo filosofo pitagorico visse al tempo di Nerone, e famoso per i suoi insegnamenti intorno alla scienza simbolica dei numeri, e maestro di Lucio Etrusco (v. Plutarco, Quaest. Gonviv.  Vili, 7) e scrive un'opera voluminosa intorno alla dottrina pitagorica (V. Porfirio, Vita di Pitag. p. 33 ed. Nauck; Stefano Bizantino e Suida, sotto la voce Fàdeipa). Cfr. pure Porfirio, Vita di  Plotino e. 20 e S. Gerolamo, Adv. Ruflnum III.   (3) Epist. XCVIII già citata. Di un Sestio, filosofo pitagorico.,  che fiorì ai tempi d'Ottaviano, parla Eusebio [Chron., all' olimpiade  195. 1 = 1 d. C). (4) Natur. Eist., XVIII, 68, 10.   (5) Vedile nella collezione del Mìjllach, Fragmenta philosophorum graecorum, Parigi, Firmin-Didot, voi. I (1875) p. 522 e  voi. II (1881) pp. 116-117, e leggi, a proposito della paternità di  esse, oltre a ciò che ne dice lo stesso Mullach v. II, pp. XXXI sg.),  anche l'esauriente discussione che fa lo Zeller, Die Philosophie  der Qriechen^ voi. IV, III ediz. (Leipzg]  Essi ebbero intanto una propria dottrina psicologica, se,  come riferisce Claudiano Mamerte spiegarono che l'a-nima è una certa forza incorporea, ilìocale e inafferrabile, che, essendo capace senza spazio, assorbe e contiene il corpo. Ma questo evidentemente è troppo poco per  determinare a che scuola essi appartennero. E ben vero  che Seneca, come abbiamo già veduto riferisce (nella Epistola LXIY) che « volere o no » (licei neget), il padre Sestio era un filosofo del PORTICO; ma quel « volere o no » ci fa comprendere che in realtà Sestio non si professa un filosofo del PORTICO. E infatti  qualche altra testimonianza lo dice pitagorico, e tale lo  proverebbero non solo le sue conoscenze astrologiche, dimostrate dalla famosa esperienza dell'olio, ma altresì alcune  abitudini della sua vita, come quella di fare alla fine di ogni  giorno l'esame di coscienza e quella di astenersi dai  cibi carnei, l'una e l'altra, com'è ben noto, proprie dei  seguaci del Pitagorismo. Senonchè, riguardo a quest'ultima  è da notare che Sestio non la giustificava, come Pitagora,     [De statu anirnae, II, 8 : « ... Eomanos etiam eosdemque  philosophos testes citamus^ apud quos Sextius pater^ Sextius fìlius  propenso in exercitium sapientiae studio apprime philosophati  sufzt, atque hane super omni anima attulere sententiatft . Incor-  poralis, inquilini^ omnis est anima et lUocalis atque indeprehensa  vis quaedam \ quae sine spatio capax corpus haurit et continet-» .   Y. pag. preced., nota 3. .   Seneca, De ira^ lib. Ili, e. XXXVI, 2: « Faciebat hoc  Sextius ut consuniTnato die^ quum se ad noeturnam qutetem. re-  cepisset^ interrogaret animum suum : Quod hodie malum tuum  sanasti ? cui vitio obstitisti ? qua parte ntelior es? » .   A questo proposito, oltre alla Up. CVIII di Seneca riportata  nella nota seguente, si suol citare il passo, conservatoci da Origene, « (contra Celsum », lib. YIII, p. 397 ed. di Cambridge), che  suona: « Il cibarsi di carni è indifferente, ma l'astenersene è più  conforme a ragione ». Tale sentenza però è di Sesto pitagorico, non  già del nostro Sestio.     — escori la dottrina della metempsicosi, ma con argomenti che ai Romani dovettero parer più ragionevoli, perchè meno astrusi. “Gli uomini, egli infatti insegnava, hanno altri  «alimenti, senza bisogno di nutrirsi di sangue; e poi ci si abitua alla crudeltà provando piacere nel divorar della carne; si deve dunque ridurre al minimo ciò che può alimentar la lussuria e conclude dicendo che la  varietà dei cibi è contraria alla salute e innaturale per  i nostri corpi. Ci sembra quindi lecito di poter affermare che i Sestii  non furono ne filosofi del PORTICO ne pitagorici, ma ebbero un proprio  sistema, eclettico quasi senza dubbio, con prevalenza di  elementi pitagorici ; e che questo loro sistema non e ne  inorganico, né dubitoso (come quello degli accademici dell'ultima maniera) né materialista -- come i filosofi del Giardino --, sibbene  avvivato da una profonda fede, illuminato da una chiara  luce spirituale e fondato su convinzioni ben salde e su  opinioni precise e indubitabili; un sistema d'ideo insomma,  che non era una piìi o meno piacevole distrazione o un'oziosa occupazione dell' intelletto, ma una vera e propria  forza organizzatrice e ordinatrice della vita, e per ciò appunto destinato a raccogliere pochi seguaci e a vivere per  tempo assai breve, in quella sentina di ambizioni, di corruzioni, di violenze, di immoralità, che era divenuta la  grande Roma nel trapasso dalla repubblica al principato.     [Seneca, Epist. CVIII : « hie {Sextius) homini satis alimentorum eitra sanguinem esse eredebat. et criiclelitatis eonsuetudi-  nem fieri^ ubi in voluptatem esset addueta laceratio. Adiciebat  contrahendam materiam esse luxuriae^ eolligebat bonae valetudini  contraria esse alimenta varia et nostris aliena eorporibus ».    Poiché si è visto come, dopo NIGIDIO, i Sestii cercano di restaurare in Roma il culto del Pitagorismo, non  sarà certo inutile indagare quali tracce esso lascia di  sé nella filosofia romana,  siano esse vere e proprie trattazioni sistematiche o semplici notizie incidentali. Così infatti potremo non solo farci  un'idea del giudizio che ne fecero gli scrittori di quel   tempo, ma ci si offrirà anche il modo di esporne e chiarirne qualcuno dei punti più importanti o di metterne in  luce gli aspetti più notevoli.   Certo, in un'età nella quale le più svariate credenze  religiose e i più diversi sistemi di filosofìa affluendo in  Roma da ogni parte del mondo, e specialmente dalla Grecia  e dall'Asia, vennero a pocoJiniformandosi per vicendevole  influsso, non è facile sceverare e seguire uno per  uno i vari indirizzi di pensiero; massime poi quelli che,  come la filosofia pitagorica, essendo molto antichi e avendo  avuto larga diffusione e gran numero di seguaci, trasmisero parte dei loro principii alle speculazioni filosofiche  posteriori. Ma un poco di diligenza e di pazienza ci permette almeno di raccogliere tutti quei passi di scrittori  latini dell'ultimo periodo repubblicano nei quali si fa esplicita menzione di Pitagora, e di esaminare altresì quei  luoghi in cui, senza nominarlo, si accenna però a dottrine  e a pratiche di vita che appartennero indubbiamente, per  concorde consenso dell'antichità, al sistema del filosofo di  Samo.   Incominceremo pertanto dal poema di LUCREZIO, che  e, come tutti sanno, il più mirabile tentativo di elaborazione poetica in lingua latina di un sistema filosofico precisamente del sistema epicureo. Altri felici tentativi  di esporre in versi dottrine di filosofi  sono bensì  stati fatti da APPIO Claudio, da ENNIO, da qualche altro,  ma per brevi trattazioni. Sì che Lucrezio — pur conscio  della grandezza del cantore degli Annales — puo ben affermare con legittimo orgoglio di essere il primo a tentare  di esprimere poeticamente, nella lingua del Lazio e dell’Italia romana, non ancora assueta alle sottigliezze, alla  profondità, alla precisione del linguaggio filosofico, la speculazione.  Il “Della Natura” infatti non solo espone con  ordine sistematico la complessa dottrina de la filosofia dell’Orto intorno air essere delle cose in generale, all' infinità dell'universo, ai moti e alle forme atomiche, alla natura, composizione e mortalità dell' anima, alle cause delle sensazioni e delle funzioni fisiologiche, alle origini del mondo  e della vita vegetale e animale, alle cause dei fenomeni  meteorici e tellurici, ma discute anche, perchè abbiano  piti sicuro fondamento i principii della dottrina epicurea,  le opposte e diverse dottrine di altre scuole filosofiche, e  combatte le argomentazioni contrarie e le obiezioni possibili degli avversari.   Di questa opera dunque, costruttiva in quanto elabora  su fondamenti nuovi, e polemica in quanto combatte e  distrugge principii vecchi o diversi, è ben naturale che  noi dobbiamo tener presente soprattutto la parte polemica,  per vedere se e quanto in essa il filosofo – come rappresentante dell’Orto -- h tenuto conto delle dottrine di Pitagora.  Ora, su due punti essenzialmente LUCREZIO discute  e lotta ad oltranza contro indirizzi di pensiero diversi dal  suo. Sulla teoria atomica e sulla teoria dell' anima. E a  proposito della prima combatte e confuta esplicitamente,  nominandoli, Eraclito, Empedocle, Anassagora. Del filosofo  di Samo invece non fa il nome neppure una volta, né  qui ne in altra parte dei poema. Ma ciò non toglie che  un attento esame del “De rerum natura” stesso non ci permetta di  scoprire dove e quando, pur senza dirlo, LUCREZIO pensi  a combattere i principii della filosofia pitagorica,  È ben nota, in verità, la disistima che la filosofia dell’ORTO ha  per la matematica; il che parrebbe che dovesse farci escludere senza altro qualsiasi considerazione, da parte diluì,  per un sistema che studia e rappresenta sotto  l'aspetto numerico il mondo, e nel quale le ricerche matematico-musicali avevano tanta parte. In realtà però possiamo escludere a priori soltanto questo: che i filosofi dell’orto tenesse presenti in qualche modo le dottrine della scuola  italica nella parte fisica del suo sistema. E infatti lo studio del “De rerum natura” di Lucrezio conferma senz' altro questa  induzione; tanto nella parte teorica che in quella polemica  dei primi due canti, che contengono 1' esposizione e lo  svolgimento dei principii intorno al mondo e alla  materia, e la teoria atomica, manca aJffatto qualsiasi accenno, anche indiretto e lontano, alle dottrine pitagoriche.   Ma queste, oltre al mondo fisico, governato dal numero  e dall' armonia, abbracciavano anche il metafisico (anima  e il dividno), e quanto all'anima, pur considerando anche di  questa l' aspetto numerico e musicale, sviluppavano soprattutto il concetto della sua eternità. Non mai nata,  perchè esistente ab aeterno^ essa vive, perenne e immortale, attraverso un ciclo indefinito di vite terrene (metempsicosi). Sotto questo aspetto pertanto la filosofia di  Pitagora dove pure essere tenuta in qualche considerazione dall’Orto, se scopo fondamentale della sua speculazione fu di combattere i due grandi timori onde nasce  r intelicità umana, cioè il timore della morte e quello  del divino, e se, per vincere il primo, difese con tutte le  armi della logica il principio della materialità e della  mortalità dell'anima. Non risalivano forse in gran parte  alla filosofia pitagorica la dottrina platonica e le speculazioni del PORTICO intorno alla origine divina e all'immortalità dell' anima? E la filosofia pitagorica non si uniforma forse, spiegandole e chiarendole, alle più inveterate superstizioni, alle più profonde convinzioni, alle più diffuse  credenze religiose degli uomini?   Se Epicuro avesse avuto solo lo scopo della costruzione  teorica dei suo sistema, sarebbe stato sufficipnte che, accettata da Democrito la teoria atomica e fattane 1' appli  cazione al mondo fisico, l’estendesse, come fece realmente,  al mondo psichico (per lui i' anima constava infatti d' un  aggregato d'atomi sensiferi), per trarne la conseguenza  della mortalità dell' anima o, più precisamente, del necessario dissolversi dei suoi atomi alla morte del corpo.  Ma, giova ripeterlo, egli volle anche soprattutto combat-  tere il timore della morte, il quale nasce, secondo lui,  dal pensiero — alimentato dalle superstizioni religiose, e  dalle favole dei poeti e dei vati — che, morto il corpo,  l'anima sopravviva. Ora, fra le varie forme di tale cre-  denza una ve n' era — largamente diffusa dalla religione,  dai misteri, da oscure predizioni sibilline, da filosofi e da  poeti — secondo la quale 1' anima non solo continuava  ad esistere, ma poteva, ad intervalli, rivivere in nuovi  corpi e ritessere più d' una volta la trama della vita ter-  rena : insomma l'antichissima credenza nella metempsicosi. E per di più questa credenza, anche nei termini  strettamente epicurei, poteva in un certo senso apparire ammissibile, in quanto cioè, nell' infinità  del tempo e nel perpetuo dissolversi e ricomporsi degli  atomi materiali, era ben lecito ammettere come possibile  il ricostituirsi dell' identico conglomerato atomico che ricreasse di nuovo il medesimo corpo e la medesima anima. Data dunque questa possibilità teorica, si comprende  che l’Orto dovessero esaminarla anche al lume della logica interna del loro sistema, per dedarne  le loro conseguenze in rapporto alle due questioni dell'eternità dell'anima e del timore della morte.   Tanto ciò è vero, che Lucrezio svolge appunto in modo ampio ed esaurientissimo tale ipotesi e tale discussione  polemica, là dove vuol dimostrare la mortalità dell'anima  e la vanità del temere la morte. Ma prima di esaminare ed analizzare questa parte  del poema che si riallaccia così strettamente con la dottrina pitagorica, è necessario premettere che già al principio del primo libro, in quel mirabile e tormentato proemio dove il poeta espone le ragioni, l' ordine e la materia  della sua trattazione, è fatto cenno delle varie credenze  e opinioni intorno all' anima e dell' importanza capitale  che la soluzione del problema psicologico ha, nel sistema  epicureo, in ordine alla necessità di sradicare dall' animo  umano il timore della morte.   E questo cenno, sia in se stesso, sia per il ricordo che  ad esso si collega del famoso sogno di ENNIO, ha pure  importanza per il nostro tema.   Per rassicurare infatti MEMMIO — al quale Lucrezio dedica “De rerum natura”  — che potrebbe dubitare, accettando la dottrina  epicurea, di commettere atto di scellerata empietà, Lucrezio dimostra che anzi la religione fu causa che gli  uomini commettessero delitti nefandi, come il sacrificio  d’Ifigenia in Aulide. E poi soggiunge che,  vinto anche il timore degli dei, può tuttavia rimaner  sempre quell' altro timore, che è alimentato dalle spaventose favole dei poeti sulla vita d' oltretomba, da sogni e  da apparizioni, e trova la sua ragion d' essere nell' igno-  ranza umana intorno alla vera natura dell' anima. Di qui pertanto la necessità di studiare — insieme  con la natura delle cose celesti, degli dei e della materia — anche il problema dell' essenza dell' anima e della  natura dei sogni e delle visioni. E precisamente nei questi versi si accenna in par-  ticolare alle varie dottrine intorno all'origine dell'anima e  intorno alla sorte che le tocca quando muore il corpo:  Ignoratur enim quae sii natura animai,   nata sit^ an cantra nascentihus insinuetur^  et simul intereat nobiscum morte dir empia, an tenehras Orci visat vastasque lacunas^  an pecudes alias divinitus insinuet se,  Ennius ut noster ceeinit, qui priìnus amoeno  detulit ex Helicone perenni fronde coronam,  per gentis Italas kominuìu quae darà clueret\   120 etsi praeterea tamen esse Acherusia tempia  Ennius aeternis exponit versibus edens^  quo ncque permanentanimae ncque corpora nostra^  sed quaedam simulacra modis pallentia miris;  unde sibi exortam semper fiorentis Homeri   125 commemorai speciem lacrimas effundere salsas  coepisse et rerum naturam expandere diciis. Quanto all' origine dell' anima, l’Orto sostene che  essa era nativa (nata)-^ ma altri invece la credeva entrata  già fatta nel corpo al momento della nascita (an contra     [Mi pare qui perfettamente accettabile la lezione già proposta  dal Gobel (permanent è coug. pres. da pcrmanare)^ che è la più  ragionevole correzione del permaneant dato dai codici. Ne so vedere in qual modo tale correzione urti, come dice Giussani, con-  tro il senso di permanare. In questi versi, come in quelli che citerò più innanzi, mi  attengo alla lezione e alla grafìa data dal Giussani (De rerum na-  tura, Torino, Loescher,     nascentibus insinuetur). Quanto alla sorte che 1' aspettava  al morire del corpo le opinioni invece erano tre: l'epicu-  rea, che r anima si dissolvesse col dissolversi degli atomi  corporei [simili intereat nobiscum morte dirempta) ; la  popolare, che scendesse all'Orco, o Ade o Averne [te-  nebras Orci visat vastasque ìacunos) ; la pitagorica, che  passasse per virtù divina nel corpo di altri animali (pecudes alias divinitus insinuet se ). Le due ultime però  non erano in contraddizione fra loro ; tanto è vero ap-  punto che Ennio, nel sogno famoso degli Annali, pur  esponendo la teoria pitagorica, ammise altresì 1' esistenza  dell'Ade e dei templi Acherontei^ ai quali però discen-  deva non già l'anima (questa passava — subito? — in  altri corpi), ma un' ombra, come a dire un doppio, del-  l'anima stessa, di mirabile pallore: come quella precisamente che egli narrava gli fosse apparsa nel sogno —  doppio dell' anima del divino Omero — che, piangendo a-  mare lagrime, gli svelò l'essere delle cose.   E dunque evidente, per questo accenno alla dottrina  psicologica epicurea in contrapposizione con quella di altri  filosofi ed anche di Pitagora, che nel terzo libro di  Lucrezio dobbiamo trovare discussa in qualche modo — e  lo è infatti esaurientemente — la teoria pitagorica della  metempsicosi. Ma non v' è forse cenno d' un' altra concezione che  fu propria di Pitagora e dei suoi seguaci ; voglio dire  della concezione dell' anima- armonia?     La cosa, del resto, è tanto più evidente se si pensi clie Lucrezio compose verosimilmente questa parte del proemio del primo  libro, quando già aveva composto il terxo. Si veda in proposito  la paziente e lucida analisi del Giussani voi. II, pag. 4-5). È un fatto che il poeta, nel terzo canto, prima di ac-  cingersi a determinare la natura materiale - atomica dell' anima nelle sue due distinzioni dì animus od anima.,  confuta una dottrina • — certo ancor diffusa ai suoi gior-  ni — che negava 1' esistenza dell' anima, o meglio le ne-  gava una consistenza sua propria, non pure extracorporea,  ma nel corpo stesso, concependola soltanto come una spe-  cie di armonia delle funzioni organiche :   98 sensum aniìni certa non esse in parte lo^atuìn^   vermn habitum quendam vitalem corporis esse^   100 karmoniam Orai quam dieunt^ quod faciat nus  vivere eum sensu^ nulla curn in parte siet ìuens :  ut bona saepe valetudo eum dicitur esse  corporis, et non est tamen haec pars ulta valentis,  sic animi sensum non certa parte reponunt.   Ora chi, prima di Epicuro, aveva svolto cosiffatta dot-  trina, che anche ai tempi di Platone e di Aristotile era  tanto diffusa da far sentire all' uno e air altro (1) la ne-  cessità di confutarla ? Pitagora e i suoi seguaci, e spe-  cialmente, fra questi, Filolao (2), avevano bensì accettato  e svolto il concetto dell' anima-armonia; ma che però tale  concetto non potesse avere pei Pitagorici il senso datogli     (1) Platone, Fedone e. XXXVI e XLI - XLY; Aristotile, Del-  Vanima^ I, 4. Dopo Aristotile la svolsero ancora, accettandola e  difendendola, Aristosseno talentino (Cicerone, Tuseulane., I, l9)" e  DiCEARCo di Messina (Cicerone, ibidem^ I, 20).   La si fa risalire veramente a Parmenide e a Zenone d' Elea  (Diog. Laerzio): ma che debba riconoscersi anche come  propria di Pitagora e di Filolao dimostrò già il Boeckh nel suo  Philolaos., (p. 177); tanto è ciò vero che nel dialogo platonico chi  la espone è Simmia, discepolo d,l Filolao, ed Echecrate pitagoreo  la riconosce per propria dottrina {Fedone., e. XXXVIII).   qui da Lucrezio e neppure quello datogli da Simmia nel  dialogo di Platone, è appena necessario di dire, se esso  si accordava — nel sistema di quella scuola — con l'altro  della metempsicosi, ossia con il concetto della preesistenza  e immortalità dell' anima stessa. L' ironia lucreziana dun-  que dei versi 131-135:   ... recide harmoniai  fìomen^ ad organicos alto delatum Heliconi  — sive aliunde ipsi porro traxere et in illam  trastulerunt^ proprio quae tum res nomine egehat -  quid quid id est habeant. .   — come le argomentazioni di Socrate nel Fedone — era-  no volte non contro la teoria di Pitagora, ma contro  quella interpretazione e limitazione materialistica di essa,  per cui r anima era ridotta a semplice funzione del corpo.  Ed è ben naturale che — così limitata e interpretata — la  combattessero, insieme con gl'idealisti platonici, anche i  materialisti epicurei : poiché per gli uni rappresentava la  negazione della essenza individuale e quindi della immor-  talità dello spirito, e per gli altri, significava l' inesisten-  za di quella quarta sostanza atomica (la sostanza senso-  riale) onde essi concepivano costituita (insieme con le altre  tre sostanze elementari aria, freddo e caldo) 1' anima u-  mana (1). Si comprende quindi che Lucrezio, prima di     [Pell’Orto, 1' anima è bensì nativa e mortale, ma è però,  fin che vive il corpo, sostanziata di materia atomica ed è parte  dell' essere umano — ne più ne meno di quel che ne siano parte  le mani, i piedi, gli occhi, ecc. (Luce. Ili, 94-97) — e localizzata  nel petto, di dove si diffonde per tutto il corpo, è adibita alla re-  cezione dei moti e delle immagini sensoriali e alle funzioni intel-  lettuali : sì che ammettendo la teoria dell'anima-armonia veniva a  cadere tutta la teoria psicologica degli atomi sensiferi, delle imaccingersi alla esposizione della teoria psicologica, confu-  tasse questa dottrina, che non solo negava all' anima una  sua localizzazione nel corpo, ma veniva in ultima analisi  a negarne 1' esistenza (1).   Dimostrata la materialità dell'animo, Lucrezio passa a dar le prove — ventotto in tutto — della  sua mortalità. Ora vi è un gruppo di queste che combat-  tono il concetto della immortalità sotto l'aspetto non già  del persistere dell' anima dopo la morte, ma del suo pree-  sistere alla nascita del corpo e della possibile pluralità  delle sue esistenze terrene (vv. 668-710, 711-738, 739-766,  774-781).   Qui siamo evidentemente nel campo della metempsicosi,  e occorrerà quindi esaminare quest' altro centinaio di versi.   Veramente non soltanto i Pitagorici — con la dottrina  della metempsicosi — ammisero, fra gli antichi, un' esi-  stenza pre-terrena dell' anima, ma anche Platone e gli  Stoici; e inoltre, come ho già osservato più volte, tale  dottrina non fu che la elaborazione filosofica d' una cre-  denza largamente diffusa nelle leggende popolari, nella  poesia, neir arte, e rafi'orzata se non derivata, dagli in-     magini, dei sogni, delle visioni, delle allucinazioni (anche queste  vere immagini materiali) che V anima riceve dal di fuori, ma non  produce essa stessa.   (1) Cicerone infatti, parlando di Aristosseno e di Dicearco, dice  appunto che essi con la loro teoria venivano a dimostrare « nihil  esse omnino animum^ et hoc esse nomen totum inane^ frustraque  ammalia et animantes appellari, neque in homine inesse animum  vel animam nec in bestia.” {Ttcsc.^ I, 21), e più esplicitamente  più sotto (31 1: « Dicearehus quidem et Aristoxenus. ... nullum  omnino animum esse dixerunt ».  segnamenti religiosi che s' impartivano nei Misteri. Sì che  gli argomenti di Lucrezio — possiamo affermarlo con si-  curezza — non sono esclusivamente contro i Pitagorici.  Ma poiché Pitagora, se anche trovò già nei Misteri e fra  il popolo tale credenza, e se pure la derivò, c?ome vo-  gliono, dall' Egitto, fu veramente il primo che le diede  veste filosofica, e su di essa fondò 41 suo sistema dottrinario, dal quale mossero, dopo di lui, e Platone e gli  altri, così dobbiamo pur esaminare le ragioni del poeta  epicureo, che venivano, in sostanza, a battere in breccia  ed a scalzare uno dei capisaldi della filosofia pitagorica.  Gli argomenti che Lucrezio adduce contro 1' opinione  della preesistenza dell'anima sono quattro, svolti in quattro  successivi e continui gruppi di versi, e rincalzati poi —  dopo conchiusa questa parte fondamentale della sua trat-  tazione — nella meravigliosa invettiva contro il timore  della morte.   a) Il primo argomento è desunto dalla  mancanza in noi di ogni ricordo dell' esistenza anteriore  alla nascita (1): se la nostra anima è esistita un'altra volta  e quindi è entrata nel corpo al momento della nascita (2),  perche non siamo assolutamente in grado di ricordarci  del tempo trascorso e non serbiamo in noi qualche ri-     [C è bisogno di rammentare che appunto ctalla realtà di tale  ricordanza — rappresentata non già dalla reminiscenza di parti-  colari di una anteriore vita terrena, ma dalla inoppugnabile e in-  controvertibile esistenza delle ideo innato nella mente di ciascun  uomo — Platone deduceva la necessità d'un'anteriore esistenza  dell' anima e quindi della sua immortalità ? (Yedunsi nel Fedone  ì capitoli l8-22ì.   2) E, come si vede, io svolgiiuento di quel che ha accennato  nel proemio al primo canto. membranza delle nostre azioni passate ? Dunque l'anima  ha mutato così da potere perdere interamente la facoltà  di ricordare le proprie vicende ? Se così è, questo non  differisce molto dalla morte ; bisogna quindi concludere  che r anima di prima è morta e che quella che abbiamo  in questa vita è stata creata proprio in questa vita (1).  Ora si noti che il poeta non trae, dalla mancanza della  memoria del passato, la conclusione che sembrerebbe le-  gittima : « dunque 1' anima non è preesistita » ; ma dice  soltanto che — dato pure che potesse essere material-  mente esistita — il fatto di non serbar coscienza del  passato dimostra che ora essa ha cambiato personalità  (personalità infatti non è altro che persistere di una me-  desima coscienza), cioè che è morta da quella che era, per  diventare un'altra.   Praeterea si immortalis natura animai  constai et in corpus nascentibus insinuatur,   670 cur super ante actam aetatem meminisse nequimus   nec vestigia gestarum rerum ulla tenem^us ?  nani si tanto operest animi mutata potestas,  omnis ut actarum exciderit retinentia rerum,  non, ut opinor, id a lete iam longiter errai;   675 quajjropter fateare necessest quae fuii ante   interasse, et quae nune est nunc esse creaiam.   Insomma in questi versi non si nega la possibilità che  siano preesistiti, e quindi che esistano in eterno i com-  ponenti materiali dell' anima, ma bensì si nega il persi-     fl) Su questo argomeDto della mancanza di ogni ricordo, come  vedremo fra poco, Lucrezio ritorna ancora, prima con un semplice  cenno (al v. 766) e poi più innanzi (vv. 845 e seguenti) accennan-  do alla possibilità della rinascita dell'anima e del corpo.  stere in eterno della coscienza, che, per Epicuro, deriva  dai moti atomici dei quattro componenti dell'anima.   D'altra parte, continua il poeta, se 1' energia vitale del-  l'anima entra in noi quando, formato il corpo, usciamo  alla luce del mondo, essa dovrebbe vivere non come fa —  che si vede che è cresciuta col corpo e con le membra  immedesimandosi nel sangue, — ma dovrebbe, non fusa  col corpo, vivere a sé come in una prigione. Ora, poiché  avviene proprio il contrario — e cioè 1' anima é diffusa  per tutto il corpo, sì che ogni parte di esso sente, e cre-  sce e si sviluppa col corpo stesso — segno é che non é  entrata in esso perfetta, e che, partecipando delle vicende  del corpo, nasce (e quindi anche muore) con esso. E am-  messo pure che, • perfetta e in sé raccolta all'atto di en-  trare nel corpo, si diffondesse poi subito in ogni sua parte  appena entrata, questo equivarrebbe a uno scomporsi e  dissolversi per cambiar natura: insomma equivarrebbe a  un morire per rinascere tosto altra da quella di prima.   b) Un altro argomento pare a Lucrezio di poter trarre  dal fatto del formarsi dei vermi onde pullula il cadavere  in putrefazione. Se l'anima che li avviva non è costitui-  ta, come pensava Epicuro, da residui frammentari dell'ani-  ma primitiva, (il che dimostra che l'anima stessa, potendo  frazionarsi, é peritura e mortale) bisognerebbe ammette-  re — ed eccoci ancora alla metempsicosi — che nei vermi  si incarnino anime preesistenti; nel qual caso, lasciando  pure a parte la stranezza che mille subentrino là di dove  una è partita, o esse stesse si formano il proprio corpo  dalla materia putrescente, o lo trovano già fatto e vi en-  trano ; ma nella prima ipotesi non si capirebbe perchè,  piuttosto che restar libere, dovessero affaticarsi spontaneamente a rinchiudersi in un carcere corporeo, dove neces-  sariamente dovranno soffrire; nella seconda varrebbe il  ragionamento fatto precedentemente che un' anima non  può entrare, intrecciarsi ed espandersi in un corpo già  formato senza snaturarsi.   720 quod si forte animus extrinsecus insinuari   vermibus et privas in corpora posse venire  eredis, nec reputas cur milia multa animarum  conveniant unde una recesserit, hoc tamen est ut  quaerendum, videatur et in discrimen agendum, utrum tandem animae venentur semina quaeque   vermiculorum ipsaeque sibi fabricentur ubi sint,  an quasi corporibus perfectis insinuentur .  at neque cur faciant ipsae quareve laborent  dicere suppeditat, neque enim, sine corpore cum sunt,   730 sollicitae volitant morbis alguque fameque:   corpus enim magis his vitiis adfine laborat,  et mala multa animus contage fungitur eius.  sed tamen his esto quamvis facere utile corpus  cui subeant: at qua possint via nulla videtur.   735 haut igitur faciunt animae sibi corpora et artus,   nec tamen est uiqui perfectis insinuentur  corporibus: neque enim poterunt suptiliter esse  conexae, neque consensus contagia fient.   c) In terzo luogo, se veramente ci fosse la metem-  psicosi, perchè non dovrebbe, nelle sue peregrinazioni,  un'anima di leone, per esempio, capitare in un cervo o  quella d'un avoltoio in una colomba, e viceversa, per  modo che ne nascessero leoni e avoltoi timidi, cervi e  colombe feroci ? Invece i caratteri psichici delle singole  specie si ereditano e sono costanti in esse al pari dei  caratteri fisici. Se l'anima immortale mutasse solo i corpi,  questa costanza non vi sarebbe o, almeno, soffrirebbe  molte eccezioni. E se, d'altra parte è 1' anima che, mutando corpo, muta carattere, allora vuol dire che essa non  rimane la stessa, che cambia natura, insomma che muore  per rinascere un'altra: Dejiiqiie cur acris violentia triste leonum  740 seminium sequitur, volpes dolus, et fuga cervi»   a patribus datur et patribus pavor incitai artus^  et iam cetera de genere hoc, cur omnia membris  ex ineunte aevo, generascunt ingenìoque,  si non, certa suo quia serrane seminioque vis aniìiti pariter crescit cum corpore toto ?   quod si immortalis foret et mutare soler et  corpora, permixtis anirnantes moribus essent,  eff'ugeret canis Hyrcano de semine saepe  cornigeri incursum cervi, tremeretque per auras  750 aeris accipiter fugiens veniente columba,   desiperentque homines, saperent fera saecla ferarum.  illud enini falsa fertur ratione, quod aiunt  immortalem animam mutato corpore flecti :  quod m^utatur enim dissolvitur, interit ergo.   Se poi si volesse invece sostenere la metempsicosi solo  entro i limiti di ciascuna specie, e dire che un' anima  umana non s'incarna successivamente in altro che in uomi-  ni (1), allora si potrebbe sempre chiedere: perchè può, di  [Così, a mio avviso, svolse il concetto delle trasmigrazioni  deli' anima la scuola pitagorica: limitandolo cioè entro i confini  della specie umana, die se quasi tutte le testimonianze attribui-  scono ai seguaci di Pitagora 1' interpretazione più lata a cui Lu-  crezio accenna nei versi or ora citati, tali testimonianze si può  dimostrare che o sono esagerate per amor di polemica o di satira,  sono errate per confusione della metempsicosi pitagorica con  quella egiziana od orientale in genere, o, in qualche caso, possono  spiegarsi dando un signifiv,ato simbolico al passaggio dell'ani-  ma nel corpo di un animale. In tale categoria rientra, per me, la  testimonianza di Ennio che, nel sogno già citato degli Annali, fasaggia che era, diventare sciocca, dal momento che non  s' è mai visto un fanciullo assennato né un piccolo pu-  ledro esperto come un robusto cavallo ? Forse che la men-  te in un corpo tenero, si fa tenera anch' essa ? Allora  dunque non è immortale se, trasmutando corpo, perde in  tal modo la vita e il sentimento di prima:   Sin animas hominum dicent in corpora sem,per  ire humana, tamen quaerain cur e sapienti  760 stulta qiieat fieri, nec prudens sit puer ullus,   762 nec tam doctus equae pullus quam fortis el^ui vis ?   scilicet, iìi tenero tenerascere eorpore ìnentem  confugient, quod si iavi fìt, fateare necesscst  765 mortalem esse animam, quoniam mutata per artus   tcmto opere amittit vitam sensumque priorem.   d) Infine — e siamo così alla chiusa, di sapore  umoristico, di questa serie di argomentazioni contro la  preesistenza e la metempsicosi — non è cosa oltremodo  ridicola, dice il poeta, che ad ogni accoppiamento e ad  ogni parto di animali stiano lì pronte delle anime, e, in  numero innumerevole, immortali aspettino membra mor-  tali, e lottino e gareggino a chi prima e di preferenza  riesca a penetrare ? Se pure non e' è fra le anime il patto  che chi prima arriva a volo entri per prima e cosi non  ci sia fra loro nessuna lotta violenta:   Denique conubia ad Veneris partusque ferarum  llb esse animas praesto deridieulum esse videtur,   expeetare immortalis niortalia membra  innumero numero, ceriareque praeproperanter     cendo esporre dall' anima di Omero la dottrina di Pitagora, lo fa  anche dire d'essere divenuta un pavone (« pavone » qui significa  « cielo »). Perciò credo prettamente pitagorica, e non stoica, la  dottrina della metempsicosi che svolge Virgilio nel sesto dell'Eneide.  inter se quae prima potissimaque insinuetur ;  si non forte ita sunt animarum foedera pacta,  780 ut, quae prima volans advenerit, insinuetur   prima, neque inter se contendant virihus hilum.   Qui terminano gli accenni che Lucrezio fa alle credenze e dottrine pitagoriche : ma poiché subito dopo, in  quella parte di questo stesso terzo canto in cui si dimo-  stra la vanità del timore della morte, è formulata l' ipo-  tesi della resurrezione delia medesima anima nel mede-  simo corpo, e tale ipotesi -è stata da qualcuno identificata  con l’analoga dottrina pitagorico-stoica della palingenesi,  dobbiamo esaminare anche questo passo.   Continuata e compiuta dunque la dimostrazione della  mortalità dell'anima, il poeta ne trae subito la legittima  conseguenza che la morte non ci riguarda per nulla. Come non abbiamo sentito niente di ciò che è acca-  duto prima della nostra nascita (perchè l' anima nostra  non esisteva), così non sentiremo nulla dopo morti, per-  chè una volta avvenuto il distacco fra corpo ed anima  (e la conseguente dissoluzione di questa) noi, che esistia-  mo solo per l'intima unione di entrambi, non esisteremo  e quindi non sentiremo più. E giunto a  questo punto conclusivo il poeta avrebbe potuto fermarsi,  come infatti, sembra, si fermò in una prima redazione  del poema, nella quale seguivano a questa dimostrazione  i versi 860-867 che la rincalzano. Senonchè piti tardi,  tornandovi sopra fece un'aggiunta in cui è formulata la  suddetta ipotesi, che dobbiamo appunto esaminare. Accetto senz' altro le conclusioni di Giussani, sì per l' interpretazione, sì per la composizione di tutto que-  sto interessante brano. Rimando perciò il lettore all'opera già ci-  tata, voi. Ili, pp. 106-107.   Poiché in essa è detto anzitutto che se pura, dopo  avvenuta la separazione, l'aDima avesse facoltà di sentire,  anche in tal caso la cosa non riguarderebbe punto noi,  che siamo solo in quanto anima e corpo sono stretti in  un'esistenza unica (vv. 841-844).   La quale ipotesi peraltro (che 1' anima senta staccata  dal corpo) s'intende bene da tutto quel che il poeta ha  detto precedentemente, che non era assolutamente ammis-  sibile (1), perchè fuori del corpo l'anima neppure esiste,  consistendo la morte, per lui, nel rompersi del legame  tra corpo ed anima e nell'immediato dissiparsi degli ato-  mi di questa, appena rimasta priva del suo coibente.   Ma vi era però un'altra ipotesi, la quale per di più  poteva apparire ad alcuno non del tutto in contrasto —  come la precedente — con la dottrina epicurea ; l'ipotesi  cioè di un possibile ricrearsi materialmente identico del  nostro essere, anima e corpo. Anche in -questo caso però  la morte non ci riguarderebbe affatto per l' interruzione  della coscienza personale fra le due esistenze. E tale ipo-  tesi appunto il poeta svolge nei versi 845 e seguenti, in  questo modo :  [Giussani crede di poter sostenere che l'ipotesi,  per quanto strana, non è però in contraddizione assoluta — in astratto — con la teoria epicurea. Ora a me le sue ragioni non  sembrano buone, e perciò credo piuttosto che qui Lucrezio abbia  formulata un' ipotesi che è interamente al di fuori della dottrina  d' Epicuro : come poteva infatti pensare che una qualsiasi persi-  stenza del sentire dell' anima fosse possibile, dopo il distacco dal  corpo, se per lui l'anima non poteva assolutamente esistere fuori  del corpo che la tiene unita ? Perchè dunque Lucrezio ha formulata  l'inverosimile ipotesi ? Forse unicamente come ipotesi di transizio-  ne alla successiva; se pure non si tratta qui di un'argomentazione  per absurdum.   845 iVec, si materiem nostram collegerit aetas   post ohitum rursumque redegerit ut sita nunc est,  atque iterum nobis fuerint data lumina vitac,  pertineat quiequam tamen ad nos id quoque factum,  interrupta semel cum, sit repetentia nostri;   850 et nune nil ad nos de nobis attinet, ante   qui fuimus, neque iain de illis nos adficit angor,  nam cum respicias immensi temporis omne  praeteritum spatium,, tum. motus m,ateriai  multimodis quam sint, facile hoc adcredere possis,   855 semina saepe in eodem, ut nunc sunt, ordine posta   haee eadem, quibus e nunc nos sumus, ante fuisse :  nee m,emori tamen id quimus reprehendere mente :  inter enim iectast vitai pausa, vageque  deerrarunt passim m,otus ab sensibus omnes.   Ora a prima . vista questa ipotesi potrebbe apparire  identica a quella già formulata nei versi 668-676, dove  si fa pur cenno della interruzione della coscienza. Tanto  che si è voluto da alcuno vedere in questi versi un'allu-  sione alla dottrina dei Genetliaci, i quali credevano che  nello spazio di 440 anni il medesimo corpo e la medesima anima rivivessero insieme (1) e ciò dipendentemente  dalla dottrina della palingenesi universale che era propria  dei Pitagorici e degli Stoici. Ma in verità qui non si  tratta punto di questo, poiché mentre in quei versi si  parla del rinascere della medesima anima in nuovi corpi,  e nella dottrina dei Genetliaci si parla del ricongiungersi  dell'identica anima e dell'identico corpo (nell' un caso e  neir altro però 1' anima non ha mai perduto la sua perso-  nalità), qui invece si considera il caso di una duplice     (1) Il primo a pensar questo è stato l'editore inglese di Lucre-  zio, il Munro, il quale cita il passo di S. Agostino {De civ. Dei  XXII, 28) che ho già riportato al principio del Gap. III.  creazione ex novo per accozzamento degli stessi atomi,  cioè si considera la possibilità della rinascita d' un iden-  tico aggregato atomico corporeo-psichico nel rispetto della  teoria epicurea. Che poi ciò fosse legittimo e logico è  un'altra quistione (1); ma sta di fatto che Lucrezio for-  mula r ipotesi secondo la logica del sistema di Epicuro.   7. Cosicché, per riassumere e concludere, abbiamo ve-  duto che il nostro poeta accenna a quattro diverse opi-  nioni intorno all'anima: 1*) che essa non esiste a so, ma  risulta dall' armonia delle funzioni organiche (teoria di  Aristosseno e Dicearco); 2*) che essa nasce e si distrug-  ge col corpo, ma ha una propria ubicazione nell'organi-  smo umano (nel petto) e risulta di quattro elementi (moto,  caldo, freddo, sostanza atomica sensoriale) (teoria epicu-  rea); 3*) che essa sopravvive al corpo e scende nell'Ade,  donde può uscire per apparire agli uomini (credenza  popolare); 4^) che essa, non solo sopravvive al corpo, ma  è preesistita ad esso e può incarnarsi più volte. E abbia-  mo veduto come quest'ultima dottrina, della quale abbia-  mo fatto particolare esame, fu intesa e interpretata in  modi diversi: a) l'anima immortale passa attraverso mol-  teplici esistenze, cambiando specie animale (teoria egiziana);  h) l'anima immortale passa attraverso molteplici esistenze,  ma entro i limiti della propria specie e conservando la  propria identità personale (teoria pitagorica-platonica-stoica);  e) l'anima può bensì rinascere, magari nell'identico corpo.     [L'ha posta con molta sottigliezza Giussani. Ma si veda anche quello che osserva in prop9SÌto Pascal nel suo saggio “Morte e resurrezione in Lucrezio” Riv. di Filologia classica, ristam-  pato nel volume Oraecia capta, pag. 67 e seguenti.  senza però conservare la propria identità personale (ipo-  tesi (1) epicurea-lucreziana).   La teoria b poi alla sua volta fu diversamente svilup-  pata, poiché vi era chi sosteneva che l' anima potesse  bensì reincarnarsi, ma in corpi sempre nuovi; chi invece  che si reincarnasse nel medesimo corpo, e ciò in atti-  nenza a una dottrina più generale, anzi universale, se-  condo la quale non pur l' anima e il corpo umano anda-  vano soggetti a periodici ritorni alla vita, ma tutto l'uni-  verso si distruggeva e si ricreava perfettamente identico  (pitagorici, stoici e genetliaci).   Con questa teoria però non veniva distrutta la credenza  nell'Ade o Averne come luogo di espiazione, poiché, se  anche l'anima riviveva, scendeva all' Ade un suo doppio  (eidolon, simulacrum) che poteva anche riuscirne (e ve-  rosimilmente si distruggeva nell'atto che l'anima tornava  a nuova vita terrena) (Ennio).   Quanto alla teoria pitagorica in particolare, abbiamo  veduto che Lucrezio ne parla, in sostanza, in due luoghi:  1**) nel proemio del primo libro (vv. 112-126) ; 2") nella  confutazione dell'ipotesi della preesistenza dell'anima nel  terzo libro; e che non debbono ritenersi affatto come riferi-  menti a Pitagora né il cenno alla dottrina dell' anima-  armonia (e. Ili, vv. 98-135) né l'ipotesi della rinascita,  come è formulata nei vv. 845-859 dello stesso libro.     (1) Ipotesi la credo, e non vera teoria di Epicuro ; che, in so-  stanza, Lucrezio la formula come tale, per potere opporre l' argo-  mento per lui capitale della interruzione della coscienza anche a  coloro che, dal punto di vista della sua stessa dottrina, avessero  potuto pensare ad una eventuale rinascita dell' anima col medesi-  mo corpo.  Veri e propri trattati d' indole pitagorica sappiamo con certezza che compose VARRONE, di Rieti. Eruditissimo in ogni campo della filosofia, e, appunto per questo, incaricato da Giulio Cesare  di mettere insieme ed ordinare in Roma una grande biblioteca, specialmente di opere latine. Ciò che  gli diede agio di allargare e approfondire ancor più le  sue conoscenze enciclopediche, delle quali si valse per comporre innumerevoli opere, trattando dei più svariati  argomenti, occupandosi d' ogni genere di ricerche, raccogliendo con cura particolare tutte le tradizioni sacre e  profane della patria, e dettando pure a quel che ci ha  lasciato scritto Quintiliano, un' opera filosofica in versi  {praecepta sapientiae versibus tradidit). Della sua  prodigiosa attività e di una ricchissima messe di opere  letterarie, storiche, filosofiche, scientifiche — si ricordano  di lui non meno di 74 opere in CCCCCCXX libri — non ci restano purtroppo che scarsi avanzi (poco più di IX libri) e numerose citazioni che  da Varrone attinsero largamente notizie d' ogni sorta. Sì  che siamo quasi all'oscuro sul contenuto della maggior  parte dei suoi scritti, di molti dei quali ci resta appena  appena il titolo. Così dei suoi famosi “Logistorici” che sono in LXXVI libri, e contenevano discussioni di argomento  filosofico con miscela di notizie storiche, conosciamo i titoli di alcuni, nei quali si doveva trattare più o meno  largamente di filosofia pitagorica. Tali sono: “Atticus sive de numeris”, “Tubero sive de origine humana,” “Gallus de admirandis,” “De saeculis” ed altro de philosophia; ma quale ne fosse precisamente il contenuto non sappiamo. Così, d' altra parte,  ci è rimasta notizia d' un' opera in IX libri “de principiis numerorum”, la quale,  messa accanto sìi Attico già citato e alla testimonianza     [intorno a Varrone si veda l'opera di Boissier, Etude  sur la vie et les ouvrages de Varron. Per i libri Antiquitatum  rerum divinarum pubblicati nel 47 av. Cr. si consulti lo studio  dall' Agahd nei JahrhUcher f. class. Philologie^ 24*©^ Supplement-  band I Heft, Leipzig, 1di Gellio (Notti Attiche), che riferisce come Varrone  tratta in maniera oltremodo compiuta del numero settenario – “Varrò de numero septenario scripsit admodum  conquisite” -- prova che il grande reatino dovette conoscere  profondamente la teoria pitagorica e specialmente la dottrina fondamentale dei numeri. È veramente un peccato che di tali opere non  resti quasi nulla, giacché da esse, avremmo forse potuto  trarre molta luce a chiarimento di questa famosa dottrina,  che era il pernio della speculazione metafisica e simbolica  di Pitagora. Qualche passo tuttavia che ce ne è rimasto,  vale a dimostrarci che larghe e geniali applicazioni potè  avere per opera del Maestro e dei suoi seguaci la teoria  stessa, che fu feconda di eccellenti e mirabili scoperte  nel campo delle scienze sperimentali.   Poiché le investigazioni matematiche dei Pitagorici non furono soltanto rivolte alla ricerca delle proprietà dei numeri, ma anche fuori dei campi dell' aritmetica  e della geometria, trovarono le più nuove e piìi larghe  applicazioni nel vasto e infinito campo dei fenomeni naturali.   Una delle prime e forse la più importante scoperta di  Pitagora fu dovuta a una di quelle felici intuizioni che,  in ogni tempo, sono state il privilegio del genio; intendo  parlare della determinazione matematica degli accordi, che  poi dalla musica, applicata a particolari fatti della natura,     [Kathgeber (“Grossgriechenland und Pythagoras” (Gotha)  scrive. “Dem M. Terentius VARRO AUSS REATO, der  aufgeklàrt iiber Pyihagoras war, bot sein Werk hobdomades Gelegenheit zur Erwàhnung dar.” portò a molte curiose osservazioni come quelle che riguardano le due diverse specie di parto (a termine e  settimino), e, applicata all' astronomia, portò alla teorica  dell' armonia delle sfere e alla concezione dell' universo  come di un tutto perfettamente armonico (kósmos).   h) Fu un caso che fece volgere la mente speculativa  di Pitagora alla ricerca della teoria matematica degli accordi musicali, la cui determinazione, prima di lui, era  affidata semplicemente all'orecchio degl'intenditori. Passando un giorno per istrada accanìo a due fabbri che  martellavano alternatamente un ferro sopra l' incudine,  Varrone e colpito dai suoni cadenzati e armonici dei martelli : quelli acuti dell' uno rispondevano così giustamente  a quelli gravi dell' altro, che, entrando ritmicamente nel  suo cervello, di vari colpi ne nasceva un solo accordo. Varrone ha così la sensazione materiale di un fenomeno, intorno  al quale già da qualche tempo lavora col pensiero, e  non si lascia sfuggire 1' occasione per chiarirlo. Avvicinatosi ai fabbri, osserva più da presso il loro lavoro e  nota i suoni che sono prodotti dai colpi di ciascuno.  Credendo che la loro diversità di tono dipende dalla  diversa forza degli operai, fa che essi si scambino i martelli e si accorge che invece essa dipende da questi.  Allora volge tutta la sua attenzione a determinare con  esattezza i due pesi e la loro differenza, poi fa fare altri  martelli più o meno pesanti di quei due. Ma dai loro colpi  nasceno suoni diversi da quei primi e per di più non  intonati. In tal modo, capì che l'accordo dei suoni nasce da un determinato rapporto matematico dei pesi,  che cerca subito di calcolare. Trovati che ha tutti i numeri che corrispondeno ai pesi dai quali nasceno suoni intonati, passa dai martelli alle corde musicali. Prende  alcune budello di pecora o nervi di bue di eguale grossezza e lunghezza, facendole tendere per mezzo di pesi  proporzionati a quelli di cui fa il computo e determinato il rapporto coi martelli. Fattele risuonare per  mezzo della percussione, non solo trova che le corde tese  da pesi uguali vibrano all'unisono al vibrare di una sola  di esse, ma ottenne altresì suoni armonici precisamente  dalle corde i cui pesi stavano in rapporto di III:IV 3:4 ( 5tà  xeaaàptóv o èrul xpiTov o supe?^ tertium), di 2 : 3  II:III (5tà Tcévxe)  e di 2:4 II:IV (5tà Traawv). Per averne poi un'altra riprova,  ripetè r esperienza con alcuni flauti. In questo modo: ne  fa preparare quattro di calibro uguale, ma di lunghezza  diversa, il I, poniamo, lungo VI pollici, il II, VIII  il III, IX e il IV, XII. Poi facendoli sonare a due a  due trova che il primo e il secondo armonizzavano in  accordo diatessdron (6 : 8 =: 3 : 4) – VI:VII::III:IV; il primo e il terzo in  accordo diapènte (6 : 9 = 2 : 3) – VI:IX::II:III e il primo e il quarto in  accordo diapason ( 6 : 12 ^=i 2:4) – VI:XII::II:IV. In tal modo Varrone  riusce molto genialmente alla determinazione matematica degl’accordi, ciò che permise in seguito di estendere e  perfezionare la teoria della musica. E il caso che lo conduce alla scoperta non è molto dissimile da quello per  il quale il Galilei, dall'osservazione dei movimenti d'una  lampada in chiesa, fu tratto a investigare e scoprire le  leggi della oscillazione del pendolo o da quello in virtù  del quale Newton, per la caduta di un pomo, arrivò a  scoprire le leggi della gravitazione universale. Tanto è     [Vedasi la narrazione, desunta da scritti varroniani, in Ma-  cROBio, Gomm. ad Somnium Scipionis, II, 1, 9 e Censorino, de  die natali 10,7.  vero che il genio in ogni tempo e in ogni luogo sa trarre  partito dalle cose e dai fatti più semplici !   -- E una volta messosi su questa via, che mirabile  serie di investigazioni non seppe escogitare quella profonda mente speculativa, che, dall'osservazione dì due fabbri all'incudine arriva non pure alle leggi dell'armonia  musicale, ma a scoprire 1' armonia dei cieli e di tutto l’universo! Poiché applicando i suoi calcoli al corso e  alle distanze degli astri e dei pianeti vaganti fra il cielo  e la terra — dai quali, secondo lui, era regolato il corso  della vita e degli eventi umani — trova che essi avevano  un moto euritmico, e intervalli coi rispondenti ai toni, e  suoni, proporzionatamente alla loro tonalità, in tale accordo, da formare una dolcissima armonia, non però percepibile da orecchio umano, per la sua forza che supera la  facoltà del nostro udito.   Calcolate infatti le distanze dalla terra a ciascun pianeta in stadi italici di 625 – CCCCCCXXV piedi, trovò che dalla terra  alla luna ci sono circa 126000 stadi ; e questo rappresenta per lui r intervallo di un tono. Dalla Luna a Mercurio (Stilbon) calcola una distanza uguale alla metà, ossia  un semitone. Di qui a Venere, altrettanto; da Venere fino  al Sole, tre volte tanto, come a dire un tono e mezzo. Il  sole quindi distava, secondo Varrone, dalla terra tre toni e  mezzo, formando così con essa un accordo diapente e  dalla luna due toni e mezzo, formando un accordo diatessdron. Dal sole poi a Marte (Pyrois) stima esserci eguale distanza che dalla terra alla luna, ossia un tono. Di qui a Giove (Phaeton), la metà, ossia un semitone. Da  Giove a Saturno, altrettanto, cioè ancora un semitone. Di  qui finalmente al cielo delle stelle fisse, press' a poco un  mezzo tono. E però da questo cielo al sole pone un     [FIRMAMENTO     Orbita di Orbita Saturno Giove Marte  e-  3 Q. ooII» HK> •Wi■O-SOLE Venehe  Mercurio Luna     ©■   •0   Wi   TJSKBà,     d>     >   3   Q.  •«  O   o  tt)      •0  u      cs  i)    >  »3  o  8  ti    •0  u   e    ^  7.  —] intervallo diatessdron (di due toni e mezzo), e dallo stesso  cielo alla Terra un intervallo in accordo diapason (di sei  toni)   [Per queste osservazioni e scoperte è ben naturale  che Pitagora dove convincersi che nell' universo tutto  è regolato dal numero, ossia che nulla vi è di casuale, di  fortuito, di tumultuario, ma tutto procede da leggi divine  e da una determinata e determinabile proporzione. Sicché dalla musica e dall' astronomia passando, per esempio, '  alla tisiologia, trova nel decórso del puerperio ancora  una riprova della regolarità matematica dei fenomeni naturali. Orbene, la curiosa applicazione che Pitagora fa della dottrina dei numeri al più complesso e meraviglioso  dei processi fisiologici, cioè alla generazione, e appunto  spiegata in una delle opere varroniane ricordate (“Tubero seu de origine humana”). Queir acuto e profondo osservatore infatti avendo studiato accuratamente il decorso delle due diverse specie di  parto, l'uno di sette – settimino) e Y altro di dieci mesi  lunari (a termine) che avvengono rispettivamente 210 e  274 giorni dopo la concezione, e avendo determinato i.  numeri corrispondenti ai giorni nei quali, per ognuno dei  due parti, si compiono i mutamenti più importanti — del  seme in sangue, del sangue in carne, della carne in forma umana — trova che il parto settimino è in rapporto  col numero VI e quello a termine col numero VII; non solo,  ma che i nùmeri suddetti, tanto nell' uno quanto nell'altro, si trovano nello stesso rapporto degli accordi musicali. Ed ecco in qual modo.     [Censorino, de die natali, cap. 13.   (2) Maorobio, Oomm. in Somnium Soip. Il, U, 7 e 4, 14.  Nel parto di VII mesi, per i primi sei giorni dopo la  fecondazione, l’umore che è contenuto nell' utero è di  aspetto lattiginoso. Nei successivi VIII giorni è di aspetto  sanguigno. Il rapporto fra VI e VIII è, come abbiamo veduto  più volte, quello precisamente che forma accordo diatessd-  ron (6:8 = 3:4). – VI:VIII::III:IV -- Nel terzo stadio si hanno IX giorni,  in cui comincia la trasformazione dell' umore sanguigno  in carne : e il IX col VI forma il secondo accordo diapènte  (6:9 = 2: 3) – VI:IX::II:III ; finalmente nei XII giorni seguenti si ottiene il corpo già formato : e il rapporto di XII con VI  forma il terzo accordo diapason (6 : 12 .^r: 1 : 2). VI:XII::I:II. Questi  quattro numeri 6, 8, 9, 12 – VI VII IX XII sommati insieme formano 35  XXXV giorni, i quali moltiplicati per 6 VI danno appunto il nu-  mero totale dei giorni, di durata della gestazione, ossia  210. CCX -- Nel parto a termine invece, con analogo ragionamento, il calcolo era basato sui numeri 7, 9 1/3, 10 1/2,  14, -- VII IX XII X XII XIV che sommati insieme danno 40 XL e una frazione; 40  XL moltiplicato per 7 VI dà 280 CCLXXX, da cui detraendo 6 VI si ha 274 CCLXXIV.  Vale a dire che nel parto di dieci X mesi iL mutamento  del seme in umore latteo avviene in sette VII giorni anziché  in sei VI, e la formazione del corpo è già avvenuta dopo  40 XC giorni interi, che moltiplicati per 7 VII danno 280 CCLXXX, cioè  quaranta XL settimane ; ma poiché il parto avviene nel primo I giorno dell'ultima settimana, così bisogna detrarre sei XV  giorni, onde ne restano 274 CCLXXIV Tanto il 210 CCX che il 274 CCLXXIV sono veramente due numeri pari, laddove Pitagora dava  speciale importanza al numero dispari, tanto da ritenere —  in virtii delle sue molteplici osservazioni — che tutto è  regolato da esso (1) : ciò non pertanto, osserva Censorino     (1) Macrobio, Saturnal. I, 13, 5 ; Solino, I, 39 ; Servio, ad  Bmol. Vili, 75.   che riporta tutto questo passo Varroniano, egli non era  qui in contraddizione con se stesso, perchè i due dispari  209  CCIX e 273 CCLXXIII sono bensì compiuti, ma non si compie ne il  210 CCX né il 274 CCLXXIV giorno in cui il parto avviene; in conformità precisamente di quanto ha fatto la natura sia riguardo alla durata dell' anno (365 CCCLXV giorni più una frazione)  che a quella del mese (29 XXIX giorni più una frazione.   Non è il caso di entrare qui in merito al valore intrinseco e alla veracità di siffatte osservazioni. Poiché  anche se errori vi sono, bisogna naturalmente tener  conto da un lato della diversità dei mezzi d'indagine e di  esperimento da oggi al tempo di Varrone, e pensare  dall' altro che molte delle applicazioni della teoria dei numeri non dovettero neppure essere l' opera diretta di Pitagora, ma il prodotto delle speculazioni dei suoi seguaci.  In ogni modo però risulta chiaro dal poco che si è ve-  duto sin qui che le speculazióni stesse non rimanevano  campate nell'aria e nelle nebulosità della metafisica, ma  trovavano la loro base e la loro ragion d' essere nell' os-  servazione scientifica dei fatti naturali; sì che fu indub-  biamente merito di Pitagora e dei suoi discepoli quello di  aver dato un nuovo impulso alla scienza; e, fatta ragione  dei tempi, non fu merito piccolo.   f) Se la teoria dei numeri trovava così mirabili ri-  scontri nella natura e nei suoi fenomeni, è ben naturale  che ad essa dovesse pure conformarsi la vita pratica  degli uomini, almeno di quelli che si iniziavano ai mi-  steri e alle profonde verità del Pitagorismo. Ond' é, per  esempio, che un'altra testimonianza varroniana ci ricorda     (l) Censorino, de die natali 9 e 11. Si confronti con questo il  passo di Gellio, Notti attiche, III, 10, 7.   la particolare considerazione in cui erano tenuti i così  detti numeri cubici, ai punto che persino nello scrivere  i Pitagorici ne tenevano conto scrupolosamente badan-  do di comporre in una sola volta 216 righe o versi  (216i=r 6 X 6 X 6) e non mai piìi di tre volte tanto! Ora questo è uno di quei particolari che, presi a se,  prestano facilmente il fianco al riso e alla satira; ma in  verità se noi non possiamo spiegarci la cosa in modo ra-  gionevole, ciò può dipendere dal fatto che non conosciamo  tutto il complesso della dottrina e della vita pitagorica ;  poiché è ben possibile che pratiche di questo genere rientrassero nell' ambito del sistema per puro amor dell' ordi-  ne e doll'euritmia, al solo scopo di far sottostare a una  certa regola anche gli atti minimi e più insignificanti  della vita ; se pure non si tratta, qui e in altri casi, di  esagerazioni dei seguaci o di degenerazioni dei primitivi  insegnamenti del Maestro.   Ma senza soffermarci troppo su cosiffatte quisquilie, è  ben noto d'altra parte — ed è ancora Varrone che parla —  quanta parte avesse la musica nel sistema educativo di  Pitagora, e come egli medesimo se ne dilettasse al punto,  che ogni sera prima di addormentarsi e ogni mattina al  suo svegliarsi cantava, accompagnandosi con la cetra, per  meglio disporre 1' animo ai suoi pensieri divini. Oltre a queste notizie, che io, valendomi delle  indagini già fatte da altri (3), ho cercato di esporre si-   [ViTRirvio, De arehiteetura V pr. p. 104, 1.   (2) Censorino, de die natali 12, 4.   (3) Si veda nell' opuscolo di A. Schmekel, De Ovidiana Pytha-  goreae doctrinae adumbratione (Giyphiswadensiae)  l'appendice a pagina 76 « Varronis Pythagoreae doctrinae frag-menta continens ».]  stematicamente raggruppandole intorno alla dottrina dei  numeri, altre se ne trovavano nelle opere di Varrone,  intorno alla vita di Pitagora, intorno alla sua scuola e ai  suoi seguaci e intorno ai principii del suo sistema.   Così Varrone pone 1' esistenza di Pitagora al tempo  di Tarquinio Prisco e quindi implicitamente non accetta la tradizione che Numa e suo scolaro a  Crotone. Anch'egli attribuiva a Pitagora il merito di  essersi chiamato per primo filosofo, cioè amante del sapere, e ricordandone il maestro Ferecide faceva risalire :  già a questo 1' uso di pratiche magiche per indovinare il futuro ; come pure accennava altrove alla sua andata a  Turio (Sibari) nella Calabria. E Agostino ci ha  conservato un altro passo nel quale Varrone, da vero  romano, esprime la sua ammirazione perchè 1' ultima  cosa che Pitagora insegna ai suoi discepoli, quando già  fossero perfetti, sapienti e felici, era quella del governare  la cosa pubblica. Appartiene al libro quinto dell' opera intorno alla lingua latina un brano in cui Varrone afferma che Pitagora  insegnava « due essere i principii d' ogni cosa, come finito e infinito, bene e male, vita e morte, giorno e  notte. E quindi parimenti due i modi di essere : stato e moto; ciò che sta fermo o si muove, corpo; il dove si muove, spazio; il quando si muove, tempo ; ciò che  « vi è nel movimento, azione; e avvenire appunto perciò  « che quasi tutte le cose siano quadripartite ed eterne,  poiché ne paò mai esservi stato tempo se non prece-     [S. Agostino, de civitate dei XYIII, 25.   (2) Ibidem, XYIII, 37 e YIII, 4; Tertulliano, dean. 28; Apol. 46.   (3) S. ìlggstino, de ordine II, 20, 54.   « duto da moto, — se tempo è appunto l' intervallo fra  « un moto e l' altro — ; né moto senza spazio e senza  « corpo, perchè l'uno (il corpo) è ciò che si muove e  <^ r altro (lo spazio) il dove; né può mancare l'azione dove  « e' è movimento; onde le due coppie di principii : spazio  « e corpo, tempo e azione ». Altrove ci ricorda Varrone un altro pensiero fondamentale di Pitagora, assunto  poi pili tardi da Aristotile, quello cioè che l'esistenza degli animali e però anche dell'uomo non ha mai avuto  principio nel tempo, perchè sono sempre esistiti. E  parimenti faceva risalire a lui quella teoria dei quattro  elementi (terra, acqua, aria ed etere o fuoco) che comu-  nemente si suole invece attribuire ad Empedocle di Gir-  genti, vissuto un secolo dopo. Non manca neppure  nelle opere varroniane qualche accenno alla teoria pita-     [Varrone, de Lingua Latina, --  Pythagoras Samius ait  omnium rerum initia esse hina ut finitum et infinitum^ honum  et malum^ vitam et mortem., diem et noctem. Quare item duo,  status et m,otus : quod stat aut agitatur, corpus ; uhi agitatur  locus; dum. agitatur, tempus; quod est in agitatu, aetio; quare  fit^ ut ideo fere omnia sint quadripartita et ea aeterna, quod nc-  que unquam tempus quin fuerit motus, eius enim intervallum  tempus; ncque motus ubi non locus et corpus, quod alter um est  quod moveiur, alterum uhi; ncque uhi agitatur, non actio ihi;  igitur initiorutn quadrigae : locus et corpus, tempus et actio ».   Varrone, de re rustica, Sive enim aliquod fuit prin-  cipium generandi animalium, ut putavii Thales Milesius et Zeno Gittieus ; sive cantra principium horum exstitit nullum, ut credidii Pythagoras Samius et Aristoteles Stagirites\ necesse est humanae vitae a summa memoria gradatine descendisse » . Cfr. CenSORINO, de die natali, IV, 3.   ViTRUVio, de architectitra, V, 1 ; Servio, ad Aeneid. VI,  724; ad Geòrgie IV, 2l9; Ovidio, Metamorfosi, XV, 237 e seg.  E cfr. Diogene Laerzio, VIII, 25.   gorica deir eternità dell' anima e alla sua dottrina della  metempsicosi, a conferma della quale ricorda persino le sue vite anteriori, essendo stato prima un certo  Etalide, poi Euforbo, poi il pescatore Pirro e finalmente  Ermotimo. Altrove ancora Varrone accenna alle pratiche di evocazioni dei morti, che del resto erano largamente usate neir antichità, come dimostra, fra le altre, la  rappresentazione di una scena di necromanzia dipinta in  un monumento cretese, scoperto da poco, che risale ai  tempo pre-omerico della così detta  civiltà micenea o minoica. È finalmente quasi superfluo dire che Varrone non  manca di parlare del famoso divieto pitagorico di mangiar fave, connesso con la credenza nella metempsicosi  e con la concezione che Pitagora ebbe della vita post-mortale   Symmaghus, Ep. I, 4.   (2) Vabro, Sat. Menipp.^ ed. B framm. 127 (= Nonio Marcello,  p. 121, 26); Tertulliano, de mi. 27 e 34; ad nat. I, 19; Ago-  stino, de cìv. dei 18, 45; Scholia in Lucan. p. 289, 11 e 304, 13.   (3) Tertulliano, de an. 28, 31 e 34; Sant'A&ostino, Trinit. XII,  24.   (4) Sant'Agostino, de civ. dei VII, 35 « Quod genus divinatiònis idem Varrò e Persis dicit allatum, quo et ipsum Numam, et  postea Pythagoram philosophum usum fuisse commemorai ; ubi  adhihito sanguine etìam inferos perhibet sciseitari et nekyoman-  teian graeee dicit vocari » . Quanto alle rappresentazioni di scene  di necromanzia si veda, per esempio, Drerup, Omero (Bergamo  I9l0) a p. 176 e relativa tavola a colori; e si ricordi la famosa  Nekuia omerica del libro XI dell'Odissea.   (5) Tertulliano, Apol. 47 ; de anima, 33 ; Plinio, Nat. Hist.  XVIII, 118, XXXV, 160.  Tali a un di presso le notizie di contenuto pitagorico, che si possono far risalire a Varrone. Data l'esiguità  delle opere superstiti e la varietà degli autori da cui sono raccolte, esse sono slegate e frammentarie, ma tali  però da farci ancora una volta rimpiangere la perdita  quasi totale dell' enciclopedia varroniana, con la quale si  è certo perduto per sempre un ricco tesoro di notizie  utili e importanti per la storia del Pitagorismo nell'antichità classica.   Ma poiché dei materiale già sistematicamente raccolto  da Varrone, come delle sue speculazioni e delle sue ricerche storico-filosofiche debbono essersi serviti non poco  i filosofi contemporanei o che vissero poco dopo di lui,  così, continuando a cercare le tracce di Pitagorismo rimane nelle opere di altri filosofi di questo tempo, potremo ricostruire e svolgere qualche altro punto della  dottrina di Pitagora e compiere così il quadro della conoscenza che ne ebbero i contemporanei di Giulio Cesare e d’Ottaviano.  Fra gli amici dVarrone è degno  di essere ricordato queir APPIO CLAUDIO FULCRO, del quale  sappiamo che e augure, pretore, console, censore, governatore della Cilicia e legato in rapporti di amicizia anche con Cicerone, di cui ci restano  diverse lettere a lui indirizzate.   Convinto che la scienza augurale avesse il suo fondamento non già nel desiderio o nel bisogno di giovare  anche con 1' ausilio potentissimo della religione agii interessi dello stato romano — come la pensa l' altro grande  augure GAIO CLAUDIO MARCELLO — ma che realmente e  un dono concesso dal divino agli uomini, perchè questi sono in grado di meglio intendere la loro volontà e di  regolare, uniformandosi a questa, la propria condotta, era solito far sortilegi, oroscopi, evocazioni di morti. Ne più né meno di quello che, secondo  la tradizione fa  Numa, il filosofo Ferecide di Siro, il suo  discepolo Pitagora, e Platone. Questa convinzione ,  suffragata dalle dette pratiche della divinazione artificiale  cui era dedito, dove appunto indurre Appio a scrivere  quei suo “Liber auguralis,” forse di carattere polemico,  che dedica all' amico Cicerone, lì quale fra l’interpretazione utilitaria e razionalistica di quelli che la pensa come Marcello, e la fede ortodossa di coloro che la pensano come Appio Claudio, ha un'opinione intermedia,  in questo senso : che cioè una vera e propria scienza e  arte augurale e già esistita in antico, ma che di essa  però non e più depositario, al tempo suo, il collegio  degli auguri, poiché, per il lungo tempo trascorso e per  l’abbandono e la negligenza in cui s' era lasciata, era,     (1) CicEBONE, de divìnatione, L. II, 13, 32 : « sed est in conlegio  vestro inter Marcellum et Appiutn, optimos augures, ynagna dissensio fnam eorum ego in libros incidi, quom alteri plaeeat  auspieia ista ad utilitatem esse reipublicae composita, alteri disciplina vestra quasi divinare mdeatur posse » .   (2) CiCEE., Tusculane, 1. I, 16, 37 : < inde ea, quae meus amicus  Appius nekyomanteia faciebat ». Cfr. de divinat. I, 10, 30 ; 58,  132.   (3) Si cedano in S. Agostino, Città di Dio, l. VII, i capitoli  34 e 35.   (4) CioEE., Tuscul, I, 16, 38 j 17, 39.   (5) CicER., Ad familiares, 3, 4, 1 ; 9, 3, 11, 4 ; Varrone, R.  R. 3, 2f 2.]  secondo lui, svanita. Dichiarazione questa, che per  essere fatta da un augure di tanta autorità, non è certo  di lieve momento. Sarebbe in verità molto interessante addentrarsi nella  ricerca di quel che e proprio questa ra antica, come  la chiamavano i greci, o aruspicina, che tanta parte ha nella vita degl’Elioni e degli antichi  Italici. Ma questa trattazione mi porterebbe troppo lontano dal tema di cui ora sto occupandomi. E del resto  ricerche abbastanza ampie, se non proprio in tutto soddisfacenti ed esaurienti, sono già state fatte in proposito.  Basti dire pertanto che la mantica o arte divinatoria si  esercita in forme e modi diversi — con l’osservazione  del volo degli uccelli in un punto determinato del cielo detto “templum” -- onde trasse origine la parola “contemplazione”), con 1' esame dei visceri (cuore, polmone, fegato)  di animali sacrificati a questo scopo (“hostiae consultatoriae”) con la interpretazione o ermeneutica dei sogni, con  la considerazione dei fenomeni celesti (tuono, lampo, fulmine, ecc.), cogli oracoli, coi pubblici e privati carmi  profetici - ; e che era pure praticata da Pitagora, il  quale vi annette anzi un particolarissimo valore, tanto  da voler essere ritenuto egli stesso augure (3) : il che     (1) CicER., de legìbus 1. II, 13, 33 ; « Sed dubium non est,  quin haec disciplina et ars auguruni evanuerit jam et vetustate  et neglegentia. Ita neque illi (cioè Marcello) adsentior, qui negai  unquam in nostro conlegio fuisse, neque UH ;cioè Appio) qui esse  etiam nunc putat ». Cfr. de divinai. 11^ 33, 70.   (2) Si vedano, fra gli altri, i due importanti lavori del Bochsenschììtz, Sogni e cabala nelV antichità, Berlinoe del Cak-  TANi-LovATELLi, Sogni e ipnotismo nelV antichità, Roma 1889.   (3i CiCEBONE, de divinatione, L. I, 3, 5 « .... huic rei (cioè  alla divinazione) magnani auctoritatem Pythagoras,.. tribuit, qui     no     naturalmente non poteva pretendere senza dare qualche  prova di virtù profetica ; e, secondo la tradizione, egli  ne diede infatti non poche.   Altro amicissimo di Varrone e, come è noto, Cicerone. Negli scritti che in gran numero ci restano di CICERONE frequentissimi sono gli accenni a Pitagora, alla sua scuola  e alla sua filosofia ; non però tali da farci pensare a una  elaborazione personale e originale, o all' approfondimento  di qualche parte delle dottrine pitagoriche. Seguace come e di un eclettismo che sta fra l’Accademia e il Portico, iniziato ai misteri religiosi,  augure anch' esso, appassionato se non profondo cultore  della filosofia, della quale si fece divulgatore, creando quasi ex novo per essi, dopo il mirabile  tentativo poetico di Lucrezio, la lingua filosofica, autore  anche di molte opere, nelle quali, con squisito senso di  arte, tratta dei più svariati argomenti sì metasifici che  morali, Cicerone ha senza dubbio una conoscenza abbastanza larga dell'antica filosofia italica, l'unica forse  che ha già avuto in Roma insigni divulgatori e seguaci, come Appio Claudio Cieco ed Ennio, e rinnovatori  come Nigidio. È anche indubitato che molto gli giovarono per tale conoscenza — oltre che 1' assiduo studio dei filosofi l’amicizia di Varrone e dello stesso Nigidio Figulo,  e la lettura dei loro scritti. Ma non per     etiam ipse augur vellet esse ». Cfr. I, 39, 87 ed anche 45, 102 :  « Neq^ue solum deorum voces Pythagoreì observitaverunt, sed etiam  hominum, quae vocant omina » . questo possiamo dire che i'Arpinate fa particolari studi intorno a quel sistema di dottrine, che, se  collimavano in parecchi punti con le sue convinzioni per-  sonali, tuttavia^ per il simbolismo onde erano involute,  si prestavano assai meno delle posteriori e piìi note filo-  sofie ad essere facilmente comprese dai profani e divulgate  artisticamente.   3. — In ogni modo, volendo raccogliere dalle sue opere  le notizie che si riferiscono a Pitagora e alla sua scuola,  dovrei prendere le mosse da quel passo delle Tuscolane in cui Cicerone parla delle dottrine pitagoriche, della loro diffusione in Italia e delle tracce che  esse lasciarono nelle istituzioni e nella LEGGE dì Roma. Di Pitagora Cicerone dice in due luoghi che e discepolo di Ferecide, specialmente per la sua dottrina  suir eternità dell' anima, in quanto egli insegna l’esistenza di un' anima universale, compenetrante tutta la  natura e ciascuna delle sue manifestazioni, e la derivazione da essa di ogni anima umana. E per ciò che  riguarda la natura di questa, Cicerone stesso accetta la  distinzione - fatta prima da Pitagora e poi da Platone —     (1) De divinatione, I, 50, 112 ; Tusculane I, 16, 38: « Pherecides  Syrius primuìn dixit anìmos esse hominum sempiternos. .. Rane  opìnionem discipulus Pytkagoras ìnaxime confirmavit ».   (2) De natura deorum, I, 11, 27 : « Pytkagoras censuìt ani-  mum esse per naturatn rerum omnem intentum et eonmeantem,  ex quo nostri animi earperentur ». De seneetute 21, 78 : « Au-   dieham, Pythagoram Pythagoreosque numquam dubitasse, quin   ex universa mente divina delibatos animos haberemus ».] dell' anima in due parti, l’una ragionevole, in cui questi  filosofi poneno la tranquillità, cioè una placida immutabile costanza, e l’altra irragionevole, onde traevano  origine i moti torbidi sì dell' ira come del desiderio. Per la quale credenza l’uno e l'altro ammisero la possibilità di accrescere le forze conoscitive dello spirito,  specialmente nel sonno, quando a questo l' uomo si fosse  disposto opportunamente con particolare dieta e con una  meditazione preparatoria; e credettero nella divinazione,  al punto che Pitagora pretende di essere egli stesso profeta. Cicerone seppe anche dei  viaggi di quest' ultimo nelle terre più lontane (3), del suo  colloquio con Leonte, il capo dei Fliasii, in cui per la  prima volta si chiamò filosofo (4), della successiva venuta  in Italia, dei suoi studi di geometria e del sacrificio d'un     (1 ) Tusculane, IV, 5, lO : « Veterem illarti equidem Pytkagorae  pri/num, dein Platonis diseriptionem sequar, qui anlìnum in  duas partes dividunty alter ani rationis participem f aduni y alte-  rani expertem ; in participe rationis ponunt tranquillitatemy id  est placidam quietarnque constantiam, in illa altera 'ruotus turbi-  dos cum irae, twìn cupiditatis, conirarios ìnimicosque rat ioni ».  Cfr. libro I, 17, 39.   (2) De divinatione, II, 58, 119: « Pythagoras et Plato,., quo  in somnis certiora videamus, praeparatos quodam eultu atque  victu proficisci ad dormiendum jubent ; faba quidem Pythagorei  utiqus abstinere, quasi vero eo cibo mens, non venter infletur ».  Sulle meditazioni serotino, ma di altro genere, vedasi De senectule  11, 38 : Pythagorii quid quoque die dixissent, audissent, egissent,  eommemorabant vesperì » ; e sulla astinenza dalle fave si con-  fronti de divinatione I, 30, 62 e II, 58, 119.   (3) TuseuL, IV, 19, 44; 25, 55; de fìnibus V, 19, 50; 29, 87.   (4) TuseuL, V, 3, 8 e segg. Cfr. sopra e vedi Diogene Laerzio,  Proemio, 12, che desume la notizia da un libro di Eraclide pontioo.  bue alle Muse per aver trovata la soluzione d'un teorema,  della sua dimora a Crotone e a Taormina in Sicilia,  della sua operosa vecchiezza, e infine della sua dimora  e della morte a Metaponto. Quanto alla dottrina e alla scuola, oltre al noto prin-  cipio autoritario dell' ipse dixit^ che biasima (6), e a quello  che ho accennato or ora della natura dell' anima, Cicerone  ricorda la teoria dei numeri (7), 1' armonia del mondo e  il culto della musica (8), l'astinenza dai sacrifìcii cruenti  e il rispetto per gli animali, naturale e logica conseguenza  del concetto pitagorico della vita, il divieto del suicidio e infine la bella concezione dell' amicizia, vera  comunanza di spiriti e di vita, che diede fra gli altri  il mirabile e notissimo esempio di Damone e Finzia;  oltre ai quali il nostro scrittore ricorda altri pitagorici.     (1) De nat. deorum, III, 36, 88. La cosa per altro non par cre-  dibile a Cicerone, perchè Pitagora si sa che non volle sacrificare  una vittima neppure ad Apollo delio, per non bagnare di sangue  un altare. E non ha torto.   (2) De re publica II, 15, 28; ad Atticum IX, 19, 3.   (3) De consul. 3. Cfr. Giamblico, Vita Pythag . 122.   (4) De senectute 7, 23.   (5) De finibus V, 2, 4.   (6) De nat. deor., I, 5, 10. Per la critica ed il valore di questo  principio autoritario si veda nell'Appendice « Il sodalizio pitago-  rico di Crotone » .   (7) Tuscul., I, 10, 20 ; Acad. pr. II, 37, 118 e Somnium Sei-  pionis, 12 e 18.   (8) De nat. deor., Ili, 11, 28 ; Tuscul., Y, 39, 113.  (,9) ibid.. Ili, 36, 88: de re pubi., Ili, 11, 19.   (10) De senect., 20, 73 ; prò Scauro, 4, 5.   (11) De officiis, I, 17, 56; de legibus, I, 12, 34; Tuscul., Y, 23, 66.  a2) Tuscul. Y, 22, 63; de officiis, III, 10, 45; de finibus, II,   24-79; Cfr. Porfirio, V. P. 59.]   e cioè Filolao di Crotone e il suo discepolo Archita di Taranto, Echecrate di Locri, Timeo ed Acrione contemporanei di Platone.   Di quest'ultimo poi egli dice esplicitamente che, dopo  la morte di Socrate, prima si reca in Egitto e poi in Italia  e in Sicilia per conoscere da vicino le verità scoperte da  Pitagora, e che stette molto con Archita e Timeo e potè  procurarsi i commentarli di Filolao (che esponeno per  iscritto per la prima volta le dottrine del maestro, fino  allora trasmesse solo oralmente e sotto il vincolo della  segretezza) ; e poiché allora appunto era più che mai celebre nella Magna Grecia il nome di Pitagora, pratica  con Pitagorici e si dedicò ai loro studi. Tanto che, prediligendo egli Socrate sopra ogni altro e volendo rappresentarlo adorno di ogni virtù e sapienza, fuse insieme la  piacevolezza e la sottigliezza socratica con 1' oscurità del  simbolismo pitagorico e nei suoi dialoghi fece parlare il  maestro in modo che, anche quando discuteva di morale  e di politica, si studia di mescolarvi i numeri, la geometria  e r armonia, alla guisa di Pitagora. Dal quale poi     (1) De finibus, V, 29, 87.   (2) De re pubi., I, 10, 16 : < In Platonis libris multis locis  ita loquitur Socrates, ut etiam cum de moribus, de virtutibus  denique de republica disputet, numeros tamen et geometriam et  harmoniam studeat Pythagorae more eoniungere. Tum Scipio :  Sunt ista, ut dtcis, sed audisse te credo, Tubero^ Platonem, So-  crate mortuo, primum in Aegyptum discendi causa, post in Ita-  liam et in Siciliani contendisse, ut Pythagorae inventa perdisceret,  eumque et cwrn Arehyta Tarentino et cum Timaeo Locro multum,  fuisse et Philolai commentarios esse nanctum, quunique eo tem-  pore in his locis Pythagorae nomen vigerci, illum se et hominibus  Pythagoreis et studiis illis dedisse. Itaque cum Socratem uniee  dilexisset eique omnia tribuere voluisset , leporem Socraticum  tolse di peso la dottrina ferecidea sull'eternità dell'anima,  aggiungendovi però di suo una spiegazione razionale. Un complesso dunque di notizie, o meglio di accenni,  superficiali e sconnessi, che rappresentano press'a poco  il grado di conoscenza che del Pitagorismo hanno gli  uomini colti dell'età di Cicerone. Ma vi è un' opera di questo secondo scrittore,  anzi un frammento della sua opera "più importante, sul  quale dobbiamo fermare un poco più particolarmente la  nostra attenzione, per la molteplicità degli elementi pitagorici che contiene: voglio dire il Sogno di Scipione  così famoso e di tanta importanza per la storia della mistica, sia considerato in se stesso sia per i commenti che  ha; poiché intorno ad esso si affaticarono molti ingegni,  da Macrobio e da Eulogio, che ne fecero amplissima analisi, all'inglese Wynn Westcott, che     su Milìtatemque sermonis cum obscuritate Pythagorae et cum illa  flurimarum artium gravitate contexuit » .   (1) TuscuL, I, 17, 39 : « Platonem ferunt, ut Pythagoreos cogno-  sceret, in Italiam venisse et didleisse Pythagorea omnia primumque  de animorum aeternitate non solum sensisse idem quod Pytha-  goram sed rationem etiam attutisse » . Cfr. De amicitia, IV, 13 :  « Neque enim adsentior iis, qui nuper haec disserere coeperunt,  cum corporibus simul animos interire atque omnia m>orte deieri.  Plus apud me antiquorum auctoritas valet, vel nostrorum m>ajo-  Tum.... vel eoriim, qui in hac terra fuerunt magnamque Orae-  ciam, quae nunc quidem deleta est, tum florebat, institutis et  praeceptis suis erudierunt, vel eius, qui Apollinis oraeulo sapien-  tissimus est iudieatus, qui non tum hoc, tum illud, ut in plerisque,  sed idem semper, animos hominuvi esse divinos, iisque, cum ex  corpore excessissent, reditum in eoelum patere optimoque et iu~  stissimo cuique expeditissimum. Quod idem Scipioni videbatur »   (2) AuRELii Maceobii Ambrosii Theodosii V. ci. et inlustris Gom-  Quentarius ex Cicerone in Somnium Scipionis libri duo. - - Favonii  EuLoan oratoris almae Karthaginis Disputatio de somnio Scipionis, scripta Superio y. e. cos. Provinciae Bizacenae. non molti anni addietro ne pubblicò una traduzione dicendolo senz' altro, (non so però con quale fondamento  che non sia una semplice presunzione ipotetica) un fram-  mento dei Misteri (1).   Mi preme tuttavia di mettere subito in chiaro che,  affermando pitagorico il contenuto di questo sogno, non  voglio con ciò asserire né che Cicerone e un seguace  di quella filosofia, né che desumesse direttamente le idee  informative del sogno stesso da scritti pitagorici : poiché  so bene che studi fatti recentemente da valentissimi critici come Gylden, Corssen, Pascal, hanno  messo in chiaro che fonti ciceroniane per la materia di  esso furono o poterono essere Platone, Posidonio ed Eratostene. Ma sta di fatto che noi troviamo raccolti in esso  tutti quasi i concetti suesposti, che Cicerone stesso attribuiva a Pitagora e ai suoi seguaci ; il che dimostra  ancora una volta, se pur ve ne fosse bisogno, che i filo-  sofi posteriori fecero proprie e tramandarono l'uno all'altro  molte delle idee e degli insegnamenti della scuola croto-  niate. L' idea poi di valersi d' un sogno per fare un'esposizione di principi filosofici già era venuta, agli albori  della filosofia romana, a un grande scrittore e poeta,  pitagorico per giunta: voglio dire ENNIO.     (1) Somnium Seipionis. The vision of Scipio considered as a  fragment of the Mysteries, London, 1899.   (2) Vestigia Platonis in Gieeronis Somnio Scipioìiis, 1848.   (3) De Posidonio Rhodio M. T. Gieeronis in l. I Tuscul. disp.  et in Somnio Seipionis auctore. Bonnae, 1878.   (4) Di una fonte greca del « Somnium Seipionis » di Cicerone,  nei rendiconti della R. Accademia di Archeologia, Lettere e belle  Arti di Napoli, 1902. Ripubblicato in « Oraecia Capta », Firenze,  Le Monnier. Sicché possiamo ben dire pitagorica l' ispirazione di  questo bellissimo frammento ciceroniano: tanto più che  abbiamo sentito or ora, per bocca dello stesso Cicerone,  che opinione Pitagora e i suoi avessero intorno al sonno  e alle forze conoscitive dello spirito nel riposo e nella  quiete del corpo.   Questo sogno, poi, secondo le osservazioni di Macrobio,  partecipa contemporaneamente di tutte e tre le forme  principali o profetiche dei fenomeni del sonno, oracolo,  visione e sogno: oracolo (oraculum =^ xpr^pta-ctafió?), in  quanto apparvero a Scipione addormentato il padre Lucio  Emilio Paolo e il padre adottivo Scipione Africano Maggiore, uomini venerandi, che avevano anche coperto cariche sacerdotali, e gli predissero quello che egli avrebbe  fatto come generale e come magistrato e la sua morte; visione (visio = Spajjta), in quanto durante il  sonno parve all' Emiliano di essere trasportato in cielo e  più precisamente nella via lattea, dove avrebbe poi  dovuto tornare dopo morto a godervi la felicità concessa  dal divino ai buoni reggitori degli Stati — e di lassù contemplare r universo e i pianeti e la terra stessa divisa  nelle sue cinque zone ; sogno propriamente detto {som-  nium 3= ovetpo?), perchè la profonda verità delle cose a  lui dette dalla grande anima di Scipione non puo essere  svelata e chiarita senza il lume dell' ermeneutica.  Tanto è vero che il commento interpretativo di Macrobio  è di gran lunga più esteso che tutti i sei libri della Repubblica, e non meno lunga è la dissertazione di Eulogio,  che verte specialmente intorno alle qualità mistiche dei  numeri e alla musica delle stelle.  (1) Macbobio, 1. I, e. 3.  Volendo dunque Cicerone esaltare i grandi uomini  che -si resero benemeriti della patria e mostrare quale  premio, dopo la morte, fosse dato alle loro virtù, quello  cioè di ritornare alla loro patria celeste, immaginò che  uno degli interlocutori dei dialoghi intorno alla Repubblica, Publio Cornelio Scipione Emiliano, narra agli  altri interlocutori un sogno da lui fatto quando, essendo  tribuno in Africa, e ospite del re Massinissa, grande  amico di Scipione il Maggiore.   Uscita dal corpo durante il sonno, l’anima dell' Emiliano si trova trasportata, a un tratto, nella via lattea,  dove, giusta le credenze dei Pitagorici, avevano loro sede  le anime degl’eroi, tanto prima di scendere in terra a  vestirsi d' umana carne, come dopo aver fatto il loro pellegrinaggio quaggiù.   Ascoltata dall'Africano la predizione delle sue imprese  e della sua morte, che sarebbe avvenuta quando la sua     (1) Somnium 5, 13 : « Omnibus qui patriani conservaverint,  adiuverinty auxerint, certuni esse in caelo defìnitum locum, ubi   beati aevo sempiterno fruantur Harum rectores et conservatores   hinc profeeti huc revertuntur ». Al qual proposito osserva il Cors-  SEN (op. cit. p. 46) che l' idea è forse presa dai Pitagorici. Infatti  a proposito dei versi 12-13 del 1. XXIV della Odissea, in cui è  detto che le anime dei Proci guidate da Hermes « andavano alle  porte del Sole e al popolo dei Sogni e poi giunsero nel prato degli  asfodeli, dove abitano le anime, ombre dei trapassati » scrisse Porfirio (àe antro ISiympharum, e. 28) che il popolo dei sogni non  sono altro che, secondo Pitagora, le anime che dicono raccogliersi  nel cerchio della via lattea. Poiché il prato degli asfodeli i Pitago-  rici appunto lo immaginarono in quel cerchio. Anche Plutarco (de  faeie in orbe lun., p. 943 G.) scrisse che le anime dei buoni si  indugiavano per un certo tempo nella parte più tranquilla del cielo  che chiamavano prati dell' Ade.  età avesse percorso « uno spazio di otto volte sette giri  e rivoluzioni del sole e questi due numeri (ognuno dei  quali, per ragioni proprie a ciascuno di essi, era ritenuto  perfetto) avessero compiuto col naturale succedersi degli  anni la somma a lui predestinata », e saputo — quasi  a conforto del suo triste destino — che egli pure sarebbe  salito lassù, dove si trovava anche suo padre Paolo,  « dunque, chiede, siete vivi tu e mio padre e gli altri  che crediamo estinti ?» « E come ! gli risponde Scipione,  anzi noi che siamo volati quassù liberandoci dai legami  corporei come da un carcere siamo veramente vivi; la  vostra, che si chiama vita, è morte ». E riveduta, con  intensa commozione, 1'anima del padre, chiede ad essa:  « Perchè dunque, se questa è la vera vita, debbo indugiarmi e vivere ancora sulla terra ? » « Perchè, gli  viene risposto, se quel Dio a cui appartiene tutto l'uni-  verso non ti ha prima liberato dal carcere corporeo, non  ti può essere aperto l'adito a queste sedi beate. Gli uomini  sono stati creati per dimorare sulla terra, che occupa  il centro del creato, ed è stato dato ad essi l'animo,  originario di quei fuochi eterni che chiamate costellazioni  e stelle e che, di forma sferica e circolare, animati da  menti divine, fanno i loro giri e descrivono le orbite loro  con prestezza mirabile. Perciò tu e tutti gl’uomini pii  dovete trattenere l'animo vostro nei legami corporei e  non disertare, contro la volontà di chi ve l'ha data,  dalla vita d' uomini, perchè non sembri che voi vogliate     [Somnium 4, 12. Della pienezza o perfezione dei due nume-  ri 8 e 7 parla a lungo Macrobio nei capitoli Y e VI, adducendone  partitamente le ragioni ; e ciò, naturalmente, secondo le teorie e  le speculazioni pitagoriche. Altrettanto dicasi di Eulogio.\   sottrarvi al compito umano assegnatovi da Dio  » . Perciò  il padre lo esorta ad essere giusto ed a coltivare la pietà,  perchè così vivendo si aprirà la via per ritornare al cielo  fra quel santo stuolo di anime che, già vive ed ora separate dalla materia corporea, abitano la via lattea.  Dalla quale poi l' Emiliano contempla estatico lo spettacolo  dell' universo stellato e il roteare dei nove cerchi o meglio  globi, di cui il pili esterno, che abbraccia gli altri, è  quello delle stelle fisse, o firmamento, lo stesso divino supremo che tiene uniti e racchiude in sé tutti gli altri,  cioè i cieli di Saturno, di Giove, di Marte, del Sole, di  Venere, di Mercurio, della Luna, nel mezzo dei quali sta,  immobile, la Terra. E mentre osserva i cieli roteanti,  ecco lo colpisce un' armonia solenne e dolce, quella cioè  che è prodotta dal movimento delle sfere e dal loro percuotere neir aria, onde si producono suoni acuti e gravi,  che insieme formano i sette accordi della lira: proprio  secondo la dottrina pitagorica. L' ammirazione per la grandezza e  la novità delle cose che vede e ode non fa però che  Scipione distolga gli occhi dalla terra, sì che l'Africano     [Somnium, 7, 15. Cfr. il luogo già ricordato del De seneetute  (20, 73) dove è detto esplicitamente che questo concetto è di Pi-  tagora : « vetat Pythagoras iniussu imperatoris, id est dei, de  praesidio et statione vitae decedere ».   (2) Somnium, 8, 16.   (3) Tutta questa concezione della terra immobile nel centro di  un ambiente sferico, intorno al quale s'aggirano col firmamento i  sette cieli planetarii, è prettamente pitagorica ; e tale fu pure, se-  condo il Martini, la scoperta della direzione del corso dei pianeti  e della eclittica. Vedasi il Gìjnther, Oeschichte der antiken Natur-  wissenschaft in Miiller's Handbuch V, 1.   (4) Somnium 10, 18-19. Cfr. Quintiliano, Insite, oratoria, I, 10, 12.]  gliene mostra parte a parte i circoli, le zone, le acque  e conclude che essa è campo ben ristretto per la gloria  degli uomini : onde la vanità della gloria stessa, la quale  non può neppur durare lo spazio di uno solo dei grandi  anni mondani. « Se tu dunque, conchiude la grande  anima, vorrai mirare in alto e tenere volto lo sguardo a  questa dimora eterna, non curarti dei discorsi del volgo  né porre la speranza delle tue azioni nei premi degli  uomini: bisogna che la virtù per sé stessa con le sue  blandizie ti tragga alla vera gloria » Esaltato dallo  spettacolo delle cose viste e dalle promesse, dalle predizioni, dai consigli uditi, Emiliano promette di adoperarsi con tutta r anima per il bene della patria e 1'avo  lo conferma nel suo proposito dichiarandogli l’immortalità dell' anima. « Ricordati che non tu, ma il tuo corpo  è mortale ; e che tu non sei quello che codesta forma  corporea fa apparire. Ciascuno é ciò che é l'anima sua,  non quella parvenza che può mostrarsi a dito. Sappi che  tu sei divino; se divina è quella forza che anima, che sente,  che ricorda, che prevede, che regge e modera e muove  questo corpo, a cui è preposta, così come il sommo divino  regge, modera, muove il mondo ; e come lo stesso divino  eterno muove il mondo per qualche rispetto mortale, così  il fragile corpo è mosso dall' animo sempiterno »    Della durata di circa 12000 anni' comuni, secondo le dottrine  dei Genetliaci, dei quali ho accennato nel capitolo terzo.   (2) Somnium, 17, 25.   (3) Somnium, 18, 26 : «^ Tu vero enìtere et sic haheto, non esse  te mortalem sed corpus hoc; nee enini tu is es, quem forma ista  declarat : sed mens cuiusque is est quisque, non ea figura, quae  digito demonstrari potest. Deum te igitur scito esse, siquidem est  deus, qui viget, qui sentit, qui meminit, qui providet, qui tam  « Tu esercita questo nelle più nobili cure: e nobilissime  sono le cure spese per il bene della patria (1); onde  l'animo che in esse si adopera e si esercita volerà piti  velocemente in questa sede e dimora sua. Anzi tanto più  presto vi verrà se, fin da quanto è chiuso nel corpo saprà  uscirne e, contemplando quel che è fuori di esso, staccarsene il più possibile. Perchè gli animi di quelli che  si abbandonano ai piaceri del corpo e si rendouo quasi  schiavi di essi e, sotto l'impulso dei desideri obbedienti  ai piaceri, violano i diritti divini e umani, usciti dal corpo  vanno svolazzando intorno alla terra e non ritornano a  questo luogo se non dopo aver trascorso in perenne agitazione molti secoli » (2). E con 1' enunciazione di questi  concetti pitagorico-platonici il magnifico sogno finisce.     regit et tnoderatur et movet id corpus, cui praepositus est quam  kune mundum ille princeps deus ; et ut mundum ex quadam  parte mortaleni ipse deus aeternus, sic fragile corpus animus  senipiternus movet ».   [Anche questo, è bene ricordarlo, era un concetto pitagorico;  tanto è vero che Pitagora, serbava come insegnamento ultimo ai  suoi discepoli quello relativo all' esercizio dei pubblici poteri. V.  S. Agostino, de ordine II, 24, 54.   (2) Somnium, 21, 29 : « Hanc tu exerce optimis in rebus : sunt  autem optimae curae de salute patriae, quibus agitatus et exer-  citatus animus velocius in hanc sedem et domum suam pervolabit.  Idque ocius faeiet, si jam tum, cum erit inclusus in corpore,  eminebit foras et ea, quae extra erunt, contemplans quam maxime  se a corpore abstrahet. Namque eorum animi, qui se corporis  voluptatibus dediderunt earumque se quasi ministros praebuerunt  impulsuque libidinum voluptatibus oboedientium deorum et homi-  num iura vìolaverunt, eorporibus elapsi circum terram ipsam  volutantur nec hunc in locum nisi multis exagitati saeculis rever-  tuntur ».  Nel tempo del quale ci stiamo occupando non  è a credere che la conoscenza del Pitagorismo avesse i  suoi riflessi soltanto negli scritti di prosa e di poesia del  genere di quelli che abbiamo già visti, destinati a un  pubblico eletto e relativamente limitato ; che anzi l' insegnamento fondamentale della dottrina di Pitagora, cioè  la metempsicosi, e il precetto dietetico dell'astinenza dalle  fave erano così entrati, come oggi si direbbe, nel dominio pubblico, da essere oggetto di satira e di riso nel  teatro popolare. Fra quelle specie di farse infatti che sono i mimi è ricordata una Nekyomanthia (Evocazione  di morti) di Decimo Laberio, che fu contemporaneo di  Cicerone e del quale Tertulliano ricorda  una satirica interpretazione della metempsicosi : « Insomma, se qualche filosofo affermasse, come dice Laberio  secondo 1' opinione di Pitagora, che 1' uomo si fa dal mulo  e la serpe dalla donna, e in tavore di questa opinione  volgesse, con parola efficace, tutti gli argomenti possibili,  non incontrerebbe 1' approvazione di tutti e non indurrebbe forse anche a credere che ci si debba perciò astenere dalle carni animali? Chi potrebbe esser sicuro di  non comperare eventualmente del manzo di qualche suo  antenato ? » Laberio dunque avrà tirato scherzosamente in ballo in qualche farsa, della quale nulla peraltro  sappiamo, la teoria di Pitagora ; e non è neppur difficile  pensare che gliene abbia data occasione una situazione  comica in cui fossero in contrasto 1' ostinata cocciutaggine d' un uomo e la velenosa malizia d' una donna. Il  commento e le deduzioni ironiche circa l'astensione dalle  carni che aggiunge Tertulliano ricordano quella che è  forse la prima testimonianza, in ordine di tempo, che ci  rimanga intorno alla metempsicosi pitagorica; voglio dire  i noti versi di un'elegia di Senofane, contemporaneo di  Pitagora:   E dicon eh' egli un giorno, vedendo un cagnuol maltrattato,   Ebbe di lui pietà, poscia in tal guisa parlò :  € Cessa, ne bastonarlo, poiché vive in lui d' un amico   r anima, che ravvisai, quando 1' ho udita guair » Tertulliano, Apologia, 48: « Age jam, si qui philosophus  adfirmet, ut ait Laherius de sententia Pythagorae, hominem fieri  ex m,ulOy colubram, ex muliere, et in eam, opinionem, omnia argu-  m,enta eloquii virtute distorserit, nonne consensum movebit et fìdem,  infiget etiam ah animalibus abstinendi propterea ? persuasum, quis  habeat, ne forte bubulam de aliquo proavo suo obsonet ? »   (2) I versi ci furono conservati da Diogene Laeezio (Vili, 36)  Anche in questi versi infatti, come nel commento di  Tertulliano, attribuendosi a Pitagora la metempsicosi anche animale (per una falsa estensione però, come ho già  detto), se ne mette scherzosamente in mostra il lato ridicolo.   Di un altro mimo dello stesso autore, intitolato Cancer,  è rimasto uno spunto di verso, in c«i si accenna a un  « dogma pitagorico », che molto probabilmente possiamo  ritenere che fosse la stessa metempsicosi. Finalmente  Cicerone e Seneca ci hanno conservato il ricordo di un  terzo mimo, di autore sconosciuto, intitolato Faba,  del quale sarà forse stato argomento la satira dello stesso  dogma di Pitagora e dei precetti riguardanti il vitto e  1' astensione dalle fave. Né è davvero il caso di me-     e prendendoli da lui, li ha citati anche Suida (sotto la voce Xeno-  phanes). Si veda a proposito di essi e delle altre antiche testimo-  nianze pitagoriche che risalgono ad Eraclito, Empedocle, Ione, ecc.  ciò che ha scritto lo Zeller nei Siizungsber. d. preuss. Akad.  1889, n. 45, pag. 985. Si è recentemente messo in dubbio che  questi versi si riferiscano a Pitagora ; ma tali dubbi sembrano al  GoMPERz (Penseurs de la Orèce, p. 135 nota) infondati. Ed ha per-  fettamente ragione.   (1) Prisoiano. vi, 2, pag. 679 P. e Anon. Bern. negli Anal.  Helvet. dell' Hagen, pag. 98, 33 e 109, 3 : « nec pythagoream  dogmam docius ».   (2) Cicerone, ad AH. XVI, 13 : « videsne consulatum illum no-  strum, quem Curio antea apotheosin vocabat, si hic factus erit,  fabam mimum futurum ? » e Seneca Apocoloc. 9 : o olim magna  res erat deum fieri, iam fabam mimum fecistis ». Debbo tuttavia  notare che da qualcuno si è proposto di leggere 8-aù[jia in luogo  del primo fabam, e famam in luogo del secondo. V. in proposito  la Eiv. di filol. class, del gennaio 1913, pag. 75-76.   (3) D. Capocasale in un suo breve lavoro {Il mimo romano,  Monteleone, 1903, pag. 49) pensa che « forse vi si dovea mettere ] ravigliarsene, solo che si consideri con che argomenti  piccini e con che sciocche ragioni si cercava di persuadere della necessità di tale astensione. Del resto anche ORAZOP si prende  amabilmente gioco di questi due stessi punti della dottrina pitagorica. Che se in una delle sue satire rievocava  con vivo senso di nostalgia le parche cenette di campagna fatte di fave e di erbaggi conditi col lardo, è evidente che egli — da buon epicureo — si infischiava del  precetto del filosofo; non solo, ma lo prendeva anche un  po' in giro, facendo addirittura la fava « consaguinea di  Pitagora ».   E la prima parte della famosa ode d' Archita non pare,  per dirla col Pascoli, « un attacco ai sistemi filosofici     in azione la parentela che esiste — secondo Pitagora — tra la fava  e l’uomo, ed il passaggio dell' anima in una fava ». Ora queste,  più che opinioni del severo filosofo, sono certo stramberie di  begli spiriti, che gliele attribuirono per burlarsi meglio di lui e  delle suo idee, come fa ORAZIO, per esempio. Si veda, per esempio, il. capitolo 43 della vita di Poefirionk.   (2) Orazio. Sat. II, 6, 63-64:   quando faba Pythagorae cognata siwiulque  XJneta satis 'pingui ponentur oluscula lardo ?   Un' altra scherzosa allusione vogliono vedere i più degli inter-  preti d' Orazio nel v. 21 della XII Epist. del libro I {veruni seu  pisces seu porrun et caepe trucidas)^ dove riferendosi il verbo trucidare non solo ai pesci, ma anche ai porri e alle cipolle {quasi  che anche in queste, come nella fava, si trovassero anime dei  morti) verrebbe a prendersi un po' in giro 1' amico Iccio — che  s' occupa di filosofia — e con lui la dottrina pitagorica della  metempsicosi, alla quale verrebbe data una ben larga estensione.  Qualcuno peraltro (per es. Ritter) nega ogni allusione.   che ammettono la sopravvivenza dello spirito, sistemi  quasi personificati in Archytas, per opera del quale il  Pythagorismo entrò nelle dottrine di Platone ? » Dice  infatti il poeta : « Te, o Archita, che misuravi il mare e  la terra e l' innumerabile arena, tiene ora fermo presso  il lido di Matinata lo scarso dono di poca sabbia, e nulla  ti giova aver esplorato 1' aria, dove altri che l'uomo abita,  e aver corso per la volta del cielo con Tanimo destinato  a morire. È morto anche il padre di Pelope, che pur  banchettava con gli dei, e Titone, che fu tolto alla terra  e sollevato neir aria, e Minosse, che fu ammesso agli ar-  cani di Giove, e il regno dei morti tiene anche il figlio  di Panto (Euforbo), che scese alF Orco un' altra volta  (dopo la sua nuova incarnazione in Pitagora), sebbene,  con lo scudo che fece staccare (dalla parete del tempio  di Giunone argiva in Micene) data testimonianza del  tempo della guerra trojana, non avesse concesso alla nera  morte (così affermava lui) niente più che i nervi e la  pelle (2); e tu (che eri un grande pitagoreo), splendido  mallevadore della verace scienza del tutto lo sai bene.-  Ma tutti ne attende un' uguale notte senza fine e tutti  dobbiamo calcare una volta sola (e non più, come tu credi)  la via che conduce sotterra. Le furie offrono alcuno gra-     [Pascoli, Lyra romana, Livorno, Giusti. Per  altri modi d' intendere quest' ode, che è la 28* del lib. I, si veda  il commento dell' Ussani, Le liriche di Orazio, Torino, Loescher,  1900, voi. I, pag. 119-L22, e in particolare 1' opuscolo dello stesso  autore Uode d' Archita. Roma, 1893.   (2) habentque   Tartara Panthoiden iterum Orco  Demissurn, quamvis clipeo Trojana refixo   Tempora testatus nihil ultra  Nervos atque cutem morti concesserat atrae.   dita vista al bieco Marte ; il mare insaziabile è ministro  di morte ai naviganti ; si susseguono senza posa i funerali sì dei vecchi che dei giovani, l'implacabile Proserpina  non ebbe mai rispetto ad alcun capo ».   E. evidente che qui Orazio, affermando recisamente che  tutti, senza distinzione, subiremo un egual destino mor-  tale, e contrapponendo in particolare la sua affermazione  al ricordo « di Pitagora redivivo » , come lo chiama altra  volta (1), fa doli' ironia bella e buona alle spese del « fi-  gliuolo di Panto ».   E VIRGILIO -- in qual  conto tenne le dottrine pitagoriche? Esercitarono esse  qualche influsso sul suo pensiero e lasciarono traccio visibili neir opera sua, dal momento che sappiamo — per  quello che ce ne dice egli stesso e per quello che ci  hanno tramandato i suoi biografi e commentatori — che  egli ebbe grande inclinazione agli studi filosofici e che  desiderio di tutta la sua vita fu quello di potervisi dedicare di proposito?   Nel tempo in cui Figulo e i Sestii tentarono di far  rivivere in Roma la filosofia pitagorica, è possibile pensare che uno spirito come quello di VIRGILIO, colto, curioso e naturalmente portato alle speculazioni filosofiche,  non ne abbia avuto conoscenza? Per me non solo non  v' è argomento di dubbio, ma credo di poter dire anche     [In uno degli Epodi (XV, 21) Orazio accenna ancora alle  varie vite di Pitagora nel verso « nee te Pythagorae fallant  arcana renati », dove è da notare anclie 1' allusione al carat-  tere segreto e misterioso della dottrina (arcana) Nelle Satire no-  mina una volta (II, 4, 3) Pitagora con Socrate e con Platone e  nelle Epistole ricorda il sogno pitagorico di Ennio (II, 1, 52).   a; ì^i1^ Dicerone, come ho già mo strato nelle precedenti  credette di ravvisare nelle pratiche e nei prin-  [Pitagorismo Torigine di molte delle più antiche  L romane, e con Cicerone lo avranno creduto na-  ;e anche altri. Orbene Virgilio, che con 1' opera  giore mirò a rappresentare in un meraviglioso  r insieme le origini e lo svolgersi della potenza e che perciò fece lunghi studi intorno alle  ) e alle antichità romane, dovette proprio in modo  re rivolgere la sua attenzione alla filosofia pita-  a quale per di più aveva già ispirato anche il  Ennio^ la cui opera degli Annali fu uno dei mo-  i quali fu condotta 1' Eneide. Questo mi par che  i affermare con certezza, anche indipendentemente  3same analitico dell' opera poetica di Virgilio ; che  procediamo a questo esame — ancorché molto  rio — non solo sarà confermata a posteriori la  induzione, ma dovremo senz'altro assentire al giu-  )he di lui fece il Fontano, quanda lo disse esplici-  te « poeta augurale e profondo conoscitore della  la di Pitagora » (2).   ne tutti sanno, agli studi filosofici Virgilio attese alla prima giovinezza e fu avviato in essi da un   ;ro epicureo, dal gran Sirene, com'egli lo chiama.   r amore dei « docta dieta » di lui egli avrebbe     [Servio, ad Aen. VI, 752: « Qui bene consideret inveniet  omnem romanam historiarti ab Aeneae adventu usque ad sua  tempora summatim celebrasse Virgilium, quod ideo latet quia  eonfusus est ordo, etc. ».   (2) « Poeta auguralis pythagoricaeque doctrinae peritissimus » ,  come è detto in una nota al Commento di Macrobìo al Somnium  Seipionis, nella edizione di Lione del 1670, pag. 66.   9.  anche rinunziato in gran parte alle « dolci Muse ^ !  Yano proposito ! che queste tennero sotto la loro amabile  tirannia 1' animo suo, e Virgilio fu poeta prima che filosofo. Filosofia e in Virgilio solo in potenza : i germi latenti  nel suo pensiero — che pur si delinea abbastanza chiaramente a chi ne mediti l' opera poetica — sarebbero  certo cresciuti in fioritura d' arte, se fosse vissuto più a  lungo, sì che, condotta a perfezione 1' “Eneide”, egli ha  potuto finalmente appagare il desiderio — lungamente  maturato e più volte espresso — di poter attendere alla  FILOSOFIA : così noi avremmo forse, accanto al poerna  di Lucrezio, alta e mirabile esposizione del materialismo  epicureo, un poema virgiliano informato ai principi dell' idealismo pitagorico-stoico.   L' avviamento epicureo eh' egli ebbe da Sirone, e l'animirazione che sentì per la grande arte di Lucrezio la-  sciarono bensì qualche traccia, e non soltanto formale,  neir opera sua giovanile, nei poemetti bucolici e nelle  Georgiche ; ma in queste stesse poesie già si manifesta  abbastanza chiaramente un indirizzo filosofico affatto op-  posto. Sulla concezione epicurea, ma con molta libertà e  larghezza di movenze, è foggiata quella specie di teoria  sull'origine del mondo che Sileno espone nella sesta ecloga ; ma dobbiamo ben guardarci dal darle  un' importanza maggiore di quella che essa ha realmente,  col trasferirla da Sileno a Virgilio e col dedurne perciò  che questi fosse epicureo ; poiché nel campo dell' arte e  della poesia sono possibili ben altre finzioni, e 1' artista  fa parlare i personaggi che sono figli della sua fantasia  secondo criteri e leggi lor proprie. Non solo, ma alla  stessa stregua allora altri potrebbe ritenere specchio delle  idee e concezioni virgiliane la quarta ecloga, che fu scritta  poco prima della sesta ; anzi lo potrebbe a maggior ra-  gione, anzitutto perchè in essa il poeta canta in persona  propria, in secondo luogo perchè il concetto che l' informa  tornerà insistente e sempre più preciso negli scritti posteriori. Ma in verità il pensiero di Virgilio non doveva  in quegli anni essere ancora definitivamente orientato e  formato.  La quarta ecloga fu composta quando il poeta  aveva ventinove anni, e precisamente alla fine del 41 a.  C, allorché stava per entrare in carica Asinio Pollione,  console designato per 1' anno successivo. Sulla inter-  pretazione di questo carene, così stranamente suggestivo,  s' è tanto discusso, che non si sente davvero il bisogno  d' una nuova discussione. Basti quindi accennare che dai  commentatori cristiani si credette di poter vedere in quest' ecloga, scritta in tempi così vicini all' apparizione del  Cristo, qualche accenno alla imminente venuta del Messia;  anzi il fanciullo di cui si celebra la nascita fu addirittura  identificato col Nazareno, e non con Ottaviano, come Virgilio affirma. Non e' è da meravigliarsene,  che r intuizione artistica — nei grandi — giunge tal-  volta a tali profondità e 1' espressione poetica acquista  tal forza di significazione e un tale carattere "di univer-  salità, che essa par quasi attingere inesauribilmente, dalle    [Generalraente si ritiene composta al principio del 40, anziché  alla fine del 41; ma essendo la pace di Brindisi stata conchiusa  sul finire del 41, ed essendo avvenuta pure in quello scorcio di  anno la nascita del figlio di Pollione, Asinio Gallo (che, secondo  Servio, nacque appunto Pollione eonsule designato), mi pare che  non possa esservi ragione di incertezza ; tanto più che in tal modo  meglio s' intende il futuro inibii che accompagna il te eonsule del  y. 11.    disposizioni dell'animo e dagli atteggiamenti del pensiero  di chi legge, aspetti e valori sempre nuovi. Ma che poi  proprio Virgilio ha consapevolmente ‘profettizato’ ex post fato la nacita d’Ottaviano per conoscenza che avesse delle predi-  zioni messianiche, questa è un' altra quistione, risoluta  dai critici in senso non del tutto negative. Certo è che, in occasione della nascita d' un fanciullo  — che si ritiene generalmente e, se non Ottaviano, Asinio Gallo, figlio  di Pollione, a cui è dedicata l' ecloga — Virgilio afferma  ormai venuta 1' ultima età (quella di Apollo) predetta dall' oracolo in versi della Sibilla di Cuma, e sul punto di  iniziarsi da capo, incominciando dall' anno del CONSOLATO  di Pollione, una nuova serie di generazioni  umane, un nuovo anno mondano, col quale sarebbe tornata sulla terra la vergine Astrea (la giustizia) e sarebbero tornati i beati tempi del regno di Saturno (ossia  l’età dell' oro) e « dall' alto cielo sarebbe fatta scendere     (1) Mancini p. es., nel suo commento alle Bucoliche (Sandron) scrive: (p. 48/ : « Non si può appunto escludere assolu-  « tamente (sebbene io non lo creda necessario) che Virgilio avesse  « in qualche modo conoscenza delle profezie messianiche certo  « pervenuta a Roma, e che ne traesse qualcosa per tratteggiare  « il suo puer, che di questa conoscenza sentisse insomma gli ef-  « fotti l'economia del carme ». Per la rinomanza che Virgilio si  acquistò con questa ecloga dedocata a Asinio Gallo, per ha quale fu sollevato  alla dignità dei profeti, si veda  il CoMPAEETTi, Virgilio nel Medio Evo (Firenze.) e gli scritti ivi citati. L' interpretazione  di questa  eclog a Asinio Gallo era già molto in voga presso i filosofi. Si vedano anche i lavori di C. Pascal, “Il culto d’Apollo in Roma  nel secolo d’Ottaviano e La questione dellEcloga IV di Virgilio  (Torino), ristampati nel volume Commentationes vergilianae  (Palermo, R. Sandron,).   una nuova progenie d' uomini » (v. 7 : jaw, nova pro-  genies caelo demittitur alto). Sì che il fanciullo, Asinio Gallo, figlio del console Pollione, allora  nascente, avrebbe visto scomparire del tutto la « gens  ferrea » e crescere insieme con lui la « gens aurea »  e « ricevendo la vita degli dei » avrebbe veduto sulla  terra dei ed eroi e anch' egli si sarebbe mescolato con  loro: nella giovinezza avrebbe veduto ancora — residui  delle colpe delle età trascorse (e in pari tempo condizione  necessaria al ripetersi delle vicende umane) — nuove  spedizioni marittime, come quella d' Argo, e nuove guerre,  come la trojana, finche poi nella maturità avrebbe goduto  a pieno la felice pace della nuova età, della quale già  si allietavano e cielo e terra e mare.   Come si vede da questo accenno, siamo lontani le  mille miglia da Epicuro ! E che cos' è poi questa concezione d' una palingenesi che Virgilio tratta con sì profondo entusiasmo poetico? Pura finzione del suo spirito?  No, senza dubbio. Una predizione dei carmi sibillini prometteva certo con l’ età d' Apollo — 1' ultimo dei grandi  periodi della vita universale — il rinnovamento del mondo  e il ritorno dell'età dell'oro; non solo, ma teorie filosofiche allora correnti e che ho già avuto occasione di ricordare, ammettevano anch' esse il rinnovarsi periodico  dell' universo e il ripetersi perfettamente identico dei medesimi eventi e il ritorno alla vita degli stessi corpi e  delle stesse anime (teoria pitagorico-stoica e dei genetliaci).  Pensa dunque Virgilio, nel fingere che proprio col cominciare dell'anno colla nascita del figlio del console si iniziasse l'ultima età mondana  designata dai carmi sibillini, a queste teorie ? A me pare  che non se ne possa dubitare. Solo ci si potrà chiedere  se queir < altro Tifi » , quell' « altra nave Argo che tra-  sporterà ancora gli eroici compagni », « le altre guerre »   che si rinnoveranno e « il grande Achille », che ancora  « sarà mandato a Troja», indichino l'identico ripetersi  di tali eventi, il ritorno al medesimo punto della vita  universale, oppure indichino soltanto una generica legge  dei ricorsi storici. Il vecchio Servio infatti, pur così vi-  cino ai tempi del poeta, non seppe decidere: potendo  quei nomi simboleggiare genericamente il ritorno di eventi  simili, ma non proprio gli stessi. "Certo però che, assegnando Virgilio alla seconda età dell' oro già imminente  quei medesimi, identici caratteri che la tradizione dotta  e popolare assegnava alla prima, si sarebbe piuttosto in-  dotti ad ammettere 1' ipotesi che il poeta abbia raffigurato  e rappresentato in atto, coi colori smaglianti della sua  arte divina, l' avverarsi della teoria pitagorico-stoica della  palingenesi. E ancora : parlando della <^ nova progenies »,  la quale « eaelo demittitur alto » , a che cosa ebbe pre-  cisamente il pensiero il poeta ? Ebbe innanzi alla sua  immaginazione come un flusso di anime emananti dal-  l'anima universale all' inizio del nuovo anno o periodo  mondano posto sotto 1' egida di Apollo ? (1).   L' anima del fanciullo — nel pensiero del poeta — non  v'ha dubbio che appartenesse a questa nuova progenie  spirtale: ora, poiché il fanciullo è chiamato « cara deum  suboles, magnum lovis mcrementum » (v. 49), non par-  rebbe che si dovesse intendere altrimenti che la sua anima  è emanata pura e semplice direttamente da Giove, e  Giove starebbe qui a indicare, più che il supremo dio  dell'Olimpo pagano, quel principio divino che è l' anima]  Mi pare, non ostante il diverso parere di qualche commen-  tatore (p, es. di Pestalozza), che si debba precisamente dare all' espressione il suo senso proprio e letterale.    dell'universo, secondo la teoria che "Virgilio doveva an-  cora riprendere piìi tardi, nel secondo delle Georgiche, e  che doveva svolgere più compiutamente là dove, dall'ani-  ma di Auchise, fa esporre ad Enea, giù negli Elisii, la  famosa « storia dell' anima ».   Vero è che, come ho già rilevato, bisogna andar molto  cauti nella interpretazione di siffatti motivi poetici e nel-  r inferire da essi il pensiero filosofico animatore operante  neir artista; che questi può, indipendentemente dai pro-  cessi logici normali, assurgere per pura intuizione alla  visione totale o parziale di grandi verità. Nel caso nostro  il poeta, prendendo bensì lo spunto da un fatto reale  com'era la predizione sibillina, ha forse raccolto intorno  ad essa reminiscenze d'altra origine ed aggiunti elementi  nuovi di pura elaborazione fantastica; ed espressioni poe-  tiche di tale natura sono per sé indeterminate e male si  prestano ad essere analizzate e misurate con le rigide  seste della logica. Non potevamo però non tenerne conto,  almeno come indice di quella tendenza mistico-idealistica,  che ancora e meglio doveva rivelarsi più tardi, in suc-  cessivi momenti dell' attività poetica del nostro autore. Da ispirazioni così diverse e lontane come quelle  della sesta e quarta ecloga appar probabile dunque che  prima dei trent'anni Virgilio non avesse ancora definiti-  vamente orientato e fermato il suo pensiero ; e forse non  lo aveva neppure orientato definitivamente quando compose le Georgiche ; poiché in queste si  osservano ancora da un lato somiglianze di pensiero e  di forma con il poema lucreziano, e dall'altro si incontrano  immagini e concetti stoico-pitagorici. Mi basti ricordare,  per questi ultimi, i bellissimi versi del quarto libro nei quali VIRGILIO accenna, senza ancora accettarla  come propria, ma con evidente simpatia, la concezione  panteistica (che fu prima di Pitagora e poi di Platone e  degli stoici) secondo la quale 1' anima di tutti gli esseri  viventi non è che una parte, più o meno grande, dello  spirito divino che, suscitando in mille forme la vita, per-  vade e penetra tutto 1' universo, e a cui tutto ritorna.   His quidam signis atque kaec exempla secuti  220 esse apibus partem divinae mentis et haustus   aetherios dixere : deum namque ire per omnia,  terrasque traefusque maris eaelumque profundum.  Hine peeudes, armenta, viros, genus omne ferarum^  quemque sibì tenues naseentem arcessere vitas ;  seilieet hue reddi deinde ae resoluta referri   omnia, nec morti esse locum, sed viva volare \  sideris in numerum atque alto succedere eaelo.   Il filosofo, esponendo il pensiero come di altri (quidam...  dixere)^ fa ancora le sue riserve; ma il poeta evidente-  mente vi aderisce, e l'altezza dell'arte ci dice la profon-  dità dell' adesione sentimentale. Non solo ; ma il fatto  che uno di questi versi mirabili non è nuovo,  ma Virgilio lo ha ripreso tal quale dalla quarta ecloga, lega idealmente questa col passo delle Georgiche.   L' animo di Virgilio ha dunque ondeggiato certo a  lungo prima di aderire a quelle idee contro le quali ave-  vano combattuto la dottrina di Sirone e 1' arte di Lucrezio;  ma il suo temperamento prima e poi le convinzioni che  via via si vennero elaborando in lui col maturare degli  anni e degli studi dovettero riportarvelo fatalmente ; sic-  ché quando, iniziati gli studi per 1' Eneide, immergendosi  tutto nelle ricerche intorno alle origini e alle antichità  romane, si trovò di fronte al Pitagorismo, che la leggenda collegava colla sacra figura del re Numa, che  aveva ispirato anche l' arte di Ennio e che aveva in que-  gli anni cultori come Nigidio e come i Sestii, egli do-  vette sentirsi preso tutto quanto da quelle idee e assimi-  larle ancora più profondamente, tanto che ad esse volle  poi dare anche più precisa e più degna espressione là pro-  prio dove il poema attinge la più alta romanità e acquista  nel medesimo tempo carattere di universalità.  Al principio del libro VI dell'”Eneide”, che si  ritene generalmente dagli antichi contenesse la più profonda dottrina virgiliana, Servio credette di dover premettere queste parole: « Tutto Virgilio è pieno di scienza,  nella quale tiene il primo luogo questo libro, di cui la  parte principale è tolta da Omero (cioè dalla Nékyia del  canto XI dell' Odissea). Alcune cose sono dette semplicemente (cioè senza allegoria), molte sono prese dalla storia,  molte provengono dall'alta sapienza dei filosofi. Talché parecchi hanno scritto interi trattati su ciascuna di tali cose che trovansi in questo libro». Di questi trattati peraltro a noi non ne è giunto alcuno, nemmeno  quello, certo assai interessante dal punto di vista del  nostro tema, che scrive Macrobio, 1' erudito grammatico; poiché dei suoi Saturnali, che pure  ci restano in buona parte, è andata perduta proprio quella  parte in cui si conteneva l' esame del valore filosofico  dell' opera virgiliana (1). E un peccato, perchè Macrobio,     (1) Il compito di tale esame se 1' era assunto, nei dialoghi dei  Saturnaii, Eustaxio, filosofo per i suoi tempi assai erudito, come  ci fa sapere Macrobio stesso l'I. I, e. V). Anzi, per la superiorità  della filosofia sopra ogni altro ordine di cognizioni, 1' esposizione  di Eustazio e la prima di tutte, come appare da ciò che è detto come neo-platonico, avrà certo messi in rilievo gii elementi pitagorico-platonici del pensiero di Virgilio, del  quale, per esempio, ricordando nel commento al Somnium  Scipionis il terque quaterque beati, riconosce  neir espressione la dottrina pitagorica dei numeri.   Non è certo il caso di andar cercando, come qualche  antico ha fatto, in ogni espressione, in ogni parola  di questo mirabile libro, al quale doveva ispirarsi Alighieri, i sensi più reconditi, le piti astruse allegorie,  e di immaginare le intenzioni più riposte del poeta nel  comporlo. Ma sopra un punto in particolare, che è come  la chiave di volta di questo canto e che indubbiamente  è di quelli che Servio ha detto provenire dall'alta sapienza dei filosofi, noi fermeremo la nostra  attenzione. ENEA, con la scorta della Sibilla di Cu ma è sceso all'Inferno. Passata la palude Stigia sulla barca di Caronte,  attraversato 1' anti-inferno o limbo (dove sono le anime  dei neo-nati, dei condannati a morte ingiustamente, dei  suicidi) e ai campi dolorosi (dove sono i morti per causa  d' amore e famosi guerrieri), lasciato a sinistra il Tartaro nel e. XXIV dello stesso 1. I. Senonchè il libro seguente è mutilo ; e la mutilazione è forse dovuta allo zelo degli scrittori, e si deve far risalire al tempo in cui questi tendevano ad  accentuare il carattere profetico di Virgilio.   [Por Maorobio, Virgilio non solo è dotto in ogni genere di  sapere, ma è decisamente infallibile. Nel commento al Somnntm  lo dice nullius disciplinae expers (I, 6, 44) e diseiplinarum om-  nium perìHssimus (I, 15, 12) ; così nei Saturnali (I, 16, 12) :  omnium diseiplinarum peritus.   (2j Per esempio Elio Donato, il quale attribuiv a Virgilio un  sapere straordinario e cercò nei suoi versi dottrine risposte e scopi  filosofici ai quali certamente non aveva pensato mai.   (dove subiscouo. le pene più orribili le anime di tutti co-  loro che in qualche modo hanno violato le leggi umane  e divine) è giunto nell' ampio Elisio, liete pianure che  sono il felicissimo regno dei beati   locos laetos et amoena mrecta   630 fortunatorum nemorum sedesque heatas.   Quivi, in una luce perpetuamente serena e fiammante,  le anime dei beati (eroi morti per la patria, sacerdoti,  poeti, filosofi ed artisti, benemeriti della umanità) trascor-  rono la vita su colli ameni e per valli, in prati ed in bo-  schetti, sulle rive di ameni ruscelli, continuando le loro  abitudini ed occupazioni terrene : fra esse è Museo, al  quale Enea chiede notizie d' Anchise e che gli si offre  per guida. Il padre d'ENEA sta in quel momento ad  osservare con attenzione le anime che si trovavano chiuse nel fondo di una valle verdeggiante, destinate a ritornare  alla vita terrena, passando in rassegna fra esse quelle  che dovevano rincarnarsi nei suoi discendenti, per conoscerne il destino, le vicende, il carattere, le opere future.  At pater Anchises penitus eonvalle virenti  680 inclusas animas superumque ad lumen ituras   lustrabat studio recolens omnemque suorum  forte recensebai numeruni carosque nepotes  fataque fortunasque virum 7noresque manusque.   Avviene fra padre e figlio un commoventissimo incon-  tro, dopo il quale Enea vede da un lato della valle un  bosco appartato e cespugli pieni di suoni e il fiume Lete  (il fiume dell' oblio) che lambisce quelle placide sedi e  intorno a questo una infinita moltitudine di anime svo-  lazzanti e che riempiono tutta la pianura del loro sussurro, simile al ronzio che fanno pei prati, nei sereni  meriggi estivi, le api, quando si posano su ogni sorta di  fiori e si addensano intorno ai candidi gigli. L' eroe,  stupito, ne chiede al padre la ragione, e che fiume sia  quello, e che uomini quelli che si affollano così numerosi sulle sue rive. E il padre subito gli risponde : « Le  anime alle quali è dovuto per destino un altro corpo,  bevono alle onde del fiume Lete le acque che sigilleranno  in loro per lungo tempo il ricordo degli affanni e della  vita trascorsa »:   animae, quibus altera fato  corpora debentur, Lethaei ad fluminis unda'm  715 seeuros latices et longa oblivia potant.   Queste anime appunto egli si accinge a mostrargli,  enumerandogli e indicandogli fra esse tutti i suoi di-  scendenti (i re Albani e gli eroi gloriosi di Roma da  Silvio a Marcello il giovane) perchè s' allieti con lui di  essere finalmente giunto alle spiaggie d' Italia. Ed Enea  subito gli chiede : « padre, si deve dunque credere  che alcune anime di qui tornino alla luce del cielo e ri-  tornino una seconda volta nell' impaccio del corpo ? qual  mai assurdo desiderio della vita terrena hanno le infe-  lici ? » :   pater, anne aliquas ad caelum hinc ire puiandum est  720 sublimis animas iterumque ad tarda reverti corpora ? quae lueis miseris iam dira cupido ?     [Nella concezione orfica pare che le anime destinate alla pa-  lingenesi fossero chiamate api ; donde la ragione della similitudine  (Sabbadini). Ed ecco subito Anchise esporgli quella eh io ho chia-  mata la storia dell'anima :   « Anzitutto un' interiore forza spirituale anima il cielo,  la terra, i mari, la luna, il sole, le stelle, e un' intelli-  genza infusa per tutte le sue parti agita e compenetra  la gran mole dell' universo. Di qui gli uomini e gli ani-  mali che vivono sulla terra, che volano per 1' aria^ che  si muovono negli abissi del mare : essi, particelle dell'a-  nima universale disseminate nello spazio, hanno vigore  etereo e origine celeste ; ma, più o meno, li inceppa la  lue corporea e le membra terrene e periture li ottun-  dono. Oud' è che essi vanno soggetti a timori e desideri,  a gioie e dolori e, chiuse nelle tenebre e in cieco car-  cere, le anime disconoscono il cielo onde derivano. Tanto  che, anche quando nel dì del trapasso le abbandona la  vita, non si stacca tuttavia dalle infelici ogni male né  le lasciano interamente le sozzure corporee ; molte delle  quali anzi; avendole profondamente intaccate, devono necessariamente crescere nel loro intimo per lungo tempo  in modi meravigliosi. Perciò sono sottoposte a pene e  pagano con supplizi il fio delle passate colpe : delle cui  infezioni alcune si purificano rimanendo sospese ed espo-  ste all' azione dei venti, altre immerse in un profondo  abisso d' acqua (negli abissi oceanici ?), altre bruciando  nel fuoco. Tutti subiamo da morti la nostra espiazione,  dopo la quale passiamo nell' ampio Elisio ; e pochi soltanto restiamo nelle sue liete pianure, finche un lungo  volgere d'anni, compiuto il tempo prescritto, cancella le  traccio d'ogni sozzura contratta nel corpo e lascia puro  il senso etereo e il fuoco della semplice aura. Tutte  queste invece, quando son volti mille anni, sono chiamate  da Dio in gran numero al fiume Lete, perchè, immemori  del passato, rivedano la volta del cielo e comincino a  sentire di nuo^vo la volontà di rincarnarsi nei corpi v.   « Principio caelum ac terras camposque liquentis  725 lucentemque globum lunae Titanìaque astra   spiritus intus alit totamque infusa per artus   mens agitai molem et magno se corpore miscet.   inde hominum pecudumque genus vitaeque volantum   et quae marmoreo feri monstra sub aequore pontus.  730 igneus est oUis vigor et caelestis origo   seminibus, quantum non noxia corpora tardant   terrenique liebetant artus moribundaque membra.   hinc metuunt cupiuntque, dolent gaudentque, neque auras   dispiciunt clausae tenebris et carcere caeco. quin et supremo cum lumino vita reliquit,   non tamen omne malum miseris nec funditus omnes   corporeae excedunt pestes, penitusque necesse est   multa diu concreta modis inolescere miris.   ergo exercentur poenis veterumque malorum supplicia expendunt. aliae panduntur inanes   suspensae ad ventos, aliis sub gurgite vasto   infectum elicitur scelus aut exuritur igni ;   quisque suos patimur manis ; exinde per amplum   mittimur Elysium ; et pauci laeta arva tenemus, donec longa dies, perfecto temporis orbo,   concretam exemit labem purumque relinquit   aetherìum sensum atque aurai simpliois ignem.   has omnis, iibi mille rotam volvere per annos,   Lethaeum ad fluvium deus evocai agmine magno, scilicet immemores supera ut convexa revisant   rursus et incipiant in corpora velie reverti ».   Qui non siamo più di fronte evidentemente a concetti  vaghi e imprecisi, ma all' esposizione alta e solenne di  una teoria, nella quale è riaffermato anzitutto il concetto di uno spirito immanente nell' universo,  di carattere divino e intelligente, di cui tutti gli esseri  animati — uomini e bruti — sono delle manifestazioni ;  cioè il medesimo concetto che abbiamo già veduto nel  quarto delle G-eorgiche, e perfettamente identico a quello  che Cicerone, come s' è visto, attribuiva a Ferecide, mae-  stro di Pitagora. Di piti la forza spirituale, di origine  divina ed eterea, che è nell' uomo e negli animali, e  concepita in perfetta antitesi con la materia del loro  corpo, che è per l'anima un carcere, un peso, un impe-  dimento, e che è la causa degli errori, delle passioni,  delle colpe, dei traviamenti. Sicché la vita è un male  (vv. 730-734). Anche questo concetto di un dualismo o  antagonismo fra spirito e materia non ò nuovo ed ap-  partenne già anch' esso all' antica filosofia pitagorica, come  s' è pure veduto (2). Ma se la vita è un male per tutti,  per i malvagi e per i buoni, tutti, dopo la morte, deb-  bono purificarsi delle infezioni corporee. La purificazione  infatti avviene per mezzo di pene e di tormenti, non  però eterni, che debbono subirsi per il tempo necessario  all' espiazione perfetta.   Ne sono mezzi i tre elementi dell' aria, dell' acqua e  del fuoco (quelli stessi che si adoperavano appunto nelle  cerimonie simboliche dei misteri). Dopo 1' espiazione pu-  rificatrice tutte le anime passano nell' Elisio, luogo di  beatitudine, dove alcune poche, quelle degli eletti che  furono in terra i migliori, rimangono a godere una serena  felicità, anche questa non eterna, ma che dura fintantoché  non sia compiuto il tempo prescritto — tempo assai  lungo, quanto è necessario perchè si esaurisca e scom-  paia da sé il loro attaccamento alla vita terrena e il ri-     Ci i De Natura Deorum 1, li, 27 e De Senectute 21, 78.  (2) Cicerone, Somnium Seipìonis, ?, 15 e altrove.   cordo delle belle opere umane (1) — per riprendere poi  la primitiva natura eterea e spirituale e di nuovo dis-  solversi in seno all' anima universale. Le altre invece, e  sono la gran maggioranza, trascorsi mille anni in una  delle convalli confinanti con 1' Elisio, vengono chiamate  da Dio a bere nelle acpue purificatrici del fiume Lete  r oblio della vita trascorsa e si incarnano in nuovi corpi.  Non s' intende peraltro, poiché Anchise non lo dice, se  queste ultime anime, destinate a nuova vita, quando ritorneranno poi ancora, dopo la seconda morte e conse-  guente espiazione negli elementi, all' Elisio, vi resteranno  tutte in attesa di convertirsi in puro etere e spirito, o  se parte di esse dovrà ritornare nuovamente sulla terra.  Nel primo caso il numero delle esistenze terrene sarebbe  limitato ad un massimo di due — una con prevalenza  del male e una del bene — , nel secondo sarebbe inde-  finito. Ma in un modo o nell' altro la teoria della resurrezione è assai chiara e il ciclo dell' esistenza, dal mo-  mento in cui r anima si stacca dallo spirito universale  fino al momento in cui si ricongiunge ad esso, è perfet-  tamente conchiuso ; il concetto panteistico e il processo  di involuzione ed evoluzione dello spirito, appena accen-  nati nel quarto delle Georgiche, sono qui svolti compiu-  tamente. Né si può dubitare che anche 1' ultima parte  che si riferisce alle pene e ai premi d'oltretomba e che espone la dottrina della metempsicosi (vv. 748-  751), sia, come le prime, foggiata secondo i principi del-  l' Orficismo e del Pitagorismo.  Appunto per tale attaccarne nto, esse continuano nell' Elisio  le occupazioni a cui attendevano sulla terra.  Sarebbe certo oltremodo interessante svolgere  questi principii fino alle ultime conseguenze logiche, e  chiederci, per esempio, se in tale concezione il processo  di emanazione delle anime dallo spirito universale avve-  nisse una volta tanto, o ad intervalli, o ininterrottamente.  Si vedrebbe allora che, non potendo avvenire ne una  volta tanto (perchè in tal caso, col ritornare continuo  delle anime individuali in seno all' anima universa, ne  sarebbe seguita in un determinato momento la scom-  parsa della vita dalla terra), né ininterrottamente (parche  in tal caso, essendo sempre infinitamente maggiore il  numero dei cattivi che non quello dei buoni, a un certo  punto sarebbe prevalso irrimediabilmente sulla terra il  male), ma dovendo considerarsi come avverantesi ad in-  tervalli, r idea di tale processo d' emanazione si ricolle-  gherebbe alla teoria già accennata dei grandi anni mon-  dani (1). Così ancora, poiché dall' anima universale ema-  nano non solo quelle degli uomini, ma anche quelle dei  bruti, ci si potrebbe chiedere che cosa dovesse avvenire  di queste, alla morte dei loro corpi. E si vedrebbe come,  dal modo in cui dovette esser risolto questo problema da  qualcuno, potrebbe esser nata appunto l'ipotesi —- quasi     (1) Ognuno di questi anni o periodi della vita universale era  diviso in dieci mesi (di mille anni ciascuno) e ogni mese era sotto  il particolare influsso d' una delle divinità maggiori, concepita forse,  filosoficamente, come aspetto, manifestazione, atteggiamento, ema-  nazione particolare del dio universale. La durata però degli anni  stessi era computata anche altrimenti, ma sempre di parecchi se-  coli ; e in ciascun anno, che si iniziava con un processo sempre  identico di emanazione, ritornavano sulla terra le stesse anime e  si ripetevano gli stessi eventi. Si ricordi quel che abbiamo visto  più su (§ 4) parlando della quarta ecloga.   10.    unanimemente attribuita a Pitagora — d' una metempsi-  cosi anche animale (1).   Ma prescindendo da queste considerazioni, che ci por-  terebbero al di là di quello che Virgilio ci ha voluto o  potuto dire, come si concilia questa storia dell' anima  con tutta la rappresentazione precedente dell' anti-inferno  e del Tartaro ? È evidente che una contraddizione fon-  damentale esiste : che 1' esistenza delle anime nel prein-  feruo e le punizioni evidentemente eterne che subiscono  quelle dei malvagi nel Tartaro non si possono accordare  con le pene temporanee per mezzo dei tre elementi. Sic-  ché noi siamo indotti a pensare che nella rappresentazione  virgiliana dell' oltre tomba si debba forse vedere un ten-  tativo mal riuscito — per la mancata elaborazione ultima  del poema, impedita dalla immatura morte di Virgilio —  di fondere insieme quella che era rappresentazione po-  polare e il concetto o rappresentazione filosofica del poeta.   E poiché, considerata in sé stessa, questa storia sug-  gestiva e profonda ha un senso compiuto e perfetto, e  d' altra parte sappiamo che Virgilio compose 1' Eneide a  pezzi staccati, che poi collegava insieme, non vorrebbe  la voglia di credere che essa sia stata scritta a parte,  fors' anche indipendentemente e in tempo anteriore a  quello della composizione del poema, e poi opportuna-  mente inserita in questo, allorché il poeta — artista, fi-     [Qualcuno cioè potrebbe aver pensato che le incarnazioni del-  l' anima fossero non tutte necessariamente in corpo umano, ma  anche in corpi d'animali, terrestri, acquatici od aerei, secondo che  le colpe precedenti fossero da espiare nell'uno piuttosto che nel-  r altro elemento : e la vita animale avrebbe perciò rappresentato  uno stato di vita intermedio fra due vite umane.    losofo, cittadino nello stesso tempo — concepì l'idea di  valersi, per esaltare la grandezza della Patria e per la  rappresentazione dei grandi spiriti di Roma, della dot-  trina della metempsicosi, antichissima e largamente dif-  fusa e conforme alle credenze religiose dei suoi concit-  tadini e già consacrata dall' arte di Ennio ? Anzi non mi  parrebbe neppure arrischiato il pensare che si dovesse  proprio vedere in essa un brano di quel poema della  Natura al quale Virgilio già pensava quando finì il se-  condo canto delle Georgiche (vv, 475-494), e forse ad-  dirittura il principio del poema stesso o 1' idea madre  eh' esso avrebbe svolta : principio ed idea eh' egli certo  prese e imitò da Ennio, i cui Annali, come abbiamo ve-  duto, si iniziavano appunto con 1' esposizione della dot-  trina della metempsicosi (1). In tale, ipotesi dunque la  teoria messa in bocca ad Anchise non sarebbe soltanto  una finzione poetica, un mezzo artisticamente perfetto  per ottenere una grande e suggestiva efficacia di rappre-  sentazione, ma esprimerebbe la genuina e schietta con-  cezione di Virgilio, il risultato ultimo di quel contra^^to     (1) Molti raffronti fra Ennio e Virgilio fa Macrobio nel l. VI  dei Saturnali; ma, per dire la verità, non vi è cenno alcuno di  rapporti formali o sostanziali fra 1' esposizione di Anchise ad Enea  e quella di Omero ad Ennio. Potrebbe darsi tuttavia che se ne  parlasse in quella parte dei Saturnali che è andata perduta e nella  quale appunto si conteneva 1' esame del valore filosofico dell'opera  virgiliana fatto da Eustazio. D' altra parte però è indubitabile una  effettiva somiglianza di contenuto fra i due squarci poetici, come  sono indubbie alcune analogie di pensiero fra i due poeti. E gli  arcaismi che si trovano in Virgilio {ollis, aurai) potrebbero essere  un altro indizio d' imitazione enniana. — Anche il Pascal (Gom-  mentat. vergilianae, p. 143 sgg.) ha dimostrato che Virgilio ha  derivato la sua esposizione dottrinale dal proemio degli Annales.    a cui abbiamo accennato fra l' idealismo pitagorico-stoico  e il materialismo epicureo, sarebbe insomma il suo testa-  mento filosofico. Mirabile testamento davvero, che la-  sciava in eredità alle più lontane generazioni l' alta e  sublime espressione artistica d'una teoria che, sorta agii  albori del pensiero nelle più remote età dell' uomo, tra-  smessa di generazione in generazione da una civiltà al-  l' altra, dall' Oriente all' Occidente, custodita con cura  gelosa nel mistero dei santuari, insegnata come la verità  più sacra e più recondita, s' illuminò ancora una volta,  come già nei miti immortali di Platone, alla luce della  poesia e dell' arte.     Ho già parlato nel cap. I della tradizione, se-  condo la quale il re Numa Pompilio sarebbe stato sco-  laro di Pitagora. Raccogliendo là tutte le testimonianze  di questa tradizione, ho anche accennato a quella che ne  fa Ovidio nelle Metamorfosi. Essa ha una  importanza specialissima e merita di essere studiata sepa-  ratamente dalle altre anche per questo, che della tradi-  zione stessa il poeta si vale per fare un'esposizione, se  non profonda, tuttavia molto estesa — la più estesa e la  pili organica che ci rimanga nella letteratura romana —     della tìlosofia pitagorica, specialmente in attinenza a due  punti fondamentali di essa: l'astensione dai cibi carnei e  la metempsicosi.   Dice dunque Ovidio (vv. 1S\ che, scomparso Romolo,  si cercò subito chi potesse addossarsi un peso tanto grave  com'era il governo di Roma, succedendo a un tal re, e  che una fama non menzognera designò all'impero Numa,  già famoso per la sua giustizia, per la sua pietà, e, so-  pratutto, per la sua sapienza: che, non solo conosceva a  perfezione i riti della sua gente, la gente Sabina, ma,  abbracciando con la vasta anima più larghi concepimenti  ed essendo avido di scrutare i più ardui problemi della  natura, aveva abbandonato la nativa Curi e si era recato  a Crotone :   Quaeritur interea qui tantae pondera niolis  Sustineat, tantoque queat succedere regi.  Destinai imperio elarum praenuntia veri  Fama Numam. Non ille satis cognosse Sabinae  5 Oentis habet ritus : animo maiora capaci   Goncipit, et quae sit rerum naiura requirit.  Iluius amor curae, patria Guribusque relictis,  Fecit, ut Herculei penetraret ad hospitis urbem.   Quivi insegnava Pitagora — e segue appunto nei versi  60-478, l'esposizione delle dottrine di questo filosofo, che  or ora esamineremo — e Numa ne ascoltò le lezioni; dopo  di che ritornò in paCria e prese le redini del governo di  Roma, insegnando al popolo del Lazio i riti sacrificali e  le arti della pace:   Talibus atque aliis instructo pectore dictis tn patriam remeasse ferunt., ultroque petitum   Acoepisse Numam> populi Latiaris kabenas:  Goniuge qui felix nym^pha ducibusque Gamenis  Sacrificos docuit ritus, gentemque feroci  Adsuetam bello pacis traduxit ad artes.   Come si vede — e l'ho già rilevato, — Ovidio non  solo accetta senza discuterla, come cosa ovvia e risaputa^  la tradizione che faceva di Numa un discepolo di Pita-  gora, ma vien pure in certo modo a mettere in connes-  sione di dipendenza le istituzioni religiose attribuite a  Numa e l' educazione pitagorica da lui ricevuta ; per  quanto con l'accennata collaborazione della ninfa Egeria  e delle Camene la leggenda abbia certamente voluto rap-  presentare la parte che ebbe l'elemento indigeno nella  creazione degl'istituti religiosi romani del piìi antico pe-  riodo regio (1). Il poeta pertanto, non tenendo conto dei  dubbi e delle critiche messe innanzi da qualche erudito,  preferì seguire senz'altro la tradizione leggendaria, che  pur Cicerone aveva chiamata inveteratus hominum ei-ror;  e ciò non tanto perchè siffatta tradizione gli offriva mi-  rabilmente il modo di esporre quella dottrina della me-  tempsicosi ch'era la piìi naturale conclusione d'un poe-  ma come le Metamorfosi, quanto perchè, molto probabil-  mente, la tradizione era più che mai viva nella coscienza  dei contemporanei, per i quali il poeta scriveva, massime dopo la recente rinascita del Pitagorismo in Roma.     [Lo stesso Ovidio, in altro luogo {Fast.) accenna  alla possibilità che la riforma del calendario sia stata ispirata a   Numa dal filosofo di Samo : « Primus Pompilius menses sen-   sit abesse duos Sive hoc a Samio doctus, qui posse renasci Nos  putat, Egeria sive monente sua ».   (2) Un ultimo accenno alla medesima tradizione si legge nella  terza elegia dei terzo libro delle Pontiche, dove il poeta, immagi-  nando di parlare in sogno all' Amore di cui si professa maestro,  lo rimprovera di essersi comportato verso di lui ben altrimenti da  quello che fecero altri discepoli verso i loro maestri : Eumolpo  verso Orfeo, Achille verso Chiroue, Numa verso Pitagora., ecc. :   In Crotone teneva dunque scuola Pitagora; il  quale, nativo dell'isola di Samo, aveva abbandonato spon-  taneamente la patria, mal sopportando la tirannide onde  era governata, e s'eia dato a profondi studi di filosofia.  Per virtù di questi « egli potè elevarsi con la mente,  per quanto fossero lontani nella immensità dello spazio  celeste, fino agli dei e scrutare con gli occhi dell'intel-  letto ciò che la natura ha negato alla vista degli uomini»:   60 Vir fuit hic, ortu Satnius ; sed fugcrat una   Et Samon et dominos^ odioque tyrannidis eocul  Sponte erat. Isque^ licet caeli regione remotos^  Mente deos adiit et quae natura nogabat  Visihus humanis^ oculis ea pectoris hausit.   Ecco subito, in questi magnifici versi, messo in evi-  denza Pitagora, e determinata con molta precisione e con  grande efiìcacia rappresentativa la natura del suo misti-  cismo, fondato sopra l'esercizio assiduo dell'intelletto e  la profonda intensità del meditare, per giungere alla vi-  sione e alla comprensione delle più alte verità.   Cumque animo et vigili perspexerat oinnia cura   In medium discenda dahat, coetusque silentum  Dictaque mirantum magni primordia mundi  Et rerum causas et, quid natura, docebat :  Quid deus, unde nives^ quae fulminis esset origo,  luppiter an venti discussa nube tonarent^   Quid quateret terras, qua sidera lege fnearent,  Ed quodcumque latet.     At non Chionides Eumolpus in Orphea talis ;   In Phryga nee satyrum talis Olympus erat ;  Praemia nec Chiron ab Achilli talia eepit,   Pythagor aeque ferunt noti nocuisse Numam.  Nomina neu referam longutn collecta per aevum,   Discipulo perii solus ab ipse meo.  E in questi altri versi ecco parimenti accennata con  grande chiarezza la vastità e larghezza degl'insegnamenti,  che il filosofo impartiva all'attonita e silenziosa schiera  dei discepoli e che abbracciavano « le origini primordiali  dell'universo, Je cause della materia e l'essenza della na-  tura e della divinità, l'origine delle nevi e del fulmine,  del tuono e del terremoto e le leggi onde è regolato il  corso degli astri: insomma, tutti i problemi più reconditi  della filosofia naturale e della scienza » Egli 'per primo, aggiunge ancora il poeta, vietò di ci-  barsi di carne, sconsigliando bensì tale astensione con  molta dottrina, ma senza riscuotere la meritata approva-  zione :   Primusque anitnalia mensis  Arguii imponi : primus quuni talibus ora  Docta quidem solvit, sed non et eredita, verbis.   Ed ecco appunto il filosofo combattere, in prima per-  sona, l'uso delle carni (vv. 75-95) e descrivere l'età dell'oro, quando gli uomini non conoscevano ancora tale  uso; e poi, ispirato dalLi divinità, eccolo ac-  cingersi, con più alto afilato poetico, a trattare questioni  più ardue e a svelare più riposti misteri :   Et quoniam deus ora movet, sequar ora moventem  Rite deum, Delphosque meos ipsumque recludarn  145 Aethera et augustae reserabo or acuta mentis.   Magna, nee ingeniis evestigata priorum,  Quaeque diu latuere, canam. luvat ire per alta     il) I vv. 67-71, cke riassumono la supposta fisica pitagorica,  sono manifestamente ispirati da Lucrezio, dice il Lafaye, Les mé-  tamorphoses d' Ovide et leurs modèles grecs, Paris, Alcan, 1904,  p. 197; masi accordano pure benissimo coi principii dello stoicismo.   Astra \ iuoat terris et inerti sede relieta  Nube vehi, validique umeris insistere Atlantis^  150 Palantesque homines passim ac rationis egentes   Despectare procul^ trepidosque obitur/ique timentes  Sic exhortari, seriemque evoltere fati.   « E poiché sento di parlarvi per ispirazione divina,  seguirò gl'impulsi del dio che mi fa parlare secondo il  rito, e vi svelerò i miei arcani e lo stesso etere e vi  schiuderò gli oracoli fin qui nascosti nel profondo della  mia mente. Vi canterò cose grandi, né mai scrutate dalle  menti dei padri, e che per lungo tempo restarono occulte.  Mi piace andare tra le sublimi stelle ; mi piace abban-  donata la terra e questa inerte dimora, lasciarmi traspor-  tare da una nube e poggiare sulle spalle del vigoroso  Atlante e guardare da lontano gli uomini sparsi qua e  là e ancora irragionevoli, e ad essi, che aspettano con  trepido timore la morte, infondere coraggio e schiudere  la visione del loro destino con queste parole... »   Siamo alla rivelazione della metempsicosi, la cui cono-  scenza appunto deve distruggere negli uomini il timore  della morte :   genus attonitu7n gelidae formidine ìnortis !  Quid Styga, quid tenebras et nonnina vana timetis, Materieni vatum^ falsique perieula mundi? (1)   Corpora, sive rogus fiamma, seu tabe vetustas  Abstulerit^ mala posse pati non ulla putetis, ^   Morte careni animae; semperque priore relieta  Sede novis domibus vivunt habitantque reeeptae.   (1) Cade ovvio a questo punto il raffronto coi famosi versi delie  Georgiche (II, 490-492) :   Felix, qui potuit rerum eognoscere caussas,  Atque metus omnis et inexorabile fatum  Subiecit pedibus strepitumque Acherontis avari,    « schiatta attonita per lo spavento della fredda morte !  Che temete lo Stige, la tenebra e i suoi nomi vani, fan-  tasie di poeti e pericoli d'un mondo inesistente? Non  crediate che i corpi, o li abbia distrutti il rogo con la  sua fiamma, o il tempo con la putredine, possano soffrire  mali di sorta, E quanto alle anime, esse non muoiono ; e  sempre, abbandonata una sede, vivono e abitano in di-  more che nuovamente le accolgono ».   E in prova di ciò Pitagora ricord d'es-  sere vissuto ancora, al tempo della guerra troiana, nel  corpo d' Euforbo. Poi segue, piìi specificatamente chiarita  ed espressa, la dottrina della metempsicosi animale, vol-  garmente attribuita a Pitagora :   Omnia mutantur, nìhil interit : errai et illìne   Hue venit^ hine illuc, et quoslibet occupai artus  Spiritus: eque feris humana in corpora transita  Inque feras noster, nec tempore deperii ullo,   Utque novis facilis signatur cera figuris,   Nec manet ut fuerat^ nec formas servai easdem,   Sed iarnen ipsa eadeni est; animam sic semper eandem  Esse^ sed in varias doceo migrare fèguras.   « Tutto si trasmuta, niente muore. Lo spirito va er-  rando e si muove di là a qui, di qui a là, e s'incarna  nel corpo che si presceglie; e dalle fiere passa nei cor-  pi umani e viceversa, né mai vien meno. E come la molle     che si sogliono riferire ad Epicuro. Entrambi i filosofi dunque giun-  gevano alla medesima conseguenza pratica (inanità del timore della  morte) partendo da premesse assolutamente opposte : 1' uno, cioè  Pitagora, dimostrando che il morire è soltanto trasformazione, o  passaggio dell' anima d'una in altra forma di vita corporea; l'al-  tro, cioè Epicuro, dimostrando che il morire è annientamento to-  tale e definitivo della personalità per il disgregamento degli atomi  onde l'anima si compone.    cera si foggia in nuove figure, sì che, pur non restando  quale era prima e non conservando le stesse forme, tut-  tavia è sempre la stessa, così vi dico che l'anima ò sem-  pre la medesima, senonchò passa sotto varii aspetti » (1).   Da ciò un nuovo argomento per astenersi dall'usar  carne. A questo punto la trattazione di Pitagora si allarga, e  il filosofo passa a dimostrare 1' evoluzione perpetua e il  divenire incessante di tutto il creato :   Et quoniam magno feror aequore plenaque ventis  Vela dedi : nihil est tato, quod perstet, in orbe.  Cuncta fluuni, omnisque vagans formatur imago.   « E poiché, aperte le vele al vento, navigo in alto  mare, sappiate che non vi è nulla di immobile in tutto  l'universo. Tutto fluisce, e si foggia incessantemente ogni  mutevole aspetto ».   E questa nuova proposizione illustra con una lunga  serie di esempi, tratti dai fenomeni celesti, dall' avvicen-  darsi delle stagioni, dalla vita dell'uomo e dalle vicissi-  tudini degli elementi (vv. 179-251).   Ma la natura non ci offre solo lo spettacolo di muta-  menti regolari, determinati da leggi immutabili ed uni-  versali ; si compiono anche intorno a noi, nei corpi inor-  ganici e negli organici trasformazioni impreviste, che i  saggi osservano con curiosità, ma di cui essi ignorano  le cause : questi fenomeni straordinari — spesso elencati  e descritti nel periodo alessandrino, in opere intitolate     (1) Questa, prima parte deiresposizione ovidiana è molto proba-  bilmente modellata sul « Sogno » degli Annali di Ennio di cui si  è già visto.     Paradoxa — Ovidio li fa esporre da Pitagora, non sen-  za qualche anacronismo, nei vv. 252-417 (i vv. 307-336  riguardano le proprietà di certi corsi d'acqua^ mirabiiia  fontium et fiuminum)^ a cui fanno seguito altri (vv. 418-  452), che descrivono le rivoluzioni avvenute nelle società  umane, sino al glorioso principaio d'Augusto, predetto  già da un oracolo fin dal tempo della caduta di Troia :   Nune quoqiie Dardaniam fama est eonsurgere Rotnam^  Appenninigenae quae proxiyna Thybridis undis  Mole sub ingenti rerum fundamina pomi.  Haec igitur forviam crescendo mutata et olim   435 Immensi caput orbis erit. Sic dicere vates   Vaticinasque ferunt sortes : quantumque recordor,  Dixerat Aeneae^ cum res Troia?ia labaret^  Prìamides Helenus /lenti dubioque salutis : (1)  « Nate dea^ si nota satis praesagia nostrae   440 Mentis habes^ non tota cadet te sospite Troia.   fiamma libi ferrumque dabunt iter: ibis, et una  Pergama rapta feres, donec Troiaeque tibique  Externum patria contingat am,ieius arvum,  Urbem etiam cerno Phrygios debere nepotes,   445 Quanta nec est nec erit nec visa prioribus annis.   Hanc aia proceres per saecula longa potentem^  Sed doininam rerum de sanguine natus Tuli  Efficiet. Quo cum tellus erit u>sa, fruentur  Aetheriae sedes^ caelumque erit exitus illi ».  Raec Helenum eecinisse penatigero Aeneae  Mente mem,or refero, cognataque moenia laetor  Crescer e, et utiliter Phry gibus vieisse Pelasgos.   Così Pitagora è fatto profeta della divina e fatale po-  tenza d'Augusto, come con analogo procedimento, nel     (1) La sola predizione che troviamo accennata, a proposito di  Enea, nei poemi omerici, si legge nel e. XX &q\V Iliade (vv. 302,  306-308), e fu riprodotta da Virgilio {Aen., IH, 97-98).   poema virgiliano la dottrina pitagorica della metempsicosi  è assunta quale mezzo artistico per la predizione della  futura grandezza di Rom3.   Nei pochi versi che seguono (453-478) Pitagora finalmente ritorna al punto di partenza e conchiude : « Poi-  ché tutto cambia, poiché al termine della vita la nostra  anima passa in nuovi corpi, anche animali, non uccidia-  mo le bestie; chi può sapere se, uccidendole non faccia-  mo scorrere il sangue di nostri congiunti ? » . Analizzato così il contenuto della esposizione  ovidiana, vien fatto naturalmente di chiedersi quale sia  stato r atteggiamento del poeta di fronte al Pitagorismo.   Ne fu egli per avventura un seguace ? A questa domanda noi possiamo rispondere negativamente senz' om-  bra di esitazione : la vita e l'operosità poetica di Ovidio,  anche nel periodo posteriore alla composizione delle Me-  tamorfosi, furono in antitesi troppo stridente con gl'inse-  gnamenti e la pratica pitagorica, per poter immaginare  pensare che egli fosse dedito con qualche fervore a  quelle dottrine ; d' altra parte Ovidio non ebbe certo tem-  pra di filosofo né eccessivo amore per le ricerche e spe-  culazioni astruse. Che però una certa simpatia, o almeno  una certa insistenza del suo pensiero su quella filosofia  ci sia stata, pare evidente, se non solo nell' opera sua  maggiore le ha fatto così larga parte, con una esposizio-  ne quasi sistematica, ma altre volte ancora accenna ad  essa, come nel citato luogo dei Fasti e in alcuni versi  delle Tristezze (1).     (1) ìrist,, III, .3, 59-64:   Atque utinam pereant anhnae cum eorpore hostrae^  Effugiatque avido» pars mihi nulla rogos. E quasi certamente poi questa predilezione del poeta  si deve ritenere l'effetto della rinascita del Pitagorismo,  che era stata operata in Roma da Nigidio nella prima  metà del secolo (onde abbiamo già visto quan te e quali  traccie se ne riscontrino nella letteratura dell' età di Ci-  cerone e di Yarrone), e che al tempo stesso del poeta  fece sorgere la scuola dei Sestii : sì che Ovidio potè averne  notizia sia dalle opere degli scrittori che appartenevano  alla generazione precedente alla sua, sia dalla viva voce  e dagli scritti di qualcuno dei nuovi seguaci.  Gli studiosi infatti che, proponendosi la questio-  ne delle fonti di quest'ampia trattazione ovidiana del Pitagorismo, hanno cercato di risolverla, per poter quindi  determinare il valore storico della trattazione stessa, hanno  riconosciuto in sostanza che tali fonti debbono essere  state le opere varroniane (le Antiquitates rerum divi-  narum e sopratutto il dialogo Gallus^ de admirandis)     Nam si morte carens vacua volai altus in aura  Spiritus, et Samii sunt rata dieta senis,   Inter Sarmaiicas Romana vagabitur umbras^  Ferque feros manes kospita semper erit.   Il poeta si augura che abbiano ragione coloro che « 1' anima col  corpo morta fanno » e che nessuna parte del suo essere sfugga  alle fiamme del rogo, poiché diversamente, egli dice, « se lo spi-  rito, immortale, vola alto nelle vuote regioni dell' aria e sono veri  gì' insegnamenti del vecchio di Samo, 1' ombra di un Romano sarà  costretta a vagare fra le ombre dei Sarmati e sarà sempre un'e-  stranea tra feroci anime di morti ». Il passo è importante, perchè  mostra che, di fronte al pensiero della morte, il poeta era in so-  stanza ancora incerto fra coloro che negavano e quelli che affer-  mavano la immortalità dell'anima.  oppure gli scritti di Nigidio, o dei Sestii, od anche dei  loro discepoli Papirio Fabiano e Sozione (1).   Sicché, qualunque si accetti delle ipotesi messe innanzi,  sta di fatto che le fonti a cui Ovidio ha attinto non sono  moìto anteriori a lui.   D'altra parte, anche tenendo conto del fatto che Ovidio,  più poeta che filosofo, non intese certo di trattar l'argo-  mento con rigore di metodo scientifico e filosofico, atte-  nendosi scrupolosamente a questo o a quell'autore ; ma  che avrà usato di una certa libertà e indipendenza, e che  (pur valendosi, se si vuole di uno o più modelli, oltre  che dei ricordi e delle cognizioni sue personali) avrà se-  guito soprattutto il suo sentimento artistico, giovandosi  della materia dogmatica nella forma genuina soltanto  nei limiti atti a recare efficacia estetica all' opera sua e  non poco forse aggiungendo, sopprimendo o modificando  di sua propria intenzione; si è riusciti tuttavia a mo-  strare, per esempio, che certe intrusioni nel sistema pi-  tagorico di principii appartenenti ad altri sistemi — come  a quelli di Eraclito e di Empedocle — non sono affatto  imputabili ad Ovidio, ma dovevano già essere avvenute  negli scrittori dai quali egli attinse (2). La sua esposi-     (1) Si vedano in proposito le opere seguenti : Hottingee, De  Pythagora omdiano \ìn Opuseula philologica, Leipzig 1817, pag.  100-107); A. ScHMEKKL, De omdiana Pythagoreae doctrinae adum-  hratione, Gryphiswad, 1885 e Die Philosophie der mìttleren Stoa,  Berlin, 1892, pag. 434, 451, ecc. (dove sono modificate in parte le  conclusioni dell'opera precedente); G. Lafaye, op. cit., cap. X.   (2) Per Eraclito si veda C Pascal, La dottrina pitagorica e la  eraclitea nelle Metamorfosi ovidiane^ Mantova, 1909 ripubblicato  nel volume Scritti varii di Letteratura Latina, 1920, p. 207; e  per Empedocle il volume dello stesso autore Graecia capta ^ Firen-  ze, Le Mounier, 1904, pag. 129-15]. zione del sistema di Pitagora acquista pertanto il valore  di documento storico, in quanto che, supplendo in parte  alla deficienza delle nostre cognizioni m proposito, dovuta  alla perdita delle opere di Yarrone, di Nigidio, dei Sestii,^  ci mostra molto approssimativamente in che consistesse  il neo-pitagorismo romano. L'esame che abbiamo così compiuto della filosofia latina dalle origini fino a tutto il secolo della sua  maggior fioritura ci ha dimostrato non solo che il Pitaorismo e nelle varie età di Roma abbastanza largamente  conosciuto, ma che d'ispirazione pitagorica sono alcune  delle pili eloquenti pagine che quei tempi ci hanno tramandate, come il sogno di Ennio, il sogno di Scipione  e il Canto VI dell' Eneide : sicché dobbiamo concludere  che nelle idee che quel sistema svolse era implicita una  grande e mirabile virtìi di esaltazione poetica ed artistica.  Se riflettiamo d'altra parte che quelle idee esercitarono  notevole influsso nel sorgere delle più antiche istituzioni  romane, e che contro di esse mossero guerra invano l'arte  titanica di Lucrezio, la satira maliziosa di Orazio, la forza  politica di Cesare e di Augusto (nella lotta contro il sodalizio di Nigidio Figulo e la scuola dei Sestii), dobbiamo  tenere per certo che in esse fosse insita una grande forza  di resistenza e quella specie di malìa fascinatrice che suscita le pili alte energie morali. Se le idee tanto piii valgono quanto maggiore è il sentimento che le accompagna  e che le trasforma in forze vive cioè operanti nella vita  degli individui e dei popoli, le concezioni pitagoriche,  venute da sì lontane scaturigini e assurte a così varie,  molteplici, alte manifestazioni d'arte, di pensiero, di moralità nel periodo della civiltà romana, ebbero certo valore  altissimo.   Che se poi, uscendo fuori dai limiti del nostro tema,  pensiamo, alla forza di resistenza che esse mostrarono, al  loro persistere attraverso i secoli e attraverso tante vicis-  situdini del pensiero, ai loro successivo e alterno rina-  scere con sempre rinnovato vigore nei momenti di più  intensa attività spirituale — nella Magna Grecia con Pitagora, in Atene con Platone, in Alessandria coi teosofi  neo-platonici, in Roma con Ennio e con Virgilio, in Costantinopoli con l'imperatore Giuliano, nell'Italia dell'ultimo rinascimento con Giordano Bruno — e se riflettiamo  che oggi ancora esse vivono nell' Oriente asiatico, ope-  ranti con la forza della fede in milioni di coscienze, e  che accennano per diversi segni, in questa nuova prima-  vera dell'idealismo, a risorgere anche nel mondo occidentale, noi possiamo con sicurezza affermare che esse  non furono apparizione fugace ed effimera d'un pensiero  individuale, ma parole di quel linguaggio eterno che sgorga  perenne dalle più profonde radici dell'anima umana.     (1) Si veda, per esempio, tanto per citare un magnifico libro di  scienza, V opera di W. Mackenzie Alle fonti della vita (Genova,  Formiggini, 1912) e la recensione che io ne feci nel Giornale del  Mattino di Bologna.    p: U P H O R B o s.     Rivista Ligure di Scienze , Lettere ed Arti^  a. XXXIX, fase. 2 (marzo-aprile 1912) Genova. La figura di Eùphorbos nell' Iliade. Pitagora rincaraazione  di Eùphorbos. — 3. Altre incarnazioni di Pitagora.     1. — Y'è forse alcuno per il quale, meglio che per  Eùphorbos figlio di Panto, possa ripetersi il famoso ver-  so dell'antico commediografo, che il Leopardi tradusse  « muor giovane colui ch'ai cielo è caro » ? Poiché ve-  ramente fu caro agli dei, se, morto nel fior degli anni  sotto le mura della sua Troja per mano del divino Me-  nelao, dopo aver ferito, primo fra i Trojani, il fortissimo  Patroclo, Eùphorbos ebbe la ventura non solo di una  spiritual vita immortale ne la immortalità dell'Iliade, ma  di lasciare altresì il suo nome, come ora vedremo, legato  per sempre al ricordo di un grande pensiero e di una  più grande vita : al pensiero e alla vi+a di Pitagora.   Fusa nel vivo indistruttibile metallo della poesia d' 0-  mero, la figura dei giovinetto eroe appare, nel racconto  dell' antica gesta, nel momento più acuto dell' azione guer-  resca. Quando, per l' ostinato disdegno di Achille , più  grave è per i Greci il pericolo nella memoranda giornata  del combattimento presso alle navi, Patroclo, indossate le  armi dell'amico e ricondotti i Mirmidoni alla battaglia,   verso l'ora del tramonto si trova coi suoi di fronte ad  Ettore, che Apollo protegge : in tre assalti egli ha uccisi  « tre volte nove » nemici, ma al quarto assalto un colpo  del dio gli ha tolto l'elmo, infranta la lancia, fatto cadere  lo scudo, slacciata la corazza:   II. XVI, 805 Smarrito il cor, fiaccate le valide membra, fermossi  e titubò. Di dietro allor con la punta de l'asta  infra le spalle, al dosso, Io colse da presso un trojano,  il Pantoide Euforbo, che tutti vinceva gli eguali  con la lancia e sul cocchio e al muover degli agili piedi,   810 ed anche allor, venuto appena sul carro, sbalzati  venti nemici avea, di guerra già prode campione.  Primo ei vibrò con 1' asta un colpo su Patroclo auriga ;  ne lo scrollò ; poi corse indietro e tornò ne la mischia,  tratta fuor da le carni la lancia di frassino; incontro   815 Patroclo, ancor che ignudo, ei già non attese a l'assalto (1).  Patroclo allor, stordito dall'urto di Febo e da l'asta,  anco a 1' amiche schiere traeva, fuggendo la morte.  Ma com' Ettore vide dal ferro piagato ritrarsi  Patroclo generoso, il varco s' aprì tra la mischia,   820 presso gli venne e, d'asta vibratogli un colpo, lo giunse  sotto a r addome : fuori n' uscì da l'opposto la punta.  Quei con fragor giù cadde, e grave fu il lutto de' Danai.     (1) I versi 814-815 trovo segnati come spurii nella quinta edi-  zione del DiNDORF, curata dallo Hentze" (Lipsia, 1890), sulla quale  è stata condotta la presente traduzione. Ma non mi pare ohe sia  proprio necessario inquadrare fra parentesi i due versi, così ome-  rici pur nell'apparente disordine dei particolari accennati : prima  la pronta ritirata del giovinetto trojano, poi il trarre dalle carni  di Patroclo 1' asta ; l' idea preponderante per il poeta (cantore in-  nanzi a un pubblico di ascoltatori), dopo accennato 1' ardito colpo  del giovine, è quella del suo rapido sottrarsi alla vendetta di Pa-  troclo ; fermata questa, il poeta si riprende p3r aggiungere an-  cora un particolare descrittivo (lo sforzo dello strappare dalla fe-  rita la lancia) e per rincalzare l'idea della fuga di fronte a Patroclo, Suir eroe atterrato Ettore si vanta e lo schernisce, ma  il caduto ne rintuzza 1' orgoglio, affermando che la vitto-  ria non è stata merito suo, sì degli dei: che lo hanno  ucciso la Moira e il figlio di Latona « e, degli uomini,  Eùphorbos »; e predettagli la fine imminente per mano  d'Achille, muore e rimane supino in mezzo al campo di  battaglia, mentre Ettore insegue Automedonte, che cerca  di portare in salvo il cocchio d'Achille.   A guardia del cadavere di Patroclo si fa innanzi l'A-  tride Menelao, armato di lucido bronzo, tenendo davanti  al morto, in sua difesa, la lancia e il rotondo scudo, fer-  mo d'uccidere chiuncfue osi accostarsi. Ed ecco ancora  Eùphorbos, il cui intervento dà luogo ad uno dei piìi  begli episodi della battaglia :   II. XVII, 9 Pronto di Panto il figlio, esperto nel' asta (1), s'avvide  ch'era atterrato Patroclo, e fattosi subito innanzi     che, pur ferito e spoglio della difesa delle armi, era sempre un  troppo temibile nemico, anche per un più esperto guerriero che  non fosse Eùphorbos. Poiché Omero non ha voluto certo rappresen-  tare questa fuga come atto di viltà ! È tutt'altro che vile il figlio  di Panto, come dimostrerà fra poco nell' impari duello con Mene-  lao. Sicché non mi pare corrispondente né allo spirito né alle pa-  role del testo omerico la traduzione che dà il Monti di questo passo:   Anzi dal corpo ricovrando il ferro   Si fuggi pauroso, e nella turba   Si confuse il fellon, che di Patroclo   Benché piagato e già dell'armi ignudo   Non sostenne la vista. {IL XVI, 1146-1150)   (1) L'epiteto (eummelies) non é certo ozioso : infatti già il poeta  ha detto che Eùphorbos primeggiava fra i coetanei « con la lancia »  (XVI, 809), e che « con l'asta acuta » ha ferito Patroclo (XVI, 806  e XVII, lo), come con l'asta dà un colpo J' ultimo !) nello scudo  di Menelao (XVIi, 43-45).  disse al figlio d'Atreo, al prode guerrier Menelao :  « Menelao, divino germoglio, signor di gran genti,  vanne, abbandona il morto, qui lascia le spoglie cruento (1).  Prima di me nessuno, fra' Teucri o gì' illustri alleati,   15 giunse con 1' asta Patroclo, in mezzo al furor de la mischia:  lascia eh' io m' abbia dunque quest'inclito onor fra' Trojani,  che la dolce vita dal petto ti strappi il mio ferro ».  Bieco d'ira rispose il biondo figliuolo d'Atreo :  « Bello davver, gran Giove, con tanta insolenza vantarsi !   20 Certo mai fu sì grande '1 furor di pantera o leone  di cignal feroce, a cui nel fiorissimo petto  gonfiasi il cor superbo, alter di sua grande possanza,  qual de' figli di Pauto, esperti ne l'asta, è la boria !  Ne ad Iperènor tuo, rettor di cavalli, già valse   25 di giovinezza il fiore, allor che sprezzante affrontommi  e disse me fra' Danai il più dispregevol guerriero !  Or ei non più, te '1 dico, da' suoi propri piedi portato,  ad allietar ritorna la cara consorte e i parenti !  Così la tua baldanza, se pur d'affrontarmi tu ardisci,   30 rintuzzerò. Ma io ancor ti consiglio a ritrarti   dov'è folta la turba. Chi è saggio prevede l'evento ».  Disse così, ma quello ne pur gli die retta e rispose :  « Or, Menelao divino, trar dunque dovrò gran vendetta  pel fratel eh' uccidesti - e ancor tu me '1 dici vantando -   35 e nel segreto talamo tu n'hai vedovata la sposa,  e i genitor nel lutto e in muto cordoglio gittasti !  Oh ! che per me dei miseri avrebbe il cordoglio una tregua,  se la tua testa io stesso e l'armi portandomi in Troja,  fra le man lo gittassi a Panto e a la diva Frontide!   40 Ma non più a lungo, ornai, s' indugi a far prova con l'armi  s' io m' abbia saldo il core o pieno di vile paura ».  Detto così, die un colpo nel tondo perfetto suo scudo,  ma non lo franse il ferro ; bensì gli si torse la punta  nel poderoso usbergo. S' avventa secondo con 1' asta     (1) Le armi di Patroclo, sciolte e fatte cadere dal colpo d'Apollo,  giacevano in terra poco lungi dal cadavere.  l'Atride Menelao, pregato in suo cor Giove padre,   e, mentre quei s' arretra, il coglie a la fossa del collo;  dentro spinge con forza calcando la mano pesante,  e dall'opposto n' esce pel tenero collo la punta.  Cadde, die un tonfo e V armi su lui con fragor risonare ;   50 s' insanguinar le chiome, che simili aveva a le Grazie, (1)  i capelli ricciuti, eh' avvinti eran d'oro e d' argento.  Come talora un florido arbusto d'ulivo si nutre  in solitario loco, allor che molt' acqua vi sgorghi,  bello, pien di rigoglio, e poi, come l' agita il soffio   55 di tutti i venti, un velo di candidi fior lo ricopre, (2;  ma piombando improvviso un vento con turbine grande  dalla fossa lo schianta e a terra disteso lo abbatte;  tale di Panto il figlio, esperto ne l' asta, Eiiforbo  l'Atride Menelao uccise e spogliava de l'armi,   60 Come — allor eh' un robusto leone cresciuto fra' monti *  da pascolante gregge rapì la giovenca più bella,   Cioè ricciute, come dice nel verso seguente, e non bionde^ co-  me ha interpretato alcuno, per es. il Koppen, forse ricordando Pin-  daro Nem>. 5 fine. Le Grazie furono sempre rappresentate con lun-  ghi ricci spioventi sì nelle arti plastiche e figurative, sì nella let-  teratura dei Greci (cfr. Omero, Inno ad Apollo, 194 sg. e Stesicoro,  fr. XIII neìV Antol. della melica greca di A. Taccone). — Si veda  in proposito quello -che scherzosamente Luciano, noi Sogno, fa dire  a Micillo : questi, fra le altre cose dice al suo gallo-Pitagora: « e  « mi sembra che Omero per questo abbia detto le tue chiome si-  « mili alle Grazie, perchè « avvinte eran d'oro e d' argento »: in-  « trecciate infatti con 1' oro e rilucendo con esso apparivano, evi-  « dentemente, molto piiì pregevoli e desiderabili » (XIII).   (2) Accenna forse il poeta coi « soffi di tutti i venti » la sta-  gione di primavera, quando — fra il marzo e 1' aprile — le piante  s' incurvano bensì sotto i venti, ma si rivestono anche della loro  fioritura annuale ; anzi parmi che accenni qui proprio alla prima  fioritura* del bell'arboscello d'ulivo, che poi il primo turbine schian-  ta, cosi come l'asta di Menelao, troncando la vita del giovinet-  to forte ed ardimentoso, fa cadere il serto di fiVite speranze che  già s' intesseva intorno al suo capo. ]  cui la cervice infranse tenendola forte co' denti,  poi, facendola a brani, le viscere ingolla col sangue —  intorno a lui, da lunge, si nnuovon con grande frastuono  65 cani, villan, pastori, ma farglisi presso ad alcuno  non regge il cor, che tutti li fa scolorir la paura;  così Jiessun de' Teucri ha l'alma nel petto sì ardita,  eh' osi affrontar da presso la forza del gran Menelao,   E questi agevolmente porterebbe via le splendide armi  di Eùphorbos, se non glielo impedisse Febo Apollo, il  quale, presentatosi ad Ettore sotto 1' aspetto di Mente, lo  consiglia a desistere dall' inutile inseguimento dei cavalli  d'Achille e ad accorrere invece là dove   or Menelao frattanto, il figlio pugnace d'Atreo,  89 corso a difender Patroclo, uccise il miglior de' Trojani,  il Pantoìde Euforbo e spento n' ha il valido ardire.   Ettore infatti, pronto, si fa largo tra le schiere, vede  r uno che toglie le magnifiche armi, 1' altro disteso in  terra e il sangue che sgorga dalla ferita, irrompe fulmi-  neo con orribili grida, e Menelao, riconosciutolo subito,  non osando da solo tenergli testa, lascia a malincuore il  corpo di Patroclo e si ritira verso i suoi, per chiamare  qualcuno in soccorso. Così egli non ha potuto neppure  portar via con sé sul suo cocchio la preziosa armatura;  della quale tuttavia dovette certo impadronirsi più tardi,  quando i Trojani sconfitti furono costretti a rinchiudersi  entro le mura. E non sarà stato quello il meno glorioso  trofeo di guerra che avrà riportato con se a Micene.   Ma Eùphorbos, morto di così bella morte e glo-  rificato già dalla divina arte d' Omero, non rinacque per  avventura, dopo quattro secoli, a nuova vita e ad opere  non meno belle e gloriose? Poiché alcune antiche testimonianze ci hanno traman-  dato che Pitagora, il celeberrimo fondatore della scuola  italica, l'assertore più famoso della dottrina della metempsi-  cosi, « nel tempio di Hera Argiva, veduto uno scudo di  « bronzo, disse che quello portava e gli era stat^ tolto  « da Menelao quando era Eùphorbos. E degli Argivi,  « staccato lo scudo, vi videro realmente inciso il nome  « d'Eùphorbos ». Così afferma uno scoliaste d'Omero  (//. XVII, 28) e così altri, fra gli antichi scrittori, ricor-  dano accennano la cosa. Chi non rammenta infatti, tanto  per citare i piìi noti, quella famosa ode d'Archita, dove  Orazio afferma appunto, non senza una sottile ironia, che  « il regno dei morti tiene anche il figlio di Panto, sceso  « all'Orco un'altra volta, sebbene, con lo scudo, che fece  « staccare, data testimonianza dei tempi della guerra troja-  « na, non avesse concesso alla nera morte niente più che  « i nervi e la pelle? » (1) Il buon Orazio, tra scettico  ed epicureo, non ebbe evidentemente molta fede nella me-  tempsicosi e si burlò un poco di « Pitagora redivivo! » (2)  Anche Ovidio, che nell' ultimo canto delle Metamorfosi  fa esporre da Pitagora stesso le sue dottrine, lasciò espli-  cito ricordo della tradizione, facendo dire al filosofo :   Ben io — sì lo rammento — nei dì della guerra di Troja  ero il figliuol di Panto, Euforbo, cui stette nel petto     (1) Orazio, Garm. I, 28 vv. 9-13 :   habentque   Tartara Panthoiden iterum Orco  Demissum, quamvis clipeo Trojana refixo   Tempora testatus, nihil ultra  Nervos atque cutem morti concesserat atrae.   (2J Id. Epod. VI, 21: « nec te Pythagorae fallant arcana renati » ]    la grave lancia infissa, per man .del più giovine Atride,   Riconobbi lo scudo, che già la sinistra mia tenne,   or non è molto in Argo nel tempio sacrato di Giuno ». (1)   E ancora due secoli dopo il filosofo neo-platonico Por-  firio^ raccogliendo in una breve biografia molte notizie  intorno a Pitagora, lasciò scritto che questi « ricordava  « a molti di quelli che si recavano da lui la precedente  « vita che 1' anima loro aveva vissuto già un tempo pri-  « ma di essere legata nel corpo d' allora. E di sé stesso  « rivelò con prove indubitabili d'essere stato Euphorbos  « figlio di Panto. E dei versi omerici cantava, accompa-  « gnandosi mirabilmente con la lira, quelli di preferenza:   50 s' insaguinàr le chiome, che simili aveva a le Grazie,  i caj)elli ricciuti, eh' avvinti eran d'oro e d'argento.  Come talora iTn florido arbusto d'ulivo si nutre  in solitario loco, allor che molt' acqua vi sgorghi,  bello, pien di rigoglio, e poi, come 1' agita il soffio   55 di tutti i venti, un velo di candidi fior lo ricopre,   ma piombando improvviso un vento con turbine grand®  dalla fossa lo schianta e a terra disteso lo abbatte ;  tale di Panto il figlio, esperto ne 1' asta, Eiiforbo  r Atride Menelao uccise e spogliava de l'armi.   < Poiché quel che si racconta dello scudo di questo  « Euphorbos frigio, che si trovava in Micene, nel bottino     (1) Ovidio, Metamorph. XV, vv. 160-164:   Ipse ego — nam memini — Trojani tempore belli  Panthoìdes Euphorbus eram, cui pectore quondam  Haesit in adverso gravis basta minoris Atridae.  Cognovi clipeum, laevae gestamina nostrae,  Nuper Abanteis tempio lunonis in Argis,  « trojano dedicato a Giunone Argiva, lo passo sotto si-  « lenzio come cosa ben nota » (1).   La tradizione dunque era assai diffusa Tra gli antichi.  Ora quale ne sarà stata 1' origine? Un'invenzione pura e  semplice ? Potrebbe anche essere; nel qual caso dovrem-  mo evidentemente pensare a qualche discepolo o seguace  del Maestro, il quale, per confermarne meglio la dottrina  della metempsicosi, avesse immaginato di sana pianta la  storiella, cercando poi di accrescerle autorità col farne  autore lo stesso Pitagora. l' invenzione sarebbe nata da  quel che abbiamo udito or ora narrare da Porfirio, che  il filosofo, appassionato lettore d' Omero, recitava e can-  tava spesso i delicati e soavi versi della morte d' Eùphor-  bos ? Anche questo è possibile. Ma a me pare molto più  semplice e forse più ovvio — senza andare vanamente fan-  tasticando in ipotesi — credere senz'altro alla concorde  testimonianza degli antichi. Vi è forse nella cosa alcun-  ché che trascenda i limiti della credibilità e della vero-  simiglianza? Pitagora non credeva davvero alla metempsi-  cosi, e non era anzi questo il pernio della sua psicologia  e della sua morale, e convinzione (non pura ipotesi spe-  culativa) profonda, certa, inoppugnabile sua e dei suoi  seguaci ? Dunque e ben possibile che egli, il quale aveva  virtù taumaturgiche (tanto che nella sua vita il meravi-  glioso, anzi il miracoloso, ebbe gran parte)^ egli, che tante  profonde e misteriose cose aveva imparato nei suoi viaggi  in Egitto e nell' Oriente, esercitando quelle sue pratiche  magiche ai vita, profondando lo spirito in quelle sue me-     (1) PoRPHTRii, Vita Pythagorae^ 26, 27. Così presso Luciano nei  Dialoghi dei morti (20), quando Eaoo presenta Pitagora a Menippo,  questi si rivolge subito a lui con le parole: «Salve, o Eùphorbos ».   ditazioni — così intense, che erano quasi astrazioni dal  corpo ed estasi vere e proprie — , credesse di leggere  nel suo passato la storia della propria anima e ne desse  notizia ~ se non proprio alle turbe — agi' iniziati della  sua scuola, . agi' intimi, ai più perfetti, da qualcuno dei  quali poi la cosa sarà stata divulgata. Insomma per me  r attribuire a Pitagora stesso, anziché allo spirito inven-  tivo di qualche zelante discepolo, 1' accenno alle sue vite  anteriori non ha nulla di inammissibile e di men che  credibile : lo zelo dei seguaci avrà forse potuto aggiunge-  re qualcosa, inventare qualche nuovo particolare o ma-  gari immaginare qualche nuova esistenza, ma l' origine  prima di siffatti racconti si può proprio far risalire allo  stesso Maestro. Il quale dunque potè realmente dire e  naturalmente anche credere — poiché non é ammissibile  la malafede in un uomo di tanta autorità, la cui vita fu  tutta un apostolato di verità e di bene — di essere stato  Eùphorbos.   Ma in tal modo — si potrebbe osservare — se noi  accettiamo per vero quello che 1' antichità concorde ci ha  tramandato, che cioè Pitagora credette e diede a credere di  essere stato il giovinetto figlio di Panto, ne verrebbe di  conseguenza che egli avrebbe anche creduto nella realtà  storica d' Eùphorbos, non già iato dalla feconda fantasia  d' Omero, ma vissuto in carne ed ossa. E che per que-  sto ? Chi mai dei Greci del sesto secolo avanti Cristo —  per non dire di quelli dei secoli posteriori - - non credette  nella realtà della guerra trojana, e dubitò della esistenza  di Agamennone, di Achille, di Menelao, di Ulisse, di  Ettore, di tutta la bella schiera degli eroi dell' Iliade e  dell' Odissea? Né la critica storica demolitrice, né la qui-  stione omerica erano nate ancora, e Federico Augusto Wolf doveva tardare ancora ventiquattro secoli a nascere  e a lanciare pel mondo la stupefacente teutonica mostruo-  sità dei suoi Prolegomeni ad Omero ! Di Pitagora gli ''antichi conobbero anche altre  incarnazioni, anteriori e posteriori. Soggiunge infatti Por-  firio, un poco più innanzi : « Affermava di essere già vis-  « suto precedentemente, dicendo d' essere stato prima Eù-  « phorbos, poi Etàlide, in terzo luogo Ermótimo, poi Pirro  « e allora Pitagora. Con che dimostrava che 1' anima è  « immortale e riesce, in chi sia purificato, a ricordarsi  « dell'antica sua vita » (2). Ma Diogene Laerzio ci ha  conservato in proposito una testimonianza — che risali-  rebbe ad Eraclide Pontico (discepolo di Platone, Speu-  sippo ed Aristotile) — la quale differisce da quella di  Porfirio non solo perchè fa di Eùphorbos la seconda in-  carnazione, essendo stata la prima quella di Etalide, ma  anche perchè riferisce ad Ermótimo (terza incarnazione),  anziché a Pitagora, 1' episodio dello scudo, che sarebbe     (1) Veramente si é incominciato già da qualche tempo ~ anche  in Germania — ad essere un po' meno radicali in fatto di nega-  zioni. E a quel modo che il Beloch, per esempio, ammise come  possibile che « fra gì' innumerevoli eroi venerati nelle diverse parti  del mondo greco ve ne fosse qualcuno che in realtà una volta si  mosse sulla terra in carne ed ossa » (I, p. 121), così il Drerup  {Ornerò^ Bergamo, 1910) afferma d'esser « disposto a vedere in  Agamennone, Menelao, Nestore, Ajace, forse anche in Priamo e  in altre figure dell' epopea, reali persone storiche » (p. 226). Gli  rimangono però gravi dubbi sulla realtà storica della spedizione  contro Troja (p. 231 e seg.).   (2) l. e, 45. Della cosa discussero anche gli scrittori cristiani,  come Tertulliano (de anima 28, 31, 34), Lattanzio {Epit. Instit.  dio. 36), Sant'Agostino {Irinit. XII, 24).   inoltre stato appeso nel tempio di Apollo a Branchidas,  e non a Micene. Ma ecco senz' altro le parole di Laerzio :  « Dice Eraclide Pontico che egli (Pitagora) afPermava di  « se d' esser già stato Etalide e ritenuto figlio di Her-  « raes (1). E che Hermes gli disse di scegliere quel che  « volesse, tranne F immortalità : onde egli chiese il dono  « di conservare da vìvo e da morto il ricordo di tutti  « gli eventi. Che pertanto in vita si ricordava di tutto,  « e dopo che fu morto conservò egualmente la memoria.  « Che in seguito rinacque Euphorbos e fu ferito da Me-  te nelao ; ed Euphorbos diceva d' essere stato un tempo  « Etalide e di aver avuto da Hermes quel dono e ricor-  « dava le trasformazioni dell'anima com'erano avvenute,  « e attraverso quali piante ed animali fosse passata, e  « che cosa l'anima avesse sofferto nell'Ade, e qual sorte  « attenda le altre anime. E che quando Euphorbos morì  « la sua anima passò in Ermòtimo, che alla sua volta,  « volendo dare una prova dell'esser suo, andò a Bran-  « chidas ed entrato nlel tempio d' Apollo mostrò lo scudo  « che Menelao vi aveva appeso, ormai imputridito, re-  « stando solo la parte esterna d'avorio (2). E che quan-     ti) Dobbiamo forse in questa ipotetica discendenza da Hermes,  il dio dei misteri, vedere significata la iniziazione di Pitagora alle  dottrine ermetiche? Mi par probabile; se pure non dobbiamo vedere  in ciò, come noli' altra comune tradizione che faceva di Pitagora  un « figlio d'Apollo », delle espressioni del linguaggio mistico  fraintese.   (2) Pausania, nella descrizione che ci ha lasciata dell' Heraion  di Micene, dice ben chiaro che nel pronao del tempio, a destra,  dov' era la statua della dea, vi era « anche appeso in voto uno  scudo, quello che Menelao già tolse ad Euphorbos in Ilio ». (De-  scriptio Graeciae II, 17, 3). Ora, poiché sappiamo che Pausania  descrive nell' opera sua proprio quel che ha visto coi suoi occhi    « do Erraótimo morì, rinacque Pirro pescatore di Delo ;  « e di nuovo si ricordava tutto : come fosse stato prima  « Etalide, poi Eùpborbos, poi Ermótimo, poi Pirro. E  « che quando Pirro morì, rinacque Pitagora e si ricorda-  « va di tutto quel che s' è detto » (1). Non solo, ma a  sentir Gelilo anzi i due filosofi Clearco e Dicearco — vis-  suti fra il quarto e il terzo secolo avanti Cristo — avreb-  bero lasciato scritto che Pitagora rivisse ancora altre tre  volte, come Pirandro, come Calliclea e finalmente come  una bella etera chiamata Alce (2).   E così r anima d' Eùphorbos, essendo vissuta otto volte-  e avendo sperimentato, chiusa nel carcere corporeo, le  più varie condizioni d' esistenza, sarà essa — dopo aver  compiuto il ciclo assegnatole dal suo proprio destino -—  tornata a dissolversi nel gran mare dell' anima univer-  sale ? (3) o non avrà continuato ancora a vestirsi d'uma-  na carne, indefinitamente, secondo la favola di Luciano?     (tanto che una sua indicazione guidò lo Schhemann alla scoperta  delle famose tombe dei re nel foro di Micene), avrà egli veduto  quell'antichissimo logoro avanzo, o una copia in bronzo fattane  fare di poi, o addirittura un qualunque scudo che i sacerdoti del  tempio vi abbiano appeso in tempi tardivi a ricordo e testimonianza  dell'antica notissima tradizione? Pausania in ogni modo visse  nella 2^ metà del secondo secolo dopo Cristo.   (1) Diogene Laerzio, Vili, 4-5.   (2) Gellio, Noctes Attieae, IV, 11 : «... . Pythagoram vero  « ipsum, sicut celebre est, Euphorbum primum fuisse, dictitasse; ita  « haec remotiora sunt bis, quae Glearchus et Dicaearchus memo-  « riae tradiderunt, fuisse eum postea Pyrandrum, deinde Callicleam,  « deinde feminam pulchra facie meretricem, cui nomen fuerat  « Alce ».   (3) Se, come è probabile, Platone ha desunto dal Pitagorismo i  principii a cui informa la teoria delle pene d' oltretomba nel De  republica (X, 615) — secondo la quale chi aveva commesso ingiu-    « Lungo sarebbe a dire — così parla il suo gallo fìlo-  « sofo (Pitagora redivivo anche questo!) — in qual forma  « r anima mia venisse via da Apollo volando, ed entrasse  « in corpo di uomo, e qual pena sofferisse in tal guisa...  « Mentre eh' io era Eùphorbos combattei a Troja, e quivi  « ucciso da Menelao, dopo qualche tempo ne venni a stare  « in Pitagora ; ma fra 1' un tempo e V altro non ebbi  « casa, aspettando che Mnesarco (1) mi apparecchiasse  « r abitazione.... — Ma quando ti spogliasti di Pitagora  « (domanda Micillo al suo gallo) di che ti vestisti? — Di  « Aspasia, femmina di mondo, di Mileto — . . . — E dopo  « Aspasia qual uomo o qual nuova donna diventasti? —  « Grate, cinico. — figliuolo di Giove, qual differenza!  « Di femmina di mondo, filosofo ! — Poi re, poi un po-  « verello, poi satrapo, poi cavallo, poi gazzera, poi ranoc-  « chio, e mille altre cose che non finirei mai a dirle tutte.  « Ma sopra tutto fui gallo spesso (vita da me sopra le     stizia verso un altro doveva subire dieci volte quella medesima  ingiustizia e occorreva quindi lo spazio di dieci vite per scontare  le colpe della prima — bisognerebbe veramente ammettere (s' in  tende bene, dal punto di vista di Pitagora e della sua dottrina)  almeno altre due vite. — - Per il luogo platonico e le relazioni che  esso può avere avuto con il dogma cristiano della resurrezione si  veda ciò che ha scritto il Pascal nella Rassegna Contemporanea  del dicembre 1911 (ripubblicato in Credenze d'oltretomba^ II, pa-  gina 199).   (1) Padre di Pitagora. Si noti poi che qui Luciano sorvola sul-  le altre note incarnazioni del filosofo. Ma altrove {Vera Historia^  II, 21) egli dice: « In quel tempo appunto ci venne (nella città di  « Soveria nell' isola dei Beati) Pitagora di Samo, che allora aveva  « finita la settima mutazione, vissuto le sette vite, compiuti i sette  « periodi dell'anima, ed aveva d'oro tutto il lato destro. Fu de-  « ciso d' ammetterlo con gli altri beati, ma non si sapeva se chia-  « marlo Pitagora od Euforbo ».  « altre amatissima) servendo ad altri molti, a re, a pove-  « relli, a ricchi uomini; e finalmente vivo in tua compa-  « gnia, facendomi beffe cotidianamente di te, che ti que-  « reli della tua povertà, e piangi e ammiri i ricchi perchè  « non sai i mali che comportano... » (1).   E con l'amabile arguzia lucianea possiamo ben chiu-  dere questa singolare istoria d' Eùphorbos figlio di Panto,  il quale fu veramente molto caro ai celesti.     (1) Luciano, Il Sogno o il Gallo (secondo la traduzione di Ga-  sparo Gozzi). Si legga tutto questo piacevolissimo dialogo. Il no-  stro autore del resto scherza in parecchi altri luoghi su Eùphor-  bos; mi sembra inutile riferirli; basterà vedere un qualunque indice  delle opere di Luciano.  IL SODALIZIO PITAGORICO  DI CROTONE.     Edito dalla ditta Nicola Zanichelli di Bologna. Tradotto  e pubblicato in The Theosophieal Review (Londra) voi. XXXVII,  n. 219-20 (nov.-dic. 1905).     Oggetto del presente studio. -- 2. Origiiae o formazione del So-  dalizio pitagorico. — 3. Carattere e scopi di esso. — 4. Sua du-  rata. — 5. Suo ordinamento. — 6, Natura degl'insegnamenti  che vi si impartivano. — 7. Conclusione.     L — Una tradizione che fu diffusa e concorde nel-  r antichità anche prima dell' apparizione del neo-pitagori-  smo, narra che il filosofo di Samo, dopo aver viaggiato  nelle regioni d' Oriente — in Fenicia, nella Babilonia, in  Caldea, nella Persia, nell' India e in particolare nell' E-  gitto — e ^ver presa quivi conoscenza delle dottrine se-  grete che i saggi ed i sacerdoti vi professavano, proprio  nello stesso tempo in cui fiorivano nella Cina Lao-Tse  (604-520 a. C.) e nell'India Gotamo Buddho (560-480) (1)  venne a Crotone, una delle più fiorenti fra le città della  Magna Grecia, dove, acquistato subito largo seguito di  ammiratori, istituì un celebre Sodalizio. Di questo ap-  punto intendo ora di esporre le origini, la durata e la  costituzione, valendomi delle notizie abbastanza numerose  e particolareggiate, perchè possiamo farcene un' idea esatta.     (1) Cfr. le osservazioni contenute nel cap. I dello studio di G.  De Lorenzo suU' Bidia e il Buddhismo antico (Bari, Laterza, 1904,  22 ediz. 1919).  che ce ne hanflo lasciato, fra gli altri, Diogene Laerzio (1),  Porfirio (2), GiambJico (3), Clemente Alessandrino (4),  nonché, incidentalmente, gli scrittori classici maggiori,  delle quali poi si servirono, in misura piii o meno larga,  con criteri più o meno discutibili, gli storici moderni del-  la filosofia greca in generale e del movimento pitagorico  in particolare, come il Krische (5), lo Chaignet, il Cen-  tofanti, lo Zeller, il Cognetti de Martiis, lo Schuré (6)  ed altri.   2. — Quanto SiìVorigme dell' Istituto, la tradizione con-  corde narra che verso la LXIP Olimpiade (530 a. C.) o  poco dopo (7) Pitagora, giunto a Crotone, forse accom-  pagnato da numerosi discepoli che ve lo seguirono da  Samo (8), cominciò a tenere in pubblico discorsi tali da  conquistare subito la simpatia degli uditori, accorrenti in  gran numero ad ascoltare la sua parola ispirata (9), che     (1) Vitae et placìta clarorum philosophorum 1. YIII e. I.   (2) De vita Pythagorae.   (3) De pythagorica vita.   (4) Stromat. libri, passim.   (5) De soeietatis a Pythagora in urbe Orotoniatarum conditae  scopo politico commentano^ Gotting, 1831.   (6) Les Qrands Initiès, Paris 1902, pp. 267 sgg. Ed. ital. (Bari,  Laterza, 1905). Per gli altri autori v. note a p. 186 e 192.   (7) Variano dal 529 al 540 le date proposte relativamente all' anno  della sua partenza da Samo; la prima data è ammessa dall' Ueberweg,  Qrundr. I, 16, 1' altra è in Bernhardy, Orundr. d. gr. Liti. p.  I, pag. 755. Il Lenormant {La Grande Orèee) sta pel 532. Quanto  all' arrivo in Crotone, il Bernhardy crede che nel 540 Pitagora vi  si trovasse già.   (8) GlAMBL. 29.   (9) V. Porfirio /. e. 20, che riferisce la notizia da Nicomaco e  Cfr. GlAMBL. l. e. 30.  predicava verità non mai udite prima d'allora in quella  regione e da quegli uomini. Accolto con molta deferenza  tanto dal popolo quanto dalla parte aristocratica, che al-  lora aveva nelle mani il governo, per V entusiasmo su-  scitato dalla sua predicazione, fu eretto dai suoi ammira-  tori un ampio edificio in marmo bianco — homakoeion  od uditorio comune (1) — nel quale egli potesse inse-  gnare comodamente le sue dottrine ed essi ridursi a vi-  vere sotto la sua guida. La tradizione, quale la troviamo  presso Giamblìco e presso Porfirio, aggiunge altri parti-  colari: Pitagora, entrato nel ginnasio, avrebbe parlato ai  giovani che vi si trovavano suscitandone l' ammirazione (2),  del che venuti a conoscenza i magistrati e i senatori  avrebbero manifestato il desiderio di sentirlo anch' essi ;  ed egli, venuto dinanzi al Consiglio dei Mille, vi ottenne  tale approvazione da essere invitato a rendere pubblico  il suo insegnamento^ al quale infatti molti accorsero pron-  tamente, mossi dalla fama, subito dilBFusa per tutto il  paese, della grande austerità d' aspetto, della dolce soavità  d'eloquio, della profonda novità di ragionamenti del fo-  restiero. Via via, la sua autorità crebbe in modo che egli  potè esercitare nella città una vera dittatura morale; poi     (1) Si noti che Clemente (Strom. I, lo) lo identifica con quella  che al suo tempo chiamavasi Ecclesia, cioè alla Chiesa cristiana.   (2) V. in Giamblìco op. cit. 37-57 un largo sunto di questo di-  scorso, che ci dà un' idea di quello che fosse l' insegnamento esso-  terico di Pitagora. La diversità notata a questo proposito dallo  Zeller fra il racconto di Giainblico e quello di Porfirio non mi pare  sufficiente per trarne, com' egli fa, l' induzione che il discorso ri-  ferito dal primo non può essere stato preso da Dicearco, citato dal  secondo ; ad ogni modo è fuori di dubbio che Dicearco stesso lo co-  nosceva, se potè dire che conteneva « molte belle cose ».  si allargò, diffondendosi nei paesi vicini della Magna Gre-  cia e nella Sicilia, a Sibari, a Taranto, a Reggio, a Ca-  tania, ad Imera, a Girgenti; dalle colonie greche, dalle  tribù italiche dei Lucani, dei Peucezi, dei Messapii ed  anche da Roma (1) vennero a lui discepoli di ambo' i  sessi ; e piìi celebri legislatori di quelle regioni, Zaleuco,  Caronda, Numa ed altri, l' avrebbero avuto per maestro (2),  sì che per merito suo si sarebbero ristabiliti dovunque  r ordine, la libertà, i costumi e le leggi (3). In questo  modo, dice il Lenormaiit (4), « egli potò giungere a rea-  lizzare l'ideale d'una Magna Grecia composta in unione  nazionale^ sotto l' egemonia di Crotone, non ostante la  diffeirenza di razze degli Elleni italioti » ; il che peraltro  ò inesatto, poiché, come vedremo, l'intendimento di Pi-  tagora nella sua azione e nella sua predicazione non fu  politico nazionale, ma essenzialmente umano. Forse, ag-  giunge un altro scrittore (5), non fu estranea all'acco-  glienza avuta dal filosofo ed al successo da lui riportato,  una persona con la quale egli doveva essersi trovato in  rapporto quand'era a Samo, cioè il celebre medico ero-  tonese Democede. Ma senza dubbio, più che a conoscenze  personali, l'approvazione ottenuta da Pitagora in Crotone  e l'entusiasmo da lui suscitato in tutta la Magna Grecia     (1) DiOG. VITI, 15; PoEF. 22 ecc.   (2) V. Seneca, 90, 6 che cita Posidonio ; Diog. Vili, 16; Forf.  21 ; GiAMBL. 33, 104, 130, 172; Eliano, Var. Hist. Ili, 17 ; Diod.  XII, 20.   (3) V. DioG. Vili, 3; Porf. 21 sg , 54; Giambl. 33, 50, 132,  214; Cic. Tusc. V, 4, 10; Diod, ìragm. p. 554; Giustino XX, 4;  Dione Crisost. or. 49, p. 249 ; Plut. c. princ. philos. I, 11, p. 776.   (4) Op. ciL, V. I, p. 75,   (5) Cognetti De Martiis, Socialismo antico^ (Torino, 1889Ì p. 465.  furono piuttosto l'effetto da un lato delle virtù intrinse-  che delle sue dottrine e del suo insegnamento, e dall' al-  tro della disposizione e attitudine di quelle genti a in-  tenderlo ed apprezzarlo. Poiché il misticismo ed ogni  moto idealistico trovò sempre fra loro un generale e pron-  to assenso e un gran numero di seguaci, sia nei tempi  più antichi, sia durante il medio evo e nell' età moder-  na (1). In queste attitudini dei popoli del mezzogiorno  sta la ragione del rapido diffondersi delle dottrine pita-  goriche, che furono accettate quasi universalmente : tanto  che molti (2), i migliori per intelligenza e per elevatezza  morale, presi d'ammirazione per la profonda scienza del  Maestro, si accostarono a lui, e, desiderosi di penetrare  più addentro nella conoscenza del suo sistema filosofico,  di cui intravvidero ed intuirono la vastità e la compren-  sione, si ridussero a poco a poco a vivere con lui, atti-  rati nella sua orbita d'azione e di pensiero da quella  spontanea simpatia che hanno sempre esercitato sugli al-  tri tutti i grandi apostoli dell' umanità.   Così fu formato il Sodalizio, del quale fu poi aperto     (1) Così p. es. l'idea religiosa di cui si fece poi paladino e ca-  valiere S. Francesco, partì appunto dalla Calabria, con l'abate Gioac-  chino da Fiore (V. Tocco L'Eresia nel M. E.^ lib. li, eie II).  Del resto il Pitagorismo si mantenne sempre vivo nell' Italia Me-  ridionale, (di dove penetrò in Roma con Ennio) e vi sorse a nuovo splendore nei sec. XYI e XVII con la Scuola di Bernardino  Telesio, dalla quale uscirono, fra gli altri, il Campanella e il Bru-  no— Cfr. David Levi, Giordano Bruno^ Torino, 1888 pp. 124 sgg.   (2) Porfirio op. cit.^ 20 sgg., racconta che più di duemila cit-  tadini con le mogli e i figli si raccolsero nell' Homakoeion e vis-  sero mettendo in comune i loro beni e reggendosi con statuti dati  loro dal filosofo, che veneravano come un Dio.   l'accesso a tutti i buoni — uomini e donne (1) — : e alla  sua filosofica famiglia il Maestro diede quel medesimo or-  dinamento che aveva forse visto attuato nelle scuole del-  l' Oriente e dell' Egitto, nelle quali come s' è accennato,  egli aveva probabilmente preso conoscenza dei Misteri.  L'istituto divenne ad un tempo un collegio d'educazione,  un'accademia scientifica e una piccola città modello, sot-  to la direzione d' un grande iniziato ; e per mezzo della  teoria accompagnata dalla pratica, delle sciq^ze unite alle  arti, vi si giungeva lentamente a quella scienza delle  scienze, a queir armonia magica dell' anima e dell' intel-  letto con l'universo, che i Pitagorici consideravano come  l'arcano della filosofia e della religione. La scuola pita-  gorica ha perciò un'importanza assai grande, perchè fu  il piti notevole tentativo d' iniziazione laica : sintesi an-  ticipata dell' ellenismo e del cristianesimo, essa innestò il  frutto della scienza sull'albero della vita, e conobbe quin-  di quell'attuazione interna e viva della verità che sola  può dare la fede profonda; attuazione efiìmera, ma d'im-  portanza capitale, perchè ebbe la fecondità dell' esempio (2).   3. — Secondo che fu data maggiore importanza all'uno  all'altro degli elementi costitutivi della dottrina pita-  gorica alle forme e agli effetti esteriori di essa, diverso     (1) Sulle donne pitagoriche sarebbe opportuno e desiderabile uno  studio, che darebbe certo gran luce su molti fatti. Ad esse era  impartito un insegnamento particolare ed avevano iniziazioni pa-  rallele, adattate ai doveri del loro sesso. Giamblioo, op. eit. 267,  dà i nomi di 17, tutte chiarissime— -Cìt. ihid. 30, 54, 132; Dioo.  Vili, 41 sg. ; PoRF. i9 sg. ecc. —V. anche Schure, op. cit. pa-  gine 379 sgg.   (2) ScHURÈ op. cit. p. 314.  e il criterio che gli studiosi portarono nel giudicare per  quali intendimenti il filosofo avesse voluto creare questo  Sodalizio.   Alcuni non ne videro che l'intento politico; così, se-  condo il Krische, « la società ebbe meramente lo scopo  di restaurare, consolidare e. accrescere il potere decaduto  degli ottimati e, subordinati a questo, due altri scopi, uno  morale e l'altro di coltura: di rendere cioè i suoi mem-  bri buoni ed onesti, affinchè, se fossero chiamati al reg-  gimento della cosa pubblica, non abusassero del loro po-  tere con l'opprimere la plebe, e questa comprendendo  che si provvedeva al suo benessere, stesse contenta al  suo stato ; e di far studiare la filosofia a coloro che si  accingessero al governo dello Stato, perchè non si può  aspettare un governo buono e sapiente se non da chi sia  colto ed erudito » (1). Ora quanto sia incompiuta ed im-  perfetta questa opinione del Krische apparirà dal seguito  del nostro studio. Gli intenti del riformatore non furono  politici soltanto, ma anche morali, filosofici e religiosi ;  né il suo insegnamento voleva mirare solo a Crotone, o  alla Magna Grecia, sibbene ^Wuomo in generale ; il con-  tenuto politico che esso poteva avere era quindi appena una  parte, e neppure la principale, di un larghissimo sistema  scientifico e filosofico, che abbracciava tutto lo scibile.  Altrimenti, nota giustamente lo Zeller, non si spieghe-     (1) l. e. p 101 — Cfr. il giudizio del Meinees, Hist. d. scienc.  etc. V. II, p. ]85 e quello molto strano del Mommsen, St. di Roma  antica^ Roma-Torino 1903, v. I, p. 124 sg. : « Siffatte tendenze  « oligarchiche informavano la lega solidaria degli « Amici » (?),  « fregiata del nome di Pitagora ; essa ingiungeva di venerare la  « classe dominatrice come divina, di trattare come bestie quei  « della classe servile ecc. » !  rebbe l' indirizzo fisico e matematico della scienza pitago-  rica, e il fatto che le testimonianze piti antiche intorno  a Pitagora ci mostrano in lui più che l'uomo di Stato,  il teurgo, il profeta, il sapiente e il riformatore morale (1).  In realtà egli mirava ad elevare nello spirito e nei costu-  mi i suoi discepoli, sia impartendo loro una cultura e  una scienza univ ersale, sia facendo ad essi praticare la  più rigorosa disciplina dell'animo e delle passioni. Con  questo egli otteneva anche lo scopo, eminentemente civile  e umanitario, di migliorare via via sempre più facilmente  e largamente i cittadini e gli uomini tutti, poiché ogni  discepolo portava poi necessariamente fuori della scuola,  nella sua vita domestica € pubblica, la moralità e la dot-  trina in quella acquistata, diffondendola con la parola e  con l'esempio tra i famigliari, i parenti, gli amici. E in  conseguenza di ciò dovette compiersi a poco a poco un  mutamento anche nel governo della città, per il fatto  che i primi ad approfittare e a .far tesoro delle nuove  dottrine essendo stati probabilmente gli ottimati, questi  direttamente, se ne facevano parte, o indirettamente,  se erano privati cittadini, dovettero portare nel governo  un nuovo indirizzo razionale e una più rigorosa moralità.  L' alleanza quindi fra il Pitagorismo e l'aristocrazia, come  osserva ancora lo Zeller, fu non la ragione, ma l'effetto  dell'indirizzo generale della scuola che chiamava a sé i  migliori ; e se la tradizione ci rappresenta il Sodalizio co-  me un' associazione politica, ciò è vero a patto che non  vogliamo anche affermare che il suo indirizzo religioso,  etico e scientifico sia stato una conseguenza della posi-     ci) V. Eraclito pr. Dioc. Vili, 6; Erodoto IV, 95 — Zeller, D.  PhiL d, Oriech. P p. 328.  zione che i pitagorici presero nel campo politico ; perchè  invece fu proprio il contrario.   Assai diversamente giudicò la natura della società pi-  tagorica il Grote (1), che la disse di carattere religioso  ed esclusivo, e ad un tempo attivo e spadroneggiante,  poiché i suoi membri attivi avevano appunto 1' ufficio di  influire nel governo e sul governo, mentre i contempla-  tivi attendevano agli studi; proprio come nella organizza-  zione dei Gesuiti coi quali, dice, i Pitagorici presentano  una notevole somiglianza. Secondo lui insomma i seguaci  del filosofo non furono che « un privato e scelto nucleo  d'uomini, di fratelli^ che abbracciarono le fantasie reli-  giose del Maestro, il suo canone etico, i suoi germi (? !)  d' una idea scientifica e manifestarono la loro adesione  con particolari osservanze e riti ». In tutto questo vi è  appena qualche ombra di vero; 1' esagerazione ha tolto la  mano all'autore. Il concetto religioso ci fu senza dubbio  in Pitagora, esso costituiva anzi il pernio di tutto l' in-  segnamento esoterico, e il punto di partenza della mera-  vigliosa dottrina dei numeri che lo simboleggiava; ma non  si trattò punto di fantasie più o meno strane e irrazio-  nali ch'egli volesse dare ad ii\ tendere ai suoi seguaci, sì  bene di quella stessa dottrina religiosa che in Egitto, in  Oriente e in Grecia si insegnava nei Misteri e nelle scuole  filosofiche, unica nella sua sostanza — benché diversa  nelle forme e nei simboli esteriori — perché dovunque  derivata dalla stessa tradizione, e, per quanto mistica,  fondata tuttavia saldamente sopra una verace e controlla-  bile esperienza. Il paragonare poi il sodalizio stesso alla     (] ) Hist. of. Oreeee^ T. IV, p. 544; cfr. Ritter, Oeseh. d, Phi-  los, I, p. 365 sgg.     192     setta gesuitica, è un errore, che dimostra in chi ha po-  tuto fare simile raffronto ben poca penetrazione nello spi-  rito che informava quell' antichissimo istituto ; è un giu-  dicarlo dalle sole apparenze esteriori, un disconoscerne  gì' intenti non settarii, ma plrofondamente umani, uno svi-  sare infine l'opera di uno dei pili grandi pensatori e apo-  stoli che r umanità abbia avuto.   Più vicino al vero è il giudizio del Lenormant, in quan-  to egli seppe vedere sotto le fo'^m^ della religione l' in-  tendimento morale di Pitagora (1); ma ancora più giusto  e compiuto, perchè rispondente a tutti i dati di fatto la-  sciatici dalla tradizione, è quello che del Sodalizio diede  uno storico italiano, il Centofanti, col definirlo una So-  « ci età modello, la quale, se intendeva a migliorare le  « condizioni della civiltà comune e aspirava ad occupare  « una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa  « pubblica, coltivava ancora le scienze, aveva uno scopo  « morale e religioso e promoveva ogni buona arte a per-  « fezionamento del vivere secondo un' idea tanto larga  « quanto è la virtualità delV umana natura » (2). Con  lui si accordarono press' a poco lo Chaignet (3) e lo Zel-  ler (4), per il quale la scuola si distingueva da tutte le  associazioni analoghe « per il suo indirizzo morale » pog-  giato su motivi religiosi or guidato da sani metodi d'edu-  cazione e di istruzione scientifica. Il Duncker quindi scris-  se con molta verità che Pitagora fu « non solo il Maestro  « d' una nuova sapienza, ma altresì il predicatore di una     (1) Op. Git. l, p. 83.   (2) Studi sopra Pitagora, nel voi. La Letteratura greca (Fi-  renze, Le Monnier), Opere^ p. 401 sg.   (3) Pythagore et la philos. pythag. I, p. 98.   (4) Die Philos. der Orieehen V" p. 328.    « nuova vita, il fondatore di un culto nuovo e il bandi-  « tore d' una nuova fede » (1). Soltanto tale novità , va  intesa come relativa ai luoghi e ai tempi ; poiché, come  ho detto sopra, il fondo esoterico della dottrina aveva ori-  gini assai remote.   Se tale era dunque l' intento della Società pita-  gorica, se al di sopra di ogni altra considerazione il grande  di Samo pose quella di riformare interiormente gli uomini  e con ciò di modificare anche — necessariamente — le  condizioni esterne della vita individuale e sociale, se egli  mirò a costituire una religione fondata sul sentimento in-  teriore e non sulle pratiche esterne del culto, alle quali  ben raramente ed in pochi corrisponde un'adeguata cono-  scenza e persuasione, e che perciò acquistano un valore  di mera superstizione e di vuoto formalismo dogmatico,  era troppo naturale che la nuova istituzione dovesse su-  scitare i timori degli elementi conservatori della società  crotouese ed italiota, e sopra tutto le ire di quegli ari-  stocratici ignoranti che ne erano stati esclusi per deficien-  za intellettuale e morale, e dei sacerdoti che vedevano  allontanarsi dalla religione tradizionale e quindi sfuggire  al loro dominio tanta parte — la parte migliore — della  gioventìi. E le calunnie che tutti costoro seppero sparge-  re, dovevano purtroppo trovare, come sempre, facile cre-  dulità nel volgo e pronto aiuto in tutti coloro che dalle  nuove idee vedevano lesi o minacciati i loro interessi per-  sonali; tanto pili che — come accade in ogni nuovo mo-  vimento d'idee che tocchi e trasformi l'assetto politi-  co e sociale, — delle incertezze, degli errori, delle de-     (5) Qeseh. d, Alter. VI, p. 636.   13.   bolezze, della violenza partigiana di qualcuno fra gli adepti  e fautori della Società avranno ben tosto cercato di trarre  partito, mettendole in rilievo, gli avversari delle nuove  dottrine. Ma di questo noTi è fatto ricordo da nessun au-  tore. È fatto invoce espresso ricordo di un tal Cilene,  aristocratico, che per la sua crassa ignoranza e per la sua  inettitudine non potè essere ammesso a far parte del So-  dalizio interno, e che « pien d' ira e di corruccio » co-  minciò a brigare fra i malcontenti, a spargere voci calun-  niose, a mettere in cattiva luce le cerimonie e 1' azione  segreta della Società, continuando la lotta con quell'a-  sprezza e quella tenacia che gli veniva dall'orgoglio gra-  vemente offeso e dalla certezza di essere spalleggiato da  molti. Egli in questo modo, favorito com' era anche dalla  sua elevata condizione sociale e dalle idee democratiche,  allora penetrate nella Magna Gi'ecia da cui seppe abil-  mente trarre vantaggio, potò creare nel Consiglio Sovrano  dei Mille una forte opposizione, che, allargandosi e diffon-  dendosi fra il popolo, facilmente ingannato dalle apparen-  ze esteriori sotto alle quali non vedeva altro che mistero,  dette poi luogo ad una vera e propria sommossa contro  il filosofo ed i suoi seguaci. Così che, se  il moto fu effettivamente moto di popolo contro il reggi-  mento arivStocratico, l'ispirazione tuttavia venne dalla parte  meno buona dell' aristocrazia e dal sacerdozio ufficiale (1).  Un decreto di proscrizione bandì senz' altro Pitagora, die,  dopo aver cercato invano ospitalità a Caulonia ed a Locri,  fu accolto in Metaponto, dove morì non molto tempo do-  po ; ed una fiera persecuzione fu iniziata contro i pitago- V. in proposito ciò che dice con molta verità il Centofanti,  op. cit. p. 4l6 sgg.   rici, parte uccisi e parte cacciati anch' essi in bando e  profughi nelle terre vicine.   La durata del Sodalizio fu dunque assai breve, di non  pili che quarant' anni ; tuttavia 1' efficacia dell' insegna-  mento pitagorico durò per lungo tempo attraverso i se-  coli (1) e la sua fiamma non si spense mai, conservata  religiosamente e religiosamente trasmessa di generazione  in generazione dagli eletti a cui fu affidato via via il sa-  cro deposito (2) ; cosicché il fondo delle dottrine esoteri-  che si mantenne, e i tempi successivi in grande o in pic-  cola parte poterono conoscerle. Nel sodalizio si distinguevano due classi di adepti;  quella degli ammessi ad un grado di iniziazione (disce-  poli genuini o famigliari) e quella dei novizi o semplici  uditori (acustici o pitagoristi); ai primi, distinti alla loro  volta in varie classi, forse in corrispondenza coi diversi  gradi, (pitagorici, pitagorei, fisici, matematici, sebastici) e  discepoli diretti del Maestro, era fatto l'insegnamento eso-  terico segreto; gli altri potevano assistere solo alle le-  ziorìi esoteriche, di contenuto esr^enzialmente morale (3), e     (1) AmsTOTiLE ci fa sapere (Polii. V, lO) che \q sissitie italiche,  anteriori a tutte le altre, duravano tuttavia nel suo secolo; certo  per la congiunzione loro coi posteriori istituti pitagorici. V. Cen-  TOFANTi, op. ni. p. 383 e cfr. Cognetti De Martiis, op. cit. p. 466.   (2.) Il Pitagorismo appare nel mondo romano e noli' Italia me-  dioevalo e moderna in tutti i periodi di risorgimento filosofico. La  repubblica utopistica di Platone come quella del Campanella ripro-  ducono molto da vicino l' ideale di vita che fu realmente praticato  neir istituto Crotonese.   !3; V. Clem. Stromat. V. 575 D ; Ippol. Eefut. I, 2, p. 8, 14 ;  PoRF. 37 ; GiAMBL. 72, 80 sg., 87 sg.; Gell. I, 9, Cfr. anche Yil-  LOisoN, Anecd. II, 216. - Secondo uno scrittore dal quale attinse     19t)     non erano ammessi alla presenza di Pitagora, ma, come  dice la tradizione, lo sentivano, talvolta, parlare da die-  tro un velario che lo nascondeva ai loro occhi.   Prima di ottenere l'ammissione non solo ai gradi d'i-  niziazione, ma anche al noviziato, bisognava subire prove  ed esami rigorosissimi, poiché, diceva Pitagora, « non  ogni legno era adatto per farne un Mercurio »; anzitut-  to, come ci narra Aulo Gelilo (1), un esame fisionomico  che attestasse della buona disposizione morale e delle  attitudini intellettuali del candidato (2); se questo esame  era favorevole e se le informazioni procurate intorno alla  moralità e vita anteriore erano soddisfacenti, egli era  ammesso senz'altro e gli era prescritto un determinato  periodo di silenzio (echemythia), che variava, secondo gli  individui, dai due ai cinque anni, durante i quali non  gli era lecito che di ascoltare ciò che era detto da altri,  senza mai chiedere spiegazioni nò fare osservazioni. In  questo come nel lungo meditare e nella piìi rigorosa e  severa disciplina delle passioni e dei desideri praticata  per mezzo di prove assai difficili, prese dall'iniziazione  egiziana, consisteva il noviziato (parashevé). a cui erano     Fozio (Cod. 349), gh adepti erano distinti in Sebastici, politici,  matematici, Pitagorici, Pitagorei e pitagoristi ;. e lo stesso scrittore  aggiunge che i discepoli diretti di Pitagora erano chiamati pitago-  rici, i discepoli di questi pitagorei e i discepoh essoterici o novizi  pitagoristi. Dal che il Roeth (II, pag. 455 sg., 756 sg., 823 sg.,  966; b 104) deduce che i membri della piccola scuola pitagorica  erano chiamati pitagorici e quelli della grande pitagorei ; ed a ra-  gione, purché non si identifichino questi ultimi con i pitagoristi o  discepoli essoterici, ma bensì si considerino come gh iniziati di pri-  mo grado.   (1) Noci. Att. I, 9.   (2) OmaiNE fa Pitagora inventore della « fisionomica ».  sottoposti gli acustici. Costoro appena avevano imparato,  col lungo tirocinio, le due cose piti difficili, cioè l'ascol-  tare e il tacer e, erano ammessi fra i matematici (1) e  allora soltanto potevano parlare e domandare, ed anche  scrivere su ciò che avevano udito, esprimendo liberamen-  te la loro opinione. Nel tempo stesso che imparavano ad  accrescere la potenza delle loro facoltà psichiche, la loro  sapienza si faceva a grado a grado più elevata e più va-  sta, sino a giungere all'intelligenza deìV Essere assoluto,  immanente neil' universo e nell' uomo : chi arrivava a  questa che era la più alta cima della speculazione filo-  sofica, e che segnava la fine di tutto l' insegnamento eso-  terico, otteneva il titolo corrispondente a questa inizia-  zione epoptica, cioè il titolo di perfetto (teleìos) e di ve  nerahile (sehastikós) ; oppure chiamavasi per eccellenza  nomo.   L' obbligo essenziale che si imponeva agli adepti era  quello del silenzio (2) e della segretezza verso gli altri,  senza eccezione per parenti o per amici. Tanto che per-  sino i già iniziati, se avessero lasciato trapelare qualche  cosa agli estranei, erano espulsi come indegni di appar-  tenere alla Società e considerati come morti dagli altri  confratelli, che innalzavano ad essi nell' interno dell' isti-     (Ij Così chiamati dalle discipline che professavano, cioè la geo-  tnetria^ la gnomonica, la medicina^ la musica ed altre d' ordine  superiore, per mezzo delle quali si elevavano alle più sublimi ed  eccelse vette della scienza umana e divina. - Sulla medicina v. E-  LiANO, Var. Hist. IX, 22.   (2) V. Tauro pr. Gellio, L e; Diog. Vili, 10; Apul. Fior. II,  15; Clem. Strom. V, 580 A; Ippol. Refut. I, 2, p. 8, 14; Giamel.  71 sg., 94; cfr. 21 sg.; Filop. De an. D 5 b; Luciano, Vii. auct.  3; Plut, De curios. p. 309.  tuto un cenoiafio (1). È rimasta famosa e proverbiale  quindi la fermezza con la quale i Pitagorici sapevano cu-  stodire il segreto su tutto ciò che riguardava la scuola (2).  Allo stesso modo era considerato come morto chi, pur  avendo dato buone speranze di sé e della sua elevatezza  spirituale, finiva col mostrarsi inferiore al concetto che  aveva fatto nascere dalla sua capacità. Tali casi però, ò  bene notarlo, dovettero essere assai rari, poiché la lun-  ghezza del tempo di prova che precedeva il passaggio da  un grado a un altro aveva appunto lo scopo di rendere  impossibili o di limitare al minimo gl'inganni e le de-  lusioni.   L'essere stato accolto fra i novizi ed anche la ricevuta  iniziazione non obbliga^^a per nulla alla vita cenobitica.  Molti anzi, o per la loro condizione sociale o perchè non  sapessero rinunziare interamente al mondo o per altre     (1) A questo proposito sappiamo da Clemente (^S^row. V, 574 D),  che riferisce una tradizione ben nota, come Ipparco, a causa ap-  punto dell' avere fatto conoscere la dottrina segreta del Maestro  con un suo famoso scritto in tre libri, del quale ci parlano anche  Diogene Laerzio (VITI, lo) e Giamblico (199), fu cacciato dalla  Scuola. Cfr. Oeigune, Cantra Celsurn III, p. 142 e II, p. 67 Can-  tab,; GiAMBL. 17; Th. Canterus, Var. Leet. I, 2.   (2) V. Plut. Numa^ 22; Aristocle p. Edseb. pr. ev. XI, 3, 1;  PSEUDO Liside pr. GiAMBL. 75 sg. e Diog. VIII 42; Giambl. 226 sg.,  246 sg. (ViLLOisoN, Aneed. II, p. 216); Porf. 58; un anonimo pr.  Menagio in DioG. VIII, 50. Cfr. Platon., jS'p. II, 314, l'afferma-  zione di Neante su Empedocle e Filolao, e il racconto dello stesso  scrittore e di Ippoboto (pr. Giambl. 189 sg.) secondo il quale Myl-  lia e Timycha sopportarono i più crudeli tormenti e 1' ultima si  tagliò la lingua, piuttosto che rivelare a Dionigi il vecchio la ra-  gione dell'astinenza dallo fave. Così Timeo (pr. Diog. Vili, 54) af-  ferma che Empedocle e Platone furono esclusi dall' insegnamento  pitagorico, perchè accusati di « logoklopia ».   ragioni, continuavano la loro vita ordinaria, che natural-  mente informavano ai principii morali e alle conoscenze  acquisite, diffondendo così con la pratica e con la parola  il bene a cui l'insegnamento appunto mirava. Erano  questi i membri attivi^ di cui ci parlano alcune testimo-  nianze; gli altri invece, gli speculativi^ vivevano sempre  nell'Istituto, dove, in perfetto accordo con tutte le altre  pratiche e leggi dell'Istituto stesso, le quali miravano so-  pratutto a far scomparire ogni forma di egoismo e di  orgoglio individuale, era praticata un'assoluta comunione  di beni. E non è poi così strano da doversene negare la  verità (1), che uomini dati a speculazioni filosofiche e re-  ligiose e a pratiche morali, e che vivevano insieme' per  uno scopo unico, mettessero in comune i loro beni, per  il vantaggio dell'insegnamento e per la diffusione delle  loro idee. Che cosa poteva trattenere i discepoli interni^  non legati più dai vincoli del mondo, da questa comu-  nione di beni ? E quanto agli esterni, non è naturale  pensare che, per la virtù della fratellanza e dell'amore  acquistata nel comune insegnamento, ciascuno mettesse  spontaneamente tutte le sue sostanze, anzi tutto se me-     (1) Secondo lo Zeller lo testimonianze di Epicuro (o Diocle) pr.  Diog. X, Il e di TiMKO di Taurom. ibid.^ Vili, 10) che fu anche,  secondo Fozio (Lex. y. v. Koinà) introdurre da Pitagora la comu-  nità dei beni fra gli abitanti della Magna Grecia sono troppo re-  centi. Ma cfr. anche gli Schol. in Fiat. Phaedr. p. 312 Bekk., e  le testimonianze che troviamo in Dioo. VILI, IO; Gell. I, 9; Ippol.  Refut. I, 2 p. 12; Porf. 20; Giamrl. 30, 72, 168, 257 ecc. — Il  Krische {l. e. p. 27) crede che fonte di questa tradizione sia stata  una falsa (?) interpretazione della nota massima « le cose degli  amici sono comuni »; il che mi pare ben poco fondato, se si pensi  che non è neppur corto che questa massima appartenesse in modo  particolare ai pitagorici (Aristot. FAh. Nic. IX, 8, 1168 b 0).   desimo a disposizione dei suoi confratelli ? (1). Ed infatti  noi sappiamo che i Pitagorici usavano particolari segni  di riconoscimento (2) ~ come il pentagono (3) e lo gno-  mone (4), incisi sulle loro tessere, e la forma caratteri-  stica del saluto (5) — dei quali dovevano servirsi sia per  conoscersi ed aiutarsi subito a vicenda nei loro bisogni  sia per essere accolti, fuori di Crotone, dagli adepti di  altre scuole consimili, numerose così nella Magna Grecia  come nella Grecia e nell'Oriente (6).   La vita che si conduceva nell' istituto da quei disce-  poli che vi rimanevano in permanenza ci e sufficiente-  mente nota per le narrazioni dei neo-pitagorici e per le  notizie sparse qua e là nelle opere dei più antichi autori.  Tutto era ordinato con norme precise che nessuno tra-  sgrediva mai (7); il che si intende facilmente, se si pen-  si che ognuna di esse aveva la sua giustificazione razionale e che, salvo alcune rigorosamente prescritte, erano     (1) V. DioD. Siculo Exeerpt. Val. Wess. p. 554; Diog. Vili, 21.   (2) GiAMBL. 238.   ^3) V. gU Sckol, alle Nuvole di Aristofane 611, I, 249 Dind.   (4) Krische l. e. p. 44.   (5) Luciano, De Salut.^ e. 5.   (6) Per questo, e forse per altre analogie (come quella delle a-  dunanze notturne di cui ci parla Diog. VIII, 15) si è paragonato  da alcuno l' Istituto pitagorico con altre società segrete dei nostri  tempi. V. su questo proposito un cenno fuggevole nel Dici, de  biogr. génér.^ Firmin-Didot, Paris, 1862, t. 41, col. 243-244: « Les  souvenirs de collège formaient sans doute pour les pythagoriciens  ce lien sacre qu' on a depuis voulu assimiler à je ne sais quelle  société de Roseeroix ou de Francs-ma^ons ».   (7) PoBF. 20, 22 sg. che cita Nicomaco e Diogene (autore d' un  libro sui prodigi); Giambl. 68 sg., 96 sg., 165, 256.   date più in forma di redola o di consiglio, che di vero  e proprio comando (1).   Di buon mattino, dopo Ja levata del sole, i cenobiti  si alzavano e passeggiavano per luoghi tranquilli e silen-  ziosi, fra templi e boschetti, senza parlare ad alcuno pri-  ma di avere ben disposto il loro animo con la medita-  zione ed il raccoglimento. Poi si adunavano nei templi  in luoghi simili, ad imparare e ad insegnare — poi-  ché ciascuno era e maestro e discepolo (2) — e pratica-  vano continuamente particolari esercizi per acquistare la  padronanza delle passioni e il dominio dei sensi, svilup-  pando in modo speciale la volontà e la memoria e le fa-  coltà superiori e più riposte dello spirito. Non si trat-  tava peraltro né di mortificazione della carne e rinun-  zia forzata ed obbligatoria ai piaceri normali delia vita,  ne di altre simili aberrazioni fratesche e conventuali: Pi-  tagora voleva soltanto che ognuno si mettesse in grado  di assoggettare il corpo allo spirito, per modo che que-  sto fosse libero nelle sue operazioni e nel suo svolgi-  mento interiore : ma il corpo doveva essere mantenuto  sano e bello, perchè in esso lo spirito avesse uno stru-  mento perfetto quant' er : possibile : onde gli esercizi gin-  nastici d' ogni genere fatti ali' aria aperta, e le prescri-  zioni minuziose intorno all' igiene e specialmente ai cibi  e alle bevande. In generale i pasti erano assai parchi,    Il rispetto alia libertà individuale era una delle caratteristi-  che, e forse la più bella del metodo pedagogico pitagoreo. V. su  tale metodo F. Cramek, Pythag. quomodo educaverit atque insti-  siuerit (1833).   Anche questa era una sapiente e razionale disposizione, abi-  tuando i discepoli alla virtù attiva. ridotti al puro necessario, eJiminaudo tutto ciò che potes-  se offuscare la serena funzione dello spirito ed aggravare  inutiluiente lo stomaco. Pane e miele al mattino, erbe  cotte e crude, poca carne e solo di determinate qualità  ed animali, raramente il pesce e pochissimo vino la sera  durantB il secondo pasto (1), il quale doveva essere ter-  minato prima del tramonto, ed era preceduto da passeg-  giate, non pili solitarie, ma a gruppi di due o tre,  e dal  bagno. Terminato il pranzo, i commensali, riuniti intorno  alle tavole in numero di dieci o meno, si trattenevano a  discorrere piacevolmente, a leggere ciò che il più anzia-  no prescriveva, di poesia e di prosa, e ad ascoltare della  buona musica che disponeva gli animi alla gioia e ad  una dolce armonia interiore. Poiché « la musica, onde  tutte le parti del corpo sono composte a costante unità  di vigore, è anche un metodo' d'igiene intellettuale e mo-  rale, e però compieva i suoi effetti nell'anima perfetta-     I     (1) La tradizione più diffusa ci parla di assoIui;a astinenza dalle  carni, dal vino e dalle fave. Pitagora forse era un puro vegetaria-  no, come ci attestano Eunosso pr, Porf. 7 ed Onesicreto (sec. IV  a. C.) pr. Strab. XV. 1, 65 p. 716 Gas. Ma non possiamo affer-  mare che tale dieta fosse assolutamente obbhgatoria per tutti : al-  trimenti non potremmo spiegarci come mai alcune testimonianze  parlino di certe qualità di carne rigorosamente proibite. Probabil-  mente P astinenza dalle carni e dal vino ( quella delle fave pare  fosse prescritta nel modo più formale e categorico) fu un semplice  uso, derivante dal. bisogno o dal desiderio di manteaer sempre sve-  glio lo spirito e di rendere meno tirannico — pur conservandolo  sano — il corpo e meno forti le sue esigenze. La dottrina della  trasmigrazione delle anime non entrava per nulla in tale divieto ;  poiché essa aveva un significato e un valore assai diverso da quel-  lo normalmente attribuitole, secondo la comune credenza della sua  derivazione dall' Egitto.  mente disciplinata di ciascun pitagorico » (1). Non man-  cavano iiifìno, durante la giornata, alcune semplici ceri-  monie religiose, piii precisamente simboliche, che servi-  vano a mantenere sempre vivo e presente in ognuno il  culto ed il rispetto di quell'Essenza da cui emanava e a  cui doveva tornare — secondo la dottrina mistica del  Maestro — il principio animico e sostanziale di ciascun  individuo umano.   Altre testimonianze ci parlano di astensione dalla cac-  cia, dell'uso di vesti bianche !2) e di capelli lunghi (3).  Quanto slìV obblUjo del celibato di cui parla lo Zeller,  non solo non ò dato da alcuna testimonianza (4), ma è  contrario anzi a quelle molte che ci parlano di Teano,  moglie di Pitagora, dalla quale questi avrebbe avuto piìi  figli (5) ed alle altre ove sono determinate le norme ri-     (1) Cento FANTI, op. cit. p. 390.   i2) GiAMBL. 100, 149 che desunse forse la notizia da Nicomaco  cfr. RoHDE, Rh, Mas. XXVI, 3 5 sg., 47). Aristosseno, da cui è  forse presa — mediatamente — la notizia contenuta nel § lOO, non  parlava che dei Pitagorici del suo teuipo. V. Apul. De Magia e 56;  Filostb. Apollo??.. I, 32, 2; Elian(., V. (Iht. XTI. 32.   (3) FlLOSTR. l. C.   (4) Egli cita veramente Clem. Strom. IH, 435 C. e Diog. Vili,  19 ; ma nel primo di questi luoghi è detto solo . che da alcuni si  affermava i^he i Pitagorci « si tenevano lontani dall'amore carna-  le »; ciò che non significa punto che l'amore stesso fosse loro  proibito : anche qui probabilmente si trattava di una semplice pra-  tica liberamente voluta dai più degli adepti. Nel secondo luogo ci-  tato è detto semplicemente che Pitagora « non si seppe mai che si  abbandonasse a pratiche sessuali » .   (5) Ermesianatte pr. Ateneo XllI, 599 a; Diog. Vili, 42; Porf.  19 ; GiAMBL. 132, 146, 265; Clem. Paedag. Il, e. 0, p. 204;  Strom. I, 309, IV, 522 D.; Plut. Coniug. praec. 31, p. 142 ; Stob.  Eel. I, 302; Fiorii. 74, 32, 53, 55; Fiorii. Monac. 268-270 (Stob.  Fior. ed. Mein. IV, 289 sg.); Teodoreto, Semi. 12.  guardo al tempo più opportuno per dedicarsi all'amore (1);  e contrario poi — ciò che è piìi importante — allo spirito  della dottrina del filosofo, per il quale la famiglia era sa-  cra, e i doveri ad essa inerenti erano indicati con molta  precisione ed accuratezza, massime nell'insegnamento fatto  alle donne. Anche il celibato insomma non dovette essere  che una pratica dei piìi ferventi discepoli, i quali, dediti  interamente alle speculazioni filosofiche ed agli studi, cre-  dettero forse di trovare nei vincoli di famiglia un osta-  colo alla libertà dei loro studi e delle loro meditazioni.   6. — Queste, in breve le notizie che ci restano della  storia esterna dell' Istituto e del suo ordinamento interno.  Per quello che riguarda in particolare l'insegnamento, ab-  biamo dunque veduto che esso era duplice e che per  essere ammessi a quello chiuso o segreto era necessario  aver dimostrato, con lunghi anni di prova, di esserne de-  gni e di avere tutte le attitudini necessarie a riceverlo.  Chi non dava tali garanzie poteva usufruire soltanto del-  l' insegnamento esoterico o comune, privo di ogni sim-  bolismo e alla portata di tutti, di carattere essenzialmente  morale. Abbiamo anche accennato che i discepoli esote-  rici erano iniziati gradatamente a forme sempre piìi ele-  vate di conoscenze — teoriche e pratiche — , nascoste  sotto il velo di particolari formule simboliche, facili da  ricordare e schematiche, le quali avevano il vantaggio  che, conosciute dai profani, non rivelavano per nulla il  loro senso riposto e metaforico (2). Con ciò si voleva evi-     I     (1) DioG. vili, 9.   (2) L' Arte Mnemonica di Eaimondo Lullo, uno  dei precursori del Beuno e maestro di Gioacchino da. Fiore, di Cortare il pericolo che conoscenze d'ordine superiore fossero  date in balia a menti inette a comprenderle, le quali,  appunto per questo, le divulgassero poi con restrizioni,  limitazioni e imperfezioni derivanti dalla loro intelligenza  inadeguata e così nascesse il discredito e il ridicolo sulle  dottrine fondamentali e su tutto l'insegnamento. Il cri-  terio usato neir impartirle era dunque che « non si do-  vesse dir tutto a tutti » e tale criterio — aristocratico  nel senso più ampio e più bello della parola — del pro-  porzionare le conoscenze alla capacità individuale, non  può certo reputarsi illogico o segno di vana superbia e  di orgoglio intellettuale : anzitutto ò accaduto in ogni  tempo che dottrine intrinsecamente buone abbiano via via  perduto, col troppo diffondersi, gran parte della loro per-  fezione primitiva ed abbiano finito o con V andare sog-  gette ad ogni sorta di travestimenti e di inquinamenti od  anche col perdere affatto il loro contenuto sostanziale,  pur conservando le manifestazioni esterne e i segni for-  mali di esso ; in secondo luogo non essendo mai chiesto  all'individuo più di quello che le sue facoltà naturali e  le sue conoscenze effettive potessero comportare, e lo svol-  gimento delle facoltà stesse procedendo secondo quella  progressione che la natura pone nell' esplicarle e secondo  i gradi della superiorità loro nell' ordinata ed armonica  conformazione della persona umana, non veniva ad esse-  re turbato in nessun momento quell' equilibrio, nel quale  sì conteniperano in armonia perfetta le varie attitudini di  ciascuno, e ne nasceva per l' individuo stesso una pace  indisturbata e una fiducia in se medesimo, che non dava     NELio Agrippa, del Paracelso ecc., ebbe lo stesso carattere di una.  simbolica universale, intelligibile ai soli iniziaci. mai luogo allo scoraggiamento e allo sconforto. Tutta la  vita era quindi sottoposta alla legge d'un' educazione si-  stematica e c(mtiuua, e delle attitudini individuali face-  vano uno studio diligente, coscienzioso ed incessante quelli  che erano piti in alto nell' ascesa verso la perfezione.   Nei rapporti degli adepti fra loro e con gli altri uomi-  ni era legge suprema l' amore, e questo infatti regnava  sovrano tra quelle anime, avide soltanto di ben© e desi-  derose di attuare quant' ò possibile in questa vita quel-  l'ideale di giustizia che è, attraverso i secoli, la perenne  aspirazione di tutti i buoni. Nella scuola e nell' insegna-  mento invece era il principio autoritario che prevaleva ;  principio razionale e giusto quando corrisponda a una  vera gradazione di merito e di valore individuale, e per  nulla insopportabile, quando l'insegnamento sia animato  vivificato dall' amore reciproco fra discepoli e maestri,  e quelli abbiano in questi fiducia e stima illimitata. Chi  si avvia per la stiada del sapere e vuole arrivare all'ac-  quisto di un qualsiasi sistema di conoscenze ha sempre  nozione imperfetta e inadeguata delle verità che impara,  finche non sia giunto a comprenderne per intero l'ordine  necessario ; e le verità stesse, imparate che siano, non  sono mai sufficienti a costituire il sapere, se non vi si  unisca l'esperienza positiva della loro realtà. Ma poiché  non tutte le nozioni, come si è già detto, potevano es-  sere intese da tutti pienamente e ciò non di meno era  necessaria la loro conoscenza, anteriore a quella delle lo-  ro ragioni intrinseche ed ideali, non era possibile l'inse-  gnamento di esse senza il principio d'autorità. E d'altro  lato, non potendo questa medesima autorità essere tolle-  rata a lungo dai discepoli, se alla simpatia non si fosse  accompagnata anche la persuasione, nata dal riconoscimento sperimentale di altre verità prima soltanto apprese,  era giustissimo il priocipio di coordinare l'insegnamento  teorico ed il pratico. Oud' è che gli adepti accettavano  volentieri e senza discutere le dottrine che gli iniziati  superiori insegnavano in forma di precetti brevi, sempli-  ci, facili, simbolici, sìa perchè erano rafforzate dall'auto-  rità suprema del Maestro da cui derivavano, sia perchè  gradatamente era anche insegnato a ciascuno il metodo  per verificarle praticamente da se medesimo. Uipse dixit  era pertanto, come dice benissimo il Centofanti (1), « la  parola dell'autorità razionale verso la classe non ancora  condizionata alla visione delle verità più alte e non par-  tecipante al sacramento della Società », mentre poi il  vedere in ?>7/r> Pitagora «valeva appunto la meritata ini-  ziazione all'arcano della Società e della scienza ». Resterebbe ora da dire in che cosa consisteva  l'insegnamento impartito con un metodo così rigoroso e  prudente, quale era la nuova parola che Pitagora portò  fra quelle popolazioni, così piena di fascino da persuadere  tante nobili intelligenze ed ammaliare tanti cuori, e a  quale spirito era informato un. sistema educativo, che non  solo sui giovani, ma anche sugli uomini aveva tanto po-  tere da trasformarne la natura morale e tutta la costitu-  zione psichica. Ma poiché questa esposizione della dottri-  na pitagorica è già stata fatta da molti (2), basti qui il  dire che eèsa, riprendendo ed ampliando il pensiero reli-     (1) Op. cit. p 405.   (2) Puoi vederla esposta assai bone nei citati lavori del Cento-  fanti e dello ScHURÈ ; per quanto a quost' ultimo manchi in parte  il necessario corredo di prove e di testimonianze.   gioso che la tradizioDe leggendaria personificò in Orfeo,  coordinava le ispirazioni orfiche in un sistema vasto e  compiuto, e che, essendo fondata su un sapere sperimen-  tale e accompagnata da un ordinamento razionale di tutta  la vita, mirava a perfezionare gli individui, non solo con  l'approfondirne e l'estenderne le conoscenze teoriche, ma  anche essenzialmente con l'accrescerne a grado a grado  la ricchezza delle forze interiori, per lo sviluppo — ot-  tenuto con lunghe e pazienti pratiche (1) — delle facoltà  latenti del riposto ego divino, principio sostanziale di ogni  attività dell* uomo. Erano pratiche magiche che si usavano del resto in tutte le  scuole mistiche e che non eccedevano, se non apparentemente e solo per i profani, i limiti della natura; e chi abbia una cono-  scenza anche superficiale di questi studi sa bene che la magia non  era altro che un'arte, che si acquistava con cognizioni ed esercizi  particolari e s.egreti. Per le testimonianze sull' uso di queste pra-  tiche V. Plut. Numa 8, Apul. De Magia 3l ; Porf. 23 sgg., 34  sg.; GiAMBL. 36, 60 sgg., 142, dove sì parla di « antichi scrittori  degni di fede ». Cfr. anche Ippol. Refut., Euseb. pr.  ev. X, 3, 4 ; Aristot. p. Eliano II, 26 e lY, 17 ecc. Inizii leggendarii e storici. Quinto Ennio e i suoi tempi. Sette e scuole pitagoriciie in Roma. Pitagora e le sue dottrine nei filosofi latini. Lucrezio e il poema « Della Natura ». Frammenti della dottrina di Pitagora desunti dalle opere di Varrone. Appio Claudio Pulcro. Cicerone e il Somnium Scipionis. Mimi. Orazio.Virgilio. Pitagora e le sue dottrine nella poesia di Ovidio. Eitphorhos. Il Sodalizio pitagorico di Crotone rigs pytagoreum pythagoreum Turis Turio fatto fatta persino e persino permaneant permanont stituiti istituti Queste righe sono rimaste inter nel testo, mentre andavano in i pie di pagina ist  isti per fra intellegibili    intelligibili    »ultima  Geory. Georg. ferun    ferunt   prae vista    praevisa   aequo  aeque   ilUis  illis  maior maiore Mullach Mullach ultima    Leipzg    Leipzig  (Centra   Centra  a poco    a poco a poco senza altro senz'altro B Gianola, Alberto   21^ La fort-una de Pitagora   G5 presso i Romani dalle origini   fino al tempo di Augusto Enrico Caporali. Keywords: l’implicatura di Pitagora – pitagorismo – neo-pitagorismo – epigrafe sulla lapide di Caporali a Todi – Caporali – il mito di pitagora – la mistica di pitagora – scuola di mistica pitagorica – reincarnazione – concetto di metempsicosi – filosofia italica – pitagorismo nella Roma antica – Pitagora e Platone – Pitagora ed Aristotele -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caporali” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Cappelletti – entellechia – izzing and hazzing -- all’origine della filosofia antropologica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like Cappelletti – and so does he! He is into what he calls, in Latin, to show off, ‘philosophia anthropologica,’ which is MY thing – I mean, one can explore the philosophy of ‘life’ (bios) per se, and Aristotle on the ‘entelechia’ of a vegetable, but vegetable implicatures are boring (to us); the idea of ‘psychology’ features large, and also ‘vita.’ When Cicero dealt with Aristotle’s philosophy of life (zoe, bios, psyche) he found himself in trouble: vita, anima – And then came Ficino and Pico! Cappelletti knows it all, and it shows!” --  Vincenzo Cappelletti (Roma ), filosofo.  Dopo gli studi liceali classici, si laurea prima in medicina poi in filosofia. Nel 1967, consegue la libera docenza in storia della scienza che, dal 1968 al 1971, insegna, per incarico, all'Perugia, quindi, dal 1972, all'Roma La Sapienza dove, nel 1980, consegue l'ordinariato; ha successivamente insegnato la stessa disciplina all'Università Roma Tre fino al 2002, quando è andato in quiescenza.  Nel 1956, inizia a collaborare con l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana di Roma, fino a diventarne, nel 1969, vicedirettore generale, quindi, l'anno successivo, direttore generale, carica che manterrà fino al 1992. Questo periodo, vedrà una progressiva affermazione sia in campo nazionale che internazionale dell'Istituto, con un forte incremento nella produzione delle opere nonché l'apertura di nuovi ed innovativi progetti editoriali.  Dal 1992 al 2002, è vicepresidente e direttore scientifico dell'Enciclopedia Italiana, carica rivestita negli anni trenta da Giovanni Gentile, poi da Gaetano De Sanctis, quindi da Aldo Ferrabino di cui Cappelletti sarà appunto collaboratore negli anni 50'. Già condirettore della rivista di storia della scienza Physis (dal 1991) e degli Archives Internationales d'Histoire des Sciences, dirige, dal 1956, Il Veltro. Rivista della civiltà italiana (da lui fondata assieme a Aldo Ferrabino), nonché presiede la casa editrice Studium. È anche socio storico dei "Martedì Letterari".  Dal 1970 al, è presidente della Domus Galilaeana di Pisa e, dal 1989 al 1997, dell'Académie Internationale d'Histoire des Sciences. Dal 1999, è presidente della Società Italiana di Storia della Scienza (presidente onorario dal ) e, dal 1997 al, dell'Istituto Accademico di Roma. Inoltre, dal 2001 al 2005, è commissario straordinario dell'Istituto Italiano di Studi Germanici, quindi presidente dal 2006 al, promuovendone il passaggio da istituzione culturale a ente di ricerca. Presiede inoltre, dal 1988, la Società Europea di Cultura, fra gli anni 80' e 90' il Centro Italiano di Sessuologia (CIS), la Fondazione Nazionale "C. Collodi" dal 1989, il Consorzio BAICR-Sistema Cultura (Biblioteche e Archivi Istituti Culturali di Roma) dal 1991, la Fondazione FUCI dal 1996 al.  Dottore honoris causa dell'El Salvador e di Moron-Buenos Aires, è stato socio straniero dell’Accademia delle Scienze di Bucarest. Nel 1991, riceve il Premio internazionale Montaigne per le scienze umane. Medaglia d'oro al merito accademico, è insignito, nel 2003, della medaglia Koiré dell'Académie Internationale d'Histoire des Sciences e, per due volte, della medaglia d'oro al merito della cultura italiana, sia per gli sviluppi dell'Enciclopedia Italiana che per la promozione degli studi di storia della scienza.  La sua attività scientifica ha riguardato inizialmente la storia e l'epistemologia delle scienze biologiche nella Germania dell'Ottocento, quindi le teorie psicoanalitiche, in particolare la psicoanalisi freudiana e la psicologia analitica, nei loro rapporti con le altre discipline socio-umanistiche, fra cui l'antropologia, la politica e la filosofia. Ha anche curato collectanee su aspetti del pensiero nonché le opere di alcuni scienziati del Settecento e dell'Ottocento, fra cui Giovanni Battista Morgagni, Emil Du Bois-Reymond, Rudolf Virchow, Hermann von Helmholtz. Quindi, dopo aver ulteriormente approfondito gli aspetti storiografici e metodologici delle scienze esatte e naturali, i suoi interessi di ricerca si sono rivolti verso la filosofia e la sociologia delle scienze, analizzando, sia dal punto di vista storiografico che epistemologico, i rapporti storico-dialettici fra scienza e società, con particolare riguardo alle scienze umane.  Pubblicazioni principali Emil Du Bois-ReymondI sette enigmi del mondo, Firenze, Tip. L'impronta, 1957. Atomi e vita, Bologna, Edizioni Cappelli, 1958. Entelechìa. Saggi sulle dottrine biologiche del secolo XIX, Firenze, G.C. Sansoni, 1965. Opere di Hermann von Helmholtz, Torino, POMBA, 1967 (2ª ed., 1995). Rudolf VirchowVecchio e nuovo vitalismo, Roma-bari, Editori Laterza, 1969. L'interpretazione dei fenomeni della vita, Bologna, Società editrice il Mulino, 1972. Emil Du Bois-ReymondI confini della conoscenza della natura, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 1973. Freud. Struttura della metapsicologia, Roma-Bari, Editori Laterza, 1973. Epistemologia, metodologia clinica e storia della scienza medica (), 5 voll. (IV e V curati da V. Cappelletti e Dario Antiseri, 1982), Roma, Arti grafiche E. Cossidente, 1977-82. La scienza tra storia e società, Roma, Edizioni Studium, 1978. Saggi di storia del pensiero scientifico dedicati a Valerio Tonini, Roma, Casa Editrice Jouvence, 1983. Antropologia dei valori e critica del marxismo, Roma, PWPA-Edizioni dell'Accademia, 1984. Alle origini della "philosophia anthropologica", Napoli, Guida editori, 1985. De sedibus, et causis. Morgagni nel centenario (curato assieme a Federico Di Trocchio), Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1986. L'Enciclopedia Italiana per l'Europa: le nuove opere Treccani, Roma, Quaderni de Il Veltro, 1992. Le scienze umane nella cultura e nella società odierne, Edizioni Studium, 1993. Etnia e Stato, localismo e universalismo, Roma, Edizioni Studium, 1995. Introduzione a Freud, Roma-Bari, Editori Laterza, 1997 (2ª ed., 2000; 3ª ed. ampliata, ). Filosofia come scienza rigorosa. Edmund Husserl a centocinquant'anni dalla nascita (con Renato Cristin), Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino Editore,. L'Università e la sua riforma (curato assieme a Giuseppe Bertagna), Roma, Edizioni Studium,. Natura e pensiero. Percorsi storico-filosofici, Roma, Aracne Editrice,. Onorificenze Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinariaMedaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte — Roma, 28 novembre 1992 Note  Notizie bio-bibliografiche sull'autore si trovano in V. Cappelletti, Natura e pensiero. Percorsi storico-filosofici, Aracne Editrice, Roma,, Introduzione di G. Cimino (9-48), Appendice (247-252).  Cfr. V. Cappelletti, "Attualità della storiografia scientifica", in:  La storiografia della scienza: metodi e prospettive, Quaderni di storia e critica della scienza, N. 5, Domus Galilaeana (Pisa), CLUEB, Bologna, 1975,  315-329.  La maggior parte delle notizie biografiche qui riportate, sono tratte dalla biografia dell'autore scritta da G. Cimino per l'Enciclopedia Italiana (cfr. sezioni "" e "").  Istituto Italiano di Studi germaniciHome page  Società europea di CulturaHome page  Guido Cimino, CAPPELLETTI, Enciclopedia Italiana, V Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1991, vincenzo-cappelletti. Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Vincenzo Cappelletti  Vincenzo Cappelletti, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.   italiana di Vincenzo Cappelletti, su Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com.  Registrazioni di Vincenzo Cappelletti, su RadioRadicale, Radio Radicale.  Vincenzo Cappelletti: La nascita della Psicoanalisi. Aforismi, storia del termine inconscio, documento video, Rai Scuola.Filosofia Filosofo del XX secoloStorici della scienza italiani 1930  2 agosto 21 maggio Roma Roma.  Il termine entelechia (entelechìa, dal greco ἐντελέχεια) è stato coniato da Aristotele per designare la sua particolare concezione filosofica di una realtà che ha iscritta in se stessa la meta finale verso cui tende ad evolversi.   La crescita di una pianta, con cui essa tende a realizzare la propria entelechia. È infatti composto dai vocaboli en + telos, che in greco significano «dentro» e «scopo», a significare una sorta di «finalità interiore».  Aristotele parla di entelechia in contrapposizione alla teoria platonica delle idee, per sostenere come ogni ente si sviluppi a partire da una causa finale interna ad esso, e non da ragioni ideali esterne come affermava invece Platone che le situava nel cielo iperuranio. Entelechia è quindi la tensione di un organismo a realizzare se stesso secondo leggi proprie, passando dalla potenza all'atto.[1]  È noto infatti come, secondo Aristotele, il divenire si possa considerare pienamente spiegato quando se ne individuino le sue quattro cause: Causa Materiale, Causa Formale, Causa Efficiente e Causa Finale. Per designare il compimento del fine Aristotele usò appunto il termine entelechia che indica lo stato di perfezione, di qualcosa che ha raggiunto il suo fine. I neoplatonici si avvicinarono in parte alla concezione aristotelica secondo cui la forma di un corpo doveva essere anche immanente ad esso e non solo platonicamente trascendente, tuttavia trovarono riduttiva l'identificazione dell'anima con l'entelechia, essendo l'anima per costoro qualcosa di anteriore al corpo e comunque autonomo rispetto ad esso. Una sintesi tra la concezione aristotelica e quella neoplatonica si trova in Campanella, per il quale la natura è un complesso di realtà viventi, ognuna animata e tendente al proprio fine, ma d'altra parte tutte unificate e armoniosamente dirette verso una meta comune da una stessa universale Anima del mondo.  Anche Leibniz conciliò l'entelechia aristotelica con la visione neoplatonica, facendone una proprietà essenziale della monade, cioè di ogni "centro di energia", capace di svilupparsi autonomamente verso la propria meta o destino: ogni monade non riceve alcun impulso dall'esterno, ma tutte insieme formano un complesso unitario, retto al suo interno da un'armonia prestabilita da Dio, Monade suprema. Esse sono infatti coordinate al pari di tanti orologi, funzionanti per conto proprio ma sincronizzati tra di loro.  Goethe in seguito designò come entelechia l'archetipo della pianta, cioè il modello ideale di ogni tipo vegetale che si estrinseca in maniera tangibile nelle sue fasi di sviluppo esteriore, adattandosi di volta in volta alle differenti condizioni ambientali in cui si imbatte. Nel Novecento il termine entelechia è stato riproposto dal filosofo e biologo Hans Driesch per designare la forza vitale da lui ritenuta immanente agli embrioni e responsabile del loro sviluppo, in opposizione alle teorie meccaniciste che li consideravano alla stregua di «macchine». Aristotele ne parlava infatti come di qualcosa che ha la «vita in potenza» (De Anima). ^ Così Plotino in Enneadi, IV, 7, 8. ^ Goethe, La metamorfosi delle piante (1790). ^ Sul concetto di entelechia in Goethe, cfr. il saggio di Giorgio Dolfini, L'entelechia di Faust, Olschki, 1983. ^ Dizionario di filosofia Treccani. Voci correlate Aristotele Monade Collegamenti esterni (EN) Entelechia, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Entelechia, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company.Filosofia Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di filosofia Categorie: AristoteleConcetti filosofici greciNeoplatonismoStoria della scienza. entelechia Termine usato da Aristotele in contrapposto a «potenza» (δύναμις), per designare la realtà che ha raggiunto il pieno grado del suo sviluppo. Il termine fu ripreso da Leibniz per indicare la monade, in quanto ha in sé il perfetto fine organico del suo sviluppo.  Nel campo delle scienze biologiche il termine è stato usato per definire il principio dirigente dello sviluppo di ogni organismo. In questa accezione il termine e. fu ripreso da H. Driesch, che nella sua dottrina neovitalistica ammise l’esistenza di un principio organico individuale avente in sé l’idea della realtà perfetta, cioè dell’organismo completamente sviluppato. Energeia and Entelecheia. Entelecheia 9  possible to transfer this meaning to the opposite extreme, so something can be “completely ruined”  or destroyed: “even death is by a transference of meaning called an end, because both are extremes, and the end for the sake of which something is is an extreme” (Met.). Thus,  telos  is not determined by its being opposed to something. It is not logically or ontologically dependent on its opposite. Rather, the opposite is borrows its meaning from the telos. It is not defined as the end-point of a sequence. Rather, the sequence is derived from it by positing an opposite. Aristotle argues for the primacy of an ongoing condition of  telos over telos as endpoint in his discussion of happiness in a complete life (Eth. Nich.). The primacy of the completion-related use of “telos” (fine, end) over its sequence-related usage is reinforced by  Aristotle’s use of telos to mean source (archē). The completion-related use is evident in the phrase, “hoi en telei,” which refers to a governor or magistrate. Telos thus suggests “origin (archē)”, a source of  action, events, or being that directs or structures what arises from it. Aristotle argues for the identification of telos with archē in Met. To be a  telos  is primarily to be that for the sake of which, which is different from (though not exclusive of) being an end-point of change (Met.).  When we speak of teleology, we may not necessarily mean Aristotle’s concept of  telos. We seem to mean the Scholastic idea of teleology, that is, an assimilation of the Aristotelian idea to the historical concept of divine providence (il fatum). It thus takes on the usage, for us, of a kind of goal set for a creature in advance, external to it, and toward which it is confined to strive. By contrast, at minimum, telos in Aristotle means the inherent completeness or wholeness of a thing, a completeness that may coincide with, and be  the thing itself. “ Telos ,”  for Aristotle, does not  primarily mean “ended,” or “ finished .” It means  “complete,” “fully there ,”whole,”   “entire ;” and here it means “having its complete sense.”  Its finality is akin to what makes us say  “at last ,” as  in “at last we find water.” Echein. The word  echein   means “to have” or “to hold on” to something. The “grip” of having, as it were, is “being in charge of, keeping,” or even “holding in guard, keeping safe,” and in a related sense, “holding fast, supporting, sustaining, or staying.” The infinitive can mean “to be able.” When a location is specified, it can mean “to dwell” there.  The relationship of  telos  to being is the reason the word  echei  , “have,” is im portant to  entelecheia.  Aristotle uses  echein  to say: “Those things are said to be complete [ teleia ]   for which a good  telos  initiates activity from within [ huparchei ], since it is by having the  telos  that they are complete ”  (Met.). A thing is complete (teleia) by having or holding onto  telos . “Having,” then, stands in for the term “initiate from within” (huparchei ), a word often translated as “belong to” or “be present.”  Echein,  then, is another way to express the inherence of the  telos . The most revelatory sense of  echein  for our current context, perhaps, is that in ordinary Greek  the verb can substitute for “be”: in response to a greeting,   kalōs echei   means “it is well.” 29  Now3: Energeia and Entelecheia Energeia and Entelecheia in the Proof of Change 10  “having,” “holding on,” and “sustaining” are ongoing conditions or activities. Using  echein  as a synonym for being, then suggests that being is not static or passive, but a continual accomplishment. Based on these considerations, it seems clear that the standard practice, which translates  both  energeia  and  entelecheia  with the word “actuality,” should be abandoned. Energeia  should be  rendered “being-at-work” or “activity,” but could also be translated “being insofar as it works.”  Entelecheia  can only be rendered by a range of nearly-equivalent renderings. “en-“  literally  makes the word mean ‘being in the  telos,’  ‘telos’ is not conceived horizontally as “at the end of a sequence” or “finished off,” but vertically, as fulfillment, completion, or accomplishment, while  echein  means ongoing activity, but also is a word for being. In general, entelecheia  should be rendered   by “being-complete,” with the word “being” a translation of “having” (echein), and understood as an  ongoing accomplishment. Less versatile translations are “staying-fulfilled,” “holding o nto  completion,” “holding itself in completion,” “holding its completion in itself,” “in active completion,” and other such formulae.   Energeia   and  Entelecheia  in the Proof of Change  Now that we have examined the words  energeia  and  entelecheia  themselves in general, we  need to see how they are used in Aristotle’s account of change, and to resolve an apparent self -contradiction in the use of being-complete (entelecheia)  to define incomplete motion. I shall argue that energeia  applies to individuals, while entelecheia applies to composites, a broader class of things that includes individuals. In the proof for the existence of change, energeia and entelecheia  are used differently: being- built (oikodomeitai)  is the being-at-work (energeia) of what is built (oikodomēton ), while building (oikodomēsis) is change (kinēsis) and the being-in-completion (entelecheia) of what is built as built:  being-complete (entelecheia) change  building  being-at-work ( energeia ) of agent being-at-work ( energeia ) of what is worked-on  builder / agent ( oikodomikon ) buildable / patient ( oikodomēton ) requires buildable requires builder  Energeia  as being-built ( oikodomeitai ) means theVincenzo Cappelletti. Keywords: alle origini della filosofia antropologica, entelechia – vita – filosofia della vita – Grice, “Philosophy of Life” – Aristotle on entelechia – storia della scienza – storia dela psicologia filosofica --. Il concetto di entelechia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cappelletti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Capra – del corpo animato – delo l’isola di delo, apollo delio – il chiaro – principio di perspicuita [sic] -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Nicosia). Filosofo italiano. Grice: “Plato, who never fought, thought the soul was in the brain; Aristotle, who taught Alexander, and knew of Alcebiades, a warrior, was aware of the sinews of the body; he thinks the ‘anima’ was in the heart – ‘enthymema’ – Ryle laughed at them all, stupidly. The issue is VERY subtle – And Marcello Capra explores the conceptual intricacies of applying a spatial concept (like ‘sedis,’ the most general spatial concept, actually) to ‘anima’ – And the good thing is that he philosophised with his companion while they did peripatetics along the valley of the river in Nicosia!” “Why is it that philosophers always have to self-segregate; people spoke derogatorily of the Oxford School of Ordinary Language Philosophy, but there were THREE schools: mine, Witters’s followers’s, and Ryleans – and each could not stand the other! Well, Capra, bored of Palermo, founds in Nicosia his own academy – At Oxford we had unfortunately to SHARE the town, if not the gown!” – Studia a Padova sotto Montano e Falloppio – un ginecologo. Tornato a Nicosia, fonda una scuola, societa, gruppo di gioco, o club di filosofia. In seguito, si trasferì prima a Palermo e poi a Messina. Divenne assistente di Giovanni D'Austria e medico della flotta del suo 'Impero per cui partecipa alla battaglia di Lepanto. Tornato in Sicilia, su incarica del vice-ré Don Diego Enriquez de Gusman studia l'epidemia di peste   e descrisse i risultati dei suoi studi in un volume dal titolo De morbi pandemici causis, symptomatibus et curatione, pubblicato a Messina. Scrisse anche un volume sulle proprietà mediche della scorzonera. Pubblica a Palermo saggi filosofichi. Un saggio filosofico e di dedicato alla sede corporea dell'anima e considera i principi di Aristotele e i quesiti di Galeno. Per Aristotele, contro Platone, la sede corporea dell’animo e nel cuore; per Platone alla testa!Altro saggio tratta dell'immortalità dell'animo alla luce della psicologia filosofica funzionalista di Pitagora, Aristotele, Pitagora, ed Epicuro. Di Marcello Capra non si conoscono esattamente il luogo e la data precisa della morte.  Uomini illustri della Sicilia. Dizionario biografico degli italiani. l'immortalità dell ' animo umano è considerata come incerta. Ma ciò sia detro di passaggio; che noi non vogliamo, ne dobbiam difendere l'Immortalità dell? animo Umano con tanto pericolo. E a chi domandi, l'immortalità dell'animo è vita futura? rispondiamo, esser futura la sanzione. ftante la lor confufione coll'anima universale diffusa in tutta la mole corporea · Onde opponendo quegli Antichi l'immortalità dell'animo alla mortalità del corpo, mostravano, che questa immortalità intendeano, come una permanenza eterna. La sola immortalità, dunque, alla quale si possa pen​sare, e alla quale effettivamente si è sempre pensato, affermando l'immortalità dello spirito, è la immortalità dell'Io trascendentale; non quella, in cui si è fantasti​camente irretita la mitica. L'uomo adunque, come egli è creato in mezzo fra l ' Angelo, e la bestia, cosi alcuna cosa comunica con gli Angeli, cioè l'immortalità dello spirito, e in alcune cose comunica con le beftie, cioè la. mortalità della carne insino, che la carne... Sulla sede dell’anima e della mente. De Sede Animae et Mentis ad Aristotelis praecepta adversus Galenum. Primò igicur notandum, quando de Sede Animæ rationalis disputamus, per Sedem strictè nos non intelligere firum, qui exigit distinctionem seu divisionem partium in loco, folisque competit corporibus, sed, ut Scholastici nuncupant... Dialogus de instrumento philosophiae. Publication: Messanae: ex typographia Fausti Bufalini, Marcelli Caprae,... de Immortalitate rationalis animae juxta principia Aristot. adversus Epicurum, Lucretium et Pithagoricos quaesitum. — Panormi, apud J. F.... De Immortalitate rationalis animae juxta principia Aristot. adversus Epicurum, Lucretium et Pithagoricos quaesitum  il Capra, nicosioto, il quale nel 1589 inandava fuori due Quesili, l'uno De sede animae et mentis ad Ari stotelis praecepta, adversus Galenum, l'altro De Immortalitate A nimae rationalis, justa principia Aristotelis, adversus Epicurum, Lucretium, et Pythagoricos; Caprae Marcelli, nicosiensis, De sede animae et mentis ad Aristoteles praecepta, adversus Galenum, Quaesitum. Panormi in 4. De immortalitate animae rationalis, iuxta principia Ari stotelis, adversus Epicurum, Lucretium, et Pythagoricos, Quae situm. Ibi in 4. Qualche relazione con quest'Istituto devono aver avuto le opere pubblicate dal Capra in quel torno di tempo, come: De sede animae et mentis ad Aristotelis praecepta, adversum Galenum. Quaesitum (Panor.); — De immortalitate. Capra, filosofo siciliano originario di Nicosia, può essere considerato un altro esponente non secondario della quaestio che interessa la sede dell’anima (o animo) razionale. Studia a Padova sotto Monte e Falloppia, esperienza questa da cui aveva mutuato l’interesse, tutto padovano, per i problemi di fisiologia generale e psicologia. Per un’introduzione alla non vasta biografia di Capra, si vedano PITRÉ e GARIN, GLIOZZI e DOLLO. Nel “De sede animae et mentis ad Aristotelis principia adversus Galenum (Palermo) dedicato al viceré don Diego Enriquez de Guzmán, conte d’Alvadeliste. Infatti, Capra dà ampio saggio delle sue attitudini filosofiche in campo medico, prende le difese della psicologia aristotelica. Per Capra la quaestio de sede animae si presenta immediatamente duplice. In un senso, infatti, la questione riguarda l’anima come principio di fisiologia generale e soggetto quindi a generazione e corruzione (quaesitum de sede animae). Dall’altro, invece, riguarda un principio immateriale, immortale ed eterno (quaesitum de sede mentis). Disputaturus (ut ad peripateticum pertinet) de animae sede. quoniam una aeterna, ut in nostro quaesito demonstravimus: altera mortalis. Quibus non eodem modo sedes convenit. Propterea ut lucidior sit explicatio agam primo de sede animae quae interitui est obnoxia. Mox agam de sede mentis: hoc est illius partis quae venit deforis, et post corporis dissolutionem remanet superstes. Quanto all’impostazione, il saggio si presenta come una serrata fila di quaestiones e responsiones secondo l’uso scolastico, mentre l’obiettivo polemico è rappresentato dalla tesi galenica dell’estensione e dislocazione reale dei principi psichici nel corpo. Capra distingue anzitutto tra “principato” (principatum) ed “estensione” (extensio) dell’anima. Il principato riguarda l’organo che per primo si attiva, si modifica o cessa di funzionare in determinate condizioni. L’estensione, invece, ha a che fare con la reale presenza dell’anima nelle strutture materiali. In quest’ultimo senso si hanno due alternative: o l’anima si trova ad essere suddivisa in più parti del corpo, oppure si trova tutta insieme in una sola di esse. Entrambe le opzioni vengono però respinte, anche con argomentazioni tratte da esperimenti anatomici. In generale l’estensione dell’anima viene negata poiché, in ossequio al dettato aristotelico che vuole l’anima forma del corpo organico, la sede dell’anima deve essere considerata il corpo nella sua interezza -- principatum consideramus; cum obtinet in aliqua corporis particula. At si consideramus extensionem, ea est ubique. Obiectio Et quoniam ad huc quispiam instare posset per ea quae retuli in praecedenti quaesito. Nam per ligamenta conspicimus privari membra sensu et motu. Quod non contingeret si anima per totum corpus esset extensa. Hinc Aristotelem aliquando videtur asserere animam esse in spiritu. Responsio Dicendum est quod solum ex eis colligimus principatum, et insuper colligimus spiritum esse id principium, per quod anima iungitur corpori, et obit munera sua. Non autem accipimus eam non esse extensam, quia reiicienda est sententia Galeni qui cum censeat animam mortalem esse temperamentum; cum inquit, septimo de placitis Hyppocratis, et Platonis vegetalem esse temperamentum epatis. Vitalem vero temperamentum cordis. Nam si id esset, tunc non ubi vitalis esset anima, ibi reperiretur vegetalis. Nec essent extensae per universum corpus. Cum itaque animae non conveniat sedes ut corpori, nec ita si una corporis parte et non alia. Est enim in toto corpore: et dum quaerimus sedem animae tamquam formae, dicere debemus totum corpus esse animae sedem. Quanto all’estensione del principato in cui essa si manifesta, invece, si tratta di un’estensione per accidens, che spetta realmente forse solamente ai vegetali e ad alcune specie di insetti. Per questa via, distingue quindi l’estensione spaziale dalla divisione concettuale. La prima compete all’anima in quanto soggetta alle forme materiali di cui si serve. La seconda rappresenta la molteplicità delle sue funzioni come espressioni di un'unica attività. Gli esperimenti sulla legatura dei nervi dimostrerebbero in tal senso che qualsiasi organo, separato dalla sua connessione con il cuore, diviene torpido o mal funzionante. Et authoritatibus, et rationibus confirmare possumus. Et primo nos conspiciamus quod si a corde ad reliquas particulas claudatur iter, aliae partes vitae privantur: nam et motu et sensu distincte conspiciuntur. Ut in obstructionibus, in epilepsia, in ligationibus servare licet. Id minime eveniret si anima esset tota in quavis parte. Ma essi, secondo Capra, evidenziano anche come l’anima abbia la tendenza a ricostituire spontaneamente quella totalità che viene interrotta o sopressa con le operazioni di legamento o incisione, in ciò dimostrando la sua dipendenza da un principio unico. L’anima, benché estesa nella sua totalità in tutto il corpo ed ogni sua parte in ogni parte di quello, differisce in questo dalle altre forme materiali che, quando viene divisa, essa recupera la totalità che tuttavia non è una totalità di estensione. E ciò avviene in quanto essa possiede un principio dal quale dipende. E per questo Aristotele afferma che l’anima è una in atto, e molteplice in potenza. Inoltre è estesa in modo tale da interessare allo stesso modo ogni parte del corpo e da adattarsi alle forme inferiori, ma in modo consequenziale e seguendo un certo ordine, poiché tali forme si osservano nel cuore, e poi negli altri organi, o in ciò che fa le veci del cuore. Tutte queste cose sono note per il fatto che dimostrano come l’anima sia forma necessariamente estesa e divisibile. Così, dunque, l’anima è estesa in relazione all’estensione del corpo, ed è divisibile, dipendendo tuttavia dal cuore quanto a sviluppo e conservazione, tramite gli spiriti e le parti più sottili del sangue. Qui si può separare l’anima in motore e mobile a motivo delle diverse parti, e lo stesso si può fare distinguendo gli spiriti e le specie dell’anima in rapporto al corpo misto. In primo luogo, dunque, l’anima dipende dagli spiriti e dalle parti più sottili del sangue che traggono origine dal cuore, il quale si dice essere la sede dell’anima. Anima ut extensa est tota in toto, et pars in parte. In hoc differt ab aliis formis materialibus. Quod quando dividitur post divisionem recipit totalitatem. Non tamen totalitatem extensionis. Et id evenit. Quoniam habet unum principium a quo pendet. Et ideo Aristoteles inquit, quod est una actu, plures potestate. Insuper ita extensa quod aeque Item respicit omnem corporis partem et convenit formis infra animam, sed cum dependentia, et ordine aliquo. Quia Item considerantur in corde, mox in aliis, vel in eo quod cordis gerit vicem. Haec omnia ex eo sunt nota, quod ostendunt animam esse formam tunc necessario extensam, et divisibilem. Sic itaque anima extensa ad extensionem corporis, et divisibilis, pendens tamen infieri, et inconservari a corde, mediantibus spiritibus, et subtilioribus partibus sanguinis. Hinc animam secari in motorem, et mobile ob varias partes: et spiritus distinctionem, et animae diversitatem ad formam misti. Primum itaque anima innititur spiritibus, et tenuioribus partibus, et a corde originem ducunt, quod dicitur esse sedes animae. L’estensione corporea compete dunque all’anima in virtù di un organo principale, il cuore, e quindi di organi secondari dei quali per accidens condivide la corporeità, mentre substantialiter l’anima si comporta come la fiamma che, seppure divisa in molte parti, resta sempre ed essenzialmente una. In questo senso la sede dell’anima è l’organo mediante il quale l’anima si unisce primariamente al corpo ed è dunque l’organo che per primo nasce e per ultimo cessa di vivere. Rispetto ad esso il cervello si presenta quasi excrementum et pondus iners. Per rintracciare l’origine del principio fisiologico e la sua sede, Capra fa affidamento alla dinamica del calore innato -- Ea est censenda animae sedes quae origo, et principium est huius caloris. Sine quo anima nec esse, nec operari valet. Sed huiuscemodi est cor: ut experientia docet, et omnes affirmant. Immo Hyppocrates ait animam spirituum seu calorem esse -- laddove infatti ha origine il calore naturale – egli argomenta – ha origine anche l’anima quae educitur primo de potentia materiae. Ma, calore e vita hanno origine dal cuore e si diffondono attraverso gli spiriti ed il sangue a tutto il corpo: a quanti dicono che gli spiriti siano sede dell’anima si deve rispondere che è necessario considerare il calore come sede. Infatti gli spiriti sono necessari in quanto il calore naturale è un certo tipo di spirito, giacché nello spirito si conserva il calore, la cui origine non è né il fegato né il cervello, ma il cuore, che è la sua origine precipua. E se anche alcuni anatomisti hanno attribuito l’origine degli spiriti alla pulsazione, si sono sbagliati ed hanno fatto affidamento su di una falsa esperienza. Infatti, il cuore è l’origine del calore e lì, nelle parti più sottili del sangue, debbono avere origine gli spiriti; non certo dall’aria che viene attratta. Perciò si deve ritenere che la sede dell’anima sia quella che possa adattarsi a ciascun singolo vivente. Ma ciò che si adatta ad ogni singolo vivente è il cuore. Ad id quod dicunt de spiritibus occurrendum est: quia nos calore considerare debemus. Nam spiritus necessarii sunt: quoniam calor naturalis quidam spiritus est. Cum in spiritu servatur calor. Non epar non cerebrum est origo. origo itaque praecipua cor est. Et si Anatomici nonnulli pulsui. Id tribuerunt. Falluntur, et falsitate experientia nituntur. Nam caloris origo cor est, et ibi spiritus extenuissimis partibus sanguinis gigni debent: non autem ex attracto aere. Propterea ea est censenda animae sedes. Quae singulis viventibus convenire valeat. At singulis convenit cor. Stabilendo dunque il cuore quale sede dell’anima, prosegue Capra, si riuscirà facilmente a giustificare i fenomeni di accrescimento, moto, ostruzione o legatura dei nervi. A questo punto, però, l’autore è costretto a fare i conti con la tradizione prettamente medica che si richiamava a Galeno ed agli esperimenti relativi alla separazione dei principi fisiologici nel corpo, ad iniziare dal movimento dimostrato dal cervello relativamente alla sistole ed alla diastole, affermato dai medici ed accettato con grande riluttanza da Capra. Et cum cor primo movetur vere potest esse principium motus aliorum: nam et si moveatur per sistolem et diastolem: cerebrum a nullo movetur motu, et anima per motum maxime diiudicatur. Non enim censendum est ut falso putant nonnulli Anatomici medici, quod cerebrum quoque movetur per sistolem et diastolem: quoniam si id conspicitur in cerebro id convenit ob arterias per cerebrum distributes. Nel ritenere che il cervello sia importante tanto quanto il cuore medici falluntur, scrive il medico siciliano, ribadendo le classiche motivazioni aristoteliche, esposte da noi nel capitolo secondo, per cui il cervello è di per se stesso insensibile, freddo ed immobile. Ma ciò ancora non basta. Poiché, come già visto, gli esperimenti di legatura ed ostruzione delle arterie hanno secondo Capra il solo scopo di dimostrare che, separati dall’attività di infusione di calore e vita propria del cuore, tutti gli altri organi vengono privati delle proprie funzioni, non può far altro che dichiarare false la maggior parte delle dimostrazioni anatomiche ottenute mediante legamento: Gli anatomisti inoltre legano un cane, e danno ordine di tagliare velocissimamente il torace. Quindi legano quattro vasi del cuore e lo asportano, dopo di che sciolgono il cane, che grida e corre. Questo genere di scappatoie non hanno alcun valore: ed in primo luogo perché le esperienze che costoro riferiscono sono decisamente incerte, e forse in gran parte false. Talvolta, infatti, gli uomini vivono anche dopo che sia stata asportata loro una parte di cervello, e si sono visti spesso animali camminare anche senza testa. Inoltre, una volta formato il cuore, le forme che plasmano l’embrione esistono prima che il cervello sia formato e l’embrione già sente, e se lo si punge si contrae, cosa questa, invece, che ancora non accade al cervello. Insuper Anatomici quidam canem ligant, et secare iubent citissime toracem. Mox ligant quatuor vasa cordis. Et cor eximunt, deinde solvunt canem qui vociferat, et currit. Evasiones hae nullae sunt: et primo quae ab eis referuntur valde sunt dubia, et fortasse magna ex parte falsa. Vivunt enim nonnunquam homines quibus aliquid cerebri detractum fuit. Et avulso capite saepe progredi conspecta sunt animalia. Insuper informationes embrionis genito corde ante quam sit cerebrum productum, sentit embrio et si pungitur contrahitur. Non tamen adhuc cerebrum habet. Dunque, in sede fisiologica, l’instrumentum commune communi sedi resta il cuore, da cui hanno origine tutte le concoctiones e quindi tutti i temperamenti; attraverso di esso, inoltre, un’anima immateriale si unisce (copulatur) con le funzioni vitali dell’organismo attivando in successione tutte le altre: secondo Capra, infatti, gli esperimenti di legamento indicano che ciascun organo, interrotta la via che lo collega agli spiriti prodotti dal cuore, cessa pian piano la propria attività peculiar. Questa strenua difesa del cardiocentrismo aristotelico in pieno Cinquecento può sembrare arretrata rispetto al clima costituitosi sul finire del secolo intorno all’intepretazione anatomica del Quod animi mores, e soprattutto del De placitis, ma si ricollega di fatto anche a sviluppi successivi, quali quelli di Rudio e Cremonini, in cui il primato del cuore non necessariamente implica una svalutazione delle funzioni del cervello. Ed, in effetti, l’importanza del cervello come sede del pensiero verrà in parte recuperata nella sezione conclusiva dell’opuscolo, De sede mentis. Se la concezione galenica relativa alla localizzazione delle funzioni psichiche si è rivelata fallace sia in generale -- l’essenza dell’anima è infatti indivisibile --, sia nello specifico -- la sede da cui si sviluppa la totalità delle funzioni organiche è il cuore, non il cervello -- non può tuttavia negare che gli esperimenti galenici dimostrano come il cervello debba essere considerato sede almeno di alcune delle operazioni dell’anima razionale. Anche in questo caso, tuttavia, parlare di sede è improprio, poiché la mente è, in quanto tale, immateriale e ad essa non conviene quindi alcuna sede. In ogni caso, prove a favore della localizzazione cerebrale esistono anche secondo Capra e possono essere articolate almeno secondo quattro ordini di ragioni: 1. il pensiero richiede l’ausilio di phantasmata che si producono nel cervello; il ribollire o fervor degli spiriti nel cuore non sempre è causa di un processo analogo nel cervello; accade invece che, se si è preoccupati o agitati – pur restando inalterata la fisiologia cerebrale – gli spiriti fervano nel cuore a motivo della preoccupazione. De sede animae et mentis (Palermo)   negli accessi febbrili non si verificano danni alla ragione, a meno che il calore non raggiunga la sede del capo (ovvero l’interno di esso); le funzioni dell’intelletto subiscono mutamenti in relazione alle lesioni del capo o alla corretta conformazione dello stesso. Per le ragioni esposte, dunque, la soluzione fornita da Capra è quella di postulare una duplice unione tra anima e corpo; una secondo natura (coppulatio et sede naturalis), la cui sede interessa il cuore in qualità di organo principale dell’organismo; l’altra secondo la natura dell’operazione (“coppulatio et sede operationis”), che avviene in un organo di per sé secondario come il cervello, nel quale hanno sede tuttavia le operazioni della phantasia e dunque, metonimicamente, dell’intelletto: Ma avviandomi alla soluzione della questione, si deve considerare che chiunque dei Peripatetici ritenga l’anima soggetta nella sua interezza a nascita e morte, come Alessandro di Afrodisia, dovrebbe affermare in modo assoluto che la sede dell’intera anima sia il cuore. E perciò Alessandro, fondandosi sulle proprie premesse, asserì proprio questo. Coloro che, al contrario, affermano che la mente è eterna, ritengono che essa si unisca a noi in modo duplice (duplici coppulatione): una per natura, l’altra per operazione e che quest’ultima avviene nel cervello, dato che il cervello è sede della mente. Se dunque affermiamo che all’anima si addice una duplice unione con il corpo, resta provato anche che, in duplice modo, all’anima spetta una sede, l’una per natura, l’altra per operazione. Per natura la mente si unisce all’anima soprattutto in quel luogo in cui vengono portate a compimento le azioni <che sono proprie di essa>, ed in questo senso saranno vere queste conclusioni,vale a dire:  conclusione. Alla mente non spetta una sede. Questa conclusione risulta vera per la ragione già esposta che la mente non dipende dal corpo o da una sua parte, né richiede un organo particolare. conclusione. Il cervello è sede della mente. Questa conclusione risulta vera non in ragione della dipendenza, ma in ragione dell’operazione: nel cervello infatti vengono portate a termine le operazioni dell’immaginazione, facoltà che è ministra dell’intelletto. conclusione. Il cuore è sede della mente. Questa conclusion risulta verà in ragione dell’unione dell’intelletto con noi stessi, che si chiama unione per natura. 4. conclusione. Il cuore è la sede principale dell’anima. Sede cioè della facoltà animale. Il cervello è sede dell’anima in quanto operante e delle sue operazioni. 6. conclusione. Sede dell’anima sono gli spiriti, dal momento che essi sono come il veicolo delle facoltà ed il loro strumento comune. conclusione. L’intera specie umana è sede della mente, in particolare, però, l’uomo in quanto sapiente. 8. conclusione. Sede della mente è la facoltà immaginativa. conclusione. Il cuore è essenzialmente ed intrinsecamente membro più importante del cervello. conclusione. Il cervello è membro divinissimo in modo accidentale ed estrinseco. conclusione. Ma poiché ciò che è eterno ha necessità di unirsi a ciò che è eterno, si deve dire che Dio è sede della mente, perché solamente in lui troviamo il riposo ed il fine ultimo sovrannaturale. Sed me conferens ad quaesiti dissolutionem considerandum. Quod quicunque ex Peripateticis animam omnem ortui atque interitui obnoxiam esse afferunt, veluti censuit Alexander. Absolute dicere deberent totius animae sedem esse cor. Et ideo Alexander innixus suis fundamentis id asseruit. Qui vero contra. Aeternam dicunt esse Mentem. Isti censent. Quod ut duplici coppulatione nobis iungitur. Una per naturam. Altera per operationem nobis coppularetur. Quoniam ea efficitur in cerebro tunc dicendum. Quod cererbum est sedes Mentis. Si vero ei duplicem asserimus convenire coppulationem; tunc duplici quoque modo probatum est ei sedem convenire. Unam per naturam. Alteram per operationem. Per naturam iungitur animae. Eo praesertim loco ubi opera perficiuntur, et ad hunc sensum erunt istae conclusiones verae, Videlicet. Conclusio. Menti non convenit sedes. Haec vera est ea ratione qua diximus. quod mens a corpore, vel corporis partibus non dependet, nec organo particulari eget. Conclusio. Cerebrum est sedes mentis. Haec est vera non ratione dependentiae sed ratione operationis. Nam in cerebro perficiuntur opera imaginativae. Haec autem est ministra intellectus. Cor est sedes mentis. Haec est vera ratione coppulationis intellectus nobiscum quae nuncupatur coppulatio per naturam. Cor est praecipua animae sedes. Sedes inquam virtutis. Conclusio. Cererbum est sede. Operantis animae, et operationum. Conclusio. Animae sedes sunt spiritus. Cum sint quasi vehiculum facultatum, eiusque commune instrumentum. Conclusio. Tota humana species est sedes mentis. Proprie tamen homo sapiens. Conclusio. Imaginativa est sedes mentis. Conclusio. Cor essentialiter, et intrinsece est praestantius membrum quam cererbum. Conclusio. Cerebrum accidentaliter, et extrinsece est divinissimum membrum. Conclusio. Sed cum aeternum aeterno coppulari debeat dicendum. Deum esse sedem mentis. Quoniam in eo solo conquiescimus et in ultimo fine supernaturali. Per infinita saecula saeculorum. Amen. Nella serie di conclusioni che chiudono l’opuscolo, alcuni storiografi ottocenteschi hanno voluto scorgere una dichiarazione di averroismo. Sembra tuttavia difficile distinguere la presunta influenza averroistica da una sincera e piena dichiarazione di fede. Con il “De sede animae et mentis” Capra si assiste al tentativo di riportare il problema della localizzazione psichica ad un unico centro funzionale, il cuore, di contro al poli-centrismo galenico. Ma l’operazione – di per sé condotta in osservanza del più rigido aristotelismo – sembra destinata a fallire, poiché la duplice unione con il corpo (“duplex coppulatio”) cui va soggetta l’anima ripropone in realtà il dual-ismo galenico tra funzioni che si svolgono al di sotto e al di sopra della rete mirabile, quasi posta, quest’ultima, a suggello visibile della differenza che intercorre tra operazioni puramente mentali o psicichee ed operazioni lato sensu “fisiologiche”. Il suo contributo è interessante, semmai, dal punto di vista dell’interpretazione che egli fornisce agli esperimenti galenici circa la legatura di nervi e vasi, come pure delle contro-prove empiriche che adduce a sostegno della propria tesi. In effetti, in Capra è soprattutto l’idea che il principio psichico, inteso quale principio basilare della “vita”, debba avere un centro a tenere banco nella discussione, discussione che pure non può fare a meno di costanti appelli agli Anatomici, e quindi alla tradizione medica del proprio tempo. È comunque sullo stesso piano – l’intepretazione di esperimenti che nel loro orizzonte osservativo si coordinano tutti intorno alla lettura del De placitis Hippocratis et Platonis, e quindi del Quod animi mores – che si muove anche la critica antigalenica mossa da Bernardino Telesio nel Quod animal universum.  Con Aristotele vengono a inaugurarsi nella storia del se­ gno alcuni fatti nuovi, destinati ad avere una notevole du­ revolezza. Il primo di questi riguarda l'ampia e profonda opera di normalizzazione teorica che Aristotele compie nei confronti del lessico delle scienze e delle pratiche professio­ nali che avevano fatto riferimento ai segni e al sapere con­ getturale in genere. Il vasto alone semantico, l'alternanza di usi forti, o pregnanti, e di usi deboli che aveva caratteriz­ zato per tutto il V secolo termini quali smefon, tekmirion, aitia, pr6phasis, eik6s negli scritti medici, nella storiogra­ fia, nella stessa letteratura filosofica, viene piegato alle esi­ genze di una definizione categoriale, che fissa gli usi esatti dei termini e ne delimita e separa i campi nozionali. L'operazione, come rileva Lanza, non ha che un successo parziale nella pratica linguistica, in quanto è solo sul piano teorico che Aristotele riesce a rendere rigoro­ se e rigide le distinzioni, proposte in due passi paralleli dei Primi analitici e della Retorica; 1 ma, nella stessa prosa del­ la Retorica e in generale nelle opere che trattano di argo­mento scientifico, come ha fatto rilevare Le Blond, l'uso dei vari termini del lessico semiotico­ gnoseologico resta fluido e i termini spesso vengono impie­ gati senza speciali sfumature di significato. Ciò non con­ traddice, tuttavia, il fatto che la revisione terminologica, da un punto di vista teorico, sia stata profonda e abbia inaugurato una solida tradizione, che continua nella trattati­ stica successiva, fin nella retorica romana. Del resto le esigenze di distinzione teorica non si limite­ranno a intervenire con un'operazione normalizzatrice sul lessico, ma entreranno anche nel vivo delle concezioni pro­fonde coinvolte dal sapere congetturale. Abbiamo infatti visto come il dominio del tempo fosse centrale tanto nel sapere ascientifico della mantica quanto in quello protoscientifico della medicina. La conoscenza contemporanea del passato, del presente e del futuro e un elemento essenziale, sebbene secondo modalità diverse, in entrambi questi ambiti di sapere. Aristotele riprende, concettualizza e piega alle esigenze della classificazione teorica anche tale aspetto. Infatti, nella classificazione dei tipi di discorso proposta nella “Retorica,” Aristotele individua in primo luogo due ca­tegorie di destinatari dei discorsi: colui che osserva (“theo­ros”) e colui che decide (“krits”). Il primo agisce nella dimen­sione del presente ed è il tipo di pubblico che assiste al di­scorso epidittico o celebrativo. Il secondo, invece, può agi­re nelle altre due dimensioni del tempo proprie degli altri due generi di discorso: il giudice (dikasts) decide sul passa­to. Il membro dell'assemblea (ekklsiasts) sul futuro. Co­me osserva giustamente Lanza, la classificazione è totalmente estrinseca ali'oggetto considerato, ma è chiaro l'intento aristotelico di congiungere la ripartizione canonica dei tipi di discorso con le tre dimensioni del tem­po che fin dall'epoca d’Omero appaiono associate agli am­ biti di manifestazione, esoterico o tecnico, del sapere. Altro fatto importante inaugurato dalla riflessione aristotelica è quello che riguarda la disarticolazione, e la conseguente trattazione separata, della teoria del linguaggio e della teoria del segno. Si tratta di un fatto che desta sorpresa e che appare molto rilevante proprio perché in alcune teorie semiologiche è assolutamente dato per scontato che i termini del linguaggio verbale sono dei "se­gni". Anzi, secondo un certo strutturalismo, questi termini del linguaggio sono i segni per eccellenza, e non sono stati pochi coloro che sono arri­vati ali'eccesso di pensare che essi potessero fornire il mo­dello anche per gl’altri tipi di segno. In Aristotele, invece, gl’elementi su cui si costruisce una teoria del linguaggio ricevono il nome di “simbolo”, mentre gl’altri elementi di una teoria del segno vengono denomi­nati semeia o tekmiria. La teoria del segno propriamen­te detto è articolata alla teoria del sillogismo e riveste un in­teresse sia logico sia epistemologico. Il segno è, infatti, al centro del problema delle modalità di acquisizione della co­noscenza. Il “simbolo” linguistico è connesso princi­palmente al problema dei rapporti che si instaurano tra una espressione linguistica, una astrazione concettuali ed uno stato del mondo. È nel “De interpretatione” che Aristotele espone la sua teo­ ria del *simbolo* linguistico, articolandola secondo uno sche­ma a tre termini. Un suono della voce e un "simbolo" di una affezione dell'anima, la quale, a loro volta, e l’im­magine di una cosa esterna. Ordunque, i suoni della voce, “tà en tii phoniz,” sono simboli (symbola) delle affezioni che hanno luogo nell'anima (tOn en tii psychii pathmatOn), e le lettere scritte (graphtJmena), sono simboli dei suoni della voce. Allo stesso modo, poi, che le lettere non sono le medesime per tutti, così neppure i suoni sono i me­desimi; tuttavia, suono e lettera risulta segno (semeion), anzi­ tutto, delle affezioni dell'anima, che sono le medesime per tutti e costituiscono l’immagine (homoi 6mata) di una cosa (pragma­), già identici per tutti. (Arist., De int.) Bisogna innanzitutto dire che il fatto di incontrare il ter­mine “semeion” come apparente sinonimo di “simbolo” non si­gnifica affatto che le due espressioni sono intercambiabili. In questo passo Aristotele usa il termine “semeion” in un'accezione debole (disimplicata), che ci conferma appunto la tenden­za a un “uso sfumato” di una espressione del lessico semiotico, quando non e in questione la costruzione del sistema di demarcazioni teoriche. Qui Aristotele usa “semeion” per dire che l'esistenza di un suono (o di una lettera) può essere considerata come un indizio dell’esistenza parallela di una affezio­ne dell'anima. A ogni modo, è possibile costruire, trascurando il livello grafematico, un triangolo semiotico di questo tipo. Affezione dell'anima (psthlimsts sn tlii psychliil). Penstero (nomat8)  -- rapporto o rappresentazione convenzionale o arbitrario – versus motivato o iconico rapporto o rappresentazione (  sn ti phntl (prSgmsta) suono della voce – cosa estrena. Come si può osservare, diverso è il rapporto tra le coppie di termini appartenenti alla triade. Tra un suono (“Ouch!”) e uno stato d'animo c'è un rapporto o rappresentazione finalmente immotivato e convenzionale o arbitrario. Uno stato d'animo (dolore) e identico, secondo Aristotele, per tutti gl’uomini. Ma essi vengono espressi in maniera diversa a se­conda delle varie lingue e culture (“Ouch” e volgare a Buckingham), esattamente come avvie­ne per le forme scritte. Invece tra gli stati d'animo e la cosa esterna c'è un rapporto o rappresentazione causale percettiva di motivazione iconica, che appare addirittura iconico. Il primo e l’immagine del secondo. Bi­sogna precisare che e scorretto identificare in manie­ra diretta la tesi dell’arbietrarieta o  convenzionalità degli elementi del lin­guaggio, cui adere Aristotele, con la tesi deli'arbitrarietà del segno linguistico sviluppata da Saussure. In realtà nella teoria saussuriana esiste un rapporto arbitrario tra due en­tità strettamente interne al linguaggio: il significante – segnante -- e il si­gnificato – segnato -- sono le due facce del segno, in quanto unità lin­guistica. In Aristotele, troviamo invece un rapporto conven­zionale tra *elementi* del linguaggio (il nome, il verbo, il 1ogos) ed elementi che propriamente non appartengono al lin­guaggio, in quanto sono entità *psichiche* (l’immagine acustica o percettiva di Saussure). Si deve inoltre ri­levare che la teoria linguistica elaborata da Aristotele non si esaurisce nei testi di prevalente interesse logico, quali il “De interpretatione”, ma continua anche nei testi di interesse estetico. In questi ultimi, dove prevale la funzione poetica del linguaggio, il principio della convenzionalità viene in parte attenuato (Belardi). Ciascuno dei termini posti ai vertici del triangolo presen­ta aspetti degni di nota e spesso non privi di problematicità. Per cominciare, che cosa intende Aristotele con l'espressio­ne tà en tii phonii? A questa domanda vi sono risposte di­verse. Cesare sostiene che Aristotele attribuisce all’espressione (“ton en ho phono”) lo stesso valore che Saussu­re dà al termine "significante" quando spiega la natura del segno linguistico. Belardi, invece, sostenne che tà en tii phonii si rifere non ai significanti, ma all’espres­sione linguistica intesa nella loro forma compiuta di 6no­ ma (nome), rhima (verbo), /6gos (discorso), come pure di kataphasis (affermazione – Fido is shaggy) e apophasis (negazione – Fido is not shaggy). Le ra­gioni di questa scelta si basano sul fatto che questi elemen­ti, facenti parte del programma di analisi di Aristotele, ven­gono definiti "simboli" delle affezioni dell'anima nell’Analytica Priora (16 a, 25; 24 b, 2). Ora è indubbio che Aristotele intenda con l'espressione "suoni della voce" qualcosa che sottolinea molto chiara­mente la veste fonica e il carattere di "significante". Tuttavia si deve anche sottolineare che l'ottica con cui Aristote­le, almeno nell’ “Organon”, guarda ai fatti di linguaggio sem­bra diversa da quella saussuriana. Infatti Aristotele è qui interessato a saggiare le possibilità e la garanzia dell’'uso del linguaggio nell’analisi della realtà. Tale garanzia sembra esserci quando si dia una reciproca­bilità tra i due ambiti del linguaggio e del reale. Ora, posto che, per Aristotele, la simbolicità del linguaggio nei confron­ti del reale è sempre di secondo grado, in quanto il nome sta per un'immagine, la quale è appunto immagine di una cosa, sul vertice sinistro del triangolo deve stare qualcosa che (per gli scopi logici perseguiti nel De interpretatione) sia intercambiabile con ciò che si trova al vertice superiore. Da qui deriva l'uso della nozione di “simbolon”, che Ari­stotele riprende da una tradizione risalente fino a Democri­to (D-K). Le ragioni che permettono la specializ­zazione del termine “simbolo” per indicare una espressio­ne linguistica convenzionale sono connesse alla sua etimoogia. “Simbolo” indica ciascuna delle due metà in cui viene spezzato un oggetto -- a esempio un astragalo, una medaglia, una moneta -- in ma­niera intenzionale, affinché possano servire, in un momen­to successivo, come segno di riconoscimento, o come prova di una certa cosa (Belardi, Eco). Il fat­to che le due metà riescano a combaciare perfettamente vie­ne a indicare la presenza di un rapporto precedentemente istituito (a esempio un rapporto di ospitalità, di amicizia, di paternità), la cui documentazione è affidata appunto alla congruenza perfetta dei due sjmbola. Si viene in effetti a realizzare una situazione in cui ciascuna delle due parti può scambiarsi di posto con l'altra, senza che venga a perdersi il valore di prova. Così dal momento che ciascuna parte pre­suppone – o implica, come per consequenza logica -- l'altra, o stabilisce con l'altra una stretta corri­spondenza, “simbolo” viene ad acquisire il si­gnificato di "ciò che sta per qualcos'altro". Ma il fatto che venga preferita nel contesto della teoria linguistica aristote­lica la parola sjmbolon all'espressione smefon (che pure indica uno "stare per") induce a indagare su una possibile specificità del rinvio istituito dal simbolo. In effetti, nel ca­ so del segno, i due termini del rinvio (che, come vedremo, è una implicazione) non sono sempre reciprocabili: un primo termine può rimandare a un secondo, senza che necessaria­ mente il secondo rimandi al primo. Nel caso del simbolo, invece, i due termini sono perfettamente reciprocabili. Non è un caso che symbolon sia attestato per indicare "ricevuta", talvolta redatta in duplice copia. Le due parti hanno, per cosi dire, lo stesso valore. Questo aspetto etimologico è presente nell’uso che in particolare Aristotele fa dell'espressione sjmbolon nel De interpretatione. Un nome (‘Shaggy’) e un simbolo di uno stato d'animo (percezione di una cosa come ‘shaggy’) in tanto che si realizza, previo un accordo (synthk), un combaciare perfetto tra di loro e una perfetta intercam­biabilità, che garantisce la correttezza del nome stesso (‘shaggy’ =df. hairy-coated, Be­lardi In quanto sjmbolon, il nome non è più deoma ("rivela­ zione"), come lo era per Platone. In Aristotele il nome è "suono della voce significativo per convenzione" (phone s­emantika katà suntheke) (De int.). Questo marca il passaggio da una linguistica che conservava un carattere semiotico, come quella platonica, a una linguistica che non parla più di segni e che è intrinsecamente non semiotica. Mentre per Platone le espressioni linguistiche erano segni che "rivelano" qualcosa di non percepibile (l'essenza del­ l'oggetto o la dunamis), per Aristotele esse sono simboli che stabiliscono finalmente di modo convenzionale o arbitrario una pura relazione di equivalenza tr tra i due correlati, senza alcuna preoccupazio­ ne che l'un termine "riveli" l'altro. Del resto, l'opposizione convenzionalel/naturale permet­te di distinguere anche tra il linguaggio umano e i suoni emessi dagli animali -- questi ultimi essendo, per altro, ugualmente vocali e interpretabili. Già la nozione, se non di suono, ma di "voce" (phone) presenta alcune interessanti particolarità. Nel “De anima” si dice che un suono e definito una "voce" quando e emesso dalla bocca (con lingua) di un es­sere animato (II, 420 b, 5); ed e dotato di significato (smantikos) (Il, 420 b, 29-33). Ora, i suoni emessi dagli ani­mali, per quanto definiti ps6phoi (''rumori"), hanno tutta­ via le due precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalla voce emesse dagl’uomini sono due fattori. Non e una voce convenzionale (e di conseguenza non puo essere né simbolo né nome), ma e involuntario, meramente causato "per na­ tura" (De int., 16 a, 26-30). E la voce e agrammata, cioè "inarticolabili" o "non combinabili" (ibidem, e Pot., 1456 b, 22-24). La nozione di "combinabilità", del resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue è al centro stesso del carattere di semanticità del linguaggio umano. Una voce o suono semplice (adiafretos, "invisibile") puo articolarsi per il primo grado in una uni­tà più grande dotata di significato. Gli animali, invece, emettono solo suoni indivisibili (‘miao’ ‘read chimp lit.’) , ma non combinabile (Pot., 1465 b, 22-24). Si possono illustrare riassuntivamente i caratteri del lin­ guaggio umano in contrapposizione ai suoni emessi dagli animali, attraverso il seguente schema: linguaggio umano - per convenzione - elemento indivisibile combinabile e elemento divisibile - lettera - elemento dotato di significato - simbolo – nome – nome aggettivo (shaggy) – suono e voce degli animali - per natura – causato fisicamente – involuntario – istinto – risponsa allo stimolo --- elemento indivisibile non combinabile - non lettera - elemento che rivelano (d- loflsl) qualcosa - non simbolo - non nome. Si deve rilevare, tra l'altro, che la semanticità dei suoni emessi dagli animali è espressa dal verbo dlofìsi (''rivela­no", De int., 16 a, 28), -- “manifestare” in Witters -- fatto che conferma l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione o finalmente l’aribitrario, come nel caso del linguaggio o il suono o la voce di un animale non umano, torna di nuovo in pri­mo piano il carattere semiotico d'una espressione. Il suono o la voce di un animale – un ‘pirot’ – e un sintoma che rivela la loro causa fisica. We must know the character, age, sect, nation, and other peculiarities of the writer. Every human being has a character- a cer possessed their minds that they became mere automata in his hands, and pour out words and thoughts as they are poured in, like so many water-pipes of a cistern, betrays profound ignorance of the subject. Some such crude fancy was entertained in former times, and is probably not extinct. It doubtless originates in a vague notion, that the more entirely human agency is excluded from the doctrine of inspiration, the higher honour was bestowed on the divine spirit. And the etymology of the word “inspiration” has also its effect. It originally and properly signifies, a breathing in, and suggests the dark and mysterious conception of an effect produced on the thinking substance of a man , not unlike the inflation of a bladder. But inspiration has nothing in common with its etymology. Inspiration simply expresses the idea of super-natural assistance and guidance in the communication to mankind of a truth previousl unknown. He who is honoured  “magnam cui mentem animumque, Delius inspirat vates”  with it, is enabled to speak, act, and write, as a divine messengers, in perfect conformity with the will of Giove who sent him; so that nothing proceeds from him, but what is holy and true. Yet he is no puppet, acted on by a physical and compelling force from without. He is a living, personal agent – like Madame Arcati --, in full possession of all the faculties with which he has been endowed by his creator: with perception, memory, consciousness,will. And the energy of the Holy Ghost wrought no greater violence on his mind in the exercise of these powers, than is wrought by his ordinary operation on the hearts of believers in the Roman cult. It is not our business to give the philosophy of this “ pre-established harmony” between agencies so different, nor to speculate on the mode in which they were combined for the production of a single result. As interpreters, we state the fact – not explain it. And the fact certainly is, that no men are more distinguished from each other by strong mental idiosyncrasies, nor any who give more decided evidence, that their own spirits performed an important office in composition. In the author of the book of Proverbs, we see before us the grave, sententious, dignified monarch, whose profound knowledge of human nature, and sparkling gems of wisdom, made his name celebrated throughout the East. Amos is always the strong, bold ,but somewhat unpolished herdsman of Tekoah. The rough and vehement Ezekiel, standing with dishevelled hair and rolling eye, in the midst of his fantastic but expressive symbols, never suffers us to mistake him for Isaiah, the sublime, imaginative, tasteful courtier of Hezekiah. The same with the plaintive, tender Jeremiah - the contemplative John the argumentative, glowing PAUL. It is an old, but, with proper explanation, perfectly true remark, originally made by Jerome, that revelation consists in thought, not in words or external dress – “nec putemus in verbis scripturam evangelii esse, sed in sensu.” We   insult the Holy Ghost by supposing him unable to accommodate himself to the mode of thinking and phraseology of those whom he honoured with his influence — that when he "   When we read the Epistle to the Romans therefore, we must remember that we are conversing with a finished gentleman of the old school; a scholar brought up at the feet of Gamaliel, a powerful but rapid reasoner, delighting in ellipses, digressions, repetitions, bold figures, and pregnant expressions, suggesting more than meets the ear - fond of illustrating his subject by Old Testament ideas, even when he intends making no use of them in argument; and above all, that we are conversing with him, who, more than any other apostle, is deeply penetrated with the glorious catholicity and abounding grace of the gospel! In reading James, we must think of the stern, high-souled moralist, in whom the ethical element of Christianity seems to have taken the deepest root; who,while with adoring faith he beheld “the Lamb slain from the foundation of the world ,” never lost froin his view the awful form of that “ eternal law,” which spoke in thunder from Sinai, and yet speaks in milder tones, though with  made the prophet he was forced to unmake the man the same commanding authority, to every child of Adam. John, in his writings ,seems to be still clinging to his master's bosom. Love to the person of his Redeemer is evidently his engrossing sentiment. No one can doubt, apart from every argument contained in other parts of Scripture, that John believed him to be divine. His glory as the uncreated Logos — that glory which he had with the Father before the world was, a few scattered rays of which had been seen through the veil of his humiliation, is the great thought with which his soul holds constant communion, raised above every other object — likethe eagle calmly reposing in mid heaven, and gazing at the sun! He who gives no attention to these things, and does not take pains to catch the distinctive peculiarities of the sacred writers, commits the same kind of blunder with that of the man who reads Milton's Paradise Lost, and Addison's Essays in the Spectator, yet sees no difference between them except in the length of the lines. It is important also to note the different kinds of composition they employed. Some were poets, and must be interpreted according to the laws of poetry. Their bold tropes must not be turned into sober matter-of-fact realities; as is done by the Millenarians who read Isaiah nearly as they would Blackstone's Commentaries, or the British Constitution. Ezekiel is not Luke, nor is Matthew the publican, David, singing one of the sweet odes of Zion to the music of his harp. Historians are to be treated as historians, not as poets or rhetoricians. The accounts of miracles given in our four gospels must therefore be taken to the letter. No books in the world bear more decided evidence that their authors intended to give simple and perspicuous narratives of events as they actually occurred. The principle must not be tolerated for a moment, of explaining them away, by doing violence to the plain meaning of language, and to all the laws which are applied to other historical compositions. Yet it has been sanctioned by great names, especially in Germany. Grave divines are found, who insist that there is not one miracle in the gospels. The events which SEEM miraculous are entirely natural, but exaggerated and embellished by the warm fancies of the people among whom they occurred. Only strip, they say, the Evangelists of this semi-poetic drapery, and the business of exposition will go on delightfully. Moses fares, if possible, still worse. They turn him into an allegorist or reciter of mythological fables. The first ten chapters of “Genesis” contain about as large a body of real truth, as can pass with out inconvenience through the eye of a needle being made up of old stories and scraps  a — of song, which mean nothing, or anything, that a lively fancy may suggest. i authors are conceited sciolists, who, pranking Let not the Christian student take great pains to refute this wretched infidelity, which does not openly avow itself infidel, merely because its advocates earn their bread by a profession of Christianity; the most of them being either professors of Christian theology or pastors of Christian churches. In dignandum deisto; nondisputandum est. Such interpretations do not deserve the name. They are feats of jugglery and legerdemain; and their   In expounding Scripture, let there be a constant appeal to the tribunal of common sense. Language is not the invention of metaphysicians, or convocations of the wise and learned. It is the common blessing of mankind, framed for their mutual advantage in their intercourse with each other. Its laws therefore are popular, not philosophical- being founded on the general laws of thought which govern the whole mass of mind in the community. Now, however men may differ from each other,  themselves as the high-priests of philosophy, prove by their irreverence for things sacred, that they have not reached the portico of her temple. The true philosopher always trembles when he stands, or even suspects that he stands, in the presence of God! He can not trifle with such a book as the Bible! H e cannot sport with a volume, the falsehood of which, if proved, turns him over to the beasts, and deprives him of his last stake as a candidate for the glories of immortality. Marcello Capra. Keywords: del corpo animato, animo, spirito, l’immortalita dell’animo, l’immortalita dello spirito, incorporeita dell’animo, incorporeita dello spirito, Method in philosophical psychology, psychic versus psychological, functionalism, manifestation displayed, revealed, semiotics aristotele in behaviour – body/soul – corpore animo – hylemorphismo, forma e materia, una forma, una materia, due materie, una forma, realisabilita multiple, semiotica di aristotele, il comportamento che rivela l’animo, il comportamento che e simbolo dell’animo, differenza tra Platone ed Aristotele, il concetto chiave naturalista di ‘rivelazione’, manifest, delouse.  life, soul – Aristotle on soul and life – zoon, vita, anima – Galeno poli-centrismo – Aristotle monism, dualismo.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capra” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Capua – filosofia romana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bagnoli Irpino). Filosofo italiano. Grice: “I like Capua – from the middle of nowhere – Lago Laceno – he founds an “Accademia degl’Investiganti” in Capri! To philosophise!” Vestigia lustrat, i.e. even in dreams the hound follows the trace of the hare!” -- Impegnato nella ricerca e nella sperimentazione, in antitesi ai vecchi capiscuola come Aristotele, Ippocrate, Galeno ed altri, fu a capo di un'accademia dal nome gli "Investiganti".  Pubblicò il "Parere", sostenendo le idee di chi opponeva la ricerca medica e scientifica al sapere della tradizione. Nacque a Villa Capua, in Via Carpine, da Cesare e Giovanna Bruno. Nonostante la famiglia fosse facoltosa, non gli venne assegnato un precettore che lo seguisse negli studi oltre le basi grammaticali. Ad ogni modo, si dedica con passione, sin da giovanissimo, all'approfondimento del latino, del greco e della retorica. Persi entrambi i genitori e dovette cominciare a provvedere da sé alla sua educazione. Trasferitosi a Napoli per seguire la sorella, frequenta la scuola dei padri della Compagnia di Gesù. Impara le Istituzioni di Giustiniano, leggendo al tempo stesso anche le osservazioni di Giacomo Cuiacio, testi che segnarono profondamente la sua formazione, come è evidente in vari passaggi del suo "Parere" e nelle sue "Lezioni intorno alla natura delle mofete". Si laurea  e fa ritorno a Bagnoli, con l’intenzione di approfondire le sue conoscenze naturali ed anatomiche, effettuando osservazioni dirette su animali vivi sezionati e con il supporto di testi reperiti a Napoli. Proprio in quegli anni prese forma il suo pensiero critico circa l'inadeguatezza del metodo della filosofia. Degli anni di ritiro a Bagnoli non abbiamo ulteriori notizie biografiche. Amenta, autore di una sua biografia, ci riferisce anche di una certa attività letteraria, collocabile in questo periodo, di cui, tuttavia, non ci è giunta testimonianza. I suoi testi furono rubati mentre era in viaggio verso Napoli.  Si trasferì definitivamente in Napoli. Probabilmente il suo trasferimento fu favorito dalla presenza a Napoli di Cornelio, suo amico, il quale vantava una lunga preparazione alla scuola galileiana e indirizza Di Capua alla ricerca scientifica nella linea segnata da Galilei e da Cartesio, protagonisti della rivoluzione che la filosofia sperimentale portava all'interno di una cultura legata al passato e in cui vigeva la legge dell'"ipse dixit". Sulla scia di questo fervore intellettuale, fonda insieme a Cornelio, e Borelli Gl’Investiganti, gruppo di gioco filosofica di neta ispirazione anti0aristotelica.  La sua casa fu spesso luogo, ad ogni modo, di incontri tra gli intellettuali napoletani che facevano capo agl’Investiganti. Ottenne il riconoscimento dal Principe Francesco Carafa, di essere iscritto all'Arcadia di Roma, con il nome di Alessi Cillenio. Tale riconoscimento scaturisce dalla fama e dall'operosità scientifica che ottenne non solo a Napoli, ma in tutta Italia. A causa del suo ruolo di spicco all'interno dell'Accademia e della pubblicazione della sua opera più celebre, il "Parere", e coinvolto nel processo agl’ateisti che fu da molti visto come un processo indetto dal tribunale dell'Inquisizione per contrastare il diffondersi delle nuove idee in ambito scientifico e filosofico. Il processo era ancora aperto quando morì. Fu un professionista scrupoloso e un illustre innovatore scientifico nello scenario culturale napoletano della seconda metà del Seicento. Egli dimostrò notevole interesse per le dispute galileiane e i processi contro lo scienziato pisano, che in quegli anni erano al centro delle cronache del mondo politico, religioso e scientifico. In quel periodo Di Capua era anche interessato al pensiero di Bruno, Campanella e Porta, ma soprattutto era affascinato dalle novità scientifiche a cui lo introdusse il suo amico Cornelio, riguardanti i libri e le pubblicazioni dei principali scienziati e filosofi italiani ed europei come Francesco Bacone, Cartesio, William Harvey, Thomas Hobbes, Pierre Gassendi, Daniel Samert, Hooke, Willis, Boyle.  Tra Cornelio e Di Capua sorse una solida amicizia basata su ideali comuni: entrambi non condividevano né l'autoritarismo aristotelico né le vecchie teorie di Ippocrate e di Galeno. Dello stesso pensiero era Borelli, medico fisico e matematico, ammiratore, anche lui, del metodo di Galileo. Infatti lo sperimentalismo galileiano, basilare nell'attività dell'Accademia del Cimento, influenzò e si congiunse con l'attivismo speculativo degli Investiganti napoletani.  L'ambiente culturale napoletano era dunque vivo e attivo e le librerie di via San Biagio dei Librai divennero centri di raduno intellettuale, in cui si discuteva sulle novità di fisica, astronomia, filosofia e medicina. Di Capua, ancora prima della fondazione dell'Accademia degli Investiganti, aveva già incominciato a contribuire al risorgere della cultura napoletana, partecipando attivamente alle riunioni e ai circoli culturali sorti a Napoli nella seconda metà del Seicento, tra cui quello fondato da Camillo Colonna. In un’ottica del tutto contrastante alla Controriforma della Chiesa cattolica che da circa cinquanta anni aveva preso piede, Napoli diventa il centro della vita letteraria e delle attività scientifico filosofiche, spostando l'attenzione da Firenze a Napoli: si passa dal Cimento e dai Lincei agli Investiganti, dalle Accademie fiorentine e romane a quella napoletana.  Si forma quindi in questa “nuova” Napoli, sotto lo stimolo, l'esempio e l'amicizia di Cornelio e Borelli, i quali, durante i loro viaggi, erano stati illuminati dall’ “Accademie des Sciences” di Parigi e la “Royal Society” di Londra. È in questo contesto culturale che ‘Il Parere” richiama l’attenzione di Redi. Lui e Redi erano entrambi scienziati, intellettuali, accaniti osservatori della natura; tutti e due seguivano il metodo sperimentale secondo lo spirito galileiano. Redi scrisse a Di Capua una lettera dopo aver letto le sue "Lezioni sulla natura delle mofete", in cui gli manifesta tutta la sua stima e ammirazione. Redi fu il primo ad effettuare ricerche sul cancro e sulla parassitologia.  L’ammirazione che provava nei confronti del Di Capua era la dimostrazione che quest’ultimo era inserito nell'élite culturale italiana del tempo, anche al di fuori del circuito napoletano, fino al punto che la Regina Maria Cristina di Svezia si interessò vivamente a lui e alle sue idee, comunicandogli il desiderio di conoscere con maggiore chiarezza ed approfondimenti il suo parere sullo stato dell’incertezza della medicina. Scrisse allora i “Tre Ragionamenti sull'Incertezza dei Medicamenti”.  Nelle sue pubblicazioni non fa menzione di Vico, suo devoto alunno, probabilmente in quanto al momento della sua morte il Vico aveva soltanto 25 anni. Quindi non aveva avuto modo di intuire le capacità intellettuali di Vico, il suo genio raziocinante di storico e di filosofo. Certamente Vico fu influenzato dalle idee e dalle teorie di Di Capua, che affiorano in alcune orazioni giovanili vichiane (il concetto della divinità presente in tutta la natura). Vico, di natura solitaria, fu molto sensibile alle novità scientifiche e filosofiche del tempo, partecipa al movimento culturale napoletano e frequenta la casa Di Capua, che considerava il suo ideale maestro. Capua, Cornelio, Andrea, e Borelli fondano a Napoli “Gli’Investiganti”insieme ad altre illustri personalità del mondo scientifico filosofico napoletano. Gl’Investiganti sorgeno in uno scenario di fervore intellettuale nuovo, dall'esigenza, quindi, di allontanarsi dalla filosofia aristotelica e dalle teorie di Ippocrate e di Galeno, per abbracciare le nuove teorie rivoluzionarie. Il motto degl’Investiganti e una citazione di Lucrezio: "vestigia lustrat" seguito dall'immagine di un cane che segue le tracce e fiuta le impronte, rappresentando a pieno lo sforzo degl’nvestiganti nella ricerca delle cause alla base dei fenomeni naturali.  L'Accademia fu chiusa per la peste nel 1656. Venne riaperta dal marchese Andrea Conclubet, spinta da una nuova energia vitale: superare l'arretratezza culturale del paese per mettersi al passo con gli altri Stati europei. Gli investiganti si riunivano ogni 20 giorni e non si limitavano alla discussione dei vari argomenti, ma anche alla sperimentazione proprio come gli accademici della Royal Society di Londra e del Cimento. Alla riapertura dell'Accademia, quindi, le prime lezioni furono tenute dal Di Capua su argomenti di natura scientifica. Altre lezioni ebbero come argomento l'anima, la fisiologia e l'embriologia. Si eseguirono anche esperimenti di fisica, meccanica e idromeccanica in situ, cioè nei luoghi dove certi fenomeni si verificavano (per esempio nella grotta del cane di Pozzuoli, nota per i fenomeni mefitici). Le nuove teorie degli Investiganti determinarono una reazione nel mondo del conservatorismo gesuitico, che sfociò nella fondazione di un'Accademia antagonista: l'"Accademia dei Discordanti", guidata dai famosi medici Carlo Pignatari e Tozzi. Quest'ultimo fu primo medico del Regno di Napoli, professore alla Sapienza e in seguito alla morte di Malpighi gli venne affidata la carica di archiatra pontificio. Da allora i contrasti tra le due Accademie si moltiplicarono a tal punto che il viceré Pedro Antonio de Aragón dispose di chiudere entrambe le Accademie. In seguito riapre una sua scuola, dando prova della sua convinzione sulla fondatezza delle sue teorie e sul desiderio di trasmettere queste verità agli alunni. Questo periodo rappresenta un momento di massima notorietà del pensiero culturale a capo di Di Capua, tanto che, il viceré spagnolo Ferdinando Gioacchino Faiardo indisse un congresso, in cui diversi medici dovettero esprimere il proprio parere per ciò che concerne lo stato delle teorie medico scientifiche oggetto di disputa. Fu così che, in occasione del convegno, Dcompose il suo "Parere Divisato in otto ragionamenti..", che ottenne notevoli riconoscimenti oscurando il conservatorismo cattolico dei suoi detrattori. Nonostante il Seicento, secolo del barocco, avesse come personaggio di spicco a Napoli Giambattista Marino, ritenuto dai suoi contemporanei un genio poetico di grandezza insuperabile, si dichiara nettamente anti-marinista, in quanto la sua mentalità era di natura critica, analitica e scientifica. Si forma nel pieno delle dispute letterarie tra marinisti e tradizionalisti di stampo petrarchista. In quell'epoca predomina il trecentismo linguistico, perorato da Bembo e codificato dalla Crusca, che Salviati detta e di cui nel solo Seicento esistevano ben 3 edizioni. La notorietà, l'autorità, il peso culturale di questo nuovo dogma della lingua italiana ebbe una notevole presa su Capua grazie anche alla sua predilezione per la poesia di Petrarca. Poiché i petrarchisti sono considerati “antiquari” dai marinisti, lui stesso venne etichettato come un antiquario, in quanto purista linguistico e seguace della tradizione dei dettami della Crusca. Di fatto, tuttavia, egli sosteneva principi rivoluzionari di scienza, seppur mediati da un linguaggio ormai arcaico. Tuttavia a Napoli, nella seconda metà del Seicento, si afferma intorno a lui un movimento puristico, a tendenza arcaicizzante che esercitò il suo influsso anche su Vico. Questo sottolinea il suo aspetto conservatore, riferito esclusivamente al linguaggio da lui usato, tipico del purismo letterario petrarchesco. In contrasto con questo atteggiamento letterario antiquario, fu senza dubbio un rivoluzionario in ambito scientifico nello scenario culturale napoletano. La sua produzione filosofica è, dunque, caratterizzata nel complesso da una forte contraddizione tra il nuovo del suo pensiero scientifico ed il vecchio o antico della lingua da lui scelta.  La sua oè costituita da duemila sonetti, due tragedie ("Il martirio di Santa Tecla" e "Il martirio di Santa Caterina"), alcune commedie, una favola a sfondo idilliaco e altri scritti filosofici vari.  Di questa produzione non abbiamo testimonianza a causa del furto subito da lui in viaggio verso Napoli. I sonetti, tanto nella forma quanto nel contenuto, sono di imitazione petrarchesca. La stesura di questi ultimi, inoltre, è collocabile al periodo dell'adolescenza e, pur non potendolo affermare con certezza, è lecito intuire che la sua cosiddetta produzione non abbia potuto assurgere ad alte cime, considerata anche la sua indole disposta più allo studio dei fenomeni e al razionalismo che all'aspetto psicologico o ai fattori emotivi. Le opere drammatiche sono, al contrario, ispirate al modello di Porta. Il Parere divisato in otto ragionamenti è indubbiamente la sua opera più importante, pubblicata a Napoli, ristampata con le Lezioni intorno alle mofete. In questo testo parte dalla pretesa di dimostrare quanto vana, quanto priva di ogni salda dottrina fosse la filosofia di Aristotele, rivendicando un rinnovamento culturale, un bisogno di liberarsi dagli eccessi del potere politico ed ideologico di alcune posizioni. Proprio a causa di questo spirito di rivolta rintracciabile nel testo fu intentato un processo contro lui da parte dei Gesuiti, capitanati da Benedictis, che si svolse a Napoli. Nel Parere, tuttavia, più che negare il pensiero di Aristotele nel campo della conoscenza, intende contestare l'atteggiamento di coloro che ne avevano adottato in maniera eccessivamente pedissequa il metodo. La posizione da lui presa è tutta in favore della rivalutazione delle scienze e di un approccio nei confronti di queste che non sia statico, bensì critico anche nei confronti della tradizione. La medicina in particolare è una scienza che non può fondarsi, a suo parere, su nozioni incontestabili, ma deve piuttosto essere costantemente messa in discussione, pur mantenendosi nei limiti dell'esperienza e della debole ragione. Nell'opera, comprensiva di otto ragionamenti, viene anche delineata la figura ideale del "buon filosofo", il quale deve essere allo stesso tempo anche amante della filosofia e buon conoscitore della geometria. Agli otto ragionamenti aggiunse un'appendice al "Parere": "L’incertezza". In entrambe le opere Di Capua finisce con il constatare lo stato dubbioso tanto della conoscenza e come proprio il loro caratteristico elemento di imprevedibilità, anche in quanto soggette agli elementi umani, rendano impossibile una conoscenza del tutto obiettiva. Le Lezioni sulla natura delle mofete riprendeno i concetti già esposti nel "Parere" sull'aria, concepita come anima dell'universo. Anche nella descrizione e nello studio delle mofete, fenomeni naturali caratterizzati dall'uscita di anidride carbonica, vapore acqueo e altri gas da terreni di origine vulcanica, rivela le sue attitudini alla razionalità, alla dimostrazione obiettiva di ogni evento fisico, sostenendo come la conoscenza di un fenomeno debba essere fondata sul metodo sperimentale. Altra opera pubblicata a Napoli e una biografia del condottiero Andrea Cantelmo, il quale milita nell'esercito di Ferdinando II D'Austria e a cui veniva attribuita l'invenzione delle mine volanti e di un tipo di pistola a ripetizione con 25 colpi. La biografia diventa il pretesto per l'autore per far affiorare la sua concezione sull'individuo, sull'uomo, sui giochi della fortuna, sulla dialettica tra gli avvenimenti storici riguardanti l'uomo come personalità unica ed individuale e l'intreccio dello svolgimento degli eventi. Generoso De Rogatis, Cenni biografici degli uomini illustri di Bagnoli Irpina. Carmine Jannaco Martino Capucci, Storia letteraria d'Italia (F. Vallardi, Milano, Piccin nuova libraria, Padova);.  Mario Puppo, Discussioni linguistiche del Seicento, POMBA, Torino). “Parere del signor Lionardo di Capoa divisato in otto ragionamenti, ne' quali partitamente narrandosi l'origine, e'l progresso della medicina, chiaramente l'incertezza della medesima si fa manifesta” (Antonio Bulifon, Napoli); Niccolò Amenta, Vita di Lionardo Di Capua, Venezia). Niccolò Amenta, Vita di Lionardo di Capoa detto fra gli Arcadi Alcesto Cilleneo” (Venezia). Nicola Badaloni, Introduzione a Giambattista Vico, Laterza, Roma; Bari); Cotugno, La sorte di Giambattista Vico e le polemiche scientifiche e letter. dalla fine del XVII alla metà del XVIII secolo, Tip. del R. Ospizio V. E., Giovinazzo. Salvo Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del Seicento, D'Anna editore, Messina-Firenze); Walter Maturi, Fausto Nicolini, La giovinezza di Gian Battista Vico; saggio biografico, Napoli); Camillo Minieri Riccio, Cenno storico delle Accademie fiorite nella città di Napoli, Bologna); Luciano Osbat, L'Inquisizione a Napoli. Il processo agli ateisti, Edizioni di storia e letteratura, Roma); Amedeo Quondam, "Minima dandreiana: prima ricognizione sul testo delle "risposte" di F. d'Andrea a Benedetto Aletino" in Rivista storica italiana, Napoli); Gabriele Reppucci, Saggio monografico su Capua, scienziato-medico-filosofo bagnolese (Circolo Sociale "Leonardo di Capua", Bagnoli Irpino). Dizionario Biografico degli italiani. Vico, Autobiografia, a cura di B. Croce Bari (Edizioni Pauline, Milano).Capua's “parere” is just that: an opinion -- in response to a specific request by the Viceroy and the Consiglio Collaterale  put to a group of prominent Neapolitans for counsel on a legal regulatory policy. Capua's attack on Aristotelian discursive modes seems simple, ordinary Aristotle-bashing. Capua maintains a theoretical investment in the anima. This is not a recuperation, or a conscious continuation, of Aristotle on Capua's part. Capua wishes to protect philosophy from a mechanical application of a logical technique, and also from a premature, reductionist applications of the beast or the machine metaphor. Aristotle offers a biological concept of the soul as the first actuality of life, the principle of life.  Capua. Il suo parere, divisato in otto ragionamenti, ne’ quali partitamente narrando l’origine, e'l progretto della filosofia, chiaramente l'incertezza della medesima si sta manifefta. Napoli, Bulison Columa de Superiori. 1” All'illustrissimo, ed eccellentissimo signore LCTEA IL SIGNOR D. FRANCESCO CARRAFA, principe di Belvedere, marchese d'Anzi, &c. On avendo io cosa, eccellentissimo signor mio, che m'abbia in più pregio di quel che so la padronanza vostra, cerco per quanto posso di farla palese a ciascuno, sicome altri fa il possedimento delle cose più care, e preziose, ch'egli s’abbia, o per sua industria, o per fortuna acquistate. Ho pensato dunque, che a ciò fare io non potrei avere migliore opportunità di questa che mi porge il presente saggio filosofico, che per mia gran vençura essendomi capitato alle mani, ho preso a far istampa re, s'io il mettesli fuori sotto il nome vostro, La scrittura veramente a giudicio di voi medesimo, e d'ogn altr'huomo intendente è tale, che agevolmente posso da lei promettertii il fine, che m'ho proposto; im perciocchè ben tosto n'andrà ella per le mani delle persone di miglior giudicio nelle buone letiere, sì per per ta cognizione, che s'ha dell'autore di lei, doa vunque ha di quelli, che se ne dilectano, sì perch' ella il vale, per l'eloquenza, e doctrina, di che si ve de ripiena: oltre all'autorità, e fama, che le si accrescerà dall'istesso nome vostro ch'ella porta seco. Poichè possiam dire, che poche sono quelle parti d'Europa, ove non s'abbia conrezza di voi, e delle vostre egregie qualità, o per la fama, o per la presenza di voi; ma che quasi tuttele havete cerche colle lunghe, e laudevoli peregrinazioni, le quali in quella guisa, che da voi sono state fatte, sidebbono riporre fra quegli studj, con che vi siete sempre ingegnato, e v'è venuto fatto d'aprirvi la strada all’intera cognizione delle umane cose, e d'accrescere con le doti dell'animo, e dell'ingegno lo splendore ch'avete ereditato da'vostri maggiori. Oltre a ciò non doveva questa scrittura venirne fuori sotto altro nome che'l vostro: mentre, e la stima, che voi fate dell'autore di essa, e l'affezione, che gli portate, sicome fare ancora a ogn'altro huomo letterato e l'antica dimestichezza, ch'egli ha con esso voi il richiedeano. Ricevete dunque il presente dono, ch'io viso di questo saggio, o per più vero dire, della picciola parte, ch'io ho in quello, per l'opera da me polta in farlo stampare, con l'usata vostra umanità in segno dell'osservanza ch'io viporto. E pre go Iddio, ch'avanzi in bene ogni vostro desiderio; e alla buona vostra mercè umilmente mi raccomando. Di V. E, Umilissimo Servidore. Giacomo Raillar D. Carlo Buragna; a'Lettori. E Gli sono già alcuni mesi pasati, che d'ordine del Signor Vicerè fu tenuto consiglio da alcuni filosofi di metter qualche compenso agl’abusi ed errori, che tutta via si commettono nella filosofia. E dopo qualche ragionamenti intorno a cotal bisogna avuti, divisarono eglino, che per potere con piis loro acconcio esaminar le ragioni, e i pareri proposti, e da proporsi, ciascuno doveſſe mettere in iscritto il suo. Perchè convenne a CAPUA che e uno de’chiamati a questa adunanza scrivere il parer suo intorno a cotal materia; e parendo a lui, che ciò non si potesse fare acconciamente, senza considerare innanzi tratto, e riandar con diligenza la natura della cosa, che s'aveva a trattare, cioè della filosofia. Sì il fa egli con tanta dottrina, eloquenza ed erudizione, che, ejfendo il suo scritto venuto al le mani d'alcuni huomini letterati, e altri amici di lui, par ve loro dettato più tosto per l'universalità di coloro, che fi dilettano delle bettere piie esquisite, che per haversi egli awe rimanere fra i termini d'una picciola, e privata compagnia. Comechè l'autore di quello non s'avesse nello scrivere proposto altro fine, che di soddisfare al carico da quella impostogli. Stimarono dunque coſtoro, che fosse una tale scrittura dameia ter in luce per mezzo delle stampe: e tanto fecero, che alla per fine persuaſero CAPUA a farne loro copia, e a contentarſi, che si stampase almen queſta delle molte, e diverſe opere fue, ch' egli tieneappreffo di fe. E in ciò non pure ebbero eglino riguardo al piacere, che ſarannoper prender i doe tine i curioſi della lettura di queſto scritto, ma all'utile an che ne può riſultare a ogni forte di perſone, e spezialmente agl’avveduti, e giudiciofi ragguardatori delle cofe. Poichè, vedendo eglino la varietà delle opinioni, e delle Seite, e le diverſe, eSpelle volte contrarie guise del filosofare, che fra i filosofi di tempo in tempo fonvenute sì, anche ſenza entrar coʻfilosofanti in più sottili speculazioni, potranno age volmente accorgerſi, con quanta ragione altri Àfaccia a cre Bere D 1 grand 4 derë, o voglia dare a vedere, che una profeffione perfefef ſa cosè dubbiosa e incerta ha in se dottrina, o principi, ſu i quali altri pola porre alcuno ſtabile fondamento;e quan to fa pericoloſa coſa il vederſi nelle mani di coloro, che così fi danno ad intendere, espezialmente dove ne va la filosofia. Oltre a questo, chi non vede di quanto frutto può rium scire queſto scritto a’ filosofi, che danno opera alla filosofia? mentre dalla fola lettura di lui potranno efi per avventura apparar più di ciò, che alla cognizione della natura di lei s'appartiene, che non farebbono col rivolgere tutt'ora i volumi de'più riputati, e solenni maestri di quella: e accorger fi a un'ora qual via nell'impreſa del filosofare ſi vuol tener da colui, che laſciate andarele giunterie, e le ciance, intende Secondochè la condizined'untal mestiere comporta, faronore a fe, e giovamento agli infermialla ſua cura commeſſi. Ne meno faranno efli, e ciaſcun'altro, che attende a’migliori ljudj, per vedere apertamente quanti, e nella filosofia, e nell'altre Scienze ci sono ſtati, e fono di quelli, che fi vanno ſtillando il cervello pur dietro a quello, che o norciès o pure non ſi ritro va; e, come dile il noſtro Alighieri, Trattando l'ombre, come cosa falda. Maſenza, che Io mi diſtenda più oltre in voler dimoſtrares chente, e quale, e quanto profittevole, e dotta fi fia queſta ſcrittura, a ſufficienza il lettore ſol potrà egli vedere di ſe: e come anche non eſſendo ella fata dettata a fine d'averſe a divolgare, non per queſto rimane, ch'ella non corriſponda al la fama dell'ciutore di efsa, e all'opinione, che portanodi lui gli huomini più intendenti, e giudiciof. Sta ſano. EMINENTISSIMO SIGNORE AI Ntonio Bulifon espone a V. Em. come deſidera darë alle ſtampe un saggio da Capua intitolato “Il mio parere intorno alle cose della filosofia”, per ciò ſupplica V. Em.commetterne la reviſione a chi me glio parerà all’Enı.V.ut Deus, & c. N Congregatione habita coram Eminentiſſimo Domino Cardinali Caracciolo Archiepiſcopo Neapolitano ſub die 3. O &tobris 1679. fuit dictum, quod R.P.Franciſcus Verciulli Soc. Ieſu revideat, & in ſcriptis referat eidem Congregationis. MENATTVS VIC. GEN. Iofeph Imp. Soc. Iefu Theol.Eminentiſs. EMINENTISSIMO SIGNORE. O letto per comandamento di V. Emin. il libro del Si gnor Lionardo di Capoa: intitolato Parere intor noalla medicina, ne vi ho ritrovato coſa alcuna contraria alla dottrina della Fede, overo a' buoni coſtumi. Per queſto lo giudico degno di ſtapa, per pubblica utilità, e per ammaeſtramento degl' ingegni curioſi di recondita, e fruttuosa filosofia. HE Dell'Em. V. Antico, umilifs. Servo Franceſco Verciulli della Comp.di Giesi. N Eminentiſs. Dom. Cardinali Caracciolo Archiepiſcopo Neapolitano fuit dictum, quod ſtante relatione (upra ſcripti Reviſoris, imprimatur MEN ATTVS VI C. GEN. 1 Iofeph Imp. Soc. Ieſu Theol. Eminentifs. 1 ECCELLENTISSIMO SIGNORE A Ntonio Bulifon eſponea V. E. come deſidera dare alle ſtampe uno ſcritto intitolato Parere del sig. Lionardo diCapoa, intorno alle coſe della medicina, perciò ſupplica V.E.commetterne la reviſione a chi meglio parerà a V.E. ut Deus, & c. Magnificus Michael Biancardi videat, &inferiptis referai. CARRILLO REG. CALA REG. SORIA REG. Proviſum per Suam Excell. Neap. dic 4. Aprilis 1680. Maſtellonus. ECCELLENTISSIMO SIGNORE PA Er obedire a'comandidi V. E. ho letto il libro intitola to Parere del sig. Lionardo di Capoa,intorno alle cose della inedicina, e perchè in eſſo non ho ritrovato coſa contraddicciite alle Regie giuriſdizioni, giudico poterli dare alle ſtampe,fe cosi reſterà V.E. ſervita. In Nap. 16. Maggio 1680 DiV.E. Devotifs. Servidore ! Michele Biancardi Viſa ſupraſcripta relatione, iinprimatur, & in publicatione fervetur Regia Pragmatica CARRILLO REG. CALA REG. SORIA REG. Maſtellonus RA:  8CMA 220 GLI non hàveramente impreſa, o Signo ri, che più ragguardevole comparir faccia la maeſtà d'un prudente, e valoroso principe, quanto l'adoperar sì col ſenno, e colla mano, che i popoli alla ſua cura commeſſi non vengano da ſtraniero ferro aſſaliti, o ſenza vendetta miſeramente oltraggiati. Ma non è opera per mio avviſo men laudevole, e generoſa il render loro poi ſicuri da gl'inganni de’dimeſtici nimici;i quali al lora più gravemente nuocer ſogliono,quando ſotto il vela mo della benivolenza,edella carità aftutiffimamente ſi cuo prono; e ch’infingendoſi tutti umani, e compaſſionevoli al l'altrui fciagure, tendon poi loro sì inſidioſilacciuoli, che rade volte,o non mai ſenza mortale offeſa ſchifar ſi poſſo no. E nel vero, che monterebbe eglimai l'uſcir talvo, e ſicuro da' manifeſti riſchi della guerra ad huom, che poi nella tranquillità della pace,in tanto più acerbi,quanto più naſcoſi pericoli inavvedutamente cader doveſſe? Anzi queſti di tanta maggior compalfione degno ſarebbe, quáto più gravi, e più dure, e lagrimevoli da giudicar ſono le А ſven Ragionameñto Primo ſventure di quella nave, che ſcampata da più alti mari, giunta poi in bocca del porto miſerabilmente virompe. Perchè non mai a baſtanza potrà commendarſi il pietoſo, e faggio avvedimento - del noſtro Eccellentiſſimo Signor Vicerè; il quale auendo con maraviglioſa, e incredibile felicità il primo ottimamente compiuto; e reſi vani gl'in tendimenti, e gli sforzi di quelle armate, che ſuperbe, e crudeli infeſtando i mari, e le terre, ad ogn'or di ſangue, e di fuoco ne minacciavano; e ſgombrate ſimigliantemen te le fchiere de gli sbanditi, e de gliſcherani, che le ſtrade tutte, ei contadi ſcorrendo il noftro Regno malmenavano; ora con ogni ſtudio, e diligenza và riparando, che non ſia mo aman ſalva nell'avere,e nella perſona miſerabilmente oltraggiati per lomal'uſo della filosofia. La quale per ciocchè a ciaſcun forſe abbiſogna, ſicome ove ſia infra’li miti mantenuta della ſperienza, e della noſtra comeche debil ragione, eſſer puote per avventura di qualche giova mcnto al comune: così allo incontro s'egli mai avvien, che fi torca à ſiniſtro cammino, affai più delle malattie mede fime dannofa fi ſperimenta, e nocevole al genere umano. Nè prima alla notizia di lui gl’infelici avvenimenti d'alcu ni infermi fon pervenuti, per li quali le Chimiche medici ne forte s’accagionavano, ch'eglitantoſto ne impone, che per noi con minuta diligenza li cerchi ogni modo più op portuno da potervi dar riparo: e inſieme di preſcrivere a Medici, ove faccia meſtiere, certe, ſicure, e falde regole nel loro operare. Ma io quantunque voltemeco penſando riguardo quan te, e quali ſian le malagevolezze d’un tale affare, tante fra me mcdeſimo confuſo oltre modo, e fofpeſo rimango;per ciocchè, o che ficome in tutt'altre biſogne di gran conſide razione interviene, o che natura di tal'arte nol patiſca, du ro molto, e malagevol ſembra il dar legge alle coſe a quel la appartenenti. Perchè amerci più toſto ſenz'altro fare, tacendo di non darmene briga, ſe non fapelli, ch’in sì fat ta maniera contravvcrrei a ' comandamenti di colui, icui senni,non che le richicke debbo di preſente, ſenza replica alcuna, e con ſomma venerazione ſeguire; da' quali ſol moſſo, ed anche dal giovamento, ch'alla mia patria ne po trebbe forſe avvenire, volentieri, e di grado mi vilaſcierò entrare. Ed acciocchè ogni diliberazione, o partito, ch'intorno a ciò ſia da prendere, a vano, ed inutil fine affatto non rie ſca, tutte le forze del mio deboliflimo intendimento im piegherovvi; diviſando in prima le malagevolezze, in cui di leggier s'avvengono non che Principi, o Maeſtrati; ma Filosofi ancora, comechè faggi, e intendentiſſimi in dare ſtabili, e certe leggi alla Medicina; eſſendo fommamente una tal'arte di ſua natura incerta, e dubbitoſa, ed incoſtan te. Indi poi pian piano, e con diſcreto avviſo più adden tro facendoci,ilmodo proporremo, col quale quanto law natura della coſa comporti, un buon Medico, ed un mi glior Chimico far ſi poſſa. Ne altro provvediméto intorno a ciò al preſente mi ſovviene, che valevole, ed a propoſito ſia per riparare alle perpetue, e quaſi fatali calamità della filosofia. E per cominciare dalle memorie più antiche, laſciando da parte ftare quanto poco duraſſe in India, in Babilonia, edin Afiria quel lor diviſo di dover allogure gl'infermi nelle più uſate contrade e della Terra, perche fuffer cura ti da’ viandanti; nell'Egitto là, dove l'arti tutte, e i più no bili ſtudj nacquero in prima, e fiorirono, ſolamente a’Rè, ed a' Sacerdoti, ed a pochi Baroni d'alto affare ilmedicar gl'infermi era conceduto; onde da Manetone fra' Medici d'altiffimo fapere annoverati furono Antotide ſecondo Rè della prima dinaſtia de'Tiniti, il quale laſciò ſcritti alquan ti libri di notomia: e Tofortro Rè della terza dinaſtia, la qual’era de'Menfitani. Ma poi tratto tratto cotal meſtiere con tutti s'accomunò, eziandio colla minuta plebe; e tan to il numero de' Medici s'accrebbe, che ben per ciaſcun male era il particolar Medico ſtabilito, che ad altro malo re non dovea por mano, come ne dà teftimonianza Erodo. to della Greca Iſtoria padre, con queſte parole:; dè intpoxaj A κατα: 1 2 I Strab. lib. 3.8. 16.  κατι δέ σφι δέδασε μιής νούσου έκασG- ιησος, και ου πλεόνων» παντού δ ' ιητών επί σλέα.οι μενεγαρ οφθαλμών Ιητοί κατεσέασι, οι δε κεφαλής, οι δε όδόντων, οι δε τών και νηδήν, οι δε των αφανέων νούσων, cioc fala Medicina appo loro divifaeflendo per ogni malore, e nongià per più il ſuo Medico: Ondetuttoilpaeſe vien da Medicin gombro,perocchè altri curano gli occhi, altri il capo, altri i denti, altri le parti del ventre, e altri i mali interni, e na Scofi. Rimaſa poi in man ſolamente delle private perſones non ſi può creder di leggieri, quanto cadendo dal ſuo pri mo ſplendore l'Egiziaca medicina cangiolli per l'infingar dia, ed ignoranza de' novelli Medici, iquali eran di così poco talento, che come dice ilteſtè mentovato Erodoto, i primi della Corte del gran Rè della Perſia, allorche a co ſtui gli ſi era dislogato ilpiè, non pur no’l ſepper guarire, ma coʻloro argomenti a peſſimo ſtato il riduſlero. Perchè ſicome ſenza fallo è da credere, fù a’Medici, come narra Diodoro, nell'Egitto per legge vietato il traviar da’coman damenti degli antichi Maeſtri, a' quali ſe alcun contrave gnendo interveniva, che piggiorato ne foſſe lo infermo, n'era perciò acerbamente punito,xq'v Teis ex tās iegãs 616nou νόμοις αναγινοσκουμένοις ακολουθήσαντες αδυνατήσωσι σώσαι τον κά. μνοντα,αθώοι παντός εγκλήματG- απολυόνται.εαν δε παρά το γεραμ μένα ποιήσωσι, θανάτου κρίσιν υπομένεσιν. Εnel vero fu non po ca fortuna di Galieno (per tacere al preſente d'Ippocrate, e d'altri) il non eſſer egli nato à que'tempi,ed in quc'paeſi; perocchè non così agevolmente n'avrebbe ſchivata la pe na, ſe quaſi ad onta della reverenda autorità di tal legge oso pur dire quette parole: ου γαρΙπποκράτης μόνον, αλακαν τοϊς άλλους παλαιούς, ουχ απλώς οίς αν είσαι τίς αυτών πυρεύω βασανίζω δε και αυτός τη τεπείρα, και ταλόγω. ciοε, πότερον αληθές εςιν, ή fèuda ö yayçá Daci, Io ciò offervo non ſolamente negli ſcritti d'Ippocrate, ma in tutt'aliri libri de gli antichi; che non così di leggieri foglio commendare ciò che ciaſcun di loro ne aveſſe laſciato ſcritto;maprima il vò ben’io ejjaminando colla Sperienza, e colla ragione,ſe vero, o falfo fifia;ſe pure egli, che valente maeſtro di loica era, per iſchermirfi non aveſſe tali chioſe fatte in su gli ſcritti de gli antichi, e tanto i lor ſentimenti ſtravolti, ed avviluppati, finche paruti fof ſer conformi a ciò che più gli era a grado. Coſtuina, che più di ogni altra han poi ſeguita, e ſeguono tuttavia i Me dici, che gli vanno appreffo, i quali in tal guiſa i ſuoi detti sformano, ed anche que’d'Ippocrate, che ſovente fan ve duta di dir tutt'altro di ciò che da prima ſi propoſero. E forſe gli Egizziaci medeſimi con iſchernire la lor legge anch'eſſi vezzatamente cotal arte operavano ſecondo il proverbio: fatta la legge, penſata lamalizia. E a tanto giunſe per avventura la lor traſcutata arditezza, che ſo vente vegnendo toſto alle purgagioni, e per lo più con in felice avveniméto per ripararvi traſandata la prima legge una nuova ne publicarono, ſecondochè ne narri ARISTOTELE con quette parole: Εν Αιγύπτω μετα την πταήμερον κινείν έξεσι τοις Ιατζούς, έαν δε πρότερον επί τω αυτε" κινδύνω, eler lecito a' Medici muovere ſolamente dopo il quarto giorno, che fe'l voglion far. prima, lo ſi facciano a lor pericolo.La qual mellonaggines non ritrovò gran fatto, ch'io mi creda, ricevitori, ſe mai avviſarono quanto di leggier poſſano avvenir que’mali, a? quali fa meſtieri d'eſtremi medicamenti anche nel primie ro giorno, e toſto che ſi fan manifeſti. Ma o quanto da nul la ſtato ſarebbe quel Medico, che procurato aveſſe l'altrui ſalute a coſto della propria vita, Eda tali ſconvenevolezze avendo per avventura riguar doi Greci, i quali come nell'arti, c nelle ſcienze, così nel la prudenza civile ogni altra nazione ſi laſciarono ſenza contraſto addietro: non mai dar vollono determinate leggi alla Medicina, ed a que', che la eſercitavano; amando me glio, che ne'liniſtri avvenimenti de gli infermiper colpa ' de’Medici n'aveſſercoſtoro in condegna pena la ſola infa mia portata: και πιο σιμον γαρ ιητικής μούνης έν τήσι πόλεσιν ουδέν 60315042 Tinio a'došíns, la quale a coloro, cui preme l'animo cu ra di vero onore, più ch'ogni altro fupplicio grave riuſcir fuole, e nojofa. La qual coſtuma ſi vede manifeſta da File, mone, ovc dice: Μόνω. 2 Ippocrate, Μόνω διατάω τούτο και συνηγόρω Εξεσιν αποκτείναν μεν, αποθνήσκαν δε μη. Cioè a dire, al Medico ſolamente, ed al giudice fi permet te uccidere a man ſalva le genti. Piacque ciò anche all'al to ingegno del divino PLATONE, laſciando egli così nella ſua Republica ordinato: Aniuna pena fia,che foggiaccia il Medicó, s'alcun infermo da lui curato contro ſua voglia fia che ne muojaιατρών δε περιπτάντων αν ο θεραπευόμενων υπ'αυτών τε arvoſi xabago's tsw na odvopov. Dal cui divilo non punto ſi di lungo LUCIANO, ove dice: L'arte della Medicina quanto di maggior pregio è degna, e più dell'altre alla vita giovevole, tanto i ſuoimaeſtri debbono più godere di libertà'; e convene volcoſa è, che goda di qualcheprivilegio, nè fia giamai liga ta, o foggiogata da potenza veruna una dottrina confecrata agl'Iddij,e diporto degli uominipiù ſcienziati,nè vegna alla dura ſervitù delle leggiſottomeffa, e al timore, e alle pene acTribunali. π δε της ιατζικής όσω σεμνότερόν έσι και τώ βίω Χρησι μώτερον τοσέτω και ελευθεριώτερον είναι προσήκει τοϊς χρωμένοις, και πνα πονομείων έχειν την τέχνην δίκαιον τηεξεσία της χρήσεως, αναγκάζεσθαι δε μηδεν, μήδε ποσάττεσθαι, πράγμα ιερον και θεών παίδευμα και ανθρώ πων.σοφών επιτήδευμα.μήδ ' υπο δελείαν γενέσθαι νόμου μήδ' υπο φόβος και auweiar dixæsnetw. E cõciofoſſecoſa, che frà Greci gli Atenieli ſolamente vietaſſero alle donne, e a'ſervi lo ſtudio del la medicina; non è però gran fatto da lodare, per non dir che molto da biaſimar ſia un cotale ſtatuto; perciocchè,co me più avanti diraſli, lo intendimento di valoroſe donne contro al loro avviſo s'è moſtro più fiate valevole a viril mente imprendere i più alti ſtudj; ed a ' ſervi ancora conce dette la natura più volte animo, e ingegno alla libertà fi loſofica acconcio: perchè a ragione non guariappreſſo fù rivocato: rapportando Igino: Obſtetricibus neceffitatis, honeſtatis gratia ufus medicina tandem ab Atheniensibus con ceffus fuit. E molto meno dovrem noi credere, che rima neſſe in piè la beſſagine di Seleuco, che tal potremoſenza fallo quella ſua legge chiamare, colla quale non altrimen te, che ſe veleno ſtato foſſe proibì il ber vino ſotto capi tal pena a tutti gli ammalati Locreſi, ſalvo ſe prima non ne aveffero da loro Medici la licenza ottenuta. Ens Aoxgüv των Επιζεφυρίων νοσών έπεν οίνον α'κρατον μη προσάξαν7G- ταθεραπεύ αντG,εί και περιεσώθη θάνατG- ή ζημία ήν άντώ, οπ μη προσαχθέν από o'Se triev. LA ROMANA REPUBLICA, che non pur nel governo militare, ma nel politico ancora avanza di gran lunga le greche tutte, e le barbare nazioni, giudica convenevol com fa il non commetter senza freno alla balia de Medici la cu sa della vita de gl’uomini; e perciò prese per partito, che AQUILIO, tribuno della plebe, non so se GALLO, o altro e' ſi fofíe,con un plebiscito, il qual fu poi annoverato infra le leggi di Roma, qualche pena a'loro fallimenti iinponesse, per la qual’accorti divenuti foſſero, e cauti nell'operare. Non per tanto dimeno è da credere che legge tale, o plebiscito, che si fosse, non mai ſi metteſſe in uso, ch'altrimen te avrebbe avuto il torto PLINIO di sclamare in sì fatta gui. fa contra’Medici. Nulla præterea lex punit inscitiam capitalem, nullum exemplum vindiétæ: indi soggiugnere: difcunt periculis nostris, experimenta per murtes agunt: ed in fin conchiudere: Medicoque tantum hominem occidiſe summa impunitas est. Ma vi ha di vantaggio secondo il me delimo Autore tranfit convitium, et intemperantia culpa tur, ultroque qui periere argauntur. E perciò immagino, ch'in compilando i Digesti per commandamento di Giusti niano a bello ſtudio traſandaffero que celebri Legiſtila sentenza troppo dura nelvero, e crudele di Paolo sopra la legge Cornelia de Sicariis. S Si ex eo medicamine, quod ad salutem homini, vel ad remedium datum erat homo perierit, is qui dederit ahoneftior fuerit, in inſulam deportatur, humi lior autem capite punitur. La quale a giudicio di quella grand'animadella civil ragione Giacomo Cujacio, alla già detta legge Cornelia non può propiamente ridurſi; peroc chè dice egli il medico sanandi, non nocendi animo dedit. Ed avvegnacchè i medeſimi Legiſti nelle Hituta, e ne’Di gefti vi rigiſtraffero non ſolamente il già detto capo di LA LEGGE AQUILIA, ma ancora le ſeguenti parole d'V Ipiano, Sicuti Medico imputari eventus mortalitatis non debet, itad quod * Elannt. lib 2.9. cap.z. lib.recept. lent. 6 Cuias. in Ang Corn de Sioar. tores quodper imperitiam commifitimputari ei debet, ebo pretextu fragilitatis humanadeliétum decipientis in periculo homines innoxium eſſe non debet. Nientedimeno o di rado, o non mai certamente fur meſſi in uſo cotali ſtatuti, avvegnachè non ſolamente Plinio, ma molti, e molti anche dopo lui le que. rele medeſime replicando con più vive doglianze l'acca gionaſſero; infra’quali il dottiſſimo Agnolo POLIZIANO in una ſua piſtola al Leoniceno così ſcrive, indolui rurſus ge neris humani vicem, quod in fegraſari tamdiu impune tri ſtem hanc inſcitiam patiatur, atque ab ijs interdum vitæ fpem pretio emat, unde mors certifima proficifcatur,e'l Vives co sì grida: Errata illius (del Medico ei favellando) impung funt:immomercede compenſantur, e Battista da Mantova: His etfi tenebraspalpant eſt facta poteſtas Excruciandi ægros, homineſqueimpune necandi. E un satirico italiano scherzando col titolo del dottor dice a queſto propoſito medeſimo del medico: Mapoichè un tal ci può donar la morte Senza punizione, e ſenzapena Forzaè, che sì gentil titol riporte E'l noſtro Accademico in quel ſuo vaghiſſimo dialogo, hoc tamen ipfo -ſecuri, dice parimente deMedici, quod nulla fit lex,quæ puniat infcitiam capitalem: immo vero cum mercede gratia referatur, ed altrove: Carnifici medicus par eſt: nam cædit vterque Impune: &merces cædis utrique datur. E un'altro Autore: Si quæcamque ſuaplectuntur crimina lege Quas Medici maneant modo veſira piacula pænas? Quiplerumque ipſo facitis medicamine morbum, Etdiro ante diem ægrotos demittitis orco.? Scilicet hoc vobis indulſit opinio rerum Vna potens. Clades inferre impune per Orbem Mercedemque alieno obitu, laudemque parare. Ed avvegnachè Maſlimino condennaſſe nella perſona tutti ſuoi Medici, perche non gli aveſſero o ſaldate affatto le piaghe, o alleggiato il dolore, nondimeno l'eſfemplo d'un tal tiranno non può dar vigore a leggeniuna; e fu queſta non men, che tutt'altre ſue crudeltà biaſimata da gli ſcrit tori del ſuo ſecolo, ſicome anche Alessandro meritevolme te riportò titolo di crudele, per haver fatto ingiuſtamente ammazzar Glaucia medico, per ſoſpetto, ch'egli aveache colui poco faggiamente aveſſe curato il ſuo cariſlino Éfc ſtione. Comeallo incontro grandemente vien commenda ta la clemenza, e umanità di Dario Iſtaſpe Redella Perſia, il quale i medici già alla morte dannati, perchèlui aveſſer malamente cnrato, volentier permiſe, che liberaci foſſero da Democide illuſtre Medico da Cotrone. Ma non però creda alcuno, aver I medici per traſcutaggine de’reggi menti una tal libertà guadagnata; anzi egli è ſomma nc ceſſità del comune, e quaſi arte di buon governo; perocchè ſarebbeli quaſi affatto ſpenta, e com’Io avviſo annullata fin la memoria del meſtier della filosofia, ſe contro aʼme dicanti con rigor di giuſtizia ſi procedefle. Ed in vero qnal huomo mai, ſe non ſe ſommainente ſciocco, e ſcimunito, o temerario aſſai avrebbe vanamente logorato il tempo, e le fatiche dietro ad un'arte (ſe pur arte poſſiamo chiamar la Medicina, non avendo quella niuna certa, e filla regola nelle ſue operazioni ) quanto a ſe ſpiacevolc,e malagevo liſſima a conſeguire, e ne gli avvenimenti dubitoſa aſſai? E dicola ſpiacevole, perocchè qualmaggior noja, e ſpiaci mento, che quel di colui, che continuo ha da bazzicar co? malati, e veder ſempre, & udire l'altrui miſerie ſenza aver talora opportuno argomento da riſanarli? Ed è anche malagevole ad imprendere, e incerta ſempre negli avve. nimenti: imperocchè nella cura delle malattie non meil dell'avvedutezza del Medico il caſo ancora, e la fortuna vi fan la lor parte '; perchè ſurſe quel volgar detto: Fa meſtieri il Medico ejjer forto benigna coſtellazion nato. Ed o quanto aſſai ſoyente avviene, che contro ad ogni avviſo umano, ficome ſcriſſe Celso, etiam Spes fruſtratur: & moritur aliquis, de quo Medicus fecurus primòfuit. Ed: Ippocrato medeſimo avvegnacchè altiſſimoMedico, & avvedutiſſimo B giu 7 Plutarcom: 11 / a? !. 10  giudicato, purconfeffa se da tal meſtiere ancor più di bia limo, che di lode aver’acquiſtato. r fywye doréw pasiove uspelo Morgíny topov xexangãoBan Thin Tégun.E quinci è, che duracoſa, o malagevoliſſima, o impoſſibile ſempre mai è'l ravviſare ſe le cattive uſcite de' mali da dapocaggine de' Medici più toſto avvengano, o da natura delmale, o da altra interna cagione, in cuiſenno alcuno, ne umano provvedimento giammai non vaglia. Incertiſſimi ſempremai, ed oſcuri gli uſcimenti delle malattie ſi ſono,maſſimamente delle acute, ſecondo il ſentimento d'Ippocrate; perchèdiceva anche Celſo: Neque ignorare oportet in acutis morbis fallacesma gis effe notas falutis,& mortis. Senza che ſoglionſi ne'cor pi degli animali ingenerare, e talvolta anche di preſente, iveleni per ſubitana, o precipitazione, o coagulazione; e può anche huomo, che non altri, ma Apollo, ed Esculapio medeſimogiudicherebber faniſſimo,aver dentro enfiature, o altri nafcofi malori, che quando egli men ſi crede ſian, valevoli ad irreparabil morte condurlo; e ciò anche nel tempo ſteſſo, che li s'appreſtano i medicamenti; perchè a torto poi i rimedjmedeſimi, e non il malore accagionatine vengono. Ed oltre a ciò poſſono alcuni medicamenti, che buoni, e giovevoli alla ſalute degli huomini ſi giudicano, tal curbamento dentro cagionare, che l'ammalato le new muoja avanti, che noi col noſtro corto intendimento pof fiamo ne pur badarvi: 8 Quæque medendi caufa repertow ſunt (comene fà teſtimonianza Celso ) nonnunquam in pejus aliquod convertuntur, neque id evitare humana imbe. cillitas in tanta varietate corporum poteft. Perchè non ſarà egli colpa de'Medici l'avertalvolta piggiorato co’ſuoi me dicaméti lo infermo; ne in ciò le leggi potranno giámai coſa del mondo determinare. Ma su concedaſi, pure, che per legge ſia a' Medici l'uſo del medicar preſcritto: come mai potrebber coloro eſſer caſtigati ſe la travalicaſſero? o co me mai potrebbe porſi in chiaro il delitto, acciocchè poi ſecondo il diritto delle leggi vi ſi procedefle? E chi baſte volmente non sa quanto i Medici tutti ſian contrarj di ſet te, s lib.z.cap.6.  IT ) te, e diſcordanti ſempre ne’loro ſentimenti? Perche oda paleſe nimiſtà, o dacoperta invidia, il che è peggio, ſempre ſtuzzicati, o tratti dall'amore e dalla benivoglienza de’lo ro parziali, traſandata la verità delle coſe rappreſentano al Giudice tutt'altro, che di giuſtizia dovrebbero,e dannoli a divedere, come ſuol dirlila Luna nel pozzo, ſecondo il lor diſiderio; ſenza che il timor della pena, in cui potrebbe di leggieri incorrer il Medico, ſempre ſoſpeſo, e inviluppa to il terrebbe in prender partito anche quando faceſſe me ſtiere dipiù efficacemente operare; ed egli timido, econ fuſo per non porre a riſchio la ſua perſona nelle piu gravi malattie ſcioperato, e colle mani penzoloni ſe ne ſtarebbe; o pure per non partirſi dal comun ſentimento del vulgo, comechè falſo, e almal contrario, talvolta vani, e perico lofi rimedi uſerebbe. Coſa, chepiù ch'altrui a'Medici de Principi, come avvisò il Cardano, avvenir ſuole; i quali per tema non pur dell'infamia, ma di mal maggiore ſi ten gono di adoperar grandi, e non uſati medicamenti. Ne ſam rà quì fuor di propoſito l'apportare un'eſemplo del meſtier della guerra,da quel della Medicina non guari in verità per l'incertezza de'ſucceſſi lontano. Compativano anzi che nò I ROMANI Maestrati gli erroride' Capitani de’loro eſer citi;e ben ſi vede a quale altezza ne montafſe perciò L’IMPERIO DI ROMA, come all'incontro sa ciaſcuno a qual miſe rabil fine ſi conduceſſero i Cartagineſi per operar ſempre mai ilcontrario. E più vicin deʼnoſtri tempi ben lo mani feſtarono i Viniziani con loro gravoſiſsimo danno, e quaſi con la caduta univerſale del lor comune, quando ingiuſta mente per la ſua tracotanza decapitarono il Carmagnuo la; perchè poi ſmagato il Liviano, e ſecondando il fenti mento de’malcauti provveditori,ne perdette la giornata di Vicenza, e miſerabilmente con tutto l'eſercito ne reſtò tagliato, e ſconfitto. E forſe la morte data al Vitelli fu an che una delle principali cagioni, onde i Fiorentini traditi dal Baglione,la libertà poi miſeramente ne perderono. E ben potrebbe qui alcuno non ſenza qualche ragione andare ſpiando,che la legge Aquilia, cometutt'altre leggi B 2 de' 12  1 ! DE’ ROMANI da noi teſtè rapportate, nõ già per li valétiMea dici oMetodici, o Empirici, o Razionali ſtare foſſer fatte, ma ſolamente pe’ſoli popoleſchi Empirici,e volgari; eſſen do comunal ufo appo coloro di non ſolamente con nome di Medico i volgari Empiricichiamare, ma quegli ancora, che di caſtrare i fanciullieran uſi;come agevolmente ſi può ne'Digeſti, e nel Codice così di Teodofio, come diGiuſti niano comprendere. E certamente in coſtoro ſolamente da credere, ch'aveſſe luogo l'ignoranza dell'arte; per cagion della quale furono IN ROMA contro a' Medici ordinate le leggi. Ma sì fatta razza di medicanti ben ne do vrebbe eſſere acerbamente punita: intramettendoſi teme rariamente in meſtier di tanta conſiderazione, quanto è il mcdicare; e ordinando alla cieca rimedi di riſchio sù la vi ta de gli ammalati. Perchè ſtimo ben fatto aſſai, ch'in mol te parti dell'Europa, venga loro ſotto graviſſime pene if medicare interdetto; avvegnacchè poi cotali divieti poco, o nulla fian melli in uſo. E ben d'eſſo loro a gran ragione dice Anneo de Roberti ciocchè degli Strolaghi diſſe in pri ma TACITO: Genus hominum potentibus infidum, Sperantibus fallax: quod in civitate noſtra vetabitur femper; & retine bitur: Se non ſe troppo fcarſo èil paragon del Roberti; che i cattivelli degli Strolaghi altro no fanno,che con lor cian cie tenere a bada le brigate de' curioſi con paſcer loro di vaniſſime ſperanze; e gli Empirici volgari co'lor vani ſegre ti, e con lor ciarle, o rattengono gli ammalati, che non prédano rimedj da'buoni Medici,ondepoi ſe ne muojano: o pure con lor nocevolifumi medicamenti eglino medeſimi gli uccidono. E giuſtamente per avventura furon prima digradati, c poi nella perſona condenvati que' viliſimi paltonieri nel reame di Francia, ch’in vece diguarireil Rè Carlo VI, preſſo a morte coʻlor medicamenti, e quaſi a perduta ſpe ranza ilcondufſero. Ma egli fu per mio avviſo poco ſag. gio, cavveduto quel valoroſo Re arriſchiando in mano di giuntatori, e pancaccieri la propia vita; e ben come da pri ma li s’offerſero di voler riparare a'ſuoi malori, così do 1 veali toſto e ſenza niuna pruova fare, o aſpettar di lor pro meſſe:del temerario, e folle ardimento punire. Se pure non fu malavoglienza, edaſtio de’maligni Medici di que’tem pi,che fe si malcapitare que'cattivelli, Ma come potevan giammaicon ſalde, e durevoli leggi ſtabilir la Medicina, oi Popoli, o i Maeſtrati, i quali po co, o nulla per la più parte di quella s'intendevano; le a tanto non poteronmaii più ſaggi, e avveduti Medici per venire, li quali per lungo ſtudio, ed eſercizio molto adden tro in quella ſentivano? Inventore per quel che fi creda, o almeno antichiſſiino ſcrittore fu della medicina Eſculapio, e come ne da teſtimonianza Ippocrate, o chiunque altro fi foſſe l'autor della piſtola a Democrito, molte re gole all'eſercizio del medicare egli preſcriffe: ma ben to fto non buone conoſcendole parecchj ſaviſſimamente diſ fenne; quròs, dice e' parlando d’Eſculapio, è moois deepcóunge καθάπες ημίν αι των ξυγκαφέων βίβλοι Perchè può dirſi col toſcano lirico, che Solchi onde, in rena fondi, e ſcriva in vento colui, che dietro lo ſtabilimento di sì fatte regole s'affati ca, e a cuic.iglia di chiarirfene cercherò per quanto io pof ſa di inoſtrargliene con ordinato diviſamento le cagioni. La medicina tanto, e tanto oggimai creſciuta, e avanza ta, che ben di maggioranza co’più illuſtri, e più nobili ſtu dj gareggiar ſi vede, e colla ſua giuridizione fin détro i più rimoſſi,ed vltimiconfinidella natura s'innoltra: pure fra gli anguſti limiti di pochiſſime piante ſi vide in prima riſtret ta, come avviſa per tacer d'altri l'antico chioſatore d'Ome ro vidpxxia inteixen év GOTÁVOLS ñ; e'l nostro Seneca: Medicina quondam paucarum fuit fcientia herbarum; anzi in quel dolce, e ſovr'ogn'altro avventuroſo tempo Quando era cibo il latte Del pargoletto Mondo, e culla il boſco. col ſolo digiuno gli huomini ſi medicavano, 9 E pur viuean que'primi huomini allora, Elefebbriſcacciar, quando l'aiuto Non 9 Ercol.Bentiv.Satir, 3.  Non davan l'erbe, ne'lfapere ancora, o perchèpoco loro abbiſognaſſe la medicina, come avviſa altresì Seneca: Firmis adhuc, folidiſquecorporibus, & facili cibo,nec per artem, voluptatemq; corrupto: o perchèficome à tutt'altre coſe di quaggiù è dato, eziandio alle più grandi, da deboliſſimi principj dovea la medicina trarre l'origine; que’medicamenti uſando gli huomini allora, che loro, o dal caſo, o da bruti animali, o dalla propia induſtria venian manifeſti. 10 Perchè ragionevolmente credeſi, che Age nore, e Chirone tenuti per alcuni ipiù antichi di tutti i Medici,coll'uſo delle ſole piāte medicaſſero. Túcsospeli Aynuo είδη,Μάγνητες δέ Χείρωνα τοϊς πρώτους ματςεύσαι λεγομένοις απαρχας κα μίζουσι.ρίζαι γάρ εισι και βόταναι δι' ών ιώντι τες κάμνον ζεις.Ε di Chi rone ritrovatore del Panace Chironio: πρώτην μεν χείρων G- επαλθέα ρίζαν ελέσθαι κενταύρου χρονίδαο φερώνυμον, ήν ποτε χώρων πολίω εν νιφόεντι κικών εφράσσατο δείρη narra 11 Euſtazio, ch'eſſendo egli nella mano ferito, oco me vuole PLINIO, nel piede ritrovaſſe la medicina dell'erbe, χείρωνα γάρ φασι σώθενζ ποπτην χώρακαι την δια βοτανών επινοήσασθαι ixreixn\v: e per tacer di Mercurio,ilquale inſegnò come can ta Omero l'uſo ad Vliſſe dell'erba Moli Ως α'eg φωνήσας πάρε φάρμακον Α'ργαφόντης Εκ γαίης έρύσαςκαι μιν φύσιν αυτού έδειξεν e ſi pare, che medicaſſero altresì non con altro, che colle fole piante Ercole, onde traſſe il nome il Panace Erculeo; e Ilide e Oſiride, e APOLLO, e Arabo, e Cadmo, e BACCO per opera del quale come dice Plutarco, si ritrova primieramente, e monta in pregio il vino, medicamen to poderoſo, e ſoave, e venne anchepaleſata al mondo la gran virtù dell'edera, la quale maraviglioſamente riparar ſuole i danni, che provenir poſſono dal vino ſtrabocche γolmète ufato, ο ΔιόνυσG- και μόνον τώ τον οίνον ευρώνιχυρόα τον φάρ μακον και η διεν,ίατρος ένομίσθη μέτσι, αλα και το τον κιτζόν ανπταπό μενον μάλισα τη δυνάμει πεος τον οίνον ας πμην προαγαγών και τεφανά. σθαι διδάξαι τα βακχένοντας, ως ήταν υπότα οϊνα ανιόντο, τα κιλά κα ποσβεννύνθG- την μέθην τη ψυχρότητ: δηλοί δε και των ονοματώ, ένια την Σ 10 Trif.appo Plur. u lib.i'lliad . Is 2 την πιο ταύ πολυπραγμοσύνην. Le fole erbe dovettero pari méte adoperarc Eſculapio inventore del Panace Aſclepio, col quale egli,comecāta Nicádro guarì lola figlio d'Ificle: a's" χει και πίνακες φλεγυήϊον όρρατε πρώτο παιήων μέλανG- ποταμε " παρg χάλG- αμερσεν αμφιτζυωνιάδαο θέρων, ΙφλίκλεG- έργG έντε συν ηρακλή κακήν έπυράκτεν ύδρην e che come avviſa il ſuo chioſatore ſolea nclle cure de gli altri fuoi inferimi anche adoperare. δ Ασκληπιον τέτω λέγεται Ιατεύσαι όσις ήν της κορωνίδα της θυγατςός τ8 φλεγύο παιήων só coxnýma. ed Amitaone, e Melampo, il quale come ſi legge in Dioſcoride dell'elleboro ſerviſſi nel curar le fi gliuole di Preto Rè de gli Argivi. Mercun Qutisaitór @ toe's Afolty Osya tegas Hayelous év ained, cioè coll'ellebero xa Jogou weó tos ĉ beeg Tolcay, e Podalirio, e Macaone non d'altro, che d'erbe fi valfer pe' feriti dell'oſte greca, e prima della guerra Trojana Medea, come narra Diodoro coller be guarì le ferite di Giaſone, di Laerte, d’Atalanta, e di Tefpiade. Ιάσονα και Λαέρτην, έπ δε Αταλάντης, και τους Θεσπιάδας προσα γορευομένους· τούτοις μεν ουν φασίν υπο της Μηδείας εν ολίγαις ημέραις Tori písars Borzívass DeexWeu Iñvou. E Trifone appo Plutarco in nalza, e loda ſommamente gli antichi nneisy xexenuefuésmo' Qurwv ixrçıxß. Quindi provati più volte, e riprovati poi i lor medicamenti, dieder la prima bozza all'arte del medicare, como cantù Manilio: Per varios caſus artem experientia fecit Exemplo monftrante viam. Macome pochi, e ſemplici erano in prima i medicamenti, poche, e ſemplici altresì eſſer dovettero allora le regole della medicina: quindi per gli errori, ne'quali puotè age volmente incorrere la ſperiêza,abbiſognò,che cotali rego le,comechè pochiſſime,pure talvolta mutafler faccia,cam biandoſi tuttavia, è migliorandofi i primi medicamenti. Così cominciò la medicina ſu'l bel principio a far manifeſta la ſua incoſtanza. Ma non guari così ella in man delle ſemplici perſone riſtette, che tratto tratto non vi poneſſer mano anche i filoſofanti; i quali è da credere, che da prima da ſola curioſità, e diſiderio d'inveſtigar la cagione de'me? dicamenti tratti vi cifoſſero; ma pian piano vie piu avan zandoviſi,ericoncentrandoviſi,giunſero poi a tale,che bia ſimando, comeincoſtante, e pericoloſa l'antica ſemplicità del medicare, le prime fondamenta gittarono della razio nal medicina; comeche Euſtazio ne faccia Podalirio il primiero inventore, ed egli ſembri per quelche ne narri Eriſimaco appo Platone, ch’un tanto onore al ſuo padre Eſculapio ſi debba attribuire: onuéte? Quiséger G Astana's (ως φασιν διδε οι ποιητα, και εγω πείθομαι )συνέςησε την ημετέραν τέχνην. ή τεν ιατζική (ώσπερ λέγω ) πάσα δια το θεε τε του κυβερνάται.Ε pri ma aveaegli detto:έπισήμη των τε' σώματG-ερωτικών προς πλησμο νην και κένωσιν, και ο διαγιγνώσκων εν τα' τους τον καλόν τε και αίρον έρω το, 8'τός εςιν ο ιατρικώτιτς- και ο μεταβάλειν ποιών ώστε αντί το ' ετέρα έρωτG- τον έτερον κτησάσθαι: και οίς μη ένεστιν έρως δει δ'εγγενέσθαι,έπισα μενG- εμποιήσαι, και εν όντα εξελεϊν, αγαθός αν είη δημιουργός: δεί γαρ δη τα έχθισα όντα εν τωσώματι, φίλα οΐόντ είναι ποιείν, και έραν αλήλων, έξι δε έχθισα, τα εναντιώτατα ψυχρoνθερμώ,πικρον γλυκεί, ξηρονυγρό πάνω τα τοιαύα τούτοις έπιςηθείς έρωτα εμποιήσω και ομόνοιαν. Ma non per tanto non ceſſarono,mavie più moltiplicarono le ſue muitazioni e le ſue incertezze: e come varj erano, e diſcordanti quei, chela cſercitayano, così varia ella ne divenne, equaſi in inille parti diviſa. Ma pur ſi manteneva intanto con iſtrettiſſimo legam alla filoſofia la razionalıncdicina congiunta; intanto che da'più ſaggi, e prudenti ſtimatori delle coſe, come Celso avviſa, parte di quella veniva concordevolmente giudic.ee ta: eral parve che ſe ne ſteſs’ella fino all'età di Erodico, detto da alcunimalamente Prodico. Or coſtui come rio traceiar ſi puote da quel che ne narr. Platone nel Ginnasio dell’ACCADEMIA, di cui egli era Maestro, cpriino ministro, cagionevole divenuto della perſona, per lo biſogno, che gliene faceva, a coltivarla medicina con tutto l'aniino, e conogni ſtudio maggiore ſi volſe; e quella alla Ginnastica congiugnendo, e prescrivendole alquante regole da lui per via della ragione, e della sperienza daprima ritrovate, li parve,ch'an zi d'ogni altro qualche forma d’arte a darle incominciaſſe. E allora venne ella pian piano a perderdella FILOSOFIA l'an tica uſata dimeſtichezza: comechè Celſo, ed altri portino opinione eſſer ciò per opera d'Ippocrate primieramente avvenuto. E da Erodico ſembra eglipoi, ch'il reſtì da noi mentovato Ippocrate ſuo ícolare, ed Eurifonte, e altri il coſtume di trattar ſeparatamente dalla FILOSOFIA le coſe alla medicina appartenenti apprelo aveſſero. Ed avvegnachè ad alcuniciò ſembraſſe ben fatto affaire digran giovamen to alla medicina; non però di menomolto manifeſto egli ſi potrà comprendere per colui, ch'alla verità delle core voglia ben profondamente guardare, cſſergliene anziche no graviſſimo nocimento ſeguito. Imperciocchè quindi i filoſofanri niuna curanon dandoſi di por mano alla media cina, e quinci i Medici delle biſogne di quella groſamen te diviſando, per poco di razional non le rimare, altro che'l nome. E giunſe a tale sì biaſımevol coſtume, ch’in di fenderlo tuttavia i lor poſteri pertinacemente s'affaticava no: e oſtinati in su la credenzi coglievan pruova da farlo a credere alle genti. E Galieno pure osò dir d'Ippocrate, aver lui certamente gran ſenno fatto in non inframetterſi giammai di volere ſicome ſi fè poi da Platone, inveſtigar la natura, e la generazione delle qualità di que'loro quat tro primi corpi, ondegiudicano ciaſcuna coſa, ela malli... turta del mondo cſſer compoſta, e ordinata; dicendo, un cotalbriga a'filoſofanti ſpezialmente, e non già a'Medici appartenerſi; i quali ogniloro uficio han baſtantemente, compiuto,toſto che a ſapere aggiungono la ſanità de'corpi dal temperamento, o dalla meſcolanza del caldo, e del freddo, e dell'umido, e del ſecco ingenerarſi,ſenza più ol tre curioſamente ſpiarne. Ma qual di queſta giammai po trebbe alla medicina coſa più offendevole, c più dannoſa immaginarſi? Così per lungo uſo ne' Medici, che razionali appellar ſi facevano l'amor della fapienza tratto tratto mancando, più fiere aflaise più crudeli le conteſe della malandata mc dicina rappiccaronſi; perciocchè ove in prima i ſentimenti gli uni de gli altri per vaghezza ſolaméte della verità con C trila traſtar ſolevano, allora affondati tutti nelle fazioni, e oſti nati ne gli appoſtamenti, non rifinarono di piatire, e riot tare, e carminarſi l'un l'altro, e proverbiare; intanto che ne meno i primi maeſtri, e ritrovatori dell'arte ne fur ſalvi, Apollo giudicato Iddio della medicina, era allora poco a capital dalla fciocca gétese volgare torma de Medici tenu to, rimproverandoli apertamente eſſer luiciarlone, e mil lantatore; e ſovra tutto d'ingratitudine anche il cacciarono; perciocchè avendo egli dall'altrui urmanità, e corteſia law medicina apprefa,tutto ſuperbo poise gonfio ſe n'andavas come s'egli, e no altri dapprima per propria induftria ritra vata l'aveffe. Anzi perchè egli in maggior pregio,e gloria formontar ne doveſſe incominciò lo ſcaltcrito,e fagace pá cacciere,avédone appreſa l'arte da Glauco, ch'era un volpā vecchio, a cicciar carore,e far l'indovinello,aprēdo la ſtra da alle frodi, e aſtuzie da trccellar le genti. Proverbiò altri Eſculapio anch'egli Dio della medicina,perchè egli bergol foſſe, è di poca fermezza in mcdicando;e non poche be ſtemmic ancora li furono ſcagliate per la ſua ingordilimizu avarizia: imperciocchè egli in priina d'ogni altro, ficome narrano, 12 l'arte ragguardevole, e ſacrosāta della medicina in profan’uſo rivolgendo, tratto da vil guadagnos2 prezzo medicando a un'infermo Principe vendèinfinito teſoro al quante poche erbe, e radici, perchè giuſtamente eglimeri tóne poi cffer fulmimato,ed arſo da Giove;e laſcionne a'pe fteri un così ſeoncio, e così abbominevole eſemplo. E ol tre a ciò dicono,ch'egli in far l'indovino, el malioſo, ci tutt'altre giunterie, e frafche il ſuo padre Apollo digran lunga avanzaſſe, perchè poi funne ſovraſtante a gli augurj, e all'arte divinatoria per ciaſcun creduto. E côtro di lui di vantaggio aggiungono aver lui con mille modi, e artifici fconvenevoli dato a divedere altrui, ficome fè ſuo pa dre, che anche i cadaveri ſapeſſe egli in bella vita riporre; e che in sì fatta gaiſa il titolo di divino fecleratamento d'accattar fi proccuraffe. Ma per recarvi le molte parole in una, e'conchiudono alla perfine, ch'Apollo poco,onul la Pindaro, Del Sig.Lionardodi Capoa: 19 la di medicina s'intendeſſe: e molto meno ne ſapeſſe il ſuo figliuolo Eſculapio; perciocchè sfidandoſi colui di poter nell'arte propia il figliuot compiutamente ammaeſtrares, fotto la diſciplina di Chirone fegliele lungamente impren dere. 13 E coſtui dopo cotanto ludio, e tempo, che logo rovvi, tanto ne venne in ſuſo, che per guarire un menomo dolor di denti fu a riſchio di perdervi il ſuo buon nome; e le ftanco alla perfine con una preſta diliberazione per torli d'addoſſo una cotal ſeccaggine a viva forza no'l cavava, fuora al malato chi sà che gliene farebbe ſeguito? E'l ſuo gran Maestro Chirone non che altri, ma ſe medeſimo cu far non valſe, allor che a caſo da Ercole ferito preſe per partito di far larga rinuncia della vita, e dell'immortalità 2 Prometeo, e così uſcir valoroſamente fuor d'ogni impac cio. 13 E ben da ciò fi può apertamente comprendere, re vere foſſero quelle tanto maraviglioſo, e tanto impareg giabili pruove, che di lor falfamente la menzoniera anti chità và millantando. Così per avventura gli aftioſi con tradittori di que'primi maeſtri favellano: c Io ancora a vo lerne dire al preſente ciò, che me ne paia, non mi ſembra gran fatto da porre in dubbio eſfer que’ primi ritrovatori della medicina appo' Greci poco in quella cercamente pro firtati; ſe nc'ſecoli appreſſo ancora, quando colletà in cia lcuno ſtudio, carte avanzavaſi ilmondo, meno ſaviamente coloro diviſandone, moſtraron'altresì d'aſſai poco ſaperne. E quantunque eglino in tanto buon nome, e pregio per tutto ne montaſſero; non però di meno non dobbiamo noi dalla noſtra credenza rimanerci; giudicando nelle prime bozze dell'arti al ſemplice, e creſcente mondo eſſer ſem brati maraviglioſi, e divini ritrovati le prime opere della medicina. E fu ciò più che a tutt'altri inventori, agevol molto a’Medici; perciocchè ogni lor grave fallimento, ed errore in medicando, eſſendo, come diſle colui, naſcoſto in fieme coʻgli ucciſi da loro forterra; e allo incontro appa rendo folaméte di quà le loro comechè menomiſſime pruo ve ne'vivi da loro riſanati, ſenza troppa invidia poteronfi C 2 age 13 Apollodoro. agevolmente acquiſtar loda, e pregio immortale. Senzaa chè nelle più ribalde, e cattive perſone certamente ciò avviene; le quali ſicome aſute, e malizioſe ſi van procac ciando per tutto favorevoli, e parteggianti; e dalla vera fapienzalontane non laſciano qualunque froda, 0 giunte ria, onde preſſo la minuta bruzzaglia delpopolo diventi no ragguardevoli. Perchè è certamente da giudicare eſſere ftati coſtoro, di cui cotanto buccinavaſi, aſtutiſſimi giunta tori, e ramanzieri. Nè Io ho in animo di recarvene qui molti eſempli,chea gran dovizia potrei ritrarre dalle anti che, e dalle moderne memorie; ſolamente non laſcerò di rapportarc,effer'antica fama,che Acrone di GIRGENTI avesse una volta damortifera peſtilenza liberata la Città d'Atene colle grandi luminarie, e fuochi, cheper entro vi fè accendere. Ma ſe ciò da fuoco avvenir poſſa, non che da altro,da gli occhi noſtri propjcertamente ce ne habbiamo potuto ricredere.Narrali il medeſimo aver fatto a’ſuoi tépi İppocrate. E Toſſare ancora dopo morte acquiſtonne e Itatue, e ſacrifici, ed altri onori divini; perciocchè, come narra LUCIANO, in tempo che Atene era più che mai dalla fogadella peſtilenza malmenatas e tutto che dipopolata, e ſgombra, diceſi eſſer apparſo colui ad Architele moglie d'un cotal huomo dell'Areopago,e averle ſicuramente det to, che ſe gli Atenicli fpargeſſero le ſtrade tutte divino, di preſente farebbcſi attutata la peltilenza; e ciò facendo co loro, dilubito, conforme colui loro promeſſo aveva,ne fur del tutto rimofti, δπι της ελάδα κατά τον λοιμον την μέγαν έδοξεν και Αρχιτέλος γυνή Αρεοπαγίτε ανδρος επιφάνια τώ λοιμώ έχόμενοι, ή τας σενωπες δίνω παλά ράνωσι τέτε συχνάκις γενόμενον (8 ' γαρ ημίλη σαν Αθηναίοι οι ακούσαντες ) έπαυσε μηκέτι λοιμώξειν αυτούς. Or qui io amereil'uſato ſuo avvedimento in LUCIANO, il quale ſcioccamente ſe'l crede, e va fantaſticando, ciò eſſer potu to avvenire da vapori del vino, i quali trameſtati all'aria Paveſſero purgata, e dilibera da gli aliti peſtilenzioſi, che l'infcrtavano.Madominc ſe coteſte peſtilenze non manca rono, fe no ſe dopo lungo ſterminio,c mortalità delle genti, allorchc ſtanco rimafeli il male; perchè dovrem noi dire eller BIBLIOTICA NA effer ciò avvenuto per opera de’vani, e poco giovevoli ar gomenti, e non più toſto per isfogamento, c periſtracce del malore? Cosi certamento è da giudicare, che gliaſtuti, e molto ſcalteriti giuntatori conofcendo il male effer già nel calo, e nel menomamento,per procacciarſi loda, e pre gio immmortale vezzatamente v'aveſſero poſto conſiglio; acciocchè poi l'opera delſalvamento foſſe più coſto a loro, che alla natura del male attribuita. Artificio,che tutto dì ſi ſperimenta ne'Medici ancora de’noſtri tempi. Ma in qual to ad Eſculapio ben può egli rimanerſene có quella gloria, che per eſſer egliſtato il primo Maeſtro del mondo in civar déti,glivien ragionevolméteattribuita dal romano Orato re, quádo che diceÆfculapius: primus dentis evulfionem in venit:concioffiecoſachè le cure per lui fatte sì rare,e si ma raviglioſe elle ci vengano in tante, e si diverſe guiſe nar rate, ch'elle come avvisò ſaggiamente Seſto Empirico ſon per ciò da dire del tutto favoloſe, wwóJeon gas éautois yolañ λαμβάνοντες οι ιπεικοί ή ορχηγών ημών και επιςήμης Ασκληπιον κεκε » egυνώ.θα λέγεσιν εκ νεκέμνοι τω ψύσματι, ενώ και ποικίλως αυτό μεG anárixa. Narra Steficoro effer Eſculapio alla ſua maggior gloria formontato per aver riſuſcitati co'fuoj inedicamenti alquanti di coloro ch'in Tebe crano trapaſſati; ma Polian to dice ellerli Eſculapio refo ragguardevole per eſsere ſta ti di ſua mano riſanati alquanti per iſdegno di Giunone impazzati. E Parraſio racconta eſser fui ſopra tutto ſtato commendato peraver da morte ricolto Tindaro. E Maſta filo vuole, chcil ſuo maggior pregio foſſe ſtato ľaver ri congiunto, e riſuſcitato Ippolito ſquarciato in cento brini da fpaurati corſieri.Ma Filarco rapporta tutto il ſuo buon nome, e onore dalla viſta ritornata a figliaoli di Fineo aver avuto dirivo. E Teleffarco finalmentcrafferma efser lui ag giunto infra ' Dij,perciocchè tentato aveva di riſuſcitar da morte Driσne. ΣτησίχορG» μεν εν Εριφύλη ειπων, όπ πινας των επι Θήβαις πεσόντων και ανισά. ΠολύανθG-δε ο Κυρηναίς, εν τω πρί των Ασκληπιαδών γενέσεως. ότι τάς Προύσε θυγατέρας κατα χόλον Ηράς εμ μανάς γενομένας ιάσατο.Παρράσιο- δε, δια το νεκρόν Τυνδάρεω ανα · τηςαι.Σλάφυλφ δε εν τω περί Αρκάδων, όπ Ιππόλνιου έτράπευσε φέ EMANUEL BLI UBIO EMANUE BOMA govca 22 Ragionamento Primo 1 γονία εκ Τροιζήνα- και καλα τις παραδεδομένας κατ' αυ78 ° έν τοϊς τραγωδε μένος φήμες. ΦύλαρχG- δε, εν τη εννάτη για το της Φινέως υους των φλωθένας απκαςήσαι χαριζόμενον αυτών τη μηρή Κλεοπάτρα τη Ερεχθέως. Τελέσαρχος δε και εν τω Αργολικώ, και ότι Ωρίωνα επεβαλέτο avasãows, Ma quali artificj e' non tcntò per eſser tenuto di ligente, e ſcorto nel medicare ancora che ſchifi, e abbomi nevoli fuſſero? Egli volle (liçome narra Cclio Rodigino, c venne in ciò Eſculapio da Ippocrate imitato sallaggiar fin le feccie degl'inferni, coinc ſe ciò necellario ancor foſse a rintraciar le cagioni delle malattie, perchè poi da Ariſtos fane nel Pluto proverbioſamente oxaloDeéy @ ne fu chiama to, e Noipiù acconciamente potremmo à lui dire col no ftro Azzio Sincero. Efe idem poteris Merdicus, &Medicus; Ma ſopra tutto giovaron lommámente ad E/culapio gl’in dovinelli, le malie,gli oracoli, i ſacrificj, gli agurj, e altre,e altre molte ſorti di ſuperſtizioni, e d'altre fraſche,e giunte rie, ch'egliuſava; ficcando carote alla ſciocca gentane, c tenendo in sù la gruccia con ſuoi cicalamenti gl'infermi. Cola la quale ſi coſtumava allora da chiunque voleva con qualche lode eſſercitar la medicina. E per tacer di Medea, c d'altri molti, Melampo con sì fatti artificj, e fanfaluche, oltre alla fama grande, che gliene ſeguì, di povero conta dino, ch'egli era, inſieme con ſuo fratello divennero ric chiſſimi Principi, e ſovrani Signori delle due parti delRe gnodiPreto, e mariti delle figliuole di lui da sè riſanaten, le quali chiamavanſi per quel che ne dica Apollodoro, Li ſippe, e lfianaſſa; ma ſecondo Eliano Elea, e Celene; e che o per lo troppo uſo del vino, o per opera della Reina di Cipri impazzare andavan paſcendo brancoloni, e muge ghiando coinc vacche per le valli della Morea, e d'altri paeſi intieme con lor ſorella Ifinoc, la qual prima di eſser medicata ſe ne morì: delle quali narra VIRGILIO nella Bucolica. “Pretides impleruntfalfis mugitibus agros; At non tamturpes pecudum tamen ulla fecuta eft Concubitus; quamvis collo timuiffe: aratrum, Et fæpè in levi quæfiffet cornuafronte.” E che per opera di Melampo poi poſeſi conſiglio al lor fu rore,e furono ricoverate a ſanità coll'elleboro nero, come vuol Dioscoride; avvegnachè Galien giudichi, e con più falda ragione,eſsere ſtatolelleboro bianco,che ciò opera to aveſse. Il qualmedicamento apparò in prima Melampo dalle pecore,come vuol Teofraſto, o più toſto dalle capre, ch'e'guardava,come scrive PLINIO; le qualicon paſcer l'el leboro ſi purgavano. Comechè alcuni portinoopinione eſser da Melampo l'impazzate donzelle guarite non già coll’elleboro, ma con latte di capre paſciute in prima di quello; e altripur vogliano eſser non già quel Melampo caprajo, che loro il ſenno ricoverato aveſse; ma un'altro Melampo detto l'indovino: E Polianto ciò ad Eſculapio attribuiſce, ſicome narra Seſto Empirico, ed Eudoilo appo Stefano antichiſſimo Geografo: Ma che che ſia di ciò, non è da dubitare, che Melampo dopo lunghe cerimo nie, e facrifici,e ſuperſtizioni volle, che imprima le impaz zate Donzelle fi lavaſſero in quella famoſa fonte d'Arca dia chiamata Clitorio; perciocchè in memoria di ciò vi ſi leggevano in un marmo que' belliſſimiverfi rapportati da Iſogono antichiſſimo Scrittore dell'acque. Αγρότα συν ποίμνεις το μεσημβρινόν ήν σε βαρύνη Δύψος αν εσχατιας κλείτορG- ερχόμενον, Της μέν από κρήνης αρύσαι πόμα, και παρα νύμφαις Υδριάσι σήσον παν το σόν αιπόλιον. Αλα συ μήτ' επί λετρα Gάλης κρόα μη σε και αύρη Πημένη θερμής εντός εάνια μέθης. Φεύγε δ' εμην πηγήν μισάμπελον ενθου μελάμπες ΛεσαμενΘ- λύασης ποιτίδας αργαλίης Távla xabaqueor fxoļev daóx gupov súr’ ár át' deyes συρεα τρηχείης ήλυθεν αρχαδίης.. Perchè poi ſurfe conteſa infra gli Scrittori di giudicar di verſamente quella cura: e altri dicono eſſere ftato il ſacri ficio ſolamente, e'l bagno: altri l'elleboro; ma certamenre per quel che per noiavviſar fi poffa, egli ſi pare, ch'amena due i medicamenti vi fuffer da Melampo adoperati; perchè Pittagora così dice appreffo Ovidio:. Clitorio quicumquefitim de fontelevarit; Vina fugit: gaudetquemerisabſtemius undis, Seavis eft in aqua calido contraria vine: Sive, quod indigena memorant, Amithaone natus, Prætidas attonitas poftquam per carmen, &herbas Eripuit furijs;purgamina mentis in illas Mifit aquas; odiumquemeri permanfitin undis. Al qual coſtuine avendo per avventura riguardo l'Omero Ferrareſe volleche Aſtolfo faceſſe lavar più volte in mare il ſuo forſennato Orlando pria che gli da se bere il licores avuto in Ciclo per guarirlo: 1.0 fà lavare Aſtolfo ſette volte, E ſette volte ſott'acqua l'attuffa Si che dal viſo, e da le membra folte Lava la brutta ruggine, e la muffa. Ma non ſi contentava già disì fatti artificj ſoli Melampo, ma a render più ragguardevoli,e famoſe le ſue cure ſi van tava anche come ſcorgerſi puote in Sinelio 14 di ſapere in terpetrare i ſogni, e ſi valca oltre a ciò degli augurj, e da va ad intendere a tutti che gli aveſſe Apollo inſegnata l'ar te dell'indovinare, e che avendoſi egli allevate in caſa al quáte bilce, quelle poi dormendoſi egli nel più alto filézio della notte gli haveſſero leccare l'orecchie, ond'egli ſubita mére p paura deſtatoſi havelle inteſo preſlo all'alba chiara mente i linguaggi tutti degli uccelli, os, parlando di Melāpo dice Apollodoro, επί των χωρίων διατελών,ε'σης πτό τε οικήσεως αυτού δρυός,έν και φωλεος όφεων υπήρχεν αποκλεινανίων των θεραπόντων τους όφας,τα μη ερπετα ξύλα συμφορήσαςέκαυσε τους και τ όφεων νερατους έθρε. ψενοι δε γενόμμoι τέλιου σειράντες αυτώ κοιμωμδύω τώμων εξ εκατέρω: ma's exca's Txis gaca sesi exclougor. o de avasara moi gerópfu were δεης των υπερπτπρίων ορνέων τις φωνας συνία. και παρ' εκείνων μανθεί vwv, niuna arte dunque gianmaiebbe, per quanto lo mi creda, tanto commercio colle menzogne, e colle frodi, e colle ſuperſtizioni, quanto il meſtier della medicina. La qual cola così manifeſta ſi pare a chiunque ſia di quella mezzanamente inteſo, che non abbiſogna al preſente, ch'io 14 lib.3. di vantaggio mi v'affacichi. Non però di meno non laſce? rò d'accennare le ſtrane, e ridevoli cerimonie, ch'adopera vano gli antichi in raccorre le piáte, acciocchè poi più ma raviglioſi, eragguardevoli dalla ſcimunita gente giudicati foſſero i lor medicamenti. Non poteaſi la Peonia coglier di giorno; perciocchè dubitavano non v'aveſſero a perder di preſente la viſta,ſe da qualche ghiandaja vi foſsero in colti. Colui, che cavar voleva la Mandragola, conveniva, che ben ſi guardaſse dal verto contrario: e prima dicavar la formavale con un coltello incorno tre cerchi: e in divel lendola poi tener ſi voleva la faccia volta verſo Occiden te: e mentre divellcvaſi faceva di meitieri, ch’un'altro le andaſse intorno faltando, e ſghignazzando, e dicendo non foquali parole ſconce, e laſcive, come racconta Teofraſto con quette parole. Περιγράφειν δε και τον μανδραγόρgν εις τάς ξίφα: τέμνειν δε πεός εσπέραν βλέπονται τον δε έτερον κύκλω περιορ - χεΐσθαι, και λέγειν ώς πλείσα πτρια φροδισίων τέτο δεόμοιον έoικε των περί τξ κυμίνε λεγομλύω κατι την βλασφημίαν όταν σπείρεσ. Le Quali poida PLINIO nel ſuo volgar cavate non fur così intiera mente rapportate. Cavent, dice egli, effofuri contrariun ventum, & tribus circulis ante gladio circumfcribunt:poftea fodiunt ad Occaſum ſpectantes. Mach afsai maggiori cerimonie cavavaſi preſso gli anti chi la Baara, la qual vogliono aicuni, che altro certamente non foſse, che la Mandragola medeſima. Eglino in prima le gittavan ſopra del ſangue metruo, o dell'urina delles donne, quindi cavandole intorno alla barba la terra liga vanla cautamente dietro un cane; il qual poi chiamato dal padrone in correndo la ſtrappava di terra, e di preſente ne moriya. Cosìda Giuſeppe Ebreo vien narrato a dágay γος δε και κατά την άρκτου περιεχέσης την πόλιν βαάρας ονομάζεται τόπος φία σε ρίζαν ομωνύμως λεγομένην αυτώ αύτη φλογί μεν την χροιαν έoικε, περί δε τοις εσπέρας σέλας απασρέπτεσα τους δε επιεσε και βε λομένοις λαβείν αυτήν εκ έσιν ευχείρώτος αλ' υποφεύγει και επόπρον ί' Edi quell'altro delmedeſimo Ariſtotile, che il tralaſciar da parte i ſenfi per laſciarne cie camente alla ragione guidare, d'aſſai debolezza d'ingegno ar gomento ſia? O forſe non fu egli del medelimo ſentimento anche Galieno? ecco le ſue parole: coloro tutti da giudicar fono, anzi forſennati, che ſavj, i qaali potendo le coſe pie namente comprendere, ed apparar da' ſenſi, voglion pures che da apprender fieno dalle ſoledimoſtrazioni. Ealtrove il medeſimo autore: è dottrina da tiranno, e piena di confu fioni, e di contefe quella di coloro, che ſolamente agli altrui detti s'appoggiano. E di grazia leggan pure una volta il me deſimo fentiinento nel loro Avicenna; e ſe non altro, va dano, e sì l'apparino dal Principe de' Teologi, Giovanni Scoto, ove dice, che tutti coloro, che'a' ſenſinon voglio no dar fede, degni giuſtamente ſieno delle fiamme. E ſappiano di vantaggio, che chiunque abbia qualche ſcintilluz za di ragione, diqualunquc Serta egli ſi ſia, debba pure con quel gran lume della Galienica, e dell'Ippocritica medicina Niccolò Leoniceno dire: non debemus profecto de Situere ita nosmet ipfos, ut aliorumfemper veſtigia fequentes, nihil ita per nosmet ipfos decernamus. Hoc enim verè effet alienis oculis videre, alienis auribus audire, alienis naribus odorare, aliena ſapere intelligentia: ac nibil nos aliud quam lapides effe ftatuere, fi omnia alienisaffertionibus committe remus, nihilque à nobis ipfis diſcutiendum putaremus. E queſta pertinacia medeſima un'altro parzial di Galieno oltremodo tacciādo,prende a narrare un piacevoliſ fimo avvenimento; cioè, che un pubblico lettore uſato lun, go tempo, ed invecchiato in ſu'libri d’ARISTOTELE, abbatté. doſi per avventura un giorno in una notomia, e veggendo manifeſtamente la vena cava dalle innumerabili fila, ora dici, chę ſon nel fegato la ſua originç trarre, tutto ingom, bro, e pien di maraviglia, Come chi mai avf4 incredibil vide, confeſsò, che nel vero per quel, che gliene moſtraffero i fenfi la vena cava diramar dovelle dal fegato; ma non per ciò egli credédo a' fenfi contraddir doveffe al ſuo maeſtro Ariſtotile, il quale tutte le vene nell'huomo aver principio dal cuore, coitantemente afferma; perocchè,diceva egli, più agevole allai eſſere, i noſtri ſenſi talvolta ingannarſi, che il grande, e fourano ARISTOTELE in errore alcuno giammai eſſere caduto. E più avanti cbbe di male la ſua oſtinazio ne,chę vegnendo per alcun diinoftro in brigata d'huomi ni letterari,eſſere intorno al cuore alquanta lugna, la qua le a ficvol lumicino di candela liquefacevali, con tutto ciò per difender oſtinatamente il ſuo ARISTOTELE, negante law medeſima coſa, osù pur dire, che quel dalui veduto non era miga graſcio. Maaſai per certo piacevole egli ſi è ciò, che a tal pro poſito anche narra il chiariſlimo Redi, che un ' profondo 1 1??30, Santoro.  mac ro in iſcriteura peripatetica, perchè non veniſſe egli coſtretto a confeſſar per vere le ſtelle, ed altre nuove core dal gran Galilei in Cielo ravviſato, ricusò l'ajuto dell'oc chiale; e ch’un altro più teſtereccio non volle mai degnar di vedere aprir da lui una di quelle picciole rane, che per le polveroſe ſtrade in tempo diſtato ſpicciano, per non eller altresì coſtretto a confeſſare, ch'elleno non s'ingene rino nello ſtante dell'incorporamento della gocciola con 1.2 polvere. Maove Io ferbero di narrare i piati, e le conteſe, che nella medicina del nobiliſſimo medico PROSPERO MARZIANO IN ROMA s'accrebbero? il quale di non volgare dot trina, e di faggio avvedimento fornito, quanto avea dita lento, ed'induſtria, tutto glorioſamente in iſpicgare la doc trina d'Ippocrate impiegando, diè manifeſtamente a vede re, che allai ſovente Galieno,o non aveſſe compreſo,o non avelle comprender voluto il vero ſentimento di quelgran vecchio. E ciò anche Pier Castelli narrando dice, che Ga lieno così parimente foſseſi adoperato in iſpicgar del divi no Platone i dottilimi ſentimenti: Galenus, vel non intel. kexit, vel intelligere noluit Hippocratem, & Platonem, ut ſua extarent. Quindida'rimproveri, e da’mordimenti dilui difende il laviffimo vecchio, ſpezialmente intorno alle c.2 gioni delle febbri, coſtantemente affermando, non ſola mente Ippocrate non avere a ' febbricitanti giammai pre ſcritto il lalaro, ſe non ſe ove caſo di grande infiammagio ne d'entro richieſto l'avelse: il che già prima di lui pienamente CARDANO avviſato avea; anzi per ſentimé to d'Ippocrate vudl, che la febbre una di quelle cagioni ſia, che il ſegrare affatto abborriſcono. E queſte, ed altre buone dottrine il valent:huomo di MARZIANO faggiamente manifcftando, ravvivò con eſle la caduta, c quali eftinta ferta del ſuo caro Ippocrate. Ma non ſolo come fin ora abbia dimenticato una dona na, la qual comechè tale, pur merita d'eſsere in iſchiera de' più nobili letterati annoverata. Io dico la Signoras D. Oliva Sabuco: Coſtei gl'ingegnifemminili, egli uſi Tutti Sprezzo fin da l'etade acerba: A’ lavori d'Aracne, a l'ago, a' fufi Inchinar non degnò la manſuperba: Ed eſsendo ella di valore, c d'ingegno più che maſchile abbondevolmente fornita, animoſamente fi iniſe col cere vello, e con l'animo ad inveſtigar le coſe naturali; e più ol tre avanzandoſi, ed in biſogne di maggior utile, e prò la mente rivolgendo, acciocchè le Spagne, e'l mondo tutto qualche concio ne traeſsero, ad un nuovo, ed ingegnoſif fimo diviſo dimedicina diè maraviglioſamente principio. Ella così all’Auguſtiſſimo Monarca Filippo II d'e terna,e glorioſa memoria in una lettera ſcrivédo,iſuoi pre gi manifeſta. Reſulta muy clara y evidenteměte, como reſul ta la luz del Sol, eſtar errada la medicina antigua que ſe lee yeſtudia en ſus fundamentos principales, por no aver enten dido ni alcançado los Filofofos antiguos y Medicos, ſu natu raleza propria, dondeſe funday tiene ſu origen la Medicina. Delo qual no ſolamente losſabios y Chriſtianos Medicospue den ſer juezes, pero aun tambien los de alto juyzio de otras facultades, y qualquier hombre abil yde buen juyzio. E quin di poco appreffo: y el que no la entendiere ni cumprehendie re, dexela para los orros y para los venideros, o crea a law eſperiencia, y no a ella, pues mi pericion es juſta, queſeprue ve efta miſecta un año,pueshan provadola medicina de Hippocrates y Galeno dos mil años, y enella han hallado tan poco effecto y fines tan inciertos, comoſe vee claro cada dia, y so vido enelgran catarrotavardete, viruelas, y en peftes paf Sadas, y otras muchas enfermedades donde no tiene effetto alguno, pues de mil no viven tres todo el curso de la vida basta la muerte natural: y todos los demas mueren muerte violenta de enfermedad, fin aprovechar nada su medicina antigua. E nel dialogo della vera medicina: No me podreys negar, señor Doctor, que la medicina escrita que ufays eſta incierta, varia y falta y que ju fin, y efeto fale incierto, falfu y dudoſo, como vemos claramente ellasde m34s artes iener füis 1 1 fines y efetosciertos, y verdaderos fin variacion, ni engažo, comola Aritmetica, Geometria, Musica, Astrologia, y las de mas, que a quel fin, y bien que prometen, lo cumplen, y fale cierto ſiempre y verdadero. Todo lo qualbien vers que falta en la medicina,pues eſta tanengañoſa, incierta; yva ria:luego claro eſta que eſta arte tiene algunafalta en las raga zes, y fundamentos,pues no echa el fruto, conforme a lo quc promete, que muchas vezes esperamos lindas māçanas echa eſcaramujos agallas y niſpolas:lo qual al buen juyzio pondra en duda, y dira por ventura, Eſte aunquepaſtor trae, razon, que los antiguos tambien fucron ombres como eſte. E più ſotto ſeguendoil medeſimo ſentimento ſoggiunge: No nze podeys negar,Señor Doctor, la incoſtancia, y quantas ve zes fuemudada la medicina, y que eſtuvo vedadamucho tič po en Roma, y que muchos ſabios mo le han dado credito, ni ſe han querido curar con medico por las cauſas que tengo dichas, que ſon degran eficacia. Ylos Sarracenos, y los del Reyno de la China, no admiten inedicos, j' ay mas gente que en Eſpaña. Y eſosmiſmos autores antiguos, graves le ponen gran dificultad, diziendo, que la vida esbreve, y el arte es largo, el juyzio difficultoſo, la eſperiencia engañoſa, & c. I dixo Hippocrates: que perfecta yacabada certinidad de la medicina no ſe alcanca, y no me podeys negar, Señor Do Etor que fueron hombres, cimo noſotros: y que ſus dichos, no forçaron a la naturaleza del hombre, a que ella fueffe lo quc ellos dezian, que ella ſe quedo en lo queera, y ſu dicho no la mudo, y pudieron errar como hombres,pues tantas vezes fue frrada y mudada, como lo podeys veren Plinio, donde dize que ninguna de las artes fuemasincuſtante,y mudable, que la medicina: y que cada dia ſe mude. Più oltre crapaffala signora D. Oliva, i cui fourani pre gi nou è mio diviſo al preſente raccorre, ed annoverare, che troppo a lungo ne verrei. E baſterammi accennar ſo lamente molte coſe averſi alcuni de'più rinomati autori in veſtite, inillantando falſamente, ſe eſſere ſtati i primi a mani feſtarle, come intorno all'ordimento, che tien la natura in compartire alle parti de'corpi animati il nutriinento, che H cla 58 ellämolto avanti ravvitate appieno, e glorioſamente già paleſate ne'luoi libri l'avea. Surſe dopo coſtei nella noſtra Italia un novello Siſtema di razional medicina, e fu gentil trovato diquel celebre filoſofante, e maeſtro in divinità CAMPANELLA. Non miſe egli già le mani all' opere della medicina: ma pure ſpiar volle di quella i più ripoſti arcani; e comeage vol fu al ſuo pellegrino intendimento lo ſceverar la ſua fi loſofia dalla volgare, che nelle ſcuole comunemente inſe gnavafi, così potè ancheordinar con belle dottrine un'al tro trovato dirazional medicina, e quindi ancor ne ſegui rono molti, e varj rimeſcolamenti, e conteſe nell'arte. Ma i ſegni, e le coſtoro mete, o quanto trapaſsò gene roſo a’giorni noſtri il grand'Ermete della balla Germania, Elmonte, che con più alti apparecchi, e colla mente di più nobili arredi fornitas tentò Ia grand'im preſa, onde vie più s'accrebboro i contraſti, e le miſchie. Coſtui a ſingolar acutezza d'ingegno, cãdidezza accoppia do di non volgari coſtumi, rivolto curioſamente alla Spa girica, intorno allo ſcioglimento de’naturali corpi tutto dieſſi, e ne a fatica,ne a ſpeſe giammai perdonando, tant'ol. tre avanzoſi, che laſciandoli dietro l'orme glorioſe dal Pa racelſo ſegnate s nórimai ſi riſtette', fino a tanto, che ull maraviglioſo, e non più udito liſtema di razional medicina egli giunſe felicemente a formare. E a qucſta medeſima guiſa veduto abbiamo a ' di noſtri per lo ſentiero dell'immortalità, e della gloria avviarſi a gran paſſi co'l ſuo novello ſiſtema di razional medicina il celebre Tomaſſo Vilfis; ne di leggieripuò crederſi, qua to egli con ogni ſtudio maggiore proccuraffe d'ammannar tutto ciò, ch'avvisò dovergli farluogo a sì nobil lavoro: e con qnale sforzo, con qnai ſudori, con quali vigilie egli s'adoperaſe per condurlo allo intero ſuo compimento. Ma non vi durarono minor fatica", ne minore induſtria adope rarono per fomigliante impreſa, e’l Silvio, celebre per lo innumerabile drappellode Fuoi ſeguacije'l Gliffonio,e l'El vezio, e'l Meſfonieri; e'l Travaginis, ed altri illuſtri l'ette rati rati dell'età noftra, a molti de'quali, che che ſtata ne forte la cagione, non è venuto fatto di poter mettere fuorii loro concetti. Taccio al preſente di que'valent' huomini, che tuttavia ſudano all'opera, e colla ſcorta de’moderni trova ti della notomia, e della moderna filoſofia naturale, ſpera no, quando che ſia divenire a capo de’lor generoſi diſegna menti dietro a yarj ſiſtemi di razional medicina. E taccio altresì di coloro, che ſottilmente van tutto di diviſando (i ſtemi di ſperimentale, e di metodica medicina, ma dall'an tica gran fatto varia, ediſcordante, Ma o quantoperciò più le têzoni de Medicine ſiano acceſe con porre ſottoſo pra, ed avviluppar la medicina tutta, non fa meſtierial preſente narrare, ſe tutto dì co’propj occhj apertamente il veggiamo. Perchè ſe a'dì noftri l'eloquentiſſimo PLINIO vi vo fosse, griderebbe dicerto più che mai con quelle ſue adirate parole: mutatur ars quotidie toties intarpollis, & in geniorum flatu impellimur, non già di que’della Grecia ora Icioperata, e incodardita ſotto'l giogo della barbarie; ma di que'celebratiſſimi dell'Inghilterra, e d'altre Provincie, da lui ne’tempi ſuoi barbare giudicate, Malo ormai giunto mi veggioal più copioſo ſtormo de medici,in tante ſchiere, e tazioni partita, e quaſi ſtraccia ta veggendo la medicina, che ormai per ingegno umanono fi può più avanti partire. F ſon coſtoro que'cutti,che nondi Greco, o DI LATINO, o di Barbaro, o d'altro ſtrano ſcrittone, modernoso anticoch’e'ſiaſi,ſeguirvogliono la peſta,ed a gli altrui ſentimenti ſempre ligarſi; ma liberi affatto, e ſciolti gir con iſpedito voloi valtiſſimi Regni della natura fcorré do; quindi cozzando contro i più duri, cd oftinati malori con quell'armi, ch'a coſto delle propie fatiche s'acquiſta rono,nonpreſe, o tolte da gli arſenali altrui, ed alla cic ca adoperate, fanno con glorioſe impreſe render eterni, e illuſtri i lor nomi. Così nulla altrui credendo, ſalvo ſelor non venga da propj ſenſi, o da certiſſima ſperienza appro vato, tutcoyogliono ſpiare, a tutto penetrare, e tutto ſot tilmente con occhio curioſo eſaminare;ne per iſmaltire hā no altre ragioni, che quelle ſolamente,ch'all'avvedutezza H 2 del 80 Ragionamento Primo delloro intendimento confannoſi. Ed eſſendo a tutte ſet te contrari, e a niun de'ſertegiantiaffatto nimici, giurano che in queſta guiſa,più che altri oftinataméte fi faccia, l'or me d'Ippocrate, e di Galieno vengano ſopratutto a ſegui tare. E perciocchèlo giudico, che aſſai monti al noſtro intendimento il vedere, ſe una tal libertà, debba loro eſa fere permeſfa: priegovi o Signori, poichè a baſtanza par mi d'aver ragionato, nella vegnenteaſsemblea ad udir loro ragioni. RA EBBO per ſoddisfare all'obbligazion del la mia promeſsa diviſarvi oggi,o Signori, le ragioni di quei filoſofanti, che alla li bertà de'loro ingegni alcun freno di fer vitù generoſamente ſdegnando, voglion gir liberi a lor talento fpaziando pe' vaſti, e ſiniſurati campi della Natura. Ma conciosſiecofachè el le fien molte, e molte, e tutte di gran lieva,io non ſo qual prima mi debba dire, quafdopo; ſenzachè a me non fu conceſſa in ſorte larga vena diben parfare, perchè con purgato ſtile ſpianandole (e quale alla lor dignità per av ventura ſi converrebbe) la for ſaldezza, e valore veniffer per voi più chiaramente compreſi. Ma forſe hanno elle an cora ciòdi vantaggio, che rôzzamente accennatc poffano, e pregio, e commendazione non ordinaria da voi merite volmente ricevere. E per venirne omaia capo, parmi che alcuno autor di quelle a queſta guiſa d'eſſo loro parlamen, tando potrebbe imprenderne il filo. Egli non alzò certamente natura con ſingolar vantaggio fovra tutt'altri animali all'huomo inverlo il Ciclo la fronte; di sì 68 Ragionamento Secondo di sì generoſi, e ſublimi, e liberi ſpiriti abbondantemente fregiandolo, perchè egli poi qual paluſtre mergo, raden do lempre maiil ſuolo, non avelle ardimento di battere generoſamente in alto le penne, per potere da ſe medeſi mo ſpiare, e inveſtigare quelle si varie, e sì ſtrane apparen ze, onde bello ſi rende, ed ammirabile l’Vniverlo; ma acciocchè largamente per tutto ſpaziandoli, il tutto e'cer chi, il tutto e'ravviſi,il tutto e' pienamente comprenda, non già nelle copie incerte, e ragionevolmente d'error ſo ſpette, manel primo, c vero loro originale. Così quell' Aquila de Greci filosofanti glorioſamente adoperando, con felice., e ſpeditiffimo volo Proceſſit longè flammantia mænia mundi, Atque omneimmenfum peragravit mente,animoque. E pure ad onta d'una sì provveduta madre, v'hà chi a dáni, ed a rovina diſe, e de gli altri Segnò le mete, e'n troppo brevi chioſtri L'ardir riſtrinfe de l'ingegno umano, facendo sì, che i troppo creduli, e ſciocchi poſteri ad altro non badaffero, ch'a leggere, c rileggere, e tutto dì di chio ſe, e di coinenti gli arzigogolise le fanfaiuche d'un mondo tutto fantaſtico caricare. Quicfto non volle già,che faceſſe in modo alcuno il giovinetto Lidia, quel gran maeſtro della greca filoſofia Antiltene: quando di nuovo libro, di nuoyo ſtile, ditavolette nuove a doverſi fornir gl’impoſe ', fe filoſofar con ello lui voleſſe; e ciò, perchè egli compré deſfe, che le coſe,che per lui, da regiſtrar foſfero, eſfer quelle non doveano, che già da altrui ſcritte in prima, diviſate ſi erano.. Eciò anche molto innanzi ad Antiſtene inſegnò quell'antichiſſimo Savio, che primadi tutt'altri, Filoſofia chiamò con nome degno, quando a ' luoiſcolari diceva, non doverſi da loro nella, popolare ſtradaconfuſamente co'l volgo ignorante cammi nare. Equeſta libertà nelle ſcienze ciaſcun'altro de più ce lebri, e rinominaci filoſofi comunemente ancor richieſe: c da più illufri medici, e per valor d'ingegno, e per opera di mano eccel'éti faclia Grecia futta oltre modo abbracciata. La cui altezza d'animo ſaggiamente imitar volle il famoſiſſimo medico, e filoſofo Claudio Galieno, ficome in più luoghi ne da pienamente teſtimoniāza nelle ſue ope re, o quand'egli oltremodo uccella, e berteggia i tenacif ſimi ſeguaci d'Eraſiſtrato,i quali a' detti di lui, come agli oracoli d'Iddio riverenti s'acchetano,faldiſſime, ed infalli bili verità, ſempre mai giudicandole, o quando coſtante mente afferma eſſer egli d'ingegno rintuzzato affatto, ed abbattuto lo farſene ſcioccamente a’derti, ed alle ſenten ze, cd a'giudicj altrui, non volendo coſa alcuna bilancia re, ne punto a lor paſſare innanzi: o quando altrove iſtan cemente priega, e ſcongiura i parteggianti tutti a por giù la ſcabbia, e'l furore, e la ſtolta follia delle ſette: 0 quin do adiratamente grida effer dura, e malagevole impreſa a ridur coloro alla ſtradadella verità, i quali già ſotto il ſera vilgingo di qualche ſchiera ſottomeſſi fi fieno. Quindi la ra gion recandone ſaggiamente ſoggiugne, che le falſe opinio niingombrando gli animidegli buomini, non folamente fordi, ma ciechi ancora renderglifogliano, intanto che ſcorger affat to non posſano ciò, che altri di neceſſità rimira. O quando altrove proteſta, eſſer egli un male da non potere in verű modo guarire,la folle, e ſciocchiffima caponeria di cotali parreggianti; e di qualunque ſcabbia più dura affai, e ma ſagevole a trarre: e che cotali uccellacci non che fappian, giammai nulla di buono, anzi ne men d'appararlo ſi ſtudj no: o quando ſtizzoſamente ſclama, amarpiù toſto, coloro, cfer della patria, che della propriafetta traditori, e rubelli. Et o piaceſſe pure al Cielo, che coralidetti non ſi vedeſ fero a giornate dall’oſtinatiffima pertinacia di coſtoro av verativolendo: più toſto manifeſtamente uccidere i miſeri infermi, che ſpiccarſi punto daʼnocevoliſentimenti de’loro amati Maeſtri. Ma perchè dobbiam mai ſempre noi con follc oſtinazio ne laſciarci trarre afreverendiſlimo parer degli antichi? for ſe non ſono ſtate lor molte coſe a grado, ch'a noi ſpiace voli ora ſono, ed affatto nojofes Cosi la gente prima,chegià viſe Nel mundo ancoraſemplice, ed infante Stimò dolce bevanda, e dolce cibo L'acqua, e le ghiande, ed orl'acqua, ele ghiande Sono cibo, e bevanda d'animali, Or che s'è poſto in ufoilgrano, e l'uva, O forſe alcuna coſa, ch'al lor cortiſlino intendimento vera parve, ora falliſiima manifeftaméte p opera degli ingegnoſi moderninon ſi è ſcorta? Così ſon veriſſiine prove de’mo derni notomiſti il ritrovato dell'aggiramento dei ſangue, delle vene lattec, edel códotto del Virſungo,e del ſaccolat to, e de'vali acquoſi, e degli uſi delle glādole, e d'altre par ti, e altri infinici nuovitrovati,che crollano, c ſcovolgono,e da’fondamenti abbattono, cd atterrano ogni razional ſi Atema d'antica medicina. O forſe farà egli colpa degli in nocenti moderni l'effer' eglino nați dopo gli antichi auto rir ma ſe ciò è fallo, e colpa, certamente commiſerla in prima coloro, i quali da' ſentimenti de' loro più antichi maeſtri tralignando, e nuove ſchiere di filoſofia, c di me, dicina anmutinando, ofarono in prima novelli ſcolari ri bellarc a'loro antichi maeſtri, e darne nocevole cſemplo di si follo, e temerario ardiinento. Imperciocchè ognianți co a'tempi ſuoi fu moderno; perchè figgiamente il Princi pe CLAUDIO Ceſare apppreſſo TACITO ha a dire: quæ nunc vetuftifſima creduntur nova fuere: inveterafcet feculum no firum, & quod hodie exemplis tuemur, inter exempla erit, (1 ) cd a queita medeſima cagione avendo riguardo un mo derno Poeta contro que', che per eller egli moderno biafi mavano il Paracelſo, in ſomigliante guiſa conchiude, Qui nova damnatis, veteres damnetis oportet; Aut iſta nihil eft in novitate novi Saran dunque acerbamente da vituperar Platone, Antiſte nc, Eſchine, ed altrifamoſiſſimiingegni, i quali poſto in non cale le vecchic ſcuole, che allora nella Grecia fioriva. no, a quella di Socrate, che nuova era, per imprender fi loſofia coraggioſamente ſe'n girono? anzi ne furon perciò foin (1 ) Etienne Paſquier.  05 sómamente da cómnendare. E nuove altresi furono le ſcuole di Platone:e pure ARISTOTELE, e Senocrate,e Speuſippo,ed al tri molti cotăto tépo v’uſarono; 11e alcuno ebbe perciò giá mai ardiméto alcuno di biaſimargli. E dalla novella ſcuola nel ginnasio del lizio d'ARISTOTELE in tanta gloria mótò Teofraſto per l'uſarvicon tinuo, che uguale, e forſe al inaeſtro ſuperior ne divenne; perchè dal padredegli ſtoici filoſofanti Zenone, funne poi grandemente lodato. E nuova anche fu la scuola di Zenga ne, e nuova quella d'Ariſtippo, e quella di Fedone, equel. la di Euclide da Mogara. Così anche fur nuove le ſcuole d'Eubolide, d'Epicuro, di Menedemo, d’Arcuila, e d'al tri molti maeſtri di filoſofia, e pure per huoinini illuftri,ed egregj, alle vecchie, e famoſe ſcuole degli antichi filoſofan ti furono antipoſte, riportandone ſempre mai buon nome, e fama non ordinaria dicandidi, e veritieri ſcrittori di que tempi. E perchè nó ſarà lecito anche a noi tralaſciando le vecchie ſcuole ad una novella indirizzarci, e maſſimamen te in quelle coſe, ove già i manifeftiffimi errori degli anti chi maeſtri abbiam compreſi? E forſe ſarebbe a tanta altezza pervenuta la nobiliffima arte della pittura, ſe gli antichi maeſtri paghi ſolamente della rozžillima imitazione del vecchio Filocle, nö ſi foſſero ſtudiati di vantaggio con la loro induſtria di limarla: e col tirar ſolamente le linee dell'ombre de'corpi aveſſero così alla groffa ſchizzate ſempre le lor confuſe, e diſtinate figu re? O forſe fu egli troppo ardimentoſa tracotanza dell'in gegnoſo Cleofante, odi Parrafio, o di Polignoto, o di Zeuſi, o d'Aglaufone, o del vaghiſfimo Apelle il dar loro più vivi i colori,e più regolati i diſegni,e più ſquiſite le om bre, onde poi vive, e perfettiſlime riſaltando,n'aveffero,e gli augelli, e i deſtrieri, ei cani, ei maeſtri medeſimidell arte glorioſamente ad ingannare? così anche i noſtri avan zandoſi di mano in mano l'un l'altro a'tempi d’ALIGHIERI, Credette Cimabue ne la pittura Tener lo campo, ed or ha Giotto il grido; Si cbe la fama di colui ofcurawi I Quin 86 Ragionamento Secondo Quindi fu il famolo dipintor di Madonna Laura Mae Itro Simone cotanto commendato dal Divino PETRARCA, ed altri famoſiſſimi dipintori. Ma ſopratutti ſi tolſero il van to, ed al preſente s'ammirano comemiracoli dell'arte l'o pere maraviglioſe di SANZIO, e di Tiziano, e di quel grande Michel più che mortale Angel divino. Necertamente potrebbe la Grecia gir ſuperba, e altiera della ſonora tromba del grand'Omero,del grave coturno di Sofocle della ſublime lira di Pindaro, e de' ſouviſlimi verſi d'Anacreonte, di Teocrito, e di tant'altri illuſtri, c nobili Poeti; o ROMA de' ſuoi Lucrezj, de’ Virgilj, de’ Catulli, de' Properzj, de' Tibulli, degli Orazj. Ne la Spagna ammirerebbe l'altiſſiino canto del Camoes, e le colte rime del Garzilaflo. Ne goderebbe la Francia l'ornato ſtile del dottiſſimo Ronzardo, e del Bert: ſſo. Ne il noſtro più,che tutt'altri, dolce,vago,e bello Idioma, vātar potrebbe il divi no cato dell'incóparabile Torquato Taſſo,di Giovani della Caſa, o la maraviglioſa evidenza dell'ARIOSTO, e dell'ALIGHIERI, o la dolciſſima muſa del PETRARCA, del Bébo,dell’Ala māni, del TRISSINO, del Molza, del Guidiccione, del TASSO Pa dre, del Guarini, di Galeazzo di Tarſia, edi altri,ed altri nobili ſpiriti, che di valor colla ſuperba grecia gioſtrano,o pur la vincono, ſe coſtoro tuttida'veſtigj de'rozzi antichi non aveſſero oſato d'allontanarſi; il perchè faggiamente ebbe a dire Iſocrate:yeggiamo noi l'arti,e tute'altre coſe eſſer van taggiate, e creſciute non già per coloro, che le comunali, e uſitate ritennero, ma per coloro, che d'ammendarle, e torne via glierrori, e migliorarle preſero ardimento: ta's επιδόσεις δρώμεν γινομένας, και των τεχνών, και των άλλων απάντων, και δια της εμμένονάς τοϊς καθεξώσιν, αλα δια τηςεπανορθένας, και τολμώνας «ί τι κινείν των μη καλώς εχόντων. Ε fe cio fi vedea giornates anche in quelle arti avvenire, nelle quali pare, che omai poco, o nulla fi poffa più oltre andare, e pure non vi ha altra ſtrada d'avanzarli a maggior perfezione, che del mai ſempre nuove coſe inveſtigare: perchè non ſi dourà an che ciò alla filoſofia, ed alla medicina permettere? malli mamente, che il campo di eſſe è queſto si vafto, e grandif ſimo teatro dell'univerſo, nel quale ad ore, ed a moinenti apparir tutto dinuove, e nuove coſe fi veggiono, da te nervi i più ſublimi, e pellegrini ingegni mai ſempre img piegati. Multa dies, variufque labor mutabilis ævi Rettulit in melius; ſenzachè certiſlima coſa è, che'l mondo più ſempre mai col tempo invecchiando,dinuovi, ed utili ritrovati per la noſtra ſperienza di mano in mano i ſecoli arricchiſce. Così noi veramente ſiam da dirci vecchi, e gli antichi, i quali nel vecchio mondo ſiam nati, e non que’tali, che nelmo do infante, e giovane,men di noi ſperimentando conobbe ro. Anzi coloro, che per innanzi naſceranno, più di noi ſaran vecchj, ed antichi, e conſeguentemente d'eſſer più di noi dotti, e ſperimentati, e diquant'altri per l'addietro mai furono, auran cagione. Ed a propoſito di ciò ſovven gonmi quelle belliſſime parole del gran Baccone da Verolánio: de antiquitate autě(dice egliopinio,quam homines de ipfa fovent,negligens omnino eft, ex vix verbo ipfi congrua: Níundi enımſenium, & grandavitas pro antiquitate vere habendafunt;quæ temporibus noftris tribui debent,non junio ri ætati mundi, qualis apud antiquos fuit. Illa enim ætas re Spectu noftri antiqua, &major; reſpectu mundi ipfius,nova, minor fuit.Atque revera quemadmodum majorem rerum humanarum notitiam, á maturius judicium, ab homine fene expectamus, quam à juvene-propter experientiam, & rerü, quas vidit, & audivit, & cogitavit, varietatem, copia eodem modo, do à noftra etate (fi vires ſuas nuffet, & expe riri, &intendere vellet)majora multo, quam à prifcis tem puribus expectari par eft; utpote ætate mundi grundiore, infinitis experimentis, & obſervationibus aucta, & cumulata. E in verità, chi ha mai tante, e si diverſe maraviglie in Cielo, e in terra, e nell'acqua, e negli augelli, e ne’peſci, e ne' bruci animali, e nelle piante ſcovrir potuto, dove turto di attenti, ed intricati gli ingegni tutti de' più ſottili I 2 filoſofanti viſi aminirano, ſe non ſe la noſtra età, cioè a dire il mondo vecchin, il quale ne va nuove maraviglie di giornata in giornata rappreſentado; intanto, che ora d'ogni tempo quafi n'è lecito a dire. quod optanti divum promittere nomo Auderet, folvenda dies en attulit ultro. Oltre a ciò gli antichi ſavj, ſicome i confini delle loro co trade appena s'argomentarono di paſſare, così altii ani mali,altre piante,ed altri minerali fuori di quelle non iſpiar mai, ne conobbero, e ſe ne rimaſero alla ſemplice relazio ne de'marinari, c d'altre perſone idiote, e volgari, dalle quali ingannati,ne ſcriſſero poi tante incredibili bugie. E chi potrebbe mai tener le rila in leggendo ciò, che Erodo to favoleggiò dell'incenſo, dicendo, che gli Arabiil colga no profumando in prima l'arbore con iſtorace: iinperocchè fra irami di quello s'appiattano folti (tuoli di ſerpentelli coll'ali di variati colori: τον μέν γε λιβανωτον συλλέγεστ, την σύeακα θυμιών της. E non guari apprefio,τα γαρ δένδρεα Gύτα του λιβανωτοφόρ, όφιες υπόθεροι και μικροί τα μεγάθεα, ποικίλοι τα είδεα, Qurárrs01, Trnýber mondo, me ei sér d por exasov. E del Laudano, affer: mò eſſer quello odorifero, e dilettevole a fiutare, e pur na ſcere in luoghi puzzolenti, e ſpiacevoli; e che ritrovaſi ſu le barbe de'becchi a guiſa di muffi, che naſce da' legni pu tridi: έν γαρ δυσοδμοταίω γινόμενον,ευωδέ αλόν εσ • των γας αιγών των τζάγων εν τοίπ πώγωσε ευρίσκεται έγινόμενον, οιται γλοιός από και o'rins. Ma Rufo da Efeſo dice, alle barbe delle capre ap piccarſi il L.audano allor che le frodi del Ciſto van ghiot tamente paſcendo Αλο δε πε κατι γαίαν έρέμβων λήθανον εύροις Αιγών αμφί γένια • το γας καθύμιον αιξε Κισσε ανθήενθG- επέδμεναι άκρα πίτηλα Τον δ' από λαχνήεν7G- ανεπλήσθησαν αλοιφής Λίγες υπαί λασίασε γενίασε πλευρά τε πάνω. E forſe il medeſimo volle dire Erodoto. E ſimilniente fi pare, che credeſſe Dioſcoride colà, ove ſcriſle parlando del Ciſto: Imperocchè pafcédo le ſue frõde i becchi, e le capre lor fu la barba, e ſu'l vello dell’anche s'appiaitriccia quella tenace graffezza, onde poi pettinandola la raccolgono i Paſtori, e colata non altrimenti, che ſi faccia del miele, e ne forman paſtelli, e la ripongono. Sonyi alcri, che tirando, e sbattendo certe corde ſopra queſti arboſcelli raſchiano poi la graſſezza, chevi s’appicca, c fannone paſtelli, e a quefta guifa la riferbano:τα φύλα γας αυτού νεμόμεναι αι αίγες και οι τεάγοι ή λιπαρίαν αναλαμβάνει το πώγωνα γνωρίμως • και τους μερούς πτοσπλαήoμένην δια το τυγχάνειν ιξώδη• ην αφαιρώντες ύλίζει, και απο τίθενζι αναπλάοσοντες μαγίδας · ένιοι δε και χοινία επισύρεσι τοις θάμνοις, και το πζοσπλασθεν αυτοίς λίπG- αποξύσαν τις αναπλάσει: Il medeſimo dir vollc Plinio, ma in traslatido le parole di Dioſcoride poco bene peravventura intendendo la parola Jauvois, e l'altra unigovor ſcriſſe: Sunt qui herbam in Cypro, ex qua id fiat,ledam appellent: etenim illi ledanum vocant: hu jus pingueinfidere:itaque attractis funiculis herbam eam con volvi, atqueita offas fieri.Vidiede ancora inciera credenza Galieno, quando dice gevers auto del laudano, favellan do ) κατά τα γένεια των τάγων έν πτ χωeίοις επιγίγνεώι: e Paulo da Egina λάδανον από τον κίσε τού λάδανος λεγόμενον γίνεθαινεμόμεναι γαρ αυ τον αι αίγες, εν τοίς πώγωσι, και τοϊς μηρούς αυτών και λιπαρώτε ρον, και οπώδες πόας αφαιρούνι. Éd Eichio λάδανον το με απο των πωγώνων των αιγών, και τάγων Ma à chi cgli non ſembrerà incredibile ciò ches del Malabatro narrano Diofcoride, e PLINIO, pur troppo groſſi nell'informarſi, e nelcreder leggieri. Eftima il pri mo naſcer quello nelle lacune a guila di lente paluſtre; e'l ſecondo no’l fa punto diverſo dalle foglie del Nar do Indiano; e pur ſappiamoeſſer foglia di ben grande, co ſpazioſo albore, non già paludoſo, ma ſalvatico, emon tano. Io non farò menzione delle tante, e tante inyeriſi. mili bugie, ch'cglino medefimi, e Teofraſto della cotanto celebrata (piganardi inventarono. Ne mi fermcrò a ſpia nare i fallimenti di Dioſcoride colà ove diffe, che le radici del gégiovo fié così picciole,come quelle del Cipero; è co me ciò,che buccinavaſi appo gli antichi dell’ambra gialla moſtri anch'e' di credere, cioè,che il liquor d'amendue i pioppi preſſo le rive del Po in diſtillando da tali alberi fi rapprenda in ambra, ſeguendo in ciò la volgar fama de'ma fonieri Poeti, i quali fan che l'ambra ſia il doloroſo umore, che per gli occhj fuor verſarono le pie, e addolorate ſorel le, che dell'acerbo caſo del lor Fetonte dogliendoſi furono in quegli alberi ſtranamente converſe, onde poi Fluunt lacryme: ſtellataque fole rigefcunt De Ramis electra novis: qua lucidus amnis Excipit, du nurubus mitiit geſianda larinis. Ma non men piacevoli a udir ſono i falli del ſovraca cennato Erodoto dietro al raccoglimento della caſſia, e del cinnamomo. Credette egli con altri antichi, e la lor creden za gli Arabi, c molti de'noſtri follemente ſeguirono, que Ite effer due piante fra eſſe lordifferenti; e vuol egli, che la callia naſca in una palude non guari profonda,per entro, e d'intorno alla quale ſoggiornano alcune fierucole alate fimili a' vipiſtrelli, che mandan fuori orribili ſtrida, e ſono di gran forza, e vigore; ma gli Arabi per iſchermirli da' yelenoſi lor morſi, in cogliendola ſi cuoprono il volto, e'l corpo tutto,da gli occhi in fuora,di cuoja,e d'altre pelligec colefue parole: επταν καζδήσωνοι Βύρσησι δέρμασι άλoισι πάν το σώμα, και το πόσωπον, πλην αυτών των οφθαλμών έρχονται επί την καασίην • η δε έν λίμνη φύεται ου βαθέη, σιρι δε αυτήν, και εν αυτή αυ. λίζεται κού θηeία ερωτι, της νυκτίρια ποστίκελα μάλιστα και και τί. SUYE δεινον και ες αλκήν άλκιμα • τα δη απαμυνομένες από των ópfamutów. E quale aggiraméto di ſtrano cervello ſi pare ciò, che leggeli rapportato da Teofraſto, che i rami della caſſia P cſfer nervoſi non poffano ſcortecciarſi, ma tagliinſi in pic cioli pezzetti, i quali ſicuciono dentro a’pclli di bovi pur mo ſcorticati, perchè i vermicelli, che nel corromperſi del legno s'ingenerano,roſicchiádone la midolla, inutile laſcia no la corteccia intera, mercè l'amarezza, e l'acrimonia del fuo odore, την δε κασταν φασι τας μέν ραβδες παχυτέρας έχαν, ινώδης δε σφόδρα, και ουκ είναι τριφλοίσα, χρήσιμον δε ταύτην τον φλοι δν· αν ουν τέμνωσε πως ραδες και κατακόπαν ως διδακτυλα το μήκG-, ή μικρά μάζω ταύταδ' άς νεόδωρον βρείνον καταρραΠεαν · ατ ' εκ ταύτης, και των ξύλον σκυμένων, σκουλήκια γίνεσθαι, από μια ξύλον κατεσθίει • τα φλοιού δε ουχ απεπειι, δια την πικρότητας και δριμύτητα 7ης οσμής, 1e O 1 1 quali parole cosìtraslatò PLINIO con l'uláta eleganza:Con fecant furculos longitudinebinum cubitorum, mox præſuunt recentibus coriis quadrupedum ob id interemptarum,ut ijs pu trefcentibus vermiculi lignum erodunt, & excavent corticem tutum amaritudine. Ma che direm noi delle lunghe dice rie del Cinnamomo appo Erodoto più incredibili delle ciance del verace Turpino preſſo del Bojardo, e del l'Arioſto. Il Cinnamomo, dice Erodoto che non ci fia manifeſto ove, e'n qual modo naſca, ſe non che pro babilmente ſi crede ingenerarſi in que'paeli, ove Bacco fu nutricato, e le feſtuchedi eſſo eſſer quindi da certi grandi uccellacci traſportate in alcune ſcoſceſc, einacceſſibili mo. tagne per fabbricarvi inidi,contro a’quali han gli Arabi ritrovato un ſottil modo: cglino tagliano in pezzi, e con quidono le membra di boyi, d'aſini, e d'altri giumenti, e quelli appreſan quanto è poſſibile a’nidi, e quindi ſi dipar tono; gli uccelli intanto calan giù, e preſo della carne la ripongon entro a’lor nidi, i quali non valevoli a ſoſtener tanto peſo caggiono a terra, e gli Arabi allora ne fan race colta:όκα με γας γίνει αι, και ήτις μιν γή ή τσέφεσα έστ, έκ έχεσι - πών, πλην όπλόγω άκόπ χρεώμενοι, εν πίστ δε χωeίοισι φασί πνες αυ η φύεσθαι εν τοϊσι ο Διόνυσος εξάφη • όρνιθας δε λέγεσαι μεγάλες φορέ eaν ταύται το κάρφεα, τα ήμεϊς, απο Φοινίκων μαθόνης, κινναμωμον καλέομεν · φορέειν δε τους όρνιθας ές νεοσιας πεπλασμίνας πηλό πέος αποκρήμνοισι ούρεσι, ένθα πόσβασην ανθρώπω ουδεμίην άνοι: πεος ών δή ταύα τους Αραβίους σοφίζεσθαι τάδε · βοών π και όνων των απαγινο. μένων, και των άλλων υποζυγίων τα μέλια διαμόνας ως μέγια και κομί ζειν ες Gύτα τα χωρία και σφεα θένας άγχου των νεο Αστέων απαλάασε. « θαι έκας αυτέων• τας δε όρνιθαςκατο πετυμένος και αυτών τα μέλεια των υποζυγίων αναφορέαν επι τας νεοσπαστας δε ου δυναμίνας ίσχειν,καταρρής γνυσθαι γαρεπί γήν, τους δε επόντους συλλέγαν ούτω με πκινναμωμον. Ma fe quefto fembra fogno d'infermi, ben fola di Ro manzi ſarà, ſenza fallo, quel convenente d’Ariſtotile in torno al medeſimo fatto,dove e' narra, ch’un uccello detto in Arabia Cinnamomo (comechè appreſlo PLINIO chiami fi Cinnamologo) vada cogliendo i fuſcelli della canella, e fe · ue fabbrichi il nido ſu le cimede gli alberi, onde pofcia gl’arabi con faette di piombo lo ſcroſtano, e caduto giù in terra l'adunano φαστ δε ο κινναμωμον όρνεον είναι οι εκ των το. πων εκείνων, ¢ το καλούμενον κινναμωμον φέρων πεθέν τούτο το ορειον, και την νεολίαν εξ αυτού ποιείσθαινεολεύα δεφ' υψηλού δένδρετε εν τοις θαλ. λοϊς των δένδρων, αλλά τους εγχωρίες μόλιόδον προς τοις οισοίς πέοσαρ των τας, τοξεύοντας καζβάλειν τε ού7ω συνάγειν, έκ του φουτου το κινναμωμον: elmedefimo vien confermato da Antigono, ov ” codices λέγαν δέ τινας τε το κιννάμωμον όρνεον είναι, και αρώμα & φί. ραν, και τους νεοφίας εκ τούτου ποιείσθαινεοτεύειν δ' εφ ' υψήλων δένδρων τ' α Gάτων, 7ους δε εγχωρίες μόλιόδον τοϊς δίπϊς προτιθών ας τοξεύαν, και κα - αρρηγνύειν τας νεολίας. E non molto diffimile e cio, che ne vien creduto da molti altri antichi appo Teofraſto: néger aus δέ πς και μύθος υπέρ αυτού · φύεσθαι μεν γάρ φασιν εν φάραγξιν, εν ταύζις δ ' όφης αναι πολλές δήγμα θανάσιμον έχοντας: πεος ούς φραξάμενοι τας χώρας,και τες πόδας, καταβαίνεσι, και συλλέγεσιν,είθ' ό'ταν εξενέγκωσιδιε λόντες βίαμέρη διακληράν τει πεος τον ήλιον Ma ſe mai mi foffe in animod'annoverare gli errori tut ti, ne'quali caddero gli antichi per eſſer eglino maldelle ftraniere faccende informati:Io direi come Plinio follemé. te dica, che'l Cinnamomo naſca nell'Etiopia, ed indi aſſai più vaneggiãdo ſoggiúga,che gli Eriopi il coprano da que de'proſſimani paeli;e che giungendo poiegli al colmo del le vanezze, apertamëte contraddicendoſi, non ſi vergogni d'affermare, ch'eglino ſe'l portino per alti mari con lun ghe, e pericoloſe navigazioni, ove non giova governo de nocchieri, ne vela, o remi,inafol l'umano ardire, e la for tuna gli regga. Direi come in alcuni antichi Greci comentarj leggaſi, che'l Cinnamomo col ſolo toccaméto,l'acque bogliéti rin freſchi, e meſſo ne'bagni, i ferventi loro vapori in un bel freſco tramuti;e che tutti gli animali di putredine nati,am 2nazzi:ότι ζέοντος φασή του εν λέβητα ύδατος είπες θίγοι μόνον η κιννα. μωμον ευθυς καταψύχειν το ύδως και και λετάω έπεισενεχθέν διαπύρω μετα ποιεϊν τον εν τώ αίρι φλεγμον εις ψυχρότειν, και αφανισικήν των εκ φθο ράς πνος ζωογονουμένων την φύσινέχαν.Direi di vantaggio, co medel pepe favoleggiado Dioſcoride ne narri, naſcer quel lo in India da un coral arbuſcello, che produce un frutto lungo, ſicome baccello, il qual chiam ali pepelungo: den tro del quale dice ritrovarſi alcune granella non guari dau quelle del migliodiſſomiglianti; e che queſto ſia il perfer to pepe;imperocchè aprédoſi col tépo n'eſcon fuora i raci moli carichi di granella, ficome gli veggiamo; e queſti anzi d'effer venutia maturezza colti, fāno il pepe biaco, e'l nero poi dice egli conciosſiecofachè ſia maturo, eſſer odorifero,e dilettevole al guſto più che'l bianco; il quale perciocchè a debita maturezza non è pervenuto, non è cotanto perfetto. Πέπερ, δέρδρον 15ηρείται φύομεναι εν ενδία βραχύ καρπον δε ανίησι, κα. &ρχας με πξομήκηκα θάπερ λοβούς όπες επί μακρόν πέπερι: έχον τα ένο (λεις ) κέγχρω παραπλήσιον και το μέλι έσεσθαι και τέλειον πέ. περι. όπερκαλα τους οικείας καιρούς αναπλoύμνον βότρυς ανίησε κόκκινο φέροντας οί'ες ίσ μου και τους δε, και ομφακώδες και οι τινες εισι το λευκόν πε. περι, epoco appreffo:το δε μέλαν ήδιον και δριμύτερον του λευλου, φύσιμώτερον· και μάλλον δια 10' ναι ώριμον αρωματίζον• εύχρησότερόν τη εις τας αρτύσπις· το δε λευκών και ομφακίζον ασθενέτρον των πτοειρημέ. ng IWY, Ma troppo lūga materia da ſtancarne nell'impreſo arin farebbe il volere ad uno ad uno tutt'altri lor fallimenti annoverare. Perdoniam pure a gli antichi ogni lor negli genza, ſenulla ſeppero, over nulla curarono del muſchio, dell'ambra grigia,del zibetto, della noce moſcada,de'ga rofani e d'altri, ed altri aromati. Non fia lor colpa, ma del la fola fortuna, il non aver eſſi avuto contezza niuna della Mecciocana, della Contrerba, del Saſſafras, del Cafè, del Legno Guajacosdel Balſamo del Perù, dell'Erba Te,dellas Salſa, della China, e d'altri quaſi innumerabili ſtranieri ſemplici, che al preſente ſon così manifeſti, e conti, che van per le bocche, e per le mani d'ogn’uno. Mache più: laſciam pur, che gli antichi ordiſcan degli animali le più incredibili fole, che peravventura cader potrebbono in penſamento umano: 0 pure avendole da altrui udito, co me ſe da propj occhj ſtate foſſer vedute, sì le abbinn per vere, e le rapportino. Laſciam, che creda Anafſagora appo ARISTOTELE, che i Corvi uſin per bocca colle lor semmine, e dea cagione dicantare a colui:. CorueSalutator, quare fellator baberis. E trapaſſiam fotto ſilenzio ciò che infinſero agli antichi della Catapleba, di cui Plinio, e Solino fan parole, e Sor gona appellafi appo Ateneo, la qual vogliono,che talma lìa dal ſolo ſguardo diffonda, che immantinente l'animal rimirato, ſtupido,ed inſenſato divega,e poco ftante fi muo ja; il che vagamente deſcriſſe in quc'verli il Petrarca. Ne l'eſtremo occidente V na fera è ſoave, e queta tanto, Che nulla più. Mapianto E doglia, e morte dentro a gli occhi porta Neprendiam briga d'annoverar ciò che favoleggiarono Megaſtene, Daimaco, Nearco, Ariſtea, Onoficrito, Te fia, ed altri appo Erodoto, Strabone, Diodoro, PLINIO, e GELLIO degl’uomini, che in Oriente preſſo il Gange naſcono ſenza bocca, e ſol Gi paſcon d'odore: degli huo mini, che in India appo i Nomadi vivono ſenza naſo: de gli altri, ch’appo i Troglodici ſon ſenza capo, e collo, ed han gli occhj ſu la ſpalla:d'altri, che han faccia di cane, e latrano, e di tant'altri di fimil figura, a quei, che la ma ga Alcina in guardia al ſuo palaggio teneva. Non fu veduta mai piùſtrana torma, Più moſtruoſi volti, e peggio fatti. Alcun dal collo in giù d'huomini ban forma, Col viſo altri diſcimie, altri di gatti. Stampa no alcun co’piè caprigni l'orma: E traſandiam Platone, che verace credette quella bugiar da fama de'Poeti, che i Cigoi preſſo l'eſtreno for giorno mandin fuori più bello, e più ſoave il canto; e non ci fer miamo a ſtacciar la cagione, che di tal fatto ne arreca táto ſottile, che da per ſe la ſcavezza, cioè, che eſſi cantano pe'l gran contento, che prendono del preſto ritorno, cli’al lo ro Apollo a far hanno. E con queſto di Platone,laſciamo impunito anche il fallo d'ARISTOTELE, qualor prende licenza di dir, che nell'Africa molti ne furveduti da’marinari, che buſamente, e doloroſamente cantavano; eſſendo in verità il lor căto un'imporcuno gridare,comedioche ſalvati che,anzi che no.Ne prendiam niuna cura diripigliar Teo fraſto ſeguito da Celſo, da Solino, e da altri, perchè po co, o nulla ſagace ſcriveſſe del Cainelconte', ch'egli il 'a ria ſi viva:così d'affermarlo niuno ſcrupolo non avendone, come ſe ſtati foſſero un di quei Poeti, che coll ulata lor licenza cantarono, ſicome OVIDIO, Id quoquequod ventis Animal nutritur, & aura El'Alciato Semper hiat,ſemper tenuem qua vefcitur auram Reciprocat Cameleon. O di caffar quegli, che vollero,eſſere it Camelconto della grandezzadelCoccodrillo, ſe pure non fu queſto, crrore di Plinio;imperocchè tutto ciò che narra delCameleonte, dice d'averlo tolto di peſo a Democrito, che un libro in tiero ne fcrife, ρve dicendo και το μέγεθος ομοιον είναι τώ κροκο dergoe, ' non badò punto, che nel Ionico linguaggio, nel qual Democrito favellava,la parola xpowodeina, val quel la Lucertola, che appo gli Atenieſi, e gli altri Greci dice fi sæūgos, ficome fanno gli ſtudioſi di tal linguaggio. Elaſciamo ſtare ciò, che gli antichi, a'quali ſi parve, che deffer credenza VARRONE, PLINIO, Solino, COLUMELLA, Marziano CAPELLA, e SERVIO follemente vaneggiaro che alcune cavalle ſu'l Tago ſieno ingravidate dal vento, e moran fuori polledrivelociſſimi al corſo. Co per vero dir non men fantaſtica del Pegaſeo di Bellero fonte, o dell'Ippogrifo d'Aſtolfo, e ben degna, che ne freggino i lor Poemicoloro, cui a par de'pittori è cócedu to di poter tutro ardicainente attentare. E sì cantar puo. tè Omero de'Cavalli del fuo Achille, Εάνθαν και Βαλίον,τωάμα ποιηση πελέσθην, Tες έτεκε Ζεφύρω άνεμω άρπια Ποδάργη. E ſimilmente VIRGILIO Ore omnes verſa in Zephyrūſtant rupibus altis Exceptante; leves auras, á fæpefine ullis Conjugiis, ventogravide, mirabile dicru ! E SILIO Italico delo lociſfimo Peloro no, fa K 2 Nullus erat pater ad Zephyri nova flamina campis Vectonum eductum genitrix effuderai Harpe E dell'Aquilino il noſtro ammirabil Torquato, Queſti ſu'lTago nacque, ove talora L'avida madre del guerrero armento Quando l'almaſtagion, che n'innamora, Nel cor le inftiga il naturaltalento, Volta l'aperta bocca incontra l'ora, Raccoglie i ſemidel fecondo vento, E de'tepidi fiati(o maraviglia! ) Cupidamente ella concepe, e figlia. E finalmente perdoniamo agli antichi ciò che ſognarono de'Pigmei, della Fenice, del Centauro, dell'Aquila, del I.eone, del Coccodrillo, della Salamandra, della Pirau ſta, della Remola, del Cavallo marino, del Baſiliſco,del l'Elefante, de'Satiri, degli Ipogrifi, de'Ciclopi, delle Si rene; e tant'altri errori, ne' quali non pur degli animali, ma de’minerali altresì in trattando incorſero, i quali di bé groffi volumi, non che di brevi dicerie ſarebber lunga ma teria, ſol che a noi ſi conceda picciola,e ben dovuta rin chieſta, il poter da’lor falli ritrarci, uſcir da’lor rei inſe gnamenti, non coſto iinboccarne loro ſtrane ſentenze, e per ſeguir la verità tutti lor falſi rapporti porre in no cale; a noi, cui tutto il mondo, è già quaſi omai ſcorto, e mercè la diligenzza delle lunghe pellegrinazioni, non pur ſap piamo i luoghi, i portamenti, i coſtumi degli abitatori: ma di che animali qualche ſi ſia paeſe venga fornito, quali piante germogli, quai minerali produca. E non v'ha ge te nel vero sì barbara, e feroce, la quale, o per avventu ra, o da neceſſità coſtretta non abbia a pro del comune qualche commendevol rimedio ritrovato, il quale ad al tre più umane, e ben coſtumare nazioninon è occorſo. E ben ciò a pruova ſappiamo; imperocchè ne per lunghe vi gilie, ne per iſparti ſudori di'ſavj greci, o daʼnoſtri fi po tè ritrovar mai rimedio tanto valevole a domar la ferocia delle febbri, quanto è quella maravigliofa corteccia,inſe gnatane da' barbari abitatori del Perù e Eto quanto se quanto egli ora ammirerebbe per Dio queſta fortunata, e prodigioſa fecondità, e con qual leggiadria, ed altezza di ſtile egli anche per celebrarla ſarebbe, IL SUBLIME POETA FILOSOFANTE LUCREZIO, ſe dique' pochiſſimi trovati del ſuo ſecolo così maraviglioſamente preſe a cantare: quædam nunc artes expoliuntur: Nunc etiam augeſcunt: nunc addita navigiis funt Multa: modoorganici melicos peperere fonores. Denique natura hac rerum ratioque reperta eft Nuper, & hanc primus cumprimis ipſe repertus Nunc ego fum in patrias, qui poſſim vertere voces. Deh ſi paragonino p Dio le ſtorie della natura di quc fto noſtro ſecolo non ancor finito, con tutte l'antiche, e veggaſi ſe più fecondo di maraviglioſi trovati fia queſto poco di tempo, che itati non ſiano per addietro tanti, tanti altri ſecoli paſſati. Si paragonino pur le perſone, ci medici, e i filoſofinti antichi, emodernifi bilancino. Ma che dico Io deMedici, e filoſofanti moderni? baſta ſolo un ſol filoſofo, l'ingegnoſiſſimo GALILEI, per tacer di Renato, del Gaſſendo, dell’Obbes, del lungio, e di tant’al tri, ad oſcurare, cſommerger affatto la gloria di tutta quanta l'antichità. Orche direbbe Plinio il giovine in rimirar tanti belliſſi mi, e nuovi trovati dell'età noſtra? ſe de’tempi ſuoi, che pur ne furono affatto ſterili, ed infecondi, così ebbe a di re: Sum ex illis fateor, qui mirer antiquos; non tamen, ut quidam temporum noftrorum ingenia deſpicio. Neque enim quafilaxa, & effeta natura elt, ut nihil jam laudabile riat. Ma ſu concedaſı pure ciò, che a niun modo conce der mai certamente ſi dee, cioè a dire, che alla antichità ſolamente abbiamo a ſtarcene; come mai potrà egli ſenza guida di boſſolo il corſo della ſua nave reggere il nocchie. ro?come ravviſar l'aſtronomo le nuove ftelle ſenza il nuo vo occhialone? come abbatter le ſchiere nimiche, o rintuz zarne gli affalti il Capitano ſenza gli archibugj, e l'arti glierie, e ſenz'altri moderni ritrovati da guerra? Che farà il filoſofo, e'l medico ſenza il microſcopio? Quanto ri pa marrà a ſuper della Terra al Geografo, ſenza le novelle; tavole dell'America? in quaiviluppi, cgarbugli, e con fuſioni troverrebberſi mai gli Stronomisi quali a far prova aveſſero del Siſtema di Tolomeo infino a’di noſtri, quafi comunemente per tutti ricevuto? Non s'addofferebbero le ſghignazzate, e le riſa anche del popolo minuto, e de più ſemplicifanciulli, s'eglino mai a negare ardiſſero lo innumerabili ſtelle della via lattea? o faceſſer veduta di non iſcorger in faccia al Sole le macchie? oi compagni di Saturno,ch'alcuniorecchj, altri anella, ed altri manichi chiamano, o le nuove ſtelle Medicee, o lo ſcambiar della faccia di Venere, o'l dimorar più in là delle lunari regio nile Comece, o le montuoſità della Luna; o l'aggirarſi di Venere, di Mercurio, di Giove, e di Marte intorno al So le? E con qual fronte ofercbbero i filoſofi ora difender l'incorruttibilità de'corpi celeſtiali, la faldezza de' Cieli, la sfera del fuoco, e tanti, e tant'altri ſogni d'ozioſi cer velli? E come ardirebbero i medici ſenza i novelli trovati della notomia morta, e della notomia vitale ad impren der eure ſenza manifeſtiſſimo riſchio de'mileri ammalati? Ed o quanto,e quanto mal conſigliati ſarebber quegli in fermi, chenelle lormani li porrebbono; edo quanto in názi tratto ſarebbe il migliore ad arriſchiar la vita più to ſto in man d'avveduto, e ſaggio Empirico, il cui meſtiere, comechè manchevole, tuttavia a pericolo d'errare aſſai men ſoggiacer ſi vede, che la falſa razional medicina daw Galieno in guiſa tale abborrira, e biaſimata, che ezian dio contro le regole dialettiche egligiudica eſfer coſa iin poſſibile poterfi mai da’ falli principjdi quella altre con cluſioni, cheſempre falſe, cavarc. Ma laſciando ciò al preſente, che troppo larga materia da diſcorrer ſarebbe, dico, che un talmio diviſo di dover ſi ſemprcmai al miglior di ciaſcuno, o antico, o moderno autorch'egli diafi, appigliare, ne a ' ſentimenti d'alcuno tenacemente ligarli, ſenzachèè egli ragionevole aſſai, e conveniéte, fù di vataggio da tutti gli ſcrittori di maggior lieva abbracciato, e da' più ſavj filoſofancije da ſacriTeo. 1 logi comunemente leguito, e fommamente da ciaſcun commendato. Odafi di grazia fra’primi quel Principe de Lirici, e de'Satirici POETI LATINI, checol ſuaviſſimo ſuo me. tro i rigidiprecetti dell'Epicurea, c della Stoica filoſofia addolcendo, così ne canta Quod verü,atque decens,curo, di rogo &omnis in hoc să. Condo, &compono,quod mox deprumere poffim. Ac ne forte roges quo me duce, quo lare tuter: Nullius addictus jurare in verba magiftri, Quo me cunque rapit tempeſtas, deferor hofpes; Nunc agilis fio, & verfor civilibusundis; Virtutis vere cuſtos, rigiduſque ſatelles: Nunc in Ariſtippi furtim præcepta relabor's Et mihi res, non me rebus ſubmittcre conur. Equel, ch'altrove eglimedeſimamente va diviſando..., Quodfitam Gracisnovitas inviſa fuiſſet Quameſt nobis, quid nunc effet vetus? aut quid habcret. Quod legeretztereretque viciſim publicusuſus? Odafi QUINTILIANO: neque id ftatim legenti perſuaſum fit, omnia, quæmagni autoresdixerunt, utique efleperfecta; e recando « gli di ciò la ragione, ſoggiunge: nam, & labun tur aliquando, & oneri cedunt, & indulgent ingeniorum, fuorum voluptati: nec intendunt animum: Odali il Romano Oratore: non tam autores in diſputando, quam rationis momenta quærenda funt,quin etiam abeft iis qui dicere van lunt, plerumque eorum autoritas, quife docere profitentur: definunt enim fuum judicium adhibere, atque id habent ra tum quod ab eo, quem probant judicatum vident. Indi tra paſſando a condennare il vituperevole coſtume de' Pittagorici, a'quali per certa, ed infallibil ragione l'autorità fo Jamente del Reverendo lor maeſtro baſtava: conchiude: tantum opinio præjudicata poterat, ut etiam fine ratione va leret authoritas. Odali oltre a' già rapportati autori più fiace il medeſimo avviſo dalla ſaggia mente di Platone, ac comandatone ſpecialmente nel Critone, ove diffe: 10 ſon di sì fatta natura, che a niun'altro mai mi ſon condot to a preſtar fede, ſalvo, che a quella ragione, che più vol te da go Ragionamento Primo te da me diligentemente ſtacciata, e diflaminarā alla fine ho ritrovato eſſer l'ottima: as iywa õ jóvov vũ, anc ' wy de Tolos 1G-, οΐG τωνεμών μηδενί άλω πάθεσθαι, ή τώ λόγω, δς αν μοι λογιζα Hér w Gea Tigos Paívntou, Odaſi il famoſo Ariſtotile, ilquale, avendo a trattar certa quiſtione, ove le faceva uopo per la verità d'impugnar le determinazioni de'ſuoi amici,veg gendoſi quaſi allo ſtrettojo, pur ſaggiamente diliberando, cbbe a dire,più umana coſa eſſere il preporre la verità agli amici αμφοίν γαρ όνπιν φίλων, όστον πτοπμαν την αλήθειαν, e pri ma auea egli detro a pro della verità, far meſtiere, maffi mamente al filoſofo, diſtrugger le ſue proprie credenze; ma odaſi quella maraviglioſa, e divina ſentenza ch'egli medeſimodal Fedone del ſuo maeſtro apprefe, e pur da tut ti coloro, che Ariſtotelici, o Ippocratici, o Galieniſti in torto chiamar ſi fanno, vien comunemente traſandata,an zi affitto ſpregiata: Amico Socrate, Amico Platone, ma più amnica la verità; la qual diviſando, esfigurando queſti Iciocconi indegniſſimi del nome di vero filoſofante, foven temente dir ſogliono: eſſi amar meglio di ſcioccheggiar con ARISTOTELE, Ippocrate, e Galieno che con altri laggia mente diſcorrere. E ben di quella più amico ſoventemo ftroſli il medeſimo lor ARISTOTELE, ſe migliaja di yolte ripre ſe,e biaſimòTalete, PITTAGORA DI CROTONE, PARMENIDE DI VELIA, Anafſiman dro, Anaſlimene, Meliſſo, Democrito, Anaffagora, cd altri molti, che prima di luieran lodevolmente feduti fra filoſofica famiglia; e ne meno per riverenza talor ſi ritena ne, chea'medeſimi ſuoi maeſtri Socrate, e Platone il fi inigliante non faceſſe, i quali manifeſtamente alle volte bialima, e riprende; e forſe ſe ſua malavoglienza, ed ill vidia non foſſe, potrebbeſi ancor credere, che egli per ſo lo zelo della verità così loro villaneggiaſſe, e carminaſſe, chiamandogli talora, e ſcempiati, ed ebbri, e farnetici, e ſciocconi, e ſtolti, e ſcimuniti, e non farebbe per avven tura gran ſenno, che ſon pur coloro gran maeſtri in filoſo fia, e danon così gravemente mordere. Ma queſta cotai ſentenza ebbero in bocca poi tutti i ſuoi più celebri diſcepoli, e ſeguaci, Licome ſcorger.age. 2 vol volmente e'ſi puote, in Teofraſto, in Ermia, in Iſtracone, iu Ariſtoſſeno, in Ipparco, ed in altri molti, i quali ſi vide ro mai ſempre antiporre la verità, ſe mai lor ſi parve d'a verla rinvenuta, almedeſimolor maeſtro, e duce ARISTOTELE, non che ad altri filoſofanti; e'l ripigliano liberamente e ſenza ritegno,qualora in qualche fàllo il tolgono; e queſta medeſima ſentenza, dipoi han comunemente avvuta fiffa inmente tuttii moderni riformatori della filoſofia, a’quali tanto, e sì fattamente piacque ad ogn'orapreporre la veri tà ad ARISTOTELE, che allora con ſignoria da tiranno in tutte le ſcuole del mondo regnava, ed a guiſa di celeſtial nume per ciaſcun riverivali, checon eroica fortezza, e con in vincibile, e veramente filoſofica coſtanza, nulla curanda che perciò ne foſſero eglino mai ſempre, e proverbiati, e deriſi,il ripreſero ſoventemente, e lo dimentirono di non, pochi ſuoi falli. Ma odaſi omaiquell'altra non men famoſa ſentenza, la ) quale à Socrate ſuo maeſtro è da Platone attribuita rávws γαρ και 1ειο σκεπτέον ός τις αυτο είπεν, αλα πότερον αληθές λέγεται η ου, Non già chi abbia detta la coſa, ma s’eidica, o non dica il vero,doverſi conſiderare. Ne in ciò punto è da tralaſciare il celebre latino Stoico; il quale al ſuo LUCILIO in una piſtola, così favella: Epicurus, inquis, dixit: quid tibi cum alieno? quod verum eſt, meum eft: indi egli foggiugne con quelle veramente memorabili parole: Perfeverabo Epicurum tibi ingerere, utifti qui in e verba jurant, nec quid dicatur æftimant, fed à quo fciant, quæ optima ſunt eſſe communia. Ne meno è da notare as noſtro propoſito ciò che altrove parimenteegli dice contro i miſerevoli parteggianti: qui alium fequitur, nihil inve nit, immonequequerit; e ciò, che altrove ancora: Non ergo fequor priores? faciofed; permitto mihi, bu invenire ali quid, mutare, nec fervio illis fed, aſſentior, e ciò, che un' altra fiata egli così proteſta: Qui ante nos ifta noverunt,non domini noftri, fed duces funt. Ne è da paſſar ſotto filézio quel belliſſimo detto di Por frio το αληθεύειν και μόνον δύναταιτους ανθρώσες ποιάν Θεό Παραλεσίες, L. cavato nel ſuo volgare dal beato Girolaino con queſte vo ci. Poft Deum,veritatem colendam, quæ fola bomines Deo proximos facit. E ſe tanto può far la verità, dove più riporrem noi l'a nimo, a qual'altro fine indirizzerem noi i noſtri ſtudj,dure rem noſtre fatiche, ſpargerem noftri ſudori, vegghierem le gelide, e ſerene notti, ſe non perla verità? Eccovi, ecco vi o Signori il vero ſentiero dell'immortalità, e della glo ria. Ecco quel ſentiero, che ſegnarono i barbari daprima, indi i Greci, ed ultimamente i moderni noſtri filoſófanti, che in tanto pregio,e tanta fama glorioſamente falirono; e perchè crederem noi, che l'antica età aveſſe, e Talete, e Anaffimenc, e Senofane, e Anafſimandro, e PITTAGORA DI CROTONE, ed EMPEDOCLE DI GIRGENTI, e Leucippo, e Democrito, ed Eraclito, ed Anaſlagora, e Socrate, e Platone, ed ARISTOTELE, ed Epicuro, e Zenone, e tanti, e tant'altri filoſofi d'immortal fa ma degni: e ſi pregin parimente, e lidian yanto i noſtri ſex coli d'aver recati almondo il Cardinal Cusano, e' Copernico, el Patrici, e'l TELESIO, el Ramo, e'l Donio, e Ticone, e'l Cheplero, e'l BRUNI, e'l Gilberti, e'l Montagna, e'l Merſenni, e'l Baſſoni, e'l GALILEI, e lo Sti gliola, e'lCAMPANELLA, e'l Verulamio, e Renato, e'l Gassendi, e'l lungio, e'lConte Digbi, e'l Oggelandio, e'l Boile, e’l Borrelli, e'l Maignano, e'l Robervallio, e'l Mal pighi, e'l Redi, e lo Stenone, e'l Ricci,e l'Vliva, e'l Por zio, e ' Bellini, e'l Marchetti, e'l Montanari, e queſti,che ſommamente fregian la noſtra patria Tomaſſo Cornelio Gio: Battiſta Capucci, e D. Carlo Buragna, dicui ben to ſto s'ammireranno gl'ingegnoſi filoſofici trovamenti, ed al tri incomparabili eroi, che con gloriofiffima gara lundcl l'altro fe'n vanno per le vaſtiſſime regioni della natura, fu perbi,e alti voli lpiegando: fe non perchè tutti coltoro va ghilimioltremodo di ſpiar la ſola verità,non vollero giá mai ſtarſene a niuno, ne a' derti di niuno traportar cieca mente ſi laſciarono. E viuran ſeipremai pe'l contrario ſenza fama, e ſenza lode appo i faggi, e prudenti ſtimato ri delle coſc tutticoloro, che toglier non vogliono una sì 1 commendevole, e neceflaria libertà; anzi ſovente in tai fal. limenti dalla lor cieca oſtinazione ſon tratti, che ne ſenza riſa rimembrare, ne ſenza nota d'obbrobrio, e di vitupero nominar unque ſi poſſono. E io comechè ſopra ciò diviſar lungamente potrei, e di sì fatti errori quaſi infinito numero rapportarvene,purnon dimeno rimarrommene per modeſtia; c fie baſtante il ri duryi amemoria, ſol ciò, che d'un ' oſtinato, e duriſſimo Peripatetico LIZIO narra il Sagredi appreſſo quell'altiſſimo filo ſofante,ch'oggi l'Italia tutta onora più che altri già non fe la ſua Grecia. Mi troyai, dic'egliga caſa un Medico molto „ ſtimato in Vinegia, dove alcuni p loro ſtudio,e altri per » curioſità convenivano talvolta a vederqualche taglio di „ notomia per mano d'uno, non men dotto, che diligen te, e pratico notomiſta; ed accadde quel giorno, chę ſi andava ritrovando l'origine, e naſcimento de'ner » vi, ſopra di che è famoſa controverſia infra' medici „ Galienifti, e Peripatetici LIZIO; c moſtrando il notomiſta, co » me partendoſi dal cervello, e paſſando per la nuca il gra » diſſimo ceppo de' nervi, s'andava poi diftendendo per es la ſpinalc, diramandoſi per tutto il corpo: eche ſolo un fil ſottiliflimo, come di refe n'arrivava alcuore: voltofi 5 ad un gentil'huomo, ch'egli conoſceva per filoſofo Perripatetico LIZIO, e per la preſenza del quale egli avea cons iftraordinaria diligenza ſcoverto, e moſtrato il tutto,gli „ addomandò, s'egli reſtava ben pago, e ſicuro, l'origine de'nervi venir dalcervello, e non dal cuore: al quale il „, filoſofo dopo eſſere ſtato alquanto ſopra diſc, riſpoſe: voi m'avete fatto veder queſta coſa talmente aperta, e ſenſata, the quando il teſto d'ARISTOTELE non foſſe in chiaro, ch'apertamente dice i nervi naſcere dal cuore, biſognerebbe per forza confeſſarla per vera. Ragione. volmente adunque potè cantando eſclamar colui. Sæpe graves, magnoſque viros, famaqueverendos, Errare, & labi contingit, plurima fecum Ingenia in tenebras cunfuerunt nominis alti Autores, uticonnivent, deducere eajdım, 1. Tantum exemplavalent, adeo eſt imitabilis error. Fin quìha potuto trarmi con convenevol diſdegno dive dere in tanti errori i miſerelli parteggianti vitupcrofamen ce cadere. Ma vegnamo a moſtrar ora, ſicome già propo nevam di fare,quanto i Sacri Teologi la libertà, che noi commendiamo, eglino altresì, ed approvino, e lodino. E chi baſtantemente mai rapportarpotrebbe,con quan co fervore s'attraverſi a coloro che la libertà degli Scritto ri intendonodi riſtrignere, quel ſottiliſſimo fra gli Scolaſti ci Teologi Durando? Egli con chiare, ed efficaci ragioni manifeftaméte il ci va dimoſtrado con dire che ſe mai noi dovremo agli altrui detti acchetare (il che non ſi deca niú modo concedere ) chi così temerario, e così folle farà,the più toſto a’Pagani, e perfidi gentili fede preftar vorrà, che a’ facri, e piiſcrittori, e Padri di Chieſa Santa da divin lu me illuftratis e pure Agoſtino proteſta di non voler'egli già, ch'a'ſuoi detti dar s'abbia ferma credenza: ma che ciaſcuno in prima ben bene gli diſamini, & abburatti, e ſe veri non gli pajano ſenz'altro alcun riguardo gli rifiuti to Ito, e rigetti;indi le parole medeſime di AGOSTINO recate avendo così fieramento ſcagliandoſi contro alcuni barbaf fori, che vogliono impor meta alla libertà degli altrui in gegni, e ridurli al durofervaggio di qualche fi fia ſcrittore, e che altro, eſclama egli, è ciò per Dio, ſe non che un vo lere quel tale ſcrittore antipurre a'Dottori di Santa Chieſa? fe non che un chiudere il varco a color,che vanno in traccia della verità?Se non che un far argine a quei, che s'inviano pe'lſentiero della ſapienza: ſe non cheun'ammorzar violen temente, non che oſcurare il chiariſſimolume della ragione. Così quel gran Dottor della Chieſa, non men d'ammira bil ſantità, che di profonda ſcienza dotato, ſcrivendo al Gran GIROLAMO, lume maggiore della Criſtiana Religio ne, dopo avergli detto, ch'egli dava intera, e ferma credenza a'libri ſolamente della ſacra Scrittura, ed agli autori di quella, degli altri in sì fatta guiſa egli favella: Alios autem omnes ita lego, ut quantalibet San &titate do Etrinaqueprecellant, non ideo verum putem, quia ipfi itas Jenſe is fenferint,fed quia mibi, vel per illos authenticos autores,vel probabili ratione, quod à vero non devient perſuadcre po tuerunt. Ma prima di S. AGOSTINO quel criſtiano Tullio, Lattanzio Firiniano, avendo iſentimenti medeſimi con eloquenza; ed efficacia non ordinaria manifeſtati,ſiegue a dir poi, ch' ogni ſapienza da ſe caccian via coloro,che ſenza diſcreto giudicio,i trovati degliantichiapprovano, e a guiſa di pe corelle dietro a quelli ſi laſciano ciecamente trarre; per ciocchè: ficome egli ſoggiugne: Hoc eos fallit, quod maa jorum nomine pofito non putant fieripulje, utaut ipſi plus fa piant, quia minores vocantur, aut illi deſipuerint, quia majores nominantur: cd alla fine così gridando ei conchiu de: Quid ergo impedit, quin ab ipfis fumamus exemplum, at quomodo illi, quifalſa inveneruntpofteris tradiderunt, fic nos, qui verum invenimus poſteris meliora tradamus. Or dunque, fe tanta libertà ſi tolgono i Sacri Teologi, che talor dove ragion ripugna contraſtano ferventemente a'lo ro maeſtri, ed a’Dottori medelimidi Chieſa Santa, ere tāta libertà richiedeſi a'filoſofanti a poter ſaggiamente in veſtigar la natura delle coſe; quanta crederem noi ch’ab. biſognardebbaaʼmedici. Anzi coſtoro di tutt'altri certa mente maggior la debbon godere ſenza alcun paragone; imperocchè ſei filoſofi volendo pur ſtrettamente appiccar ſi ad alcuno, altro per avventura non fanno, che con in gannar ſe medeſimitrarli alcun'altro dietro ſenza nocimé to alcuno, che all'altrui vita ſeguir ne poſſa: i Medici per lo contrario, con laſciarſi a'lormaeſtri ingannare, non di naſconder ſolamente altrui le verità naturali,non di ficcar carote al baſſo vulgo ſolamente ſi ſtudiano, ma oltre a ciò da'vani,e ſtoltiloro aggiramenti,offeles c per lo più mor talijanzi ſterminje rovinc cagionarſitutto di crudeliſſima mente veggiamo. E pure i mediciduri, e oſtinati dietro al lor Galieno le veſtigie di lui, nõ già la verità,vā ricercă do; e come ſaggiamente notò l'avveduciſſimo Signor di Montagna: On ne demande pas fiGalien a rien diet qui vail le:mais s'il a diet ainſin,ou autrement. Esì gli antichi am,. 1 maeſtramenti, anzi gli antichierrori ſempremai ſeguir vom gliono; e mi ricorda a tal propoſito, che ritrovandomi in brigata di curioſi, e dotti amici a caſa il noſtro Severino quivi da un diligente notomiſta Daueſe ne fur moſtre le vene acquoſe in un cane da lui aperto; ma immantinente levolli ſuſo un teſtereccio Galieniſta (il qualeſimili trova ti prendendo a gabbo poc'anzi avea detto effer eglino ar zigogoli di moderni ingegni per far contraſto al for ſaggio Galieno ) e contro al buon notomiſta in ceffo rabbuffato, c adattandoſi gli occhiali al naſo ſtizzoſamente ſcaglioſli con un preſto argumenter contra: ne era inai egli per rifi pare, ſe oltre alle riſa de'circo tantichetamente, e in vo ce piena di carità, e di modeſtia, non gli aveſſe il prudente Notomiſta replicato, ſe non valere ſtar su le difeſe, mu eſſer pienamente pagodi ciò, che gliocchi, e le man pro pie le facevan chiaramente vedere. O ſtrana, o incredi bil pertinacia de parteggianiMedici, voler eſſere anzi cic chi, e ſordi, e tradir ſe medeſimi, ei malati, che ponen do giù la dura, e pertinace loro oſtinazione ricrederſi de' manifeſti errori de’loro macſori: anzi porre in oblio l'uma nità, e'lnatural conoſcimento, e lume, per gire così loro inconſideratamente appreſſo, Come le pecurelleeſcon del chiuso Ad una, a due, a tre: e l'altrefanno Timidetteatt errandol'occhio, e'l muſo; E ciò che fa la prima, e l'altre fanno, Addo andoſi a lei s’ella s'arreſta, Semplici, e quete, e lo perchè non ſanno Ma chczben ſo lo, che per la più parte ciò fanno coſto ro, non peraltro, ſe non ſe ſolamente per torſi da doſo la troppo nel vero gravoſa, e malagevolc briga d'inveſtigar con iſtenti, e ſudori la naſcoſa, ed a’lor m.cítri non cono ſciuta verità; e perciò fan veduta d'eſſer ſaggia elczione di ragionevole genio, quella, che certamentealtro non è, che dapocaggined'intelletto groſſo, e tondo; e sì la loro ignoranza, e la loro pecoraggine cercan di ricoprire, onde poi d'aſtio, c d'invidia fremēdo, per dar quanto (torpo per loro ſi poſſa alla gloria de moderni ſcrittori, quella degli antichi mai sëpre d'innalzar fi argomentano; del quale ma ligno, e biafimevole artificio, forte lagnádoſi Marziale col ſuo Regolo così canta: Eifequid hoc dicam vivis, quod fama negatur Et ſua quod rarus tempora leltor amet. Hifuntinvidia nimirum Regule mores Præferat antiquos ſemper,utilla nuvis. Nono Signori, che non ſon già queſti i veri ſentieri,per cuine’tempiantichi s'avvivono, ed Ippocrate, e Diocle, e Plistonico, e Praſlagora, ed Erofilo, e Filotimo, e Cri fippo, ed Eraſiſtrato, ed Aſclepiade, per tacer d'altri, es d'altri famoſi razionali medici antichi. Così anche a'tem pi noſtri ſi ſon vedutimontar feliceméte al titolo de'ſaggi, e'l Valentino, c'l Paracelſo, e'l Quercetano,e l'Elmonte, e'l Villis, e'l Silvio, e tant'altri avvedutiffimi medici moderni. Non è giàtale crederemio Galienifti, non è già tale il ſentiero del voſtro Galieno; (gannatevi pure una volta, e ſe non altrui, credetelo a lui medeſimo, che oltre a quel, che n’abbiam di ſopra rapportato, egli più ch'altrove af faichiaramente quivi l'afferma, ove diſe medeſimo narra, che egliavea per coſtumedi chiamar ſervi tutti coloro, i qualidaIppocrate, e da Praffagora, o da chiunque altro fi foſſe predevano il nome, e che da tutti egli uſava di mai fempre fcegliere il migliore: ήρετο πνα των εμών φίλων από ποί και έην αιρέσεως • ακούσας δ'όπ δούλες ονομάζω τους εαυτός αναγο ρεύσανας ιπποκρατείας, και πραξαγορίες, η όλως από πνος άνδρας, εκ λίγοιμι δε τα παρ' εκάσες καλά, δεύτερον ήρετο, ίνα μάλιση των πα hasūv in aivoso: ma che? un'altra fiata lo ſteſſo voftro Galie no non dice, che a manifestiſſimo riſchio d'incorrer in nons pochi erroricoluis'eſpone, che fermamente ſecondar ſem premai vuole i ſentimenti, che il maeſtro della ſua fettan come falde, ed infallibili verità gli diviſa? conciosſiecofa chèſecconc una certiMima ragione di ini medeſimo colle ſue propie parole ) Χαλεπόν γαρ ανθρωπιν όν % μη διαμαρτάνειν εν πολ. λοίς: τα μεν όλως αγνοήσαν τα, τα δε κακώς κρίναντα, τα δε αμελί segov ypay ar to,cioè: egli è malagevol molto, o pure impoſſibile cheunoseſſendo buomo,in tante, e si diverſe coſe ialor non s'aggiri, alcune affatto non ſappiendo,enon conoſcendo,e d'al tre malgiudicando, e d' altre alla fine con poca cura, ed avo vedutezza favellando. Fin quì Galieno, il cui faggio av viſo non ſolocome mai pofla per Galieniſta alcun traſan darſi, o manifeſtamente diſpregiarli; e pure egliè tale, che più, che a tutt'altri, dovrebbe eſſer a cuore a'Galieniſti, i quali lodovrebbon prontamente ſeguire, ſe non mai per altro, almeno per darne a divedere, ch'elli veramente há bo in quel pregio, ed in quella ſtima, che tutto dì millan tano, il lormaeſtro, il lor principe Galieno; altrimente vero dirà Paganino Gaudenzio, il quale queſto graviſſimo fallo loro rimproverando, prorompe in queſte parole, Ga Lenum voce tenus extollunt, re ipſa autem deferunt, atque contemnunt. Tanto dice o Signoriilſaggio, e ben conſigliato rino vatore della vera filoſofia, e medicina, e con ragioni, e con teſtimonianze forſe di maggior lieva più oltre proce derebbe, s'egli non avviſaffe, che il rimanente ben pote te voi, come ſavj,per voi medeſimi pienamente compren dere; onde con quelle divine parole, le quali già lo inge gnoſiſlimo TELESIO ſotto l'effigie della Verità giuſtamente (culſe Móva pod pina, cioè a dire Sola coſtei a me amica; e con quelle parole, che replicar così ſovente il Paracelſo folea: Alterius non fis, qui ſuuseffe poteft, ê ſe ne rimane Ma io aggiugnerò di vantaggio, coſa, che per avven tura a primafaccia ella creduta nó mifie, e pur ella è vera, e pur ella è certa: ne loolerei dirla, ſe non ilperaſli farve la toccar con mani, cioè, che poco men, che tutti i più celebri, e più ſtimati parteggianti di Galieno da chiarore di verità talvolta illuminatihan fatto come propj i medeſi miſentimenti, e quaſi tutti tanto nel filoſofare, quanto al fatto del medicare foglion ſovente dall'orme di Galieno, e d'Ippocrate medeſimo partirſi, alcuni liberamente ciò có deſfando, altri poidiſimulando la coſa, e'l contrario tutto con fatti adoperando, di ciò,che ſempremai con parole proteſtar ſogliono. E percominciar dalle Spagne, acciocchè per noi in si lungo narramento con qualche ordine ſi proceda, Tomaſo Rodrigo Viega,infra gli altri Spagnuoli nobiliſſimo inter petre di Galieno, ſcuſandoſi una volta di aver contra a’sé. timenti del ſuo maeſtro diviſato, di cui allora appunto egli ſtava il libro delle differenze delle febbri comentando,co si ebbe a dire: Eſſer egli da credere, che noi non pur fiam nati ad interpetrare gli altrui detti, ma altresì a diſami nargli ben bene, più pregiandola forza della ragione, che l'autorità de'maeſtri; ed ove ſiam da neceſſità coſtretti, li beramente da lor ci dipartiamo, perchè dalla verità non venghiamo a dilungarne; e quindi a poco paſſando a di ſaminar le ſue dottrine, il toglie in non pochi falli,de'qua li ſuoi avviſi ſommamente egli pregiandoſi, alla fine con chiude: quæ animadverſiones liberum animum oftendunt,com uni veritati vacantem. Nequi rapporterò lo altre ſue parole intorno al mede fimno ſentimento, che troppo lungo ne verrebbe il mio di. ſcorſo; ma non laſcerò lo già di dire, come forte per lui ſi ripigli, l'haver Galieno la reſpirazione al cervello aterie buita,ſognandoviſi per ſoſtener sì folle opinione, unamé brana non mai per niun Notomiſta ravviſata. Ne men ta cerò, come chioſando egli quel luogo, ove Galien con feſla apertamenteeſſerſi eglimededelimo ingannato in giudicandod'un ſuo propio male, contro luiprorompa in queſte parole: Galenus qui in propriis malis cæcutivit, quid in alienis faceret? Ma chi potrebbe mai il famofiffiino Galieniſta Frances ſco Vallelio séza taccia di traſcuraggine intorno a ciò tra laſciare? cgli avvedutiffimo ne'luoilentimenti, non pure il ſuo maeſtro Galieno, e'l ſuo divino Ippocrate nelle co ſe di maggior confiderazione arditamente abbandona, fi come nelpurgare, e nel cavar ſangue, quantunque quafi con argani, e con lieve, co tutte ſue forze a ſentimentiluoi di traſcinargli ſi affatichi; ma in un particolar luo libbri M cino alcuni detti del ſuo Galieno rapportar volle, coranto fra ſe contrarj, e diſcordi, ch’in niun modo, ſecondo lui, difender mai, o riconciar baſtantemente fi poſſono; la qual coſa prima di luiaveaſiancor tolta a fare quell'altro dotto compilator di Galieno Andrea Laguna. Così anco ra dal giogo degli antichi due Greci maeſtri ſi ſon talvolta ſcolli,, e ſtrappati, e per altre ſtrade liberamente avviati il Lemoſio, il Mercato, il Mena, il Segarra, il Peramati, il Pereira, e'l Mattamoros. Ma ciò far ſi vide più di tutt'al tri Spagnuoli, e con maggior nerbo, l'avvedutiſſimo Pier Garlia nobiliſſimo profeſſor di medicina nell'Accademic Compluteſe; la qualcoſa così egli faggiamente proteſtā do, dice, che altri non prenda maraviglia, ſe di quelle co ſe, ch'e' rapporta, alcune n’abbia colte altrui variamen te diſaminandole, e ſe inolte ſien nuove, e nonmaidaglian tichi pria dette, ne pubblicate in alcun modo: quàm(ſog giugnendo ) in rebus ad examen revocandis non authorita tes,sed rationum momenta conſtet preponderare, indeque, vetus verbum: Amicus Plato, fed magis amica veritas, oy tum babuiſe. E per far motto intorno a sì fatta maniera, ancor de Medici di Valenza, i quali sì con Ippocrate, e con Galicno ſtar ſogliono ſtrettamente confederati, che anzi a ſommo fallo li recherebbon, che no, il dilungarſi in un ſol minuto punto dalle loro dottrine. Pure il Pereda fuo chioſatore forte fi briga diſcuſar Michel Paſcali cele bre ſcrittor di pratica Valenziano, perchè queſto poco ti? lor ſiaſi curato delparere di quegli antichi maeſtri, così dicendo; cum bic vir doctus ſcripſerit tempore quo multæ falf & barbarorum ſententiæ vigebant, veritates Galeni,quas modo multorum auctorum lectione habemuserantocculte. Ma che forſe il Pereda in quelle ſteſſe ſue chioſc, ove a fuo potcre egli crede di rimettere il Paſcali nella diritta ſtra da, non ne torce ancor'egli, e non una, o due, ma più, e più fiate? certo, che sì; imperocchè in trattando delle febbri ardenti, così ne ragiona: Cum vero in hac febre non apparent figna fanguinis, non eft neceſſaria ſanguinis miſſio, fed purgatio bilis, neque inomni putrida febri ſecandaeſt ve 14, ut 1 na, ut multi recentiores medici cum Galeno X1. Meth. vo. lunt. Or ecco, come da Galieno ribellando il ſuo giura to campione, e lotto le bandiere del barbaro, e miſcredé te Avicenna fuggendoſi,arditamente gli fà teſta, e cerca, di mandare a terra una dellebaſtie più celebridella Galie nica medicina, fondata in ſu quella univerſal ſentenza,che veruna eccezione non patiſce, cotanto replicata da Ga lieno, e celebrata da’ſeguaci di lui: xala,soy eli cw, ws dignton, φλέβα τέμνειν ου μόνον εν τοίς συνόχοις πυρετούς, αλα και τοις άλλοις απαστ τοϊς επί σήψ « χυμούς, όταν γε ήτοι τα τ ηλικίας, ή τα τ δυνά pescos pead montées: Egli è coſa falutevoliſſima, ficome io hogià detto, ilcavarſangue, non folo nelle finoche, ma eziandio in tutt'altre febbri, che daputridi umori fon cagionate, fol, che l'età, o be forzeno'l vietino. E comechè li forzi egli di ceſſare la fellonia, con dir, che Galieno non faccia men zion del falaſſo altrimenti nella terzana ſemplice, ed altri moltiſſimi eſempli vada ei rapportando: queſto però è un volere ſaldar la piaga con pannicelli caldi, direbbe lo’nfa rinato della Crusca, ed un'aggiugner colpa a colpa, fallo 2 fallo, in modotale, Che non l'avria Demoſtene difeſo; imperocchè vien'egliin sì fatta guiſa ad accufare il maeſtro di contradizione, o di poca fermezza almeno, il che affai monta in faccende di così gran rilievo.Ne men moſtra,che molto fedel ſia di Galieno il Pereda, colà ove dice: Mul ti fequuti Galenum lib.VI.derat. vict. in morb. acut. in by dropeanafarca ex fuppreſiunemenfium, d hemorrhoidibus, autalia plethoricaaffectione orto,quando incipit fecant ve nam, quod difficillimum nobis videtur,immo falfum, quia in hydrope jecur maxime refrigeratū eſt, do funguinis misfio ex accidéti refrigerat.E finalmétericordevole d'eſſer filoſofo, d'esſer medico, d'eſſer libero, a viſo aperto dice altra volta il Pereda, favellando d'un luogo d'Ippocrate malamente, ſecondo lui da Galieno ſpiegato; quem locūzignofcant mihi ejus manes, Galenusnon recte explicuit. Stefano Roderigo da Caſtello, Portogheſe,celebre lettor nella famoſilli M 2 ma ſcuola di Piſa, nei libro de Meteoris microcoſmi, ove ſommaméte proneggia d'effer medico, e filoſofante libe ro, dapoi ch'egli ha commendaro Ariſtotile, che ne ha laſciaci credi del ſuo libero filoſofare, forte ſgridando co loro, che voglion ſempremai gir carpone collo inge gno, e farti ſervi d'altrui, così favella: fed quotus quiſ que eft, qui hanclibertatem velit? Proh dolor, ingewa phi lofophia ſervos parit: ed altrove: ego vero quid antiquiores fenferint parü ſollicitus, &nulli ſedia addictus.E poco ap preſſo:Neotericorú inventa, fi qua mihi arrident, amplector, quæ difplicēt relinquo.Chiama egli più d'una fiata Galieno negligente, duro, oſtinato, caparbio, protcryo, e catti vo filoſofante; e cotanto allontanoſſi dalla dottrina di Ga lieno il Roderico nel menzionato volume, che vennnea formare un novello ſiſtema di razional medicina. Il celebre fra'GalieniſtiSpagnuoli Andrea Santacroce, quante volte, e quante all'opinion di Galieno, e d'altri an tichi, o non bada, o non cura, o talora lc fpregia? Noil dic'egli una volta: mihi fufpe &ta eft Galeni doctrina; ed al tra volta motteggia il medeſimo, perch'e'malaméte ſpiega un teſto d'Ippocrate có dire:frigida explicativ; ed altra fia ta ripigliádo có viſo d'armi Galieno,nó dice, ch'egli a tor to ofa cacciare Ippocrate, come colui, che non intera mente aveſſe aflegnate le cagioni della debolezza delles forze nelle malactie: eccone le ſue parole: Hippocrates elio modo, & forfan clariori caufas debilitatis nobis propo fuit, quamvis Galenus illumfine ullo fundamento repreben dere aggrediatur. Ma quale oggidiaperto campo, e libe ro nello Spagne tutte a' medici lia dato da potere agiata mente perciafcuna fetta ſcorrerc, affai fie manifesto a chi pon mente alle parole framezzate nell'opera del medico della Regal caſa Gaſpar Bravo, valoroſo, e forte cam pione della doctrina diGalieno: e fono le ſeguenti: liens Non eft conformatum à natura, ut fit receptaculum bumoris melancholici redeuntis è jecore, quod Galenus, & reliqui dugmarici antiqui illi ſubſcribentesfinem pracipuum quare fuerit lien à natura conformatum ignorarunt; quod Galenus in ina in infantis anatomes non potuit circulationem fanguinis, cu motum percipere. E in priina, di Galieno medeſimo avea già detto:fiabſolute velit interdicerefanguinis miſionem in pueris, non ftandum ejus doctrine. Senzachè volen tier coſtui ad alcuni novelli trovati dà piena credenza, fi come all'aggirarli del ſangue, ed alle vene latree, e ad al tri molci diviſi moderni; perchè ragionando d'Arveo, così manifeſtanente dice: quod Haruei doctrina, ſi vera,non ob ftat, quod nova, ab illo noviter dicta, quia in naturali busnon tam quis dixit, quam quid dixit examinandun. O faggia veramente, e prudentiſſima ſentenza, e degna d'un vero filoſofo, degna d'un vero medico, degna d'uns vero, ed avveduto diſcepolo d'Ippocrate, e di Galieno ! E che direm noi o Signori dell'Accademie tutte delle Spagne, da quella di Valenza in fuori, la qual ſola, eco ſtantemente di non dipartirſi giammai in coſa niuna dal ſuo Ippocrate, e Galieno ſi da vanto? Coſtoro certamen te han ſeguito ſempre, cſeguon tuttavia per ſolo titolo i medeſimi Greci maeſtri; ma in verità quanto poi da loro nell'adoperare dilunghinſi, non ſi può egli bastantemente narrare. Eben'avviſollo una volta il teſte mentovato Ga lieniſta Andrea Santacroce, il qual dopo aver due luoghi delluo Galieno recati, ove coluidice, che ne’troppo fred di, o nc'troppo caldi tépi non ſi debba a niun partito cavar ſangue, avvegnachè grave, e di riſchio ſia la malattia,e l'infermo freſco, e giovine, c ben’atante della perſonas foggiugne inanifeſtamente poi: certe qui hæc legit,quomo dotempore Eſtivo, &in ifta tam calida Matriti regione,pre cipue hoc anno, tam audacter mittit fanguinem? quid mira quod multi interierint, ut dicitGalenus? fed quid mirum fi tantum aberrent multi, ut mittantſanguinem folius refri, gerationis gratia? Malaſciādoci omai addietro le Spagne,valichiamo pu., rca ragionar della Frácia, nella quale avvegnachè la oſti natiſfiina ſcuola di Parigi aveſſe col Quercetano tutt'altri Chimiciperſeguitati, e banditi, non fù ella poi così fal dase coſtante, che non abbandonate talvolta, ed aper tamen 94 Ragionamento Secondo tamente non rintuzzaſſe la ſcuola d'Ippocrate, e di Galie no; imperciocchè da’ſentimenti di coſtoro, quanto al fat to delle purgagioni, e del ſegnare, e d'alcune altre core di lieva alla medicina appartenenti, tanto, e si fattamen te fi dipartono, e s'allontanano, che più non farebbero p avventura i medeſimi liberi, o vaghi mcdicanti; il che pienamente ſi può per ciaſcun comprenderedall'opere de più famoſi medici di coral nazione. Ne permio avviſo è da logorar punto di tempo in far parole del famoſiſſimo Rondelezj; eſlendo purtroppo manifeſta la libertà, con cui egli imprende a vagliare, ed a riprovar l'antiche opinioni, e produrre in mezzo, e ſtabilir le novelle, dal propio inge gnioritrovate. No meno è gran fatto da prender cura di porre in chiaro quanto il dottiflimo Valerioia îi moftraſſe ſempremai fido amatore, e difenſor della verità,le cuilo di di celebrare, ed innalzar fino alle ſtelle non è mai ſtan ca la ſua eloquentiffima penna; oltremodo commendan do altresì Galieno, perciocchè ancor'egli per amor della verità avelle più fiate fronteggiato il venerando macſtro Ippocrate; eſſendo egliciò ben conoſciuto a chiunque l'o pere diluiabbia rivolte. E oltre a ciò quanto il medeſi mo Valeriola ſenza alcun ritegno ove gli ſia in concio ad Ippocrate, ARISTOTELE, e Galieno faccia contraſto; palesí do ſenza riſpetto, quanto ſoventemente,l'un detto diGiz lieno l'altro annulli, ſpezialmente colà, ove ſi briga di vo lere ſpianar la facoltà dell'orzo, o dove ragiona filoſofan, do dell'amaro ſapore, e tutt'altri fallimenti di lui, qualo ra gli vengan conoſciuti, non laſcia con generoſa libertà di ſvelargli, e ripigliargli. Ma non potrei tacer'io dell'elegantiſſimo Fernelio, il quale, comeche foſſe motteggiato dall'Italico Galieno Aleflandro Maſſaria con quelle pungenti parole: fummus cum ratione hic vir ſuo libro titulum inferipfit, Ferneliime dicina; namque fi totam illius inftitutionem, omniaque dig mata diligenter animadvertas,ea majoriex parte juntite ejus propria, epeculiaria, ut prope fint nullius alierius:pur decegli, non ſolo gran lume della riſtorata cloqueaza Ro mila, 1 mana, ma ſovrano pregio dell'arte della medicina eſtimar fi; perchè credendolo proverbiare il Maſſaria, il vennes anzi a commendare, che nò; imperciocchè, fe ad altro, ch’a ricercar nuove coſe, e per alcun'altro non mai prima tocche ebbe il Fernelio l'animo tutto, e'l penſier rivolto, per certo, che egli fi fe in tal guiſa conoſcere per degno imitatore, anzi einolo d'Ippocrate, e di Galieno. Ma forſe il Maſſaria non riguardò punto a quelle parole, le qualiil Fernelio,antiveggendo,che delle ſue novità ſareb be per alcun da eſſer tacciato,nelprincipio del ſuo vaghiſ ſimo volume laſciò ſcritte; la dove egli con sì efficaci, e convincenti ragioni, econ sì maraviglioſa facondia, la fua cauſa difende, che più non farebber per avventura, o'l fottiliſſimo Demoſtene, o l'eloquentiſimo Tullio; le qua li per eſſere ſoverchiamente lunghe qui io non rapporto; ma non gia tacerò lo quell'ultime ſue parole, colle quali maravigliando egli de famoſi trovati dell'età fua, così al tamente favella:nihilvere docto illifeculo debet hæc invi dere. Dicendi ratio, fummaqueeloquentia nunc paffim flo refcit, philofophiæ genus omne excolitur:m:ufici, geometra, fabri, pictores, architecti,fculptores,aliiquc artifices innu merificmentis aciem extulerunt, ut artes quique ſuas pre claris, magnificiſque operibus exornarint, quevetuſtioribus illis uno omnium ore celebratis nihilcedant. Neque inven tis folum ornamenta, e incrementa adjunxit temporum ex curfio, fed &artes novasprotulit,ad quas priorum nunquã, velingenium, vel induſtria penetraverat. Quindi ſieguo egli a raccontar delle bombarde, delle ſtampe, delle bof fole da navigare, e d'altri maraviglioſi ritrovati de'tempi addietro; e intorno al navigare ſi vanta ſommamente d'a vervi anch'egli fatta la ſua parte. Mao quanto più il benz parlante Fernelio com menderebbe la noſtra età, fe vedeſſe a' dì noftri di nuove, e più maraviglioſe pro ve la fperienza accreſciuta, e ſempremai ritrovarſi da gli ingegnoſi moderni, o le carrette a vela, o le trombe parlanti, o le lanterne magiche, o i teleſcopj, oimicro ſcopi, o le tante, e tante, e sì maraviglioſeforti d'oriuo J ligo li, o i varj, e varj, e non mai poſti più in opera ſpecchi co cavi,che repentemente liquefanno anchei metalli più du. ri: o le Pitture, che apparir fíno a’riguardáti, Protei di mil le forme le colorite telc: o con qual arte da guerra infra brieve ſpazio di tempo in terra ſi gettino le Cittadelle, ultimo rifugio de’vinti, & ultimo ſtento de’vincitori: e co me dall'acceſe bombarde li mandi ſoccorſo alle caden ti fortezze, traendo argomento di ſalute da’medelimi ſtrumenti d'offcfe: 0 come a diſpetto quaſi della natura ſi poſla forc'acqua francamente navigare. E come egli au rebbe aggrottate per iſtupor le ciglia in avviſando altreer ranti, ed altre fille non mai più vedute Itelle, ed altri, ed aleri movimenti, oltre a quegli già per l'addietro conoſciu ti nel Ciclo dagli antichi. E che aurebbe egli detto dell' Elatere dell'Aria, de' Barometri, delle Termometre, e degli ſtrumenti del vuoto, in cui non rimane ne men pic cio iſlimoacomo d'aria? Eche de’nuovi, e maraviglioſi uſi della calamita? e che del trasfonderli del ſangue e di cotant'altre prlove, che commendevol tanto rendono, e amipirabile l'età noftra. Certainente con maggior mara viglia egli ſclimato aurebbe, e con onta pur degli inutili e pecoroni parreggianti: fi omnem laborem pofteri collocaf-, fent, ut eas folum artes, diſciplinas exædificarent, qua rum fundamenta priores jecerant, nunquam tam multa di fciplinarum copia creviſet. Si qua in veterum mentem non venerant, juniores non aperuiſſent, neque illorum induftriam fuis vigiliis excitafent: nova ingeniorum lumina minime lucefcerent. Ma e'l Fernclio, e tutt'altri autori Franceſchi prima di lui, quanto al filoſofar liberamente poſſon ceder tutti la maggioranza a Lorenzo Giuberti nobilillimo lettore nell’Academia di Mompelieri; il quale dopo ellerli oltre modo lagnato de gravioltraggj, che per opera d'Ariſtote le han villanamente molti degli antichi ſavi patiti, haven do colui si fittamente i lor ſentimenti inviluppati, e {tra yolri, che s'eglino pur ci ritornaſſero, non più, comopro pi lor parti ravviſur certamente gli potrebbero: indico 4 1 1 4 silog. sì loggiugne. Hinc res eò miferia tandem reducta fuit, ut quum maximophilofophurum damno aliorum commentaria periiſſent,in iis nullo refragante poſteritas tenaciffime inhee Jerit, ea tantum vera eſe ſibi perſuadens, quæ fine contro verſia proponerentur. Quindi egli con animo libero, e fin loſofico, dinon dover ſenza minuta conſiderazione laſciar fi trarre a gli altrui pareri,manifeſtamente proteſta: avve. gnachè ſian quelli pure diGalieno medeſimo, dicuiegli così dice. Hec dum animadverto,non poffum non illius quo que dicta exactiusperpendere, de pleriſque dubitare: ut diligentiore facta inquifitione veritastandem (abfit invidia dicto ) eluceſcat. La qual faggia libertà, dice egli, da cia ſcun doverſi ſommamente ſeguire,tra per l'utilità, che ol tremodo ſe ne ritragge, e per l'autorità de'letterati più prodi, ed in iſcienze più valoroſi, che ſempre glorioſamé te l'han ſeguita; de'quali egli fa un brieve, ma ſcelto ca talogo,arrollandovi anche in fine l'avvedutiſſimo Gugliel mo Rondelezj, e ſommamente commendandolo. Ma non ſolamente Lorenzo Giuberti nel ſoftener la fin loſofica libertà moſtrar volle la ſua maraviglioſa coſtan ża, anzi non pago di ſe medeſimo d'imprimere, e propag ginar sì nobili ſentiméti anchenegli animi de' ſuoi ſcolari ſommamente ſtudiosſi. Perchè un diloro ebbe già quell'e legantiſſima orazione, che oggidi ancora vien da'curioſi con maraviglia guardata; e nella quale dopo aver colui có forti, e valevoli prove ſaggiamente la ſua ragion difeſa, la gran forza ſpiegando della verità, dice, quella ſola la greca filoſofia a cotant'altezza aver potuta condurre,e por l'ultima mano alla latina eloquenza: e da quella ſola ani cora eſſer la Criſtiana Religione introdotta, e ſeminata in Europa: e cô la verità medeſima aver fatto capo a Socrate ache Platone; e côtro Platone poi eſſerſi armato ARISTOTELE; e nell'Italia gran tratto dagli Aſiatici aver ſeparato CICERONE. E fu opera anche della verità il replicare appreffoi Criſtiani Paolo a Pietro, e opporſi Agoſtino a Cipriano; e altri molti eſſerſi per ſola vaghezza di quella l'un l'altro perſeguitati. Quindi rivolgendo il ſuo ragionamento a’ri N gidi, e ſuperſtizioli barbafforidi quella ſcuola rancida, che più le viete anticaglie degli ſtolidi maeſtri, chela nuova, e pur mo nata verità ſcioccamente pregiano così ſoggiugne. Et paganorum quorundam (cioè a dire d'Ippocrate, e di Galieno ) memoriam ſuperſtitiosè coletis? eorum nomina tam aniliterperhorrefcetis, ut à falfifſimis quorundam decretisnon poffe quemquamfine nefario ſcelere deficere judicetis? Ma non comporta il tempo, che più avanti lo ne rapporti, comeche per tutto quel libbricino vaghiſſime, ed ingegnofiffime coſe ſparſe vi lieno: ed a cui caglia di leggerlo forſe non rincreſcerà. Di tanta, e sì valevol forza fur le perſuaſioni, e l'au corità de'due valentiffimi maeſtri, cioè del Rondelezine del Giuberti, che traendoſi dietro già tutta la ſtudioſa gioventù di Mompelieri, da indi in poi in quella famofiffi ma Accademia fempre la libertà del ben filoſofare è cam. peggiata. Ne con più ardente, e con più vigoroſo ſtile altra ſcuola di Francia armolli mai a far teſta a quella di Parigi a pro della Chimica, e del Quercetano, quanto la famofiflima ſcuola di Mompelieri: da cui ſon ſempre uſci ti, ed eſcon tuttavia valorofi germogli. Che più? egli è táto non chebiaſimevole,ma impoſſibi le a fofferire la fervitù delle Sette agli ſtudioſi ingegni Franceſchi, che non che altri, macoloro, i quali la liber tà in altrui ſommamente riprendono, come il Silvio, l'Ol Jerio, il Doreto, eiduo Riolani, lor fa meſtieri, ch'a ' giurati maeſtri, o di naſcoſto ſi ſottraggano, o manifeſta mente ribellino. Anzi (chi il crederebbe !) anche colui, ch’a difeſa di Galieno contro il Vefalio sì fieramente ar moſſi, voi m’intendete o Signori, io dico il rabbioſo An drea di Lorenzo, udite come pur ebbe a dire: Ego enim hactenus is fui,qui nullius jurare in verba magiſtri aſſuevi, multa prioribus ſeculisincognita, & diligenti noftra ubfer vatione animadverſa in apertam lucem profero. Mala Lamagna, quantunque foſſe ſtata il Teatro,ovej con Paracelſo da prima, e poſcia con gli ſcolari di lui ten zonaſſero i più oſtinati difenſori degli antichi maeſtri: es quan Del Sig.Lionardodi Capoa. 99 quantunque ſurti vi foſſero, ed in quel meſcolamentoal ſchermo del lor Galieno.v'aveſſer fatta puntaglia il Fuſio, il Platero, il Cratone, ed altri acerbiffimi,e valorofi Gas lieniſti: nonpertanto ſono ſtati i Tedeſchi, de France fchi medeſini nel filoſofar ſemprese nel medicare aſſai più liberi,licome ne dan piena teſtimonianza Giorgio Agrico la, come colui, che in trattando delle coſe minerali tante, e tante fiare va ripigliando gli antichi maeſtri, e Taddeo Duni, il quale, tutto cheGalienifta, pur contro.il mede fimo ſuo maeſtro Galieno, un libro partitamente compo ſe, ove nel procmio così apertamente dice: Galenusquis dem amicus eft, & fcriptor antiquus, & illuftris., vene randus: veritas tamen, & antiquior, & illuftrior, dve. neranda magis.. E che direm noi di Geremia Triverio,di Felice Plateri, di Corrado Geſncro, di Martin Rollando, e d'altri aſſai, ma più di tutt'altri di Mattia Vnſeri.il qua le al ſuo Galieno apertamente ribellandoſi infra l'altre una volta dice con efficaciſſime ragioni aver lui dimoſtro,andar Galieno follemente errato nel filoſofare delle cagioni del. l'Epilellia: e che de' ſuoi falli eredierano rinaſi gli oſti nati ſuoi ſeguaci, negli animi de'qualila falla dottrina del lormaeſtro così tenacemente ſi trovava radicata, ut (per dirla colle ſue propie parole ) Scirrum quamvis durum cia tius digeras, quain inveteratam hanc opinionem àpuero con ceptam, ipfis è mente eripias. Ma quel che maggiormente recar dee eglimaraviglia fiè, che imedeſiminimici,e per fecutori del Paracelſo, eziandio i più fieri, ed acerbi anch'eglino talvolta dalla loro annodata congiura mani feſtamente fi partono, come Felice Plateri, Tomaſo Era fto, Giovan Cratone, Gaſparre Ofmanno, nimico il più im placabile, che mai Chimici aveſſero ilqual tutt'altri medi ci, anche di ſua ſchiera, intinto biaſimò, e ſquarciò, che afpriſfimamente da due diſcepoli di Galieno anche funne ripreſo: l'un de'quali, che fù Daniello Orſtio, così pro verbiando il motteggia: ad Hoffmanni modum, qui inftar anys rixoſe heroes medicos paſſim fcurrilitertraducit; e l'al tro, che è Riollano il figlio, ſdegnato oltremodo, di lui N 2 ſcri Tôo ferive: Hoffmannusnimis liberè, & licentiosè caftigat omnes Medicos, utfolusſibiſapere videatur. Mainfra gli altri partiſſene ancora Rinieri Solenandri filoſofo, e medico digran pregio, il quale coll' armi, dal medeſimo Galieno un tempo adoperate, coraggioſaméte diféde la ſua ragione; e dopo d'aver acculato Galieno de' falli p lui comeſſi nel libro de’séplici medicaméti,così con tro di lui, e degli altri antichi maeſtri ſaggiamente ragio na. Si in his medicina partibus, in quibus plus externi ſon Jus, experientia valet, quam judicium, & ratio, tantū deliquerunt majores noftri, quid credere debemusfactum ef feincæteris omnibus, quæ fola ratio, & ingenii ac umen af Sequi, eperſuadere poteft? E che direbbe ora il Solenan dri, ſe vedeſſe di già fatto palele al mondo, quanto G2 lieno, e altri Antichi,della verità andaſſero lungamente er rati, in filoſofando dietro le parti tutte della medicina? Ma non v'ha infra tutti i Tedeſchi Galieniſti, che de’detti del lor maeſtro Galieno sì poco conto faccia, quanto, ſecon do, ch'io mi creda, quel tanto celebrato ſeguace di lui Daniel Sennerto;del quale perciocchè e' fa moſtra in ogni luogo d'eſſer libero, no fà meſtieri al preséte ch'io sétéza alcuna ne rechi. Tanto ſolamente apporterovvene ciò, che egli in difeſa di ſe ad Antonio Guntero ragiona. Semper novum (dice egli) Suſpectum fuit, antiquum vero lauda tum; fed an jure ſemper, dubito; nam, quod nobis antiqui, olim novum fuit: ideoque non tempore, fed rationibus opi niones affirmandæ funt, eæque veriſimehabende, quæ cum natura, qua antiquiſſima eft', confentiunt. E poco avă ti: multa adhuc in natura reſtant explicanda; & plurimas in ea ita obſcura ſunt, ut magni etiam viripleraque vix de finire aufi fint. Ma non hà egliper mio avviſo animo me no nobile, e generoſo del Sennerti, il famoſo Galienilta Ollandeſe Giovan Antonio Lindeni intorno al giudicar li beramente, e fecondo ragione,la verità delle coſe, ſenza eſfer di vaſallaggio alcuno. Coſtui infra gli altri ſuoi li beri, e memorabili conſigli, una fiata ragionando di Ga lieno, e avviſando in quante beſtemmie, cd empiezze foſſe coluinelle ſue dottrine ſtrabocchevolmente caduto così eſclama: Quid eft abnegare Deum, fi hoc non eft? fi enim iſta non poteſt, ne quidem Deus eſt? alla fine contro i parteggianti di lui ſtizzoſamente prorompe: &hic eſt illes homo,cui non aſſurrexiſe grandenefas eft? cuique contra dixiſſe mortale peccatum eft? E altra volta così del ſuo mae ftro Galieno ragionando: Galenus (diſſe ) magnus eſt, & fuit, &erit; non tantus tamen, quem patiar libertati med fibulam imponere in iis, qua meliori ratione, atqueexperiêm tia certiore habeo comprobata. Ne men del Lindeni maa gnanimo, e libero fu quell'altro Galieniſta parimente Ol landeſe Zaccaria Silvio; intanto che non laſciandoſi tra ſcinare,ma ſolamente condurre a reverendi ſentimenti del maeſtro, ritroſo, e reſtio, ſovente a quelli ricalcitra;e tra viando dagli antichi ſentieri, per nuove, e non uſate vie s'argomenta talvolta, comechè poco felicemente, d'ag giugnere alla verità. Priorum veſtigia (dice egli) omnia premere, & eaděſemper inculcare ridiculū eft.E no guari ap preſſo: Pigri eft ingenii contentum effeiis, quæfunt ab aliis inventa, fiquidem mentis acrimoni: nihilnon humanarum rerum ſubjicitur. Perciocchè ficome egli medeſimo ra giona, non è la medicina, o la filoſofia così ſtretta, così anguſta, e di sì poca ſpazioſità, che di preſente dagli an tichi primi macſtri ſi foſſe potuta ingoinbrar tutta, ſenza laſciarne ſpanna altrui; ne così manifeſta, e ſviluppata, iz ciaſcuno è la verità delle coſe chei primicri inveſtigatori di quella aveſſero avuto ventura di prenderla liberamen te ſenza gli argomenti di cotante ſperienze; e giugnendo primieri alla gloria vincerla ſolamente della mano; veri tas, fù ſentenza di lui, in multo altiorem demerfa puteum eft, quam utpaucis inde extrahi poſſit feculis. Énel mede fimo ſentimento fu certamente ciaſcun'altro medico, fi loſofante di Ollanda; c Io ne potreiquì rapportare infini te teſtimonianze, ſe non che io temo per avventura di ſo verchiamente ſtuccarvi colla mia lunghezza. Ma non poſſo perciò tralaſciare a dire dell'ingegnoſo filoſofante, e medico de'ſuoitempi Giacomo Bacchio; il qual veggens е doſi da' ſentimenti, e dalla ragione perſuaſo,anzicoſtret to, e vinto a confeſſar l'aggiramento del ſangue, niente curando,ch'una tal dottrina non l'aveſſc egli apparata da' volumi degli antichi maeſtri, sì volentieri la ricevette, e intanto l'abbracciò, che conchiuſe alla fine doverſi quella in diſpetto degli oſtinati Galieniſti tutti ſeguire,ſe ben l'or dine tutto dell'antica medicina aveffe foſſopra a ſconvol gerſi, e andarne a fondo; perciocchè ſecondo un sì nuovo diviſo in aſſai coſe fi riformerebbe la medicina, e in mi glior filo certamente ſi metterebbe. Sic contingit, oſſer vò egli, concefo, ftatutoque ſanguinis circulatorio motu,in numera veteris doctrina fiatuta inverti; unde totus docendi ordo turbatus præpoſtere, & fine certa methodo, & doétrina omnino confuſe inſtituitur, addiſcitur; quam pofitioni bus cashenatim cohærentibus, &certo ordine inſtructis ſia biliri decer. Ma che direm poi del medicar della Lamagna, il quale, da queldella Francia poco certamente s'allontana? ſe non fe i Tedeſchi aſſai più de Franceſchidi ſegnar ſi ritengo no; e intanto l'abborriſcono, e ne ſon ritrofi, che deter minatamente giudicano, i Salaſli mai ſempre eſer danne voli, e ſconcj, e ſe non altro alla per fine menomandone gli ſpiriti, raccorciarne miſerabilmente la vita. No lo mi prenderò quì punto briga in provarvi quanto i Tedeſchi ſien filoſofi, emedicidabbene, e amatori della verità, no appiccandoſi oſtinati, e provani a Setta niuna; ed egli ſiè ben manifeſto a ciaſcuno, non più fortemente altronde che dalla Lamagna eſſere ſtato dimentito, e ricreduto più fiate de'ſuoi errori Galieno. Ma non men libera dell'altre nazioni fu la gran Bretta gna in non yolermai tenacemente appiccarſi a' ſentiinenti d'Ippocrate, e di Galieno, o d'altri antichi medici, ſenza in prima lungamente abburattargli, e porgli allo ſquitti no delle ſperienze, e delle ragioni. E ciò agevolmente potrà comprendere chiunque prenderaſli briga tanto qua to di rivoltarci tarlati, e polveroſi volumi dell'antico Ric cardo, o di Giubetto, o di quelGiovanni, che ſopra tutti manifeſtò i ſuoi laudevoli, e generoſiſentimenti in quel li bro mandato fuora da lui, ſotto nome di Roſa Anglicana; e da cotant'altri antichi Inghileſi, a' quali, comeduchi,e maeſtri del filoſofare, e dell'opere di medicina, piacque anzi gli Arabi dottori, che i Greci maeſtri nelle loro ſcuo le ſeguitare. E più allor crebbe, e avanzoſſi nell'Inghil terra la libertà del medicare, quando pofta giù la ruggine di que'rozzi ſecoli, più preſſo a'tempi noſtri,per opera de gļItaliani maeſtri, rinacquero quivi le lungamente ſepolte greche, elatine lettere; perciocchè allorcertamente con maggior ſenno, e avvedimento ſi puotè per valenti lette rati gareggiar vicendevolmente per la verità; e crebbe tă to poi nella famoſa penna del Primeroſio, dell'Igmoro, e d'altri valenti Galieniſti Inghilefi la libertà delloſcrivere nella medicina, che ſoverchio ſarebbe il raccontarlo. Pu re non mi terrò di ſommamente commendar quelle famo ſe ſcuole,onde ſi moſſe da prima l'incontraſtabile difeſa a pro dellaggiramento del ſangue, la qual sì forte, e valo. roſamente Fiaccò le corna del ſoverchio orgoglio al gonfio, e folle Pariſano, che vergognato, e ontoſool tremodo divenutone, non osò il cattivello per innanzi far ne più motto. Ma chi mai pareggiar potrebbe il valore del grãde Ar veo? ilqual ſgombrate da ſe tutte paffioni di Sette, e di nimiſtà, intanto avvantaggioſſi colla ſua laudevole liber tà ne'ſentimentipiù veri delle coſe, che nelle ſue glorioſe. opere così par, che ſaggiamente ragioni: Io miſon forte fovente meco medeſimo maravigliato di coloro, anzi tal volta hogli preſo a gabbo, i quali follemente s'avviſano aver l'operc d'ARISTOTELE, o di Galieno, o d'altro più cele bre maeſtro cotanta perfezione, e compimento, che nulla certamente lor poffa aggiugnerſi più di vantaggio. Non è la natura delle coſe cotanto aprima faccia manifeſta che compiutamente per huom’poſſa prenderſi, ſenza ben cutca in prima diſtintamente ſpiarla. Ella ha i fuoi ſegreti na ſcondigli, a'quali non può certamente aggiugnerſi, ſenza la 104 Ragionamento Secondo la guida di lei medeſima: e ciò, che in alcune coſe confu ſamente, e inviluppatamente n'accenna, altrove poi reſa. ne fedeliſſima interpetre, più diſtintamente, e manifeſta mente n’eſpone. Perchè ſenza dubbio mal potrà giugnes re a diterminar coſa del mondo intorno all'uſo, o alme ftier delle parti del corpo umano, chiunque in prima non n'abbia ben preſo argomento da ciaſcun ' altro bruto ani male, e'l ſito diligentemente, e la fabbrica, eicongiunti vaſi, e altri accidenti di quelli, e delle lor parti conoſciu to, e l'uſo loro per pruova ſaputo. Et putabimus, dirolla pure colle ſue propie parole, nihil prorſus commodi ab his auxiliisfcientiarum nobis accedere; verum omnem plane fa pientiam à primis ftatimfeculis abforptam fuiſe? Ignavia profeéto hæc noftre, haud naturæ culpa eſt. Ma che non di ce egli, e quali ſaldiſſiine ragioni non apporta in concio a' ſuoi liberi ſentimenti, o nella famoſiſfima lettera dirizza ta al Collegio di Londra, o nel proemio del libro della generazion deglianimali? Pudeat, udite, come all'alta impreſa del liberamente filoſofare ne ſtuzzichi, e ne ſpro ni il magnanimo amator della verità: pudeat itaque in hoc nature campo tam ſpacioſo, tam.admirabili, promifique majora femper perſolvente,aliorum fcriptis credere; incerta indè problemata videre; &ſpinofas, captioſaſque diſputa tiunculas nectere. Natura ipſa adeunda eft; & ſemita quă nobis monſtrat infiftendum. Ma dalle nazioni ſtraniere, paſſiamo omai a narrar del. la noſtra vaghiſſima Italia, pregio delle più belle lettere, e ricovero ditutte ſcienze; la qual certamente, intorno alla medicina, oltre a gli Abbanije i Niccoli, c i Gentili, e i Dini, ei Tomalli, e i Taddei, e i Ferrari, e gli Vghi, e i Girardi, e i Platearj, e i Turiſani,e i Salvatichije i Giacomi da Forli, e i Mattei da Grado, e gli Arduini, e i Montagnani, gli Arcolani, c i Zerbi, ei Savanaroli, e cento, c millal tri avvedutiſſimi ſeguaci dell'Arabeſchedottrine: hebbe anche Aleſſandro de Benedetti, e Matteo Curzio, e Gio van Manardi, e Giovan Battiſta Montani, e Antonio Mu fa Brafavolo, c Nicolò I.coniccni, per tacer d'altri molti, a’quali più di ciaſcun'altro per avventura piacque le doe trine d'Ippocrate, e di Galieno fominamente ſeguire. E pur veggiam talvolta effer coſtoro manifeitamente, trali gnati dalle reverede dottrine de’lor carimaeſtri, e in mol te, emolte coſe, che a grado lor non furono, avvegna chè di non poca conſiderazione,loro apertamente contra-. ſtare. Ne reco Io già al preſente per teſtimonio del mio ragionaméto Gabriel Fallopio, ne il Trincavelli, ne il Mer curiale,ne Ercole di Saſſonia,ne Girolamo Capodivaccas ne Orazio degli Eugenj,ne Ceſare Magati,ne altri, e altri avvedutiſlimi medici, e filoſofi commendati ne’loro tempi, c pregiati allai. Solamente ricorderò le glorie del famo fiflimo Giovanni Argenterio, e cotant'altri loro valoroſi ſeguaci, e imitatori; i quali traſandate le leggi, e le ſtret tiifime mere degli antichi maeſtri, ſcorſero liberamente perlo gran campo della medicina, ſenza appiccarſi molto tenacemente, ad Ippocrate, o a Galicno,comechè Ippo cratici, e Galieniſti eglino li foſſero. Ma cometutt'altri, e in dottrina, cin chiarezza di fama avanza di gran lun ga queltanto valoroſo, ed eccellente ſcrittore Girolamo Cardano, così a niuno certamente egli cedede Galieniſti medici Italiani nella gloria del liberainente filoſofare.Egli a niun pregio tenendo maeſtro alcuno, ſolamente s'affa. tica, e ſi ſtudia per la verità, e non ha quaſi facciuola nel le ſue opere, ove egli non ſi vegga oftinatamente conten dere col ſuo Galieno, prendendo cagione tratto tratto d ' accoccargliela, e manifeſtamente biaſimarlo, intorno alla maniera del ſuo filoſofare, e del ſuo ſcrivere, e del porre in opera il ſuo furbeſco meſtiere; infra le quali non mi par da dover tralaſciare quel che in un de'ſuoi libri, di lui narra, dicendo eſſere ſtato colui prima Cerulico: e che in ciò pure non molto tempo, e ſtudio logorato v’aveffe,ac ciocchè al colino di tal meſtiere ne foſſe dovuto formota re. E delinedeſimoGalieno altra volta forte biaſimando ſi, dice ſoiainente eſſere ſtata cagion di cotanti ſuoi errori, e fallil'effer egli riſtato in sù gli arzigogoli dello ſpecula re, ſcnza diſcender giammai all'operare, e ſenza far prìo O va delle ſue mal credute dottrine: Caufa errorum in medi cina eft, quod quicontemplantur, non medentur, ut Galenus, Paulus, & c Princeps, & hodie omnes medicine profeſores; ideo (avvertimento ben degno da dover far faldiffima im preſſione ne’noſtri medici) loco regularum, &dogmatum fcribuntfomnia. Mayperchèa far parole del Cardano ci ſiam condotti, e'nó mipare di dover tacere, quáto nella ſchicttezza,e bo tà dell'animo, e nell'amor della verità egli lungamenteve Galieno medeſimo,non che altri ſi laſciaſſe addietro; per ciocchè biaſimando oltremodo la malvagità, e la caſtro naggine de' teſtereccj, émalandati parteggianti de' ſuci tempi,infra l'altre, cosi una volta ſtizzoſamente gli pun ge, egli beffeggia. Demiror, dice egli, credulitatem, de mentiam, & impietatem medicorum noftræ ætatis, quorum aliqui eo deveniunt, ut cbliti omnis humanitatis, maline perdere homines, utferviant pertinaciæ, quam revocari, a eosſervare. E oltre a ciò vaegli conſiderādo intanto giu gner l'oſtinazione, e l'affetto degli accieciti parteggianti, che riguardando alle dottrine de’loro cari maeſtri, non che a capital niuno la verità teneſſero, anzi l'anime loro medeſimc non curando, foventi fiate il diritto delle divi ne leggi, e delle naturali traſandano: cdeo ſectis, grida egli pictoſamente piagnendo, addicti ſunt, at nec immor talitatis aninorum,nec præceptorum philofophiæ reſpectus ul lus eos teneat. Machirccherammi amcinoria tutti gl'infelici, e com paſionevoli avvenimenti, i quali dalla mellonaggine,dalla pertinacia, dall'ambizione,dall'avarizia, e dalla malvagi tà de'cattivi parteggianti tratto tratto ſeguir ſogliono, che egli lungamente va diviſando: Eglino ſempre oſtinati ncl le loro fanciullaggini, non che foſſer giammai da tanto, che guarir ſapefiero alcuna malattia diconſiderazione;an zi fovenci volte si, e tanto operano colle loro trappole, che ne tolgono la voita aʼmedici più valoroſi. E ſon pur così ribaldi, e ſcellerati, che sfregiando colle loro opere il digniffimo nome di Criſtiano, e laſciata affatto la pietà, cla ! e la carità unico patrimonio de'ſeguaci di Criſto, tuttiaya: ri, e ambizioſi,ſi veggono,ſolamenteiricchi, ei nobili am. malati viſitare, e i poveri, e miſerabili, dalla fortuna ab. bandonati,dopoaverglilungaméte ſpolpati, o affatto non curare, o ſe pur vi vanno frettoloſi, e ſuperbi, come vili giumenti, o come altri bruti animali crudelmente trattar gli. Del quale graviſſimo misfatto certamente la cagioa ne ſi è il lor Maeſtro Galieno, da cui eglino tutto apparā doprendono ancora ad eſſer oltremodo ambizioſi, e avari. Hujus tanti mali, ſono le parole propie del Cardano, au tor fuitnofter Galenus, qui nil ubique jactat, niſi proceres, atque Imperatores; quum tam juveniseffet, ut ambitione, inani nomine potius, quamartis peritia eis innotuerit. Nc oltre a ciò tace il Cardano l'aſture frodi di que'Vol poni maeſtri, i quali a perpetuar la lor tirannia,agl’ingan ni, alle millanterie, alle beffe, all'aſtuzie, aile giglioffe rie gl’innocenti ſcolari tratto tratto avvezzavano. E di tanti misfatti, e ſcelleratezze'non laſcia d'accagionarne ſopratutto le perſone nobili, e d'alto affare, i quali per ciocche delle coſe del mondo, e della natura poco, o nulla ſi conoſcono, non laſciano a ciò porre acconcio compen ſo, ficome certamente dovrebbono; anzi intanto giugne la lor biaſimevole dappocaggine, chc in luogo di ricercar ne'medici profonda dottrina, buoni coſtumi, intendimen to di linguaggi, avvedimento grande, ſcienze alla medi cina appartenenti, pierà de gl'inferini, antivedimento del Je future cole, ſperienza delle cure malagevoli, conoſci mento delle matematiche, ripoſo di mente, amor di glo ria, che naſca dal ben operare, diſpregio d'altre coſe ſol lazzevoli, e ardente diſiderio d'apparare; vi richiedeva no orrevoli veſtimenta, aſpetto grazioſo, viſo piacevole, adulazion di parole, abbondanza d'ammalati illuſtri, e grandi,magnificenza di ricchezze, e cento, e mille altre ſo miglianti vanità. E ben gli parve, che meritevolment, coſtoro ne portaffer poi la debita penitenza, omorendo ne loro i più cari parenti, o ſtandone eglino medelimi ſem premai ſparuti, c triſtınzuoli, e cagionevoli aſſai dell i perſona: diuturno cruciatu protractorum per longumtempus morborum: per rapportarvi omai alcune altre delle ſue pa role medesime,che mi ſovvengono: preterea fiderationum, debilitatum,quæ poft fanationem illis relinquuntur; avs vegnachè affatto non ſi vedeſſe Gir del pari la pena colpeccato, mal capitandone non pur eſli,magl’innocentiloro figliuo li, e amici. Ma troppo piacevol coſa è a ſentire ciò, che finalmente egli contro i medici de'ſuoi tempi narra, i quali baldanzoſi, e tronfi liberamente ſcorrendo a lor talento per tutto, e abborrando, e malmenando la medicina, co (trignevano alla fine i cattivelli infermi, che male a lor uopo nelle lormanicapitavano, a pagare a ingordiſino prezzo i rimedj, e talora anche la morte; facendo eglino ancora forſe la lor mano negli ſtrabbocchevoli guadagni degli ſpeziali.. Ma, che direm noi di Giulio Ceſare della Scala digniſ fimo medico de'ſuoitempi. Egli comechè fieriſlimo ne mico foſſe del Cardano, e s'argomentaſſe a ſpada tratta dirimbeccarlo quaſi in ogni parola; intanto, che ne pur la loro oſtinatiſſima nimiſtà Ha diſciolto colei, ch'il tutto ſolve. Atque ut etiam nunc poſt cineres, dice coll' uſata elegan za il noſtro Severino.ſtridēt in ævum ab ipfis exaratæ chara te; non però di meno, ove ſol ſi tratta della libertà della filoſofia, e di non laſciarſi dictro gli antichi ciecamente traſcorrere, allorcertamente poſto giù lo ſdegno, e’lli vidore ſon tutti di convegna a ritrarſi di parteggiare, e far capo oſtinatamente alle ſette. Errata majorum, diſſe generoſamente una volta Giulio Ceſare della Scala, diſi mulanda non funt, ne eo ipfo pofteritati imponamus.E benſi valſe egli del ſuo avviſo, quádo cruccioſamente diile d'Ip pocrate al Cardano: Tueris, atque profiteris nefandum illud Hippocratis deliramentum, à quo non abfunt Galeni trepidationes, animam nihil aliud eſſe, quam cæleſte calidum: avvegnachè ſenza ragione alcuna aveſſe egli rimprovera to una volta a Galieno una sìfitta libertà, e ſtizzoſamé 1 te bia. te biaſimatolo d'aver egli ſovente contraſtato IL REVERENDO ARISTOTELE; come ſe graviſſimo fallo, c ſcelleratczza ciò ſi foſſe: Galenus avidiſſimus,dice egli, carpendi longe de meliorem; in quella guiſa appunto, che quel nobile Ga lieniſta Giulio Aleſſandrinovoleva, che ſolamente all'Ar genterio foſle vietato il por mano all'opere degli Antichi per ammendarne gli errori; della qual coſa, non ſenza gran ragione per avventura forte fi biaſimail Solenandri, così rimproverandogli: Verum fateris,antiquiores fcripto res erraſſe, concedifque aliis omnibus, qui funt ingenio, em judicio aliquo prediti, ut poffint ea reprehendere, quæ ma lè funtdieta, &meliora tradere: foli Argenteriohanc li centiam adimis. Ma prima delCardano, e di Giulio Ceſare della Scala, per ripigliare ilfil del noſtro ragionamento, grandiſſimali bertà ufar ſi vide, e nelfiloſofare, e nello ſcrivere un'ala tro valent'huomo nelle inatematiche, e nella filoſofia, e nella medicina aſlai bene fcorto, ed cſercitato; perchè meritonne d'eſſer'altamente pregiato, e onorato da quel generoſo favoreggiatore, e intendente delle buone lette re Lione il Decimo, Sommo Pontefice. E fu coſtuiGio vanni da Bagnuolo, il qual non mica pago nelle ſcuole d' averdato ſaggio del ſuomagnanimo, e nobile ſpirito, no curante l'altrui autorità in non poche concluſioni: e aven do fuor dell'uſo comune mandata avanti la Chimica: coſa a que’tempirariſima, maſlimamente in Italia: volle in cc minciando un capo diquel libro, ch'egli fa dell'ecliſſe del la Luna, più manifcftamente proteſarlo, portando ſenti menti veramente da filoſofo ragguardevole, e di gran lie va. Quoniam noſtri antiqui progenitores, dice egli,fcien tiarum inventores, rationibus, experimentis, comperie runt ſcientias; veriphilofophantes ipfos imitando conari de berent no perfiftere inventis,fed nova nature ſecreta venari. Maquel famofiffimo medico, e filoſofo, e pocta de Verona Girolamo FRACASTORO, avvegnachè da' ſervili fen timenti delle ſcuole ingombro troppo commendaſſe il fuo maeſtro Galieno, e molto a capitale il teneſſe; non però dimeno, reſo talvolta avveduto dalla verità, non ſi tiene, ove gli venga in concio, d'aſpramente riinbeccarlo, e qua. to al fatto de’giorni critici rinfacciargli ch'egli pur troppo ſcioccamente ponendo in non cale gl'inſegnamenti de’alo ſofi, a'vani preſtigj degli ſtrolaghi ſia ricorſo. E oltre a ciò nelmedicare,e nel filoſofare da'diviſamentidi lui ſi di lunga; come agevolmente ſi può veder ne'ſuoi libri della fimpatia, e antipatia delle coſe, e della contagione, eins altri luoghi; ma ſopratutti nel ſuo divin poema della Sifi lide, per cui huom certamente crede, lui all'altezza del gran Marone eſſer’aggiunto, e che tutt'altri poeti felice mente G laſci addietro. Nel qual poemacontro l'opinion del ſuo Galieno va egli cantando, l'aria ſola di tutte coſe eller principio, così manifeſtamente raffermando: Aër quippe pater rerum eft, &originisauctor. E prima egli così del naſcimento delle coſe avea diviſato: Principio quæque in terris, quæque æthere in alto: Atque mari in magno natura educit in auras, Cuncta quidem nec forte una, nec legibus iiſdem Proveniunt, sed enim, quorumprimordia constant Epaucis,crebro ac paſſim pars magna creantur: Rarius aſt alia apparent, non niſi certis Temporibufve, locifve, quibus violentior ortus, Et longefita principia: ac nonnulla prius, quam Erumpant tenebris, &opaco carcere noctis, Milletrahuntannos,fpatiofaque ſecula poſcunt Tanta vicoëuntgenitaliaſemina in unum. Quindi con l'uſata ſua eloquenza della cagion de'mali di viſando, cosiegli canta Ergo &morborum quoniam non omnibus una Nafcendi eft ratio, facilispars maxima viſu eft, Et faciles ortus babet, &primordia praſto. Rarius emergunt alii, poft tempore longo Difficiles cauſas, & inextricabile fatum, Et feropotuere altas ſuperare tenebras. Ne men del Fracaſtoro al ſottiliſſimo Andrea Cefalpi. ni piacque ſommamente levarſi ſuſo contro il ſuo maeſtro Galieno, e iſeguaci di lui, prendendola oſtinatamente a favor d'ARISTOTELE, e de'Peripateticiin LIZIO ciò, che da coloro dipartonſ i Galieniſti; ſenzachè egli è pur troppo mani feſto a ciaſcuno eſſere ſtato primiero il Cefalpinia ſcoprir glorioſamente al mondo l'aggiramento del ſangue:tutto, che parer poſla ciò, che moltoprima di lui aveſſe fatto Pla tone con quelle parole: Μέγιστν δε όταν α'μαι καθαρά συγκερασθείσα, το τών ινών γένος, εκ της εαυτών διαφορή τάξεως. αι διεσπάρησαν εις αίμα, να συμμέ Πρως λειότητος ίχοι και πάχους, και μήτε δια θερμότη ως υγρών εκ μανού του σώματG- εκρέσι, μήτ' αυ πυκνοτέρον δυσκίνητον ον, μόλις axaspécouto iv Cais Preti,che ſuonano in noſtra lingua: E maf. fimamente quando (la bile )col puro ſanguemeſcolata,difor dina quella ſpezie di fibre,le quali ſono ſparſe per lo ſangue, acciò ſia in eſlo una mezzanitate tra'l groſo, e'lſottile:per chè mediante ilcalore non iſcorra per lo corpo,ficome ogni li quida cofa fcurre perun corporaro, neſia troppo groſo, e difficile a ſcorrere, sì, che appena poipoteſſe andare, eritor nare per le vene. Ma non poco certamente e' ſiparc, che Santorio Santori, famoſo, e raggaardevol medico de'ſuoi tempi profittafleſi in liberamente ſcrivere, non avendo ri guardo a ſetta niuna, per aver eglicol Sarpi, e col Gali Jei un tempo ufato; i cui ſentiméti vollc cgli in molti luo ghide'ſuoi ſcritti, come ſuoi propj diviſamenti manifeſta re, e ſpezialmente in quel libro cotanto per ciaſcun com mendato, della Staticamedicina, comcchè il più delle vol te male egli apprendendo le commendevoli dottrine di que’valent'huomini, e alle ſue volgari ſconciamente me ſcolandole, fe ne faceſſero le ſcherne gli accorti lettori. Maciò da parte al preſente laſciando, non ſi può egli di leggier narrare, quanto da lui carminati, e proverbiati du ramente foſſero i parteggianti tutti medici, e filoſofi; e quantunque volte gli vien fatto loro l'accocca, rapportão do in ſuo pro varie, E MOLTE AUTORITA D’ARISTOTELE, e di Ga lieno; di cui ſeguendo la traccia arditamente ofa afferma re,alquanti Aforiſmi d'Ippocrate ritrovarſi talora dalla verità non poco lontani: e molti, e molti errori ne'moder ni, e negli antichi ſcrittori dimedicinaegli ravviſa: e non pochi anche ne ritrova in Galieno. Così eglibiaſimando, e maladicendo oltremodo la follia, ſicome e'dice, di pa recchj ſcuole dell'Europa, dice, che in quelle ſcioccamé te maggior credenza preſtar ſogliaſi a L’ORREVOLE AUTORITA D’ARISTOTELE, d'Ippocrate, o di Galieno, che a' ſentimenti noſtri medefimi; E PUR DICE EGLI ARISTOTELE MEDESIMO, Galieno di comun conſentimento più volte affermare, ef ſer anzi alla ſperienza, e a' ſentimenti, che all'altrui auto rità da dar fede. E poichè in concio al ſuo ragionamento più luoghi di Galieno egli rapporta, così alla per fine con chiude: Quare quum Galenus,neque meus fueritaffinis, confanguineus, aut majorum meorum avunculus, quod ſciã, neque in Sanctorum catalogo fit collocatus, quiafflatusdi vinitate fuerit loquutus, non video cur omnes non poffint honorificè, fi fenfibusudverſetur, eum relinquere. Neè da tralaſciare al preſente di narrare ancora del fa moſiſſimo Andrea Mattioli, il qual comeche parzialiſſimo del ſuo Galieno, purc in più luoghi, della verità reſo ay veduto, dice manifeſtamente, eſſerſi colui in leggendo Dioſcoride aggirato,e ſovente non averne parola inteſo; e una volta infra l'altre non puotè ritenerſi di non iſtizzo ſamente gridare: videtur Galenus non folum plurimum à Diofcoridis fententia,ac hiſtoria aberraſſe, fedetiam à ra tione ipfa, acveritatelongè fane abeffe. E oltre a ciò dice eſſere ſtato Galieno di poco ſenno,ein molti luoghima nifeſtamente contradirli; ed eſſer egli ſtato nato a’ Poeti, c troppo di leggieri alle loro vanillime fa vole aver preſtato fede, non altrimente, che ſe ſtate foſſe ro incontraſtabili verità da raffermar con tutti i ſacramen ti del mondo. Ma il dottiſſimo Proſpero Alpini in tutti que'ſuoi libri della metodica medicina, avvegnachè ancor egli di parte Galieniſta pur altro certamente non fa, ſe non ſe difendere i metodicida’mordimenti del ſuo Galieno, e d'altri R.2 zionali medici; e ſpezialmente ove Galieno così ſconcia mente carica di bialimi, e di maladicenze ATTALO famoſif troppo affezio fimo Timo medico metodico, dicendo, che per opera di lui for fe ftato ucciſo Teagene filoſofo cinico. Ma quanto poco capital faceſſe di Galieno, e d'altri razionali medici il narrato Attalo, ſi può agevolmente comprendere dall'acerba riſpoſta da lui data a Galieno;la qual coſtuipoſcia,come ſua sóma lode foſse, volle nell'opere ſue laſciare ſciocca mente regiſtrate. E forſe fuella più ancor pugnereccia, e di piggior talento, che egli ne racconta. Eche direm noi del valoroſo Girolamo dall'Acquape dente digniſſimomaeſtro del grand’Arveo? Quante fiate ) egli, comechè Galieniſta, pur da’ſentimentidiGalieno ra gionevolmente ſi diparte? Quante,e quante fiate grave mente il proverbia, e riprende di ſciocchezza, ed'igno ranza? Pure infra cotanti biaſimi, e rimprocci, ch'Io per brevità tralaſcio, recheronne al preſente uno, che val per cutti, lagnandoſi egli forte del tempo, ch'avendone tolte tutte le bell'opere degli antichi filoſofánti, ne abbia ſola mente laſciate quelle d'ARISTOTELE, e diGalieno, como ſchiuma de libri, e viliſfimo fondaccio di tutte le buone dottrine; eſſendo coloro in molte, e molte coſe ſempre mai fallati; e ſpezialmente taccia Galieno diquella folle ſua opinione intorno alla formazion della viſta. E intanto è vero ciò, che noi raccontiamo, eſſerſi i va lenti Galieniſti pur talvolta per vaghezza della verità al lor maeſtro Galieno ribellati, che maraviglia è a narrar come Aleſſandro Maſſaria, cotanto oſtinato, e leal parteg. giante di Galieno, pur’una fiata ponendolo in non cale, aveſſe oſato cavar ſangue nella diſſenteria, comechè cer caſſe poi a ſua poſta didarne a vedere con fievoliſſime ra gioni, eſſer ciò anche ſecondo il ſentimento del ſuo G2 lieno; e'l celebre Settala ancor' cglicotanto fedel ſegua ce del medeſimo, pure l'aveſſe fronteggiato, e ripigliato, 12, ove egli ragiona delle cagioni del color glauco degli occhj; ed ove dice, che l'acque de'pozzi non fiano,me appajano fredde l'eſtate più, che in altri tempi; percioc. che ſi toccano colle mani calde; e che l'inverno al contra rio ne pajano calde, perocchè ſi toccano colle mani food P dc..  1 1 1 de. Ma quel, ch'è più da conſiderare ſi è,ch'egli in un'in? tero libro riprova l'antico, e praticato uſo di medicar le ferite, appigliandoſi ad un nuovo modo da Ippocrate, e da Galieno non mai conoſciuto, non che adoperato. Ma troppa gran briga fermamente lo mi prenderei, ſe recar qui ora voleſsi ciò, che ad uno ad uno tutti gli ec cellenti, e famofi ſcrittori Italiani lungamente ne diviſino. Chiudaſi adunque sì nobil corona colle parole del ſotti liffimo Pier Caſtelli, il quale una fiata infra l'altre contro cotali pecoroni da greggia maggiormente ſdegnato, così proruppe: An omnia novit folus Galenus? an nihilreliquit pofteris inveſtigandum? Quo merito infudit illi uni Deus (quod alteri nulli) totam, perfectam, &integram medici nafcientiam,nihil nobis reliquens? e dopò molte graviſſime parole, che egli apporta a queſto propoſito, così alla fine conclude: Patet boc, quia poft Galenum tanta medicinefa Eta eſt additio, ut triplo auctam dicere poflimus. E si nobil costume di liberamente filoſofare in medi cina,ben da molte, e molte fcritture publicate in iftampa, apertamente ſi ſcorge, ch’abbian ſeguito a gara l'Accade mie, ond'è sì abbondevole, ctanto fi pregia tutto il bel paeſe, Ch’Appennin parte, e'l mar circonda, e l'Alpe. Ma io tralaſciando a bello fludio tutt'altre parti, ragio nerò ſolamente della nobili: lima noftra Città, delle Sirene, e delle Muſe amenillima ſtanza, che non pur nella gloria delle lettere, ma in ogni altra a niuna delle più celebri, cd illuſtridell'Vniverſo riman certamente feconda. E laſciā do di favellar del Belli, del Bozzayotra, del Tucca, e d' altri, e d'altri lettori diminor grido oſtinatiſſimi ſeguaci, e parziali d'Avicenna: come potrò mai lo pienamente nar rare co quanta maraviglia udiſfer già legger le noſtre ſcuo le il teſte da noi mentovato Argenterio; al cui ſottile in gegno, ed avveduto giudicio,non miga, come altri per av vétura coftumano,baltādo il copiare, e l'appropiarſi l'al trui viete dottrine; ma volendo egli diſaminare, e far pro va delle coſe della medicina ne’libri già ſcritte, il diſcreto, e avveduto, e giuſto Giudiceſtudiavaſi d’aſſomigliare; il qual non a tutti pienamente dà fede,maaltri approva, al tri traſanda, altri manifeſtamente rifiuta, ficome appunto ragion chiede; ficome avviſa quel ſuo difenditore. Su mus omnes in arte noſtra tanquam in fenatu conſtituti, in quo non ut pedariiftatim pedibus in aliorum fententiam ire debe mus, fed ut prudentes Senatores viderequid conveniat; at que ita ingenue proferrede rebus, quod rationi confonum ar bitramur. E ben per ciaſcuno il finiſſimo, ed eccellente giudicio dell'Argenterio intorno al noſtro propoſito potrà agevolmente da queſte parole di lui ravviſarſi. Non tam Servili, dice eglifimus, animo, ut omnia veterumplacita, oraculorum inftar indiſcriminatim veneremur, vel tam ab jecto, ut pofteris omnem, meliora excogitandi occafionem prareptam, ac præciſam effe arbitremur; quafi vero non idő nuncſit, quod olim Cælum, eadem terra, idēgenerandimo dus: eadem denique, & facilior etiam, quam aliis fueritdin cendi, inveniendique ratio. Ma certamente non men dell’Argenterio ſdegnarono con filoſofica libertà altri Na poletani lettori aſſai, di lcgarſı-a' ſentimenti d'Ippocrate, o di Galieno: avvegnachè per ceſſar forſe l'invidia della ribaldaglia del volgo, con parole alcuni di eſſi il diſfimu laſſero, facendo ſempremai veduta di abbracciar, e di ri tener tenacemente tutto ciò, che inſegnato viene per Ip pocrate, c per Galieno. Infra'quali Filippo Ingrafiagavi do oltremodo, e curioſo di conoſcer la vera fabbrica del corpo umano, ebbe ventura d'abbatterſi il primonelle veſi chette ſeminali,non più per addietro da alcun degli antichi medici ravviſate; ed infra l'altre coſe ebbe ardimento, nc d'Ippocrate, ne di Galieno punto curando, di purgare cziandio nelvigor delle malattie. Così anche gencrofa mente ſi ſottrailero alle ſchiere de parteggianti Bernardi no Longo, Paolo Monaco, e Giovanni Antonio Piſani: un diſcepolo de'quali (1) in una apologia in difeſa diſe, e de'ſuoi maeſtri compoſta,volle, che per ciaſcun ſi leggeſſe: femper licuit omnibus literarum profefforibus non folum con P 2 (1 ) Ferdinando Caſſani, t tra 116 Ragionamento Seconda tra recentiores medicos, & Philofophos, ſed etiam contra Gao lenum ipfum, &Platonem, alioſque illuſtresfcriptores dice re, fi quando ratio dictaverit. Seguiron poi con la mede fima libertà ſempre Girolamo Polverini, Quinzio Buon giovanni, e Latino Tancredi, huomo, come dice Sertorio Quattromani, di molte lettere, e di molto giudicio, e gran difenſore della dottrina del Telefio. S'allontanò altresìda gli antichi talora ſalvo Sclani, e Mario Zuccari, il qual co sì forte, e vigoroſamente riprende Galieno nel giudicio che colui diè intorno alla malattia d'Erofonte: ed altrove sì ardicamente, che nulla più, e come ſuol dirſi, a ſpada tratta prende a difender il coſtume de’Napoletani, intor no al cibar gl'infermi, contro i più valoroſi Campioni, ch' aveſſer mai le dottrine d'Ippocrate, e di Galieno ritenute. Ed a' di noſtri abbiamo pur veduto Giovan Battiſta Ma fulli, Antonio Santorelli, e Girolamo Fortunato, il qual tutto ciò, che nell'opere d'Ippocrate, e di Galien fi riſer ba, sì fattamente per le maniavci, che non v'era forſe parola, di cui improviſo domandarone non gli veniſſe to ito a memoria; e nondimeno tanto, e sì fovente ove gli pareva, cheragione il richiedeſſe, coſtumava egli a rim beccar l'antiche, e comuni opinioni, che per tanto a' Ga lieniſti tutti n'era in uggia, e crepacuiore: e ſofina, e cavil Joſo ſempre chiamavanlo. Ma ben comprendelí l'animo fuo libero, dal libro, ch'e' compoſe de’principi delle coſc naturali, ed in quello ancora de ſenſi,il quale egli ſotto nomc d'un ſuo ſcolare mandò fuora. E dietro alle ſue ver ftigie poi non guari lontano andar mirammo Onofrio del Riccio, huomo veramente per vivezza d'ingegno, e per dabbenagginc d'animo, tenuto fommamente caro dalla Città tutta. Ma perchè addietro laſcio ora Io Paolo Emilio Ferrilli della nuova, e della vecchia medicina parimente inteſo, e di ciaſcuna di effe egualmente libero profefforc?il qual da' fuoi lunghi viaggi, e pellegrinazioni tante, e sì fatte forti di nobili, e cari medicamenti alla patria riportò, che ben volentieri a pro di ciaſcuno le botteghe tutte degli ſpeziali 1 1 * corteſeméte arricchiune. E dove lo trapaſſo ſotto ſilenzio ingratamente aſcoſo il piùſovrano pregio, che aveſſer mai le noſtre ſcuole, il dottiſſimo Marco Aurelio Severino, il qual non ſolo, ſe miglior Chimico, o medico, e ſe più va lorofo in fiſica, o in cirugia, e ' li foſſe. Egli animoſamen te ſeguédo l'orme del famoſo Giulio Azzolini ſuo maeſtro: anzi oltre affai più gittandoſi, in favellando, ed in iſcrivé docon filoſofica libertà ripigliò Galieno, e gli altri anti chi, e nelle noſtre ſcuole tante fiare, e tante fè conmae ftra mano chiaramente vedere paleſi, e manifcfti agli oc chj di tutti i ſolennillimi falli, che iGreci, egli Arabi, ei Latini lor ſeguaci nel notomizare i corpi aveano in prima commeſli. A bello ſtudio poi non fò lo aleuna menzione quì di Baſtian Bartoli, non avendo huom, che non ſappia, che tra'vantaggi fuoi maggiori ei ripoſe il goder mai ſem pre, e valerſi d'una sóma libertà nel filofofare, colla quale egli conſumò l'impreſa d'un novello filtema di medicina. Ma che tanto infra i lettori Napoletani andarmipiù rav. volgendo, ſe tutti i maeſtri delle noſtre ſcuole da Diego Raguſi in fuora, che ſaldi, & interi i ſensimenti d'Ippo crate mai ſempre ſeguir volte, il qual pure, così in queſto, come in altro non ſi vide ſecondar nella ſteſſa maniera poi Popinion di Galieno, in ciaſcun tempo conformaronſi se pre con l'uſo del noſtro comun medicare il quale quanto dalla dottrina se da' ſentimenti d'Ippocrate, cdiGalieno s'allontani, avvegnachè il contrario comunemente fi giu dichi, agevolmente può da ciaſcun ravviſarſi. Ed Io,per chè di più non mipermette il tempo, daronne al preſente qualche breviſſimo ſaggio. E percominciar con qualche ordinato diviſamento, manifeſta coſa è, che gli argome ti maggiori, de'quali fornir ſi vuole la medicina, s'ella mai di giugner intende al ſuo laudevot fine d'approdare il genere umano, per comun ſentimento di tutti più ſaggiIp pocratici, e Galieniſti,a tre capi quali tutti, principalmen te fi riſtringano, nella Dieta, nella Cirugia, e in quel,ch' appreffo iGreci chiamaf; Φαρμακευσης. Intorno alla Dieta quanto da' due Greci Mae ſtri 118 Ragionamento Secondo 1 ſtri i Napoletani medici fian diſcordanti, dicalo ir mia vece quel famoſo Galieniſta Melaneſe Lodovico Set tala, (1 ) fuerunt, dice egli,quiprimis tribusfaltem diebus, aut inedia, aut tenuiffimo vietu laborantes exficcabant, pro grelu autem temporis cibos tum in forma, tum in quantita te adaugebant,quos Galenus in lib. method. med. pluribus in locis exagitabat. Hanc cibandi rationem fervare intelli go Hiſpanos medicos, Neapolitanos. Narra egli minuta mente il modo daʼnoſtri Napoletani tenuto nel cibare gľ infermi; indi poichiaramente dimoſtra eſſer ciò affatto con trario agli inſegnamenti d'Ippocrate, e di Galieno; la qual coſa aſſai già prima del Settala avea un de'famoſi maeſtri del paſſato ſecolo, Paolo Tucca avviſato,così nel la ſua pratica del medicar Napoletano dicendo,fciendum, quod longediftat modus dietandi Hippocratis, Galeni, & Avicenna, ab eo quem obſervamusdiebusnoftris. Illi enim principes voluerunt in febrium principio craſſiusfore reficien dum: in ftatu vero, aut nihil offerendum, aut tenuiſine dietandum. Nos vero quaſi oppoſitum obfervantes in ftatu reſumptive, in principio autem alternative cibamus. Ma da Paolo Tucca in poi non può di leggier crederſi quanto vie più da Ippocrate, e Galicno in cibar gl'infermi ſianli i noftri medici dilungati, e ciò fu cagione di quella famo fiffima difeſa, che ancora va per le mani de’letterati, fatta a pro di Giacomo Bonaventura medico di Clemente VIII. contro Mario Zuccaro, già in queſto noſtro ſtudio lettore per Maſſenzo Piccini da Lecce. Ma non che nella quantità, e nel tempo co'due Greci maeſtri i Napoletanimedicimanifeftamente conſentano, anzi nel modo ancora, e nella qualità de'cibi ſopratutto da color fi partono, di tutt'altrevivande nutrendo gli in fermi, che diquelle, che da’lor venerandi maeſtri ne fuz rono in prima ne’loro libri diviſate.E dove di grazia ſono ora l'acque melate, e l'orzate, e altri ſomiglianti beverag gj, cotanto da'Greci commendati, certamente in lor luogo i brodi di polli, e le peſte carnidelle galline nella noſtra Cit 1 (1) In comment. in problemat. Ariftot. ye Città ſi coſtumano.L'orzata, dice una volta Ippocrate (1) di ragion mi pare, ch’alle vivāde di fermēto ſia da antiporre, e lodo coloro, i quali l'antipongono. Iltocáva refü šv douée oefãs ποκεκείσθαι των σιτηρών γευμάτων εν τετέοισι τοϊσι νοσήμασι και εποι vÉo To's asforgivavtas. Ed altra volta dice, eſſer l'orzata oltremodo valevole ad umettare, e perciò a' febbricitanti recar grandiſſimo giovamento;a’quali ſecondo i fentimen ti di lui medeſimo, l'umettativo cibo è sépremai convene vole ed allo incótro le carni tutte nocevoli.E l'altro Greco maeſtro Galieno (2) oltremodo berteggia, c proverbia Pe trona,aſpraméte rimproverādogli, che agliammalati ſuoi có lor no poco nociimento concedeſſe le carni. Perchè ma nifeſtamente ſi comprende, i Napoletani medici irrorno al nutricar gl'infermi, anzigli ammaeſtramenti di Petronas, che que' d'Ippocrate (3) o di Galieno (4) feguire. Così è da dir, che le brodadelle galline non ſian da dare agl'in fermi di febbre, conciosſiecoſachè quelle al parer d'Ippocrate, e di Galienio abbian certamento vigor di ritenere, e di ſtrignere, dove l'orzata, ſecondo i ſentimenti di coloro, è mollificativa, e mezzanamente umoroſa,ne punto riſtri gnente, perchèqueſta, c non quelle a ' febbricitanti ra gionevolmente dar ſi vuole. Ma che direi noi del vino, che da’Napoletanimedici, non altrimente, che ſe toſſico foffe,a ' febbricitanti ſi victa? e di Galieno fir pur dato ad un'ammalato di febbre acuta, e come egli ne narra, di cal do, e ſecco temperamento; anziegli manifeſtamentene conſiglia, e ne conforta, che inzuppandovi il pane ſi dia, mangiare a'febbricitanti, anche talvolta nel comincia mento delribrezzo. Ne è già mio intendimento al preſente di dar giudicio fopra si futre quiſtioni, o ſopra tutt'altre, ch'io qui rap porti; ma ben ſolamente dico, ſembrarmi agevol molen, e piano il coſtumedel cibar Napoletano; e che null'altro, che dappoc.iggine, e vaghezza di riſparmiar fatica l'abbia in pri (1) lppocr. nel lib.i.della dieta (2) nel com. 1. fop. il 2.11b.della diesa ne'male Atw8. (3 ) nel s. della dieta. (4) nel 1.lib. della facoltà de'med.Jemplo in prima a'neghittoti Cittadiniportato, traſandandoſi co sì pian piano, ed abbandonandoſi quel d'Ippocrate, e di Galieno, che malagevole affai, ed intralciato a’beſci uc celloni medici delbarbaro ſecolo ſembrava. Iinpercioc chè, licome il primo de'Greci maeſtri dice, (1 ) e l'altro il conferma (2 ) eragione il richiede, dee il ſaggio,ed avve duto medico in prima ben avviſare quanto egli per durare il mal Gia,ed in ciò gli argomēti tutti del ſuo ſottiliſſimo in tendimento adoperare. Il che quanto ſia malagevole a certamente comprendere, ſenza reſtarne talvolta da' ſuoi avviſi ingannato, ciaſcun da per se baſtantemente, ſenza ch'io divantaggio gliele inſegni potrà ravviſare. E ciò ri chieſero ne'medicique’due maeſtri, acciocchè nelle brevi malattie debba ſempre con iſtrettiſſimo cibo nutricarſi l'a malato, e nelle men brevi non così coſto da prima gli fi menomi a ſpiluzzico, onde poi nel maggior avanzo del male ne venga debole, e ſpoſato, e ſenza poterſi con ar gomenti ajutare; ma pian piano riſtrignendogliele, poffin poi il medico nel colmo della malattia maggiormen te ſcarſeggiando, poco, o nulla concedergliene. Intorno poi alla Cirugia cgli è duro molto a credere, quanto da ſentimenti d'Ippocrite, e di Galieno, il medicar di Na poli ſia lontano. E laſciando da parte ſtare come quì ſu bitamente, e ſenza conſiderazion niuna in ciaſcuna febbre fi coſtumi cavar ſangue,contro il proponimento d'Ippocra te, anzidi tutt'altri medici del ſuo tempo, o più antichi, i quali, ficome narra il Cardano:in febribusnon folebant mit tere fanguinem,etiam ardentifimis; ora cavaſi a giorna te il ſanguenella noſtra Città, non ſolamente a’vecchi, e deboli, ma eziandio a'bambini di latte, e talora anche a' ſoſpettidileggeriſſimi mali; quando tutto il contrario di ce Ippocrate: Τα δ' οξέα πάθεα, φλεβοτομήσεις, ήν εαυρον φαί γηται το νούσημα, και οι έχοντες ακμάζωπ τη ηλικία, και ρωμη πανή aúrtorw. Ma negli acuti malori cavarſangue fi dee ove fire grande il male, e l'infermo giovane fia,e ben gagliardı, e vi goroſo. Il che richiede anco in molti, e molti luoghi Ga (1 ) ippocrate nit lib. 1.degli Aforij.nell' A or.7.8.9.10. (2 ) Gal.nel Com. * lieno DelSig.Lionardo di Capoa. IZI lieno (1) in un fra glialtri dicendo: si péya zo voonud reordea κoίημεν ειναι και η παρον ήδη θεoρoίημεν, ή αρχόμενον επισκεψάμενοι την ρώμην της δυνάμεως έξελούντος του λόγε μόνατα παιδια.. Dunque ſe noi temiamo non avvegna qualche gran malattia, oſe pre Jente quella già,o pure in ſu'l cominciar fia,avědo ben prima le forzedell'infermoconſiderate,aprirem poſcia la vena:So lamente da queſto divifamento i fanciulli riſerbădone. E po ſcia egli medeſimo l'età preſcrive., ove da prima i fanciul li ſegnare fi poſſano, dicendo (2 ), che non ſi debba no aprir le vene a' fanciulli, intin, che giungano all anno quattordiceſimo. E altrove (3 ) anche dice, che ſe le forze di colui, che ammalerà di febbre per putrefa zion d'umore,nel lor vigor dureranno, toito come coinin cierà ella a farſi vedere gli ſi converrà cavar ſangue: ſolo, che non abbia crudità nello ſtomaco, e l'età 'l conſentiſca, e le forze ſien robuſte; perciocchè altrimenti aon gli fi dee in modo alcuno aprir la vena. E quindi poco appreſſo ma nifeſtamente ſoggiugno: che ſe l'infermo farà bambino, o non giunto ancora all'anno quattordiceſimo,non gli fica coſa delmondo ſangue. Ne ſon da tralaſciare quel l'altre parole del medeſimo Galieno; le quali molto al no ſtro propoſito ſi confanno:ove ſpiegando tutto ciò, ch’al falaffo richiedefi cosi dice: (4 ) δεύτερG- σκοπός της φλεβότα μίας εςιν, ει ακμάζει καλά την ηλικίαν οκάμνων» ούτε γαρ παίς, ούτε γέ έων, φέρει την φλεβοτομίαν, ουδ ' αν μέγα νόσημα νοσώσιν. La fecd da cofaze che ſi richiedenel dover trar ſangue fiè,cheguardar fi deeſelámalato ſia giovane perciocchène i făciutli,ne i vec chiSoſtēgono ilfalaſſo,avvegnachèpur gravefase di riſchio la malattia, che loro dea noja: E tralaſciando di rapportare al triluoghi, ove ſempre il medeſimo, e'grida, e ripete, di rem ſolamente de'tempi, ch'egli giudica al ſalaiſo oppor tuni: mentre che in Napoli, ſenza alcun riguardo alle troppo freddo, o troppo calde ſtagioni avere, cavaſi co munemente in ogni tempo ſangue da Galieniſti, a' troppo.crcduli, e mal conſigliati infermi; i quali iinınaginano,an Q zi fer (1 ) Gal.della maniera del curare col falafo. (2 ) aelmed.luogo (3 ) nel mes. (4) nel.com.ſop.illib d'ippocr.della Dieta. vi per. 122 RagionamentoSecondo zi fermamente credono venir medicati ſecondo le regole di Galieno, e d'Ippocrate. E pure i noſtri medici nulla ba dano a’rigoroſi divieti di coloro, e maſſimamente di Gaa lieno (1) il qual vuole, che oltremodo ſi debba dal medi. co aver riguardo al temperamento dell'aria,ch'ella non ſia eſtremaméte calda, e ſecca, ſicome è infra'l tépo del naſci méto del cance dell'Arturo;e ravviſa egli, che tutti colo rosa'quali i medici nulla alle ſtagioni badado, traſfer fuora del ſangue, irreparabilmente morirono. Così vuol Ga lieno ancora che nelrigor del verno,ſia molto da temere il falaſſo, e dice effer manifeſta coſa, che da ciò molti, e gra vi pericoli ſeguir ne poffano. E perciocchè egli ſtima va eſſer ciò coſa di grandiſſima conſiderazione, dopo tan to, e tanto manifeſtarlaci, di nuovo con queſte parole la ci perfuade:(2 ) πτoσθήσω δε ένεκα του μηδεν λείπειν, τον από του περιέχον ημάς αέρG- σκοπών, όταν η θερμος ικανώς και ξηρος, ως διαφορεΐσθαι ταχέως υπο του που το σώμα τηνικαύζ γαρ αφισάμεθα της φλεβοτομίας 4 και μέγα το νόσημα, και ακμάζων ο άνθρωπG- άη - Ma acciochè nulla vi manchi, aggiugnerò quell'altra coſa, alla quale è di meſtieri averminutoriguardo,cioèa dire l'a ria, che ne circonda: e guardare s’ella fia sformatamente calda, e fecca, intanto, che molto ne venga a ſvaporare, ed sfalare il corpo; imperciocchè allora di ſegnar ci rimarremo: comechè graviſſima ſia la malattia, e l'huom per tofa, e robuſto. Ma no meno i Napoletani medici nel trar fangue avvifan punto ſe la compleſſion del corpo ſia fie vole, o vizzi, graffa, o ſcialba, nelle qualiſecondo il lor Galieno, avvegnachè grave infermità il richicgga,o nien te certamente, o molto poco fangue è da trarre; ma nien te in verità poi ne ſecchereccidella ſtate. Ma egli è omailuogo da tralaſciar per iſtrettezza di té po altre condizioniper Ippocrate, e per Galieno, al ſalaſ ſo richieſte, alle quali o poco, o nulla mai i Napoletani medici riguardar fogliono.Finalmente trapaſſando al ter zo ftruméto della medicina chiamato da Greci Maguáxeu ois dimoſtrerem brevemente, come ne precedenti abbiam (1 ) nel 1.lib.dell'arte curat. A Glaucone. (2 ) nel com. 4. fop. il lib. della Dieta. altro vigo manifeſtato, quanto i Napoletani medici in adoperarlo ſom gliano da Ippocrate, cda Galieno allontanarſi. Eglino in priina molti, e molti medicamenti coſtumano, che da Ippocrate, e da Galieno ne inen per nome conoſciuti già mai furono; ficome ſenza dubbio veruno son la Callia, i Tamarindi, il Riobarbaro, la Siena, la Scialappa,ilMec ciocano la Gottagomma, la China, la Salſa,ed altri aſſai, che per eſſer ben conoſciuti, e per non recarvi noja al pre fence tralaſcio. Le compoſizioni poi deʼmedicamenti nelle noſtre bot teghe introdotte, ſono il più,o dagli Arabi tratte, o da gli Ermetici filoſofanti; ina quel, ch'è di maggior conſdera zione nell'uſo de medicamenti puganti ſi è, che i noſtri medici Napoletani,laſciati da parte, ed abbandonati af fatto i due Greci maeſtri,van per diverſe tracce cammina do, ſenza ritegno, o ſcrupolo niuno di purgar audaciſfima mente in ognitempo, in ogni diſpoſizione di ſtagione, in ogni età dell'infermo, e in ogni ſtato di malattia:e purga do eziandio i corpi ſani, con far credere alla ſemplice, e credula gente, che cosìvoglia Ippocrate, e che così co mandi Galieno; imperocchè ingeneranſi continuamen re in noi vizioſi eſcrementi, da dover con gli argomenti delle purgagion continuo anche vuotare. La qual nuova coſtuma, quanto da Ippocrate, quanto da Galieno ſia ri provata ben ſi comprende da ciò, che Ippocrate una vol ta dice: φυλάσσεσθαι δε χρή μάλιστα τας μεσολας των ωρέων τας μεγίτας και μήτε φάμακον διδόναι εκόντος.Βifogna minutamire ri guardare alle grandi mutazioni de'tēpijacciocchè in quello no s'appreftino di leggieremedicamenti agl'infermi. E'l medeſi moIppocrate nó guari appreſſo, cosi parimétedice: jiti κινδυνόλαι ηλίκ τζοπαί αμφότεροι, και μάλλον θεριναί • και ισημερινα νομιζόμεναι είναι αμφόπραικαι μάλλον δε αι μετοπωριναί • δά δε και των άτρων στις επιταλας φυλάσσεσθαι, και μάλιστα τα κυνός· έπειά αρκλέρη, και επί πληϊάδων δύσει • τε γαρ νοστύμα μάλιστα εν ταύτησα τησαν ημίρηση κρίνεται και τα μου απο φθίνει, τα δε λήγα, τα δε άλα πάνω jebésalom és ÉTELOV GÒ Qu, weg,étépnu xatásamov • Pericolofifuno amē, Q.2 due iSolſtizi; eſpezialmente quel della ſtate; pericoloſo ale tresì l'uno, e l'altro equinozio; ma quel maggiormente dell' Autunno. E biſogna ancora aver riguardo al naſcimento delle ſtelle,mafimamentedella Canicola; quindi altramon. sar dell'Artaro, e delle Pleiadi; imperciocchè le malattie in queſtigiorni più, che in altriſi giudicano: altre morte recan do, ed altreſvanendo, o d'uno in altroftato facendo paſſag gio. E Galieno in altro luogovuole, che anche a ' tempi troppo caldi, o troppo freddipormente ſi debb.2; che lè'l temperamento della ſtagione, o del luogo ſarà qual'eſſer dee’del tutto ce ne terremo; ma ſe talnon è, purgheremo sì bene, ma molto meno di quel che faremmo, qualora ne l'un, ne l'altro il ci vietaffe. E del tempo della ſtate egli dice (1) confermando il detto d'Ippocrate, che ne'gior ni caniculari, cd avanti di quelli, malagevole, e danno ſo ſie l'uſo de'medicamenti purganti. E parimente in un' altro luogo (2 ) egli dice, che coloro, i quali, o per crudi tà, o per altra qualunque cagione accolgono abbondanzas di non cotto umore, oche più dell'uſato averanno gonfio, il ventre, e'l corpo tutto ingroſſato, non ſofferiſcono pur gagioni. Egli vuole altresì Galieno, che que'febbricicá ti, i quali abbondano d'umori crudi, che moleſtan loro lo ſtomaco, non ſi debban ne ſegnare ne purgare: A niun di coſtoro, ſono le ſue propie parole, e' fi fuole trar ſangue giammai, chenon gliene provengagraviſſimo danno,e come chè a lor faccia meſtieri la vacuazione, nonpoſſono nientedi meno eglino tollerare, ne le purgagioni, ne i Sala, fe fenza queſto ſincopizzanti pur fono: (3) éx' Sevd's twv Toroutwv cipecto της αφαίρεσης άνευ μεγίσης έωθε γίγνεσθε βλάβης· και τσι δέονται γε κενώσεως • αλ ' έτη φλεβοτομίαν, έτε κάθαρσιν φίρεσιν εύγε, και καρλς Tobrwv étaipuns ougróMorlar. Ed un'altra fiata egli medefimo dice, la ſoſtanza de' fanciulli infra l'altre tutte agevoliſſi mainente digerirſi, e diſliparſi; eſſendo ella ſopra tutte maggiorméte abbõdevole d'umore,comechè meno fredda ella fia: ma però men di purgagione aver biſogno, perchè da ſe medeſima ella vuotar li ſuole. Ed altrove ancora ma 1 (1) nel 14.lib. del metod. (2 )nelmetod,allib.9.(3) nel met, al lib.12. 1 nifeſtamente inſegna,che'l vuotare i ſoperchj umori, che nel corpo continuo ne s'ingenerano, non è di giovamento alcuno alla gente; anzi le alcuno per temna, che l'abbon danza degli cſcrementinon gli noccia, voleſſeſi avvezza. re a purgarſi una, o due volte il meſe, oltre al manifeſto nocimento, che gliene fiegue, prenderanne il corpo una dannevole, e peſſima uſanza. Ma ſopratutto, quanto al purgar gli umori nelle malattie, i quali abbian dicocimi to biſogno, da’ſentimenti d'Ippocrate, e di Galieno ina nifeſtamente ſi partono i noſtri medici; quantunque a tut ta lor poſſa con belle parole di dare a divedere altrui il contrario ſempre s'argomentino. Ne lo prenderom mi troppa briga di dimoſtrar ciò con lunghe, e ben’ordi nate ragioni;ma baſtcrammi ſolamente le parole d'Ippo crate, edi Galicno rapportare, acciocchè da quelle per ciaſcun comprender baſtevolmente ſi poffa, quanto nella crudità degli umori, onde cagionaſı il male,da coſtoro sé pre i medicamenti purgativi vietar fi fogliano, ſalvo,che radiſſime volte, e nel principio di quellemalattie, che có enfiamento cominciano. Ilmaeſtro di Galieno, e de' Ga lienifti, per quel ch'eglino tutto dì dicano,fipare, che ne ſuoi Aforiſmi, ne’qualibrievemente, quanto mai di buo no, o ſcritto, o oſſervato negli anni tutti della ſua vita egli mai aveſſe riſtringa, una cotal co? a con una general pro poſizionenediffiniſce; colla quale quanto altrove ne dice tutto conformaſi, anzi quindicome conſeguenza ſi cava; la qual coſa è sì chiara, e manifefta, che di vantaggio più manifeſtar non ſi può; perchè a confeſſarla per verail me deſimo Vittorio Trincavelli,non che altri funne coſtretto, oftinatiſſimo diféditore della cótraria fentéza.Egli aduque (1) così dice; ab hoc aphoriſmo cæteri omnes, qui huc fpe ctant, tanquam corollaria deducti ſunt: ed oltre a ciò ſog giugne: ita ut nullam aliam exceptionem admittat, niß eam quam ipfe expreffit: quum morbusturget. Ed è l'Afo riſmo, il qual da Galieno,oracolo fù chiamato una volta, cosi (2) Le materie cotte purgare, e muover fi debbono; mas, non (1 ) del confer.la fan.nellib. 4. (2) nell'afor. 22. dellib. 1. -non già le crude; nemica nel cominciamento; ſe nonſe allor, che turgidefono,malepiù volte turgide non ſono: Témava Pago μακεύειν, και κινέαν, μη ωμα, μηδε εν αρκήσιν, ήν μη οργά • τα δε πλά sve oux ogy: Intorno alla qual voce opgør mi par doverſi cô. fiderare, che in queſto luogo appreiſo Ippocrate altro non dinoti, che diſiderar ferventisſimamente, e con impazien za; ed avvegnachè non men dell'animate, che delle inani mate coſe dir ſi ſoglia, tuttavia più acconciamente agli animali ella conviene, ſecondo il ſentimento di Galieno,il qual forſe da ARISTOTELE (1 ) appreſo l'avea. E diceſi di quegli animali,che tratti da iinpetuoſa foga di libidine ſtā no in ſucchio, e come diſſe Virgilio In furias, ignemque ruunt: quindi preſeli la metafora degli umori nel corpo uma no, i quali avidi di fcappar fuora,ſtrabocchevolmente, e con impeto, diparte in parte ſi muovono, non laſciando aver punto di ſoſta al povero ammalato. Ma noi, avve. gnachè diſcorrimento, o foga più ſaggiamente da dir ſia, o enfiamento, o pure con nuova voce alla noſtra lingua Turgenza, o Turgidezza: dal gonfiare, o ſia enfiare,e dal turgere diciamo ad imitazione dique'valent’huomini, che nel latino linguaggio‘l'opere d'Ippocrate, e di Galieno traportando,preſero la voce turgere: onde poi novellame re ne diramaron quell'altra Turgentia, ad orecchio latino de'buonitempinon mai più per quel,che mi paja per l'ad dietro udita: gonfie, e turgide parimente chiamiamo, quelle materic, che a si fatto movimento ſoggiacciono;ed in verità gli umori, che’n tal guiſa ſi muovono, ſi formen tano, ſi rarefanno, egonfiano. Ma alla coſa ritornádo: queſto Aforiſmo appunto cófer mafi per quell'altro (2 ) Nel cominciamento delle acute ma lattie di rado lepurgative medicine da uſar ſono: e ciò con diſcreta avvedutezza ſide'fare: iv Toirov ožico maderav énezaéxus εν αρκήσι τησι φαρμακείοσι χρέεσθαι, και τούτο πξοεξευκρινήσαν τις sterkev. Per la qualcoſa avendo egli in priina avviſato, che folamente quegli ammalati da purgar fieno, ne' quali liu mate (1 ) nel lib.o dell'iſtoria degli animali: (2 ) nel 1.degl' Aforiſmi.materia, onde il mal s'ingenera, ben cotta, e digerita ſia, fe pur quella non turge, è che rade volte ciò avviene; e ritrovandoli nel cominciamento di tutte le malattie mai ſempre cruda,e non digerita la materia: fiegue di neceſſità, che rade volte in ſu'l cominciar delle malattie, fieno gl’in fermi da purgare. Ed è pur piacciuto ad Ippocrate, ſcar ſo altrove di parole, enegli aforiſmi ſenza fallo ſcarſiſsi mo, e riſtretto, oltre ad ogni ſuo coſtume quivi la mede fima coſa avvedutamente ridire,acciocchè per tutti i me dici l'importanza di sì grave precetto avviſar ſi debba, ed apprender quanto quello lor faccia di meſtieri, e di riſchio fia a travalicare. Etali Aforiſmi con avvedutezza non or dinaria chioſando poi Galieno,oltremodo ciò ne impone, e ne accomanda: e sempre, che egli di tal biſogna impren de a dire, toſto a quelli ne rimanda,comea faviſſīme nor me, che il tutto intorno a tal materia perfettamente con tengano. Ed avendo in un'altro Aforiſmo Ippocrate parimente detto; ne'mali oltremodo acutifon da purgare il medeſimo giornogli ammalati, ſe vi è gonfiamento; concioſiecofachè allora l'indugiare è dannoſo affai(1) Papuaxetes, év toñosning οξέσιν, ήν οργα, αυθημερον• χρονίζαν γαρ εν τοϊσι τοιούτοισιν, κακον Galieno però vuole, ed eſpreſſamente n'impone, che an che in queſto caſo dell'enfiamento, il che molto di rado 'avvenir fuole, vi s’abbia in prima ben bene a riguardarc, e penſare, cioè con tal riguardo,e ritegno adoperare, che nulla più: ne meno ove fia enfiamento purgando, ſe il cor po valcvol non fià a ſoſtenere il purgamento; perchè aj tal propofito Galieno dife (1 ) ώς τ' ευλόγως ολιγάκις εν τοις οξίσιν νοσήμασι κατ' αρχάς γενήσεξι ημϊν χρώα φαρμάκων, τω μήτε πολάκις οργάν εν αρχή τους λυπούνας,μήτε, ά και του υπάρχει και του κοσουνίG- αν επιληδεία προς την κάθαρσιν όντG-, αλα μηδέ καιρών ημίν παρέχοντG- επιτήδειον παρασκευάσαι. Per la qual cofa nelle acute malattie ragionevolmente operando, di rado, nel prin cipio impiegheremo noi purgative medicine; concioffiecoſachè gli afflittivi umori, nel principio le più volte, ſtuzzicati non fieno, (1 ) nel lib.di que'che convien purgare.fieno, e potrebbe intervenire altresì, che ove eglino fienosi fattamente ſtuzzicati, allor non foſelo infering a fojtener la purgagione adatto. E più addietro, de' medelimi umo. ri favellando avendetto: τους ούν τοιούτος εκκενούν πξοσήκες, τε τέσι τους εν κινήσει, και φορά, και ρύσι • τους δε καθ' έν πμόριονεσηεγμέ νς,ούτ' άλω πνι βοηθήματα χρή κινείν, ούτε φαρμακεύειν, πζίν εφθή. ναι: τηνικαύτα γας και την φύσιν έξομεν βοηθούσαν. Αdunque con venevol coſa è, che cotali umuri ſtando in continuo moto, e diſcorrimento, e fluffo, fi vuotino; ma que', che in qual che luogo del corpo giä ſi ſon fermati, ne con argomento alcu no, ne con purgativa medicina damuoverfono, anzi che fieno ben digeriti; imperocchè allora anche la natura dello infermoalla purgagione fauorevole auremo. Ma il principio delmale, ficome ne inſegna Galieno, prendeſitalora per lo primo aſfalimento, o quando da prima comincia a chiocciar l'ammalato; altre volte anche inſino a’tre primi giorni; e aſſai ſovente per tutto quello ſpazio di tempo,nel quale niuno affatto, o troppo debi le, e oſcuro ſegnal di cocimento ſi pare. E'l gravamento, o accreſcimento del male liè, quando manifeſtamente il cociinento, o pur ſegnia ciù contrarj ſi ſcorgono; e dura finattanto, che alla dovuta perfezione il cocimento ridu caſi; per la qual cofa allora maggiormente le moleſtie, e le noje degli ammalatiad accreſcer ſi vengono. Ma il gó fiamento avviene, o toſto, che alcuno ad ammalar comin cia, o non molto indiappreſſo, cioè nel primo, o nel ſeco do giorno, ſicomc par, che in più d'un luogo avviſi Ga licno. Ma ritornando al tempo delle purgagioni: ſo ben’In, non eſſer paruto ſaggio a Galieno il diviſo di colui, che volle,non doverſi porger giammai le purgagioni, anzi de' primi tre giorni: ma ſi ben dopo il quarto, a coloro, che patiſcono ſcorrimento di ventre; il qual parere egli ri provando, conchiude così dicendo: Egli adunque è di meſtiere, che non già dopo il terzo giorno fi pergano imedica menti, ma ficomediceapertamente l'aforiſmo(1) Negli acu. 11 111.1 (7) L’Aforij.24.ditlib.i. ' DelSig.Lionardo di Capoa. 129 - ti malori di rado,e nelprincipio dobbiam delle purgagioni va lerci. E perciò ci biſogna diffinir la coſa giuſta la mente de gii aforiſmi, ed inveſtigar ove abbiamo a purgare in fulprin cipio, ed ove abbiamo ad attendere il cocimento del males. Imperocchè fe alcun determinerà ſolamente nel principio, o non iſtabilirà alcuna delle parti, rimarràſenza fallo ingan κato. πτοσήκεν ουν ούχ ως πανώ μεία τας ταϊς, αλ' ώσπερ ο αφορισ μός εςι τοϊος • έν τοϊς οξέσι πτέθεσιν ολιγάκις, και εν αρχίσει τησι φαρμα κίησι χρέεσθε, και χρή καλα τους αφορισμους διορίζεσθαί τε και σκέλεσθε, πότε κατ' αρχάς έξι χρησέον τη φαρμακείη, και πότετην πέψιν αναμείναν. τιτε νοσήματος. έαν δε πς ήτοι κατ' αρχάς είπoι απλώς, και μη διορισάμε. ν ©·, εκάτερον σφάλετε: Adunque per Imanifefto fentimento d'Ippocrate, c di Galieno, di rado nel cominciamento delle acute malattie da inuover ſono gli umori, e nell'avā zo non mai, ma ſolamente,facendo di meſtiere, nello ſce mo del male. E ben ſaggiamente troppo, ſecondo che ad huom paja, in tal biſogno ſpeſe più lunghe parole l'av vedutiſſimo Ippocrate più, e più volte i medeſimi ſen timenti divilaudonc; imperocchè egli avviſava graviſ ſimno danno dal muover gli umori crudi dover certamente ſeguire. Perchè altrove favellando egli di que', che pur gano nel principio dell'infiammagioni: il che Galieno nel comento vuol, ciic s'intenda anche, di que' tutt'altri mali, chedagli umori procedono:dice, che per coſtoro nulla dal luogo offeſo certamente ſi vuota, non mai cedé do alla forza del medicamento, ciò che ancora è crudo ma per lo medicamento debilitanſi, e ſciolgonſi più coſto quelle coſe, che ſane eſſendo, al inal contraſtano, per chè infievolitone il corpo, agevolmente farà dal mal ſo verchiato, ed abbattuto: ne potràricoverarſi più mai per argomento alcuno » ο κόστ δε τα φλεγμαίνον εν αρχή νόσωνευ θέως επιχορέασι λύειν φαρμακη και του με ξυνεταμένου, και φλεγ μαίνοντG- έδεν αφαιρέσον • γαρ ενδιδοί ώμον εον το παθG-, τα δε αντί. χον% τω νεσήματα και υγιεινα ξυντήκασιν ασθενές- δε του σώματG- κνο μένα το νούσημα επικρα ]έι · οκόταν δε ονούσημα επικρατήση του σώ μας το τοιόνδε ανιάτως έχα. Ma ſe ciò per buona ventura dell' ammalato pur non R gliene liegue, non per tanto certiſſimi danni, ed irrepara bili avvenir gliene debbono; e ſe non altro, certamente gliene andrà alla lunga il male, e ſconvolgeraſli il giudi cio, che ſopra quello da dar era; ſicome non una, ma più fiate Ippocrate,e Galieno (1) pienamente ne dimoſtrarono. Ora quì, chi non iſcorge allai chiaro, che minorar ſecon do Ippocrate, e Galieno non mai li puote la cruda mate ria, come beſtialmente ſi perfuadono i noſtri mcdici; i qua li tentan ciò fare colle ininoranti, che lor dicono,medici. ne. Ma comechè in ciò grandiſſima arte, emalizia ado perar ſogliano coloro, che ſon di contrario ſentimento, p coprire, e naſcondere al Mondo, la manifeſta lor ribellio nca’maeſtri; pur non fanno sì fare, che da ciaſcun non li conoſca, e non ſi ſcopra la ragia, onde ne reſtin poi vergognoſamente dinnentiti, e convinti; così ſciocche ſon le chioſe, eicomenti, co' quali ſi ſtudiano a tutta lor poſſa d'inviluppare, e travolgere gli apportati Aforiſ mi, e con lor ciance far calandrini, non ſolo la volgare, e cieca gente, Cheficrede ogni coſa, che l'è detto: ma col volgo ancora que'letterati, che poco, o nulla a sì filtre coſe,avvegnachè digrandiſſima conliderazione, ſo glion badare. E certamente non poſſo non maravigliarmi forte della lor tracotanza: ſe così poco, o nulla eli riguar dando alla ſtima di sìvenerandi maeſtri, ad ogn'ora così vituperevolmente gli beffano. Perciocchè volendo coſto ro, che nella copia grande, nella malizia, e nella ſorti gliezza degli uniori, e ſomigliantemente ne'caſi di confi derazione, o per riguardo della dignità della parte offeſa, o della gravezza del male, o della grandezza delle cagio ni, o del pericolo imminente, o per altre ragioni ſia das purgar l'ammalato, tutto che la materia cruda lia, e non pur nel principio, ma nell'aumento, e nel vigore delma le: o ciechi affatto, e diflennati; e pure ſcioccamente ma lizioſi, e maligni apertamente a tutti ſi fan vedere, non ſolo, perchè vengono ad accagionar di ſoppiatto, ſe non (1) nel lib.4. della dies. p.44. di malvagità, di traſcuraggine almeno, i lor maeſtri; poi chè in materia di tanta conſiderazione, ne Ippocrate, nes Galieno di cotalicaſi han fatto menzione alcuna, comes certamente doveano; ma anco, perchè, o non avviſano, o fingono dinon avvederſi, che poco men, che ſempre; o una, o più delle coſe per lor dette, ne'mali acuti ſi trova no. Laonde, ſe tale veramente, qual per loro fi finge, li foſſe ſtata veramente opinione d'Ippocrate, e diGalicno, aurebbon elli in verità tutto il contrario dovuto dire: cioè, che no miga già di rado,come dicono, ma ſovétiſſimamen te, o poco men, che ſempre nel principio degli acuti ma li ſi debba purgare, e che nell'aumento, e nel vigore di ef fi ciò anche ſi debba eſeguire. Ma pure per iſchermirli da cotal colpo s'argomentan coſtoro di traſcinare a'lor ſentimentiqualche ſentenza de'loro maeſtri: da cui tutt'altro certamente ſi compren de, che qucl, ch'elli intendono. Ne dovea in buona veri tà Ippocrate, ſe pure frenetico, e mentecatto egli del tut to non era, in que'luoghi, ove del gonfiaincnto ſolamente fe menzione, non annoverarvi ancora quell' altre condi zioni, per le qualis’aveſſe parimente a purgar la materia, non anche al debito cocimento pervenuta. Che ſe non è da dire, lui quivi averle per balordaggine dimenticate, masſimamente negli aforiſmi, ove tutto il ſuo ſtudio,e tut ta l'avvedutezza maggiore egli logorò, perchè per ogni parte perfetta l'opera riuſcir doveſſe, biſogna di neceſlicà conchiudere,talenon eſſer mai ſtato il ſentimento di lui, cioè a dire, che gli umori non cotti, anche ove gonfiamé to non foſſe, a purgar s’aveſſero • E Galieno, che così abbondatisſimo di parole egli ſi fu, che anche in coſe di niun momento vanamente alla lunga ſcialacquolle, come poi vogliam dire, che in materia di tanto affare, oltre al ſuo natural coſtumeaveſſe affatto ri ſparmiate. E certamente non ſi dee in niun modo crede re, ch'egli così traſcurato ſi foſſe, che quivi ancor nons v'aveſſe fatta la ſua diceria, fe ftato foſſe meſtieri, diviſan done a ſuo modo quáto n’abbiſognaffe in que'caſi'la pur R 2 gage ga, e quanto ſtrabocchevoldanno, e nocimento, traſan dandola,per ſeguir ne foſſe al malato. Ma certamente no fu tale il ſuo ſentimento, ficome cotefti diffeonati ſquali modei vogliono follemente darne a divederc. E ben avvi faronlo anche molti valentisſimi Galicniſti, cosìdel paſſa to, come del preſente ſecolo; masſimaméte Giulio Ceſare Claudino, avvegnachè del purgare ainicisſimo, pur nõ po cédolo ricoprire apertisſimainete cõfeffollo,dicédo: Equia dem fic exiſtimo valdè efe probabile, mentem efe Galeni, a Hippocratis, cruda materia nunquam efſeexhibendum phare macum excepto uno turgentia caſu. E di lui molto innanzi Giovan Manardi, che per conoſcerſi bene della greca fa vella, e perciò più leal interpetre de’veri ſentimenti d'Ip pocrate eſſendo,così delle purgagioni nel principio delle malattie, ebbe a dire. Et licet Hippocrates dicat buc raro faciendum, nos rationibus adductismoti, crebrius id face re poſſumus, debemus. E de’noſtrimedici replicar po trebbe Aleſſandro Maſſaria ciò, che del Manardi e di tute' altri del ſentimento di lui già diſſe. Hippocrates ducet,ra roin morbisacutis effe medicamenta adminiſtranda: contra non defunt Manardus, &alii,ſidiis placet, Heroes, qui audent affeverare, illa effe crebrius, immo Semper admini ſtrandas. Ma omai s'è táto oltre in diſpetto di Galieno, e d'Ippo crate l'uſanza di purgar la materia cruda pian piano avan zata, che ove in prima non altri medicamenti ſi metteva no in opera, che piacevoli, e deboli, ne più, che una, o pur due volte: ora a gran dovizia grandi,ed efficaciſſime purgagioni cosìcompoſte,come ſeinplici, da'noſtri Galie niſti largamente diviſanſı; e ſe pur talvolta, o per tema, che n'abbiano gl'infermi, o per altra cagione, alquan to più lievi, e deboli loro le impongono, nondimeno, o con accreſcerne la quantità, o con meſcolarvi per entro alero in ggior medicamento, o collo ſpeſſo reiterar delle medicine coſtringono maggiormente a vuotarſi il corpo con dannograviffimo, e irreparabil riſchio degli ammala ti; fe puread Ippocrate preſtar fede noi vogliamo; il qual ficome di ſopra è detto, tante, e tante fiate manifeſtol loci: e Galicno medeſimamente, il quale oltre a ciò av vifa, che 3Gν αρχηταί η νόσημα των εκκρινομένων αδέν έκκρίνε. αι τίωικανά τα λόγω της φύσεως, αλ' έσιν άπαντα συμπτώμα των εν τω σώματι παρά φύσιν, διαθέσεων • ν ώ γας χρόνω βαρύνεται με υπό των νοσωδών αιτίων η φύσις, απεψία δ ' ες των χυμών, εν τέλω κενέσθαι τη χρησώς αδύνατον • πτοηγάσθαι μεν Κρή πέψιν, ακολα θησαι δε διάκρισιν, 49' εξής κένωσαν την αγαθή γένηται κρίσης. Cioc. quando alcun male comincia, ſe cofa maiavvien, cheppura ghi, allor certamentenon purgheraftſecondonatura, ma ciò Farafficontro le diſpoſizioni diquella; imperocchè,'quando la natura vien aggravata dalle cagioni delle malattie, ma fon crudi gli umori, allora impoſſibil coſaè, che alcuna eva cuazionefelicemente rieſca,concioffiecofachèfadi meſtieriche in prima il cucimento, quindi lo fceveramento, e finalmente l'evacuazion ſi faccia, perche ſia buono il giudicio. E fomi gliantemente in quel luogo ove dice.Per la qual coſa effen. dovi nelcominciamento delle malattie sēpremaiſegni dicru. dità, ſemprealtresi nocevol ſarà, e darnofa l'evacnazione di si fatti umori: ώς τ' εα ειδη κατα την αρχήν τα νοσήματος απε. ψίας εσιν αι σημάα, μοχθηρα δια παντός έσαι των τοιέτων χυμών ή xívwos: E quindi, per tacer altri luoghi, ſi ſcorge quan to vadano errati, così coloro, che follemente immagina no non aver vietate altrimenti quelle purgative medicine, cheminorantieſſi chiamano, no Ippocrate, ne Galieno nella crudezza degli umori: comequegli altri ancora, che ofano affermare, che Ippocrate, e Galieno, non per al tro vietafler le purgagioni, che per non eſſer note loro, ſe non che quelle purgative medicine, che violenti ſono nell'operare; il che però eſſer molto, e molto dal veroló tano chiaramente ogn’huom vede; imperocchè per tacer del latte rappreſo, dicuicosì ſovente Ippocrate ſi valles certiſſima coſa è, che gli antichi ebbero contezza della Mercorella (la quale per poco val quanto la Siena) dell'E pittiino, della Fumaria, dello Goico, del Polipodio, dell'Agarico, il quale per Galicno malamente venne ſti mato radice, comeche fungo egli veramente ſia, e d'al tre, e 1 tre,e d'altrebenigne purgative medicine. Ne è daracer qui, cheGalieno dice a Glaucone, che dar egli debba l’Aſsézio, leggeriſſimo, ſenza fallo, medicamento, nelle terzane, allo ra quando apparir ſi veggano i ſegni del cocimento. Ga lien parimente viera, cheſi deanell'infiammagioni interne la Iera di Temiſone, leggeriſſima medicina, ſe non che quando la materia ſarà al cuocimento pervenuta; ed avve gnachè alcuna delle accennate medicine lenitiva ſolamen te fia, nondimeno, come la ſperienza, ne inſegna data in quantità grande divien purgativa. In quanto all'Epit timo, ed alPolipodio, Galien dice chiaramente eſserel Jeno benigne medicine,e che moderatamente purgano (1) E quanto è a me, Io porto fermiſſima opinione, che lo pocrate, e Galieno aveſsero dalle continue, e diligenti of fervazionide'Sacerdotidell'Egitto un tal parere appreſo; e perciò eſſer'avvenuto, che così ſtabilmente poſcia l'avel fer ſempremai conſervato; eche dall'Egitto le sì fatte of ſervazioni quel gran padre della filoſofia, e medicina Ita liana,Pittagora,in prima aveſse nella Grecia recate; quel Pittagora lo dico, di cui altri ella non vide, da Democrito in fuori, che il pareggiaſse, non che con lui poteſse entra re in gaggio, o'l ſuperaſse giammai. Ma che Pittagora, foſse di tal ſentimento, egli li par manifeſto per quel che nc fia ſcritto in quel celebre Dialogo, che della natura dell'univerſo compoſe il divino Platone, la ove Timco no biliſſimo Pittagorico introduce delle purgagioni in ſimil guiſa a favellare. La terza ſpecie del commovimento ſuol riuſcir, ma non però ſempre giovevole ad huom, che da grave neceſſità vi ſia tratto; ne altrimenti da chi ſia di ſana mente è da uſare, cioè quella forte di medicina purgativa; * imperciocchè que’mali,che no ſono guari pericololi, non ſono da ſtuzzicar con purgagioni; concioffiecoſachè la di ſpoſizione di ciaſcun male fie ſomigliante alla natura degli animali: c certamente la coſtituzion dicoſtoro è talmente ordinata, che generalmente ha i termini della vita già ſta biliti, e qualunque animale ci naſce, con fatale, e deter mina (1 ) nelmerodal.lib.13.6.15. minato ſpazio ncmena egli i ſuoi giorni: trattone fuora quelle paffioni, che di neceſſità avvengono; imperocchè i triangoli dal naſcimento di ciaſcú d'eſso loro tal virtù ſor tiſcono, che ſol yale a mantenere il loro ordinamento per infino ad un certo tempo, oltre al quale a niuno è conce duto dipoter più avanti allungar la ſua vita. Lamede ſima diſpoſizione adunque è data alle malattie, e ſe altri colle purgagioni contro al fatal tempo ſconccralla, al lora di piccioli,grandi, e di pochi, molti diverranno; il perchè col regolamento del vitto le sì fatte malattie ſon da correggere, e rintuzzare, per quanto a ciaſcun veriì, ad huopo; ne il durevol male con medicamenti irritar fi dee: Πίτον δε αδG- κινήσεως και σφόδρα ποπ αναγκαζο μένω χρήσιμον, άλως δε ουδαμώς τα νούν έχοντι προσδεκτέον, το της φαρμακευτικής καθάρσεως γιγνόμενον ιατρικών • τα γαρ νοσήμα όσα μη μεγάλος έχει κινδύνες, ουκ ερεθισέον φαρμακείαις · πα σα γαρ ξύτα στις νόσων, όσον πνα τη των ζώων φύσει ποσέρικε και γαρ η τούλων ξύ. νοδG- έχασα πάγμένες του βίον γίγνει χρόνος, του ο γένες ξύμ. παν G καθ ' αυτό το ζώον ειμαρμένον έχον έκαςον, τον βίον, φύει χωρίς των εξ ανάγκης παθημάτων • το γαρ τσίγωνα ευθυς καρχας εκάσων δύναμιν έχον & ξυνίσταται μέχρι πνος χρόνε δυνατού εξαρκών, ου βίον ούκ αν ποτέ τις ας το περgν έπ βιώη» τόπος ουν αυτης και της πε και τα νοσήμα ξυάσεως ήν • όταν τις παρα την ειμαρμένην του κράνε φθείρη φαρμακίαις, άμα εκ μικρών μεγάλα, και πολλα εξ ολίγων νοσήμα τα φιλί έγνεσθαι· διο παιδαγωγών δεά διαίταις πάντα τα τοιαύται καθ, όσον αν και τα αλή » αλ ' ου φαρμακεύοντας κακον δύσκολον ερεθιστον, Ma diſcédédo a qualche particolarmalattia,egliè da ſapere che fu ſentimento diGalieno, che in quelle febbri, che portan ſeco i flulli da purgar giāmai,ne da ſegnar fia l'am malato, quantunque ben fi pareſſe, che la materia per la ſoccorrenza uſcita, non foſſe ella alla debita purgabaſtá te, o altro vi foffe da dover cacciar fuora nell'ammalato; ſoggiugnendo manifeſtamente Galieno al ſuo Glaucone, eſſervi ſtatialcuni, che ſcioccamente in sì fatto caſo ab bian condotti, preſſo che a gli ultimi sfinimenti, gl'infer mi. Mai noſtri mediciavvegnachè d'eſſer di Galien fede liſſimi ſeguaci ſommamente di pregino, pure i ſaldiſſimi ann maeſtramenti di lui affatto traſcurando, a lor talento, e purgano, e ſegnano in ſomiglianti caſi, nulla guardando a’riſchj, che, ſecondo egli avviſa, ſeguir ſovente ne pof ſono. Così ſomigliantemete Galieno nelle febbriſincopa li (p tacer della diffenteria)vieta in tutto il falaſſo, e le pur gagioni'; e pur coſtoro arditamente contro i ſentimenti * del lor maeſtro tutto dì ve l'adoperano. Così anche nel la puntura quando appajano gli ſputi del ſangue,e nel do lor delle coſtole, vieta apertamente Ippocrate l'aprir la vena, ſe pure nel dolor delle coſtole qualche manifefto ſe gno d'infiammagionenell'interiora non appaja. Ma cote iti diſcreti diviſamenti del loro Ippocrate non altrimente, che vaniſſime fuperftizioni fi foſſero diſpregiando i noſtri Ippocratici medici, baſta ſolamente loro in tali avvenime ti, che col dolor vi ravviſin la febbre, che come in prima poffono, cosìin diſpetto d'Ippocratc,e di chiunque ad Ip pocrate crede, per iſvenare i miſeri cattivelli arruotano barbaramente le lanciuole, direbbe Proſpero Marziano per avventura. Ma dove laſciato avea lo il purgar le dó ne levate appena del parto, e non paſſati ancora i termi ni fatali aſſegnati apertamente da Ippocrate a ciò conve nevolmente operare? E dove nelle lunghe malattie, nelle quali la materia ha maggiormente di cocimento biſogno, ne fegnal d'enfiamento eſſer mai vi puote, il purgar de’no Itri medici contro i manifefti divieti d'Ippocrate, e di Ga lieno:E dove il cibare a roveſcio gli ammalatise non guar dar punto all'età de'fanciulli, e de’vecchi, o alle ſtagioni dell'anno, e cento e mille altre coſe di grandiſſima confi derazione, ovemanifeſtamente da’lormaeſtri ſi partono? Troppo largo campo o Signori da valicare aurei, s’lole voleſti fil filo tutte narrare: ne per poco di venirne a capo Io ſpererei, Ma come ciò avvenuto ſia, che in tante coſe, e malli mamente nel purgare, c nel trar ſangue dal loro Ippocra te, e Galieno i noſtri Galieniſti partiti fi fiano: e che ezian dio que' che han riſtorata la lor medicina, e ſottrattala al l'arabeſca rozzezza, pure travalicando i lor diviſi abbia no in ciò manifeſtamente fallato; lo ciò giudico avvenirc, perchè gli ammalati, e i lor parenti, efamigliari ſian ſem pre deſideroſi oltremodo di rimedj, e ſpezialmente di quei, che per manifeſta vacuazione adoperar fi veggono; come fe da quelli il lor ſalvamento, e non più toſto la lor morte dependa. Perchè nelle malattie, e maſſimamente nelle più gravi, e nel vigore, e accreſcimento di quelle, ove l'intermo maggiormente languiſca, per non moſtrarſi i me dici ſcioperati ſenza ajutarli con argomento niuno, fi va gliono di cotali medicine, e talor vi ſono dagli ammalati medeſimi, o da congiuntidi coloro contro lorvoglia i me dici menati; perchè altrimenti a color non ſarebbon a grado. E quinci anche è, che alcuno de’moderni intro duttori di nuovi ſiſtemidi medicina,abbian ritenuti in par te sì fatti modi di inedicare: non perchè egli veramente crcda, che ſien valevoli conſigli, da riſtorare ammalati; ma perchè egli avviſa in tal errore eſſer già foinmerſa, ed incallita la gente, che ſe altriméti adoperaſe,niuno certa o pochiſſimi ammalati da medicar gli giugne rebbono. Adunque manifeftamente da ciò, che detto è compré der ſi puote, che purtroppo grandemente nel medicare, da Ippocrate, e daGalieno i Napoletanimedici ſi diparto no, e s'allontanano; emolto più aſſai di quel, che'l Paracelſo, e l'Elmonte ſteſſo, e altri moderni ſpargirici, o altri, ch'elli fieno, per avventura ſi facciano. Mafi laſci ad altri la briga di ciò conſiderare: baſti a noi il ſapere,co. me ancora da ciaſcun Galieniſta Napoletano ſi viene con fatti a commendar ciò, che con parole da alcuni di loro manifeſtamente ſi biaſima; e come ancor' eglino laſcia no il loro Ippocrate, ed il loro Galieno, ove lor venga in talento: e che tutti igualmente abbandonando l'an tiche ſtrade più ch'alle cieche autorità de' creduti maeſtri, alla ragion ne laſcianio guidare. E perciò per Dio ceſſino coſtoro d'abbajare addoſſo a’moderni medi canti, e di mordere, e di lacerar tutto dìla loro lode vole libertà, ne mai più per innanzicon uggia, e crepa mente > S cuore ſi ſtudjno di contradiarla, e di metterla in fondo; poichè, come per addietro ſi è fatto per noi manifeſto, da' più ſublimi ingegni,che ſtati fieno in ciaſcun tempo s'è ab bracciata, e mantenuta da' più nobili ſcrittori, edalle più illuſtri Accademic, e Scuole dell'Italia, della Lamagna, della Francia, dell'Inghilterra, della Svezia, della D2 nia, della Polonia, e da tutt'altre parti del mondo glorio famentc ſeguita. Ma riſerb.andomi di ciò favellare a miglior huopo, ri tornerò pure a'piati,ed alle conteſe deimedici; onde già mi partii. E quantunque fin'ora per me molte narrate ne ſieno, pur molte ancora, e quaſi infinite a raccontar ne rimangono; le quali poichè mi pare d'aver oggi ragionato a baſtanza, e già il ſole comincia a gir ſotto, riſerberolle. alla ſeguente aſſemblea. RA 139 j: Milli Beda Vantunque volte meco ſteſſo penſando rammento quel tranquillo, e feliciſſimo ſecolo, che meritevolmente dell'oro per ciaſcuno vien detto: tante a biaſi mar la preſente, e miſerevol noſtra età; quaſi di forza ſon tratto. Non pure, perchè a quella la terra dall'aratro non ancor tocca, tutto ciò, che al mantenimento di noſtra vita abbiſogna abbondantemente produceva; ed ora a romper zolle col Vomere, e col Raſtro, a ſveller pru ni c ſtecchi anza, e ſuda, e talora anche in darno il Bi folco; ne perchè allora, e nuvoli, e nebbie,e tempefte ', c turbini non intorbidavano, ficome or fanno, i lucidi ſereni dell'aria; ne perchè l'eſecrabil fama dell'oro, non ancor ſignoreggiava il mondo: reſo ora ſcellerato, e crude le, poichè fol vince l'oro, e regna l'oro; ne per tant'al tri privilegj, che diquella s'annoverano, de'quali altro che un'intenſo deliderio, ch'il cuore acerbamente ne pun ga a noi non n'è rimaſo; ma ſi bene perciocchè, e liti, e S 2 piati, econtefe, ed armi,eguerre non allignarono. No arruotava le zanne a mordere il cinghiale; non digrigna va i denti il maſtino;non rabbuffava il doſlo il Lionefra; l'erbe, e fiori s’appiattava ſenza veleno l'angue. Ma che è ciò? l'huomo, l'huomo di tutt'altri animali duca, e ſigno re non fabbricò nave, ch'apportaſſe guerra agli altrui li di, non forbì, non arruotòferro periſvenar l'altrui petto: non aſſordò l'orecchie con iſtrepito ditrombe, di corni, o di bellicofi tamburi; vivea ciaſcun ficuro ſenza il riparo di murate Città. Ed a'dinoftri, che più fi tenta, che più fi machina, ove più fi bada, fe non ſe a' nuovi ordigni da guerra, perchèl'un Principe, l'altro abatta; l'una Repub blica, l'altra eſpugni; l'una Signoria, l'altra atterri; l'una Città, l'altra ſtermini; l'un nimico, l'altro affondi; ſi com batte nelle campagne, ſi combatte nelle Città, s'armas contro l'un l'altro amico,'e fin dentro il nario albergo con l'un, l'altro fratello, anzi il padre co'l figlio calora conten de; va in ſomma il mondotutto in conteſe, e benchè tar dis pure è gionto agli antipodi il furore dell'armi. M2 egliè pur vero, chele diſcordie abbian per qualche tempo auuto fine, ne in ogni tempo le porte di Giano ſieno ſtate sbarrate. Ma quel, che pür troppo è da maravigliare, è ciò, che lo ne’paſſati ragionamenti v'ho detto, e debbo nel preſente ſeguire; egli cono le tante, e tanto invilup patecontefe de’medici. Queſte non han mai ſofta, quefte non han inai line; e comeche moltisſime ve n’abbia fin or diviſate, pur altre aflai a narrar ne rimangono; le qua li lo fon ora perdiviſarvibrievemente, e darvia diveder, che tutte quante dall'incertezza dell'arte abbiano origine; la quale perchè più chiaramente per voi ſi comprenda,dirò brievemente altresì,chente mi paja delle ſette de'medici. E perchè fi comprenda, quanto queſt'arte fia ſempre mai nemica naturalmente di pace: ne baſterà per avventi ra il riguardar ſolamente al cófuſiſſimo drappello de'Ga lieniſti, che co’lor diverſi, confuſi, e ritorti ſentimenti ban turbati i mari Con menti avverſe, ed intelletti vaghi, Non per ſaper, ma per contender chiari. Eper la verità delle loro ſtrane, e ſtravolte opinioni da. to brigando romoreggiano, che poco men fanno per av ventura l'onde torbide, e fonanti del noſtro Tirreno qual ora nelle più atroci tempeſte giungono furioſe a riverfar G ſu i lidi. Magna mentis admiratione diftrahor, dper surbor (dicea di loro appunto favellando Giovanni da Sa lisberia ) quod a fe ipfo tanto verborum conflictu, &collifio ne rationum defiliunt, &difcordant. Neancor paghi del le lor lunghe e, oſtinate conteſe aggiugnendo ſempre pia tiapiati, quiſtioni a quiſtioni, ne preſero anche in preſto dalla brigante filoſofia, altri più inviluppati, e nodofi, da fare ſtancar inutilmente per un'intero ſecolo i più riottoſi dicitori del mondo. Perchè riſtucco, ecrannojato l'avve durisſimo Lodovico Vives, così (clamando proruppe. Ex fcholaftica illa phyfice exercitatione ingentem, ácopiofifſimă difputandi materiam in hanc quoque artem, tanquam plar ftris invexerunt, de intentione, & remilline formarum, de raritate, & denfitate departibus proportionalibus, de inſtáribus: ea que nec funt, nec unquam evenient ventilantes fua fomnia; defertapugna cum morbis interea loci premen tibus, atque occidentibus. Ea res fecunda, e infinita non aliterquam bydra quædam diutiſſimèremurata eft ingenia, cum fructu aliis vacatura. Videre eft cavillariones a, trj. cas Iacobi Forlivienſis, nec minus fpinofas, nec minus inu tiles, quam Suiceticas: nec prolixitate, cu moleftia cedentes. E Gregorio Giraldi huom di rara, e di ſquiſita letteratu ra, così de’diſcordanti pareri,che a danno altruiportano, e mettono in campo i medici, fe vagamente parole. Nec minus quoquo medici noſtro periculo de medēdi ratione ejuſq; partibus difenſere, aliis alia fubindeapprobantibus, ut no ftra etiam hac ætate tanta fit inter medicos diſſimilitudo, ut corumaliqui vena inciſiunem omnino prohibeant, alii ad eam aperiendam potius exclamext. E per recarne brievemente un faggio, eglino intorno aº principj delle coſe naturali contender fieramente ſogliono: ne ſi può di leggier credere quante diverſe, e confuſisſime opinioni ciaſcun di loro ne porti. Dicono alcuni ritrovar fi veramente, e formalmente gli clementi ne'miſti: altri in contria opinion tratti,ſolamente in virtù, ed in potenza. Vogliono coſtoro, ſecondo ilſentimento del lor maeſtro, effer le qualità formevere degli elementi, e de'milti: co loro tutte le forme eſſerveriſſime ſoſtanze giudicano. S'ay vilan molti collor Galieno, amendue le qualità nel lor fommo grado eſler igualmente negli elementi; altri una in più alto, e altra in più baſſo grado ne allogano; quin di infra coſtoro altra nuova quiſtion forge, ſe colle più fie voli qualità degli elementi le côtrarie accoppiar ſi ſoglia no. Ma ſe le dette qualità ſien tutte, come dicon poſiti ve, e vere: 0 pure alcune di loro ſolamente privazioni di quelle, lungamente affai ſi contraſta ora eziandio in fra’ Galienifti medici. Ed oltre a ciò giudicano alcuni,in qua lunque,comechè picciolisſima particella deʼmiſti, formal mente avervi parti corriſpondenti a ciaſcuno degli elemé. ti; altri ſono dicontrario parere. Ma chi potrebbe mai intorno a ciò rapportar tutte le antiche, e le moderneopi nioni? ſenzachè non ſon minorile conteſe, s'egli ſia pur vero, che vi ſia temperamento; ſe quello veramente ſia l'anima medeſima dell'huomo, come cmpiamente avviſoſ ſi Galieno, o pure altro, che quella; ſe ſia da porre il ſo ſtanzial temperamento; e ſe quel poſto, del qualitativo in nulla differente egli ſia. Oltre a ciò quante le differen ze deil'uno, e dell'altro teinperamento ſi ſieno; ſe il qua litativo ſolamente nella proporzicn delle quattro prime qualità riſieda, o pure in altra qualità da quelle riſurtu. Ma troppo a lungo ne verrei, ſe tutte diſtintamente nar rar volesſi intorno a sì fatta materia, le zuffe, e le conte ſe de’alieniſti filoſofanti. O forſe almen, ſe in tutt'al tro ſi rodon l'un l'altro il baſto, faranno a buon concio ra nodati, e concordi in render ragione dell'eſiſtenza de’lor quattro elementi nella natura? Anzi in ciò più che altrove gareggiano in rintuzzarſi, rifiutando altri ciò, che altri ne dice, e tutti l'un l'altro oſtinatamente carminandofi; an zi fra cllo loro Vopiſco Fortunata Pemplio dopo averne molte, e molte ragioni recate,e tutte rifiutate,ultimame. te con tali parole i ſuoi propj ſentimenti ne paleſa. Sed hæc omnia quăfint imbecillia quilibet videt.Quapropter aliorum etiam qui hactenus id ipfum conati ſunt argumentis penficum latis,puto non poffe vera, & efficaci rationeprobari, ejetan tum, veleffe debuifle quatuor elementa, ſed id ita effe, nos accredere Ariſtoteli toti omnium fcientiarum fapientia lumi ni. Concluſione indegniſſima nel vero non pur di lui: ma di qualunque più cattivello ſcolaretto, che per filoſofante ſi voglia fare acredere; c ne verrebbe ſicuramente cgli dal ſuo Ariſtotele, c dal ſuo Galicno ſchernito, e forſe da lor nc torrebbe in capo del ſer Meſtola, e delgocciolone, le il ſecodo ne meno ad Ippocrate vuol dar fede ſenza il pc gno in mano delle ragioni, el primo allega l'autorità nel l'ultimo luogo dopo tutt'altre pruove, con ciò manifeſta mente inſegnando, che non miga delle autorità, ma delle ragioni lo intelletto ſolamente debba eſſer pago. Ma pu re Iddio voleſſe,che aſſai non vi foſſero a’dì uoſtri, di quel li, i quali ſecondo il ſentimento del Pemplio, non alla migliore, ma alla maggior parte degli ſcrittori voglion gir dietro,pecorum ritu,perdirlo colle parole di Seneca, non qua eundum eft, fed qua itur. Cattivelli di loro, che tratti dalla bordaglia de letterati,immaginano, che allora ſien da lor meſſi in ſu’l filo del vero ſapere, qualora da lo ro forſe più, che da ogn'altra coſa del mondo, ne fon di ſtornati, e danneggiati così, come cantò il Bembo nello ſuc diviniſſime ſtanze: Sicome nuoce al gregge ſemplicetto La ſcorta fua quandell'eſce diſtrada, Che tutto errandopoi convien,che vada. Ed’o ſe mai eglino fi riducellero alla memoria la ſentenza del teſte da noi citato filoſofo, Argumentum peſſimi turba eft. E quell'altre parole del medeſimo,non eadem hic,cioè nel filoſofare, quam in reliquis peregrinationibus condicio eft in illis comprehenfus aliquis limes, interrogati incola non patiuntur errare: at hæc tritiſima quaquevia, &celeberri ma maxime decipis: certamente infomiglianti falli ſcimu. niti, 14 Ragionamento Terzo niti, ch'elli ſono, non fi laſcerebbono traſcinare. Ma egli però giova credere, che il Pemplio non già da fenno, ma per irrifion parlaffe, ed ironia, ' fe poi ſenza al cun rimordimento, e fenza ſcrupolo averne di temerità, in trattando delle qualità,paleſemente di  LE DOTTRINE D’ARISTOTELE e di Galieno famoſtra di non curare. Malaſcian do da parte ſtare tutt'altre quiſtioni, nelle quali inveſchia ti, e impaſtojati i Galieniſti tutti ſtralciar mainon ſi poſe fono, ficome ſon quelle intorno a' principj dello ingene. rarſi dell'huomo, al caldo natio, all'umido, che dicon ra dicale, all'eſiſtenza, alla natura, e al numero degli ſpiriti; e ſomigliantemente intorno all'inviluppatiſime, e tutto che innumerabili quiſtioni della natura, del numero, del luogo, della diſtinzione delle potenze, e ſpezialmente in torno a quelle coſe, onde il chilo, e'l ſangue, e gli altri umori s'ingenerano; o pure in trattar del polſo, dell'arte rie, e del movimento del cuore: ed onde i ſentimenti nc végano, e formiſi il moto.Chimai baftevol ſarebbea por gli d'accordo intorno a quella cotanto celebre, e faniores conteſa, e di tanta conſiderazione in medicina, ſe la bi le, la flemma, ela malinconia ftian di fatto, o pure in po tenza nella maſſa, come dicono,del ſangue? Il che in buo ſentimento viene a dire, fe veramente vi lieno, o no; im perciocchè certamente nulla monta il potervi eſſere, ac ciocchè ſi dica,che vi ficno;ficome direbbeſi altresì, che nel ſangue vi ſieno in potenza, e carne, e vermini, e cene to, e mille altre coſe, chequivi ingenerar ſi poſſono. Ma a cui caglia di vedere un confuſiſſimo rimeſcolamento di diverſe, e ſtrane opinioni, riguardi digrazia a' Galienilti medici intorno al diviſar della natura, delle differenze, e delle cagioni delle materie delle febbri, e de'luoghi, ove s'ingenerano; riguardi all'opere de’loro antichi, e moder ni maeſtri: e poi, ſe potrà, ridicamiquando mai potreb be alcuno ſcalappiar dall'intralciato, e confufiffimo labi rinto di tanti, e sì fatti riboboli, e indovinelli; e guari pu re a quali debolillime fila aſſai ſovente la medicina di Galicno s'attenga, Tralaſcio pure le lunghe, ed inviluf pate quiſtioni intorno all'apopleſſia, al catarro, al letargo, alla mattezza,alla malinconia, a' capogirli, al mal caduco, alla peſtiléza,almalfrāceſco, eda täi'altre dubbioſe cotro verlie, che non ſarebbe per avventura minore impreſa il raccorle quì tutte, che l'arene del mare, e le ſtelle del Cie to minutamente annoverare. E comechè per queſto capo incerta, e confuſa, e inviluppata la medicina de' Galieni fti oltremodo ſi ſcorga, e perciò inucile, e nocevole ad adoperare:non peròdi meno non è ella intorno alle mag giori biſognedell'huomo incerta maggiormente, ed in tralciata, cioè a dire intorno alla dieta: i fini, e le condi zioni del trar fangue: la natura, la facoltà, gli effettia e'l modo dell'adoperar de’medicamcnti: quando, ed in qua’rempi del male ſien da dar le purgagioni: ed altre, ed altre infinite quiſtioni,delle quali queſte,ch'io ho quì bric vemente raccolte, una menomiſſima particella ſi fono, e certamente lo m'avviſo, ch’in leggendolei curioſi da non poca inaraviglia ſien ſoprapreſi; anzi forte ſoſpirerano, s ſdegneranſi, veggendo a quante controverſie,a quanti ſo fiſini, a quanti pericoli per lor ſi faccia foggiacere il bene ftare, e la vita deglihuomini. E chicon occhio aſciutto può rimirar il crudeliffimo ſterminio, che fan tutt'ora de gli ammalati di febbre maligna, per non ſaper di quella, cofa del mondo? Eglino piatiſcono in prima delle cagioni di fuora, chenti, e quali elle fiano, e d'onde naſcano, come operino, e muovano il male; quindi intorno a quel. le d'entro combattono, ſe fien verainente qualità: efe tali, naſcoſc più toſto, o manifeſte, o pur ſe da loverchio di putrefazione avvengano, o da tutta la ſoſtanza più to ſto gualta; e corrotta; e oltre a ciò in quali luoghi elle fi covino, diverſamente contraſtano. Così mordendoſi l'un l'altro, e piatcndo, niun l'imbrocca, e tutti a malpartito menano gli ammalati; volendo altri i falaſſi, ed altri vie tandogli, ed altri una fol volta permettendogli, chi ſcar ſamente, cchi fino a trar loro tutto il ſangue, chi dalle venc delle braccia, e chi da quello de piedi, e chi anches da quelle parti, delle quali è bello il cacere, con appic T carvi le mignatte; altri a tutti coſtoro cótraſtando voglió, che dalla buccia ſolamente per coppette fi tragga. Alcu ni vengon toſto alle purgagioni, altri aſpettan qualche de boliſſimo ſegnal di cocimento;ed altri, o nel principio pur gar logliono, ove turgide lien le materie, il che di rado. avvenir ſuole, o pure inſino allo ſcemo del male s'indugia no. Molti poi nel purgare, de’violenti medicamenti fer vir ſi fogliono,molti de'mezzani, ç moltide’deboli, e be nigni n'adoperano: e parecchi ancora con lenitivi rimedi folamente medicar s'argomentano. V'ha chi purga una ſol volta, e chi più volte in ogni tempo, e ſtato del mal lo coſtuma. V'ha alcuni, che come il mal comincia, cosi toſto con le purgagioni v'accorrono; ma dopo i trè dì af fatto le victano; e dicoſtoro altri di vomitive, alori di sé plici purgative medicine ſervir ſi fogliono. Alcuni ne'pri migiornidel male a' rimedj, che chiaman veſcicanti, gli infermi condannano; altri vuol, che in prima purgati, e ſegnati color fieno; echi in un luogo, e chi in un'altro cô -sì fatti rimedj marchiar gli vogliono, togliendo loro così manifeſtamente le forze, e crucciandogli, e dando loro vigilie, e dolori, e forſe con riſchio di gangrene,di piaghe nelle reni, e nella veſcica, di malagevolezze d'orina,e d'altri malori, che ne foguono. Ne mancano eziandio infra'Galieniſti medici alcuni più rinominati, che per be nevoglienza al lor maeſtro Galicno, cd Ippocrate, o per chè così veramente lor paja,cotal ritrovato come peſtilen zioſo; e ficriſlino, e di barbara gente, e crudele, oleremo do vituperino, e danninozil quale non a confortar vaglia, ed ajutare il cocimento, ma ſolamente a fraſtornarlo, ed indugiarlo, con accreſcer le cagioni ad un'ora, e gli effet tidel male, e con piagar, ed infiammar malamente ſpeſſo ſpeſſo le reni, e la veſcica, e far talora gli addolorati lan guenti di puro fpafimo miſerabilmente morire. E v'ha, eziandio di coloro, che non d'altri rimedi, che de ſolian sidoti nelle maligne febbri ſervir fi fogliono; ed intorno a queſti ancora diverſamente piariſcono. E forſe faran mai per riconciarſi, e porſi d'accordo infra qualche ſpazio di + tein tempo le lor conteie? e le loro incertezze appianate, fari per porſi fuora, quando che ſia un più ſtabile, e veriſimile fifteina di medicina? anzi per quanto ne poſſiam conghier turare eglivie piů a giornate s'accreſcerannoi piati, e le conteſe, e ſempre più confuſo, e incerto, e pericoloſo il lor meſtier diverráne. E nel vero,chi mai potrebbe deci derle? non le autorità, non le ragioni, non l'eſperienze; imperciocchè, così gli uni, come gli altri, di loro eſperi menci egualmente fan moſtra, e pompa; morendo vera mcnte, e guarendo così degli uni, come degli altri, i malati. Per amendue le parti poi lor ragioni ſi produco no in mezo; equinci, e quindi ogni conteſa ha ancora i fuoi parziali. Ne v'ha cagionealcuna, per la qual mag giormente attenerci dobbiamo a Giovan Manardi,ad Er cole Saſſonia, ad Orazio degli Eugenj, che d'altra parte più coſto ad Aleſſandro Maſſaria,ed a Fabio Paccio, eze Pietro Salio, o a Girolamo Cardano preſtar fede, conciofa fiecoſachè tutti egualmente ficn di pregio, e lieva nella Gia lienica medicina, ed egualmente di maggioranza gareg giar îi veggino. Perchènon ebbero certamente il torto, per quelch’lo ini creda ', a dir quc' valene' huomini:non. polje comprehendi patere ex eorum qui de his diſputarunt di fcordia; ciim de ifta re, neque inter ſapientia profeſſores, neque inter ipfos medicos conveniat. Ma poiche Io in par te vi ho diviſato a’quali tempeſtoſe procelle di litigj ediconteſe la medicina tutta ſoggiaccia, diſconveneyol coſa non farà ', ch'Io mi ſtudi per avventura, e mi argome ti di recarvene brievemente la cagione. Alcuni ſciocca. mente fi perſuadono ciò ſolamente per colpa deʼmedici avvenire, i quali oltremodo d'onor deſideroſi,ed avariſfi mi del denajo, e naturalmente ancora riottofi, e ſuperbi, ſi graffjno ſeipremai, e ſimalmenino; cercando a ſpada tratta ciaſcuno, ove a lui venga in concio, altrui travaglia re, e neinichevolmente affitto atterrare. Così vengono a partirſi in fazioni, e ſempremai a premerſi,e tenzonare, non altrimenti, che tutt'altri macftri di cialcun'altro me ſtier fi facciano; perchè faggiamente diffe Eriodo وا T 2 Και κεραμεύς κεραμά κοτέα, και τέκτονι τέκτων Και ωχός πτωχώ φθανέα, και αοιδος αοιδώ. Che in lingua noſtra riſuona Al fabbro, è'l fabbro in odia: e'l vafellajo Non puòſoffrir compagno: arde diſdegno Contro un mendico l'altro: el’un cantore Contro l'altro cantor di rabbia freme. Malo per me fermamente credo, che alcra di ciò ne ſia la cagione: e che non tanto per uggia, e mal talento deʼme dici, quanto per mancamento dell'arte medeſima così in certa,e intralciata,e dubbioſa no poſſan goder mai, ne pa ce ', ne ripoſo que', che l'eſercitano.Negià in tante, e tan te diverſità di ſentiméti ciafcun'altro meſtiere partir fi fuo le, in quante la medicina ſi parte, ſe già non foſſe, che la filoſofia, e tutte quelle ſcienze, c'han colla filoſofia qual che attacco, o dependenza, alle inedeſime tempeſte del la medeſima ſoggiacer ſi veggono; nelle quali malagevol molto, e difficile è lo inveſtigar la verità, licome confeſſa no que'filoſofi, e medici medeſimi, che d'haver preſte loa lor pruove, e dimoſtrazioni falſamente ſi pregiano, Nemailetto di ſelva allor, che priva L'arbor difoglie il venta,ha tante fronde quante, e quante diverſe, e diſcordevoli fette ha l'anti ca, e la moderna FILOSOFIA; o in ciaſcuna ſetta di quelle's quante, e quanto diverſe infra loro fian de parteggiatilo pinioni. Così de'Peripatetici ſolamente, chi non sa quam to li premano, e li rintuzzino iGreci,egli Arabi, eiLa tini Maeſtri? quorum fudium, dice un di loro, perpetuum,ut contradicant, ab aliis femperdiffentiant. Ed a cui non ſon manifeſte le continue, ed oftinate contefe delle dire Peripatetiche ſchiere ancora,che nominali chiamano, creali? E a tanto giunſe la lor riottoſa oſtinazione, che poco fallò, ch'un dì in Parigi venendo alle mani, nó iſve gliaſſero nella Francia una nuova, e fanguinofa guerra ci yile. Ed infra i Reali medefimi chi potrebbemai, co’TO miſti gli Scottiſti rappartumare? e chi co’Tomiſti i Tomi fti medelimi:econ gli Scottiſti gli Scottiſti? ma per noi 3 dipartirci della noſtra medicina, in queſta altro non è egli per certo di tante, e tante diſcordie cagione, ſe non ſe la medeſima malagevolezza del rinvenir la verità delle coſe naturali. E ciò ben’avvisò Galieno medeſimo, ove quel, le parole di Ippocrate va in prima chiosãdo xehosganemi il giudicio difficile: ο λόγG- δ'αν ηκρίσης άη, το κρίνεσθαι παρ' αυτό τα ποιητία.χαλεπος και δυσθήρατός εσιν όγε αληθής, ως δηλόι και το πλήθG- των κατα την ιατρικής τέχνης αιρέσεων •ου γαρ αν άπερ οίον τ' ήν ραδίως ευρεθήναι το αληθές, ας τοσούτον ήκον αντιλογίας αλήλοις οι ζητήσαντες αυτό τοιούτοι τε και τοσούτοι γενόμενοι. 11 giudicio, dice egli, fi è la ragion medeſima: poichèper quella le coſe, che da far fono, fon giudicate. E certamente egli è difficil molto, e malagevole, a rinvenire, Io dico il giudicio vero, il qual manifeſtamente ravvifarfo fà dalla diverfità delle fetre della medicina. Concioffiecofachè le agevol foſſe il xin venir la verità, non ſi ſarebber tanti, e tanti valent'huomi ni, che per imprenderla con ogniſudio ſi ſono affaticati, in colante ſette partiti. Fin qui l'avveduto Greco.Manoi più avanti procedendo ci avviſizmo, il rinvenir la verità effer certamente molto più malagevole, o piùardua imprefa aſſai di quel', che s'immagini, e dica Galieno. Ad inve Aigar di ciò la ragione convien ridurci amemoria, che noi non men, che gli altri animali, poveri, e mudi affatto di qualunque, comechèmenoma contezza delle coſe,naſcii mo; verità così chiara, e conoſciuta per ognuno, che non le fa d'alcuna pruova meſtiere, e molto ben ad ogniora Iz ravviſiano, e Platone ſteſſo venne coſtretto a confeſſar fa, avvegnachè altra volta faccia ſembiante di tener con truia opinione, dicendo, che'l noſtro apparare altro in vero egli non ſia, ſe non, che un rammentarci quelle co ſe appunto nredelune, che già noi prima di naſcere ſape vaino; ed imperciò tutte le notizie ſenza fallo conviene, che da noi ſteſſi l'appariamo; ma come, e da cui,non èma lagevol troppo per avventura ad inveſtigare. L'animanoſtra, alla quale, come a parte più nobile, e più principale dell'umana compoſizione, ſolamente con. viene l'apprender le coſe; ondefolea ſaggiamente Epicarmo dire: la mente vede, la mente ode, l'altre coſe tutte fon forde, e cieche; l'anima noſtra lo dico, comechè in corporca forma, ed inviſibile ella fia, in sì fatta guiſa no dimeno unita, ed avviticchiata, per così dire, ella al cor po ſi ritrova,che ſe queſto dalle ſenſibili coſe di fuora toc co, emoflo ad eſſer mai viene, varj, e varj penſamenti in effa egli è valevole a ingenerare; c ciò avvicne qualunque ora elleno toccano,e muovono le fibre de’ncryi, le quali a guiſa di fila ſottiliflime di ſeta trapunte in ricamato pan 10, {parce per tutto ilcorpo ravviſanſi, e che queſte poi avvalorate da un diſcorrente, e ſottil licore, gli avvti mo viinenti alla prima loro origine riportano nel cerebro principal ſedia dell'anima, ove quella il comprende, o per me dire ſente. E le fibre poi col venir variamen te premute da quelle parti del corpo, che ſi chiamano organide'ſenſi, ecoltorcerſi, e col piegarſi in varie, ed in varie maniere sì, e tal mutamento ricevono ne pori, enel ſito delle lor particelle, che da loro, e dalla diverſità de li ſenſibili oggetti di fuora la diverſità del comprendera, o fia de'ſenſi,ncll'animna procede. Quinci ſcorger ſi puore, chei ſenſi ſono quelli, per li quali non altrimenti, che per le fineſtre liz luce, entrano nell'anima le prime contezze delle coſe, e da queſte ella poi altre, ed altre contezze col mezo del diſcorſo tracndo, tratto tratto ſe ne viene ad arricchire; ma come, e dove ſi riſerbino l'acquiſtato notizie, e come l'anima l'abbia più, o meno pronte, quae do valer ſe ne vuole, e come per ſe ſteſſe talora all'anima firappreſentino, è malagevoliſſimo ad inveſtigare; ne queſto propoſito più che tanto appartiene forſe a noi il fa perlo. Ed al ſentir dell'anima ritornando, lo dico libera mente, e confeſſo, che i ſenſi nc ſe medelimi, ne l'anima mentir non poſſono gianmai; inperocchè i ſenſi le im preſſioni degli eſterni ſenſibili oggetti mai ſempre tali all' anima rappreſentano, quali eſſi appunto le ricevono, fen za curare, o prenderſi d'altro brigi. Verità, la quale non ſo lo come DE’PERIPATETICI LE SCUOLE COL MAESTRO ARISTOTELE LIZIO abbiano ofato negare;cocioffiecofachè ſe nella maniera, la qui Del Sig.Lionardodi Capoa. 151 quale effi fingono andaſſe la faccenda, ogni fabbrica di no Itro diſcorſo certamente a terra ne verrebbe, come faggia mente avviſa quellaltilimo filoſofante, e poeta latino:.. Vt in fabrica ſipravaſt regula prima:“ Normaque fi fallax rectis regionibus exit: Et libella aliqua fi exparte claudicat hilum: Omniamendose fieri:atque obſtipa neceſ umft: Prava: cubantia: prona: Supina: atq; obfona tecta Iam ruere ut quædam videantur velle: ruantq; Prodita judiciis fallacibusomniaprimis. E ſe i ſenſi mai poteſſero una ſol volta, o ſe, o altri ingão Nare, ſi toglierebbe via certamente dal mondo ogni con tezza, ogni giudicio, ogni fede; e non per altro in vero gli antichi Padri della Chieſa così acerbamente ripigliaro no i filoſofanti d'una sì erronica, e ſciocca dottrina: Re cita Ioannis teftimonium, dice Tertulliano, quod audivi. mus; quod vidimus oculis noſtris, quod perfpeximus, ma nus noftræ contrectaverunt de verbo vitè falfa utique teſta -tio fi oculorum, aurium, & manuum fenfusnatura mer titur. Ma a chi mai ricorrer ſi dovrebbe per conoſcer, ed ammendare i fallimenti di ciaſcun ſenſo? ad altro forſe? certamente no; imperocchè dell'uno non meno l'altro ſen ſo farà ſoſpetto difalſità, e d'errore; ſi chiederà forſe aju to agli altri ſenſi tutti: manon ſono queſt'altri ancora ſom ſpetti di falſità? o ſia una, o ſieno più le perſone, che ne deano teſtimonianza, nulla importa,fe di eſſe tutte è dub biofa, ed incerta la fede. O forſe, come Ariſtotele ſi per Snade, gli errori de'ſenſiconoſcerà la ragione? ma come potrà cio mai eſſa fare, fe per avvederti dell'error d'un ſenſo, ad ammendarlo, dineceſſità le fa meſtieri fervirſi dell'opera d'un'altro ſenſo, e di notizie, e di regole col me. zo de'ſenfi parimente avvte. A queſte, e ſimili malagevo lezze ponendo mente peravventura Ariſtotele, ne aven do altro rifugio dice, che ben può la fagione giudicare del l'error d'un ſenſo colla ſcorta d'un'altro ſenſo, il quale abbia però più ben fatto, e ſquiſito l'organo; e fi ſerve egli per ciò dimoſtrare dell'eſemplo dell'anello, il quale mello و IS2 RagionamentoTero meſlo ſenza frámettervi ſpazio notabile ditempo, or nel l'uno, or nell'altro dito della inano appare al ſenſo del tatto non uno, ma due eſſer gli anelli; il quale per error del tatto vien ſecondo lui avvertito, ed ainmendato dalla ragione col cõſeglio del ſenſo della viſta: l'organo del qua le è più eccellente di quello del tatto. Ma a chi per Dio un sì fatto riparo vano non ſembra; poichè quancunque l'eccellenza dell'organo perfetta aſſai, e compiuta ſia, nó ſarà mai valevole ad operare, che quel ſenſo non men degli alori non vada ingannato. E per valermi del medeſimo p · lui rapportato eſemplo del ſenſo della viſta, non s'inganna queſti, SECONDO CHE PORTA OPINIONE IL MEDESIMO ARISTOTELE, ne'colori dell'Iride, e delcollo della colomba; anzi ſe poteſſero mai i ſenſi ad alcuna forte d'errore ſoggiacere, fi ritroverebbe per tale, che ben ſottilmente vi badaſſe, affii più agevolmente ad errare il ſenſo della viſta, che tutt'al tri ſentimentiincorrere. Ma lo forte mi maraviglio poi, come non avviſaffe ARISTOTELE, che ſoventemente l'errore del ſenſo, che ha più eccellente l'organo, da un'altro fen fo, di cui l'organo è aſſaimeno ſquiſito conoſcaſi, e cor reggafi; comeincontrarſuole nelremo dentro dell'acqua, ove l'organo della viſta dal toccamento vien ricreduto, e ciò lo dico favellando fecondo i ſuoi medelimi ſentimenti. E alla fine domáderei ad Ariſtotele, ſe i ſenſi de'quali egli intende doverſi la ragione ſervire per riprovar altri ſenti menti, ſieno anch'eglino tali, e ſe tali pur ſono, perchè cglino ancora non potranno eſſer fall? adunque mai potrà giudicar la ragione appiccata allc lor pruove, c certamen te mal può convincer perſona di falſità quel Giudice, al quale convenga dineceſſità valerſi di teſtimoni ſoſpetti. E a ciò riguardando forſe ARISTOTELE CON LA SUA USATA POCA FERMEZZA IN ALCUN LUOGO DICE, i sensi non potere in modo alcuno errare, cche ſia debolezza d'intelletto i sensi per la ragione lasciare. Ma quantunque non poſſano iſenſi, ne ſe, ne altri in gannare, non però di meno poſſono molto bene allo in telletto, cui propianente il giudicar s'appartiene, effer 1 cagione d'errore, e d'abbagliamento; ecomechè poffafig avventura l'inganno, o l'errore ſchivare col non precipi tar coſto,e inconſiderataméte il giudicio, ma ſoſpedédolo, e ritenédolo finattanto che fiarrivi a quell'evidéza de’sē timenti, tanto, e tanto celebrata per Epicuro: tutta fia ta,perciocchè ne in tutticorpi,ne in ciaſcuna particella di quelli, tra per la lor picciolezza, e per altro impedimento egli non è a'ſenſid'internarſi, e di profondarſi conceduto, e quando ben loro ciò venga permeſſo, ne men altro egli no certamente comprender ne potráno ſe non ſecotali im preſſioni ſolaméte,che da quelliricevono, pchè no già mi ga i corpi, ma qualche operazione ſolamēte de'corpi vien loro ad eſſer manifefta; ma la ragion poiè quella chedal le varie, e varie operazioni de'corpi, varie, e varie core alla natura lor pertinenti imprende ad inveſtigare. Ma pera ciocchè dell'operazioni medeſime, che per li ſentiinenti s'avviſano, varie, e diverſe eſſer poſſono le cagioni, e nel trarne argomento vezzoſa talora, e ingannevole loro ſi fa davanti Falfa di verità ſembianza, e larvä, agevolmente la ragion vi s'inganna, giudicando fallaces mente,da tale cagione un'effetto naſcere,che da altra cer tamente avviene; e come già cantò l'Ennio noftro Ita liano: Veramentepiù volte appajon coſe, Che danno a dubitar falſa matera Per le vere cagion, che ſono afcoſe, così s’alcun dicelle, che l'oriuolo collo ſtelo, e colmare tello tratti da contrapeſi,e da ruote,n'additi l'ore del giore no, vero per avventura egli direbbe; ma non mai potreb be certaméte affermarlo,potendo altri ed altri ſtrumentila medeſimacoſa operare. Perchè ciaſcun fillogiſmo, che intorno alle coſe naturali formaſi,probabile ſolamente ef ſer può, non già dimoſtrativo, ſe pur toglier non nevo gliamo alquanti ben pochi, che da quegli effetti ſi dedu cono, i quali d'una ſola, e certa cagione poſſono avveni re; ſicome per avventura farebbe il dire, dover eſſer ne V ceſke ceſſariamente corpo ciò, che gli organi de'ſentimenti ne muove; concioſliecoſachè la coſa, che muove, a ciò fare è ben di meſtier, che tocchi; e'l toccamento, ſalvo che da corpo,non ſi può incontrare: perchè SAGGIAMENTE LUCREZIO: “Tangere, vel tangi, niſi corpus, nullapoteſt res.” Così ancora, che'l corpo mentre egli è dimenſionato poſſa in parti parimente dimenſionate eſſer diviſo. Che tra uno, &altro corpo eſſer nó pofta altro di divario,ſalvo, che nella grandezza, nella figura, nel moviinento, nel l'eſſer diviſo in parti, o non divifo, e nell'aver le parti ol tre alle già dette vario il ſito, e l'ordine tra di eflo loro;co ciofliecoſachè altro di queſto non poffa, ne al corpo, ne al le parti, nelle qualiil corpo ſia diviſo, avvenire. E però è da dire, la diverſità, che così grande eſſer noi veggia mone'corpi dell'univerſo, altronde certamente non pro cedere, che dalle coſe già dette, che'l calore, la freddez za, la ſaldezza, il diſcorrimento, icolori, ei ſapori tutti, cd altre ſomigliantiqualità, le quali a noi parc, che nc corpi dell'univerſo ſieno jaltro verainente non ſieno, ſe non ſe,o l'accennate coſe: ſe veramente elleno ne'corpi ſono: e ſe ſono in noi, cffetti di quelle, o per me' dire de' corpi per quellemodificati. Maqueiti,e ſomiglianti argomenti ſon così pochi, e generali, che per lor non ſi può al vero conoſcimento di quelle particolari cagioni pervenire, ove ſenza fallo, del 12 natural filoſofia il pregio tutto è ripoſto. E ciò sì bene fu conoſciuto al principe di tutti greci filoſofanti Demo crito, ed a molti ancorde’ſavjantichi, che perciò in ap portando le cagioni delle naturali apparenze, delle fole probabili ragioni s'appagavano; e ſaggiamente il Padre de Criſtianifiloſofi Agoſtino il Santo ebbe a dire:latet ve rit atis quærenda modus; e'l gran Galileo de GALILEI, che tanto abbiun veduto a’dì noſtri gir dentro alle ſecrete coſe delle ſcienze, che al parer del dottiſſimo Obbes: Primus aperuitvobis Phyfica univerſaportamprimam: pur dir ſo leva eſſer pochiuimicoloro, che qualche particella di filo fofia ſi ſappiano, e Iddio ſolamente ſaperla tutta, eche quanto più in perfezione monterà la filoſofia, tantomeno merà il novero di quelle concluſioni, che da quella dimo ſtrar ſi fogliono. E'l celebratiffino fondator della peripa tetica ſcuola, avvegnachè talvolta d'altro ſentir faccia veduta, pur tanta forza ha la verità, che gli potè purc al la fine una volta trar di bocca, e far apertamente confer fare, eſſer la noſtra mente alle coſe più manifeſte della na tura, qual'occhio di notturno augello a'rai delSole; e 'altrove, che diquelle coſe, che ſono a’noftri ſentimenti naſcoſe allor baſtevolmente d'aver ragionato penſar dob biamo, quandoſecondo il diritto della ragione provevol mente, come eller poffino ne ragioniamo. E quel Fio rentin filoſofo, c poeta fa, che ſecondo il ſentimento del la ſua peripatetica ſcuola la ſua Bice gli dica, e facciagli a ſapere. dietro a’ſenle Vedi, che la ragion ha corte l'ali. E innanzi parimente avcagli colei detto: Erra l'opinione de'mortali Ove chiave di ſenſo non differra. Ma non penſaron mai, licome far certamente doveano, o pure il naſcoſero, E ALIGHIERI ED ARISTOTELE le naturalico ſe eller a' ſentimenti, non perla lontananza ſolamente de gli oggetti, ma per altro ancora vietate, e che noicolsé ſo non già le coſe, ma ciò, che in noi le coſe operino ſo lamente comprendiamo. Verità aſſai ben penctrata da quegli antichi ſavj, che diſſero appo Aulo Gellio: (1)om xes omnino res, que fenfushominum movent são osis, cioè a dire, come egli ſpiega: nibil eje quicquam quod ex fefe conſtet, ncc quod habeat vim propriam naturam; fed om nia prorſum ad aliquid referri:taliaque videri effe,qualis fit. eorum ſpecies, dum videntur: qualiaque apud fenfusnoftros, quopervenerunt creantur,non apud fefe, unde profeeta sunt. Ma a che più da filoſofi,eda’Poeti mendicar teſtimonian zein coſa cotanto manifeſta, la qual dalla verità medeſi ma ne fu ſpiegata per bocca del ſapientiſſimo Re Salamo V 2 (1 ) lib.iLcap.i. ne: 0 m  !ne: Omnibus, quæ fiunt fubfole hanc occupationem pesſimam dedit Deus filiis hominum, ut occuparentur in ea. Intellexi quod omnium operumDei nullam poffit homo invenire ration nem eorum quæ fiunt ſubfole, & quanto plus laboraverit ad quærendum tantò minus inveniet. Etiam fi dixeritſapiens ſe ea noſſe,non poterit reperire. Or qual contezza dunque aver mai potrà la incdicina intorno alle coſe a ſe appartenenti,ſe quelle medeſime fo no, ove s'intralcia, e s'inviluppa maggiormente LA FILOSOFIA? Ne in ciò la medicina, dalla filoſofia è differente, re non fe quella in più largo campo forſe va ſpaziando, e nel la contemplazion ſolamente, o ſemplice diſcorſo s'acche ta: e queſta ha per ſuo fine, e berſaglio il porre in opera• Perchè ſicome la filoſofia, la medicina ancora di pochili me coſe naturali conoſcer douraſi, e quelle forſe poco, o nulla al medicar ſaranno acconce: intanto, che non ſap piendole non è gran fatto per huom da curarlene. Ma per diſcendere in qualche particolarità,e far quãto più ſi pof fa una tal verità manifeſta: non vi par’egli, o Signori, che alla medicina ſovra tutt'altre cofe farebbe di meſtierc,che gutte le parti liquidc, e ſalde del corpo umano, e l'aficio le facoltà, e la natura ne foſſero interamente manifcfte? or dove mai ne fa ſcorta la coſtruttura dello ſtomaco, degli inteſtini, del fegato, della milza, delle reni, della veſcica, del pulmone, del cuore, delle glandule, le quali ſparte per tutto il corpo poco men che innumerabili fono, ele più di effe di canta picciolezza,che fenza l'ajuto del micro fcopio non ſi poſſon raffigurare, per tacer d'altre, e d'al tre parti; e quantunque a tal ſegno di perfezione eller giunta a'dì noſtri veggiamo la notomia, che nulla più: nientedimeno non ſi è egli potuto, ne men ſi potrà giam mai camminar ſicuro, ne determinare, ſe non ſe pochiſſi me coſe intorno all'ammirabile magiſtero de' corpi degli animalized agli uficj,ed alle operazioni delle parti di quel li.Ed a dir liberaméte il vero, licome avvenir noi parimen te veggiamo, in tutt'altre partidella filoſofia, e della me dicina dopo tante induſtrie, e fatiche durate, e dopo tanti ſparti ſudori per cotanti valent’huomini,altro alla firms non ſi è arrivato a ſapere,ſe non fe altrimente in verità an dar le coſe di quel, che s'avviſavano, e davano a noia divedere gli antichi; e comechè gliocchi de’modernino tomiſti dal microcoſpio avvalorati poco men che lincei fie divenuti, eche eziandio colla ſcorta dell'avveduto Bilſio apparato abbiano a fchivare alcuni intoppi aʼnotoiniſti de' vivi animali, per l'addietro inſuperabili; impertanto non poſsono in modoalcuno nelle menomiſfime particelle pe netrare, le quali ſe non vengono ben ſottilmente avviſa te, e ad unaad una diligentemente conſiderate, Io non ſo in qual modo ſaper fi pofsa la fabbricazione,e la coſtruttu ra delle parti maggiori, che ſenza fallo di quelle compo fte, e formate ſono. Perchè egli avvien ſovente,dover noi in sì fatte bifogne camminare al bujo, attenendone ſola mente a troppo deboli, e incerte conghietture, e per cal. laje inviluppate andando. La inalagevolezza inedeſimi, anzi maggiore vienſi ad incontrar poi negli uficj e nell'o perazioni dieſſe parti; e quel configlio, che porger ne puote in sì fatte traverſie il vital notomiſta, fia pur detto con pacedel Valentino, del Paracelſo, c dell'Elmonte, quantunque grande, ofere ognicredere egli ſi paja, e che torno d'ogni briga magnificamente ne prometta, fovente ſuole, per la malagevolezza eſtremadella coſt, ſcarſo, e debole molto riuſcire, e talvolta anche in tutto inutile; il che da non altro certamente naſce, ſe non ſe dalla troppo fquiſita, e dilicata finezza del lavorio de ' corpi degli ani mali. Ma della fabbrica del cervello cotanto intralciata,e ma ravigliofa, Dio buono, che han potuto giammai, o gli an richi, oimoderni Notomiſti di certo raccorre? non è ſta ta egli ogni lor fatica inutil ſempre,e vana, facendovi ma la pruova la loro induſtria, e’l loro ſtudio? Egli ſono le fi bre, che'lcervello compongono, così minute, e ſpeſſe, e ſottili, e sì la for teſſitura, e reticulazione è dilicata, e la lor ſoſtanza molle, che a volerle ben partire fenza riſchio di romperle, o di perderle, inalagevole anzi impoſſibile: ogni impreſa rieſce. E sì, e tanto egli è ſpinoſa, ed intri cata, che'l gran Renato delle Carte reſtādovici anche egli tutto inviluppato, e preſo, ragionevolméte quell' huom, ch'egli compoſe per molti valenc'huomini vēne propiamé te idcale, e ſuo luomo appellato. Ma ſe tanto avvien del. le parti grandi del corpo perciaſcun vedute, che farà cgli da dir poi delle picciole, inolte, e inolte delle quali ha forſe la natura a nobiliffmi uficj, ed operazioni deputate? eci ha alcune di eſſe parti cotanto menome, e ſottili, che non ha mano cosìſcaltra, ed avveduta, che poſſa ſperar di venire a capo di dividerle co'l ferro giammai. E altre vi fono più ſottili aſſaile quali appena per la lor sóma piccio lezza ſi poſſono col più fino, eſottile microſcopio ravvi fare; E di queſte ancora vi ſono altreminori, e quaſime nomillime linee, nelle quali inutile ſi prova ogni arte, vano ogni ſtrumento per ravviſarle. Ma chi mai potrà le particelle del ſangue darne piena mente ad intendere, le quali ogni chimico ritrovamento per farne notomia vincono? Chiquelle del ſugo nutritivo, della linfa, del licor pancreatico, dell'orina,del fiele,del la mucilaggine, che veſte le membrane, detta dal Paracel. ſo finovia, e d'altre, e d'altre diſcorrenti ſoſtáze del cor po delle qualiinfin’ad ora nulla ſe ne fa, ne ſe ne potrà giammai per avventura per huom ſapere, comechè ſcorto, e diligente nel meſtier del far notomie egli fia. E chi finalmente aggiugnerà a capire, ſe non ſe per in certe, e fallabili conghietture, o la grandezza, o la figu ra, o'l lito, o'l movimento di quegli inviſibili corpicciuoli, che ogni inenoma particella delle falde, e delle liquide parti del corpo dell'animale compongovo? E ſe ciò all'u mano ingegno è naſcoſo, come potrà egli mai paſſar oltre a-ſpiarne le facoltà, gli uficj, e l'operazioni, e tute'altre biſogne, che di neceſſità all'economia degli animali s'ap. partengono. E come ravviſar mai potrafli, da chi, ed in qual manie ra s'ingencri il Chilo, e comc, e per chi a cambiar ſi ven ga in ſangue, e coine il ſangue ad ogni ora in tante, e tante maniere ſi muova, e mai ſempre caldo ſe ne ſtea, e ten ga in vita i membri tutti dell'animale, e come ſi faccia il ſenſo, e'l moto: e cante, e tante altre operazioni,le quali non ſappiêdoſi, ne men certamente conoſcer fi potrebbono gli ſtravolgimēti di eſſe,cioè a dire le malattie e queſte igno rādoſi,come poi ſi potranritrovar certieſicuri argomenti da riſanarle? Ma per darvi anco qualche ſaggio dell'incer rezza degli antivedimenti de'medici, ſe non ſi fa, ne può ſaperſi giammai coſa, che certa, e ſicura ſia dell'orina, e de polli,chi può indovinarmai, per Dio, non che ſalda mente ſapere, tutte quelle cagioni, per le quali eglino, malimamente ipolli, anche in un momento ſpeſſo ſpeſſo variando, così ſtranamente ſi cambjno? che direm poi de gli altri ſegnali della medicina, onde argomentar parimé. te ſogliono imedici le malattie, e le cagioni di eſſe non meno de’polſi, e dell'orina, anzi aſſai più di queſti talora incerti, e fallaci? Certamente non mai potrà compren derſi perloro la qualità del inalore, e la cagione argomé tare. Ed ebbero ſenz'altro il torto di sì fatti ſegnali cotá to millantare i greci maeſtri, ſpezialmente Galieno, come ſi può ſcorgere, per tacer d'altre ſue opere, in quellibro, ch'egli a Poftumo intorno a tal materia ne ſcriſſe; che lo per me credo, che quelle, che a forec loro ne riuſcirono, certamēte colcarbon bianco ſi ſarebbon potute ſegnare. De'cibi, e de’medicainenti, e delle loro facoltà, e valore nulla certamentenemen potrà ſaperſi, nonſolo per defimi, ma per quel, che poſſano nel corpo umano opera re. E comechè i Chimici più che tutt'altri d'aver delle già dette coſe più pieno conoſcimento giuſtamente vantar potrebbono; pure quel che ne fanno riſpetto a quel che rimarrebbea fapere è poco, anzi nulla. E ſon di vantag gio tutte le pruove non altro, che probabili, e poco ſalde conghietture; perciocchè, non ſolamente imcitrui(liami pur lecito al preſente uſar termini dell'arte ) ma l'aria an cora, e'l fuoco, e ivaſi, e tutt'altri ſtrumenti, che vi s'a doperano, ragionevolmente d'errore, e d'inganno pofſon render ſoſpetta ognilor più diligente, e accorta notomia, ſe me 1 con ne ſeco conmeſcola per entro a'corpi, che ſi dividono qualche lor particella, che magagni, emuti la lor compleſſione i E mallimamente l'aria, in cui tanti,e sì diverſi corpicciuo li diſcorrono; i quali dalla terra, e anche altronde melli fuora, e infra quelle monome particelle del corpo diviſo per avventura meſcolandoſi, agevolmente le potranno in altre cambiare. E'l fuoco d'altra parte introducendovial cune di quelle particelle, licvi, e ſottili, che rubate ad altri corpi ſuol con leco ſempreportare; o pur portando per li pori del vaſo le medelime particelle delcor po del quale ſi fa notomia, e maſsimamente le più nobili, ele più operative, che in eſſo dimorano: comechè la boca ca del vaſo ſia bene, e come dicono, ermeticainente turata; o purcolla ſua forza nel digeſtire, e nel formentare, e nel lo ſceverare,ch'egli fà le particelle del corpo, del qual li fa notomia, diſponendo altramente quelle, e altramente meſcolandole, e dando lor movimento, per nulla dirdel. la grandezza, e della figura loro per eſſo diverſamente cambiate. Perchè fe tante, e tante cagioni poſſono alla fotomia delle coſe intervenire,come potrà egli mai ilChi mico notomiſta co'ſuoi argomenti vantuti dipienamente, conoſcerle: Anzi tanto egli ne ſaprà meno, quanto mag giormente faticandovil'havrà guaſte, e ſconce. Adunque ſe vaniancora, e infruttuoſigli avviſi, e gli argomēti de'più intimifamigliaridella natura ci rieſcono; e ſe nulla approda la più diligente, e ſottil notomia delle coſe a ſpogliar dalle dubbietà, e dalle incertezze la noſtra Medicina: Io per mè non ſaprei qual conſiglio prender mi dovessi a dichiarirla dalle sue nubi. Ne è da tralasciare a questo proposito quanto agio s’a veſler presso i filosofi dall’incertezze sull’uomo a ragionar sovente, e piatir nelle scuole or d’una or d’altra parte, più per vaghezza d’ingegno che per amor della verità, difendendo tutte opinioni, ed ove lor concio viene, giudicando non altrimenti che quel sottilissimo filosofante Pittagora face a veder della filosofia de omni re pervalermi delle parole di Seneca “sin utramque partem disputari pole ex aquo”. Perchè non è da maravigliare, se DICANILIO EGEO, prendendo a difender cento contrarie opinioni in altrettanti capi partite, da a diveder manifestamente l'incertezza di cotal arte. 1. Egualmente dal padre e dalla madre si inandi fuora il seme a ingenerar gl’animali. 2. Non d’ambedue si mandi. 3. Il seme si mandi da TUTTO’L CORPO. 4. I testicoli solamente v’hanno parte. 5. Il cibo nello stomaco per opera del calor si smaltisca. 6 no. 7 iò sia per lo suo sfacimento e stritolamento. 8 no. Il capo V che sia dal nativo spirital calore. Il capo VB, che no. Il capo VI che per lo corrompimento del cibo sia. Il capo VIB, che no. Il capo VII che avvegna per propietà de' ſughi. Il capo VIIB, che no. Il capo VIII che il calor natio a qualità s'appartegna. Il capo VIIIB che no. Il capo IX che per lo calore avvegna la digestione de'cibi. Il capo IXB, che no. Il capo X che la diſtribuzion de'cibi lia per attraimento di calore. Il XB che no. Il capo XI: dagli spiriti la digestion si fa. Il XIB che no. Il XII: per opera dell'arterie si digestisca XIIB: no. XIII: ciò sia per mancamento a vuoto accompagnato. XIIIB: non per ogni mancamento eglilia. XIV: il glauco degl’occhi per mancanza d'alimento al condotto visivo s’ingeneri. XIVB: no. XV: quel nasca per discorrimento di sangue nelcondotto visivo. XVB: no. XVI: dalla graſſezza degl’umori e dalla esalazione si faccian gli’occhi glauchi. XVIB: no. XVII: La frenesia dal distendimento delle membrane del cerebro e dal corrompimento del sangue si cagioni. XVIIB: no. XVIII: Per soverchianza di calore ella non avvegna. XVIIIB: no. XIX: Per infiammagione ella sia. XIXB: no. XX: da infiammagione si cagioni il lecargo. XXB: no. XXI: Per distendimento e per corruzione egli sia. XXIB: Non già per soverchianza, ma per la qualità dell'esalazione avvegna. XXII: La fames e la feresia di tutto il corpo. XXIIB: Dallo stomaco solamente provenga. XXIIC: sia sol nel pensiero e nell'immaginazione. XXIII: La sete per disseccamento s’accenda. XXIIB: no. XIII: Nello stomaco due diverse operazioni si facciano. XXIIIB: no. XXIV: dalla pellicella dentro dal cerebro traggano il lor principio i nervi. XXIVB: Lo traggan da quella di fuora.e parganti medicine operino XXV: per lo corpo spargendosi. XXVB: Colloro scorrimento solamente, senza spargerſi vuotino. XXVI: usarsieno purganti medica nienti. XXVIB: no. XXVIC: Da ſegnar sia. XXVIC: no. XXVD: sia da dare a febbricoli il vino. XXVE: no. XXVI: Ad operar debbano il bagno. XXVIB: no. XXVII: Nell' accrescimento de’nrali sia da far il cristeo agl'infermi. XXVIIB: no. XXVII: In su’l principio delle malattie fan da usar le unzioni. XXVIIB: no. XXVIII: Nella testa possano ad operarsi i cataplasmi. XXVIIIB: no; ma solamente vi li debbano porre cose odorifere. XXIX: Esser giovevoli quelle cose che muovono a vomito. XXIXB: no. XXX: Dal cuor si dirami al corpo il sangue. XXXB: no. XXXI: Gli spiriti dal cuor si mandiitos ne dall'arterie sien tratti. XXXIB: no. XXXII: Da per se il cuor si muova. XXXIII: no. XXXIVA: L’arterie per lor natura sieno stanza del sangue. XXXVB: no. XXXVI: tutti i vali che soprastano, e gonfiano, sono semplici. XXXVIB: i ricettacoli sieno in voglie in tessure. XXXVII: Per mezzo de’ nervi facciali il sentimiento, el moto. XXXVIIB: no. XXXVIII: Il cuor e principio delle vene. XXXVIIIB: no. XXXVIIIC: E il fegato. XXXVIIID: no. E: il ventricolo. F: no. XXXIX Tutti i ricetacoli si diramino dalle pellicelle che vestono il cerebro. XXXIXB: no. 90: Il pulmore e principio dell'arterie. 91: no. 92: L’arteria, la quale sta presso alla spina, sia di tutt'altre arterie capo. 93: no. 94: dal cuor nasceno tutte l’arterie. 95: no. 96: dalla membrana del cerebro traggano i nervi origine, non già dal cuore. 97: no. 98: non nel cuore, ma nella testa la potenza ittellettuale dimori. 99: nel cuore. 100: nel ventricino del cerebro ella sia. Ma di cotante rivolture e mutamenti d'opinioni e di sentimenti certamente Dicanilio Egeo non è da maravigliare, se tanto forse ancor fa Galieno medesimo, ove in concio gli fosse venuto. E di ciò Galieno stesso ne’ suoi libri si va millantando sommamente di poter improvviso ci alcuna serta de’ medici de' suoi tempi a buona ragion difendere. Perchè se dir non vogliamo, esser egli stato Galieno un riottoso giuntatore, o berlingatore sofista, che co’ suoi fisicoſi aggiramenti per diritto, e a torto il tutto a difender togliendo, uccellar n'avesse voluto, convien di necessità affermare, ciascuna setta de’ suoi tempi anche secondo il sentimento di lui essere stata igualmente ragionevole; e conseguentemente a niuna certezza esser la filosofia appoggiata. Eccme chè Galieno ciò dimenticando vanti sovente di poter far pruova de’ suoi detti, avendo sé pre in lor concio nuove dimostrazioni. Non però di meno X 2 (il ci ta, 7 il dirò pur con buonapace di lui) le sue millanterie row vente fogliono in vanissimo vento riuscire. Anzi Galieno medesimo dimentendosi talvolta, e in più luoghi contastan dosi, ne fà della sua bessaggine, e della sua poca fermezza avvedere. Quid enim, dice di lui stizzosamente gridando il Giuberti, quid enim in Galeni scriptis frequentiusoc currit, quam ipsum plerumque videre, quod alibi multis rationibus fuerai demolitus, id constantssime afferere? ERi nieri de' Solenandriz non men del Giuberti della dottrina di Galieno intendentissimo, così parimente avvisollo. Galenus, quiuberrimo ingenio fuit, ca oratione liberali ferè prodigus, innumeros propem conscripsit libros: in quibus rerum et dogmatum multitudine plurima sunt discrepantia, nec fo bi ipsis consentientia; quasi quis attentem cum judicio legit, fi quis diligenter in unum colligit, ingens chaos agnoscit. Ma lo dirò di vantaggio (il che non mi sarebbe per avventura peralcun creduto, se con l'autorità del medeſimo Galieno io non gliene facelli certa, e ben falda pruova) che se ancor la filosofia fosse dattanto, che a saper dicer to molte, e molte di quelle cose aggiugnesse, le quali per addietro dicemmo esser di quelle, che in quistion cadono tutto'l giorno, e più altre assai: ne meno alla sicura nell’operar sarebbe; abbisognado a tale effetto, secondo Galieno, che molto bene in prima la propria natura, e complexione di colui si conoscesse, il quale sarebbe da filosofare. il che ſecondo, che egli medesimo apertamente confessa, non si può per partito alcuno bastevolmente giammairav viſare, Ma se sì poco da noi in filosofia per la sua dubbiezza è da avere a capitale la ragione, non però dimeno e'non creda alcuno, che sicura ne fia la sperienza. Anzi per maggiormente incerta, e dubbiosa più avanti per noi sarà mo Itrata. Perchè seguiranne poi sicuramente, che non purla sagione dalla sperienza accompagnata, valevol sia a render certa, elicura la medicina; concioffieco fachè verisimile a verisimile accozzando; e no certo a non certo, e per lunghi argomentise pruove che vi si aggiugono, non potrà mai, che I certa, e incontratabil fia, ſicuramente riſorgerne. Magià ſi è per queſte, e per altre coſe addietro diviſa te veduto a baſtanza, e con quanta diligenza per noi li è potuto la varietà delle ſette della medicina, e le diverſe; e ſoventi fiate contrarie inaniere del medicare, e la varieră dell'opinioni, che fra’mnedicanti di tempo in tempo ſono venute in sù, non da altro, che dalla grandiſſima incertez za dell'arte pervenire; egli forza fit, ch'al preſente fati gi per noi ſi duri in eſatninar le letto della medicina come già proponemmo, ed intorno a quelle i noſtri fenti menti ſpiegare; quantunque a chi attentamente voleſse alle parole, che fino adora di tutta la medicina breveme te abbiam fitto, riguardare, non farebbe forſe meſtieri più diſtintamente diviſargliene, potendoſi ognuno a ſuffi cienza accorgere, ſe giammai un'arte così dubbiola, in coſtante, ed incerta poſſa avere in ſe dottrina, o principi tali, che su vi poſſa huom porrealcuno ſtabile fondamen to, e ſicuro. Ma per dar cominciainento dalla volgare Empirica, chiamata imperfetta, è ella certamente la più copioſa, c abbondevol di ſeguaci, che tutt'altre ſchieredi medicina unite inſieme, e rannodate fi vantino giamnsai d'arrollare; infanto, che dir potrei, come ad altro pro polito il noſtro lirico, Non ba tanti animili il far fra l'onde, Ne lafsio fupra'lcerchio de la lung Vide mai tante ſtelle alcuna notte, Ne tanti augeili albergan per ti boſchi, Ne tant’erbe ebbe maicampo,nepiaggia. Onde ebbe ragionevol cagion di dubitare colui, ſe più coſtoro ſi foſſero, o l'infinita ſchiera degli ſciocchi; ne ba fa tutti interamente a comprendere quel volgar diſtico, Fingitfemedicumquiſquis idiota profanus, Iudæus.... hiſtrio, rafor, anns. E ben diſſe il Carlectone: Medicos ſe fingunt quoque Rizo tomi, Seplaſarii, fordidi Balneatores, triobolares Phleboto matores,fpurcidici Lenones, indo&tiparochiaram Sacrificuli, favella egli de’miniſtri della falla ſciſmatica Chieſa In 1 3 ghileſe, de'quali fa parole altresì, e forte ſi duole il Pri meroſio ) Chymiſte carboniperdes, audaculi Edentato res, impudentiſſimi V romantes, veteratores Fatidici, lj bidinoja obſtetrices 231Sádes, a pre cæteris omnibus perfi da illa, ingratifimaque impoſtorum gens, Pharmacopo le; qui ſuntin Rep. agrorum pernicies,reimedicècalamitas, & Libitin & præſides. Che più, fe toccar quaſi co’mani l'innuincrabil torina di sì farti medici al Duca Nicolò da Ferrara il motteggevol Gonnella, allor, che nel novero di coloro, oltre allamaggiorparte della Città, il medeſimo Duca arrollando ripole; ed egli era così celebre, e ftima to tanto in quella Città la volgare Empirica, che molti, e molti de'Razionali inedici oltreinodo godeano di militar ſotto le ſue inſegne. Maper Ferrara medicando quanti Veggo andar io, che barbagianni funo Ridicoli, ineſperti, ed ignoranti: Che non ftudiar d10 anni, fur a ſuono Digran campana alzati al dottorato Per amicizia o per promeſſo dono: Che ne ARISTOTELE mailejer,ne Plato, Ne Avicenna, o Galien, ma due ricette, E le regole appena del Donato. Ma ciò permio avviſo, non altronde certamentewviene, che da una tal naturale inchinazione, che ſempremai inver la medicina par che tuttiegualmente abbiamo, e del co prender quanto quella ne abbia ad ogn’or luogo tra per noi medeſimi, e per gli amici, e per tutt'altre perſone del mondo. E perciocchè ad interamente apprenderla, e ado perarla, qual veramente fi conviene, di grandiflima fiti ca, e di ſudore non ordinarione fa meſtiere, ciaſcuno, co me il meglio puote malmenandola, ed abborrandola, in pochi giorni l'appara, e ſenza troppo diſagio la mette iz opera. E in vero cotalforte di medicina è molto agevole a imprendere, e ſovente dinon poco pregio, eguadagno Suol eller cagione; perchè parecchj diigraziati,cuile robe o per nanfragj, o per fallimenti mancarono, o a giuochi, 4 o dietro a feminine diinondo, o nelle follie dell'Alchimia vanainente fcialacquaronle, ſtenchi alla fine,eigannati ri courar ſoyére al ſicuro porto d'una tal medicina ſi veggo no. Ed ora mi ſovviene di quel gran miniſtro di ſtato, il quale avédo perduti có la grazia del ſuo Principe ache tut ti gli avanzi delle ſue miſere fortune, diedeli ultimamente lo Igraziato a compor ballotte da medicina, e ſpacciarles a prezzo,qual vilisſimo pancacciere, ſoſtentando così l'in felice ſua vecchiaja. Ma non fa meſtier, che intorno a coſtoro lo troppa brin ga mi prenda in manifeſtar le lor beſsaggini, e i loro erro ri; che purtroppo chiaramente per ciaicun ti conoſce quanto eglino ſempremai ciecamente medichino, ed ari fchio, ed a ventura; non ſappiendo talora ne men groſsa mente, econfuſamente i ſegnali delle inalacrie, non che la natura di quelle; perchè convien poi loro nel diviſare, e adoperarc i medicamenti andar ſempre atatone, con af pettarne, timoroli, gli avvenimenti. Maggior fatica fen za fallo rimane in dar giudicio della perfetta Einpirica; la qual per le ſue regolate maniere di adoperare, nelle qualianifeftamente ſi ſcorge aver qualche ſcintilluzza di ragione,puofſi in certo inodło covenevolmente Razionale Empirica chiamare; conciolliecoſachè la perfetta Empi rica inedicina ſopra uma falrima baſe aver ſembri le ſue fondamenta, che è la fperienza, non folamente per la baſ. fa gente, ma per gl’ifteli medici raziunali cotanto ſtimata, e a capital tenuta: che apertamente talora, e in ifcritto, e in voce una delle due colonne della medicina chiamarla fogliono; eſſendo l'altra, fecondo lor ſentimenti la ragio ne. Anzi huomini chiarillimi diqueſta medeſima ſembra glia de'Razionali cotáto agli Empirici nemica (tra’quali fur ERACLIDE DA TARANTO medico e filosofo di sì gran sapere, e così nell'arte eſercitato, che agevolmente e' li puotè ad ogni più eccellére medico greco paragonare) abbadonādo la lor fetta Razionale e laſciate affatto le ragioni alla fola sperienza degliEmpirici ricoverati alla fine ſi rifuggirono;ed altri comechè perſeverino nella ſetta de’ razionali, pur ma niſeſtanente confeilano eſſer ſoventi volte da antiporre la sperienza alla ragione; e dicono, che ove d'una parte la ragione, e d'altra la ſperienza il contrario ne perſuadono, che allora il medico laſciar debba affatto la ragione, e la ſperienza ſolamente ſeguire. Ed infra filosofi di grido ARISTOTELE apertamente confeffa, all'arti tutte aſſai più di con cio, e d’utile la sperienza recare, che la ragione, e che'l medico maggiorinente in pregio ſormonti nel far pruova continuo degl’ammalati, che con beccarſi tutto giorno il cervello ne’libri. E quel scrittore, che col ſuo acu tilimo intendimento ſi ſeppe così addentro innoltrare ne gli affari del mondo, avvisa, la medicina non eller altro, che sperienza fatta dagl’antichi medici, fopra la quale fosi dano i medici preſenti i loro giudicj; ma prima dilui avea detto Quintiliano, medicina ex observatione salubrium, atq; his contrariorum reperta est, & ut quibufdam placet,tota co hat experimentis; nondimeno l'Empirica medicina, non che abbia giammai nulla di certo, anzi ſoventi volte in graviffimi errori traſcorrer ſuole, laſciandoſi oltre al dove. re alla ſola ſperienza ciecanente guidare; la qual come Ippocrate grandiffimo ſperimentatore avviſa, ſovente è fallace,e vana. E in vero ſe la ſperienza è ricordo di quel le coſe,le quali più d'una volta ſtate ſono oſſervate, chi oſerà mai certamente affermare, che ciò che più volte av venne, debba poi altre, cd altre volte ſomigliantemente avvenire? Certamente niuno, ſe non colui ſolamente, che inveſtigatane la cagione, onde quelle volte già que gli effetti avvennero,delle ſeguenti riuſcite ragionevoli ar gométi potrà cavarc; delle quali cagioni, ſe le medeſime ſaranno, certamente nc ſeguiranno i medeſimi effetti, ma ſe peravventura non ſaran deffe,o quanto diverſi,e varjef. ferti uſcir ne potranno; ſenzachè la medeſima cagione per la diverſità delle molte circoſtanze, che l'accompagnano, non ſempre ſuole i inedeſimi effetti produrre, ina diver ſi, ſecondo la diverſità delle perſone, de'luoghi, c d'altre coſe, che vi concorrono, Alche ficome in tutte ſcienze è ſommainente da riguardare, così non è da traſcurar punto in medicina: nella quale avviſaſi a giornate, noul ſempre i medeſimi mali dallemedeſime cagioni avvenire: non ſempre congiurar le medeſime circoſtanze in mante ner le medeſimemalattie: e finalmente non ſempre que, mali, che i medefimi eſſer ſembrano, effer veramente ta li, quali ſi pajano; concioſliecoſachè i ſegni tutti e gli in dizj, pe'qualicomprender ſi poſſono,ingannevoliſovente, e fallaci fieno, facendo veduta d'eſſer manifeſtamented un male, il qual poi tutt'altro ſarà di quel, che noi alla prima faccia argomentiamo. Ma ne meno giudicar puoſ, fi con piena certezza, ſe ſia ſtata opera del medicamento il migliorare,e'l guarirc dello infermo; imperciocchè tal volta dalla ſola natura del malato, o del male ſuole ava venire; ed altri pur follemente immaginerà, eſſere dal ſuo medicamento ſolamente ſeguito. E allora più mala gevol ciò, e intralciato ſi rende, quando all'ammalato più d'un rimedio ſi porge; perciocchè allora non può age. volmente imbroccarſi, qual di que’tanti medicamenti ab bia per avventura all'inferno approdato. Ma tacciaſi al preſente di ciò, che di leggier forſe po trebbeſi ſchivare, comealtresì è da tacer della credenza, la qual ſenza manifeſto riſchio d'errore non ſi può piena mente alle ſtorie degli ſcrittori preſtare: coſa la qual già tanto contra gli Empirici rimproverarſuole Galieno. Ne meno faticheremo in dir cola alcuna intorno al paſſag gio, che da parte a parte far fogliono gli Empirici, e dal la ben compoſta analogia di male in male; che ben ciaſ cuno a prim'occhio potrà agevolmente comprendere,quã. to ftrabocchevole, e inviluppata ſia la lor dottrina, e d'e videntiſſimi riſchj tutta ripiena. Manon fia forſe fuor di propoſito il rapportare al preſente ciò che della ſperienza un graviſſimo autore, e più, che altri per avventura in quella eſercitato ne manifeſta dicendo,eſſer la ſperienza in man del medico, non altrimenti, che il cuor di bella donna in mano di fido amante; il quale, quádo più immagi na di tenerlo ſtretto allora quello in altrui inani ſe n'è vo lato. Verità anchemolto ben conoſciuta all'avvedutiſſi. Y moje 170 Ragionamento Terzo mo, e faviſſimo ſperimentator de’noftri tempi Franceſco Redi; il quale ſcrive trovargiornalmente, che le ſperien ze più malagevoli, e più fallaci lien quelle, le quali intor no alle coſe medicinali fi fanno. Ma volete voi, ch'lo brievemente vidia a diyedere quanto vana, e fallace ſia nella medicina la ſperienza? Ella non ha mai potuto ne pur una delle famoſe quiſtioni appianare, che mai ſempre le penne de'medici tengono affaticate. Ma riguardando i maeſtri, e fondacori della Metodica medicina all'incertezza dell'Empirica: e d'altra parte av viſando quanto la Razionale in ſu le fanfaluche degli ar gomenti, e delle ſofiſticherie vanamente s'aggiri: vollero ſolamente a certe poche coſe veriffime, e manifeſte del tutto appiccarfi, e quivi l'arte tutta della lor medicina piantare. Eglino a due foli generi i mali tutti del mondo riſtringono: uno de'quali diſcorrente, e l'altro ſtretto chiamano. Naſce il diſcorrente allora, quando i pori del corpo fon ſoverchiamente allargati, e fatti maggiori aſſai di quelli, che in prima erano; o quando altri nuovamen te accreſciuti glie ne ſono; e lo ſtretto allo incontro è quż do le parti oleremodo ſtrette infra loro, e congiunte lì ſo no, perchètalora, o più abbondevolmente, o più di ra do li vuota il corpo. Quinci eglino due forme di manife fti indizj di ciò, che far li dee argomentar fogliono: una di ſtrignere, ed una di allargare: e queſte chiaman comu nità curative, e quelle paſſive; aggiugnendovi di vantag gio le comunità temporali, cioè a dire il principio, l'avā zamento, il vigore, e lo ſcemo della malattia. E percioc chè il male talvolta d'amendue le prime comunità con polto effer ſoglia, cioè diſcorrente inſieme, e ſtretto: vo gliono allora i metodici, doverſi la cura alla maggiore, e più ragguardevol parte ſolamente indirizzare. E tanto baſtial preſente aver de’loro principj accennato; chi più addentro ne vuol ſpiare,leggane più diſtintamente in Ga lieno, e Proſpero Alpini, il qualcon lunga fatica accolſe inſieme, e ragunò tutti gli avanzi dell'antica Metodica medicina, e di difender quella con cutta forza oſtinata medite i senza troppa mente ſi ſtudia; ma non puote però per fatica, che v'ado: peri far sì,che non rieſca malagevoltroppo,ed intralcia to a' curioſi l'apprenderne intera la dottrina; concioſie coſachè alcune coſe, poco forſe bene, e fedelmente egli rapporti; ed in altre faccia meſtiere andar pur tentone, ed alla cieca. Ma lo quanto è a me, voglio al preſente più di Galie no medeſimo eſſer liberale a'Signori Metodici, e conce der loro di vantaggio molte, emolte di quelle coſe, che fatica durare, agevolmente negar loro po trei. Sien pure, com'eglino s'avviſano, le comunità cut te manifeſte, e piane, e a quelle nulla mai oppor ſi poſſa: or come, e in qual modo baſterà ciò ſapere per prender aº mali conſiglio, ſenza più oltre ricercare argomenti a ciò opportuniz ma eglino nel medicare ſi laſcian pure allora ciecamente trarre alla ſperienza; adunque eglino anco ra in ſembraglia de’Razionali, e degli Empirici andando alla ventura, e facendo argomento dall' incertezza degli avvenimenti, manifeſtamente talora inceſpando traripa no. Ma ciò traſandando,ſia pur da curar malattia di ſtret tezza, come di poftema, o d'altro ſomigliante malore, che di allargamento abbia biſogno: manifeſta coſa è,che la materia ingozzata, e rattenuta in qualche luogo della perſona;cotal ſtrettezza cagioni; ed acciocchè poſſa li beramente far punta, ed uſcir fuora, conviene in primas, che la durezza liſciolga, ed ammolliſca: ed altro s'impré da con argomenti a ciò fare valevoli, & opportuni. Or come potrà mai ciò ſeguirc, ſe non ſi ravvili in prima, di qual natura ſia la materia indurata, acciocchè poi libera mente il ſuo vero, ed acconcio rimedio trovare, ed adato tar viſi poſſa: O forſe ciò, che ſcioglie una ſoſtanza,co sì ſomigliantemente tutt'altre ſcioglier puote? anzi talora in contrario da quello indurar le veggiamo, Limus, ut hic durefcit, bæc ut cera liquefcit V no, eodemque igne: Ed ecco brievemente abbattuta a terra l'evidenza de Metodici; ecco, che pur convien loro entro i confini de? 1 1 Y 2 Razionali medici alla fine ricoverare. Ne più intorno alla lor dottrina impiegherovvial preſente parola. Ma delle ſchiere Razionali degli antichi Greci così ſcarſe rimaſe ſono appreflo noile memorie, che non v'ha luogo alcuno di diviſarne, non che d'abburattarle, o per avventura riprovarle; anzi ne men ſaper certamente por ſiamo, chi mai ſtato fi foſle il primiero tra'Greci, cui foſ ſe venuto fatto di dar principio alla Razional medicina, e ciò chealtrove andato ſe n'è per noi ricercando, non li è potuto ancora così rinvenire, che foſſe valevole a to gliere ogni dubbietà. Ma non è egli però da porre in for ſe, ove ſottilmente la coſa ſia riguardata, che la Razional medicina da tempi aſſai più lõtani di quel, che per avven tura comunemente s'eſtima, tragga la ſua origine; e forſe forſe ella è sì antica, che non pur ne convien dire, ch'af fai prima della volgare Empirica ella naſceffe, ma chel Empirica volgare ſia della Razionale, anzi, che no giove nil parto, e creatura;la qual coſa in sì fatta guiſa leggier mente noitoccheremo. Quelle coſe onde diſcacciar ſi ſogliono talora da' corpi le malattie, e che rimedj comunemente ſi chiamano, con vien dineceſſità, che tutte da ſe ſteſſo l'huomo le im prenda (non avendo altri ch'inſegnar gliele poſſa ) natu ralmente, da alquante poche in fuora ſi alla medicina non fanno, le quali gli vengono da' bruti animali dimoſtre; ma può tali medicamenti l'huomo ap prendere, o a caſo in effi abbattendoſi; o col diſcorſo in veſtigandogli. E concioffiecoſachèrariſien quei rimedi, che a caſo ritrovar ſi poſſano; nc ſembri veriſimil punto, che le tante erbe, e radici, onde negli antichiſſimi tempi, non pur le ferite, ma gl'interni malori altresì medicavan ſi, veniſſero a ſorte lor conoſciute; rimane adunque, che per la più parte dalla ragione i medicamêti ftati fieno ſco verti. Ma come que'primi rozzi huomini per queſta via aveſſero potuto rinvenir le sì varie virtù de'medicamen ti, non è coſa molto malagevole per avventura ad inveſti gare,ſopratutto cui voglia pormente a'bruti, e andar mi > che nulla qua nutamente ſpiando come tutto di s'adoperino in ritrovar le medicine perloro malattie. I brutistutto che d'anima ragionevole privi, pur nondimeno oltre a' ſenſi, ſi trova no di tutto ciò, che a lor fa meſtiere a comprendere le; coſe neceſſarie al proprio mantenimento, baſtantemente provveduti,anziabbondevolmente dalla larga, e prodi ga mano della natura arricchiti. Vengono talora agli animali le medicine dal caſo di moſtre, comedel Dittamo, erba crinita, e di purpureo fiore, avvenir ſuole, eſca oltremnodo gradita, e foave al palato delle capre; onde ſoventi fiate ſavoroſamente la paſcono; e ravviſando elleno, che ſe mai ferite vengano da' cacciatori dopo haverla poc'anzi paſciuta,dalla fe. rita, allora Volontario per fe loftralſe'n eſce, ſi riſtagna di preſente il ſangue, e ractamente ſe ne fugge il dolore: ad ogni ora poi,che ferite ſi ſentono, a paſcerlo frettoloſe ſe ne corrono; e per queſta da noi menzionata ſtrada, e non già per quella del ſognato, e favoloſo iſtin > to,. maſtra natura alle montane Capre ne inſegna la virtù celata Qualor vengon percole, e lor rimane Nel fianco affilala faetta alata; e a queſto medeſimo modo fors'anche addottrinati De la Scimmia il Leon languente, ed egro Avidamente cerca il feropaſto; E beve il Pardo de la Capra il ſangue, Epafcei ramofcei d'oliva il Cervo; perocchè eſſendone cibati a caſo, allora, che infermi fi ritrovavano, giovevoli aſsai ſperimentarongli: E ſomi gliantemente altresì La teſtuggine allor, che'l fero tofco De la ſerpe l'ancide, e dentro ſerpė Il paſciuto velen falute,, e vita Dall'Origano cerca, e non indarno. Opera ſomigliantemente del caſo, e' certamente ſema bra,ſe per qualche male infaſtiditi,dalcibo aftenendoſi gli animali avviſan riuſcir cotale aſtinenza loro giovevole, c perciò per innanzi per ſimili cagioni ſi rimangono di ci barſi. Ma con più ſottil modo, e più fagacemente ven gono gli opportuni medicamenti di vantaggio lor cono ſciuti; comene'lupi,ne'gatti, e ne' cani, per tacer d'al tri, manifeſtamenie ſcorger ne lece, allora, che ſenten doſi eſſi aggravare, e moleſtar lo ſtomaco pe'l guaſto, e corrotto cibo, ed avviſando, che alcune erbe, le quali talora forſe loro punſero il muſo, poſſano, ſtuzzicando le parti interne,provocar di leggieri il vomito; di quelle op portunamente ſi vagliono. Chiunque andaſle poi con qualche minuta diligenza, e ſollecitudinc ricercando, ravviſerebbe per avventura,che ove il gran fattore della natura ha della ragionevole ani ma privi i bruti animali, abbia nondimeno lor dato forſe alcun ſentimento de’noſtri più dilicato, e perſpicace, valevole più agevolmente a comprendere ogni menoma impreſſione, che lor da ſenſibilioggetti ſi venga a fare, on de poſſano la lor vita acconciamente regolare; ma ſe tal ſentimento poi, cone ſovente avvenir egli ſuole, diritta mente non gliſcorge, elli ne argomento alcuno hanno di riparare a'lor mali, ne fanno, ne poſſono dalle mortali di ſavventure in modoniuno ſchermirſi;perchè veggiam tut to dì le capre, le pecore, le vacche, i cavalli, ed altri ani mali infermar gravemente; e ſpeſſe volte per aver palaiu to erbe nocevoli, e velenoſe; il che quando mai altra ra gion no'l dimoſtraſse, nc dà chiaramente a divedere, non ritrovarſi veramente negli animali quel maraviglioſo, ed inverifimilc iſtinto, che cosi inagnificamente lor s’attribui ſce percoloro, che non ſi avanzan più oltre nel filoſofare, che nella prima ſola corteccia delle coſe. Or ſe tanto a’ bruti animaliè conceduto, che poſſan talora con qualche dilicato ſentimento, e con rozzo, ed imperfetto modo in veſtigare, o pure rinvenir qualche ombra di Razional medicina; come non aurà potuto l'huomo, ſoura loro d'anima fpirituale, e ragionevole, e immortal dotato come 1 dico non avrà potuto ſino a’ primi tempi, e col naſcente mondo, col diſcorſo i medicamenti ricercare, e ritrovare? ſenzachè fa meſtier certamente all'huomo, ſe ſcovrir pure egli vuole la naſcoſa virtù medicinale o di pianta, o d'ani male, o di vegetabile alcuno, prender in duce, e in iſcor ta la ragione; imperocchè l'huomo non gode di quella feli cità in guatando le coſe, che grande a maraviglia aver-, fi ſcorge ne'bruti; ne'quali, coine di ſopra dicevamo, o liau per le ſvariate diſpoſizioni degli organi, o ſia pure, che'l di Icorſo rechi qualche impedimento alſentire, Dove manca ragione ilfenfu abbonda. E in confermazione di quanto lo dico, s'egli ſi riandaſſero, comechè leggiermente l'antiche memoric, ſi ravviſerebbe apertamente, che a'primi maeſtri della medicina convenne valerſi della ragione per inveſtigare, e rinvenire i medica menti. E percominciar da’ Cineſi: Popoli ſenza fallo di tutt'altri più antichi:leggeſi ne' loro annali, che'l grans, monarcaCinnungo,il quale ſuccedette a Fojo che no guari dopo il diluvio refle l'imperio della Cina, c che quivi prin cipe de' medici, e inventore della medicina vien comune mentetenuto, ritrovaſſe perpruova fatta in ſe medeſimo la virtù di molte, emolte radici, e piante, abili non ineno produrre, che a diſcacciare lemalattie; ech'egli ne compo neſſe varj, e varj libri, de'quali infino ad ora li ſon valuti, e fi vagliono anche oggidi i Cineſi medici con felicità non or dinaria nel medicare. Or non sebra mica egli credibile che a caſola prima fiata e' poteſſe Cinnungo pormano a quel la tal pianta, o radice per farne la pruova? Ma è veriſimil molto, che foſpinto e'veniſſe a ciò fare da qualche ragione; altrimenti non ne ſarebbe egli giammai potuto venir a ca po; tanto più, che Cinnúgo, ſicomeivi è furna, nell'anguſto { pazio d'un anno ſolo inveſtigò,e rinvenne ben ſeſſanta ve lenoſi ſemplici, caltrettanti falutevoli,e abili a rintuzzare, e a vincere illoro veleno;e contale, e tanto avvedimento econ ſucceſſi così fortunati egli vi ſi adoperava, che comu neinente buccinavaſi eſſere i luoi occhj vie più aſſai di que' del lupo ccrviero acuti, c penetranti. E più chiaro molto rio ciò che lo ora dico ſi ſcorgerebbe per avventura, ſe colui che ſi diè cura, e impiegò il ſuo ingegno a traslatare in la. tino idioma le croniche de'Cineſi,il medeſimo fatto aveſſe de'volumi della lormedicina. Ma più certo ſi rende, che que'primi Cineſi medici, da ragione ſcorti, aveſſer rivolto l'animo ad inveſtigare i medicamenti,daciò ch'eglino a queſt'opera fare, ancor della Chimica valuti commodamé te fi foffero. Per la qual ragione creder pariméte ſi dee, che que', che nell'Egitto la medicina trovarono, i quali altresì della chimica ſcorti furono, e inteſi:parimente ſi foſſero del diſcorſo valuri: non riſtandoſi in ciò, che dal ſolo caſo lor ſi parava davanti.E per dir qualche coſa anche della Scitia, la quale non ſoggetta allo imperio d'altra nazione, conten de d'antichità (comeper Trogo Pompeo narraſi) coll’Egit to medeſimo; tutto che da Erodoto un tal vanto alla Fri gia s'attribuiſca;della Scitia lo dico, chi mai recar potrebbe in dubbio, che i primi medici per via della ragione rinve niſſero i medicamenti: ſe in Prometeo, dal quale, ebbe il ſuo primo cominciamento la medicina degli Sciti, accom pagnata mai ſempre ſi vide la medicina, colla filoſofia; e fe non aveſſero alla ragion poſto mente, come mai que’primi medici dell'Arabia ravviſar potevano la puzza del bitume, e delle barbe de'becchi dar cõpéſo alle infermità cagiona te a que'popoli dalla ſoverchiaza degli odori ſoavi. Ne meno in verità nella Fenicia i nepoti diScdoc, i quali, co me narraſi per Sáconiato,o lia Filalete, appo Euſebio ritro varono primieraméte, qual ſorte d'erbe, oqual maniera di cã to valevol.fi foſſe adomar queſta,o quella malattia, ſenza l'ajuto d'una profodiſfına natural filoſofia ciò inveſtigar mai poterono.I Druidi poi dellaGallia, nõ meno in filoſofia, che in medicina ſcarti,che infra l'altre medicine adoperavano, quel,che dica Plinio, il fūmo della ſelaginc al mal degli oc chj.no avrebbon fenza fallo mai a caſo ardendo la ſelagine Sperimétar potuto agli occhi giovevole ilſuo fumo:ma pri ma di ciò fare cóvié dire,ch'eglino aveſſero in prima alla na tura dalla ſelagine,e del ſuo voláte ſale poſto mente. E p fa vellar della Grecia, da qualche ragione moſli furono Chirone, Eſculapio, Ercole, Melampo, ed Achille a valerli primieramente della Centaurea, dell'Aſclepio, dell'Eraclio, dell’Achillea, piante che non poteva certamente il caſo loro porle davanti, per effere elle amariſſime, e non mai per huom veruno, in cibo uſate. E ſe mai eglino vo lendole ferite turare,di qualch'erba ſi yalſero, la qual ven. ne sì factamente la ſua virtù a ſcoprire: comepotea mai ciò avvenire delle radici, malimamente, che alcune di loro convien che con zappe, o marre dalla terra a viva forza li ſuellano; e parea vana affatto una tal fatica, quando coll erbe più agevolmente, ed aflaimeglio all'aperte piaghe approdar ſi potea. Fu dunque l'eſperienza dalla ragion; preceduta; ed ebbe il corto Quintiliano affermando il contrario colà ove difle:Vulnusdeligavitaliquis, ante quam hèc ars effet, & febrem quiete, eo abftinentia, non quia rationem videbat:fed quia id valetudo coëgerat,mis tigavit. E come mai fu egli poſſibile, che Melampo, il quale parve, che nella greca medicina introduceſte l'uſo de'mi nerali,rinveniſſe a caſo effer la ruggine del ferro giovevo le alla ſterilità. Ma ſe razionali furono avvegnachè roz zi, ed imperfetti quegli antichisſimimaeſtri, ed invento. ri della medicina,convenevole certamente egli ſembra.' che qualche coſa anche di loro da dir ſia. E daremoa tal diviſamento da'Cineſi principio. Coa me, e quanto oltre nelle coſe della natura filoſofando s'a vanzaſſero i Cinefi, il grande teſtè di noi mentovata lin peradorc Cinnungo, e gli altri primi medici della Cina, Io porto per me ferma opinione, che penetrar non ſi pof ſa per huom giammai; concioſsiecorachè i libri poco mé, che tutti furono al niente dalle voraci fiamme condotti, gia ſon due mila anni traſcorſi, per ordine dell'Imperado re Cino, il quale rizzò incontro a’ Tartari quelle ma. raviglioſe mura, e delle lettere implacabil nimico maisé pre moſtrosſi; avviſando faggiamente, che'l troppo ſtudio di quelle, rendea gli animi ſnervati, ed imbelli, ediſadar tia difender la patria dagli allalti nimici; e ſe alcuni pure Z de’più antichi tuttavia per avventura ſalvınerimaſero.no vi avendo ora chi intender poſſa que’miſterioſi caratteri, ne’quali ſcritti furono, è tanto, comeſe ſmarriti anch'e glino, ed abbruciati fi foſſero. Ma da qualche veſtigio, che tuttavia ne rimane, ſi ſcorge apertamente, che i Ci neſi nella geometria, nella filoſofia, e nell'altre ſcienze molto furono addottrinati, e ſi valſero della Chimica, e conobbero,un ſolo eſſere il principio delle coſe naturali; e fer ſecondi principj le cinque ſoſtanze dette da loro me tallo, legno, acqua, fuoco, e terra; ma diverſi da que' corpi, che comunemente con tal nome ſi chiamano, e non disſimili per avventura da' principj de' noftri Chi mici. Ma ſi par certamente, che Cinnungo non molto nella filoſofia, e nella medicina avanzaffeli; mal potendo per opera d'un ſol huomo sì grand'impreſa, c di tanta lievas in un tratto naſcere, e ricevere l'ultimo ſuo compimen to; masſimamente alla medicina richiedendofi molto re po, e che molti, e niolti huomini a tal lavoro s'adoperino, acciocchè a qualche ſtato di perfezione, e di eccellenza pervenga. Ma chi no ſarà periſcorgere anco a prima viſta poi qua to fien favoloſe, ed inverilimili quelle pruove,chedi Cin nungo ſi narrano, che egli faceſſe in ſe ſteſſo lo eſperimen so delle piante nocevoli, e rift orative, e che nello ſpazio sì breved'una ſola giornata, tante ne provaſse, e ne ripro vaffc; il che fa chiaramente conoſcere, quanto la medici na, ſe acquiſtar vuole eſtimazione, in tutti i tempi, cd in ructii luoghi abbia in coſtume di porre in opera le men zogne, ele millanterie. Quáto poi valeſſero gli antichi medici Cineſi nella Chi mica, chi potrà mai indovinare fi la ſolo, che eglino s' ingegnarono di trovar medicine, non ſolo acconce agua rir le malattie: ma anche valevoli negli huomioi ad eter nar la vita; e comediRaimondo, d'Arnaldo da Villanova millantano i frati della Roſea Croce, che vivi anche oggi ſien o, che vadano ſempremaiper lo mondo vagando; co sì fin 1 ! sì fingono,e danno ora ad intenderei moderni Cineli Chi mici, eſser molti, e molti di quegli antichiſapienti, che, fattafi colla gran medicina immortali, dimorino nelle cia me degli altisſiini monti, e quindi vadano, anzi volino dove lor più ſia a grado, ed anche in Cielo, Sciolti da tutte qualitati umane, Ma più, che tutt'altri ſi laſciarono nella Cina da' Chia mici ingannare i troppo ſemplici Imperadori;e narraſi,che da lor perſuaſo l'Inperadore luoo a comporla medicinas da poter divenire immortale, faceſse fabbricar un pala gio di cedro, di cipreſso,di canfora, e d'altri legni odori feri, che'l loro odore lūgia inolte miglia facea ſentirſi.Al zò nel palagio una torre dibronzo altisſima nella cui vce ta eravi una conca parimente di bronzo, formara a guiſe d'unamano, nella quale ogni mattina avcaſi a raccorres. purisſima la celeſte rugiada: ove macerar pofcia fi dovea no le perle, ed altre peregrine, e rare coſe, delle quali compor li doveva quel prezioſo, e divino medicamento, che facea l'immortalità conſeguirea qualunque adoper2= valo. Ed anche a’giorni noftri ſi veggon per tutti i reami diquel vaſtisų moimperia, andar ad ogn'ora vagabon deggiando, in grandisſimonumero i Chimici; i quali in fingendoſi dicſer nati più e più ſecoli addietro, vendon altrui la medicina, che fà gli huomini immortali, e tra per le loro trappole, e per lo deſiderio, che è in ciaſcheduno di conſeguir l'immortalità, ritrovano, e più tra’letterati che tra gli altri, chilorpreſta credenza. Ma laſciando sì fatte memorie da parte ſare, ſi ſcorge quáto ben forniti foſſero de'rimedi efficaci gli antichi Ci ucfi, dalle maraviglioſe cure, che con eſli tuttavia fanno i moderni medici. Solamente potrebbeſilevare incontro taluno,dicendo che non ſiano giunti a ſaper quanto dilet. tevol ſia ilber freddo, ne mai habbia meſſo in uſo i ſalalli; ma tali appoſizioni recar potrebbonſi eglino a ſomma lo da; imperocchè col ber caldo ſi ſono i Cineſi ſottratti al nale della pietra, alle podagre, e ad altre atrociffime malattie, che così frequenti, ed abbondevoli ſono fra z 2 noi. E quanto al non trar ſangue, oltre al novero de’gre ei, e de’noftri medicanti, che ſeguono il medeſimo iſtitu to: la ben lunga preſcrizione di quaranta, e più ſecoli, ne? quali han potuto guarir feliciffimamente, ed in iſpazio al ſai brieve le malattie, non gli rende degni, non dico di ſcuſa, ma d'altiſſima loda? eda ciò vorrei, che poneſſer mente tutti coloro, che così di leggieri ſi laſciano a' medi ci trar ſangue. I moderni Cineſi medici non altrimenti, che gli antichi già fi faceſſero, de’ſemi, delle frondi, delle corteccie d'alcune piante ſi vagliono, e d'alcune pictre al tresì, e ſerban libri, ove ſon figurate l'immagini di tali piante, e pietre, e le loro virtù narrate ne’precetti, e nelle regolemedicinali,non guarida noi eglino ne van lontani. Preſcrivono a’loro infermi sì rigoroſe diete, che alle volte laſcian paſſar fino a venti dà fenza dar loro altro cibo, che certo ſugo dipere, tre, o quattro fiate il giorno, e ber quãto acqua richieggiono; e sì molte graviilime malattie a buonoje perfetto ſtato riducono. Immagina alcuno, che tal dieta non potrebbe fofferirſi da'noſtri huomini; ma quanto egli vada errato,ilpuò far vedere l'eſſere ſtata in uſo appo gli antichiſſimi greci, e l'eſſere i Cineſi di noi più teneri, e dilicati aſſai.Ma che che ſia di queſte,van tutto dì i Cineſi compilando libride'ſegni,delle cagioni, e degli effetti de' mali,da’quali,non avendo nella Cina ſcuole di medicina, e da' proprj lor padri i Cineſi la ſogliono apparare • Di. cono tutti, che i Cineſi medici ſono séza alcun paragone aſſai più de’noftri,valenti in guarire i mali; ma nondimeno ancora ivi colla medicina s'accompagna l'inganno, e l'ar tificio; ed eſſendo eglino intendenti molto de'polli, tutta via per parere in ciò da più affai, s'interrégono fin’a mez ' ora, fingendo d'oſſervar minutamente le lor mutazioni in toccandogli, e danno a diveder dapoi, che con una tal diligenza eſſi aggiungano a ſapere d'ogni varia, e più oc culta interna diſpoſizione, e diqualunque più ſtrana mas, lattia la natura, e la vera cagione. Ma è per mio avviſo il pregio maggiore della lor medi cina l'aver certi argomenti da poter talora porre utile cos penſo alle più gravi malattie. Vlano frequentemente la prezioſa radice, detta da loro Ginſen, dalla quale ſové te ſi veggon guarir gl'infermi, eziandio morienti, e però una libra di eſa, non val meno di tre libre d'argento. Nil la io dico dell'erba Te, percioccliè ella ſi adopera tutto dì anche ora appo noi: comcchè non ſi veggian quì d'cila que’maraviglici effetti, che narraſi ſoler nella Cina mo ſtrare, o ch'ella colla navigazion così lunga perda per lo maggior parte quel, che chiamar fogliono i Chimici vola tile Alcali, e con eſſo inſieme poco men, che tutta la ſui virtù, o qualunque altra ſiane la c.igione. Eavvegnachè alcuni de’noftri ſcrittori ſi ſieno ſtudiati di tor via altrui ogni buona opinione, che di tal erba portavano,dicendo, ch'ella ſoglia talor cagionare Apoplesſia a cui ſovente l'u fi; non però dimeno noi ben ſappiamo per pruova, cſſer ciò falſo; e ſe egli è incontrato, che alcuno avendola ado perata fia caduto in Apopleſſia, certamente non vi ha avu to ella parte niuna. Egli è vero però, che talerba ſoglia apportar qualche moleſtia, ſe ſi prenda allor, che nello ſto maco non ben digeſto il cibo ſia, e di ſoverchio acetofo: il che adoperar ſuole altresì il Cafè, ela Cicolata; alla, qual coſa riparare ottimo rimedio è il digiuno. Ma io no voglio laſciar di dire con queſta opportunità, che in luogo dell'erba Te lo ſoglio ſověte imporre a'malati qualch'er ba noftrale, cos lor giovamento non ordinario:e che gli Ollandeſi portano nella Cina le frondi della Salvia involte a guiſa della Te, e per una libra di frondi di Salvia tre tan te ne riportano di Te; cotanto le ſtraniere coſe più in pre gio delle propie dagli huomini tengonſi. Ma avvegnachènella Cina i medici, quanto alfatto del medicare fien così fortunati, comediviſato abbiamo: non dimeno avuti vi ſono in pochisſimo pregio,c ſtima. E quinci avvien poi, che tutti coloro, i quali ſien d'alto in gegno, e di ſaggio avvedimento dalla natura forniti,nul. la badandoviaila, moral filoſofia ſtudioſamente ſi volga no, onde a'primi onori del regno agevolmente poi pervé gono.E ciò permio avviſo è Itata una delle principalica, 1 { gioni 1 1 ! doti, gioni, per la quale de'buoni libri dell'antica medicina, e della natural filoſofia pochi rottami ſi trovino, e che a? di noſtri ogni ſtudio di natural filoſofia tralandiſi. Ma per trapaſſare all’Egiziaca medicina; quanto chia ri,erinominati al inondo, ſe'n viſſero già lungamente per fama, quegli avveduti, e ſapientisſimifiloſofi, i quali la medicina ritrovarono primieramente, e ſtabilirono il Egitto: altrettanto certamente ſono oggi in lunga dimé cicáza ſepolti, e ſol ſervono all'umana cupidigia per pruos va della leggerezza, e della fragiltà della gloria monda na; perciocchè eziandio di coloro, iquali ebbero già vé tura d'eſſer collocati infra’Dei immortali, non è a noine meno il vero nome pervenir potuto. Caſtigo ben douuto all'invidia,cd alla tracotanza di quei Principi, e Sacer, i quali ſotto pene gravisſime a tutti l'apparare, e l'eſercitar la medicina victarono; e per maggiormente na ſconderla, e invilupparla con cnimmi,econ caratteri da lor ſolamente compreſi,ſempremai di ricoprirne i miſteri ſommamente ſi ſtudiarono. Perchè io giudico, che po co, o nulla della medicina Egiziaca apprender certamen te poteſsero que'curioſisſimi valent'huomini Greci, i qua li tratti dal deſiderio d'appararla inſieme colla inacemati ca, e colla filoſofia naturale, e altre buone arti nell'Egit to pellegrinarono; ed in quel tempo appunto per lor di (grazia vi giunſero, che caduta ivi affatto dal ſuo ſplendo re la medicina, ed empirica volgar tutta divenuta, comun nemcnte da' medici ſcimuniti, e balordi ſi malmenava; ed i ſacerdoti l'antiche note più non intendeano, o ſe pu re qualche coſa ne penetravano,ſommamente avari delle loro dottrine, tenevanſi d'inſegnarle altrui, e masſima mente a' foreſtieri; del che manifeſtisfima tcftimonianza è il leggere ciò che della ſtrologia avvisò Luciano, quan do e' diſſe, che i Greci niente di eſsa affatto dagli Egizi n'aveano mai apparato. Eλήνες δε ούτε παρ' Αιθίοπων,ούτε παρ' Aiguntów césporogins ma ei ou fèy óxx gav. Senzachè, ſe a Greci al trôde venuta foſse la medicina,certamente ella non ſareb be tanto indugiaca ad allignarvi, e di veniryi a tanto ſtato 1 1 1 di gloria, a quanto ella poi in proceſſo di tempo creſcen do aggiunſe. E comechè per oltraggio de'ſecoli niunas certezza a noi dell’Egiziaca medicina ſia pervenuta;pur potrebbeſi ragionevolmente argomentare, eſſere ſtata quella a grandiflima altezza da' Re, e da' Sacerdoti del l'Egitto condotta, da ciò, che ne ragiona Omero colà ove narra, che la moglie di Tono Re dell'Egitto diede la can to celebrata Nepente ad Elena. Ενθ' αύτ ' αλ' ενόησ’ Ελένη Διος εκγεγαλα, Αυίκ' άρ' ας οίνον βάλε φάρμακον ένθεν έπιναν Νηπενθέςτ'αχολόν τε, κακών επίληθον απάντων. ος το καταβρόξειεν επην κρητήρι μιγείη, Ούκ άν εφημέριος γε βάλοι και δάκρυ παρειών, ουδ ' ά οι κατατεθναίη μήτης τε, πα ής τε, Ουδ' ή οι πιοπάροιθεν αδελφεόν, και φίλον τον Χαλκώ δηγόων, όδ' οφθαλμοίσιν δρώτα. Τοϊα Διός θυγάτης έχε φάρμακα μηπόενα Β'θλα ταοι Πολύδαμνα πόρην Θώνος παρξί κοιτς. Onde a la bella, e vaga Elena, figlia Del ſommo Giove, allbor nuovopenſiero Venne ne l'alma, che nel vino infuſe Ch'efibevean 'un prezioſo, alme Liquur, che toſto ogni dolor diſcaccia Da l'almaoppreſſa, e l'iraſpegne, ed indi Induce dolce, e graziojo oblio Di tutti i mali; onde ſe alcun guſtoffe Di tal bevanda nella tazza miſta Non potria mai per tutto un giorno intero Sparger dagli occhi per le guance l'onde Del pianto; o d'attriftarſi;ancorchè morti Davanti aveſſe i cari madre, e padre; Nefe con gli occhi propri anco vedele, Troncar col ferro l'infelici membra, Del frate amato, o del fuo dolce figlio. Cosifatti i liquori erano, e i ſughi De l'alma figlia del gran Giove eterno; Cb'erano utili, e buoni, a lei dati Polidanna gli avea di ToneSpoſa. Il qual medicamento, qualcertamente fi foſſe in que' te pi malagevol molto è ora ad inveſtigare; ne comporta il mio ſcarſo ragionamento, che lungamente lo ne favelli, ne che fra sì varie, e cotante opinioni inutilmente lo mº aggiri, mentre altri vogliono, non altro eſſere la Nepēte, che una ſemplice, e cruda erba infuſa nel vino; altri allo incontro medicina artificioſamente preparata, chi dice d'uno, echi di più ſemplici compoſtage lavorata. Io giu dico, ne forſe da' limiti della ragione gran tratto queſto mio ſentimento s'allontana, chela Nepente opera foffe della Chimica; imperocchè sì piacevole ed efficace,e pre zioſo medicaméro, qual ne vien dagli antichi narrato, al tro cercaméte non ſembra chedi que', che tutto dà i noſtri Chimici metton fuora nelle loro botteghe. E fu nel vero la Chimica nell'Egitto antichiſſima; pcrciocchè Vulcano figliuol di Nilo guardiano dell'Egitto,Opi, e Fia da' ter razzani anche chianato,daprima il fuoco, e l'uſo di quel lo ritrovò, e diè principio egli altresì all'arti tutte, che del fuoco ſi ſervono; il cheoltre a Zezze moderno, e ſti mato da alcuni poco veritiere ſcrittore, il qual dice. Πύρ, και τέχνας δε ύκ πυρος οπό σας tutti i Tcologi,ei Filoſofi antichi di comun ſentimento af fermano; 'e Vulcano altresì, ſecondo ARISTOTELE, e Sozione appresso Diogene Laerzio, inveſtigò da prima i prin cipj della natural filoſofia;perchè potrebbeſi danoi a buo na ragione affermare, aver lui per dover più acconciamé te farc, e rinvenir ne'corpi diſciolti, eminuzzati, i primi lor componenti, adoperato da prima il fuoco, e sì fatta niente dato alla Chimica rozzamente principio. E quin ci nacque per avventura la favola dell'adulterio di Marte, e di Venere da Vulcano a gli altri Dii paleſato; con la qualc ne vollono per mio avviſo dare a divedere quegli antichi filoſofanti, qualche gran miſtero della Chimic'arte eſſere ſtato da Vulcano primieramenre trovato, e dalui poſcia a’Re,ea Sacerdotidimoſtro.Ma laſciando a'Chimi ci tutto ciò, che dietro a tal fatto potrebbeſi più profon damente eſaminare. lo dico, che non ha dubbio veruno avere gli Egizi Sacerdoti per la lor medicina tratto gran, pro dalla Chimica; imperocchè ella venne a tale, cheti to altamente ne puotè favellare il dolciſſimo Iſocrate con queſte parole: gli Egizi Sacerdoti per guarire il corpo dalle malattie ritrovarono la medicina; non già quella, che ſi valede’ınedicamenti pericoloſi, ma ſi bene quell'al tra, che potendoſi colla medeſima ſicurtà adoperare, che gli ordinarj cibi d'ogni giorno; recar ſuole poi tanti, e ta li giovamenti, che gli fa vivere ſani lunghisſimo tempo: Ιατρικήν εξεύρον επικερίαν, και διακεκινδυνευμένοις φαρμάκοις χρω - μένην: αλα τοιέτοις, α τίω μεασφάλμαν έχ ομοίαν τη τροφή τη καθ' ημέραν: τας δε ωφελείας τηλικαύτας, ωπ εκείνες ομολογεμένως ogcevozallos ng Harga61w télys civos. Magran pezza avanti Iſo crate, e nel tempo appunto, che in Egitto fioriva la ve ra medicina, avea detto Omero, dell'Egitto favellando, Ιητςος δε έκασΘ-έπιαμενΘ-. περί πάντων Αν θρώπων. cioè, ficome volgarizza il Baccelli: Ivi ciaſcuno è melico perfetto, F più,ch'gn 'altro ajui perito, e fuggio. Poichè in verità ciò che ſconciamente dell'Egiziaca me dicina vien narraco per Diodoro, quand'e'dice: gli Egi zj non aver meſſo maialtra forte di rimedio in uſo, fe non fe criſtci folamente, purgative medicine, c digiuni, e vo mitivi: τας δε νόσους περκαταλαμβανόμενα και θεραπεύει το σώμα. τα κλυσμοϊς, και ποτίμοις τε καθαρτηρίοις και νησείαις και εμέ. τους και ενίοτε μου καθ' εκάτην ημέραν, ενίοτε δε τάς ή παρgς ημέρας dia menortes.e'debbeſi ſolaincnte di quc'tempi prendere,nc' quali la medicina da'Re, c da' Sacerdoti, in mano della più minuta bordaglia del popolo eraſi vergognoſamente invilita, eſſendo già caduta dal ſuo primo ſplendore, ed in iſtato di miſerevole ignoranza ridotta; ſicome avviſaſi da quelle leggi, da noi nel primo ragionamento recate, che il mediconon aveſſeſi giammaia dipartir dagli ammae ſtramenti degli antichi, ne foſſe lecito porger a’malati al; A a cun medicamentoprima del quarto giorno, ſe non ſe a ri ſchio della propia perſona del medico. Al che forſe po nendo mente il Corringio, e non diſtinguendo i tempi, af ſolutamente ebbe a dire, la medicina degli Egizi eſſere ſtaca rozza aſſaige materiale. Ma ſe perciò dal Borric chio egli meritevolmente ne venne biafimato, egli fareb be certamente aſſai più da biaſimar Galieno, il qual ne gar non potendo, che gli Egizi prima de Greci avefler contezza de'medicamenti, pure osò dire eſſere ſtato il lo ro conoſcimento affai groſſo, e rozzo, e che con l'agio di aprire i cadaveri p imbalſamargli ritrovato aveſſero mol te coſe alla notomia dell'huomo pertinéti. Ed era tanto in: Egitto la medicina caduta,e avvallata allor;che quel pae ſe da’Perſianiſoggiogato venne, e domato in guerra, che i ſuoimedicipiù celebri, e più valorofi, quali effer do veano ſenza fallo que", che medicavano il Re,furono vin ti agevoliſſimamente da Greci, i quali ancora erano roz zi, enovizi nell'arte. Caduto poil'Egitto ſotto l'Imperio d'Aleſſandro, l'Egi ziaca medicina, ruinà anch'ella, e tracollò sì facramente, che i medeſimi Egizi da’Grecimaeſtri poi l'apparavano.. E infino ALLA CADURA DEL ROMANO IMPERIO in Aleſſandria le ſcuole di varie ſette de' medicanti Greci in grande ſtato, edorrevole durarono; e tratto tratto poi crebbero in tanta fama di dottrina, che a Galieno, come egli me delimo ne da teſtimonianza,non increbbe d'andarvi per udir Nemeſiano, famofiflimo infra’diſcepoli di Quinto,che di Galien medeſimo era ſtaro maeſtro; e ſi mantennero le ſcuole d'Aleſſandria in ranta grandezza, e ſplendore lun go ſpazio di tempo intanto, che, come narra Ammiano Marcellino,baſtava in que'tempi, chehuomo aveſſe ftu diato in medicina in Aleſſandria per eſſer in pregio poi di valentiſſimo medico tcnuto. Narrali per Damaſcio nella vita d'Iſidoro, i fatti egregi di Giacomo medico Aleſſandrino, per li quali meritò egli, che gli ſi ergeſſero ſtatue in parecchi luoghi, e ſpezial mente in Atene. Coſtui quarant'anni continui logorò facendo eſperienze, e dopo aver tutto il mondo traverſato cſercendo ſempre la medicina, ed inſegnandola al figlio, che ſeco conduceva: pervenuto poi in Coſtantinopoli,tro vò quivi medici, che poco, o nulla di medicina ſappien. do, non con la ſperienza, come doveano, ma congli al trui detti medicavano a ritroſo, anzi (conciamente mal megavano i caccivelli infermi; maGiacomoin medican do, cosi egli, come il figlio ſervivaſi delle purgagioni, e debagni,non traendo a niuno mai ſaugue. E quanto al fatto della Cirugia, oglino ſolean molto di rado porre in opera il ferro, e'l fuoco; ma le maligne piaghe con la fola dieta curavano. Eben coſtoro amendue farebbero da ri putar degni di molta loda, ſe non foſſero ſtati ſuperſtizio fi, e idolatri, come par,che dica Fozio, comechè un an rico autore appo Suida affermi, Giacomo eſſere ſtato Criſtiano; maavviſa il dottiflimo Iſacco Cauſaboni, che Fozio ciò aveſſe derto di Giaccmo, moſſo ſolamente da coloro, che'l credeano mago,per le maraviglioſe cure, ch'ei facea. Dice di più Damaſcio, che diſcepolo di Giacomo fù Aſclepiodoto, il qual di muſico, ch'egli era in prima,li fè medico, e infra breve tempo cotanto in ſapere vantag gioſli, che in molte coſc, emolte, ſi laſciò dietro il me delimo ſuo maeſtro. Fu coſtui gran matematico, c'l più eccellente infra tutti i filoſofanti de' ſuoi tempi, comeche di coranto intendimento non foſſe, che poteſse i miſteri d'Orfco, e de’lavj Caldej penetrare. Egli de' medici de ſuoi tempi avea ſolamente in pregio Giacomo ſuo Mae ftro, e degli antichi, Ippocrate, Sorano, Cilice, e Mal leoco. Perchè ſembra, ch'egli, e Giacomo ſuo maeſtro foſſero ſtati metodici; e quinci ſi ſcorge,ch'a'que'tempi vi cran de'valenr'huomini, che in niun pregio avcano Ga lieno. Rinovò Aſclepiodoro felicemente l'uſo dell'Elleboro bianco, già lungo tempo traſandato, e ne vinſe incura bili malori. Entrò egli nella famoſa mofeta di lerapoli,e ſe ne uſcì ſalvo, ponendoſi al naſo, e alla bocca la veltes Аа 2 ripie 188 Ragionamento Terzo ripiegata sì fattamente, che racchiuder vi poteſse qual che particella d'aria, onde egli agevolmente reſpirar do veſse; quindi accoppiando inſieme varj minerali,con ma. raviglioſo artificio una ſomigliante mofeta ne compoſe. Ciò, che di vantaggio di lui narra Damaſcio per non recarvi tedio al preſente tralaſcio. Tanto vo dire,che de' medici d'Aleſsandria altro non raccontandoſi, ſi vede,che poco alla fama riſponder dovea il loro valore. Ne pur nell'Egitto la greca medicina nel ſuo buon nome lungo tempo durò; perciocchè di mano in mano piggiorando magagnoli, finche tolto al ROMANO IMPERIO per opera de' capitani d'Omare l’Egitto, e venuto in mano de Saracenia poco a poco vi fi ſpenſe la greca medicina, ed in ſuo luogo un'imperfetta volgare Empirica vi rimaſe;alla quale ſucce dette poi, e fin’ora vi regna un'ombra di Razionale, o per ine’dire, di Metodica mcdicina aſsai rozza, e ſciocca, iil una, o in duc cotali coſe appiccata, e ſtabilita, le quali ſembrano a que’maeſtri ſcimmioni, cvidenti principi, fondamenta di quella, c non altrimenti che ſe foſscro già al tempo d'Erodoto. Egli ha ora in Egitto un'infinita fchiera di medicanti barattieri, i quali per pochi bajocchi ottenuta licenza di medicare dall'Alimbali, over princi pe de'medici, deſtinato, ed eletto a quell'uficio per denaro dal Barsa del Cairo, o che ſappia egli, o non ſappia di me dicina,medicano, una o più fortidi malattie, comc più lo ro in concio viene; c giudicano eglino, due ſole eſser lo cagioni di cutti mali yil caldo, e'l freddo; ed eſsendo l’E gitto grandemente al callo ſottopoſto, immaginano qui vi follemnente, che tutte le malattie, o procedan dal cal do, o fian da ftrabocchevole caldo almeno accompa gnate; perchè giudicando, che l’un contrario ſi ſpegna per Taltro, ſeryonli mai ſempre di rimedj acconci, ſecondo la loro opinione, e valevoli a rinfreſcare. Perchè traggon · largamente ſangue in tutte le empleſſioni, in tutte l'età, in tutte le ſtagioni dell'anno, ed a tutti infermi, e dan be re acqua agghiacciata; il che «i ! anto fuor d'ogni ragione la fascia, non ha cercamente huomo di sì mezzano intendimento, che di leggieri avviſar no'l poſsa; ſenzachè i cauterj, e le ſcarificazioni, che crudelisſimamente, e fen za riguardo alcuno anche nelle più menome malattie ſo gliono adoperare, tolgono affitto loro ogni buon nome; intanto, che affatto contrarj a quegli antichi mediciſein brano, i quali avean piacevoli argomenti folamente il uſo. Ma ritornando alla medicina degli antichisſimi Egizzi, certamente lo non ſo, come iſcuſar ſi poſsa quel graviſſi mo fallo, nel quale que'Re, e Sacerdoti incorſero in te nendo cotanto a riguardo l'eſercizio della medicina; il că po della quale è così vaſto, e così malagevole, cheappe na, che più, e più persone colle lunghe eſperienze, e col le ragioui una menoma parte oggi coltivar ne poſsano. Ma no meno da biaſimar íono gli Egizi medici, per aver oglino primieramente colla vanità della divinatoria fero logia, corrotta, e magagnata la medicina, ſe pure è de preſtar credenza alle parole di Giulio Firmico: Nekepfo egli dice, Ægypri jufiifimus Imperator, a Aſtrologus val de bonus, per ipfos Decanos omnia vitia, valetudineſques collegit, oftendens quam valetudinem Decanus efficeret, quia natura alia vincitur, quia Deum frequenter alius Deus vincit, ex contrariis ideonaturis, contrariiſque pote ftatibusgumnium ægritudinum medelas divinæ rationisma gifteriis invenit. Triginta ſex itaque Decani omnem Zo diaci poffident circulum, ac per duodecim fignorum numeri ifte Deorum numerus, ideft decanurum dividitur. Se poi dagli antichi medici cra ſtato introdotta nell’E gitto quell'uſanza, che nel tempo d'Erodoto, nel quale fenza fallo la buona medicina iyi affatto era mancata, fer bavali, clic per tre giorni di ciaſcun meſe dell'anno gli huomini per conſervarli fani ſi purgavano col vomito, e ſi Ιανοvg!'inteftini τόπω δε ζόης τοιώδε διαχρέωνται: συρμαΐζεσαι σάς ημέρας επεξής μηνός εκάσg, εμέτοισι θηρώμενοι την υγίειην, και κλύσμασι, νομίζονες απο τών τξεφόνων στίων πάσας τας νούσος τοϊσι ανθρώποισι γίνεσθαι. loper me non credo,come si poſſa generalmere favellando, comeche rieſca calor peravventura giovevole, tal coſtume in tutto lodare; conciolliecoſachè coll'uſare il yomito, ei medicamenti, lo ſtomaco, e gl'inteftini a poco a poco s'indebiliſcono, e fi ſconvolgono notabilmente, e alconciano oltremodo le lor commeſſure, c li vuotano in ſieme con i cattivi umori le mucilagini, che veſtono, e difendono le loro membrane, ed altre, ed altre ſoſtanze non ſolo utili, ma ſommamente ancora all'economia, all' operazioni, ed alla vita degli animali neceſsarie, non che gioveyoli. Altro non rimane a dire dell'Egiziaca medi cina, ſe non chenon coſtumò ella ne meno allora quando era caduta dal ſuo primiero ſtato, per quel, che ſe ne ſap pia, di trarre mai ſangue: comechè comunemente credam ſi, che dall'Ippopotamo, o ſia cavallo di fiume, in Egitto da prima i medici l'apprendeſsero; perciocchè egli,come Diodoro racconta,nel fondo del Nilo quivi dimora, oco. me Ammian Marcellino, fra'canneci delle rive di quel 1o. Ma Prometeo, o pure Magog, onde ebbero la prima origine gli Sciti arricchìpreſso quelli la medicina, per ſua opera primieramente ritrovata, dinoli, e molti nobili, cgiovevoli medicaméri, co’quali ebbe egli fortuna dico si felicemente eſercitarla,ch'egli ragionevolmente ſi vanta appreſso il ſublime poera Eſchilo, ch'egli medicava me [ colando inſieme medicine acconce, ed atce a domar le malattie, con guarir tutti coloro, che così malamente ſi ritrovavano ridotti, che non ſi cran pocuti per niun riine dio in prima riſanare, e che prima, che a lui veniſse fatto di ritrovarle, e di porle in opera, non vi avea rimedio al cuno per le malattie To pelice régason, & nis vóm glori, Ουκ ήν αλεξημ’ δεν έδε Βρωμον, ρύ χρυσόν, και δε πιςον, αλα φαρμάκων Χρία κατέσκέλoντo πείν έγω σφίσιν Εδάξα κegίσεις ηπίων ακεσμάτων Αις τας απάσας εξαμάζονται νόσος, Ma di lui ancor ragionevolmente dottar ſi potrebbe, nó egli aveffe dato alla ſua medicina principio con iſcioglie re i corpi più duri, quali ſono i mecalli, per opera dei fuo co: mentre è coſtante fama appo l'ancichità, ch'egli pri ma di tutti da varie, e varie minicre ritraele i metallico me ſi può da que'verli vedere, Χαλκόν, σίδηρον, άργυρον, χρυσύνη της Φησεν αν πάροιθω εξεύρειν έμού. E conciofoffe coſa, che atanta impreſa gli faceſſe cer tamente meſtieri riguardar ſottilmente ancora al fuoco, e in diverſi gradi partirlo, e perciocchèegli peravventura, del calor del Sole ſervisſi: finſero, ch'egli affole il fuoco imbofaco aveſle. Ma tafciam di ciò, a' Chimici il penſie ro, come anche di fpiegar l'allegoria dell'effer Prometeo al raffo legato per comandamento diGiove; il che cicga remente vien nel fuo idioma da Eſchilo medeſimo narra to, ed è nel noſtro tale il ſenſo, Gia fiam giunti,o Vulcan, ne'vaflicamping E nelle folitadini deferte Per dove a Scitia valle; a te s'aſpetta i decreti adempir delGenitore; Equeſto audace all'alte eccelſe rupi Con lacci indiſolubil didiamante Legar fra i duri faffi. Eito fplendore Del foco onnipotente, onde tu altero N'andavigià, furotti, damortali Dono nefeo: dritroi, che d'un sal fallo Pagbiagli Dei la meritata pent's ondiegti a venerar l'alto potere Di Giove, e l'huomo almeno amare apprenda. lo perme immagino, che Promeceo, o che'l caſo il por: taile, o da qualche ragione ſoſpinto accendeffè il fuoco con i raggi del ſole, e che da queſto traerſe origine la fa voka accennata. Mache che fia di ciò, li diede Prome teo ad intcrpetrarc i ſogni, e diceſi, ch'ei trovaſſe gli au gurj: Teórus di nous isoleradio il che fa vedere, che in fin al ſuo primo cominciamento la f media medicina ſempremaiaccompagnoli coll’arti ſuperſtizio: ſe, e vane. Ma come poi gli Scici della medicina di Pro meteo ſi valeſſero, Io non ne ſaprei dir altro, ſalvo, cho eglino ſi ſervivano delle purgagioni, e della dieta nel cu rare le malattie, come appo Plutarco riferiſce Talete την δίαιταν αυτή & τον καθαρμον ο χρώνται Σκύθαι περί τους κάμ νοντας και αφθόνως, και προθύμως παραδέδωκε Ma trapaſſando ora alla Fenicia:ebbe ella ne'primi tem pi huomini d'acutiſſimo, e maraviglioſo intendimento, e ſopratütro aſſai vaghi d'inveſtigar le biſogne del mondo, si fattamente, che prima di ciaſcun'altra nazione ebbero ardimento di condurfi per nuovi mari (fabbricando ad ogni ora nuove Città, e popolandole di gente douunque capitavano ) a lontani, e per addietro non conoſciuti paeſi d'Africa, e d’Aſia, e d'Europa, perchè creduto venne, che i Fenici foſſero i primi, che ſolcaſſero co’legni il mare: onde diſſe Tibullo. * Prima ratem ventis credere docta Tyros. Perchègiudicar dobbiamo, eſſere ſtati i Fenici, abi. li ſoprammodo a imprender colle ſpeculazioni, e colles ſperienze la medicina, e che però ella nella Fenicii, fe condochè la natura d'un talc affare comporta, alcolmo della perfezioneaggiugneſſe. E di vero convennc, cho gni ſua parte arricchita, ed illuſtrata veniſſe dal profondo fapere di Cadino, come colui, che dopo diverſe,c glorio ſe vittorie dell'Africa avute, come canta Nonno nel poema dc'fatti dfBacco, edificò cento Città. •... Λιβυσίδι ΚαδμG- αρούρη Δομήσας πολέων εκατονταδα, δωκε δεκάτη Δύσβαζα λαϊνέοις υφούμενα τύχεα πύργοις e ſpezialmente la famoſa di Tebe, ove egli regnar poi do veva. Quindi egli ſpogliando dell'antica rozzezza, c pe coraggine la grecia, le diedeinſieme con tante, e tante doctrine molti vocaboli, e le lettere ancora, e l'umanità. Il chei medeſimi Greci apertainente confeſſano, dicendo Erodoto >, per tacer di Filoſtrato, d'Ateneo, e di Diogene Laerzio, chei Fenici, che vennero con Cadmo, con molte altre dottrine, le lettere, che prima non vi erano, in Grecia introduffero: ως δε Φοίνικες ούτοι ως συν Κάδμω απικό. μενοι, εσήγαγαν διδασκάλια είς τους Ελληνας, και δη, και γράμματα ουκ toy a aliv eranos. Conoſceſi anche manifeftamenre in ciò, che nella Fenicia la vera natural filoſofia allora regnavas la quale, come Strabone,e Poſſidonio appo Seſto Empiri co raccontano, da Moſco Fenice, Leucippo da prima apparò. Ma più che altro, l'eccellenza della medicina de Fenicj ne da manifeſtamente a divedere, l'aver ella pe netrar ſaputo, come ſi poſſa col canto domar la ferocia delle malattic; al che certamente imprendere ben ſalda, e ſottil filoſofia loro abbiſognava, eun'avvedimento non. miga ordinario, e volgare; eſſendo loro neceſſario dilige temente inveſtigare la materia del ſuono, qual veramen te ella lia, ſe l'aria, o ſe pure qualche ſpezial ſoſtanza,che nell'aria fi crovi, e le figure, e la grandezza delle parti celle, che la compongono; e come la lingua, che forma il canto per via di miſure, e di convenenza, or fortemen te, or pianamente, or velocemente, or tardamente la muova; e coine sì fatto movimento or s’uniſca, or fi di funiſca, or creſca, or manchi, or fi rifletta, or s’attuti; come intorno intorno egli così velocemete liſpáda;e co. me all'orecchio finalmente pervenuta la ſonora ſoſtanza, o penetri i poridel timpano, e per li tortuoſi ſentieri del laberinto, e della chiocciola aggitandoſi, a percooter rat ta ſe'n vada ne'nervi dell’udico, o pure le ſue particelle dieno il lor movinento al timpano, e'l timpano le com munichialle particelle dell'aria, qual falfamente inn.itu chiamaſi, e queſte poi alla membrana, che veſte la chioc ciola il compartano. Ma ſopratutto inveſtigar loro cer tamente ancora conveniva, come le fibre de nervi dell'u dito, rappreſentando fedelmente all'anima lc vare, e va rie maniere, colle quali elleno tocche, e percofie furo no, facciano sì, ch'ella la sì varia, e táta diverſità deluo ni ne venga ad imprendere; e come l'anima poi da una ſorte di ſuono noja, e da un'altra diletto tragga; e come da ciò s'ingenerino in eſſa amore, odio, ira, timore, ed Bb altre, ed altre paſſioni; e come queſte finalinente, o cre ſcendo, o ceſando il movimentodel ſangue, e dell'altre diſcorrenti ſoſtanze del corpo, o allargando, o riſtrignen do, o chiudendo i pori delle parti ſalde, fi rendan valevo li, come d'ingenerare, così anco di menomare, c di eſtin guere parecchie malattie. Mache che ſia del filoſofar, ch'eglino ſi faceſſero intor no a tal facenda, quáto giugner poſta la forza del căto tut to dì ne' bambini a noſtre caſe oggi'l veggiamo; a ' qu ali per lo ſolo canto, avvegnachè non ancora i ſentimenti del le voci pienamente comprendano, s’alleggiano i dolori,e talvolta affatto ancor fi tolgono, e ſi ſeccan ſu le pupille le lagrime,luſingādogli pianaméte alla quiere il sono;e vede ſi talora huomo pe'lcāto aſsõnare, in cui vana ache la virtù dell'oppio ſperimétata ſi era.Il che ne può far fede vero efa fer potuto ciò,che d'Aſclepiade ſi legge cioè ch'egli la rab bioſa furia del ribellante vulgo colla muſica, ecol ſuono eſtingucſse. Mapoimaggiore senza filo ſi prova la virtù del căto,ove ſia chiintéda la ſignificāza delle parole,come quelle, che ancora per ſe ſtelle fole, gli affettinell'animo, valevolia deſtar ſono. Onde non ſenza maraviglia lo lege go in Diodoro, che la muſica dagli Egiziachi, non ſolo inutile, ma nocevole anzi che no venille ſtiinata, Tu'vuge σακην νομίζεσιν, ου μόνον άχρηστν υπάρχειν, αλα, και βλαβεραν, ecio che Eforo appreſſo Polibio dice: la muſica eſſere ſtata ri trovata per ingannare gli huomini: ettes, ¿ ' atémy, aggona πία παρεισήχθαι τους ανθρώποις. Perché non eeglia mio cre dere affatto inveriſimile, che Damone co'l căto aveſſe té perar potuto, e raffrenar le menti offuſcate, ed alterate dall'ebbrezza. E ciò, che narrafi di Terpandro, e d'A rione, ch'aveſſer col canto riſanati gli abitatori di I.esbo; chc di graviſſiine malattie moleſtati, ed oppreffi langui vano; e di Pittagora ciò, che ne narra Eutimio,che a ſuon di cornamuſa aveſſe ad un giovine tutto infiammato d'a moroſo foco, l'ardentiſſime fiamme amoroſe ſmorzate, ad un'altro, che infuriato correva col ferro ignudo, lo sfre nato orgoglio arreſtato; e di Timoteo, che con furioſo canto iſtigaſſe Aleſſandro Macedone a prender l'ar: me; ma addolciando le note sì adoperaffe, che le poneſſe giù di bel nuovo; e di Aſclepiade, che le impazzate men ti, e da furor turbate, aveſſe con ſoave melodia in iſtato di ſanità ridotte; e del medeſimo, che a ſuon di tromba a’ fordi renduto aveſſe l'udito. Ma non così di leggieri pe I ) ſembra,che preſtar ſi poſſa fede a Marziano Capella, il quale afferma,eſſere ſtate guarite le piaghe perla muſi ca; ed à ciò, che diceli d'Itinenia Tebano, che col canto guariſſe la ſciatica, comechè li fien fovente vedute per im provviſo timore, e le podagre, e le quartane febbri dipre ſente fanate. Ma che Talere poi colla ſoavità della Ce tera la peſtilenza aveſſe fugar potutz, coſa ſembra affatto lontana dalla verità. · Ma il valor della muſica ben venne conoſciuto a tutte quelle nazioni, che in mezo alle battaglie vollono i ſuo ni, e l'armonie framettere; come quelle, che troppo va levoli lor lembravano a trarre gli animi de'combattenti, e colle varie note ſvolgergli, ove più l'era a grado; e talora incoraggiargli a più pericoloſe impreſe. E sìi Geti uſa rono le Cetere, e le Siringhe: i Creteſi ', le Lire: i Lidi ed i Lacedemonj gli Auli,a ſuon de'quali pria di comin ciare la miſchia, di cantare un melos qucſti eran uſi, che Embetterio appellarono. E gli Arcadi p incoraggiare la lor giovētù ad altiſſime impreſe, e per addolciar la rozzezza de’ioro animi,cagionata dall'aſprezza dell'aria,, con ogni ſtudio ferventemente alla mulica s'impiegavano; e l'eſſer ne ignoranti aurebbonſi a fommo ſcorno recato; onde diffe Polibio, che fin dalla tenera fanciullezza s’avvezavan gli Arcadi a cantar Inni, e Perni, i quali ſecondo il patrio coſtume erano indirizzati a lodare gli Eroi, e gli Dei della Patria; e altri ufici della lor inuſica va il medelimo Polibio lungamente diviſando; e ne fa anco parola Atenco.. Vennero, ma non guari feliceméte i Fenici da’mcdicanti dell'altre nazioni imitati, i quali le maraviglioſe pruove, che per coſtoro col canto facevanſi ſcorgendo, e non ſap piendone la cagione, ne per iſtudio c'huom vi mertelle Bb giammai penetrar potendola, li fecero a credere, che l'ar monia tucti mali diſcacciar poteſse; anzi vi ebbe di van taggio chi ſconciamente filoſofando immaginò, non ſo lamente ſopra gli animali, maaltresì ſopra l'infenſate co ſe quella ſignoreggiare, e fin ſopra i Cieli, e nel baſso in ferno diſtenderſi. E perciò vollono, che colà giuſo nell abiſso calando Orfeo, co'l ſuon della ſua Cetera ſtrozzal ſe ſu le fauci di Cerbero i latrati, che uſo era contro a ' paſsaggieri con crudel rabbia di mandar fuori: raffermal ſe l'orgoglio delle furie ſmanianti: e l'anime tutte perdue te, aveſler dall'acerbe lor pene alcuna triegua: ne lacera te p allor foſsero dagli Avoltoj a brano a brano le viſce re a Tizio, ne le membra a Siſifo dal grayoſo ſaſso sfra cellare; ne per ſete delle vicine acque, e per fame delle vedute poma arrabbiaſse Tantalo. E tutti quanti in ső ma l'inceſsabili torméti col ſuon della ſua lira in quel paſ ſaggio ſgombraſse; anzi colla dolce armonia sì poteſse fa re, e tanto, che dagli infernali Dei a'regni della luce law ſua cara Euridice otteneſse di riportare; il che vagamen. te deſcriſse l'ingegnoſo latino poeta. T alia dicentem, nervofque ad verba moventem, Exangues flebant animæ,nec Tantalus undam Capravit refugam: ſtupuitq; Ixionis orbis. Nec carpere jecur volucres urniſque vacarunt Belides: inque tuofedifti Siſyphe ſaxo. Tum primum lacrymis vibarum carmine, fama ef Eumenidum maduiſſe genas: nec regia conjux Suſtinet oranti, nec qui regit ima, negare: E per tal cagione altresì,ad imitazione di Teocrito, Virgi lio introduce Alfefibeo a dire Carmina, vel Calo poſuntdeducere lunam. Carminibus Circe focius mutavit V lalei Frigidus in pratis cantando rumpitur anguis: Eplamedeſima cagione pariméte quel noſtro Poeta puo tè far dire alla Ninfa, dicui narrò Ricciardetto aRu. giero: Dal Giella Luna al mio cantar difcende, S'agghiaccia il foco, e l'aria fifa dura, Ed bo talor con ſemplici parole Moffa la terra, ed ho fermato il ſole. Ma cotanto oltre portofſi la ſomma ſmcmoraggine di quegli ſciocchi imitatori de'Fenici, che non ſolamente nel canto, manelle parole ſole ancora una tanta virtù, ed ef ficacia conſiſter crederono, e di quelle in medicando fer vivanſi: onde fi legge in Omero,che colle parole ſtagnals ſero il ſangue delle ferite d’Vliſse i figli d'Autolico, Τονμάρ Αυτολύκου παίδες φίλοι αμφεπένοντο, Ω'πιλήν δ ' ο'δυσπG- αμύμονG- αναθέριο Δήσανέπιαμόνως • επαοιδη δ' αίμα κελαινόν Εχεθος: cioè, Mad' Aurolico i figli eſtrema cura si preſer del divino Vliſſe, e prima Congrand'arte legaron la ferita Tenendo ilſangue, che già fuor n'uſcia Conparole d'incanto entro le vene. Ma non ſolo i greci, maanche i noſtri poeti, per cacer de’latini, ſecondando i ſentimenti del vulgo ciò ſcriſſero, infra' quali il Taſso padre finge, che la donzella della fa ta Silvana medicaſse colle parole quell'Inghileſe Cava liere gravemente per man d'Alidoro ferito, cosìdicendo: E con la forçade'magici incanti Fe in lui tornar la virtù già ſmarrita, Se ricourati i vaghiSpirti erranti, Gli fanò in breve tempo ogni ferita. E dicono altri ſcrittori aſsai, che operino ciò anche le parole in tutt'altre malattie: infra’quali Vindiciano: Namque eft res certa Carmen ab occultis tribuens miracula verbis: e priina di lui Quinto Sereno: Multaquepræterea verborum monftrafilebo; Nam febrem vario depelli carmine polle Vana fuperftitio credit, tremuleque parentes. La qual beſſaggine è durata fempremai, edura tuttavia nel 198 Ragionamento Termo nel mondo, attenendoſi a cotali fraiche, e novelle'; non ſolo la ſcempiata plebe, maancora quei, che tra’letterati tengono qualche luogo; e nel paſſato ſecolo il Perrino,fa mofiflimo Peripatetico, per tacer d'altri di minor liéva, con vaniſſimi ſofiſmi, diſoſtener sì fatte pecoraggini fol lemente argomentoſſi, cercando di dare a divedere,che le parole naturalmente ciò poſſano operare; anzi di vantag gioancor giudicano, che le parole eziandio ſcritte, e ad doffo portate, non ſolo a guarire i mali, e le febbri, ma anche a render yani i colpi delle ſpade, e delle palle degli archibuſi ſommamenteapprodino. Onde poi prendono i noſtri Poeti a favoleggiar de’loro Cavalieri crranti, co me di Ferraù narra l'Arioſto: Ch'habbiate ſignor mio già intefo eftimo, Che Ferraùper tutto era fatato, Fuorche là dovel'alimentoprimo Piglia’lbambin nel ventre ancor ferrato. E del ſuo valorofifſimo Orlando: Era egualmente il Principe d'Anglante Tuttofatato, furrche in una parte: Ferito eller pote a fotto le piante: Ma le guardòcon ogni ſtudio sed arte. Duro era il reſto lor,come diamante (Sela famadal ver nonſi diparte ) E l'uno, e l'altro andòpiùper ornato, Che per biſogno a le battaglie armato. Ma più ridevole in vero, e ſtrana allai, èpreſſo il Bojardo, e l'Arioſto, la novella d'Orillo, il quale ingaggiato a bàttagiia con Grifone, ed Aquilante ſu le ſponde del Ni lo, non mai da que’prodi campioni potea trarſi di vita: imperocchè per virtù diparole,e d'incanto, egli era sì fattamente ciurmato, che dopo eſſere ſminuzzato, e tri tato, di nuovo, que'minuzzoli da per ſe acozzandoſi, -ri tornava, ſicomeprima a vivere, e a combattere; onde cantò il Bojardo Segli tagliafſi il collo, il petto,e l'anca Piùminuto il tritaſi, che'l panico, 6 Mainonſarà dello Spiritoprivo, Spezzato in mille parti torna vivo. Famoſa ſenza fallo, e chiara al mondo fe la medicina de Traci il valencillimo medico, e filoſofante Orfeo, come colui, che per teltimonianza di Clemente Aleſſandrino nelle ſecrete coſe della natura fi fè addétro aſſai; e fu il pri mo, checurioſamente, per quel che ſi ſappia, dell'erbé ſcriſfe: primus, dice Plinio, omnium, quos memoria novit Orpheus de herbis aliqua prodidit. Compoſe egli ancora alcuni libri della natural filoſofia, delle gemme, del ſito delle fibre, e un libro ſe'l ver dice Galieno della compoſia zione degli antidoti, e molti, e molte altri libri di coſe naturali; ſenzachè non ſi può egli di leggier credere, in quanto pregio avuto egli foſſe tra per la dolciſſimaarmo nia del ſuo canto, e per altre ſue rare dottrine, maſlima mente della politica, di cui ſecondamente che ne raccon ta Pauſania, fù egli un gran maeſtro, molte, e molte di di quelle coſe inſegnando, le quali alla vita, e al regime to degli huomini abbiſognano. E anche fu egli pregiato molto, e tenuto a capitale per le molte, e valevoli medi cine a corali malattic non men del corpo, che dell'animo dalui ne'ſuoi infermi felicemente adoperato. E comechè favoloſo affatto, e vano fia ciò, che vien narraro di ſua moglie Euridice,da luicol canto riſuſcitata: non però di meno vogliono molti antichi ſcrittori, che Orfeo la riſa naſſe, preſſo a morte ridotta dal morſo d'una ſerpc, e che poſcia ella ſe ne moriſſe per colpadel medeſimo Orfeo.Ma ſe foſſe veramente d’Orfeo quel poema dell’Argonautica, che la bugiarda Grecia ſotto il ſuo nome divulgò, dottar non ſi potrebbe, che egli non foſſe ſtato della Chimica molto, e molto avviſato, mentre ſi deſcrive in quel libro minutisſimainente ciò, che ſi richiede per lo gran magiſte ro, che deſcritto era, come ſi finge nel libro, che Orfeo con gli altri argonauti a Colco conquiſtarono. E quinci certamente ſi pare poi, che i poeti prendelſer l'occaſione di finger quel celebre favoloſo racconto del Vello dell'o ro:, il quale, come dicono lo ſcoliaſte d'Apollonio,e Suida, e Varino Favorino, altro veramente ei non era, che una pelle, nella quale l'artificiofa maniera da cambiar in oro qualunque altro demetallideſcritta leggevaſi. Ma le tante arti, e ſpezialmente la muſica,e la poeſia; nelle quali dilettavali aſſai Orteo, e l'eſſer egli ſtato, CO me Simplicio riferiſce,autore, ed inventore deltaco, e no per altro, che per iſcuſarſi, e riveſciar ſopra la di lui inevi. tabile neceſſità quelle morti, che per ſua colpa a'poveri in fermi avvenivano, mi dan per avventura giuſta cagione di dubitare, non egli foſſe ſtato nella filoſofia,e nellamedi cina da mé, che altri credevalo;ne tāta loda meritar dovel ſe, quanta in prima guadagnoli nel creſcere dell'arti ap preſſo i troppo ſemplici, enon eſperti antichi, iquali pa ghi ſolainente delle primeapparenze delle coſe, nonnes venivano troppo addétro a penetrare le cagioni;comeche Pittagora ſtudiato oltreinodo ſi foſſe delle doctrine di lui apparare, e diſcerner ſuoi librilegittimi da non veri,ſico me non pochiſcrittori teſtimoniano, e ſpezialmente Siria no, il quale di moſtrare a' fentiinenti d'Orfco que'diPi tagora, e di Platone concordevoli argomentolli. E più avanti è da dottar della ſua dottrina, e valoria; percioc chè non è egli vero ciò, che il ſemplice vulgo parimento di lui credeva, efſer le ſue azioni, ed andamenti tutti con una coral gravità di coſtumi, e lantità di vita ſempremai ſtati accompagnati; conciofoſſe coſa, che egli dimoltes malvage uſanze, c cattive vezze la Grecia cutra gualta, e corrotta aveſſe: Sacra Liberi Patris, dice Lattanzio, pri mus Orpheusinduxit in Greciam, primufque celebravit in monte Bootie Thebis, ubi Liber natus eft. E di vantaggio ſcrive di lui Ovidio: Ille etiam Tbracum populis fuitauthor amores In teneros vertiſe mares: Ma la medicina de Traciin fama,edonor maggiorinen te poi crebbe per opera di Zamolſide, non meno ſaggio, che valoroſo lor Principe, da alcuni fallamente appo Ero doto creduto ſervo, e diſcepolo di Pittagora. Ma della medicina di Zamollide altro noi non abbiano, ſe non quel poco che appo Platone ſe nelegge,cioè,nó poterſi medicar gli occhj ſenza la teſta,ne la teſta ſenza tuttoilcorpo, ne il corpo ſenza l'anima. E queſta dicca Zamolſide eſser la ra gione, perchè molte malattie de'corpi fieno naſcoſe a'me dici Greci, a’quali non è manifeſto dove primjeramente faccia meſtieri applicar la medicina, cioè al tutto, il qua le non iſtando bene, è imposſibile, che qualunque ſuas parte ſe ne ſtea bene;cócioſliecoſachè,ficomc egli dicevil ', ciaſcun noftro bene, o male dall'anima noftra ne diſcenda al corpo, e da quello conſeguentemente a ciaſcuna parte di ſe, e perciò agli occhj ſi partiſca; e però giudicava in prima eſſer l'anima ſopratutto da medicarc; acciocchè bé poi ne ſteſſc la teſta, e tutto il corpo.Mal'anima egli volc va, appo Platone,che da medicar foſsc có incanci; e queſti diceva eſserci buoni ſermoni, e indirizzamenti, i quali certamente fan pro a render l'huomo temperaro, e ſigno reggiante l'impeto de'ſenſi alla ragione rubelli; e quindi 1.2 ſanità al capo, e a tutto il rimanente del corpo agevol mente poicompartirſi: ecco le ſue parole sa's dº itu'sa's Guo ας, τες λόγες είναι τις καλές • εκ δε των τοιέτων λόγων εν αις ψυχαίς σοφροσύνην εγγίγνεσθαι,ής εγγενομένης, και παρέσης ράδιον ήδη είναι την υγίειαν, και τη κεφαλή, και το άλω σώμαπ πορίζων, Ma non facea meſtieri certamente di molto ftudio, e di molta acutezza d'intendimento a porre in aja sì fatti di viſamenti, che poſsono di leggieri cadere in mente anche alle più idiote perlone. Nevero egli ſi ritrova, che le malattie tutte del corpo, dall'anima dependano, o ſem - prc, chepatiſce una parte, debba neceſsariamente patir il tutto, o'lmal delia parte da tutto il corpo, o da qualche parte principale di quelle dependere; perciocchè ben può eſser tutto il rimanente del corpo, ſano, & una, o altra parte ſolamente magagnata. È ciò avvenir tutto dì live de,maſſimamente nelle ferite, ed epfiamenti, che colme dicar la parte offeſa ſola, ſenza badar ad altro, quella feli cemente ſi riſana; e ciò conferma l'eſemplo del fatto a'no ſtri tempi avvenuto, dicolui, che portar non potendo il troppo acerbo dolore, che per la podagra pativa in un de Сс diti del ſuo piè, venne a tanta diſperazione, che preſo un coltello, troncoſselo, ne più mai in altro luogo poi venne gli la podagra. Macon gran prontezza venne abbracciata, e con gra disſima ſuperſtizione oſservata sìfatta guiſa di medicare da'Greci medici razionali; e di quella tuttavia ſivaglio no i noſtri medici ancora, tra per far pompa di quel ſape. re, ch'effi non hanno, ed ancora per menar la cura alla lunga; ma ſopratutto per non aver rimedio opportuno al male; e di cotali ſorti di medicine ſi ſervono, le quali al la malattia punto non s'appartengono; e nondimeno egli no millantando dicono uſarle opportunamente: acciocchè prima il tutto, e le parti principali medicate ſieno; e quin di all'offeſa parte fi venga a dar riparo; e immaginando follemente ancora, che ciò far conaltro argomento non ſi poffa, i lor ſalalli, e le ſtomachevoli purgagioni, che fono i maggiori ricoveri della loro ignoranza, mettono di preſente in opera,co imporgli largamente ovunque più loro aggrada, fino a far infralir gli ſpiriti, e preffo, che amorte giugner i malati; ma ben ſovente incontrar ſuole, che da qualche femminella, o altro menomo Empirico ', cui il vero rimedio ſia conoſciuto, di sì fatte lor cianceri mangan beffati, e ricreduti. Ma per altro poi molto manifeſto fiſcorge, che in Za mollide aſſai più che'l ſapere,parte v’ebbero l'aſtuzic,ele frodi, delle quali niun forſe di lui meglio ſi ſeppe a'luoi tempi valere. Fabbricò egli un belliſſimo palagio (co me narra Erodoto, comeche Strabone altrimentijl fatto deſcriv2 ) nel quale convitava a mangiare la gente più principale, e lor perfuadeva, che ne eſſo, ne alcun di co loro, che gli tenean compagnia giammai morirebbe; ma inſieme con eſo lui dopo il trapallamento della preſentes vita, eterna beatitudine goderebbono. Edificò egli un ' altro palagio ſotto terra, la dove egli infingendoſi mor to ſtette celatamente tre anni; nel qual tempo con pieto fi ſoſpiri, ed amare lagrimc doloroſamente fu pianto da que'popoli; ed uſciione poſcia diè a diyedere, ch'egliera in vi ciò, in vita ritornato; e queſto, ed altro egli ebbe agio di fa. re, perch'era in grandiſſima gloria ſalito, tra per la medi cina, e tra per eller qnci popoli groſſi, e materiali ſoprá modo; intanto, chenon ſolo diedero intera credenza a che detto aveya: ma ancora dopo mortc in cotanta, maraviglia fu tenuto, che venne da loro per Dio adora to; ed a’teinpi di Erodoto eglino ancora avevano in co ſtume di madargli uno ambaſciadore con una nave di cin que hucmini: aʼquali era impoſto, che giunti ad un ſoli tario, ed ermo luogo,prendeſſero per lo piede il detto am baſciadore, e lo ſoſpingelſer ſu in modo tal, ch'eglive niſo a cader giù loura tre lance a tal effetto acconce; il quale fe immantenente ſe ne moriva, eran ſicuri, che Za molde favorevol farebbe ſtato alle lor dimande; ma ſe per avventura morto non foſſe, n'era accagionato, coine indegno dell'ambaſceria, e reo, e perfido huomo era ap pellato; ed un'altro ambaſciadore a queſt'opera fare eleg gevano, al quale le medeſime ambaſciate imponevano Quefta fortuna medeſima appretſo lui participarono i ſuoi fcaltriti diſcepoli, come quei, che poteron dare agevol mente a divedere a quc'ſemplici popoli, che valevoli foſ ſero coʻloro argomenti a dare altrui quella immortalitá che per ſe medeſimi conſeguir non potevano. Ma Bacco, ſapientiſſimo, e valoroſiſſimo Principe de' popoli Affirj, della medicina de' quali ora lo intendo di ragionare, avendo in pochiſſimo tempo a forza d'ar me vinta l’Iberia, e la Libia, e l'Oriente tutto, e più, e più volte calcate colle vittorioſe piante l'arene dell’O ceano, e fin l'ultime regioni della terra penetrate, e po ſtevi per eternamemoria de'ſuoi trionfi quelle due famo ſe colonne: così ragguardevole, e glorioſo in tutto'lmon do divenuto,pur ebbe in cotanto pregio la medicina, che non già monarca, e conquiſtator delmondo, ma medico ſolamente volle elles chiamato. E nel vero così magnifi che, c gloriofe furle fue impreſe, che per tacer de Fenicja ftudiaronli i Greci millantatori colle loro uſate menzogne di Cadmo al nipote, huom di loro nazione propiamente Сс 2 inveſtirle; ma ſi ben non ſeppero con loro novelle la coſa comporre, che non ſene doveſſe manifeſtamente avvede. re ciaſcun, che de'tempi di coloro faceſſe ragione; per ciocchè egli è coſa manifeſta, che molto tempo addietro a Cadmomedeſimo, non che a ſuo nipote, ci foſse Bacco vivuto, ſecondamente che s'avviſa in Euripide, introdu cente nella Bacchide Cadmo a comındare il culto di Bac co, fol perchè egli antico fi foſse: Πατος παραδοχας, άσθ' ομήλικα, χρόνων Κεκτήμεθ', έδεις αντο καβάλει λόγG-. Ed Ateneo,graviſſimo ſcrittore, ſomiglianteméte dice,far fi menzione di Bacco nella lapida del ſepolcro di Nino, il qual viſſe certamente ſeicento anni prima de'tépi di Cad mo; ſenzachè appo Filoſtrato affermano in verità gl'In diani, eſſer Bacco, non dalla Grecia, comealtri crede, ma dall’Affiria nelle loro contrade capitato. La maggior opera, che Bacco in medicina faceſse, ſem bra ſenzafallo il ritrovamento del vino. E ciò fù per av ventura, che adoperando cgli il ſugo dell'uva per cotal fua biſogna a caſoqualche parte nelvaſo avanzata ne for ſe,la qual poi bollendo,e formétandoſi in vino fi cambial fe: e diciò avvedutofi egli, a bello ſtudio poi la colaj provaſse, eriprovaſse, finchè avviſandolo alla fine così ſpiritofo, e giovevole al genere umano l'adoperaſſe in prima nelle malattie, quindi ancora agli huomini ſani lar gamente il concedeſse. Ma forſe egli, ſecondochè lo immagino, per via della Chimica ritrovollo; la qual, ficome in Egitto, così anche doveva allora in quelle con trade ſommamente adoperarſi. E veramente ſolo a'Chi miciconviene col digeſtimento, e formentazione neʼlu ghi vegetabili ſuegliar gli ſpiriti, i quali pigri in prima, e quaſi addormentari in quelli dimoravano. E potrebbe eſser’anche, che Bacco apparato l'aveſse in ciò, che lo frutte, da ſe medeſimeforinentar fi ſogliono, el ſapore e l'altre qualità convencvoli al vino acquiſtare; avvenen. do ciò per opera de'movevoli ſommamente, & acuti cor picciuoli, i quali dall'aria intorno lor communicandoſi, e ajutati da cotali atometti di quelli, onde il fuoco s’ingco nera,che continuo portan ſeco,e che in que'corpi trovano, fuiluppano tratto tratto, e ſciolgono quella nobiliſsima foſtanza, ch'anima del vino può dirſi, e da' Chimici, che colla diſtillazione ſoglion dal vino ſepararla,acquarzente, e ſpirito di vino ſi chiama. Ma comechè del ritrovamento del vino ſe ne debba veramente l'onore al noſtro comun padre Noè; impertá to è da credere, eſſer' il modo di fare il vino da lui già ri trovato,per travalicamento di tempo, ſmarrito: cche Bacco poi da capo il rinveniſſe. lo fo, che alcuni favo leggiando voglion con lor novelle darnc a divedere,eſſere ſtata una medeſima perſona Noè, e Bacco; ma ciò trala fcio, per non effer egli in modo alcuno da credere; per ciocchè per quel, che comprender ſi poſſa dalle ſagre car te, non guerreggiò giammai Noè, ne altra impreſa fece, che ſpezialmente a Bacco s'attribuiſca. E molto meno è da preſtar credenza al Voſſio padre, il quale a deboliſſime fondamenta appoggiato, giudica, non altri eſſere ſtato Bacco, che'l ſanto Moisè; perciocchè Moisè non fu mai in India a guerreggiare, non chepunto ta foggiogaſſe. Ma ciò non appartenendo punto al noſtro propoſito dico, che ciò, che ſifacefle in inedicando Bacco, e quali altrimedi camienti egli adoperaſle, e come co'l vino guariſse i mala ti, e coll'edera poi a'nocimenti del vino e' riparaffe, non; ne abbiamo al preſente,per quel ch’lo ſappia, contezza alcuna. E avvegnachè valentisſimomedicante e' li foſſe, c imperciò dall'oracolo il dator della vita chiamato, non però di meno eſſendo egli avido di loda, e vanaglorioſo aflai, pur comegli altri per maggiormente cfſer tenuto a capitale, vollemueſtrevolmente render più maraviglioſe le ſue cure, con far veduta, che qualche coſa ſopranatu rale anchev'aveſse; perchè ſerviſſi delle divinazioni e de facrifici, i quali tra per queſto, e per la ſperanza di veni re anch'egli dopo mortequal Dio dagli huomini celebra. to, nell'Alliria, e ne'paeſi dalui ſoggiogati, in primaj introduſſe.  1 Ante tuos ortus ar& fine honore fuerunt Liber, & in gelidis berba reperta focis. Te memorant Gange, totoque Oriente ſubalty Primitias magnofepofuiße lovi. Cinnama tu primus, captivaque thura dediſti, Deque triumphato viſceratoſta bove. Ma trapaſſando dalla medicina degli Affirj a quella de gli Arabi, ſe rozza veramente, e ſciocca oltremodo ne gli antichi tempiquella fi foſſe,o ſe talpur ſi pareſc,ben G ravviſa in ciò, che da Agatorchide per teſtimonianza di Strabone, e di Diodoro, che da lui tolfer di peſo ciò, chc ſcriſſer delle coſe degli Arabi, narrato ne viene. Do po aver detto Agatoichide, che nell'Arabia per la trop pa fragranzia,e acutezza, che ivi fentivaſi degli odori del le loro piante, diffolvendoſi, e dilatandoſi tratto tratto la teſſitura delle membra di quegli abitatori, divenivano i cattivelli in fierisſime cagioni, e malattie. Soggiugne egli poi, che a quelle co'l fumo, ccolla puzza delle bar bc de'becchi, e del bitume davan riparo: da#reouév8 rõrúa ματG- υπ ' ακράτε, και μη τικής δυνάμεως, και την συμμετρον πύκνω. σαν επιπλεονεξίσης, ωπάγαν ας έκλυσαν ισχύ την.Ρcrche fembra ad alcuni, che a ciò fare ſoſpinti foſſer gli Arabi medican ti da quel volgar ſentimento, che l’un contrario, per l'al tro curarſi debba. Ma che che ſia della verità di ciò,tan to, e tanto oggi meſſa in dubbio da’moderni medici: di co, che ſe rimedio pur quellera, certamente era cgli più acconcio a conſervare, e difendere da quelle malattie i pericolanti paeſani, che le già appiccate ceffare. Ne è pū. to vero ciò, che il dottiſlimo Salmafio giudica, esſere ſta ta queſta in Arabia una cotal ſorte di metodica medicina; perciocchè i Razionalimedici ancora ſi prendon guardia di non laſciar di ſoverchio turati, o ſpalancati i pori degli animali, e oltre al convencvole ſtemperati. Maccrtamē te è da dire, che eſſendo ora cosi odorifera di ſpezierie l'Arabia, quale in quegli antichissimi tempi ſi era:ne per ciò cagionandoſi quivisì fatte malattie, fieno affatto fa volore, e vane cotali no c!le di que'tcmpi; o alti vode,che dagli odori foſſe ciò avvenuto. Ne poſto in ciò della tram { curaggine di Strabonc, e di Diodoro forte non maravi gliarmi,i quali non ſi dieron mai cura di ravviſare un cotal farfallonenegli antichi, e pure nc'loro tépi affai ben cono ſciuta ſi era l'Arabia.Ma nella Grecia da chi, e in qual té po da prima ritrovata ſi foſſe la medicina, Io quanto a me confeſſo affatto non ſapere; nondimeno farei d'opiniones molto tempo avanti di quel, che comunemente ſi giudi ca, quivi eſſere ſtata quella ritrovata: e ben priina aſſai, che Cadmo le priine lettere vi recaffe; perciocchè per le gravi, e crudeli malattie, che continuo quella infeltava no, ſommaméte allora faceva la medicina alla Grecia me ſtieri. Il che fu anche cagione, perchè con tanto ſtudio, e in tanto novero i Greci tutti allora alla medicina s'impie gaſſero; e non fu egli al mondo,per quanto ſi poſſa in iſto ric avviſare, nazione alcuna, che cotanto vis'inviluppal ſe, quanto la Greca. Perchè ſembrami egli certamente imposſibile, che nelle tenebre di tanti, e tanti paſsati ſe coli, e da poche, e non ordinate memorie, che appena ai noſtra notizia fien pervenute, ſi poſſa in alcun modo inve ſtigar la verità di cotali coſe; ſenzachè fon le loro ſtories tutte ſofperte di falſità, e millantatrici, ccon l'uſate lor favole, e novelle ſempremai meſcolate;imperciocchè, co me avviſa Giuſeppe Ebreo: non avēdo avuto i Greci ſcrit ture pubbliche, nelle quali fedelmente ficonfervaſsero fe. memorie delle coſe avvenute, oguiſcrittore poteva,come più gliera a grado narrar le coſe,ſenza aver timore di po ter mai eſser colso in fallo ', e convinto di bugia. Arro ge, che i Greci, come afferma Dione, erano così avvez zi al piacere, che ſtimavan vere tutte le coſe, che narrate foffero con eleganza di ſtile; il che poi cagionava, che gli ſcrittori d'altro cura non ſi deſsero, chedivagamente, ed ornatamente ſcrivere, fenza durar fatica nell'inveſtigar la verità de' fatti; anzialcuni ſovente ſi ſtudiavano, meſco. lando a bello ſtudio menzogne coll’iſtorie, di fare altrui delle loro ſtrabocchevoli impreſe maravigliare; e altri fi adoperavano in ben comporre, e inviluppar le coſe per coglier poicagione di trarre a ſua patria ciò, che di ma. gnifico, e di pregiato andaſſe attorno. Così il comun der Greci le glorioſe geſte in medicina d'Oſiri Egizio, perta cer d'altre ſue impreſe, che non fanno al preſente a noſtro propoſito, al ſuo Apollo figliuol di Latona mentendo at tribuì; e'l figliuol di Semele reſe chiaro, e illuſtre co' fat ri di Bacco Afirio. Così ancora quanto di grande, e di glorioſo in medicina operaſle Tofortride, inſieme coʻl ſuo medeſimo ſoprannome al ſuo Eſculapio falſamente attri buì; laſciando così in tanti volumi, e confuſioni il pren. derſi cura gli ſcrittori di rapportare il tempo, in cui par citamente quegli antichi medici Greci viſſero, de'quali ancora a' noftri tempi ne ſon giunte qualche contezze,che malagevole, anzi impoſſibile egli ſembra ad huom lo ſvi lupparſene. Ma io in quanto potrò per fornire il mio di viſo, faronne una breve, comechè confuſa accolta, eſc condochè alla memoria a mano a mano mi ſovverrà, ter rò ragionamento di ciaſcuno. E prima di tutt'altri mi convien narrar di Peone tenuto in sì gran maraviglia appreſſo gli antichi per la ſua impareggiabil’arte del medicare, che ragionevolmente giudicarono, aver lui meritato d'eſſer medico diGiove, e cotanto lafsù pregiato, e tenuto a capitale, che più dicia fcun'altro Dio preſſo a quello orrevolmente ſi ſedeſſe;nar, rando di lui Omero. Παρ δε διά κρονίωνι καθέζείο κύδει γαίων, e'l medeſimo poeta nell'Odiſſea avea detto, i medici del l'Egitto eſſere eccellenti per eſſer della ſchiatta di Peone: Tlainavos dirigevédans. Il che ci può far credere, che Peone foſſe Egizio, e non Greco di nazione, ma inſieme con gli altri, che teſtè dicemmo agli Egizi da'Greci rubbato; e intanto crebbe nella Grecia la fama di Peone, che ciaſcun medico dopo di lui giudicava, ſe eſser ſommamentelti mato, e commendato, ſe col ſuo nome chiamar ſi faceſse; anzile mani inedeſime de'valenti medici da Galjeno, c da altri ſcrittori vennerdette pconie; e peonie parimente fi diſsero l'erbe più giovevoli,ed efficaci ad uſo di medicina; perchè cantò il Poeta Et fuperas Cali veniſe sub auras Peoniisrevocatum herbis, cioè a dire, come avviſa Servio, à Peone Dcorum medico Vsò Peone in medicando le ferice, piacevoli, e dolci mc dicamenti, co’quali curò egli Plutone, per le mani d'Er cole grayemente ferito: Τα δ ' επι Παιήων οδυνηφα φάρμακα πέσων, Η'κέσατ' Dalla qual cura ſi può agevolmente avviſare, eſsere ſta to Peone appreſso gli antichi in maggior pregio aſs:ri del medeſimo Apollo: comechè alcuni vanamente giudichi no, la modelima perſona eſſer Peonc, ed Apollo. Ma ciò quanto ſia lontano dal vero manifeſtamente in ciò ſi conoſce, che Omero nel ſuo maggior poema, di Peone, e d'Apollo, come di due diverſe perſone ſeinpremai farvel 1.1. Ne è punto da dar credenza al chioſator di Nicandro, che vuole,Peoneeſſere ſtato il medeſimo, ch'Eſculapio; nel quale crrore cadde poſcia Artemidoro,quando diſse: Slautwv gas ó Arxassatoo's heyeces: imperciocchè nc' tempi d' Omicro, Eſculapio non era ancora deificato; trattando Omero comc huono Eſculapio allora quando e' dice, in favellando di Macaone, che egli era figlio d'Eſculapio ec cellentiſſimo medico: Φώτ' Α ' σκληπιά υον αμύμον G- ιητήρG-, Maciò laſciando al preséte, e ritornando al noſtro pro poſito della medicina, dico, che di Peone non s'hà ine moria, ch'Iomiſappia, niuna, fuor ſolamente della Peo nia: Vetuftifima,narra Plinio, inventio paoniæ eft, no menque authoris retinet. MaIo quanto a me giudico, non cffer lui ſtato cotanto valoroſo medico, qual per avventu ra lo ci danno a credere i troppo rozzi antichi; percioc chè altro delle ſue pruqve non abbiaino, che l'aver lui una fola ferita ſaldaca. Perchèè cgli a buona ragion da crede re, che Peone per dovere a cotanta gloria, quanta egli acquiſtonne, condurſi, tutti i buoni, c malvagj contigli adoperati y’aveſe,facendoſembiante alla ſciocca, e fem, D d plice gente,con ſuefruſche,di tar lemaraviglic. E per av ventura egli ſi fu il primo, che ne fe credere cotáte ſcioc chezze della ſua peonia: dicendo,dover'huom quella in lis la notte cogliere, per non eſſer dalle ghiandaje veduto,le quali ſtandole continuo a guardia, crocchiando, e volan do accorron coſto a bezzicar gli occhi di chi la ſvelle; ſen zachè dicono correr colui manifeſto pericolo di cicpargli gl'inteſtini, ſe digiorno la coglie. Novella ſecondochè giudica Plinio, a bello ſtudio ordinata, e compoſta per dar maggiormente ammirazione alla coſa. Ma non che ciò ſia vero, anzi le virtù tante della Peonia cotanto dagli ſcrittoricommendate, e da Peone forſe da prima a quella attribuite, ora in verità tutto vane, e falſe ſperimentate fi ſono: ne ad alcun lieto finc giammai riuſcir ſi veggono. Perchè colſer cagionc alcunidi dubitare, non forſe que Ita noftra Peonia altra fi foſſe, che quella cotanto tenuta in pregio dagli antichi, e adoperata in diverſe lor malat tie. È altri giudicano effer veramente quella; ma per conſervarli nelle ſue virtù vogliono, che ſia in certi tem pi ſolamente, e ſotto cotal coſtellazione da raccoglicre. Ne è da tacere in queſto propoſito, quanto arditamente uccellar ne voglia Galieno, il quale afferma aver lui me delimo ſperimentato, che la radice della Peonia appicca ta al collo de fanciulli, c quivi da lor tenuta, non ſolaine se glidifenda dal mal caduco, ma anche quando già pre ſi ne ſono, facciagli di preſente rinvenire. Malaſciando al preſente Pconc, e trapaſſando a dir d' Apollo, creduto comunemente Dio della medicina: egli è da ſapere, che molti Apelli già furono in Grecia, e cctante, e sì diverſe, e dal vero lótane ſono quelle coſe, che per gli ſcrittoridilor ſi narrano, che ſarebbe certa mente un logorar fuor di propoſito il tempo, il venirle qui ad una ad una a raccontare. Solaméte dirò del figliuol di Latona quelle poche, e confuſe memorie alla ſua me dicina pertinenti, che per quanto lo ſappia a' noſtri tem pi pervenute ſono. E in prima, quantunque Apollo al cuna erba ritrovaſſe ad uſo di medicina, quale è quella percid detta Apollinare, che è una cotal ſpezie di Solatro; Apollo hanc berbam,dice diquella Apuleo, fertur inveniffe, da Aſclepio dediffe,&apollinaris nomen impofuiſſe; inper tanto non è perciò egli da eſſerne cotantoonorato col rag guardevol titolo di Dio della medicina, ficome dal vula go, or follemente ſi giudica; perciocchè in quel medeſi mo tempo, ch'e'fioriva, molto d'altra parte in medicina vantaggiavaſi Chirone; il qual certamente in ciò cotanto di lui fu maggiore, ch'egli inedefino conoſcendolo tale, volle, ch’Eſculapio ſuo figlio per maggiormére profittar vi, da Chircne la medicinaapparaſſe, come da maeſtro di ſe più valoroſo aflai. Senzachè narra Igino,cſſere ſtato Apollo il primicro ſolamente a ritrovar la inedicina degli occhj, non di tutt'altre malattie del corpo umano. Ele disse d’Apollo, Callımaco, che da lui primieramente gli huomini apparato avevano a cellare i pericoli della morte: Κάνε δε θυμαι και μάντιες: έκ δε νυ Φοίβε, Iyisod dedeany, ardermoor Java Toio: ſeguì in ciò certainentc egli la comun credenza della gente volgare, non badando punto alla verità del fatto. Ma ſia pur ciò, comeſi voglia: lo quanto a me immagi gino, che Apollo, o avendo egli col ſuo ſtudio, e colla ſua diligenza rinvenuta cotal medicina a’malori degli oc chi giovevole, o pur da qualche vegliarda appreſa aven dola, a quella adoperare con ogni ſuo ſtudio continua mente intendeſſe; e comechè in quella parte reſo fi foſ ſe ragguardevol molto alla gente di que'tempi, non pe rò di meno egli è da dire, nel rimanéte eſſer lui ſtato mol to rozzo, e dappoco in medicina, e'l ſaper ſuo manche vole affai; ajutandoci a ciò giudicare la comun mellonag gine di que’tempi, e maſſimamente nella Grecia nell'arti più ragguardevoli. E che cotal foſſe ſtato anch'egli Apol lo, in ciò certamente ravviſar fi potrebbe, ch'egli poco alla ſua ſcienza fidando per dovere aggiugnere a gloria di valoroſo, quella parte della medicina a imprender ſi dic de, la quale intorno agli antivedimenti s'adopera;quindi D d 2 poco in quella ancor profittando,peraltre ſtrade ſconce, e ſuperſtizioſe argomentofli di venire a capo de' ſuoi avviſi, apparando dal vecchio Pane l'arte ſcaltrita, cingannevo le del vaticinare. Quindi andato in Delfo, la dove Te. mide dava le riſpoſte, e avendo quivi la ſerpe ingannevol mento ucciſi, la quale gli vietava l'entrata nell'aperturu dell'oracolo, ingombrollo di preſente, e cominciovvi in un tratto maeſtrevolinente a profetizzare; ſcrivendo di ciò Apollodoro quette perole: Απόλλων δε την μαντικήν μαθών παρα του Πανός, του Διός Θυμάρεως ήκεν ας Δελφούς χρησμωδούσης το σε Θέμιδα • ως δε ο φρερών το μαντίον Πύθων ώρις εκώλυεν αυτόν παρελθείν εις το χάσμα και του τον ανελών, το μανλείον παραλαμβάνει. E queſto vien altresì conferinato di Strabonc, il quale meglio ſembra per mio avviſo, che abbia ſaputo la coſi. Dice egli ch'effedo ſtato Apollo ammaeſtrato nell'arte de' vaticinj da Pane, che diede le leggi agli Arcadi, ſe n'an daffela dove la Notte,e la Dea Temide davan le riſpoſte, ed ammazzato il tiranno di quel luogo chiamato Pitone, ribaldo, e terribile huomo,che per la ſua grandearroganza dicevali se zw,cioè Dragone,preſidéte allora della menſa de’ vaticinj, ſe ne impadroniſſe, e celebrar vi faceſſe gli ſpettacoli. Coſtuma poi ſeguita per tanti ſecoli da que gliempi, c fugaciſuoi facerdoti, e miniſtri, i quali imi tando in ciò il loro aſtuto maeſtro, vezzatamente davanj le riſpoſte inviluppate d’enimmi, e diriboboli, intanto, chequalunque caſo poi n'incontraſſe, ſipotea ben dire, eller quello verainente ſecondo il lor divino predicimen to ſeguito. Nc in ciò punto meno ſcaltriti, c maliziofi fi rono dopo Apollo gli altri medici, col tener macítrevol mente mai ſempre i cattivelli malati a bada, e ragionando ſemprea riguardo, c con duplicità, delle lor malattie,per dover ſempre poi indovinare, a qualunque fine il mal ne siulciffe. E quelle fi fur larti, onde in tanta fama, e pregio 2p preſo il vulgo montò Apollo, che guadagnoſsene il titolo k ! maggior medicante del mondo,anzidi Dio della me sna. Misi, e tanto non potè egli con fue afuzicado 1 perare, che di più intendenti, ed avveduti huomini non foſſe ignorante, e poco del meſtier della medicina confa pevole reputato. Ne per pruova altro che talcertamen te potevano giudicarlo, riguardando tutto giorno per mā, di lui, e di Diuna ſua ſorell.2 (la qual medica ancor ella, ritrovò, e diede ilnomeall'Artemiſia) morirſi a centina. ja i miſeri malati, ſenza mai guarirfene niuno. Infra’qua li furono i figli della ſventurata Niobe; di chic eila cotan to dolor preſe, che mancandole ad un tratto i ſentimenti, e riſtretti in ſe gli ſpiriti, ſenza alcun motto fare, chiuſei le pugna, pirò; perchè poi preſer cagione i Poetidi favo leggiare, ch'in fafso ella cambiata ſi foſſe. E quinci nac que poi, ch'eziandio dopo che furono Apollo, e Diana nel numero degli Dei allogati,credevaſi comuneméte, che tutti quegli infermi, che capitavan niale delle lor malat tie, ſe femmine follero, perman di Diana, e ſe huomini, per man d’Apollo moriſscro; perchè Omero, Ε'λθων αργυρότοξ - Απόλλων Αρτέμιδι ξυν και οίς άγανούς βελέσουτ κατέκτεινε. E’l medeſimo poeta finge, ch’Apollo mandaſſe la pe ſtilenza nel campo greco; ne per altro, al creder di Por firio furono poſtele ſaette nelle mani d'Apollo, é ne ven ne giudicato Dio infernale. Qual ſi foſſe egli poi ne'co ftumi, il taccio; eſsendo pur troppo manifeſte a ciaſcuno le ſue infamie, e ciò che avveniffe alcattivel di Giacinto, per fua mano, e a Lino. Tanto mipar, chedebba lo ac cennare ciò, che alnoſtro propofito ſi conviene, cioè, ch ' cgli avvili da prima, e profanò il ſanto meſtier della me dicina, inſegnandola ad Enone in pagamento d'averle tolta a viva forza la verginità, e l'onore; perchè ella co sì preſso Ovidio fi vanta, Me fide conſpicuus Troje muwitor amavit Ille med fpolium virginitatis habet; Id quoqueiaétando: rupi tamen ante capillos, Öraque ſuntdigitis afpera facta meis. Nec pretium ſtuprigemmas, aurumque popofcit; Turpiter ingenuum munera corpus emunt. IR. L:Ipfe ratas dignam medicas mihi tradidit artes, Admiſisque meis ad fua dona manus. Quècunque herba potens ad opem,radixque medendi Veilis in toto nafcitur orbe,mea ef. Ma trapaſsando a Melampo: grande nel vero, e non ordinario fu il pregio, che guadagnoſli oglicolla me dicina, mentre oltre alle figlie di Preto, egli guarà an cora della ſterilità, per quel, che nc narri Euſtazio, Ifi cle, colla ruggine del ferro; comechè ſecondo l'ufan za comune de'medici, maſſimamente di que' tempi, per più ragguardevole render l'opera, facefle egli veduta,do po aver ſacrificato un bue agli uccelli, con diſtribuire a ciaſcuno di eſſi la ſua parte, ch'un avoltojo alla fine croc chiando gli rivclaſſe, che la ſpada, colla quale Iflaco té tò d'uccider lficle, e da quello affiſſa ad un pero ſelvaggio, l'aveſſe reſo infecondo. Ma ben fi pare, che Melampo foſſe di non mezzano intendimento fornito, e che egli for ſe il primo, che cominciato aveſſe a medicar nella Grecia co’minerali. Perchè agevolmente porraſſi argomentare ', l'uſo di quelli eſſere ſtato antichiſſimo nel mondo: comc che per loro poca uſanza, maffimamente eſſendo ſtati ado perati ſempre da medici ſolamente diprima lieva, detto fia, che l'antica medicina nell'erbe ſolamente confiftelſe. Ma come ciò avvenir poſla, che la ruggine del ferro ab bia virtù ditor via la ſterilità dall' huomo, e di diſporlo a potere acconciamente ingenerare, egli non è certamen ce troppo malagevole, ad avviſare a chiunque ben fappia, onde provenir ſoglia cocal vizio nel corpo umano; per. ciocchè ſuol'egli naſcere talvolta dalla ſoperchievole ace toſità de'lughi: alla quale ammendare fa certamente gra diſſimo proil ferro, e maſſimamente la ſua ruggine; la quale oltre che non ſuole alle viſcere quella gran moleſtia cagionare, che la limatura diquello talvolta apporta, el la preparata dagli aliti acetoli del nitro, e del fal ma rino, che continuo per l'aria diſcorrono, i qual eſsendo più ſottili affai di quelli fpiriti, che per arte li fanno, più cfficace, e profitcevole ſi rende di quella ruggine, che per ! man de'Chimici maeſtri li lavoraziinperciocchè è più accô. ia a meſcolarſi colle ſottiliflime, e acute particelle, che travagliano le viſcere. E di ciò fenne più volte pruova quel celebre Franceſco medicante Riverio il vecchio. Ma ſoſpettar p avvétura alcú potrebbe,che o nell'Egit to, o nella Fenicia in ſicmecoll'uſo delle purgagioni una tal medicina Melampo da, priina appreſa avelle; percioc chè, focondamente chenarra Erodoto, egli dell'Egitto alla Grecia, inlieincco'ſacrifici di Bacco, molte, e molte novelle ufanze reco: Εγώ με νύν φημί Μελάμποδα γενόμενον άν δes oφoν, μαντικήντα έωυτή συσή σαι, και πυθόμμoν απ’ ΑΙ' γύπτου άλα και πολλά απηγήσασθαι Ε΄ληση, και τα περί τον Διόνυσον ολίγα αυ των πειραλάξανά. Tanto, e tanto oltre portoſli nell'arte col ſuo altiſſimo intendimento Chirone, che non ſolo all'indebolite parti del corpo, come Maſſimo Tirio racconta, con efficaci ar gomenti la ſm.rrrita ſanità egli ſi vedea tutto di rivocare's m.i agli animi ancora utiliſime medicine appreſtava. Ne ſolo fu cgli (per quel, che n'avviſi Stafilo ) eccellente in filoſofia, e in aſtronomia; ma valſe ancora affai nella mu fica, e in modo, che ſeppe, come il medeſimo Stafilo, e Boezio narrano, parecchjinfcrinità coll’arinonia della ſua cetera guarire;e fu cotanto vago di ſpiare i ſegreti del la medicina, che in volontario eſilio lungi dalle Cittàan doffene aid abitar nelle ſelve, per poter ivi a più bell'agio la natura, e le complellioni dell'erbe inveſtigare; nel che s'adoperò egli si bene, che inventor della inedicina dell' erbe ne venne comunemente tenuto: e da altri inventor di tutta quanta la micdicina fu detto; e in cotanta fama, e grido crebbe, che non iſdegnarono (come narran Filo ftrato, e Zezze) per appararnela medicina, d'abitar con e To lui entro la grotta del moute Pelio,oye egli ſtanziava, Telamone, Peleo, ed Achille, e Giaſone, ed Ariſteo, ed Ercole, c Teleo, ed altri: huomini di gran pro, eva lore; i quali, coine laſciò ſcritto Maffino Tirio, egli in continue fatiche d'ogni ſorte eſercitando, e nelle cacce, e nel corſo, facendo loro giacer nella nuda terra, e per burrari, e per aſpre vic affaticandogli, e dando lor fcrini cibi mangiare, e ber ſemplici acque di fiume, ad un perfettisſimo ſtato di ſanità riduccvagli; e doppia utiliti da tali ſuoi diviſamenti traevan quei grand'huomini; per. ciocchè non pure il modo di ſe medelimi regolare, ma di curar áltri ad un ora apparavano. Neè da tacere, che pcr più profittar egli con maggior copie di ſperienze, media car ſoleva anche i bruti animali; anzi cgli li fu il primo a ciò fare; e imperò venne Itimato figliuol d'un cavallo.Ne per mio avviſo è vero, che alla Cirugia, comealtri ſi dan no a c.edere, e ' ſolamente daſic opera; avendo egli, coine narra Apollodoro, relicuita la viſta a Fenice, il qual fu poi un de ' compagni d'Achille nella guerra Trojana: cù. το υπ του πατρός έτυφλώθη καίGψευσαμένης φθο, Κλυτίας και του πα τζος παλακίδος. Πηλεύς δε αυτον προς χείρωνα κομίσας υπ' εκείνα θε egπευβέντα τας όψεις, βασιλέα κατέςησ: Δολόπων. ΕPindaro an cora par, che voglia dire, che Chirone ogni forte d'inter mità aveſſe mcdicato;poichèdeſiderava,ch'egli tornaiſe in vita, acciocchè aveſſe potuto render la ſanità all'infermo Ierone, perciocchè egli pativa del mal della pietra, co me dice un'antico Scoliaſte di Pindaro, o di fcbbre, com' altri vogliono. Ηθελον χώρωνα κε φιλυρίδας, et Κρεαν του3 αμετέρας από γλάς - σας κοινον εύξαθαι έπες, ζώειν τον απικόμδυον, Io vorrei ch'il Filliride. Chirone, (Se tanto defiar lice a chiſpera ) Tornaſea reſpirar l'aure del giorno: cpoco appreffo,, « δε σώφρων αντιξον έναιεν έπ Χείρων, και 1ι οι φίλον εν θυμώ μελιγαρυες ύμνοι αμέτεροι τίθεν, ατήρα του κέν μιν πίθον, και νυν έσλοίππα αέάν ανδράσι θερμάν νουσών, Or ſe ne l'antro fuo foſe Chirone E che queſt'Inno mio gli foſe grato, Saria mia voglia inteſa A dirle fol tua medica arte adopragi: Onde i mali, ch'induce Eſtremo caldo, bai didomar valore. Diceſi che Chirone tanto valeſſe nella Cirugia, che'l antiche ulcerazioni, e malagevoli a guarire, da luipoichia mate foſſero chironic, o perchè lorluogo aveſſe il valor di Chirone, come vogliono Euſtazio, e Paulo da Egina, o ch'egli foſſe ſtato il primo, che sì fatte piaghe aveſſe riſa-. nate, com'eſtima Galieno. Ma io, ch'alla fama comun degli ſcrittori non così di leggierimilaſcio trarre, a cona feſſar il vero, aſſai dappoco, e rozzo parmi, chefoſſe ſta to Chirone anche in Cirugia; perciocchè egli l'uſo del ta ſto, e le maniere da faſciar le ferite affatto non ſapeva. Perchè ragionevolmente immagina alcuno, che chironic fi dican le piaghemalagevoli a guarire, perchè Chironie prima di tutti foſſe ſtato ad averle; e sì fattamente, che vano riuſcì tutto il ſuo ſtudio, e ſapere, nó che a guarirle, ma ad alleggiare almeno il dolore acerbiſsimo, che quel le gli cagionavano; intanto che a morte poi ne divenne; comeche alcuni dicano, ch'egli da ſaetta folgore ucciſo morille. Ma vengaſi ora alla medicina d'Eſculapio cotanto fa moſa, enegli antichiſecoli celebrata. Tiene Eſculapio, per comun conſentimento degli ſcrittori, il più orrevol grado in medicina, che inedico giammai aveſſe; intanto che meritonne quel famoſo Inno del maggior poeta de' Greci. Di lui varie coſe, e di gran lieva ſi narrano, le quali traſandando lo, alcune diquelle, che alla medicina s'ap partengono ſol brievemente dironne.Già dicevam di lui, eſſer fama, che primad'ogn'altro metteſſe fuora alquante regole di medicina; manon ſembrandole poi all'eſperien za, e alla ragion conformi, alcune correſlene., altre di sfenne affatto, el contrario ne preſcriſſe'; e forſe quelle ch'e'laſciò dopo morte, cancellate in tutto, ed annullate Еe avrebbe, ſe di ciò tare gli foſse avanzato tempo. Credeſi dalla più parte degli ſcrittori, ch'egli a veſse folamente inteſo alla Cirugia, ne d'altre parti di medicina fi foſse giammai intramelso.Ma ſe vogliam prcfar credenza ad Erodoto, o qual che ſiaſi colui cheſcriſsc il libro detto in troduzione, overo, il medico: egli è da dir, che di cia ſcuna parte della medicina egli pienamente ſi conoſceſse; perciocchè quivi leggeſi, ch’Eſculapio fu quello il qualow ritrovò la perfetta, e in tutte ſueparti compiuta medicina; e Pindaro parimente dice, ch'a lui accorrevano per curar (i non ſolasiente i feriti, ma i febbricitanti ancora, c que ch'entro d'altre malattie erano magagnati: τους με ών όσοι μόλον αυτοφύτων έλκέων ξυνάονες, και πολιώ χαλκώ μίλη πτωμένοι, ή χερμάδι τηλεβόλω, À Deenvã Avei nego tórefwoodśuas, και Xepewo, aurons amor, áa λοίων αχίων εξαγεν • τους με μαλακαίς επαοιδαίς αμφίπων, τους δε προσανία πί νοντας, ή γύoις περιάπων πάντοθεν * φάρμακα και τους δε τοματς έπασιν ορθούς. Quindi veniano a lui le ſchierea volo De’languenti infeliciegri mortali, O traejjero in fen fiftola,o piaga, O dapietre, odaferro aſpra ferita, O pur nafceffeil duolo, Da'diſcordi fra lor femivitali, Ogni dolor, ogni tormento appaga: Porge con molli incanti a queſti aita, Ed a quei con bevande il malor toglie Per un farmacod'erbe inſieme aduna, Per altro acque raccoglie. A chi con tagli induſtri, e Cirugia, Drie 1 1 1 Del Sig.Lionardodi Capoa. 219 Drizza le membra, e fero duol travia, E prima l'aveva chiamato difcacciatordi tutti mali Ασκλαπιών άρω παντοδαπών αλεκ' ήετανούσων. Ffculapio s'appella, Sourano Eroe diſanità perfetta, Có'ogni morbo da lbson caccia, e ſaettai Egli non ſembra veriſimile adunque ciò, che dice P12 tone, ch’Eſculapio traſcurato aveſſe quella parte della me dicina, la quale ſuole il cibo agl'infermi diviſare. Ma fo pra qualifondamenta egli appoggiato aveſe il ſiſtema del la ſua medicina, egli è malagevol molto ad inveſtigare; perciocchè nc libro alcuno dilui c'è pervenuto, ne ſenten zaveruna ſua appo altri ſcrittori ſi ritrova. Tanto ne vie ve accennato appreffo Platone,ch'egli inſegnato n'aveſse esſer.nel corponoftro molte, e molte coſe infra lor nimi. chevoli, e tenzonanti; e di loro abbiſognar,che'lmedico diſcreto ne rintuzzi, e raccheti le contele, e vadale pian piano co’ſuoiargomentirappaciando; e queſte diſcordá ti coſe vuol egli, che ficno il freddo, e'l caldo: l’amaro, e'l dolce: il fecco, e l'umido, e altre sì fatte. Ma ſe altro di ciò non ritrovò in medicina Eſculapio, certamente è da dir, che troppo ftrabocchevoli le lodi immeritevolmé te gli addoffaſſe il buon Erodoto; -e ben ne potrebbe egli a buon concio eſſercontento di meno; imperocchè, non che egli l'intero compimento aveſſe giammai dato alla medicina, come Erodoto immagina, anzine men la pri mabozza, per que, che fi ſappia, certamente le dicde.' E che mai potrà il medico ritrarre dal ſapere, che s'abbia no le diſcordanti parti ad accordare, o che queſte nel cor po umano ſi trovino, ſe poi più avanti non ſappia minuta mente, ove elle fiano allogate, ove ſia il dolce, ove lama ro ', ondeil freddo, onde il caldo -s'ingeneri, onde la lor nimiſtà provenga, in che la lor natura conſiſta, con quali argomenti poſſan porſi d'accordo, come vuotarli, qualo ra lien di foverchio rigoglioſe, e ſtrabocchevoli, o am mendarſi qualora piggiorino,o porger loro ſoccorſo qua Ee 2 lora infievoliſcano; che per altro quel, che ſappiamo averne diviſaro il grandiſſimo Eſculapio, ad ogni huom di contado agevolmente potrebbe occorrere,ed eſſer ma nifeſto. Affai rozza dunque, e imperfetta oltremodo fu ſenza fallo d'Eſculapio la medicina, ne sì grandi, e rag. guardevoli furono i ſuoi trovati,come huomdice; e ſc cgli oltre all'accennate coſeritrovò qualch'erba, anche i ruſti ci, ei bruti molte, e molte n’han ſapute ritrovare;nę grād' acutezza d'ingegno per ritrovar il taſto, oʻl modo di fa ſciar le ferite abbiſognava, o per trar fuora i denti dalla bocca, che lo perme non vo torgli queſt'altra gloria, co mechè Cicerone ad un'altro Eſculapio l'attribuiſca colà ove dice. Aeſculapiorum primus Apollinis, quem Arcades volunt,qui ſpecilluminveniſe, primuſque vulnus obligaviſ fe dicitur. SecundusſecundiMercurii frater: is fulmin percujus dicitur humatus effe Cynoſuris. Tertius Arſippine Arſinoe:qui primus purgationem alui, dentiſque evulfio nem, ut ferunt, invenit. Ne ſembra punto vero quel,che Diodoro dice d'Eſculapio,ch'egliparecchjinfermi co'ſuoi argomenti guariſse; onde fe poifavoleggiare altrui,ch'e gli aveſſe richiamati anche in vita i morti; imperocchè Strabone, graviſſimo autore, e degno ſenza fallo, che gli ficreda aſſai più che a Diodoro, chiaramente dice, che lo gni furono d'huominiozioſi, e ſcioperati, quali certame te i Greci ſi furono, le cure tutte ad Eſculapio attribuite. E Celſo in lode d'Eſculapio altro non ſeppe dire, ſe non fe, cſſer lui ſtato ricevuto nel numero degli Dei, perchè l'arte della medicina aſſai rozza,e materiale in que'tempi, aveſſe alquato dalla ſua groſſezza forbita: quoniam adhuc rudem, a vulgarem, dic'egli, parlando d’Eſculapio, banc fcientiam paulòfubtilius excoluit, in Deorum numero rece ptuseſt. Convenne adunque certamente, ch’Eſculapio có l'uſate frodide’medici la ſua grandiſſima debolezza ap piattata tenelse; imperciocchè cgli,come Pindaro dice, li valle dell'incantagioni; ma più nc ſi fa manifeſto in ciò che San Cirillo ne ſcrive, ch'egli intento oltremodo alle guadagnerie, continuó con giunterie, ed altri rei artifici andato ſe ne foſseper io inondo diſcorrendo (il che mol to ajutar ſuole i medici, ad acquiſtar fama, e pregio ) offerendo liberamente a ciaſcun, che biſogno n'avel ſe il ſuo meſtiere e dove che giugneva prometten do le maraviglie. Così egli vanagloriando per tutto, ſe non huono mortale, ma celeſtiale Dio eſser diceva, e millantaya temerariainente il ſuo valor diſtenderſi fino a riſucitare i morti. Le quali arti, e giunterie, acciocchè poteſse a fine più acconciamente condurre, ſi pensò egli, che l'iſpida, e folta barba nudrendo, e laſciandola a gui ſa dicaprone lunga ſcédergiuſo dal méto al petto avreb be più di leggieri alle ſue trappole trovato crcdito. E sì il fece egli, e con tanto vantaggio adoperovvili, che ſervì d'eſemplo a tutti i medici appreſso. Il che diede forſe cagione a Luciano di far dire da Momo ad Apollo, ch'egli non operaſse come fanciullo, ma favellaſse ani moſamente, é diceſse luo parere, ne fi vergognaſse ad ar ringare per non aver barba; perchè era ſuo figliuolo Eſcu lapio, il qual così grande, e lunga, e folta l'aveva üst menn μaegκιεύε πεος ήμας, αλα λέγε θαρρών ήδη τα δοκάνα, μη αιδε. σθεις, αγένειο» ών δημηγορήτις, και αυ% βαθυπώγωνα, και ευγέ ναον έτως τον έχων τον Ασκληπιόν Vì ha chi vuole, ch’Eſculapio a quella guiſa appunto, che a'noſtriciurm.dori veggiam fare, portaſse ſecole ſerpi: e che per riſparmio camminaſse a piedi: e che que ſta ſia la vera cagione perchè alle ſue ſtatue, o ritratti ſipo neſse in mano la ſerpe, e'l baſtone; ſopra le quali coſe poi ſognate ſi ſono tante, e tante fraſche di allegorie per gli ſcrittori, chemolto lunghe, c nojoſe farebbono a rac contare. Ma vie più dopo inorte crebbe in fama, edono re Eſculapio, tanto era folle, e cieca allor la gentilità: perchè glivénero alzati in diverſe parti delmodo,e parte, e per materia ricchiffimi tépj, co maraviglioſe,e belle ſtatue dimarino, d'avorio, d'argento, e d'oro, e medaglie infini te furon ſtampate colla ſua effigie; e sì, e tanta era la fede, che aveyano gli huomini in lui,che i ſuoi tempj ſempremai ſi vedevan pieni d'infermi, trattivi d'ogni parte; i quali # di notte, edi giorno quiviil ſuo ajuto aſpettando ſe ne gia cevano;e per tacer d'altri, abbiam di ciòmeinoria nel Cure culione di Plauto, dove del ruffiano dice Fedromo a Pa linuro: Id eo fit,quia hic leno ægrotus incubat In Aeſculapii fano; e così ſtandoimalati,venivan loro i facerdoti malizioſi, fcaltriti, facendo veduta dinulla ſaper dimedicina, o del male, che coloro avevano; quindi appreffati all'oracolo fingevan ch’Eſculapio rivelato loro aveſe il medicamento all'orecchio. Talorapareva,ch’Eſculapio medeſimo all'infer mo in ſogno additaſse il rimedio;c ciò per avventura avve niva tra per lo aver lui guatato ffaméte il giorno la ſtatua d'Eſculapio, c per li lunghi ragionamenti, che dietro a tal materia coʻminiſtri dei tempio avevan forſe tenuti, i quali avevangli per avventura le maraviglioſe cure d'E fculapio narrate vero per aver inteſo quel rimedio fterfo da'incdici,o da’altri. Ma pur v'aveva fra' Gentili huomini di ſcalcrito intendimento, chea ciò niuna credé za preſtavano, come Filoſtrato narra di Filemone;al qua le avêdo in ſogno detto Eſculapio,che s'egli voleva guari re dalla podagra, conveniva, che ſi afteneiſe dal bere fred do, egli deſto poi la vegnente inattina diſle ad Eſculapio proverbiandolo, c che altro rimedio o valent' huomo a nreſti tu dato, le medicar avelli voluto un bue? E ſe mai interveniva, che alcuno (o che'l rimedio, o ch'altro ca gioné ne foſſe ) guariſſe, oltra’doni, che coluiagli altari offeriva, toſto alle mura un'effigiata tavoletta, a perpetua memoria della ricevuta ſanità appendevaſi a gloria d'E ſculapio; perchè poi ſe ne traſcriſfero nc'libri de' medici parecchj rimedj; c delle dette già tavolette, anche a' di noſtri ſe ne vede alcuni; delle quali per eſemplo vi ridur rò a memoria quella pietra, in cui fu regiſtrato, che di ſperato da tutti Giuliano per unvomito di ſangue,eſſendo ricorſo all'oracolo, n'ebbe riſpoſta, che veniffe, e da tro altari piglialle pinocchie di quelli per tre giorni con inic le mangiaſſe; ed in tal modo liberato colui, lefe le grazie alla prefenza di tutto il popolo, αίμα αναφέροντα Ιαλιανώ, απηλπισμλύω υπο παντός ανθρώπε εχρημάτσεν ο θεός ελθών, καιεκ τα Βιβώνκαι άραι κόκκος προβύλες και φαγών μετα μέλιτG- επι της ημέ. φας, και εσώθη, και ελθών δημοσία ηυχαρίσησεν έμπροσθεν τε δήμε. Ma trapallando alla medicina d'Ercole;ſe Ercole come fu in medicina, foſſe così ſtato valoroſo Ne l'ardue impreſe del ſanguigno Marte, non avrebbe certamente ripieno il mondo delle ſue mara viglioſe prodezze, ne ſtancate di tanti, e tanti ſcrittori le penne per celebrarle. Ma ciò non ſi dee punto a neglige za attribuire, o a poco intendimento, ch'egli avuto avef ſe; perciocchè logorò egli gran tempo, egran fatica ad imprender la medicina; e fu sì profondo, ed acuto il ſuo intendiinento, ch'ei ſi fu il primiero a comprendere, che per ta fimilitudine, la quale i Chimici chiaman ſegiratu, ra, ravviſar ſi poteſſe la complesſion delle piante'; e per uſo propio ſe nevalſe allor,che preſso a morte ferito dal l'Idra, ricorſe per guarire alla Dragontea, la quale coll? Idra ha alquanta ſomiglianza; quantunque egli poiso per tener ciò altrui naſcofo, o per più ragguardevol renderli appreſso la gente, o per altra cagion, che ſi fofse, infin. geffe ciò dalla riſpoſta dell'oracolo aver apparato: il qua le l'aveſse impoſto, ch'egli ſi inetreſse in camino verſo la dove naſce il ſole; perciocchè quivi al valicar d'una rivie ra aurebbe ritrovata un'erba ſomigliante all'Idra,colla quale lc ferite da’morfi dell'Idra fatregli poi egli aurebbe ſicuramente potuto medicare, eguarire. Io non ſo, ſe collo intendimento G foſse Ercole tanto avanti portato, che foſse giunto a penetrar, che la Dragontea col ſuo fab volatile acuciſſiino, del quale eila oltremodo è abbon devole, forza aveſse di ammendare l'acetoſità, in che co filte il guarir delle piaghe; ma la medicina non era allora tanto oltre paſsata, che aveſse potuto sì fatte ſottigliez ze ſcoprire. E queſta, e non altra dovette eſsere la cagio NC, per la quale Ercole non potè nella medicina sì eccel lente divenire, e che guarir non poteſse egli le piaghe al fuo maeſtro Chirone, comechè gli veniſse fatto di guarir la moglied'Achille preſso a morte ridotta; onde poi Eu ripide finſe nell'Alceſte, averla lui da morte riſucitata: E queſto è quanto Io ho potuto raccogliere della medici na d'Ercole Tebano fra le tante,e tante varietà degli ſcrit ti, iquali così di lui confuſamente ſcrivono, che nulla più; dicendo Varrone, eſsere ſtati quarantadue famoſi huomini di tal nomé; altri dodici, altri tre, altri due, e Ci cerone ſei;ed evvi ancora, chi porta opinione, non eſser mai ſtato sì fatto huomo al mondo. Ma della medicina d'Ariſteo figliuol d'Apollo, o pur di Giove, come altri giudica, non ne vengono ſcritte, per quanto lo ſappia, ſe non certe poche, e confuſe memorie; ſolamente ſap piamo da Cicerone, e dallo Scoliaſte d’Ariſtofane, che Ariſteo aveſse ritrovato il modo di far l'olio, il miele, e'l Gifo.ΆρσαίG- δε ο Απόλλων G και Κυρήνης πτώτην την εργασίαν τα σπλ. φίον εξεύρεν, ώσπερ, και το μέλλG-. Infegno parirnente Ariteo meſcolare il vino col miele, per quel che dica Plinio: Ari Seusprimus omnium in eademgente,melmiſcuiſe vino fua vitate præcipua utriuſque natura ſponte provenientis: e non fi dee tacere ciò, che d'Ariſteo dice Giuſtino: Arifteum in Arcadia lase regnaffe, eamque primum, apum, á mellis ufum, &lactis, &coagulihominibus tradidiffe, folftitia. leſque ortus, do federum primum inveniſe. Ma quantun que il filfio, e'l miele, e l'olio, i quali Ariſteo non fola mente ritrovò, ma prima di tutti inſegnonne agli altri me dici la virtù, e la maniera, colla quale adoperar fi doveſ ſero, abbiano recato gran giovamento al mondo;non pe rò di meno s'altro di ciò non fece Ariſteo, non sò locome ei ſi poſsa infra gli altri eccellenti medici annoveraré; m2 pure fu egli di tanto avvedimento fornito, che ſeppe con l'uſate giunterie,e menzogne riparare alle diffalte del ſuo poco ſapere; e raccontaſi di lui da Teofraſto, da Apollo nio, da Cicerone, da Germanico, e da Igino, che eſſendo l'iſola di Ceo dal rabbioſo furor della canicola gravemés te percoffa, sì che feccavan le biade, e gli huomini mi ſeramenre morivano, eche avendo Ariſtco al ſuo padru Apollo domandato, come ſi poteſſe a tanta calamità ri parare, n'aveſſe rilpoita,che proccuraffè egli prima di pure garcon vittime, e ſacrificj l’Ilola, la qual era così atro ceméte punica o aver dato ella ricovero agli ucciditori d ' Icario; e quindi pregaffe Nettuno,ſicome Germanico Cé fare riferiſce, coinechè Teofraſto, ed Apollonio Rodio cd Igino dicano aver riſpoſto Apollo, che pregar egli doveſse Giove,ch’allo ſpuntar della Canicola faceſſe per quaranta giorni,ſoavi venti ſpirare, che queſti agli ardori di cotale Hella aurebber dato agevolmente compenſo; cd avendo ciò egli puntalmente cſeguito,ſpiraſſero i promeſli venti, e. ceſſalsero di preſente i danni tutti dal ſoverchiante caldo w?quell'Iſola cagionati; perchè ne venne egli poi Giove Ariſtço, ed Apollo Agreo chiamato, e frale ſtelle in Cie: { o collocato. Or chiper Dio non ravviſa, che una cotat folenne giuntcria imboccaffe Ariſtco a quel rozziſſimo po polazzo, ſappiendo di certo, che il naſcimento delle cas nicola gli ulti venti preceder fogliono, cd accomp2 guare? Venue fomimamente commendato Achille dalla ſonora cróba del greco pocta per le maraviglioſe prodezze da lui nella guerra Trojana operate;ne altro quaſi in tutta l'Ilia de raccontaſi, che l'invincibil fortezza d'un tanto Eroe; ne in quel divino pocma ſenza lunga maraviglia legger fi pofiono le ſanguinoſe battaglie, ele ragguardevoli im preſe d'Achillc.Ma doveva egliper mio avviſo da non mi nor pocta d'Omero eſſer altrettanto commendato per la contezza, e perl'eſercizio cli'egli ebbedella medicina e con tanta maggior ragione, quanto più generoſo, e più magnifico ſenza fallo è il dare, che'l torre altrui la vita. E ben'egli conobbe di quanta loda meritevole e ſe ne rés deſſe, che però appo Stazio egli vantoſfi eſſergli ſtata in fra l'altre coſe la medicina ancora da Chirone fuo Avolo inſegnata. Quin etiam ſuccos,atque auxiliantia morbis Gramina, quo nimius ftaretmedicamineſanguis: Quid faciat fomxos, quid hiantia vulnera claudat, Queferrocohibenda lues, que caderes herbis Edocuit. Ff Fu cgli tanto ſtimato nel greco campo, in medicina,ch' Euripilo gravemente ferito, volle effer ſolamente da Pa troclo medicato, perchè eglifoſse compagno d'Achille, c'l vero modo di medicar le ferite n'aveſse apparato; Νίζ υδαπ λιαρώ, επί δήπια φαρμακα πασσε Ε'εθλα, τα σπ ποπ φασίν Αχιλήφ»δεδιδάχθαι. Ma ſopratutto vien commendato Achille per aver co noſciute le cagionidella peſtilenza, che allor travagliava ſommamente il campo greco; e per aver anco ritrovato il Millefoglio,per lui detto Achilleasil quale anche a' dì no ftri molto giovevole alle ferite, e ad altri parecchj malili ſperimenta; e ſomigliantemente per aver riſanato Telefo, nella cura del quale adoperò egli la ruggine della mede fima lancia, colla quale ferito cgli prima l'aveva: Eft, rubigo ipfa, ſcrivePlinio, in remediis, cific Telephum pro diturfanaſeAchilles, five id area, fiveferrea cufpide feo cit; ed in un'altro luogo il medeſimo Plinio dice: arugi nem inveniſe, utiliſimam emplaftris, ideoque pingitur ex cuſpide decutiens eam gladio in vulnus Telephi; avvegna chè altri vogliano averlo egli con l'Achillea guarito,ed al tri, con l'Achillea, ccon la ruggine del ferro. Perchè moſtra, ch'egli fu il ſecondo, cheſi fappia infra'greci me dici, che i minerali adoperati aveſſe in medicina. Ma po trebbe per avventura alcun ſoſpettare, e con qualchera gione, non egli applicua aveſſe la ruggine del ferro alla Jancia imbagnata in fangue d'Euripilo, non già alla feri ta di lui; e che gli ſcrittori, i quali la biſogna pienamente non coinprendevano,contentati ſi foſſero ſolamente di di re, che l'atta d'Achille modelima faceva, e riſanava le feri te. Il che ſe vero foſſe, non moderno ritrovato, ma ben molto antico da dir ſarebbe la cura, che chiaman ſimpa tica nclle ferite. Dice Plutarco, che Achille intendente foſſe del modo di guarir colla dieta, e ch'egli trovaſſe con ragione, che i corpi, i quali avvezzi in prima alle fatichc, in proceſſo di tempo poi le laſciano, e li ripoſano, toſto triſtanzuoli, e cagionevoli, e languidi di compleſſione divengono; e però dice che egli ſoleva far paſcere a cavalli che avevā ma gagnati i piedi per l'intermeſſo eſercizio, l'appio rimedio grāde a tal male.Macon pace pur di Plutarco, Io non ſo, che gran coſa queſta fi ſia; ne per eſſa, ne per l'altre di lui narrate coſe ſi può dire in verità, che Achille gran medi co ſtato e’ſi foſſe. In quáto poi alla cura ſimpatica delle ferite: lo p me la ſtimo favoloſa invētione del Valentini; e forte mi maravi glio, che tanti, e tanti valent'huomini vi fi lieno oltremodo affaticati, in contendendo alcuni cheper ſopranatural po tenza doveſſe quella intervenire; e altri ciò coſtantemente negando; e cercando d'inveſtigarne altronde la vera ca gione; ma, ne queſti, ne quelli avviſano, chele ferite tal volta,eziandio più gravicpericoloſe ſenza rimedio alcuno guariſcono; perchè non ſi può trarre argomento niuno dal. la lor guarigione a pro della ſimpatica medicina. Io non ſaprei ridire ſe Palamede inventore di cotante; coſe, ch'abbiſognano alla vita degli huomini aveſſe anco ra in medicina qualche bella curioſità rinvenuta; avvegna diochè ſia molto veriſimile, ch'egli ciò facerſe, come colui, che di natura era molto acconcio a filoſofare; in tanto, che ne venne appellato noivoo PG, cioè a dire il ſavio di tutto, come leggeli in molti verſi fatti in ſua loda; quantunque Omero non faccia di Palamede menzione alcuna, o per invidia, che gli aveſſe, perchèegli era miglior poeta di ſe, o pure per renderſi grato a ſucceſſori d'Agamennone, ili tra'l quale, e Palamede fu mortal nimiſtà; impertanto li ſcorge manifeſtamente in altri ſcrittori più degni di fede aſſaidi Omero, eſſere veramente ſtato Palamede il più fa vio di guerra di tutti greci,e in prodezza non puntominor d'Achille. Madi ciò ch'operaffe in medicina Palamede', altro non ne abbiamo,ſe non ſe ciò che ne racconta Filo { trato; il quale l'introduce una volta a dire, che a chiunque voglia preſervarſi dalla pefte, faccia meſtierimangiar po co, e affaticarſi molto, e che così egli avvezzati aveſſe a viv ere i ſuoi ſoldati; perchè poi la crudel peſtilenza da Po to nella Città dell’Elleſponto, ed in Troja appiccata, aw ni un de’greci noja mai diede; comechè eglino fi foſſero in Ef 2 peſtilenzioſi luoghiaccampati. Ma quanto cotali avver. timenti lontani dal vero ſieno, non ha tra noi,chi non l'ab bia non ha guari pienamente ſperimentato; e però di più dirne al preſente mirimarrò. La medicina di Patroclo compagno d'Achillo, e di Po dalirio, e Macaone figliuoli d'Eſculapio, che ſerbaraſſi eterna, ed immortale nella memoria degli huomini mercè del ſovrano poeta greco, che ſi diè cura di cele brarla: ſembra ad alcuno, che ſolamente nelle ferite s'a doperaſſe; e veramente a riparar i dannidellapeſtilenza, che nel greco campo faceva fieramente ſentirti,non ſi leg. ge in Omero, che in coſa alcuna, o Podalirio, o Macaone, o Patrocło mai s'adoperaſſero: avvegnachè la cura de’ga voccioli, e d'altre enfiature, che ſuolo cotal morbo cagio nare, alla Cirugia dirittamente s'appartenga; la qual coſa vien raffermata ancheda Celſo, allor che facendo men zione di Podalirio, e di Macaone, dice: Homerus non in peftilentia, neque in variis generibusmorborum aliquid at tuliſe auxilii, fed vulneribus tantummodo ferro, & medi camentis mederi ſolitos elle propoſuit. Ma con pace pur di Celſo, dall'aver ciò taciuto Omero non ſi può certamente argomentare eller loro ſolamente ſtati cerufici; e fe noi medicaron la peſte,forſe ciò fecer eglino per non tracollar dal loro buon nome in medicar quel morbo, cui non v'ha rimedio alcuno, e che l'antichità credeva,che ſolamente gli Dii poteſſero riſanare; ne ha ſembianza alcuna divero, ch’Eſculapio lor padre,emaeſtro la Cirugia ſola loro infc gnaffe; ſenzachè(comeavviſa Eulazio ) Podalirio, non ſolamente curò diverſe infermità: ma prima di tutti, come egli dice, gittò le fondamenta della razional medicina. Ma a quale ſtato di perfezione la medicina per Podalirio Macaone, e per Patroclo uſata montafle, dal poema mag giore d'Omero ſi può agevolmente comprendere. Primie. ramente ſolevano in medicando ſucciartalora eglino colle labbra il ſangue delle ferite; e'a tal modo Macaone medi car ſi vide a Menelao la piaga fattagli da Pandaro, Aύ πιο επα δεν έλκG- ' έμπιστ πικρος οιτς Αίμ' εκμυζήσας επ' άρ' ήπια φάρμακα είδως Πασσα. Sem.,per Sembrare egli potrebbe per avventura ad alcımno il ciò fa re vano, ed inutile, anzi per l'umidità della ſaliva alles ferite anche nocevole ciò li pare, ſenzachè è ſtomachevol coſa, e pur troppo alla dignità de'medici ſconvenevole Nero io, comeil primo Baron dell'oſte greca, e nipote diGiovediſavanzando dal ſuo pregio, inchinar ſi poteſse ad una sì vile, e vituperevole opera. Non ſolo permet teyan poi coſtoroa'feriti mollidi fudore, edi ſangue, pu re allora uſciti dalla battaglia, lo ſtarſene giacédo all'om bra, ed al frelco ventilar de’zefiri per riſtorar dolcemente la ſtanchezza; ma lo ſteſso medicante Macaone dopo ch? egli fu ferito ciò fece: οίδε έδρώαπεψύχοντο χιτώνων Irávte ne Ti Tvorni zaregi og ános. Ma quanto polfa nuocere il vento ad huomini anchei faniqualor eglino molli di ſudore fiano,non che a’feritija? quali feoza fallo per lo minor danno inacerbir puore les piaghe, non è chi noʻl fappia. Ponevano altresi medica do alla groffa, entro le ferite,radici d'erbe crude, e ſem plici fenza eller punto confattese preparate ad uſo de’me: dicamenti: επί δε ρίζαν βαλε πικρών χερσι διατρέψας. Ma inolto più ſciocchi, e più rozzi furono i loro divi famenti intorno al regolainento del vitto degl'infermi; eglino cibavangli di groſse cipolle, e di miele κρόμμυρν ποτώ όψον, Η δε μέλι χλωρον παρ' δ' άλφιτα ιερά ακτήν. edavan loro berc il loro ufato contadineſco Ciceone; bem veraggio il qual di farina, e di cacio di capra, e di più grá di, e poderoſi vini delle Smirre componeyaſi Πινέμαι δ' εκέλευσεν επαρ' όπλισε κυκεώ. E queſte fono le care, e falucevoli vivande, e beverage gj, che la belliſſima Ecamede concubina dell'antico Nem ftore dava loro; i quali non iſcherni, ne rifiutò il medefi mo Macaone,ſenza conſiderare, ne pure un menomori ſchio d’infiammagione, che agevolméte ſeguir ne poteva Ma ben ſo lo, che di fomiglianticoſe, ed in pro, ed in contro diſputando, veriſimilmente dir ſi potrebbe, che no già eglino ſomigliantiguiſe di sì reo, eſconcio medicar praticafsero; ma che Omero a ſuo talento le finga, poco eſsendo della verità informato; che ſe ciò vero foſse, lo non ſo come infra gli altri cotanti pregj inveſtir ſi potreb be ad Omero l'eſser lui ſtato di tutte ſcienze, più di qua lunquc altro maeſtro,affai ben conoſciuto; nihil unquam. ceciniſe, dice Pier Laſena, quod nun prudenter excogita tum,ex induſtria diſpoſitum, &in alicujus rei utile dixeris documentnm. Potrebbe anche dirſi, eſsere il Ciceone di que' tempi valevole, a ſtagnar il ſangue delle ferite, o pure a ſciorlo, ove egli fia rappreſo, e corrotto; avve gnachè Platone dica eſser molto nocevole cotal beverag. gio a’malacije oltre all'infimagione,che apporta, ingene rare anche non poca flemma;e per avventura con più falda ragione potrebbeſi delle cipolle dire, che per lo lorotale aguto, oltre allo ſcioglimento del ſangue potrebber'an che difender le ferite dall'accroſità, da cui certamente la febbre, e'l dolore, e lamarcia,e l'infiammagione,e tutt' altro male a'feriti avviene. E ſe pure coloro uſava no con ſemplici radici, e crude, medicar le ferite, ciò era, perciocchè eglino ben’avviſavano eſserl'erbe cotanto più giovevoli, e vigoroſe, quanto più ſemplicemente ne ſon dalla natura ſomminiſtrate, e che col tanto confarle, e ma cerarle, e logorarle ad ufo delle noſtre medicine, manchi alla fine, e ſvaniſca ognilorvigore; fe pure nonvogliamo dire, eſsere ſtate di tanta virtù, e di si ſaldo giovamento da’ medici ſperimentate, che ſenza confettarſi punto,o sé. za contiglio dimeſcolamento niuno le più gravi ferite ma raviglioſamente ſaldavano; ne a ciò foſse itato anco me. ſtieriregolamento alcuno di mangiare, o di bere: per ciocchè egli narrafi per coſa certa,che a' tempi più a noi vicini, il Paracelſo,per lo gran valore de'ſuoi medicaméti, poco, o nulla a ciò badando laſciaſse che a lor talento fi nutricaſser gliufermi, facendogli talora ſeco a deſco lie tamente federe, mangiando in brigata; ſenzachè Platon dice, che per eſſer quegliantichi aſſai regolati nel mangia re, e pel bere, non avevan poi gl'infermi biſogno, che regola alcuna intorno a ciò la preſcrivelſe; e finalmente l'uſo di ſucciar le ferite, non eſsere fuor di ragione; impe rocchè cotal medicamento molto fa pro a riparare al gua ftamento del ſangue, traendol fuora delle ferite, e difen dendolo col fuo ſale dall'acetofità, per cui elleno marci ſcono; perchè cotal medicamento a'di noſtri ancora co munemente l'uſiano e, per pruova tutto di ſperimentia mo eſser giovevole a'feriti, e utile aſsai; ficome anche ſi può ſcorger ne'cani: da’quali per avventura Podalirio, e Macaone, oi loro più antichimacſtri ildovettero da prie ma appararc; perchè ſe veggiamo, che cotanto approda a'feriti, perchè ſarà egli da biaſimare?Maper me non cre do, che si facce difeſe loro facciā luogo; imperocchè Ome ro tutto che la incdicina ignoraſse, deſcriſse nientedime no le coſe, o coine di altri ſcrittori venivan narrate, o dal la famaerano rapportate, maſlinamente dove cgli non aveva cagione alcuna d'allòtanarſi dalla verità, o per ren der più vago, c più inır.zviglioſo il ſuo poem 1,0 per altra cagione; ne punto vale l'eſemplo del Paracelſo, imperoc che, ſe pur è vera la ſtoria, il Paracelſo fi ſerviva di bala ſamisì prezioſi, e valevoli a guarir le ferite, che non fa ceva loro d'alero meſtieri. Ma in quanto al Ciceone; egli è una bevanda in verità sì ſconcia, e mal fatta, che ſenza fallo non può ella altro inai, che nocuinentu agli huomini ſani, non che agl'infer mi apportare, che che ſi credan Plutarco, ed Ateneo, i qualinon avviſarono la ſtrana, e nocevole formentazio ne, che'l cacio, il vino, e la farina inſieme meſcolati far poſsono nelle vifcere. Vltimamente, le radici, e l'erbe non preparate, maffimamente l'Achillea, e l’Ariſtologia, colle quali molti antichi ſcrittori ſi credono, che Podali rio, Macaone, e Patroclo medicaſsero, abbondevoli ſo no d'umore acquoſo, e non ben digeſto, il quale oltre che infievoliſce il ſolfo, e l'alcaliloro volatile, in cui law virtù conſiſte, per ſc iteſso altresì egli è ſommamente alle ferite nocevole.... In quanto poi al lavar, come è già detto con l'acqua ſemplice le ferite, non è vero'ciò, che alcunidicono, che ciò eglino-faceffero per iſtagnar di preſente il ſangue;men cre ciò non ſolamente non licſprime da Omero, appo il quale ſi ſuol fermare il ſanguecon l'incantagioni; ina di ce eglichiaramente, che l'acqua, colla quale le ferite li lavavano era calda, e perù più acconcia aſſai ad aprire, che a riſtrignere; al che avendo per avventura riguardo il lati no poeta,con l'acqua allora allora tratta dal Tevere fin ge, che'l ſuo Mezenzio ſi lavaſſe le piaghe. Interea Genitor Tyberini ad fluminis undam Vulnera ficcabat lymphis, corpuſque levabat. Nove, aphyſice, dice ſu queſto il chioſatore Servio, nan cum aqua omnia infundătur,hic aitficcari vulnus ab aqua, Oratio vera eft,quia fluxussăguinis aquarü frigorecôtines Yur.Ma Servio freddamente troppo,per mio avviſo ſcuſa il ſuo Virgilio d'una sì ſtravolta maniera di favellare: ma un tal modo di mcdicar le ferite, con l'acqua lavandole, tut to che ricevuto,ed uſato anche dopo grăde ſpazio di tem po da’Latini, e da'Greci, onde dice Silio purgat vulnera lympha: anzi ſin’al paſſato ſecolo da molti Ceruſici anche coſtuma to, quáto lia nocevole ravviſar puollo facilmente ciaſche duno,che punto abbia d'incendimento;laonde con più lag gio avviſo da’moderni medicanti leferite col vino, o col l'acquarzente, ovc,lor huopo ciò lor faccia, vengon lä vate. Maquantunquc sì malamente medicaſſero Podalia rio, e Macaone, venncro non ſolo vivi, ma anco dopo morte in sì gran pregio tenuti, che furonodi ſtatuc, di té pj, e facrificionorati. Quelle coſe poi, che di Podalirio narra aver letto in al cuni antichilibri Celio Rodigino, elle fon tutte, per quel ch'io micrcda novellette da Romanzi; ciò Zono,degli avendo rotto in invar preilo la Caria, fu ſottratto al pericolo da un'avvenente paftore,e lu’l lido corteſemente accol to; e che poi; il Re di quel paeſe avendone coutezza avu ta, per luimandato aveſſe perchè medicaſſe una ſua fis gliuola, che dalla vetta d'una torre era giuſo caduta; cui egli facendo crar ſangue da amendue le braccia, e con al tri rimedi aveſſe in buona ſanità rimeſſa; di che il padre oltremodo contento magnificamente della Provincia del Cherſoneſo dotatala, data gliele aveſſe per moglie; e che Podalirio nel Cherſoneſo födate aveſſedue belle, ed egre gic Città, una col nome della moglie Cirene, e l'altra col nome di quel Paſtore chiamandone. Convenevol coſa ſtata ſarebbe, che noi ſecondo lo in cominciato aringo ordinatamente procedendo, avellimo molto addietro fatto parole di Teſco, di Giaſone, di Pe. lco, di Telamone, e del ſuo figliuolo Teucro, e d'Erobo te: ora concioſliecoſachè ſcarliflime memorie di loro fien no a noi pervenute, n'è convenuto tacergli; e perciò pal farem ſomigliantcméte ſotto filenzio,'e Nicomaco, c Gor gaſo figlidiMacaone, e d'Anticlea, i quali ſuccedettero al regno di Diocle loro Avolo materno, e come nar ra Paufania, lolevano gl'infermi corteſemente curare, e maſſimamente le dislogate oſla, o membra in buon concio rimettere; onde per grado, gran tratto ne furono come Dij da’poſteri venerati. Ne meno terrò lo ragiona mcnto diSoſtrato,di Dardano, di Cleomitide, di Teo doro, di Criſime, dc'quali oltre aʼnomni, nulla affatto noi non poſſiamo fpere. Ma prima ch'a' più baſſi, e più vicini tempi facciamo paſsaggio,n’è paruto bene il doverci alquanto intertenere a ragionare di quel ſiſtema, del quale Ippocrate fa parole nel libro della vecchia medicina;ritrovato,comepar ch'ca. gli porti opinione, da’primi inventori dell'arte. Or dice Ip pocrate,che quegli átichisſimi e ſagaci inveſtigatori della medicina,faggiamere avviſaſſero,che ne il caldo,ne il fred do, ne l'umido, nc'l fecco, ne altra ſomigliante coſa all' huomo foſſe d'alcun nocumento gianımai; ma di sì fatte coſe il fomino, o l'ecceſso, che vogliam dire, il qual per Gg ſoverchio di vigore, non poſſa eſſer dalla natura ſoprava zato, ſia agli animali d'offeſa, e didannaggio cagione; U queſto proccuravano có ogni ſtudio di reprimere,o tor via; il quale ecceſſo dicevan' eſſi avvenire, qualora l'amaro, amariſſimo: il dolce, dolciſſimo: l'acetofo, acetofilimo divenga;mentre portavano opinione, l'Amaro, il Dolce; il Salſo, l'Acetoſo, il Diſcorrente, l’Acerbo, e altre infi nite coſe di varie, e molte virtù fornite, dovere eſſere di ne ceflità nell'huomo, sì veramente, che fteano frá eſlo lor meſcolate, e confuſe, e l'una temperata dall'altra; che foj mai avvien ch'alcuna di eſſe da tutt'altre appartandoſi, così ſceveratamente ſe ne ſtca, allor fallendo al diritto or dinamento del corpo umano cominci a farſi con mole ftia ſentire, e grave offeſa recare. De' cibi buoni, ed offendevoli, eglino ſomigliantemé te diſcorrevano:dicendo cheil Pane, o altri cibi, onde 1 huom niun male non pruova,ſia dall'accennate coſe, e ſa pori acconciamente temperato, e che quegli, onde alcun danno riceve, abbiſogni ch'una delle già dette coſe ab bia ſoverchiamente d'aſſai. Più avanti volevan'effi, che il caldo, e'l freddo men di tutte le già dette coſe fieno operativi; cd ove rimeſcolici inſiemeneſteano niun danno giammai non facciano; ma quantunque volte ſi leparino,e che o riprezzo, o furiofa febbre perciò hucm ne patiſca l'altro contrario imman tinente accorrendovi, e la furia del tiranneggiante nimico affrenando, toſto venga l'infermo d'ogni affanno a liberar fi. Il che ſe pur non li vede nelle ardēti febbri,nelle infiá magion de'polmoni, ed in altre gravi malattie avvenire, dicevan'eglino, che in sì fatti cali non già dal folo caldo, ma inſieme colcaldo dall'amaro, e dall'acetoſo, o da altra fimil coſa la febbre veniffe generata. Finalmente tutto ciò, ch'Ippocrate dietro a tal materia fiegne a narrare, e come egli prenda a ripigliar coloro che dipartendoſi da queſti diviſamenti,le cagioni di tutti i ma li all'umido, al ſecco, al freddo, al caldo fi ftudiavano d ' attribuire,per eſſer molto lungo, e forſe di poco momen to, lo to, lo tralaſcio diriferire. Ma quanto al fatto del teſte da noi rapportato ſiſtema, egli ne ſembra per le parole del medeſimo Ippocrate, che Apollo, o Chirone, o Eſculapio, i quali è fama d'aver primieramente la medicina inventata, ſtati ne ſiano gli au tori. E quanto ad Eſculapio, comechè contuſamente ne faccia parole Platone, e a guiſa d'huom, che di dubbia, coſa favelli, par che dir voglia, ch'egli in tal modo fi loſofaſſe, ed è veriſimil molto, che dal ſuo maeſtro Chi, rone, o dialcun'altro egli appreſo l'aveſſe: e Chirone da alcun'altro fimilméte di lui più antico: eche poi avendolo Eſculapio altrui inſegnato tratto tratto infino a' tempi d ' Ippocrate per altri andatoſi foſſe avanzando,e a quelter mine condotto, ſicome egli il riferiſce; ma egli è nondi meno per mio avviſo, aſſai manchevole, e ſcempiato, ne Ippocrate interamente, e qualli converrebbe il rapporta; si che ne laſcia cagion di dabitare, che ne men'egli il con tenuto di tal fiſtemi capiſſe. Ne ſembra impertanto, che non già di ſoli medici; madi filoſofanti, e medici inſie me, o di ſoli filoſofanti ſia tal lavoro; e per una tal breve, e confuſa notizia, che può averſene, pur manifeſtamente ſi ſcorge, che non mai dovette cader in penſiero a que gli antichi medici, e filoſofi, che di quattro corpi, che ſon comunemente Elementi chiamati, tutto l'Vniverſo com pongali, i quali diquelle, che prime qualità le ſcuole, appellano forinati, con altre, che ſeconde nominano ac cozzati, i tanto varj corpi miſti vengano a ingenerare; m2 che quaſi infinite particelle di figura diverſe,in varie gui le ora accoppiandoſi, or ſeparandoſi,tuttele coſe faceſſe ro; o per me'dire, e più ſecondo la loro opinione, da tale accozzamento, o ſceveramento tutte le coſe ſi faceffcro in varie guiſe ſenſibili; e che, ne generazione, ne corrompi mento v'abbia in Natura giammai, ficome dice chiaramé. te nel libro della Dieta il medeſimo Ippocrate; ma che ogni coſa, che dinuovo ſimanifeſta, pureravi innázi. Il qual modo di filoſofare, ſe non è appunto il medeſimo có quel di Anaſlagora, certamente da quello non è guari di verſo. G g La maniera del medicare di quegli antichiſſimi medici autori di sì fatto ſiſtema, viene apertamente accennata da Ippocrate quando dice, ch'eglino davano.opera a tor via dall'huomo tutto ciò, ch'eſſendo della ſua natura via più valevole, e no'l potendoella vincere, offefa ne rim.z. ne; come l'amariſfimo, il dolciſſimo, e altre ſomiglianti teſtè mentovatecoſe; le medicine poi a vuotarle voleva no eglino, che ſi daſſero nel tempo opportuno a ciò fare, cioè allor,che per eſſer elleno al dovuto cocimento perve nute, era ceffato il lor impeto, e mitigato il furore; d'on de fi cava, che quegli avvedutiffimihuomini non adope ravan le purgagioni, ſalvo che nella declinazione del nia le; e chiaramente dice ſecondando i lor ſentimenti Ippo crate, che allor, che nell'huomo ſomınamente creſce la collera, in tutto quel tempo, ch'ella ſi trova ſtemperara; cruday e ſincera per arte niuna ſi poſsono, ne il dolore, ne la febbre, che da leicagionanſi mitigare, non che eſtin guere. Macon quali argomenti eglino cercato aveſsero di cuocere, e diridurre al lor primicro ftato le nocevoli materie,Ippocrate non ne tien ragionamento; folamente fi pare, per quanto raccoglier fi pofsa dagli altri ſuoi libri, e dalle parole, che reftè abbiam noi recate,che eglino in ciò non ſi valeſsero de'falasſi. Ritrovò a'noftri vicini tempi un sì facro fiftema, oltre al Paralcelſo, al Severino, ed al Quercetano altri, eal. tri doctisſimi ricevitori; i quali colle tante, e rante cu rioſe, e ſottili dottrine, che viaggiunſero ſommamente il nobilitarono, e lo fecero altro in verità parere da quel lo, che così rozzamente defcritto nel libro della vecchia medicina ſcorgeſi; ma non poterono nientedimeno que' valentisſimi huomini, per quanto mai s'affaticaſſero, e che poneſsero ancora in opera per ciò più acconciainente fare la vital notomia, ritrovar argomento giammai, che effi cacemente provar poteſſe, che nell'huomo, ed in altri corpitante, e tante varietà innumerabili ſi trovino di coſe; laonde degni certamente diſcufa mi pajono que'primi au tori del ſiſtensa,fe ne meno eglino non le vennero in quelli a dimoſtrare; ed in verità lo per me crcdo, che ne me no eglino non aveſſer potuto ciò fare giammai; imperoc chè ſe ſono, come esſi vogliono, in minutisſime particel le diviſe, e l'une coll'altre meſcolate, e confuſe, necon i ſentimenti ſi arrivano a comprendere, ne effetti poſſono produrre, da’quali argomentar ſi poſlá lor ritrovarſi at tualmente nell'huomo, ed in altri corpi, e ſe mai pure in eſso loro talvolta feorganfialcune delle dette ſoftanze di quando in quando venir ſuſo, non ſi può ſapere certa mente ſe vi erano in primanaſcoſe, o le pure elleno da' primi lor femi di nuovo fiſiono ingenerate. Orper diffalta di queſte certezze,non farà egli manche vole, e ſcépiata quella medicina, che preſupponendole, ſu vi s'appoggia? Ed oltre a ciò fe prima diligentemente non inveſtigheraſſi, e giugneraſſi a faper qualſia la natura dell' acerbo, delPacecoſo, e d'altre ſimili coſe, qual contezza de’loro effettipotrà averli, o del loro operare, e delle ma lattic, e della virtù deʼmedicamenti, e del modo d'ufar gli. E forte aggiroffi Ippocrate, ſofifti tutti que' fapien tìſliini filoſofi, emedici nominando,i quali volevan,che il medico foſſe pienamente di tutti gli affari della natura in formato, e intefo minutamente di tutto ciò, onde l'huomo compongali, e quanto al ſuo mirabiłmagiſtero concorra. E parvc al buon huono, che il conoſcimento di ciò antaa più alla pittura, che alla medicina s'apparteneſſe; e ba it are al medico ſol tanto, ch'egli conoſca l'huomo in ri guardo al mangiare, e al bere, che gli convicne. Ma quefto medelimo chi non vede, che non mai poſſa fa perfi, fe la natura dell'huomo in prima, e poi di tutti i cia bi, e beveraggi, e d'altre, e d'altre coſe e non iſcorgaſi. Io nóho preſo a vagliar ciòsche dicefi pariméte,che qua Jora popera del ſolo caldo ſeparato dal freddo fi cagionano le malattie, il freddo v'accorra a dar riparo; che ſomigliati fraſchenõ maiimmagino,che foſſero ufcite di bocca dique' valoroſi átichi;ne fo Io,comeIppocrate fe l'abbia maiim maginar potute. Aurebbono bēdovuto dire eglino, o eſſer mol altra opera, greca, molto, e molto agevolea ritrovare il rimedio, ſe le malac tie dalcaldo, o dal freddo ſolo avveniſſero, avendo noi pronti ſempre tra le mani quegli argomenti, iquali, o ſcal dare, o raffreddarne poſſono; o pure, che il loverchievol caldo, in perdendo le particelle, che fanno il moto, les quali sfumano velocemente, ove non v'abbia coſa, che vaglia a intertenerle,coſto s'ammorti,e venga meno.E ſo migliáteméte eglino ácora dir potevano delfreddo fover chievole,che tor ſi poſſa agevolméte via incótanéte ſenza che della ſola continua formentazione del ſangue. E tanto baſti del più antico ſiſtema della medicina, ficome a noi ne giova credere, al preſente aver detto; onde come d'abbondevole, e larga fonte tanti, e vari ruſcelletri poi d'altri ſiſtemi di razional medicina tratto tratto li diram irono: chenon pur la grecia tuttav, ma alere barbareſche, e più rimöte nazioni allagarono. E primieramente quel ſe ne vide uſcir fuori, di cui ſicome noi teſtè dicevamo fa Ippocrate mézione; il quale dell'u mido, del ſecco, del caldo, del freddo nel filoſofare ſi valſe; e quell'altro purdalmedeſimo Ippocrate accenna to, di coloro, i quali più ſottilmente le coſe fin da’loro primiprincipj fil filo d'inveſtigare li ſtudiavano; ed altri, ed altri Siſtemi ancor covenne,che a que'répi ſi adaffer tut tavia mettendo fuora per que' filoſofi, che in molte, e varie ſchiere eran partiti; alcuni de’quali, come addietro accennammo, ciò fecero per avventura ſol per render pa ga la lor curioſità, e per vaghezza di ſpiarei ſegretidella natura; ed altri per intendere oltre al filoſofare, anches all'opera della medicina, fino a’tempi d'Erodico, oveda prima ad alcun ſembra che dalla filoſofia indegnamente divorzio faceſſe la medicina; le pure alai molto prima, e per opera d'altri ciò non avvenne, e ben’ Ippocrate nel libro della natura dell'huomo, oltre a'già narrati,di quegli altri Siſtemi ta menzione, formati da que'medici,che volevano, o dal ſangue, o dalla collera, o dalla flemma elfer formato l'huomo, Ma tempo ſarebbe omai di patrare ad altro; más poichè non è queſt'opera da dover fornire in brieve ſpa zio di tempo: ed lo tanto oltre mi ritrovo col mio fa-. vellar traſcorſo, che già omai è l'umid'ombra della not te ſopravenuta, egli fie convenevole, che ad un'altra ada nanza l'eſaminamento degli altri ſiſtemi di medicina lo ri ſerbi. KK KE UP) RA: 240 All E quelle gravi, ed acerbe quercle, che veggiam tutto di metterſi fuora dalle pé ne di tanti, e tanti ſcrittori contro le bar bareſche armate, perchè coile più bello meinorie della famoſaGrecia abbia quel le i più prezioſi libri della medicina cru delinente malmenatic diſtrutti: vorrem noi dirittamente guardare, ritroverein per mio avviſo eſſer quelle in veri tà poco ragionevoli, cmenche giuſte doglianze; iinpe l'occhè ſe gli ſmarriti libri della greca medicina eran fimi glianti a queſti, che a noſtre mani ſon pervenuti, fideu certamente ſtimare alſai ben lieve la lor perdita, ne da do Ierſene gran fatto, anzi da non mettere in conto; mare pure quelli di maggior lieva ſi erano, e più vera, e fotril doctrina contenenti, bcn'a torto, s'io pur non vado erra to, oiGoti, o gli Alani, o gli Vnni, o iBulgari, o i Sa raceni di sì grā misfatto accagionanſi; imperchè di coſtoro certaméte niuno giunſe giamai a depre.larc,ed a ſignoreg giare la Grecia tutta; c quãdo ultimaméte il Turcheſco fu rore ſurſe ſtruggédola, ed ingiuſtaméte uſurpádola, cd occupandola inleme colla Città, ſede, e capo dell'Orientale, Imperio, allora preſſo che tuttii libri, che vi avevano della greca nazione,mercè all'induſtria degli Italiani huo mini nelle noſtre contrade vennero traſportati; ſenzachè v'han pure molte Iſole greche, ch'all'Ottomano giogono ſottomeſse dell'antica libertà anche a' di noſtri ſi godo no. La vera cagion dunque della perdita de' più beilibri non purdella medicina, ma delle più nobili arti, e delle più ſovrane ſcienze,non già alla furia dell'armi, o delle fiamme nemiche: non già alla rabbia del tempo di tutte l'umane coſe fiera divoratrice; ma recheſi ad altrettanto più cruda, quanto men furioſa, e mentemuta cagione.Diec tracollo, chi'l crederebbe ! dier tracollo dal lor primo ſplendore le lettere, non per altro, ſe non ſe per manca mento, e per colpa de'letterati medeſimi; c donde atten devan ſoftegno, e riſtoro, quindi ſterminio elleno ebbe ro, c ſtruggimento; conciofoſse coſa,che, ficome talora in bello, e ſpazioſo campo di grano ſoglion naſcer avene, logli, ed erbe ſterili, e dannoſo, e ſoffocarlo, cosìſur ſero tratto tratto nella Grecia fra quell'anime grandi, es valenti, che del vero ſapere eran ſolamente paghe, alqua ti huomini di ſtolido, ed ottuſo intendimento, i quali da vaghezza tratti divano onore, e di popoleſca fama, ogni loro ftudio ponendo in farſi tener alla minuta plebe ſapie ti ſol dieder opera; e tutti intelero a certe vane ombre di dortrine; e perciò laſciando in abbandonamento i buoni libri a conſumar dalla polvere, e a roſicchiar dalle tarme, ſol cura ſi diedero di riſerbare, e di tramandare a' po fteri que’libri, che con pompa, cd arringo di belle parole facevan veduta d'inſegnar tutto quando poco, o niente in lor v'era di pregio; e delle lodi di sì fatti volumi,aven do eſſi riempiute le carte, la troppo credula, anzi cieca, pofterità, come prezioſi teſori gli ha ricevuti, e ſempre mai venerati. Mai voſtri ingegni, o Signori,per cui veggio omai ſcorgerci da miglior lume la verità: mi danno ani mo ch’lo proſeguendo la incominciata tela de’varj ſiſtemi de'Greci medici, vi faccia ſcorgere ad un'ora per la più Hh parte falſe eſſere quelle eccelléti prerogative, che di mol ti ſcrittori va buccinando da per tutto immeritevolmente la fama. La medicina di Erodico,la quale quatūque in vitupere vol guiſa per Platoneſtata foſſe trattata: no però di meno dal gétilillimo ſuo ftilc ella vene sõmaméte nobilitata,ere ſa immortale, per fatica, che vi ſi duri, Io non ſo vede re, come ſi poſſa giammai ad eſaminazione acconciamen te ridurre,poichè d'efla sì poche, e cófuſe memorie avázate ne fono,che appena ne ſi aprirà capo da potere alcun degli argomentiond'ogli fabbricolla indovinare; impertanto a volerne dir ciò che per noi fi può, rammentomi, che Platon riferiſce, Erodico eſſere ſtato miglior maeſtro d'in ſegnare, come gl'infermi eſercitar doveſſero le membra, e ſtropicciarle, ed ugnerle, e regolatamente prendere il ci bo, chedi giovevoli, ed efficaci medicamenti a coloro preſcrivere;perchè e'ne viene dal medeſimo Platone affai Íconciamente vituperato; dicendo, ch'egliin sì fatta gui fa non diſtruggeva altrimenti le malattie, ma le complcf fioni ſolo a poter quelle lungamente foſtenere ajutava; ond' egli paſsò ad affermare la medicina d'Erodico eſſer arte da Pedagogo;imperocchè ficome da coftoro i fanciul lini, così da quella i mali reggevāli; mache di ciò Erodico la dovuru pena aveſſe meritevolmente pagata; imperoc chè della ſua inutil medicina, penofa, e cagionevolvita traſſe continuo, e ad una lunga, e ftentata morte ſempre diſpofta,perocchè da una nojofiffima, e mortal malattia preſo, egli per trovarqualche argomento da ſoftenerla, tutto nello fludio della medicina s’involſe, traſandando tutt'altre biſogne, e ſolo a ciò di forza intendendo, altro non gliene avvenne, ſe non ch'egliebbe a viver si parca mente, e regolato, che ſe mai dall'uſato cibo ſi dipartiva, toſto ritornava ad ammalare, e più che prima cagionevo le diveniva; e a queſta guiſa reſo a ſe medeſimo inutile, e grave peſo, viſſe infino all'ultima vecchiczza; ove di que favita rinereſcédogliil morirc, ſdegnofaméte fi dipartio.E alla finc Platone motteggiandolo conchiude, che una eccellente, e ragguardevol palma e' riportaſſe dall'arte ſua, e talc, qual veramente gliſi conveniva, come a colui, il qual non ſapeva, ch'Eſculapio una cotal guiſa di medica re a' pofteri non aveſſe inſegnata, non già perchè non gli foſſe aliai bé conoſciuta: ma ſi bene perocchè egli ſcorge va,che in una bé ordinata Città a ciaſcun debba eſſere l'o. pera ſua convcncvole aſſegnata, alla qual fornire doven do intendere, mal potevagli ozio lungo avanzare, du potere a ſtéto da una tal medicina attender prò, o riſtoro; coſa, la quale certamente ridevole ella ſembra ſe vien el la mai negli arteficiconfiderata. Reca Platon l'eſemplo d'un legnajuolo, il quale ſe mai, come porta la ſua diſ grazia ritrovali preſo da grave malattia, egli toſto inan dando per lo medico, da lui richiede, che diviſandoglial cuna purgativa, o pur vomichevole medicina, o col fer ro proccuri toſto di torgli ogni inale, e ogni ſeccagin da doſſo;ma ſe allora il medico ſolpreſcrivcſſoglilungadieta, e altri così fatti riguardi, certamente, che colui gli re plicherebbe, non eſſer miga ſuo intendimento di menar il can per l'aja, e foggiacere a una sì nojoſa, e miſerevol vi ta; e così datogli dipreſente il congedo coll'uſata libertà ſe ne rimarrebbe; e ſemai avveniſſe per forte, ch'egli guariffe, ſi viverebbe per innanzi felice; ma ſe il corpo no potendo al mal far contratto ſe ne moriſſe, almen verrebb’ egli ad eſſere da tante noje ſviluppato. E dopo queſti ra gionamenti Platone apertamente una tal medicina caccia via dalla ſua repubblica, come dannoſa, e tale, che i ſuoi cittadini non meno alle lor private biſogne, ch'a quelle del comune verrebbe a fraſtornare, e ritorre. D'una tal materia ſi legge una lettera dello Speroni, con la quale egli va dimoſtrado con vani ſofiſmi,la vita ſobria eſfer no cevole uzi che no; infra l'altre coſe dicendo, la vita ſo bria non poterſi appellar ſana, eſſendo la ſanità un'acci dente, che coll’inferinità, ch'è il ſuo contrario via ſi cac cia del ſuo ſoggetto; perchè ſe nella vita ſobria non può effer inferinità, non può eſſer (anità vera; c ſe tinto, e non più fi mangia, quanto baſta al vivere noi ne coin H h 2 batteremo, ne cămineremo,ne falteremo giámai, ne potre mo ciò fare, perchè non averemo le forze,mangiando fo lamente per vivere, il che ſarebbe un gran difetto nell huomo. Oltre a ciò e' dice, che come la mano ſtorpiata, non è mano, perchè no può come mano operare,così la ſo bria vita no è vita,ma meza morte, perchè no opera quan to, e come dee l'huomo operare.Dice parimente egli che il morir per riſoluzione ſia la peggior guiſa di morte, che poſſa fare l'huomo:perchè queſto è inorir di fame; della qualmorte parlando Omero in perſona de'compagni d'V Jiffe l'abborriſce infinitamente: ed elegge più coſto lo an negarſi, che'lmorir di fame į ne peraltro Dante biafi matanto i Piſani, che per aver fatto morir di fame il Con te Vgolino,benchè foſſe traditore della Patria. Con chiude egli alla fine, che chi è ſobrio nel cibo faria huopo cffer ſobrio in molt'altre coſe: peſare il vino, e'l pane, nu merare l'ore: farebbe luogo ancora pefare i peſieri, lo ſcri vere, il leggere', e ſimili cofe, che impediſcono la dige ſtione: numerare i palli, e le parole, che ajutano la dige ſtione: non dormir ſe non tante ore il dì, e tante la notte. Ma il chiariſſimo Signor Luigi Cornaro, a cui era in dirizzata la lettera; col ſuo proprio cſemplo fe veder ma nifcſtamente quanto ciò vano, e fuor di ragion fia: impe socchè egli colla rigorofa dieta lano, c vigorofo, e bene atante della perſona anche nella cadente età ſi mantenne, e viſſe oltr'a cent'annipronto ſempremai, e col ſenno, e colla mano alle biſogne tutte della ſua patria;comechè ca gionevole aſſai di compleſſione e'li foſse in prima ſtato ncl Ja ſua giovanezza, ca molti, e graviſſimimali ſoggetto; intanto, che comunemente da'medici dopo varj, e diverſi argomenti indarno adoperativi, diſperato ſovente di ſuas ſalure ſtato ne foſſe. Ma quanto vane,quanto deboli, e fanciullefche fien le ragioni, con che Platone s'argomenta d'abbatter Erodi co,e come ſcioccamente la dappocaggine d'Eſculapio, e de figliuoli di lui egli di ſcuſare s'ingegni: Io non pren derommi al preſente briga di dimoſtrarlo, potendo ciaſcũ 1da per fe a prima veduta baſtantemente comprenderlo. Macome non ſi può in modo niuno negare, che quel me dico, il quale aveſse per le mani ſicura,ed efficacemedici na, che ſenza indugio poteſse un grave male di prefence guarire, non dovrebbe certamentead altri medicamenti aſpettarſi; nondimeno non ſo lo fe Eſculapio, cotanto da Platone commendato, aveſse pronta ſempremai unas cotal medicina non che a tutti mali acconcia, ma ſola mente alle ferire; eſsendo rade molto cotali forti di me dicamenti, e radiſsimi coloro, che alcun certamente ne ſappiano; perchè lopratutto fa meſtieri, che'l medico per ogni via ſappia all'infermo ſoccorrere, eſe non può riſa, narlo,poſsa almeno tantoſto indugiar la fua morte, tem poreggiando, e ſcherinendolo a ſuo potere. Perchè fom mamente egli è da lodare il ſaggio avviſamento d'Erodi co, il quale molto bene a pruova ſcorgendo quanto poco a capitale da tener foſse l'operazion de’medicamenti, diede opera più che altro a quelle coſe, che ſe non ſono ditroppo vaglia, s'annoverano fenza fallo infra le meno incerte dellamedicina. Ecertamente per quelle uſare no fi corre pericolo niuno da’malati, e poca, e niuna fatica. s'imprende a porle in opera. MadalPaverle Erodico dalla ginnaſtica portatealla me dicina,quanta lode egli per ciò ne meriti, Galieno mede. fimo il confeſsa; il qual nondimeno una tanta lode ad Ip pocrate attribuiſce. Io per me ſtupiſco della fcimunita tricotanza di tal’huomo che avendo letto più volte i dia loghi della repubblica di Platone, e recatone nel fuo li bro pur qualche luogo, ardiſca pure d'affermare, che Platone in ciò ſolamente la cattiva ginnaſtica biaſimaſſers la quale ſi predeva cura di difpor gli Atleti ad eſser valo roſi, ed abili a loro eſercizj. E certamente ſe quellibro di Platone ſinarrito per ayventura ſi fofse, ciafcun farga mente le ſciocchezze di Galieno crederebbefi. E come voleva Platone biaſimar la ginnaſtica, che per Galien cat tiva dicefi, s'egli nella ſua Città ordina, che s'edifichiil ginnaſio, e diſegna con molte parole la contrada acconcia per i per quello, e vi ricerca in iſpezialità copia d'acquc cor renti, così per derivarla in uſo de' caldi bagni, coine per irrigare il terreno, e render vago, eadorno il luogo; ſen zachè no mai ſtanco ſi moſtra Platone in tutte le ſue ope re di celebrare il ginnaſio, e quegli eſercizi, che ivi fico ftumavano di fare: come ſommamente utilia conſervar la ſanità; e fra l'altre egli ebbe a dire una volta, eſsere ma lagevol molto il ritrovare diſciplina miglior di quella, la quale fin’alla ſua età in lunghiſſimo ſpazio di tempo s'era ritrovata; cioè della muſica, che all'animo, e della gin naſtica, che al corpo appartiene. Ma laſciando ciò da par te ſtare, egli va grandemente per mio avviſo errato Pla tone nell'affermare, che que'buoni antichi medici non cu raſsero il regolaricibi a'malati, e che ciò eglino faceſse ro, non peraltro, ſe non perchè non avevali a que’tempi di ciò punto biſogno, perchè agli antichi, i qualimaisé. pre regolaramente vivevano, non faceva poſcia inferman doſi huopo diregola alcuna di medico; concioffiecofachè le tante, e tante förti di malattie, che fra gli antichi ſové teniente ſi vedevano, faccian’aperta, e fedele teſtimonia za del contrario. Ma quantunque vero foſſe ciò,che Pla tone immagina della ſobrietà grande degli antichi huo mini, pure altri cibi a'lani,ed altri a'malati convengono; e quelmedico, il quale cibaſse l'infermo come fano, e'l ſano come infermo ugualmente nel certo all'uno, ed all l'altro nocerebbe. Egli poi non ha dubbio alcuno, che'l regolar i cibi foſse la prima coſa certamente, che s'ado peraſse in medicina; anzi da ciò venne ſuſo primieramé ce la medicina; e prima, che foſsero i medici, i medelimi infermi da per ſe il ritrovarono; e illuſtri.fimo in queſto affare è il luogo di Celſo; il quale ci giova quì tutto rec.le re, comemolto al noſtro propoſito faccente: Ægrorums, dice egli, qui fine medicis erant, alios propter aviditatem primisdiebusprotinuscibum affumpfiffe, alius propter faſti dium ahſtinuile, levatumque magis eorum morbum effe, qui abſtinuerant: itemquealios inipfa febre aliquid ediſ Te, alios paulò ante eam, alios poft remiffionem ejus, optime deinde his ceflife, quipoft finem febris id fecerint. Eadeque ratione alios inter principia protinus ufos effe cibo ple viore, alios exiguo, graviureſque eos factos qui fe imple rent. Hæc, ſimiliaque quum quotidie inciderent, diligentes homines notaje: quæ plerumquemelius refponderent,dein deægrotantibusea præcipere cæpiſſe:fic medicinam ortam-, ſubinde aliorumſalute,aliorum interitu pernicioſa diſcer nentem à ſalutaribus, Ma intorno al cibari malati, certiſſima coſa egli ſi è, che gli antichi medici gră pezza affai prima d'Ippocratemol. te coſe, e molte diviſarono, come ſi può agevolmente ve dere nel libro della vecchia medicina, ed in altre opere d ' Ippocrate medeſimo, onde parimente ravviſar fi puote quanto errato vada Galieno, il quale di ciò far yolle il buo Ippocrate autore. Ma, che che ſia di tali faccende, terri bile allai ſembrami nel vero la cenſura, con la quale Ip pocrate, non avendo veruno riguardo alla venerazion do vuta al maeſtro Erodico, fconciamente il riprende,e vitu pera; dicendo, ch'egli togliere la vita a tutti que'cattivel li febbricitanti, ch'e' medicava colle fatiche, e co' fummi. caldi, che loro imponeva; e ne reca egli di ciò la ragione, dicendo cfler a' febbricitanti il pareggiare, il correre,e gli ftrofinamenti, eifomenti oltreinodo contrari.Aggiugne Galieno a ciò che dice lppocrate, che Erodico in ciò fa re, ne anche alla ſperiéza guidar certaméte e'li faceſſe,non volendo niuna ragion delmondo, che'l male col male, la fatica colla fatica, il ſimile col liinile da medicar ſia; an zi e'dice, che gli argomenti tutti adoperati per Erodico nelle febbri, valevoli più toſto ſiano ad accreſcere sfor matamente il calore, che a toglierlo. Ma certamente no molta fatica aurebber egli durata i ſeguaci d'Erodico in rimboccare Ippocrate, e Galieno,dicendo,che Erodico, come buon medico razionale non già alle febbri, ma alla cagione di quelle riguardar doveva,alla qual togliere cer tamente quemedeſimiargomenti fi convengono, i quali egli adoperava, avvegnachè in prima ſe ne creſca talottas la febbre per qualche poco ſpazio di tempo; ma poi ſenza fallo rimoſſane la cagione del tutto ſi ſpegne; ſenza chè ben potrebbono di vantaggio aggiugnere, il medeſi mo appunto farſi da Ippocrate, e da Galieno: i quali con fregamenti, e con dare a {piluzzico, e a riguardo il cibo medicar parimente ſogliono i febbricitanti. Ne qui deb befi tacere, ſcorgerſi da ciò chiaramente eſſere antichiſ ſimo coſtume de'medici biaſimare in altri, come manche voli, e malfatte anchequelle coſe, che eglino medeſimi in ſomiglianti caſi operar tuttavia ſogliono. Ne poffo sé. za maraviglia riguardare alla gran tracotanza di Galieno, il quale così aſprainenre riprende il diviſamento d'Erodico ſenza punto penſare, che ello ancora alcune febbri linco pali co'fregamenti, e col digiuno curar foglia; perchè egli vien forte ripigliato dal Tralliano, il quale rintuzza lo, c percuotelo, e con maggior ragione per avventura, con quell'arme medeſime, che Galieno aveva contro Ero dico adoperace. Vltimamente ſe un ſomigliante coll'alcro da curar ſia, coloro ſe'l veggano, i quali comeche con parole il biaſimino, purcon fatti talvolta il ſogliono ado. perare: ſolamente lo avviſo, che Ippocrate medeſimoma nifeftaméte afferma, che'l yomito col vomito ſi cefla,e che col limile il ſimile ſi cura. Quinci ſcorger ſi puote, chcgli huomini tutti,e più che altriimedici, Togliono di leggieri nell'arti, chedi nuovo imprendono ad eſercitare, valerſi di quelle coſe, alle qua li per qualche ſpazio di tempo diedero in prima opera; e percið Erodico per mio avviſo ſi ſerviva così ſpeſſo degli Itropicciamentiin medicando gl'infermi, e d'altre opere, ch'erano in uſo nel ginnaſio, di cui egli aveva avuto la cu ra; così veggiam que',che, o d'Aſtrologi, o d'Alchimi ſti divengono medici, non preſcriver rimedio alcuno, che non ſe ne fian colle ſtelle, eco'fornelli conſigliati; ma no penſi però alcuno, che'l maeſtro, o preferto del Gimnaſio aveſſe cura di far ſtropicciare, o d’ugnere que' ch'eran deſtinati alle lutte, al corſo, e agli altri gilochi, che ſi fa cevano nel Gimnaſio; ma il ſuo uficio ſi era il comandar nel Ginnaio, e conliſteva nella ſupreina autorità di quello p li vile li varjufici a quella ſottopoſti, e per le ipeſe, che per l'e ſercitazioni facevan meſtieri; edun taluficio era in sì grá pregio,edonore tenuto,che nó foleva darſi,ſe non ſe a'più nobili, o ben’agiati huomini del paeſe; c durò lungamen te tal uſanza sì fattamente,che i medeſimi Romani Im peradori talvolta non iſdegnarono in volendo favoreggiar qualche Città amica, e qualche popolo a loro affeziona to, infra i titoli, egli onori degli altri maeſtrati, d'accet tar anche quello di prefetto, o maeſtro del Ginnaſio. Ma non men della medicina montò in grandiſſimo pre gio, e venerazion l’arte ginnaſtica, la qual fu cotanto ce lebrata a que'rempi dalle dotte penne de ſagaciflimiſcrit tori, che nulla più; d'alcun de'quali con ſomma lode fa menzion Galieno, appo il quale leggefi di vantaggio,che non ſolamente eglino contendevano co’più chiari, ed il luftri medici razionali, ma che quegli fteffi, chenel Gin naſio bazzicavano proverbiar ſolevano Ippocrate,che egli temerariamente inipreſo aveſſe ad inſegnar un'arte, dicui cgli era affatto ignorante, e digiuno. Ma ritornando ad Erodico, chc che ſi dica di lui Platone, non ſi fermò egli nelle coſe ſole della ginnaſtica ncll'eſercitar la medicina, ma ſi valſe d'altri, e d'altri rimedj, de' quali altri medici dopo lui parimente fi valſero: come ſi può vedere in Ce lio Aureliano, il quale in facendo parole della ſciatica, delle medicine d'Erodico così dicc: Herodicus igitur, ut Aſclepiades memorat, ventrisadhibet purgationem, atque pofl cenam vomitus, quifunt implebiles potius quam ficcabi les: tum vaporationibus tepidis aceti decocti exhalatione con fectis utitur, vel aqua marina, admifta thalsa herba,atq; biljopo, & his fimilibus, veficis bubulis repletis corpus va purandum probat, vel aliis quibufque majoribus inflatis tu mentia loca pulſari jubet, e tanto baſti della medicina d’E rodico avere accennato. Eurifonte celebre medicante dell'antichiſſima ſcuola di Gnido, il quale,come riferiſce Sorano inſieme con Ippo crate medicò Perdicca Rè della Macedonia, dalle poche memorie, che n'abbiamo, non ſi può ſcorgere in qual ma I i niera egli medicaffe, ene meno come egli in medicina fi loſofato aveſſe; e delle ſentenze Gnidie, dicui voglion ch ' egli li foſſe l'autore, ne reca tanto poco Ippocrate, il qua le fi diè cura di eſaminarle, ch' Io per me non ho che di viſarne. Egli vien rapportato da Ippocrate, che i compi latori di quel libro aſſai minutamente, ed a ſpiluzzico avel ſer raccolto, e diviſato tutte quelle coſe, che avvenir ſo gliono agl'infermi in ogni lor malattia; ma non è per ſuo avviſo da far gran fatto ſtiina della coſtoro induſtria, come quella, ch'aſſai leggiera, ed agevole impreſa è a chiunque neprenda cura, quantúque niente informato di medicina egli ſia: baſtado ſol,che dallo infermo della nojoſa iſtoria della propia malattia pienamente véga avviſato.Ma lo,có buona pace d'Ippocrate, ſono in contrario parere; e lem brami, che gran ſenno faccian que’medici, e fieno ſom mamente da commendare, qualora ſi danno ſomiglianti brighe; imperocchè,non di ſole ciance,madicoſe in qual chemodo rilevāti ſi vedrebbon ripiene le ſcritture de’me dici. Ma che è ciò, che ſoggiugne poſcia Ippocrate, che egli fia queſto un peſo da tutte braccia, ne v'abbiſogni in tendimento di medicina? E chi non vede quanto dalvero manifeſtamente il ſuo parer li diparta? da che a ſimili rac conti fa luogo comprender le variazioni de' polli, e altre biſogne ſola medici conoſciute; edo che vaghe novelluz ze da riftuccar la pazienza di ciaſcuno ſarebbon le imper tinenti ciuffole, ed anfanie, che talor foglion narrare a ' medici gl'inferini, fe quelle appunto aveſſero a deſcriver ſi poi ! e ſe per alcun, ſicome affai ſovente avvenir veggia mo, foffe offeſo il cervello, che domine potrà unqua ridir dirittamente giammai de'ſuoi travagli l'infermo? nondi. meno, quantunque una tal impreſa lia aſſai propia del me dico, lo giudico, che ſe altri vi ponetle mano, chemedi co non foffe,peraltro riguardo maggior utile ſe ne ritrar. rebbe; iinpcroccliè nurrerebbe egli ſemplicemente come và la biſogna ſenza giugnervi nulla di ſuo, ove da ' medici mercè dell'ufire loro aliuzie, tra per ridur'la cagion d'o gni avvenimento de'ma i alle lor concepute opinioni,o per altrid 1 alera cagione,cofa,che ſoſpetta di falſicà,cd'errore non ſia non pongono in iſcrittura giámai. Soggiugne Ippocrate, che di quelle coſe, delle quali dee aver contezza ilmedi co per propia fua induſtria, oltr'a quelle, che poſſon ſa perſi dalla bocca dello infermo, molte ne tacquero que gli ſcrittori; e ch'egli di quelle notizie, che s'acquiſtano per opera della conghicttura, e che pertinenti ſono al mo do, col quale curar fi dee ciaſcuna malattia, non s'app.2 ga affatto di ciò, che color ne dicono; e quinci ſi pare, ch ' Eurifonte medico razionalc ſtato ſi foſſe, e che, ſecondo i ſentimenti d'Ippocrate medeſimo ſuo emulo, aveſſe ſcrit to affai bene in medicina: nientedimeno, per quel che Ip pocrate parimenteriferiſca, chiaramente ſi ſcorge,che co sì Eurifonte, come que' della ſua ſcuola di Gnido ben molto poco valfero nella medicina; imperocchè nel medi car le malattie, toltene l’acute, fi valevano ſolaméte dell'e Jarerio,del latte, e del fiero; e veramente intorno a ciò IP pocrate a gran ragione ne ripiglia l'autore di quel libro ſoggiugnendo, che ſarebbe degno di gran lode l'adoperar pochi medicamenti,ſe quelli buoni li foffero e conveniffe ro veramente a que’mali, a'qualieglino gli preſcrivono; ma che altrimenti vada la biſogna. Vengono in ciò i medicanti da Gnido imitati da parec chj de'moderni medici, i quali ſi tengon le mani a cintola ne'mali lunghi, ed allo incontro poi nellacute malattica non dan mai foſta a' poveri infermi, travagliandogli ad ogn'ora con importuniffimi rimedj, la dove dovrebbono ſenza fallo il contrario operare; concioſliecofachè il ma de, il quale qualche ſpazio di tempo dur.2,renda aſſai age vole al medico il potere inveſtigarne, e rinvenirne il rime dio; il che nc'mali acuti malagevolmente riuſcir puote, i quali per ſe ſteſſi, o bene, o male finiſcono in brieve. Ma nondimeno egli è ſommo artificio di medico il medi car sì fatti mali con molti rimedj: imperocchè ſe l'infermo guariſce, il vulgo ignorante agevolméte crede eſſer ciò per opera avvenuto di alcuno di que'tanci rimedi, che gli furono dal medico preſcritti: non avviſando, che celeres, ! I i 2 & acu 1 cu acutæ pafſiones, etiam fponte folvuntur, &nunc fortuna, nuncnatura favente, come laggiamente Celio Aureliano avvila; e ſe purl'infermomai vienea capitar male, tutta via della ſua induſtria ognuno contento, ed appagato li tiene, inmaginando, che egli non abbia laſciata coſa p riſanarlo. Ma che che ſia di ciù ne'mali lunghi,ove nel vero l'imprendimento, e l'opera del buon medico maggiorme te ſi richiede, perciocchè, ficome avviſa il medeſimo Ce lio, neque natura, neque fortuna folvuntur, ſi portò pelli maméte, per avviſo d'Ippocrate,Eurifóte;maſe crediamo a Celio Aureliano, nelmedeſimo fallo incorſero parimen te con Ippocrate ſteſſo tutt'altri greci medici, che furono prima di Temilone. Ma ricornando ad Eurifonte, Io non ſo, s'egli, o pure alcri compilando la ſeconda volta il libro delle ſentenze Gnidie,maggiormente, come porta opinione Ippocrates, il perfezionaffe: parte delle coſe, che in prima vi li legge vano, come chioſa Galieno, affatto togliendo, e parte in altro cambiando; effetti, come altrove abbiamo pa rimente avviſato,che provenir ſogliono dall'incertezza della medicina; e queſto è quanto laſciò ſcritto Ippocra te della medicina d’Eurifonte. Si valſe cgli, come Ce Jio Aureliano dice, di qualche medicamento d'Erodico, e ſcriſſe per quel che narri Galieno, di notonia,e di quel le inedicine,che ſi poſſono in luogo d'altre, che mancal ſero porre in opera. Ma trapaſſando ora alla medicina d'Ippocrate, egli cer tamente oltrealcrcder di ciaſcuno malagevole mi ſembra a diviſarne ora i miei ſentimenti; perciocchè di que’libri, che ſotto il ſuo nome ſi leggono, ne pure a teinpo dell'an tico ſcrittore, che ne racconta la vita, dar fermo, e ſicu ro giudicio ſe ne poteva. Ma che unque diciò ſia,manife ſta coſa è, che parecchi dell'opere dilui per travalicamé to di tempo ſmarrironſi, ed altre manchcvoli in parte, tronche li riinaſero; ed in altre ancora molto, e molto co ſe, o da ſuoi ſcolari, o da altri aggiunte furono; noiz però di meno c'fi pare ad alcuno che, coll'efler perdute l l'opere d'Eraliſtrato, di Diocle d'Aſclepiade,e d'altri buoni medici antichi, in queſte ſolaméte, che ſotto nome d'Ippo crate ne rimaſero, oggi ſia quaſi tuttoquáto di buono v'ab bia infra'Greci di medicina,cópreſo; impertanto moſtrano manifeftaméte, che non riſpondono a quel gran nome,che da alcun medico greco in prima, e poi da altri anchenon medici ſenza troppo ben'eſaminar la coſa,egli n'ha ripor tato; ne lo ſo permevedere, come ſi poteſſer mai, nu Platone, ne Ariſtotcle approfittarli per efle tanto quanto nella filoſofia naturale, come Galieno, e altri medici ſo gliono ad ogn'ora millancare. Ma chi per Dio paſſerà sé. za riſa la beſtaggine di Macrobio, il qual poco di sì fatte coſe conoſciuto, e nõ avédo forſe mai letti i librid'Ippocra te, follemére cómendandolo, gli attribuiſce ciò che a Dio ſolamente conviene, dicendo: Hippocrates qui eam fallere, quam falli neſcius. Nulla poi dico diGalieno,il quales tutto che non ſi vegga mai pago di lodare Ippocrate, con dire una fiata infra l'altre,che le ſentenze dilui tutte ve riffime fieno, Ta' ti Ittasaxegéros dogueala mutu le árugega tab iar e che la parola d'Ippocrate fi: come la voce d'Iddio: Notip Des our nj In Toregros réžis:impertātono approva egli poi co* fatti ciò, che dicecolle parole: imperocchèmolte,emolte fiate apertamente dalla ſua dottrina s'allontana; anzi tal volta dimenticando quanto aveva detto in ſua lode, for te il proverbia, e'l biaſima, come altrove dimoſtrato ab biamo. Mai più ſapienti,cd ayveduti tra gli antichi ſcrit tori, quali furono ſenza fallo i Setteggianti, e queich'eb ber più valore, e più nome tra ’ loro ſeguaci, in pochillimo pregio tennero Ippocrate: come ſi può agevolmente ve dere in Celio Aureliano; ed Aſclepiade chiamar ſolevala medicina d'Ippocrate Meditazione della morte. Ma noi non badando a'cicalecci di niuno, diciamo primicramente, ch'egli ſi pare certamente, che Ippocra te aveſſe in qualche grado avuto quel natural talento, che alla medicina richiedeli; e che ſi foſse altresì cgli ſtato un' huomo infin da’primi anninello ſtudio, e nell'eſercizio di ella continuamente involto; e comechè non ben intelo scorgeli ſovente delle coſe, ſembra pure, ch'egli ciò che ſi conoſceva in medicina in que'rozzi tempi, ne’libri degli antichi letto, & veduto egli aveſſe; e chi ben vi affiserà la mente ravviſerà nelle ſue opere affai più manifeſte le fondamenta delle varie, e diverſe ſette della medicina, di quel, che già follemente millantando Plutarco ne ſcriſſe, d'avere i principj tutti delle ſchiere de'filoſofi ne' Poemi d'Omero pienamente rinvenuti; perchè fi dee ‘ certamente credere,o cheIppocrate impiegato tutto nell'uſo delme dicare non aveſſe avutomaitempo d'inveſtigare, e deter minare ciò chepiù vero gli foſſe paruto in medicina:o che pure avendo egli coſa per coſa minutamente ſtacciata, ed abburattata, ftanco alla finc,manifeftaméte avviſato aver ſe non eſſer più da appiccarſi ad uno, che ad un'altro fi ſtema di medicina,per la loro egual dubbietà;e quinci egli poi di varj, e tra effo loro contrarj ſentimenti da' capi di diverſe ſette appreſi i ſuoi ſcritti riempic; e per tacer d'al tro per ciaſcun ſi ravviſa aver Ippocrate nel libro della natura umana impreſo a parlare d'uno ſpezial fiſtema di medicina, ed'un altro nel libro della vecchia medicina, e d'un'altro nel libro degli fpiriti, e d'un'altro ultimamen te nel libro della dieta, comechè qucftie'confonda con gli altri ſiſtemi da lui poco ben'inteſi, e ſpezialmente con quello della vecchia medicina; il quale ultimo ad alcuno ſembra, che intorno a tal materia.e ' compoſto aveſſe; e viene ſcioccamente da molti creduto non già ď Ippocrate, ma di Democrito; ma certamente fuor d'ogni ragione; perciocchè in altra più nobile, e più ſottil ma niera quel ſublime filoſofante compoſto l'avrebbe. Ma che che di ciò ſia,per tornare a quelchereſtè dicevamo, pié d'incertezze, e tcmpellante: Ippocrate, par che talvolta alla ſperienza, ed alla ragione il tutto raſſegni; ed altre yolte ſembra, ch'egli alla ſperienza ſolamente s'attenga; e da ciò moſſi negli antichitempi alcuni, come narra Ga ļieno, ed alcuni altri della noſtra età, infra'quali è il Mon tano, preſero cagionedi piatire, fe Ippocrate in medicina da parte empirica, o da parte razionalc veramente tenuto haveſſe; ma non poteva certamente egli,comechènon foſe ſe di molto grande intendimento fornito, nel maneggiar tutto dila medicina non avvederſi della poca fermezza e della molta dubbierà di quella. Ma per altro poi, quan to Ippocratemancaffe di quell'intendimento, che a gran filoſofante, emedico, qual vien' egli comunemente te nuto appartienfi:ſcorger fi può chiaramente in tutte le ſue opere, e particolarmente nel libro della vecchia medicina; nel quale avendo egli avviſato eſſer da filoſofare in medi cina in quella guiſa appunto, che cgli quivi ſecondo i fen timenti de'più antichimaeſtri diviſa, da chiunque al vero, e perfetto conoſciinento di quella aggiugnere intenda:ed oltre a ciò, che la medicina non foſſe ella ancor tutta a ' ſuoi tempi ritrovata, ma unamenoma ſola parte di quel la, e che molto ancor ne reſtaffe per innanzi a ſcoprire; egli nondimeno, ne molto, ne poco vi s'affutico; anzi andò dietro ad altri, ed altri ſiſtemi di medicina a guiſa di cieco, che séza guida alcuna vada caſtoni, ed attenědoſi a ciò che, incontra, or per una, or per altra ſtradì errando, ſenza mai venire a capo del ſuo cammino;la qual verità ben vé ne dului me.Iclimo conoſciuta, e finceramente paleſata nella piſtola (ſe alori ſecondo i ſuoi ſentimenti in nom:) fuo, pur non la finale ) che egli ſcrive a Deinocrito; over apertimente dice ſeno eſſere ancora pervenuto a quel le gno nell'arte, che diviſato ſi aveva, avvegnachè negli an ni molto, e molto avanzato, e nell'uſo del inedicare con tinuanente logorato fi foſſe. Map far pienamérc vedere,e toccar co muni quáto po co in filoſofia avázato fi foſſe Ippocrate, egli ſi convégono ad uno ad uno elaininarle fondamenta de'varj ſuoi, e co tanto infra loro diſcordanci ſiſtemi di medicina; coinechè ciò per avventura ſoverchio giudicar ſi potrebbe; percioc chè tali, e tante ſono le dippocaggini di lui, e le ſcioco chezze de'ſuoi ſentimenti, che tolto per qualunque mez zano intendimento ſenza troppa firtica avviſar li potreb bono; il che egli ancor conoſcendo, e reſtandovi alla fine inviluppato, e contuſo, in njun di quelli riſtr fermame te fi volle, dottando, e tempellando ſempremai di ciaſcu no. E conciofoſſe coſa, che del Giſtema della vecchia me dicina altrove baſtevolmente detto ſia', cominceremo al preſenteda quello, che nel libro della dieta con lungo, e magnifico apparecchiamento di parole egli neporge. Pri mieramente in quel libro e'nedice ſecondo il ſentimento, ch'egli altrove rifiutato avea dique'valent'huomini da lui contro ogni ragionechiamati ſofiſti, che chiunque a ſcri ver imprenda della dieta all'huom pertinente, egli con venga in primain prima aver piena,e perfetta contezza della natura dell'huomo, e di qualiprincipj egli da prima compoſto foſſe: e oltre a ciò ſpiar minutamente, e com prendere quali di que'principj in lui maggiormente s'avã taggino. Sentimento quanto ſaldo, evero, e che non ha di pruova alcunabiſogno, altrettanto volgare, e agevole a penſare; perchè eglimoſtra,che Ippocrate non abbia per quello, ſe pure è ſuo, cotanto merito appo i medici dovuto acquiſtare; non peròdi meno lo ſcaltrito temen do negato non gli foſſe sì bel diviſaméto,ne vuol far pruo va, ſo giugnendo, che ciò non fi ſappiendo, mal ſi po trebbe cibo,che profittevole abbia ad eſſere, ad huom ’ ragionevolmente diviſare. Indi foggiugne convenire an cora aʼmedici la compleſſion di tutti cibi, e vivande, che noi uſiano eſſer conoſciuta;e ſopra ciò con lunga,ed inutil diceria grā pezza cgli di provar s’affatica,comcchè di pruo va niuna ciò abbia punto biſogno.E quindi il ſuo ragiona mento cominciando intorno a principj delle coſe della natura, in sì fatta gniſa ne parla. Così l'huomo, come tutt'altri animali di due principj so compoſti, i quali comechè diverſi ficno quanto alle lor facultà, all'uſo nondimeno ſon concordevoli, e acconci; ciò ſono l'acqua, e'l fuoco; i quali amendue non meno a tutt'altre coſe, che l'uno all'altro ſcambicvolmente ba fano; ina ciaſcuno per fe a ſe inedefimo, ne ad altra coſa del mondo non baſta; e la virtù, e la forza di ciaſcun di effi è tale cheper lo fuocoli muove ciaſcuna coſa qualun qne clia lia, c in qualunque luogo dimori: e per l'acqua convenevolmente ella ſi nutrica, e creſce. Ma in conti nui piati, e battaglie elliftando ſempremai fi contraſta no, e ſi vincono; non però sì fattamente, ch'alcun d'eſli cotanto abbattuto, eſpoſſato ne rimanga, che niente più di vigore,o di forza non gli avanzi; perciocchè ove il fuo co preſſo all'eſtremo dell'acqua ſtrabocchevolmēte è per venuto, toſto il debito nutrimento gli manca; perchè egli volgeli colà, ove nutricar ſi poſſa; e l'acqua d'altra parte quando all'eſtremità del fuoco è aggiunta riman priva di inovimento, e nulla vale; perchè vien toſto dallo ſcorre te fuoco in nutrimento cambiata. E imperciò nel conti nuo lor tempellaméto niun di loro sì pienamente può ſo verchiar l'altro, che affatto l'uccida; ma amendue vengo no in sì fatta guiſa ſcambievolmente a ſoſtenerſi, che egli no ſolamente baſtevoli ad ogni coſa rieſcono per doverla in qualunque modo comporre. Orchi domine cotáto ſarà di cieca paſſionc ingombro, che non iſcorga pienamente quanto vani, e ridevoli ſieno i diviſamenti d'Ippocrate intorno a ' ſuoi principj. Vn ſol principio, dice egli,non baſta; ma baſterà egli, che sì il dica? anzi vi ſarà chi vi replichi, uno eſſer ſufficientiſfi mo, ove le parti, che il compongono di diverfa figura fie no, e diverſamente fieno allogato, e infra loro compoſte, e ſi muovano: perchè poidi yarie facce le coſe tutte del mondo compor debbano; ſenzachè ſe principj delle coſe vuole egli, che ſieno il fuoco, e l'acqua, perchè egli non ne ſpiega lor natura? ne baſta in ciò ſolamente dire eller il fuoco valevole a dare il movimento; perciocchè ben do veva egli più avanti ragionando ſpiar la cagione del movi mento delfuoco, e ricercarminutamente diche egliſia compoſto, e chedifferente il faccia dall'acqua: e queſte coſe ritrovate riporle poi per principj delle coſe, come quelle, onde tuce'altre vengono ingenerate: e non già il fuoco, e l'acqua, che non ſon primieri nell'ingenerare. Ma mentre egli con l'uſata ſua traſcuraggine di ciò niuna briga ſi prende, certamente dall'acqua, e dal fuoco in quella guiſa, ch'e' ne favella, nc huomo, ne altro animal K k niu i  1 niuno coinpiuto, ne coſa altra delinondo non ſe ne potrå comporre giammai; econtraſtino pure, e ſi meſcolino quanto ſi vogliano l'acqua, e'l fuoco tra cſſo loro, che poche coſe infra lor diverſe riuſcir ne dovranno: licorne di due lole lettere dell’Abici non poſſono per rimeſcola mento comporſi, fuor ſolamente, che due fillabe: conie da A, ed L: di cui altro, che LA, ed AL non può for marfi. Macome potran mai riſtrignerſi cotanto, eammaſlarla le particelle dell'acqua, che formar ſe ne poſſano, ecar ne, e oſſa, e nervi, e cotant'altre fulde, e dure parti d'a nimali, e d'altre coſe del inondo? Ne ciò può adoperarli punto dal fuoco; perciocchè egli nell'acqua altro far non può, che le particelle diquella col ſuo movimento, che chiaman dilatante, ſempre partire, e ſceverare, licome noicontinuo incontrar veggiamo: perchè l'acqua vie più liquida, c diſcorrente, e rada ne diviene, non che s'am maſſi, e fi riſtrigna in coſe falde, e dure. E alla fine ell2 dal fuoco cotanto menoma, e faccil diventa, che ſe non, d'aria, d'un corpo all'aria ſomigliante, certamente ella prende forma; ſenzachè l'acquanon può per troppo ſpa zio di tempo ritencre il fuoco, e convien ſe calda ſi vuol mantenere, che continuo altronde quello le venga ſom miniſtrato. Ma che'l fuoco,come s'avviſa Ippocrate, dall' acqua nutrito fia, e perchè l'un l'altro vincer non poſla, ſciocco troppo lo mi terrei, ſe perder tempo lo voleli in rifiutarlo. Vuole oltre a ciò Ippocrate, che l'acqua fia fredda, ed umida,e'l fuoco caldo, c ſecco: e che'l fuoco riceva dall'ac qua l'umidità, e l'acqua vicendevolmente dal fuocolas ſecchezzaze che così eglino l'un nell'altro adoperando,le tante, e tanto varie forme, e generazioni di ſemi, eda nimali vengano a produrre: e cotanto diverſe infra loro, che ne quanto all'apparenza, ne quanto alla lor virtù hā nulla di ſomigliante; perciocchè non iſtando giámai l'ac qua, e'l fuoco nello ſtato medeſimo: e ſempreinai cam biandoli, e diſcorrendo, forza è, che le coſe, che da lor 1: fi ſeparano, eli producono,diſſimiglianti oltremodo rie? fciano. E certamente, com'e' diviſa, niuna coſa del mon do non muore, nc ſi fa quel che in prima non erazma me ſcolate inſieme, e partite ſi cambiano le coſe: come chè giudichi alcuno, che da Pluto per accreſcimento tratto venga alla luce, e ſi crii: e altro incontrario,che dal la luce per iſcemamento a Pluto giunto ſi diſtruggage dice poi,che nó ha dubbio veruno, che fia più toſto da preſtar fede agli occhi, ch’alle opinioni, o pareri degli huomini. Reca eglipoi di ciò la pruova, dicendo animali ef ſer queſtie, quelli, e non eſſer miga poſſibile, ch'uno ani mal ſi conſumi, non con tutti: conciolliecoſachè chi po tri mai diſtruggerlo? ne può ingenerarli giammai quel che non è, non avendovicofa alcuna,che non ſia, onde poſſa ingenerarſi;mabé s'accreſcono tutte coſe,e li meno mano a soma grādezza,e picciolezza in quanto egli ſi può: e quinci s'ingenera, e muore alcuna coſa. Indi egli ſpiega in grazia del Vulgo, che lo ingenerarſi, e'l corróperli del le coſe altro non ſia, che'l meſcolamento, e lo ſcevera mento. Ma più avanti facendoſi dice, che lo ingenerarſi, e'lcorromperli la medeſima coſa ſieno: e'l medeſimo pa rimente il meſcolamento, e lo ſceveramento: e che lo i13 generarſi altro che il mefcolamento non fia: el corrom perſi, e'l menomare altro non fit, che lo fceveramento: e che ciaſcınıa coſa ſia la medeſima, che l'altra: e tutte lien uno; e in queſte sì fatte coſedice egli l'uſanza eſſer con traria alla natura; ma ſpartamente ciaſcuna cofa, o ſia di vina, o umana,ſufo, e giuſo vicendevolmente, giorno, e notte, più, o meno traſcorrere. Indi fiegue egli a di se il fuoco, e l'acqua hanno avvicinamento; il Sole l'hà lunghiſſimo, e breviſſimo; di nuovo queſti, e noi qucfti; la luce a Giove, le tenebre a Pluto: la lu ce a Pluto, e le tenebre a Giove avvicinanſi, ecam ' bianſi quelle quà, e quelte là;d'ogni tempo paffano quello coſe di queſte,e queſte di quelle; ne fi lanno quel che el leno medeſime fi facciano, comeche faccian veduta di fa. perlo:ne ciò, che veggono,conoſcono, ma in tutto ciò Kk 2 ogni coſa loro per divina neceſſità avviene, così in quel le coſe, che vogliono, comein quelle, che non voglio no, perciocchè accozzandoſi, e partendofi quelle quà,e queſte là, fra eſſo loro avviluppate, e confuſe, ciaſcuna il preſcritto fato adempie. Or chi ſarà così da paſſione accięcato, e imbard.ato, che manifeftamente non ravviſi in ciò, che rapportato nº abbiamo, effer egli una ſtrania cervelliera, e poco men, che ſpiritata colui, che ſognandolo lo ſcriſſe Ė non fico prende chiaro in cotanti aggiramenti, ed arzigogoli, che Ippocrate parla aſſai di ciò,che meno intende? e che nő ſolo coll'oſcurità delle parole vuol naſcădere la ſua dap pocaggine, e ignoranza; ma anche farne cotanti Calan drini:e tenendo lo ſciocco vulgo in parole, il qual fem premai coſtuma di pregiare aſſai più ciò che non gli èma nifeſto, darne conmaraviglia a divedere ch'egli delle co ſe della natura oltremodo conoſciuto ſia. Egli è ben ve ro, che molti anche di coloro, i quali letterati ſtimanſi,há creduto, o moſtrato di credere, che in queſti riboboli, cd enimmi d'Ippocrate, e in altri ancora, che largamen te ſon ſeminati entro i libri tutti della dicta, e in quel del la vecchia medicina, edell'alimento, ch'egli tutti i più naſcoſi, e pregiati miſteri della medicina, e della filoſo fia abbia deſcritti; e non ha guari che'l Tacchenio nel ſuo Ippocrate chimico ſi è ſtudiato con queſto libro di darne a divedere eſſere ſtato Ippocrate un valentiſſimo chimi co. Ma ritornando a ciò, che diciavamo, lo m'avviſo, che Ippocrate ciò trovaſſe ſcritto in qualche libro d'alcú di quelli antichi filoſofi, i quali ſolevano cosi vezzatamé te favellare:e che poco cgli incédédoiſentiméti di coloro, così ſconcj, e guaſti l'abbia portati, in quella guiſa,che fileggono; e tanto più, chemoſtra,ch'egli confonda in ſieme, e meſcoli due ſiſtemi di medicina, e di filoſofia fra ello loro contrarj; da che egli dopo aver portati que? due primieri principj delle coſe, avvedutofi forſe, che non baſtavano, parla poi non altrimenti, che ſtabilito aveſſe in prima, che ciaſcuna coſa in ciafcuna coſa ſia, nella maniera appunto, che ſi accennò nella cenſura del libro della vecchia medicina; perciocchè e' dice, che nul la ci s'ingenera di nuovo, ma sì ſi meſcolano inſieme le parti, e compongono le coſe,e lefan grandi,ne alcuna co fa li muore al poſtutto, mà ſparpagliandoſi, e dividendo ſi vien meno. Coſa, la quale non può intenderſi in verű modo di ciò, ch'aveva egli in prima detto; perciocchè ſe l'acqua, e'l fuoco i principj ſono dell'huomo, meſcolan doſi queſti, e accozzandoli a formar l'huomo, non ſe ne potrà certamente altro naſcondere, che l'acqua, e'l fuo co medeſimo,prendendo ſembianza delle parti dell’huo mo, com'e' dice; ma non già le parti dell'huomo, ciò ſo no carne, offa, nervi, e altri membri di quello, eſſendo ci in prima, comechè appiattate, e naſcoſe, nel meſcola mento dell'acqua, e del fuoco ci ſi laſcino poi di preſen te vedere; ne partendoſi poi l'acqua dal fuoco, e guaſtā doſi il lavorio dell'huomo non diverrà ne la carne,ne l'ol fo così menoma, e tritolata, che non ſi parrà; ma tutta la carne, e tutto l'oſſo diverrà acqua, e fuoco: e queſti che in prima non apparivano, manifeitamente nelloro.ſcioglimento poi ſi vedranno. Si pare adunque,ch'e ' vo glia dire eſſer nell'acqua le particelle, chc chiaman ſimi lari, ma così menome, e ſottili, che non ſi poſſan per huom ravviſare: le quali poi rannodate, o ſciolte dal fuo co, compongano, e guaſtino le coſe. Ma ſe pur queſto cgli volle intendere, comepotrà mai il fuoco le particel le dell'acqua colla ſua forza annodare, ſe il movimento è dilatativo, come dicono, e ſempremai ſcioglie, e parte? Convenivaadunque, che Ippocrate altre, ed altre ragio ni ne recaſſe, le quali ciò poteſſer operare. Ma concedaſi ciò pure a lui: non perciò l'acqua,c’lfuoco, ma le par ticelle ſimilari ſarebbon da dir principi delle coſe. Ma cadendogli dalla memoria ciò,che poco anzi egli detto aveva, ricorre di nuovo all'acqua, eal fuoco: e in favellando dell'anima dell'huomo,non mçno ſciocco,che empio, e miſcredentc,dice quella ancora, come tutt'altre coſe, eſfer d'acqua, e difuoco compoſta. E tante, e tali sono le ſue ſcempiezze, e mellonaggini neʼlibri della die ta, che lungo ſarebbe ad una ad una narrarle. Ma trapaſſando all'altre ſueopere, contende il Vale riola, e con luianche ſi conforma il Cardano, non eſſer d'Ippocrate illibro intitolato mei quoär, overo degli ſpia riti groiſi, o vizioſi: peralcuneſciocche, e falſe dottri ne, che in quello s'avviſano, e altre ancora contrarie a quelle, che in altri ſuoi volumi egli divisò, Ma fe tale oppofizione aveſſe luogo, converrebbe certamente con dannar come non ſue l'opere tutte, che ſotto il fuo nome fi leggono; perchè è da dire, che poco ragionevolmente aveſſe perciò cotal libro ilValeriola colto a lppocrate;ma Galieno, comeche in quel libro vi ſien diviſamenti poco a' ſuoi pareri conformi, non però di meno riconoſcendo lo egli d'Ippocrate, il reca ſovente in concio di qualche ſuo ſentimento. Sembra certamente il libro miglior per avventura di tutt'altri,chc intorno a ſomigliante materia aveſſe mai compoſto l'autore; imperciocchè ha egli ordi ne, e qualche forte di chiarezza: e moſtra fovente, che l'autore intenda bene ciò, che ſi dica. Vuole egli in eſſo darne a divedere, che tutti mali, che n'avvenge:10, da una ſola cagione ſi dirivino; comeche per li diverſi luo ghidelcorpo, ove n'aggravano, diſſomiglianti affai ne ſembrino. Tutti corpi, eglidice, così dell'Iruomo,come d'altri animali,del cibo,dello fpirito, edel bere ſi loſten tano. Gli ſpiriti, che ſono entro il corpo, vengono da Ippocrate chiamati quoca: e quello, che è fuora del cor po aveõua cioè: a dire, aria. L'aria fecondo Ippocrate ha grandiſſima parte fra le coſe, che accaſcano alcorpo: ed è donna, e lignora del tutto. Indi egli lungamente fopra quella ragionando, dice delle fue gran virtù, ed opere, Itabilendo in prima qualche ſentenza; la quale preſe 2 gabbo dal Valeriola n'è moſtra a' di noſtri per ve re dalle maravigliore, c fommamente comincndevoli of fervazioni de’noftri moderni. Dice egli, che tutto ciò she fra’l Cielo, ela terra s'interponeſia, da ſpirito ingôn bro: e che lo ſpirito cagioni il verno, e la ſtate: e che'l corso della Luna, e delle Stelle per lo īpirito facciali: e che lo ſpirito alimenti ilfuoco, intanto che ſenza quello non poſſa il fuoco più vivere: c che l'aria ſottil perpe tua purimente perpetuo mantenga il corſo del Sole. E oltre a ciò avviſa Ippocrate ritrovarſi achcin mare lo ſpio rico; perciocchè ſe quelnon vi foſſe, dice egli, che i pe ſci non potrebbono in niun modo vivere; concioſliecola chè non participerebbono dello ſpirito dell'acqua traen dolo. Aggiugne di vantaggio effer la terra fondamento dell'aria,c queſta veicolo della terra: ne aver coſa niuna al mondo vuota di quella: e quella ſolamente eſſer cagione a noi della vita, e diciaſcuna malattia, che n'avviene; intanto che avendone meno infra bricve ſpazio di tempo ciaſcun ſi muore; perciocchè ben può ciaſcuno ſenza ci bo, o beveraggio alcuno viver qualche giorno: ma non già ſenza ſpirito; e ben poſſiamo poſando ceſar di tutte noſtre operazioni, comechè menome, e brievi elle ſieno; ma non già del reſpirarc. E quinci egli vuol trar conſe guenza, eſſer molto ragionevole, che ficome la morte, così anche le malattie tutte dallo ſpirito n'avvengano, e che quello calor compreſo, e putrefatto da altre cagioni diſcorrendone per lo corpo n'offenda. Quindi egli co minciando dalle febbri và diviſando, ficome ciaſcun ma le dallo ſpirito ſi formi: e tutti minutamente gli anno vera. Ma un sì fatto liſteina, perchè ingegnoſo fia, e conte gna in se qualche coſa di ragionevole, non però di meno, generalmente ragionando, falſo affatto, e inveriſimiles eſſer fi ſcorge; concioſliecoſachè quantunque grande fia il biſogno, chedell'aria abbiamo, non è perciò quel a ſo la, che ne mantiene, e ne nutrica: ma l'acqua ancora al noſtro vivere è neceſſaria, e altre molte coſe, così den tro, come fuora del corpo; le quali, o mancando, oſo verchiando, o alterandoſi, non men dell'aria medeſima cſfer poſſono a noi cagion di malattie. Nemeno al preſente è da tacere, come cotal ſiſtema di medicina s'appoggi a'divilainenti, i quali non cheda Ippocrate foſſer provati, anzi dalvero talora manifeſta mente appajon lontani. E comechèalcuni di loro ne sém brino aver qualche ſembianza divero; non però di meno fon da lui con parole non propie, e ambigue a bello ſtu dio inviluppati, e adombrati; acciocchè aggiugnendo noi con malagevolezza, e fatica a ritrovarne il coltrutto, da quelli poi prendeſimo argomento di giudicar talijan zi maggiori gli altri ſuoi ſentimenti ſciocchi, e vani, com poſtida lui per uccellarne maggiormente. Ma ſe lo ſpirito,ſecondochèIppocrate così liberamen te afferma, è colui, che ſignoreggia, e governa ciaſcuna coſa del mondo, e che la vita, e la morte ne porge: per chènon iſpiega egli poi, ficome certamente fargli con veniva, come, e con quali artificj tante maraviglie quel lo adoperi? e perchènon ragiona della natura di quello, e diquell'altre ſoſtanze, che, come e' dice, imbrattan dolo, e inſuccidandolo cotanto a noinocevole, e peſti lenzioſo il rendono? E per avventura gran ſenno egli fe a non addoſſarſi cotanta briga; perchè è da dire, che ciò egli non ſappiendo, non potrà certamente mai la natura, e la generazion delle malattie per sì fatta ſtrada incoglie re; e ſeguentemente gli argomenti ancora, come a quel le da proveder ſia non ſaprà. E quinci avvien poi, che ne men di que’mali, cheper compreſſion dell'aria vera mente n'avvengono, no mai egli coſa alcuna di ſaldo rap porta; perciocchè non ſappiendo egli la natura dique'cor picciuoli,da cui compreſso lo ſpirito quella generazion di febbre cagiona, la quale, com'eglidice, è tutta comune, e appellati peſte: ſenza dubbio non giugnerà egli giam mai a penetrare gli effetti tutti, che da quelle diverſame te provengono, e le varie maniere, colle quali ciaſcuno animale offendono. E ſe egli non cura d'inveſtigare altre si quali ſoſtanze ſieno quelle, che s'accompagnano collo ſpirito allor che racchiuſo entro noi ne muove la colica,o altri ſomiglianti mali, come ne potrà egli mai compiuta mente ragionare: o donde trarrà egli gli argomenti da porvi ragionevol conſiglio? Ma ſe le ſoſtanze, che collo ſpirito -meſcolanſi, ſon ca gion di cotante malattie, come potralli eglia buona ragić dire, che lo ſpirito medeſimo, enon più toſto quelle ciò adoperino? perchè è da dire, che ſtabilendo Ippocrate it ſuo ſiſtemà, alla prima v'abbia dato di becco, e vi ſia infe liceinente fdrucciolato, dicendo eſſer l'aria cagion del. le noſtre malattie, e non più toſto le varie, e diverſe for ſtanze, che per quella diſcorrono, e collaria inſieme en trano ne'noſtri corpi: quali ſono molti ſemi, e animaletti, chę ſovente fi ravviſano, così nelſangue, come nell'altre parti liquidedi noie, le rendono mal'acconcc ad adem piere i loro uficj: e fermandoſi talora o nel cuore, o nell? altre parti ſalde del noſtro corpo in molte, e molte manie re le moleſtano; ſenzachè ſon nell'aria varie, e varieme nomiſſime altre ſuſtáze da'vegetali, e da’ıninerali corpia quella mandate: alcune delle quali, quando di ſoverchio vi diſcorrono, fannofi anoi per opera dell'odorato ſentirez e l'avvedutiſſimo Elmonte intorno a ciò narra chente, es quali ritrovate egli n'aveſſe una volta in una tela ſtata al quanto appiccata al merlo d'un'alta torre; perchè egli for: te fi maraviglia,come noi che continuo le beviamo, lunga mente viver poſſiamo ſenza nocimento alcuno; ma non aya visò egli eſſer ancora nell'aria molte, e molt'altre ſoſtanze a noi giovevoli,le quali certamentepoſſona'dannidi quel le riparare. Ora in queſte,e in ſomigliati oſſervazioni cõveniva, che il buono Ippocrare tutto il ſuo ſtudio impiegafle,ricercan do diligentemente le vere cagioni della peſtilenza, accioc che prender vi dovelle convenevol riparo: e non fare il pancacciere con lunghe dicerie, e vane, e inutili fraſche tenendone a bada in quel ſuo fainoſiſſimo libretto,ove egli lungamente ragiona degli ſpiriti. Ma lalciãdo alpreséte ciò da parte ſtare,quáto Ippocra te manchevole, e difettoſo ſia ſtato in queſto ſuo nuovo ſi ſtema di medicina, ſi può agevolmente conoſcerc in ciò, che cgli della febbre và diviſando. Dice egli, che allor che diſoverchio empieli il corpo di cibi, ingencranfi in 1. 1 130i 266:: noi grandi ventolit, le quali non potendoper lo ventre di ſotto uſcire per ritrovarlo chiuſo, ruggiando per ic bu della diſcorrono all'altre parti del corpo, maſlimamente a quelle, ove ſerbaſi il langue, e sì l'infreddano, e'l fanno intriſire. Or come domine potrà mai dentro de' ſuoi vaſi infreddare il săgue plo ſpirito che è nelle viſcere? ma egli ingannofi forſe Ippocrate avviſando il ſanguc tratto dalle. vene, il qual per l'aria di fuora divicn freddo. Ma che che ſia di ciò, davcva ben egliconſiderare non potcrne in mo do alcuno raffreddare il ſangue dentro alle vene l'aria, in che di verno crudo, e rabbruzzata dalle nevi, comeche continuo ne circondi, e continuo da noi fi reſpiri. Erra ancora grandemente Ippocrate in dicendo, che'l ſangue dall'orrore, e dal treinore fopravegnenté intimo rito ſi rifugga alle parti più calde del corpo: ove poi ſi ri ſcaldi, e ſiraccenda per maniera tale, che anche l'aria me delima, che prima infreddato l'aveva,nc divenga calda; e sì amendue ftraboccheyolmente affocati riſcaldino cutto il corpo, e'l faccia febbricoſo. E certaméte in ciò egli ragio nando, molto ſconciamente s'ingāna;perciocchè,le, come egli confeffa, il caldo tutto al corpo dal fangue fi cagio. na,come potrà mai infreddato il ſangue niuna parte del corpo rimaner calda; anzi treinerà egli per tutto, e diver rà ghiaccio, come cantò l'antichiſſimo fiorentin Poeta. Qual'è colui, c'ha sì preſſo il riprezzo De la quartana, c'ba già l'unghiaſmarte, E triema tutto purguardando il rezzo. Ma, ſicome egli s'avviſa, rimangano pur calde l'altre parti del corpo, nedall'infreddardel ſangue fi mortifichi no; non mai tanto però faran vive, e affocate, che vale voli ſiano a raccender l'agghiacciato ſangue, e ſvegliare in quello un sì rabbioſocalore,qual ſenza fallo è quel del la febbre. Ma troppo nojolo lo nc verrei, ſe tutti minutamente raccontar voleſſi gli errori d'Ippocrate intorno a sì fatto ſia ſtema; perchè rimanendomi al preſente di più ragionarne trapaſſerò a quell'altro ſuo ſiſtema di medicina cotanto ICITU 1 1 1 eenuto in pregio, e commendaco dal luo chiòfator Galie no, che nulla più: di cui cotanti filoſofi, e medici in ragioz nando, e in iſcrivendo ſi ſon valuti, e tuttavia li vaglionoj che ſembra omai ſconvenevoliſſimo, e indicibil fallo il mu* farvi contro, non che manifeſtamente abburattarlo. E queſto ſi è il diviſamento, ch'e'fa nel libro della natura umana; il qual libro non può recarſi ir dubbio,che-d'Ip pocrate verainente non ſia, in ciò che, come faggiamente avviſa, e argomenta Gilieno della teſtinonianza di quel lo ſerviſſi più volte Platonc; e ben può per quello chiun que n’abbia talento agevolmentecomprendere,fin’a quá to d'Ippocrate ſi ſtendeſſe l'intendimenco, ela valoria, co sì nell'inveſtigar le coſe della natura, come in altre, ed ala tre coſe alla medicina pertinenti; e coincchè per Galien ſi contenda eſſere ſtato verannénre Ippocrate il pri:11 ) ittle tore, e inventore d'un sì fatto ſiſtemi; noa però dimeno per teſtimonianza delmedeſimo Ippocratc apertimento ciò eſſer fa ſo s'avviſa; concioſliecoſachè rapportandolo egli nel libro della vecchia medicina manifeſtamente na ragiona, come di dottrina da altri già prima di lui ricrova ta, einſegnata;anzi nel medeſimo libro della natura un la 112 agevolmente per ciaſcun ſi può comprendere, che Ip pocratc,non come di ſuo propio diviſamento ne ragionin. Miche che fadi ciò tralaſciandolo digiudicar noi al pre ſente, darem cominciamento dal titolo dellibro così an pio, e inagnifico, che nulla più; e certamente cilcuno abbattédoſi nella prima faccia nel libro deci puoi cvJpurs, ſcaglierebbeſi tolto a leggerlo, e a volerne imprender con ingordigia tutto ciò, ch'e defidera: giudicando, ch'un si valentemedico, e filosofantc, qual Ippocrate comuneiné te ſtimaſi, verainente trattata l'aveſic, licomealla propo fta materia ſi conveniva: cche,comegià Marco Tullio del divino Democrito, il quale nel cominciuniento d’un ſuo libro ſcritto aveir, b.ec loquarde univerſis, ebbe a dire nit excipit de quo non profiteatur, così d'aſpettar foile d'Ippo crate, chenulla già quivi tralaſciato aveſſe di quanto alla natura umana s'appartiene. Ma tolto egli del.no avviſo LI 2 folier  [ chernixo, e beffato rimarrebbeli,vedendo in quante brico vi parole fuggendo Ippocrate traſcorra tolto una così ma lagevole, e così vaſta matcria; e ciò, che è affatto impor tevole in lui, che cotanto nella brevità dilettoſli, egli è il libro più ricco aſſai di parole, che dicoſe; anzi di poco falla, che tutto parole egli non ſia: e quelle pochiſſime coſe, che vi ſono, così ſconce, e ſenza ragione ſi portanto, opure con cosi vani,e fanciulleſchi ſofiſmiintralciate, che nulla di ſaldo vi ſi può per huom giammai apprendere. Egli dice primieramente Ippocrate con lungo aggira mento di ciarlc, che alcuni giudicavano eſſer l'huomo ſo lamente una coſa; ma, che coſtoro tuttimal certainente comprendevan quello, di cui favelſavano, e che perciò di verfâmente l'andavano ſpiegando; concioſlīccofachè quá tunque ciaſcun di loro concordevolmente diceffe, tutte co ſe, che ci ſono eſſer una, e queſta medeſima effer una a tutte; non però di meno diſcordavā poi oltremodo inſieme in dando a quella nome; perciocchè altri dicevano eſſer aria, altri fuoco, altri acqua, e altri terra. Soggiugne egli poi, che ciafcun di coſtoro recava teſtimonianze, e ſe gni, ma di niuna lieva, in concio del fuo ſentimento; e che tenendo tutti la medeſima opinione, e contradiandoſi nel le parole, davan manifeſtamente a divedere, che niun di Loro ſapea veramente la coſa; e che ciò parimente ſi ſcor geva ili vedendo tutti coſtoro nel lor continuo piacire, che tratto tratto facevano, non mai per tre fiare continové riu fcir dalla battaglia i medelimi: maoruno, or altro eſfer il vincitore, ſecondamente che ben parlante egliera, edat popolo tenuto in pregio. Conchiude alla fine Ippocrate, chuom, che di coſe vere, e da ſe ben conoſciute faceſſe pa role, ſempremai dalle conteſe con vittoria uſcirebbe; o che ſembra a lui, che coſtoro piatiſfer con parole più per iſocmypiczzi, che per altro; perciocchè tutti alla per fine convenivano infra loro nel ſentimento di Mcliffo. Ma Galicno chiofando queſto luogo d'Ippocrate, con ' gran pompa di parole forte fi maraviglia, una sì fciocca credenza eller caduta nell'aniino di que'filoſofanti, i qua live Si venivano in sì fatta guiſa a coglier via la contemplazioni delle coſc naturali, mindando a fondo la vera filoſofia. Ma ftiaſene pur con pace Galieno: non ſembra per Dio, che con sì fatto cominciamento prometter ne voglia Ippocra te un trattato beir lungo della materias ch'egli imprender a ragionare, e quale appunto quella richiede? mapoinon trapaſſando oltre a divifarne, par che ne vogliamanifeſta mente uccellare, laſciandone affatto digiu ni della mate ria, ne inſegnandone coſa alcuna di lieva. Ma ſi per doni queſto pure a Ippocrate: qual ſi foſſe veramente las ſentenza di que’valent’huoinini, Io nonmidarò al prelen te curz niuna d'inveſtigare; tanto accennerò, che eglino tutti una medeſima coſa dicevano: e cheniun di loro giu dicava, che o l'acqua, o la terra, o l'arir, o'l fuoco foſſe principio delle coſe dell'Vniverſo:ne di ciò mai fu conteſa infra loro, comeſcioccamente giudicano Ippocrate, e Ga licno; ma ſolainente eglito piativano, e andavan confide rando di qual faccia veſtiſſe l'univerſo da prima, allor,che fu fatto ilmondo,ſe d’acqua, o di fuoco, o d'aria, o di terra. Ne laſcerò d'accennare quanto vana', e ridevole fia la ragioneper Ippocrate recata; concioſſiccofachè chiſa rà colui, che manifeſtamente non ſappia,che nel piatir de? letterati huomini, maſſimamente appreſſo il vulgo, non mai vincer foglia colui ', che ſa ben la coſa, e che dice vero: ma colui, che meglio con vaghe', e ben ordinate dicerie Ja fa colorare: eche il più delle volte nelle conreſe ne ha ſempre la miglior parte l'ignorante, e'l ſofiſta,come ilme deſimo Ippocrate ancor rafferma? Macome que’valent" huomini porevan mai eſſer d'accordo colla ſentēza di Me liffo, il qualnon diterminò mai il principio delle coſe nx turali, fe eglino, comc Ippocrate racconta, il ditermina vino Ma che che ſia di ciò, Io per me immagino, che te neſſer veramente eglino la ſentenza di Meliſſo, come Ip pocrate dice'; ma ſe ciò era, a torto certamente da lui fur biaſimati: dicendo egli, che coloro determinato aveſſero il principio delle coſc qualli foſſe, con chiamarlo o arias, o acqua,o fuoco, o terra; ſe pure non vogliam dire, che Ippocrate veramente non intendeſſe ciò che que’valent huomini fi diceſfero, it che fe ben li conſidera, il fue vellare, che in tutto il ſuo libro ne fa Ippocrate, ſembra nel vero più ragionevole. Fin qui e' fi pare, cheIppocra te abbia de'filoſofanci ſoli favellato: ora ſe'n viene egli a’ medici, e dice, che alcuni diloro affermavano non alira cola, che ſangue eſſer l'huomo; altri eller quello ſolamen tecollera: ed altri ſolamente flemına; perchè dice egli che coſtoro imitavaro que’hiloſofi dalui in prima raccon tati, tenendo uno eſſere il principio dell'huomo, e chia mandolo col nome, che più lor veniva a grado, o di colle ra, o diflemma, o di ſangue, e che quello dalcaldo,e dal freddo a cambiar fi venga in ſembiante, ed in virtù, e di venga, e amaro, e dolce, e bianco e nera, cd ogn'altra.com fa. Soggiugne indiappreſſo Ippocrate, che molti, emol ti così dicevano, e che altri, ed altri dicevan parimente coſe da queſto non guari lontane. Or quinci ſi vede chia ramente chenei,cqualiſi foſféro anche ne tempi d'Ippa crate infraʼmedici le conteſe; perchèmoſtra veramente, che da ſe ſteffa la medicina altro non ſia, ch'un fertiliffi mo campo, che litigj,piati, e diſcordio ad ogn'ora pro duca. Ma riprova Ippocrate si fatte opinioni con quell'argo mcnto cotanto per Galienu ammirato, e celebrato, che nulla più: ſe una coſa fola, dice egli, l'huomo ſi foſſe non verrebbe certaméte eglimzi a dolerſi:imperchè nó aureb be egli donde venir gli potefíe il dolore, per eſſer ogni coſa una ſola coſa; e fe pure l'huom mai li doleffe, convera rebbe ſenza fallo, che uno ſi forre il rimedio, coʻl quale egli guarir doveſſe; ma in farti va altrimenti la biſogna. Micomechè nella prima vista ogn’un ch’abbia punto d' intendimento avveder ſi poſa della vanità di sì fatto argn mento, pure ne farem noi qualche parola'; ma veggiani prima ſe contro coloro, a'quali par propiamente indiriz zato, coſa alcuna egli conchiuda. lo permeavviſo, che que'buoni medici nulla curar fi dovettero mai di sì tutte ciuffole, ed anfanie, imperciocchè eglino tenevano, che 1 1 1 o'l fangue, o la collera, o la flemma ſia quelprincipio prof fimo, cioè donde iminediatamente s’ingeneri l'huomo:ma che ciaſcun di eſli venga poicompoſto da quell'altro pri mo principio, del quale l'altre coſe del mondo tutto fatte ſono; e che queſto foſſe ſtato lor ſentimento ſcorger fi puo te chiaramente dalle parole, chc Ippocrate medeſimo di lor riferiſce allor ch'e'dice, che eſi volevano, che o dal ſangue, o dalla collera, o dalla flemma ſi-cagioni l'amaro, e'l dolce, e tutte altre coſe, che nell'huomo li ravviſano; or comenon può agevolmente l'huomo,tutto che di ſana gue ſolo formato e' li foffe, ayer cagione di dolore dall'a. maro, dal falſo, dall'acetoſo je da altre, e altre coſe, co mechè eſſe dal ſoloſangue ſi foſſero ingenerate?ora a que. fte tante cagioni de’dolori non fa egli meſtieri, che con più d'uno rimedio li ripari: e ſe in ſentenza di que'valent'huo mini nelle vene altro non è, ſalvo che o ſolo ſangue, o ſo la flemma, o ſola collera: potrannocertamente rondime no nelle vene ſteſſe, o dal fangue ſolo, o pur dalla flem ma; o dalla collera., ed oltre a ciò nello ſtomaco da'cibi molte, e molte coſe parimente di diverſa natura,contrarie; e moleſte all'huomoingenerarfi, che potranno ſenza fallo elfer cagioni di dolori, e di varie; e varie generazioni di malattie, le quali certamente con altrettante medicine di fcacciar ſi convengono. Egli doveva adunque provar Ippocrate primicramentes che dal ſolo ſangue, o dalla ſola flemma, o dalla collera, fola,nientealtro,che o ſangue, o flemma, o collera inge: nerar fi poffa; il chein niun modo fa egli, e ne men fare veramente il potea: concioffiecofachè favellando ſecondo i medeſimi ſentimenti d'Ippocrate aurebbon potuto dire que'medici, il ſangue, la flemma,e la collerà eſſer non ſemplici, ma compoſte coſe di que'quattro corpi, che Ip pocrate vuole, che ſiano i primi principj; e come tali ben poter eglino in varie, e varie forme cambiarſi; ed in vero fe le varie, e varie ſoſtanze onde l'huom ſi nutrica, come dovetter fenza fallo conoſcer que'valent'huomini, non ſo: no di ſangue formate, e d'eſſe nondimeno s'ingenera il sangue, convien neceffariamente dire, che varie, e varic coſe che ne meno han ſomiglianza niuna col ſangue, fi pof fan dal ſangue parimente ingenerare; e cosi ſomigliante mente della collcra, e dellaflemma aurebbon potuto co loro filoſofare, Ma aurebbe poi per avventura riſpoſto un di que'filo ſofi, che Ippocrate s'avviſa parimente colla ſua ragione di riprovare, chel'aria ſola col riſtrignerſi, e coll'allargarſi, e con altri, e altri movimenti delle ſue particelle valevole fi renda a ingenerare, e ſangue, e carne, e oſſa, e nervi, c altre, e altre parti cosìſalde, come diſcorrenti dell'huo mo, e che ſimiglianteméte coʻmedefimi ſuoi vari moviine ti cagionar poſſa mole’altre generazioni di varie altre lo ftanze, onde ricever poi debba l'huomo non una, ma più, e più cagioni di dolori, e di malattie, alle quali faccian, meſtiericotantialtri medicamenti per ſuperarle. Ma cer tamente Meliſso, e gli altri buoni filofofanti, i quali fole lemente ſi fa a credereGalieno ch'abbia Ippocrate vinti, direbbono, che non ſolo veramente uno ſia il principio.di tutte coſe, cioè il corpo: ma che ſe uno il principio non foſſe, non ci ſarebbe ne dolore, ne malattia, ne rimedio alcuno giammai, e che a fare diverſità di inali, e di rime dj altro non vi ſirichiegga, che l'eſſer quell'uno corpo di verſamente ſtritolato, e partito: lecui ſottiliflime particel le di tante, e sì varie figure compoſte, ſolamente in ciò dif feriſcano. Mimaraviglio poi oltremodo di Galieno, il qualnon s'avvede,ciò che impugna Ippocrate eſſer crede za d'Ippocrate medeſimo; ma ciò che nedee recar vcra mente più maraviglia, ſi è ch ' una tal opinione dallo ſteſ ſo Galieno vien tenuta in tutte le ſue opere, e particolar méte nelle chioſe di queſto medeſimo libro.Ma Ippocrate dopo aver recata la ſúdetta ragione folleméte dice,checo lui ilquale porta opinione, che l'buomo ſia ſolo ſangue, debba mo& rar, che'l ſangue non muti ſpezie, ne ſi cábj in varie, e varie maniere,c allegnare almeno un'ora ſola dell' anno, o qualche età dell' huomo, nella quale non altro che ſangue in eſſo lui fi ravviſi, e ſimilmente dice egli degli altri. Ma perdonifi ad Ippocrate il non oſſervar lui l'ordi nato diviſamento nel favellare, avendolo egli ſempremai per coſtume: Io l'addimando in prima, perchè ſecondo lui la collera, il ſangue, e la flemma, e la malinconia nel comporre varie, e varie parti dell'huomo, poterono sì be no cambiar natura: e cambiar non potralla ciaſcuna di lo ro ſeparatamente? e s'egli riſpondeſſe, che non già col cambiar natura, macol ſolo meſcolamento quelle parti formarono, lo gli ritorno a dire, che non mai col ſolo meſcolamento quattro corpi a far mai valevoli ſaranno tá ta, c tanta varietà dicoſe; e addurrei per eſemplo, che quattro lettere dell'alfabeto col ſolo meſcolarſi pochiſſi me ſillabe arrivano a formare. Ma ſe que’mcdici diceſſe ro eſser un di que'loro umori compoſto de quattro corpi d'Ippocrate, come potrebbe mai Ippocrate quelli impu gnare? ciò, che promette poi Ippocrate di fiar vedere, che quelle coſe, delle quali egli compone l'huomo ſi trovino mai ſempre nell'huomo medeſimo: Io per me non ſo, co me ſarà egli ciò mai per moſtrare? Contende parimento Ippocrate non poterſi farla generazione da un ſolo princi pio; recando perragione, che un ſolo principio non poſsa meſcolarſi. Ma chiaramente ſi dimoſtra ciò che in pri ma lo avviſai, Ippocrate non miga comprenderei veri se timenti di que'filoſofi; concioffiecoſachè un principio, il quale abbia particelle diverſe tra di loro per figura, per grandezza, e per movimento, con meſcolarſi clieno infra loro in varie, e varic guiſe,valevole egli è certaméte ad in gencrar tutte coſe. Per far pruova poi maggiormente della ſua ragione ſog giugne Ippocrate: ſe ne meno il caldo, il freddo,e l'umi do, e'l ſecco,fe temperati eglino non ſono,non baſtano a far la generazione, come aurà mai vigor di farla un ſol principio: Io per me non ſo, che ſorte d'argomentar ſi ſia queſta d'Ippocrate; doveva certamente egli, il che mai no adempie, provare in prima con efficaci ragioni, che di quclle quattro coſe il tutto s’ingencri; e poi addurle per elemplo. E nel certo egli non ha dubbio, che a lui avreb M m bon riſpoſto quei filoſofi, che clleno, comeche ten perate ſi fingano, non poſsano in niun modo ciò fare, un principio ſolo a tanto bene valevol' eſsere: ficomenes terra,ne acqua,ne pietra, ne aria, ne altre, e altre coſe mol te poſsono formare una ſpada, un'elmo,una corazza, e tanti, e tanti iſtrumenti da guerra, che'l ſolo ferro può fa re: imperocchè il ferro ſolo è quello, il quale ricever puo te le diſpoſizioni neceſsarie a formargli, non altrimenti il corpo, il quale in particelle, o ſia già diviſo, o divider ſi poſsa, le quali ricever poſsano parimente varie, e varie grandezze, fito,figure, eordine, può ogni coſa produrre, ne que quattro corpi d'Ippocratenel modo, che egli va filoſofando, potranno mai ne anco un menomiſlimo gra nello di ſenape giammai ingcnerare. Ma non altrimenti, che s'egliavuta già aveſse la vitto ria, faccendo gran gallorìa trionfa il buono Ippocrate di quegli antichi maeſtri, e dando a lor la ſentenzia finale co tro, determina temerariamente la quiſtione con dire, che eſſendo la natura dell'huomo, e dell'altre coſe chente, e quale egli ha diviſato, non uno ſia l'huomo: ma che ogn' una delle coſe, che lo ingenerano abbia una cal virtù, che al corpo ella ha dato. Magodaſi pure Ippocrate della ſua vittoria, e ne riceva l'applauſo da Galieno, il quale non per altro certamente fa ſembiante di farne cotanta ſtima, ſe non ſe per acquiſtar fede alle ſue opinioni; qual coſtu maegli parimente negli altri autori tener ſempremai ſcor geſi, delle teſtimonianze de'quali ſe mai egli a ſuo pro fi vale commendagli, che nulla più; ma ove poi cofa inſe gnino alle ſue opinioni contraria, non ha villania, che ſi diceſſe mai a triſto huomo, che lornon dica. Ma ripi gliando il noſtro diſcorſo, vuol egli intendere certamente per le teſtè menzionate parole, che que' quattro ſuoi corpi ritengano il calore, la fredezza, la ſiccità, e l'umidità nel corpo per loro ingenerato. Ma cotante altre, che nell’ huomo ravviſanſı donde cglino naſcono? Dirà egli dall' accénate quattro qualità;ma ſe altri ciò negaſſe,come glie le neghiamo noi, come il proverebbe mai? Ma così ſcon ciaméte diſcorre Ippocrate p no aver voluto mai volger 1. ſiad fi ad inveſtigar la natura di quelle ſue quattro qualità; il che certamente al filoſofo, e al medico far ſi conviene,mal. Gimamente ove imprenda a trattare della natura dell'huo mo: e dall'aver ciò traſandato Ippocrate, avvien, ch'egli forte aggirandoſi immagini potere il leggiero, e diſcorré te caldo quelle coſe operare,che a ſpiritual ſoſtanza ſola mente convengono. Ma laſciam noi a miglior huopo il diviſar di ſomigliante biſogna: ſoggiugne appreſſo Ippo cratc con lungo giro d'ozioſe ciance, che in diſtruggendo fi l'umancompoſto, tutti e quattro i già detti corpi ſce verandoſi, alla lor primiera natura ritornino; e ciò vuoľ anch'egli,chenel disfacimento di qualunque altra coſawa avvegna. Ma le egli ficomea caſo, in fretta, e ſenza niu no avviſo ſomiglianti coſe afferma, così foſſe andato a poco a poco con ſagace diſcernimento diſaminandole, lo porto opinione, che in cotanti errori non ſi ſarebbe lalciaa to così agevolmente traſcorrere; perciocchè oltre alla Chi mica arte,altro ancora ne rende ſicuri, che quelle ſoſtanze in cui nel lor disfacimento ſi riſolvono i corpi,ſiano non, miga ſemplici, ficomee'vuole, ma compoſte. Paffa più oltre Ippocrate coll'impreſo ordine a dir, che nel corpo umano viſia il Sangue, la Flemma, la Collera gialla, enera,iquali umori ove ſiano con quell'ordinamen to, che ſi convenga, l’huom viva in ſanità:mafe'l contrario avvenga e' toſto ammali. S'affatica egli con lunghe dice ric di moſtrar, come poffan que' quattro umori tutte le malattie ingenerare:maciò fa egli troppo groſſamente, e generalmente ne'dubbj maggiori tacitamente paſſandoſe ne; e dopo queſto torna di bel nuovo alla canzone dell' uccellino, che ſian quattro gl'umori de'corpi degli anima li, di natura, e di nome fra effo lor differenti; la qual di verſità immagina egli di ſtabilire, e poter ſaggiainente ar. gomentare dalla diverſità de'colori, e dalla diffomiglian za del tatto, che ſecondo lui vi s'avviſa. Ma s'aveſſc egli mai poſto mente a cotante coſe; ch'avendo un medeſimo colore fon di natura poi diverſiſſime, e al contrario ad al tre, ch'avendo una medeſima natura han colori aſſai di M m - 2 ver 276 Ragionamento Quarto 1 verſi, ſicome le Fraghe, le Ciriegie, le Azzaruole, le Corniuole, eľVve, e i Fichi, certamente, del ſuo ab baglio ſi ſarebbe avveduto. E più avanti dovea fomiglia temente avviſare, che v’abbian parecchi, e parecchj altre coſe, che per poco artificio variando grandeméte nel colo rela medelima natura pur ſerbano;licome della Cera, dell' Ambra gialla,dell'Inceſo,delCorallo,del corno delCervio avvenire a giornate ſperimentiamo;evidétiſlimo argomen to, che i vari colori non ſian buoni, e fedeli teſtimonjdel la varietà della natura delle coſe. Ne la ragione il con trario ne addita; imperocchè la varietà de'colori, non al tronde avviene falvo che dal variamento del ſito, o della diſpoſizione della ſuperficie de'corpi, la qual diverſamen te i luminoſi raggi riflette. Ma che domine cadde cgli in mente ad Ippocrate allor che diſſe, che dalla varietà del toccamento, poſſano iva rjumori diſcernergli E quale è mai quel divario, che mer cè della mano poſſa avviſarfi, ſe tutti egualmente caldi fi ſperimentano, tutti egualmente nelle vene, e nell'artcrie so diſcorréti. E da cotali lor vaſi uſciti eglino p la più par te e'li rapprendono, e in una maſſa s’uniſcono, nella quale, poco, oniun divario per lo toccamento può ſcorgerſi E ſe più avanti facendociconſidereremo l'altra ragion pre ſa dalla varictà del calore, dell'umidità, della ſiccità, no aurem di forza a confeffar, ch'ella più frivola aſsai, eri devol fia delle prime, e che moſtri ben’appieno quanto egli sbalcſtrato in filoſofando Ippocrate vanamente s'ag giri? concioſiecofachè, ſe negli umori non v'ha ficcità, come potrebbeſi dalla ficcità la lor differenza conoſcerſi? e ſe l'umidor del corpo altro non è, ſe non che la ſua di ſcorréza, c'l poterſi agevoliéte ad altro corpo appiccare, ficome conſentir ſi dee da chiunque voglia Tanamente fi loſofure, egli dourà concederſi, che tutti gli umori del corpo umano egualmente fian umidi, dache tutti s'ap piccano parimente alcorpo tangente, e tutti parimente ſon diſcorréti,e quanto al calore détro al corpo, tutti ſono egualmente caldi, e fuor di quello tutti fimilmente dalla circonſtante aria raffreddati vengono, o riſcaldati. Ma più avanti: ſe gli umori nel corpo umano ſognati da Ippocrate, ſicome e vuole veramente ſi foſſero, e alcun di elli, o calorc,o freddo eccitaffe, impertanto no potrebbe dirſi effer cotale umore,o freddo, o caldo: imperocchè ſe o ſpina, o chiodo, o altra pugnente, o doloroſa materia in alcuna parte del noſtro corpo violentemente ſi ficcarella ſuol poco ſtante, e freddi riprezzi, e ardenti febbri ecci tare; e pur la ſpina, il chiodonon per tanto, o freddi, o caldi potrà dirſi,chefiano. Finalmente ſi sforza Ippocrate queſta varietà d'umori di Atabilire con conghietture tratte dalle purgative medicine. Se medicina purgante la flemma, dice egli, ad huom da raſli giammai, certamente fi vuoterà la flemma, e così pa rimente ſiegue a dire dell’una,e dell'altra collera; e ſoggiu gne appreſſo: veggiam noi per ogni ſcalfittura uſcir fuora il ſangue, e ciò in qualunque tempo, o d'eſtate, o d'inver no, o digiorno, o di notte; ma ſe alcun primieramente riſpondeffe ad Ippocrate, come per tacer de’noſtri, già fe rono i più valenti, e più celebri fra gli antichi medici,non avervi medicina, che vaglia a vuotar determinato umore, che mai incontro gli ſi potrebbbc per lui replicare? E a yo ler dire il vero, lo ſtimo da non dover mettere in forſe, che Ippocrate niuna notizia aveſſe delmodo, comeoperano le purganti medicine; che ſe mai di quello ſi foſſe alquan to inteſo, forſe non gli ſarebbono dalla penna uſcite cotante fraſche, e novelluzze; ne ftillato s'aurebbe il cervello per dimoſtrar gli errori in cui credette eſſere tutti coloro chediſſero uno eſſer l'huomo,e non già dal guazza buglio di sì diverfi umori compoſto: c pur egli non giunſe mai la mente di que'valent’huomini ſanamente a compren dere, come chiaro dal medeſimo ſuo diviſamento ſi fior ge. Credettero, dice Ippocrate, coloro uno effer l'huo mo; perciocchè vedevano per le purganti medicine morir ſene alcuni con vuotarſi un ſolo umore; perchè ſtimavano altro non eſſer l'huomo, che quel folo umore; ed altresì dallo ſcorgere ſolamente ſangue nfcir a' decapitati,non esser altro l'huomo,che ſangue; e per la medeſima cagione non mancò chi diceſſe eſſere il ſangue l'anima umana. Or contro ad eſſi la vuole Ippocrate, e immagina di gettare a terra tutti i loro argomenti, e opinioni, dicendo non mai alcuno eſſer morto colla vacuazione d'un ſolo umore, ſenza tutt'altri eſsere inſiemcmente ſcappati fuora; e vuol che quantunque volte huom prendendo medicina purgante la collera ſe ne muoja, vomiti primicramente la collera, ap preſſo la flemma, indi la malinconia, e finalmente il ſan gue di forza ancordalla purgazione ſia tratto fuori, e ſo migliante avvenga nell'altre purganti medicine. Ma chi quinci non iſcorgerebbe, che Ippocrate, o voleſſe altrui uccellare, o ſcriver ciò che prima gli cadeſſe in penſiero, fenza prenderſi briga di narrar gli avvenimenti diquegl'in fermi, cheper virtù delle purganti medicine forſe a gior nate gli morivano nelle mani;e perciò anche aveſſe a sì gra zioſa favoletta aggiunta una più vana ragione, cioè, che il medicamento entrato in corpo vada da prima movendo, e cacciando fuora quell'umor, che ha porianza di trar fuo ra. Aggiugne per iſpianar la materia,l'eſemplo delle pian te, le quali dic'egli; dalla terra per lor nutriméto traggono varj ſughi dolci,acetoſi, e falli; c ſomigliantemente po tranno le purganti medicine trarre da tutto il corpo uma no i varj uinori, ma coll'ordinamento, che teſtè accenna vamo: cioè, che la medicina purgante la flemma debba vuotar prima la flemma, e poi gli altri umori, e finalmen te il ſangue, e cosìſimilmente tutt'altre; ma dagli ſcan naci prima il ſangue, poi la flemma, e appreſſo la collera eſca fuori. Ma con tale eſemplo delle piante, non che non agevoli egli l'intelligenza de'ſuoi trovati, ma vie più l'in garbuglia, e ravviluppa; concioffiecoſachè non mai può ſembrar vero, cui voglia la coſa pe'l ſuo verſo guardare che le piante ſenza uncini avere, o mani, e ſenza poter dar di grappo poſſano trar ſugo dalla terra, o altro, che lor bi fogni; elleno ſi nutriſcono della terra, macon altro ma giſtero di quel che troppo groſſamente immaginò il buon Ippocrate. Evvi nelle piante una fotcililina, e volantes sostanza ſomigliante molto allo ſpirito del ſangue degli animali, la quale ſtando in continuo movimento diforme cazione, la picciola pianticella sbucciando ſcappa fuori, e framiſchiaſi colla terra proffimana alle radici; or tra per lo movimento d'eſſa, e per quello, checontinuo dal Sol ri ceve la terra, e damolt'altri minuti corpi, che perla lor focofa, e attiva natura, a guiſa di tanti ſpiritelli l'agitano,e la commuovono, molte parti d'eſſa in ſu vengon fofpinte in licve alito aſſottigliate, le quali di leggier poſſono i pic cioli pori delle radici, in cui s'abbattono penetrare, e fic candofi elleno in così farti buchi vengonoa cambiar figu ra, e da'formenti digeſtivi delle medeſime piante altro va riamento ricevono si, che pian piano vengono la pianti cella ad accreſcere, in lei traſmutandofi;ne queſta trasfor mazione è maligevol molto a comprendere, anziin molte frutta può agevolmente oſſervarſi; pongaſi mente alle me lagrane, che a volerle aſſaggiare ritroveralli, che le ſue fibre portano a' granelli un amarisſimoſugo, il quale, o dolce, o alquanto agro divien nella carne d'eſlo granello, ma nell'oſſo inſipido, e ſcipito; e ſimilmente avviſeremo altresì in quelle frutta, che colte da propj alberi, e ripo ſte ſoglion venire a inaturezza: alcunide’quali eſſendoin prima amari divengon poi dolci, e ſaporofi, ficome ſono le ſorba, le neſpole, e le melegrane medeſime. Non fa dunque luogo di traimento veruno alle piante, acciocchè fi nutrichino; il qual traimento da filoſofi è ſtato meſſo nella natura, comechè di ciò alcuna pruova giammai non aveſſero:ne ſo lo pchè vogliano farci a credere,ch'un ſimile abbia a trar l'altro fimile séza adoperarvi altro, cheſimpa tia, la quale altro noè, che un bel vocabolo. Nóv'ha adun que medicina al modo, che vuoti il tale,o'l tal determinato umore; ne mai vero diſſe chiunque affermò aver ciò offer vato: ma le purganti medicine ciò che nelle viſcere ritro vano, formentano, e rendon mordace, e fangli cambiar na túra; e quinci avvien,che ciò che ſi vuota appaja di diver fi colori, e prenda una puzza ſimile a'cadaveri sper, eſſer le purgativemedicine si ſtimolofe, che aprono ledelicate boccuzze de'vaſi facendo, da eſſe uicir fuori il ſugo in ef ſo lor contenuto, e corrompendolo; e conſiſtendo la virtù delle purganti medicine ne'lali, chein eſſe ſono, in quelle foſtāze elle più operano, e la efficacia lor dimoſtrano mag giormente ove i ſali più preſtamente diſſolvonſi; e quinci avvien, che le fecce, che per eſſe ſi vuotano liquide diven gono, e diſcorrenti. Finalmente lo immagino, che non mai veduto avelle Ippocrate ſcanar Porco njuno,e che ſe pur cgli guatato mai aveſſe immolar vittime negli altari, aveſse avuti gli occhi di glauco,o di nero colore tu le pupille ripieni,õde la gialla, e nera collera nel lor ſangue diveder raffembrogli. Scorſe egli per avventura alcuna fiata, Io bé glicle cóſento,ad huo dopo aver preſo vomitiva,o altra ſimigliante medicina,get tar perla bocca fuori inſipido,amaro, acetoſo, biáco,o gial lo uinore, ma non giunſe a conſiderar tanto che baſti,cioè che i sì fatti umori s'ingenerano nello ſtomaco de'corpi c.2 gionevoli, e infermicci, e chenon ſi ravviſano nelle venc, ne pur quand'huomo inferma. Ne deve egli così toſto ob bliar ciò, che altrove più d'una fiata racconta, altri ſughi aver egli oſſervato recere, c per ſotto altrui cacciar fuori certi altri umori, i quali eglinondimeno vuol, che nelle vene non abbian luogo; sì cheanche ſecondo lui, non è fano diſcorſo, ne concludente argométo a provar gli umo ri eſſervinelle vene, perchè ſi vuotano colle purgagioni. Ma a che domine dovrà egli tanta fatica logorar tanto tempo indarno, ſtillarli sì fattamente il cervello, e porger cagione a' poſteri di ricercar ſempremai Duovi ſofiſmi per iſtabilir la ſua ſentenza in materia, che con un foi fifo gua tuento potea ben coſto determinare? Ecco come una ri cevuta opinione ne fa velo alla mente,si ch'ella obblia ſo vente i più piani ſentieri della verità. Orlo, direi ad Ip pocrate, e a tutti quanti i ſeguaci di lui, traggaſi ad huom fano il ſangue, cd aſsaggiſi, chee' non ritroveralli ne af ſai ne poco amaro; oue è dunque la collera? e non ſarà l'a cctoſo, oveè la malinconia? Replicheran per avventura, che'l miſchiaméto, ela cõfuſione di sì fatti umori fraſtorni tal diſcerniméto al palato; ma ſe a giuſta porzion di ſangue poche gocciole d'acetoſo liquore,o picciola quãtità di fiele ſi meſcoli, e ſi dibaſti in modo, che daper tutto ſi ſparga,e fi confonda,noi proverem nel ſangue,e l'acetoſo, e l'amaro ſapore:adunque ſe nõ vi ſi aſſaggiavano in prima, novi do vevan eſſere. Più avanti veggiam ſe ſceverandoſi i diverſi liquori, che nel raffreddato ságue ſi ſcorgono ſi poſſano av viſare i quattro umori d'Ippocrate;egli è ver,che nel ſangue ſia un liquore acquoſo,in su'l quale vogliono i ſeguaci d'Ip pocrate, che nuoti la collera,ingannati da un certo giallor, che vi ravviſano, e'l rimanente ſia tutto ſiero; ma s'egli ciò vero foffe, abbiſognerebbe, che la ſuperficie del detto li quore amareggiaffc;il che no mai veggiamo avvenire.Se poi tutto il ſiero ſitragga via dal ſangue, rimarrà una materias rappreſa, la qualroffa nel ſommo,e nera apparirà nel fon do; ma non miga egli è vero, ficome per coloro ſi eſtima che quella, ch'è in fondo del vaſo ſia la malinconia, 1013 efſendo ella di niun modo aceroſa, ma del ſapor medeſimo della roſſa; ſenzachè fe tal fanguigna maſſa foſfopra ſia ro veſciata, la roffa parte in nera, e la nera ſcambieraſli in rof. fa; il che avvien dall'aria, la qual movendo le particello; della fuperficie del ſangue, le fa così roffe, e di più allegro color dell'altre apparire. Ma oltre alle già dette coſe, due altre ſoſtanze nel rapa preſo ſangue ſi ſcorgono; una dellequalicſſendo diſcorre te, e bianca, ne fa chiaro veder, ch'ella fia chilo, in fan gue non ancor traſınutato: l'altra gaglioſa,e tenace, di cui ne fa purmenzione Ippocrate; e perciocch'ella è deſtinata a nutrir le parti tutte del corpo, da' moderni ſugo nutriti vo acconciamente vien detto; e queſto ſugo va col ſieroſo migliantemente miſchiato; e agevolmente la coinprenderà chiunque ponendo il vaſo del detto fiero ſu le lente bragie nie farà tutto l'acquoſo unore agiatamente eſalare. Nefi nalmente voglio laſciar d'avviſare, che in quelle febbri, le quali per parere d'Ippocrate ſon dalla bile prodotte, non, mai ritroveralli il ſangue d'alcun'amaro ſapore, nepur quella parte, che vi va a nuoto; ne in quell'altre, che per Nn avviſo di lui dalla malinconia provengono, il ſangue ſenti rà miga dell'acetoſo; ne men quella parte d'ello che, nera appariſce; ſicome ſenza durarvi molta fatica potea chiarir fene Ippocrate, ſe pur ſicome non ebbe a ſchifo le ſtoma chevoli fecce degl'infermi aſſaggiare,così la pūta della fin gua in cotai parti del ságuedegnato aveſſe d'intignere, qua lora veniva tratto agli ammalati di terzan2,0 quartana;e ſe a coſtoro egli non ne traeva, in altre opportunità potea farne eſperimento. E più di lui era debito di Galieno tal fatto, nie dovea a chiuſi occhj in biſogna di cotanto rilievo preſtar fede ad Ippocrate. Ma Io non poflo non ammirar quì quelle anime grandi, le quali a torto accagiona Ippocrate, perchè elle dicano, effer flemma l'huomo; perchè avendo nel ſangueſcorta quella bianca ſoſtanza ch’appella flemma Ippocrate, giun ſero a comprendere, di quella effer formato l'huomoje ve ramente di quella vié la parte materiale del ſeine formata, di quella il latte, diquella tutt'altre parti del corpo uma no nutricanſi. Ma ad Ippocrate ritornando: tralafciò egli in queſto luogo di far parole della più nobil parte del ſan gue, dico della parte ſpiritofa; quantunque altrove oſeu ramente ne faccia motto, e ſenza penetrare, o diſaminar tanto che bafti la ſua natura; e moftra, che la riponeſe fra le ſoſtanze diſcorrenti non umide, licome è l'aere,e non già fra le umide, com'è l'aqua: il cui ſembiante più coſto par, che ritiga lo ſpirito del fangue;il che no dovea trapal farſi tacitamēte da Ippocrate;e doveaegli por mēte altresì a cotāte altre umide ſoſtanze dell'huomo, e diſaminar così di effe, come delle parti ſolide, la natura, gli uficj,e le ope razioni; le quali ignorand'egli nulla viene a ſaper della na tura di quello, la quale altrui pretende d'inſegnare, ne può ſiſtem.2 alcuno ne meno manchevole, e ſcempio ftabi fire di razional medicina. Ma il buono Ippocratc, come ſe taſe uficio aveſſe inte ramente compiuto, e come ſe quanto avea diviſato foffes incontraſtabile, e fermo, paſſa più avanti nel fuo libro a narrare, che l'inverno s'avanza nell'huom la flemma,come quella, che più d'altri umori a cotale ſtagion confaffi,eſſen do più di tutt'altri fredda; la qual coſa egli vuol ritrarre non altronde, che dal toccamento; ed afferma coſtante mente, cha la fiemma,del ſangue, e della collera ſempre ha'l tocco più freddo; la qual coſa però quanto ſia falſa è teſte per noi detto. Fa egli, che l'inverno abbondi più ch ' altro tempo la flemma; perocchè in più larga copia ne veg giam per le bocche, per le narici degli animali uſcir fuori; e per l'enfiature, e altri mali dalla flemma cagionati, che ſovente in quella ſtagione afcir ſogliono agli huomini. Ma ſe l'inverno, ficomealtroveafferına Ippocrate più che mai le viſcere, ele interiora ſon riſcaldate, non ſo lo come poſs'egli argomentar ch'abbiano allora a ingenerare abbó dante copia di flemma, poſto che la flemma foſſe da an noverare infra gli umori; e flemma foſſe ciò, che per la boce ca ſi ſpurga, e per le narici, e ch'ella produceſſe que'mali, che freddi s'appellano. Ma più avāti al diviſamento d'Ippocrate fa la continua cſperienza contraſto, e ſcorgeſi, che l'eſtate, ſe avviene ad huom qualche catarro, qualunque ne ſia la cagione, e' ſcaricherà per le narici, e per la bocca le flemme, ch'e'di ce, in tanta copia, cheſtimeraſli colui non aver altro inca po, ne in corpo, ſalvo che flemma. Ora Ippocrate a voler faggiamente diſcorrere, dovea bé avviſar, che l'inverno per lo freddo riſtrigonfi i pori della' noſtra pelle: il perchè non potendo per eſli uſcirne cosi ah bondantemente quella ſoſtanza, che in ſottile alito,altro tempo ſvaporar ne ſuole, vienaa rapprenderli in flemma, edella natura per più larghe ſtrade ſivuota. La Primavera vuol, che ancor ſian copioſe le flemme; ma collo ſcemamento del freddo comincino pian piano w ſcemarli, e'n loro veceil ſanguigno umor vada creſcendo. Ma feper opinion di lui anche la primavera le vilcere lon cal:liffim, chefanno in corpo le fléme, e chi loro da luo go? Ma la ragio, che ne reca per l'avanzaméro del ſangue, cui no fem ! rerebbe dimoſtrazion di ſcrupoloſo Geometras Nn 2 : la Primavera dic'egliè calda, ed umida,e caldo, ed umido è altresì il ságue:adúquc alla primavera cofaſſi. Ma pur noi veggiamo,che a quel tempo ilſiero alquáto più copioſo di venga, anziche no, ſe a quel tempo ſon più abbondanti le urine, e oltremodo patiſcono gli Idropici, in lor ſover chiando sformatamente le acque. E che abbiam noi a dir degli altri argométi, ond'egli ſi sforza Ippocrate di confer mare tal ſoperchiamento di ſanguenella già detta ſtagione: in cui, dic'egli, fogliono avvenir diffenterie, e vacuazion di ſangue per le narici, ed è il ſangue più caldo, e roſſo, che mai? Certamente come altre fiate abbiam detto; im perocchè la diſſenteria non puòdal ſangue avvenire,il qual giuſta i ſentimenti d'Ippocrate è umor piacevole, e dolce anzi che no; e più toſto la malinconia, e la collera dovreb bon eſserne accagionate, le quali eſsendo aſpre, e ſtimo Joſe avrebbon a rodere le inteſtina, e farne uſcir fuori il fangue. Rimarrebbono altre leggiere coſe a diſaminare in que fto libro d'Ippocrate dietro tal materia de'quattro umori, le quali da lui coll'uſato ſcioperìo, e groſſezza fi trattano, e altre coſe degne da avvertire occorrerebbono per avven tura a chiunque con minuta diligenza l'andaſse rivolgen do, ch'Io per fretta non ho curato d'oſservare. E baſtami d'averne fol tanto confuſamente rapportato, perchèfi ſcor ga qual foſse la traccia da Ippocrate temtita nel filoſofare dietro le biſogne della medicina; e ch'egli andato foſse nolto lungi dal vero, ne mai imbroccato aveſse al legno. Ma ſe pure a lui non venne fatto di poter con pruove fta bilire i quattro primi corpi,no è da prenderne maraviglia: imperocchène iné v'aggiuſe Ariſtotele;il quale,e pl'altez za dell'intédiméco, e per le notizie di varie coſe,digrā lūga gli ſi dee antiporre,che che ſe ne dica in contrarioGalieno; e veramente le ragioni per colui rapportate eſſer frivole, e di niun valore, non che da altri,mada'medefimi Peripatetici vien conſentito; ma che chc ſia di ciò, non avendo Ippo crate potirto giámai provar ne l'eſiſtenza de'primi quattro corpi ſemplici, ne de'quattro umori, tutto il ſiſtema deila ſun ſuamedicina,chelu vi fő:la,cõvié,che crolli ad ogni leggier foffio, e cada giù in terra. Maben s'avvide Ippocrate della debolezza de' ſuoi ſiſtemi; onde o di rado, o non mai in al tri ſuoi libri volle valerſene, e particolarmente in quei de gli Aforiſmi;i quali non voglio lo traſandar ſotto lilenzio, poichè da molti ſono avuti in sì gran pregio appo Suida, che loro non già inortal coſa, ma opera di ſouraumano in gegno raſſembra, non altrimenti, che dell'Alcorano ſi fac ciano i melenli ſeguaci di Macometto. E per lo meno cre de altri, che non maisì grand'impreſa fu da un’huomo ſo lo compiuta; c anche coſtor ſon partiti, alcuni credendo, ch'egli da varj ſcrittori gli aveſſe raccolti; c altri, ch'e' la veſſe copiatidalle tavolette affilfe nel tempio d'Eſculapio. E certamente ſe mai vero foſſe, che Ippocrate, come An drea antichillimo autor riferifce, miſe a fiamme, ed a fuo co quella cotanto celebre libreria di Gnido, egli ſarebbe da fufpicare, che nõ pur gli Aforiſmi,maquát’opere van del fuo nome intitolate,ſtate folero altrui fatiche, ed ei per ac cattarne reputazione, come propie le aveſſe divolgate. Ma avend' egli per avventura poco ſanamente le opinioni di quegli autori compreſe,sì malamente compilare le aveſſe; e quinci ſia altresì avvenuto, che tante varie, e diſcordan ti dottrine, e opinioni per entro vi ſi ritrovino; e perciò ſia indarno gettata la fatica di coloro, che di accordarle tanto lungamente ſi ſtudiano; a ciaſcun de'quali potrebbe ram mentarſi l'avviſo di Franceſco Ottomanno: Vercor ne ple rumque in iis, qui confultò inter fe diffentiunt conciliandis nimium ingenioſi eſe velimus. Ma che che ſia di ciò, lo per me ſon ſicuro, che agevolmente accorgerafli, cui caglia di chiarirſene, non effer degni di cotante lodi gli Aforiſmi d'Ippocrate, quante d’uma cieca, e comun fama ne han ri cevuti; e perciò nella ſchiera de poco accorti foſſe il noſtro Petrarca,ovein favellando di biſogna a lui poco conoſciu ta ebbe a dire: E quel di Coo, che fe vie miglior l'opra, Seben intefi foller gli Aforiſmi. Sicome del poco lor valore s'avvider tutti que’medici,che infra i Greci ebbero inaggiore ſtıma,e rinomea;i quali non men, che di tutte altre opere d'Ippocrate, tenner pochiſſi mo, o niun conto degli Aforilmi; la qualcoſa ſi ſcorge rebbe manifeſtamente da noi,ſe ſpente non foſſero,e ſmar rite tutte loro ſcritture; ma nondimeno può argomentar ſi ſenza rimanerne in forſc, dalle reliquie, chene' libri di Galieno, e di Celio Aureliano, a ' dinoſtriſe ne riſerba no; e per quelle poche memorie, ch'abbiam di Giuliano eccellentiſſimo filoſofo, e medico, quantunque il con trario ſis forzi dimoſtrarGalieno. Ma ſe ancor foſsero in piè que’libri, che ilmedeſimoGiuliano compilò contro gli Aforiſmi, o ſe foſſero almen rimaſe le chioſe, che ſu d'er ſi fe Lico, il quale ſi diede cura d'andargli un per uno mi nutamente, e ſenzariguardo alcuno diłaminando, chente, e quali eſſi ſiano apparirebbe chiaro, comechè io non mi dalli briga di favellarne; ma poichè così va la biſogna: di co, che molti degli Aforiſmi liano così generali, che per la medicina poco, o niun pro trar ſe ne poſla; e di leggier ſi potrebbono ad ogn'altra materia acconciamēte adattare; il che ha porto occaſione di occupar certi sfaccédati cervelli a travorgergli con pochisſimo ſtorciméto alla politica, alla milizia, e ad altre arti, e diſcipline; altri ve ne hanno co tenenti sì groſſo, e materialinotizie, che ad ogn ' huom di 'contado aſsai meglio ſon conoſciute; altri, come avviſa il Santoro, non li poſson mai recare ad effetto ſenza molto ritegno, e ſenza l'indirizzamento delle regole dell'arte;di fetto, ſenza fallo,gravisſimo ad autor, che imprenda a pre. ſcriver certe regole, e leggi in qualunque arte, emaſlima mente in medicina; e altri v'han cui facendo biſogno di pruove, fur da lui tralaſciati ſenza alcuna ragione; e ſe pu re alcuna fiata vi rapporta qualche argomento, ritroveral fi eſſer poco ſaldo, o inefficace; anzi loventi fiate ridevo le, e frivolo; altri ſe ne ritrovano,la cui dottrina, o aper tamente, o per poco che ſi vada diſaminando, falſa, e fal lace ſi ſcorge. Altri finalmente per entro a quel libro ve n'han sì confuſi, e oſcuri,e impigliati, ch'a volervi per in tendergli qualunque più grave farica durare, non ſe ne ri trarrà coſa, che monti un frullo. Ma l'oſcurità è vizio si ordinario d'Ippocrate, che ne men Galieno cotanto di co lui parziale potè contenerſi sì, che non ne faceſſe motto, a non ne lo proverbiaſſe, e ſcherniffe più fiate. Ma fe è vizio, ed error grave l'oſcurità in qualunque materia, egli è ſenza fallo graviſſimo, ove ſi tratti dimc. dicina; arte malagevoliſſima per ſe ſteſſa, e in cui l'crrare potrebb’eſſer di graviſſimi danni, e nocumenti cagione; if perchè non ſon da intendere quelle ſcuſe, che dell'oſcurità d'Ippocrate voglion farſi per alcuni, dicendo ch'egli a ſtu dio voleſſe sì fattamente ſcrivere le ſue opere, e maſſima mente gli Aforiſmi, acciocchè sì prezioſiteſorinon iſtaffe ro ſenza riſerbo; ma quafi ſotto bel velo ricoverti, e aſco ſi; imperocchè lo primieramente non ſo intendere qualſia mai quell'altezza di dottrine, che nella medicina d'Ippo. crate ſia ripoſta, ne fin'ora v'è ſtato chi abbia potuto fco vrirla; anzi è avvenuto a coloro, che troppo v'han durato fatica a interpretrarla, quel che accader ſuole ſoventeagli Alchimiſti, che in vece di divenir dovizioſi d'oro, e d'arie tutto il for picciolo capitale ſcialacquano. Ma fe Ip pocrate voleva aſconder la ſua dottrina,sì che da altri non mai fi riſapeſſe, potea con un più bello, e fottil modo ben farlo, cioè rimanendoſene in pace, ſenza ſehiccherarle carte, o por tanticervelli a partito per intender la ſua mé te, con si grave riſchio de' poveri ammalati. Or veggafi di vantaggio quanto egli foffe dabbene, equanto oſſerva tor dell'impromeſſe,e facraméti,co’quali dichiarò di voler a'ſuoi ſcolari tutta quanta la medicina perfettamente inſe gnare; e certamente ſe non altro lor comunicò di ciò che ne'ſuoi libri, e particolarmente in que' degli Aforiſmi la fciò regiſtrato, e in quella sì confuſa maniera, que' catti velli l'olio, e la fpeſa indarno vi dovettero logorare. Ma il bujo di quella favella, ſe mal puofli fofferire altrove,cer tamente nell'opere degli Aforiſmi, ove principalmente egli vuol dar leggi, e regole di ciò, che fi dce nell'arte eſe guire, è tanto biafimevole, e ſconcia, che nulla più; e ſe Principe mai, o Repubblica in dettando leggi, e ftatuti ſi valeſſe dello ſtile degli Aforiſmi d'Ippocrate, in quali tea nebre, in quai garbugli, in quali intrighi, in quantipiati, o conteſe ſe ne viverebbe quella malnata Città, quellas infelice provincia? S'attēta altri di ſcuſare Ippocrate col precetto d'Orazio Quicquid precipies eſto brevis,utcito dicta Recipiant animidociles, teneantquefideles. Ma per coſtui non badoſli, a quel,che poco avanti dal medeſimo Poeta fu ſcritto: Decipimurſpecie recti: brevis effe laboro Obfcurusfio: Ne potè ciòdiſſimulare, comeche parzialisſimo d'Ippoa crate, per tacer d'altri chioſatori, il Signor della Sciam bre, sì chenon aveſſe arditamente a dire d'Ariſtotele, ed' Ippocrate, e de'loro eſpoſitori favellando: ita perplexe, & obfcurè uterque locutus eſt, ut ad ſingula verbaceſpitandum illis fuerit,antequam tantis tenebris lucem aliquam afferro potuerint. E quantunque egli appreſſo imprenda a farne ſcuſa, indi a poco ſoggiugnendo: Atque id ſaneHippocrates quadam neceffitate impulſus præftitit in Aphoriſmis: cùm enim ad pauca quædam capita vaſtam, & immenfam artem contrahereftatuiffet, ne trunca, manca redderetur, necef fe illi fuit ſuh unoquoque plura præcepta recondere, quàm quæ verbis deſignarentur: &fingulos Aphoriſmos prêter id, quod exprefsè docent, proponere, ut figna, du notas, quibus aliarum rerumeadem ſpectantium recordatio excitaretur: no però dimeno lo perme non ſo ſe venga sì fattamente ad iſcuſarſipiù tolto, o ad accagionarli Ippocrate; imperoc chè qualbiſogna, o diſtretta lo sforzò mai a favellar di tut to, e'l tutto avviluppare, ed entrar nell'aringo ditanti, e sì diſgiunti ragionamenti per diviſar pochiſſimecoſe, c di niun rilievo? E qual lode è mai d'uno ſcrittore l'accennar ſotto velame d'oſcurillime parole una cofa, e laſciarnu cento, e mille, cuiabbiſognerebbe, che dall'intendiinen to del diſcreto lerrore fi ſuppliſſero; il che ſe mai il letto re far poteſſe da ſe medeſimo, a che affaticarſi in sicer carle fu le altrui ſcritture con ſuo diſtento. Ma ſe pur po telle teſse Ippocrate ritrovar qualche perdono persì fatte ſcule in alcunadelle ſue opere, chi mai potrebbe ſofferir quelli oſcurità, che per tacer d'altri ſi ravviſa nc' libri della Die ta, degli umori, degli alimenti, in cui ebbe a dire quel celebre galieniſta Antonio Fracanziano ſuo chioſatore, Hippocrates anigmaticè, dw obfcurè adeo loquitur, ut divi nandum magis quandoque, quam afferendumquid voluerit: orin quegli certamente le ſottili difeſe del Signor dellau Sciambre non poſſono a niun modo aver luogo. Egli adú que nc fa meſtieri di dire a voler ſchiettamente la verità có. feffare, che l'oſcurità d'Ippocrate avvenga dal rozzo, e oſcuro conoſcinicnto, ch'ebbe di quelle coſe, che a ſpia nare egli impreſe; e perciò con oſcure, c affai brevi parole cerchi toſto sbrigarſene, come fan coloro, che di future, e loro ignote coſe ragionano.Ma pur troppo bene è riuſci ta ad Ippocrate, e d'onde biaſimo e' meritava, e vitupero, quindi gli avvenne lode, e commendazione dalla voigare ſchiera de'letterati; i quali ciò che meno intendono, comes cofa maggior de’loro ingegni vie più commendano; e per ciò è avvenuto, che sì folta turba de'chioſatori abbia in darno tanta fatica durata,per volerdimoſtrare,ch'altiſlima dottrina ſotto l'ombra di quel favellar ſi naſconda; e dico indarno: imperocchè a gente di ſano intendimento quelle cotante lor novelluzze malagevoliſſimamente iinboccar poſſono; eſſendomanifeſto, che ove Ippocrate favella di coſe, ch'egli intenda,e ſappia, ſicome quando narra avve nimenti, e iſtorie di malattie, o fa parole di qualche parte di notomia, ch'egli avea oſſervata, non torbido, e confuſo ſtile;ma cõchiaro,e intelligibil ragionaje ſe ben ſempremai ſparge per entro a tai ragionamenti qualche antica, e vieta, e poco inteſa parola: impertanto non può renderli tutto il favellar sì avviluppato, che in fine la ſua mente non fi com- ' prenda. Egli è adunque oſcuro, ove di ciò che non inten de, imprende a favellare. Ma per non iltar quaſi ſempre in ſu l'ali, c diſcender omaia qualche particolarità: lo dico, che il primo, ove procura di ſcorgerne la medicina, come poſta lu la vet Oo t21 1 ta d'un erta, e lunga, e ſtraripevol roccia,' oue mat puofli, tra per la brevità della vita,ei molti, e gravi peri coli, che vi s’incontrano per huom pervenire; e tale,e tan to, che vale a torre il pregio a quanti e'ne ſoggiugne;im perocchè ſe cotante malagevolezze ha la medicina per fe medelima, ei, che dovea far altro, fe non ſe a tutto sforzo. agevolarne il ſentiero? e pur coʻſuoi Aforiſmi il varco sì fattamente impruna, che ove huom dietro a lui mettaſi in cammino,a diftento fenza offefa potrà ritrarne il piede.Do vea ben avviſar Ippocrate, chela brevità, ove l'oſcurità non iſchifi, quanto ſcema allo ſcrittor di fatica, al lettore altrettanto ne aggiugne. E nel vero chi potrebbe confide rar quanto ftento dovettero durar tutti coloro, che prima di Galieno ſi dieder briga d'interpetrar l'opere d'Ippocra te; e pur nientedimeno non uſciron dal laberinto, come vuol Galieno; il qual ſoggiugne lui aver primieramente porto il filo da poterlo ſpiar tutto, e ritornare in ſalvamé to; quantunque v'há chi non gliele vuol credere, e affer ma coſtantemente ch'egli vi ſia rimalo avvolpacchiato,co me tutt'aleri; e ne ci reca la ragion dicendo, che ſe vera mente per Galieno foſſero ſtati compreſi i ſentimenti d'Ip pocrate, cotante quiſtioni, e piati dopo lui non ſarebboe no inſurti, per indovinar, che diavol d'inſegnamenti ſian que' d'Ippocrate,maſſimamente negli Aforiſmi. Orail té. po, che in ván fi logora in sì fatti litigj,nó ſarebbe meglio, e con maggior pro nell'inveſtigar tante coſe, che fann'huo po allame licina, opportunamente impiegato? Ma nella feconda parte di queſto primoAforiſmo, poi chè tanto gli è a cuore la brevità, a che perder parole per dire,che, acciocchè il medico adempier poffa felicemente il ſuo uficio, abbiſogni che vi concorrano l'opere dello in fermo, de’famigliari, e tutt'altre eſteriori coſe al biſogno fian preſte? O utiliſſimo, o raro, e non mai caduto in mé. te umana conſiglio del diviniflimo Ippocrate ! e Monna Berta, e Monna Nonna ſomigliantemente non l'averebbe ſaputo? Ma il ſecondo Aforiſmo, per la cui eſpoſizione veggiam venire fino a villane parole i Chioſatori, e alqua 1 le più coſto con aringo d'ornate ciance, che con faldezze di dottrina, cerca difar riparo Galieno a petto degli argo menti, che incontro gli avventa Giuliano: non contien al tro certamente, ſalvo che unadottrina molto volgare, tanto baſſa, ch’un Maeſtro Simone, non che altri G verge gnerebbe d'averla meſſa in dozzina, maſſimamente ſules prima fronte d'un libro di tanta eſpettazione; ella è tales: le vacuazioni, che per vomito, o di ſotto ſpotaneamente avvengono, ſe fian tali, quali eſſer denno, giovano, e age volmente ſi collerano; e ſe ilvuotamento de’vaſi tal lia,qual çiler dee, giova, e ſi tollera. Orlaſciando da parte ftare, che con chiarezza, e brevità maggiore potea cotal diviſa mento ſpiegarſi, per avventura dicendo, cheſe l'arte, o la natura vuoterà ciò che pecca nel corpo, fie di giovamento l'evacuazione: lo quì chiederci, chemifoſſe moftro, ove ſia l'altiſſima ſapienza, ove il ſottile intendimento del Prin cipe, e dell'inventore, come Galien lo dice, della razio nal medicina Ippocrate; adunque in faccenda di cotanta lieva haſſi a giudicar degli eventi: A che dunque vagliol tanti ſiſtemi di razional medicina, sì lungamente, eintan ti libri da lui regiſtrati? A che giova l'aver eglicotanto ra gionato degli uinori, e dell'altre cagioni delle malattie, e delle altre coſe confacenti alla medicina,ſe al miglior huo po non gli vagliono un frullo,egli abbiſogna, ch'a ſuomal grado,alla fallace empirica abbia ricorſo. Ma più oltre: onde fe meſtieri ad Ippocrate dirigiſtrar tale avvertimento nel divin volume degli Aforiſmi, ſe non v'ha perſona così ſcicmpiata tra'l vulgo, che molto bene non ſappia, che al lor, chenon reca moleſtia allo infermo, e ch'egli ſe n’ap profitta, che tale qual eller deeſiaſi la vacuatione; ma do vea certamente, &aurebbe fatto il meglio,avviſare Ippo crate, che quantunque non ne tragga alcun diſagio l'infer mo, e che imınantinente dopo la vacuazioncegli guariſca, avvenir può talora, che l'umor vuotato non ſia tale, quale vacuar ſi dec;imperciocchè ben potrebbe egli di leggieri avvenire, che dopo la vacuazione di qualche materia, la quale niente aveſſe che fare colmale, riſtoraſleli l'infermo Oo 2 per qualche vacuazione inſenſibile di ciò, che cagiona il male,fattanel medeſimo tempo. Nedee ciò recar maravi glia, ſe talora ne’più gravi, e pericolofi malori, quanto più rigoglioſi,cotanto menome, e fottili ſono la cagioni, che l'adoperano; e ben ſovente avviene fenfibilc vacuazione per opera di quelmovimento,cheſi fa nel corpo nello ſcio glierli, e nell'ufcir fuora, e nel mutar faccia, fito, o movi mento que corpicciuoli, onde il mal ſi cagiona: a pruova conoſcendoſi, che huom ſuda, vomita, e manda fuori per altre parti quantità d'umori, e ſi ſgrava immantinente dal male; che ſe non uſciſſe allora o pietra, o altro, che'l ca gionaſſe, ogn’un di certo giudicherebbe, che per la vacua zion di quelle materie foffe l'infermo riſanato. In confer mazion di ciò che lo dico, in quci, che ſon morſi dalle vi pere noi veggiamotutto di dopo preſi gli antidoti vacuarſi per vomito, e per ſudore gran copia dimaterie nel tempo medeſiino, che guariſcono; e pure quelle non han coſa del mondo che fare col veleno della vipera, il quale in altro non conſiſte, che in una piccioliſſima, e poco men ch'insé fibile ſoſtanza, la quale rappigliandone il ſangue nelle ve ne toſto n’uccide. Ma che non veggiamotutto di nelle poſteme; e nelle ferite, ed in altre ſorti di malattie vuotar fi copia d'umori ad eſſe non pertinenti,c guarire, ma per al tra cagione,gl'infermid e quinci poiinginn.icii medici con falaſli, e purgagioni, ed Jorinojoſi, cimportuni rimedj i loro infermi crudelmente ſogliono malmenare; giudican do così imitar l'opere della natura; e per aver talvolta av viſto, che qualche febbre, o altro male ſi ſia diminuito dopo un grand'uſcimento di ſangue: comandan poi, che nelle febbri ſi tragga langue. Ne per altro parimente,nulla curando l'avviſo d'Ippocrate, e di Galieno,ſi vagliono del le purgigioni nel principio, nell'accreſcimento,e nel vigo re delle malattic, ſe non ſe dall'aver eglino veduto, come chè radillime volte, che dopo eſſerſi vacuata qualche ma teria in que’rempi lia migliorato, e riſanato qualche infer mo; e queſto è quello, s'io non vado errato, che dovca norar Ippocrate negli aforiſmi. Ma ne meno ſempre che quelle materie ſi vuotano, quali appunto da vuotar ſono, ciò vien lievemente comportato dall'infermo; concioffie coſachè molte volte elleno tra per la loro mordacità, e per la delicatezza della parte, per la quale ſi vuotano, e per altre cagioni ancora recar ſogliono noja grande agl'infer mi; come Ippocrate medeſimo ſe ſteſſo dimenticando al trove avviſa; ma non ſenza ragione Giuliano prover bia, e ripiglia Ippocrate dicendo, ch'egli incominciando queſto aforiſmo afferma come vera una propoſizione non miga per lui provata, ne dimoſtrata in prima, cioè, che naſcan le malattie dalla foprabbondanza ſolamente, o dal cambiamento degli umori in altra qualità di quella, che in prima aveano, la qualvien da'medici, corrottela, chiama ta; ch'egli però giudica,che ove non ſi ſcorga legno di cor rottela d'umori,che la ſoperchianza ſia de’inali cagione. Coſa, la quale foggiugne Giuliano, in modo veruno in tender noir fi puote, ne è vera: imperocchè fe ciò foſſe, eglinon ha dubbio, che tutte in fermità agevolmente gua rir potrebbonſi: ne fi vedrebbe giammai lunghezza di ina lattia: e una ſola la maniera di tutte curarle certamente fac rebbe; imperocchè ciaſcun potrebbe agevolmente qualo ra a grado gli foſse, effendo ciò in ſua mano, comeilmal l'affale, così toſto ripararvignon gli biſognando a ciò altro, falvo che fa ſola vacuazione, la quale in qualunque tein po porre ſi può in opera col ſegnare, ſe'l male ſarà cagio. nato dal ſangue, e fe dalla flemma, e dalla collera,condar loro acconce medicine. Riſponde Galieno all'argomento di Giuliano con dire, che allora oltragli umori, abbia an cora nelle parti falde del corpo qualche vizio; perchè va cuito l'umore dura ancora il male; ma ſe nel inale,ficome Ippocrate ſuppone, tengono gráī parte gli umori, dovrebbe almeno tanto quanto fcemarlo il vuotamento di quelli; il che certamente non avviene; anzi Galieno medeſimo ri portando in ciò molte fperienze, coſtantemeure altrove il niega. Ma come allor, che fon crudele materienel princi pio de’mali,quando le parti ſalde non ſon potute ancora contaminar da eſſe, le vacuazioni riefcono nocevoli, non che infruttuoſe: e allo incontro poi, licomecon Ippocrao te afferma Galieno, elle giovano affai,e colgono via il ma lenel loro ſcemo, quando non può eſſere, che non ſiano rimaſte offeſe gravemente, e contaminate le partiſalde, le quali in tutto il tempo delmale in varieguiſe moleſtate, e ſconce ne vennero? adunque direbbe Giuliano, non avran nulla che fare con quelle malattie le diſcorrenti ſoſtāze del corpo; e allor, che li veggono dopo la vacuazion di qual che umoré ceſſar le malattie, ciò non avvien certamente per la vacuazione,comeIppocrate afferma. Ma par egli certa mente, che Ippocratemedefimo non troppo fitidi in ciò della ſua dottrina; imperocchè avviſa egli poi nell'ultima parte dell'aforiſmo, che convengafi aver riguardo al paeſe, alla ſtagione, e alle mulattie, e all'età, ove da far Giala va cuazione. Ma per tacer della ſtagione, dell'età, e del paeſe, onde niuna certezza trar ſi puote, con qual argo mento in tata incertezza delle coſe dell'arte potrà mai rin venire il inedico fe fia, e qualſia quella parte diſcorrente, che cagioni l'infermità? Credeſi la collera cagionar la ter zana: la malinconia, la quartana: e pure queſte alla va cuazione, che penſan fare i medici di tali umori, non ce dono:'maſivincono ſenza vacuazion’alcuna colla ſcorza del Perù, e con altre molte sì fatte medicine. Il terzo Aforiſmo per mio avviſo parve al Paracelſo co tener dottrina di sì poca conſiderazione, che egli lo tra sformò sì, che in tutto è diverſo da quello d'Ippocrate;ma ſe cosi debbonſi chiofare, e interpetrare i detti degli auto ri, egli ſe'l veda · Dice Ippocrate, lo ſtato degli Atleti, i quali ſian pervenuti al ſommo della bontà eſſer pericoloſo; imperocchè non potendo poſare,ne vantaggiarli in meglio, convien, che vada al peggio; e che però dipreſente huopo faccia vuotargli. Primicramente la ragion d'Ippocrate, la quale ha dato cagione di quiſtionar canto, e d'aggirarſi fra vani argomenti al Forli alSermoneta, e ad altri ozioſi cervelli, è troppo rozza nel vero., e materiale, e più li ſten de aſſai di ciò, che Ippocrate s'avviſa; imperocchè perpe tuamente ſe la detta ragione aveſſe luogo, sìfatte perſone dovrebbono andaralpeggio; il che falſo ſi ſperimenta; e ben ſi conoſcerebbe apertamétc per ciaſcuno la falſità del la menzionataragione d'Ippocrate, s'egli come far dovea, l'aveſſe con più parole ſpiegata, comepofcia fecero i ſuoi chioſatori, dicendo, che non poffan mantenerſi nello ſta-, to preſente, nepofare: perchè continuamente cibandoſi sì fatti huomini, e ingenerandoſi in loro il chilo, e'l fangue, c queſto ad ogni ora diſtribuendoli per le parci del corpo, ne potendoſi a quello unire per non eſſervi luogose peròſo verchiandos debba di neceſſità cambiar in peſſimo il lorot timo ſtato. Ma non poſer mente coſtoro alla copia grande. del ſangue, e delPaltre tuţte diſcorrenti parti, e ſalde del. le loro foſtanze, checontinuamente G dileguano, e per sé.. fibili,e p cieche ſtrade efco fuora da'corpi degli huomini p. la continua formentazione di quello, che in aliti lotciliſi-. mi mai ſempre gli va ſciogliendo; e quanto più abbonde vole, e di buona condizione è il ſangue, tanto più egli è vigoroſo, e valevole ne'ſuoimovimenti, e nell'altre ſue operazioni; e quindi ſcorgonſimolcijemolti dicotali huo mini ftar bene lungo tempo: e comechènondimeno qual-, che volta coſtoro pur ne pericolino, ciò non èmiga già per la ragione per Ippocrate apportata; maperchè venendo ta lora oltre al dovere per qualche cagione di fuora a muo-, verfi, e a rarificarſi ſoverchiamente il ſangue, ſi rompono ivaſi, che'l contengono: 0 pure quello diſcorrendo in co pia grande nelle parti falde delcorpo, cdivi fermatofi, or una, or un'altra ſorte di mali, e talvolta con impedir affar to la circolazione del ſangue repétina morte alcresì cagio na; e ciò è quanto dovea il noſtro buon Ippocrate avvi fare. Appreffo fålla egli gravemente, ſenza dubbio, in tacendo come, e in qual maniera s'abbia negli Atleti a tor. via la pienezza; ſe colle vacuazioni, o pur colla dicta; s'egli quì intende di quella vacuazione, che ſi fa colla die. ta, comedicono i chioſatori di queſto aforiſmo,dovea pur certamente egli avviſare quando ciò far convenga colla ſc. la dieta, e quando altrimenti e in sì fatta maniera non in fruttuoſi affacco,e vani farebbono ſta i per avventura i ſu: i avvertimenti. Imprende poi ne ſeguenti aforiſmiinfino al venteſimo a far paroleIppocrate dietro al cibar degl'infermi; e come chè in lor ſi contenga qualche utile avvertimento, pur col Puſato ſuo modo intrigato del favellare, confonde quelle materie, che meſtier fenza fallo gli facea illuſtrare; eſſen do nel vero la maniera del cibar gl'infermi una delle coſe più neceſſarie a ſapere in medicina; eavendo in quegli aforiſmi alcune regole, alle quali fa meſtieri d ' eccezione, le dovea egli almeno accennare; ed era aſſai più neceſſario l'inſegnar ciò, che le tant' altre bazzicatu re, in cui inutilmente di certo ſpende egli tante parole das vegghia, come quello, che agevolmente lapute ſono,e co noſciute per ogn’uno. E in verità, chi è, che non ſappia eziandio fra quelli, che non mai ſtudiarono in medicina, che ne'mali lunghi s'abbian’a mantener le forze dello in fermo, e conſeguentemente, che dar non gli ſi debba a ſpi luzzico il cibo, ma un poco più largamente x Chiè, che non conoſca, che nell'acceſſioni della febbre, non ſi debba a niun modo cibare il malato? ma sì general legge dover cgli riſtrigaendo avviſar, ch'alcuna fata anche ciò far colz venga. Nel duodecimo aforiſmo fi da briga, e ragionevolme te nel vero Ippocrate, di narrac i ſegnali delle durate delle malattie; ma in materia di sì gran lieva, e onde, com'e gli medeſimo avviſa, depende il diritto regolaméto del nu tricar gl'infermi,ſecondo il ſuo coſtume, ofcuro, e intral Lito favella, e con poche parole ſi toglie dal doffo ogni ſeccaggine; tralaſciando non per ſuo mal talento, ma per ſuo poco ſapere di far motto de'polſi. E quanto al fat to deglieſempli, egli è molto ſcarſo: recandone un ſolo della pleureſi, e nemeno in quella fi trova ſempre eſſer ve che apparendo nel cominciamento di quella lo ſputo, il male abbia poco a durare. Va errato parimente Ippo crate in dar intera credenza a ſudori, alle fecce, e ſpezial mente all'orina; la quale per tralaſciar altre ragioninon tutta li ſepara dal ſangue;maparte di eſſa trapelando dal ſacco latteo per una breviſſima ſtrada tragittaſi alle reni; e ro, comechè una sì fatta ſtrada ignoraffe Ippocrate, dovca pur cgli por mente ad alcuni beveraggi, che appena tranghiot titi, di preſente ſi orinano: e agli ſparagi, al Terebinto, e ad altre coſe, che ſenza toccar punto il ſangue alterano sé, fibilmente l'orina. Nel tredecimo aforiſmo dice Ippocrate, cheivecchi portano agevolmenteil digiuno; e quindi paſſa a far paro le dell'altre età. Ma queſto è un'errormaſchio; imperoc chè dal continuo ſperimento ne fi fa chiaro, ch'a’vecchi tra per la lor debolczza,e perchè poco nutrimento traggo no da'cibi, aſſai ſpeſſo faccia meſtier riſtorarſi. E verilimo troviain noi l'avviſo di Celſo: inediam facillimè fuftinet media etates, minus juvenes, minimè pueri, & fenectutes confećti. Vien poil'Aforiſmodecimoquarto, il qual tanto ammi rar ſi ſuoledaʼnoſtri medici, cioè, che coloro, i quali cre ſcono, abbiano in copia grandeil caldo innato, e che per ciò faccia lor meſtiere abbondevol cibo, alorimenti il cor po ſi conſumi. Ma non avviſano coſtoro, che alcuni peſci creſcono oltremodo, e non che eglino caldi fieno, anzi só freddi si fattamente, che lc loro interiora agghiacciate,no altrimenti che neve li ſentono: come avviſa de’luccj del la nuova Francia il Padre Giuſeppe Breſſani: ho aperto (dic' egli) il luccio ancor vivo, e trovato il freddo del ſuo ſtomaco, quafi inſopportabile alla mia maro. Altra coſa adunque co vien certamente dire, che ſia quella, per la cui opera ben,' digeſtendoſiicibi, e altra cagion concorrendovi creſcano glianimali; e a quella in prima dovea por mente Ippocra te, e poi diterminare; ma eglia ciò non badando, indias poco ſiegue a dire nell'altro aforiſino, che di verno, o di primavera fiano le viſcere per natura caldiſſime, ei louni lunghiſſini; e perciò in quelle ſtagioni più largo cibo dar ſi debba;concioliecofachè l'innato calore allor creſca, cui maggior cibo certamente abbiſogna, e che di tal coſa nes fan pruova l'età, egli Atleti. Ma che fan qui tantc parole a ſpiegar una sì breve ſen tenza: ecco l'uſata felicità del ſuo breviffimo ſtile; ma ab biz Рp biaſi pur ciò per niente, egli non è tuttoda trafandar fotro ſilenzio, che quantunquevero in tutti huomini, per tacer d'altri animali, ciò che diceIppocrate ſi ſperimentaſſe, che diverno, e di primavera affai meglio fmaltiſcanſi i cibi: la ragione nondimeno, che di ciò e' ne reca è falſa; concior fiecofachè falfo apertamente ſia, che nelle menzionatcſta gioni caldiſſime fiano leviſcere degli animali; e perchè ciò vero fofle, nemen nulla montcrebbe: non facendoſi altri méte dal calore la digeſtione de'cibi: ficome ne ſiamo omai tanto accertati, chenon fa luogo, che lo vi ſpenda parola. Perchè in van brigafi Galieno di recare in concio d'Ippo crate le ragioni fanciulleſched'Ariſtotele, che le viſcere di verno caldiffime fiano, perchè il caldo, come ſenſo egliavel fe, e del circoſtante freddo ſentiſſe l'offeſe, alle più naſco fe interiora ſi rifugga; e certamentecotal ſciocca filoſofia, che i luoghi ſotterra caldi ſiano di verno, e freddi di ſtate, per lo Termofcopio falſa apertamente ravvifaſi, comeché tali pajano a noi, che di ſtate caldi, e di verno freddi v’en triamo dentro. Ma avvegnachè a pro d'Ippocrate dir potrebbeſi, che di verno per eſſer chiuli i poridegli animali ſi venga aritener quella ſoſtanza, che di ſtate eſce fuori, la quale da al ſan gue col movimento il calore: non però di meno, come fiè accennato, manifcſtamente in noi ſtesſi ravviliamo le parti dentro del noſtro corpo tutte, non altrimenti, che quelle di fuora, effer più affai calde di ſtato, che diverno; ne per altro nella detta ſtagione così volentieri acque freſche, e altri raffreddari liquori beviamo; ne Ippocrate medefimo oferebbe ciò negare; il quale dice altrove, che di verno s' ingenera la flemma, ſecondo luifreddiflimo umore, eche avvengano lunghe, e cagionate da tardi, lenti, e freddi umori le malattie. Ma Galieno volendo le parti del ſuo maeſtro difendere, immagina sì fatta malagevolezzaceſare, con dire, che di ftate ſian calde, maggiormentc che diverno le viſcere, di quel caldo, ch'egli avveniticcio, e foreſtiere chiama,ma non già miga deicaldo innato. Chiama egli caldo innato una i 1 1 remo. una aerea acquoſa ſoſtanza d'un calor mite, e ſoave inſieme con gli animali nata, e avveniticcio allo incontro poi chia ma un caldo terreo mordace affocato; e di queſto egli di ce nell'infelice difeſa del precedente aforiſmo d'Ippocrate contra Lico, che abbondevoli fiano maggiormente i giova ni, e di quello i fanciulli. Ma quanto ciò poco, anzi nulla approdi a difefa d'Ippocrate, noi or brievemenre dimoſtre Primieramente convien ſapere, che'l calore negli anima li naſce tutto dal ſangue; perclié folea dire l'Arveo, altro non eſſere il caldo innato, che'l ſanguemedeſimo: folusnē pefanguis eft calidum innatum, ſeu primo natus calor ani. malis, uti ex obſervationibus noſtris circa generationem ani. malium, præfertim pulli in ovo luculenter conftat: utentia, multiplicare fit fupervacuum. Argomento manifeſtiſimo è di ciò, ch'io dico lo ſcorgere, ch'abbandonata dal ſangue qualunque parte dell'animale, immantenente ogni calor viene ella a perdere: e ſe mai eſce dall'animale tutto fuori il ſangue, ben toſto dal cuore, dalle vene, dall'arterie, da altre parti falde tutto il calor fi diparte. Vano, e falſo adunque è ciò, che con Ariſtotelecomunemente dir ſi ſuo le, il cuore effer fonte del calore: ne ſo lo vedere, come in sì fatta opinione compiaceſſeſi quel grandiſſimo filoſo fante Renato delle Carte; imperocchè agevolmente egli avviſar potea il cuore noneſſer più caldo, che l'altre vilce re deglianimali. Ma fe'l ſangue (e ciò avviſa infra gli al tri il noſtro Ippocrate ) per ſe ſteſſo non è caldo, convien! inveſtigare, onde il calore in prima gli avvenga,e la cagio ne per la quale caldo mai ſempre nell'arterie, e nelle vene quello mantieneſi. Credettero alcuni degli antichi, che'l fangue ſi riſcaldi, e caldo continuamente ſi mantenga, perlo movimento, che dal cuore, o dall'arterie egli conti nuo riceve; ma non baſta certamente un si debile movie, mento a ingenerar nel ſangue sì gran calore; anzi prima che'l cuore, e che l'arterie ſi faccian vedere nell'huomo, caldo vi ſi ſperimenta il ſangue; ne meno a ciò baſtevole è certamente il ſuo perpetuo muoverſiin giro; ma chiunque P p 2 pon mente alla materia, onde ingeneraſi il ſangue, più age? volmente peravventura inveſtigar ne potrà la cagione. E gli faſſi séza dubbio il sāgue del Chilo, e'l Chilo s'inge nera d'erbe, e di frutta, e di carni, che altresì dell'erbe, e del le frutta vennero fatte, e ingenerate; or sì fatte vegetabili ſostanze, come ancora le minerali,per la formentazione ſo la divengon calde sì factamente, che ſenza aver d'altro bi ſogno., mentre dura la forinentazione, dura parimente in loro più, o meno il calore; cofa,la quale nel mofto, c in al tri ſomiglianti fughi da chiunque mente vi pone ad ogni ora ravviſar eglifi puote; ma d'altra affai più nobile, e più maraviglioſa maniera certamente e' ſi pare quella formen tazione,che faffi nel fangue, la quale in parte è ſomiglian te a quella, che avvenir ſcorgeſi alle diſcorrenti ſoſtanze minerali; onde avviene che lo ſpirito,che per chimica ma no dal ſangue li trae, ſia gran fatto diffimile da quello che ſi tragge dal vino e da altri ſughi formientati vegetabili trar fi ſuole. Ma come veramente una tanta opera nel ſangue fi faccia, e qual ne ſia la cagione, non mi par tempo oppor tuno a conghietturare; e baſti per ora ſolamente ſapere, la formentazioneeſſer quella, la quale diliberando nel fan, gue i ſemi del fuoco da que'ritegni, per li quali non pote vano eglino muoverſi di quel moto mai ſempre dilatante propio delfuoco, v'ingenera, e vi mantiene continuo il ca lore;ma nel ſangue poi(o in altro ſugo al fangue equivale te )de’peſci, o d'altri ſomigliáti animali, no mai calor fi rav vila; cõcioffiecofachè i femi del fuoco in lor fieno, o molto pochi, o in sì fatta guiſa con altri, & altri ſemi di varie altre coſe avviluppati,che mal ſi poſſono eglino per lo movime to della formétazione,conechè grāde e’lia agevolınéte ſvi luppare. Ma che che fja di ciò, uno ſolo è certamente per manevole negli animali il calore, il quale, or naturale, or non naturale porrà dirſi, fecondochè convenevole, o non convencvole e farà alla natura di quelli. Ma fe'l ſangue concinuo va cõſumandoſi cô ingenerarſene ſempre mainuo vo, intanto,che dopo qualche giorno non ne riman più goc cia alcuna del vecchio, certamente convien dire ch'appena ne'fanciullinon inolto guari dopo i loro naſciinenti il caldo innato ritrovar puoſſi; ed ecco, s'io pur non m'inganno, ca duti, e ſparti a terra fin dalle fondamenta i maggiori argo menti in difeſa della doctrina d'Ippocrate, portati per Ga licno. Ma per ritornare al noſtro propoſito: di ſtate pllo calore dell'aria circonſtante, la qual continuamente dagli huomi niper la reſpirazione li bee, e per le ſoſtanze del volante. ſalc, che'n quella, più, che in altra ſtagione nell'aria ſi ri trovano, sformatamente la formentazione del ſangue, e in eſſo in prima, e poi nelle viſcere divien più grande,e pa riinente ilcalore; allo incontro poi il verno, mancando all' aria que'ſali, e tra per queſto, e per la ſua freddezza ſi di minuiſce colla formentazione, così nel ſangue,come nelle viſcere neceſſariamente il calore; ne per altra cagione nel le parti di Settentrione il ſangue, e le viſcere, maſſimame te di verno non molto calde ſcorgonſi ncgli animali, e in alcuni di eſli mancar affatto ſi ravviſa ogni fcintilluzza di calore,sì fattamente, che per ogn’uno trapaſſati ſi ſtimereb bono; ne pare dalla verità lontano ciò che de' Lucumori narra Sigiſmondo Libero: Dicono che agli kuominidi Lucu morie: coſa mirabile, e incredibile, e che ha più della favo la, che del verifimile: fuole intervenire, chequelli per ciaſ cun'anno, cioè a' ventiſette del meſedi Novembre, nel qual giorno appreffo de', Ruteni è la feſta di S. Giorgio, muojano,6 chepoi nella ſeguenteprimavera a'ventiquattro d'Aprile al la fimilitudine delle ranocchie di nuovo riſuſcitino. Ma che che faſi di quelli: lo dico, che ſe Ippocrate, e Galieno aveſſer voluto veramente filoſofare, avrebber per avven tura ritrovato la vera ragione, per la quale di verno, e di primavera i cibi meglio aſſai fi digeſtiſcano, eſſere ſolo per chè a que’tempi quella nobiliſima ſoſtanza, la quale fico municâ dal ſangue allo ſtomaco, e fa la digeſtione,affai più vigoroſa, e forte fia, che di ſtate non è, in cui per lo calore oltremodo in quello accreſciuto ſi diſlipa, e fi dilegua; cf fendo ella, comechè accender non fi poffa, vie più dello {pirito delvino volante, e ſottile; e per mancamento d'u pa co  na cotal ſoſtanza ſenza fallo avviene, che gli huomini, co mechèpiù caldi, men gagliardi ſi ſentano, e atanti della perſona. Ma nc.men ſe ſi concedeſſe a Galieno, che v'abbian ve ramente due ſorti di caldo negli animali, ſarebbe ciò pun-, to per giovare ad Ippocrate; concioſliecoſachè, o innato, o avveniticcio che'l caldo fi concepiſca, purchè e' s'avanzi.nell'animale, conſumerà ſenza fallo il corpo diquello; la onde ſe fi ammette la ragion da Ippocrate nel precedente aforiſmo recata, converrà certamente dire, ch'a' giovani più ch'a' fanciulli, e che di ſtate più che di verno abbon devol cibo faccia meſtiere; ma ciò Ippocrate, e Galieno fe'l vedano, che per altro poiifanciulli più largamente eſ ſer denno cibati; sì perchè abbiſogna lor copia di materia per creſcere, sì perchè la lor ſoſtanza più agevolmente fi dillipa; e quantunque di ſtate abbian più biſogno di riſtoro, e dicibo gli animali, nondimeno non molto bene, e per fettamente in quel tempo facendofi la digeſtione, convien che parchi ſiano alquanto eglino nel cibarſi. Ma lo laſcia to aveva di rammentarvi, che Ippocrate medeſimo rifiuta incautamente ciò, che Galien delle due ſorti di caldo, a pro di lui dice; imperocchè Ippocrate reca l'eſemplo degli atle ti, in cui certamente il caldo avveniticcio, è quel che ſovrabbonda; tralaſcio ciò che dice parimente Ippocrates, cheivecchj per avere ſcarſità di calore, non ainmalino co sì, come i giovani difebbri acute; co che pare, che ne me no il calor de'febbricoſi, ſecondo Ippocrate, differiſca dal l'innato, ſalvo che per gradi. Maper mio avviſo la colpa tutta non è miga già diGalieno, ma d'Ippocratc; imperoc chè egli,comechè no'l dica apertamente, ſuppone le due ſorti di caldo; perchè nel medegmo aforiſmo a ſe medeli mo e'viene a contraddire. Nell'aforiſmo ſedecimo fi dice, chci cibi umidiconven gono a 'febbricitanti tutti. Ma a color, che patiſcon coti diane febbri, o terzane, diquelle chechiamāli(purie, i qua per tutto il corſo del male tengono lo ſtomaco, e l'altres viſcere ripiened'acquoſe, ed unnidiſſime ſoſtanze, lo per me li me non sò, comegli umidi cibi poſſan unqueinai approda re. Lafciando egli poi di favellar più de'cibi, fa ſtrano pal faggio Ippocrate alle medicine purgative; foggiugnendo nell'aforiſmo venteſimo, che quelle coſe, le quali o figiu dicano, o giudicate interamente già ſono, non ſi debbano muovere, e ne con medicine, ne con altro irritare, ma lila fcin così ſtare; ſentenza, la quale con altre de' libri degli aforiſmi volle Ippocrate, che ſi leggeſſe nel libro degli umori, ed in altre ſue opere, e contiene ſenza fallo uil, atiliffimo avvertimento;mapotea certamente Ippocrate far di meno ditorſi una sì tatta briga, cotanto ella è chia ra, e manifeſta coſa; e nel vero chi ignorar mai potrebbe, avvegnachè non inai ſtudiato abbia in medicina, che ad huom perfettamente guarito della malattia, non che lava cuazione, che potrebbe di nuovo ſcopigliare il ſano ordi namento del corpo, ma niuna altra forte di rimedio non faccia meſtiere? Ma forſe ſcorger dovette Ippocrate, che i medici de'ſuoi tempi, non altrimenti che li facciano og. gidì que' de’noftri, o poco, o nalla vi badavano; e ciò per mioavviſo avviene, perchè di lor natura i medici avidi ſon mai ſempre di far coli, chepaja al vulgo grande; come è il vuotar con ſalafli, e con purgative medicine; e van cer cando ogniora qualche apparente cagione di poter ciò egli no fare;eforſe che'l medeſimo Ippocrate non gliele porge allor ch'e ' dice in un'altro aforiſmo, che ciò che rimane dopole malattie foglia dinuovo ingenerarle? ma chi ben riguarda la coſa, apertainente ſcorge, che non ſolamente in ciò,che accénato abbiamo,maquaſi in tutte altre materie ritrovano i medici ciò, che lor fa inefticre, nell'opere d'Ip pocrate; e queſta certamente è la cagione, per cuida'no Atri Setteggianti ſia Ippocrate in qualche pregio tenuto. Ma che che lia di ciò, dovea annoverar Ippocrate minutamen te i ſegni, per li quali ravviſar poſſa il medico, che'l male interamente lia andato via; c que'ch'egli altrove, e Galić nelle chioſe brievemére produce in mezzo,quáto ſianofal laci ognun per ſe ſteſſo conoſcer puote. Doveva pariméte Ippocrate ſpiegar diligenteméte,che ſia ciò che rimane do po le malattic; es aitro e' non dice, niente certamenteegli inſegna, chenon ſia a tutti ben noto. Dice indi nell'aforiſmo venteſimo primo Ippocrate, che ciò che vuotar fi dee,per le ſtrade, onde ha egli cominciato ad uſcir fuori, e per li convenevoli luoghi convenga vuo tarlo. Qui il gran macſtro delle più aſcoſe materie dell'ar te, non fi dipartendo dall'uſato ſuo coſtume, imprende ad inſegnare faccenda, eziádio alle madrine manifefta; e non fa menzione di niuno di quegli avvertimenti, i quali dovca egli negli aforiſmicertamente regiſtrare; cioè quali vera mente li licno que'luoghi, ch'egliappella convenevoli, come talora tra per la delicatezza d'alcune parti, e per le mordacità de’lughi, o per altra cagione convenga al me dico altrimenti operare di quel,che li faccia la natura. Vien poſcia quell’Aforiſmo altrove da noi recaro, che contiene nel vero un'ammaeſtramento molto, e molto ne ceffario a ſaperſi dal medico intorno al tempo delle purgam gioni nelle malattie; ma da’ſeguaci d'Ippocrate, e diGa licno, come abbiam dimoſtrato,in niunconto tenuto. Mów la colpa, s'Io pur non vado errato, in gran parte ſi dec ad Ippocrate attribuire, ilquale dovea certamente ſcriver co ſa di sì gran momento d'altra miglior forma,e produrre in mezzo le ragioni, e le ſperienze, che fanno al propoſito, e poſſono la verità dalui inſegnata appieno aʼmedici perſua dere. Ma il buono Ippocrate ciò traſandando logora il té po in narrar altre inutili novelluzze; anzi con recar egli quell'altro Aforiſmo:nel cominciamento de’mali, ſe pu re ti pare, che s'abbia a muovere, tu muoverai: séza giugner altro, comecertamente dovea eglifare,da cagione di por re in dubbietà ciò che prima avea egli inſegnato. Nell’Aforiſmo ventitreeſimo ripete Ippocrate vanamé te ciò ch'egli altre fiate avea detto;ma ciò ch'e'poſcia v'ag giugne, egli è certamente un'avviſo così fuor di ragione, che giuſtamente da più avveduri medicanti, comechè per altro ſuoi parziali,vien traſandato; cioè che vuotar fi deb ba fin’allo sfinimento, ſe mai ne ficcia inelticri, purchè pof ſa comportarlo l'infermo. Maquinon ha dubbio nuno, che Ippocrate dato c'non abbia il cervello a rimpedulare; imperciocchè non ſi rammenta, che poco addietro corali vuotamenti avea egli oltremodo biafiinati, ſaggiamente ſti mádogli di grādilimo riſchio; quantunque egli in ſe ritor nato altrove poidi nuovo gli rifiuti.Ma più v'è di male, che Ippocrate no fa parola niuna diqual vuotaméto intēder vo glia; ſe di quel, che per li ſalaſli, come ſpiega Filoteo, o pure diquel, che per le purgagioni s'adopera; come rac coglier fi può da ciò, che in prima egli ha detto; o diquel che fafli, e per gli uni, e per l'altre,comevuol Galieno, il quale ſcioccamente approva nelle chioſe la menzionata, dottrina dell'Aforiſmo, Ma ſe mai d'un sì grave fallo ſcu ſazion ritrovar poteſſe Ippocrate, e vero foſſe ancora in qualche malattia haver luogo sì fatte eſtreme,e mortali va cuazioni, Io ſaper vorrei da lui,comemai cotali purgagioni s'abbiano a porre in opera sì, che o giúgano appunto allo sfinimento,o no’ltrapaffino anche di molto; perciocchè con graviſſimo riſchio del povero infermo sì fattamente ancora operar potrebbono, che colle liquide ſoſtanze curte ſi vuo caſſero päriméte le falde,anzil'anima ácora, e 12 vita;séza chè p cercana (periéza abbiamo, che debile, e ſpoſfata puc gativa medicina ralormolto vuoti, e groſſo calice d'ama riſſimo, e violentiſſimo beveraggio nulla non operi, ſecon dochè 'l corpo, più, o menvi & ritrova adatto;perchè trop po pericoloſo nel vero riuſcirebbe a porre in opera l'avviſo d'Ippocrate, ponendoci a troppo ſtretto riſchio d'ammaz zar l'infermo, o di nulla giovarlo. Ma poſto, che ciò che inſegna Ippocrate ſi poreifc dal medico ſicuramente legui re, qual pro per Dio a’milerellilanguéti mai ne avverrebbe, ſe di neceſſità le più nobili, e utili foſtāze del corpo s'avreb bono ad un'ora a vuotare? e quì ci accade d'avviſar la ſcioc ca pecoraggine d'alcuni medicāti de'noſtri tempi, i quali no avendo ardimento d'imnitar Ippocrate, e Galieno nel ſe gnare fino allo sfinimento, l'imitano poi nell'uſare violen tillime, e nocevoliſſimepurgagioni: follemente immagi nando,nel far grandemente vuotare, tutto il ſapere, e'l va lore del medico, e l'eccellenza dellamedicina confiftere; e RI pure il medeſimo lormaeſtro Ippocrate apertamente avvi ſa,che non miga per la quantità s'abbiano a ſtimare le pur gagioni, ma per la qualità degli umori,che ſi vuotano.Ma trapaſſando al ſeguente Aforiſmo:ciò che ſi dice in quello, giàvenne detto in prima nell'Aforiſmo ventidueſimo; per chè chiaramente ſi vede, che Ippocrate follemente riſpar miando le parole nel biſogno maggiore, le conſuma poi, ove non fa meſtieri; ma non una, o due fiate egli in ciò ſi vede fallare; e ſimigliantemente ciò, che ſi dice nell'ulti mo aforiſmo, fù detto già nel ſecondo;perchè egli vien giu dicato ragionevolmente vano, e ſoverchio da Galieno,che che fi dicano in contrario gli altri chioſacori:onde non è da farne più motto. Egli era sì agevole impreſa ad Ippocrate il dettar aforif mi, che lo immagino, che egli dormendo ancora ne com poneſle; imperocchè non ſolamente in queſta, ma in cuce ' altre ſue opere gliva egli ſeminando; e quelche più dej recar maraviglia ſiè, che ne reca alcuniegli ſovente, che colla materia, la qual ſi tratta non han punto che fare; ma quando di ciò lo vado ricercando la cagione, ritrovo da al tro una sì fatta agevolezza non procedere, ſe non fe dal ſuo poco intendimento, e dal non diſaminar lui bene le coſe; perchè fi verifica in Ippocrate quel faggio avviſo d'Ariſto tele, che coloro, che a poche coſe riguardano agevolmea te diterminano; e quindi avviene, ch'egli tratto tratto diſguiſato, econfuſo non ſerba ordine, o maniera alcuna, a guiſa de’noſtri Romanzatori, i quali di palo in fraſca ſem pre faltando, quando men s'aſpetra, rompendo il fil del ra gionamento ci laſciano, e d'alcro imprendono a ragionare. Malafciam Bradamante, e non v'increfca V dir, che così reſti in quell'incanto, Che quandoſarà il tempo, ch'ella n'eſca La farò ufcire, c Ruggier' altrettanto, Come raccende il guſto il mutare efca, Così mipar, che la mia iſtoria quanto Or quà; or là più variata ſia, Mero a chi l'udirà nojoſafia. Così il noſtro Ippocrate ora laſciando di favellar delle purgagioni,nelſecodo libro a far parole del ſonno trapaſſa, dieědo: il ſonno ove in alcuna malattia fia tormentoſo ne addita quella eſſer mortifera; ma ſe ſarà egli giovevole,ne fa avviſati non eſſer mortale. Egli l'ha indovinato certamente alla prima; e non veg giam noi tutto di trap.affar molti, emolti, che tempo del male piacevol ſonno agiatamente ſopiva: e allo incontro rimaner in vita altri, che nelle loro malattie da funcſtif limiſogni,o da altro aſpramente fur dormendo travagliatis Or non avvien quaſi ſempre nell'avanzamento dell’avute malattie, che gli infermi più moleſtia in ſonno, ch'in veg. ghiando patiſcono? e purnondimeno eſli per la più parte riſanano; oltr’a ciò le terzane, e tutt'altre febbri intermit centi fogliono il più delle volte con faſtidioſi ſonni gli am, malati sformatamente annojare: e pur le sì fatte,ſecondol' avviſo del medeſimo Ippocrate,non fon di riſchio veruno; e quantunque,per parere diGalieno, Ippocrate non intenda, di favellar de fonnida tali febbri avvegnenti, pur nondi meno era il diritto ch'egli l'aveffe apertamente ſpiegato, ne miga alla diſcrezion de'chioſatori, o de' lettori laſciato. Nel ſecondo Aforiſmo afferma Ippocrate, che ſe'l ſon no la farnetichezza raccheta, vada ben la biſogna. Ma che è ciò per Dio, ch'egli dice; Io vo conceder, che talor vaglia, ne vi ha chi il nieghi, ch'un placido, e ſoave ſonno valevole ſia una ſinaniante farnetichezza ad attutare: eche aver fano l'intelletto ſia coſa non che buona, maottima; ma ſe un sì fatto giovamento s'aveſſe altronde, che dal sô no, domine ſe ſarebbe male? e ſe ſarebbe ancor bene,ab biſognava certamente Ippocrate dir nell' Aforiſmo: buona coſa è, che i farnetici dal lor farneticare riſanino; e five drebbe ſenza fallo regiſtrata una dottrina nel divino volu medegli Aforiſmi da fare ſcorno alla concluſione di quel ſovrano collegio de’medicanti, la ove tutti conchiuſcro, che Mecenase non aveva ſonno, E queſt'era cagion,che non dormiva ”. Ma quanto meglio avrebbe fatto Ippocrate, e quanto Q92 con avanzaméto della medicina ſpeto avrebbe egli il tem po, ſe in vece delle sì fatte novelluzze aveſſe impreſo a rac corre, e a dimoſtrarne di quanto riſtoramento ne fia il ſon none come allettar fi poffa a recarne quelle tante utilità,on de ragionevolmente ilParacelſo ebbe a gridare: fomnus Jant um arcanum eft in medicina ut libenter ab aliquo fcire velim, abfit difto error, an, & qua medicina fit, quæ in omnibus morbis, tampræfens, & repentinumfit auxilium, adeoque corpori, acfanitati condueat æquè ac fomnus. Co sì col grave fafcio di penſieri ſogliono i malati laſciar an che i più oſtinati dolori della perſona, allorche luſingando loro le pupille il ſonno dolcemente gli abbandona in fule piume; laonde non ſenza qualche ragione l'autore dell'in no ad Orfeo attribuito,chiama il ſonno Re degli huomini, c degli dei Somnequies rerum,placidifſime fomne Deorum, Paxanimi, quem cura fugit,tu pectora duris, Feſa minifteriis mulces, reparaſque labori. Canta Ovidio; e Seneca Tuque à domitor Somne malorum, requiesanimi, Pars humanamelior vitae E'I Caſa O ſonno, o dela queta umida ombrofa Noite placido figlio, o de’mortali Egri conforto, oblio dolce de'mali Si gravi, ond'è la vita aſpra, e nojosa E'lTallo Padre Orche m'arde l'a febbre gorche'l vigore Vital m'invola il duolo acerbo, e rio, Col ramo: molle dell'onde d'obblio Torrai laluce agli occhi, ame l'ardore; ne altro rimedio ritrovò Erminia (appo il maggiore deno Itri Poeti ).a? ſuoi dolori,che'l ſonno Cibo non prendegià, che de'ſuoi mali Solo fi paſce, e för di pianto ha fete; Ma'l funno, che de'miſeri mortali E' coiſko dolce obblio poſa, e quiet thing Son. DelSig. Lionardodi Capoa 309 Sopš coʻfenfi i ſuoidolori, e l'ali Diffefe fuura lerplacide, e chete. Ma comechè ciò fia vero, pocomontava a noi certame te il faperlo, fe non fappiamo inſieme chenti, e quali ſiano irimedj daciò operare;perchèdovea certamente Ippocra te diviſare inſieme degli argomenti, onde a’malati ſi può chiamare il ſonno; e comechèoſtinato ingannarlo: e non folamente dire cheil ſonno approdi a corali infermi. Ma forſe lo vado errato; perciocchè non fo com'egli il pur rivelò af fuo Signor de la Sciambre, e fe, che colui n'in fegnaffe i ſentimenti di lui, o per fua dappocaggine, o per la ſua natural mutolezza in prima naſcoſi: conciofoffe co fa, che chioſandocolui queſto ſecondolibro, ſcritto aveffe: nel titolo: nova ratioexplanandi aphoriſmos Hippocratis, per quam uſusaphoriſmorum ab Hippocrate intenti, nec ta. mea conſcriptireperiuntur. Econ queſte magnifiche pro. meſſe venendo egli poi al poſtro Aforiſmo, dice per fenté za d'Ippocrate: ad praxim revocabitur hæc prognofis, ſiis ejufmodi effe&tibus appoſitis remediis fomnus concilietur. Ma prima,chc a lui ne diè la curaIppocrate alParacelſo d'avvi ſarlo, il quale nelle chioſe del derro Aforiſmo diſſe: Som nifera quomodocunqueea vocentur àquolibetmedico fummo perè conſideranda Junt; fomnusenim medicina ef ſuperans omnia arcana gemmarum ', cu lapillorum pretioforum. Qui Natura Arcantfomniferumexconvenienti effentia desīte ptum,rectè applicare novit,is magni apud ægrotosfaciendus eff. Non igitur folum defomnisnaturalibusHippocrates bic loquitur,fed oportet ut euminrelligatis, fcut medicum ex pertum, qui ex fpiritu medicina locutus eft, non ut Humori Ba, qui ignorat quid fit fomniferum,fed ut artifex. Mache mivo Io più nel farnerico degli Aforiſmi d'Ippocrate lun gamente avvolgendo, i quali di sì picciola levatura ſono, quára per noifin'ora s'è accénata. Vegga pur chiunquecó animo tranquillo, e ripofato, e veramente da filoſofo daw niuna paſſione imbardaro, e'sì gli giudichi cutti, e ſottil mente gliſtacci, cheſenza troppa fatica logorarviagevol mente ritroverà eſſer i rimanenti tutti della medeſima va glia diquelli, che fin quì diviſati abbiamo:eche malamē: te allogata abbian l'opera in affibbiarvi tante chioſe, eco mentiſopra,i noſtri medici, mallimamente il narrato Signor della Sciambre, il quale lo non sò con qual arte s’indovis ni, e a noivoglia comunicar corteſemente ciò che Ippo crate avea intenzione di dire, e'l racque ſolamente per ri ſerbare al ſuo valoroſo ſegretario la gloria d'una sì magui. fica impreſa. Ma ſe bene Ippocrate detto veramente aveſ ſe ciò che il Signor della Sciábre diviſa, e pretende aver il maeſtro a bello ſtudio tacciuto, gran coſa pur cgli non fa rebbe, come ſi può ſcorgere nelle ſue chiole. Ma incom portabile certamente, e' mi pareil Signor de la Sciambre, Aon ſolamente, perchè in ogniaforíſino coſtantemente egli afferma queſto, o quell'altro aver Ippocrate avuto in men te di dire,ma eziandio, perchè talora in materie chiariffime ci vuol'egli far vedere per roſſo il giallo, ficome quando p ſoftenerche'l, ſuo modo di medicare non travii dagl'inſe gnamenti d'Ippocrate, vuol farne a credere colui aver avu to in animo, che ancora fuori del gonfiamento le crude materie vuotar fi debbano; error,che in verità non mai gli porè cadere a niun modo in penſiero. Or ſe la potente faſcinazione dellepaſſioni non aveſſe magagnate le menti de'chiofatori, eglino ſiſarebbono, fe lo diritto eſtimo, da per ſe del poco, 0 niun valore del volume degli Aforiſmi agevolmente avveduti, almen per quelli che perentro ma nifeſtamente falfi vi s'avviſano; intanto, che ne meno il tanto parzial d'Ippocrate Galieno, e altri ſeguaci di quel lo gli han voluti torre a difendere. Ma comechè cotanto imbardato fi moftri Galieno delle dottrine d'Ippoctate pur egli falſo a cento, c mille pruove confeſſa apertamente ayer lui ritrovato quell’Aforiſmo, il qual dice, che ſe mai la rete efca del ventre fuori, abbia di neceſſità a infracidire. Machi falſo parimente non ravviſa quell'altro, ove inten de Ippocrate didarne certi ſegnali da conoſcer le donne in cinte, dicendo; ſe conoſcer tu vorrai quando la femmina gravida ſia, innanzich'ella vada a coricarſi, dalle bere la mulla, e s'ella ſarà moleftata da’dolori del ventre, di certo, che ſarà gravida: ſe nulla ſentirà ella nonaverà concetto.E fe l'aforiſmo è falſo, abbiſogna anche dir, che in vano ſi becchiil cervello Galieno per recare la cagione, perchè abbia a farſi dopo il definare cotal operazione; è falſo diſ fe Avicenna,chedell'error dell’Aforiſmo in parte s'avvide, che tal fatto avvenga a quelle donne, che non hanno in co ftumetal beveraggio; imperocchè a quelle donne, le qua li per addietro non mai l'aſſaggiarono, o gravide, o non, gravide, che ſiano elleno, foglia talora la mulla dolori di ventre cagionare: il che avviene ancora dalla mulla com, poſta coll'acqua piovana, della quale alcuni immaginano aver Ippocrate favellato. Falſo pariméte ſcorgeſi l’Aforiſ mo, che mortale ſia a donna gravida ogni acuta malattia. L'Aforiſmo, di cui meritevolmente dice il Santoro: ne, mofana mentis defenderet hunc aphoriſmum: cioè, che co loro, de'quali l'orina è fabbionoſa abbian la pietra nella veſcica, che che a difeſa d'Ippocrate il Zecchi ſi dica, egli è così apertamente falfo, che Ippocrate medeſimo altrove lo rifiuta, e ripiglia fortemente alcuni antichi medici, che ciò dicevano · Galieno ancora avvifa la ſua falſità, e dice eſſer errore d'Ippocrate, o dc'copiſti, e che l'Aforiſmo do vea dire, o nella veſcica, o nelle reni; ma con cutta que fta aggiunta di Galieno, falſo altresì tutto di egli ſi ſperi menta.e Girolamo Cardano nelle chiofe,dice lui ſteſſo per lo ſpazio di trenta anni aver avuto l'orina ſabbionoſa, ſen za aver avuta mai menoma pietra, o nelle reni, o nella ve fcica. Soggiugne oltre a ciò, che di dieci perſone appena che una additar ſe ne poſſa, che non abbia l'orine ſabbjo noſe: e pure rari fon coloro, che han pietre nelle reni, e radiſſimi coloro, che l'han nella veſcica. E oltre a ciò egli racconta, che gli Spagnuoli poco men che tutti fan l'orina ſabbionofa, e nondimeno pochiſſimi vi ſono infra loro, che patifcano il mal della pietra. Ma non menofalſo è quello altro aforiſmo,che'n bocca de’medici tutto di eſſer veggia mo,cioè,che que'febbricofi,i quali fan corbida l'orina, qua le è quella de giumenti, o hanno attualmente, o auranno di preſente dolor nel capo. E quell'altro, che a coloro, a ’ quali nelle febbri ogoigiorno viene il rigore, ogni giorno le febbri ſi tolgano. E quell'altro, di cui Giulio Ceſare della Scala, così a Girolamo Cardano ragiona: nequemés ægrotat, ut falfo voluit Hippocrates, cum dolorem, quo cru ciamur non ſentimus: comechè non vera ſi trovi la ragione, checolui poi ne recà ſoggiugnendo:fed quoniam dolentem ad locum fubfidii ergo diſtracti ſpiritus non repreſentantur, imaginationi. E quegl’aicri, ch' alle femmine, alle quali corrono imeſtrui,e agli Eunuchi,non mai vegna loro la po dagra. Maquale ſciocca femminella nõ riderà ſtrabocche volmcntc in udendo quell'aforiſmo, che i malchi per lo più s'ingenerino nella parte deſtra della donna, e le fem mine nella ſiniſtra? E di quell'altro, che ſe la donna aura conceputo maſchio, ſi vedrà ben colorita in volto; mares avrà conceputa femmina, farà pallida; e di quell'altro: ſe una donna non ſarà gravida, e vuoi ſapere ſe concepirà,co prila bene con panni, e di ſotto adopera ſuffumigji e feľo dore per entro il corpo vedrai, che vada alla bocca, e alle nari, ſappi, che per ſe ella non è ſterile. Taccio altri, altri aforiſini intorno alla medicinal materia, che fan vede re, che Ippocrate poco avea che fare certamente quando fcriveva un tal libro, ſe vi pone sì fatte fraſche, che ſe ben vere elle foſſero, non però di meno non ſono tali, che debu ban regiſtrarſi in un'opera nella quale intende Ippocrate inſegnare le più ſegrete coſe dell'arte. Ma ad altro facendo paſſaggio: già noi veduto abbiamo quanto poco Ippocrate intelo foffe della natura delle co fe pertinenti alla medicina; ma ſpezialmente anche ſi pa che niente fi fu egli certamente ſcorto della ſto ria delle parti del corpo umano, e degli ufici di quel lc, e del modo, col quale adoperano, come ogn'un può ſcorgere in tutti i ſuoi libri, che non fa meſtieri, ch’lo ne faccia parola. Solamente narrerò, come per ſaggio dell' altre coſe, ſicome intorno a ciò filoſofi egli una fiata, di cendo, che quelle parti, che ſono ampie nel ventre, e ftret te nella bocca, com'è la veſcica, il capo, e lå matrice, ſon fatte per attrarre, eche apcrtamente queſte sformatamen re, 1 1 1. te tras 1 i ; te traggono, e ſon pieni degli attratti umori; ene reca per ragione il vederſische colla bocca aperta nulla ſi trae, e che fporgendoſi in fuori poi, e ſtrignendoſi le labbra, e adata tandovi una fiſtola,ſi trae agevolmente ciò che ſi vuole, e che le ventoſe, le quali ſogliono appiccarſi per attrar re dalla carne, ſiano ampie nel ventre, e ſtrette verſo la bocca; ccco le fue parole: Το μειο ελκύσει εφ' εαυτό, και έπεσα σας υγρότη εκ τέ άλε σώματG-, πότερον τα κοίλα π, και εκπτ. παμύα, ή του στρεά της και τρο/γύλα, και του κοίλα τε, και ές στνον εξ ευρές. συνη μία, δύναιτ' αν μάλιστα, οίμαι μύτσι τα τοιαύτα εις ενόςσυγγ μένα εκ κοίλε ε, και ευρίG-' καζ μανθάνειν δε δεί αυτα έξωθεν εκ τω. φανερών • τέτο με γαρ,τησόματι κεχίωώς, υγρόν δεν αναστάσεις προσμελήναςδε, και συσείλας και πιέσεις τε τα χίλεα · έτι τε αύλον ποθέ. μυς, ρηιδίως αναστάσεις αν ό, τι θέλας • τούτο δε, αί στκύαι ποζαλό μίμαι εξ ευρές ως πνώτερον ενενωμέναι πες τούτη τεχνέαται, προς το έλκαν από της σαρκος, και επιστά αλλά και πολ α τοιούτοςοπα · των δ ' έσω του ανθρώπς φύσης, χήμα τοιούτον• κυρίς τε, και κεφαλή, και υπέ es γυναιξί - και φανερώς αύτο μάλιαάλκει και πλήρεςέπν επαρκτα υγρό Tuloi aici. Non occorre, che Io mi dia briga in diſaminar si fatte fanfáluche, potendo ogn'ın per ſe medeſimo ravvi fare, ſolamente in udirle ſoluna fiata, che contengono più errori, che parole. Egli vuole, che la veſcica tragga l’o. rina; il che tanto è, quanto s’un diceffe,che'l letto del ma re tragga l'acqua da'fiumi;e'l medeſimo dir ſi puote del ca po, e della matrice. Ben ſi pare poi, ch'egli ignorimolte di quelle ſtrade, per le quali le diſcorrentiſoſtanze ſi por tano in diverſe parti del corpo. Ma egli è diſadatto l'eséplo della bocca, e delle ventoſe, comechè egli pur ſi cõcedeſſe, ch’elleno adoperaffero per traimento, ficome fin ' a' dìno ſtri han follemente creduto, e inſegnato le ſcuole; ma qual maraviglia, che ciò Ippocrate aveſſe affermato, s'cgli ſcriſ ſe ancora nel libro della natura del fanciullo, che lo ſpirito caldo tragga a ſe lo ſpirito freddo, e ſe ne nutrichi: Távce δε, σκόσα θερμαίνεταικαι πνεύμαέχει το δε πνεύμα ρήγνυσι, ποιέει οι οδον αυτ έωυτώ, και χωρέσα έξω · αυτό δε το θερμαινόμενον έλκα ες έωυτο αύθις έτερον πνεύμα,ψυχρόν δια της βαγής, αφ' και τρέφεται. Νce vero cioche diccAndrea diLorézc, cheIppocrate ſapeſſe títo dinotomia Rr quanto gli faceva luogo per la medicina; concioſliecolache dubitar non ſi poſſa,che molte, e molte coſe di notomia, che neceſſarie séza fallo ſono alla medicina razionale,igno te affatto gli foſſero; imperocchè, per tacer d'altro,cgli è certamente neceſſario a quella il conofeer chenti, e quali fieno i movimenti dell'arterie, le itrade del chilo, l'aggira mento del ſangue, la fabbrica, e gli ufici delle giandole, e altre, e altre molte coſe, delle qnaliniuna conrezza ebbe egli giammai; nondimeno avvegnachè queſte, e altre co Scaffai, pertinenti alla medicina ignoraffe Ippocrate, non ſi può negare, cheegli molto nous'avanzaffe ſopra tutti gli altri medici de'ſuoitempi, per quel, che noi fappiamo, il che da altro certamente non nacque, che dal talento natu Tale, che egli ebbe adatto aſſai al ineſtier della medicina, il quale ajutò egli, e accrebbe ſommamente in coltivan do oltremodo quella parte alla medicina, molto neceſ faria, qual è ſenza fallo l'offervazione; e nel vero Ippocra te fu un curioſo oſſervatore; perchè ebbe a dire di lui Ga lieno, ch'egli affai più coſe colla ſperienza, che colla ra gione conoſceſſe; e il meglio certamére avrebbe fatto egli, le trafandate tutte altre biſogne, a queſta ſola inteſo ſem pre aveſſe; e ſenza ad altro inframmetterſi aveſſe folamen te narrata la nuda, e femplice ſtoria intorno agl'infermi da lui medicati; ma nondimeno non ſi ſcorge aver egli tanti felicità nell’ofſervazioni Ippocrate, che, o per poca dili genza, o per alcro, che ſi fia egli ſovente non inciampizma quel, ch'è peggio, anche talora in coſe agevoli molto ad offervare e fallare ſcioccamente ſi vedese ciò ch ' e'nenar ra, ne men per avventura il direbbe un rozzo, ed ineſperto huomo dicontado. Ma in quella parte poi della medicina, ch'alla dieta ap partiene egli li portò nel vero così bene Ippocrate, che niu na cofa par che glimanchi; e di certo e' ne meriterebbe una grandiſſima loda, ſe queſto medeſimo non faceſſe aperta mente conoſcere, ch'egli ſtato foſſe molto manchevole, e difettoſo in quel, che più propio, e neceſario egli è in me dicina, e in cui conſiſte, ed è riporta l'eccellenza, anzi l'cf fere tutto del medico; cioè nella concezza de'inedicamen ti: maſſimamente di quelli, che tali veramente ſono, e che da’moderni, ſpecifici chiamanſi; i quali ſenza cagionar ne vacuazione, ne movimento altro niuno han virtù d'eſtin guere il male, e riſtorar l'infermo; ina comechè in ciò affai mancaffe Ippocrate, purebbe egli tanto intendimento,che ne'mali acuti della ſola dieta per lo più ſi valſe, rade volte adoperando i vuotamenti, come colui, che ben conoſceva, ch'eziandio con yuotare gran quantità d'umori, le malat tie per lo più ſi mantengano nel loro vigore. Ma che poco foſte inteſo de medicamentiſpecifici Ippocrate, ſipareaper, tamente da chiunque ſi da cura di legger i libri degli Epi demj, ne'quali ſi veggon le malattie ne'terminiloro fatali, o in bene,o in male eſſere oftinatamente terminate; c alcu. na fin’al centeſimo giorno eſſer durata. Si ſcorge ancora ciò nelle medicine, le quali egli adopera, come quelle che pericoloſe ſono, e poco efficaci, come ſono infra l'altre ch' Io taccio, comea tutti conoſciute, le cantarelle, di cui egli ſi vale temerariamente in verità nell'Idropiſia,e in altri ma li dando cinque di effe, e togliendone ſcioccamente il ca po, i piedi, e l'ali, che potrebbono in parte rintuzzare il lor veleno; e racconta Galicno, ch’un medico per ciò aver yo luto fare aveffe ucciſo miſerevolmente un'infermo; ma tã. to e' ſi compiacque di sì beſtial medicamento Ippocrate, che con peffimo conſiglio e' vuol, che le cantarelle ſi met tano entro la matrice per vuotarla de’malvagi umori; ove pone egli in opera ancora l'Aglio, il Pepe, e la Sandaraca, la quale,comemoſtra il Mattioli, è una ſpezie d'orpimen to velenoſo corroſivo, cd altre, ed altre cauterizzāti medi cine; il che volendo ſcioccamente un medico de’noſtri tem pi parzial molto d'Ippocrate una fiata iinitare, riduſſea, pèſſimo ſtato una povera inferma.Neper altro,che p máca méto ď' efficaci medicine nell'interne infiamagioni ſegnar ſuole Ippocrate fin allo sfinimento; c quel che ſi è il peg gio, e Galieno malagevolmente il comporta contro le ſue medeſime regole,nella pleureſi,ſe nelle parti interiori ſi ſtea da il dolore, ſolve egli il ventre coll’elleboro, e col peplio, Rr 2 Ma chi voleſſe annoverar le mal preparate, violcntise veler noſe oltremodo, c ſtrabbocchevoli medicinc,che ſuol por re in opera Ippocrate, elle ſon tali, chei medeſimi ſuoi fee guaci meritevolmente l'han poſte in miſuſo. Ne per al tro parimente egliconfiglia, che la febbre non s’abbia a mi tigare nella punta, per fette giorni, e ſi debba dar largamé, te bere,o aceto co mniele, o aceto con acqua: Ineueſten we xex άσθαι ή πυρετόν μη παύεινέστα ημερέων ποτέ δε χρήσθω,ή οξυμε aixpýtw,vi šče xzi üfatı:oltre a ciò ſoggiugne egli poco ap preſſo,che nel quinto, e nel ſettimo giorno ſi debbano por re in opera gagliardiflimemedicine da ſpurgare ben bene il petto,acciocchèil ſettimo giorno menmoleſto all'infermo poi fi faccia fentire: και έτι τή αίματη, και την έκτη ισχυροτύτοιστ χρέεσθαι τσιστν επαναχρεμπτηeίοισι φαρμάκοισι, ως την εβδόμην δια jnásoe spegno dydyn. Ma da queſto,e dal non eſſer ben lui ſcor to dell'altre coſe della medicina naſce il peſſimo conſiglio, ch'egli da al medico:che non avédo egli contezza del male adoperar debbamedicine,manon molto gagliarde; e ſe co un tal argométo ſcemerà il male,gli addicerà,che curar e'l debba coll'aſciugare; ma ſe'l male non ne ſcemerà, e ne di verri piti graveil citrario fardovrafi: Τών νουσημάτων,ών μη επί 5ηταί τις, φάρμακον είσαι μη ισχυρό,. ήν δε ράων γένηται, δίδεικται «δος, εύπεπιέον έσιν ισχνάναντα • ήν δε μη ραων ή, άλλα χαλεπώτερον Xu tavavila. Dalle quali parole, e da quel che indi appreſſo edice apertamente ſi ravviſa aver Ippocrate voluto in tendere, che il medico,non ſappiendo qual male l'infermo paciſca,fi vaglia delle purgative medicine; e che altro per Dio avrebbe mai potuto Maeſtro Simone nello ſtudio di -Bologna a'ſuoi ſcolari infegnare Magli ſcherzi laſciádo, intorno a ciò certaměte parmi più faggio aſſai il coſiglio d ' Avicenna, il quale vuole,che il medico no conoſcêdo ilma Ic, altro farnon debba, ſalvo che preſcrivere all'infermo una rigoroſa dieta, e intáto ſtar cauto, cariguardo per po, ter quello per qualche ſegnal fotcilmente avviſare. Ma della fuadebolezza ben avvedutofi Ippocrate, per guadagnarſi il buon nome, ſeguendo egli il coſtume degli alori medici, cheabbiamonarraci, coll'arti, e colle giun, 1 terie Del Sig.Lionardodi Capoa. 317 terie ricoprir cercolla, perchè diede opera grande agli arr tivedimenti, e ne ſcriſſe molti libri; ne per altro cgli com pole ancora illibro degli inſogni; opera ridevole allai nel vero, la qual ſembraverainente fatta per huon, che lo gnando færnetichi; perchè mi maraviglio forte della follia di Giulio Ceſare della Scala, che ſi diè briga d ' appiccar gli sù un comento. Divulgò altresì Ippocrate per la me deſima cagione quel celebre ſuo ridevole giuramento, in cui no lo lo fe più ammirar ſi debba la ſua ſciépiezza, o law fua malizia. Quelle cofe, ch'e' giura Io non le reco; ma ben può ſcorger ciaſcuno,che elle vi ſono poſte tutte per farlo credere huomopio, e divoro, non altrimenti, che Ser Ciappelletto per la ſua falſa confeſſione. Ma nientedi meno non furono baſtevolitanti se sivarj artificj, ch'egli non cadeſſe dalſuo buon nome, e che, come egli mede fimo confefſiz, più biaſimo affai,che gloria dal mcdicare e ’ no riportaſſe;ilche non ſolamente gli avvenne,permio av viſo, dal non aver lui avuto niuna contezza di nobili, e va loroſe medicine, per le quali egli in pregio montaffe,e l'ac quiſtata gloria e' non perdeffe, qualora in qualche finiſtro accidéte in medicãdo incorreſſe; ma ancora dal coprendere aſſai bene Ippocratc, ammacſtrato dalle ſue continue of ſervazioni, i viluppi, e l'incertezze della ſua arte, e qua to poco ſia il frutto, o'l giovamento, che poſſa da'ſuoi ar gomenti huom ritrarre; perchè egli ſcarſo anzi che no mai ſempre fu d'imporre ne'mali acuti que'rimedi chegrā di chiamanſi da'Greci; temendo oltremodo di ciò, che age volmente ſeguirne poteſſe; ne coſtumava egli, come ab biam veduto, trar ſangue nelle febbri, ſe non fe quando ſcorgevale da grandi, e interne infiammagioni accompa gnate: ne purgar coſtumava, ſe non ſe molto di rado, e nel cominciamento ſolo de'mali acuti; perchè n'era talora ol tremodo biaſimato dalle genti minute, le quali giudica vano, comechè grave foffe, e di riſchio il male, eſſerne nondimeno piggiorato l'infermo, ſolamente per la tra. ſcuraggine, e manchevolezza del medico che non ci avel ſe al tempo con valevoli purgagioni, e con replicati falafi fatto riparo; ſıcome la ſciocca rubaldaglia deʼmedici allor forſe avea per coſtume; i quali in ſomiglianti malattie mol ti, e varj medicamenti,ficome egli narra, adoperavano, non altrimenti, ch'or ſi facciano poco men, che tutti i Ga lieniſtide’noftritempi. Cosìnella paſſata ctà videroi no. ftriantichi con biaſimi di traſcuragginc indegnamente ol traggiato, o proverbiato maiſempre Proſpero Marziano, e prima di lui anche GirolamoCardano;i quali ſaggi,e avve duriſſimieſsédo in gir dietro ad Ippocrate le medeſinc tac cc del lor maeſtro agevolmére ſi guadagnarono.E a' tempi noftri abbiamo pure uditi i brôtolaméti, erimproccjcutto di ſcagliati a Paulo Emilio Ferrillo, per eſſer lui nelle febbri dal preſcrivere le purgagioni ritroſo; e indi a poco acerba mente cffer proverbiato Diego Raguſi, perciocchè nel ſegnare, e nell'uſare le purgative medicine fedelisſimo ſe guace d'Ippocrate, e del Marziano ſi dimoſtrava, ne mo riva giammai infermo, chenon ne veniffe loro rimprove rata la dappocaggine, e traſcuratezza d'aver colui ſenza gli acconcj medicamenti miſeramente laſciato morire. Com tanto il non operare ſecondo la folle opinione del cieco vulgo, grave crrore, e biaſımevole ſempremai fi giudi ca e; maggiormente allor, che no li ficgue ciò, che comu mente dalla traccia de' menovili maeſtri coſtumar ſi ſuole, 1 1 RA 319 1, des S É ſtanco, c anſante pellegrino, cui lunga, e faticoſa ſtrada ancor rimane, acciocchè pofla gli ſmarriti ſpiriti rivocando, al fine diterminato agiatamente pervenire,or in ombroſa felva al canto di piacevole uſi gnuolo s’arreſta,or indilettevol poggiore fpirãdo fi ſiede,or lūgo la riva d'un qualche fuggére, e chia risſimo fiumicello ſi slaccia or in un pratello di freſchiſ fima, e minatiffimaerba ripieno, e di vaghi fiori,dolceme te ripoſa; e ſe Natura rizzare, e ſparger volles come huom crede, in mezzo agli fpaziofi campidel inare tante, e tante Iſole, acciocchè quando a'Soli più tiepidi s'accolgono,ri trovaſſero agios e poſa ne'loro lunghiſſimi voli le varies tormedegli uccelli; ragionevolmente dobbiam noi, o Sig. poichè sì dura, e malagevole imprefa di dover ragionādo traſcorrere le ſcuole de più famoſi medici abbia già comin ciata ragionevolméte dico dobbiam noi talora interrāpédo i noſtri lúghi ragionaméti préder nuova lena; e táto più, che vie più ſghembo, e inviluppato ſentiero di quello, chedie tro n'abbiam laſciato, orci ſi fa innanzi; imperocchè ab } biano, ficome avere potutofin'ora comprendere, piena mentediinoſtro,ſe'l mio avviſo non m'inganna, a quanto mal riuſciſſe a coranti valene'huomini il volere alcun fifte ma di razional medicina ſtabilire; e fornigliante di molt’al. tri appreſſo andrein diviſando;avvegnachèa trattar dico ſtoro aſſai più grandemalagevolezza s'incontri; imperoc chè di loro opere nulla a' noſtri tempi non ſe ne ſerba, e quelle poche, e intralciate memorie, che di eſſe abbia mo, maffimamente appo Galieno, o poco, o nulla n’appro dado a farne diviſar di loro dottrine; imperciocchè quel buon huomo, tra perchè non l'intendeva, e anche, perchè vezzatamente ſtudiavali d'oſcurare, e porre a fondo ogni lor fama, e gride, cosìſconce,o travolte le ci narra talora, che a gran pena illor intendimento ſe ne può ritrarre, Ma comunque ſia la biſogna, Iomiargomenterò ſecondo mia poffa d'illuſtrar quanto poſſibil fia i loro ſentimenti e la lor dottrina ſtacciando, ſeguitar la coſtuma del noſtro im preſo diviſamento. E tralaſciando quì in primadi far parole d'Apollonio,di Diſippo, e d'alcun' altri ſcolari d'Ippocrate:i quali per va rj, e diverſi ſentieri avviandoſi, a varie, e diverſe altre ſet te di medicina dicder principio: come di quelli,de qualial tro non ho che dire, ſe non che alcuni di loro vennero ini vituperevolguiſa crattatida Eraſiſtrato: darem comincia mento dal famoſo Diocle. Dico adunque, ch'e' fi puòbé ammirare, e commendare la ſua grandiflima corteſia, o umanità veramente ſingulare, colla quale, come teſtimo nia Galieno,uſar ſolea con gl'infermi; ma tion già la ſua dottrina, eſſendo molto rare quelle notizie, che a noiper venute ne ſono; ſi legge nientedimeno ancor oggi una ſua cpiftola del inodo del conſervar la ſanità, dove permio av viſo non ha coſa per cui meriti egli quelle ſomme lodiche dagli ſcrittori, e particolarmente da Galicno sfoggiataméte inveſtire gli vengono; nesébra punto chesì fatta piſtola Gia degna di quel ſapientiffimo Principe, al quale ella è fcrit ta; vi ſi ſcorge tuttavia, che Diocleera aſſai vago dell'A ſtronomia, e che ben poco egli gradiva le compoſte medicine, e che non moito gli erano a cuore le purgagioni. Per quel poi, che di lui vada dicendo Galieno, egli ha Dio cle per fondamenta del ſuo ſiſtema il caldo, e'l freddo, e'l fecco, e l'umido; de'quali i due primi,agenti, e gli altri pa zienti e' vuol, che fieno. Dottrine, che quanto dal vero modo di filufofare vadan lontane, altra fiata avendone lo fatto ſermone, non fa lungo, ch'al prefente più il dimoſtri; ma comechè Diocle d'altiſimo intendimento, e ben acco cio al filoſofare ſi foſſe, non però di meno, o per manca mento di maeſtro, o di guida, ch'al diritto fentiero l'avel fe fcorto, o per altro, che ciò operato aveſfe;ſconciamente laſciandoſi trarre a’hiſicofi impigli della dialettica, sì, e tal mente bambo, e ſcempiato ne divenne, ch'oltre a' già detti crrori, impreſe a foftenere, non eſſer altrimenti il ſu dore, vuotamento naturale;e quantunque a Galieno ſem braſſer molto probabili fue ragioni, nondimeno da colui, come troppo durauna talopinione, e come ripugnante, e contraria all'evidenza de'ſenſi vien forte bialimata, e rifill tata. Ma quanto molto poco in filoſofando in medicina egli s'avanzaffe Diocle, chiaramente il ci da egli medefi mo a conoſcere, quando favella della malattia ipocondria ca, di cui un libro ben'intero e compofe, il quale ſcëpia to, emancheyolc ftimnafi per Galieno; ma che che nedica colui, degno certamenteini pare di grandiflima foda quel libro; imperocchè ci fa vedere il fuo componitore eſſerfi molto ben avveduto della incertezza della medicina, da che tutto ſoſpettofos e rentonc e' ſempre ſe'n va in con ghietturando le cagioni delle maraviglioſe, e ſtrane appa senze di quel male. Dice infra l'altre coſe in quel ſuo libro Diocle,doverſi fo ſpettare in coloro, che ſon travagliati da’mali ipocondria ci, non quelle venc, che ricevono l'alimento dal ventrico lo, abbian aſſai più calore del convenevole, e'l ſangue in effo loro ſia più groſſo aſſai divenuto; concioliecoſachè cerca coſa ſia le menzionate vene eſſere in quelli oppilate i edice ciò argomentarſi dall'alimento, ch'al corpo accon ciamente non ſi diſtribuiſce, e nel ventricolo, indigeſto ri Sf inane;mane; quando davanti per li meati ſi ricevea,e per la mag gior parte con agevolezza s'avvallava al ventre, come dal vomito poi manifeſtamente s'avviſa, quandoil giorno ap preſſo così guaſto ſi rece, per non eſſerſi diſtribuito al cor po il cibo; mache'l calore in sì fatti infermi fiz più del na turale ſoverchievole, agevolmente fi ravviſi, così dall'in focamento, che a loro avviene, come da quelle coſe,che anche lor li danno; imperocchè giovevoli eglino ſperimé tano i cibi freddi, i quali ſogliono certamente rintuzzare, e fpegner in parte il calore: τες δε φυσώδεις καλεμόες, υπολαμ. βάνειν δεί πλέον έχειν το θερμόν του ποσήκοντG- εν ταις Φλεψί Gίς εκ της γασρος την κοφίω δεχομλύαις · και το αίμα πεπαχιώθαι τούτων δηλοί γαρ ότι μου έσι έμφeαξις περί ανώς τις φλέβες τω μηκαταδέ χεθα το σώμα την τοπίω · αλ' εν τη γασρί διαμένειν ακατέργασον» πρό τερον των πόρων τοίχων αναλαμβανόντων, τα δε πελα αποκρινάντων ας τω κάτω κοιλίαν και το τη δευτεραία εμών αυτες έχ υπαγόνων ας το σώ. μα των στίων · ότι δε το θερμόν πλέον εα του καιτου φύσιν» μόλις αν της κατανοήσσεν, έκ τε των καυμάτων των γινομένων αυτούς, και της ποσ φοράς • φαίνονlαι γαρ υπό των ψυχρών όφελούμενοι σιτίων•ταδε πιανα το θερμόν καταψύχων, και μαραίνουν σωθεν. Soggiugnc indi appreſſo Diocle, che affermino al cuni eſfer infiammata in sì fatto male la bocca dello ſto. maco, la qual s'uniſce con gl'inteſtini, e per la infiamma gione quella parimente oppilarſi, e vietar, che i cibi non calino giù agl’inteſtininel tempo opportuno, e ſtabilito; perchè dimorando i cibi poi,oltre alconvenevole nello ſto maco,cagionino igonfiamenti, e'l calore, e l'altre coſe tur te, che menzionate per lui in prismafi fono: Λέγεσι δε πνες επι των τοιούλων παθών ή σόμα της γασρος το συνεχές των εντέρω φλεγμαί ΥΑν, δια δε την φλεγμονίω έμπε πξάχθαι, και κωλύειν καταβαίνουν τα σιτία ας το έντερον τοϊς τεταγμένοι χρόνοις· τούτα δε γιγνομένα, πλείονα χρόνο του δέον- έντή γατε μένονά, τους πάγκες παρασκευάζει,και τα καύμαζ, και τ' άλατα πποειρημένα, Egli vien Diocle ripigliato da Galieno, perchè infra le tante coſe, ch'egli in mezzo produce, del timore, c della triſtezza, che propie ſono delmale ipocondriico, e'punto non favelli, ma Galien medeſimo diciò poi lo ſcuſa, fog giugnendo dallo ſteſso nome del male farli ciò manifeſto, impertanto Diocle non averne fatto menzione; ma nondi meno a Galieno non diſpiace la maniera del filoſofa te di Diocle intorno a ciò;maſolamente forte fi maravi glia, dicendo eſſer una quiſtione degna da fare, perchè non abbia Diocle recata la cagione, per la quale in sì fat to male venga la mente offeſa:masì fatta quiſtione, s'egli vi aveſſe poſto bé méte, nó gli era molto agevole a folvere; imperocchè ragionevolmente nel vero non volle darſi bri ga niuna Diocle di produrre in mezzo coſa,qualegli non avea avuta fortuna d'inveſtigare: nel che avrebbe certame, te il meglio fatto ad imitarlo Galieno, il quale così ſcon ciaméte ebbediciò a filoſofare, che meritòd'efferne acerba mére proverbiato,e deriſo da’luoi medeſimi parziali. Ma noi laſciādo da parte ſtare Galieno,diciamono molto bene nel vero aver de'maliipocondriaci filoſofato Diocle; cõciof ficcofachè in priina, per tacer d'altro,non continuo ſi avviſi ſmoderato calore nello ſtomaco, o nelle parti vicine, ma talora fredde ſenſibilmente ſi ſcorgano in coloro, che pa ciſcono sì fatto male; perchè convicn certamente giudica re, che'l calore quandunquc in lor ſi trovijalcro non ſia, ſal vo che un effetto del male medeſimo; la qual certezza fal fa apertamente ne fa conoſcere l'opinion teſtè rapportatas da Diocle, di coloro iquali ſtimavano cóſiſter sì fatto ma le in una infiammagione, o altro ſimile della bocca del Pi loro. Gli argomenti poi, che reca Diocle per far pruova della ſua opinione quanto deboli fieno, e fallaci, non fa meſtieri, ch'lo dica; concioltecofachè ogn’un per ſe ſteſ ſoconoſcerpuò, che da cibi, chefreddi egli appella,ſovés te ſaccrefca oltremodo ilmale, comechè talora ſembrich ' cglino lo mitighino in qualche parte, col rintuzzar la mor dacità de'ſughi secol reprimere la ſtrabocchevol lor fora mentazione. Chi poi ben riguarda alla fabbrica, call'ufi cio delle vene, le quali picciole nelle loro boccucce ſi van tratto tratto allargando, perchè acconce, e valevoli firé dono a ricevere più agevolmenteil ſangue, s'avvede inco tanente quanto dal ver ſi diparta la ſentenza di Diocle,co tanto cómendara, e tenuta in pregio dal vulgo de medici, SI 2 che le che le vene meſeraiche ſi poſſano oppilare. Ma fievolej molto certamente ſi pare l'argomento, onde provar imma gina Diocle eſſer negli ipocondriaci le vene meſeraiches: oppilate, perchè l'alimento al corpo in lor non fi diſtribui ſca: imperocchè dovea Diocle conſiderare, che non diſtria buendofi l'alimento al corpo dell'animale,non guari dité. po egli in vita durar potrebbe, e chemolti,e molti ipocó driaci, anche forti talora, e vigoroſi fin’all'ultima vecchiz ja veggionſi tutto dì pervenire; falſo adunque ſi è ciò chè di loro va filoſofando Diocle; ſenzachè ben chiaro ognun vede la parte più ſottile dell'alimento,qual è quella la qua. P le vene meſeraiche,com'egli ſtima al corpo li diſtribui fce, continuo trapelare, e diſcorrere agl'inteſtini, avvegna chè la parte di luipiù groſſa nello ſtomaco rimanga. Mavi dovea altresì por mente, e inveſtigar Diocle, onde avve gna, che'l cibo nello ſtomaco degli ipocondriaci,indigeſto rimanendo,non n’eſca fuori nel tempo uſato; ma certamé te s'egli innoltrato ſi foſſe nella ſpeculazione delle coſe 112 turali,ne avrebbe di leggieri ritrovata per avventura la ca gione; e tanto più, che pur egli avviſa nello ſtomaco degli ipocondriaci la pontica, e ſtitica acetoſità, la quale non permettendo, che'l cibo ben ſi digeſtilca,increſpa,e ſtrigne la bocca del Piloro, per inodo, che dallo ſtomaco non pof ſano nel tempodovuto calari cibi agl'intcftini. Ma laſcia do di ciò più favellare: non ineno e' ſi ſcorge il modo del filoſofare in conghietturando di Diocle, da ciò,ch'egli dice: appo Plutarca: επι δε τοϊς φαινομένοις δοαται ο πυρετόςεπιγενόμG" nečuvala, noi Prey Movad,sy 6x6õves, cioè: le cose, le quali a noi manifeſtamēte fi fă vedere,additano le nafcofe: poichè ſi vede la febbre,colleferite,colle infiammagioni, e cõ i gavoccioli ac compagnarſi; dal che certamente egli vuol cavare Diocle, che in quelle febbri, nelle quali nulla appare di fuori del le menzionate coſe, ficno entro al corpo elleno, o altro fimile, che colla febbre parimente s'accompagni. E rav viſaſi eziandio la maniera del filoſofare di Diocle allor che appo il medeſimo Plutarco va inveſtigando le cagioni, per le quali i maſchij ſtendi ſono.4.0 disocyóvoustousaideges,na es' Del Sig.Lionardo diCapoa. 325 Θα το μήθ' όλως εύνες σπέρμα πιοΐεσθαι,ή παeg το έλαήoν του δέοντG. και παρά το άγονον είναι το σπέρμα, ή καλα παράλυσιν των μορίον, κατα λοξότη του καυλού μη δυναμένε τον γόνον ευθυβολεϊν,ή περί το ασύμ Mergov tæv porów.alo's Tajvané saory oñs peýrsas. Ma oltraciò ſappia di Diocle aver lui, contro quel, che avca inſegnato Ippo crate negli aforiſmi avviſato, l'itterizia, d'ognitempo,ch' ella ſopravegna alla febbre eſſer giovcvole; al che cgli poi aggiugner volle, che ſopravegnendo all'itterizia la febbre, mortifera coſa quella ſia: arquatum morbum, ſono parole di Celſo, Hippocrates ait, fi poft feptimum diem febricitante agrofupervenit, tutum effe, mollibus tantummodoprecordiis fübftantibus; Diocles ex toto, fi poft febrem oritur,etiam pro defe, fi pofthanc febris, occidere. Ma non meno dell'afo riſmo d'Ippocrate la ſentenza di Diocle falſa cutto di fi ſperimenta. Coltivò egli poigrandemente la notomia, ma come qucl rozzo ſuo ſecolo comportava, poco felicemente nel vero; non però di meno cgli in ciò è da commendare;m2 séza fallo poi a ſommo onore attribuir gli ſi dee, l'eſſer lui ſtato il primo, ch'aveſſe ofrto pubblicar con un libro partia colare al mondo le coſe, ch'egli avviſate avea nel far no tomia degli animali. Ma procedendo più oltre ci ſi fa davanti l'altro famoſo Principe deʼRazionali inedici Pralfagora, cotanto celebras to, c in pregio tenuto da Galieno, il quale diſſe eller lui ſtato in tutte le parti della medicina eccellentiſſimo, e in tendentiſfimo di tutte le più ſottili (peculazioni delle coſe naturali. Ma di queſt'huomo non è per mio avviſo da far giudicio diverſo da quel, che di Diocle noi teltè fas; cemmo; poichè iinitando in ciò Diocle, portò Praffagora, altresì opinione dalle quattro primieramente comuni qui lità appellate dirivar tutte l'operazioni della natura; e con queſta credenza camminando avanti, di neceilità dovette, da uno in altro crror tratto inceſpicare. Oltra ciò viens forte Praſlagora biaſimato da Galieno, perchè egli ſcrivel fe con tanta oſcuritàche ſembrano fc fue ſentenze enigmi da tener mai ſempre in biltento il lettore. Ma con pace. pur ! 326 Ragionamento Quinto pur di Galieno,Io non giudico queſt'errore cotanto propio di Praſſagora, che non ne ſia ſopratutto da cacciar lamedia cina medeſima, per la grandifinna incertezza di quel la; onde imaeſtri più accorti, e malizioſi, per non farſi torre in fallo foglion sì facramente ſcrivere chenon ſi pof fa per niuno ne’lor veri ſentimenti penetrare. Ma impertáto fallò grádeméte Praſſagora,e lervi di pel fimo eſemplo agli altri Razionali medici, che dopo lui furono, e particolarmente a Galieno, in voler con ſue ciar le farne calandrini, ecercare di render poſſibile l'impoſſi bile, cioè certa, l'incertezza della razional medicina. Vien biaſimato anche Prafſagora da Galieno, ch'aven do egli in prima detto, che gli umori non ſi contengano al trimenti dentro l'arterie, cerchi nondimeno egli poi d'in ſegnare, e minutamente additando vada, come per opera del toccamento avviſar, eglinon ſi poſſa quali umori fia-. no quelli, che nell' arterie ſi naſcondono; ma lo immi gino, che in ciò non ſi contraddiceſſe altrimenti Pralſago 11, come dice Galieno, ma ch'aveſse egliportato opinio che allor, che l'huomo è rano non abbia alcro nell'ar terie, che ſangue, ma che infermando egli poi altri umari ancor vi diſcorrano; ne potea egli in verità altrimenti di rc, s'egli pur non era affatto di ſenno fuori. Che ſia vero quanto lo dico,apertamente ſi ſcorge in ciò, che il mede fimo Galieno di lui riferiſce, cioè ch'egli ne men nelle ve ne credea che vi ſieno gli umori. Ma errò certamente, e in iſconcia guiſa Praſsagora, in portando opinione l'arterie cambiarli finalmente in nervi; avvegnadiochè difender s'ingegnino giuſta ogni lor pof ſa si ſtrana, e dal vero apertamente lontana opinioncscome favorevole al lor Ariſtotele, il Cefalpino, il Reuſnero, e'l Marziano; ma di non poco biaſimo degno ſi rende appo molti antichi ſcrittori Praſsagora per lo ſtrano, e crudel modo, col quale egli intende, che s'abbia a medicar l’lleo, volendo egli infra gli altri rimcdi,che all'infermo fi faccia vomitare, e dopo il vomito gli li tragga il ſangue, emol to forte gli ſi premano collc mani, il ventre, e gliinteſtini, cal nes e alla per fine poi col ferro ſi taglino; ond'ebbe a dire ra gionevolmente Celio Aureliano: quo probatur magnificam mortem Praxagoram magis quam curationem voluife fcri bere; ſenzachè vié egli tacciato dal medeſimo Celio, ch'e'li yaleſse anche nel curarlo degli ſconcj rimedi d'Ippocrate: Aliquos etiã poft vomitum phlebotomat,&vento perpodicem replet, ut Hippocrates. Item libris de caufis, atquepaſſio nibus,& curationibus vinum dulce dari jubet, d rurſum Hippocratis ordinem ſequitur congerens omnia peccata. Macon qual eccellenza di dottrina, e con qual artificio pervenir aveffe potuto al principato della razional medici na il celebratiſſimo diſcepolo di Praſſagora, Pliſtonico, chi farà mai che poſſa ſpiegarlo fra le sì ſcarſe memo rie, che di lui ne ſon rimaſe? Io permeſolamente, e ap pena ne lo quanto per Galicno all'avviluppata, eſcarfamé te ſe ne racconta: e gli ſi afcrive ciò a ſomma losa,cioè che raffermaſſe egli quanto in prima diviſato avea Ippocrate de’quattro umori; la qual coſa ſe tale è veramente, qual ſi jarra egli, ne fa apertamente vedere, quíto troppo grofa ſolanaméte foffe căminato Pliſtonico in filoſofando; ina no dimeno pur ſembra, che qualche ſcintilluzza di lume in quelle folte tenebre, e oſcure egliſcorgeſſe allor, chej porta opinione, che le digeriſca il cibo nello ſtomaco putrefacendoſi; il che nel vero fu aſſai ad inveſtigar ma lagevole a lui, che non avea contezza niuna di Chi mica, e veramente il cibo nello ſtomaco non maiſi ſcioglie, e muta natura, fe non vi concorre l'opera d'una pronta, c velociffima filoſofica putrefazione. Scriffe Pliftonico della materia de'medicamenti, macom'egliin ciò li portafle al cri.per meve'ldica. Ma trapaſſando ad altri, Io non potrei dire,ne'l mio det to ritroverebbe agevolmente crcdéza, in qual pregio ſovra tutt'altri Principi della Razional medicina il grand'Erofilo s'avázaſſe.E certamente degli ſtudi della notomia egli mol to ſi conobbe, e gli poſſon ceder ſenza contraſto la maggio ranza non pur Galicno, ficome giudica dirittamente il Vera ma quant'altri notomiſti prima, e dopo lui nella Grc 1 fatio, cii cia tutta fiorirono. E quanto alla dialettica, egli cotanto lungamente divifonnes e tanto minutamente, che il vulgo ſciocco dalle tante fraſche delle quiſtioni, delle diftinzio ni,e diffinizioni, e argomentioffuſcato,comeſe da ſovrano nume ftate fofſer dettate, le dottrine di lui celebraya oltre modo, e riveriya. Ma il tanto ſtudio della dialettica do vert'eſſere alla ſetta d'Erofilo dinon picciol damnaggio; e quinci forſe avvenne, che molti, o sfidando d'intender pienamente le tante ſottigliezze di lui, e altri a niun pre gio, comevani, e inutili arzigogoli avendole, ad altre ſcuole ſi rivolgeſſero. Ma impertanto la ſua dottrina ritro vò inolti, e gravi ſeguaci, e fù aflai commendara; anzi narra Strabone,che infin nella Frigia v'era a'ſuoi tempi una famola ſcuola della dottrina d'Erofilo. Or Io, quantunque a voler dire il vero eſtimi, che gran pro alla notomia abbia apportato Erofilo, nondimeno fembramifarfallon da Ro. manzo quel del Falloppio: Contradicere Herophilo in Ana tomicis,eſt contradicere Evangelio.Ma ebbe Erofilo per co ſtume di paleſar séza riguardo niuno ciò che a fui veraméte parea delle coſese cotraddiſſe quando egli ſtimava, che ine ſtier ve ne foffe, a tutti gli antichi, non la perdonando ne meno al ſuo divin Maeſtro Praſagora. Fuegli molto prati co nella materia demedicamenti,e fcrille parecchi volumi del modo, come ſe nc debbano imedici valere; il che fu gli agevole affai, avendo egli logorato tutti i giorni della ſua vita in far prove, e fperienze;per le quali non ſi può ne gare, ch'e'non merti grandiſſima loda; comechè non cſen do a noi pervenute, niuna utilità del mondo abbian potu to recarci. Ebbe vétura Erofilo d'abbatterſi nelle vene fartee;ma egli traſcurato, sì bella opportunità laſciofſi uſcir delle mani, non dandoſi cura d'ilveſtigarne il lor proceſſo, e l'uſo; ma di cotal negligenza è fomigliantemente da accagionar Ga lieno, e tutti quegli altri notomiſti, chedopolui anche ſe ne rimarono. Non molto diffimile dal fallo d'Erofilo fi fu quello del noſtro Bartolomeo di Euſtachio, il quale avendo sitrovato il canal pettorale, non ſi diè briga d'altro, e la 1 fcion fcionne il penſiero al Pecchetti, a cui meritevolmente la gloria tutta di così gran fatto ſi dee. Ma ritornando ad Erofilo: non fu egli nel vero molto fe lice in ritrovar coſe grandi, e maraviglioſe, o molto com mendevoli in ſagaceNotomilta; avvegnachè tutto dì ta gliar ſoleſſe non ſolamente i cadaveri, ma eziandio vivi gli huomini. Scelleratezza tanto crudele, tanto infame, e vi tuperevole, e degna d'eterno biaſimo,che val ſolo ad oſcu rar ogni ſuo pregio, e a far conoſcere al niondo ad un'ora, quanto la fierezza de'medici, il diritto delle naturali, del le divine, e delle umane leggitraſandando, oltre palli law crudeltà d'ogni più fiero tiranno; perchè a gran ragione certamente ebbe a gridare il gran Padre Tertulliano: He rophilus ille medicus, aut lanius, quifeptingentos exſecuit, ut naturam ſcrutaretur, qui homines odit, ut noſlet. Man prima di lui Cornelio Cello, dopo aver detto,ch'Erofilo, ed Eraſiſtrato aveano alle lor notomie vivi gli huominide ſtinati, cosi ách'egli un cosìabbominevol misfatto deteſta: crudele vivorum hominum alvum, atque præcordia incidi, & falutishumanæ præfidem artem, nonfolumpeftem alicui, fed hanc etiam atrociffimam inferre. Sopra tutto s'affaticò Erofilo nella materia de polſi, la quale,valendoſi egli della muſica, cercò d'illuſtrare, e di ti durre a perfezione, per modo, che nulla vi ſi aveſſe di vātag gio a diſiderare; ma tanto, e tanto egli vi ebbe a ſofiſtica re, che meritevolmente forſe perGalieno,e per altri ne venne più d'una volta ripreſo, e proverbiato;mad'altra parte per altriſommamente commendato, come ſi può ve. dere in Plinio. Arteriarü pulfus in cacumine maxime merebro rū evidens in modulos certos,legeſq; metricas, per atates, fta bilis, aut citatus, aut tardus defcriptus ab Herophilo medici na vate miranda arte. E queſto accrebbe in modo la ſua fama, e buon nome, che nulla più; promettendoſi cgli, e dando altrui ad intendere, che col mezo de'polli, com' ab biamo con Galieno accennato, poſſanſi avviſare ancor les coſc impoſſibili a conoſcere; come ne’barbari ſecoli comu liemere li vider poſcia farei medici coll'orinc, colle quali fa Tt cean veduta diconoscere pienamente lo ſtato de'malati, e de’lani; di che ancor qualche veſtigio tuttavia nella noſtra Italia, e altrove ne rimane. Mache / a'tempi noſtri in va rie.guiſe noipur veggiamo da qualche medico ſcaltrito porre in uſo si fatte frodi, e riportarne ſempremai premj, e laudi non ordinarie. Ne è da maravigliare; perciocchè il mondo gode in tal guila d'effer ſemprcmai uccellato; il che apertamente ſi fa vedere dalla grande ſtima, chevien fatta della Srologia, e della Gabbala, e d'altre arti vane, e ſu perſtizioſe; e tanto prevalſe, e montò in pregio con fomi glianti artificila gloria d'Erofilo, che di baſſo, e rintuzza to intendimento', e come della ſua dottrina incapaci venis van giudicati coloro, che ſi dipartivano dalla ſua ſcuola; perchè diſſe Plinio di lui favellando: nimiam propter ſubti bitatem defertus: e della ſua ſetta facendo parole: deſerta hac Secta eft, quoniam neceffe erat in ea literas ſcire. S'af faticò parimente Erofilo, come Galien riferiſce, in inve itigar la natura dell'erbe; e dir ſolea, non haver così gra ve, e pericoloſa malattia,che non ſi poteſſe coll’erbe curare; ma non però di meno il valor di molte di quellenou effer conoſciuto, e alcune di loro gran virtù avere ', le qua li tutto dìda noi fi calpeſtano: inde plerofque, fono parole. di Plinio, ita video exiſtimare, nihil non herbarum vi effici poffe, fed plurimarum vires effeincognitas, quorum innume 70 fuitHerophilus claras medicina, à quoferunt dictü quaf dam fortaſſis,etiam calcatas prodeffe. Solea far altresi grá diffima ſtima Erofilo dell'Elleboro; il quale, come altrove vien ſcritto dal medeſimo Plinio, veniva pareggiato da lui ad un fortiſſimo Capitano; perchèturbate egli avendo en tro il corpo tutte le coſe,foffe poi il primoa uſcirne: elleború fortiſſimi Ducis fimilitudini aquabat; concitatis enim intus omnibus,ipfum in primis exire.Mada ciò apertamente ſcor geſi, che poca, o niuna contezza aveſſe Erofilo di quelle nobiliſſime medicine, le quali ſenza recar moleftia, e dan no niuno ſon valevoli a domar le più gravoſe, e feroci ma lattie: e ch'egli altresì ignoraſſe ilmodo, per lo quale la fciandogli intera la parte giovevolemedicinale,ſi toglie all '. Elleboro la velenofa; ſenzachè non è miga vero ciò ch'e. gli trancaméteafferma, che l'Elleboro fia il primo ad uſci re; imperocchè talora non li diparte dallo ſtomaco, e dall altre viſcere allo ſtomaco proſſimane,ſe nõfe ha fatto vuo far egli all'infermo in prima quanto di cattivo, e di buono nel ſuo corpo ſi ritrovava. Non è ſtato adűque in medicina il valor d'Erofilo così grande, quale il ci narra millantan do la fama, Ma doveva Io certamente aſſai prima far parole di Me necrate da Siracuſa; il quale col fuo ſtrano modo di filoſo fare, e di medicare rinnovar volle l'antico uſo di Apollo, e d'Eſculapio, facendoſi venerar come un Dio. Ma a bello ſtudio venne da me tralaſciato, per non haver Io potuto p quanto lo mi vi fia affaticato, niuna contezza aver mai dėl ſuo liſtema; ritrovo ſolamente di lui, ch'egli ſcriſſe, per quel,che ne narri Galieno, un libro de'medicamenti, de quali egli molti da ſe ſteſſo trovò, Fu egli Meneçrate così ſuperbo, ambizioſo, e vano, che non volle egli giammai denajo, o altro premio dagſinfer mi di mal caduco, che guarivano per le ſue mani; folo ri. chicdea, che eglino ſuoi ſervi fi doveſſero confeſſare, e che col nome di Giove l'aveſſero a chiamare, e come Gio ve il doveſſero onorarc.Solea egli ſpeſſo in mezzo a coloro, traveſtiti, chi da Ercole, chi da Apollo, chi da Eſcula pio, chi da altro Dio minore, a guiſa di Giove con coro na d'oro in teſta, colla veſte di porpora, e collo ſcettro in mano farſi in pubblico vedere, 1.a qual si ſciocca traco tanza imitar volle Ottaviano Ceſare, quando, come rac conra Suetonio, con gli abiti d'Apollo fra huomini, e fra donne rappreſentanti Dij, e Dec, e'feder yolle in un ſono tuofo convito; Cum primum iftorum conduxit menfa choragum, $exque Deus vidit Mallia, exque deas; Impia dum Phabi Cafar mendacialudit, Dum nova divorum cænat adultera: Omnia fe à terris, tunc Numina declinarunt, Fugit auratos luppiter ipfe thronos, Tt 2 1 Mapiacevole egli è a udire ciò che avvennea Menecran te con Filippo Rè diMacedonia, comechè Plutarco dicas con Ageſilao Rè di Sparta; ſcriſſe a Filippo egli in sì fatta guifa Φιλίπσω Μενεκράτης ο Ζεύς εν πτά θαν: maFilippo trattado lo da pazzo, qual egli veraméte era, così gli riſpoſe: dínia πος Μενεκμάτα υγιαίνειν συμβελεύω σοι ποσάγαν σεαυτόν επί τοϊςκα στο Ανήκυραν τόποις · ηνίδετο δε άeg δια τούτωνόππαραφρονώο ανήρ. Vna volta anche il medeſimoRè invitò Menecrate a deſinar ſeco,egli fe porre un deſco da parte, facédoglidar cótinua méte incenſo, in tépo,che gli altri convitati in altra tavolas allegramente ciurmavanſi, e facevan gozzoviglia. Mene crate nel principio fommamente godeva dell'onore fattogli dal Rè, come å un Dio; ma poichè gli ſopravenne la fame, e gli fè vedere, ch'egli era huono, comegli altri, fi parcì dolendofi, e lagnandofi fortemente della beffa fattagli dal Rè. Mi ſi fan davanti ora Neſiteo, Filotimo, Eudemo, e M2 rino, i quali comechè ſommamente cominendati, e in pre gio avuti foſſero da Galieno, è da dir nondimeno, che no troppo bene filoſofaſſero cglino in medicina, c che molto poco altresì valeſſero in notomia; ficome da qualche lor ſentimento rapportato dalmedeſimo Galicno, apertamen tc per ognun ravviſar ſi puotc. Maintra le ſette più chiare, e più famoſe, che nell'air tiche ſcuole già s'inſegnavano della razional medicina (ſe cgli s'ha riguardo alcorſo non mai interrotto Per volger d'anni, oper girar di luftri) che nelle Città, e nelle Provincie più nobili s ove la greca fapienza era in pregio, glorioſamente fiorirono: o le pur fi mira all'onore, alla fama, e al numero ragguardevole de lor maeſtri, niuna certamente, s'Io pur non vado errato egliſembra, che agguagliar fi poffa, non che antiporre a quella, che da Crilippo in prima ritrovata, indi per opera di Medio, e d'Ariſtogene celebri tra' ſuoi ſcolari,maſopra tutto per Eraſiſtrato ſommamente accreſciuta ne vennc, e ftabilit2. Quinci ſi può agevolmente conghietturare ché te, e quale egli ſtato ſi foſſe il fapcre, l'avvedimento, law ſperienza, e l'induſtria d'Erafiltrato, che di Criſippo,d'A riſtogene, e di Medio nulla v’abbiam che dire; ma ciò più aſſai in verità argomentarlece da quelle pochiſſiine coſes comechè tronche, e ſmozzicate, Che fan col duro tempo afpro conflitto, che di lui nell'altrui opere, e più che in altre, in quelle de ſuoi einuli tuttavia ſi leggono; nelle quali pariinente egli moſtrò quanto, e quanto oltre condotto fi foffe per le più dure, c ſpinoſe malagevolezze dell'arte; intanto che ad acquiſtar meritamente e' ne venne la Signoria curta della medicina; e non ſenza ragione certamente venncgià da al cuni valent'huominicreduto, ch'egli laſciato di gran lun ga s'aveſse addietro nonch’altri, Apollo, Eſculapio,e Peo ne medeſimo. Così egli da Appiano Aleſsandrino,venne appellato meetóvuje @u,c Galieno parimé: e con orreuoli, e riverēti maniere trattandolo, 11011 iſdegnò di ragguagliarlo ad Ippocrate; chiamando egli l'uno, e l'altro: iv dožoTátis iørção. E avvegnadiochè pure alcuna fiara moſſo, o dal zelo della verità, o dall'invidia, o dall'emulazione, o daw troppo altieris e ſuperbi portamenti de'parreggiatiei ſegua ci di lui, ſconciamenre egli lo biaſimise prendaa gabbole ſue opinioni; nientedimeno in tanto pregio, e in sì gran, yenerazione ebbe Galieno la dottrina d'Eraliftraro, ches prender volle fatica di commentarmolte delle ſue opere: e di lui favella più d'una fiara con molto riguardo, e onor di parole; e mi ricorda, ch'una volta infra l'altre togliendo egli ad impugnar una ſua opinione, ſcuſando quali il ſuo troppo ardimento con eſo luicosì ne favella: Si compiac cia di grazia Eraſiſtrato, che in quella guiſa appunto,e col la medeſimalibertà lo tratri lui, e le ſue quam le egli trattar mai ſempre ebbe in coſtume Ippocrate, ela doctrina di quello. Ne fi dee anche aſcrivere a poca lodo d'Eraſiſtraco, ch'egli, comenarra Galieno, ſi foſſe ſtato il primo autore, e introduttore della vera arte ginnaſtica, e che per opera del ſuo ſenno, e della ſuamano in piede ſi ri metteſſe; anzi ſi ritornaſſe in vita la notomia, la quale per infingardia degli antichi medici già affacco caduta, e ſpen ta fe ne giacea. Ma 1 opere, colla ! Ma qual maniera egli tenelle Eraliitrato nell'inveſtigare le cagioni in ſeno della natura appiattate, e naſcoſe, e quai foſſero i ſuoi ſentimentiintorno a ' principi delle coſe ſenfi bili, malagevole molto egli è ad avviſare; impertanto ſi ſcorge apertiſſimamente, ch’Eraſiſtraço era affai libero nel filoſofare, e oltremodo ſchiyo, anzi nimico di far pompa appo il vulgo di mentito, e apparente ſapere; onde mai non ſi vide ricovrar egli alla franchigia tanto da’ſofiſti uſi ta, e praticata, delle facoltà, e d'altre fimili vanillime novelle, e ciance, le quali non altro in verità, che Nomije fenza ſoggetto Įdolifono, nelle malagevoli, e inviluppate tenzoni della filoſofia, e della medicina; nella qualcoſa,comechè ne doveſſe Era fiftrato con ogni ragione, s'Io pur diritto eſtimo, ſomma lode ritrarre, malignamente troppo in verità, e a gran for to funne ripreſo, e vituperato da Galieno; il quale oltre a ciò ardiſce anchetemerariamente a vituperarlo, e a biafi marlo, perchè ſempremai moſtrato ſi foſſe ſul filoſofeggia re, duro, e implacabile avverſario dell'opinioni d'Ariſtote le, nulla curando, che ſuo avolo ſtato e' fi foſse; col qua le, e coʻPeripatetici in una ſola coſa convenne, ciò fu nell' affermar coſtantemente, che per la natura niéte a caſo mai vegna fatto, e poſto in opera.. Ma non rammentò Galieno, che Ariſtotele, ed Erafi Atrato convengono bene inſieme anche nel dire, che le re ni, e la milza non fervano a coſa niuna; ma della milza. prima di tutti ſcriſſe colui ad Ippocrațe, parlando della na tura dell'huomo, παλίων απέναντι £'δα, πάγμα μηδέν αιτίμο». Furicevuta una tal opinione da Rufo da Efeſo, il quale dif ſe,che la milza foſse anánt, ni avevéeyn,mano già da’ſco Jari d'Eraſiſtrato, come que’, che diſsero, che la milza preparaſse al fegato il ſugo da generare buon ſangue, tör το σπλάγχνον περπαρασκευάζειν το ήπατπ τ έκ ή σιτίων χυμόν ής α' Mateu xensă girsar, Ma benchè Erafiltrato sì grande, e sì valent'huomo ſi foſſe, e che tanto dalla natura foſſe favo. reggiato, e di rari doni, ç maraviglioſi arricchito, c per ső mo sforzo di ſtudio molto avanti fontille nelle coſe dellam! natura, e che colla altezza del fuo anino ſtudiato fi folle di aggiugnere anche talora fin la dove forſe non potè per addietro pervenire altro intendimento mortale: e coll'e ftremo diſua poſſa di formareſi foſſe argomentato il fiſte ma della ſua razional medicina ſommamente perfecto, e compiuto; nientedimeno più d'una fiata dal diritto ſentier della verità inolto, e molto lungi ſi trova; e ſi leggon di lui alcune ſtrane, e ſconce opinioni, comeche in alcune a cor to accagionato talora e' ne vegna da Galieno', e in alcun con aſſai fievoli, evane ragioni riprovato; il che ravviſa no talvolta, e ſono coſtretti a confeſſare i medeſimiGalie niſti ancora Ma nientedimeno a grandiſſima ragion certamente vien da Galieno aſpramente ripigliato Erafiftrato per aver dct to egli, che nell'arcerie nello ſtato naturale dell'huomo no v'abbia ſangue, ma ſolo ſpirito vitale, ſecondo lui:e fpiri to' animale ſecondo Criſippo ſuo maeſtro; coſa', della qua le, così evidentemente ne appare il contrario, che forte mimaraviglio, comeGalieno quantunque abbondevole d'ozio, e di ciance aveſse potuto darſi briga di compilare un libro intero per impugnarlo. Ma, o Quanto è'l poter d'una preſcritta ufaniza ! equanto dileggieri un’huompaſſionato in gravi falli quaſi inavveduramente traſcorre. I ſeguaci d'Eraſiſtrato per niu na ragionedel mondo, neper evidenza de'ſenſi, che loro apertamente additaffe il contrario, abbandonar mainon vollero i ſentimenti del lormaeſtro"; il quale non altrime ti, che ſe Dio ſtato foſse', ſe preſtar lece in ciò fede a Ga lieno ſolevan eglino ammirare', e venerare; avendo per vero, e ſaldo, e indubitato ogni ſuo qualunque detto. Ma ritornando a noſtra materia; egli è da creder, che dall'o pinion, che reſtè abbiā noi rapportata, prendeſse cagione d'inſegnar poi Eraſiſtrato, altro non eſser la febbre, che un movimento inuſitato del ſangue, che dalle vene, dove naturalmente riſiede, all'arterie tragittiſi: e cheſicome al lor, che non ſoffiano i venti, pofa abbonacciato, E nelſuo letto il marfenz'onda giace; ma ſoffiando poi fortemente Oſtro o, Aquilone enfia, ed eſce fuori impetuoſo, e rapido dall'uſate ſue ſpon de, e inonda, ed allaga le piagge tuttc, c le campagne vici ne; così anche, fe non v'ha coſa, che l'agiti, o'lcommuo va, dimori placido il ſangue nelle vene:maſe per ſoverchia abbondanza gonfio, o per altra cagione ſoſpinto, e agita to mai venga, sboccando ſubito dalle vene, ratto all'arte rie diſcorra, e ſe quindi dallo ſpirito, che in eſso dimora ſia altrove riſpinto, vada a fermarſi, e ſtagni in quelle cic che ſtrade, dove terminano l'arterie; e quivi riſtrignen doſi, crappigliandoſi, formerà l'infiainmagione; e la feb. bre; ecco le ſue parole rapportate da Plutarco:Nuperds isi zí. νημα αίματG- παρεπιπλωκός ας του τα πνεύματG- αγγείο απιοαιρέτως γινόμενον • καθάπερ γαρ επί της θαλάττης, αν μηδέν αυτήν κινη ήρες μί, ανέμε δε έμπνέοντG- βιαία παρά φύσιν, τότε εξ όλης κυκλεται. ούτω και εν τω σώματι, όταν κινηθήτο αίμα και τότε εμπίπτει μες στο αγγα των πνευμάτων, πυρέμενον δε θερμαίνει το όλον σώμα. Αrtifciofotis trovato nel vero, ma che appoggiato in aſsai poco falde fó damenta non può far, cheda ſe ſteſso non crolli, e rovini. Manon laſcerò già lo quì di narrare ciò che immagina. alcuno, ch'altri ſi foſsero intorno a ciò iyeri ſentimenti d ' Eraſiſtrato, e chemal'inteſi, e peggio ſpiegati a noiſien pervenuti; e tanto più, che come Galienoavviſa,Eraſiſtra to a ſtudio oſcuro alle volte Con giri diparole obblique incerte recar ſuole le ſue opinioni; e che perlo ſpirito egli abbia? intender voluto un ſangue ſottiliſſiino,e di quelle particel le, onde ſi forman l'etere, e l'aere per la più parte ripicno. Macheche ſia di queſto, certamente ſi deecgli credere, ch? a niuna guiſa mai avrebbe Erafiltrato dato fuori così inve riſimili, e vane fanfaluche, ſea lui foſse pervenuta qualche menoma contezza del vero movimento del ſangue; e pure egli vi fu molto da preſso: imperocchè ravviso, e conob be, che dalle vene all'arterie, comechè vi lien le ſtrade, na turalmente non ſi tragitti il ſangue; il che diede poſcia ca gione a Galieno d'affermare, che l'arterie traggano il ſan gue dalle vene. Qui riſtette, ne paſsò più avanti Eraſiſtra to, comechè la ſua gran virtù molto bene il valeſſe, merce che non già alla Grecia, ina alla noſtra Italia era la glo ria riſerbata dello ſcoprire l'aggiramento del ſangue. Oltre a ciò ſi pare,che ſommaméte lodar ſi debba Eraliftra 10, perchè al ſuo grande avvedimento, e induſtria aſcon der no li potè il ſugo nutritivo ma: pur fallò egli in immagi nando, che quel ſolamente ſerviſſe a nutricare i nervi, ſe è vero ciò che ne narra Galieno. Conobbe ancora Erafiftrato le vene lattee; niétedimeno rinvenir non ne ſeppe l'uſo; s'accorſe egli anche, ed è egli non picciolo ſuo vanto, che'l reſpirare non diedes già a noi natura, comeimmaginò con Ippocrate, Diocle, e Ariſtotele, Perchè'l caldo delcor temprato fia. Ma non potè penetrar egli nientedimenoil vero,'e propio uſo della reſpirazione: e perchè alcuni animali fieno ſtati formati sì, che debbano reſpirare; imperocchè contendes Erafiltraco, che la reſpirazione ad altro non vaglia, fe non fe a poterempier d'aere Parterie; coſa, che da per fe appar dal vero così apertamente lontana,cheimutilmente colle fue ciance Galieno impréde a dimoſtrarla alțresì tale.Mafe Eraſiſtrato aveſſe avviſato, che il sague,tutto che no appaja di coſe diffimiglievoli eſſer cópofto, pur contenga molte, e molte parti dinatura diverſisſime avrebbe potuto agevol mente ſpiegare, qual ſia la neceſſità dell'aere, e della refpi razione neglianimali; imperocchè avviene, che nel ſepa rarli dalſangue la parte più ſottile, e per così dire, ſpirito ſa, ſi faccia anche neceſſariamente ſeparazione di varie al tre parti groſſe;come nella formentazione del moſto, e d'al tre liquide foſtanze chiaranxente ravviſaſi; queſte groffe porzioni, forza è, che s'abbattano, ſeparate cheelleno ſo no, o nell'acre, o in altro corpo ſimile, il quale contenga pori acconci a riceverle, e che ricevutele, ſia valevole a tragittarle fuori de'vafi:a quella guiſa appunto, che al ráno s'appaltano le lordure, le quali imbrattano il panno, e che col ráno ſe ne van via; e ſe perdiſgrazia dell'animale qual che tratto di tempo, quancunque aſſai menomo, non fao V u ceſſe nel ſangue una cal purificazione, intoppando agevol mente negli anguſti vaſi dieſſo colle craffe porzioni ſepa rate i ſottiliſſimi formentāti corpicciuoli,ſarebbono queſti incontanente coſtretti ad abbandonare il movimento loro dılacante; e ſeoltre a'formentanti corpicciuoli aurà nel são gue abbondanza di ſoſtanze d'altro genere, ma altresì vo lanti, tra le quali viliano in copia grande i ſemi del fuoco, così queſti, come quelle non incontreranno molta diffi coltà a liberarſi da' ritegni; e ſe vi ſi aggiugnerà qualche altra circonſtanza, onde, e l'uno, e l'altro movimento, e di formentazione, e dicalore rieſca grande, e notabilmée te impetuoſo, allora cgli grande oltremodo converrà ch ' avvegna la ſeparazione: per lo che non baſtando. dilatare, il ſangue dalle groſſe, c importune porzioni quell'aere,che inceſſantemente negli animali per li pori trapela, abbiſo gna, che altra aria mediante la reſpirazione fi beva; e di quì ravviſato ſenza fallo avrebbe Eraſiſtrato, che parecchi animali no poſſano vivere colla ſola traſpirazione, maloro faccia huopo pariméte della reſpirazione; e ſe'l moviméto formentante non ſarà molto grande, ne verrà da notabile, calore accompagnato, allor l'animale avrà di pochiſſimo aere biſogno, e baſteragliquello, che, o colla ſola traſpi sazione, o con qualche forte ancora di imperfetta reſpira zione ſuccerà;e p cal cagione poſſono détro alle acque vie vere i peſci; imperocchè nell'acque, benchè aere non vi ſia almeno che ſenſibile appaja, vi ſono impertanto parecchi, e parecchj aliti, i quali cosìdalla terra, come altronde gli vengono ad ogn'ora ſomminiſtrati; e trapelando queſtinel corpo de'peſci, adempiono il medeſimo uficio dell'aere col riportarvi quelle ſoſtanze, che, o nel fangue, o ne'liquori al ſangue equivalenti impedir potrebbono la formentazio ne, col mettergli giù nell'acqua, acciocchè l'acqua ſe n’ abbia a ſcaricare, comunicandola all'aere più vicino; il che ſe mai lor viene impedito, rimangono i peſci poco ftanto privi di vita. Nell'uovo poi, e nell'utero eſſendo i mo vimenti dell'animale non molto grandi, e maſſimamente fra queſti il formentante, ed eſſendo anche oltremodo mol lise li; e pieghevoli, e poroſi i ſuoi vali, può baſtar ſolamente quell'aere,che per li pori vi trapela; e ſe mai dal freddo, o da altra cagione vegan chiuſi i pori,nõ entrādovi più l'aria, ceſſa nell'uovo, e nell'utero la formentazione del ſangue, e ſe ne muore l'animale; ſenzachè non è di picciolo mo mento a mantener il debile moto formentativo nell'anima le racchiuſonell’vuovo,ilpicciolo,e rimeſso eſteriore caldo, che o dalla chioccia,o dalla fornace, o dal fime gli vié comum nicato; e come tutto dì veggiamo,nc'vaſi ermeticaméte fi gillati, il calore del bagno,o del fime è valevole a far sì, che non ſi attuti, anzi duri, e fi accreſca nc'liquori la formen tazione. Aggiugneſi, che mal ſi può render volante quel la nobiliſſima ſoſtanza, la quale continuamente a vivificar le parti dell'animale dal ſangue lor ſi communica,ſenza l'ac re, in cui mai ſempre troyanſi quc'volanti corpicciuoli, che ajutano la formentazione. Ma laſciando queſto ſtare al preſente, forſe noi cammi namo dietro la guida d'un cieco; e altra peravventura ſa rà la vera opinione d'Eraſiſtrato, la quale a dir il vero vien portata in sì fatta maniera da Galieno, che ſembra ch'egli, o non l'aveſſe inteſa, o non l'aveſſe voluta intendere, come fa anch'egli nel rapportare quellaltre opinioni d'Eraſiſtra to intorno alla cagione,per la quale ſe ne muojan gli ani mali nelle mofete. Vuole Eraſiſtrato, per quel che ne nar ri Galieno, che ſe ne muojan gli animali nelle mofete, e nelle ſtanze chiuſe, einfette o dagli alitidella calce, o dal fummo de carboni, per ritrovarli in sì fatti luoghi l'aere ad un tal grado ſommo di tenuità ridotto, chene fi riceva dall'arterie, ne ricevuto per eſſe ſi poſſa ritenere; ma con grandiflima facilità fe n'eſca fuori; laonde per mancamen to di ſpirito egli ſe ne muoja neceſſariamente l'animales. Prende a gabbo una tal ſentenza Galieno, e dice, che do vea dire più toſto Eraſiſtrato,che ficome nel pane, ne’logu mi, e in altre ſomiglianti vivande fi ritrova una qualità as noi contraria, così ancora una sì fatta diſpoſizione d'ae re ſia bcnigna, e amica agli ſpiriti, e un'altra maligna, es nimica. Vu 2 M2  1 !. Ma nondimeno conobbe chiaramente Galieno la vani rà del ſuo ragionamento; onde vien coſtretto a confeſſare d'eſſergli di ciò naſcoſa la vera cagione; come ſi può vedere nel libro dell'utilità della reſpirazione; ma che che ſia di Galieno, lo ammiro grandemente l'acutezza dell'ingegno d'Eraſiſtrato, e'l ſuo modo non guari lontano dal vero filo fofare intorno a tal faccenda;e forſe la fua opinione ſe ſi va fottilmente vagliando non ſi ritroverà tale, quale la s'im magina, o la fi dipigne Galieno; il quale a dir il vero ſem brami troppo groſſo in ciòse materiale,anzi che no, facen dofi egliacredere, che Eraſiſtrato da lui medeſimo in sigra pregio avuto aveſſe ſognar mai potuto che Paer pregno del fummo de carbonizfia del puro aere piu tenue, e più ſottile. Ma lo per me porto fermiſlina opinione,chc Eraſiſtrato aveſſe fatto differéza tra fúmo e acre, come da ognun falfi fra l'aere, e l'acqua;e che non altro per tenue aveſſe egliin tendervoluto, che picciolo, o poco: imperocchè la p.2 rola asfilos, della quale e' li valſe, ſecondochè dice Galie no ſteſſo, non ſolamente ſuol eſfer preſa da'Greci antichi a fignificare quel che noi Italiani diciamo foteile, e che da' Jatini ſi dice tenuis;ma ancora per dinotare,come ſi può ve derein Ariſtotele, e in qualch'altro autore di que' tempi, quel, che i latini chiamano, cxiguus, e noi picciolo, o po co diciamo. Or chidomine non fa, che la dove è aſſai de ſo il fummosivi ſi ritrovi in meno quãtità l'aere? Conferma fi ciò che lo dico dalle ſteſſe ragioni d'Eraliſtratos per Ga lieno recate; imperocchè ſe l'aere delle mofetc, e di sì fat si luoghi egli foffe tal veramente, qual Galien dice ch’af fermiErafiltrato, ch'egli ſia, cioè troppo ſottile:con gran di ſlīmaagevolezza ſenza fallo penetrar egli potrebbe alles art erie; concioſliecoſachè le ſoltanze diſcorrenti tutte, qu anto più ſottili ſono, tanto più convenga, che compo he, e formate licno di minutiffime penetrevoli particelle; lao nde ſcimunito affatto ſarebbe Eraſiſtrato in dicédo,che per eſſer l'aere delle mofete troppo ſottile, tragittar egli no lip offa volentieri alle arterie; ma entrarvi poi allo incontro malagevolmente vi potrà l'aere qualora eſſendo egli pochiſfimo venga con copia grande di denfe, e groſſe fo ſtanze accompagnato. Ma non ſi ſarebbe vanamente nel vero aggirato infra tante ciuffole, e anfanie Erafiltrato, ro con diligenza degna d'un sì grande filoſofante aveſſe poſta ben mente alla natura delle mofete; perchè agevolmente aurebbe per avventura rinvenuta la vera cagione, per liza quale in quellamuojono glianimalisin iſcorgédo la mofe ta eſſer una diſcorréte ſoftāza più groſſa, e grieve affai dell? aria; e comechè nõ umida, in altro poi non guari dall'acqux disſomigliāte;e gli aliti della mofeta unirſi nella guiſa me deſima appunto,che veggiam infieme unirki i zampillidel le acque, e mátenerf nelle cocavità nõ meno ſtrettamente uniti infieme, e congiunti, che que' dell'acqua nelle fon tane fi facciano; e non altrimenti che l'acqua incontrando declivo il terreno, correr alla in giù la mofeta. Errò pari mente Eraſı trato la dove c'credette eller la carne non al. tro, ch'un accozzaméto di ſangue rappigliatose raſſodato, da che la carne è veramente un compoſto di picciole, c mi nute fibre; e di fibre parimenté vengon formate le piccio liffime glandolette, che ſparſe perentro, e ſeminate vifo no; c quantunque la carne del fegato, e della milza paja, nella prima viſta una mafſa di ſangue, pur nondimeno tal non ritroveralla chiunque mettédola in acqua a macerare, faccia, che ſe ne ſepari quel ſangue, che vi ftà meſcolato; che allora manifeſtamente delle già dettc fibre tutta appa rirà ella refuta. Ma paſſando ad altro, che in Erafiſtrato lo ho ritro vato; egli mi ſembra, che ſi foſſe in qualche ſembian za di verità incontrato in diviſando delle febbri, in quella guiſa, che s'è da noiaccennata; non conſiſtendo verame te in altro la natura della febbre, ſe non ſe in un tal certo movimento non ordinario, e non naturale del ſangue; ma non prende egli a ſpiegar mai poſcia, anzine men cura, per quelche fappiamo per bocca di Galieno, d'andar inveſti gando, come a razionalmedico fa meſtieri, le cagioni,on de ciò poſſa avvenire; il che avrebbe potuto fareegli age volmenteper avventura,ſe li foſſe innoltrato maggiormen te nella filoſofia; ne gli mancò, al mio credere, ingegno, ne animo ad una tanc'impreſa acconcio; ma gli vennero meno gli ſtrumenti, i quali la ſola Chimica da lui nonco noſciuta ſomminiſtrar gli potea Ma che cheſia di questo, non potè celarſi all'acutezza del ſuo intendimento, che la digeſtion del cibo non ſi fà al trimenti dal calore; ma inveſtigar nondimeno, e rinvenis non ſeppe egli mai que' ſottiliſſimi vapori nel ſangue, onde il cibo ſidivide, e li rompe in minutiſſime parti nello ſto maco; e comeche conoſceſſe ben egli ancora il ſangue non eſſer da ſecaldo, non potè egli nondimeno però penetrar mai, onde, e come il ſangue caldo diveniffe, e fi conſer vaſſe negli animali. Maper far qualche parola dietro all' eſercizio del ſuo meſtiere: egli maneggiò l'arte Eraſiſtrato così magnificamente, che niun'altro tanto mai più,ne pri ma, ne poi, per quello, che noi ſappiamo sì ragguardevol mente la ritenne. Ma egli non ha però dubbio niuno,che col profondo ſapere, colla gran fua diligenza, e induſtria gli s'accompagnaſſe proſperevole anche la fortuna: la qua le al maggior huopo nonmancò di favoreggiarlo, avendo egli dalla vicina morte ſottratto, e penetratane la cagione a tutti naſcoſa della graviſſima malatcia del regal giovanet to Antioco figliuolodi Seleuco,il quale in ſua lode così fa, vella appo il noſtro loyrano lirico E ſe non foſe la diſcreta aita Del fiſico gentil, che ben s'accorſe, L'età fua ſul fiorire era finita, Or chi è per Dio, che apertamente non conoſca aver avu to in ciò grandiſſima parte la fortuna. E non potea egli agevolmente ingannarviſi Eraſiſtrato, e in vece dell'oro, delle dignità ſupreme, degli onori, e della gloria immor tale, ch'e'guadagnonne, obbrobrio, e vituperio eterno riportarne? Ma in ciò imitar lo volle anzi emularlo Galie no, le pur è vero il ſuo magnifico racconto allorche e' ſco verſe quella Romana femmina eſſer preſa forte dell'amor di Pilade ballerino; c comechè egli vanti aver in ciò ſupe lato rato il medeſimo Erafiftrato, ſe pur tale appunto andò law biſogna, qual egli la narra, non però di meno per eſſere fata colei viliſſimadonnicciuola, non ne riportò Galieno, ſe non quella gloria, ch'egli a ſe medeſimo attribuiſce, in iſcrivendo a Poſtumo talconvenente. Ma per toccar qualche coſa intorno alla maniera del medicare tenuta da Erafiltrato,fi pare,ch'egli nonmolto ſi Je i Salopsi ſoddisfece, ne troppo ſi valſe delle purgagioni: delle quali affatto ſi tenne egli nelle febbri; e dar ſolamente le ſolea in altre malattie, che'lrichiedeario; ſi portava egli sì fattamente con gli infermi,che ſenza lor molta moleſtia, e riſchio alcuno recare, e ſenza porgerne loro cagione, fol con iſtrettamente cibargli, felicemente conſeguire ſperava ciò che altri dalle purgagioni, e da’ ſalaſli attendeano. Ma nonmeno Eraſiſtrato, di quel che Criſippo ſuo maes ftro s'aveſſe già adoperato, ftudioſſi egli ancora di ridurre alla ſua antica ſemplicità innocentee, inerme la greca me dicina; vietando ſeveramente i ſalafi, i quali s'erano a po co a poco in tutte le ſette della medicina introdotti; per chè ſi vede chente, e quale e' fi foſſe il valore, e quanto grande l'animo di Criſippo, e d'Eraliſtrato, i quali ebbero ardimento primieramente di far fronte all'oſtinata bruzza glia del vulgo, e rincuzzare una già quaſi preſcritta uſanza nella medicina. Ma le ragioni delle quali eglino fi valſe ro a ciò perſuadere,vengon deliderate da Galieno; ne accé na egli una ſola d'Eraſiſtrato: la quale ſiè, che nel ribut tamento del ſangue non ſi dee ſegnare, acciocchè per lo mancamento di eſſo non vegna poi coſtretto il medico a cibare fuor di tempo l'infermo; e in ciò loda grandemente egli Criſippo ſuo maeſtro, il qual dice, che in ciò ebbe ri guardo,non ſolo alpreſente, ma all'imminente male anco ra; concioſſiecoſachè al ributcamento del ſangue agevol mente ſeguir ne ſoglia l'infiammagione, in cuiilcibare ric fce ſenza fallo molto, e molto pericoloſo a' poveri infermi; ed egli è forteda temere, che chiunque dopo l'etſer legna zo dee portar la famc gran tempo, non vegna a mancare; indi poſcia ſoggiugne, che per sì fatta maniera adoperan doni doſi nel medicare Crilippo, n'acquiitaſſe lode, e gloria immortale. Mas'altra ragione di ciò ne recalle Erafiſtrato, Io no'l ſaprei diterminare; non potendoſi preſtar fede in si fatta materia a Galieno; cercando egli, come avviſa eziandio alcun de'ſuoi più parziali ſeguaci, a diritto, e a roveſcio il meglio ch'e'potea d’avvallar la gloria, e la famad'Erafi ſtrato; c anche talora tentando a forza di ſofiſmi, e dica lunnia (trappargli di mano la ſignoria della medicina. Recar ſi veggiono in mezzo da Galieno alcune frivolei ragioni de'parteggianti d'Eraſiftrato; ma da Galieno me. delino per avventura fognate. Maegli ſi dee fermamen te credere, che non poteano mai, ne Criſippo, ne Erafi. ſtrato, ne Medio, ne Ariftogene bandire, introdurre, mantenere in piede poi una maniera sì da quella diverſa ch'era comunemente in uſo, ſenza farne ben prima pruos va con qualcheprobabili ragioni, colle quali moſtraffera eſſere ſtati a ciò fare tratti di peceſſità, e non da vaghezza alcuna; ne poteano altrimenti facendo difenderſi ne'lini ftri avvenimenti delle malattie; e forſe Criſippo, o pure Erafiltrato qualche libro particolare ne compofe non per venuto alle mani di Galieno; il quale dice chiaramente una volta, che l'opere di Criſippo crano molto vicine a ſmar richi, e ad eſſer ſommerſe in perpetuadimenticanza. Ma quando primieramente cominciato foſle nella Gre cia un sì crudel coſtume d'aprir col ferro, o col morſo di velenoſi vermini le vene, e colla luſinghevole ſperanza di fottrarla a' preſenti, o a'ſopravegnenti mali,impoverir dell? unico ſuo ſoſtentamento la vita, egli è coſa malagevolen aſſai nel certo,anzi per avventura impoſſibile a diſtinguere; folamente,che non ſi poſſa porre in dubbio e' mi pare,che'l crar ſaugue,nemolto nepoco, ne'primni antichillimi tempi della medicina appoi Greci in uſo niuno noirera; ne Ome ro, il qual non iſdegna con abbaſſarſi alle più menome par ticolarità delle coſe porre in non cale la dignità, e la gran dezza, e magnificenza convenevole all'eroico poeta, livi de giammai far mézione alcuna del ſegnare nella cura del le ferite di Marte, diMenelao, d'Euripilo, e di Macaone; perchè, per tacer d'Achille, e di Patroclo, ne Podalirio ne Macaone, eſſendo favoloſo ciò che di lai narrali intorno a tal convenente per Celio Rodigino, ne Chironę lor maeſtro, ne Eſculapio lor padre, ne Apollo lor avolo, ne Peone medico di Giove conobbero, e.miſero mai in uſo i ſalafli, e ne meno fi fa fe'l fegnare,da loro mcdelimi i Gre ci trovaſſero, o pur da altri popoli l'apprendeſſero;macer tamente ciò non poterono iGrecidagli Egizaj antichi ap parare, i quali per teſtimonianza di Socrate,da noi altro ve apportata,non ſi valfero mai di rimedi pericoloſi; ne ore no da’moderni: imperciocchè coſtoro, come avviſa Dio doro, altra ſorte dirinedj non ebber mai in uſo, fuoriſo Jamente, che criſtei, digiuni, purgative medicinc,e vomi tive. E ſi pare, che dagli Egizzj nell'altenerſi oglino mai ſempre da’lalaſli veniſſero imitati i fapiéciflimi popoli Chi neli, nel cui paeſe, che poco cede in grandezza all'Europa, ma l'avanza di gran lunga nel numero degli abitatori,non di vide mai, comedicemmonoi già, trar ſangue in infer mità vcruna; il cui eſemplo han ſeguito quei della Coccin cina, del Giappone,e tutti quegli altri popoli porti in quell' eſtremo tratto della terra, che bagnata viene dall'Oceano orientale; e in modo tale abborriſcono i Cineſi medici i falali, che ne i Saraceni, allora quando i Tartari occupa rono quell' imperio, neinoſtrive l'han mai potuti intro durre.? Ma che che ſia di queſto, chi poſe in uſo primiero il trar ſangue, Io immagino, che fi movcffe, e ſpinto vi. foffe, non già come immaginò Plinio (ſeguito in ciò fol lemente dalMontano, e dal Vonio) dall'eſemplo del caval lo del fiume; non eſſendo miga vero ciò, che ſe neraccon ta, come. Avempalace Arabomedico avvisò; ma dallo ſcor gere forſe, che dopo qualche ſpontaneo uſcimento di fan gue,o dalle narici, o da altra parte ſi vedea cedere in qual che parte il malc e sì crebbe l'uſo del ſegnare nella Grc cia, checonvenne, che Ippocrate, c.prima gli altri più ani tichi landaſſero a poco a poco riſtrignendo, sfidando per It' ! d ſe per avventura di torlo via affatto Ma non ſarà forſe fuor del noſtro propofito a rap portare ora alcuna delle tante ragioni, colle quali po trebbeſijs’Io pur non vado errato, sì fatta opinione difen dere. La vita degli animali (dico ora vita, largamente parlando x quello, ſenza cui al corpo, comechè compiuto, e ſufficientemente organizzato; non può l'anima accoppiar ſi, o ſtar tantoquantoin lui ) egli ſembra, che in altro ve ramente non confifta, che nel ſangue, o in qualche altro- li quore alſangue equivalente, che in alcuni animali in vece di quello (i mira. Coſa, la quale non può punto dottarſi da chiunque avviſa, che collo ſcemo del ſangue fcemaſi agli aniinali anche manifeſtamente la vita; perchè ſe non per forte diſtretta, e neceſſità quello non li convience vuotar negli animali. Ma delle due maniere, colle quali il ſangue menomac puoſli, ciòſono, ocom trarlo fuora a viva forza da'vafi, che'l contengono, o con dar ſtrettamé te', e a riguardo il cibo; il trarlo certamente è quello, il qual reca nocimento, e danno maggiore, e più gli animam li affraliſce; concioſliecoſachèfgorgando il ſangue, con quello inſiemene ſvaporano quelleſottiliſſime volanti ſo ſtanze: per le quali, e del chilo s'ingenera il ſangue, cin, priina de'cibi s'ingenera il chilo; ne può il ſangue mantc werſi nel ſuo ſtato, nevivificare le parci dell'animale, ſenza loro; il che apertamente da chiunque mente vi ponga; po tendoſi di leggieri avvilare, non fa luogo, ch'Io ne faccia parole. Quinci chiaramente ſi vede, c'l confeffa il medeſimo Ga lieno, che potendofi, qualor ne faccia meſtieri, acconcia mente coldigiuno menomare il ſangue, non fia ciò da fare in modo alcuno coltrarlo fuor delie vene,maſſimaméteove ègrade malattia;imperocchè quelle nobiliflime foſtāze,che detro abbiamo effer nelſangue, ajutano oltreinodo gl’in fermia ſtar vigoroſi della perſona ſenza eſſere diſvenuti, affranti dal male, e giovano affai al mantenimento di quel li, cafar laro ricoverar la ſalute; perchè quanto più gra voſe, e di riſchio ſono le malattie, più nocevole certamente è il erar fangue, e men fi eonviene. Malaſciandoda parte ſtare ciò che berlingando diceſi Galieno intorno al dovere fcemareil fangue, onde preſeg cagione i ſuoi ſeguaci di continuo aggirarli infra vane, e inutili contefe: certa coſa è, che'l ſangue può eſſer nocevo le agli animali, o per ſoverchio di rigoglio, e d'abbondan za, per cui o di preſente cagionar puofli in quelligrave ma latcia, o perchè egli è sì, e talmente piggiorato in tutto, in parte, che traligni dalla ſua natura, e non ſi conformica quella dell'animale:0 pure perchèegli inſieme e malvagio, e ſoprabbondevole s'avviſa. Ora in tutti, etre queſti caſi certiſſima coſa è, che'l ſegnare è fommamente nocevole E per cominciar dal ſoverchio del sāgue, chi negherà quel lo non eller mica vizio nella perſona: ficome anche vizio egli non è nella vita civile l'effer riccamöte fornito a denari, o d'altro,che meſtier faccia ad huomo per bene, e agiatame te vivere. E apertamente avviſafi, che coloro, che fom mamente in ſangue abbondano, ſon più d'aleri forci, e be atanti della perſona. Ma ficome la copia delle ricchezze, comechè buona coſa quanto a ſe, pure ad uſo cattivo da gli huomini adoperandori, ſuol di gravidanni talora eſſer cagione: così anche l'abbondanza del ſangue, avvegna chè buona, e laudevole fia,può talora nuocere, ſeconda mente che per noi ſopra il fecondo aforiſmo del primo li bro d'Ippocrate già fu accennató. Orrel foverchio del ſangue può táto nella perſona adou perare, che ragionevolmente ne debba temere il medico, poco ſenno ſenza fallo farà di lui a volervi riparar col fa Jaffo: potendo ben eglicon imporre ſtretto digiuno ciò ac conciamente fornire. E ſe'l male è già fufficientemente appiccato, ne di quello il ſangue punto più s'inframerre; che monterà egli attutar la canapa, acciocchè la girandola già preſa di foco non ſi conſumi? o pur che monterà egli ſpuntar la ſpada, perchè la ferita fattane fi ſaldi? E ſe pur dura oſtinato il ſangue a tener mano al male, oglirecas qualche impedimento alla cura di quello, può bene il me dico avveduto ſenza ricorrere al pericoloſo partito della X X 2 1: { so laſſo, con imporre all'infermo, che più o meno fi riman ga da' cibi: o più, o'meno, ſicomcli conviene, menomar lo. Nein ciò è da riguardare a ciò che in contrario ſi dice Galieno, cioè, ch'alcuni corpi v’abbia, i quali non così agevolmente potľano il digiuno comportare, per eſſer egli no caldi, e ſecchi in compleſſione,e come e' dice, collerici; '. concioſliecofachè, per tacere, che ritrovar non ſi poſſa mai ficcità ove ſia gran ſangue, maſſimamente laudevole,e buo no, qual G ſuppone: e che la collcra non s'inframetta pun. to nelle vene, nelle quali, come altrove diviſato abbiamo, ne meno in que'mali, che ſecondo effo Galieno dalla col lera avvengono, nelle vene ſi trova: e che in sì fatti corpi non poſſa eſſer troppo abbondevole il ſangue per lo ſmalti mento, che continuo di quello falli: può bene il medico co medicine, che attutino la collera, e con beveraggi, che non facciano ſe non ſe pochiſſimo ſangue, acconciamente a ciò dar riparo; ſenzachè in cotali corpi, i quali oltremo do abbondan di collera,ſicome faggiamente avviſano Ip pocrate, e Avicenna,ſon pericoloſi iſalasſi; e ſe ciò fonte, c'huom collera aveſse nelle vene, impoſibil certamente egli ſarebbe, che non n'aveſſe ancor nello ſtomaco: nel qual caſo ne men Galieno medeſimo ardirebbe a trar ſan. guc agli infermi, per qualunque gran male cglino aver ſero, Ma ſe'lſangue è malvagio, o cgli è per ſe ſteſſo tale, o pur altronde la reezza gli vien comunicata. Se altronde gli vien comunicata, non che giovi mai il falaſſo, anzi egli è ſommamente nocevole; imperciocchè, non che per lo trar del ſangue ſi ſcemi mai il mále,anzi ne monterà egli maggiormente, c più fiero, e rigoglioſo diverranne, ufcé do inſieme col ſangue quelle nobilisſime ſoſtanze, che di cemmo: le quali poſſono, e nel ſangue, e in quella parte, ond’al ſangue diſcorre il male, rintuzzarne l'impero:e ſcio gliendo, e aminendandocacciar via dal corpo per cieche, o per ſenſibili ſtrade quel caccivo ſugo, onde cotanto attri ſtivali il ſangue. Echi voleſse ammendare il ſangue coil cavarne dalle vene, farebbe come colui che con trarre acqua da un lago, in cuicontinuo acqua ſalmaſtra, o dall'int. teriora della terra,o altronde trapeli, voleſſe quelle addol cire. Ma ſe'l ſangue per ſe ſteſſo è cattivo, con trarne parte, non mé cal rimane, qualſe vin ravvolto, o aguzzo emend.:re ſperaſſe mai ſcimunito contadino, con trarne dalla botte al quáti maſtelli; ſenzachè l'infermo, perdendo anchequel le menzionate fpiritualı ſoſtanze, le quali ſole poſſono i difetti del ſangue ainmcndare, il nuovo ſangue, cheper quelle s'ingenera, e'l chilo diverranno mai ſempre pig giori. E quinci apertamente avviſar puofli, che ne merz faccia luogo il ſegnare, quando il ſangue nella perſona ab bondevole inſieme, e viziofo ritrovali. Ma per farci più addentro nella preſente quiſtione: l'al terazione, o'l cambiamento del ſangue, o egli è in tut to effo, o pure in qualche una, o più delle ſue parti, ość. fibili, o inſenſibili ch'elle ſiano ſi trova; oveche ſi covi il difetto,certaméte inutile affatto, e dáncvole ſarebbe il crar lo; concioffiecoſachè il l'angue in guiſa meſcolato per lo continuo movimento della tormentazione, e confuſo ne vali ſi ritrova,, che non men della parte vizioſa di quello, la buona ancora col ſalaſſo fuori ne ſcorga; perchè queſta, debile, e infiebolita rimaſa, meno certamente potrà rin tuzzare, e ammendare l'avanzo della cattiva. Ma potrebbe per avventura alcun dire, incontrar tal volta ne'malati, che il ſangue loro ſia tutto buono: ma che ſol qualche ſoſtanza di qualità cattiva, o dentro a’ vaſi in generata, o altronde in quelli venuta,come vermini, e altre fomiglianti ſtrane coſe, chenel ſangue talora anche d'huo mini ſani ſi ſcorgono, renda quello vizioſo; e allora col fa laſlo ſi poſſon molto bene quelle vuotare; ne per altra ra gione alcune malattie ſcemanſi talora, o affatto li ſpegno no per uſcimento di ſangue dalle nari, o da altra parte del la perſona. Io certamente, ſe ciò foſſe vero, a sì fatto argomento non ſaprei lo che riſpondermi: e non che a ſegnare diſtor nerei i noſtri medici, anzi a ciò ſommamente confortar gli devrei; ma in verità altrimenti va la biſogna; perciocchè, o che nel ságue la vizioſa foſtáza s'ingeneri, o che altróde a quello avvegna,no guaridopo il ſuomagagnaméto tra plo moviméto in giro del ſangue,e per quel della formentazio ne, convien, che quella sì, eralmente ſi meſcoli, e li ri volga inſieme con quello, che è buono, che ſe di tutti, e due non ſi ſgoccino interamente i vaſi, certamente non ſe ne potrà egli giammai tutto il malvagio ſpiccare. Anzico me in tutt'altri vuotamenti avviene, anche in quelli, chej per più larga bocca ſi fanno, certana coſa è, che allora il fangue piùpuro, e più ſottile più agevolmente ne ſpiccia fuora, rimanendo ſempre quaſi inorchia in fondo ilmalv.2 gio; ſenzachè può talvolta ne pori de'vaſi sì facramente fare inframeſfa la cattiva ſoſtanza, che per trarne tutto il ſangue ne mencertamente quindi ſpiccar ſi potrebbe. Ma ſerbiſi pure ella ſolamente nel ſangue, e per lo cotinuo ri volgimento di quello ella ancora ſimuova: certamente il caſo ſolo operar potrebbe, che in paſſando per lo ſpiraglio della vena, trattadalla foga del ſangue ancor ella per la medeſima ſtrada fuora ne ſgorgaſſe. Ma certamente il co trario tutto di avvenir veggiamo, maſſimamente nel velen della vipera: il qual penetrato una volta entro il ſangue,no ſi può quindi per ſalaſſi ritrarre giammai, ſe non ſe quando di preſente ſi taglia l'offeſa parte; perciocchè allora non penetrato ancor molto addentro il veleno, inſieme col fan gue fe n'elce fuora. Ne dee ſempre il medico avveduto prender guardia d' imitar co' ſuoi argomenti in ogni coſa la natura; concioſ fiecorachè non può egli ſapere comc, quando, e perchè quella opcri. Avvien talora, che s’alleggj, o affatto ſpe gnaſi qualche malattia dopo uſcimento di ſangue;percioc chè nel tempo medeſimo incontra per avventura, che la ca gion vera del male, la qual nó avea coſa che fare col sāgue, come altrove è detto, ſi è tolta via. Talora la cagion del malce nel ſangue: ma dalle partiſalde nel tépo medefimo dell'ufciméto, o poco avanti, e prima,che mclcolată fi fof ſe con tutto il ſangue, a quello mandata; e talora, perchè nel 4 1 1 3 1Ael medeſimo tempo ella del ſangue ſi è partita: e giunta... alle boccucce de'vali colla ſua mordacità le ſtimola,leapre, e inſieme col fangue n'eſce fuora. Or fe poteſſe il medico mai per ſenno avviſar sì fatte coſe; forfe ſarebbegli permel ſo talvolta il ſegnare; ma perciocchè egli èmalagevole al fai, anzi impoßībile a comprenderle, impoſſibile altresì ſi rendea lui la pericoloſa impreſa di poter col ſalaſſo vin cer le malattie. Perchè quando egli follemente s'arriſchia ad adoperarlo, ſi pone inmano della fortuna:e'l nocimen to, e'l danno è ſicuro, e'l giovamento molto incerto, che ne poffa all'infermo ſeguire; e maggiormente che rariſſi me fiate ciò che lo hodetto incontrar fi vede.Perchè ſcioc chi ſon da ripurar ſenza fallo coloro, che da quelle pochiſ. fiine volte, che felicemente per opera della natura ciò av. vcnire ſcorgono gvoglion, che parimente dall'arte ſempre mai ſeguir debbawo Mafe nel fangue farà per avventura in parte ſcema to il movimento in giro, o quel della formentazione, allora ccrcamente, non che rieſca giovevole, ma dannoſo olcremodo ſi ſperimenta il Talaſſo; imperciocchè per quello fcemandoli quelle parti, onde al ſangue cagionanſi eſimo vimenti, diverranno eglino ſenza fallo minori;ma le i movimenti faran creſciuti, comechè fembri, che per ſegnare debban ceflare, fcemandoſiquelle ſoſtanze nel la perſona, onde effi' movimenti procedono: non però di meno rimanendo in piede la cagione non naturale, per cui il' moviméto in giro, e quel della formentazione nelſangue accreſciuto ſi era, nonſolamentevano ſarà il falaſſo, ma altresì ſommamente nocevole; perciocchè con quello fi vé gono a tor via dal fangue le ſoſtanze ſpirituali, le quali ſo le poſlon vincere, e ſgombrare la cagione non naturale,per cui que’movimenti oltre al dovere, sformatamente accre fciuti ſi erano; ſenzachè in que'movimenti sì factamente avanzati, ſi fà grandiſſima perdita di Sangue: e poco, o nulla fi dee cibar l'infermo; perchèfe vorreio a quello col ſalaſſo ancora torre il ſangue, egli correrà certamente grá diſſimo pericolo della vita. Ma ſe'l ſangue li ferma in qualche parte falda del corpo, come veggiamonelle infiammagioni avvenire, allora non è da ſcemare il ſangue co'ſalaſli: ma sì ſi dee prender guar dia, che ſi toglian via le cagioni, onde quello a fermarſi quivi fu coſtretto se ciò non ſolamente, perchè il ſangue allor dalla febbre, che s'accompagna coll'infiammagione, grandemente ſcemaſi, e perchè poco, o nulla ſidee l'infer mo cibare: ma ancora, perchè quantunque ſe ne traggu daʼvafi,quel,che rimane,ſi fermerà pure Oſtinato quivi,e tā to più,quáto ſarà facto men vigoroſo il ſangue a più oltre pasſare;come veggiamo ne'mali della gola, e della pleureli avvenire; ę fcorto manifeſtamente ſi è allor che ſpina, o al tra fomigliante coſa ſi ficca nella carne, che con quantun que ſangue trarre, non ſi può far sì, che non vi accorra in fiammagione: evi ſi ripara ſolamente con trarne la ſpinews ſenzachè col ſalaſſo dipartédoſi dal corpo ciò che ſcioglier puote il ſangue rattenuto nella parte offefa, ne viene av montaremaggiormente il male. Neha luogo niuno certa mente quì, o la derivazione, o la rivulſione, che chia mano i medici, percui eglino tutto dì ſono a zuffc, eacă teſe in volendo riconciliare alcuni luoghi d'Ippocrate, e di Galieno: i quali variamente ne favellano; imperciocchè movendo di continuo il ſangue in giro, da qualunque par te egli ſi tragga, ſempre ne liegue il medeſiino: c niente ri lieva quantunque l'arterie ſi ſegnaſſero; imperciocchè vuo. tandoſi l'una parte del ſangue da'vaſi colla lanciuola, inco tanente nuovo ſangue dall'altra vi diſcorre: ficome in fiue micello avviene, le cuiacque per varj ravvolgimenti ricor rando a guiſa diconfuſo labirinto s'incontrano: E mentr’ei vien,se, che ritorna, affronta, E comechè i moderni per no li dipartire in medicando da gli uſi comuni, ſi ſtudjno, e s'affarichino dicoglier pruove; no però di meno apertaméte ſi vede cheindarno li beccano i geti; per maniera,che un di loro ebbe manifeftaméte a co feffare, che in ciò deſli ſtare alla ſola ſperienza; comcchè al cuni più ſaggi,e avveduti affermino le ſperiēze tutte recate dagli antichi a queſto propofito eſſer fallaci, e vane.Perchè ragionevolmére temevano i più famoſi Galienifti, che fiori vano a que'tempi che da prima ſparſeſi la circolazion del ſangue,no ſe n'aveſse a travolger tutto, e andar a foqqua dro l'uſo del medicare comunemente ricevuto; e queſta fi fu una delle cagioni, perchè un sì lodevol ritrovato tanto lor rincreſceſse.; el principal.degli argomenti, che contro a ciò giammai fi ftudiaffero di fare il Riolano, il Primero fio, il Pariſano,e altri ſi fu, che come narra l'Arveo: ftão se circuitu phlebotomia nonrevelli; quit ſanguisnibilominus parti affetteimpellatur. Ma comechènó ſapeſſe l'avvedu tisſimoGio:Battiſta Elmonte dell'aggirainento del ſangue, pure ebbe egli tanto d'intendimento,chegiunſea conoſcer ja vanità della revulſionc,,.e della dirivizionc,allor che iit facendo paroic della punta c'diſle: Quam circumfpečte ſunt Scholæ in fermocinalibus, &artificialibus: que in natura nil nifi ludicra ſunt! Quoniam etiamfi vena cubiti ufque in cavam totum depleat cruorem: do hecconſequutive èvena azygos cruorem extrahat; fcire tamen deberent ſcholæftatim poft, totumiterum cruorem æqualiter in venas reftitui: adeò licet.vena cubiti tatapoffetevacuari (quodnunquam ) tamé mox iterum totus cruor equareturper totum venarum cótex tum. Vnde manifeſtum fit vanas efle revulfionis, deri vationis nanias: quippe quibus conceſſis adhuc non nifi pro paucula mora inſervirent intenţiopi, Perchè ad alcuna delle dette ragioni, per tacer della ſperienza, riguardando per avventura quegli antichiſſimi medici della Grecia, i quali prima d'Ippocrate fiorirono, ma in quel tempo, che'l ſegnare era già nella Grecia in trodotto, furono così ritroſi, e guardinghi in crar ſangue: ne mai oſarono ſegnar nelle febbri, anche ardentiflime.Ne Ippocrate medeſimo, come ſi vede nc’libride'luoghi dell' huomo, e in altre ſue opere, fegnò giammai nelle febbri, ſe non folamente in quelle, che da grande infiammagione dentro cagionanſi; e in alcuni mali vuole egli di ſtrettamen te, che da ſegnar ſia con tal convegna, che non vi ſia feb bre; e avviſa egli oltre a ciò una fiata, che dopo lungo uſci Y y nicht mento di ſangue dalla matrice d'una donna, le ſopraven ne la febbre: coſa,la qual veggiamoanchenoi più d'una volta avvenire. Ne è punto vero ciò che dice Galicno, che Ippocrate porti opinione, che in tutte acute, egrandi malattie ſia datrar ſangue;concioſliece ſachè in quel luogo per noigià recato, in cui ſi conrende da Galieno', che ciò egli affermi, egli nel vero non di tutti mali acuti vuol che s'intenda, ma di que'ſolamente, de'quali egli quivi ragio na, sì veramente, che ſien grandi; e imperò vípoſe la par ticella deg che i Latini dicono fed, o pure verùm, e noi diciamo ma: della qual particella Galieno in ſu quel luogo non fa menzione alcuna, e artaramente la tace per poter quello recare a ſuo concio; perchè i ſeguaci d'Ippocrate forte ne'l tacciano, dicendo, ch'egli falſato aveſſe il teſto d'Ippocrate. Ne è da tacere quanto Galien ſi maravigli, perchè una cal ſentenza non ſia ſtata poſta da Ippocrate negli aforiſmi; e perchè egli altresì non abbia detto, che ne'mali grandi anche non acutiſi debba trar fangue. Ma ne men da’Galieniſti medeſimi viene ricevuto e ap provato il lor macſtro Galieno in quel ſuo famoſo decco: che in tutte febbri ottima coſa ſia a trar ſangue, non fola mente in quelle, ch'egli chiama finoche, ma in quelle an. cora,che da putrefcenza d'umori fon cagionate. E nel ve o eglino in ciò gran ſenno fanno a laſciar da parte la reve renda autorità del lor maeſtro, e ſtar guardinghi, e ritroſi di cavar ſangue in tutte ſorte di febbri; anzi licome eglino nella quartana, e nella terzana ſemplice di ſegnar ſi guar dano,così nelle altre ancora ſe sbandeggiaſſero affatto i ſa laſli, o quanto miglioriſarebbon da eſler giudicati, e più aſſennati aſſai del lor medeſimo maeſtro; concioliecolachè nelle febbri maſſimamente acute, e più in quelle, che ſino che chiama Galieno, per la ſtrabocchevole formentazione, e per lo troppo riſcaldamento del langue, cotato egli liſce ma, e s'affraliſce, e s'infieboliſce la perſona, che pericolo ſo alfai, e nocevole riuſcirebbegli ilfalaſſo;ſenzachè dal la ſcarſezza del cibo ancora, e per lo poco ſmaltimento di quello s’aſſottigliano sì fattitebbricoli, e quali a buccia eſtreina dimagrano. Ma avvegnapure, che con ſegnare rinfreſcaſſeli veram mente il fangue, ilche in cotalifebbri non ſi ſcorge, ſe non fe di rado, eperpochiſſimo ſpazio di tempo avvenire, ri furgendo teſteſo vie più che mai impetuoſo, e fervente il calore; non però,dimeno aſſai ſciocchezza certamente fa rebbe a volerper poco rinfreſcamento pericolar graveme te la perſona, e manifeſtamente porla a riſchio dimorte; perciocchèſovepti volteincontra, che dopo il falaſſo vol gendofi a maligna la febbre., più coſto n'uccida. E fe pur vogliam rinfreſcare il ſoverchio calor ne'malati: che non cercar di ſcemarlo con argomenci acconcj, ſenza metterci al pericoloſo partico de ſalaſſis che non cercar rimedj da to glier la cagione,onde nel ſangue colla formentazione il ca lore ſtrabocchevolmente ècreſciuto, laſciando in lui quel la vital ſoſtanza, che ſola puòl'infermo ne' ſuoi mali aju tare? Ma ſopratutto certamente vorrei Io domādare ad Ippo. crate, e Galieno, perchè eglino diſideravan, che ſi traef fe ſangue fin’allo sfinimento dello infermo nelle febbri ca gionate da grandi infiammagioni dentro, maſſimamente.ne' mali della gola, e della punta? perciocchè in quelli, fico me il inedeſimo Galieno inſegna, ogni ſperanza di riſto ramento nelvigor.dello infermo allagaſi; ilqual ceſſando molti ſe ne veggion miſeramente morire, eziandio nel di.chino del male, non avendo in lor virtù, perla fiebolezza, da poter il puzzo già cotto, e digeſtito ſpurgare. Ma ſe Galieno non vuole,che ſi tragga ſangue a'fanciul li prima del quatroidecimo anno per qualunque graviſſimo male elli abbiano, non per altro certamente, ſe non ſe per la grandiſſima inſenſibil vacuazione, che continuo coloro fanno: perchè farà eglida trar ſangue nelle febbri, malli anamente sipoche, e in quelle dell'interne infiamagioni,per cui l'inſenſibil vacuazione, che fasſi negli infermi è ſenzaw paragone affai maggior di quella de'fanciulli? Ma per avventura egli non fu Galieno così amico di ſe gnare., comeſi fanno a credere i ſuoi Galieriſti; e forſe più per oggia, e diſpecto, ch'egli aveva nella nimica ſerta di Y y a d'Eraliftrato, cotanto egli commendò i ſalali, che per ra. gion, che veramente ve'l traeſſe; perchè con tante leggi, ' e convegne, e riguardi egli ne riſtrigne l'uſo, che certa mente delle diecivolte, che i noſtri Galieniſti ſegnano, ſe bé li mir231on ne ſaran due per avventura ſecondo il vero ſentimento del lor maeſtro Galieno adoperate; e rariſſiine volte certamente quelle ſarebbono, che ſegnar ſi dovreb be ſecondo il lor Galicno; ma eglino credendo d'adoperar bene nelle malattie, con porre ayanti un sì gran rincdio,e sì giovevole, qual e' dicono; non curano di trarre a' mini feltisſimo riſchio i malati, ordinando largamente i falasſi in ogni malattia ſenza riſpetco alcuno, anche contro i divi lamenti del lor medeſimo maeſtro. E comechè Galieno, come teſtè diciavano, n'aveſſe una volta inſegnato, che ottimo ſia a ſegnare in tutte ſorte di febbri,pur quando poi più minutamente nevuol divifare raccontando ad una ad una al ſuo Glaucone le maniere di toglier via le febbri, quaſi dimentico del falaſſo no nefà motto niuno nella cu ra della ſemplice terzana la qual ſecondo lui muove dapll treſcenza d'umori; e nella cura della terzana baltarda egli dubitoſo, e in nube ne favella, tempellando nel ſuo ani mo tra'l ſoſpetto, e la paura di non offender con sì fatto medicamento gl'infermi. Perchè ragionevolmente il Ro rario di ciò avveduto, forte proverbiandolo diinunifeſta contraddizione nc'ſuoi ſentimenti l'accagiona: quum aliud videatur proponere in univerſali methodo, ficome e' dicu, quàmin particulari exequatur. Ma non che Galieno die fcendendo al particolare, a ciò che prima accennato ave va in univerſale, minutamente fi conformi; anzi cotanto fciocco, ebalordo egli è nelle ſue regole, come già diviſa to abbiamo, che in preſcrivendole in univerfale, fache ſo vente l'una all'altra contraſti, e vicendevolmente fi com battano. Così nel libro del modo di medicar per via di fa lasſi,contro il rapportato duo diviſamento dice: lo dimos ftrerò in queſto libro, che non che a ciaſcuno convenevol fia il falaſſo, anziche ne men coloro, ch'abbondan oltre fiodo ia langue, fian da ſegnare, ſe prima manifeſtamente non fa non ſappiafi. di qual natura fia l'abbondanza del lor fan gue: e quale lo ſtato dello infermo, e gli anni, e'l luogo, e la ſtagione, e la complesſion dell'aria ſia: e chenti, e quali fegniabbia egli patito' o patiſca nelcorſo della fua ma lattia; per ciaſcuna delle quali convenienze dice egli di do verne inaniteſtamente dimoſtrare, che molti ſenza graviſ fimo for dáno ſegnar non ſi poffano. Ecco le ſue parole: Εγω επιδείξω κατατον εξής λόγον, και μόνον άπαντας και δεομένες φλεβοτομίας, αλ' εδέ τες πληθωρικές αυτούς, εαν μη πεότερον αυτό το πλή θG-, οποίον πτην φύσιν εα διορίστι μετα τούτα την έξιν του κάμνονlG Xoxíarte, xai megy, noi xwegen wij, satíscos, @osc te thonyera, sche όσα περεστ τω κάμνονασυμπώμας καθ' έκασον γαρ τούτωνεπιδείξω πολ. λους μη φέρον ως αβλαβώς την φλεβοτομίαν. Ωltre acio avendo Galieno nel libro cótro di Eraſiftrato, e altrove inſegnato, che del ſoverchio ſangue trar G debba copioſamente infino allo sfinimento; nel quarto libro poi del inetodo eglicer tamcnre in miglior ſenno rinvenuto affermanon cffer il ſo verchio ſangue indizio del ſalaffo; perciocchè ſe huom ſa no sformatamente in ſangue abbonda, non è egli si toſto da ſegrare: ma sì fi dee con purgagioni, e con menomargli il cibo, c con iftropicciamenti e, altri rimedj ajirtare. Co sì anche egli inſegna nell'undecimo del ſuo metodo, che nella febbre ſinoca no debba il medico troppa copia di sã gre allo infermo trarre: acciocchè il debito alimento alles parti rimanga, ne fia ſtretto l'infermo per ricoverar le ſinarrite forze a doverſi troppo ghiottamente nutricare; non però di meno egli medeſimo altrove dice ſe aver nella febbre finoca fino allo sfinimento ſegnato. Ma più che in ogn'altronel nono libro del metodo moſtra affai ma nifeftaméte Galieno quáto egli ondeggiáre, e dubbioſo in torno al ſegnar fia; conciosſiecofachè egli quivi dica do verſi trar ſangue di preſente a'malati di febbre finoca ſenza punto por cura che fia ilfeſto, o'l decimo giorno, o altro giorno critico: e ciò diſtrettamente egli comanda ſenza ri fpecto alcuno. Matoſto poi rivolgendoſi,indi a poco ſog. giugne, che ſe peravventura da altri medici, o dagli asli ſtenti, o dal malato medeſimo ti verrà ciò vietato, allor tu: debbj imporgli beveraggi d'acquafredda,e agghiacciata potendoli ciò ſicuramente adempiere ſenza nocimento al. cuno dello infermo; e ſe ciò pure ſicuramente adoperarnon ſi puote, allor comanda,che il medico ſi debba ad altri ri. medj rivolgere forſe più accoci di queſti. Dal quale diviſa méto manifeftaméte s'avviſa quáto poco fperava Galieno nel falaſſo a dover guarir la febbre ſinocajāzi qnāto egli no men del ſalaſſo temeva anche dell'acqua fredda: la qual ſe.condo lui ſmaga la perſona, affieboliſce le membra, e ren de crudi gli umori, e ſveglia tremori, e dibattimenti nel corpo, e cagiona nonpocamalagevolezza nel reſpirare. E ſe con molta ragione egli ebbe nel libro primo del metodo a coinmendare oltremodo gli antichi medici; i qualicosì ritroſi, e guardinghi erano in permettere agli in. fermi vino,o acqua, o altro rinfreſcamento della loro ſete; che non altrimenti, che i rigorofi Capitani a’ſoldati comā dino, o i Principia i lor popoli, cosi eglino in ciò ſtretta mente ubbidir ſi facevano da' loro infermi: certamente Galieno, ſc avelle creduto eſſer neceſario il falaſſo a cota li febbri, avrebbe egli il ſuo medico conligliato,che ripu gnando altri medici, o gli aſſiſtenti, o l'infermo medeſimo, di quello ſi rimaneſſe; maſe più a capital ſenza fallo auuto l'aveſſe, egli ſaldo, e oſtinato nelſuo proponimento avrebe be pur confortato ilſuo medico a doverlo metter avanti, o pure d’abbádonardi preſente la cura dello infermo; ficome altrove in ciò che conoſce neceſſario al ſalvamento de'ma lati, più volte il ſuo medico diſtrettamente egli ammo niſce Mache direm noi quanto egli generalmente poca ftima faccia de Calaſſic poco in lor lifidi? maſſimamétein quelli bro, quando contro ad Eraſiſtrato maggiormente aiz zato, e riſcaldato vuol provar quanto ſia convenevole, neceſſario a'malari il ſegnare;allora nel maggior caldo del la pugna, quali ſchivando la propoſta, che cotanto in pri ma avea preſa per la punta, li rivolge contro coloro,i qua li giovani, e mal pratici in medicare, temerariamente ove non ſi conviene adoperano il Calaſſo; e sì cutta la colpa riverſa ſopra coloro, i quali quantunque nel cominciamento del male traggan ſangue', dice nondimeno,cheper lor dap pocaggine ſpeſſo gravemente pericolano gl'infermi; per chè conchiude egli diſiderar più toſto, che cotali nuovi uc celloni non s'infrámettano dibiſogna così pericoloſa,e più toſto per ſalvamento demalatiſe ne rimangano. Mamol to aftuto, e malizioſo ch'egli è, ſe per prender riparo di cotanti mal capitati infermi per lo ſalaito, n'accagiona la tracotanza, e la befraggine de'giovani e mal praticime dici: come ciò colpa foſſe dell'età di coforo, e non più to fto del medeſimo medicamento; perciocchè egli dice', e manifeſtamente confeffa, maggiore aſſai eſſere il numero di que’malati, che per malamence ſegnarſi ſi morirono, che, di coloro, a'quali tratta non fu mai goccia di ſangue. Eal la per fine egli conchiude, che gran danno, e nocimento agl'infermi apportano que'medici, che giudicano nel co minciamento di tutte tebbri doverſi crar ſangue. Ma che che ſia dell'opinione diGalieno,la continua ſpe rienza di ciò baſtantemente ammaeſtrar ne puote: e ſe li beri d'ogni neo di paſſione negli uſcimenti delle malattie riguardiamo, ben coinprender pofliamo quelle per ſalaſli non eſſer mai ſcemare, le per avventura giunte non ſienoa' termini loro facali se da ſe ſono ſenza argomento alcunori ſtate; ma non così negli altri rimedi, i qualivantar poſſo no di riparar veramente alle malattie, e cacciarle fuora dalla perſona per lor virtù, e giovamento; ficome nelle terzana, e nella quartana avviſar puoſli: le quali non cede do a’ſalalli; o alle purgagioni, pur dalla ſcorza del Perù só vinte, e fignoreggiate; perciocchè quella ſolamente è ri medio acconcio loro,e non già il falaſſo, o la purgagione,le quali coſe più coſto offédono,che giovano in corali malat tie.Nein ciò voglio lo diftédermi al preſente,co farne lun ghe pruove: ſolamente rapporterò l'avvenimento del Sere niſlimo Cardinal Infante;al quale comechè per li tanti ſa laffi non foſſe rimaſta gocciola difangue nella perſona,pur. dura, e oſtinata la ſua febbre non ceſsò mai, ne rifinò, fin chè cacciollo diqueſta mortal vita. Anno 1641 Noven bris diſſectum fuit curpus Principis FerdinandiHiſpaniarum Regis fratrisCard. Toletani, qui 89.diebus tertiana febri agitatus obiit ætatis 32.annorum. Etenim fublatis cordes bepate, cu pulmone, adeoque difettis venis,arteriis, vix cochlear cruoris in cavuum thoracis confiuxit; planè nimiru hepar oftendit exangue: cor verò inſtar crumena flaccidum: biduo enim ante mortem plus ediffet,fi ipfi conceffum fuiffet, Fuit enim per venæ feitiones, purgationes, hirudineſque ità exhauftus, ut dixi; non definebat tamen tertiana fuum sypă Servare. Ne muove punto ciò, che ſi porta per Galieno, ſe pur cgliè vero, di quelmalato difebbre ſinoca, che ſegnato da lui fino allo sfinimento ſi guarì; concioffiecoſachè veg. giam noi molti, e molti guarir turto dì da și facte febbri ſenza verſargoccia di ſangue; ed'altra parte infiniti anche ſono coloro,come teſtimonia il medeſimo Galieno, i qua li fino allo sfinimento ſegnati G morirono; e coloro ancora, i quali a peſſimo ſtato della lor ſalute ne giunſero: e coloro, i quali anche per teſtimonianza del medeſimo Galieno,co loro grandiſſimo riſchio,dopo ſegnati fino allo sfinimento, affieboliti, e raffreddati di tutta lor perſona n'ebbero ſudo ri grandiffimi, e ſoccorrenze, comechè poi loro ne folie ccffata la febbre. Ne di ciò è punto da maravigliare; con cioſliceofachè tra per lo perdimento del ſangue,e degli ſpi riti s'agitino, e ſi perturbino sì fattamente le parti (alde, e diſcorrenti della perſona, che per lo ftrabocchevol rime ſcolamento ſe ne viene a fommuovere,e disſipare la cagione della lor malattia: e sì rimangono liberi, e lani di preſente co non poca maraviglia de’inedeſimi medicanti. Così veg giamo per ira, o per timore, o per altra grave, e ſubitana paffione le gotte, e le quartane, e altre dure, e pertinaci malattie eſſer di preſente riſtate. Quinci manifeſtamente ſi comprende, ſciocchi oltremo do, e ſcimuniti eſſer coloro, i quali per picciol ſalaffo per fuadonſi aggiugnere a ciò, chè Galieno con largamen te trar ſangue fino allo sfinimento aggiugner fi crede va; perciocchè coſtoro per non porſi a riſchio d'ammazzare i malati nonolano loro con iftrabocchevolmente rea gnargli torre affatto le forze,e sì porli in bilico della lor vie ta; ma si mezzanamente ſegnandogli certamente non po tranno mai muover a rimeſcolamento le parti falde', e di fcorrenti del corpo, onde taloramaraviglioſamente,come chê con non poco riſchio della perſona, ſi riftanno le ma. lartie; perchè da’loro falaffi altro certamente ſperar non ſi può, che certisſimo danno, e nocimento ſenza ſperanza di riſtoramento alcuno ne'malati. E fenza fallo gran ſenno fanno coloro, che ne più, ne meno ſegnano, pereſſer i ſa lasfi ne'malati, o gravemente dannofi, e di riſchio, o affat to inutili. E a ciò riguardando i più pratici, e vecchi nel meſtier deilamedicina,ritrofi oltremodo, e guardinghi ſo 110 nel fegnare: ficome Raſi, e altri valeuti medici nell'ulti-, ma lor vecchiaja dalle continue pruove addottrinati, nois mai; ſe non molto di rado, e con grandisſimo riguardo ſi videro adoperare i ſalasſi. Mainoitri medici, comechè di ciò pure fien ſufficientemente ſgannati, e ricreduti, pure per non metter affatto in miſaſo l'antichisſima coſtuma de ſalasſi, e si laſciare anche in ciò la medicina del lor mac. ſtro Galicno, così ſcarſamente, e a biſtento ſegnano, ch'o ve gli antichi medici largaméte traevano il fangue a libbre, coſtoro ſolamente il traggono a pochisſime once; ritenen do così ſolamente in nome, e per veduta l'eſler Galieniſti in trar ſangue, quando in verità non ſono. Ma per ritornare allamedicina d' Eraſiſtrato, egli fem bra, per quel che nemoftriGalieno, che della materia de medicamenti egli ſi foſse allai ben conoſciuto; e viencegli oltrcmodo da Galien celebrato: perciocchè pellegrinando egli, e non avendo una fiata in acconcio una ſua medicina per lo ſtomaco, ponetie ſaggiamente in opera alcuni ſughi d'erbe,le quali quivi abbondanteméte erano;eGalien pari mente di luiracconta, che trovandoſi cgli medeſimo un giorno infermo in contado, e abbiſognandogli al ſuoma lc il paſtello d'Androne, ne potendolo quivi avere, in luq go di quello aſſai felicemente adoperò il ſugo del Rovo; c ſoggiugne Galieno, chee'non venne Eraliſirato a ciò fa Z Z 1 1010 re ſoſpinto altrimenti, o perſuaſo', come millantavano Sea rapione, e Menodoto, dal paſſaggio, o argomento dal fi mile al fimile, non avendolomiglianza niuna tra'l paſtello d'Androne, e'l ſugo del Rovo,madalla general contezza, la qual egli avea della facoltà de'ſemplici; per la cui' mea deſima ſcorta,ad emulazioned'Eraſiſtrato ritrovò poiGa lieno parimente quel medicamento, che'l fa tanto ſtraboce chevolmére pavoneggiare,cioè il ſugo delle noci.Or penſa te voi che ſchiamazzio avrebbe farto egli, e qual loda avrebbea ſe ', e ad Erafiltrato attribuita Galieno, ſe qual che menoma delle chimiche medicine aveſſer potuto mai eglino rinvenire. Ma ne Eraſiſtrato, ne Galieno ſeppero mai', che nel ſugo del Rovo, e delle noci viabbia un ſale adatto a ſciogliere molte, e molte di quelle materie, onde ingenerar fi loglion le poſteme; e che non ſolo i fughi già detti ſono riſtrignitivi,mavalevoli anche a fare cambiar na tura a quelle acetoſe ſoſtanze', oude s'ingenerano l'infiam magioni. E quinci ſi ſcorge apertamente, chevada errata in ciò la medicina razionale antica, la qual ſi crede, uſana do medicamenti sì fatti nel primo cominciamento dell'in fiammagioni, porre in opera coſe, che di ripercuotere, o di riſtrignere ſolamente abbian valore. Maritornando a noſtro propoſito: bé potea anche effer agevolmente vero ciò che diceano que’gran lumi dell'em pirica medicina, Serapione, e Menodoto, che da qualche ſomiglianza no penetrata da Galieno tra'l Rovo,c'l paſtel lo d'Androne indotto ſtato foſſe Erafiſtrato a ciò fare; e in verità tra'l Rovo, e la Galla,per tacer del vitriolo, onde vien formato il paſtello d'Androne, potea non che Eraſi ſtrato, ma huom di mezzano intendimento di leggieri av viſare eſſer non poca lomniglianza. Maquanto sì fatta ſo miglianza poſſa ingannare, non ſi richiede gran forza di loica a farlo vedere; e ſe, come pare a Galicno, Eraſiſtra to avea una general contezza de’medicamenti per quella acquiſtata, certamente egli l'avea per iſperienza, o da fe, o da altri fatra, la quale agevolmente può eſſer fallace: 0 pure per via di ragioni non meno della ſperienza ſoſpettes d'errori, e d'inganno.; perchè in un punto cosi principale manchevole, difettoſo, e incerto il fiftemadella razional medicina d'Eraſſtratoanche ritro.yafi. Ma trapaſſando ad altri: Io non ſaprei dire s'empirico e ſi foſſe, opur razionale quel famoſo medicante Petronas, il quale dopo Ippocrate, maprima d'Erafiftrato ebbe ad introdurre un iſtrano, e non più veduto, o intero modo di medicar le febbri. Solea coprir egli i febbricoſi di tanti pannilani,che loro ſi yeniffe a creſcere olcremodo il caldo, e la ſece; matantoſto, che incominciava il febbril caldo as ſcemare, ei facea loro pienetazze trangugiare di freſc'.ac qua, il ſudore aſpettandone; il quale ſe non compariva, di nuovo tacealorbere nuovaacqua, e proccurava ch'eglino vomitaſſero; riſtata poi la febbre, gli cibava di carne di porco arroſta, econcedea loro liberamente il vino; maſe la febbre non ſi partiva, facea bere agli ammalati acquad calda, e fale per render lubrico il corpo; e in queſto tutti igrantrovati della ſua medicina eran ripoſti. Mamipare da non dover logorare indarno il temponella cenſura d'un sì fatto modo di medicare; e comechè in alcune fortidi febbri, e in qualche huomo gagliardo, e ben atante della perſona non foſſe per avventura fuor di ragione il farlo tuttavia in tutte ſorti di febbri, in tutte perſone, egli fem bra certamére una ſciocchezza non punto diverſa da quel la d'alcuni medici de'noftri tempi: i quali non con altro che.colle purgagioni, e co'ſalali immaginano ciaſcuna gene razion dimalattic rilanare. E più ragionevole certamente egli ſembra la manicra del medicare alcune febbri, dagli Albaneſi uſara; i quali nel cominciamento di quelle foglion dare all'infermo vin generoſomeſcolato.con iſpezierie, fimile al vino ippocra tico, e al vin brugiato degli Inghileſi. Ma quino ſi può certaméte lodare il cófiglio diCornelio Celſo, che nelle febbri lente tratto tratto fidebbail corpo imbagnar con acqua fredda meſcolata con olio; che in tal guiſa egli credette, che ſi verrebbe a riſvegliar il riprezzo, e conſeguentemente anche il calore, ondeagevolmente ne Z 2 2 po potrebbel'ammalato guarire: fæpe igitur, egli ſcrive, et aquafrigida, cui oleam foc adječium, corpus ejus pertractan-, dumeft; quoniam interdum fic evenit, ut horror oriatur, ds. fiat initium quoddam novi motus, exque eo, quum magis corpus incaluit,fequatur etiam remiffio. Ma quantunque alcuna fiata a ciſo poſſa il fatto nella guiſa da lui deſcritta accadere, ed agli ammalati alcun pro avvenire; pur non dimeno ſenza manifeſto riſchio non va la biſogna; impe rocchè ſe altrimenti riuſcirà, n'andrà ſenza fallo da male in peggio l'infermo. E quinci fi ſcorge con quanta ragio ne abbian laſciato i Galieniſti il pericoloſo modo, col qual guarito aver fi gloriava la febbre finoca Galieno, confar uſcire il ſangue dalle vene per via del falaſſo, fino allo sfi nimento dello infermo; da chefacendoſi gran movimento nel corpo fogliono i ſudori copioſiſſimi,e l'uſcite del corpo, e'l vomito anche talora, come avviſa il medeſimo Galicno, avvenire; per li quali, e per le quali o ſperano, che debba mancare affatto,oin parte la febbre. Ma in vano certa mente eglino poi attendono tal opera da’lor piccioli ſalallı; al che non dovette aver riguardo Avicenna,la ove diſſe el fer meglio affai accreſcere il numero, che la quantità de’la laffi; cioè più cofto in più volte il ſangue, che tutto inſie metrarlo fuori, Ma per più d'una pruova avviſando il grand'Atenco, fra quante traverſe, fra quanti viluppi, fra quante incertezze vacillanti s'andaſſer ad ogn'ora aggirando le varie, e tra effo loro diſcordanti dottrine, che per le fcuole più cele bri della razional medicina nellaGrecia s'inſegnavano,im preſe anch'egli una fabbrica di novello fiſtema di medici na; perchè tutte le forze del fuo acutiffimo intendimento egli vi poſe in opera; c tanto in ciò fare ebbe ſeconda las fortuna, che da molti valent’huomini vennero a gara le ſue opinioni ricevute, e approvate; e per tutto quel tempo, che le lettere fiorirono nella Grecia, e nel Romano impe. rio, celebre fi manterne la ſua Setta, e in buon nome, las qua le ſpirituale venne chiamata; imperocchè una fortiliſ ſin a fpiritual ſoſtanza clla immaginava; la qual per tutti i 1 corpidell'Vniverſo diſcorrendo mai ſempre, e penetrando, non meno il grande, che'l picciol mondo regger doveſſe; é dove ella non foſſe primjeramente offeſa,non poteaſi, fe condo il ſuo ſentimento, male alcuno ingenerarſi; il qual diviſaméto ſi parve egli, che’n parte adombrar voleße Vir gilio in prima dicendo. Principio cælum, duterram,campofque liquentes, Lucentemque globum Luna, Titaniaque aſtra Spiritus intusalit:totamque infufa per artus Mens agitat molem, & magno fecorpore mifcet. E poi Torquato Taſſo Ele menzogue antiche Di chifiloſofando, e menie, e Spirto Dieda queſta mondana, ed ampia mole? Il qualper entr'a lei trapaſa, e ſpira; Com'a lor parve, e'l Cielo, e l'ima terra, E laſpera delſollucente, e vaga, E’l globo de la Luna, e l'auree ſtelle, E de l'aria, e del mare i larghi campi Nutre, e miſto al gran corpo in varj modi, Move agitando le diverſemembra? Ebbe la ſetta fpirituale oltre ad Ateneo, e a Criſippo fuoi principi, e alMagno, ad Agatino, ad Erodoto, altri, e al tri valentiffimi huomini, che colle loro opere univerſalmé te avute a grado,ſommamente la nobilitarono, e l'illuſtra rono; e fra gli altri Archigene:il quale, tra per lo medica che felicemente mai ſempre fece, e per li tanti doctiſ ſimilibri, ch'e' diede fuora, ne'quali non laſciò cofa, ne grande, ne piccola, che trattata diligentemente per luino foſſe nella medicina, non ha che cedere a niuno, ch'abbia o prima, o dopo lui ſcritto, e medicato infra'Greci; im pertanto per la ſoverchia applicazione alla loica, onde a gran ragione talora vien Archigene accagionato da Galie no: e per valerſieglino della filoſofia degli ſtoici, i manca mentidella quale altrove da Noi fien conti, difettoſo, e fallace moltoegli riuſcì il loro fiſtema di medicina razio nale. Oltre re, Oltre a queſto e'miſembra, che riprovino eglino me deſimi il loro ſiſtema; imperocchè in medicando le malat tie, poco, anzinulla a sì fatto Spirito badar fogliono; con che danno a divedere non altro eſſer queſto loro ſpirito, ſalvo che un gentil trovato per fare parer maraviglioſa al vulgo la lor medicina. Doveano adunque eglino provar in prima con ſaldiđimi argométi eſſervi un cotale ſpirito; indi diligentemente inveſtigare, chente,equal li fia la ſua nas tura, cioè qual figura qual, grandezza, equal movimento abbiano le particelle, che'l compongono, e come egli fac cia le ſue operazioni nelcorpo umano, e come nell'inge nerarſi le malattie egli offeſo vegna; e in qual guiſa dar li pofla a'ſuoi diſordinamenti compenſo.. Poco men che crucciato ſi maraviglia Plinio, in pone do egli mente alle ſtravaganti pur troppo, e maraviglioſes felicità nelvero d'Aſclepiade;huomo com'e'dice, quan to al naſcimento, di condizionemolto vile, e di maſtro di ritorica ch'egli era in prima, perciocchè aſſai poco gli fruttava, in un tratto medico divenuto. E sì, e tanto egli adoperò, che nuova ſembianza in breviſſimo tempo ve ſtir facendo alla medicina, a rimaner ne veonero l'antiche regnanti ſette ſconvolte tutte, e poco men, che affatto op preſe, e abbattute; ed egli folo vincitore,e trionfante de gli altri medici, a guiſa di perpetuo dittatore nella Città donna,e capo del mondo, ne ordinò a ſuo talento, e ne diſpoſe le leggi: ſupremo, e aſſoluto arbitro, della vi ta, e della morte diquelpopolo, nelle cui mani ſtava la morte, cla vita d'ogn’uno ripoſta. Ma fermamente egli fi dee credere, che a tanta grandezza perveniſſe Aſclepia de, non tanto com’alcuno immagina, ch'egli ottimo e pro to parlatore ſi foſſe, quanto che colſenno, e col valor no punto ordinario viſi portaffe, comechè la fortuna anch'el la vi concorreſſe con qualche gran fatto; quale appunto di fu quello, che vien narrato dallo ſteſſo Plinio; ch'eſſendo ſi un giorno egli a caſo incontrato in un miſerello, che per morto era portato alla ſepoltura, facendolo egli a caſa rie tornare, con valevoli argomenti in perfetta ſanità il rimiſe. Eben 1 túrós, E ben palesò egli al mondo la grandezza del ſuo animo', e la ſingolar fua prudenza: allor, che prevedendo la fa tal rovina del gran Re di Ponco Mitridate, generoſamente diſprezzando la gran ſomma dell'oro da colui per amba fciadori offertagli, ricusò d'andare alla ſua corte. Malale tezza del ſuo acutifſimo intendimento appieno benmoſtra no quelle, che delle tante, e tante ſue opereſcarſiſſimes particelle a noi ſono rimaſe; nelle quali ſi vede apertainéa te, che non iſchivando egli mafagevolezza niuna, ne ſi fermardo nella prima buccia delle coſe, s'ingegnava ſeco do ogni ſua poſſa d'internarſi nc più ripoſti ſecreti della na Primieramente vuol egli Aſclepiade, che non già per caſo, ma di neceſſità, e per l'indirizzamento della natura ognicoſa avvegna nell'Vniverſo: e che fa natura altro ve ramente non ſia, che'l corpo medeſino, o'l ſuo moto: per la cui perpetua, e iron mai ſtanca opera i corpicciuoli, i qua li cosìpiccinli ſono, ch'alla menteſola permeſſo viene co prendergli, veloci, e ratti, e con volante foga fra' effo lo ro incontrandoſi, e con vicendevoli percoffe, l'un coll'al tro cozzando, e forte battendoſi, fi vengano a ſminuzza rc, e a dividere in minutilíme, e innumerabili ſchegge; le quali con diverſi movimenti andando l'una verſo l'altra, e inſiemeaccoppiandoſi, e congiugnendoſi, prive d'ogni qualità, col moro, col numero, colla grandezza, collow figura, e coll'ordine le coſe, e l'apparenze tutte ſenſibili producano;ne eſſere fuor di ragione,egli poiſoggiugne,che ſien privi diqualità i corpicciuoli; concioſliecoſachè altro dal tutto, altro dalle parti ne ſegua; l'argento è bianco, ma nera è la ſua radicura; il corno ènegro, mala ſua polvere è bianca; ma dovetre dir egli ancora, che le qualità altro non fieno, o per me'dire altro non le faccia apparire, che'l concorrimento, la figura, e’l fito, e la grandezza, e l'or dine, e'l moto di que'corpicelli; perchè allor che concor rono inſieme piccioliſſimi corpicelli, o ſperali, o piramida li, e con dilatante moto velociſſimamente ver noi fi lancia no, a formar ne vengono quel ſentimento, che dicalore ſi chiaina. Dice oltre a ciò Aſclepiade,chenell'accozzarſi inſieme, appigliandoſi le particelle, o ſchegge ſuddette nel formar le membra degli animali, vi laſciano molti, e molti ſpazj vuoti, per opera delſolo intendimento compreſi, varj di grandezza, e di figura; i qualiſe aperti fi mantengono al tragitto de ſughi, ſi mantiene l'animale ſano, callo incon tro, ſe impediti fono per la dimora de'corpicelli,a far li vê gono ſecondo la varietà delle parti, e degli ſpazj, varie, e diverſe le malattie; ma non però già tutte malattie, ſecon do Aſclepiade, avvengono per la dimora de'corpicciuoli, fe non ſe alquante ſolamente, come la freneſia, il lecargo, le puinte, e lefebbri grandi; ma altre poi avvengono per ſoverchio aprimento: e s'ingenerano per la curbazione de ſughi, e degli ſpiriti, per la quale ſtrabocchevolmente s’al. largano gliſpazj, come nella fame canina, e nella fover, chia magrezza ſi vede: 0 nuovi ſpazj a viva forza in non, convenevoli luoghi ſi aprono, come nell'Idropiſia acca de, Vuole oltre a ciò Aſclepiade, che non iftiano le cagioni operatrici de’mali ne'liquidi corpi ripofte; ma nel vero al tro quelle non eſſerç, ſe non ſe le cagioni antecedenti. Si ride egli di quel grande ſchiamazzio, che fanno i medici in. torno a'giorni critici; portando opinione, che d'ogni tem po, com'egli avea avviſato, poſſano creſcere, e ſcemare, o ſpegnerſi affatto le malattie. Ma per accénar qualche coſa intorno all'altre parti del la medicina d'Aſclepiade: egliamo di condurre iſuoi infer mial deſiderato fine della ſalute, con moleſtargli il men, ch'c'potea; avendo ſempre in bocca quelle celebri ſue pa role, che vengon per Cornelio Cello rapportate: tutè,citò, jucundè;perchè cra egli nimiciſſimo di que'medicamenti, che così ſovente, e per lo più fuor di teinpo venivan da al tri medici adoperaticon incerțillima ſperanza d'avere a re, care qualche giovamento agl'infermi; e allo incontro con ſeguirne loro licuriſſimo, e pronto il danno, ela nojx;per chè chiamar egli folea la medicina degli antichi, medita zion della morte; e molto ben’ayyisādo l'accortiſſimo huomo, e di sì fatte coſe aſſai intendente, quanto poco atten der fi poteſſe dal'incertezza della medicina, e dalla fiebo lezza de'ſemplici, o compoſti medicamenti, che in que' tempi erano in uſo, nel ſapere ben regolar la vita col ci bo, coll'eſercitar le mébra,e altresì fatte piacevoli cole, poco men che tutto il sómo del ben medicar ripofc. E nel vero ciò non fe già egli, come huom crede, da neceſſità alcuno ſtretto,per no aver contezza, ne men mezzanamite de’rimedj; anzi egli ſi fu della materia de’medicamenti co sì ſemplici, come compoſti sì ben conoſciuto, che ſicoine Galien dice, egregiamente cgli ne ſcriſſe: e molti, e molti medicamenti di ſuo ingegno egli ritrovò, e poſe primiera mente in uſo, e ne compoſe un particolarlibro; i qualime dicamenti, non che da altri foffer mai tacciati, anzida’ine deſimi ſuoi emuli, e avverſarj commendatioltremodo, e fovente adoperatifurono; infra’quali ſi ammira per Galic no quel celebre impiaſtro per le piaghe, che non ſi dee ri muovere, ſe non ſe dopo tre giornizonde fi pare,che Aſcle piade apriſſe la ſtrada alnuovo modo in queſto ſecolo in trodotto di medicar le ferite. Oltre a ciò abborrì egli ſoprammodo le purgagioni; ma fivalſe de criſtei. Danrò ancora, come racconta Plutarco, ivomiti, che troppo frequentemente allora erano in ufo, e che a' tempi noſtri ancora fi uſano da alcuni i quali per dir la colle parole di Cornelio Celſo: quotidiè ejiciendo, vo randi facultatem moliuntur: ma non già egli il tolſe affatto dalla medicina,anzivuol'egli, che nelle terzane ſi proccu ri il vomito; del quale, com'c'medeſimo narrazli ſervìnel curar quella nobile femmina di Samotracia. Ne ſi dee qui tacere, che ſi pare,ch'Aſclepiade vicino ftato foſſe ad aver contezza dell'elatere dell'aria, come ravviſar ſi puote dal le ſeguenti parole di Plutarco, avvegnachè coſtuimoſtrino aver ogni particolarità compreſa de ſentimétid'Aſclepiade: υπομιμνήσκα δε αυπ επι της κλεψύδρας Ασκληπιάδης και τον με πνεύμα να χώνης δίκην συνίσησεν, αιτίαν δε της αναπνοής την εν τω θώρακι λεία μέρειαν υπο τίθεται • πεος ήν τον έξωθεν αερα ράν, τε και φέρεσθαι παχυμε. ρη άνε πάλιν δε αποθεϊσθαι,μηκέπτε θώρακG- οί'ε πόντος μήτ' έπεισ A23 370 Ragionamento Quinto 1 re δέχεσθαι, μήθ' υπρεϊν • υπολειπομένα δέ τιν G- εν τω θώρακι λελομερές dei begyiQ (šgaię o nav ixreiveron ) neos Tšto nánar có trw umojéves βαρύτης του εκτός αντεπεισφέρεται αυτοι δε ταϊς σκύις ασικάζα: την δε και προαίρεσιν αναπνοήν γίνεσθαί φησι συναγομένων των εν τω πνεύ μονι λελοτάτων πόρων,και των βρογχίων πνεμένων » τη γας ημετέρα G. &υπακούει πιοαιρέσει. · Machi potrebbe mainarrar tutt'altri diviſamenti, e opi nioni, le quali fallo Iddio, come riferite vengono; e per la più parte da chi punto non l'intendea; e talor anche da al cuni per vggia, e mal talento a ſtudio guaſte, e travolte. Il che oltremodo malagevole rende la cenſura del ſiſtema della ſua medicina; pur lo brievemente ne dirò in qualche coſa il mio ſentimento. E primjeramente parmi, ch'aveſſe errato aſſai ſconcia mente Aſclepiade nella notomia; portando egli opinione con Ariſtotele, ed Eraſiſtrato, che le reni non abbiano al cuna operazione: echeciò, che ſi bee, ſciolto in vapori ſe'n vada nella veſcica,dove poſcia li ftipi in orina; delche meritevolmente vien egli ripigliato da Galieno; comechè a gran torto dal medeſimo venga poi biaſimato, perchè c' non fi vaglia della facoltà ſeparatrice, che vuol dire in buo ſenſo, perchè egli non ſi metta a filoſofare con ciance, e anfanie. Ma fuor d'ogni ragione,e a corto non meno sfac ciatamente fi accagiona per Galieno Aſclepiade, dicendo, che contro l'evidenza de'ſenſi egli aveſſe negato, che quel le coſe,le qualiognun vede, che vanno verſo quelle,dalle quali ſi crcde eſſer elleno tratte,veramente vi vadano;che certamente non potea egli sì milenſo, e ſciocco eſſere un tanto huomo, Negò ben'egli la facoltà attrattiva, e co'buoni filoſofan ti ſtimò eſſere per lo lume della ragione manifeftiffimo,che ne ſomiglianza mai, ne facoltà, ne altra coſa del mondo potrebbe far sì, che un corpo moveſſe altro corpo ſenza toccarlo, o per ſe ſteſſo, o per altro corpo da ſe parimente tocco, e moſſo; poichè a trarre a ſe un corpo lontano fa certamente meſtiere uncino, o fune, o altro ſomigliante appiccatojo, che'l prenda. Ma non poſſo lo laſciar di forte non ridire, quantunque volte rammento quella ragione, colla quale Galieno con tro Aſclepiade,ed Eraſiſtrato, e altri buoni filoſofantiſen za vederne altro,fermanente credette, ſe averela virtù at trattiva già faldamente provata; dic'egli,che per induſtria d'alcuniladroncelli, i quali poneano vaſi di creta pieni d' acqua nelle carrette del grano, quello ne creſceva manife ftaméte dipeſo;coſa la quale avvenir nó potea,fecondochè cgli ſtima, ſe'l grano non aveſſe la virtù attrattiva; concio foſſecoſa che eſſendo egli diſcorſo per tutte fette di medi cina rinvenir non aveſſe mai potuto ragione alcuna, che in ciò punto l'appagaſſe. Quinci ſi pare,che meritevolinen te il Veſſalio avendo anch'egli avvifata un'altra cotal ra gione a queſta poco, o nulla diſſimile, prorompeſſe in sì fatte parole motteggiã do i libri della dimoſtrazione di Ga licno:profeito ſiGaleni libri de demöftratione, cjufmodi crebris Scatent demonſtrationibus,que ipfi & fimodo aufim proloqui) non infrequens, ac poriſfimum in quamplurimumGalenusex celluit anatome ſunt, non eſt ut eos libros tantopere expecte mus. Ma laſciando ad altri più di noi ozioſi ſopra ciò fa vellare, certamente venner conoſciute molte, e molte coſe di notomia per Aſclepiade, che avrebbono fenza fallo po tuto render chiaro, e ragguardevole oltremodo il ſuo ſite ma: comechè paruto fo fe, ch'egli aveſſe portata opinio ne, che'l nutrimento alle parti non diſcorreſſe per quel cá mino, che co'nunemente per ciaſcun ſi credea; impertanto immaginò egli, di ſottiliſſimo vapore in guiſa portarſi per tutte parti dei corpo il cibo crudo; ma non diſse perchè, e comeſi ſmaltiſca nello ſtomaco per renderſi valevole a pe netrare in quegli anguſtiſſimi ſpazj da lui immaginati. Ad imitazione poid'Aſclepiadevolle l'Ofmanno, che in forma di vapore il chilo dalle vene, e dalle arterie miſeraiche tratto veniſse. Ma prima d’Aſclepiade pare che Eraclito, Ariſtotele, ed Eralitrato aveſser detto, che in guiſa della ruggiada il chilo, e l'alimento per lo corpo ſi ſpargeſse. Ma laſciando di favcllar di queſte coſe, nelle quali, non ſolo Aſclepiade, ma tutt'altri Greci andarono errati; egli Aaa 2 è ben 1 cerco, che dovea minutamente Aſclepiade per dar l'ultimo compimento alla ſua dotcrina più avanti diſami nando riconoſcere, chenti, equali, e dove veramente fof ſero nelle membradeglianimali gli ſpazi, e la grandezza, e la figurą, e'l fito, e l'ordine, e'lmovimento di quei cor picelli, i quali o affatto, o in parte turandogli, o più del convenevole dilatandogli, o altri nuovi ſpazj formando ſien poi cagione, ſecondochè egli vuole d'ingenerare i mali negli huomini; perchè fa meſtieri aver piena contezza di tutti corpicelli, onde le parti diſcorrenti, e falde vengan compoſte; e ciò non ſappiendoſi,malagevolmente potralli, come a razional medico fi convienc, alcun ſicuro, e certo rimedio per ragion ritrovare. Dove poicgli dice farſi la freneſia, il letargo, la punta, ele febbri da'corpicelli, chenegli ſpazj inframelli dimora no, perchè egli non ſoggiugne (o forſe no'l ſappiam noi s'egli il Gfacefle ) quale quegli abbian grandezza, e figu ra e, come ſeano compoſti, e accozzati infra loro que'pic cioli buchi? e avvegna pure,ch'egli accennalle avvenir la contina dal rattenimento de corpicelligrandi, la terzanz de'piccioli, e la quartana de’menomi: non è però queſto ſuo parere ſaldamente raſſodato dalle ragioni, ch'egli rap porta; anzi pajon'elle molto leggieri: e ſono queſte, che i corpicelli grādi più agevolmére gli ſpazj riemoiano; e più agevolméte gli ſgõbrino,e i piccioli meno;ma ſe la biſogna pur così andaſſe.com'e'diviſando ne ragiona,queſta contez za fola al medico razionale non baſterebbe al ſuo intendi. mento fornire; ma di ſaper anche il movimento, la figura, el ſito di quelli farebbe a lui meſtieri, ficome poco 'addie tro noi dicevamo; e ſe impoſſibile per avventura una sì fąt ta impreſa pare che ſia da poterſi per intelletto umano co durre a capo, yana ſenza dubbio ricſce ogni induſtria, ogni argomento d'Aſclepiade, o di qualunque altro ingegno, che di ſtabilir ſetta veruna di razional medicina preſuma ), E avvegnachè Aſclepiade, come detto abbiamo aſſai ben inteſo fi foſſe della materia de'medicamenti, a modo che, comeperGalieno ſi narra, egli ſolo, e Dioſcoride d'ogni ſorta dimedicamenti,cosìdell'erbe,come degli arbori,deld le frutta,de' ſughi, de' liquori, e d'altre, e altre coſc fof ſero pienamente informati: nientedimeno, ſe le pruover che intorno alla loro natura, e al loro operare egli nellas ſua opera recò, ancora di leggeſſero, ſi troverebbono, per quel che ſi è accennato, ſolamente probabili, o forſe po co falde ragioni;e meſtier certamente farebbe ad Aſcle piade, alla fola ſperienza, non men che altro più vile Em. pirico ricorrere. Ma ben ciò conobbe egli, ne'l diffimulò punto, e confeſsò apertamente, altro la medicina non ef fere, ch'una cotal ſemplice conghiettura; onde ebbe a dire Plinio, ch'egli: medicinam ad caufas reuocando conjectur.i fecit: o come legge Giacopo Dalecampj: conjecturalem fecit. Nel curar le febbri terzane,e quartane egli ſembra,che non molco bene (comechè'l contrario dica Cornelio Cel ſo)faceſſe in laſciando la coſtuma di Cleofanto antichillimo medico, ilquale alquanto ſpazio avanti al cominciar della febbre uſava dare aglinfermi il vino, e bagnar loro con acqua calda la teſta; ove in inolte altre coſe i coſtui avviſi era uſo di ſeguitare. Vuolanche Aſclepiade, chenon ſi tragga mai ſangue, fuor ſolamente ne'dolori; e ciò perchè facendof queſti da’ grandi corpicelli nelle parti ſalde fermati, c rattenuti, ſe condo il ſuo ſentimento, gli pare, che ſi poſſan trar fuora dagli ſpazj per opera del ſalaiſo. Maegli ſenz'altro fallò; sì perchè i piccioliflimi, e velo ciſſimicorpicelli,che formano il fuoco, cagionar ſoglio no il dolore: come anche perchè converrebbe per la me deſima ſua ragione trar ſangue nella contina; il che da lui inceſſantemente ſi nicga;ſenzachè,ſe com'egli immagina, i corpicelli fermati negli ſpazj ſono cagione de'mali,e queſti tutti nelle parti ſalde conſiſtono: e le liquide, benchè fuor di modo abbondino ne'vaſi, non ne ſono cagioni vere, e preſenti, ma ſolo antecedenti: che monterà egli il trar fuo ra mai le parti liquide de’vaſi per la cura de dolori Mache che ſia di ciò, egli non mi par, che ſi poſſa punto dubitare, chc 374 RagionamentoQuinto 1 } che profondiffimi fi foſſero i ſentimenti d'Aſclepiade,e che cgli, il quale tra'greci medicimaggiore, e più alta contez za ebbe delle cole della natura e ſolo ardì a ſpiar tutto, e a ſcriver tutto, ciaſcun maeſtro più valoroſo ", e più rino mato in medicina a molto ſpazio dietro ſi laſcj; perchè fai meſtieri dire, che grandiflimo danno per la perdita dello ſue opere fia alla medicina, calla filoſofia ſeguito, Quinci ſi vede, che ſcarſemolto, per non dir altro, ſem bran le lodi,colle quali Plinio volle onorare Aſclepiadeo Afclepiadi Prufienfi, condita nova feéta,fpretis legatis, doo pollicitationibus Mithridatis Regis reperta ratione,qua vinü agris medetur,relato è funere homine, ofervato,ſed ma xime/ponfione falta cum fortuna, ne medicus crederetur fi unquam invalidus ullo modofuiſſet ipfe, & victor fuprema in ſenecta lapſu ſcalară exanimatus eſ. Ma laſciando Aſclepiade,che pur troppo n’abbiam dete to, e trapaſſando ad altri ſetteggianti medici; qual e ſi foſſe veramente il ſiſtema della medicina del famofiffimo Antonio Muſa, lo non poſſo ne meno immaginare, non che diviſare; e fe'l favore, e l'autorità d'Ottavio Ceſare potè farlo prevalere a tutt'alori di que'tempi: non per tanto fù cgli da tátoge baſtevole a mantenerne vive le memorie ap po i pofteri. Potrebbe di leggieri eſſere, ch'egli per mag giormentepareggiar Temiſone ſuo maeſtro, fifoffe fatto di qualche nuova forte di metodica medicina inventore. Veggiam di lui ſolamente alcune forme, o ricette di co pofizion di medicamenti aſſai volgari, e di molta poca co ſiderazione, dalle quali nulla comprender puoſſi dalla maniera per lui tenuta nel medicare Ottavio,tutta travolta da quella di Cimolio; perciocchè Ottavio, licome narra Suetonio, quia calida curari non poterat, frigidis curari coa &tus authore Antonio Muſa. Perchè potrebbe ragionevol mente dubitare alcuno, non egli empirico foſſe ſtato di ſet ta; ma per avventura a ciò fare da qualche apparente ra gione egli fu moſſo. Neciò è nuovo, che i razionali ſiva gliano di tal regola; poichè il fece Ippocrate ancora; co mechè egli poi moſtri, ch'aveſſe altro in animo, con inſegnare una fiata il contrario, la ove diſſe,che chiunque ope ra con ragione, avvegnachè ſenza profitto, e infelicemen te fi faccia, dee coſtantemente camminare per la ſteſſa ſtra da: návraisatakóyov meséori,xai pen'govojévwv * xara'dégor,designer swßaives, i inapoy, pérovt QuTð dóžavo iš devās, il che da cao gione a molti medici di pericolar ſovente i loro infermi; i quali veggendoapertamente, che a mal fine rieſcon pure le lor cure, non per tanto ſe ne riniangono, o ad altro divi ſo volgono i loro intendimenti, con graviffimo dan no de' cattivelli. E mi ricorda in acconcio di ciò aver letto in un coral autore ', che avendogli ſcritto un ſuo ſcolare, che avea egli per più d'una pruova cono ſciuto, che'l ſegnare in alcune febbri ', che allora la Città di Vinegia fieramente malmenavano, conduceva a ficura morte gl'infermi: impertanto ſe n'era egli rimaſo cô nolto giovamento di quelli: egli replicogli una gran vit lania, chiainandolo ſciocco empirico, biaſimando il ſuo fa lutevol diviſo, non altrimenti, che ſe colui aveſſe una gra ve ſcelleratezza comeſſo; e diſſegli ſpacciatamente, che tor naſſe al falaſſo di prima, nulla curando, che gl'intermi per ciò fare certamente fe ne moriſfero; e in ciò rammentogli la teftè apportata dottrina d'Ippocrate; non avviſando,che comechè verilimo ſia il detto d'Ippocrate, nientedimeno è ragionevolmente da ſoſpettare non ſia manchevole, e fal lace la ragione, allor che non le riſponde l'uſcimento. E chi ſa poi tra le tante incertezze dell'arte, qual ſia la vera, e legittima ragione? ma come ſaggiamente avviſa Galie no,non è peſo da tutte braccia, ne opera d'huom di poca dottrina il ciò poter ben avviſare. Egli li fu Antonio Muſa, per quel che s'argomenti dal ſoprannome impoſtogli, d'ingegno aſſai nobile, ed elegá te; ne per altro Euripide nel Palamede chiamò colui col medeſimo ſoprannome: εκτάνετ' εκτάνετε ταν πάνσοφον, μεν ουδέν αλγύνεσαν αηδόνα μούσαν. Maqual fi foſſe veramente l'eleganzadell'ingegno d'An conio Muſa, manifeſtamente ſcorger ſi può da quelvaghiſ, fimoEpigrammadi Virgilio. Cuivenus ante alios Divi, Divumqueforores Cuneta,nequeindigno Mufa dedere bona. Caneta quibus gaudetPhabus,chorus ipſeq; Phabi Doctior o quiste Mufa fuiſse poteſt? O quis se in terrisloquitur jucundior uno, Clejo nam certè candida non loquitur. Sivalſe Antonio Muſadella carne delle vipere, enedam va mangiare con non poco giovamento a coloro che da in fanabili piaghe languivano: i quali maraviglioſamente con incredibil velocità, ſe'l ver dice Plinio, ne guariyano. Io yo meco diviſando,che'lMuſa aveſſe ciò appreſo dal vale tiſſimo tra'greci mediciCratero, cotāto daCicerone in iſcri védo ad Attico,celebrato;dicui narra Porfirio che riſanato aveſſe un miſerello ſchiavo, cui in iſtrana guiſa dall of Ia la pelle ſpiccavaſı, fol coldargli mangiar vipere prepa rate a guifa di pefci: Kegπρούτου ικττού οικέτης ξένων περιπεσών νο τήματα, των σαρκών απόφασιν λαβεσών εκ των οδών, τοίς μου ωφέλι ούδέν, ιχθύω- δε κόπο ίχα εκευασθένη, και βρωθένπδιεσώθη της σαρκός συγ 2014 nbbons. Ma ſopra ogn'altro medicainento ſi ſervì Anto nio Muſa de bagnidell'acqua fredda; e egli, e'l ſuo fratel do Euforbo medico di Giuba RediMauritania ne introdur fc primiero l'uſosappo il quale in sì grande ſtima Euforbo crâ, che zvédo egli ritrovata un'erbamedicinale,volle,che colnome d'Euforbo foſſe chiamata. Mail Muſa folea ba gnare i ſuoi inferini prima nell'acque calde,voladosper mio avviſo, aprir loro in prima bene i pori, acciocchè le fredde poimegliovi poteſſero penetrare; quindi entroall' acque fredde gli laſciava agghiacciare.Del qual modo di medica se così narra Orazio nelle ſue piſtole,dimádádo Numonio Valla, ſe in Salerno, e in Velia foſſe così fredda l'aria,che dimorandovi egli poteſſegli giovare a'ſuoi mali; percioc. chè il ſuo medico Antonio muſa, freddiſſima gliele richies deva per dover prendervi i bagni freddi. Aua Quæ fit hyems Velie,quodCalum Vala Salerni, Quorum hominum regio, &qualis via.(nam mihiBajas Mufa fupervacuasAntonius, &tamen illis Mefacit inviſum: gelida cumperluur unda Per medium frigus; ſanè myrteia relinqui, Dictaque ceſsantem nervis elidere morbum Sulfura contemni, vicus gemit, invidus ægris: Quicaput, & ftomachum fupponerefontibusaudent Clufinis, Gabiosquepetunt, & frigida rura. Ma certamente ebbegran ventura il Muſa, che dopo l'el ferſi bagnato in sì fatta guiſa Ottavio, guariſi d'una gra villima inalattia; comechè dica Plinio, che ciò foſſe avve nuto per opera delle lattughe,delle quali egli cibavalo co tro il parere di Cimolio; perchè fu queſti della caſa di Ot tavio ſcacciato fuora; indi cominciarono i Romani ad uſar ſovente nelle lor menſe le lattughe, che per averle anche fuor di teinpo, riſerbavanle nell'oſſimele. Per la qual cura Antonio Muſa in sì rilevato ſtato montonne, e in cotanto credito, cheoltre alle ricchezze, agli onori, e a'privilegi, che per ſe non ſolo, ma per tutti altresì i medici ottenne, l'adulatore Senato rizzogli una ſtatua di bronzo nel ſegno d'Eſculapio, come ne da teſtimonianza Suèronio: Medico Antonio Mufa, cujus opera ex ancipiti morbo convaluerunt, ſtatuam, çre collaro juxta fignum Eſculapii ftatuerunt. E fe'l mio avviſo non m'inganna, d'oro gliele avrebbe certa mente rizzata, ſe più coſto Ottavio morto ne foſſe;percioc chè non bene allora ſtabilita ancora la tirannide, n'avreb be per avventura la libertà egli ricupcrata; e veramente ſe la fortuna fecondato aveſſe il diſiderio de'Romani, non ſa. rebbe riſtato per lui di far co'ſuoi bagni ciò che Bruto, ne Caffio, ne Seſto Pompeo, ne Marc'Antonio con tanta oſte per mare, e per terra non avean potuto adoperare. E bé ſi vide quanto nocevole e' foſſe il modo del medicare del Muſa, quando da lui in sì fatta guiſa trattato, come narra Dion Callio, ſe ne morì Marcello; perchè di preſente e'per denne !, gloria, che guadagnata s’avea; non ſi dee imper 1.2. P; CXLV2Livi, come o telo 378 Ragionamento Quinto poteva nel Dione dicc, che allora buccinayaſî,che eglicon que' ſconci rimedj lo faceſſe a bello ſtudio morire; anzi morilli Mar. cello in Baja, come teſtimonia Properzio, il quale viſse a que'tempi His preſſus Stygiasvultum demiſit in undas Errat, in veftro fpiritusille lacu. Neſembramiveriſimile ciò, che ne va conghietturando quel ſottiliſſimo inveſtigatore, e d'ogni rara dottrina ſovra no maeſtro Giuſeppe della Scala, facendoſi egli a credere, che Properzio cosìvezzatamente la biſogna rivolgeſſe per ‘iſcagionar Livia, e fargliene ſervigio; 'perciocchè allor ſu ſpicavaſi, che in ciò ella certamente aveſſe tenuto mano;vo luit, ſono ſue parole, gratificari ei, que de ejus morte ſu Specta fuitLivi& Aguftę. Ein vero non ha dubbio alcuno, che per machinazione di Livia no meno morir le acque di Baja Marcello,che in quelle di Stabia, la dove alriferir di Servio egli moriſli; e ficome immagina il mede Simo Giuſeppe,la ſua morte avvenne nell'acque acetoſe di quella fonte, che a tempo di Plinio chiamavali di Medio. Io porto opinione,che'lMufa bagnaffe più d'una fiata Mar cello nell'acque calde di Baja, e poi,com'e’avea per coſtu me, nelle fredde il poneſſe, e che alla fine nell'acquecalde colui abbandonaffe la vita; ne dal narrainento di Properzio argomentar fi puote: Marcellum in aquis Bajanis fulz merſum interije: coine va interpetrando lo Scaligero;im perocchè altro nő,è il ſentiméto di Properzio, fe no ſe Mar cello effer morto per quell’acque,colle quali,eſsédo egli si tiſicuzzo, e triſtanzuolo, e col Toverchio lor calore, o rõpe dogli qualche interno tumore, il ſoffogallero: o di ſover chio creſcendo il moviméto del ſangue li diffipaſſero le ſot tiliffime particelle, dalle quali depéde.la vita negli animali, onde repétemente egli mādafle fuori l'anima;coli, la quale eziādio ad altri è avvenuta; ne veraméte fi puote sõmerge re niuno in que’bagni, ſe a viva forza altri non ve l’affoghi; onde maggiormente avrebbe dato cagione alle genti diſu ſpectare non ciò foſſe per opera di Livia avvenuto; e ca to balti del Muſa aver fin'ora accennato. Ma paſſiam oltre a dir di Clinia da Marſiglia. Fu la guiſa del coſtui medica. re nel vero ſtranamolco,e ſuperſtizioſa: imperocchè infi gnevaſi egli di non darmaia malato niuno,o cibo, o medi cina, fuor ſolamente, che in certi puntiaſtrologici di fito, o dicongiunzioni della luna, o d'altri corpi celefti: e bert gli approdarono sì fatte malizie; poichè montò in sì buon nome, e fama appo i Romani,che oltremodoricco in brie, ve tempo ne divenne;delle quali ricchezze, parte cgli co funionne largamente per cinger di novelle mura la propia patria, e parte alla medeſima ne fe dono, acciocchèpoter Le riſtorar quelle, quando huopo ciò lor foſſe. Ma lo non prenderò a dar giudicio dietro il fiſterna del la ſua medicina, non avendene niuna certa, e ſicura con tezza; ma mi darò briga di far paleſe la ſciocchezza di lui, conoſcendoſi molto bene da chiunque abbià fior d'inten dimento non eſſer altro la ſtrologia da lui in medicãdo ado perata, ch'un ſottile, e malizioſo ritrovamento per paſcer divanc ciance, e promeſſe le troppo credule perſone. Ma forſe, come i Romani ſi ſervirono degliauguri ſecondochè la neceſſità il richiedea: ne folean giámai darcominciamé to all'impreſe, ne trar fuora gli cſerciti, ne far giornate, nc alcuna coſa di confiderazione, o civile, o militare ado perare, ne mai ſarebbon andati a gucreggiare, ſe prima non perſuadevano a l'ofte, che gli augurj avean promeſſo loro la vittoria, affinchè i Coldati maggiormente incorag. giati prédeſſero ſperanza divincere: dalla quale ſperanza ſpeſſo certamente naſce la vittoria: così Clinia valevali della ſtrologia, acciocchè gl'infermi deſſero piena fede alle medicine loro preſcritte; e forſe ſe ne valſe altresì egli per iſchivare, quádo più in cõcio gli era di preſcrivere qualche medicina, la quale da lui non convenevole al male foſſe ftata ſtimata;ma dalla minuta gente giovevole, e neceſſaria giudicata; valevaſi dico della ſtrologia appunto a quella guiſa, che coll' artificio degli Auguri i Capitani Romani fi rimanevano dal coinbattere,quando giudicavano non do ver la battaglia a lieto fine dover per loro riuſcire. Il ſiſtemadimedicina di Carmide conyenne ſenza fallo, Bbb 2 che cono. 1 che foſſe non meno fciocco,che ſtrano, come quello, che poſti in non cale, e dannati, e vituperati, i diviſamenti di tutti gli altri medicijalle più rigide ſtagionidell'anno glin fermi, avvegnachè vecchi nell'acque gelide fommergeva; iinpertanto ritrovò gran ricevitori,come Plinio ed altri di Ma per venire allamedicina di Galieno, vana per avvé tura, eſoverchia giudicherà alcuno la mia fatica in abbu rattarla; imperciocchè chiunque avvedutamente v'affiſe rà lo ſguardo, ben toſto ſcorgerà i mancamenti, e i difetti di quella: i quali non tanto dalla natura medeſima della medicina, quanto dal ſiniſtro modo del filoſofar di Galie no naſcer fiveggono;. il quale avvedutiſſimo in fuggire il ranno caldo di ſpiegar diſtintamente le particolarità della medicina, ch'e'medefimoconfeſſa, e proteſta eſſer tanto a ' medici neceffarie: a bello ſtudio par, che riltando in s l'ali, o dando lunghe, e inutili aggiratc, a quelle ſpiegar ne giammai ſcender non voglia. Perchè luo mal grado gli è pur di meſtiere d'abbatterſi,e d'impaſtojarſi ne'mede fimigruppi, e nodi, ove parimente i Metodici, e gli Empi rici tutti s'impigliano. Così con le medeſime ſue pruove, con che egli lorcerca d'abbattere, gli ſi ſcagliano pur con tra i ſuoi nimici;e dicendo, ch'egli inneſta in ſu'lſecco, or dinando falſamente il ſuo liſtema, e ponendo a ſuo talento i fondamentialla medicina, niegano conſtantemente gli eleincnti', e gli minori, e l'altre coſe cutre '; ove egli coil poco ſode, ed efficacipruove la gran machina della ſua medicina pianta, ed appoggia. Ma lo ciò al preſente trala fciando, renderommi lecito di brevemente accennare, che di Galieno la medicina non ifpieghi punto il vero, e fiſio comodo come naſcano, o naſcer poſſano le quattro fue prime qualità,ma ſolamente le ponga già nate; ne men, quella tanto quanto ne diviſa,in qualcoſa il lor eſser conſi ita; perchè poi valeyol non è a manifeſtar la maniera del loro operare, ne quant’oltre la lor forza fi ſtenda, ne pur gli effetti che per lc, o per accidente da lor fortiſcono. Ma come egli maile natura delle qualità ſpiegar potea, ſe la > natura della materia, dalla quale quelle dirivano ed in cui, coine e' medeſimo dice, e naſcono, e muojono, giámai inve Aigar egli non cura; il che quanto monti, agevolmente da ciò potrà comprenderli, che traſandato il conoſcimento delle qualità l'economia degli animali, ne la natura delle malattie, ne le cagioni diquelle, ne i medicamenti mede fimi non ſi potranno in modo veruno comprendere. Per chè non ſarà medico, che abbattendoſi in qualità di ſover chio rigoglioſe, o manchevoli di ciò cheal corpo richieg gafi, poſsa mai,la ragione adoperando alla debita propor zione ad agguaglianza ammendandole riporle; e ne men per la medeſima cagione provar egli mai non ſi potrà, in che conſiſta la árminatío, o nimiſti, che tra loro eſser fi dice; perchè anche ne fiegue, che non ſi ſappiano, ne convenevolméte ſi poſſano perGalicno ľaltre qualità ſpie gare, che ſeconde chiamanli,e che egli pocoriguardando a ciò che gli antichi nel lib.della vecchia medicina ne nar rano, giudica, che cheno non pofsan cola alcuna opcrare; € pure avviſar egli poteva, che l'acetofo, per eſemplo,avve gnachè freddo, o caldo, o temperato, pur nelle ferite meſ lo, dolore, e infiammagione apporti;e che non altrimenti, che dal caldo, dallacetoſo anche l'acetoſo s'ingeneri; e ſe Pamaro fembra a lui effetto del caldo, il caldo eziandio na fca dall' amaro Macertamente ſe Galieno aveſſe bene avviſata la natura delle prime qualità, iion avrebbe giamai fopra quelle il fiſtema della medicinapiantato; concioſſie coſachè ben egli compreſo avrebbe non eſser quelle baſtá ti a ſpiegar tutto ciò, che nella naturä vedeſi. Perchèi più ſcorti tra ſeguaci di ſua ſchiera, ove s’abbattono a diviſar delle coſe della natura, fono ftretti ricorrere alla propria foſtanza, o pur alla forina eſsenziale, all'amiſtà, o alla ni miſtàgalla fimigliáza, o diſimiglianza tra le coſc, e alle qua lità naſcoſe; che è tanto quanto a dire a cagioni, delle qua li nulla non ſi ſa, ne ſaper fi puote. Quindi: per racer del Fernelio, e del Severino: il ſottilif fimo Andrea Libavio amico per altro di Galieno, colſe ca gione di dire: in magneticis, quum omnia elementa excufse runt, elementarii medici nibil inveniunt,nec de proprio ſubje cto virtutis, nec de caufa prima. Mala vero funt princi. pia artis ea, qua inexplicatam tādem relinquüt quæſtionem. Talia verofuntelementa Galenicorum: ex quibus non potes demonſtrare rationem facti offis, carnis, fuccini,magnetis, & cetera ſecundum formam eſsentialem. E Daniel Senner ti, pertacer d'altri aſsai, cosi diſse:ubicumque pluribus eçdē affectiones, & qualitates infunt, per commune quoddams principum infint neceſse eſt;ſicut omnia ſunt gravia pro pier terram, calida propter ignem. At colores,odores, Sapores efse progosov, fimilia alia, mineralibus, metallis, gema mis, lapidibus,plantis, animalibus infunt. Ergo per com mune aliquod principium, & ſubjectum infunt. At tale prin cipium non funt elementa: nullam enim hatent ad tales qua litates producendas potentiam. Ergo alia principia unde fluant inquirenda funt. Ed una tal neceſſità molto bene avviſando molti degli antichi, e poco men, che tutti imo derni Galieniſti, ſe maicoſa alcuna malagevole, ed oſcura intorno all'economia degli animali a ſpiegare imprendono, o ſcorger intendono la natura,e la cagione di qualche ſtra na, c non conoſciuta malattia, allora abbandonato affac to il lor maeſtro Galjeno, e poſta in non cale ogni ſua dot trina, ed ogni diviſamento della ſua razionale, e vana mie dicina, a’nuovi ſiſtemi de'Chimici filoſofanti toſto s’appi gliano, E ben di ciò avvideſi anch'egli Galieno; e rimirando alla manchevolezza,e dappocaggine delle ſue fondamen ta, dopo aver più, e più fiate diſegnato, le facoltà non có fiftere in altro, che nel temperamento, o meſchianza delle quattro primnequalità, avviſando alla perfine mal poterli con quello l'opere della facultà baſtantemente ſpiegare, così ſcagionandoſi apertamente confeſsa, che eſso per non ſaper la natura della cagion factrice, la chiama facoltà, o potenza; c però dice eſser nelle vene una certa potenza da ingenerare il ſangue, e nello ſtomaco un vigor di cuocere', e nel cuor di palpitare; e in tutt'altre parti del corpo eſser anche una tal potenza d'adoperar quelle coſe, chcin eſse ſi fanno. Con cheGalicno apertamente confeſſa cgli me defimo, le facoltà, che coſa mai elle ſi ſiano, affatto non ſa pere; e ſolamente così per via di ragionamento chiamarle. Ma non fi potrebbono con parole ſpiegare, tante elleno, e tante ſono, quelle fiate, che per Galien ſi ricorre ad una cagione, la qual eglimedeſimo, non ardiſce, o corporca, o incorporea determinare; e che egli ignorando, che coſa ſia veramente, inſieme col vulgo coſtumacol nome di Na tur'a appellarla. E ridevole veramente ſi è la maniera,col la quale egli una fiata imprende a ſpiegar,come le partide gli animalifacciano le loro operazioni;dice egli, che ſico me al comandamento di Vulcano, ſecondo finge Omern, i mantici da ſe ſteſſi mandavan fuori, o'più, o neno il fiato; e le dózelle d'oro da ſe ſi muoveano; cosinel corpo degli animali niuna coſa eſſer immobile, ed ozioſa; imperocchè dal ſupremo facitore alcune divine virtù ſono ſtate impreſ fe alle parti di quelli, sì che le vene non ſolo il nutrimento dello ſtomaco deducono: ma l'attraggono, e lo preparano al fegato; ilquale così preparato da' ſuoi ſervi ricevendo lo, gli da l'ultima perfezione di ſangue: müstepOuengo εποίησεν αυτοκίνητα τουτου Ηφαίςκαι δημιουργήμα, και τας μια φύσας ευθύς άμα τα κελεύσαι τον δεσπότην, παντοίων, εύκρηκτον αύτμηνεξανι είσας: τοις δε θεραπείνας εκάνας τας χρυσας ομοίως αυτά τώ δημιουργώ κινουμένας εξ αυτών ούτω μοι και συνοεί κατά το του ζώου σώμα μηδέν αρ. γον μήτ' ακίνητον, άλα πάντα μεία της πεσούσης καζασκευής βίας τινας αυτοϊς δυνάμεις τουδημιουργού χαρισαμύου,κοή, τας μέν φλέβας, ου πα eaγούσας μόνον την τξοφήν εκ της γασφος, ' έλκούσας άμα και πιο παρασκευαζούσας το ήπατι τον ομοιόταν εκείνων τόπον, ως αν και eαπλησίας αυτώ φύσεωςυπαρχού σας, και την πξώην βλάσησεν, εξεκεί YOU MEWCimpéva. Ed è anche manchevole la medicina di Ga lieno, per non faperſi in quella il meſtiere, e l'uficio di mol e molte parti del corpo; perchè malamente l'economia degli animali, ed ondenaſcan le malattie, ei luoghi, e le cagioni, e gli effetti di quelli vi ſi potrà convenevolmente ſpiare. Concioffiecofachè Galieno medeſimo principe, e titrovator di quella, non ebbe ne men ventura di ravviſar baſtan te, j 384 ' Ragionamento Quinto baſtantemente la coſtruttura, e gli ufici delle parti dalı conoſciute;non che d'abbatterſi mainel: canale del Ver ſungio, o nelle vereacquoſe, o nelle vene lattee, o in alą tre, cd altre infinite coie da’moderni deſcritte. Ne ſeppe cgli ne men per ombra il vero movimento del cuore, e dei fingue: ritrovato, del quale ſecondo l'avviſo dell'inge. gnoſilliino Renato, nullum majus, & utilius in medicina eft. Ne del vero cammin del chilo ſeppe boccata; le quali due coſe ſole di tanto pregio, e di tanta conſiderazione parve l'o al nobiliſſimo filoſofante Pietro Gaſſendo, che meritc volméte egli chiamarle ſoleai due poli della medicina; e de queſti due trovati, che l'un l'altro conferma maggiormen te, craſſoda, egli ſommo contento prender ſoleva, quindi fperando, che'la medicina, quando che fosſe, aveſſe avuto a ritrovar qualche coſa diſaldo a pro degli huomini; malli. mamente in quella parte, in cui dall'economia degli ani maliella s’argomenta di riſtorar la perduta ſanità; almen finattanto, che novello lume lo dimoſtraffe l’orſa;imperoc chè della volgar medicina, che tutta ſi briga in diſaminar le qualità, ed in aggiugner ciance a ciance, eglicēto niun non facea: Ma perciocchè queſta ſarebbe opera da trattar con maggior agio, e tempo in un'intero volume, laſcerolla al preſente, riſtrignendomi ſolamente in un capo, ch'a dover lo quì brievemente accennar mi tira. · La maggiore, c principal parte, e pił d'altra alcuna nel meltier della medicina neceffaria,ſenza alcun dubbio quel la fiè, che alla materia de'cibi, e de'medicamenti s'appar: tiene; or queſta nella medicina di Galieno è certamente tutta impirica;conſeguentemente a tutte quelle jacertezze, e a tutti quegli errori, e falli ſottopoſta, che Galicno me deſimo, ei ſuoi ſeguaci tanto, e sì factamente negli Impiri ci dannano, erimordono. Ed è ciò dicanta conſiderazio ne, e rilievo, che in utili a baſtanza, c infruttuofe, e vane le contezze cutte della medicina, ſe mai clla in altre parti alcuna n’aveſc, render puote: le qualitutte ad altro non fono indirizzate, che a diviſare, & proporre agli ammalati i cibi, siinçlicamen:1, 3? fu conced.fipreselierelli 13,45's ra, medicina di Galieno s'abbia certa, e ſicura contezza dell'ea conomia delcorpo umano, della cagione, e della natura de’mali, e d'altre ſomiglianti coſe molte a ciò pertinenti, ed acconce:qual pro giammai peropera di tali notizie dal la razional medicinapotrà ritrarſi? certamente per quel che Io micreda, niuno, ſe non ſi prenda inſieme a diviſar con efficaci, e ben certe ragioni, come,e qual ſorte di me dicamenti, e dicibida dar ſiano agli ammalati. E ciò cos me mai vorráno i Galieniſti convenevolmére porre in ope, ſenza in prima pieno, e faggio conoſcimento dellana, tura, e della propietà di quelli avere? Ma queſto per lor non avendofi, avvegnachè d'eſfer razionali millantino,cm pirica certamente, e incerta farà da dire la lor medicina; per tal modo, che non ne potrà ſe non-ſelargamente il no. bile, e laudeyol titolo dell'Arte meritare. Ed interviene nella medicina ciò che ſi vede anche nella Loica avvenire; che per una menoma particella, che nella definizione, o nel partimento, o nel fillogiſmo dubbiofa fia, ed incerta, toſto dubbioſo, e incerto il tutto anche diviene; e per una pic cioliſſima taccherella ſi sfregia. Senzachè la medicina in tanto è arte, e conſeguenteinente certa, in quanto ella ha ficuri, e certimezzi, quali ſono ſenza fallo i inedicamenti, ei cibi, per ritrarre il ſuo bramato, ed aſpettato fine della ſalute degli huomini. Adunque non eſſendo queſti certi, ç ſicuri, conſeguentemente non ſarà da dir veramente arte la lor medicina. Perchè poi veggiamo iGalieniſti medici, quanto più avveduti, e più dorti eglino ſono, tanto più dubbiofi, e tertennanti ſempremai medicare; ne dalla lor doctrina, e diligenza mai nulla di certo promettere. Nequáto in fin quì ho detto ha biſogno alcuno di pruo va; imperocchè manifeftiffima coſa è, che Galieno mede ſimo, non che altri, con iſchiettezza veramenteda filoſo fo, e degna di lui, molte, e molte fiate apertamente il co felli; ed una infra l'altre mordendo, e biaſimando alcuni medici de'ſuoi tempi, che troppo arditamente ſtudiavanſi di inveſtigare per via di ragione da’ſoli effetti la natura, e la proprictà de’medicamenti; dicendo: non laſciaremoin Сcc. tanto, 380 Ragionamento Quinto tanto, paffar ſenza gaſtigo la ſoverchia tracotáza di coloro, i quali dalla coſtruttura, e dal colore, e dall'odore, e dal fa pore, e dalpeſo, e dalla leggerezza di ciaſcuna coſa del modo,la di lei propria virtù diſpiar s'argométano. Quindi appreſſo ſoggiugne, che tutta la ragione d'eſaminare, e giudicar bene la biſogna nella ſperienza ſopra tutto confi iter debbia, avvegnachè v'abbia aſſai de’medici, chequel la traſandata, ſolamente in avviſar ſe vermiglia, o di buono odor la roſa ſia vanamente s'indugj. Ed a ciò anche riguar dando di Galieno il fedeliſſimo interpetre, Vallelio, così al la fine prorompe. Modoillud unum ftatuimus nullum effe certum argumenti locum ad inveniendum, rei cujuſpiam temperamentum ex ſecundis qualitatibus; fed ex modo, quo nos afficiunt ſolum; ita ut in hac doctrina nullum locum ra tio kabeat, fed tota fit empirica. Con la qual ſentenzas certamente egli abbatte infin da' fondamenti, cmanda au terra la medicina tutta del ſuo maeſtro, e ſpezialmente ciò che egli medeſimo nelle ſue côtroverſie avea in prima infra l'altre sbracciate arditamete millantato: Poj]Galenum non amplius interpollis ars fuit,fed perpetuo eadem veris de monftrationibus confirmata. Ma certamente s'egli riſuſci taffe a' tempi noſtri il Valleſio, rimarrebbeſi per innanzidi gracchiar più del ſuo divino Galieno; e ricreduto a’moder ni ritrovati, non più di colui vanterebbe: nihil ti ejus in ventis adhuc eſse additum: quoniam hic author nihil, quod ad artis attinet conſtitutionem non reliquit inventum, quod pofteriſuperadderent. E tanto più, che il Valleſio fu ſempre amiciſſiino della verità: poichè, per tacer d'altro, non ſi ritien per quella di rimproverare a Ippocrate medeſimo.co. tanto da lui ſtimato, il non ſaper punto di Loica; e più ma nifeſto ſi vede nel fin delle ſue fatiche intorno alla ſacra fi loſofia, ove infra l'altre coſe accreſcendo il numero degli elementi dice, che quelli non ſiano ſtati mai, ne fuora del corpo miſto eſſer poffano: i quali (ſon ſue parole ) actu qui. dem nullibi, potentia vero in omnibus miſtis eſse dicimus. E ben’egli avvedutoſi de’vaneggiamenti, e degli errori di Ariſtotele, ſpezialmente intorno alla materia prima, dice. manifeſtamente, e confeſſa, che quella Aggira, ed avviluppa il capo agli huomini. Ma laſciando queſto ſtare al preſente, dirò coſa non da trapaſſar forſe ſenza qualche ammirazione; anche il mede fimo Galieno, nonche altri s'avvide eller tutta la ſua razio nal dottriaa non altro, che vaneggiamenti, cd inutili ciar le; poichè avendo egli ſognato, che ſarebbon guariti due infermi, ſe lor tratto fi foſſe dall'arterie della inan deſtra copioſo il ſangue, ei prontamente gliele craſſe, e tutt'altri ſuoi ſtudj,ſpeculazioni, e fatiche in non cale ponendo, fe guì l'indirizzamento d'un vanillimo ſogno;e certamente un tal fatto appo me non ritroverebbe niuna fede, ſe Galieno medeſimono’l confeſſaſſe; ed Io il ridirovvi colle parole di lui; πξοτζαπείς υπό τήνων όνειρά τον δυοϊν εναργώς μοι γενομένον, ήκον επι την εν τω μείζξυ λιχανού τε και μεγάλου δακτύλου της δεξιάς χει ρος αρτηρίαν, επέτρεψα ερείν, άχρις αν αυτομάτως παύσηται το αίμα, κελεύσαντG- ούτω τε ονείρατG- ερρύη μεν εν εδ' όλη λίτζα • παραχρή μα δεσπεύσατο χρόνιον άλγημα κατ' εκείνο μάλισα το μέρG- ερείδον ένθα συμβάλα τα διαφράγματι το ή παρ' εμοί μεν ουν τούτο συνέβη νέω την • ηλικίαν όντι • θεραπευτής δε του θεού εν περγαμω χρονίου πλευράς αλ γήματG- απηλλάγη δι ’ αρτηριοτομίας,εν άκρα και τη χaei γενομένης και εξ ονείρα G- επι τούτο ελθών και αυτος. Ho lo tralaſciato a bello ſtudio di riferir poi ad uno ad uno, come fanno il Veſſalio,ed altri,ed altri notomiſti,tan ti, e tanti errori, che nel deſcriver le parti del corpo uma no preſi furono per Galicno: per non recarvi consì lungo racconto più di noja, che per avventura non ſi conviene. Ne menomiho preſo briga d'avviſarciò,che a ciaſcuno è manifeſto, che l'opere di Galieno ſenza alcun paragone ſian più di vane ciance, che di coſe ripiene; sì che quantū Andrea Lacuna l'accorciaffe, a più picciol volume po tca ſenza fallo riſtrignerle. Ne meno ho curato accennar come coſa a tutti nota, chc la dottrina inſegnata da Ga lieno, per la più parte ſia colta di pelo ad altri ſcrittori; e tal volta male da lui inteſa, c peggio ſpiegata. Ho trala ſciato altresì per la medeſima ragione, di narrar come Ga lien poco intendente fi paja delic ſentenze di Democrito, Ссс 2 di que 1 di Placone, e d'Ariſtotele, e come al roveſcio anch'egli ſovente ſpiegar fi vegga i ſentimenti d'Epicuro;comechè da un particolar maeſtro n'aveſſe egli la filoſofia epicurea ap parata; il che ſovente anche egli fa dell'opinioni d'Eralia Itrato, d’Aſclepiade, e d'altri Setteggianti; avvegnachè eº millanti, che di tutte ſette e' ſtato foſſe nella ſua giovanez za da più celebri maeſtri di quelle addoctrinato. Ho tra laſciato anche di far parola dello ſconcio modo del filofo fare, che mai fempreGalieno adopera, non iſccndendo mai alle particolarità delle coſe; e ſe talor e'fi pare, che viſcenda, il fà per modotale,che'l traſcurarlo ſenza fallo farebbe menmale. E nelvero chi è, che non conoſca,co me per lui ſcioccamente ſi filoſofi dietro agli clementi, a' temperamenti, agli ſpiriti', al caldo innato agliumori; la natura delle quali coſe non mai filoſoficamente egli ſpiega; ne mai pruova, ſe non ſe con ſole parole la lor eliſtenza? Chi non fa poi, come egli ſcorriamente favelli dell'inge ncrazione, del naſcimento, del creſcimento dell'huomo, e come follemente e' ragioni dell'ingenerazionedelchilo, e del ſangue, della natura, e degli uficj, delle parti, e di tut te altre coſe all’huomo appartenenti? Chi è per Dio, che non iſcorga, com'egli facendofimenare per la barba dagli ſtrolaghi, vanamente favolegojde giorni critici, e com'e. gli oltremodo vancggj in facendo parole della materia del la natura, delle cagioni, e deglicfetti delle febbri, e d'al tri mali, e particolarmente dell’Apopleſſia,e dell'Epilcilia. dicendo egli, amendue queſti mali avvenire per l'oppila zione de’ventricoli del cervello fatta da freddo, groſo, e tenace umore; recandone per ragione, che di preſenta faccianſi, e di preſente finiſcano; o eſſendogli caduto dal la memoria, o ponendo in non cale d'aver lui altra fiata,più al vero conformandofi, argomentato il palpitar del cuore di botto ingenerandoſi, e di botto riſtando; di neceſſità ca gionarſi da ſoſtanza aerea, e ſottile; ſenzachè ſe ver folle, com’ei dice, dall'intera oppilazion de’ventricoli del cervel lo l'Apoplefia, e dalla non intera l’Epileſia ingenerarſi, converrebbe chemai ſempre dall’Epileſſia cominciaſſe l'A popiel ra, poplellia: e che queſta in quella mai ſempre terminalſe; il che non ſi avviſa, ſe non ſe di rado; ma ciò fa vedere le gran traſcuraggine di Galieno nelle coſe della medicina, che non curoffi mai di aprir cadaveri; perciocchè aurebbe rinvenuto in alcuno oppilati i ventricoli del cervello, il quale no foſſe morto d'apoplesſia,o d'epileſſia;ed altri eſſer morto di sì fatti mali, ſenza tenere ne' ventricoli del cer vello umore niuno. Laonde potrebbe a Galieno addattarſi molto bene quelcelebre detto d'Ariſtotele:87 @ gu dangrasa γα, αλα μαντεύεται το συμβησόμενον εκ τείκότων, και προλαμβάνει και ως ουτως έχον και πειν γινόμενον ούτως. Or non fi coglie da ciò che è detto, che Galieno della coſtruttura delle parti del cervello, e del loro uficio non ſapeffe boccata? il che da egli anche chiaramenre ad inten dere, allor, ch'ci fa parole degli altri mali della teſta; ed ora mi ſovviene,come follemente ei filoſofi dietro alla pau ed alla triſtizia de'malinconici, in così dicendo: ficome le tenebre eſteriori apportano ſpavento a quegli huomini, cheaudaci, o fapienti non ſono, così la malinconia col fuo colore offuſcando, ed ottenebrando la ſedia dell'anima, le reca timore; ne' qualiderti è certamente da ammirare, che ſié più errori che parole; e moſtrafi chiaraméte per eſli, che Galieno niéte foſſe della natura dell'anima, edi quella delle qualità intcſo:eche nó ſapeſſe, che coſa foſſe la luce, che coſa foſſe il colore, ne come le ſenſibilità, e l'immagi nazionc, o'l diſcorſo in noi fi facciano; perchè ragione volmente nel vero, comechè non a baſtanza ne vien egli per Averroe proverbiato, e deriſo. Or come per Dio huom, che ſuperficialmente filoſofu della natura, e delle cagioni delle malattie, mai può in medicando della ragione valerſi?.e certamente, per ta cer d'altro, a Galicno ne meno una terzana ſemplice gli verrà mai fatto poter con ragione operando ſecondo i ſuoi diviſamenti medicare; imperocchèquantunquegli ſi con ceda eſſer vero ciò ch'e' finge della terzana, cioè, che ſi cagioni la terzana dalla collera, la quale fuor delle vene s'imputridiſca:e s'abbia p cofa provata,e vera la ſua rego la, che  la, che curar ſi debba per li contrarj; le Galien non fa la natura della collera, come potrà ſaper mai come s’impu tridiſca, e che imputridir la faccia,e come per la putreſce za vi s'accenda, e ſi comunichi al corpo il calore: e d'onde egli potrà coglier gli argomenti ad inveſtigare ciò che all' altro ſia contrario? lo ſo ben, ch'e' dice la collera eller un umor caldo, e ſecco,corriſpondente all'elemento del fuo co; ma s'ei non fa qual ſia la natura del calore, e della ſic cità, e del fuoco,certamente nulla ei non ſaprà della colle ra, ne comprender mai potrà, come ella, e per chi s'im putridiſca, e come ella cagioni la febbre, e comea ciò ſi poffa dar compenſo. Certamente meglio partito egli avrebbe preſo, ſe della ſola impirica valuto li foſſe;la qua le, ſecondo quel, ch'eglimedeſimoafferma, è aſſai mens fallace della falfa razionale, Ne meno lo dirò, ch'ebbeGalíeno avvegnachè compi laſſe tutto Dioſcoride,diſagio di buoni, ed efficaci medica menti: c che egli la più gran parte delle compoſte medici nedegli altri inedicimeſcolò nelle ſue opere: e che adope raffe ogni maggior diligenza, per apparar rimedj, ricercă dogli eziandio infra altri ſetteggianti, e cra’volgari impiri ci; perchè diſperato egli anco di ciò, fu coſtretto ne'falar fi, nelle purgative medicine, e nella dieta, e ne'giornicri sici tutte ſue ſperanze riporre. Or ſe a queſte,e ad altre cole, che ſe Io voleli ad una ad una narrare per ora non ne verrei a capo, aveſſe avuto Gi rolamo Cardano riguardo, certamente e non avrebbe fra quei ſuoi dodici più ſottili ingegni del modo meſſo Galie no in iſchiera, nc mai ſi ſarebbe laſciato traſcorrer dalla penna ultimus fubtilitate ſed clariſimus arte Galenus metho dis, pulſibus, atque diſsectionibus. Ma quanto a queſt'ul tima parte,ben qual ſi foſſe Galieno, il riconobbe, e l'ad ditò il Veffalio, che più del Cardano ne fudi gran lungu informato. De' poiſi poi,che coſa potea indovinarne mai colui, che per iſpiegarne la cagione, alla facoltà ricorſe, ne punto ſeppe de’movimenti del ſangue? Ma nella loica, quanto egli poco valce, il dica Aver roc, i 1 tropo ſtudio. roc, il dican aldri, che tanti errori gli ſcoprirono in doſſo. Ma queſto è il veleno di tutte ſue opere, il della loica: e fe Galien conobbeſi bene della loica, ficome pare al Cardino, che monta ciò, s'egli non ſapea,ne pro to avea fra le mani ciò ch'avea eglicolla loica a diviſare? e tanto baſti avere al preſente della medicina di Galien fiz vellato; e dicoloro, che dopo lui vennero, paſſeremo omai a far brievemente parole, comechè novelliſiſtemino ritrovaſſer eglino di medicina. Furono di così poco taléto que' che dopo Galieno ſcriſ ſero in medicina, che non ſoppero altro, che le coſe mede fime dagli antichi già dette, malamente per lor compreſe, e peggio rapportate, compilare; anzi in ciò pur cotanto bambi, e goccioloni diinoſtrarõſi,che tralaſciando perdap pocaggine le migliori, ſolaméte alla ſchiuma inteſero; per chè Giuliano Cefare avendo commeſſo ad Oribaſio, che di tutti antichi libri di medicina il più bel fiore coglieſe ', mal puotè vedere il ſuo deſiderio a nobil fine códotto; per ciocchè colui non altro che di fraſche, e di novelle,e di va niſſiine anfanie ſolamente fe faſcio. Ma dovea purGiulia no, ſe filoſofante era, qual ſi ſtudiava di far vedere ad al trui, avviſar ben cgli eſſer queſta d'altri omeri loma, che dello ſciocco berlingatore d'Oribafio; ne alcuna coſa di pregio certamente atrendere da quegli infeliciſſimi tempi potcaſi, ove i medici anche eglino nelle loro dottrine reſi ſervi,parean ſol nati a ſeguir prontamente i fallimenti, e gli errori de'ſecoli traſandati, edi queimaeſtri, i quali ſicome da ciò che addietro da noi è detto ſi può agevolmente ri trarre, anzi alle ciance, e alle lunghe dicerie, che alle fal de operazioni avean l'animotutto, e'l penſiero rivolto. E sì, e tanto queſta ſconcia, e biaſimevol coſtuma crebbe, e diſcorſeper tutto a que' tempi, che i medeſimi impirici, ancora,laſciando da parte le loro pruove, e le ſperienze, tutti nelle ciuffole, e ne'ben compoſti cicalamenti ancor ella s'impigliarono; perchè meritevolmére Galieno una fiata fi biaſimava di quel valentiffimo medico di tal ſetta, ch'avef fe voluto logorar la ſua induſtria, e'l tempo in contraſtare ! ic le ſette razionali; perchè in iſperimentare, e in medicare folamente adoperandoſi maggior frutto certamente confe guito n'avrebbe. E fe gran ſenno quell'altro dottiſſimo impirico, ch'or mi ricorda eſſere dalmedeſimo Galieno co loda mézionato: il quale a un inferino, che avea dato orecs chic ad una lunghiſſima diceria tenuta dietro alle cagioni, alla natura, a’ſegni, e a’rimedj della ſua malattia per un ciarlatore razionale, così diſſe; Io per me non ſaprei io, ond'è, che tu più coſto debbi attenerti alle vane ciance di coſtui, che alle tante, e tante pruove fatte permefin'ora; dal che moſſo lo infermo, diede di botto comıniato al van ſofiſta, e nelle mani dello ſperimentato impirico rimiſeſi. Ma certamente cotanto ciarlare, e anfaneggiare appararo no gli antichi incdicanti greci dal ſoverchio ſtudio della loica;avvegnachè per quella intorno alrimanéte,anzigua fti che addottrinati ftati foſſero in avviſar le cagioni, e vere ragioni delle coſe: cotanto ſconcia, e travolta l'adoperava no. E forſe in ciò potrebbon ritrovar pietà, non che per dono, ſe già l'oſtinazione, e la fracotanza d'alquanti di lo ro non foſſe giunta a tale, che per fermo eglino ebbero, e per coſtante, così veramente andar le biſogne della natų. ra, come eglino le îi davano ad intendere, Ritroſi ancora ſi parvero, e negligenti affai i Greci mę, dici nell'inveſtigar le parti così diſcorrenti, come faldede gli animali; e poco o nulla s’affaticarono per iſpiarne l'e, conomnia, e l'ingenerazioni, e gliavanzamenti delle ma lattie; ma ſour'ogn'altra coſa ſi vider traſcurati in raccon tar la ſtoria de'medicamenti, la quale così dubbia, incer ta, e favoloſa eſſer s'avviſa, come ſe a ſtudio di tal formar la ſtato foſſe il lor principale intendimento; tante, e sì ſpeſ ſe fraſche, e novelle ſi troyano colla verità in quella me ſcolare, e confuſe, E ben ſi ſcorge ciò dalla raccolta, che ne fe il noſtro Plinio; ina foyra tutto dal volume di Diofco ride, il qual da varjantichi autoriritraendo le virtù de'mc dicamenti ſenz'avviſar ſe vere, o falſe elle fi foſſero, di tut te pienamente fece faſtello; e tali vengono poi per Galic no, per Oribalio, per Paplo, per Aczio, per Simon Seti trat tiatto tratto deſcritte, quali appunto.le.laſciò Dioſcoride regiſtrate; ſe non ſe ſcioccamente (forſe per far ſembiante, che da coloro erano ſtate le coſe affai minuramente difa minare ) in qual grado il ſemplice, o caldo o freddo,o.umis do, oſecco egli.fi foffe v'aggiunſero.. Ma ſe talora in qualche menomiſlima parte vien per lo ro mai Dioſcoride ripigliato, certamente il fanno dove e * no'l merita; ficoinc allo.incontro il commendano, dove no'l vale. Ne lo ciò dico per diftorre imedici dalla lettu ra di Dioſcoride, ch'egliè anzi permio avviſo il volume di lui la miglior' opera di quante della medicina de' Greci alle noſtre mani ne lian pervenute: ma perchè eglino vi ſia cauri, guardinghi, e ſenza rigoroia efaininazione alle cofe per lui riferite alla rinfuſa non dian intera credenza. E quinciancor manifeftamente s'avviſa, che non che nulle giovaffe.a'Greci la Razional traccia a difcernere le facoltà de'medicamenti, anziella di vantaggio loro oltremodo nocque; perciocchè più veritieri aflai trovanfi i rapporti delle virtù de’ſemplici appo i barbareſchi popoli, privi, digiuni di lettere, che nelle limite, e ben culte ſtorie loro. Io tralaſcio di far parole de’medicamenti compoſti de’Gre ci, che afai chiaro fi pare, quantodalla fortuna, dal caſo, anzi che daila ben regolata loro ragione ne vengano di viſati; mal porendofi dirittamente accozzare, e comporre infieme imedicamenti femplicida colui, che di quellinon fia pienamente informato. E ben s'avvidero i Greci ine dicanti più ſagaci,.e più ſtimari della. poco lieta uſcita de' loro medicamenti; perchè andando per innanzi maggior mente a riguardo: folamente nel preſcrivere fobrio, e ben regolato vivere, l'arte tutra,e'l ſommodel medicare ripo fero; e sì, e tanto-in.ciò furono ritenuti, e rigorofi, ch'a molti infermi più giorni ogni cibo vierano, cad altri la fo la mulla permettevano. Poco accorti in mole'altre coſe li videro i Greci medici; perciocchè per iſpiarequanto lor foſſe ſtato poſſibile deca gioni delle malattie di tanti infermimorti nelle lor mani no fi diedero maicuca d'aprire icadaveri; avvegnachè una tal Did diligézainutile altrui poſſa sebrare,eflendo malagevol mol to lo inveſtigare ſe ciò che guaſto nelle interiora ſi ritrova, più toſto ſia effetto,che cagion delmale; pur nondimeno alcuna fiata potrebbeperavventura a qualcheutilità riuſci re. Ma quelche più rilieva, ne meno fcriſſero i Grecile ſtorie de'mali, ſe però non le ci ha tolte la lunghezza del tempo; e quelle poche, chenoi ne abbiam focco nome da Ippocrate, elleno ſon cosi rozze, ed imperfette, che r.2- ' gionevolmente huom favoloſe le crede. Perchè non è po co da lodare il diviſo di que'moderni, che ſi ſono attentati di ſcriverle, comeche Pabbian poſcia meſſo infelicemente in opera, o perchè lor venne in talento di raccontar le ma raviglie, ſicome fece Amato nelle ſue ſtorie:0 pure, perchè dalla faſcinazione delle ſette adombrati', vider le coſe al trimenti diquel ch'elle erano; ſe pur non ſon elli imalizio fi, che le coſe ſempre aroveſcio, e travolte ne vogliono da re a divedere; ſicome alcuni di loro cento, e mille fperien ze, matutte falſe, per difender le loro opinioni tutto di van recando. Egli furon poi i Greci cosi per vaghezza brigāti, eriot tofi che, tal ſovente videli, nonche ad altri,ma a ſe me d'elimi far contraſto; ſe bene in ciò non tanto eglino ſono da accagionare, quanto i viluppi, e le malagevolezze di quell'arte, che eglino cotanto con biftentis e vigilie, e fudori ſtudiaronſi d'illuſtrare, emaggiormente offuſcaro no; perchè non ſenza rifa da huom di ſano intendimento leggerafſí la millanteria di Pelope Maeſtro di Galieno, il qual vantava di ciaſcuna coſa di medicina ſaper la vera; incontraſtabil cagione. E già parmi leggiermente avet cocca, e traſcorſa tutta la medicina de'Greci;e quantunque non abbia lo fatra ſpezial menzione d’Areteo, il cuili bro per avventura ſembra ſcritto con diligenza maggior di quanti ne fon rimaſi interi della medicina deGreci,e con filoſofica libertà; pur non è da maravigliarvene, perciocchè egli contien le dottrine medeſime da noi più fiate diſami nate, e riprovate. Finalmente ſi conoſce, che non hanno gran coſa i Greci in medicina adoperato; imperocchè les aveſfer qualche coſa di pro eglino mai rinvenuto, certame te qualche veſtigio appo gli autori, chealle noſtre mani so pervenuti,ne apparirebbe. Ma chedovrem noi dire della Arabeſca medicina ella fu tanto nel paſſato ſecolo abburattata, e premuta,che par che d'altra eſaminazione non le faccia più meſtiere. E ciò maggiormente, che dagli Arabi fu maiſempre il filoſofar in inedicina di Galieno ſuperſtizioſamente ſeguito; del cui mancamento molte coſe abbiam noiragionato. Ma egli è in iſtato più miſerevole la loro ſcuola, che dove alcunas volta Ippocrate, e Galieno non dipartendoſi dalla ragio ne il ver dicono, ella ſconciamente gli abbandona. Nel rimanente poi, e ſpezialmente nella materia de ſemplici: di leggieri immaginar nonpuoſli, quanto ſciocchi ſi ſiano i diviſamenti degli Arabi;imperocchèbaſtava lor ſolamente aver letto, o pur udito, che per Galicno una coſa ſi affer maſſe, che immantinente per vera la credevano.Perchè poi gli Arabi ignorarono la greca favella, l'un ſemplice, e l'un malore per l'altro ſpeſſe fiate colfero in iſcambio; e de’libri della natomia de'greci molte coſe, emolte non inteſero; ma gran male queſto non ſarebbe ſtato per avventura, fe di vantaggio qualche lor ſogno non ci aveſſer frāmeſſo. Ed anvegnachè fra’medicamenti dagli Arabi ritrovati ve ne abbia forſe saluno, che a que' de Greci prevaglia., niente dimeno nulla,.o poco ciò monta riſpetto al grave, e incom parabil danno, ch'apportarono gli Arabial mondo colla ver introdotto l'uſo del zucchero, per cui ſi fono sbandeg giate perpetuamente le Sape, le Mulſe, gli Offimeli ſem plici, e compoíti, e in tante guiſe formati; e ſono a lor ſuc ceduti con graviſſiino danno degl'infermi,i ſciroppi; con cioliecoſachè ſotto il doice del zucchero,un enordaciſſimo, e pungentiffimo fale ſi naſconda, valevole colla ſua morda cità a ingenerarferventiſſimo caldo; ed egli oltre a ciò ab bonda il zucchero d'una cotal tenacità oppilante, e perciò alle viſcere nocevole oltremodo, e nimici; della quale il miele è affatto privo, mercè, che le apiil rendon volatile, Ddd 2 é fottile, e penetrante e, quaſi ad una celeſtial quinteffens za il riducono; perchè facendo nelle viſcere il miele poca dimora, poca, o niuna offeſa può certamenteil ſuo fale re carne, che men acuto anche, e mordace del ſale del zuc chero ſi ſperimenta. Maſenza più diftendermi in queſto, ayendovifaſtiditi pur troppo, lo fo quì fine al mio ragio mare.  vele Icome al partir della fredda ſtagione, dal grave peſo delle neviſgombra la terra, tutta lieta:, e feſteggiante ringiovaniſce, e allo ſpirar de'tiepidi zeffiretti laſciando ležiarſe, e ſquallide ſpoglie; di vaghi fio ri, e di fronzute piante fi riveſte; e fiabe belliſce: cosìparimente;o Signori,le ſcienze, e le più no bili artiscellati ifuriofi diſcorrimenti de'barbari, che mala mentemalmenare l'aveano, cominciarono aʼnoſtri più yi cini tempiper l'Italica induſtria tratto tratto a farſi vedere, a poco a poco riacquiſtando l'antico', e forſe altro più rag guardevole ſplendore.Già la Greca, e la Latina favella,d'o, gni ſcienza antichemadri, riſurte fiorivano; già la Poeſia ', egli ſtudjtutti del ben parlare erano in ſu'l far frutto; ne l'Archițettura più, 12.Muſica,o la Pittura, o ciaſcuna altra arte abbattutalanguiva; ma pur la medicina ſola;e la Filoſofia nel comun ſollevamento, in vil ſervaggio vivens do ſe ne giacevano oppreffe, efgombinate dal barbareſco giogo d'Ariſtotele, e di Galieno; quando piacque finalme. te a colui, che impoſe a tutte umane coſe aver fine, che fi levala  3 1 Ievaffer fuſo alquantianimigrandi, e generoli, quali NOR G fperavano, e non poteano per huom mai immaginarſi, ch, avallar doveſſerola ſignoria di coloro, e la medicina, e la filoſofia alla primieralibertà, e al perduto pregio riporres O ſpiriti veramente generoſi, e da elſer commendati per quantoil mondo durerà; i quali ardirono prima di far ri paro all'impetuoſo torrente dell'abuſo comune; e ad op porſi sforzatamente all'univerſalconſentimento delle gen ti. Maggior gloria certamente fu di coſtoro, i quali furo no i primi a rompere il guado a sì ardua impreſa, e arice ver a battaglia affrontata i pertinaci ſeguitatori di Galieno: che di coloro, i quali in prima ſetteggiando a lor talento, nel confuſo rimeſcolamento della medicina s'argomenta rono di trarla moltitudine ancor libera a’lor ſentimenti; c. s'eglino, i quali riduſſero la medicina a qualche più toſto apparente,ch'eſiſtente ſtato di perfezione, ed i primi ri trovatori di quella in cima d'altiſſima gloria aſcefero,e for montarono: che farà da dir di coſtoro, i quali, non che ab battuti e'fi foſſero in terren ſoluto,e d'ogni erbaccia purga to: anzi cotanto duro, e mafagevole, e ſpiuoſo il ritrova rono, che ben convenne loro in prima durar lunga fatiga a liberarlo da’bronchi, e da'pruni, c da’ravvolti ſterpi,che l'ingrombavano,anziche vi poteſſero granello riporre. Ne ſembra certamente cotanto malagevolel'introdurre da pri ma alcuna coſtuma infra le rozze genti: quanto egli è du To, e quaſi impoſſibile, allor che quelle già auſare viſono, e tutto che indurate,a far loro cambiar uſanza, ericre derle, e ſgannarle de loro errori; perchè è da dire, ches molto maggior vanto foſſe deʼriſtoratori della guaſta, e mal menata medicina a rimetter fe medeſimi in prima, e poi gli altri al diritto ſentiero: che non fu di coloro, i quali non incontrarono malagevolezza niuna d'invecchiata, cpre ſcritta uſanza da ſuperare. Ma ciò al preſente laſciando, trapaſſeremo a narrar de'noſtrivaloroſi moderni, ſecondo il noſtro diviſamento; e diremo chente, e quali ſiano le loro opinioni intorno alle coſe più ragguardevoli della me dicina. Egli fembracertamente, che prima diciaſcun'altro l'al cilimo Chimico, e filoſofante Bafilio Valentino, monaco diS.Benedetto: fatto capo a' ſuoi tempi nella Lamagna co tro la ſignoreggiante medicina di Galieno, e quella degli Arabi, perpiù d'una prưova conobbe a deboliſme fonda menta quelle attenerſi, e in ſü’l ſecco ſenza fallo effer in peſtate;concioffiecoſachèprive di ragioni,e manchevoliol tremodo d'efficaci medicamenti végano alla per fine ſtret re a riporre tutta loro ſperanza di vincer le pertinaci,e gra vi malattie nella ſola natura: comcchè co ' falalli,e colle purgagioni, e con altriſconcj, e violenti rimedi render la ſogliono ſovente ſpoſfata, e poco acconciza fofferir la vio lenza del male. Perchè argomentoſſi dicomporrenuove forti di medicamenti profittevoli a malati ſenza riſchio di piggiorar loro con quelli di nulla la conpleſſione. E con ciofoſſecofa,che eglivalentiſſimo Chimico foſſe, e molto in folver icorpi maſſimamente minerali affaticafléfi, diede egli cominciamento a quel ſuo famoſiſſimo ſiſtema di medicina, chepoicompiuto,e perfezionato venne da Teo fraſto Paracelſo. Ma comechè ponga egli per fondamen to della fua medicina que’tre principi, de'quali anche ſer veli il Paracelſo: çiò ſono zolfo, ſale, e mercurio; non però di meno diſcorda egli non poco dal Paracelſo in ciò, che egli giudica corali principj ingenerarſi dagli elementi. Nel qualſuo ſentimento certamente egli non poco falla, laſciandoli ſcioccamente menare alla piena del folle vulgo in ſupporregli elementi; perciocchè ben doveva egli avvi ſare, quelli ſolamente eſſer nel cervello d'Ariſtotele, e di Galieno: e che tutti loro argomenti, malimamente quel lo, che ſembra aver qualche ſembianza di vero, cioè, che icorpi tutti in iſciogliendoſi, a quelli come aloro primi componenti ritornino, ſiano yani, e fallaci; alla qualcoſa fare bédovevalo ajutare lanotomia vitale;mal'aver lui uſa. to qualche tempo nelle ſcuole in ciò pur dovette abbaci narlo. Adunque egli giudica, che tutte coſe abbian lor materia, e lor forma, onde poi prenda dirivo ciaſcuna lo ro operazione: e che queſta dalle ſtelle venga ingenerata,e dagli elementi formata, e da’tre principj ſolfo, fale, e mer curio prodotta, e perfezionata; ma pur.dice egli una fiaca l'acqua eſſer la primamateria ditutte le coſe; que, ſon fue parole, exficcatione ignis, & aëris in terram formata eft. Oltre a ciò egli afferma, in ciaſcuna coſa dimorar cotali fpi riti vivificanti operativi, i quali G nutrichino, e fi foftenti no de'corpi, ne'quali albergano: che in queſti ſpiritila vir tù, e la forza d'effi corpi ſpezialmente conſiſta; ma come chè queſte, e altre fraſche aſſaiintorno alla natura di sì fat ti ſpiriti egli vada ſcrivendo, pur ſi potrebbono le ſue parole intendere allegoricamente, e con ſentimento forſe da non diſpregiarſi: ſe non ſe moſtra manifeſtamente così in: ciò, comein altri ſuoi divifamenti eſſere ſtato lui molto [um perſtizioſo, e vano nel ſuo filoſofare. Perchè o colpa foſſe de'tempi, o altro, che il ſi faceſſe, comechè egli intenden tiffimo foſſe ſtato della vital notomia, e che con quella ma raviglioſe coſe aſſaioperate aveſſe, avviſando ſottilmente i più naſcoſi ſegreti della natura; non però di meno non ſe ne ſeppeegli sì ben ſervire, che penetrare aveſſe potutoi veri principj,onde le operazioni, e gliefferci de vegetabi li, degli animali, e de'minerali procedono. Mapure egli, come non poco arricchita aveſſe de' ſuoi comiendevoli ritrovati, e di ſottiliffimi divifamenti la me dicina, e che ſaggiamente giudichi infra l'altre coſe, che dal lavorio delle chiniche preparazioni de' corpi naturali ne lieguano,naſcere il certo conoſcimento di cotal arte;im pertāto.egli manifeftamête avviſando l'incertezza di qucl la, ne conſiglia, econforta a riguardar ſempre all'uſcimen to de’rimedj; perciocchè dal nocimento, e dall'utile, che quelli recano a'malati, può il medico avveduto prender có figlio, ſe debba più per innanzi adoperargli. o nulla, quanto al fatto del medicare, il Va lentino delle chimiche operazioni fi valſe; imperocchè qua tunque belli, e grandi, e copiofi medicamenti gli venine ro, mercè la chimica conoſciuti; la cui vircù egii profone damente ſpiò: e più avanti facendoſi giugneſſea penetrar la propietà de' tre principi nondimeno non tols'egli a {pie 1 Ma poco, gi!re Del Sig. Lionardo di Capoa 401 gare, come da quelli s'ingenerino, el guariſcano i mali. La quale imprela certamente fu dopo luidal Paracelſo, ſe non compiutamente fornita, a grande ſtato condotta; av vegnachè il Valentino non tralaſciaſſe affatto di metternes fuora da quando in quando qualche profittevole ammae ſtramento; ſicomeè quello chea’mali ch’abbian fatto cal lo, e di ſoverchio ſi fian radicati in corpo, ſolo le fifle me dicine approdar poſſano, ficome quelle, che fin dalle ra dici gli sbarbano; le non fiſſe ſaggiamente a quell'acques piovane aſſomigliando, le quali toſto diſcorrendo per le Atrade, non penetrano per fonghe, o per foſſati fin nelles viſcere della terra. Siinigliante è quell'altro ſuo avviſo, che Come d'affe ftraechiodo con chiodo, così l'un ſimile vaglia l'altro a curare; allegandonc l'eſem plo del veleno, il quale non altrimenti che la calamita ſi faccia il ferro, tragge, ed aſſorbiſce l'altro veleno; ed in veggendo egli, che l'acqua arzente guariſce la Riſipola, immaginò, che il caldo di quella l'interior calore di queſta attraeſe. Ma da queſto diviſamento può ciaſcuno far con, ghiettura, ch'egli entrato ne’valti regni della natura, qui vi poi li ſmarriſfe, ne fructo, e pro che dovea ne riportaſ ſe; imperocchè s'egli ſi foſſe dirittamente appoſto, avreb be detto, che ingenerandoſi la Riſipola dall'acetoſità, gli Alcali volanti dello ſpirito del vino ciò adoperino; il che ben ebbe inteſo il Paracelſo, onde potè cotant'erbe di ſimi li alcali volanti ripiene,valevoli a far contraſto all'acetoſità delle ferute agevolmente rinvenire, e compornc tanti be veraggi, che vulnerarj ſon detri. Maciò, ch'è di maggior conſiderazione, cgli non curò mai il Valentino d'inveſtigare (il che forſe a lui non guari malagevole ſtato ſarebbe) la figura, e tutt'altre proprietà di quelle particelle, onde i tre principj ſono formati, eco me, ed onde le loro operazioni avvengano; in tal guiſa avrebbe egli potuto felicementenella filoſofia innolcrādoſi ſcorgere, come il ſuo Vulcano fia conoſcitore, egiudica tore ditutte le coſe ne’ere principj ſolvendole, ficome e'di Eec CC CON  ce con quelle parole, che dal tedeſco idiomanel latino così furono dalChercringio portate; Quum Chalybs durif fimusfilice duro ſolidoque percutirur, ignis ignem excitat, commotione vehementi, & - accenſione eliciente occultum ful phur, fiveignis occultus manifeftatur.commotione ifta vehe menti, eper aërem accenditur, ita ut verè, & efficaciter ardeat; fali maner: in cinere, &mercurius inde fe proripit una cum ſulphure ardente. Ma ſe mai avutoegli aveſſe pie na contezzadella naturadel fuoco,di cuipoteva informar ſi dalle continue operazioni, che gli ſe ne parávano innanzi agli occhj;séza fallo,egli in sifatramaniera none avreb be ragionato.. E ſe in cocal guiſa foſſe andato confidcrara mente negli alti miſterj della natura innoltrandoſi, NTOI farebbe ſtato da cotanta maraviglia ſoprapreſo per lo con tinuo ſcambiamento delvino in aceto. Ne ſarebbe egli ſta to nelle ſue opinioni cotanto bergolo, e poco ſtabile;:fe forſe ciò non avvenne in lui dall'accorgimento, ch'eglieb be del noſtro corto intendimento, e dalle malagcvofezze in cuici avvegniamnoi fovente in filoſofando. Il perchè preſe ad eſclamare una fiata. Bone Deus !'natura à nobis bominibus quodammodo indignatur tota: pervideri ! cum vi tri noftratempus conftitueris adeobreve, & cu verus omnia judex multa refervaveris tibi in creaturis; que non ſcientiæ, fed admirationi noftræ reliquiſti. Ma tempo è omai di venire a Teofraſto Paracelſo; ne già m'invicrò lo per la ſtrada dall'Eraſto, dal Cortino, dal Riolano padre, e da altri famoſi Galieniſti calcata; i quali a biaſimar in lui ciò,che eglino medeſimi non comprende vano fi miſero, porgendo giufta cagione ał gran Ticone di dire: Paracelſus pluribus oppugnatus quam intellectus; e lor fatica impiegando intorno a materie bazzeſche,e gher minelle s'ardirono a rimbcccar quelle ragioni, che già più fortunatamente avea il Paracelſo contro illoro Ariſtotele, e'llor Galicno adoperate: intorno a' quali ſoleva il Para celſo dire, che con una ſola ſperienza arebbe cento ſuppo fte dimoſtrazioni d'Ariſtotele abbattute, e mandate a ter ra; ma rimarrò ſolamente pago di toccar pochiſſime coſe di mio talento, e ſpezialmente quelle, ſopra le quali il di ftema tutto di lui vien piantato.. Lamedicina del Paracelſo, quantunqueragionevolme te a chi può dar di queſte coſe perfettogiudicio molto più veriſimile dell'altre razionali fi paja, e che tanto ne' pro fondi miſteri della natura innoltrata, e profondata lilia, cheminutamente ragguardar poſſa a quelle minuzie, per le quali ſolamente l'arti alla debita perfezione montarpor fano: ediſceſa ſi veggia più di tutt'altre medicine, ad ogni menomillunaparticella diſtintamente Itacciare: coſa, la quale già tanto da Galieno fu nella medicina fofpirata; e quantunque nel diviſarle cagioni,e la natura delle målar tie, e diciù, ch'a quelle, ed all'economia degli animali s'appartenga, valentiſſimo egli fia: edil ſuo autore abbia trovati, e poſtiglorioſamente in uforimedj valevoli, ed ac concj a riſanare ancheque’mali giudicati per addiecro infia nabili dagli antichi; e quantınque alcuno dir giuſtamen te vaglia, aver lui aſſai più di lume, e di vantaggio, e d'ui tile recato al mondo co'foli ſuoi libri del Tartaro, che co® loro infiniti, e voluminoſi libri di medicina tutt'altri fcric tori, così Greci, come Latini inſieme s'ayefſer mai fac to; non però di meno chiunque con occhio filoſofico, e fpaffionato ben ſotcilmente vi badalſe,agevolmente ravvi far potrebbe la dottrina per lei inſegnata eſſer alquanto manchevole, ed intralciata, e le ſue saccherelle, comechè minori forſe dell'altre, avere anch'ella. E tutto ciò certamente avviene tra per la natura della medicina, impoſſibile a comprendere ad intendiméto uma no, come di ſopra baſtantemente è detto; ed ancora per chè il Paracelſo a tante, e sì diverſe, e ſtranemaraviglie da lui nuovamente nella natura offervate, a guiſa d'occhio da troppa luce abbagliato, Che dal troppo veder men'alto intende, tutto vinto, e tremolante più oltre non osò guatare: ſule prime ſoglie della natura riſterteſi, ove maggiormente a fpiarla per tutto inuoltrar fi dovea; così Nun altrimenti ſtupido fiturba Ece 2 Il montanaro, e rimirando ammuta, Quando rozzo, e ſalvatico s'inurba. Perchènon men, cheGalieno già de'ſuoi principj s’aveffe fatto: grazioſamente immaginandoſi la natura della corpo rea ſoſtanza, e delle quattro primjere da lui dette Relol lacee qualità: ene men inveſtigando onde avvenir poſfa, ch'elleno sì poco valevoli ſiano nel corpo umano ad opera re, e cheniuna parte abbiano nelle gravi inalattie; e per altre,ed altre ragioni,nelle medeſime tacce delle quali ac cagionali Galieno poco meno incorrer fi vede. Così il Pate racelſo intorno a'ſuoi principj non miga già, ſicomea buo.si filoſofíte covenivaſi,riguardò alla natura, o alla proprietà, o a’modi del loro operare;ſenza le quali contezze non può certamente, ſe non murarſi a ſecco, e poco durevol ſiſtema di razional medicina in piè rizzarſi. Ma acciocchè quanto Io dico più apertamente ſcorger ſi poſſa, convien la coſaw più minutamente diſaminare. Queſta grandiſſimamaſſa dellVniverſo e' fi pare, che da Teofraſto Paracelſo venga in due globi partita: uno al to, che due elementiin ſe contiene, ciò ſono il fuoco, Paria: e un'altro più baſſo, che ſomigliante due altrine ha, e ſono l'acqua, e la terra. I quali quattro Elementi chia manfi ancora da lui vacuitadi;perciocchè vuoti d'ogni cor po eglino ſono:altrimenti no potrebbono da' corpi agevol mente efſer ingombri. Sono adunque gli elementi incorpo rei,cioè a dire privi d'ognicorporea diméfone. Ma in que Ha vacuità dice egli, chela luce, e le ſeminali ragioni di tutte cole dal loprano Facitore meſſe furono, allorches quello, di nulla criò da prima l'Univerſo; quindi v'aggiun ſe le ſembianze, e le coperte propie de corpi, le qualiallor che quelli veſtono, varie, e diverſe coſe ci producono. Per quel, che ſi poſſadall'opere del Paracelſo argomentare: i principi primi delle coſe fon di due inaniere; perciocchè, o ſono principj propiamente tali, o alcuni di que', ch'elemé ti comunemente diconſi. Gli elementi ſono due, uno è fecco, il qual terra dannata, e cenere, carena anche tal volta chiamaſi: l'altro è umido, il qual flemmafi dice. La terra dannata non ha virtù alcuna, ſalvo che d'aſſor bere, e impiaſtrica,come dicono; e la flemma parimente al tro non adopera, che ammollare, e inumidire; perchè ſon dette principi paſſivi. Ma non ſolamente la ficcità, e l'umidore, giudica il Pa racelſo, che in nulla s'adoperino in queſta maſſa mondiale; ma quell'altre dire qualità ancora,che dalle ſcuole agli ele menti s'attribuifcono, dice egli ad altro non ſervire, fuor folamente, che a riſcaldare,o a raffreddare; perchè da lui, tutte, e quattro chiamanſi Relollacee, cioè a dire ſeioperd te, e ozioſe; perciocchè non hanno elleno virtù alcuna ſe minale. Nelche ſi pare, che il Paracelſo imitare abbia vo Juto Ariftotele, ilquale vuol, che i ſemi tucti ſian d’unco tal calore forniti, propiamente celeſte, e diverſo affatto dal calore elementare. Perchè è da dire, che fecondamente chè giudica il Paracelſo, le quattro volgari qualità altro non adoperino, che cccitare, e riſvegliare le féminali virtù nc'corpi,ove clle ſono. Ma i principj propiamente tali, che attivi egli chiama; ſono anchetre, fecondo lui; ciò ſono il Sale, il Solfo, e'l Mercurio. Egli è il ſale una ſoſtanza ſalda, ſavorofa, la, qual disfaſli, e ſolveſi volentieriper acqua,e per caldo derato fi ſecca, e li raſſoda: e per ſoverchio fuoco ſi fonde. Il ſolfo è un corpo liquido, untuoſo, agevole ad accender fi. E dalſale vengon tutti ſapori alle coſe: e per lo ſolfo gli odori in quelle fpirano. Ma il Mercurio è un coralli quore fottiliſſimo, echiariſſimo, il quale per la ſua ſottie gliezza in tutto penetrando, agevolmente ſi diſperde, ei fvaniſce. Or sì fatti principi giuſta i ſentimenti del Paracelſo abbi fognan tutti neceſſariamente a comporre, egenerare cia fcuna coſa del mondo; perciocchè il ſale è il fondamento di tutta la faldezza de'corpi; e non potendoſi il fale meſcola re, s'egli in primanon li ſolve in minutiſſime particelle, fa meſtieri della fleminaa ciò adoperare. Ma la flemma non può meſcolarli col fale per cóporre i corpi,ſenza l'ajuto del ſolfo; il qual parimente per la ſua untuoſità non potendo mo: ſi age 406 Ragionamento Sefto fi agevolmente partire, ficomefi conviene, abbiſogna dell' acqua; la qualcompreſa, e impregnata del ſale ſciolto, fonde il ſolfo, e maggiormente disfallo, acciocchè poſla diſcorrere, e meſcolarſi acconciamente a formarle coſe del mondo. Vien poiil mercurio, il quale a guiſa d'anima nel corpo, per cutto penetra, e diſcorre; ma in niunama niera potrà certamente ingenerarſi fermo, e ben faldo cor po, ſe per la terra dannata in prima non ſi ſuccia, es’at trae la ſoverchia acqua, chesformatamentel'ammolla: per la qual terra finalmente alla debita perfezione, e all'ultimo for compimentole maſſe tutte de corpidivengono. Per le quali coſe dimoſtrandone il Paracelſo, che diſtruggendofi qualunque corpo, in queſte cinque ſoſtanze folamente fi lolva: e contendendo, che cotaliſoſtanze non poſſano cer tamente per cola del mondo in altro giammai cambiarli, o folverſi: egli inſiemeraffermail ſuo diviſamento, e abbat te ſenza fallol'opinione d'Ariſtotele, e di Galicno intorno a’loro priini quattro elementi. E sì avendo ben tutto ciò che fa meſtieri alla natura de’principi, queſte ſole ſue ſoftá ze, e non altre dice il Paracelſo eſſeri veri principi delle core. Ma Io per manifeſtare il mio parere intorno a cotal di viſo del Paracelſo, non vo'ora opporgli, che y’abbia alcu ni corpi, i quali, come affermal'Elmonte, e altri valoroſi maeſtri in Chimica, non ſi poſſano maidisfare, o fciorre nelle loktanze da lui avviſate; ficome certamente è l'oro, e'l mercurio volgare;perciocchèegli agevolmente riſponder potrebbe, ſe aver bene cotali corpi ſoluti; comcchè ciò 2 coloro malagevol fia, ſenza il vero artificio adoperare. Ne meno dirò, che cotali ſoſtanze s’ingenerino di nuovo allor che disfannoſi i corpi: e che prima in quelli in niun modo alliguavano; perciocchè potrebbe egli ancor dire, che'lle gno per qualche ſpazio di tempo macerato nell'acqua, le poi ſi brucia, non dimoſtra nulla di ſale: ſegno manifeſtif fimo, che'l ſale allor, che in bruciandofi il legno nonmace rato ſi pare, era in priina nellegno: e che dal legno l'ac qua n’avea tratto colſuo maccramento il ſale; anzi dirà il Paracelſo eſſer alcuni corpi, ne'quali ſenza artificio alcuno, e ſenza ſolverſi v'appajano manifeſtamente cotali principi, ſicome nelle ſugne, e in altri corpi grafli', e uotuolije nelle ulive anche non ſolute il ſolfo-apertamente li ſcorge; per ciocchè in quello ſommamente abbondano; ne a trar da quelli il ſolfo fa luogo lungo ftudio di chimica, o ben fati colo favorio di diligentemaeſtro; che poſfiamo dire eſſer il ſolfo quivi tratto per l'artificio del fuoco, e in canta abbon danzaefferſi di preſente ingenerato. Nepuò il fuoco, per direvole, e gagliardo, ch'egli fiaſi ciò adoperare; percioc chè dalla terra dannata', o dalla flemma, ove fólfo,ne mer. curio, ne fale non alligna, non ſi potrà per opera difuo co, orlalaro chimico ſtrumento trarne goccia giammai. Tralaſcerò pure di dire collElmonte, che dall'arena; dalla ſelce, non maiſolfo, o mercurio ſi può trarre; per ciocchè riſpõderebbe il Paracelſo in cotalicorpieſſer quel le ſoſtanze cotanto ſcarſe, e poche, che nel volerle diſa minare ſi difperdono. Ne recherò, che per far pruova diciò l'Elmonte con ſuo ſottiliffimo artificio ſciolle in un purisſimo ſale l'arene, e le pietre: le quali s'avvisò egli no aver perciò perduto nulla del loro primjero peſo; percioc chè fa pochiilimaquantità delſolfo, edelmercurio ſvapo raci,quello cotanto poco fa menomare,che malagevolmen te fi pud per huomo avviſare; ſenzachè ben può penetrar qualche coſa in eſſi corpi, quando ſolvonfi,la quale riſtorar poſla il perdimento delle ſoſtanze, che ne ſvaporano. Ne dirò pur coll'Elmonte, ſcambiarſi infra loid vicen devolmente corali principj; conciofoſſecofa, che egli con maraviglioſo artificio ſcambiato aveſſe il ſale in olio, e l'o lio poi tramutato in acqua; perciocchè non così agevol mente il Paracelſo avrebbegli in ciò preſtato tede, fe pri ma con gli occhj propj non l'aveſſe veduto. E medeſima menteciò riſponderebbe il Paracelſo a quell'altra novella dell'Elmonte, ove egli vantaſi da ſedici once di gromma di vino aver tratto per diſtilazione un'oncia d'acqua, due once, e mezza di ſale, e dodici d'olio, perchè egli n’argo menta poi contro al Paracelſo, che l'olio ſi ſia nuovamente dal Cale acetoſo della gromma ingenerato; conciofoſſecofa, che ſe tanta quantità d'olio ſtata in prima vi foſſe,ſarebbe & a più d'un ſegno certamente manifeſtaţa. Ė alla per fine laſceròmolti, e molti altriargomenti da rintuzzare il ſiſtema del Paracelſo, e i ſuoi principj: ficome quelli, a' quali cgli agevolmente riparar potrebbe. Sola mente dirò, che quantunque lo ſcioglimento ottimo mnez zo fia da dovereavviſarei principi delle coſe; non però di meno tra per la ſcarſezza degli ſtruinenti, e di tutto ciò,ch ' a perfettamente fornirlo ſi conviene, e ancora per lamala gevolezza dellavorio, ſi rende quaſi egli impoſſibile; ſen zachè nello ſcioglimento delle coſe,moltec molte lor por zioni delle più ſottili, e però forſe più operative fa mestier, che ſvaporino, e ſi diſperdano prima di potereſſer avviſa te; c altre comechè pur virimangano, nondimeno per la loro picciolczza non si poſſan comprendere, non che per altra notomia più ſottile diſaminare. Ma ſopra qualunque altro argomento, che ſoſpetti rens de i principi delParacelſo quello ſiè,che colle ſuddette ſue cinque ſoſtanze egli non iſpiega, ne ſpiegar certamente po tea, come da loro le ſenſibili qualità ad ognun conoſciu te, e quelle, ch'egli chiama Cherionie s’ingenerino,eco me operino, ſe pure il fanno; ne è maraviglia, che'l Para celſo ciò non abbia adempier potuto: da che egli non ſa qual ſia la lor natura; ne certamente ſaperla, anzine meno inveſtigarla egli giammai poteva, non ſappiendo la natura della ſoſtanza,onde quelle produconſi. Perchè egli fa meſtier confeſſare, che la medicina del Paracelſo manche vole nella ſua maggior parte ſi ſia. E ſe egli cotanto valoroſo ſi foſſe ſtato in iſcienza, qual veramente giudicavaſi, dovea ben'egli in avviſando, che co'ſuoi principj non ſi potea render ragione dell'apparenze delle coſe, prender quinci cagione di ſoſpettarenon certa mente altri foffero i veri principj di quellc, e quindi forte ſtudiarſi d'inveſtigargli; perciocchè ſe a ciò aveſſe porav ventura egli indugiato; ſenza fallo avviſato avrebbe, le varie, e diverſe figure delle menomiſſime particelle eſſer de'ſuoi principj cagione; perchè agevolmenteargomentar n'avrebbepotuto come, e perchè quelli operaffero: eche non eglino, ma il corpo medeſimo in varie, e diverſe brice fgrecolatose partito, forſe delle coſe del mondo il vero prin cipio, onde poi ciaſcuna operazione di quelle prendeſſera dice, e cominciamento. Ma intorno alla maniera dei medicare del Paracelſo, ſe credenza preſtar ſi deve a que’libri, che ſotto ſuo nome vanno, èda dire, chemolto vaga, e in coſtante ella ſi foſ fe, e di pochiſſima fermezza. Il che altronde certamente non nacque, ſe non fe dall'avvederſi, ch'egli fe in medicão do, dell'incertezza grande dell'arte; non però di meno egli pur convien confeffare, niuno,per quel che ſi ſappia, aver avuto corante, e cotanto efficaci, evalevoli medicine a fgombrar le più pertinaci, e diſperate malattie, quanto il Paracelſo; e sì ſaggiamente ſeppele egli a tempo adope rare, che non fu certamente infra gli antichi medico co tanto valoroſo, e avveduto, ch'a molto ſpazio, così nell' uno, come nell'altro non gliandaſic dietro. Perchè in tā to pregio, e rinomèa montonne egli preſſo le genti, che non huomo mortale tanto, o quanto della medicina cono ſciuto,ma non altrimenti che dal Cielo per ſalvamento del genere umanomandato comunemente giudicavanlo. Ne v'increſca al preſente aſcoltarne anche da altri le lo di, ancorachè alcuni di loro per uggia, e mal talento con biechi occhj il guardaſſero. Ecco il doctiſſimo Spondano, il qual ſovente lumc, e occhio della Germania folea chia marlo, così di luifcrive: creditur habuiſse præftantiffimum illud vellus aureum, quod Iafon apud Colchos conquifivit: (Intelligunt me qui Suidam legerunt) quo defperatos mor bos fanavit; ande magietiam opinionem apud quofdam cele bres viros, quod magis miror, eft confequutus. E prima dello Spondano, Corrado Geſneri, comeche parzial di Galieno, e di lui per invidia inimico, pur dalla verità ſtret to ebbe a dire: audio multos paffim ab eo in morbis deſpera tis curatos: & ulcera maligna ab eo feliciter ſanata. E al trove egli n'avea detto: Paracelſus noftra memoria mugus Fff FJOR  (nondubito.quin hoc nomen magis fanèintelligas', ut apud Perfas ufurpatum fuit) admirabilis homo, notusamicis qui. bufdam meis; à vicinis noftris Helvetiis oriundus, perva. gatus magnam Orbispartem: chimica arte y qaamipfe puto ſpagiricamvocat, excellentisfimus omnium, ita utper eam metalla immutaret. E'l dottisſimo Geometra, e filoſofo Pietro Ramo di lui parlando fcrive:in intima natura viſce ra ficpenitus introivit, metallorum, ſtirpiumque vires, facultates tàmincredibili ingenii acumine exploravit,acper vidit, ad morbos defperatosi, & hominum opinione infana biles, percurandum,ut cum Teofraſto nataprimum medicina, perfett'aque. videatur. Madel ſuo incóparabilvalore; e delle maraviglie adope. xate da lui in medicina;piena teſtimoniāza ne rende la Città tutta, e la dottiſſima Accademia di Balilea, e'l Comun di Norimberga, ove egli per tante maravigliole ſue pruove ragguardevol molto, e famoſo divenne: intanto che ragio nevolmente ftipiditone il Zemeo avvedueisfiino ſcrittor de'ſuoi tempi,cosìdi lui dice: Apud Germanos: nunc Thea phraſtus quidam vir adolefcens'exiſtit, cui parem Orbis.non fert:doctioremme legiſememor non ſum.. E Melchiorre, Adamo dilui pur raccontando dice: eum ingenio acutisfimo, acferè divino fuiſſepreditum: din univerſa philofophia tàm ardur, tum arcana', abdita eruiſse mortalium nemi nem: lepra, podagra, hydrope,aliiſqueinfanabilibus malis, defperatis mulios liberaſse: &quotidie per duas horas Ba flee tum aétiuamtumcontemplativam philofophiam fumma diligentia, magnoque auditorum fructu eſseinterpretatum doctrină,quam non ex Hippocrate, fed experientia aſsegur sus erat. E'l Barthio pur di lui dice: Ego de Theopbralo pre clarèfentio: admiranda praffitit; ſed qui cum perfectè intel ligat, & quæ ipfe fecit faciat, nondum audivi. Ę France fco Oporino fuo famigliare, per veduta anche di lui racco ta: pari induſtria novi ipſum leprofos, bydropicos, e pilepti cos, podagricos, morbo venereo infectos, aliofque innume ros infirmos gratis fanare. Id quod Galenici Doctores non fine notabili dedecore non potuerunt imitari; unde in magnum apud quoslibèt.contemptum inciderunt. E'l me delimo Oporino in quella lettera appunto, ove fraſtorna to dagli emuli dilui, e fommoſſoanch'egli in truppa, a rabbioſa monte mälmenarlo, infra le tante, e tantc menzogne, e cacce, che per isfregiarlo farnesicando ſi fogna (del che gravemente poi pencilſı, ſicomene narra Michel Toſite ) pur non potè tanto diffimulare, che apertamente talvolta non confeffaſſe eſſere il Paracelſo valentiffiino medico, aver prontamentetra le mani mirabilem faciendi medicinä in omni morborum genere promptitudinem, felicitatem, Quindi di luinarrando foggiugne, che in curandis vulne ribus, etiam deploratiffimis miracula edidit, nulla victus præfcripta, aut obſervata ratione. E de'ſuoi mirabili, e valevoli argomenti maravigliato: laudano fuo, dice, ita gloriabatur, ut non dubitarit affirmare ejus folius ufu ses mortuis vivas reddere pole; idque aliquoties, dum apud ipfum fui, ipfe declaravir. Macelebre ſopra tutte fiè la teſtiinonianza, che fe del le maraviglioſe cure del Paracelſo il SereniſſimoArciveſco vo di Salburgo, il quale dopo averlo altamente anorato in vita, e faccigli in morte famofiflimi eſcqui: volle, che nel Ja lapida del fuo ſepolcro fi leggerle queſto orrevole ſopra ſcritto; Conditur hic Philippus Teophraſtusinfignis medicine doctor, quidira illa vulnera Lepram,podagram,Hydropem, aliaque infanabilia corporis.contagia, mirifica arte fubftulis, ac bona fua in pauperesdiftribuenda, callosandaque curavit. Ma:2pertamente tutto dì ſi ſperimenta il valor di qual che medicina del Paracelſo, comeche delle men nobiliel la li fia, alla contezza noſtra pervenuta; perchè tutto dà i più valenti Chimici ſtudianti per rinvenirne alere nelle ſue opere. Ma delle medicinedelParacelſo aſſai bene ſcorro Giovan Battiſta Elmonte, tuttochè ſuo emulo, ebbe a dio re eller quelle così rare, e prezioſe, che meritevolmente il gloriofo ſoprannome di Monarca degli arcani ne avelle egli riportato. Maavvegna pure, checotanto valorolo foſſe ſtato il P.2 racclſo in medicina, qual noiraccontato abbiamo; non però di meno non ſempre ſi veggono i rimedi di lui a liero ffa ne riuſcire: e ciò maggiormente teſtimonia la non macura morte,che fopravennegli a mezzo il corſo della fua vita, cioè a dire nell'anno quaranſetteſimo; dalla quale nó li po tè egli per argomento niuno fchermire: comechè cotanti diſperati infermi dall'orlo della ſepoltura ſottratti aveſſe, e quaſi di mano a morte sforzaraméte ritolti; e pur egliavea detto in prima: nullus morbus fuo medicamine defituitur. Che ſe'l maggior medicante del mondo non potè ceſsar la violenza del ſuo fato, e adoperarsì co'ſuoi valevoli, co prezioſi medicamenti,che la ſua vita a'più vecchi anni ſi ri ſerbaſſe, che dovrem noi ſperar mai di certo dalla medici na, attenendoci a rimedjdeboli, eſpoſſati, per falvainen to delle noſtre vite? Ma egli ſcagionando in ciò l'incertez za grandiſſima dell'arte, che pur troppo avveduto ſe n'eray e roveſciandone follemente la cagione a'forcunoſi fati, dice che in baha di quelli ſia l'uſcimento de’rimedj interamente ripoſto; perciocchè da quellola vita, e la morte noſtra de pende; quod autem, dice egli, parlando dell'incertezza de' medicamenti, ium medicine, tum his atentes perfæpè à fa talibusgravius vexentur, &cuentum conditioni medicina AC curſuinatura adverfum omnino experiantur;ideo nobis fa Gere debet, ut inde diſcamus nimis obftixatam de hac fragili vita fiduciam,ac fpem deponere. Etfi enim nocentia fimul omnia, &medicinarum fimulomnium virtutes, morbo rum genuinascaufas; ac bis oppofit& remedia debita plenè teneamus: nibilominus tamen hancconfidentiam incumbes fan tum infringit facilè, ftatum formum omnem deftruit; cui nos non modo non obluétari quicquam poſsumus, ſed fatali bus caufs nofmet nudos totos potiøs objicimus, utpote que nos in folidum mortalesfaciani, noftraque molimina infrin, gant, & providentiam noftram, ac confilia univerſa ever Ma de'medicamenti di lui cotanto poco approfittar ne poſſiamo, che comechè egli valentiſſimo medico, e filorow fante ftato foſſe, pur le ſue opere in gran parte inutili, infruttuoſe ne rieſcono; cotanto piatto, e imbacuccato tant. egli ſi fu ne'ſuoi ſentimenti,ch'a ben rugumargli malage voliſſimamente ſe ne può cavar nulla di buono. Eoche foſſe ſtata invidia aʼmedeſimi ſuoi ſeguaci, o altro ch'a ciò far lo ſpigneſſe,dique'ſuoi maraviglioſi medicamenti, on de cotanta fama egli accattofſi, pochi egli ne volle inſe gnare:. e que'pochi cotanto monchi, e oſcuri ne fcriffe, che ben ne laſciò nel farnetico di doyerne inveftigar con lunga fatica la traccia; de'quali egli medeſimo favellanda, dice: in quibus afsequendis paucisfimi fcopum contingent., Perchè alcuni inviluppativiſi ſconciamente vi favellarono, togliendo in cambiouna coſa per altra, e sì con quelli pig giorando gl'infermi delle loro malattie, e ſovente anche uccidendogli. Vuole egli, che ciaſcuna malattia, toltenc quelle, che richiedono la mano del medico per dover curarſi, e quelle ancora, che dalle ſole qualità relolacce avvengono, le quali ſenza argomento alcuno d'arte ſi guariſcono, dalle impurità ſemplici del ſale, o del mercurio, o del ſolfo, o da tutte queſte foſtanze so da parte di eſſe s'ingeneri no. Ma comechèegli cotanto danno ne dica da quelle av venirne: ſe noi non ſappiamo, ne egli punto ne ſpiega qual ſia veramente la natura loro, ne anche certainente avviſar poſſiamodi che forte d'impurità quelle loro fiano, accioc chè acconciamente alle malattie da quello inoſſe riparar posſiamo. Le medicine, dice il Paracelſo, effer debbono ſomigliá ti al inale, ch'è da curare; perciocchè quantunque ognun fappia, che le malattie fian contrarie alla ſanità delle gen ti, e che perciò vincer ſi debbano con argomenti contrar alla lor natura; non però di meno le medicine, le quali G convengono alle malattie eſſer debbono pure della mede fima lor generazione; perciocchè altrimenti mala pruovan vi farebbono a raccattar la ſanità. Quinci ſi è, che'l Para celſo dopo aver avviſato tre eſſer i generi delle malattie, così dica: caveat itaque medicus ne arbores duas in unams curam inferat:fed teneat regulas,morbis mercurialibus dan dum ejſe mercurium: morbis falinis,falem:morbisfulphureis, ſulphur; unicuilibet nimirum morbo fuum appropriatum ficut convenit. Ma in buona fe, che ha egli che fare la ſomiglianza con la cura delle malattie? Perchè ebbe egli la ragione l'Elmo te di forte biaſimarnelo: igroravit bonus ille vir, quod ifta non fintagentia fufficienter ad fanationem requifita. Ne ciò è ſempre vero, che le coſe più agevolmente poſſano alle ſomiglianti penetrare, cmeſcolarſi inſieme; ecome il me deſimo Paracelſo diffe:quodlibet fuumfimile comprebendere. fuum fimile,non diverſum; perciocchè avviſiamo noi tutto giorno in molte, e molte coſe il contrario avvenire. Ele pur talvolta incontra, che s'accozzino, certamente per al tracagione egli s'adoperajāzicotáto ciò è falſo,che per co trario alcuno dir potrebbe più p diverſità, che p ſomiglia za inſieme le coſe accozzarſi: ficome i corpiconcavi ſono, i quali ſtrettiſſimaméte a’ritõdi s’uniſcono;nei corpi ſpea rali, o ritondi, comechè fomigliantiſſimi infra lorofiano, poffono in alcun modo convenirſi: avvegnachè pur ſi con vegnanoi quadrati. Perchè dica pure a ſuo seno il Paracel fo:Scorpio ſcorpionem curat, realgar ſuŭ realgar, mercurius fuummercurium, meliſir fuam melilă; che ditanta mara viglia non ſarà certamente cagione la ſomigliáza;anzitute' altro di quello, che egli va diviſando; perciocchè, per ta cer dell'altre coſe, nello ſcorpione i pori auſati per lungo tempo a ritenere in ſe quel ſuo veleno, e acconcj anche a riceverlo, più agevolmente il ricevono dalla ferita, ch'egli fa nella carne d'alcuno, che non poſſon riceverlo l'altre parti ſane vicine diquella; perchè movendo per la forme tazione le particelle delveleno nella fcrita, volentiericol loro diſcorrimento nello ſcorpione paffano, e a riccrti me deſimi, onde uſcirono, fi ritornano. E queſte ſono le con tezze,che deve avere il medico avveduto per doverpren. der argomento da porre avantile fue medicine, e non già le ſomiglianze, o altre fraſche, le quali agevolmente poſ fono ingannarlo, e mettere per la mala via iwiſeri infermi. Che ſe noiveggiamo alla giornata a' mali del ſale aceroſo porfi conſiglio collaflomma, e colla terra dannata, e altri mali guarirli con diſſomiglianti rimedi, perchè do vrem noidire,che la ſomiglianza fola poffá diſmalare i cat tivelli infermi, e nello ſtato ſalutevole del primiero vigore riporgli? Maſu riccvaſi pure',comevera,la regola del Pa. racelſo intorno a'generi de'medicamenti, e ſia pur la fomi glianza da ſeguire in medicando; come potrà mai il media co avveduto avviſare qual forte di ſale, o di mercurio, o di folfo daelegger ſia per riſtorar de’ſuoi mali l'infermo, feu prima egli pienamente no coprenda la gencrazion di quel ſi, ch'a ciò il conduffero. Conviene adunque al medico fa pere quali ſien quelle particelle, che forman l'apparenza dell'aceroſità nel fal dell'aceto's quali l'amaritudine nel ſal della coloquintida, ſc ragionevolmente egli proceder vuo Ic nel ſuo meſtiere. · Ma fe'l Paracelſo ebbe la medicina univerſale, come è coſtante famaaverla lui apparata nel fuo lungo pellegri naggio, non facea meſtieri ſapere; o'avvifar niuna disì fata re coſe, ne'curar di vene łatice, o di acquoſe, ne della doc cia del Virfungo, o della circulazion del ſangueso dal tri, e d'altrimoderniritrovati: comeche ſembri aldortifia mo Vitiſchio aver parte luidi queſte coſe felicemente avvi fate. E cócioſliecofachè l'univerfal medicina ſenza riguar dare a età o oa compleſſione, o ad altra coſa del mondo, igualméte torte malattie vanti di guarire;Io non ſo lorper chè il Paracelfo a si fåtte fraſche foſſelli: attenuto, ſe egli diquella erisì ben fornito; perciocchè quella diceni eller ſomigliante albalſamo naturale, e perciò valevole a invi gorirlo, e ajutario sì fattamente, ch'egline ſolva, vinci, e diſtrugga le cinture ſeminali di qualunque ſorte zonda l'e malattie curte prendon dirivo. Diceſi balſamo naturale dal Paracelfo' una coral ſpiriz tuale ſoſtanza di principi puriſſimi compoſta, e participan te della natura celeſtiale: onde ella è quafi incorporea ye incorruttibile; adunque corale eller conviene l'univerſal medicina, e che ſia partecipe di tuttiprincipj, acciocchè in ciaſcuna malattia approdar poffa. Ma certamente non che il Paracelſo cotal medicina avuta aveſſe giammai, anzie egli 416 Ragionamento Seſto egli fola il creder, che quella ci ſia, o pofla mai eſſere:av: vegna pure, chealquanti medicamenti di lui fieno ſtati va levoli a ſgomberar molte, e diverſe generazioni di graviſ fime malattie. Ma egli tante,e tante ſortidi medicine ado però nelle ſue cure, e argomentoffi dicomporre, e lavora te con ſuo gran biſtento, e noja degl'infermi, che certa mente a cið recar non s'avrebbe dovuto, ſe quella ſua uni verſal medicina conoſciuta aveſſe; ſenzachèegli, ſe non voleva pur logorarla nelle cure baſſe, e menovili, ſarebbe fene almen ſervito perſe medeſimo, allorche da graviſſi ma malattia ſorpreſo anzi tempo morilli, e prima d'aggiu gnere all'anno cinquanteſimo della ſua vita. Ma ſe eglifof fefi pur nella filoſofia tanto, o quanto innoltrato, no avreb be sì fatte millanterie ſcagliate del ſuo valore, e della vir tù della ſua univerſal medicina. Ne meno egli certamente detto avrebbe, che l'huomo per la ſola immaginazione va levol ſia anche fuora del corpo a far le maraviglie, cche i caratteri, e le immagini ſcolpite nelle piaſtre, e porta te adoſſo poteſſero ſchermir le genti dalle inalattie, e libe rarle da quelle; ne farebbeli follemente ſognato, che'l ſole fo ne'corpi degli animaliſidiſtilli, ſi fublimi, ſi riverberi, fi calcini, e ſi fonda: onde poi mettan fuora varie, e diver fe forte di malattie: e che'l ſale, e'l mercurio in noi ſimi gliante ſi diſtillino, fi ſublimino, e ficalcinino cagionando le malattie: è che'l mercurio aſſottigliato oltremodo per la ſoverchia circulazione ſia cagione delle ſubitane morti, e repentine:e che noi puntalmente n'aſſomigliamo all'univer fo, e neſiamo vere imınagini in ciaſcuna noſtra parte: e che i tre principj in noi cotante generazioni di malattie prodı cano, quante ci ha coſe create: e tante, e tant'altre ciuffo le, e aggiramenti, che ſe tutti fil filo gli vorrei narrare,non così agevolmente ne verrei a capo. E tutto ciò a lui avvē ne per diſagio di profonda filoſofia. Ma per avventura egli non fu cotanto ſciocco, qualnoi giudichiamo dalle man chezze dell'opere fue; perciocchè quelle da' ſuoi malevoli per uggia, c per diſpetto cosìdiſguiſate, e travolte furo no con torne alcune ſentenze per entro, e altrs, o ſciocche, o fanciulleſche, o empie vezzataméte frapporrvi,che omai tralignano dallo ſplendor d’un tant'huomo, enon ſembran più ſue. E alcune ancora affatto non ſon fue, licome il medeſimo Oporino, che così fellonoſamente rubbellogli ſi, manifeſtamente rafferma; perchè non dovrebbeſi certa mente coglier cagione per quelle d'accoccaglierla, c dir glicne male; ſenzachè manifeſta coſa è, che quelle, che ragionevolmente ſon da credere opere ſue, vennero perla più parte ſolamente dalai diſegnate, ne più poi per innan zi rivedute; perciocchè egli dal ſuo focoſo, e diſcorrevo {e ingegno traportato inteſe ſolamente in prima a ritrovar le coſe, e quali dal profondo della natura cavarle, con in tendimento poi di più minutamente a ſuo bell'agio quelle ſtacciare,.e diſaminare, per poter metter avanti con eterna fama del fuo valore quelſuolodevoliſſimo ſiſtema, che im preſe a diſegnare; e per avventura ſarebbegli venuto fatto, s'a ciò tempo aveſſe avuto; ma la morte, ch'improvviſo gli fopravvenne, fe riuſcire a vuoto i ſuoi diſegnamenti, e non laſciogli agio di fornirgli; perchè rotto a mezzo della fa rica ilſuo lavorìo,cosìmonco, e diviſato rimaſe, qualnoi veggiamo. Ed è anche opinione d'alcuni, che le menzio oate ſue opere foſfono componimenti de'ſuoi ſcolari; per ciocchè egli uſava folamente a boce inſegnar loro i ſuoi ſentimenti, ſecondo la coſtuma di quc'rempi; e quelli poi gli cópilavano in iſcrittura, molte coſe giugnendovi dellor capriccio,e molte non ben copreſe travolgendo a lor talen to in tutt'altro, cheegli li voleva dire. E ciò tanto più ne ſi fa manifeſto, quanto in eſli ſuoi libri più fiate le medeſi me ſue coſe ſon ripetite, ſecondochè da diverli ſuoi ſcolari furono accolte; anzi dal loro natio tedeſco linguaggio nel Jatino idioina ſcioccamente traportate da perſone diciò poco, o nulla intendenti, così confuſe, c inviluppate di vennero, che malagevolmente ne vien fatto ad avviſarne, iveri ſentiméti dell'Autore; col qualdifetto aggiūta anche l'ofcurezza, ch'egli a bello ſtudio argomentolli frapporvi, certamente oſcuriſſimi, e malagevoli oltremodo quelli ne, rieſcono; conciofoſſecoſa,cheartatamente il Paracelſo co Ggg sì piatto, e imbaccuccato ne' ſuoi ſentimenti con nubi di riboboli, e d'enimmi i ſacroſanti miſterj:della natura avef ſe coperti,per far quelli ſolamente, e con lunga fatica agli huomini dotti, e di maggiore intendimento comprendere, enaſcondergli alla minuta: bcuzzaglia:delle genti, o comes diſſe il Berni Alle brigate goffe, agli animali; Che con la viſta non pafsan gli occhiali. Ilche ſenza fallo infra gli altri fu dalBorricchio avviſaperchè egli dice: ne Eleufina ſacra.profanè Viiverſi pro fituerent: gnarus, id factiraſse Egyptias, & Pythago ne affeclas ſacheche la di ciò, non ſono impertanto da ſpregiare i ſuoi diviſamenti intorno alle coſe della medicina; percioc chè per tacer de’ſuoi medicamenti, de' quali ſe vier mai quella priva, poco men, che come corpo morto ſenza vita rimane: non può certamente eſſere ne filoſofo, nemedico valoroſo colui che non ſappia appieno ciò,che dellecoſe della natura:glorioſamente.Paracelſo n’abbia diviſato.. Fra Tomaſſo Campanella, comechè d'acutiffiino inten dimento, e libero filoſofante e' ſi foſſe, pur sì fattamente tratto tratto favella delle cofe naturali, cheben ne da.aw divedere quanto più agevole impreſa ſia lo ſchivar quegli errori', ove gli altri incorli ſono, che il ritrovar la verità. Nocquegli più che altro ſommaméte in ben filoſofare nel lamedicina,l'averlui-troppa credenza. voluto preſtare alle opinionidel Teleſio ſuo maeſtro, per tacer della ſtrologia, e d'altre vane ciurmerie,c.indovinelli, ove egli fanciulle ſcamente dilettavaſi; e l'averfi dato follemente a credere, che cotali.coſe, o enti favoloſi da lui ſolamente immagi nati abbian parte nelle cofe della natura; perchè non è da maravigliare ſe'l ſiſtema della medicina, dalui fabbri cato, manchevole oltremodo, e difettuoſo riuſciffe. Al la qual coſa fu egli anche cagione il non aver lui eſercitato gianmai cotal meſtiere: ficome anche nocque a Cornelio Celſo; perciocchè aflai per avventura ſarebbonfi vantag. giati, ſe per pruova ſperimentato aveſſero i lor diviſamenti. Ma ſopra tuttonocqueal Campanella il no eſſerfi eglipũ to conoſciuto di nocomia; perchè egli poi traſcorfe in co tanti errori, e aggiramenti, dicendo il fegato efferfonte, c origine del ſangue e la milza del fiele: e che tutto dal cervello provenga: Organum fpiritus, dice egli, cor Jan guinis jecur,fplen fellis, & alia aliorum; omnia autemiſta cerebrocauſsam habent;arteria vocalis manifeftè ex.com pite oritur, ubi et ftipitem amplisfimum haber:igitur& alia; Junt enim ejufdem fubftantia, d originis. Etanti, e tantal. tri falli egli preſe nella notomia anche in coſe manifeſtiffi me, e a ciaſcunconoſciute,che ragionevolmente di lui cb be a dire ilLindeno: Quid horum eft, quod fenfus teftis omni exceptione major manifefta fallitatis etiam Anatomi corumpueris damnate.convincit? Ma non però di meno fep pebenegliil Campanella da quel gran Padre di Chicas Santa,GiovanniCrifoftomo appararc, che'l nutrimento p una cotal cortiliffima foftanza; la quale ſpirito appella Cri foſtomo, dal cervello infieme colfenfo, e col movimento all'altre membra degli animali fi difpenfi;comechèpai egli di ciò dimenticato,altramente favelli..: Ma che direm nai del fiſtema di lui, della nuova arte di medicare,ch'egli ne compone? Vuole eglicol Telefio il caldo ſolamente, e'/freddo effer primi principj di tutte co fe, i quali egli chiamaagenti: e l'umidità, e la ſiccità ef fer ſolamente diſpoſizioni della materia, ceffetti di quelli; intanto che la materia delcaldo aflottigliata divenga umi da: e ſi rondafecca, ingroffata dal freddo. Ne l'umido có altro può accompagnarfi, fuor folamente che col caldo: nè'l ſecco con altro, che col freddo; perciocchè ſel'umido s'accompagnerebbe col freddo: 04 fecco col caldo, dice eghi, che ſarebbon da quelli toſto diſtrutti. Anzi dice egli, che'l caldo fia cagione dell'umido.: e'l freddo del ſecco; perciocchè il caldo ſolve le coſe, e le allarga, e l'aſſorti glia: e'l freddo per contrario le indura, le ſtrigne, e le co ftipa. E queſti due principj dice egli effer foſtanze, o for me eſſenziali, de quali accozzate alle lor materie formino il Cielo, c la Terra; perchè anche due, e non quattro vuo Ggg 2 fe egli, che ſian da dire gli elementi. E le forme dice efier nuovamente introdotte nelle coſe dalla potenza della na tura agente, non già dal feo della materia cavate. Maquel,che più è ridevole in lui ſi è,chc dice egli eſſer: altri principj incorporei, che régan parte nel componiméto delle colc; daʼqualivuol egli, che prenda dirivo ciaſcunas operazione la qualda'volgarifiloſofanti alle qualità occul te delle coſe s'attribuiſce. E queſti principj incorporei, o primalità, ch'egli chiama, vuol egli, cheſiano lapotenza, la ſapienza, e l'amore; onde ciaſcuna coſa voglia, poffaw, e conoſca:onde anche quella prenda naturalmente ſenſo della propia conſervazione. Ma quanto poco vero fia sì fatto diviſamento de’princi pj della natura,non fa meſtier, ch'lo ſpieghi; potendo cia fcuno per fe agevolmente avviſare, non ſolamente il caldo, e'l freddo effer nella natura, ma altre, e altre coſe diver filime da quelle; ſenzachè non ifpiegando il Campanella la natura del caldo, e del freddo in che veramente conſiſtay mal può inveſtigar poi, non che dichiarare, fe quelli vera mente operino, e come; imperciocchè ſovente egliſoftá ze chiamandole,par che ne voglia certamente uccclare; poichè egli medeſimo dice, la materia ſola eſſer propiamé te ſoſtanza, e non altro; perchè manifeſtamente s'avviſa, che il Campanella nel primo ſuo filoſofare, e in ſu la ſoglia appunto di quello ſconciamente fdrucciolando cadele: e grandiſſimo tratto dalla vera ſtrada della filoſofia forvia to erraſſe; perchè poicertierrori, e aggiramenti gliene ſeguirono, che nulla più; prendendo egli in cambio della mido il diſcorrente, che è ſuo genere, e non iſpiegando la natura di quello, ne del ſecco, o del dolce,, o dell'amaro, o di tuce'altre ſenſibili qualitadi. Negran fatto v’abbiſo gna a dimentirlo delle operazioni de'ſuoi principj;percioc chè per ciaſcun, che riguardiall'acqua, che per lo freddo congelata fi rarifica, agevolmente ſi può avviſare, che non feiapre il freddo condenſi le coſe. Mache è ciò ch'egli di ce, che le coſe inanimate abbian ſenſo certamente a ciò credere, per tutti gli argomenti del mondo, ne egli,ne il Tea lefio, ne l'Elmente,che in ciò volle ſeguirgli, m’indurreb bono. Ma ſpiegar poi non può egli in modo quelle ſue prima lità, c'huom finte da lui non le creda, e aver la loro eſiſté za tutta nel cervello ſolo dell'autore; perchè non sà cgli dir neanchecome vengan quelle a incorporarſi nelle coſe ſen fibili dell'univerſo,eda far tutte quelle maraviglioſe ope razioni, che da lor procedere tutto dinoi veggiamo. Ma per darci ad intendere, che le coſe tutte abbian ſenſo, do vea certainente egli prima farci vedere in quelle gli orga ni, i quali render le poſſano del ſenſo capaci. Vuole il Campanella,che l'huomo ſi componga del fal do, dell'umido, dello ſpirito, e dell'anima; e che la ſal dezza dalla denſità naſca, e queſta dallo ſpeſſo, e fulto ac eozzamento delle parti ſi componga; perchè dice egli, che le coſe condenſe, e falde, sì attamente, che di vantaggio più riſtrigner non fi poſſono reſiſtano al toccamento,e fem brin dure.E d'altra parte dice naſcer l'umidezza per diſa gio di parti;e per alkargamento diquelle che ſon diradate,e folute, dice eglieffer la ſpiritualità: la qual non che reſiſta al toccamento, anziella dileguiſ immantinente,e fugge da ognjintoppo. Ma purdice egli alcune volte gli ſpiriti operar faldamé te per l'unione non già corporale, ma ſicomeeglichiama, affettiva:dalla quale invigoriti incontro la forza, che lor fatta viene, riſcuotonſi quelli, e combattendo diſcacciano ciò, cheloro è d'impedimento. Soggiugne il Campanella, ch’alle parti ſaldefaccia me ftier dell'umide per dover nutricarſi delle parti di quelles più groſſe, e per non dover ſeccarſi, erõperſi:e per cõrra rio l'umide delle falde abbiſognare, come divafo, o di ri cetto, che loro dia luogo,e le ſoſtenga. Ma agli ſpiriti,di ec egli, far luogo le parti umide,acciocchè dalla lotti gliezza diquelleſi nutrichino: e le falde ancora, acciocchè appiccati quivi dimorino, e non ſi portin via; e per con trario l'umore abbiſognare dello ſpirito, acciocchè quello premendo il cibo, e traendone il fucco, il formi: e ſomi gliante, acciocchè per quello ſi riſcaldi, e diſcorra; e al ſaldo ancora convenirli loſpirito, acciocchè per quello ſo ſtener fi poffa, e muoverſiovein concio gli venga. E alla perfine dice egli che l'anima abbia ancor ella biſognodello ſpirito, acciocchè per opera di quello itu dioſamente muova il corpo, e la ſcienza delle coſe natu rali apprenda; perciocchè l'anima da'corporei oggettief ſer non può mofla,ſe nonſe permezzo dello Ipirito: dalle cui paflioni ella vien rattenuta, o reſa prontaalle ſue ope fazioni. Ma lo ſpirito allo incontro haegli ancor biſogno dell'anima in quanto egli è umano: e acciocchè maggior. mente egli perfecco ſi renda nelle ſue primalità, e più valo roſo nelle ſue operazioni, e più ragionevole nel reggimen to delcorpo. Main quanto eglièanimale,1100 chemeſtier gli faccia l'anima, anzi egli fortemente contro quella com batte, maggior capital facendo degli agj propj di ſe, e del fuo corpo,che de celeſtialidell'anima. Adunque dice egli, effer corali vicende fommamente neceſſarie a ben viverle genti; che le alcuna per mala ventura in quelle traſandaffe, toſto le malattie mettan fuora: le quali ſciogliendo l'uma na compoſizione, ne diſpongono alla morte. Ma quali ragioni adopererò lo per mádare a terra si fat to fiftema, e rintuzzare il diviſamento del Campanella? Egli non ha dubbio veruno, che nella maggior parte di quello cotanto egli dalla natura s'allontani, e trafandi,che ſenza ch'Io l'accenni agevolmente ciaſcuno per ſe medefi mo il può avviſare. Ma s'egli pure fondar voleva ſiſtema di razional medicina, conveniva in prima molto bene la natura del corpo inveſtigare, e di ciò che a quello avvenir poffa: ficome fecero quegli antichi greci filoſofanti, i quali egli follemente in quella piſtola,ch'egli ſcrive al Gaffendi forte biaſima, e riprende. La qual coſa egli certamente nonfacendo, comechè egli col ſuo acuto intendiméto mol ti, emolci errori di Galieno, e de ſeguacidi lui ſcoperti aveffe: pure per manchezza non poco danno gliene ſeguì; perciocchè egli così poco acconciamente della natura del le malattie, e delle cagioni,e de'ſegni e delle cure di quel le imprende a ragionare, che ineritevolmente ne fu ſghi» gnato, e carminato da tuttimedicide'ſuoi tempi;non pe rò dimeno fra cotante fue ſconcezze famoſa: ſenza fallo fi è quella ſentenza, ch'cgli reca intorno alla natura dellow febbre: ne ſaper puoffi, ſe egli dáll'Elmonte, o pur l'El, monte da lui tolia l'aveſſe; imperocchè ſcriſſero coſtoro nelmedeſimo tempo; ma ad amcnduc n'avez dato forfe cagione disì. Fattamente filoſofar della febbre Roderigo Veig... Io la rapporteròcolle proprie parole del Cápanel la: Febris, dice egli, eft fpontanea.extraordinaria fpiritas agitatio, inflammatioque ad pugnam contra irritantem mora bificam cauſam: quam fic.calefacit, agitar, digerisque, red ditque expulfioniapsan, vel extinétioni', velmeliorationi. Macomechè la febbre tutto ciò faceffe, nonperò di meno offendendo ella ſoprammodo le operazioni, è ella cert2; mente da dir malattia; ſenzachè Io non ſolo, come lo ſpi rito poſſa aver ſentimenti: e non altrimenti, che s'egli ani mal foſſe, quando gli metra bene, riſcuotaſi, e s'apparec chj di combattere contro ciò che'l molefta, e gli reca in toppoalle ſue operazioni. Cofia, la quale delcervellodel Campanella fofamëte,e:dell'Elmonte immaginar ſi poteva: Ma intorno a medicamenti, eglivuole,che la cura quan to a ſeda far ſia perli contrari: ma per accidente talora dal le cofe comigliantiancor ſi elegga; e alcuna fiata gli uni,ė gli altri meſcolando compor fi convenga, acciocchè il foa migliante appiccandoſi alfomiglianteaſe l'attragga;quin. di il contrario combatrendolo il difçacci. Orcome egli fti ma le genti disi groffa paſta, che ne vuol far Calandrinis dandone a divedere sì fatre favole x Reca égli in pruova il fapone: fiquidem, dice, Sapone ex oleo, cinere, da calces confefto maculas olei ex panno extrabimus: oleo invitantej oleum, & alliciente: cinere, calce fimul expellentibus, Quare, ſoggiugne poi, maculas vini ex calce, di vino fa. pone confecto educes; fihanc nofti magiam. Ma doveva av viſar pure il Campanella, non già per la fomiglianza, che pulla opera, l'olio con l'olio fi meſcola, el vino col vino; i mil 424 Ragionamento Sesto 1 1 ma per la figura, e per la diſpoſizione delle loro particel le; e doveva egli pure inveftigar la cagione, per la quale la cenere, ela calcina radendo l'olio della veſte,allettaco. come egli dice, dall´altro olio, quello ne portin via; per-. ciocchè ſe a ciò egli badato avrebbe, ben ſarebbeſi accor. to coral purgamento altronde non naſcere, che dalla figu ra delle particelle de'ſali di quelli, i qualiſe mai loro ven gono colti, la calcina, ne la cenere, ne anche il ſapone, che di lor fi lavora, non ſaranno d'efficacia alcuna; ſenza. chè fe per fomiglianza è, che l'olio del ſapone attragga l'olio dalle veſti, e con la ſua amicizia ne lo ſpegoli, e dia vella:qual ſomiglianza giammai ritroverà il ſapone in curtº altre macchie de' panni lini, che così gli imbianca so puc Laſciando il ſapone, qual ſomiglianza avrà egli il bucato con quelle: 0'1 fummo del ſolfo colle macchie de'veli? cer tamente non altra, che quella,che ha la granata colla ſpaz zatura della caſa, o l'erpice, elamarra colle zolle. Soggiugneil Campanella, che quando ſi vuol preſcrive re purgativa medicina, ineſcolar ſi debbano talora i ſimili co’contrarj, appunto come il ſapone da lui diviſato;accioca chè i ſimili ateraggano'a ſe gli umori, ei contrari poi ſcac ciandogli fuora gli purghino. E quinci, dice egli, nella compoſizion dell'utriaca ſi meſcola la carne della vipera, acciocchè dal veleno di quella il veleno s'attragga, e dagli aromati poi ſi diſcaccj. Ma alla Croce di Dio, chi non ſa, o chinon ha per pruova avviſato,che la carne della vipera non ſia veleno? Perchè falſo, e vano eſſendo affatto il ſuo diviſamento intorno alle compoſizioni de’medicamenti: come, e quando de ſomiglianti,ede'contrarj, o ſemplici, o meſcolatinelle cure delle malattie ſervir nc convengu: a'conſigli di lui certamente in niun modo attener nedob biamo, fe a liero fine delideriamo i noſtri medicamentido ver riuſcire. Fu egli ancora cotanto poco fcorto della natura de' me dicamenti, che per tacer d'altri falli in ciò da lui preſi,dif ſe egli, che le coſe fredde non ſi convengano puntoal le cargo: perciocchè eſtinguino gli ſpiriti; e pure il caltoreo, il quale è argomento acconcio aſſai ad affrenar la violenza di quel folto, che cagiona il letargo, avvalora gli fpiriti. Dice egli ancora, che l'antimonio crudo gagliardiffimaw medicina ſia. Mapiù ſconciamente egli trafanda in pre ſtando fede alle fraſche del Maeſtro Agoſtino del Roſli in quella ricetta, in cui colui dice, che ſi tragga il mercurio dell'argento, e che quello ſi meſcoli, e s'uniſca con l'arien to vivo volgare per dover lavorarne il precipitato da cura re il mal franceſe. Ma ridevole ſopra tutto ſi è quel ſuo di viſo di dover colle ventoſe d'oro trarre il inercurio dall'of ſa degl'infermi:fi Hydrargyrus,dice egli, offa penetrarit,nec expellipoffit, cucurbitulisex auro confectis facilè educitur, tractione vacui; Sympathia fimulnaturarum. Ma comechè in molte, e molte coſe, ficome accennato abbiamo falli il ſiſtema del Campanella, e ſia ſopra de boliſſime fondamenta murato; impertanto non è affatto da ſpregiare quel ſuo libro della medicina; perciocchè può egli a chi ſaggiamente l'adoperi non poco giovamento recare; eſſendo nel vero egli ſtato un de' maggiori inge gni e più valoroſi, che la noſtra Italia, e'l noſtro ſecolo ab. bia alleyati. Ma Roderigo Caſtello anch'egli della debolezza della medicina di Gilicno reſo avveduto,imprende forte a com batterla, e mandarla al ſuolo; e proteſtando di dovere gli inſegnamenti del ſuo Ippocrate ſeguitare, ſi biaſima oltre modo delle dottrine d'Ariſtotele, e di Galieno, e diſtinta mente egli i loro falli ſcoprendo va dagli antichi Greci filo fofanti ad accattar contezze di buona medicina; ma non gli venne cotanto fatto, chenon deſſe anch'egli in iſconcj, e biaſimevoli errori, giudicando follemente in prima eſle re gli atomi delle prime qualità forniti; quindi in tanti, e sì grandi vaneggiamentie' traſcorre,che lungo ſarebbe quì ad uno ad unoannoverargli. Ma ſopra tutto fi ftudia egli di darne a divedere ciò che il Paracelſo prima di lui inſegna to n’aves: cioè a dire, che il mondo picciolo ritenga in fer tutte le parti, e tutte l'apparenze, che nel mondo grande ſi veggono. E mentre egli da ciaſcuno qualche ſentiinento Hhh imbolando s'argomenta da cotanti meſcolamenti ſconcj, e mal conformi far forgere un nuovo ſiſtema di medicina propio di ſe, filoſofandoora col Paracelſo, e ora con Ga lieno, avviluppa il tutto, e comediſſe colui, Confunde le dueleggi a ſe mal note. Ma egli convien ora far parole dell'ingegnoſiſſimo ſiſte ma di medicina diGiovan Battiſta Elmonte; il quale,a vo lerne liberamente dir ciò che me ne paja, aſſai più felice lun go tratto fu in abbattere, e ſpiantare gli altrui edifici,che in fondare, e in iftabilir fermamente i ſuoi, comechèdimol ti, e molti nobili, e utiliſſimi ritrovati venifle fatto alla ſua induſtria d'arricchir la medicina. Il materiale principio di tutte le coſe ſenſibili dell'univerſo, appo l'Elmonte,è l'ac qua, non intervenendo nella compoſizione de'corpi miſti altramente l'aria, ne il fuoco, come quello, che non è ſo ftanża, ne accidente, ma morte delle coſe; argomen taſi provar una cotal fua opinione, con dire, che ciaſcuno corpo del mondo poſſa ſempre che ſi voglia in ſale căbiar fi; e'l ſale poi per opera del circolato del Paracelſo, in ac qua d'altrettanto peſo ridurſi. Oltre a queſto dice l'Elmo te l'acqua eſſer ſempliciſſima, e benchè contenga ella in qualche modo il ſale, il mercurio, e'l ſolfo,i quali da quel la per natura', e per arte ſeparare giammai non ſi ponno;ne ſono veramente ſale, folfo, e mercurio, come tali da eſſo appellati, per eſſer a quelli ſimili, e per non ſapergli altri menti ſpiegare; no vuolc egli però, che l'acqua di ſolfo, di fale, e di mercurio coinpoſta venga. Ma che che ſia dicið egli ſcorgeſi apertamente, che l'Elmonte non manifeftis pūto, come far ſenza falloe'douea, che coſa l'acqua vera mente fiafi; ne fpiega di qual natura fornita l'aveſle L'alta cagion, che da principio diede A le coſe create ordine, eftato; anzi egli manifeſtamente confeſſando di non ſaperne boc cata, conforta, e rimuove chiunque d'imprender la natura dell'acqua s’affatica: così di quella dicendo, Quis unquam mortalium novit quid fit aqua? qua tamen creatorum eft maximè obvia, aperta,viſibilis,atranslucida? tantum enim de ea fcit rufticus, vel idiota quantum philofophus:něpè æquam liter illam concipiunt per obſervationem fenfuum: quod fit.corpusgrave, liquidum, humidum,digitocedens, fluidum, amotoque digito ſerecludéns, calorisſuſceptivum,attenuabia le in vaporem:nemo tamē novit internam aquaquidditatem, vel quare liquida fit,anhumida. Ma in vero egli ha il corto l’Elmonte a ragionar sì fatra mente dell'acqua; imperocchè s'egli così ſolamente di.com loroſchiamazzatoaveſſei quali a coſto dicicalecci apprefa fo il volgo,il nobile, e laudevol titolo di filoſofanti compe rar ſi vogliono,vero per avventura egli detto avrebbe; im perciocchè affermado eglino l'acqua eſſer un tal corpo dal la natura compoſto,e meſcolato d'atto, e di potenza, ei freddo, e umido, ne ſpiegundo poi qual ſia l'atto, per lo quale l'acqua a partir ſi viene da cuce'altre coſe, che acqua non ſono, e in che conſiſta la potenza, e come ſi maturi nell'atto, e venga a perfezione, sì che acqua, se non altra coſa più coſto quella divenga: ne diviſando, che coſa las freddezza fia, ed onde avvegna il diſcorrimento, ne per qualcagione alcuni de'corpi liquidi, e corſoj, umoroſi an. cor ſiano, ed altri no:nulla certamente vengono ad inſe ghare intorno all'acqua, ne più di ciò che'l popolazzo mi nuto ſenza il lor diviſamento ne ſappia. Ma fe l’Elmonte aveſſe mai ben fiſamente riguardato 2 * dialogi di Platone, e a que'pochi mnaraviglioſi avanzi del le divine opere, ch'ancor fi riſerbano di Democrito, o al diviſar degli altribuoni filoſofanti: o pur s'egli, ficome conveniva, dagli effetti rapportati, di penetrar poipiù ad dentro nelle cagioni di quelle ſottilmente ſtudiato ſifoffe: o alla natura de' corpi diſcorrenti aveſſe poſto mente: Io ſon ben certo, che in cotal guila dell'acqua egli ragiona. to non avrebbe: e altro certamente egli principio di tutte coſe naturali, che quella,la cui natura di non ſaper libe raméte cõfeffa,determinato avrebbe;perciocchèconvenen do tuor d'ogni dubbio all'acqua il diſcorrimento, a queſta guiſa poteva ben egli riuſcir nella più ſicura ſtrada da avvi. far la natura di quella. E certamente in ciò, che ſi apro Hhh 2 no, e ſi fendono agevolmente i corpi diſcorrenti, e da cida ſcuna parte anchemenomiſſima, in ogni tempo ſon pene trabili: e dallo ſpargerſi di quelli, e diſcorrer liberamente per tutto: e dal riempiere gli ſpazj, e adattarſi agevolme te alla figura del vuoro, che ingombrano, intanto che al tra forma non hanno fuor ſolamente quella, che loro da vali, che gli contengono, e chediſcorrer non gli lafciano, vien preſcritta: e dall'avviſare, che ogni particella loro participando delle medeſime propietà di eſli, diſcorrentes anch'ella fia: ottimamente raccoglier egli poteva dovere eſſer icorpi diſcorrenti compoſti di menome particelle, i1f ſenſibili, e tra eſſo loro in atto partite, e fpiccate per un.. cotal movimento continuo, che non mai le laſcia appicca re, e congiugnerſi inſieme. La qualcoſa egli avviſando agevolmente fatto gli veniva di poter la natura dell'acqua apparare, e si riparare all'ignoranza, ch'egli di se medeſi mo ne confeffa; concioffiecoſachè eſſendo l'acqua oltre modo diſcorrente, egli è da dir che ſia un'accoglimento di menome, e inſenſibili particelle, le quali sì fattamente fixo no accozzate,eammaſſate inſieme, che ſembrino a'noſtri ſentimenti una ſola coſa: avvegnachè in atto elle ſiano fe parate, e partite,intanto che inſieme non maiforte fi ſtrin gano, ne meno per alcuno de’loro lati: e ſeguentemente continuo ſi muovano. E ſcorto egli avrebbe altresì noi avvenir loro sì fatto movimento dal caldo; concioffiecofa chè l'acque, comechè fredde elle fiano, e poco mé che ag ghiacciate: non però di meno non ſono elle meno diſcor rentije-ſdrucciolevoli delle calde,ſe non già ſiano in ghiac. cioammaſſate;perchè avrebbe eglicertamente detto che'l movimento, checosì l'acqua ſciolta ritiene, abbia le par cicelle ſue, o da ſe medeſimo, o altronde che dal caldo a: quelle comunicate;: perciocchè l'acqua, almeno perquel che noi avviſiamo, cede cheta al toccamento, e da luo go a ’ ſaldi corpi ſenza vederſi. ella punto muovere: e di lataſi a'raggi della luce: e riceve entro di ſe particelle di ſale marino, e d'altri corpi cheper la ſomiglianza, che hā no con quello, parimente eſſi vengono ſali appellati: avve gnachè muovēdo in noi molre,e diverſe varietà di ſentime ti nell'organo del guſto, convengano eſſer diverſamente foggiati; i quali corpi penetrando per mezzo effe particel le, ingombrano gli ſpazj piccioliſſimi tramezzati: o pure ingombrano gli angolije i cătoncelli che quelle colle for fi gure formano, intanto che vi ſi poſſano acconciamente le diverfe figure delle particelle faline allogare. E moltise molti d'effi tramezzamentiper tal maniera compoſti, e or dinari ſono, che agevolmente per entro, e ſenza niun rite gno diſcorrer vi poſfä fa luce. E oltre a ciò riguardando l'Elmõte all'operazioni dell'acqua, avviſato ben'egli avreb be eſſer quella un di que' corpi diſcorrenti, ch'agevolme te a'ſaldicorpi s'appiccano, i quali tanto, o quanto fier poroſi: e che fi fpargano ſopra tutti quelli, e penetrino lo ro dentro, c talotta anche in parte, o in tutto gli ſolvano; perchè comunemente diceſi l'acqua eſſer umida. E come chè egli nc ſembrieſſer l'acqua tenera oltremodo, e molo le; non però di meno egli alquanto d'aſprezza avviſato an che v'avrebbe, avvegnachè dipoco momento elia fia:non iſpiccadofi l'acqua agevolméte da'corpi ſaldi sì, e talmen te,che quelliaffatto sgocciolati nerimągano; e quincianch ' egli comprender avrebbe potutonó effer le particelle dellº acquada tutte parti cotanto terſe; e liſciatesquali per av vécura iminagina ilDeſcartes.Alle quali coſe tutte ſe l’El mõte ben fiſamente riguardato aveſſe, certamente egli ar gomentata n'aurebbe la figura d'effe particelle, ficome ferono già ne’primi tempi Pittagora, Timco, Platone, altri, i quali la immaginarono icafoedrica: 0 pure ſicome de’giorni noftri l'accennato Deſcartes, il quale giudicata l'ha cilindrica, e pieghevole, e guizzante a guifr d'anguil le: 0 ficome l'incomparabil filoſofante Gio: Alfonſo Bor relli, il qual.cosi'ne favella: lanugo quedam tenuis, &de bilis inveſtiens.quodlibet aqua minimum, ſcilicet concipide bet interna, & individua qualibet aquæparticula, ſolidad's &dura: cujus figura octaedra. E avvifato ancora l'Elmon te avrebbe eſſer le particelle dell'acqua d'una medeſimas foggia infra loro, o almeno poco diſſomiglianci; la qual forma loro, o affatto non ſi può in altra cambiarc, o egli è cotanto malagevole, che grandillima fatica meſtier vi fa rebbe a ciò operare; ne fino a'tempi noſtri ciò ad alcuno è venuto fatto, ne mai, per quanto Io poſſa comprendere, certamente verrà per innanzi:acciocchèin altra figura l'ac qua ſi tramuti. E ciò egli anche avviſa l’Elmonte, e vera mente per ognun yedeſi, che non riceva l'acqua fcambia mento alcuno ſenſibile:avvegnadio che a qualunque ingiu ria ella ſi eſponga., o di caldo, o di freddo,o di altra imma ginabile qualità; ſe non ſe riſerbandone ſolamente quella, che ella in agghiacciando riceve, o riducendoſi in vapore; per le qualiè coſa manifeſta, e all'Elmonte ben conoſciu che non già la figura delle particelle dell'acqua, ma il ſito ſolamente, e'l movimento di quelle ficam bia.Maſenza far tante parole, l'acqua racchiuſa entro una guaſtadetta ermeticamente, come ſi dice, ſuggellata das Criſtofano Clavio, la quale dopo cotant'anni nel Collegio Romano della Compagnia di Giesù dimoſtraſi: ella s'avvi ſa non punto dall'eſſer ſuo naturale mutata; e altre acque ancora per più,e più ſecoli intere,elane pariméte li fon mā tenute séza ricevere oltraggio veruno dal tépo; perchè ſen za fallo è da dire eſſer quelle di tempera dura, emalage vole aſſai a ſolverſi, dall'onnipotente facitore da prima fabbricate: Adunqueragionevolmente può dirſi dell’El. monte, che de'principi delle coſe naturali Nonpinſe l'occhio infino alla prima onda. E per avventura dobbiam noi confeffare, il medeſimo all’Elinonte eſſergià intervenuto, che in prima di lui al Pa racelſo fortito era: che ove maggiormente egli ſciarpillar figli occhi perpiù veder conveniva,quivi tralandındo,più, ch'altrove ſerrati gli aveſſe; ed avvegnachè di ſottiliſimo intendimento, emaraviglioſo foſſeſi l'Elmonte,pure abba gliato al troppo luine della natura per troppo veder rintuz zato ſi fofle și come ilſol, cheſi cela egli ſteſſo Per troppa luce, quando il caldo ha roſe Le temperanze de'vapori Speli: c firta e fatto groſſo dall'abbondantiſſimapiena de curioſi:fegreti di quella Quaſi torrente,ch'alta vena preme foverchiando il letto, ed allagando le prode;pertroppo ri goglio diſperſo ſi foſſe. E quinci certamente viene, che nello ſpiegar l'economia degli animali, qualche fiata ricorre ancoregli alle facoltà, nonmeno,cheGalieno fi aveſſe fatto; ne di ciò pago pro duce egli in mezzo alcuni ſtrani arzigogoli, e nuovighiri bizzi del ſuo cervello:altri ne toglic in preſto dal Paracel fo, come gli Archei, i Blas', i Magnali;e quelFormento, il quale per dirlo colle ſue ſteſſe parole, eft ens creatum form male, quod neque fubftantia, neque accidensfed, neutrum » per motum lucis ignis magnalisformarum conditumàmundi principio in locis fue monarchia, ut femina preparet;exiſtat, a precedat; con che', e con altre molte fue fantaſie, le qua li lo per non rediarvinon ridico, da apertamente a divedere l'Elmonte, ch'egli non già nel mondo noftro, di cui tutto di nuove, c nuove maraviglie egli ſcopriva,main un mon do da lui immaginato filoſofava. Tanto, e tanto poi egli involto fi fu nella notomia vita le, ch'egli traſcurò la morta, ne di queſta ſeppe altro di quel, che n'era ſtato già ſcritto; perchè alcuniaffatto non ſeppe', ed altri, poco curioſo non curò de’modernitrovati; i qualimolto approdato avrebbono; rendendo ad un'ora più credibili, e manifeſte alcunedelle ſue opinioni; perchè sé bra ', che forſe non abbia tutto il torto a morderlo, e biaſſa marlo il Gliſſonio, quando così di lui diſſe; hic auctor, utu eunque acerrimi ingenii,in eo fuitminus felix, quod.veteri placitis rariffime aſsétitur,& vix,nifi in iis rebus,in quibus il li ex certisſimis, demonftratis neotericorum obſervationibus manifeſte coarguuntur Ma ſe dalla maniera del medicare argomentar lece il va lor de’ſiſtemi della medicina, certamente in ciò quello dell' Elmonte tutt'altria molto ſpazio ſilaſcia addietro. Per ciocchè oltre alla contezza delle buone, e valevoli medi cine,, ch'egli ebbe pronte così ſempre fra le mani, cotan to egli vanraggioſli negli ſtudi del ſuo meſtiere, e di si acum to intendimento fu, ch'avviſando i graviflimi danni, che per li ſalaſſi, e per.le purgagionipoſſono intervenire: e'l veleno, che per entro quelle ſi naſconde: così nimico ne fu, e così ritroſo d'adoperarle, che come confeſſa Andrea Cel lario, comechè Galieniſta ', baud paucis medicam artem profitentibus oculos aperuit. Ne laſcioſſi in ciò menare alla piena del ſecolo,oalla famoſiſſima rinomea del Paracel lo, che non aveffe egli ſolamente intefo quelle medicine, operare, le quali ſenza recar moleftia, o noja alcuna allo in. fermo, fan vuotare ſolamente ciò che cagiona il male.Per chè egliin cotanto pregio,e onor crebbeneadoperando ciò anche nelle più gravi, e pericoloſe malattie, che daGalie niſti medeſiıni, non che da altri, ne venne ſommamente commendato, e quaſia miracolo tenuto. Così infra gli altri Andrea Cellario in facendo parole di lui, e del Paracelſo nel terzo tomo dei fuo Atlante celeſte, Chymicarum, dice, operationum adjumento admiranda hatte nus præftiterunt, ac talia medicamenta produxerunt quæin morbis illis natura humana penetrantibus arêtius, altius fe infinuantibus, & remediis à natura productis cedere ne Sciis, primas terent, &vulgaria medicamina longe ſuperăta E per tacer di Daniello Orftio, Nicolò Franchimorc famo fillimo maeſtro infra'Galieniſti nell'Accademia di Praga, in una piſtola mandata all'Arciveſcovo di Colonia,dilui di ce: Helmont pater tanti fiebat Bruxellis, ut non niſi deſperati ad illum quafi ad ſacram anchoram confugerent: quorum non exiguum numerum ab orcifaucibus eripiebat; enon ceſſaro no i rabbioſinimici d'orrevolmente commendarnelo, ſtret ti a ciò dalle maraviglioſe cure di lui,per tacer de’liberi mc dicáti Frāceſco Glišonio, cd Olao Borrichio, che nó ſi veg gion mai ſtanchi di ſommamentelodarlo. Ma cotantielo gj pur nulla fono in riſpetto di ciò, ch’in ſua loda vantano i più nobili filoſofanti del noſtro ſecolo, ciò ſono il Gallen do, elBoile, ed altrimolci di non poco pregio. Ma doler ne dobbiamo eternaméte dell'Elinõte,come di quello, che niuna delle ſue nobili, e prezioſe incdicinema 1 wifeſtar ci abbia voluto, e quancunque ilParacelfo nie al tri valenci Chimicigliene aveſſero dato eſemplo; non do vea pure egli, che sì corteſe, umano, e compallionevole dell'altrui miſerie unquemai moſtroflisin ciòimitargli. Ne da coſa, che di tanto pro era al mondo rutro,dovea diftos lui, lamalignità d'alcunimedicanti, i qualificome uſura parono ingiuſtamente gran parte de' ſuoitrovati ſenza fag di lui menzione, così parimente avrebbon fatto delle ſues medicine. Ma ſe egli più lungamente l'Elmonte viſſuto foſſe, con dar compimento alla ſua maggior opera, che la cera, ed imperfetra in man del ſuo figlio rimafe, avrebbes forſe di sì fátti medicamenti alquanto più apertamente fas vellato, Ma affai più tardi certamente di quel, che fi richiedev. per avventura miſeſi in alletto Pier Giovan Fabbri a dar cominciamento all'opera del ſuo novello ſiſtema della ra zional medicinazimperocchè egli da prima dietro la vanità dell'Alchimia per convertire in oroi più vili metalli conſu. mò lungo tempo, ed appreſſo trapaſsò ben ſei luftti medi. cando altrui, ſicome egli ſteſſo confcſſa, ſenza alcun fruta to mai ritrarne; ne maigli venne fatto di ritrovare in tutto quanto quel tempo medicina, chevalevole a domarfolie le malattie; e quantunque egli dì, e norte ſtudiato avelle attentamente ne’libri d'Ippocrate,e di Galieno, e molti cu daveri aperti d'huomini, e di bruti, per inveſtigar l'efficie ti, e le materiali cagioni dc’mali: non mai potè giugnere a ravviſare i luoghi de' putridi umori, ne in parte veruna di ſano, o d'inferm'huomo, o la collera, o la flemma, o la malinconia putrefacte ſcorger giammai. Il perchè pres'e gli per partito, di voler,laſciando le altrui autorità a nons calere,per ſe medeſimo metterſi ne'più cupi pelaghi della filoſofia navigando; e poi i ſuoitrovati al giudicio de'fa vj, e diſcreti eſtimatori delle coſe rimettere, così dicen do: Si rationes mea, cu experientia non optimę videan tur, trutinentur, &ponderentur diſquiſitione naturali, ut Aquid falſi continere videanturrejiciantur omnino, Celia minentur prorſus à fcholis: quod fi vero probe experiantur lii quid 1 1 434 * Ragionamento Sefto 1 quid ni. amplexabuntur,tutabuntur. Primieramente avviſa il Fabbrila materia, onde fon le Senſibilicoſeformate efferpalpabile, viſibile, e falda na giddiſtinguerſi dalla forma, la quale fecodo luisaltro no es cheuna propriedeionatæ, virtùnella materia,laquale poits chè è ufcica fuori sidiſtingueda lei,come dalla ſua cagio nel'effetto. Ondeagevolmente può ſcorgerſi,che ſefalſe andato il Fabbriin si fatca guiſa piùavantifiloſofando, faa rebbe egli per avventura a qualche buon terminepervenu po: ma egli appenamefſoli in camino, ſmarrì il diritto fen: tiero.. Immaginò il Fabbri la prina materia non eſſer.al extocheil fale dell’Vniverſo nelquale il folfo ilmercurio, ed'un'altro ſale ſi contêga: e credette ', che queſto medeſir no áveffe voluto dire Ariſtotele, la dove della priina mate ria cosiofcuramente favella. Vuoldivantaggio egli, chę tutte le coſe, omallimamente l'huomo abbiano dentro di ſe un tale fpirito volanto oleremodo, e diſcorrente, di cui tutteleſueparticompoſtebeno, ed'onde tutte l'operazioni della vita, e tutte quelle coſe avvengano, che ſi oſſervano nellemalattie. Queſto ſpirito, dic' egli, che nel fegato e alquantogre /fo: ma più ſottile nel cuore e ſottiliffimondi seżvello; naſcere:ad un parto colfeme, e nel'naſcere venir dalle ftelle arricchito della luce, la quale ſecondo lui èlau farma eſſenzialc, non ſolo dello ſpirito, ma di tutt'altres coſe del mondo... Stimapariméte il Fabbri:altro veraméte non effer. Ja na tura, falvochelaluce', e che dallaluce ilmovimento, e la quiete a'corpitutti dell'univerſo dirivi, e ſecondo più, o meno, che lo spirito participidella luce, tanto più, o me, noegli nelle ſue operazionivigoroſo, e potente divenga, Immaginaancora ilFabbricheentrije penetri l'anima dell? huomo allo ſpirito, e che lo ſpirito poia tutte le parti del ſuo corpo l'anima uniſcaaMa:Io pur troppo lūgone diver, reiſe volcliquitute'altri ſtrani ſuoi diviſaméti narrarvijne midarò impaccio di contraſtarglije gittarglia terra aduna ad uro ', facendomia credere, che ciaſcun da per ſe in ſen dendogliraccontare,o.in legendogli ſia per accorgerſi coſto della lorvanica. E cerramenteſe alcuna coſav'hadibuone no nel Fabbri yella è colta di peſo.al Paracelſo, all’Elmon të, e ad altri valorofi Chimici: marelle eſſendo poi da lui có altre volgariopinioniaccozzato vengono a perder tāto del lor valore, che ſembrano prezioſegemme dal vil fangoia cretate. Or quantoal fatto del medicare e'non ha dubbio, ch'al ſai dappoco ſi dimoſtraſſe il Fabbris imperocchè tralaſcian, doda parte tutt'altre mal fatte fue cure: nella peripneu. monia vuolegli, ch'abbondantemente abbia da principio a trarſi ſangueallo infermo, c poi collc viole; e collo fpiri to del vitriolos o con altri simili argomenti abbia z rinfre fčatli quel caldo, che collo ſpirito della vita di foverchio nc'polmoni ribolla: ed il feguente giorno coll'antimonio ábbia aprocacciarfegli il vomito, acciocchè con tal move mento venga ad aprirli alcunapoftema, ove vi ſia. Ein tãto fi cibi l'infermo d'orzate colſal della prunella, e collo { pirito del vitriolo.Orchi mai divifar potrebbe più folli di vifaméti di queſti e ben per'talie'medeſimo gli conobbes poichè altrove confeſſa, che le più valevoli medicine alla peripneumoniafianla verga del Toro,e'lſangue dell'Irco. E certamente dagli acetoſi medicamenti, che altro maiſe non ſe grave danno avvenirpotrebbe a coloro, che di pe ripneumonia patiſcono; la qualgiuſta i fencimenti del Fab bri,dall'acetolità s'ingenera; e oltre aciòcol purgare l'in fermo con sìpotente vomitivo, poich'egli è divenuto fpof fáto, e fievole per l'antecedente falaſſo, qualpro ſe nepos trebbe per lui fperare? mafopra tutto dal trar fangue, qual buono avvenimento ne potremo giammai attendere? Ed o quanto fe più ſenno il Fabbri, allorche dall'Elmonte ay viſato,de'ſalaffi altrove in altra guiſa favellando, ne diffes: MirorParifienfium medicorumpertinacitatem, curationem febrium, & ferèmorborum omnium in fanguinismisſione lar. ga, ocopiofa collocantium: cum fepe fæpius caulja moru. borum, & potisfimumfebrium tam continuarum, intermite sentium non refedeat in fanguine, imovirtus s proprietas: lii curana curandi morborum omniü in fanguine collocetur,cum arcbeūs visalis fanitatis economus, & morborum amniumcuratorin fanguine refideat: ea fublata,dlarga manu effufo effundan, tur etiam unacumſanguine vitalisſpiritus, undevires tola luntur, di diffunduntur, &perinde tota rotius corporis nad Cura debilis admodum fit, do curatio etiam morborum omniū, que ab ipſa naturadependetevaneſcit;ita ut loco illius fubfc quaturmors; aut incurabilismorbus, E quinciſcorger li puote altresìchiaramente,quáro bere gol fi foſſe,e incoſtante ne'ſuoipareri il Fabbri, e quanto malagevole; c dura impreſa lia lo ſcaricarſi delle falle opi nioni fin dalla prima giovanezza concette, e per vere al. cun tempoi fermamente credute; il che nella ſtoria della cure da luifatte più chiaramente ſi ſcorge;nella quale fto ria, e nel divilainento altresì delle chimiche medicine po trebbe da luiper avventuralealcămaggiore, epiù ſincerità d'animo ricercarfi; maciò traſändando, quanto al ſuo liſte maſo replicherò, licome poco addietro accennava, che troppo vacillante, e caduco e'fia,eche il Fabbri poco, o niente non badando ad inveltigar la natura de'ſuoi primi principj,forz'è,ch'egli abbia a rimanerſene fenza poter mai de’loro effetti aſſegnar la vera cagione. - Ma la SignoraD. Oliva Sambuco, della quale lodovea molto addietro, l'ordine de'tempi (erbando, far parolesar vegnachè ſtudiata ſi foſſe continuo di ſvilupparli dagli er: rori de’mueſtri, e delle dottrine già da loro imbevute: pur tanto non potè ella dimenticarle', che non vi frameſchiaffe qualche ſentimento di quelli talvolta entro al ſuo ſiſtema Svétura nella quale i più famoſi filoſofanti veggőfiancora incorrere; perchè la ſua medicina non altrimenti, che quel le deglialtri razionali, è manchevole, e difertuofa; edan co tale ventura certamente le avvenne, per non aver ellow avuta cortezza della chimica.Ma nocquenon poco a'ſuoi divifamenti l'aver ella più di quel, che fi dovea,preſtata... credenza alle parole di Platone; et non eſſerfi a que’rem pi aperca ancor la {trada della vera filofofia. Immagina la Signora D.Oliva effer l'huomo ana travol ta pianta, le cui radici fian nel cervello, onde un bianco fugo dipartendoſi ſe'n vada il tronco, i rami, è tutto il ri manence a mutrire, tal ſugo bianco vuol che ſia freddo, umido; mache nel fegato facendoſi roſſo: caldo, e umido altresìdivenga; e che nel cuor finalmente ſcambiato in să gue, in caldo, e fecco fi muri. Il calor del cuore crede ela la, che ſerva all'huomo, come it caldo del ſole alle pian te; e che'l bianco fugo faccia l'uficio de quattro elementis fcorrere dal cerebro cotal ſugo per la pelle, per li nervize per le dilicate pellicelle, o membrane, che vogliam dire, delle vene:mapoiin roſſo, e ſanguigno umor convertitos per altre vie, cioè per le vene, e per le arterie ritornare. Or queſto fugo ove ſia malignato,fuor delle proprie vie sboce cando per tutt'altre parti del corpo ſconvenevolmente an dar penetrando, contro il provveduto ordinamento della natura. Tutto adunque il Florido,e vigoroſo ſtato di queſtº arbore, vuolella, chedalle radici, cioè a dire dal cerebro avvenga: la dove fc quella, che pia madre fi appella, la dura madre toccando, ftiano ambedue ſollevate, e diſteſes e quali alcranio appiccare, allorvederſiverdeggiante, e fiorita tutta la pianta: ma ſe mai divengan vizze, o alqua to s'abbaffino, fanguire parimenre lei; e quando finalmen te la pia madre ſia dalla dura totalmente ſtaccata allor non poter avere a niun modo più vita. Con queſto trovato, o purcon queſta ſomiglianza dell'arbore, vaella tutti i con. venenti della vita, e della morte, e della generazione, u della corruttura dell'huomo, e de rimedi, e delle malatı tie acconciamente fpiegando. Tali ſono i divilamenti dietro alla medicina della Signo ra D. Oliva; i quali comeche pajanoin gran parte dal vc to lontani, purealcuni di loro ſon tali, che non poffeno. fenza lunghi encomj, enon ordinaria maraviglia guardar fi; edIomifarò lecito d'arrogare a sì valoroſa donnaquel che già della poereſſa Sulpizix diſfè Giulio Ceſare della Scala:ut tamlaudabilis heroina ratio habeatur non anime objicere ei iudicii ſeveritatem: Ma crapaſsado al ſiſtemadella medicina di Tomaſo Vil lifio; egli ſipare, ch'in fula foglia appunto diquello con ciamente fdrucciolandovaneggj. Imperocchèavendoegli Popinion d'Ariſtotele rifiutata intorno a' principj delle cos fe, ficome troppo groſſa, e ſciocca: e quella di Democri to, e d'Epicuro, ficomefoverchiamente ſottile, e da’ſenli lontana: alla perfinc egli alnuovo diviſainenco de'Chimi ci tutto s'appoggia, e vuolche ciaſcunacoſa di ſpirito (co sì chiama egli ilmercurio ).di ſale, di ſolfo, d'acqua, e di terra formata ſia; perciocchè in quelli ciaſcun corpo ſenga bilmente ſi riſolva. E con quelto cinque ſoſtanze, in ciò, che elleno ne'corpi compoſtihanmovimento e proporziou ne, ſi ſtudiacgli, e s'affatica di dar ragione dell'apparen ze cutre della natura, e ſpezialmente diquelle,ch'alla mc dicina s'appartengono. E comechè egli apertamente con felli cotali ſoſtanze non eſſer ſemplici, ma comporte, e me ſcolate; pur tutto il ſuo diviſamento quì egli fermando,no fi prendepiù avanti briga di ſpiar di cheforte priacipj fora fono quelli, onde le ſue prime cinque ſoſtanze ſon compo fte; anzi egli dice, che non avendoviragionc, o ſtrada al cuna da potergli avviſare, ſciocchezza ſia l'entrar nel fara netico didoverciò fornire:e qualunque coſa ſe ne dica eller più coſto un grazioſo diviſamento, e voler giudicarc allas ventura, ea riſchio delle.cofe del mondo, che conſaldez za di buona filoſofia ragionarne. Ma quantochè egli con ciò di ſcagionar la ſua dappocaggine s'argomenti, imper: tanto maggiormente in altri, e altri ſuoi divifamenci egli s'accagiona; perciocchèa chiben vi ponga menre, tuttoil fuo filoſofare, avvegnachè egli contro i buoni filoſofi fa vellando, dica procudere,autfomniare philofophiam me nola le, lubens profiteor; altro nel vero egli non è, ch'un andare alla cieca, e taftonc,ſenza certezza alcuna. Ma ciò laſcia do ſtare, o non s'avvede egli, o s'infigne di non accorgerſi in dicendo chelo ſpirito una coral ſoſtanza fortidiguna, ë voláte Gia; che spiegar uc doveva come cotal ſostanza s'av valli, e fi deprima, c come poi ſi cſalti, e come con gli al tri principj ſi meſcoli: c comc ammendi, e affreni i ftraboc chevoli diſordinamentidel ſolfo', e del ſale: é comequela to tante, e tant'altre operazioni faccia, le quali egligliat tribuiſce. Certamente non mai egli ſaper potrà diche. for te particelle quelle: fiano, ondela ſottigliezza dello ſpirito diriva; e colcoccare, che colmuovere ora in uno, oras ialtro modofogliono negli altri corpioperare. Eben'e gli dovera (ficomca buon filoſofante ſi conviene, ilqual fondar voglia ſiſtema di cazionalmedicina) dalle appareze degli effetti la natura delle loro cagioniinveſtigare: cav vifare, chenon puòlo ſpirito effer diſcorrevole, ſe di pre fente nonceda atutti corpi ſaldi, che perentrovi paſlino je perchèeglièda dire', cheloſpirito ſia in molte, e moltes particelle diviſo: le quali continuo movendo infra loro sé.. pre ſeparate ftiano;ne lo ſpirito,foctile,c volante efferpuðn e per cutto perretrare, ſe le ſue particelle picciolitime non fono, esì fåttamente foggiate, che molti gomiti 20 angoli, non abbiano. Neper darragione dell'opere del ſolfo giova ſapere eſ fer quello, licomc egli dice, di coſtruttura alquauto più groffa', emaggioredi quella dello ſpirito; e che da quello nafca il calore, cla varietà de'cofori, e degli odori alle co fe, e l'a lor bruttezza, e bellezza: c per la più parte la di verſità de' ſapori; perciocchè quantımqne tutto ciò vero fi foffe,cheegli ſenza niuna pruova farne grazioſamente, afferma, ben potevaeglidall'apparenze,che dal fólfo vega giamo, argomentar, che le particelle diquello comeche, in continuo movimento anch'elle fteano;ficome quelle dela 16 fpirito e fiano peròmeno pulite, e ſdrucciolantii, calia quanto' famoſc. E què è danocare, come il Villiſio vada divifando dellacomplellion del fuoco; egli dopoaver ava vifato effer quello ſomigliantiſſimo alla materia prima de Peripatetici, in ciò che in tutto partire in niuna dice quel, lb allignare, così poi faggiamente ſi ſpiega:Ignis exfuina tura nullibi exiſtentiam, ac certum durationis modum obtin net. Quindifoggiugne: formaignir omninòdepēdet à para siculisfulphureis infubjecto quopiam agglomeratis.y - cona fërrimerumpentibus a quodque ignis nihil fit aliud, quam ejuſmodiparticularum impetuofius concitarum motus, deras ptio.Ma s'egliaveſſe mai poſtomente alle particelledel fol fo, le qualieſſendo di neceſlità ramoſe, per la loro figuras non così acconce ſono a muover velocemento, e a penetrar ne'corpi più duri, e fpeffi, ficome far veggiamo al fuoco: il qual perciò dice Democrico aver gli atomi ſuoi ritondi: non avrebbe certamente eglicosì di quello filoſofato. Ma Signori ancor Io immaginava una volta cosi andac la biſogna del fuoco, qualla giudica il Villiſio: e acciocchè ceſſar poteſli le malagevolezze propoſte, mecomedeſimo penſava doverſi i ramidel ſolfo piegare in ingenerando il fuoco, e in ſe medeſimi ravvolti formar cotante ſperette, acciocchè agevolmente muovere, e penetrar poteſſero; ma meglio poi il mio divilamento vagliando, ricreduto, igannato inutaiparere. Convien dunque dire, chele pare ticelle componenti il folto diduefogge ſiano, una ramoſa, e un'altra ritonda. E cosìſomigliante doveva egli delle particelle de'fali filoſofare, e ſpiar le vere cagioni dell'o perazioni di quelli,e di que’loro ftati, ch'egli chiamafram fionis, volatizationis,& fluoris:quali egli ſpiega co ſole pa role ſenza recarne giovamēto alcuno. E certaméte non per altro ciò egli adopera, cheper non curar d'inveſtigare la na túra, e la propietà de'componenti di quelli. E doveva bé egli quanto più ciò era malagevole a fornire, cotanto mag giormente argomentarſi perogni ſtrada diaggiugnere infin dove colla mano, ecol ſenno arrivarpoteffe: e cið mallima mente egli col conſiglio dell'incomparabile Boile, edal. tri valorofiffimi filoſofanci fornirpoteva; ma egli per cele far farica non volle di cotante biſogne imbrigarſi: perchè poi diſguiſata, e ſconcia la ſua filoſofia ne divenne. Eles non da altro, almeno dagli effetti de'ſali,ch'e' continuo da vanti agli occhi avevasben egli in ciò, che quelli folvonli nell'acqua, e a temperato fuoco ſeccanfi, ca gagliardo fi fondono avviſar poteva la natura delle loro particelle, e di quelle di tutt'altre generazioni de' ſali: e ancora in ciò che quelli,davolanti divengono fiſſi, e da fiffi di nuovo volar ti. E Gimigliante da ciò ben'egli inveſtigar poteva in che convengano le particelleinfra loro, le qualicotante gener razionidifali compongono; e in ciò ancora, che i volanti ſali agevolmente le loro propierà lafciano, divenendo da aſpri, e amari, e acetofi: dolci, e foavis e per contrario da dolci,e ſoavi:acetofi,e aſpri, e amari; e alla per fine inciò, che i ſali di qualúque ſorte ſiano, ftranaméte cambiadoli, e laſciádo illoro natie ſapore, e ditutt'altre propietadiſpo gliádoſisin ſalfezza ſolamēte ſi rivolgano;perciocchè da ciò tutco ben'egli argométar poteva eſſer i ſali compoſti dipar ticelle acconce a cambiar figura: 0 pure non eſſer quelle in loro d'una medeſima forma, madivarie, e diverſe figuu te foggiate. Quindi oltre paſſando avviſare' poteya', iſali acetofi, in ciò che recano acerbiflimi dolori, eſfer d'acutif fimc particelle compoſti: e l'altre generazioni de' fali cſfer più, o meno di quelleforniti, ſecondainenteche più o me no il palato nepungono. E così anche dell'acqua, e della terra dannata certame te a lui faceva meſtierdi filoſofare, ſe aggiugner voleva al ragguardevol nome di buon filoſofante. E comechè negat non fi poffa che per la maggior parte riuſcir ſogliano gli ar gomenti tanto, o quanto probabili folamente, e ragione. voli ſenza ſaldezza alcunadicerta verità; non però dime. no egli è il migliore affai, ſtudiarſi, e affaticarſi per via di conghietture,ed'argomenti d'aggiugnere a ciò, cheper noi non ſappiamo: checosì ſenza nulla imbrigarfi d'inve ftigarne, laſciarlo vergognoſamente in non calere pernou Ara dappocaggine: Ne lo al preſente midarò briga d'eſaminare il poco lo devolfiloſofare del Villiſio intorno alla formentazione, al ſangue, alle orine,alle febbri, e ad altre malattie; percioc chè ognuno agevolmente veder può, che non è altrimenti ſaldo filoſofare il ſuo, ma ſolamente ragionarea riſchio, e a voto ſenza fondamento alcuno; e ben potrebbe per buo monegarſi poco men ch'ogni coſa, ch'egli afferma, ſenza timore d'eſſer dalle ſue anfanie, e da'ſuoi aggiramenti rim beccato. Ma non però di meno montò egli in qualche buo nome dei ſuo meſtiere, per eſſere Atato egli molto avventurato ne’luoi emoli; perciocchè de’ſuoi tempi abbatteſt in tal, che nulla ſappiédo delle coſe della natura, volle ſcioc camente e con fanciulleſchi argomenti carminarlo; per chè non durò molta fatica il dottiſiino Lovero ſuo ſegua ce', non tanto d'inframmetterſi della difeſa di lui, quanto per ricredere, e rintuzzare la tracotata beffaggine dello ſciocco Galieniſta; e nel vero ſe filoſofo ſtato foſſe il Mea La, avrebbe egli minutamente ciò che lo ho accennato del la medicina delVilliſio in prima detto. Ma nella notomia il Villifio fu molto ſcorto, e avveduto, intanto che non v'ha notomiſta alcuno, che meglio di lui, e più ſottilmente le parti del cervello ſpiare aveſſe;ma da cià altro certamente noi raccoglier non poſſiamo, che la pro poſta da noi cotante fiate dimoſtrata,ora maggiorméteper fuadere: cioè a dire che vano, e inutil ſia il diviſar di me. dicina razionale: ne medico poter giainmai in quella tane to, o quanto vantaggiarſiz.conciolliccoſachè dalla lunghif fima, e inolto ſcorta diſaminazione, ch'egli fa dell'uficio delle parti del cervello, non altro certamente ora ne ſap piamo,chequello, che in prima fapevamo:: cioè a dire nulla di certo. Quanto alla maniera del medicare fu egli ſenza fallo ſciocco,, e infelice aſſai; perciocchè dopo aver appreſa, ed eſercitata la medicina a quella guiſa, che in Inghilterra comunemente coſtumavali:volendo egli filoſofare ſopra quella, ſi perſuaſe, che le continue ſperienze, così.dover fi medicare additato aveſſero; perchè non guari egli lontan facendofia'comunali rimedi, nel ſuo ſiſtema,ſtudiof ſi di darne a credere eller quellii veri argomenti da raccato tarne la ſanità, ricoprendo con sì fattoavviſola ſua beſſage gine, c non rinvenendo nulla per giovamento de'cattivelli, inferini'. Anzi vi fu di peggio nella ſua medicina, che non che valevole argomento egli mai ritrovato aveſſe: anzi in qualche biſognatalvolta, ove i volgarimedici bene ado peravano, egli diverſamente ſentendo dipartiſlene. Ma prima difar parola della maniera del ſuo medicare, egli conviene avviſare, cſſer poco ragionevole ciò che 1 1 d egli giudica, cioè, che la febbre finoca puerida,ficome egli dice, per eſſenza ſempremaiſia: e che la pleureſi, la peri pneumonia, l'infiammagion della gola, e altri fomiglianti mali ſiano effetti, e non cagioni della febbre; conciollie cofachè ciò manifeftamenteripugnar ſi vegga all'evidenza: avviſandoſi fempremai tratto tratto avanzarſi, e ſcemarla febbre, ſicome Icema, o creſce l'enfiagione; anzi talora prima d'apparir la febbre: il dolore, c l'enfiagione appa fiſcono: e cominciandoſi poi la ſoſtanza ivi cntro racchiu fa'a formentare, e a comunicarſi al ſangue, e far ſaccajan comincia altresì la febbre. Ma più manifeſto ciò s'avviſa nelle ferite, e allor che qualche ſcheggia, o ſpina, o altrás ſomigliante coſa nella-carne ſi ficca;perciocchè ivi a poco accendefi la febbre nella piaga ſolaméte, enelle parti prof ſimane, e talor anche pertutto il corpoſi fpande; e leav vien, che le fibre alcuna fiata enfino, ciò nulla rilievaan dover far pruova del ſuo diviſamento; perciocchè quella medeſima cnfiagioneſarà anch'ella cagion della febbre, no già effetto, ſicome immagina il Villilio; concioſliecoſachè manifeſtamente s'avviſi in sì fatte eiffiagioni rattenerſi il ſangue, e dal ſuo uficio rifturfi; perchè poi naíce la febbre; ne ciò potrebbe in piun côto negare il Villifio, confeſsado egli medeſimo quefta verità: Ab ejuſmodi tumore,dice egli dellenfiamento delle fibre, calor, e dolor in parte intendű. tur: fanguis in motu ſuo magis perturbatur: adeoque febris accenfa plus aggravatur. Ma non men vano, e falſo è ciò ch'egli giudica dell'ingencrazionedelle febbri, che chir mano intermittenti; la quaic opinione potrei lo agevolme te rifiutare:ma perciocchè egli è manifeſta aſſai la ſua fal lanza, e per non dilungarmitroppo me ne rimango.Sola mente dico ciò lui fare perpoternella cura delle febbrila biaſimevol coftuma de ſalafi ritenere; nella qual certame te cotanto egli è più de'Galieniſti medeſimi tracotato, che ovei più avvedutifra loro nella terzana intermittétenõ ar diſcono a trar sāgue, egli pur vuol, che trar fi debba, accioce chè col ſuo mcnomamēto il sāgue fi rinfranchi, e ſi rinfre ſchi, e mcnos'accenda, e più liberamente ſenza riſchio ď K k k incendimento diſcorrer poſſa, e riandar perla perſona.Ma ſe aveffe avviſato il Villiſio le terzane intermittenti divenir talora per li falalli contine, certamente cgli non avrebbe così follcmente ragionato. M2 apertamente ſi vede, ch'egli dictro alla bruzzagliai de’volgari medicanti, più negli effetti de’mali, che nelles cagioni di quelli s'indugia. E per favellar con lui, ſecon do iſuoi medeſimi ſentimenti, ſe la terzana s'ingenera, per ciocchè il facgue ſtrabocchevolmente mordace, e punge te,non intride, e matura toſto il ſucco nutritivo: mala maggior parte di quello in una cotal materia nitro - ſulfurca corrompendo muta: come potrafli ella maiper lalafo am mendare, ſe il ſangue, che riman nella perſona, anch ' egli mordace, e pungente vi rimane? certainente egli ancora, ſe non ſi addolcia, farà valevole a corromperc, e guaſtare il ſucco nutritivo, e ingenerar la febbre; anzi tanto mag giormente, quanto per lo ſuo fcemo, più debole, e fpoſfato diviene a rintuzzar quella mordacità, che'l corrompe,me nomandoſi in lui quella nobiliſſima ſoſtanza,che ſolamente poteva nel ſuo intero affinamento ritornarlo; perchè poi il ſangue, che di nuovo s’ingenera, diverrà ſenza fallo pig. giore: e non ben digeftédoſi il cibo, il ſucco nutritivo yer rà anche a ingenerarſi cattivo: e manterrannc quel calo re, checol ſalaſſo iinmagina di ſcemare il Villiſio;ſenzachè è egli inolto di riſchio il ſegnar nella terzana; perciocchè tra per lo cibo, che dentro dallo ſtomaco de’inalaci ſi cor rompe,e per lo sfoggiato calore,ch'allottigliando, e diradi. la collcra nel ſuovalo avvić,chequella nello ſtomaco ſi tra sfonda, e cotanto mal cagioni: ſicome a quel giovinetto nobile intervenne, di cui narra il medeſimo Villiſio,che no oſtante la cardialgia avendolo cgli fitco ſegnare, piggioró ne sì fatcamente, chequali ne fu per debolezzamorto, gliene ſeguirono fieriſſimivomiti,e ſpalime, c rivolgime ci d'inceſtini: ne alleggioll in lui il dolore, ſe non ſe nel de clinamento del male. Vuole ancora il Villiſio, che trarſi debba fangue nello febbri, ch'egli chiama efiimcre, e nella finoca putrida, ac ciocchè perlo falaſſo diradandoſi il ſangue fia ventato: e le particelle calde di quello per affoltata non ſi accendano; ſi. coinc adoperar veggiamo a contadini, i quali rivolgendo, e ſcioperando il fieno difoverchio riſcaldato, fannogli pré dere rinfreſcamento. Ma egli è certamente ſogno del Vil lilio, che liquorsche continuo muova, e diſcorra, ficome il ſangue, abbia quelle particelle, ch'egliſcioccamente chiama calde, le quali poſſano ſtare ammonzicchiate,e af faſtcllate, ficome ficno in palco, maſſimainente, che pic cioliflime, e ritonde quelle fono, e ſi muovon rapidiſſim.2 mente allor che fanno il calore; perchè malagevolmente ſtar poſſono inſieme, ſe da qualche materia viſcoſa, e tenz ce non ſianoben prima appiccate. Perchè è da dire, che fconcio, e ridevole oltrcmodo ſia il paragon del fieno dal Villiſio apportato,in cui lo ſtrignimento premendone il fucco cagiona la formentazione, e'l riſcaldamento. Maw oquanto meglio egli avrebbe adoperato, ſe non già con falalli, ma con rimcdj acconcja ciò fare, ſicomealtrove per noi è detto, ſi foſſe argomentato di ſventolare il ſangue, edirinfreſcarlo. Ma egli più oltre traſandando vuol che da ſegnar fiano anche i fanciulli: quandoil medeſimo Ga lieno, che de ſalaſli fu cotanto amico, e altri antichi medi cistutti ad una giudicano efſer quelli ſommamente a' fan ciulli dannevoli, e da fuggire. E avvegnadiochè egli molce novelle ne racconti d'alcuni febbricoli da lui felice mente col fataſſo guariti; non però di meno, ficome egli medeſimo teftimonia, non pochi ancora ne poſe per la ma la via; ne è da credere, che coloro che ne camparono,fof fcro da falaſiajutati: anzi per qualche altro argomento, o cagion da’lui non conoſciuta celsò loro la febbre: e fuma raviglia, che infermo, chenon potè reſiſtere alla febbre ', aveſſe poi la febbre inſieme, e'l mal del falaſſo contraftato. Che ſe veggiuno noi alcuni avvelenati ſenza cóſiglio niu no campare, e altri cadere ftraboccati da alto ſenzafiaccar fi il collo: ele ſcoppiate delle bombarde alcuna volta non colpire, perchè dobbiam noi dire i ſalali ſolamente, per chè talvolta non ammazzino, non effer mali? Ma ben disi travolto diviſamento portonne egli la pena il Villiſio; per ciocchè co'ſuoicari ſalasſi-egli-medeſimo s'ucciſe. Ma gľ Inghilefi, huominicotanto pertraffichi, e per uſanze co noſciuti di tutte coftume della maggior parte del mondo, Io non sò lo come ſi laſcino ciecaméte portare alle beſlag gini de’loro medici, e non più toſto rimirino alle varie, ¿ diverſe nazioni, colle quali eglino uſano, che ſenza laper mai di lanciuole, o dimignatte, e ſenza 'logorar goccia di ſangue ſtan bene delle perſone: e ſe pure infermano, altri argomenti coſtumano a raccattar la ſanità, che i nocevoli ſalaffi. E per non andar ricercando detl’Indie, e d'altres a noi rinnotiſfime partijagevolméte ciò potrebbono avviſa re da’Mori: i quali, ſicome teſtimonia quel gran Maeſtro in divinità Tomaſſo Campanella, le malattie tutte col ſolo di giuno, e colle unzioni, e co ' tropicciamenti curama. Ma non meno ſciocco, e poco avveduto nelie purgagio niegli ſi fu il Vihiſio; concioffiecofachè egli talora ſenza riguardare al tempo delmale toſto le purgative medicine,e le vomitative impor foglia, con graviffimo danno degli in ferini; e ciò egli vuole anche dove la febbreſia grande, d'accendimento dentro agevolmente temer fi poſſa. Ma quanto poco fermo e' ſi foſſe nelle ſue regole il Vil lifio, manifeſtamente egli medeſimo il ci da a divedere, al for che dopo averdiviſato ſecondo fua poſſa a che debba il medico riguardare per dovere acconciamente i ſalaſſi, e le purganti medicine adoperare, maſſimamente nelle feb bri peſtilenzioſe, e maligne: alla per fine avviſando egli la vanità de'ſuoi diviſaınenti, e dimentito della certezza della medicina razionale, non altrimenti, che ſe volgare impi rico e' fi foffe, conſiglia imedicifuoi ſeguaci, che ſi laſci. no ſolamente in ciò alla ſperienza guidare. In his cafibus, ſon fue parole, prater medicicujuſque privatum judiciums; experientia potiffimam mededi rationem fuppeditat; cã enim hæ febres primo graffantur,finguli ferèfingula tētăt remedia: diex eorum fuccesſibus una collatis facilè edifcitur, qua li demum methodo innitendum erit, donec ultimo crebro ten tamine, feu tranſeuntiuin veftigiis via quafi regia, « Lata ád bujuſmodi affectuum rationem texitur, variiſque obſerva tionibus, monitiſquemunita, Or quinci manifeſtainente comprēder puoſli quanto po co egli affidato nel fuo fiſtema di medicina, il tutto nel ſens; no, e nell'intendimento de'mediciavveduti roveſciaſſe, giu dicando non eſſer rimedio cotanto certo, di cui noi poffil mo vivere a ſicuranza. Ma non ſi dec egli nondimeno privar della meritata lo de il Villiſio, per eſſes e' ſtato certamente il primiero tra' Chimicimedicanti,ch'abbia avuto ardimento, rendendo giuſta ogniſua poſſa cagioni veriſimili di tutte le coſe, di fabbricar un ordinato ſiſtema di medicina razionale, e ſopra tutto per quelbel libro, ch'ei compoſe della Farmaceutica razionale; ove egli s'ingegna di dar ragione dell'operazio ni tutte, che ſi fanno ne'corpi umani dalle medicine. Ma non già egli però, come par,chemillanti con queſte paroleg. Spartam hanc fcilicet operationis pharmaceutice Ætiologiam, prius fere intactam, fi nunc temere agreflus, non dignefatis abfoluero, veniam utcunque merebor, quia terram non modo: incognitam,fed, GvaldeSalebrofam,&quafi labyrintheam peragrare. incumbebat, fù’l priino aqueſta opera; poichè il Paracelſo, e l'Elmonte, ſopra i diviſamenti de'quali áp-, poggia tutta la ſua machina il Villiſio, ne trattarono, tut tochè non ordinatamente aſſai n'aveffero eglino favellato Ma ne a queſti, nc al Villiſio, per non aver eglino conſide rata innanzi tratto, e riandata con diligenza la natura del la coſa, cioè que’principi primi, ondederivano immedia tamente le operazioni de'medicamenti, riuſcì il-finir una sì commendevoleimpreſa, con quellafelicità, che le avca no eglino dato principio. Malaſciando dipiù ragionar del Villiſio, e del ſuo liſte ma, a quel di Franceſco delle Boe Silvio trapaſſeremo;egli fin da primi anni il Silvio, licome di lui narra Luca: Schache negli ſtudi d'Ariſtotele, e di Galieno involto, do po lungo tempo a ciò logorato, veggendo alla fine, la Chi mica di que' tempi a grandiſſima altezza ſormontata per le maraviglioſe cure dell'incomparabile Giovan Batrifta El monte, di cui ſopra è detto, a quella apparare con tutto il ſuo intendimento, e con non ordinaria fatica ſi rivolſe; e conoſciuti i grandillimi errori, e ſconcezze delle volgári dottrine, per non dovervender la ſua ſcienza a minuto, ne? più ſaldi ſtudi delle buone arti sì, e tanto innoltroffi, cher grandiſſimo, e famoſo ne divenne: e di molte, e laudcvoli conoſcenze arricchito miſeſi a diſcorrere pergli ſtrabocche voli campi della medicina. Ma ſicome ardito,e poco cſper co Nocchiere, avvegnachè di ſarte, di - gomene, di ve le, di boffolo, e di tutto ciò, ch'a ben corredata nave fac cia meſtiere, ſufficientemente ſia fornito: impertanto per nuovi, e nonconoſciuti mari navigando, no ſappiendo egli poi ben quelli adoperare, miſerevolmente inghiottito vi muore; così il Silvio, comechè dibuona filoſofia,per quel ch'e' medeſimo dice: e di non ordinaria medicina fornito, non però dimeno non ſappiendo egli quelle adoperare,ſcó- - ciamente fallovvi, e quaſi nocchier mal pratico negli alti maroſi del ſuo meſtiere appena ſciogliendo, fortunolamen te annego. Ma potrebbe alcun recare in dubbio, ſe ſcor ro in filoſofia si bene il Silvio si foffe veramente itato, co me eglinevuoi dare a divedere; e nelvero per quel che comprender poſſiamo dalle fue opere, egli ſembra, che no molto addentro e' la ſpiaſſe, comechè una fiata dalla ra dezza, che adopera il fuoco ne'corpi,cgli argomēri le parci celle di quello effer piramidali; non però di meno egli po co conoſcendoſi eſſer profittato nella buona filoſofia, co mechè,i per quel, ch'e'nedica, trentatrè anni continuo in appararla e' ci aveſſe logorati, proteſtando le ſue dappocaggini, manifeſtamente dice: optabile foret naturalium rerum principia vera, eorundemque numerum certum, qualitates legitimas via,methodoq; mathematicis demõltrari. Ma nella medicina razionale più alquanto egli ardimé toſo, volle il ſuo ſiſtema diviſarne, dicendo tre umori prin cipali eſſer ne'corpi degli animali: cioè il ſucco pancreatico, la collera, e la flemma; i quali nel ſottile inteſtino adunā. doli inſieme, e meſcolandoli, quell'umor poicompongano, che da lui è detto triumvirale; che il ſucco pancreatico di ſangue, edi ſpiriti animali dentro al pancrea s'ingenere quindi agli inteſtini per la celebre 'doccia del Virfungio diſcorra; chela collera ſi formi di ſangue dentro alla ve ſcica del fiele; e che ſia ella abbondevole aſſai diſale ama ro, e volante, e comee'dice, liffiviale, da poča acqua foo Luto: in cui alquanto d'olio, e di volante ſpirito anche s'av viſi; che la flemma ſi crii della ſaliva, la qualdegli ſpiriti animali, e della più ſalda, e tenace parte del ſangue com pofta, dalle glandole delle maſcelle per le docce, che falia vali diconft, alla bocca trapeli, e continuo tranghiorten doſi dentro allo ſtomaco diſcenda: e quivi le ſue tuniches ainmorbidando digeſtiſca i cibi; quindiallinteſtino fottilc pianamente trapelando ivi s'accolga,c per la più gran par te dimori. Venir la flemma di molta acqua, e di poco fpi rito aceroſo, e volante se dipochiſſimo olio, e ſale lillavia le compoſta; perchèin quella una gran virtù formentantea ritrovarſi; il ſucco pancreatico ingenerarſi degli ſpiriti ani mali, e del ſanguenel pancrea: e che fia eglialquanto ace toſo: ne dalla flemmadiffomigliante, ſe non ſe più alqua to ſottile; che ſi tragittiegli perlo canal del Virſungio al fotcile inteſtino, la dovenel meſcolarſi ch'egli fa colla collera, perla contraria diſpoſizione dell'amaro di quella, edell'acetofodi eſſo,a riſvegliàr fi venga un cotal bollimé to, per lo quale la parte più groſſa, e limacciola ſi ſeparije queſta giù per gl'inteſtini s'avvalli: e quella per le venes lattce diſcorrendo al cuore aggiugna; e la flemma anco ra nel fuo ribolliméto fi ſolva: e che la parte ſua più diſcor rente, e ſottile inſieme colla maggior parte della collora, e del fucco pancreatico traſcorrano parimente al cuore: ove la fermezza, e’lcompimento deano al ſangue; e'l lor rima nente diſcendendo giù per gl’inteſtini groili, e alle fecces! meſcolandoſi, quelle maggiormente colorate, e tenaci ré. dere, Cosìavendo formato con queſti tre ſoli umori il fi ftema tutto della ſua medicina il Silvio, dal guaſtamento, e perturbazione di effi vuol, che tutte le febbri dirivino; concioſliecoſachè ritrovandoſi talvolta per qualche cagio ne il pancrea oppilaco, quivi il pancreatico fucco oltre all' LII uſaço dimorando, maggiormente acetoſo divenga, e mor: dace; perchè egli poi faccia negl'inteſtini un bollimento grande, c ſtrabocchevole aſſai più dell'uſato: e naſcerne la febbre, qualdicono intermittente. E ſe quella parte della collora, della flemma, c del ſucco pancreatico, la quale al cuor ſi tragetta, non ſia ben condizionata, ella nel deltro ventricolo di quello un'altro diverſo ribolliméto riſ veglj, e le contine febbri cagioni. Ma troppo lungo fa rebbe il voler qui raccontare comedal rimeſcolamento di tutti, e tre queſtiumori vuole il Silvio, che ciafcuna maa, lattia ne*corpi umani s'ingeneri. Io non ſaprei lo di leggier narrare quante miſchie, quan te conteſe, eriotte abbia riſvegliate infra' medici un cosi ftrano ſiſtema, così vivendo il Silvio, come anche dopo ſua morte; ma lo diciò non curando al preſente, folamente per quanto a mio propoſito s'appartiene, dico eſſer vera mente ingegnoſo, claudevoleil diviſamento del Silvio, e quale appunto a un cotanto valent'huomo conveniya; ma perciocchè egli tutto grazioſamente afferma ſenza nium pruova fare delle ſue ſtranezze farà quello da dircertamēte una ben compoſta novella per tener a bada con ſue ciarle l'ignoranza del vulgo, e preffo quello accattar titolo di va lorofo filoſofante;machi ſpia più addentro, non veggen do comepoffano effer tali quei tre umori, quali e' glide fcrive, ecome poffano aver poſlanza di cagionare i bolli menti, e le febbri, e tutt'altre malattie, che egli racconti, poco certamente a capitale il ciene. Anzi radillime volte nella flemma, e nel ſucco pancreatico l'acetofità egli avvi far ſi puore; ſenzachè nel pancrea non ſi è giammai per al cuno acetofità, ne poca, nemolta avvifara: e pure dovreb be ad ognora quella trovarviſi, le nel Pancrea s’ingeneraf fe, e s'accoglieffe veramenteil fucco acetofo; perchè ra de volte ancora quel bollimento, ch'egli immagina,negli inteſtini da quelli riſvegliar puoſli; anzi è egli imposſibi le, che per l'acetoſità il bollimento avvegna: ficome per pruova veggiamo, che il liquor del fiele collo ſpirito del vitriolo, o delſale, o con altro acetoſo umore meſcolato ri bolla: che che in contrario fi dica Olaaldo Crollio, da cui peravventura ciò apparò il Silvio: il qual contendendo co tro la manifeſta ſperienza, ne vuol dare adivedere, chelo ſpirito del vitriolo a ſtomaco, cheabboudi in collera,bol Jimento cagioni. Maſenza fallo egli di gran lunga s'aggi, 1.3 il Silvio a dir, che gli ſpiriti animali ſiano aceroſi; per ciocchè, fe ciò foffe, inervicontinudrattratti, e in malei Itato ne ſarebbono: ſappicndo ben ciaſcuno, che l'acctori tà, ſicomc (triguente, e lazza, e pugnereccia, a’nerviol tremodo contraria, e nimica fia. Ma chela ſaliva allo ſmaltimento de'cibinelnostro ſton macobaltevol fia, comechè ella pur gli ſia diqualche gio vamento, chiunque al maraviglioſo artificio del digeſtimé. to non abbia poſtomente, potrà folamente crederlo. E ſopra tutto è da maravigliare di ciò ch'e dice delle febbri intermittenti; perciocchè ſe quelle dall'acetofità fi cagionalſero, ſenza dubbiogl'Ipocondriaciad ognorafi vch drebbono, e terzane, e quartane patire; poichè in loro fo pra tutti il ſucco delPancrea, ficome anche il medeſimo Silvio confefla, oltremodo acetoſo s'avviſa. Ma riſerbando a più agiato tempo sifatte conſiderazio ni: ciò che toglie maggiormente l'eſſere razionalmedico al Silvio, e'l fiſtemadilui manda a terra, fiè, che egli trasa dando le fondamenta, a niuna cura prende l'inveſtigar la natura di quelle prime ſoſtanze de Chimici, ſule quali egli fonda la fua medicina. Mache che Gadella ſua filoſofia, il modo certamente del ſuo medicare, comechèpovero, e manchevole degli arcani dell'Elmonte, e del Paracelſo, non poco dee effer commendato; perciocchè egli usò le volgarichimicheme. dicine, e masſimamente l'alloppiate connon ordinaria fe licità,, e pregiodel ſuo nome; fe non ſe quanto egli preſtò alle purgagioni troppa credenza: ele pole talora in opera, ove in tutto, e pertutto diſconvenivano: avvegnachè pur guardingo, e ritrofo alquantoegli ſtato ne foſſe. E come chè cgli dicoloro, che così volonteroſi ſono a ſegnare, só mamente ſi biaſimaffe, non però di meno per non dipartir LIT 2 ſi dall' folo può contrariare almale. Oltre a queſto la formentl fidall'uſo comune, andò a bello ſtudio accattando cagioni di ſegnare ancornelle febbriintermittenti: ove egli affer ma non aver luogo niuno il fataſlo.Immagina poi egli, che faccia luogo il ſegnare nelle febbri finoche,acciocchèilsā gue ſtrabocchevolmente radificato non rompa i vaſi,o fac cia qualche altro gran male; non avviſando, che con altri ficuriargomenti, quandociòpur s'aveſſea temere, dar vi fi può compenſo, ſenza tor via, col trar ſangue, ciò che zione,tutto che grande, nel fangue,non li dee con -iſpogliar lo della ſua vital ſoſtanza impedire, poichè per quella ſteſ ſa formentazione, grande eccitandoſi, o fenfibile, o inſen fibile vacủazione, fi difcaccian fuori del corpo le cagioni delle malattie, il che s'impediſce certamente col ſegnare. Dopo il Silvio,mi ſi fa davanti Lazaro Meffonieri, il qua le troppo libero, coltre alconvenevole ardito, imprende a determinar delle più ardue', epiù ripoſte quiſtioni, di cui piatiſfer mai con lungo ſtudio ifilolofanti. Primieramente egli ſtabiliſce effer principidelle coſe il mercurio, il fales, e'l folfo, e dice quefti, licome in cotante arche, o matrici contenerſi negli elementi; i quali ſecondo l'avviſo di lui, fon quattro:cioè il fuoco, efficiente cagion di tutte altre coſe, in cui niun principio egli v'alloga; l'aere, in cui ri fiede il mercurio;l'acqua, ove ſtanzia il fale; e la terra in cui dimora il ſolfo. Il fuoco ond'ogni altro elemental mo to deriva, vien dal folto ajutato, ed eccitato dal mercu rio; e ſue proprietà ſono il dar movimento al mercurio, il riſplendere, il riſcaldare, l'attrarre a fc le cofe oleaginoſe, e Peſſere attutato dall'acqua; l'aria colfuo mercurio fa fare a ſegno il fuoco; il mercurio è un certo ſpirito aeree, il qual coagula l'acqua, e'l fal volante rappiglia, e che afo fai bene col fuo ſal fiſſo s’uniſce,ed al ſolfo cótraſta.Dimo ra ilmercurio ne'luoghi piùdalle vie del ſole rimoti, fico me ſono amendue i poli;l'acqua tiene una ftrettiſſima ami, ſtà col ſale, e nimiſtà grande allo incontro poi colſolfo. La terra opprimeilfuoco, e quanto ella è del ſolfo amica, altrettanto ſi moſtra nimica del fale. Indi deltemperamento il Meſonieri vegnendo a favel lare, così ne divifa: il temperamento è un'armonia delles quattro prime qualità, avvegnente dalmeſcolamento de gli clementi, e de’naturali principj:(Delle qualità, che gli elementi compongono, due ne ſono attive, e due paſſive: attive ſono il calore, e la freddezza, paflive l'umidità, e la ſiccità. Tre coſe vihan nell'univerſo manifeſtamente calde, il ſole nelmondo celeſte, il fuoco nel mondo ele, mentale, e lo ſpirito vitale nelmondo animale, e tre allo incontro manifeſtamente fredde, la Luna, il mercurio, lo ſpirito animale. Alcune ſtelle divantaggio vi han nelmo do celeſte,dilornatura calde, e altre freddo, ma occulta mente; e altresì nel mondo elementale altre coſe calde fredde, macelatamente, o accidentalmente ſi trovano: umidifſime ſoſtanze fon da per ſe l'acqua, e l'olio; ſecchiſ fime la terra, e'l fale. Maicorpimiſti divengono umidi,o ſecchi, allor che conalcuna delle già dette coſe 's accop piano. Le ſeconde qualità daglielementi, e da principi naturali variamente fra eſfo loro meſcolati dirivano. I 12 pori ditutte coſe naſcon dal ſale, gli odori dal folfo, lam durezza dalla terra, e dal fale: la mollezza, e tenerezza, dall'acqua. Ed ecco in brevei lunghi diviſamenti del Mel fonieri ridotti:ne'quali egli nel vero indarno tenta diridur re in un corpo folo, membra cotanto fra effo lor diſcorda ti, che non poffono a niuna guiſa acconciarfi. E quinci ſcorger puoli, che quantunque egli molto ſtelle in fu l'av vifo pernon laſciarſi trarre, e cader col yulgo de filoſofan ti in errore; pur nondimeno non potè affatto obliar le ſcon ce, e falſe opinioni, che cotanto tempo han tenuto maga gnate le ſcuole; le quali ', come faggiamente,il Verulamio avviſa: Elementorum commentum, quod avide à medicis acceptum, quatuor complexionum, quatuor humorum, qua juor primarum qualitatum conjugationes poft fe traxit, tan quam malignum aliquod, infauftum fidus infinitam, & medicine,nec non compluribus mechanicis rebusfterilitatem attuliſje, Maciò che egli poivi aggiugne del ſuo il Meſfonieri, in tut curto,e pertutto inverigmile fembri; ficomcè il dir; che il mercurio freddiffima, emobiliffimafortazaſi ſia;e che ſte colà ne paeſi al polo vicinijed alorcedaltre sì fatte fanfalu che', che lo non mi do briga diriferire, per non logorare fuor di propoſito il tempo. Mada tanti, e sì varj,e sìftra ni ſuoi arzigogoli, nonmai vien fatto alMeſfooieri di co glier coſa che vaglia a dar ragione di quelle apparenze,ché tutto dì nel grande, e nel picciolo li fan vedere.i ': Vuole oltre a queſto il Meffonieri, che di tutte l'azioni del noſtro corpo ſien cagione gli ſpiriti animali, e vitali; lo fpirito animale, dic'egli,è della natura del mercurio, aereos freddiffimo, e dalcervello perlinervi, e perle membrane penetra, e fa il ſentimento, ed ogn'altra azione animales; fi nutriſce della ſalſa, e acquola parte del ſangue; lo ſpiri to vitale è della natura del fuoco, ed egli è il primo a muo vere, e a far impeto nel corpo, e a ſuegliar lo ſpirito anima lé, il quale da per ſeimmobile,e privo di ſentimento farebo be; tragittaſi dal cuore perle vene, e per le arterie infieme col ſangue, e forma i dibattimenti de'polli. Nell'uniones d'amendue queſti ſpiriti conſiſte la vita dell'huomo, e nella ſeparazione, perlo coptrário,la morte. Maconcedaſi, che dal ver lontano non ſia ciò, che divi ſa il Meffonieri,vorrei fapere, onde argomenti egli eſſere lo ſpirito animale freddiffimo, ed immobile, e participar del la natura di quel mercurio aereo da lui ſognato, e paſcerfin. enudricarſi del fale foluto dall'acquoſa parte del ſangue; e come parimenté egli provar poſſa aver lo ſpirito vitale na tura di fuoco, e dar lui il moto, e'l vigore allo ſpirito ani male. Ma formentandoſi continuo il ſangue nel corpo dell'huomo, e comunicando egli ſempremai più, ome no calore a cucce le parti delcorpo, come, e dove por trà mai l'animale ípirito olcremodo freddo, e inmo bile ingenerarſi? Coavien parimcnte poi, che'l Mcf ſonieri ci additi il modo, col quale s’uniſcano fralo ro, el diſuniſcano si farciſpiriti; e altresì, che ſaper egli cifaccia, onde avvenga,che'l caldo eſtremo dello ſpirito yitale non difrugga, e diſlipi lo ſpirito animale; ccoine al lo incontro l'ecceſſivo freddo dello ſpirito animale non am morzi, ed eſtingua lo ſpirito vitale. Laſcio di narrare,quanto il Meffonieri nell'aſſegnare gli uficj alle parti del corpo umano, vada ſovente errato; e quanto egli poco felicemente lt vaglia (non riconoſcendo Je tali ) d'alcune falſe opinioni di Galieno; ma accennerò fol tanto ciò che follemente va diviſando dietro allo in generarſi delle malattie: dicendo, che qualor l'azione dell' animale, o del vitale ſpirito ſia impedita, gli huominiven gano damaloritravagliati; sì che le malattie propriamen te favellando fien tutte negli ſpiriti, e meno propriamente poi negli humori, e nelle altre parti delcorpo; e la cura delle malattie tutte in altro non conſiſtere, ſalvo che in tor via quelle cofe, che impediſcono l'azioni degli ſpiriti je conchiuder, che tutto ciò con cinque generazioni ſole di medicamenti fare agevolmente ſi poſſa. Ma a queſti, cad altri diviſamenti, ch'egli poſcia produ ce in mezzo in facendo parole delle particolari malattie,no fa certamente luogo d'argomenti per moſtrargli fall. Fi, nalmente la maniera delmedicare del Meſfonieriaſſai roz za nel vero, e materiale effer ſi vede. Ma poichè da uno in un altro ſiſtema paſſando fin quì lią giunti lo non voglio trafandar tacitaméte Franceſco Mea. ra celebre medicante nell'Ibernia. Fu coſtui della ſchiera deGalieniſtiin prima: ma avviſando egli poi quanto all'o pera del medicinare mal veniffero ad huopo le vane ciance di Galieno, impreſe a metter fuori un'altro ſiſtema di ra zional medicina; nel quale egli fu tutto inteſo ad accozza. re inſieme le dottrine di Galieno con quelle di Paracelſo, in quella ftrana guiſa appunto, che pittor farebbe, ſe mai te Ita umana fopra un collo di cavallo tutto coperto di penne di varj, augelli e dipigner voleſſe. Forte egli rimproccia tutti coloro che ichimici principj ofano dinegare: cô que fte parole. Et miror profecto qua fronte quiſquam experien tia Scientia omnis, & cognitionis inventrici) repugnare prefumat, nifi pro ratione fufficiat, multos pudere, cos pige me quiequam denovo admittere, quod confirmat& eorum upinioni adverfetur, à quo ne látum quidem unguem recedere Suftinent, ne prius non recte fapuille videantur: multos taria ta cum fatuitate, ne dicam Idololatria, Hippocratem, Ari ftotelem; aGalenum venerari videas,utquicquid ab illis non dictum, non dicendum, quicquid abillis incognitum, no cognofcendum putent; e molto appreffo fi briga in moſtrar, che in natura v'abbiano sì fatti principj; sì veramente però, che non debba a crederſi, che ſian primi; imperocchèegli vuole, che della materia,della forma, e della privazione i quattro elementiſi formino, c'di queſti facciali il ſale, il ſolfo, e'l mercurio, che ſon terzi principi; i quali finalmél te col vario accozzamento loro, quanto v'hanell'univerſo coinpongano, Ed ecco, ſecondo lui, onde formanſi le parti ſalde, e di. ſcorrenti del corpo umano: e particolarmēte i quattro umo ri di Galieno; ne’quali, allor, che il ſale, il ſolfo, e'l mer curio ſtan così bene adattati, che non vengano fra ello lo ro a tetizone, n'avviene la ſanità, e per contrario lemalat tie. Diviſa egli, ſecondo l'avviſo dechimici, lungamente de'ſali; dicendo, che altri ſe ne ravviſano nella flenna ſas lata, come è il fal comune, e'l ſalgemma; altri nella flem ma acetofa, e in cerca fpecie di malinconia parimente acç. tofa, come è il ſale armoniaco; e così ancora diſcorre ra gionando degli altri ſali, che ſono negli altri umori. Vna sì fatta dottrina fu introdotta primieramente nelle fcuole per alcuni ſeguaci del Paracelſo;immaginado eglino con ciòfare,che celtaſſero le perſecuzioni chelor faceano i Galieniſtis ma lor non venne fatto il diſegno; anzi, come in tute gare civili avvenir ſuole, cui non voglia ad alcuna delle fazioni attenerſi, eglino divennero d'ambedue le par ti nimici; e come alga, o ondamarina, che da'contrarjvé. ti ſia, or quinci, orquindi agitati, così l'opinioni di coſto ro furono da'Paraceláſti, e daGalieniſticótraſtate. Il per chè anche noi ſenza quì intertenerci immaginamo, che da quel, che di Galieno, e di Paracelſo addietro abbiam di: viſato, rimanga ilſiſtema del Meara baſtantemente impu gnato; imperocchè, ſe ne con gli elementi, ne co’principi chimici poſſono i varj avvenimenti del corpo umano fpię garfi: di ſeguente è da dir, che ove ancor vero foſſe (il che non potrebbe a niun modo concederſi)che i princpj chimi ci daglielementi ſi formino, ne men coſa, che monti una frullo Gi farebbe mai a pro della medicina ſcoperta. Quanto nocimto recar poſſa a ben filoſofare il non eſser l'huomo'da prima indirizzato per diritta via, il ci fa mani feftaméte vedere Frāceſco Gliſſonio;il quale comechè d'ala tiffimo intendimento fornito, e nella notomia, e in alte cofe alla medicina appartenenti oltremodo avanzato fi foſ: fe; impertanto non ſeppe egli sì, e tanco ſchivare le ſcom ee opinioni nella gioventù appreſe, che intriſo alquanto, e guaſto non ne rimaneſle. E ben ne diè egli manifcfti ſegni nel ſuo ſiſtema di razional medicina, allor che veriſſimo giudicando il diviſamétode'Chimici dictro a’principj del le coſe naturali,vuol, che il mercurio, o ſia lo ſpirito, e l'olio, c'l ſale, ela flemma, e'l capo morto, o terra dan nata fian l’ultime particelle, nelle quali le coſe o per ingen gno, o per induſtria umana folver li poſſano. Ma dicia avendo lo altrovci miei ſentimenti paleſati, qon fa luogo al preſente, che lo di vantaggio ncragioni. Credeegli accordar queſte cinque ſoltanze con gli ele menti d'Ariftotele, dicendo l'elemento del fuoco allo ſpiri to riſpondere, e quello dell'aria all'olio, e quel dell'acquz alla flemma, a quel della terra alla terra dannata, e allale. Ma in buona fe,Signori,chi non avviſa, che'l fuoco non abbia punto che fare col mercurio il quale comechè foco siliflimo ſia, e che le particelle, che'l compongono lian, piccioliffime', nonſono però elle tali, che tutte quelle ope razioni, chedalfuoco naſcer veggiamo, adoperar poſla ao. E ne men certamente l'olio potrà mai quella attegné. za coll'aria avere, la qual peravventura immagina il Glif fonio; perciocchè l'aria, comechè diſcorrevole, c vagas oltremodo ſia, non è perciò umida, ne ad accenderſi,o bru, ciare acconcia, Ma avvegnachè l'acqua alla flemma ſia pure in qualche parte conforme: che compenſo prenderà egli il Gliſſonio a voler duc diverſillims cofs, quali ſono il Mmm file, slaai Cáte jela terra dannata, porre d'accorto, e far ch'una coſt fola, e un ſolo elemento elle fiano E fe pur v'ha infra loro qualche attegnenza, nondimeno fallò egli no poco Ari ſtotele a porre quattro, e non più toſto cinque elementi, e principj delle coſe; perchè ſcompigliata', e ſconvolta ner diviene oltremodo la filoſofia d'Ariftotcle: la qual folle mente il Gliſſonio con quella del Paracelſo ſi ſtudia di ri conciare. Ma ſufficienti non parendo si fatti principj al Gliſſonio a falvar l'apparenze della natura, egli in luogo di ſpiar ſottile mente,ſicome far doveva,i vcri principj onde fiicópongono quelli, al Paracello, e all'Elmonte per dappocaggine ſi ri fugge, e togliendo da foro ciò, cheeſli degli Archei mil lantando dicono: e giugnédovi di vantaggio molte altres fraſche del ſuo, ſcioccamente con si fatti ripari di riſtorar la ſua cadente Gloſofia s'argomenta: dandone apertamente a divedere con quanto poco ſenno imbolato egli aveſſe il piggior di que’libri di que'valent huomini','tralandando d? altra parte coranti buoni, e pregiatiſſimi diviſamemi, chę coloro in altre coſe,e fpezialmente intorno alla via da do ver curar gl'infermi han laſciati Almondo, che giacea pien d'alto errore.". Dice adunque il Gliffonio eſſer l'Archeo un cotale ſpi rito reggicore, il qual negli ſpiriti di qualunque coſa,il.ca lor vitale, e attuale riſvegli: e muova, e rilievi tutte le cor loro facoltà natūrali: e altri ſoſtegna: e ciaſcuna natural parte dal corrompimento difenda: tenendola buona fperā. zagli fpiriti, iquali egli in feſta, e lietamente fa vivere. Quindi il Gliffonio le varie generazioni degli Archei di ftintamente va rapportando, ein prima quella dell'Archeo dell'uovo»; il qual primieramente eglidice, che habbia lo fpirito ſuo innato, il quale a tutt'altri elementi dell'uovo fi gnoreggi; e oltre a ciò contenga ancora, ma ſol virtualmé te l'infiuffo vitale, e animale, e che fia ancora delle tre prime facoltà naturali fornito, le quali egli percipientes, appetente, e movente chiama, da una ſpezial diſpoſizione circonſcricte, c terminate. La facoltà percipiente, dicu, egli, che l'Idea dell'uovo, e quella ancor dell'animale dam ingenerarhi, o della pianta in ſe comprenda; imperciocchè l'Archeodi quelli, non ſolamente ſemedeſimo,e gli effer, ti, i quali egli può produrre, conoſce; ma l'idea ancora dell'animale, o della pianta ravviſa; ſappiendo oltre a ciò il modo' ancora, e l'ordineditutta ſua formazione, e qual fa tempo acconcio a mandır avanti le ſue operazioni. La diſpoſizione della facoltà appetente compréde in ſe l'amor della natura rappreſentata per l'idea,e una cotal brama di quella limitata, sìche ſoſpeſa reſti laſua potenza infino al sempo opportuno. E ultimamente, la diſpoſizione della faç coltà movēte porta con ſçco la ſua virtù formatrice, euna tanta operazione valevole, e acconcia, maches'indugi all'opportunità dell'attualeformentazione. Oltre a ciò vuole egli, che l'Archeo nell'uovo anche dopo l'eſſer fuoriquello uſcito dall'ovaja,ligato alquáto ję pigro nerimanga; perciocchè le ſenza il conſiglio della chioccią, o d'altro ſomigliante ajuto la formentazion dello animale rentaſſc, ad infelice fine ogniſuo ſtudio riuſcireb be. Quindi egli alquante propoſizioni pertinenti alla na. tura di quello va ſpiegando, facendoſi a credere ſe averba ftantemente ogni ſuo diviſamento ſpiegato per gli avvifi dell'ingegnoſo Malpighinell'uovo. L'Archeo, dice egli,di tutto il corpo già formato è di tre maniere: naturale, vita le, e animale; il primo in due ſole coſe è differente da quel ch'egli è già ſtato nell'uovo: l'una fiè, che egli in quello avca già ſolamente la forza d'operare: e poi nel corpo for mato, in atto già opera; e l'altra ſi è, che al preſente egli in un caſamento già fabbricato abita, e dimora: al quale in, acto egli fignoreggia. Ha cgli due miniſtri generaliſciò for no l'Archeo vitale, e l'Archeo animale; e oltre a coſtoro di diverfi altri particolari miniſtri egli è fornito, quali ſono ſenza dubbio gli Archei del fegato, de’polmoni, del ven tricolo, della matrice, e d'altre parti del corpo a qualche uficio dalla natura dell'animal ſorteggiate. L'Archeo vi tale, licoine il ſole è di tutto ciò, che la terra produce prin çipal cagione, così eglią tutte parti del corpo l'effetto iq Mmm 2 fluiſce, comechè da le ſolo niuna coſa egli ſpecificar polfa. L'Archeo animale agli ſpiriti animali tutti è ſopraftante, i quali nel ſucco nutritivo abitano, e dimorano. E dalla perturbazione, e rimeſcolamento di coteſti Archei vuole egli, chele malattie tutte ne avvengano. Ma egli ſarebbe un logorar vanamente le parole, ſe fil filo annoverarc Io vorrei i diviſamenti tutti del Gliffonio intorno agli Archei. Dirò ſolamente apparer manifeſto, ch'egli in luogo di ſpiegar, ſicome egli intende, la natura degli Archei, il che traſandato a ſtudio venne dall’Elmon te, vie più oſcura, e inviluppata la rende. E doveva pure cgli avviſare, che di quelle cofe, che nonci ſono, ne eſſer poſſono, quantomaggiormente ſe ne favella, tanto men ſe i nedice;ne ſi può ſenza maraviglia conſiderare, come uns sì ſottile, e avveduto notomiſta, qualſenza fallo ſi è il Glif ſonio, eſſendoſi ſottilmente argomentato d'inveſtigar con fua fatica anche le più merome bazzecole da altri poco curate, foffe poi sì vocolo, e traſcurato in ciò, che folle mente ammannare aveſſe potuto cotante ciuffole,e giunte rie, non meno a' ſentimenti, che alla ragion lontane. Ma non tanto del Gliffonio, quanto di tutti quali i va Ient huominiun tal fallo ſi è ſtato; i qualiper aver più mi nutamente le maraviglioſe operazioni della naturaavviſa tc, diffidando per for manchezza d'inveſtirne le cagioni corporali, e far che da quelle tutte dipender poteffero,fi rifuggirono a sì fatte fraîche, e ne compoſero cagioni fia tc, e favoloſe, onde natura. Diſdegnofa fen 'duole, e fene'ricbiama. Maſopra tutti in ciò è certamente da biaſimare il fallo del Gliffonio; il qual manifeſtamente affermando, fe cfſer pago, e contento a ' principj chimici, e a que primicorpi, che coloro chiamano componenti, avvegnachè egli con felli poterſi più olere coll'intendimento procedere traſcor: se egli poi ſconciamente a favolar degli Archei, e sicon fondere, e invituppar la fua filoſofia con arzigogoli, non men vani, e ridevoli di quelli de'folleggianti peripatetici Ma che è ciò, ch'egli dice de’pori di noitra buccia,negan do affatto quegli eſſerci mai? c pur dice egli, che perquel la ſottiliſſimeloftanze fuor del noſtro corpo continuo tra pelino. La qual coſa nel vero cotanto ridevole fiè, quan to le pruove ancora ridevoli ſi ſono, leqnali egli ſciocca mente a ciò raffermar va cogliendo. Ma chi non iſmaſcel berebbe delle riſa in avviſare i forciliſfimi argomenti, co' quali ſi ſtudia, e s’affatica il Voffio giovane di fare in ciò le fue parti? Tralaſcio a bello ſtudio, comeche aſſai vi ſarebbe da di re, ciò che egliintorno alle maniere di ſeparar le parti de corpimiſti ragiona · Solamente accennerò quanto egli di que’ſcioglimenti diviſa, i quali, ficome egli dice, avvengo no per congregationem, vel attractionem magneticam, fi ve fimilarem. E in prima va egli rapportando quelcomun proverbio: che'l ſomigliáte del ſuo fomigliante goduzquint di egli loggiugne, che ſicome gli animali dilettanli oltre modo di quelli della tor generazionc, così anche eſſer ra gionevole ad argomentardelle coſe, che nonabbiano ani ma; imperciocchè ciafcuna coſa del mondo per narurat tz Jento la confervazion di se difidera,la quale da’ſomiglianti avviene: e fugge il ſuo diſtruggimento', il quale per li ſuoi contrarj le incontra. Finalmente cglicoichiude: ex dictis conftat, quod per attractionem fimilarem, five magneticam intelligam.nempe alle &tationem, five incitamentum, quo cora pus naturale ad aliud fui fimile fertur. Ma qual coſa in buona fe più ſciocca, e ridevole può per travolto, e ſcempiatocervello immaginarfi giammaisquí to queſta del Gliffonio, il quale a cutte inſenſate foſtanze il conofcimento, e'l poterf a fua balìa muovere actribui ſce? certamente fe di baona ragione voleva egli filoſofare, dovea pure avvifare,che le cofe, che ſtanchete, e fenzów movimento, ſe già non fono animate, tali ſempre fe ne ſtao no, infin che per urto da altricorpi tocche, e fofpinte di fuo luogo non partano.Eſe non piace pure al Gliſſonio ciò, che naturalmente filoſofando ragionan que' valent' huomini, de qualiegli l'opinion rapporsa incorno all'an dar del ferro alla calamita, doyea ben egli alcra più ragio nevol inaniera inveſtigare, onde ciò ayviene. Ma direbbő per avventura coloro iquali follemente avviſa il Gliſſonio aver con ſue ragioni abbattuti, infra l'altre coſe eller nella calamita una tale ordinanza di pori dirittamente dall'aſſe, il qual dicon magnetico, del quale eſcan continuo fuora particelle ſottiliſſime, e ſpiritali aſſai: e che ſian nel ferro i pori pieni di particellemagnetiche travoltę infra loro, inviluppate per maniera, che entrandovi le ſottiligime para ticelle fpiritali, che efcon fuora della calamita, faccian, l'uficio della formentazione riſvegliando in quelle il movi mento; le quali poi movendo verſo il polo magnetico, dis rizzino, ci fianchidel ferro forte percuotano: e sì quello co’loro colpi innanzi {pingano; ma nella calamita -ancora farſi un cotal rimeſcolamento di particelle ſpiritali, le qua. li urtano in eſſa, e ancor la ſpingono intanto, chevicende volmente incontro moyendo dagl' innumerabili corpice ciuoli d'entro ſoſpinti, corrano a cozzarſi. Ne ciò deves punto recár maraviglia, che la calamita ancorada ſua parte fi muoya, comeche più tarda, e lenta i perciocchè ſe nel acqua il ferro, e la calamita ſi pongano,da qualche legno o altrá ſomigliante leggiera ſoſtanza ſoſtenuti, intanto che ſopránocanti poſſano andarea gall.2, ſcorgefi toſto il ferro notar verſo la calamita, e la calamita d'altra parte verſo il ferro. E ſe ciò pure non ſoddisfaceſſe al Gliſſonio a voler cotanta maraviglia ſpiegare, dovrebbeegli in alera, e altra maniera-la cagione di quella inveſtigare. Maad altro fac cendo paſſaggio, èegli ſommamente damaravigliar della troppo ſcimunita ſchiettezza del Gliſſonio; perciocchè có tro i propjſentimenti talvolta alle comuni opinioni del vul. go laiciali ſcioccamente traportare: ficome,per tacer d'al tro, manifeſto avviſaſi in ciò che egli de'quattro volgari umori va ragionando; cioè;che con util grande della media cina un tal diviſamento rinvenuto foſſe: e che ragionevol mente damedici feguir debbafi, ficome loro molto pro fittevole, e acconcio a dover porre in opera le purgagioni, e altre ſorte di votamenti; eche Galien d'altri diviſamengi degli umori infrămetterſi non volle, ficome poco utili alla medicina. Madi ciò egli toſto pētuto dice eſſervi un quin to umore, cioè a dire il ſucco nutricāte, il qual giudica egli effer soinmamente a ſaperſi neceſſario,no che utile a chibe neje lodevolmente apparar voglia la medicina; e pure il fuo Galien di quello nulla ragiona, ne moftra certamente pun to ſaperſene. Ne è vero ciò, che egli millanta di Galieno, eſſer quello non poco commendevole per avere cotal divi ſamento da primaritrovato; concioſliecoſachè poſto che loda pur nedoveſſe all'inventor ſeguire, certiſſima cofa. ſia, che la dottrina de’quattro umori molte centinaja d'an ni, anzi che Galien naſceſſe divulgata già foſſe nelle ſcuo le della medicina. Ma ſe il Gliſſonio intéder vuole di que. gli uinori, che in varie, e varie parti del corpo fan dimora, non mica già quattro, ne cinque, ma molti, e molti egli no ſono, de' quali alcuno non ſi è forſe ancora ſcoverto. Nelle vene, e nelle arterie poi non trovarſi queſti quattro umori, ſi è moſtro già; ed i più ſcorti,e celebri fra'Galienia ftimedeſimil'han conoſciuto. Vn divifamento poi quaľ è quel di Galieno dietro agli umori, che non ſi da niuna cu. ra d'inveſtigar la natura delle coſe, non ſolamente utile niuno, ma danno graviſſimo alla medicina ha recato Maquanto al medicare, comechè ſcorto molto, eave veduto egli ſi moſtri il Gliffonio in conſiderando una fiata, che'l trar fangue nella Rachitide niun giovaméto rechi allo infermo;nonperò di meno non ardiſce eglia riprovare una sì biaſimcvolcoſtuma dagl'Impirici in Inghilterra, ficome cgli afferma, introdotta. Non propone egli medicamen to, che volgar non ſia; ne contento d'un ſol medicamento, molti e molti inutilmente nemeſcola inſieme non men che gli altri medicanti ſi facciano;e in ciò,per cacer d'altro, da egli manifeſtamente a divedere quanto mal fornito'lia d'efficaci, e valevoli medicine. E ciò baſti avere al preſen té del ſiſtema del Gliffonio accennato; il qual per altro è certamente non poco da commendare; maſſimamente per la ſomma, e maraviglioſa diligenza, e ſollecitudine da lui pſara nelle coſe dellanoromine Ma di troppo lungo tempo abbilognerei, fe lo voleli eſaminare i fiſtemi cutti dellamedicina dell'Ogelande, del Regio, del Moebbio, del Carlettone, delBartoli, e d'altri ſcrittori. A baſtanza potrà ciaſcuno in leggêdo le loro ope re da ſe fteſſo accorgerſi, che il più di loro poveri d'intendi mento, e ſcarſi di partito per quanto facica vi duraſſero,ra de fiate han potuto dar paſſo ſenza la ſcorta d'altri ſetteg gianti,l'opinioni de'quali tutto cheda loroſtravolte,abbia mo noi a ſufficienza conſiderate,e riandate; e altri di loro, fra'quali il Tacchenio,il Travagino,il Sualve,ilFlúdize'l Fo lio fon così groſſi, e materiali ne'loro diviſamenti, che non fa huopo,che ſe ne abbia a far menzione alcuna particola re: Adunque chiaramente conoſccſi, che da que primi tempi, che ebbecominciamento la razional medicina lino a giorni noſtri,per quanta induſtria, e diligenza, che da'fi lolofanti antichi, emoderni vi ſi fia adoperata, e per qua te coſe per la morta, e per la vital notomia liaoſi nelle ani. mali, nelle minerali, e nelle vegetali ſoſtanze novellamen te ſcoverte, e per quantepruove, e ſperienze da'ſaggi, u avveduti medicanti in sì lungo proceſſo dicempo nelle cus te delle malattic fieno adoperace, non ſe n'è potuto giam mai rierar nulla di ſaldo a ſtabilir per cercano conoſcimer to, e per vera ragione dottrina niuna. Ma non dee ciò re car maraviglia a cui tanto, o quanto alle ragioni pongas mente; per le quali, s’Io pur non vado errato,apercamen-, te conoſceſi quanto ad huom’malagevole, anzi impoffibile affatto riefca lo ftabilir luftema alcuno di razionalmedicin na; e ſe pure dalle preterite.coſe giudicar delli di quelle, che debbono avvenire, per tanti,e canti, che infelicemente, vi ſon naufragaci non mai ſi vedrà capitarne a ſalvamento ſeggettante alcuno; e ficome... Chi folca il lido perde l'opra, e'l tempo, così avverrà certamente a ciaſcun' altro, che tenterà una ſimile impreſa 3 ne potrafli così nel filolofare in medicina, comenell'adoperarla prometter ficuramente d'aggiugnere a ſaper la natura de'mali,e come, e perchè ne noftri corpi s'ingenerino, e come riparar vi ſi polia. Anzi, o infeliciflia condizione di noi mortali ! nel continuo ſu buglio, e rimeſcolamento dellamedicinaper fatica, e di ligenza, che adoperata viſia, chi mai fin'ora avviſare ha potuto, che coſa ſia un piccioliſſimo catarro, che ne mo-. leſti? e. venne queſta veritàmolti, e molti ſecoli avanti co noſciuta per tacerdi Pitagora)da Empedocle,da Acrone,da altri antichi filoſofáci:e da Platone, il quale della incertezza della medicina favellado ebbe a dire ήν δε καλούσε μενΙατζικής βοήθεια δε πε και αύτη χεδόν όσον ώρεψύχα καύμαπ ακαϊρα, και πάση τοίς τοιούτοις ληίζονταιτην των ζώον φύσιν, ευδοκιμον δε ουδέν τούτων είς αφίαντην αληθειάτην άμεσα γαρδόξοις φφάται τοπιζόμα. Venne altresìconoſciutaqueſta verità, oltre a Seſto Empirico, da Cornelio Celſo:allorche diſſe della medicina favellando: eft enim bęc ars conjecturalis,neq;ei refpondent,non folum có. jecture ſed nec etiã experientię per; nulla diredel Cardi-: nal Cuſano, e d'aleri moderni. E a ciò ſenza fallo riguar dádo i più ſaggi, e ſcienziati popoli della Grecia, quali ve ramente fur gli Acenieſi: allor che maggiormente in Aten ne fioriva la filoſofia, e le buone letterc, traſcurarono la medicina, no facendone niun capitale, come ſi può vede re nel Pluto d'Ariſtofane Ούκούν ιατρον εισαγωγών έχρήν τινο Tis dñi iarsós ész vũv šv tñ wóriet;.. Ούπ γας ο μιθος ουδέν έσ', ούθ ' η τέχνη.. E dietro agli Atenieſi anche iRomani; i quali avveduti, c ſagaci in yotar dalla Grecia il copioſo teſoro di tutte le buone arti, e ſcienze, la medicina ſolamente d'imprender non curarono; anzi dice Plinio: Populus Romanus neque 46-; cipiendis artibus lentus: medicinæ etiam amicus: donec ex pertam damnavit; e dagli Eccleſiaſtici ſcrittori vien anco l'uſo di sì fatto meſtiere ſommamente abborrito, e danna to; infra'quali il Balſamone Patriarca d'Antiochia così dela; le manchevolezze di quello avveduto, ne manifeſta: avve-, gnachè la medicina pur quella veramente fia, che produces © riſerba la ſalute ſecondo lo intendimento de laggi: non dimeno non può ella al ſuo fine aggiugnere; ed Arnobio;, Medici curătanimal humi natū, ut confisú fcientia veritate; fed in arte ſuſpicabilipofitum, conjecturarum eſtimationi bus nutans; e'l medelimo ne ſcrive llidoro Pcluſiost: clo Nnn niin 1 406 Ragionamento Sesto migliantemente con molra vaghezza Stefano Veſcovo di Tornaja: Hippocratisin ebo Galeni diſcipulos, ut mihi confu lant conſulo: incerta famper ab iis oracula deportans, qui in vafevitreo coloris, & fubftantiæ peccata diſcernunt. Perchè 9. Chieſa, come l'apportaro Patriarca Balfamone ne nar ra,Puro, e'l meſtiet del medicare a fuoi Cherici interdiſſe: adunque, egli dice, non è certamente ragionevole, che il Sacerdote, oʻI Diacono, o altro qualunque Cherico tra fcurando un minifterio irrepréfibile, che già impreſe y oraw s'impieghi ad er meſtice mutevole, edubbioſo, e alfai fo vente fallace. E S. Bernardo volle, chei fuoi MonacidiS. Naftagia nelle loro malattie non fi ſerviſler: punto de' me dici; al che riguardando per avventura Franceſco Petrarca huom di ſaldo, e intero giudicio,ſcrivédo a un ſuo amicogli diede queſto ſalutevol conſiglio: Nulla eft rectior ad falute via,quă medico caruifje. E certamente, molto ben per mio avviſo venne conoſciuto al Petrarca,quel che dopo lui avvi sò l'avvedutiſſimo Franceſco Berni, 2.4. La medicina como fue erbe, e coſe diri Che fa? caccia carote a tutti mali..'.... Infin che l'huom perſempre fa ripoſe. Queſtofece ella al figlio d'un gran Rede noftri tempi; il qualeavvedutofi de vaneggiamentidella medicina, alla fine fece boto scomedarra Giorgio Orni: Si Deus aliam prolem largiatur, nullo se ampliusmedico ufurum. E per ciò oltremodo fu ſaggio l'avvifo diquel profodo cd ampio pelago d'ogni più rara, ed antica doctrina Giuſeppe della Scála, il quale ricusò,come narra Daniele Einlio,ognicoſi glio de'medicāti nell'ultima fua inferinità; ptaceredi quel gran filoſofante Franceſe; il qualecoll'altezza del ſuo inté. dimentoporè montar ſu la vetta del più belſapere; Io di co Michel diMontagna, che nelle ſue infermità rifiutò sê premai l'operade’medicanti: defichepoſcia valevoliflime's ragioni e' ci reca ne'ſuoibelliſſimi volumi. Neparmi qui da dovere trapaſſar lottó filenzio quel convenente di Do menico Sala, celebre lector di medicina nella famofiffima ſcuola di Padová; il quale canto non potè tenerli, che alla fine, un giorno non apriffe a' fuoi fcolári quel che e' del la Del Sig.LionardadiCapoa. 467 la medicina ſentiva, inqueſta difinizione: Medicina ef ars * illudendimundum, &à qua totus mundusdelufus eft. La qual definizione porſe cagione a Rafael Carrara di chiarir, ſi affatto della vanità d'effa, di tralaſciarne l'eſercizio, e di cantare in quel ſuo giocoſo ſonetto Ben diſe quel grand'huom lettor primero Nela Città d'Antenore fondata, La medicina deve eſſer chiamaja Arte da mincbionar il mondo intero. Ma chealtrondegir richiedendoteſtimonianze di colo ro, che a faccia ſcoverta abbia la medicina guarata. Non folea Mario Zuccaro (a ciaſcun di noi ben conoſciuto ) no ſolea, dico, ſovente dire a' ſuoi ſcolari: miferi, ed infer lici noi, félmondo arrivale a faper maile,debolezze nofire, che ne meno ne poffiam promettere colla noſtra médicina d'a yere a guarir un picciolo carbõcello,certamēte chene cõverreh be apparar altro meſtiere? E quinciè avvenuto poi,c'huomi ni d'acuto intédiméto, e di ſano giudicio, e di profondo fą. pere, e di nobil'animo forniti,pulla abbian curato d’eſer citarla; infra i quali per tacer.canţi antichi diligenti inve ſtigatoridelle coſe, ſavj interpetri della natura, ed altri huomini inſigni dc'tempi noftri, lol faro menzione del no ſtro Col’Antonio Stigliola, riſtoratore della Pitagorica filoſofia: e di Gio; Alfonſo Borrelli chiaro, ed eccellente in ogni ſcienza. Anzi quinciè egli avvenuto, che i medeſimi razionali medici,i quali moſtrano che più diciaſcun'altro tengono a gran capitale la mcdicina, l'abbjan, nel maggior hyopo mcNain son çalere. Intorno allaqual coſa miricorda d'un medico infra’più venerandi di queſta noftra Città,ch'eſſen do non ha guari dell'ultimo ſuo male infermato, e vani veg gédo riųſcire,e ſenza pro gli argométituttidella ſua medi cina, diſperato alla fine miſeſi in mano d'un famoſo fpe -ziale; ed eſſendoſicolui una volta rimaſodi viſitarlo, egli impaziente entro una carrozza fattoſi, un picciolo in atc raſſo allogare, comepotè il, inen male; alla bottega delo ſpeziale andollene a richiamarſi agram ente della graſcura tezza dilui; cd avendogli par iſcurarſi colui detto: A voi Nnni non fa meſtieri la mia opera, imperocchè quando vi foffe in grado porreſte avereil Sig. tale (così un principaliffimo medico nominandogli, e di'lui amiciſimo) allora tutto crucciato l'infermo ripigliollo dicendo, io vo'da voi ſola mente effer medicato; e ſareiben folle, ſe volelli mettere in balia delle ciarle di lui la cura di mia ſalute. E dalla medelima incertezza della medicina avvien,che P lo più i medici, ſe'l vero avviſanomolti,e graviſſimi autori Sien così ingorda, e sì crudelcanaglia; poichè non potêdo mercè della lor opera promettere alcu na coſa dicerto, abbiſogna loro, che alle giunterie, e alle frodi abbian ricorſo peraccattar lode,ed eſtimazione. Ne fon elleno mica nuove le loro aſtuzie: ma fino a'tempi di Galieno, per tacer de’più antichi, eran ſommamente in vi gore.E cui non è noto quel celebre diviſamento di Galicno, tolto per la più parte da Ippocrate, ov'egli mette nella via chi che ſi voglia, acciocchè buon medico divenga: in que. fta guiſa? In primad'ogni altra cofa è da diviſar delle viſi tazioni de' medici; perciocchè alcuniinfermi rade, e altri ſpeſſe volte deſiderano eſſer viſitati.Non dec egli il medico ove il malato riposādo dimora étrar facédo romore co'pie di, ſicome fanno alcuni; o alzando di ſoverchio la voce: acciocchè ſvegliato colui non abbia a lagnarli, che gli ſia rotto in teſta il ſonno. Ma i ragionamenti de'medici in al cuni ſono ſciocchi, e ſenza ſenno, ſicome per rapporto di Bacchio, d'un cotal Callinatte racconta Zeuſi: il quale ef fendo da un infermo domandato,' ſe di ſua malattia morir doveffe, rifpofe con quelle parole, ει μή σε λητωκαλλίταις γά yato, e ad un altro infermo ſomigliantemente riſpoſe: Κατθανε και ΠάτροκλG- όπερ στο πολών αμάνων. Morio Patroclo ancor di tepiù degno. Oltre a queſto dee effer il medico affettatuzzo della per ſona, e grazioſo in entrando, e in ſedendoſi, acciocchè nó gli ſiano fatte le ſcherne; ma non cotanto tronfio, e traco tato, ina mezzanamente grave, ſe non ſe per avventura amaffe meglio l'infermo vederlo alquanto modeſto, e umi le, o di ſoverchio altazzoſo. E ſomigliante dobbiam noi dire de’veſtimenti del medico, i quali ancoramezzanamé te debbono eſſer foggiati, ne cotanto ricchi, e nobili, che troppo tracorato il dimoftrino: ne cotanto ofcuri, eruſti cani, che il facciano poco a capital tenere dove egli ufaw; ſe non ſe ancora agli infermi, otroppo ornati otroppo vie li piaceffero. Così anchela tonditura de'capelli eſfer dee a grado degliinferini, i quali egli medica; perciocchè ins corte d'Antonino padredi Commodo,ciaſcun famiglio per imitar la coſtuma dello Imperadore, fino alla cuticagnato, devafi; perchè Lucio chiamavagli tutti Mimi; e per con trario i famigli di Lucio lūghe,e belle chiome nudrivano. I medici ancora aver debbono l'unghie nette, e ben forbice; e fe per avventura putiffe loro il fiato, o le dicella, o tutta la perſona,a modo di becco, fpiacevole odore gittaſſe, fi debbon eglino d'odoriferi unguenti, od’acque nanfe for nire, prima che ad altri medicar fi preparino. Ma purvoleſſe Iddio, che queſti, e non altri foſſero i lo ro artificj; eglino di vantaggio ricorrono alle frodi, alle in vidie, alle maladizionije ed altre illecite ſtrade, acciocchè fopra gli altri avanzarfi poffano, e maggiormentein pre gio, e ſtima ſorinontare. Così vedeli, che un medicobia fima; e danna i medicamenti dell'altro; tutto che que'me deſimi ſiano, ch'egli appunto diviſati n'avrebbe, s’a lui foffe toccata in prima la volta. Al quale, ed anche pega gior misfatto non vergognoſli Aſclepiade di confortare i fuoi ſcolari, fe vogliam dar fede a Celio Aureliano che'l rapportascosìdilui dicendo. Primo etenim invidiosè jubet fi qua ante ipſum medicus adhibuit, repudianda. At fi non adbibuerit,tuncprobanda, tanquamlegitimaputans ut hæc aliis adhibentibus noceant, ipfomedeantur. Earrab, biato ſeguace & Afclepiade moſtrolli il famoſo Gabriel Zerbi, allor, cheſcriffe: Medicus aliorum remedia ne lave det,utſupra vulgaresfapere videatur; e l'aſtioſo Teſſalo fpinſe l'Imperador Nerone a diſpregiar tutt'altri: rabies quadă,comenarra Plinio, in omnisævi medicos perorans. E d'un tal medico ne narra il giuriſconſulto Alfeno: medicus libertus, quod pataret, fi libertiſui medicinam nonfacerevt, multo plures imperansesſibi habiturum, poftulabat, ut feques rentur fet; netie opus facereni, Ed'un altro medico narra Calliodoro, che delbarbaro Tiranno Teodorico un sì fat, to privilegio iinpetraffe: inter faburis magiftros folusbabea, ris eximius: & omnesjudicio quo cedant, qui fe ambitiones maruzcontentionis.excruciant; eſto arbiterartis egregie,e04 rumquediſtingue confli& us, quos judicare folusfolebat affe Etus. Or li potea penſarmai ſcimunitaggine maggiore di queſto maeſtro Scimmione? Egli aveva a ſedere a ſcrannaa giudicar le più intratriate quiftionidella natura, come ſe la medicina forſe arte da mattonar le ſtrade, a da far bambuc cj; o comeſemonna Natura ſtata foſſe una maſſaja fante, ſcá, preſta a ſeguire icomandamenti del Sere. Ne è da die favolofa affatto la novella di que’medici, che per uggia ze mal talento guaſtarono, e atterrarono diſpetroſamente; bagni di Pozzuoli; e di que'ribaldi ancora, che il mede fimo ferono alle pregiatiſime acque medicinali della valle d'Anfánto, di cui ancor vive la famaappreſo que delpae ſe Irpino. Perchè ragionevolmente forte l'avvedutiſfuno Pietro d'Aponamorde, e sfregia il medico, chiamandolo talora: Invidie pelagus, derrationis organum, ambitionis perforatam clepſydram;aliena veritatis contradictorem gar. rulum, propriæ ignorantia conftantiffimum defenforem, & inexcufabilem ægrorü neglecturē:c ancor faggiamente avvila il Magati colà ove fi lagna, che'l ſuo govello modo dime dicare non avrebbe trovato gran fatto ricevitori: da che no- sébrava di molto pro.aʼmedici,i qualimzi ſempre fono alla propia utilicà,e al vil guadagno intefi;foggiugnédocgli: denociniis, atque affentationibus, ut potentium gratia uti ad queftum poffint, facram medicinam fædare,c libiitfis æter nas infamiæ notasinurere nihili faciunt. E Giulio Celules della Scala nella fua poetica, de’medici parlando: turban, dice, videmus à primis literarü rudimentis continuo ſe ipſam eo fenomine venditantem, invidam, maledicam; cbtrecta tricem; novam ſpeciem cynicorum yavaram, temulentamus Supinam, ignavam fimul,asq; ignaram. E GirolamoCar dano di finiſſimo giudicio; e più che altri del meſtier della "incdicina intcndcnte, vuol; che da eſa neceflarianente 5 avvegna,che taliticnoquei, chefeſercitaiio: medicina ! facit, ſono le ſue parole,nonreruin memoris, fed verborü:1 callidos y verſatiles ingenio;inuidos avaros; idolofos, las boriofos, non ingeniofos, de minime graves s opus enim coni rúm, d exercitatio minusquam liberalis eft: e altrove pa rimente de medici avea detto: funt autem improbi fermèi omnes noftra ætate, adeò ut nihil pejus excogitari poffit. Perchè gli ftrolaghiallogando la medicina conſervatrices ſotto labalia del Toro, e di Venere, onde huom fi consi dace, per quel che eſſi dicono,ad ogni force d'impudicizitz e di diſonore: c la medicina curativa ſotto quella diMarte, edello Scorpione, fer gran fenno a dovere sì fatti fregj in veſtire, come ne diviſa il mentóvato Conciliatore; il qua-> le ſoggiúgne, chedalle ſtelle medefime, onde venir ſuole l'eccellenza de’medici nel for meſtiere, vēga anche loro la malvagità de'coſtumi; perchè finalmente ei conchiude,um", eccellente, e perfetto médico nonpoter eſfere ſe non fer fcellerato huomo, e malvagio; ed avvegáachè vani, efol li fien ſempremai da giudicare i cicaleccj.delfa ftrologia: è nondimenodacredere, chegl’intendenti dell'arte,ciò cut to a bella poſta fingeffero per adattár le coſtellazioni a quelle coſe, chetuttogiorno nel meſtier della medicina', e ne’profeſſori diquella s'offervano's Má chi mai ilmaltalento, e l'uggia demedicinarrar ba ftantemente potrebbe, e come ſtizzoſamente l'un l'altro tutt'ora ſi carminano, efimalmenano. Egli è coſa pur manifeſti a ciaſcuno l'avere gli aſtioſi medicidi Danimarca tracollato dalla grazia del loro Rè it benigniffimo,e inge gnofifſimo Ticone della perduta ftronomia famoſiſſimo ri. ſtoratore, intanto, chegliene fư tolta l'Iſola, e la Rocca d'Vraniburgo, di cui egli era Signore: e sité tanto mara vigliofe operazioni', é ordignidella ſtronómia, ele nobi lißime chimiche fucine rovinarono, che appená oggi,non ſenza lagrime, fe neriſerba la memoria: E l'ombra foldi si gran corpo appare. Ma ſcelleraggine così grande di tradir nemichevolmente la patria, ſpogliandola di quello fplendentiffimo lume, non pur delSettentrione,madel mondo tutto, onde foſſe sõi moſſa a commetterla la cagneſcatabbia di que'ribaldi me dici, da cheIo non potrei ſenza lagrime narrarlo, dicalo in mia vece Pier Gaſſendi: Erant in his medici quidam, qui videntes non modo exDania, fed ex regionibus etiam cete ris maximam egrorum turbam ad Tychonem confugere, cu Spagyrica illiusremedia, quę quibuslibet gratis largiebatur expertifeliciter, ac morborumetiam valgo habitorum infa nabilium levamen fentire, livore inſigni cxardefcebant, cu quapotenant apud quoslibet,procereſquepotisſimum, quibus preftabant operam,ipfius nomen traducebant, E o quanti ale tri eſempli della coſtoro invidia rapportar potrei, ſe non che troppo ne ſarei per andare alla lunga. Apollo crudca liſſimamente ucciſe il celebre medicante, e, pocta Lino, la qui inorte pianſero eziandio le genti barbare; per lo che gli Egizi una flebile canzone ſopra tal convenente com poſero, appellato in lor lingua Emaneco, ci Greci Lino, la chiamarono. Ippocrate, comeſcrive Andrea antichiſe funo medico, inſidioſamente brụciò la nobile, e ricchiffima Libreria diGnido; e quindi egli poi per tcina fuggiſli. A Quinto, medico famofiffimo, dice Galicno, fu meſtieri gombcrar Roma di prelente, per ceſſarele ribalderic d'al tri medici. E in Roina pure attoſſicato da’rivali luentura.. tamente moriffi un grandisſimo medico, come narra Gin lieno, ilquale anco di ſe narra, che egli fieramente perſe guitato yenne da parteggiantimedici di quel tempo. E per nulla dir quì delle occulte inſidie, c machinazioni, e delle trappole, e frodi ordinate dagli Arabi medicanti inverſo Avicenna, Avanzavarre, e Raſi: quai vili trattamenti nó fi ferono poi a Raimodo Lullio, ad Arnoldo da Villanova, a Pier d'Abbano, c ad altri molti letterati di vaglia, perli maligni medici di que' tempi? il dicano pure le fughe, gli elilj, le prigionie; per tacer delle ſatire, dell'invettive del le falſità, delle tradigioni, onde que’valent huomini có punti oltremodo, e travagliati ne vennero; imperocchè di sì fatto memorie per la tralcutaggine degli ſcrittori di que tempi Debil aura di fama appena giugne. E laſciando da parte ftare, come coſa dinon tanto rilie? vo, quanto i limiti dell'oneſtade oltre paſſafle in favellan do, é in iſcrivendo Maeſtro Gio: della Penna, (chea 'di ſuoi con aura di grido popolare in queſta noſtra Città eſer citar fi vide la medicina, contro Maeſtro Frāceſco Zannel li; egli è ben certo, che più d'un buonno ſcienziato, e il. luſtre trafſe già a fondo l'ardente, e peftifera invidia di Maeſtro Dino dal Garbo medico Fiorentino. Ma quandº altri, e quanti nobili e illuſtri medici, oltre al Veſalio a mal partito menòla velenoſarabbia, e le cupide ambizioſe voglie di meſſer Giacomo Silvio ! collacui eſtrema aya rizia ſcherzando quelgran Poeta Scozzeſe finſe, che ſcola piti foſſero nella lapida della ſua ſepoltura i ſeguenti verke Sylvius bic fitus eft, gratis,qui nil dedis unquam, Mortuus, & gratis quod legis ifta,doles. Ma quali onteper Dio, o quali ingiurienon ſoftenner que! virtuoſi,che con eſfolui cócorrevano alla cura degl'infermi, dallamaladizione, e dall'altezzola, e sfrenata tracotanza delGalieniſta ineffer Frăceſco Rabalefio così reoze malva gio huomo,che d'accordo col Marotto motteggevol Poeta egliosò di gittar le prime födaméta dell'ercſia nella Frácia? e da Michel Servetto, la cuiempietà era inteſa a rinovellar gli errori di Paolo da Samoſata, e di Marcello Ancirano: e dall'empia, e ſopraſtante arroganza di Giorgio Biandra ti, e di Franceſco Stancato pur esli Galieniſti;per opera di cui ribellando ſi fottraffe alla cattolica fede il giovanetto Principe Giovanni Sepuſio, e quindi ſen? vennead infeſtar dell'Arianeſimo colla più parte dell'Ongaria la nobilisſima Proviácia tutta della Tranſilvania. E che non fe contro i poverimediciſuoi emoli la barbara fierezza di Giacomo da Carpi; il quale rinovando la lagrimevol carnificina d'E raſiſtrato, e d'Erofilo,osò, come narra Paolo Giovio, far notomia, non già d'un reo alla morte condennato, come i già detti due Greci facevano, ma vie più ſpietatamente d'un innocente infermo alla ſua cura commeſſo. E per far omai paſſaggio a coſe più note, e men forſe moleſte: che Ooo non oſarono, che non imprefero, che non machinarono a danni del Paracelſo i Galieniſti medici della Germania? Necertamente è da credere il Paracelſo averſi lui ſteſſo tal briga adoſſo recata perricredere, e rintuzzare il lor rives ritisſimo Ser Galieno: conciosficcoſächè così fieramentes ancora eglino perſeguitarono, e malmenarono Lionardo Fuſio, Giovan Cratone, e Andrea Mattioli; il quale con meche Italiano, e di patria. Sanefe, con eſfo foro dimora. va; e altri', e altrimedici,purGalieniftige della formede, fima banda parzionali; e fomigliáte ferono i Galieniſti me dici Italiani a Gio: Battiſta Montano, a Girolamo Fracaſto. ro, ea Matteo Curzio, comechè queſti tutti afpada tratta la dottrina di Galieno difendeffero: e nel medeſimotempo eglino unitamente contro Giovanni Argenterio diGalien nimicocongiurarono. Nedi coralrabbia innocenti ſi ſer barono quegli altri pur Italianimedici,che ſtizzoſamente & 'avventarono contro il dottiſſimo Girolamo Cardano. Ne dágli Italiani altresì, c daʼFranceſimedici tralaſcioffi quá lunque ſtrada d'oſcurarc, e deſtinguere quel chiariffimo lume dell'eloquenza e d'ognidottrina incendétifſimo Gilt, lio Ceſare della Scala;'eche non tentarono imaeſtridella famoſt ſcuola diMöpelieri per abbattere il celebraciſſimo Rondelezj, e'l Giuberti, la cuiimpareggiabile, e non or dinaria dottrina ſopra tutt'altre ſcuole d'Europa di gran lunga poggiar gli facea?Ne tono nuove le rabbioſe invidie, el'affrontarebattaglie d'e’medici di Parigi controil Quer eetano ', il Torqueto, il Baucineto, l'Arveto, il Libaviowe tiaſcun'altro Chimico di que'tempi, da noi in parteancor più addietro accennate. È chinon falacruccioſa invetti va compoſta in Parigi da Germano Cortin contro i Para eelliſti fornita dicalunnie'ye di fofiſmi tutti fanciulleſchi, fenza fermezza:niuna didimoſtramento? Matroppo lungo ne verreišs’Io diſtintamente narrar vo leffi le travaglie; e le noje;che nella Lamagna,nella Dania, nella Franciada’rabbioſi rivali fofferirono Pier Severino, Michel Tofſite, Bernardo Perotti, Girardo Dornei,Mar tino Rolando,, Oſualdo Crollio, ealtri infinitimedici doro tiffimi, e avveduti affai; i quali ſempre, o nella fama, a nell'avere, o nella perſonalungamente fur'oltraggiati. E fenza andar mendicando eſempli di fuora, laſciando das parte ftare le non meritare perſecuzioni del noſtro Antonio Altomari,abbiam purnoi con gli occhi, o congli orecchi baſtantemente per addietro compreſo la rabbia de'medici nella noſtra Città contro il Ferrillo, e lo Schipani, e'l For tunato, e'l Ricci, per tacer d'altri, e malmenato da rabbio. filime trafitture d'invidia il Macaone delle noſtre contrade Marc Aurelio Severini (le cui doctiflime opere in molte, varie lingue traportate non mai per tempo diincaricate la ranno) così egliperaccuſad'invidiofi rivali,ſenza riguardo alcuno averli a'meritidella fua perſona, fu prima incarcerz to, e poſcia toltoglilo ſpedale ove eglia cocantiſpacciati infermi già la ſalute maraviglioſamente avea riportata, alla fine de' ſuoi beni ſpogliato, Ma delle malvagità de'. medici, quali coſe tralaſcerò lo, o quali ne ridiro? E pero chè non fo lo côte ad una ad una le ingiufte uccifioni, che medici innocentiffimi há per altio d'altri medici miſcrevol mente patito: fra le quali mi rammenta prima di tutt'altre quella ſpietatiſlimaal celebre Virsūgio data da quell'infa me medico Scozzeſe,nó peraltra cagione, come ſcrive Giz no Leoniceno, ſe non ſe, per dirlo colle parole di lui: ob con munem in praxi novatam operam, &à Virſungio non teme re traduct am tăta in virum honeſtisſimum flagravitinvidia. Ma in paragone di tutte queſte, lagrimevole oltremodo è la narrazione del gloriogfimo martire, che ora beato gode nella preſenza di Dio,Pantaleonc: a cui tanto, e si fatta -mente porè l'invidia de’mcdici, che accuſacolo all' Impe cradore di Roma Maffimiano, non mai fi: rimaſero, finchè " non videro per man del manigoldo dal buſto l'onorata te Ita ſpiccarſi. Mache dalla medicina medelma avvenga, che i medici fian così,comeabbiam diviſato malvagi,polliam farne più chiaro argométo,perciocchè eglino no pur nelle noſtre par ti, dove parch'abbiſogni più d'un artificio ne'medici: ma anche la dove gli huomini ſon grosſige materiali, anzi che Ooo 110, 1 2  no, ufano altresìi medici malizie; ed inganni per accie ditarſi nelfor meſtiere. E per tacer d'altre parti: nell'Ia die Orientali, come riferiſce Francefco Silvio, Solent muka ti medici ad febrium variarum curationem acus aureas lone gas, ac tenuisſimas in varias corporis partesintrudere, atq; ita putant febres miraculofe curare; e nel Tapui danno a di vedere a' cattivelli infermi, che la cagion di lor malattie fian certe pietre, o animali, o ſterpi, o coſe fimili, le qua li e'dicon, che gliele traggon dicorpo a forza di medicine, e vomitivi; e in tal guifa fi fanno a credere per grandiflimi bacalari; e in tanta reputazione ne montano, che anche i Re loro invidiandofa, voglion effer diloro ſchiera. Nel ta muova Francia poi, ficome teſtimonia il Padre Brel fani, i medici danno ad intendere a que’popoli, che tutti i medicamenti infallibilmente le infermità guariſcano: ed ove no’l facciano dicon'eſfer il mal ſovranaturale, a cui ſovranatural rimediofaccia meſtiere; e tali aggiungono ef fere per la più parte le vomitive medicine, e só quei volpo. ni sì deſtri, checol vomito vi meſcolan di botto, ſenza che altri lor tolga in fallo, o ciocchetta di capelli, o pietra, o legno, o altro ſimile; il qual ſenza durar molta fatica per fuadono altrui eſler la malefica fættura, la quale anche ta tor fan veduta di cavarlz fuori colla pūca d'un coltello, che tengono infra le dita, o altrove naſcofo; e ſe poiavviens, che piggioril'infermo, cglino ſoggiugnendo, che il mal d' un altro Demonio fifaccia, il rimedio replicano; e quando finalmente lo infermo fe ne muoja, ſi fan loro ſcuſe, con dir, ch'il Demonio,che l'uccide, è del lor più potente; c in cal guiſa quei ghiottoncelli queſte, e millalcre novelluzze da ridere a quegli imboccano. Or ſe la medicina è tales, che da per fe delle frodi, e degli ingamni abbiſogna, deb bonſi ſtimare certamente oltremodo felici que'popoli, che cosi zorîchi, c barbarida noi vengon detti;.poichè a loro è conceduto privilegio sì grande di non avere a provar l'o pera dicoſtoro. Felicisſimi furono adunque i terreni del · la Libia y dell'Arcadia, e d'altre fimili Regioni, in cui si dannofa gente allignar per alcun tempo non ſi vide: felicisſimo per fei ſecoli il Popolo Romano, il cui fenno che pote da debolisſimi iniz; ſollevare alla ſignoria del mondo la fua Repubblica,faggiaméteper lo detto ſpazio di tempo vietò affatto l'uſo de'medici. Felicisſima in ciò la gente del contado, che il lor conſiglio non curando,della vita allus ga il dubbio corſo; onde dieron cagione ad Ercole Bentis voglio di cantare in loro loda Però ſaggioilvillan, chiam'io,che quando Égli ba la febbre,che più arde se bolle Non va cura di medico cercando; Ma nelgran parafiſmo il fiaſco tolle De l'acqua,.e tanto bee chepoi diviens Diſalubre ſudor fovente molle: Overa l'ombra de la viti amene Il Settembre o l'Agofto a luva mezzo A fare il corpo lubrico fen ' viene; E la manna, el Riobarbarodiſprezza, La piumangbiunti, il ſervizial, la curi, Che tolgon l'appetito, e la fortezza, DifeLafcia diſporre a la natura: Che ſe dato è diſopra,chetu mora, Non ti guarrà dieta,o lunga cura. E più avanti E narraci un villan nofiro canutog Ch'altro nonmangia, cheformaggio,mentre Ha febbre; emai non hamedico-auuto. E nonvoglio (foggiunse egbi) che m'entre Nojofo, e diſpiacevoleGriflero, Neamara medicina in queſto ventre, Ede la febbre nel'ardor più foera Votai fovente in vece di ſillopa Di moſto un capacisſimo bicchiero. E forſe,che farà queſto qualchenovellar dipocca, o da orator menſonieros Michel diMontagna filoſofante,un de più grandi', che peravventura abbia avuto la Francia, o fommamente veridico,non cinarr'egli, che in un villaggio, ove inai non vi bazzicavaalcun medico,conmiglior ſanità, ch'altrove vivevafi? Maſenza entrare in alcie provincicis ciò non veggiamoa pruova rutto dìnell'Italia echiepper Dio di noiche, non ſappia ciò, che molt'anni avveniffe in quella terra, chenon avendo mai per addietro ravviſata faccia dimedicoil Signor di effa immaginandofarle ungrá pro un ve n'introduſe, ilquale co'falaslijpurgagioni, cve Icicanti, e altri rimedj, ivi non primanominati, non che praticati, ſeppe sì ben pelarla, ch'eravicino ad eſſer vo ta d'abitatori: ed avvedutiſene i vafſalli,a guiſa di cani mordenti ſi ferono a doffo al padrone, e lo sforzarono ad mandarne via il medico. Manon ſo come caduto dalla. memoria mi'era ciò che al noſtro propofita avviſano il fan moſisſimo Adriano Turnebo, huomio di fingolar giudicio, e di chiara fede: Animadversi, ſctive, in dyfenteriæ popu • larimorbo, in vicis de pagis, qui medicina non utuntur, mortuos, aut nullos,aut paucos: in quibufdamurbibus plu. rimos elatus à medicis maximofumptu:e Pier Gaffendi huo mo inſignede'tempi noftri: ex iis; qui medicas adhibent, aliquiſanantur, aliqui moriuntur;pari modo aliqui Sanar jur, aliqui moriunturex iis qui non adhiberi: avvegnachè eglipoinell'ultimaſua infermità per non diſpiacere aʼme dicanti ſuoi amici ciò traſandandoſi facefle da loro con re plicati ſalasſi uccidere; e quel celebre medicante Lazaro Meſfonieri ache dice: multi fineullis auxiliis fpontè fanátur. in agris, & pauperes medicis deftituti. Malaſciando que ſto ſtare al preſente, tra per la dubbiezza dell'arte, tra per la varietà delle opinionidelle ſette; e per la nequizia; e malvagità degli artefici fu egli ſempreragion di ſaggio, e avveduto governo il non darloro orecchja determinar fol lemente coſa alcuna in medicina; e infra tanti ſubugli di ſchiere, e fazioni non ſi yide mai faggio Principe, o ben, ordinato reggimento vietar a mediconiuno, che con paro le, e con fattinon paleſaſſe iſuoi liberi ſentimenti. Così con loro ragioni non poteronmai o Erafiftrato ſommamé te caro al Re Antioco, o Aſclepiade amato aſſai, e tenuto in pregio dal gran Pompeo, o Antonio Mofaonorato, e careggiato da Ottaviano Ceſare, o Vezio valente adultero dell'Imperadrice Meſſalinamoglie di Claudio, o l'am, inicislimo dell'Imperador Nerone, Teffalo, far sì, che a medici di contrarie fette gi per comandamento de loro Principi foſſe il medicar vietato e in lor diſpetto liberer fempremai fr tennero le fchierenemiche. Cosi fempremai in Romàse in tutt'altre parti delmondo, nomeno i Razio nali, che i Metodici, e gl'Impirici liberaméte il lormeſtie re eſercitavano, ciaſcun di loro ugualmente il privilegio della cittadinanza di Romagodendo. E dopo le rovines dell'Impero Romano noir ſi videinfragli Arabimedico vā caggiato ſopra altri: ne a'feguaci d'Avicennafu maiper opera de ſeguaci diRaſi', o d Avenzoárre il medicarvieta4 to. Ne infra''noftri ancora, comeche cotanto l'Arabeſche dottrineper tutto ſormontalfero, comeaddietro è narrato, non però di menonon poterono far sì, che affatto abbats tutane foſſe la ſchiera de’lornimicisſimi Galieniſti;ned'al tra parte poreron mai coſtoro dallor buornome pūto far gli cadere; e avvegnache con ſátire, einvettive lungamen te piatifféro; nondiineno di nulla mai', o reggimento, o maeſtrato, o Signoria vi s'inframmiſe, ne Principe', che faggio, oavveduto foffe's colle maia parteggiarncalcunod Ein vero, non Sommo Pontefice, o Re delle Spagne, o Imperadore;o Re della Francia, o dell'Inghilterra; o della Suezia,o della Dania; o altro Principe;oRepubblica mai; ch," Io ſappia, ſi legge nelle ſtorie, che voluto aveſſe prēder bri gadellegare; o dellediffenzionide’medici. Ne il Re della Francia soi.parlamenti diquella ',e ſpezialmente queldi Parigi, città in cui fivide lapiù lunga', e la piùfieracon tefa infra i medici Chimici', e Galieniſti; avvegnachèmols to ſtimolato ne foſſedalla ſcuola di Parigi, volle mai inan dare avanti i decreti diquella, nulla curandole ciarle di PierGregorio da Tolofa (il qual ſe tanto nella filoſofia,e negli altri buoni ſtudi del Lullio foſſefi innoltrato,quan to nella Loica di lui s'avantaggiò, certamentenon aureb be egliuna sivergognoſa briga impreſa ) diedeagio a ' Pas racelfifti di liberamente ſempremedicare;e ad ontapure del Galieniſta Riolanoilvecchio, edi cute'altri nimici, tư di 480 Ragionamento Seſto di quel gran Principe ſempre in grazia il dottiffimo Giu ſeppe Quercetano medico, e conſiglier dilui: e come egli certamente il valeva, ne fu da lui ſommamente onorato; e quantunque perquella ſcuola infra l'altre chimiche medi cine foffe affatto vietato il dover dare l'antimonio per en tro: pure non che tal divieto aveſſe avuto effetto alcuno, a i Miniftri del Parlaméto Paveſſer mai co' loro arrefti raffer maco, anzi l'ancimonio per ciaſcun medico liberamente adoperavaſi,comechè nelle cure delle medeſime perſones reali. Ei Miniftri, e ireggimenti tutti de’noftri Invitriffa mi Redelle Spagne, così ne'paeſi balli, come in tuce'altres Provincie della loro Monarchia ſempre hapermeſſo,le tur tavia permettono l'uſo libero del medicare a' ſeguaci del Paracelfo, e dell'Elmonte, e del Silvione del Villifio, fen-) za ritegno alcuno; ſpregiando ſempremai, e rifiutando de maladizioni, ei rapporti de Galieniſti. Che ſe mai Prins cipe, o Maestrato inframmetter tałora s'ha voluto, e por mano in affare pertinente alla medicina,e alcuna ſua cola, comechè menoma a certa, e determinata legge ligare, bea fiè veduto perpruova, che ogni loro ſtatuto, a ſconcio, e non laudevolefine ſempremai è riuſcito; come ſi vide av venire, oltre a quel, che è detto, allor, che perconſiglio de Napoletanimedici venne perla Prammatica del 15620 Puſo della manna sforzata, qual dicono, come velenoſo vietato; la quale fa meſtiere rivocarla nel 1573. con per metterſi çſprettamente l'uſo della manna dell’Orno, e del Fraſſino, che poco prima era ſtata ſeveramente proibita. E no poffo no arroſsare in leggere que'rimproveri fatti dal Clufio, e dalMattioli, il quale in cotalguiſa favella: Er. rano non poco i medici Napoletani co’loro Protomedici; i qua li fanno proibire ſotto graviſſime pene, che non ſi debba ven. der la manna, che riſuda dalla ſcorza del frasſino, e dell'ora 10, la qual chiamanomanna sforzata, immaginandofis cle nonſia buona acofaveruna, imperocchè queſta, oltre che pur ga ſenzamoleftia alcuna, e daffi ficuramente alle donne gra videin ogni tempo della gravidezza, è fantiffima, ed eccel, Lentisfima medicina nelle petecchie, e febbri maligné, e pelli, lenzia DeSig. Lionardo di Capod 487: Jenziali,eſſendo che il fraſſino ha manifeſta virtù controtua ti velewi; però laſcimo omai iProtomedici Napoletani di peria reguitar coloro, che cavano lamanna dalfrasſino, e non pris vino gli huomini dicosì prezioſo medicamento non conoſciuto da loro, febene viforopiù propinqui di Noi. E ben ſi vede altresì in quanti errori ſieno ircorſi alcuni Giudici in laſciandola guidare a' ſentimenti d'alcuni medi ci: che ben lungo catalogo recar ne potrei. Macontente rommi al preſente di mentovarne ſolamente un'eſemplo di non poca conſiderazione, che facendoſi troppo ſemplice mente alcuni Dottori di legge a credere, i bambini nati di otto meſi non potere naturalmente vivere, come avviſavali Ippocrate, del quale il loro Bartolo portando opinione i diviſamenti della natura cſfer non guari diffimili alle leggi umane, dice: ftandum eft libris Hippocratis tanquam ad théticis: giudicarono quelle eſſere vere ſconciature, e das dover eſſere d'ogni eredità incapaci; nel quale errore laſciaronſi traportare l'Alciato, e'l Cujacio, e altri au tori di lieva in legge. Perchè il noſtro Matteo degli Af flicti ne rapporta una deciſione; ove in modo giudicoſlinel noſtro tribunale per haver data intera credenza a' medici, che dal Caranza dottor di legge ſpagnuolo ne fu ripigliato con queſte parole: venit improbandum judicium Protomedi ci Ferdinandi Regis primi Neapolis, & aliorum quos Affli Etus decif. 236. num.4, valentisfimos Philofophos appellat: eorumque ductu Sacrum Confilium Neapolitanum octavo mē fenatum materna fucceffionis incapacem declaraffe afferit; ut meritò decifionem iftam, d predictorum judicium impugna verit Boërius dec. 220.in fine,neque enim ita magnifacien dum eft judicium illud Confiliis philofophorum, medicorü relatorum ab Afflicto fup.ut ab eo quiſquam non malit diſce dere, quam à veritate. Maciò ſopra tutto ſi ſcorge da quel,che narra quell'av veduto,e giudicioſo ragguardator delle coſc Giacomo Tua no; dice egli, che d'ordine d'Errigo Quarto Re di Frácia, il gran Lemoſiniere, e altri ſuoi famigliari, che co'i may giori valent’hu onini di ciaſcun meſtiere tenner conſiglio ppp i dair  1 3 di dar compenſo agli abuli della famoſa accademia di Pa. rigi, e che infra l'altre leggi, e ſtatuti diviſarono delle bi. fogne della medicina: ordinando, che i medici di quella ſcuola doveſſero legger l'opere d'Ippocrate, e ogni ſua opinione puntualmente ſeguire:medicos ſono, parole del, to ſtatuto, rapportate dal Tuano, ut leges fibi prafcriptas tee neant, divinum Hippocratem diligenter legant, præcepta ejus religiosèfervent. Empiricam caveant, neque ea ullo modo utantur. Ma cotale ſtatuto non potè giamınai eſſer poſto in opera; e in vero, ſeque’valent’huomini aveſſero innan zi tratto conſiderata, e riandata cotal biſogna, e riguarda to alla varietà delle ſette, e delle opinioni, e all'incertez za di tal profeſſione, non avrebbono così ſciocco divieto mandaco fuora. E tanto più, che que' inedici, che con figliarono una cal legge, ne prima, ne poi i diviſamen ti d'Ippocrate oſſervarono; e in iſpezialità nel purgare, e nel ſegnare,come nel ſecondo ragionamento avviſam mo; ſenzachè il non valerſi dell'empirica medicina è contro l'ammaeſtramento del medeſimo Ippocrate; e an zi tutti medici vengono di neceſſità aſtretti a yalerſi delle impirica, come da quel ch'è detto agevolmente coglier fi puore; perchè gli ſteſſi riformatori convenne certamen te, che alcuna fiato, per non dir altro, veniſſero con em piriche medicine curati, ſpezialmente ſe furono morſi da can rabbioſo, o daſcorpioni, o da altri velenoſi animali. E già parmi o Signori, ſe'l mio avviſo non m'ingannnas che per quel che da noifin qui ragionato foſſe de tantidi vieri della medicina, che ſaldinon nai ſono fungo tempo durati: delle diverle, e ſoventi fiate contrarie guiſe di me dicare, e dalle si varic, e tante opinioni, che fra i medici di tempo intépo ſono venute inſư, impoſſibili a porſi mai im alcun patto d'accordo: dalla lunga incertezza disì dubbio fo, ed inviluppato meſtiere, il quale non ha in ſe dottrina, o principj, ſui quali huomo unquemai poſta porre alcun menomo fondamento: e dal maltalento demediciinvidio fise maligni, affai manifefte fi pajano le grandi malagevo lezze, acui s'avvengono tutti coloro,che d'ordinar lebis ſogne della medicinafi danno alcuna cura. E perciò lag. gio ſembrami lavviſo di quella Città, o di que'Regni, ch' avendo forſe a pruova legià dette verità conoſciute, non vogliono in alcun modo prenderfene briga, ſeguendo in queſta guiſa la coſtuma dell'accorto poeta, il quale, coine Orazio faggiamente avviſa, que Deſperat tractata nitefcere poffe, relinquit. Talfu il fano conſiglio del Signor Duca diMedinaceliVi cerè nella Cicilia; il qual non che andar voleſſe a ſeconda di coſtoro, anzi prendendole a gabbo, ſcheroù le ambizio ſe,e avare bramedi Filippo Ingraſſia Protomedico di quell' Iſola; il quale a diritto, ed a roveſcio volcva i maliſcalche ſoggetti alla ſua giuriſdizion ridurre; perchè pubblicò unu libro, ove ingegnofli di far chiaro (ne v'ebbe per avventura a durare la maggior fatica del modo) che la medicina degli huomini,edelle beſtie in nulla foffero fra ello lor differéti, * e che fra medico, e maliſcalco altro di divario non v'abbia, che ſolamente nel pome. Ma lo finalmente non lo fe altri poſla più a propoſito metterci innnanzi agli occhj l’infelice fine, a cui pervengono tutte le ordinazioni in affári di mc dicina; e ſpezialmente quelle che fatte ſono a richieſta, o a conſiglio de'inedici, quanto Trajano Boccalini: allor che narra, aver Apollo per ſecondar le perſuaſioni d'Ippocrate tenuto a conſiglio alquantimedici,a cagion di voler ripa rare ad alcuni diſordini ch'avvenivano nel medicare: ma per l'ordinazioni di tali riformatori, non pure no iſcemaro no in alcun patto, ma vie più moltiplicarono le malattie; e le morti giunſero a tale, ch'egli rimaſe forte maravigliato: (ſon parole del Boccalini) ch'una diliberazione fatta con ze lo di tăta carità aveſſe potuto fortire il fine infelice d'una tan to calamitofa confuſione; onde bruttamente da Ippocrate chia mandoſi offeſo, eſchernito, che ſotto zelo d'apparente carità verſo il benpubblico, con quel pernizioſoricordo aveſſe volu to aprirſiſtrada all'eſercizio della ſua ambizione: inpubblica udienza, con indignazionegrande disfece il collegio, con ani Ppp 2 mo dia 484 Ragionamento Sefta mo diliberatififimo di far contro Ippocrate qualche notabile rifentimento". Orecco le riufcite di que'riſolvimenti, ches goglion prenderſi d'un arte cosìfallace, e manchevole, Eche ix ſuobaso mai por ha certezzha 1 RASr 220 Bbiam finora fufficientemente diviſato, o Signori; delle dubbietà,.e incortezze del la medicina,malagevoliaffaiperhuomo, anzi impoſſibili a ſuperare:'infra le quali ondeggiandociaſcuno continuo s'aggirai; non altrimenti, che picciola, e malforni ta barca irr tempeſtoſo pelago dimare da'fortunoſi ventije dalflottar dell'onde dibattuta', e percoffa'traballa; o mal pratico viandante il qualecoleo da oſcura'norte,in folta, non conoſciuta ſelva;per travolti-bronchi, e fterpi andan do, quafiin cófuſo-laberinto s'aggiri, séza potermai riuſci re a dritto ſentiero, ch'a falvamento il conduca'. Perchè non potendoſi in così intralciato meftiere via, o modo al cunoavviſare, convienr'certamente, che'l tutto a poſta, e ad abitrio didifcreto, e'ayveduto medico fi rimetta. Aduna que avendo ilmedicoperle maniun sì grave affare, chento ſenzafallo è dagiudicar la vita, e la ſanitàdi ciaſcuno,dse egliconogni ſollecitudine,e con ogniarte ingegnarſi di far: giovamentoagl'infermi commeſt alla cura dilui, al mio gliormodo cheſi poſſa; çfecondochè la condizione d'un tal meſtiere comporta. E (come a coloro, cherompon per tempeſta in mare, i qualiad ogni picciol cravicello, o pan chettirgi appigliano,così parimente dee il medico negl'ince: uob; maroſi della ſua profeſſione valerſi di que’tutti i Jabuli argomenti, che gli li fanno avanti; an corchè non ben ſicuro egli ſia,che con quelli sì degna im preſa poſſa ridurre a quel fine, al quale l'avrà indirizzita. E quinci ſi è, che quantunque poco,o niuna certanza recar poſlano al ſuo meſtiere le corezze,che per le cofe,o vedute, olette, o perlo imperfetto, emāchevole umano modo dific loſofare s'acqui &ano; egliimpertanto deein tutte quante Je coſe alla medicina perrigenti eſerbene ſcorto, e cono ſciuto, chiunque voglia con qualche profitto, e laudevol mente cſercitarla; perchè fa meſtiere, che lo attenendo le promeſſe già fatte in ſu’l principio di queſti ragionamenti, vegga minutamente chente, e quali coſe a fare un buon medico, e perfetto,in quanto ſi poſſa umanamente, c quan to la condizione d'una tal biſogna comporti, ſi riclrieggia no e per tutti diviſatamente diſcorra. Egli ſembra certamente che non vada err ato Ippocra te, o chiunqueegli (i foſſe l'autor del libro dell'arte, quan do dice, ch'a coloro, che vogliono all'altezza della medi cina mόrare faccia meftieri φύσεG-, διδασκαλίας, τόσο ευφυές, tendopatíns,Qinomovins,xpóvx,cioènatura acconciaze nobilize vira tuoficoſtumi, e luogo allo ſtudiarconvenevole, e buon alleva mentoinfin da fanciullezza, einduſtria, e tempo. Richiedeſi in prima natural genio, ſecondo lui; conciolo fiecofachè mancando talvolta, vano affatto, e inutile ogni ftudio, e ogni diligenza riuſcirebbe. Ne è vera l'opinione del vulgo, cheſolo alla poeſia vuolch’abbiſogni quella na, turale inclinazione, dache alla medicina apparare, e tute? altre ſcienze ancora convien favorevole averla; vero fem premai ciò che dice il noſtro Dante ſperimentandoſi: Sempre natura,ſefortuna trova Diſcorde aſe, cum'ogn'altra ſemente Fuor di ſua region fa mala prova; Eſe'l mondo la giù ponce mente Al fondamento,che Natura pone, Seguen. Del Sig.Lionardodi Capoa. 487 Seguendo lui auria buona la gente. Ma voi torcete a la religione Tal chefu natoa cignerſi la ſpada, E fare Re ditalcb'è dafermone Onde la traccia voſtra è fuor di ſtrada. Ma più ch'a tutt'altri meſtieri, alla medicina natural ta lento richiederſi, egli ſi porrà chiaro a chiunque badar vo glia,ch’afmedico talora improvviſo, ſenza aver potuto in prima dello infermo, o della natura di lui molto diſtinta contezza, o eſperimento, convenga diviſar me dicamentijanzi che dal malore iľvigore almalato ſia colto, o le forze; eďove ancor queſte ſiano all'ultimo ſcemo per venute,no perciò sbigottire allora, ma prendendo cuore, e ardire a novelle cure lollevare lo intendimento. Alla qual coſa fare, chi non avviſa, che fano giudicio, e ſpedito in gegno, e natural ſagacità v’abbiſogni, c tale appunto qual fa meſtiere per avventura a'gra Capitani, e a'comandatori diguerra. E mi ricorda a tal propoſito, che il Signor di Molluch chiariſſimo capitano dir Tolea, ch ' ove il general della battaglia, iit veggendo rotte le ſue ſquadre', e ſcon fitto l'eſercito,egli, o da vergognago da timore oppreſſo, il ſenno, e l'ardir non perdeſſe ad'un ora, ſempremai buo na ſperanza gli rimarrebbe da poter raccozzare i ſparpa gliati, e fuggitiviſoldati, e incoraggiargli di bel nuovo a fronteggiar l'ofte vittorioſa. Ma potrebbealcun dire,che natura perapparar medicina punto non abbia luogo; o che fe per appararla vi pur biſogni, certamente cotale inchina. zione, eabilità ciaſcun di noi egualmente l'abbia; impc rocchè, direbb’cgli, quantunque lo ſappia molti, e molti eſſer coloro, che per naturaľripugnanza di genio, o d'ate titudine in altre arti, appena aſſaggiatele, dalla impreſa fi fian riſtati: pur d'uno normi ricorda', ch'avendo l'a nimo alla medicina rivolto, non ne fia medico poſciano e'n buono ſtato divenuto. Eforſe ciò avviene, perchè eſ fendo la medicina al mondo rominamente neceſſaria per riparare a cotante malattie', il ſommoProvveditores n'ab bïaciaſcun baſtevolmente d'attitudine fornito per apparar lized eſſerne da tanto; ma a ciò ſi riſponde i ſovrani conli gli dell'eterno facitore dell'univerſo non eſſer dato di po tere ſpiare al corto intender noftro, come temerariamente altri pur s'attenta di fare: ma ſe a qualche conghiettura ne fi daiſe mai luogo, lo direi che anziperchèdi ſommo pro, c di gran pregio èla medicina, perciò non eſſer peſo di tut tebraccia, ma di pochisfime; ſicome avvien delle coſe più perfette, le quali ſono altresì più rare. Maintorno abuonicoſtumi,che fiorir debbo in colui che d'eſſer medico intéda, fu egli queſto sétiméto del méziona to autore,ſeguito comuneméteda tutti;anziGalieno mede fimo in un luogo dice,cbe colui, ch'èxibaldo, e di mala co ſciéza no puòmainegli Studi d'un tal meſtiere vataggiarſi. Ne lo ſtenderommi al preſente in ragionar del.conoſci. mento delle lingue; imperocchè della Greca, della Latina, e forfe acor dell'Arabeſca,e dcHa Tedeſca egli è allai chia ro,che p iſtudiar ne’libri in quelle cópoſti,bone,e interame te delle medeſimedobbiamo eſſere inteſe: anzi il dottiffimo Samuel Bocciardi porta opinione chesõmaméteal medico ſia neceffaria la lingua Ebraica. Eforſe anche con qualche ſoverchio di diligenza per lo riſchio, chedal non pienamen té intenderle ne può ſeguire; il che avviſando l'avvedutiſ fimo Arnaldo da Villanova ſtrettamente ne l'accomandò; cne lo diè per regola nell'apparar medicina, con queſte parole: Notitia nominum prodeft ad doctrinam. Et nulla profeéto ars, curiofius, cautius vigilantius homini diſcenda, traétanda, meditanda eft, quammedicina, qua nulla eft pe riculofior: quippe quum in ea verſetur falushominum, vi ta; per tacer della Loica, che richiede Galieno nel medico; il troppo ſtudio della quale nuoce, non ch'altro, a chiun que veramente approfittar ſi voglia nella filoſofia, eſpe zialmente nella medicina,poichè eſſendo l'intelletto avvez zo a quelle coſe finte, non fa poſcia dipartirſene allor, che delle vere, e ſenſibili ſoſtanze imprendea filoſofare; onde faggiamente quella grand’alına del ſaggio Galileo folea paragonare i Loici agli artefici degli ſtrumenti muſia cali, i quali tutto dimaneggiandogli, non ſanno poi quan doloro biſogna, ſe non ſe rozzamente valerience Ma la norma ſicura de'perferri, e dimoſtrativi fillogiſmi ſolamente dalla Geometria ci ſi porge: e malamente al ſi curo fornito loico, e conſeguentemente buon medico ſarà colui, a cui per le mani gcoinetriche dimoſtrazioni tutt'orx non ſono. E certamente avea la ragione, l'autor della pi ftola a Teſſalo di tanto iſtantemente quello confortare, e fpignere allo ſtudio della Geometria, e dell'Arilmetica: poichè la notizia di cotali ſcienze, oltre agli altri concj,che arrecar ſuole, dice egli: tlu fug'us o &uréple FE xxA THA Qvyesépleas a & ti tò év inagixí óvño Jou răvő mi yeusercioè,apporta chiarezza, e fortigliezza nell'intendimento, acciocchè poffa ben rintraca: ciar tutte quelle coſe, che all'uſo della medicina abbiſognano. E diſtintamente poi va dimoſtrando di quanco pro fia ad un medico faper Geometria, affermando ancora lommamen te giovevole, e neceſſaria eſſere a ben comprendere le deslogate offa, e l'altre biſogno nella medicina. Mamol to avanti avrebbe egli certaméte della Geometria detto: ſe oltre a ciò ſaputo aveſſe,che séza quella, poco, o nulla inté der ſi può delmovimento de'muſcoli, e de’mali della viſta, e d'altre belliſſime dottrine molto alla notizia dell'ordina mento del corpo umano utili, e neceſſarie. Ma fe (come più avanti dimoſtreremo) giammai non può eſſer medico, chifiloſofo in priina non fia: c per apparar filoſofia, la Geo metria è ſommamente di meſtiere;egli è pur manifeſto,che il medico debba efter Geometra. Ne può punto dubitara ſi il convenir cotanto a ' filoſofila Geometria; concioſſicco ſachè abbiamo nelle ſtorie, che gli antichi filoſofanti, tan to biſognevole ſtimaſſero la Geometria nelle loro ſcuole, che no volcan,cheniuno in quelle entraſſe,ſe prima inGeo metria ſtudiato pienamente non aveſſe. E'l gran Galileo de’ Galilei, grandiſſimo maeſtro di coloro, ch’alla vera, e dalda filoſofix attendono, diſſe; In un vaſto volume farfe ne'lafiloſofia tutta deſcritta: e quello eſserne ſempreinnanzi agli occhi aperto, cioè a dir l'univerfo; ma non mai poterviſe leggere, fc in prima la lingua, e i caratteri, co' quali egliè Scritto, perfetiamente non s'apparino. Egli è ſcritto, dics in lingua matematica, e i caratteri ſono triangoli, cerchi, - Q29 altre 1 > altrefiguregeometriche,sēza i qualimezziè impoffibile adin të der umanamenteparola: ſenza queſti, è un'aggirarſi vana. měte per un'ofcuro laberinto. Comendaſi adunque oltremo do il ſaggio conſiglio dell'avvedutiſſimo Cardano, il qual mi ricorda, ch'avrebbe voluto, che niuno in medicina non ſi foſſe mai convertato, il quale, mathematicas perfecte no calleret, per dirlo colle ſue parole; del che recandone la ragione, ſoggiugne: Nam his folum, nec fallere, nec falli contingit; unde qui in illis peritusfuerit,non eſt veriſimile in propria arte velle ſuperioribus, &fuis, ac fibi ipſi impo were. Ma oltre alla Loica, e Geometria, la Stronomia, la Mu fica, e altri nobili, e liberali ſtudj in un perfetto medico Galieno richiede; e della Muſica favellando Tomaſſo Cá panella dice:medicusnon ignoret, qui foni, quos motus in (piritu,adquas bonas operationes excitět,ut medicinales fint;i quali ſtudj,ſecodo lo ſteſſo Galieno, il primo luogo appreſſo Mercurio ingombrano; e con molte, e ben compoſte pa role l'utilità, che da quelli ſi trae, va egli ne'ſuoi ſcrit ti diviſando, e quanto egli avanzato ſe ne foſſe; ſenzachè, dic'egli, ſe il medico, non è di ſtronomia intendente, gran tratto ei ſi dilungherà da’ſentimenti d'Ippocrate, il qual non pur conforta i medici tutti ad appararla, ma molte co ſe ha egli ne'ſuoi libri ſcritte, le quali ſenza ſaper di ſtro nomia, impoflibil certamente fie, che per huomo s'inten dano. Ma nel vero lo non ſaprei mai comprendere, come ben ſi poſſa medicare, ſenza ſapere, il naſcimento, e loco caſo delle ſtelle, e la varietà de climi,e altre ſomiglianti co le, neceſſarie al meſtier della medicina, le quali tutte la ftronomia ne inſegna. Eragionevolmente tutti coloro ch ' un tale ſtudio, come vano, e inutile a'medici biaſimano, punge, e proverbia il buon Franceſco Vallefio, dicen do, che la ſtronomia vien da alcuni giudicata coſa alla medicina affatto inutile, non per altra cagione, ſe non per chè poſſano in cotal guiſa ſchifare lo ſvergognamento, che dal non ſaperla gliene naſcerebbe. Perchè il non mai abaſtanza lodato Ipparco aſſomigliava ilmedico ignorante di ſtronomia ad occhio privo della viſiva potenza; e'l famo fiſſimo infra gli ArabiAlbumazar,dice chela ſcienza delle ſtelle a quella della medicina, principio, eguida ſia. Ma fe la Stronomia richiedefi a'medici, non men di quella certamente fa loro meſtieri il ſaper le ſtorie delle coſe, che avvengono al mondo; concioffiecofachè oltre al ſaper di quelle, i principi, egli avanzamenti delle piſto lenze, e d'altre aſſai malattie, manifeftamente talvolta an che comprendonſi le cagioni de’malije i rimedj, ch'a quel li talvolta hanno approdato, e ciò, che per pruova ha noc.ciuto, e giovato agli huomini: e aſſai pienamente ſi com prende quanto dalla lezion di Tucidide aveſſe Galieno tratto di profitto, e altri aſſai medici di gran lieva, e malli manente da quello artificioſo narramento di lui della fie ra, e lunga peſtilenza del Peloponneſo, traportato poi co tanta eleganza, e così ben da Lucrezio nel luo natio idio mi. Ma ſopra tutto ſenza dubbio la natural filoſofia al medico ſi richiede; imperciocchè, fe perfettamente egli ſaper dee la natura, è l'economia tutta del corpo uma no, le cagioni, così d'entro, come di fuora delle malat tie, le qualità, e le coinpleſſioni dell'aria, delle acque,de' vegetali, degli animali,e de’minerali turti: conſeguente méte egli ďee ſtudiare in filoſofia,nó come dicono, di primº occhio, e diſcorrendo: ma in quella con ogni intendimen to, e ſtudio involgerſi, e riconcentrarſi, e in apprenderla, pienamente con ogni sforzo, e con ogni opera affaticarſi. Perchè il Paracello chiamar folea la filoſofia madre, e fon damento della medicina; e Ariſtotele n'impone, che il me dico cominciar debba, ove il filoſofo finiſca; che altro non vuol dir, per mio avviſo, che il medico dal filoſofo non dif feriſca, ſalvo che nell'operare: e che la medicina altro no fia, ch'una operatrice filoſofia. Folle adunque, e danne vole oltremodo è da giudicar certamente il conſiglio d'A vicenna: che il medico ſenza più avanti ricercare, appa gar ſi debba a' detti de filoſofiintorno alle coſe naturali; Raq 2 ne logorar punto di tépo in abburattargli,e far pruova del la verità; concioffiecoſachè il medico in eſaminandogli no che dall'arte ſua fi diparta giammai, come ſcioccamente s'avviſa Avicenna, anzi allor maggiormente vi s'interna, e profonda, e più maturamente l'apprende. E bene imma gino lo, che a ciò riguardando eſfo Avicenna, avviſaffe pienamente il biaſimo grande, che di tal conſiglio guada gnare egli medeſimo ſi poteva i perchè altro non te in tue to il corſo della ſua vita ',' che attentamente ſpeculare, e contemplar le coſe della natura. Miglior ſenza fallo fu l'avviſo di Galieno, il qual ſopra ciò ben’un libro inte. ro compoſe con queſto titolo densos iarbós, og QorbootG.per * chè e' medeſimo dille altrove, il medicare una piaga non, effer impreſa da tutte braccia, ma di color ſolamente che le coſe tutte della natura hanno davanti agli occhi. Ma dove lo traſandava il buono Ippocrate: il qual giudicò fi loſofia, e medicina eſſer compagne ſtrette, e ſorelle,giua te, ed avviticchiate; e ſimigliantemente Cornelio Celſo afferma, amendue coſtoro d'un medeſimo parto eſſer nate, così ſcrivendo: Primomedendifcientia pars fapientia habe batur; ut &morborum curatio, dow rerum nature contempla tio fub iiſdem auctoribus nata fit;c di ciò ne apporta ragio ne: fcilicet his hanc maximè requirentibus, qui corporum fuo rum robora inquieta cogitatione, nocturnaque vigilia mi nuerant. Ideoque multos ex Sapientia profeſsoribus peritos ejus fuiffe accepimus. E egli è pur troppo manifeſto,quan to Pittagora, Empedocle, e Democrito, e Platonc, e altri grandiſſimi filoſofi più di qualunque altro Greco nel le ſecrete coſe della natura innoltrati, più di tutt'altri me dici della Grecia ancor s'avanzaſſero; ſenzachè i fonda tori, e i Principi di ciaſcuna ſcuola di medicina, eziandio della Metodica, e della Impirica, eilor più rinomati ſe guaci, tutti concordementenegliſtudi della natural filoſo fia s'eſercitarono. Perchè il fimile certamente ciaſcun al tro mcdico de’tempi noſtri dovrà fare; e di lor direbbeſi po ſcia con quelle voci d'Ippocrate innsós gap Quómo, iostec, cioè a dire: il medico filoſofo è ſomigliante a un Dio. E 1 1 quantunque,come ſopra abbiamodimoſtro, aſſai poco al baſſo, e loſco intender noſtro nelle coſe naturali di ſaper ſia conceduto; nondimeno queſto ſteſſo ci da a divedere effer neceſſario al medico lo ſtudio della filoſofia, acciò egli pof fa agevolmente accorgerſi, non aver la medicina certezza alcuna; e a queſto avendo certamente riguardo, diceva Cornelio Celfo: natura rerum contemplativ, quamvis non faciat medicum aptiorem, tamen medicine reddit perfectum. Oltre alla naturalfiloſofia, la morale ancora a'medici ſi conviene; concioſGecofaché, ſe come di ſopra è detto per ſentimento d'Ippocrate, di buoni, e laudevoli coſtumief ſer dee fregiato il medico, Io non ſaprei già, come a tal pre gio mai aggiugner poteſſe colui, che coile natural filoſofia la moraleancora non accoppj; ſenzachè la moral filoſofia è quella, cha per oggetto Panino dell'huomo, e in quello ſuol riconoſcere i malori,e lecagioni,e gli effetti di quelli,e darvi baſtante compenſo, ed efficace ajuto. Orcome po trà il medico adoperando il ſuo meſtiere, con valevoli me dicamenti fanar gli ammalati del corpo, ſe in prima le ma lattie dell'animo loro non toglie? cioè a dire, ſe non fa di filoſofia morale a Imperciocchè i mali tutti del corpo, come da prima, e principalcagione, da alcuna paſſion dell'ani mo ſovente naſcer ſogliono, la qual certamente ne cono fcerc, ne rimuover potrà il medico giãmai, fe dalla moral filoſofia no ſia fcorto. Tanta enim,dice Sinforiano Cãpegio, per tacer altri, eſt animi, &corporis neceffitudo, ut ſua om nia bona, ac mala, velint nolint, invicem communicent. Per chè della nostra anima facendo parole cantò il Guarino. Qwell’immortal, che null'ha di terreno A terrenidifetti ancor foggiace. E Platone nel Carmide lungaméte ciò va diviſando; la qual coſa ancora, ficome teltimonia Ippocrate avea in coſtu me di fare Eſculapio s il quale appreſa certamente l'a vea da Chirone ſuo maeſtro: e ſe pure dopo ſi è co minciato a feparare l’un meſtier dall'altro, non èmara viglia, dice Malfmo Tirio: perciocchè la medeſima artu di curare il corpo, così in fc ftella diviſa, e lacera ſi vede,: chic 494 Ragionamento Settimo che altri ha cura dimedicar ſolamente gli occhi, altri law veſcica, e altri altra parte del corpo. Ma con quanto di fcadimento, c danno dell'arte, e de’maeſtri di quella, per nulla dir de’poveri infermi, ciò avveniffe,che partite, e ſceverate queſte due profeſſioni abbiano i medici, ſolamen te inteſi a curare il corpo, ſenza badar punto alle malattie dentro, lo dicano tante, c tante malvagità, e ribalderie operate daʼmedici, come di ſopra dicemmo; concieſlico fachè non ſon per altra cagione i biaſimi tutti a' medici, e alla medicina medeſima proceduti,che dall'aver clli traſcua rata l'arte dirender ſe medeſimi in prima, e poi gli alţri tute si della verità, della giuſtizia, e dell'oneſtà lodeyoli ama, tori. Ne per altro chiama Ippocrate, per mio avviſo, il medico filoſofo ſomigliante a un Dio, fe non perchè dal medico filoſofo non ſia da ſcompagnar cotal parte cotan 10 eziandio giovevole, e neceſſaria alla medicina. Per chè guardando a tutto ciò Galieno, cercò di riparar ſe condo ſua poſla a tanto diſordinamento, e di riunir di nuovo, e rannodar la medicina colla morale filoſofia: onde compoſe quel libro, ove e' moſtra, comes’abbiano a cono ſcere,per doverſi guarire,i difetti dell'animo; e quell'altro, del ravviſare, e del medicare dell'anime le malattie. Ebé chiaramente ſi vede quanto in ciò, che inſegna altrui e' me defimo profittaſle; concioſſiccoſachè, come di ſe medeſimo egli narra, era egli avvezzo a ſoffrire, e a portarein pace i caſi.umani, e d'animo grande, e immobile, ne ſi crolla va punto agli urti di rea fortuna: ne perdita di beni, o altra maggiore ſventura era per farlo ſmagare:ne movealo onor di gloria, o burbanza divana ambizione, o qualunqne altra coſa maggiormente al mondo ſi pregia.. Mail medico avendo a guwar le malattie de' corpi uma ni, ea provvedere a quelle, che ſono a venire,non ha dub bio alcuno, che ſopra tutto egli della natura del corpo umano aſſai pienamente dee eſſere doctrinato, e di quelle coſeancora, che riſtorare il poſſano dalle cagioni, ovale. volmente ceſfarle. Or chiunque voglia,per quanto glifia dalla debolezza dell'umano intendimento conceduto, per venire a qualcheconoſciméto della natura del corpo uma no, gli conviene in prima il ſito, la figura, l'ordinamento, e la grandezza,e l'uficio delic parti di quello diligétemente inveſtigare: alla qual coſa manifeſto è, che ſenza l'ajuto della notomia egli aggiugner non poffa: perchè della me dicina folea dir faggiamente Cello: incidere mortuorum corpora difcentibus neceffarium. La qual neceſſità inolto bé gli antichi medici conſiderando, come pienamente nete ſtimonia Galieno, a ufare i noromici ſegamenti fin da fan ciullezza diligentemente s'avezzano. E oltre a ciò egli dee bene inveſtigare, e con ogni ſtudio maggiore andar rintracciando la propietà, o la natura dell'Erera,dell'aria, dell'acqua, della terra, della Luna, del Sole, e di tutt'al tri Pianeti del Cielo; da'quali corpi tutti continuo fotti liffime, e non vedute ſoſtanze ſgorgano, quali a pro, e qua li a dannodell'umane vite. Quindi s'andrà egli pian piano innoltrando a ricercar le naſcoſe virtù de'minerali, de've gerali, e degli animali tutti, oide il cibo, e imedicamenti per gli huoinini ſi coinpongono. Cola,la quale cotanto al medico è neceſſaria, che d'effa ſola ſi vanta Apollo preſſo l'ingegnoſo Poeta latino Inventum medicina meum eſt: opifexque per orbem Dicor: &herbarum fubješta potentia nobis. E'I Mantovano Omeroper unico fregio del ſuo lodato Medico riconoſce Scire poteftates herbarum, ufumque medendi. E l'altiſſimo Toſcano Poeta E già l'antico Erotimo, chenacque In riva al Pò, s'adopra in ſuaſalute: Il qual de l'erbe, e de le nobil'acque Ben conoſceva ogniuſo, ogni virtute. Intorno alla qual coſa folea ben dir Oribaſio, che fenza un tal conoſcimento non fi poſſa dirittamente mádare ava ti la medicina έχ οίόν τε είναι χωρίς ταύτης ιατρεύαν όρθώς. Ε gia molto prima di lui la notizia de'ſemplici in più luoghi de' ſuoi libri affai avea accomādara Galieno, i quali paſſo pal ſo potrannoſi da’curiofi ſcolari vedere: e ame baſterà al preſente per raccorciar la lunghezza in così chiara materia d'apportare un ſolo, over'dice: chiunque nel medicare vorrà da tutte parti eſſer ajutato,egli coviene in prima eſser molto bene ſcorto, e auſato nelle piante, e negli aniinalise ne'metallize in ciaſcun'altra cofa terreſtra, delle quali ſervir noi ci ſogliamo ad uſo di medicamenti, e infra quelle, le più eſquiſite ſceglier ſappia; concioffiecoſachè non eſſen do egli in sì fatte coſe dottrinato, ſe mai oferà un talme Aiere imprendere, ſappiendo, ſolamente in ciarle la nor na del medicare,non mai ſaprà adoperar coſa degna di me dico, Quinci ſi pare quanto errino i medici, comequelli, che pongono queſta parte, cotanto alla medicina necella ria,in mano degli ſpeziali; concioſſiccoſachè, come avvi fa il doctiſſimo Fabio Colonna: in quo ille medebitur medi. cusiſilocis contingat pharmacopolis carentibus, artem exerce re? an ne verbis? c più avanti trapaſſa l'avvedutiſlimo Pier Caſtelli a minacciarne i mali, che di cotal traſcuraggine agevoliſſimamente ne poſſono ſeguire: medicus, dice egli, neſcit quod agro præfcribit: Pharmacopæus ignorat preſcri ptum medicementum: Rufficus herbarius, qui fæpèlegere ne fcit, &à nemine doceripoteft, cafu colligit fimplicia: &hoc modopreparatamedicine rarò fanitatem, fepiffimemortem afferunt, ignorantiæ finem; e quàforſe egli li parrà ad alcu chc per troppo afpri, e faticoſi ſentieri avendo il me dico condotto, omai delle tante, e tante malagevolezzo, che noi diviſate gli abbiamo, ſenza altra fatica durare ſia per venire a capo. Ma egli va alcrimenti la biſogna, rima nendo ancora dopo tanti viaggi nuovi altri pachi lontani troppo, e non conoſciutia piè volgare: oye fra bålzi, e di rupi, per iſcoſceſi, e avviluppati ſenticri con gran ſudore, e biftento giugner ſi dee. Egli è il vero, che giunto poi quivi, trova ben cento, e mille vaghezze allettaprici, luſinghiere. Già parę di udirvi dire concordemente, che lo voglia favellar della Chimica, nella qual ſi comprende tutto il bello, tutto il vago, tutto il maravi glioſo, che può mai operar la natura,o l'ingegno umano. Ne 10, zia 2 Del Sig.Lionardo di Capoa. 497, Ne Io fe cento bocche,, e lingue cento Avesſi, e ferrea lena, e ferrea voce, alcuna menoma parte de' pregj di sì iluſtre, e glorioſo me ftiere potrei narrare.Ditelo intáto voi in mia vece, o arti il luftrio, rare fcienze, o nobilisſimi ſtudi di quella figliuoli'; voi dilettoſe, giovevoli, e neceſſarie al gencre umano arti dell'agricoltura, del fabbricare, del navigare, della mili della ſcultura, della pittura, della filoſofia, della me dicina: voi facendo teſtimonianza della grandezza, e dellº eccellenza della Chimica,narrate pure, come da effa -i vo ftri natali, il voſtro accreſcimento, ilvoſtro ſplendor trac fte: dite come a'voſtri intendimentiporſe la materia, age volò l'opera: Netacete pure, o ultime pruove' dell'uma na induſtria, gloriofiffime memorie dell'antichità d'Egittor prezioſo nepente commendato dalla ſonora troba de gra deOmero, che co’ſentimenti inſieme i dolori, e gli affan ni de’greci Campioni potcſti aſſonnare; ricchiſſime coppes allanſonti; e voi cento,e cento altre Egizie maraviglie, che tolte a noi dal teinpo, appena chi vi preſti fede ritro vare interamente potere. Voi ſuperbe piramidi di Mem fi, voi effigiati obeliſchi di Tebe,che all'eternità confc crati Roder non può del tempo invidalima, fare pur chiara l'eccellenza della Chimica; e ne'metalli, e nelle gemme, cnegli artificioſi ordigni da quella portivi raccotate i ſuoi pregj,e le fue glorie eternaméte innalzate. Ne mé taccia il tépo quanto a capital tenuta foſſe la chini ca dagli antichi,chegiudicando Diocleziano baftar quella ſola agli Eğizj per frõteggiare, e mandar giù le glorietutte del Romano Imperio, comenarra colui appo Suida,diedes alle fiame tutti i volumi di sì nobil meſtiere, va reixnucios χρυσού, και αργύρε τους παλαιούς γεγραμμένα βιβλια διερευνησαμG έκαυσε και προς το μηκέτι πλούτον Αίγυπλίοις, έκ τ τοιαύτης προσγίνεσθαι τέχνης, μηδέ χρημάτων αυτουςβαρβούν ας πρεσία του λοιπού Ρωμαί oss auliceiv. Ma quanto la Chimica faccia meſtieri alla medicina, da ciò pienamente ſi può ravviſare, che ſenza quella non può Rrr valevolinente operare, ne è da dir arte ſicuramente la mes dicina; perciocchè, fe come abbiamo di ſopra lunga mentedivifaro, in cicchi, e confufilimi laberinti: invi luppata la medicina, nulla mai dicerto fermamenteriſer ba, non v'ha più valevol lucerna, o più ſicura guida da poter giugnere a qualche veriſimil conoſcenza delle coſe, che la vera, echimicąſperienza. Enel vero, che giove rebbe mai al medico il ſapere ad una ad'una le partitutte annoverare, e ſcernere del corpo umano, ſe.poi della nas tura, e del miniſtero diquelle digiuno. ſi foffe..? certo, che nulla; licome nulla ancor monterebbe, che notii fiini glifoſſero i ſemplici tutti, eivegetali, e gli aniinali, ei minerali, ſenza ſapere lui la propietà', e l'efficacia di quelli. Perchè a inveſtigar la propietà, e Puficio delle par ti del corpo umano lungamente affaticandoſi gli antichi fi loſofanti, fenza la traccia della chimica a poco felice fine le loro opere riuſcir fi videro: e ciò, tra perchè iſegui,į le conghietture, onde di prenderle immaginarono, poco men che ſempre fallaci, evane fi erano: e ancora perchè parecchj di coloro, il tutto a quelle,, che chiaman prime qualità diridurre s'ingegnarono, dovēdoſi per loro più to fto altre, edaltre qualità ſpiarc,dalle quali molto più,che dalle prime, le operazionidelcorpo umano, come è detto, dipendono. Matroppo malagevoli alcune di quelle fono, e ad intendimento umano moltonaſcoſe; così ayviluppatou fono, e infra lor intralciate le particelle cutte, onde s'in generano:: 0 per la troppa debilezza de'lor movimenti, o per la picciolezza;,.e cenuità di quelle, o per altre fomi gliati cagioniagli organi de’noftri ſentiméti celandoſi,non ne laſciano alla verità pienamente penetrare; Namneque pulueris interdum ſentimusadhæfum Corpore, nec membris incuffam fidere cretam, Nec nebulam noctu, neque araneitenuiafila Obvia fentimusquandoobretimur euntes. Così ancor vanamente ſtudiandoſi gli antichi filoſofanti di comprender la natura, e la propietà dell'aere, dell'ac que, della terra, delle piante, degli animali, e de' mine rali, DelSig. Lionardo di Capoa 497 rali, in non pochi errori inavvedutamente incorſero:; maw pur della loro dappocaggine ricreduti Ippocrate, Teofra 1to,, Diofcoride, e altri famoſi antichi filoſofanti, sfidan doſi di poter quella con piena, e perfetta ragionegiam mai ſcoprire, ſenza più addentro vanamente innoltrarſi in fu la lola corteccia ſi riſtarono., quel ſolamente ſcrivendo ne, che per lungapruova già ſperimentato:n'avevano. H che diè cagiondi iclamare a quel gran lume della filoſofia, edell'eloquenza Romana: mirari licet, quæ fint animad venfa à medicis herbarum genera, qua radicum ad morſus beſtiarum, ad oculorum morbus, ad vulnera; quorun uim, aique naturam ratio nuſquam explicavit: utilitate, con ars eft, &inuentor probatues, &indi a poco ſoggiugne:quod ſcămone & radix ad purgandum,quod ariſtolochia ad morfus ferpentum poffit, videmus, quod fatis eft; cur posſit,nefcimus. E comeche altri filoſofanti, emedicidi grido, dallapore, dall'odore, e daaltre ſimiglianti qualità d'inveſtigar ſi ſtu diaſſero, come, o caldi, o freddi, o ſecchiidetti ſemplici foſſero, onde poila virtù di radificare, o di ſtrignere, o di riſtorare, o d'altro argomentar poteſſero: inutilenondime no,e vano ſempre da'brioni filofotanti il loro ſtudio fu giu dicato; e'l medeſimo Galicno, non che altri dice, queſta eſſere una ſtrada, oltre ad ogni creder dubbievole., c falla ce; ſenzachè ben rade voltc dal caldo, dal freddo, dall'u ! mido, o dal ſecco -naíce: ma vifan la più parte l'amaro, e l'acetofo, ed altre fomiglianti qualità, che ſeconde chia mano. Oltre a ciò, v'ha parecchi de'ſemplici,chène odo re alcuno, ne ſaporc, ne altra manifeſta qualità avendo, só poi di grandiſfime virtù, eziandio belzoardiche, e veleno ſe dotati. E chi mai colla ſola guida de' ſenti potrebbe av viſar, che l'acqua ftigia, che in niuna ſenſibil qualità dall acqua comunale differente fi ſcorge, cosi peſtilenzioſa, en mortal poi ſia? Solola Chimica con ſue pruove faccendio manifeſti i naſcoſi veleni di quella potrebbe avátiagli occhi di ciaſcuno quegli acutiſſimi ſali porre,che già valevoli furo nel fior degli ani, e'nel caldo delle vittorie a roder crudelmé te al grande Aleſſandro le viſcere ed ogni altra coſa conſu R.15 2 mano, fuor ſolamente l'unghie degli aſimi, come dice Plu tarco: e.de'cavalli avea detto Pauſania,, Trogo, e Curzio; ed Eliano delle Corna degli aſini della Scitia; e di quelle delle muledice Plinio:ungulas tătùmmularum repertas, ne que aliam materiā, quæ non proderetur à venena ſtygis agudo E Vitruvio: conſervare antë eam, &continere nihil aliud po teſt nifi mulina ungula. Machi potrebbe mai credere, cheſotto la dolcezza del miele, e dei zucchero cotanto piacevoli alguſto,e ſoavi, a covino poi alcuni ſpiriti pungenti, e roditori non molto dall'acqua forte, e dall'acqua.regia diſſomiglianei? delle quali gli acutiſſimi ſpiriti net vitriolo, nel nitro, nell' allu me, e nel ſal comune s'appiattano; e che nel ſolfo diqua, lunque ſapore ignudo, c digiuno dimori un ſale oltremo do acecolo, c roditore; e che nell'olio delle ulive due fali fi ragunino, uno acutiſſimo, c aſſai valovole a rodere, e l'altro ſoprammodo piacevole, e ſoave; e che l'acqua pu ra, e ſchietta, che continuo ſi beve, e ſembra al guſto co tanto inſipida, ritengi un fale sì fattamenteacuto, e pene trevole, che ben balta egliſolo in minutiſſime particelle a fminuzzare, e ſtricolare quel duriſſimo metallo, ch'alle fiąmme, ed a'fuochi punto non cede; echenelle viole, nel ke lattughe, nelle roſe, ne'papaveri,, e in altre ſimiglianti ierbe, e fiori, giudicati anzi freddi che no dagli erranti medici, un cotalc ſpirito-affocato, ed ardente mícoſo li ftia, dallo ſpirito del vino non punto diſſomigliante. Vanillimi adunque, e fallaci i ſentieri ſono, ch’a ravviſar le qualità de'ſemplici gli antichimedici s'impreſero: e per giugnere alyero conoſcimento delle coſe, cgliè di meſtiere,che pré-. diamo ad avviarci Per ſentier nuovi a nullo anco dimoſtri: cioè (viſcerando, e minutamente partendo ciaſcun corpo per opera della vitaf notomia, la quale Sempre a vincer ſe beffa oprando intefa noi veggiamo oggidi a sì bello ſtato eſſer condotta. E quanto sì nobilc,e glorioſo meſtiere per aggiugnere a'no Itri intcadimenti aveſſe luogo, ben conobbelo il curiofiſla mo Ga. for mo Galieno, allor che con ogni sforzo la natura dell'accto ftudiandoſi d'inveſtigare, lungamente indarno diſiderando fi, così ebbe a dire: In queſta coſa Io non ſon per tentar tutte le ſtrade, e tenterò di far ogni pruova, acciocchè poftafi qualchearte, oqualche ingegnoritrovare, col qua le ſeparar ſi poſſano le parti contrarie nell'aceto, ſicomeſuol farſi nel latte. Macertomala pruova vi fe egli Galieno,na giugnendo a ciò, che per ogni menomo ſcolaretto dell'ar te agevolisſimamente s'adopera. Or quat maraviglia fa rebbe all'orgogliofoGalieno,c quáto da inenoora li ftime rebbe', fe nel meſtier della medicina dopo tantiſtudj,e tan ti fudori daun giovane Chimico frvedeſſe a lungo ſpazio avanzare? nonpur ſappiendo coſtoro in due diverſe ſoltan zel'aceto partire, il che grandisſimo vantaggio reputave Galieno, main altre, ed altre molte quello agevolmente freverare: le quali ſottopoſte poi al ſottile,e profondo eſa minamento de filaſofi, con dar probabile,e verifimile con tezza delle lor varie; e diverſe propietà, le tante, e tanto maraviglioſe operazionidell'aceto ne vengono a manife ftare. Oltre a ciò lo immagino altresì, che s'egli aveſſes mai il curioſisſimo Galieno qualchemenomacontezza del la Chimica, comeche rozza; e imperfetta aver potut?, 11011 đì -ſarebbe certainéte maieglimaravigliato, come ſotto una sì grande virtù di riſtrignere, quanta è nel vitriolostanto, tanto calorc covar fr poteffc.- Imperocchè egli con far di quello notomia agevolmente,el’una, e l'altra ſoſtanza ri. trovata v'avrebbe, onde poi d'amendue gli effetcidi riſcal dare inſieme, e di riſtrignere pienamente n’avrebbe la ca gion compreſa. Efeaveſſemaidiviſar voluto come il me deſimo ſpirito del vitriolo dueeffetti in - fra le contrariope rar mai poteſſe, ſciogliendo aleuni corpi caldiſſimi, e rap prendendo d'altra parte alcuni liquidi, e fortili, e.volanti troppo, ch'a qualunque oſtinato ghiaccio ligar non lila fciano: 0 como manchevole, e imperfetto il ſuo filoſofar..conoſciuto avrebbe. Or di queſta nobilisſima arte non meno per avventura, che già ſi ſtimaſſe anticamente il pe netrar la, dove F101 902 RagionamentoSettimo Fuor d'incognito fonte il nila muove, tra per le tenebre folte disì antica età, e maggiormente per la non poca cura, che ebbero ſempre i ſuoi maeſtri di ferbarla a bello ſtudio naſcoſa a' più altiingegni;o punto no iſcrivendone, o ſcrivendone purcon ritegno, e riguardo, accennandola con ignoti geroglifici,c.con intralciati eniin. mi, e con oſcure allegorie, e favoloſi racconti inviluppan dola:malagevolemolto,e confuſo per certo, e poco mē,che impoſſibile rendeſi a volerne il ſuo primo incominciamento rapportare; cofa,la quale in tutt'altre biſogne di conſidera zione avvenir fimigliāteméte ſi vede. Ma che che di ciò Gia,.che di sì nobil ritrovato deali la gloria all'antica Paleſtina, o pure alla Fenicia,o all'Egitto, o alla China, o a qualū quealtra parce forſe più ragionevolmente la contraſta: egli è coſa ben certa,e ben da ſe medeſima appare eller la Chi mica antichiſſima, e da’più rimoti tempi eller ritrovata nel mondo, avvegnachè alcuni non affatto il concedano; e Sao muelBocciardi dica: novum effe inventum della Chimica favellando, nec illius quenquam meminiffe ante Iulium Firs micum; il che pienamente teſtimoniano Euſebio,e Zoſimo; e Suida, c ſpezialmente il Firmico, il quale tutto che fio tilſe a'répi di Coſtantino, pure traſſe le ſueſcritture, come ei medelimo ne narra, dall'opere antichiſſime de'Caldei, es degli Egizj; onde dice il teſtè menzionato Euſebio, che aveffe la Chimica apparata Democrito:Aquóxer Qu Abdueírris φύσικο- φιλόσοφG- ήκμασεν εν Αιγύπου μυηθας υπο Οσάνς του Μήδε σαν λέντG- έν Αίγυπω πα αξε τών τηνικαύζ Βαπλίων Περσών άρχων 7 εν Αι. γύπω ιερών εν τω ιερώτΜέμφεως συν άλοις ιερεύσι και φιλοσόφους, εν οίς ήν και Μαρία της εβραία σοφή. Και Παμμένης συνέγραψε περί χρυσού, αργύρα, και λίθων, και περφύρgς λοξώς'. ομοίως δε και Μαρία εσ ηγέθε σαν παρ' ο'τανε, ως πολσίς και σοφούς αινίγμασι κρύψαντες την τέχνην. Μa che Democrito ſapeſſe la chimica, ſi può apertamente ve dere in quel che dice di luiSencca in una ſua piſtola: exce dit porro vobiseundem Democritum invenifle, quemadmodūs decoétus calculus in fmaragdum converteretur, qua hodieque coétura inventi lapides coctiles colorantur; le quali parole di Seneca fan.conoſccre quanto vada.crrato Giuſeppe della Sca For conto Scala; in facendoſi a credere non avere ſcritto altrimenti Euſebio, che Democrito nell'Egitto foſſe ſtato in Chimie ca addourinato,ma aveſſe ne'libri d'Euſebio un tal racco to, aggiunto, untal Pandoro monaco; e comcchè ſi conce deſſe a Samuel Bocciardi, Oſtane non eſſere ſtato giammai in Egitto, e ch'eglimorto {ifoffe gran pezza innanzi, che colà andaſſe Democrito; impertanto qualch' altro di cotal nomepotrebbe effere ch’aveſſe qualche operazione chimi ca a Democrito inſegnata. Ma ſe pure Euſebio errato aver ſenel nome, da ciò non puòargomentarſi eflerturto il rac Ma ben l'antichità della chimica affai: appieno dimoArano le fabbriche degli iſtrumenti dell'agricoltura, las qual ſenza dubbio, niuno colmondo medeſimo nacque adi un'ora:: e'l modo di coporre il pane, o dipremerdåll'uva, od'altre frutte il vino, e l'artificio veramente maraviglioſo di fabbricare i vetri, e diformar le gemme, e'l meſtier del la milizia, e d'altre antichisfimearti giovevoli non poco, e neceſſarie al genere umano; le quali ſenza la Chimica non fi poteron mai certamente ritrovare.. Edella ſua antichif lima lega collamedicinaben ſi può ravviſar qualche veſti gio appreſſo Teofraſto, ed altri antichi ſcrittori: e da qualche medicamento ancora delle volgari botteghe ſi può co prendere non eſſer sì nuova cotal arte, e da’moderni inge gni ritrovata. Mache che ſia di ciò: egliè certamente l'uo. ficio, o'l meftier dell'arte chimica di ſciorre i corpi unici, e di congiugnere inſieme i diviſi.. E quantunque ella ſia uns fpezial arte, che da ſe medeſima reggafi, ne le faccia ne ftieri, o la medicina, o alcra arte, di cui dipender debba; non però di meno per li molti, é diverſi fini, in cui gli ar tefici le loro chimiche operazioni talora indirizzar ſoglio. no, ella infra varie altre arti ſovente s'acconta;, ma in tre ſpezie principalınente è partita. La primaſiè, che ſolve, ed uniſce tutti metalli imperfetti p condurgli a quellaper fezione (come coloro s'avviſano j che l'oro in ſe contiene:e queſta vien chiamata da’Greci aepurunanida, La ſeconda ſi è la filoſofia,per la quale sì fatte operazioni s'indiţizzano a fin 1 dico di conoſcere, e ravviſare la natura, e la propietà delle co fe a' ſenſi ſottopoſte. La terza- ſi è la medica, che il mede fimoſimigliantemente adopera per iſpiare; e conoſcerpie namente la patura de corpiumani, e- giudicar delle ſanità, e delle malattie, e dell'arie, e dell'acque, e demedicamć ti, e di tutt'altre coſe schad huomo faccian meſtieri: e an cora acciocchè i medicamenti per quella ſoavi, e grazioſi fi rendano, e di maggior efficacia,e ſicurtà per noi ſi ſpe rimentino: e ſi poſſa ad un'ora più felicemente il veroje conyenevole loro uſo inſegnare. Comunque però ſi dica no, o ſi faccian gli artefici, egli è ben chiaro -effer la Chimi ca una cotal arte da per ſe fola; colla quale tanto ha che far la medicina, quanto delle matematiche, o d'altri ſtudij e virtù certamente s’inframinette; ſe non ſe per avventura dobbiam dire,che maggiore, e più manifeſta utilità recau alla medicinata Chimica, che tull'altri ſtudi di ſopra ac cennati unitiinſieme, e rannodati ſi facciano. Perchè come medico Chimico -ſuolchiamarſi dal volgo colui, che del la Chinica tanto quanto per lamedicina ſi ſerve, così ſo migliantemente o ſtronomico, o geometra, o muſioo chia mar colui-fi vorrebbe, che per maggior profitto inmedici na trarre, di sì fatti ſtudi picnamente fi conoſce. Ma noi nondimeno del comuni favellare l'ulo ſeguendo, chimnico medico, o chimico filoſofante-colui chiameremo, che del la chinica arte, o per medicare, o per filoſofare quando meſtier gli faccia ſervir Si fuole. Madall'uficio, edal fin della Chimica chiaro'fimiglia temente ſi comprende quanto quclla ne vaglia, e n'ajusi,a1 ži ſicuramente détro alle ſecrete coſe della natura metter ne poſſa. E ſe veriſſimo cgli mai ſeinpre ſi crede, ch'allej naſcoſe coſe Non trova ingegno-umano aperto il varco: chi può mai porre in dubbio, che lo ſcioglimento de'corpi naturali - il più ſcuro, e'l più agevol modofia da pervenirea qualche conoſcimento dique’principj, onde compoſti, e formati i naturali corpi ſono: come appunto dallo ſciogli incnto dc'corpi artificioſi, comed'orioli; o d'altri ſimiglia. ti ingegni fi vengon toſto a ravviſar le parti, che quei comº ponevano; il che ben conoſcédo i primi padri,e maeſtri del la natural filoſofia, Pittagora, Parmenide, Anaſimandro, Democrito, e altri ſaggj filoſofanti dalle continue conſide razioni, che attentamente ſempre facevano nello ſciogli mento delle coſe, che daʼnoſtri ſentimentiſi comprendo no le quali noi diciam corpi naturali,di quelle iprimi prin cipj inveſtigar mai ſempre ſi ſtudiarono. Ne d'altro argo méto fervifli Ippocrate a forınar l'opinione de'quattro pri mielementi, ſe non ſe di quello della reſoluziou del corpo umano; nella qual coſa egli fu poi da Ariſtotele ſeguito: dicendo, nella carne,nel legno, ed in altri ſimiglianti cor pi contenerſi virtualmente il fuoco,e la terra, poichè aper tamente ſe ne ſeparano; ma nel fuoco poi noneſſervi altri menti legno, ne carne, ne in atto, ne in potenza; imper ciocchè le vi foffero, certamente ſe ne ſeparerebbono. E tal ſentimento dalla torma tutta de’lor feguaci vić abbracó ciato; a'quali ſeinbra aver aſſai bene ſtabiliti i quattro pri mi clementi, con dire, in bruciandoſi una pianta aver vi, oltre al fuoco la cenere, che è terra, e'l fumino, che è aria: e la groinma, la qual riſudando n’addita non mancar vi anche dell'acqua. Ma quanto ſpoſata, e fievole una sì fatta pruova fia,ben pienaméte il coprede ogni meromo ſcolaretto in chimnica, cui troppo ben ſi manifeſta il macaméto, e i difetti di cota le ſcioglimento; concioſliecofachè in ardendoſi sì fatti corpi,molte, e varic favoleſche, oltre a quelle, che per la picciolezza in conto verun çavviſar non ſi poſſono, aperta mente per l'aria ſparpagliar-ne veggiamo: ne è da dire la cenere, il fummo, la fiamma, e l'umidore eller corpi ſem plici, e non compoſti, che queſti ancora ove più minu tainente fi folvano, e inſino a primi ſenſibili componenti fi partano, ravviſanfi compoſti di particelle di natura, en d'operazione diverſi, come quelle, che contengono un'ac qua ſemplice, ed infipida, ſenza altra virtù, falvo che d'u mettare: e un'olio puro, ed acceſibile,e uno ſpirito ſottile, e penetrante, e un ſal volante, che ha in ſe, non micno il ſapo Sss re, che  le che la virtù tutta del legno: le ceneri altresì fon com poſte di ſoſtanze diſſimili, ciò ſono un ſale fiffo acconcio a fonderſi nel fuoco, ed a ſcioglierſi nell'umido, ed una ter ra priva di ſapore, e di efficacia. E corale ſcioglimento no come il volgare degli antichi in pochi corpi ſi può dimo ſtrare, ma col conſiglio della chimica, poco men, che in tutti corpinaturali adattar puoſli; oltre a ciò poi più addé troil chimico facendoſi argomentar potrà i ſapori di tutte coſe dal ſal venire in quelle contenuto, egli odori dal ſol, fo, e dal mercurio la penetrazione; e per tacer d'altro,più oltre ancora procedendo ritroverà, che i ſemi del liquido, e ſottiliſſimo fuoco nel ſolfo alberghino; o che ſian quellia guiſa d'acutiſſime piramidette, o dipiccioliſfimi globi: e che il ſolfo ſia d'uncinute particelle, e aggavignate com poſto. E così pian piano ricercando la figura delle parti celle del fale, è degli altri chimici principj trapaſſerà a {piegare con probabili conghietture tutte le operazioni di quelli. Così pariinéte dalle chimiche oſſervazioni avviſato, po trà chiche ſia inveſtigare,come far ſi poſſano le piovese i grā. dini: come s'ingenerinoi tuoni,i lápise le ſaette:come dalla forza delle folgori fi dileguise fi föda il ferro della ſpada,rie manédo illeſa la guaina: come piovano foventi fiate pietre, ſangue, elatte, e come alla fine ſi formino le ſtelle caden o; le cagionidelle qualicole, e altre molte, potemo ogo gi col giovamento della chimica, non ſolo aſſai veriſimile mente conghietturare, ma coll'opere, e coll'eſercizio prat tico imitare; imperocchè fifaccia dell'oro una polvere nel la fornace chimica; che dagli effetti oro fulminante appel laſi, la quale acceſa, fa non folo lo ſtrepito, e lo ſtroſcia del tuono, ma anche ilcolpo, e la violenza della faeţea; il che fa altresì quella polvere da ' chimici parimente ri trovata, la qual tonante chiamano. Così parimente raccoglieſi dall'evaporazioni dell'acque piovane eſtives, un ſale, chemeſcolato con egaal porzione di ſalnitro,e có una particella di ſolfo fa an coral meſcolamento, che ac celo li fonde in pietra. Ma di troppo più tempo avrei bi fogno ſe voleffi Io far parole ditutte altre maraviglie dela le quali le cagioni naſcoſe per addietro, e inviluppare agli intendimenti de’noftrimaggiori ora per argomenro delle chimiche ſperienze ne fi rendono in qualche maniera pia ne, e manifeſte. Perchè non è forſe dadubitare, che ſe l'arte Chimica pervenuta foſſe a notizia degli antichi greci filoſofanti, non avrebber certaméte coloro nelle loro ſcuo le huom ricevuto, che prima in quella non foſſe alcun té po uſato, e ben lungo vantaggio tratto n’aveſſe; e per mio avviſo con maggior ragionedi quella, onde Platone, e se nocrate volean, che nel filoſofare non foffero ammelli com loro, che della Geometria digiuni foffero, come teſtimo: niano Laerzio, Suida, ed altri; perchè nella fronte dell'an drone dell'Accademia quelle famoſeparole ſcolpite legge váli oudéis ayemjétentos sioitw. Concioffiecofachè la chimica fola il più certo, e ſicuro fenticro lia,da condurre alla na tural filoſofia; edella ſola porger ne fappia le chiavi, con cui quelle ſalde,e diamantine porte differrar in qualche modo ſi poffano, ove i più cari, e ricchi tefori deita natu ra fon riſerbati: perchè a ciò riguardando non ebbe il cor to certamente il famoſiſſimo Meſue di chiamare per van. taggio, e per eccellenza floſofi, e ſapienti coloro, che del la Chimicaconvenevolmente s'intendono. Ma per diſcendere al più particolar giovamento, che della Chimica raccor fucle la medicina: Io dico primiera mente, ch'a bene ſpiarla natura de’viventi, e ſpezialmente delcorpo umano, e la ſua ben regolata economia,la chimi ca lommamente abbia luogo, e la ſua vital notomia; im perciocchè ſiafi pure coll’opere della morta notomia a mol te, emolte coſe aggiunto, le quali gli antichi ſapicaci ravviſar non poterono; e lungo tratto vi crrarono: e ſap piaſi pure per quella il vero movimento del cuore, e del ſangue: e che il ſangue non s'ingeneri nel fegato, o nelle vene, fecondochè con molti altri, così antichi, comemo derni porta opinion Galieno: ne men nel cuore,ſicome im » magina Aristotele: c ſappiaſi anche, che il chilo tragittiſi non per le vene miſeraiche, ficome vollono gli antichi me Sss dici; 508 RagionamentoStrimo dici; maper le vene lattee al ſacco latteo; onde poi meſco laro col ſangue trapaſſa al cuore: e ſappiaſi eziandio, che vi ha le vene acquofe: c come, e per quali ſtrade l'orina per le reni trapelando alla veſcica s'ayvalli: ecento, e mille altri moderni trovati degli ingegnofi notomiſti de’noftri tempi, de qualierano affatto digiune Legentiantiche ne l'antico errore; anzi concedaſi altresì volentieri (il che non mai sì di leg gieri conceder dovremmo ) che la notomia già all'ultima mano ſia giunta; e che de'tempi noſtri ſe ne ſappia quanto mai per tutti i ſecoli ſe ne potrà per innanzi ſcoprire, o fa pere:non per tanto non potrà di tutto concio ſervire al me. dico per farlo a quella perfezion ſormontare, che al ſuo meſtier.Sirichiede; anzidopo tante, e tante fatiche ſaprà cgli ſolamente una vaga, c dilettevole ſtoria delle parti del corpo umano: utiliſſima certamente, anzi neceſſaria a do ver ſapere; ma non baſtevole già, ne meno a poter in par te fondare, e mandare avanti una verifimile razionalme dicina: per la quale fa meſtieri ſaper le cagioni dentro, ele probabili ragioni delle coſe, non già la ſola ſtoria, e'l ſem plice racconto di quelle. Ne da dir egli è ſaper pienamen te l'economia del corpo umano quel medico, il quale non potrà render ragione della natura della generazione, del movimento delcuore, del ſangue, del chilo, degli umori acquoſi, e d'altre parti così correnti, come ſaldodelcorpo umano, c della propietà,e operazione di ciaſcuna di quel le; le quali coſe inveſtigare impoffibile certamente è ſenza dovere a chimici ſcioglimenti ricorrere; per virtù de'quali Avicenna d'inveſtigare ſtudiosſi l'umidore dell'oſſa, e de' peli: ed affermò,cheavendo egli ſtillato nella boccia parti eguali d'offa, e di peli, uſcì dell'offa maggiore abbon danza d'acqua, e d'olio, e minor di feccia: perchè dic'egli, che l'oſſa più umide, c più ſuccoſe fieno. Ma no pure a ben filoſofare i Chiinici dello ſcioglimēto de corpiſervir fi debbono,ma co argométo ácora ditutt'al tre operazioni dell'arte,bé poſſono veriſimilmente ſpiegare, come tanta varieti di cibi nella ſoſtanza, e nel colore dilli mili ſi traſmuti ſoventi fiate in un bianchillimo, & unifor me licore, che chilo appellaſı; come poſcia il candore del chilo in ſanguinoſa roffezza ſi trasformi; e donde il cuore abbia il ſuo movimento, e'l ſuo calore, cioè aſſomigliana do la concozion de'cibial diſcioglimento, over disfacimé to decorpiſolidi, in virtù di convenienti liquori; la gene razione della bianchezza nel chilo, e del roſſore nel fan gue, alla trasformazionedel colore nel latte vergine, e nell'eſſenza del fatirione, e altre ſimili coſe; la continua produzione del calore nel cuore, e nel ſangue: al fervore, che per la formētazione s'ingenera ne’liquori de' corpi ve. getabili. E cotanto montano per mio avviſo sì fatticono ſcimenti, che ſenza quelli nonſi può coſa del mondo intor, no alle malattie, a’lor effetti, e cagionigiammai diviſare; ne in altre faccendo delcorpo umano, coſa alcuna di con ſiderazione potrà per huom maidirſi, fe minutamente les dette coſe, e molte, e molt'altre per virtù della Chimica in prima diligentemente non s'inveftighino, le quali tutte lungo ſarebbe al preſente volerle quìfil filo narrare. Ma non men utile, non men giovevole, e neceſſaria cgli è certamente ancora al medico l'arte de Chimici,colla qua le egliponendo ad una rigoroſa, e ſottile eſaminazione l'aria, le terre, l'acqua, le piante, e gli animali, eimine rali corpi, attentamente poine ſpia, e ne conghiettura la natura di ciaſcuna coſa; e di qualunque lor menoma parti cella le propietà, elevirtù, ele maniere tutte dell'adope rare con probabili, e ſimili conghietture ravviſa. E nel vc ro queſto, che ciaſcun di noi, e tutt'altri corpi di quà giù ſempremai circonda, penctra, avviva, emantiene, valtiſ fimo, e diſcorrente, e lieve, e ſereno, e ſottiliſſimo cor po dell' aria: la quale l'acutiſfimno infra gli antichi Ita liani noſtri Timeo di ſgretolate, e minucillime particel le di ben venti facce compone, non è egligià miga ſem, plice corpo, come il volgo follemente s'avviſa;ma di varie, e diverſe ſoſtanze compoſto inſieme, emeſcolato. Sorgo no queſte dalla baſſa terra talora, edall'acque, che quella, irrigano, e forſe anche dalla luna, dal ſole, c da altri corpi superiori vi piovono; per li qualil'aria, o più, o menoalla reſpirazione, e agli altri biſogni degli animali acconcia fi rende, poichè nelle cimedegli altiſimi monti, ove non giungono l'eſalazioni dell'acqua, e della terra, gli animali fi foffogano; perchè poi in coloro in varie guiſe le malattie naſcer veggiamo; perchè canrò Virgilio ſubito cùm tabida membris Corrupto cæli tractu, miſerandaque venit Arboribufque,fatiſque lues,lethiferannus. Ma tali particelle meſcolate inſieme, e nell'aria coufuſe aſſai malagevolmente per certo, aozi in niun modo ravvi-, far ſi poſſono, ſe non ſi partan prima', ſolvendoſi ciaſcu na di loro ne' ſuoi primi componenti. Il che con ma raviglioſo artificio da alcun de'più eſercitati, e più intens denti Chimici felicemente operar ſi ſuole: e ben ſi ſcorges omai a tal ſegno la coſtoro induſtria avanzata, che per ope: ra del famoſo Drebellj,parche vi ſi fia già ritrovato perre ftituirlo all'aere, qualora ne veniſſe egli privo,quelnobilif ſimo eliſlire, che giuſta i ſentimenti di Paracello vita infó de a quanto Qui nel mondotra noiſimuove, & fpira; che perciò egli vitale l'appellasper cui l'aere non ſolamente agli animali,maalle piante cziandio oltremodo neceffaria eller li conoſce; e ben di eſſo felicemente avvaler ſi vide to ſteſſo Drebelli, allorche egliquella maraviglioſa bar chetta da lui fatta a richicſta del Re Giacomo della Gran Brettagna con iftupor di tutti ſotto acquanel Tamigi fena vigare; coméchè il detto eliſfire altro ancor faccia, cioè folvå, e precipiti giù quelle ſoſtanze nell'aere, che'l ren dono mai atco alla relpirazione. Ma l'acqua, la quale per bevanda, e per altri infiniti ug è cotanto biſognevole, quantunque chiariſſima, e traſpa rente, c pura a tutta poffa fi ſcelga, eli proccuri; e che al fapore, all'odore, e alla leggerezza, ea tutt'altri ſesnali ſempliciſſimo corpo in prima neſembri; pur riandata poi, oltre a diverſe foſtanze, che meſcolare vi ſi trovano, ſe ne cava ancora un tal ſaie sì fattamente acuto, e pugnereccio, che JEI che di nulla ha che cedere in forza aque'ſali,onde per l'ac qúa regia quel duriſſimo metallo fi ſcioglie, comediſopra accennammo, che a qualunque violenza di fuoco, ſaldo, e oftinatiſſimo mai ſempre contraſta; perchè è dacredere nó bene operar coloro, che il diſtillar acqua per limbicchi di metallo, e maffimamente di piomboagli ſpeziali permet tono; conciosſiecofachè roſicchiato alquanto dallamorda cità di quel fale il piombo, e trameſtandoſi l'uno all'altro, vengonoinſieme a corrompere,e meſcolare; e guaſtar ma lamente la ſoſtanza diquell'acqua, che ftillaſi:e allora veg giamo coforarſi a poco a pocol'acqua, e a guiſa di latte biancheggiare, quando diſtillata a campana di piombo có altra femplice, e non diſtillara acqua ſimefcola; ilche fag giamente avvifarono già i dottiſſimi Accademici del Cinně 80. Ma che che fia di ciò, oltre al ſale, il ſolfo altresì, e'l mercurio, e la flemma, ela terra dannata ritrovò nell'ace qua il dottismo medico, e chimico filoſofante Borricchio. E che diremonoi de ſemidi tantis e tanti vegetali semine rali, e animali, cheper la glorioſisſima induſtria d'alcunº altro Chimico nell'acqua ancor ſi avviſano: il che diede per avventura cagione agli Egizzjdi giudicarla primera, e univerfal materia ditutte coſecreate, da'quali tolſe Ome ro a dire: Ωκεανόν πθεών γίνεσαν και η μητέρα τηθε ePautore di que' verſi attribuici ad Orfeo Ωκεανόόσπερ γένεσις παντεσσι τέτυκάι. Ωκεανών πεώτG», καλιρρόσυ ήρξαι γάμοια oʻpos saoryvártee góptopýtoege TyIwTHEY, E’I noſtro poeta, per tacer Virgilio, Catullo, ed altri, ſe. condo il medeſimo ſentimento avendo egli al fuo Filagli teo fatto ragionare in prima della terra, Pur non è ella il gran principio immenſo, Ilgranprincipiodele coſeeterno, Benchèmadre fichiami, e velta: & vanti La reggia, ei figli ſuoidivize giganti, fa poi, che coluiſoggiunga: Mafo degna di fede,èfama antica L'Ocean de le coſe.è vecchio padre. Il qual ſentimento fu anche di Talerc Mileſio, il qual ncl. la ſcuola de ſapienticosì preſſo Auſonio va dicendo Milefius Thales, aquam qui principem Rebus creandis dixi. E ciò dal vedere egli, come fasſi a credere Ariftotele, effer umido, così il ſeme, onde s'ingenera l'animale, come il cibo del qual ſi nutrica: e dal credere, come riferiſce Plutarco, il ſole, e le ſtelle da'vaporidell'acqua nutrirſi, o dall'avviſare ch'ogni qualunque coſa dall'acqua nafca, ed in ella diffolvafi, comc racconta Euſebio. Malo immagi. no, che Talete non già principio delle coſe abbia voluto eſſer l'acqua, ma giudicato aveſſe aver d'acqua in primas avuta ſembianza e, forma quella materia, onde poiſecon do il ſuo avviſo i corpi tutti ſenſibili del mondo si formaro no; ciò parimente ravviſar ſi puote dallo ſcoliaſte d'Efiodo, allor che dice, il caos d'Eliodo, altro non eſſere, che l'ac qua. Ma non men dell'acqua, e dell'aria ſi dee ancora prender cura delle terre, c con attentisſima eſaminazione conſide rarle, ove certamente infra tante, e tant'altre ſoſtanze,che Vallignano foglion diverſe, e varie ſorti di minerali' ritro varſidagli; aliti de'quali reſa talora peftilenzioſa, e corrot ta l'aria, o l'acqua, o le piante, o le frutca, nuove, edi verfe guiſe di malattie ſovente cagionano: ne altronde, per quel che già Io ini creda, quelle gravisſime febbricomor tal riſchio degli ammalati in cotali ſtagioni dell'anno accé der fi fogliono, che per cambiamento d'aria avvenir comu nemente fi giudicano, ſe non ſe da sì fatti aliti, e ſuapora menti de'minerali, che pervenendo al noſtro corpo, e dall' aria, ed all'acqua, e da' cibi quivi racchiuſi, e ingozzati, ſcoppiano poi per la loro abbondanza, e ſoverchio vigore in ardentisſime malattie; imperoccliè in quelle ſtagioni il fervor del fole facendo venir ſu gli alitį arſenicali, vitrio lati., nitrofi, e ſulfurei dalle occulte miniere della terra, rende l'aria dannoſa, e nociva alla unana ſalute; concioſ fiecolachè in ponçido noi mente alle chimiche operazioni e 1 o ravvifarido, come alcune ſoſtanze, le quali comechè ſc parate ſi prendano ſenza alcun nocumento per la bocca, im pertanto confuſe formano un mortifero veleno, come nel ſolimato ſi vede, del quale ogni qualunque menoma parti cella mortalmente offende, potrasſi agevolmente conoſce re, come reſpirādofi ne'viaggi ora aliti mercuriali, o a'mer curiali equivalenti, ed ora ſalini, pofſa produrſi nel cor. po noſtro una ſoſtanza non guari disſimile al ſolimato ed indi poi quelle mortali infermità di cambiamento da ria appellate agevolmente s'ingenerino. E ciò vien conferinato dalla ſperienza, come quella, che ci dimoſtra, ivi avvenir le malattie di cambiamenti d'aria, ove ravviſa fi maggior varietà diminerali, ed ove il calor del ſole per cuota maggiormente; ne da altro, che da aliti velenoli, e nocevoli de'minerali da crederè, che s'accendano ancora quell'altre febbri non men malvagc, e non men peſtilenzio ſe delle prime, che avventandoſi tratto tratto con lor vio lenza alle Città, e a' contadi, e a’villaggi tutti, fogliono così infra breve ſpazio di tempo impoverir d'abitatori le contrade. Ed abbiam noi pure con gli occhi proprivedu to quanti, e quanti da sì fatte cagioni nella noſtra Città miſerabilmente morti ſiano, e ſpezialmente ne'meſi addie tro, quando crudelmente diſcorrendo in alcuni luoghi la peſtilenzial febbre, laſciò vuoto, e diſpopolato il Borgo Sant'Antonio, ed altre terre,non ſolo della Campagna Fe lice, ma d'altre Provincie ancora del Regno noſtro. Ed è egli neceſſaria ancora ſoprammodo a'mcdici la chi mica acciocchè eglino con l'ajutodi quella valevoli a ſpiar la natura, e la propietà de'cibi, e de'ſemplici medicamen ti render ſi poſſano; conciosſiecofachè quantunquc vero egli foſſe ciò che Galieno medeſimo coſtantemente niega's c rifiuta;che i ſapori, e gli odori, ed altre ſoiniglianti qua lità, certi, e ſicuri ſegnali della natura de'cibije deʼmedica menti ſiano, pure perciocchè gli organi de’noſtri ſentimen ti di sì ſottiltempera, c di sì acuto intendimento non ſono, che poſlan ſempremzi ben comprendergli, egli ne fw certamente meſtieri per iſcorta de'ſenſi rintuzzatil'Ermetica notomia, la quale partendo i corpi, ed eſaltandone le qualità (per ſervirmi d'una voce dell'arte ) quelle poi ma nifeſte a'curioſi, e ſenſibili maggiormente offerir poffa. E quale avviſo potrebbe mai per huom' prenderfi dal ſolo fpiamento de ſenſi intorno a que'cibi,e a que'medicaméti: che pur ven'hà molti: edanche intorno a que'veleni, che privi affatto,e ignudi d'odore,e di ſapore,e d'altre ſimigliá ți qualità, di tanto vigore, e di sì inaraviglioſa efficacia ſi conoſcon poiper pruova, qualia danno, c quali a prode gli huomini, chc nulla più? E quale argomento prenderem noi dal ſapor di quelle coſe, che di ſoave dolcezza maſche. rate in prima, come già altra volta abbiam detto, ne lufin gano il palato, e la lingua, e poi tranguggiate, nello lo maco formentandoſi, le viſcere, cgl'inteſtini crudelmeute, n'offendono? Coſa,la quale nel zucchero, e nel mele, e in ciaſcun'altra ſimigliante coſa manifeſtamente fi ſperiméra, Che dolce al guſto, a la ſaluteè rea; perchè facendo le beffe a' volgari medici il motteggevol Berni, così proverbioſamente ne favella: Il melperchèmangiato altrui diſtempre, E’n collera ſi volti; a cui l'amaro Danno coſtor, che fan tutte le tempre: Queſto ſecreto così degno, e raro Maſtro Simon ftudiandoil Porcografo Scoperſe a Brun, che gli fu già si caro. Or fa tu l'argomento o Babualo, Edì, fe'l mele in cullera ſi volta, Segno è, che d'amarezza non è caſo. Ma comechè così alla ſcoperta n'ingannino i ſentimenti ilmele, e'lzucchero con far veduta d'eſſer cotanto dolci, foavi; pure de’lor falli agguati ne fan pienamente avveduti le chimiche machinazioni, con darnemanifeſtamentea di vedere, nel zucchero, e nel mele un ſale acutiffimo naſcon derſi, nonmolto a quel dell'acqua forte, e dello ſpirito del nitro dicimile: Quis mellis dulcedinem nefcit? dice Pier Severino: nibilominusin tanta dulcedine latent Spiritus illi acutisfimi, qui ubi exaltantur, & ad extremitatem ducuntur,venenatā perniciē represētāt.Eprima dilui Baſilio Vale. tini già detto aveva:jā vero ex illo fuavisfimiq;faporismeile Corroſivă peffimü, atq; præfens venenum præpararipoteft. Or va medico ingannato, e ſciocco, e giudica pur dalle qua lità, ch'a prima faccia viſcorgi,le cofe della natura; con danna la rigidezza nel ſal comune per la rabbiofa ſete, ch ' accenderſi da quello sformatamente rimiri: ch'ad ontz pur della tua mellonaggine han ſaputo i Chimici un fales aceroſo rinvenirvi ad attitare anche agl'Idropici più ane lanti la fete. E che direm poi del pepe, che così mordace; e pungente, puré un dolciſimo, e ſoaviffimo fale in ſe na fconde? E che d'altre, e d'altre pruove infinite, che per interamente fpiegarle vi vorrebbono lunghi volumi, non che piccoli diſcorſi di ragionamenti? Sarà dunque da con. chiudere, che noi per quanto con tutta noftra poffa a ſpia: rei ſegreti delle coſe del mondo ci adoperiamo, pur nonui ne poſſiamo fe nonſolamentele priincbucce comprendere; perchè ſe chimica mano non le parge, c riſolve, e diſtinta mente elaminandone le parti, le naſcoſe interiora di qucl le non ci addita, e le operazioni, e'l convenevol modo di farlo, certamente chiunque ciò follemente intende Ne l'onde folca, é ne l'arene femina. Eben di ciò fe manifeſta pruova il Cardano,che col lim. bicco, e colla Chimica giunſe a ciò che comprender mai non poterono, o Ariſtotele, o Galieno; e ciò fu, che nó fappiendo coſtoro la cagione, perchè cotanto noccia il vi no,maſſimamente generoſo, e pretto a colui, che paciſca di mal caduco,egli ſolamente colla ſcorta della Chimica potè a fuo credere affai veriſimile ritrovarla:hoc verò dico (sõ ſue parole) nõ cõvelli puerosà vini potu ob caliditatem;quum neq; pipere,neq;aliis aromatibus id eveniat: neq;quod fithumidū; nă vel noeft, vel lac longè humidius, à quo tamen non convel tuntur. Caufsa ergo eft aqua ardens, quæ in illo continetur: que quum latuerit Ariftotelem; & Galenum, meritò in Aris fotele admirationis cauffam præbuit, in Galeno multa perpe tam commentandi; eftautem abundantior, quo vinum craf Ttt. 2 pius eft. Ma ſe'l Cardano ſtato e’li foffe meglio inteſo nelle faccende della chimica, aurebbe certamente una aſſai più veriſimile cagione di ciò nel vino ſcorta, e avviſata: im perocchè oltre allo ſpirito ardente, che giova anzi che no al mal caduco, evvi un ſal fiffo acetoſo nemiciſſimo delle parti tutte nervoſe, del qual aſſai più, che dello ſpirito ardente egli è il vino groſſo abbondevole, e copioſo. Ma intorno alle fattezze, così dentro, come fuori delle coſe, giovevoli oltremodo a raffigurarne anche le vir tù dc'ſemplici, non comporta al preſente la ſtrettezza del tempo, ch’lo tanto quanto ne ragioni;le quali per non dir d'altri vedeſi aver tolte dal Paracelſo, e da altrichimici au tori, comechè di lor non faccia punto mézione,e averle de ſcritte nella ſua Pitognomica il noſtro curiofiffino, emol to de’ſegreti della natura intédente Gio: Battiſta dalla por, ta. Maniuno certamente ha, che con maggior diligenzas per quel che me ne paja, e più felicemente ne tratti (per ta cer del Crollio, e del Quercetano) quáto Federigo Elvezio, E coinechè noi fin qui de'ſemplici medicaméti detto ab kiamo, non però di meno è da credere la Chimica a'com poſti, clavoratimaggiormente abbiſognare. Furon que fi ingegnoſi trovati del mondo già adulto; imperciocchè negliannidell'oro, e nella felice etade, quando i pomi, e le ghiande Eran del corpo umanlodevolpaſto: nelle ſemplici piante la germogliante medicina ſolamentes confifteva; e allora non men che le ſchiette vivande, i me dicamenti ancora Vſar le fortunate antichegenti; ma creſciuta poi oltremodo col tempo, e comprenden doſi dagli huomini eſſer nclle piante qualche parte inutile per avventura, c qualch'altra forſe nocevole, eglino di par tir l'une dall'altre per lor biſogne avvedutamente propoſe ro; quindi tra perchè non ſi fapeva, o non ſi potea purlaw parte nociva, è inutile dalla buona ſeparare, e anche per chè così diviſe, debile molto, e sforzata la parte medicinal He rimaneva, qualch'altra pianta forſe ſaggiamente v’ag 1 4 giunſero valevole ariſtorare i mancamenti, e i difetti del la prima, é a far sì, che quella nulla, o poco nocer potef fe; anzi ſe pur Pabbiſognaſſe, quindi la ſua virtù notabile mente avanzar nedovefle. Così tratto tratto cominciaro no nel mondo a comporſiinſieme, e meſcolarſi i medica menti; e ſarebbe pure aſſai bene potuta riſtare in tale fta to la biſogna, ſe già tanti, e tanti indiſcreti, e ſmo dati medicinon aveſſer quindi preſo agio di ſtrabocchevol mente ſcompigliare, e confonder la medicina tota, con ac cozzare inſieme; e meſcolar cotanti medicamenti per ren der la medicina, o più malagevole, o di maggiorpregio al mondo; e componendo inſieme una lunga ſchiera di cento ſemplici medicamcnti, ne formarono talora uirconfuſo, e inviluppatiſſimo guazzabuglio. Cofa, la quale ſommoſſe i più faggi, e avveduti medici, ed inveſtigatori della natu ra a lūghisſime quercle,come d'Erafiftrato narra Plutarco con quette parole: Ερgσίστρατοδιέλεγχε την ατοπίαν, και περιεργίας με μεζλικα, και βοτανικα, και θηeμακα, και τα από γής, και θαλάθης εις Te Quroovyzeegwúras oxandryce Citocécouvlas iv mitocrívy, og díxua, και εν ύδρελαίω τηνιατζικην απολιπε. ΜαEragrafo biamo ol tremodo l'indiſcrezione, e la curiofità di coloro, che i minera Li infieme, e le piante, e gli animali, e ciò che mena laterra, o naſce in marein unomeſcolarono; che più fennd af'ai avreb ber fatto, fe daparte laſciate cotantecoje folamente co’farri, colle zucche, e coll'Idreleo aveſſer l'arte della medicina ter minaia. E l'avvedutiffimo, e bé parlante Plinio.fraudes ho minum,&ingeniorum capture officinas invenere ifas, in quibus ſua' cuique homini venalis promittitur vita. E chi non maraviglierebbeſi di tante, e tante coſe, ch'a com por la Triaca, o'l Mitridate, concorrer debbono, dan ftancare i ſpeziali,non che a raccorle,maſolamente in leg. gendone le ricette/ Theriace, diſſe altrove il medeſimo Pli nio, vocatur excogitara compofitio luxuriæ; fit ex rebus ex ternis, quum tot remedia dederit natura, quę fingula ſuffi, cerent. Mithridaticum antidotum ex rebus quinquaginta quatuor componitur, interin nullo pondere equali, & qua. rundam rerum fexagefima denarii unjus imperata. Que Deorumperfidiam iftammonftrante? hominum enim fubtilin tas tanta effe non potuit. E avvegnachè cotali medicamen ti fiao poi nell'opera buoni, ed efficaci riuſciti, non ne ſom però mai da troppo commendare i primilor ritrovatorizim perciocchè nel comporgli da prima, e nel lavorargli non con avveduto, e ſano giudicio certamente adoperarono, ma a riſchio, e a caſo alcune di quelle coſe togliendo (che pure alcune vi ſon ſoverchie ſenza pro niuno, c viſi potreb. bono anche dell'altre, e forſe con maggior ſenno, più ef ficaci aggiugnere)il tutto e nella ſceltage nel povero,e nels la quantità di ciaſcuna ciecamente alla ventura riniſero, non guardando minutamente comeſi richiedeva, al valor di quelle, ne punto efaminandole. Impreſa per molti ca pi malagevol troppo, e quaſi ad huom diſperata; ſenzachè nel meſcolarſi,nel diſporſi, e nel formentarſi inſieme i sé plici,varj, ediverſi mutamenti ſovence avvenir ne foglio 110; iqualicertamente non è da dire, ch'aveſſer mai que primi ritrovatori di quelli pienamente avviſar potuto. Per chè comenell'incendio di Corinto quel ricco metallo co tanto dalle ſtorie celebrato nella fortunofa meſcolanza di altri metalli alla vçntura formofli, così nõ meno il caſo an cora ha parimente portato, ch'il Mitridate, la Triaca, o s'altra v'ha fomigliante compoſizione, giovevoli, ed effica ci rimedi per molte, e graviſſime malattie fortunoſamente fian divenuti. Ma che che di ciò ſia, manifeſta coſa è poterſi molto be De l'antico ufo rinovando, colle ſole piante medicare; la qual forte di medicina, dirò con Adriano Turnebo,huom di varia, ed eſquiſita letteratura: fortaffe ad morborum fani taiem efficacioreft,quam illa confuforum miſcellanea compo fitis; magno mortalium, & difpendio, & damnointroducta. £ noi per tacer de' bruti animali, che felicemente ad ogn ora l'adoperano il veggiamo pur fare alla giornata a parec chj de'noſtri contadini, ne ha guari,cheil Caritrero, famo filimo medico Tedeſco, con ufar medicando le ſemplici piante, non ordinaria lodå guadagnoſli; e i popoli inge gnofillimi del Braſile,iſicome riferilce Guglielmo Pifone, medi DelSig.Lionardo diCapoa. $19 medicamentis fimplicibus utuntur, noftraque derident, quia compofira; e degli abitacori del Mellico, Fra Martino Igna zio ne' ſuoi viaggj, così dice: los Indios fon grandesberbo-, larios, ycuran fempre con ellas, demanera, che cafi non hay enfermedad para la qual no ſepan remedio, y le den:ya eſtacaufa viven muyfanos, y cafi per maravillamueron, que noſea quando el humido radical ſe conſuma: ed in quel va ito, e quaſi immenſo tratto dipaefe della China, comete ſtimonia il Padre Matteo Riccio, fi è medicato permolti, e molti ſecoli, e ſi medica tuttavia, ed aſſai felicemente coll uſo delle folc erbe. E certamente come la natura delle ſchiette, e non meſcolate vivandeoltreinodo ſi dilecta, Nam varieres Vt noceant homini credas, memor illius eſcę, Que fimplex vlim tibi federit; at fimulaffis Miſcueris elixa, fimulconchylia turdis; Dulciafe in bilem vertent,ftomacboque tumultum Lenta feret pituita: vides ut pallidus omni Cæna deſurgat dubia? quin corpus onuftum Heſternis vitiis animum quoque pregravatuna Atque affigit humo divineparticulam aura. Così anche ſchietti, e non compoſti medicamenti per riſtorarſi richiede; perchè Plinio: non fecit, diffe, ceraia, malagmata, emplaftra, collyria, antidotaparens illa, ac di vina rerum artifex: officinarum hæc, imo veriusavaritia commenta funt. Pure, poichè la coſtuma de’meſcolati, co me de'ſemplici medicamenti, è tanto oggidà nel modo avā zata, che per legge è quafi da ciaſcun ricevuta, e ſi veggo. no sì fatti rimedinelle botteghedegli ſpezialicötinuamen te a calca difpenfare: convenevol cofa egli certamente, anzi neceffaria mi pare, dovere il medico degli unis e degli altri piena, e ficura contezza avere; e oltre a ciò nelle ma niere del lavorare i compoſti medicamenti eſſer ottiinamé te ammaeſtrato. E certamente, o quanto farebbe egliil migliore, ſe il medico medeſimo i rimedj, che diviſa, po • neſſe in opera, e non ci foſſero ſpeziali, i quali tri per l'in gordigia del danajo, e per la loro ignoranza il tutto traſcu rata:  1 1 ratamente abborracciaffero; o almeno lavoraffcro imedici qualche medicamento dimaggior conſiderazione, laſcian-, do ſolamente in man degli ſpeziali i più volgari, e meno vili: come già coſtumavano (ſecondo il narrar di Galieno ) Archigene, Andromaco, Apollonio, Critone, Pacchio,e altri famoſiffimi medici antichi; i quali non iſdegnarono ď. ufar ſovente un così giovevole, e aobil meſtiere; an, zi lo ſteſſo Galieno vantaſi oltremodo d'aver lui mede fimoa ſue mani la triaca lavorata; avyegnachè di que’tein pi, come e'medeſimo ne fa teſtimonianza, e molto addie-: tro ancora, il meſtier delmedico da quello dello ſpeziale diviſo anche trovaffefi,come avvifa infra gli altri Plinioidid cEdo, che alcunimedici de'ſuoi tépi no li davan cura niuna dicoporre imedicaméti,gefepropriú,ſono ſue parole,medie cine ſolebat:ene'répia noi più vicini ebberoi medici ancora le lorbotteghe;avvegnachè conventati, e onorati molto ſi foffero, e in quelle alcuni medicamenti ad uſo di vende re riſerbaroro: come dal Decameron delBoccaccio nel la novella del Maeſtro Simone agevolmente ſi può cópren dere; a cui Bruno dicea: e ſappiate, che quelle camere ſono nonmenoodorifere che fienoi boffoli delleſpeziedella bottega voftra, quando voi fate peftare il comino. El Fernelio, ed altri famofiffimi medicihan coſtumato pure di comporno alcuno s perchè l'avvedutiſlimo Orazio Eugenj loda foin mamente coloro, che imedicamenti pe’loro ammalatian ſue mani lavorano. Ne dovrebbe ilmedico certamente vergognarſi a pur farlo 3 perciocchè,comedice Primeroſio, remedia abfque medico curant,non autem medicus abſque re mediis; præftantior igitur medico erit remediorum natura: quare ea præparare, &componere medicum non dedecet, qui naturæ tantum miniſter eft. E nel vero egli è queſo un meſtier sì nobile, e lodevole, che non che i filoſofi di mag gior lieva, e ſpezialmente Ariſtotele l'abborriſſero, e l'a veſſero in diſpregio, anzi i Principi d'alto affarc ſovente l'adoperarono, e'l tennero a conto. Or ſe il medico medeſimo a pro de'ſuoi infermi lavorar dee ser deeimedicamenti,e ſconvenevol coſa non è a ſalvamento degli huomini l'adoperarviſi; come potrà giammai, quan tunque faggio, e avveduto egli ſia ', porre in opera, e com porre i più malagevoli rimcdj, ſenza avere in prima bene, uſate, e ſperimentate lungo tempo le maniere, e gli artifi cj, co’quali ſi compongono? iinperciocchè l'efficacia, e'l valor di quelli dal niodo dell'apparecchiargliin gran parte depende. O come potrà mai pienamente diviſar de'ſempli ci, de'inodi, co'quali tra loro quelli accozzar ſi debbono, e tramcſtare? perchè Giacomo Silvio intendentisſimo di cotali affari vuol, che chiunque a bene imprender l'arte della medicina indirizzar ſi voglia,debba alinen per lo ſpa zio di quattro anni avercontinuo in prima uſato, ebazzi cato con gli ſpeziali nelle botteghe loro; & quidem exifti mo, dice anche Pier Caſtelli, oprimum medicum hujus fu cultatis debere effe expertiſſimum: alioquin fore, utfere fem. per in præfcribendis medicamentis compofitis erret. Mari tornando, onde partiti eravamo: ch’al inedico faccia biſo gnola Chimica, quanto al fatto delle compoſte medicine, egli non è da porre in forſe; poichè ſi ſcorge omai di per; tutto eſſer in uſo le chimichemedicine; perchè ſe'l medico non aurà piena corezza delle faccéde pertinenti a coral ar re, come potrà inai quando meſtier glie ne ficcia, o colle fue propic manicomporle, o adoperarle, o conoſcere al meno, c riparare aldanno, che quelle aveſſero per avven tura cagionato; o ſe forſe da altri medici diviſati foffero, raffermare i loro sériinéti, o rintuzzargli,ſecodo egligiudi chcrà, che ſi convegna per lo miglior dell'ammalato. E nel vero come potrà mai adoperar medicinenti un medico, ſe non ſe intendentistimo della natura, e delle propietà delle parti, chic’lcompongono, e degli effetti ancora, e del mo do del loro operare? E come potrà mai egli ſaggiamente ordinargli ad argomento d'una, o d'altra malattia; e divi. farle ſtagioni, e itempi, in che fan da dire, c alle conj: pleſſionidegl'infermi, e all'età ragionevolmente adattaro gli? o comcpotrà mai loro ordinare il inodo di prenderglis e diviſarne la quantità: 0 temendo di qualche riſchio rin Vuu tuiz Ragionamento Settimo tuzzarne, e attutarne la troppa violenza, o contro quella agli ammalati di qualche yalevole ajuto di preſente ſoccor rere; o toglier lenoje, ei fastidi, che ſovente ingenerar ſo gliono? Non è certamente cosìagevole, ſecondo i ſenti menti del medeſimo Galieno, il poter medicamenti adope rare a colui, cui conoſciuta in priina, e manifeſta molto bé non ſia la virtù di quelli, e la forza per la quale gli effetti n ' avvengono. Or che di grazia avrebbe detto Galieno, re: qualche contezza pur delle chimiche medicine, comechè leggeriffima, gli foſſe all'orecchio pervenuta? Certamente conſiderando egli le ſtrane maniere, e malagevoli del loro operare, ayrebbe ne' medici ricercato ſtudio, cavvedia mento maggiore; e non che piane,e facili, e ſenza trop po riguardo giudicate l'avrebbe, ma pericoloſiſſime a ſpe rimentare, e da troppo più, ch'a popolar medico non lico viene. Or vadano pure coteſti medici di cromba marina, e colla ſola doctrina del lor macſtro Galieno a far pruova de'chimici medicamenti a coſto della vita dc'inileri amma lati ſcioccaméte s'attentino,che vedran pure a funeſto, e la grimeyol fine le loro mal ardite follie sépremai riuſcire;im, perciocchè ne dalle ſcritture di Galieno, o d'Ippocrateme defimo, ne da altri lor ſeguaci, che della chimica medici na nulla certamente s'inteſero, comprender mai potranno coſa alcuna intorno a'chimici medicamenti; ne dalle rego le, che già coloro ne laſciarono fi può trarre argomento 2 comporne alcuno; ſo per quelle le propietà de'inedicamé timedefimi della lor comunal medicina, nc anche avviſar fi poſſono: perciocchè, ficome è detto, in quelli ancora il chiariſſimo lume della Chimica ne fa meſtieri.Ne quelno biliſſimo pronipote del gran Re di Damaſco, Giovanni fi gliuol di Melue nella chimica medicina, e in quella di Ga lieno, maſſimamente intorno alle purgagioni eſercitato, n' avrebbe mai conſigliato, cſfer ſempre da leggere, e ſtudiar ne’libri de'fapienti (cosìchiama egli per eccellenza i chi mici) s'aveſſe giudicato averfi ciò potuto baſtevolmente in que' diGalieno, c dc ſuoi ſeguaci apparare:netanti, etā ti valentillimi Galicniſti avrebber poi il conſiglio di Meſue qual DelSig.Lionardo di Capoa. qual legge ſeguito c, con molta fatica ne'volumi, e nelles fucinc de'Chimici lungamente ſudatinon ſarebbono. E licomc ad huom poco giova l'eſſere nell'antico meſtier dell'armi baſtevolmére eſercitato, ſe poi ad abbatter Roc che, e Caſtella,e ſorprender Città:dimine, d'archibugj, di bombe, d'artiglierie, e d'altri nuovi, emoderni ſtru menti, ed ordigrida guerra dalui per addietro nô mai più veduti, o ſperimentati, ſervir ſi vuole; ma conviene in pri mache da nuovo maeſtro, e intendentiſiino di quelli pic namente apprefi gli abbia,e come,e quando, o per offefa, periſcherno da adoperar ſiano: così nulla ancora a'medici approda il ſaper coloro compiutamente quanto mnai nell’: antica, e volgare fcuola diGalieno apparar ſi poſſa, ſe mai chimici medicamenti uſar ſaggiamente intendono; ma egli fa di meſtieri, che ben anche in prima da Chimico macſtro apprcli gli abbia, e la maniera d'adoperargli, e l'arte di bé comporgli pienamente abbia apparata; imperciocchè fe così sfornito dell'arte, e ſconſigliato ſi vorrà ad impreſa çotanto matta, e malagevole arriſchiare, certo mala pruo va vi farà il ſuo orgoglio; e rimettendo il medicamento al Izventura, e alla cieca andando, a manifeſto, e certiſlimo pericolo la ſua fama iuliemc, e'l falvamento dell'anmala to alla fuacura commeſſo porrà. Così quella famoſa ſci mitarra diquell'invittillimo Eroe Georgio Caſtriota, la cúi memoria ancor teme, e trema l'infedel popolo ſaracino, diceſi, che in man di Macometto Re de’Turchi le ſue glo rioliflime pruove laſciate aveſſe: ita plerique medicine, dice a noltro concio Teodoro Chercringio, chymice præſertim, aut mortue,aut (quod deplorandum magis) mortisfæpè cauf ſefunt, quando non animantur periti Doétorismanu, qui no verit eas tempore, &loco adminiſtrare. Così anche dopo l'infelici pruove per lui fatte nella gioſtra, Colui ch'indoffo il non fuo cuojo haveva, Come l'afino già queldel leone, il viliſfimo Martano, lo dico,ritornato in Damaſco fu qui vilungamente ſcherno delle femmine, e de'fanciulli. Ma tanto più da piangercè, comechèdirifi ancor degna ia,la Vull liioc ſciòcca tracotanza dicoſtoro ', quanto in malamente uſan do le chimiche medicine, quantunquc ſicure, e piacevoli quelle ſieno, pur n’ammazzano crudelmente gli ammalati. Così il dotto Galieniſta per altro, e avveduto molto To waffo Eraſto collo ſpirito del vitriolo un cattivello infer mo empiamente a morte conduſſe per no aver lui nel fuo maeſtro Galieno la natura, e l'uſo di cotal medicamento apparato; che ſe egli dal Severino, dal Penoto, dal Dor neo, o da altro profeffor della Chimica medicina;da lui cos tanto biaſimatas appreſo aveſſe, e pienamente conoſciuto come, o quando lo ſpirito del vitriolo da dar ſia, certame tc eglicotanto misfatto comıneſſo non avrebbe. 's E forſe, che nel medeſimo fallo appunto dell'Eraſto no ſi è quì bruttamente cader veduto non ha guari un credu to, e molto ſtimato Galienifta, il qual collo ſpirito fimi gliantemente del vitriolo un miſerabile infermo, cui, per troppo ghiottamente eſſerſi riempiuto di freddi, e aceto ſi liquori, fi era riſerrato il perto, infelicemente ſtrago Jandolo licciſe? E piaceſſe pure al Cielo, che per l'abuſo di sì fatto mc dicamento non fi vedeſſero tutto giorno miſerabilmente molte, e molte perſone morire. Egli è coſa troppo mani fefta, ſe pur merita fede la ſtoria rapportata dal Checher manni, di quell'Elettor Paladino, cui per l'uſo dello ſpirito del vitriolo l'interiora tutto guaſtc, e roſe ritrovaronfi. Ne giova punto a cellare il pericolo de'ſuoi peftilenzioſi effet zi l'adoperarlo con ritegno, e riguardo, e ſcarſamente uſar lo, teinperandolo anche talvolta con acqua, o altriſomi glianti liquori; concioſiecoſachè dato più, e più volte co minciapianamente ad operare, ea poco a poco rodendo, infin le tuniche del ventricolo, ſpietatamente alla per fine conſuma, c divora. Così talvolta al continuo ftillar d'ofti nata goccia mancano finalmente i duri macigni. Et leviter quamvis quod crebro tunditur ietu, Vincitur in longo ſpacio tandem, atque labafcit. E pur lo ſpirico del vitriolo per altro cosìbenigno,e pia cevole ſi ſperimenta, che ben felicemente a'fanciulli anco:. ra da Del Sig.LionardodiCapoa 525 1 ra dacolui, che cautamente ſervir ſe ne ſappia fuol darli.? E ſe'l vitriolo baltevole a guarir la quarta parte de'rnali da quel grand'huomo in medicina Teofraſto Paracelſo vienu giudicato,ben da colui ancora il ſuo ſpirito vien fomma mente lodato con chiamarlo quartampharmacopolii partēs & lapidem angularem in officinis pharmacopoeorum; avve gnachè cotefto ſpirito, che comunalmente nelle botteghe degli ſpeziali per ciaſcun fi diſpenſa, non fia veramente quellofpiritodi vitriolo cotanto da Chimici commêdato na altro più groffo, e di minor virtù, e giovamento di fuello.: ! is Ma per ritornare a' grofliffimi errori, ne'qualiper nons aper di Chimica fogliono i medici, comechè faggj, e av veduti, talvolta ſmucciare, egliè pur manifeſto a ciaſcun quanto fcioccamente, e fanciulleſcamente dell'antimonio il dottiſſimo infra’ſeguaci di Galieno, Mercuriale favelli. E chi non iſcoppierebbe delle rifa in conſiderando la mel ionaggine di quel famoſiſſimo Gåſieniſta, e cotanto nella lottrina del fuo maeſtro eſercitato, Aleſſandro Maffaria? vvegnachè più toſto da pianger fiat, che da ridere la com fioro ignoranza per li ſconcj avvenimenti, e funeſti, che ne fuguono. Egliadunque intorno al medeſimo antimonio dopo averne cosìinfelicemente favellato, venendone all' lifo del darlo, e diviſando in che quantità da dar fia,in und fua cotal ſciocca ricetta,cosi ragiona: Recipe antimonii pre parati 8.3. Orchi Domine giammai il fentimento compré der ne potrebbe ſenza andar dalle gabbolc a ricercar ſe de fiori, o del gruogo, o del vetro, o d'altre, e d'altre molte medicine, che foglion farſi dell'antiinonio, abbia intender voluto? Ecco appreſſo il nottro Antonio Santorelli nella volgar dottrina de Greci, e degli Arabi maeſtri famoſifli moſcrittore, diviſar dell'acqua arzente in una delle fue opere così ſcioccamente, che nulla più. Ecco il dottiſſimo Galieniſta Giovanni Eurnio così traſcurato in favellar del fale del vitriolo vomitivo, cheda piacevoliſſimo chequel, loè, facendolo fomigliante nella violenza all'ariento vivo precipitato, ed al vetro dell'antimonio, lo riftrigne, eris fpar ' 526 Ragionamento Settimo. ſparmia a nôn darlo all’ammalatosſe non nella quantità ſo la di due minutiſſime granella digrano. Ecco d'altra parte il più illuſtre, e famoſo medico de'ſuoi tempi Guglielmo Rondelezji doftar forte, e temere, non la raſchiatura del dente del Cignale rattenga talvolta nelmal della punta lo fputo;nel qualviluppo certamente egli involto non fareb be, ſe nella maniera del filoſofar de chimici in medicina baftevolmente avanzato fi foffe; concioffiecoſachè cota li rimedi per lo loro Alcali volante mai ſempre operiuo; il qualpenetrando, e trameſtandoſi colfale aceroſo, che nel le vene, e nella punta s'accoglie, eſciogliendo le dutez ze dell'apoſtema, agevolmëte quindi per ogni via così aper ta, come occulta,non che per quella ſola dello ſputo,ne fa ſpiccar fuora la inateria tutta inſaccata. E ſe cotal via di filoſofare quell'altro famoſiſſimo Medico Prevozio te nutå aveſſe,certamente, che ne anche eglicosì ſcioccamé te temuito ayrebbe di dar nelle febbri maligne agli ainma latiil.corno del cervio. Ma come, o in qual guiſa a sì no bilmente filoſofar'nelle maraviglioſe operazioni della chi mica potrebbon mai indirizzarſi i tondi, c goccioloniGa lieniſti, ſe nelle coſe più piane, e più manifeſte di quellow, anche v'ha infra loro chi Come notturno augel nemico alſole cieco affatto ', e rintuzzato d’intendimento vive? Egli non può narrarſi certamente ſenza ſmaſcellar delle riſa la peco raggive di quel famoſo conventato Galieniſta nell’Acade mia diGroninga, il qual troppo fanciulleſcamente giudica va lo ſcoppio, c'l tuono dell'oro fulminante per opera de ' Diavoli avvenire: e ciò turto pauroſo attendeva, non altri menti, che il Macſtro Simon fi faceſſe, quando ſu la beſtia imperverſata, e nabiffante inyer la Conteſſa di Civillari ini corſo andava. Nuper aurum fulminansracconta il Chippe ro, cujus fi granum unum, aut duo carbone defuper lentè ac cendas, bombardam minorem fonitu aquat,ſi non antecellit; ut meritoridenda fie Freitagii focordia;&contradicendi ftu dium; dum tale quid fieripofle naturaliter denegat, ctſi oma ninò effectus evidentia cuvincatur, ad Dæmones hujus cauſam refert: dignum certè hac patella operculum, & hoc philos fopho hæcphilofophia., Egli è dunque da conchiudere eſſer la chimica ſomma mente neceſſaria alla medicina tra per li medeſimi volgari medicamenti de'Galienifti, e più aſſai per quelli, che di el fa Chimica ſon propi, e che per opera diquella, e de' ſuoi ftrumenti ſolamente ſi compongono; e maggiormente in quelli l'arte ſottiliſſima della Chimica fi conviene; che co me è già detto, così pericoloſi ſono,e da temere inmaneg giarſiper le ſtrane, e non ordinarie maniere del loro opera re. E concioſliecoſachè v'abbia cotali rimedj non iſcorti alla lingua, e alle nare, e d'ogni ſenſibile qualità affatto ignudi, che per regole d'ordinaria medicina non può la lor natura agevolmente comprenderſi: egli è di ineſtieri certa mente per non fallar nell'avviſargli, alla chinica notomia ſopratutto ricorrere;ſenzachè havvi alcuni particolari me dicamenti, detti ſpecifici, i quali convien fenza fallo, ch'a chiuſi occhi, e ſcioccamente lavori, e maneggi chiunque del meſtiere, c del modo del filoſofar de Chimici non è bé dottrinato, e intendente affui; perciocchè sì fatte ricettev: nella pratica della medicina, così brevis ce ſecche, ecalor confule, e incerte ne'buoni ſcrittori ſi trovano, che per im broccarnela quantità, o'l tempo, o la maniera d'uſarle, o le malattie, nelle quali da adoperar ſono, malagevole cer tanente ſarà ad intendimento umano; ed è ſolo de' Chi miciragionevolmente, e ſenza fofpetro alcuno l'adoperar lc, e ſervirſenic calora, dove lor faccia meſtieri, con effer in prima fotcilmente filoſofando nella lor natura ben penetra ti; e per quel che permeſſo ad huom ſia, con aver le loro qualità baſtevolmente compreſc. Cofa, la quale quanto monti a dover ceſare i riſchjge i danni, cheda sì fatti me dicamenti naſcer poſſono, pur troppo è a ciaſcun manife fta. Ne è già punto maraviglia, ſe gli arditi, e poco avve duti Galieniſti ſcioccamente inframmertédoviſi,la lor par te ancor vifanno: ſe come è detto, anche nell'adoperare i. Jor medeſimi medicamenci van carponi, e brancolando per l'incertezza,quaſi ciechi al bujo; e in quelli maſſimamente, a’quali dan nomedi virtù occulta, cioè a dire di ragion no conoſciuta, e non punto da lor compreſa, credendo così la lor groffezza, e laloro ſciocca pecoraggine coprire. Ma d'altra parte i chimici medici filoſofanti innoltrandoſi quá to per huon ſi puote nella contezza demedicamenti,eco noſcendo aſſai veriſimilmére la natura dc'mali, e le cagioni, onde avvengono, ſicome con avveduto, e probabile divi famento fortilmente ragionar ne ſanno, così con loro no bili, ed efficaci argomenti digran vantaggio riparando ſo-, vente al genere uinano, degni d'immortal gloria, ed'eter na fama ſirendono..., mily Magià baſtevolmente dimoſtrato quáto a color, che me. dicare intendono faccia meſtier: la Chimica: a divilar de' chimici medicamenti, e quanto ſovente ne lian neceſſari. trapaſſeremo. Ma comechè lo di ciò fivellar per comuns giovamento m'ingegnj, e ne renda maggiormente avvedu-. ti gli huomini delmondo, pur dubito, non alcuni dannā- ) do,ebiaſimando sì fatti rimedj inalgrado per avventura me ne fappiano. Dunque dirà taluno, queſt' altra nuova ſorte dipeſtilenza all'uman genere mancava? e non baſta va forſe a impoverir di gente le provincie, e i Regni, il vuo tar di quel prezioſo liquore,a cui s'attiene la noſtra vita, per, ogni menomacagion le vene; e co'duri cauterj, e con crui deli veſcicanti, e altriricroyati di barbare, e ſtrane nazioni martoriar miſerabilmente le genti:e a toglier alle parti più ſodedel corpo umano il debito nutrimento, e la virtù di ravvivarlo, e di riſtorarlo alle liquide: uſar le ſcamonces, gli elaterj, le colloquintide, ilatirj, i pepli, gli Elleborin, iTurbitti, iMezerj, le ſquame del raine, le pietre lazule, e tante, e tant'altre forţi di nocevolislimi veleoi più ches, di riſtorativi argomenti dell'antica volgar medicina, ſe non vi congiuravano ancora a noſtro comun danno i potentiffi mi precipitati, i mercurj divita, 0 Alcarotti, come altri gli chiama, i verri, i fiori, e altri cento violentiffimi vomi tivi tratti dell'antimonio,del vitriolo, del mercurio, o d'al tro qualunque più peſtilenzioſo minerale? Deh piaceſſo pure al grande Iddio, che, o non mai uel mondo foſſeliin he trodotta la medicina; o almen, che non inai ella ſtata ſi for ſe colla ſpagirica arte accoppiata, e delle nuove, e ſtrane fortide'medicamentidiquella dannevolmente accreſciuta: che mé malcerto ne farebbe dalle malattie medeſime inter venuto di quel, che tutto dì oggi per mā de’medici miſera bilmente proviamo. Or s'accreſcano pure a ſtruggimento, e ſterminio delle noſtre vite nuovi, e muovi ſtrumenti di mora te; e gl'ingegniumani s'aſſottiglino,e s'affannino, e ſudina a gara per imprédere un'eſercizio così in fauſtojcosì crudele, che nemeno a'ſuoimedeſimi artefici ſuol perdonare, che im appreſsãdoſi ſolamëte a'fornelli no debban ſovente correr manifeſto pericolo delle perſone. Così morifli ancor gio vane il Tedeſco Teofraſto, non già da’maligni Galieniſtip invidia atroflicato, ficomecomunemente per tutto allor buccinavaſi,ma al parer dell'Elmonte,buo giudice in sì fata te coſe,da’medeſimi minerali; che continuamente e' manego giava; dal cui nocevole, e peſtilezioſo fummo l'Elmon te medeſimo confeſla ſe eſſere ſtato più fiate in grandiſſimi riſchj della vita condotto. Così anche a ' tempi noftrive duto abbiamo quel cattivello nella ſtrada delle Campane dagli ſpiriti del nitro, e del vitriolo, e da altri minerali do po continuo tremore, ch'e' n'apprefe, e dopo lunghe, e gravi malattie miſerabilmente alla fine morirſi. Orqual danno dovrà egli intervenirne a colui, che quaſi cibi inno centivolentier gliſi tracanna, fe cotanto nocevole, e dan noſo è l'avergli ſolamente davanti Ripone tra' ſuoi egregi vanti la Chimica di ſapere oltremodo i medicamenti delle parti inutili, e nocevoli ſpogliare, e di rendergli benigni aſſai, ed efficaci; ma per tacere, che alcuni di quelli (e'l confeflano comechè mal volétieri i loro artefici medeſimi) deboli, e ſpotſati, e di niun momento dal ſuo maneggiar diventano, parecchi, e parecchj (coſa la quale certamé te è peggio aſſai, e dura oltremodo a ſofferire ) di mezza Haméte nocevoli, che in prima erano, o pur tali ſi dimoſtra vano, rendegli la chimica col preparargli non altrimenti, che imedeſimipiù fieri toſſichi, crudeliffimi, e micidiali. Dica pur queſta nobiliflima Città: quanti, e quanti nel tempo della paſſata peſtilenza con dolori acerbiffimi di vi. ſcere n'aveſſe fatti morire quel velenofiffimo ariento vivo precipitato, ch'angelica polvere allora chiamavano, pro poſto allordal Protomedico di que'tépi a comun ſalvamé. to degli ammalati,e co pubblico editto diyolgato colle ſtá pe. E ragionevolmente per avventura dubitonne alcuno, ſe più huomini allora per la potentisſima violenza di quet medicamento, o per la medeſima peſtilenza mancaliero. Edo quanti, e quanti alla giornata veggonfi privi di vi ta, o cagionevoli reſi della perſona per opera di chimici ri medj, de’quali la maggior parte conſiſte in lavorare i mine sali;i quali dalla noſtra natura affatto rimosſi,altro mai, che dolori, noje, malattie, e morti recarnon poſſono. Odafi per Dio ciò, che di coteſti Chimici, e della loro ſcuola di dica ildoctisſimo Erafto, l'eloquentisſimo Cortino, il ſot tilisſimo Riolano il padre, e la ſcuola famoſisſima tutta di Parigi. Odaſi come con ſaldisſimeragioni nuovamente gli rintuzzi, e mandi giù l'acutisſimo peripatetico filoſofo, e Galieniſta Ermanno Corringio; e ſopratutto ſi riguardi a ciò, che dalle genti pe’mal capitati infermicontro a'chi ci medicamenti tutt'or querelando ſi dica, e le beſtemmie atroci, che per tutto contro lor ſi ſcagliano. Deh sbandi ſcafi per Dio da queſta Città, sì nocevole, c dannoſo me ftiere, e con rigoroſisſimi divieti ſi mandin fuora delle bota teghe degli ſpeziali, e da tutt'altri luoghi le chimiche me dicine. Ne già mé ſaggj nel vero, e avveduti eſfer dobbiam noi de'medici Melaneli, che il dannevole uſo dell'Alcarot to vietarono; e ſe ſono, e con ogniragione, da' noſtri fta tuti proibiti gli uſi degli archibugetti e degli ſtili, e d'altre ſomiglianti arme,come nocevoli algenere umano, quan. tunque tal volta a ſchermo dell'onore, e della perſona pur buone fiano; perchè non ſaran da yietar poi medicine sì fie re, emaligne,che ſe mai pure di recar qualche giovamento fan ſembiante, allor più crudelmente inſidiar la vita fi fpe rimentano. Sono o Signori, sì fatte querele, e rimproccj in grā par te per opera dc'malvagj Galieniſti contro la Chimica, ei ſuoi DelSig.Lionardo di Capoa. 530 ſuoi medicamenti fovente adoperari; i quali gittando la polvere innanzi agli occhi della balſa,minuta,e troppo cre dula gēte, fan loro a vedere che ichimici medicamenti più ch’altri ammazzar fogliano, e che tutto il malc, che nel cu rare altrui intervenir ſuole, da color ſolamente avvegnavi perchè la ſciocca torma del popolo da for moſſa lamente volmente gli biaſima; e con torti, evani giudizj ſovra i chimici, i misfatti de'Galieniſti medeſimi, o le violenze del male empiamente riverla; E parla più di quel, che meno intende. Ed è egli certamente cotal diſavventura a tutt'altri me. dici ancor comune d'eſſer sépremai accagionati della mor te degl'infermi: non moritur æger fine infamia medici: diſse Plinio e pural tépo dilui, o no v'era, o no avea púto che fır nelle noſtre contrade, o in quelle de Greci,colla medicina la Chimica. Così non giugnendo i medicamenti a rintúż zar la violenza del inale, ed eſſendone diterminata alla per fine la meta della noſtra vita', è certamente da dire có quel valent'huomo, che nella medicina tutt'altro avvenir ſoglia, che in ciaſcun'altro meſtier ſi coſtumi; perocchè dove i mã. camenti degli Artefici a'difetti dell'arte comunalméte s'im putano, ſolamente in medicina il mancamento dell'arte aʼmedici cattivelli ſovente fi riverſa; e fon talvolta inde gnamente accagionatidi ciò, che per argomento umano imposſibile ad operare. Perchè certamente intorno a ' misfatti de’medici da prudente huomo, e aſſennato non è da preſtare agevolmente fede a’rapportati masſimamente da altri medici per malavoglienza, o per nimiſtà, ficome di ſopra baſtantemente diviſato abbiamo con l'eſemplo d ' Aſclepiade; eſſendo pur troppo vero quel detto di Curzio: iai diverſis rebus id folet fieri,ut alius in alium culpam refe rat. Ne già è mio intendimento, che di cocal quereia al cun de'noltri medici al preſente fi punga, come a ſe pro piamente inveſtita; perciocchè lo quì in general ragionare intendo del cattivo coſtume d'alcuni medici; cben ſo, che così quì, comealtrove v'ha de'medici dabbene, c onorati affai, e di qualunque gran loda dignisſimi: avregnachè talvolta pur alcun di loro daʼfalſi rapporti ingannato, NÓIL. già per altio, e permalayoglienza, maper troppa ſua dab benaggine vi falli. Pur male a noſtr’huopo comincia tal volta leggeriſſimavoce, non ſo donde, o falſa, o vera, ch' ella fiali, che roſto per tutto ſi buccina, c s'accreſce:intan to, che agevoliſſimamente dalla bafla plebe, e dalle troppo credulaperſone vi ſi preſta fede; i quali non che vogliano ſottilmente caminar comela biſogna paſſata ſia, anzi tal volta ſenza ſaper come, o quando, c da chi cominciata ſia, volentier la s'inghiottono: & fepè etiam quod falſo creditu eft, veri vicem obtinuit. Perchè poiveggiamo della mor te di taluno accagionarſene medico, che non che viſitato giammai l'aveſſe; anzi ne men chi colui foffe, o dove ſi foſſe dimorato per avventura fapeva; pure comechè a sì fatta diſavvetura ciaſcunmedico ſoggiaccia,nó però di meno ſo pra tutt'altripar ch'a’miſerichimici maggiorméteella con traſti, quantunque certamente maggiori, e più gravi dan ni da'volgari medicamenti alla giornata avvenir veggiamo, che da’Chimici; e pure quelli ſovente alla gravezza incon traftabile del male, non alla dappocaggine del medico ac tribuir ſi fogliono: dove di queſtinel contrario, laſciata dw parte qualunque altra cagione, folamente i chimici medi camenti s'infamano; maſtimamente per coloro, i quali nul la fappiendone, come di nuove, e non conoſciute coſe ſo ſpettando, ſempre ne temono; follemento mai ſempre,e in tutte le faccéde vera ſtimado quella séréza di Cornelio Ta cito:fuper omnibus negotiis melius,atq;rectius olim provisü:et quæ cuvertuntur in deterius mutari. Ed è pur da aggiugnere a ciò quell'altra cagione che per opera de’malvagi, e invi dioſi Galieniſti s'accrefcon mai ſempre i timori della ſcioc ca plebe, intanto che ne men poſſono ficuramente i chimi ci medicide' più volgari, e comunali medicamenti talor fer virſi; che pur diquelli il vulgo ignorante teme; dove d'al tra parte fe dalla greggia de creduti Galieniſtichimiche medicine, comechè violenti, e pericoloſe loro fien porte ', tantoſto alla cieca, e ſenza tema alcuna le fi tracannano, volendo pertinacemente anzi che a'chimici,ne'loromedeſig 1 mi medicaméti, ſtarſene agli ſtrani, e talora ſciocchi Galie niſti, cui ne men per nomequelli conoſciutiſono: non che ne ſapeſſer mai le qualità, e glieffetti, che ne'corpi umani quelli adoperar ſogliono. Non niego però, che tal malavventura ne' Chimici di non eſſer agevolmente creduti, eglino medeſimi talvolta la ſi procaccino, quando o per ſoverchio dicompasſione, che han de’miſeri ammalati, o per vaghezza di dover gưa rire gli abbandonati da'Galieniſti, ambizioſi s'inframmer tono di medicare i diſperati, e voglion quaſi dall'orlo del feretro trarre i morci.È la ſciocca géte n’aſpetta pur le ſtra vaganze, quaſi foſſe propio de Chimicil'adoperare i mira coli; quando forfe i Galieniſti non han faputo per poco co figlio la creſcente malattia attutare, con dar loro al tempo iconvenevoli medicamenti; perciocchè Principiisobſta: ferò medicina paratur, Quum malaper longas invaluere moras. Anzi con avere i Galieniſti medicati talvolta a roveſcio, e alla cieca gli ammalati, malignamente poi, ea gran tor to ne vien ripreſo,e cacciato il Chimico,e i fuoi rimedi bia fimati. E a tal fegno pure giugner veggiamo la iniquitoſa malizia d'alcun medico, che di quel medeſimo infermo, cl egli ſpacciato in prima, e già laſciato aveva, attribuiſce poi difpertoſamente altruila morte, e i chimici medicamé te di colui empiamente n'accagiona. Così non vergognof fi il Foreſto a ſcriver purc, che colgruogo di Marte un co tal’Empirico ammazzato aveſſe un'ammalato tutto mar cio, e corrorto, e com'egli medefimo narra, già moribon do, e fpirante. E piaceſſe pure a Iddio,che non foſſe giūrå a tāto l'affocata malavogliéza di sì fatti ſquafimodei, che già reputādofia vergogna il falvaméto,che allo infermo da loro ſpacciato avvenir puore per cófiglio de'chimici, e già temédone gli avāzi,nó prédeſſero alcuna briga di far pruo va delle loro bugie, con dar qualche ftorpio a’riſtoramenti dello infermoze ſe pure in lor diſpetto neguariſce l'āmala to,nó folaméte delmedico, che'l fanò, madi lui medeſimo capitali nimici rimangono; ficome di quel Cote diffe quel motteggevol Satirico Italiano: Ha buon ز occhio, buon vifo; buon parlare, Bella lingua, buon / puto, e buon toffire; Queſti fon ſegni, che non vuol morire; Maimedici lo voglion 'ammazzare: Perchè non ci ſarebbe il loro onore, S'egli ufciffe lor vivodalle mani, Avendo detto, egli è Spacciato, e more. Ma come teftè ragionavamo con la lor ſoverchia pictà in voler curare infermidiniuna ſperanza, danno agio i Chi mici a i ſoffiamenti degli invidiofi Galieniſti, e cadono tal volta dal buo nomedivaléti medici. Ne certaméte p altro Ippocrate vieta aʼmedicanti il dover por mano agli infermi difperati; e quell'altro famoſo ſcrittore Arabo ne conſiglia a non doverci arriſchiare a prender cura di malagevoli, sfidate malattie, ſe non vogliamo pure guadagnar titolo di cattivi medici; e anche avviſa Cello, prudentis hominis eft, eum, qui fervari nonpoteſt, non attingere: nec fubire.fufpia cionem ejus, ut occifi, quem forsipfius peremit. E a ciò an che riguardado Galieno parimente ne conſiglia a dover la fciare alſolo predicimento cotali infermi, ſenza dar loro niuna ſorte dimedicaméto, per no logorare indarno.i rime. dj,e fargli infam uea torto preſſo il vulgo, õde poi ſi laſcian via, quando forſe ad altri ammalati di minor riſchio giove voli ſono. E nella medeſiına guiſa Aleſſandro de Benedet ti: prudentis medici, dice, ef,inſanabiles, &defperatos mor bos nun curare;ne hominem occidiſſe, quifua forte interitu rus erat, exiſtimetur. E che direm noi di que'chimici medicamenti, che talor de perſone ſi lavorano, e ſi diſpenſano, che dichimica, ne dimedicina ne ſan boccata? Enel vero eglitāto omai è cre ſciuto l'abuſo delfabbricare malamente, anzi abborrare i rimedjchimici, cheda'Ciurmadori, e da Cerretani, edas viliflime femminelle uſar pubblicamente ſi veggono, e ven dong a macco in ſu le panche, e per le fiere abbondanteme te li ſpacciano, e ben ſovente fi comprano anche dagli ſpe ziali, e da’medici per diſpenſargli poi a 'loro ammalati;šć zachè da Galieniſti medeſimi calor s'imprendono, e teme ruri. rariaméte dagli ſciocchiffimi uccelloni yeggőli ordinare, e lavorare alla cieca. Navem agere ignarusnavis timer: abrotanum ager Non audet,nifi quididicit dare.Quodmedicorum eft Promittuntmedici;tractant fabrilia fabri. E s'attendono purecoteſti medici di tromba marina de' noſtri tempi a maneggiar biſogne di cotanta conſiderazio ne, e di cotanto riſchio: certamente ſe ad infelice fine poi rieſcono, e veggonfiatcriſtar le caſe, e le famiglie, non gli innocenti rimedi biaſimar ſe ne vogliono, ma color ſola doperano; non altrimenti, che ſe ſpada, o archibuſo daw furioſa mano moſſo fia, non n'è lo ſtrumento da accagionas. re, ma la follia ſolamente dello ſcherano. Ne ſan coſtoro quanto ſenno abbiſogni in medicare, e ſpezialmente con argomenti chimici, a cuicertamente di maggiore avvedi mento e di più ſaldo giudicio fa luogo; che le malamente s'adoperano, maſſimamente le purganti medicine, ove il medico non abbia in dandole riguardo al tempo, lità del male, all'età dello infermo, o alla natura di lui, o alla ſtagione dell'anno, certamente colui mal ne capiterà: Temporibus medicina valet: data tempore profunt, Et data non apto tempore vina nocent; Quin etiam accendas vitia, irriseſque vetando, Temporibusfinon aggrediareſuis. E o quanti per Dio ſe neſon veduti e fe ne veggono tut tavia correr pericolo, e morirne talvolta anche col medica mento in corpo per traſeutaggine, e colpa de’ſoli medici ignorāti,e ſciocchi? Quante volte per beſſaggine degli ſcé pj Galieniſti ſono ſtate biaſimate le manne, le roſe, le caſ. fie, e anche l'aloé, di cui non ſi trova al comun parere mę. dicamento più innocente, e benigno? E ſe alcun prende rebbe cura di guarire ammalato, ſe egli nel cominciar d'in terna infiammagione, o nell'acerefciinento, e nel vigor di quella deſſegli ſcioccamente a tracanar chimica purgagio ne, qual colpa poi ſarebbe egli dell'arte, ſe coluimalamé te adoperandola l'ammalato n'uccideffc? Certamente niu. najper. alla qua: 51 na;perciocchè come Ippocrate medeſimo, e Galieno di viſano, anche le lor purgative medicine allora ſon peſtilen zioſe, e da non uſarſi; perchè a' mali precipitoſi,e ftraboc chevolmente imperverſiti non ha certamente la medicina più ſicuro conſiglio, che il guadagnar tempo con iſchermi readagio, e tenere a bada la foga del male, ſenza voler glili alla rincontra oſtinatamente opporre có purgative me dicine, masſimamente gagliarde; che alla zuffa,che in un medeſimo tempo due si oſtinati,esì poffenti nimici dentro dall'ammalato farebbono, certamente egli n'andrebbe cof peggio:neq;ulla alia fpes,diffe avveducillimaméte Cello, ir malis magnis eft,quã utimpetum morbi trahendo aliquis effum giat, porrigaturque in id tempus, quod curationi locum pre Stet:così parlavano que'buoniantichi, che ne'ſalafli, e nel le purgative medicineſolaméte credeano eſſer ripoſte le cu re de'più gravi malori; ma i moderni da'chimici addottri nati bé fanno co'rimedj valevoli, e generoſi,ına che non of fendono punto lo infermo, eche in ogni tempo ſicuriffima mente ſi poſſono adoperare darvi compenſo, ſenza ſtarſe neſcioperati, e neghittofi ad afpettare il ſoccorſo, che non è dalla natura forſe per venir giammai. Ma ciò da parte laſciando noi pur troppo veduto abbiamo nelle febbriche delpaſſato anno han malmenato, e quaſi abbattuto il Bor go Sant'Antonio,e altri luoghi vicini, effer così malaméte riuſcite le purgagioni, e altri ſomigliāti rimedi;perchè a grā ventura recaronſi poique' poveri infermi, che non ebber agio di comperarſi la morte a contanti ne'medicamenti,che uſavanſi; e ſtando alla bada ſolamente della natura,così sé. za rimedj la lor vita ſerbaronſi. E per cacer d'altri, il me deſimo anche eſſeravvenuto novellamente in Francia, rac conta l'Autor della giunta all'oſſervazioni di Lazaro Ri yerj. - Éfe egli è dannevole oltremodo, e di riſchio lo - Atuzzi cargli umori crudi, e non debitamente maturati, certamé te il medico ne farebbe da biaſimare, non l'arte, ſe contro i giuftiffimi divieti d'Ippocrate, e di Galieno s'inframmet. teſſe di purgare ammalato, in cui fian crudi gli umori ſex 2:2 en za enfiamento alcuno: in morbis quoquenihil eft magis peri culofum, quam immatura medicina,comechè non medican-. te, avviso Seneca; perchè ſeguendo i ſentimenti de' ſuoi maeſtri avvedutiſſimaméte in queſto capo Aleſſandro Maf ſaria, danna, e sbandiſcenelle febbril'uſo dell'Antimonio, come nocevole oltremodo agli ammalati: e allora, egli di ce maggiormente farſi a conoſcere il danno, che dalle purgagioni, oltre al convencvol tempodate ne fiegue,qua do più gravoſo, e di maggior riſchio fiè il male; concior fiecofachè nelle lievi malattie, che molto non piggiorano dal ſuo naturale ſtato l'inferino, poco nocimento ricever, certo egli ne foglia; perciocchè o ſe n'allunga il male,ficc me Ippocrate,e Galieno diviſano, o pursì poco cagionevol della perſona coluinerimane, che nulla il medico quan tunque accorto, ed eſercitato Gali, comprender mai ne puote. A torto anche vien biaſimata la Chimica d'adoperar fo laniente i minerali; e ben detto è a baſtanza contro la ſci munitaggine di alcuni,quanto ricca, e abbondevole di ine dicamenti ella ſia; c nel vero, ne l’Ericina ebbe mai,o l'Ar denna, o s'altra al mondo è più vaſta, e più folta ſelva,tã ti alberi, tante belve, quanto ricca, e abbondante è la chi. mica di cofe a’luoi medicaméti accóce;e prédöli a loro uſo, non ſolamente i minerali dalla terra,madagli animali anco ra, e dalle piante abbondantemente i rimedi ſi formano; perchè troppo ſcarſa, e mendica pur ſarebbe da dire la rapportata ſomiglianza; perciocchè quanto cuopre il Cies: lo, abbraccia l'aerc, nutrica la terra, e'lmarchiude, tutto alla Chimica giuridizion ſoggiace: e'l meno di che ella s'inframmette ſono i minerali; concioſliecofachè non abbia ſolamente in fua balia i falnitriji ſalicomunisi vitrioli, i fer ri, i rami, e gli argenti, c gli ori, e le gemme, comcchè di queſt'ultime coſe ſolamente i perfettiſſini Chimici, o icat tivi, non già i inczzani ſervir li fogliano;ma e radici anco ra, c tronchi, e frondi, e ſughi di cento, e mille infra lo ro diverſiffime piante, e anche tutte parti ſalde, e diſcor renti di tanti, e sì varj animali,di cui la Chimica i ſuoi me Yyy dica 538 RagionamentoSettimo dicamenti in sìvarie, e tante guife ordina, e lavora.: Ne perchè la chimica medicina ne' minerali talora s'a doperi,e s'affarichi, è per huom da tacciarne: anzi fom mamente da efferne commendata lo la giudico; concioffie coſachè non ſono i minerali altrimenti, comealcun di loro follemente ſognoſli, veleni, e toſſichi:anzi non poco in vero molti e molti diesſi all'umangenere giovano,e approdano; e ciò a tutti buoni ſcrittori aſſai manifeſto egli fi è, anche antichi, che liberamente, e fenza niun ſoſpettomettevan gli in opera, e così fchietti, comecon altre coſe meſcolati l'uſavano; il che ſenza troppa fatica durare agevolmente moſtrar potrei: maſſimamente, cheper tutti manifeftamé te ſi ſa quanto Ippocrate della ſquama del rame fovente fi ſerviſle; e Dioſcoride no conſiglia, e conforta a dar per bocca liberamente il vitriolo: e ne'tempi antichi anche s'a doperava il mercurio: e ancora a' dì noftri nella colica, e ne'vermi, e in altri ſimiglianti mali ordinaſi da tutti medi ci, anche a'fanciulli del lactime, ſenza ſofpetto dinocimé to alcuno;e ſe fra’minerali v'han di que', che velenofi fo no, ve n'haparimente di queſti, ed in maggior copia fra' vegetabili. Maſe egli avvien mai pure, che alquanti deʼnedicame ei de'Chimici,compoſti divengano fpoffati, e debili, egli ciò non dee a colpa della chimica aſcriverſi:ma de’poco av veduti artefici, e de’medici, i quali intendenti non ſono delle chimiche preparazioni, e ravviſar non ſanno quai mea dicamenti ſenza alcun preparamento fiano da porre in ope ra, e quali gli richicggano. E ſe divantaggio i Chimici da'vclenofi, emicidiali ſemplici ſoglion trarre ſalucevoliſ fimi antidoti, ciò loro a fomma gloria dee riputarſi, che ciaſcun di loro fuor d'ogn’uſo Pieghi natura ad opre altere, e frane. E ſe'l precipitato, e'l ſolimato, che potentiſſimi veleni ſono, cavanfi dalmercurio, e da altri minerali, non ne ſon però quelli da biaſimare, ne i chimici medeſimi, che gli compongono; concioffiecofachè anche l'oppio, e altres molte comunali medicine, avvegnachè rieſcan poi vele nofc Del Sig.Lionardo di Capoa 539 noſeall'opera, pur da ſemplici non mica velenoſi compon ganſi, ne perciò tanto quanto ilor fabbricatori ſe n'acca gionino: e ne balti ſolo al preſente fapere, che ciò non, lia ſpezial biaſimo della Chimica; e ſe da quella i pre cipitati, ci ſolimati fabbricaronſi al mondo, no fu già,per chè s'aveſſer quelli ad operar mai ad uſo alcuno dimedici na, ma per altre, e altre biſogne; ne perſona ſe non priva affatto d'intendimento per dover medicar giammai gli la vorò;perchè ſe quel temerario Bacalare aveſſe púto in chi mica ſtudiato, non avrebbe egli giammai ardito ad impor re agli infermi per coſa delmondo il precipitato, il qual da tucci buoni ſcrittori vien daʼmedicaméti sbadito, come ma nifeftiſfimo veleno;e ſpezialmére dal Quercctauo,có queſte parole:precipitatú in aqua furti à nobis omninò improbatar: 0 có quell'altre,ch'e' ſoggiugne:hæc, & fimilia effe Empiricorii fecreta, quæbuccinatorum inftar pro maximismyfteriis pro mulgant. Ne perchè i minerali lian da noſtra natura citra: nci, e rimoſi, dovrà ciò darne punto di briga; e ſe pur co tal ragione aveſſe luogo, dovrebbervi eſſer a parte anche i Galiçniſti in rintuzzarla, i quali non men deChimicime defimila pietra lazula,e l'oro, el’ematite, ci giacimi, e'l bolarmcnico, e le pietre giudaichc, c altre, e altre ſomiglia. ti medicine lovente adoperano. Ma lo per non darmene troppa briga ſervisõini al preſente di quelle parole del Tā.chio là dove d'un cotal balordo, che con ſimiglianti fanfa luche ftuzzicavalo così cgli al ſuo Oiſtio ſcrive: oppugnant, dice egli,medicamenta ex metallis parata, ideo quia non iis alamurfed; nec cornu cervi nos alit,neque uniones, aliaque pleraque. Quænos alunt impura ſuntimnia, do quefacilē mutationem ſuſcipiunt,fed quotidie agunt in balſamum na turæ, cum corrumpendo in fenium; labefactatis viribus noftri corporis facile illareficiuntur vegetabilibus; fed fixio illa in fixa; mineralia figuntſpiritus, purificant, & exaltant. E prima di lui Avdrea de'Mattioli, così del biſogno de’mi nerali ne ſcriſſe: ibi tum alibi, tã in chronicis morbis eſt ani: madvertendum, ubi tota malafanguinea in univerſo vena rum ambitu corrupta eft, & referta multorum morborum fe Yуу 2 minariis, tunc ii inquam morbi citra metallica devinci vix pollunt; avvegnachè egli poi faggiamente ne configli a non dovere i Chimici medicamenti adoperare colui che di chi mica pienamente non ſi conoſca; il che noi baſtantemente altrove dicemmo. At qui, dice egli, ejufmodi morbos ci tra ſcientiam res metallicas tractandi aggrediuntur, ii ple rumque re infecta cummagno dedecore, & fui, &artis me dicine defiftunt. Ma ſopratutto baſti recar qui le parole di GiacomoPrimeroſio Galieniſta di primo grido: Cauffa eft, egli dice,cur plurimi Chymica hec reformidēt;quia creduntur ſcilicet sti metallicis. Et fanè certum eft plurimos Nebulones, qui hoc pallio technas ſuastegunt, metallicis fæpè, &malè præparatis, & malèadhibitis uti; verum ut jamfupra dixi mus, eadem eft materia, & fubjeétum uperationis Pharma copæi utriuſque tàm Chimici, quàm vulgaris; neque minus vegetabilibus utitur Chymicus, quàm qui dicitur Galenicusze non guari appreffo foggiugne. Nonne maximè probanda eft ars illa, qua fi quandoiis utitur, variè, &eleganter pre parata,non integra exhibet? Ne meno è da dire, che perchè i foro fummi ſian peſtile zioſi, e nocevoli liano anch'eglino tali i minerali; percioc chè apertiffimamente veggiamo ſenza punto di danno il falnitro, e'l vitriolo, elfal comune alla giornata ufarli, e'l fal comune maſſimamente in tutte vivande da ciaſcun porſi; i cui fumıni certamente, come que d'altri,e d'altri minerali, nocevolilfinni fono. Pure non è coſa cotanto utile, e gio vevole al genere umano, che nonnepoiſa talvolta anches nuoceren Nilprodeft, quod non læderepoffit idem. Igne quid utilius? fi quis tamen urere tecta Cæperit, audaces inftruit igne manus. Eripit interdum, modo dat medicina falutem. Le ragioni poi, e le teſtimonianze dell'Eraſto, del Riola no, e d'altri sì fatti Galieniſti han canto dello ſceno,che da lor medeſime a baſtanza ſi rifiutano; e comechè per mani feſta, coftinata malavoglienza fianfi queſti ftudiati dimor der la Chimica, e ſozzainente lacerarla, e quaſi metterla 1 in fon Del Sig.Lionardodi Capoa 541 1 in fondo; pure non han potuto far sì, che ſtretti talvolta dalla propia coſciēza, o dalle nimiche ragioni abbattutis no l'abbianomanifeſtamente approvata. Così l’Eraſto medelia mo, che moſtroffi più ch'altro Galieniſta acerbo, e fiero ni mico della chimica, purnel proemio di quell'operc,ch'eico tro il Paracelſo fcriffe,nó potè no commendarla;e la ſcuola tutta di Parigi pur la permette,e l'adopera,ficome raccota il Riolano; il qual comechè nimico a ſpada tratta le fi dimo ſtraſſe, pur delle chimiche medicine,comeãcorfece l'Eraſto, ſerviſſzavvegnachè talora p loro ſcimunitaggine ad infeli cc fine gli uſciſſero. Ma côtro a’piacitori, e a'maladicéti Ga lieniſti adoperarono gloriofaméte le péne a ſchermo della chimica nelle loro dottisſime Apologie il regio Protomedi co Torqueto, e l'Arueto, e'l Baucinero celebri e famoſiſſimi maeſtri in medicina: e oltre ad infiniti altri il famoſo, e ben parlante Libavio nella ſua Alchiinia trionfante,di cuicon ) aringa di lode diſſe il Caſtelli: Alchimie dignitatem adeo re Kituit Libavius contra fcholă Parifiensë,ut nihil amplius addi polje videatur; ma ſopra tutti imalzi, e difende la chimica il ſottiliſſimo Borricchio, non men celebre, che dotto let tor di quella, nella famoſa reale Accademia d’Afnia; il qual sì fattamente rimbeccale ciance del Corringio, che nulla più. Ma quanto poco ſenno aveſſer facto i medici meſaneſi in proibendo l'uſo dell'Alcarotto, apertamente ſi vede dalla poca ſtima in cui vennetenuto il loro divieto; poichè non men,che prima in Melano, e altrove le genti tutte l'adope rarono; e oltre alla gloria molte ricchezze guadagnoſſi Vittorio Algoreto per sì fatto medicamento, il quale altro * non è, che il mercurio di vita;comechè p naſcõder sì caro fegreto il nieghino gli eredi del medeſimo Algoreti; e forte mi maraviglio, che alQuercetano, sì bene ſcorto nelle chimiche operazioni, e che tutto dì l'avea fra le mani, non veniſſe fatto ciò ravviſare. Ed è egli pregiato l’Alca. rotto, eziandio daʼmedici volgari, e Galieniſti, e per buo na, e giovevol medicina per tutto ſtimato; ma pur ſi vuos le in ufarlo aver riguardo a' tempi,alla quantità,e agli ama · malati; ne fi dee prendere ſenza conſiglio di medici faggi in chimica, e conoſciuti affai; perciocchè ſe da perſone dappocomallavorato folle, o foſſe pur ſenza riguardo at cuno preſo, certamente nuocer potrebbe, e a riſchio della perſona talvolta ancorcondurre; ſicome non ha guari, ava venne a un Barone d'alto affare, il qual per conſiglio d'un corale ſciocco,e temerario Galienifta avendone trangugis to ſoverchiamente, con acerbiffimi dolori, feno'l receva di preſente, certamente nemoriva. Ma di ciò ſenza dubbio, non n'è dabiaſimare il medicamento, ma la follia più coſto del medico, cheoltre al dover l'iinpone; e più quella dell' ammalato, che alla cieca, e ſenza riguardo alcuno ſe'l tra caima. E ben ſarebbe il migliore, ſe laſciando da parte i volgariGalicniſti sì fatti medicamenti,non s'inframmettel ſero púto di ciò, che non ſanno; e come cantò colui Velperfectèartem diſcant, vel non medeantur; Namfialiæ peccant artes,tolerabile ceriè eft: Hæc vero nifi fit perfecta, eft plenapericli, Et fævit,tanquam occulta, aique domeſtica peſtis. Ma noi luiluppati dasì fatte conteſe, trapaſſereino intanto a far qualche parola dell'antimonio, come di quello, ch'al noftro parlamento diede in prima cagione, L'ancimonio, che da alcunicertamente non fuor d'ogni ragione chiamato viene colonna, e baſe della medicina,egli sébra nel vero una corale ſtrana; e nuova ſorte di minerale di variege fra loro diverſe parti copoſta, e si lazza,e acerba, che ragionevolmére alle poma anzi che mature fiano è raf ſomigliata;imperciocchè tra per la troppo meſcolanza, che in ſe ritiene, e per l'inegual proporzione delle parti,che'l co pongono, non eſſendo potuto alla debita maturità, e per fezion di inccallo pervenire, così trameltato, e inal com poſto ſe ne giace. La ſua ſtrana natura ', c le ſuc maravi gliole qualità malagevolmenteravviſar ſi poſſono, non che per huom narrare; concioliecofachè quaſi Proteo de'minc rali in facendoſi dilui notomia, in tante, e sì fatte guiſc fi ſcambi, e traſmutische inviluppativi i più famoſi maeſtri della 1 Del Sig.Lionardodi Capos. 543, ikclla chimica, dopo molci, e diverfi argomenti, e ſperien ze, ſtupidi alla per fine, e d'ogni loro avviſo ricreduti ſi ri mangono. Ma perquanto col noſtro intendimento com prender ne poſſiano, due forri di zolfo par che abbia nellº Antimonio: l’una fiffa, e pura oltremodo, in cui le ţinture tutte,e i ſemi de'metalli e ſpezialmente dell'oro ſi rinvégo ao: pchè daalcuni degli ſpagirici filaſofati,matrice de'me talli vié chiamato l'Antimonio; l'altra fiè di zolfo dalla sé biáza del comun zolfo poco o nulla diverſa; perciocchè no filla, mainquieta y e volante, e oltremodo vaga ella è;per chè potentiſſimage:ſoperchievole nelleſue operazioni viene da ciaſcun giudicara. Havvioltre a ciò un cal mercurio me, tallico indigcfto, il qual corto più, che ſe mercurio vivo non foſſe, della natura del piombo alquanto ritiene;e as queſta parte, che certamente è la maggiore nell'ancimonio, alori la violenza attribuiſcono, e'l poter, ch'egli ha nell'o perare; anche havvi alcune parti arſenicali, in cui ſecondo. chè altri ne dicano, il ſuo veleno veramente ſi ſerba; c per fine havvi nell'Antimonio una cotal ſoſtanza groffase terre ftra, la qual della ſua matrice ſommamente participando, con quella inſieme,e con ſue particelle congiugoc,emelco la le parti arſenicali, e quelle del primo zolfo, c delmercu rio indigeſto, e del ſale ancora di natura vitriolato, che pur ven’ha: a cuila malvagità tutta, e'l veleno altri aſſegnò, che tanto all'uſo, e all'operazione ſconcio lo rende. Ma l'Antimonio crudo non inuove punto vomito, ne tanco, o quanto a colui, che'l prenda offender ſuole; perchè ne Galieno medeſimo, ne Dioſcoride, ne altri buoni Autori de'ſecoli addietro l'allogară mai infra’veleni, o nel catalogo delle vomitive medicine l'ānoverarono anzi Diofcoride medeſimo ne conſiglia, e conforta a toglier via la poſſanza vomitiva dell'Elacerio, con meſcolarvi deutro dell’Antimonio,e così temperandolo ammendarlo; percioc chè ſenza dubbio ha l'Elarerio più del veleno, che del me dicamento, ſe violento, e rigoglioſo il ſenciamo, che se vorrai purgare, ſono le parole di Dioſcoride, ove egli nar ra dell'Elaterio, meſcolavi altrettanto di ſale ed'Antimonio, 444 - 544 Ragionamento Settimo 1 quanto farà meſtieri,laſciandoall'altrui diſcrezione il divri Jarne la doſe: seisn &è mois diam vooõoty aj di autoữ xabagors. ei pea ούν θέλεις κα το κοιλίαν καθαίρειν, διπλάσιον αλών, μίξας, και είμ plaws over gewoon e Il che eglicertamentefatto non avrebbe, s'aveſſe mai, comechè leggiermente, ſoſpettato, non forte velenoſo, enocevole l'antimonio. Nicolò Mirelio poi, it qual con accuratezza non ordinaria accolſe inſieme le ri cette più nobili de’medicamenti, ch'adoperaſſer mai ne’té pi antichi ipiù famoſi medici Greci, annovera l'antimonio infra iſemplici dell’Antidoto,ch'egli del Gengiovo chiana. E Baſilio Valentini narra, ch'a' ſuoi tempi dell’antimonio ingraſſavanſi i porci: e nell’Efemeridi, o giornalieri dell'In ghilterra abbiamo, che tutto dì oggi i porci, le vacche, ci cavalli ſe n'ingraſſano,al peſo d'unadráma,e anche di mez za oncia per volta prendendone; e in molte contrade del noſtro Regno coſtumaſ a prender l’Antimonio dalle donne gravide in quantità d'unanocciuola, ſenza danno, o noci mento niuno, e'l chiamano volgarmente allegra cuo ré; e nella inedeſima noſtra Città in molte malattie uſali a ber l'acqua dell'antimonio con grandiſſimno gio vamento degli ammalati; e nella Francia, e anche altrove, l'Antimonio crudo, ſicome per M. de la Febure di ciò pie namente inteſo ſi racconta, fe donne tout les jours tout crud par la bouche fansaucun accident, emeſmes aux enfans à la mammelle: e que de plus on le met boüillir juſques au poids d'une demie livre dans les decoctions contre la verolle, &qu'on le met de meſmes en infufion à froid dans de l'eau pour ouvrir le ventre gepour ofter les obſtructions des viſce 1 5 Ma ſciolte da quegli intoppi, c da'legami, chea freno, e a bada la lor violenza tenevano le nocevoli particelle dell'antimonio, o ſaligne, o ſulfuree, o mercuriali, o arſe nicali, ch'elle ſieno (perciocchè grandisſime quiſtioni, ei contefe intorno a ciò infra'Chimici filoſofanti tutt'or vifo no ) non ſi può di leggier credere quantenoje, e ſconcisſi mi danni quelle recar ſogliano,con fondere, e diſtruggere, e liquefar non ſolamente le parti umide, ma le falde ancora del corpo umano'; riſvegliando anche vomitiimpetuofif fimi, e purgando per baffo,finattanto,che colvigor talvol ta lo ſpirito, e la vita miſeramente ne manchi. Ma tacer non fi dee, che ritrovali talora in qualche miniera, Anti monio, cheſenza niuna preparazione voiniti, e fluffi ſoglia cagionare; ſenzáchè'talora nello ſtomaco di colui, che'l prende, può eſſer coſa, che ſciolga da’legami lalparte ve Jenofa, perchè l'antimonio d'ogni miniera, parimente può ciò fare; e quel'è la cagione, che ſpinge alcuni autori a fa vellar così variamente della facoltà dell'antimonio crudo: Ma che che ſia di ciò, ſe per opera, e argomento d'avve dutiffimo maeſtro reprimuto alquanto, e rintuzzato il loc nocevoliſſimo veleno neſia, certamente allora valevole e Pantimonio a vincere, e ſgomberare ogni peſtilenzioſo ma lore, ove a tempo, e acconciamente, e con riguardo per huom ſi dea; concioffiecofachè non ſolamente egli ne pur ghi, cvuoti dentro, ma ſovente ancora diſſolva, e miglio ri, e ſgomberi ciò che nel corpo di maligno, e cattivo così nelle falde, come nelle diſcorrenti parti peravventura ritrova; il che certamente a niuna altra forte di medicamé to, o purganre, o vomitivo, ch'egli fia agevolmente ſi co cede. Nec conftat, dice il Zuelfero, ex vegetabilibus unicũ emeticum, grad nainore cum periculoexhiberi pifit, quàm aniimonium dextere, ac debitè præparatum; nunquam enim tormina ventris, convulhones, hypercatharſin, fluxumque nimium colliquativumcauffabit, etiam fi frigida ſuperbiba tur. E egli però quelta malagevoliſſima impreſa,e difficil molto, p mio avviſo, anzi impoſſibile affatto ad artificio umano; perciocchè la parte velenoſa nell’Antimonio ſi è quella, che muovelo ſtomaco a recere, e ſcioglie il ventre: la qual certamente quantunque volte vi rimane, non ſi può in modo alcuno accutare, che a qualche perſona alla fine,o in qualche tempo non abbia gravemente a nuocere. Nej per altroʻi Chimici autori ora in biaſimo, or in lode de'varj apparecchiamenti dell'antimonio purgante, o vomitivo fa vellar ſempre ſogliono, ſe non fe per lo grare, e ftraboc chevol riſchio, che agevolmente vi ſi corre. E quel ſapientiſſimo nuomo nella Chimicafiloſofia, e nella medicina pas rimente ſublime, e ſingolare Giovan Battiſta Elinonte ſolea dire: Antimonium,quandiu vomitum, aut fedes movet, mercurius revivificaripoteft, venena funt: non boni virirea media. Soglioſi dell'antimonio ſublimare i fiori;e ſi fôde egli an che in vetro, e in regolo; e'l mercurio di vita, e'l gruogo ancor ſe ne forma: purganti inſieme, e vomitive me dicine. E per cominciar dal vetro, il qual comechè in viſta di nulla ſi paja dall'ordinario vetro differente; pure comunicar ſuole minutiſſime, e però inſenſibili, e cieche particelle velenoſe al vino, o ad altro ſomigliante liquore, in cui per qualche ſpazio di tempo ſia dimorato. Egli è il vetro dell'Antimonio commendato aſſai da quel nobiliffi mo Vicerè dell'Olſazia Enrico Ranzovio, Strolago infie me, e medico famofiflimo, e Guerriero, e Poeta; e dalGeri neri ſomigliantemente, e dall'Andernachi, e dal Langio, e dal Mattioli è ſommamente lodato. Ma Pietro Severini d'altra parte grandiſſimo maeſtro in Chimica, e in medici na, forte il biaſima, e danna; dicendo, che avvegnachè in quello cotanto fuoco trapaſfato ſia, non ſe n'è però il buon giamai dalcattivo potuto ſeparare.E de'ſuoi ſentimenti an cora ſi fan feguaci altri, ed altri famoſi medici, e chimici con apportarne molti eſempli d'infelicisſimi avvenimenti. Vitrum antimonii, dice Giuſeppe Quercetani, quo bodie multi imperiti maximo cum damuo utuntur, perniciofum eft medicamentum; quod ſwoarſenicali fpiritu facultatem irri tandoexpultricem, perſuperiora, einferiora magna cum perturbatione ducat, evacuetque; quod ego probare nullo mom do poffum. Dal che moſſo Duncano Borrero anch'egli ri fiutandolo, affatto dalla medicina il bandiſce, dicendo: Vitrum hic antimonii fciens omitto, tanquam pernicioſum medicamentum; e'l dortisſimo medico, e Chimico Teodo ro Cherchringio parimente del vetro dell'antimonio dice, che comechè alcun guarito pur ne ſia, non eft tanti ifta for. tuita quorundam fanitas, ut propterea, vel unius hominis vita exponendafit periculo. Vidienim quum ager tantùm femiun. DelSig.Lionardo diCapoa. $47 Jemiunciam fumpfiſjes infafionis, eum poft ingenies vomitus, & fupercatharticasvacuationes,fubito efflare animă. Ata binc ille lachryma, hinc clamoresifti contra Chymicos inſur gunt; tanquamfiarti imputanda effet aliquorum Pſeudochya micorum impia temeritas, quorum nihil refert quotfuneribus impleant domos; modo unus; alterve fanatuseorum ebuccines fama, &illi audiant magni Doctorės, emungantque rufticis pecuniam. Ma avvegnachè egli medeſimo una cotaltem pera, ecorrezione del vetro dell'antimonio rapporti, la qualdice egliefſer ſicurisſima, e séza riſchio alcuno in ado perarlı; purecomeegli biaſima ſommamente', e riprova quella; che dal Ranzovio, e dal Mattioli, e da altri uſa vali, così verrà un tempo chi da qualche finiftro avve nimento moffo, dannerà, e riproverà anche la ſua. Mi Ιο quanto a me intorno a' vetri dell'antimonio non fa prei certamente che dirmene; non avédo mai fatta pruo. va di quell'avvertimento del Rolfincio, ove c'dice: quane do coctio inſtituitur, favellando del vetro dell'antimonio col vino bollico, fupernatan'scuticula arſenicalis aufertur;" E foglion certamente sì fatti veli naſcer da'ſali, comenel bollir del ranno manifeftainente oiſervali; perchè ſomiglia temente potrebbe dall’Alcali ingenerarſi il velo nel vetro dell'antimonio, e non dall'arſenico, ficome il Rolfincios avviſa. Ma che che di ciò ſia, in biſogna dicotanta confi derazione, lo conſiglierei i lavoranti ad eſſer anzi ſover chianente ſcrupololi, che no, e a ſeguire il conſiglio del Rolfincio, e a dubitare non forſe così foſſe, come cgli dices - Defiori dell'antimonio dal Zappata, e da altri cotanto commendati,così il teſtèmentovato Quercetano favella: Antimonii vitrum idem ferociterpræfat,quod ejus flos;idq; obe Spiritum quendam album, & arſenicalem ipfi infitum quě nec à floribusego exulare exiſtimem; quippe quos adeo afro citer corpus concutere, ac devexare foleant tìm vomitu, tùm dejectionibus, ut res non caréat periculo. E con lui anche ac cordãdofi Baſilio Valentini,dice pariinente i fiori dell'anti monio effer nacevolisſimi, e velenoſi. Z z z Mai Regolo anche dagli antichimedici imperocchè coa hoſciuto, ne fáno ſpezialmézione Dioſcoride,e Plinio (av, vegnachè vi fallaſſero no poco in giudicar, che quello altro non foſſe, che Antimonio in piombo cambiato ) è da’buoni Chimici avviſato per medicaméto violentisſimo ancora,ed oltremodo di riſchio. E ciò anche a' Galieniſti medeſimi fu purtroppo conoſciuto; infra’quali il Priineroſio,così dan nandolo nefavella; omnem retinet antimonii malignitatem, qua antea fub terreo excremento sopita latebat: edindi ap preſſo: fed quum omnes pravas, e horrendas antimonii vi res adhuc posfideat, poculum indè confeftum perniciofiffi mum effe neceffe eft; ideo puriores Chymici hoc ab ufæ me dico amninò ablegarunt. Ed un della ſcuola di Lazaro Ri verj parlando del Regolo, così per ſentiméto del fuo mae ftro ne ragiona: Calix chymicus toties in obſervationibus no Bris nominatus, communiterque adeo omnibus confectus non eft, ut nonnulli arbitrabantur, & arbitrantur ex regulo An timonii vulgaris. Exregulo quidem eft:fed tertii gradus, qui longè differt àvulgari; quamvis etiam multi boc utan zur non finepericulo bibentium. Ma il gruogo de metalli, col cui uſo cotanto avantaggiar fi potèl'imperial medico Martin Rollando, e in tanto ono re, e ricchezze formontare, è così chiamato dal Querceta no, perchè ſecondochè egli ne dica, dell'antimonio tutti metalli s'ingenerano, e fpezialmente l'oro, l'argento, e'l piombo: egli è comunalmente da’buoni ſcrittori il mens violento, e men pericoloſo infra le vomitive medicine an rimoniali giudicato.Ma perocchè l'Alcali del nitro nőben? anche tutta la parte velenofa dell'antimonio ha tolta e pur gata, o p me dirc legata:la qual certaméteè quella cheare. cer muove, ben li può di eſſo dire, che comechè per ope ra d'eccellente, e ſperimentata mano nel meſtier della chi mica temperato fi foffe, pure pofftan dire che L'ira s'intiepidi, ma non s'eftinfo perchè ſoſpettar fempre dee l'accorto, e prudentemedia co, non ne ll'adoperarfi,alcun ſiniſtro avvenimento ne ſe gua; perci occhè pure, comechè di rado fortir ne fogliono, Ed havvi un'altra malagevolezza nel gruogo, imposſibil quafi a ſuperare; perocchè quantunque con la medeſimas proporzione del nitro, e dell'antiinonio diſpoſto fia, c quá ¢unque con tutte le medeſime circonſtanze lavorato į pure, talvolta più;o men vigoroſo ſortir ſuole, e sì da ſe mede fimo differente, che in dubbio ſempre, e in timore delle ſue ſtrane qualità ne tiene, ne per accorto, e ſperimentato che l'Artefice fia, potrà maicome, o perchè ciò avvegna baſtantemente comprendere; ſenzachè cotalimedicamen ti recar fogliono talora uſcite copioſisſimedi ſangue, o la egli, perchè fi rompa qualche apoſtema dentro dall'huo mo,e con quello alcun vaſo grande ancora’del corpo: o che tra per la violenza del vomito, e quella del medicamento alcun altro ſe n'apra, e ſi roinpano, e ſquarcino l'interiora: oche partendofi dalle viſcere, e dibucciandofi la mucilag gine, la quale infra gli altri ſuoi ufi, a guiſa di veſte copré dole, difenderale dagli oltraggj de’ſali acuti, e pugnerec cj, o d'altre ſoſtanze, quelle ignude,e ſcoperte rimanendo, dal medicamento s'offendano: e rodanſi anche dalla me deſima violenza del medicaméto gli orli de’vaſi delſangue; i quali aperti, eſquarciati, comechè picciolisſimi, pure così numeroſi quivi ſono che ſgorgar oc può in ranta copia il fangue, quanto n'uſcirebbe per avventura dal rompime to di qualche vaſo ben grande. E comechè di ciò n'abbia parecchi eſempli; masſimamente nella noſtra Città; purs baſterammi al presēte rapportarquì una ofſervazione dell' avvedutis ſimno Vartone recata dal Gliffonio con queſte pa role: Huc referamus hiſtoriam, quam mihi communicavit clarisfimus V varton, mulieris cujuſdam, quæ à fumptu pharm macoafperiore in enormem fanguinis vomitum inciderat,cui, que ventriculum poft obitum vocatusaperuerat. Nulla com paruit vena, fivèrupta, five exefa; cæterùm in cavitate ventriculi adhuc nonnihil fanguinis reftitit; fiquidem multò maximam ejus partem ante obitum rejecerat. Fortè dum mi ratur unde ea fanguinis copia promanaret, dorfo.cultri inte riorem tunicam, ut penitiusreminfpiceret deterfit: boc facto innumera fanguinis pūčtula in ſuperficie deterfafenfimcomo pare Ragionamento Settimo parebant; ipfa quoque funica quaficutis derafa: cuticules 1. E che diremo noi de'copiofiffimi ſudorifreddi, e viſcoſi, ch'uſcir fogliono dagli ammalati per opera dell'antimonio sì fattamente lavorato i Certamente cotali ſudori,che chia man diaforeticizangofce,e noje, e ſvenimentirecar foglio no, e talora anche con toglier agl'infermi miſerabilmente la vita; avvegnachè cotali effetti non dall' antimonio fo. lamente, madalle manne ancora, e dalle roſe avvenir fo gliano, ed eziandio da altremedicine, che per comun conſentimento più ſicure, e piacevoli, e innocenti tenu te fono: memini non defuiffe, dice il Libavio, qui Caffia fumpta omnia pateretur, que illi,qui venenum hauferuns. Nedi ciò è daprender maraviglia; perciocchèil medeſimo veleno, che è nell'antimonio, è anche nella Callia, non che nella manna, e nelle roſe, e in altre ſomiglianti media cine; perchèſoverchiamente preſe, o fuor del convenevol temporecar ſogliono talora gli effetti medeſimi dell' anti monio. Neq;enim,dice il medeſimoLibavio,in favellando pur della Caſſià,parum acrem inde elicimus liquorem: tur batorem nimirumillum alui. E finalmente il mercurio di vita è egli vero, e legitimo parto dell'Antimonio, non men di quel, cheſiali il gruogo; comechè il Billicchio vanamente li perſuada eſſer quello operadel mercurio, non dell'antimonio. Ma egli è ſenza dubbio men temperato, emen gaſtigato del gruogo; e fe guentemente maggiorinoje, e moleſtie recar ſuolea'corpi umani per la parte maligna, e velenofa, che in eſſo preva le; perchè men certamente agli ammalatidar ſe ne vuole; che non ſi dà del gruogo. Ecomechè be fi poſſa in eſſo co tal vizio perarte.correggere, e ammendare, e più forfes chc da'volgari maettri non ſi coſtuma; tuttavia per quanto diligentemente per huomo lavorato ſia, temer fempre, e fofpettarne dobbiamo; ſenzachè il mercurio divita, come Cutt'altre medicine d'antimonio vomitive, ſovente imediči da' loro avvifi ingannar ſuole, o nulla, o ſoverchiamente operando. Ma non perchè dannoſi talora, e pericoloſi ad uſare co tali medicamenti ſiano, ſi vuol perciò dalla medicina l'uſo dell'antimonio affatto sbandire; conciofliecoſachè ben an che fabbricar ſe ne potranno nobilisfini rimedj dadover darſi ſenza tema di nocimento niuno anche a’vecehj e a'bā. bini, e alle donne groſſe, ficome agevolmente compren der ſi può dall'opere del Valentini, delParacelfo, e dell? Elinonte. E comechè non ſia impreſa da tutti il compor cotali poderoſi medicamenti, ma innocenti però, e piace. voli e di qualunque veleno difarmaci;non però di meno sér za troppafatica durarc potrannoſi agevolmentelavorarda chiunque mezzanamente uſato ſia nella Chimica, que'po chi inedicamenti, che vanno attorno; come il belzoardico minerale, l'antimonio diaforetico, e altre ſomigliantime dicine, nelle quali comechè attutato affatto,e ſpento il ves Jen ſia, pur sifattamente ligato ſe ne giace, Ch'a guiſa di leon quando fopofa: non ſogliono, anzi non poffono perpoter ch'elle abbiano, colle lor pungentiffime particelle offender giammai, ne ad huomonocimento alcuno apportare; non altrimenti, che innocenti anche in alcuni legni, e nellolio, e nella pietra focaja que piccioliſſimicorpicciuoli ſi giacciano,de'quali il concorſo, il movimento, la figura, l'ordine, e'l ſito formano il fuoco. Eben diſs’Io non effer anche nell'antimonio dia foretico eſtinta, e fmorzata affatto la ferocia; concioffieco ſachè fondédoſi quello inkegolo,cagagliardiffima forza di fuoco ſtaccadoſi allora gli alcali,o pur cábiádo sebianza, i quali il vigor del veleno affrenavano,e'ltenevano a badari ſvegliaſi di nuovo, e riforge la fua primiera,e natia fierezza. Quinci ſi vede,quanto dal ver fi diparta il Villiſio, il qual vuole, che l'antimonio diaforetico, altro non ſia, ch'unw ſemplice terra dannata, e che come tale ad altro e' non và glia, ch'ad aſforbire, ea dar luogo nelle ſue vacuità a que' fali acuti,chefogliono travagliar le viſcere: e che egli non abbia niuna facoltà diaforetica; ma ſe al Villifio foſſe ved nuto fatto d'avviſare i maraviglioſi effetti dell'antimonio diaforetico, certamente in altra maniera n'aurebbe favellato,comeche Pantimonio diaforetico ſi ſia veduto nellofte: maco d'alcuno non men,che la polvere di Sicilia, detta del Chiaramonte, e altre terre ſimiglianti,per la gran forza de faliivi dimorāti talora impietrarſi; il che però da béiſcor to chimico ſcanfare aſſai bene ſi puote. Maciò laſciando di parte ſtare: e'manifeſtamente fi comprende eſſer nell'anti monio la parte velenola fiſſa; e forſe arſenicale,e non come altri vanamenté s'avviſa, volante, e vaga. Ma ſe ciò è ve ro, potrebbono per avventura ritrovarſi nelle viſcere delle ammalato ſughi così potenti, che colla loro efficacia vale. voli foſſero ad operar quivi tutto ciò, che far ſuole violen tiſfimo fuoco ne'fornelli, ſciogliendo nell'antimonio diafo retico gli alcali, e riſvegliando la parte arſenicale ad ope rar dentro le viſcere la ſua uſata peſtilenza: e allora chin? aflicurerà dell’acerbiffime noje, e dolori, e ſtracciamenti di viſcere, che recar ſuol l’antimonio, non altrimenti che ad uſo de'fiori, o di vetro lavorato ſia. Così ſperimentiamo talora,che lo ſchietto, ed innoccnte mercurio, meſcolato dentro dall'huomo,coll'acetoſo ſale, che vi ritrova, gua ftali agevolmente, es’aguzza, a guiſa di violentisſimo pre cipitato; intanto chei medeſimi effetti di quello crudelmé te adopera; e ciò manifeſtamente ſi può comprendere dal le pillole del Barbaroſſa,e da’fumi, e dalle unzioni, e da al tre ſoinigliantimedicine. Ma poſto che lavorato per ogni verſo l'antimonio sépre nocevole, e velepoſo all'uman genere rieſca, non ſono però da biaſimare cento,e mille altri medicamenti chimici giovevoli affai, e falutevoli ſommamente ſperimentati.Ma qualunque pur fieno i violenti rimedi della Chimica medi cina, maggiori nondimeno, e più peſtilenzioſi aſſai ne ha ſempre la volgar de Galieniſti, ſecondo il ſentimento cos mune di loro medeſimi: Magis igitur familiare eſe medicis (dice il Primeroſio ) qui Galenici dicuntur, ideft qui veterē Sequunturdiſciplinam,validisfimis. uti medicamentis, quæ Chymici,aut raròin ufum adhibent, autſaltem melius pre parata. Nec verum eft à Chymicis omnia valentisfimo ignis calore præparari; fapillimè mitiffimus calor adhibetur. Sed præterea ipſe Galenus docet igne valido pharmaca plurimai acrimoniam, mordacitatem omnem deponere. Etcertum eft, egli poi ſopraggiugnc,arte hac fpagirica ditta, & fero ciſſima medicamenta edomari, & plurima alias venenata ademptis deleteriis partibus evadere cardiaca. Perchè an che ſecondo i ſentimenţi d'un sì nobile, e valoroſo Galie niſta, e d'altri affai,ch'Io non rapporto pernon tediarvi, gli ellebori, le colloquintide, gli elaterj, le ſcamionee, e al tri non pochi violentiſſimi medicamêti diſegnatine dall'an tica gróffal medicina, i quali già ella più forſe ad offende reinteſa, che a riparare all'umana ſalute,fin da barbaré có trade a carisſimo prezzocomprando recati avea, ora incr cè ſolaméte della Chimica raddolcito il natio amarore, e pofta giù l’nfata fierezza, Ambrofios præbent fuccosoblita nocendi. Aft ego, dice quel fedeliſſimo ſegretario della natura cotan te volte da noi, coniechè non mai a baſtanza commendato Gio: Battiſta Elmonte: aft ego volens paterno animo corri gere furiofam medicaminum vim, intelligo rerum vires pri ftinas manere debere, infui radicem introverti, vel fub ſui fimplicitate transformari in dotes illas ibidem latitantes clanculum fub cuftode veneno: vel de novo partas ratione additaperfectionis. Quopacto colocynthislaxativam,atque deletericam qualitatem introvertit; emergitque ex imo vis. reſolutiva, morborů chronicorum curatrix egregia. Id enim Paracelſus in tintura Lilii antimonii cum laude attentavit; filuit tamen, vel neſcivit fieri idimin omnibus prorſus anima tium, &vegetabilium venenis per falem ſuum circulatums: Siquidem omne venenum ipforum perit,fi in entia prima re dierint. E queſto è appunto quel veramente maraviglioſo artificio, di cui favellando Giovan da Bagnolo una volta diſſe: Generata naturalia inferiora loco durioris compaginis conflata, & alta magnifactione, propter duritiem nequeant abhominum mentibus diruiabſque magnorum philofophorum artificio. Perchè ritornando al propoſto di prima, è da co chiudere, utilisſime molto, e neceſſaric al genere umano Аааа effor Ragionamento Settimo 1 eller lechimiche medicine. E nel vero có quali valevoliar gometi poreron mai cotanti miracoli operare, eguarir ma li giudicati per addietro indomabili, e sfidanzati, l'Elmon, te, e'l Paracelſo, ſe non fe per opera delle chimiche loro medicine? Eglino certamente con queſto meſtier poteronſi guadagnare il glorioſo titolo de'inaggiori medici del mon do: e per queſto ſentiero in tanta altezza di pregia monto il Paracelſo, che ragionevolmente meritonne il famoſo no medimonarca della medicina. Ma oltre a ciò ſono i Chimici intendentiſlimi de'ſempli, ci, e della lor natura: e ben ſanno ſciogliergli a tempo cô trarne la parte inutile, e nocevole, e ſerbar folamente pus ra, e intera la medicinale: ne loro punto naſcoſi ſono i gra. di, e le qualità del fuoco, e gli ſtrumenti tutti, egli ordi gni acconci a lavorare, e'l tempo, e l'altre circonſtanze a ciò confacenti oſſervano. Quindi dal loro faggio, e avve durisſimo operare forgon poi tantiprezioſisſimi medicamé, ti: e fanno dal vino, e di altri vegetabili, e viventi, e miş nerali corpicavar ricchisſimielisliri, e olj,e tiņture, e fali, ed eſſenze, e ſpiriti ſottilisſiini oltremodo, e ſommamente penetranti, e valevoli a riſtorare, eadar dipreſente ripa ro alla mancante vita; e a richianare addietro i ſpirie ei vaghi, e fuggitivi negli sfinimenti, e nelle ſincopi, e ne più gravi, e mortali malori; in cui convien di preſente con prelto, c valevole argomento ſoccorrere. Nea ciò fare al tro che la Chimica efficacisſimamedicina è valevole, cbi ftāte; perciocchè a’ınali gravoli, e non agevoli ad effer vinci fembran certamente bazzicature i volgari, e comunali rią medj; ne a tuto ſenzadubbio le più ſquiſite ricette di Ga, lieno poſlono aggiugnere. Inde illa, gridaforte ſtupidito il principe degli ſpagnuoliGalienilti LodovicoMercati,pro dierant miracula in diuturnis malis,quaprofunda ele ſolens, diſtillatorum aque ardentis, quinie eflentia, auripotabi. lis, fi ſcuſi nel Mercati, ignorante dell'arte, la follia del preſtar credenza all'oro potabile: e la manchevole ragione, ch'egli reca de’mąraviglioſi effetti delle chimiche medici, ne, così ſoggiugnendo, Chymica enim arte fumma compan ratur Del Sig. Lionardodi Capoa. 555: ratur miſtis tenuitas, quæ duplieiter malis peritioribus profi cit, quia cedit ad imum, radiceſque mali penitus evellit, do quia cum toto affecto luco penitusconverfatur, &mifcetur; ità ut facilealteret, &devincat. E quindi ancor moſſo quel gran inaeſtro in divinità, e in ragion civile Martin del Rio, comechè egli per altro non ſappiendo bé la coſa, creda col Mercati, econ altri mal pratici del meſtiere; che ſia vera mente oro potabile quel liquore che alcuni chimici ſoglio no chiamartale: ſommamentela Chimica loda, e innalza, ei ſuoi valevoli medicamenti commenda. Quam ego arré, dice egli della Chimica, qua medicine adminiculatur janë laudo, &venerur, ut phyſiologie fatum præftantifimum, in ventricem auri porabilis, reinonminusutilis adſanandum, quàm ad alendum, ac quoad fieripoteſvitam prorogardam. Ma che cerco lo co raccor tutti quegli autori,chelodanole chimiche medicinezánoverar col poetasqual degl'alti boſelti a terra caggia Numero delle ſparſe aride frodi? trapaſſero dunque a diviſardell'altro capo propoſto, cioè a dire a clti lavorare, e compor le chimiche medicine fi convenga. - E in prima dico, che chiunquc lavorar chimici medica menti intenda, e meſtier di tuo riſchio, è di tanta confi derazione imprender voglia, egli della chimica filofofia, è della medicina ancora intendentisſiino eller debbà, eco noſcer appieno, e comprender lanatura, e gli effetti di ciò che s'abbia a comporre; concioſliecoſachè quantunque di tutto il chimico filoſofo aver piena contezza poſa', e cia ſcun medicamento ottimamente comprendere, pure ſenza lungo, e avvedutiflimo guatamento delle coſe,e ſenza ofat la medicina, mal fenza dubbio i ſuoi medicamenti faprà fabbricare. E ciò bene avviſando il Valentini, e’l Para celſo, e l'Elmõtese'l Quercetano, e'l Dornei, e'l Penoto; e'l Severini, e'l Crollio, etutt'altri famoſimedici Chimici, no ofarono mai confidare, fe non ſe allemedeſimelor manile compoſizione delle lor medicine; anzi que' due gran lumi della Chimica medicina, il Paracelſo, e l'Elmonce foven te d'alcuni lor famigliariforte fi biaſimano ', ch’ardiſſerò a comporre', e difpenfarc i Chimici inedicamenticon gravey Аааа 2 dan 55.6 Ragionamento Settimo danno, e riſchio deglinfermi, e con non poca taccia della Chimica. Ne per altro in vero in tanta infainia,e ſcherno cadde cotal meſtiere, e tuttavia ſi biafima, e fi vitupera dalle genti, quanto, che i ſuoi graviſſimimedicamentiin man tutt'ora di ſciocchiſſime, e temerarie perſone ſon mal menari. Perchè meritainente idetti valent'huomini, e altri Chimici aſſainon laſcian maidi continuo conſigliare,econ fortare i medici a non commetter traſcuratamête all'altrui cura, e talento i ragguardevoli lor medicamenti; dicendo alcuni di eſſo loro, coluiſolamente effer vero medico, che a ſue propie mani le ſue medicine ſi lavori. Quo circa illum demum cum Crollio, dice Criſtoforo Glucradt, verè genui num elle medicum cenfemus, qui medicamenta debitè cogni ta, non ratione, ut rationalesmedicifaciunt, fed propriaſua manupreparare, & à veneno, & feculentiis ſuis feparares repurgare, &ad puram fimplicitatem reducere didicit; eaque imperito non committere coguo; e prima di lui n'avea recata la cagione il Penoto, facilius eſt, R. fcribere, do ad im peritum coquumablegare agrotum, quàm in ipſa naturę pe netralia carbonibus, cineribuſque ſordidum ingredi,& pro mereindè magno fudore, quod ipſe egro exhibeat. E ſe'l lavo rio de' grandi antidoti licome, avviſa Galieno, propiamé tc al medico s'appartiene: perchè narrali, ch’i Romani Im peradori nel comporla triaca il ſervigio de’baſſi ſpeziali ri fiutando, a valorofi medici ſolamente il commetteſſero:Io non lo comead altrui, chc a medico il lavorar le Chiniche medicine impor ſi debba; perciocchè molte, e molte di quelle di maggior vigore, ed efficacia fornite ſono; perchè certamente maggiore avvedutezza, e intendiméto richieg gono, che la triaca medeſima,o qualunquealtro più famo jo antidoto, che gliantichi medici componeffer inai; eres la lor compoſizione malne ſortiſce, aſſai più certamente ne può di danno, e di nocimento avvenire; imperciocchè molti, e molti de chimicimedicamenti ſon così dilicati, e pericoloſi in lavorarſi, cheper ogni menomo fallo, o tra ſcutaggine, che vi ſi commetta, graviſſima certamente, e mortal rovina ne può ſeguire. Perchè l'incomparabile Resnato delle Carte così alla Principeffa Palatina ſua diſcepola ſcrivendo ragiona: Caurè etiam fecit celfitudo ſua, quod non luerit Chymicis remediis uti; nàm quantumvis longa expe rientia illorum vires comprobatę fuerint, tamen, vel minima in eorum preparatione, etiam quum optimè fieri creduntur, variatio, poteft illorum qualitates ità immutare, ut non re media fint, fed venena; ſenzachè, ſe'l medico non vorrà pu re apparare a fabbricare,e comporre le chimiche medicine, come egli potrà mai i diverſize iſtrani mutamenti avviſare, che alcune di quelle, eziandio ottimamente compofte, e apparecchiate far fogliono? come afficurarſi mai delle pe ricoloſe qualità dell'antimonio diaforetico? il qual ſecondo gli avviſi dell'avvedutiſſimo Zuelfero, quocunque modo fe và cum folo nitro, aut addito etiam tartaro præparatum fit, traétu temporis aëri expoſirum pravam, da quaſ maligram induit naturam, fumptumqueintrà corpus, cordis anguſtias, lipothymias, vomitufque, & fimilia prava ſymptomata pro creat. Come potrà egli mai d'altri medicamenti comedel gruogo del metallo, comprenderla vera, e giuſta quanti tà, ch’ad ammalato ſia da dare? la qual certamente non da altro li miſura, e conoſce, ſe non ſe dal ſaper l'operazione dell'Alcali, che in ſu le parti arſenicali dell'Antimonio più, o meno è fatta: e quella ſenza dubbio comprender non fi può, fuor ſolamente per iſperienza, e per pruova, con far ne ſaggio in darlo ſcarſamente agli ammalati, e con rite gno in prim?: quindi a poco a poco andarlo accreſcendo finattanto ch’alla ſua convenevol quantità giuſtamente ſi pervéga: oltre a queſto havviancora alcune virtù di medi camenti, che come di ſopradetto è, avvegnachè nella me deſimacompoſizione, e qualità de'ſemplici, cnelmedeſi mo tempo,e gradidi fuoco lavorate ſiano, pur diverſame te o più, o men vigoroſe, e valevoli ſortir ſogliono; in torno alla qual coſa non è tempo ora acconcio a filoſo fare,comechè molto da dir vi ſarebbe; ma pur come potrà egli tante, e sì fatte ſorti di lavorj comprendere,ſenza aver le in prima ne'fornelli, e con fottiliſſimoocchio ſpiate? co me poi diviſarne agli ammalati i medicamenti, lenza pun to conoſcergli? Ma 558 Ragionamento Settimo Maperciocchè infinitirimcdj a'medici pur s'apparten gono, iquali eglino nonpotrebbono certamente tutti fora nire feinza tralaſciar le viſite più neceſſarie degli ammalati; o altre lor bifogne: dico, chenon haluogo al medico cur ti rimedj a ſue man lavorare, ma que' ſolamente, che di maggior conſiderazione, e di maggior riſchio agl'infermi fono; commettendo ſolainencei medicamcnti piùmenovi li, e più ſicuria ' pubblici, e fedeliſpeziali, da lui per pruo va già in primaconoſciuti dattanco; eſſendovi anche egli talvolta in fu'llavorio per maggior ſicurezza, quando la biſogna peravventura il richiedeſſe. Ma convienmiritor: nar addietro; imperocchè caduto dalla mente miera di ri ferire a fuo luogo, quanto la Chimicas'appartenga fapere, a coloro, che ben intender vogliano gli ſcritti demedici; certamente non che altri, ma i libri medefimi de' Galieniſti la richieggono.E nel vero chi mai potrebbe séza riſchio di groſiſſimi falli,malfornito a tal meſtiere,pormano a'volu: mi d'Arnaldo, o d'altri antichi, e moderni Galieniſti? E ' no è peravvétura purtroppo manifeſto,quáti falli preli abbia no i troppo séplici, e feiocchiGalieniſti in iſpor l’opere di qualche autore per non eſſerſi da loro laputo diChimica perchè ragionevolmente Giovani da Bagnuolo, Galieniſta medico, e chimico eccellentisſimo, cosi querelandofi ſcla ma: Hoc voluit Ioannes Damafcenus in herbarum decoctio nibus; diſtillationibus, quamvis corruptê, di impiè intel bigatur abignorantibus diftillaturiam artem,nefciétibus evela bereelementa à fimplicibus, tantum affumuns aquam endi: viæ primam,oprojiciunt aërem, ignem; non fpretos à doctis medicis benèintelligentibus naturæ principia, & fecres ta: à doctisſimo viro Ioannéa Rupe feiffa: hoc voluit in selligere Ben Cene in tertio lib.fen. 20. cap. 18. de fingular. med. ad augendum coitum, ubi toquitur de commiſtione falis Strucorum cum vitellis ovorum, &patentiffimum eft falem no poffe confici, nifi perdiſtillationem; ducum prima aqua dif folvere cinerem, abluere primam aquam, terram albifi cando, ut docent fapientes. Ma prima di lui ciò ravviſato avea Antonio de Ferrariſuo maeſtro, c compatriota'nelle fue chiofe ſopra la cantica d'Avicenna. Vadiinoſtrando egli poi quanto lia meſtier la Chimica a 'medici per ben in tender gli Autori, con produrre in mezzo molti, emol ci altriluoghid'Avicenna male iſpoſtiso mal preſi daʼmedi ci, per non conoſcerli di chimica; e centoaltri ne potreme míonoi quì ſomigliantemente annoverare, ſe dal tempo ne foſſe permeſſo. Maperchè ho laſciato lo anche di rammo tare la Chimica efferoltremodo neceſſaria aʼmediciper po ter ben conoſcere, e ravviſare tante, e sì fatte guiſe dime dicamenti, che fabbricar tutto giorno, edifpenſar da mol ti, e molti artefici fi fogliono / intorno aquali i ſemplici Galieniſti in nulla fappiendoſi delle lor vircùconoſcere, ſom vente a' rapporti de’medeſimi componitori diaeceſſità les ne ſtanno digiuni affatto, e privi ritrovandoſi di qualunque contezza dichimica; ſenza la quale comporcocali medica, menti, ne in quali forti di malattie, in qual' età, in quales ftagione convenevolmente da uſar fieno, appieno compré der potráno:cõciofſiccofachè cotali ricette fovéte appreſſo i buoni autori s'incontrino, i quali appena ſi pare,che l'ab. biano ne'lor volumi groſſamente accennate, non che par. titamente ſpiegate, e deſcritte, coprendo a bello ſtudio, e inviluppando imiſterjpiù pregiati, e più profondi dellar te, per non logorargli yanamente infra le genti volgari,cu dibaſſo intendimento. E quinci poi ingannati da’loro fal fi avviſi impongono vapamente agli ammalati alcunisime dj, che chiaman prezioſi; facendoſi a crederc, che fien tali, quando veramente fon viliffime bazzicature, e fanfaluche di niun pregio; fe non vezzatamentele impongono per aver parte poiall'ingordiffime baratterie degli ſpeziali. Ma coſtuma fu mai ſempre de' medici il dar a divedereu effer di pregio grande i loro medicamenti; ficomc per ta cer di Pallada, teſtimonia Sereno Samonico: Multos pratereamedici componere fuccos Afuerunt; preciofa tamen quum veneris emptum. Falleris,fruftraque immenſa numifmatafundeso E per non dir nulla del file dell'oro, che cotanto alcuni ſopranmodo millantano: come potrà egli un buon medico diſpor 560 Ragionamento Settimo diſporſi mai ad ordinare al ſuo ámalato beveraggio di quel che chiamāſale d'argēto,ſenza pūto le qualità diquello fa pere? Oh ſep chimica conoſceſſero i Galieniſti giámai,che cofa ſia quel malvagio medicamento, certamente non ne ſarebbono cotanto a'ſuoi infermiliberali, perciocchè non è egli, ne eſſer può giammai ſal d'argento; ma sbriciolati, e ſottiliſſimi ſcamuzzoli del medefimo metallo uniti inſie me, e rappreſi dalle particelle di quegli eſaltati fali acuti, e peſtilenzioſi, onde già roſi, e ſgretolati furono; perchè cer tamente la medeſima qualità riſerbar debbono di que' fali, e'l'medeſimo effetto peravventura adopererebbono, che dal vitriol del rame far fi ſuole; perchè Giuſeppe Don zelli nell'arte della Chimica conoſciuto aſſai, così ne dice: Quanto al mioſentimentoſtimo vanità le virtù, cheſipredia canodel ſald'argento; e credo, che abbia indebolite più bor fe, che corroborati cervelli. Anzi tanto più velenoſo,e mal vagio cotal ſale fi è, quanto più del vitriolo del rame, o ď altro peſtilenzioſo veleno rode,e morde le viſcere, e ſpie tatamente ſtracciandole ſtrabocchevolmente ne muove a recere gli inteſtini, e l'anima; perchè con dolori acerbillimi correr ne potremmo anche mortal pericolo, ſe non che co tanto poco dar ſe ne ſuole, che agevolmente, o la natura medeſima, o altri medicamentiviriparano. E’lmedeſimoancora da dir ſarebbe dell'olio dell'oro, e dell'oro, che chiaman potabile, del qual certamente niun mai ſervir dovrebbeſi, ſe non aveſſe egli in prima per più d'una pruova baſtantemente compreſo non poterli quello in niun modo ne'primicri ſembianti ritornare, e prender di nuovo forma di metallo,laſciato avēdo affatto d'eſſer tale. La qual coſa da quel grā maeſtro dell'arte Elmõte ben con. ſigliata ne fu allor, che diſſe: ne metallicum ullum arcanu intra corpus accipiatis, nifi prius redditum fit volatile, din nullum metallum reduci poffit. Eche direm noidelle tinture de coralli, delle perle,del le quint'effenze, che millantar fogliono,degli ſmeraldi,de zaffiri, e de’rubini, cd'altre ſomiglianti gemme, le quali veramente,ne filoſofiche tinture, nc eſſenze non ſono con cior sor ciosfecofachè a farle tali, egli convenga in prima ſcioglier filoſoficamente que'corpine'primicris loro principj collo pera, e col conſiglio degli Alchaeft, e d'altri ſomiglianti li quori: le qualicoſe altro veramente non ſono, ſecondo il ſentimento d'alcuni valent' huomini, che Sogni d'infermi, e fole di Romanzi; e nõ men vane, e bugiarde, che l'eroiche sbracciate del Rc Artù, e lemillanterie di Lancillotto, di Triſtano, ed'altri crranti Cavalieri,che dimenzogneempion carte. E ſepur vere coſe, e non vanisſime dicerie elle fono, ficome al quanti guari autori han voluto pur credere, cgli però ſo 110 sì inviluppate; e cieche, e rimoſſe dal noſtro intendi mento, chemalagevoliſſimamente per huom ſe ne potreb beorma rinvenire; così, ſe pur lealmente ne diviſano i mae Itri, e Senatori della Chimica Repubblica, come il Valen tini, il Paracelſo, l’Elmonte, e altri, l'han ſapute co' loro riboboli, ed cninmisì bene avvolgere, e intralciare, che impoſſibile omai ne ſembra l'impreſa. Perchè lo ſciogli incnto, che comunemente far pe veggiamo, altro certa mente non è, ch'un minuto ſtrirolamento, o ſceveraniento delle parti, fatto, come è detto,da’ſaliacuti elaltati,e per ciò ſoinmamente velenoſi, i quali meſcolativi per entro, e forte appiccativi non ſe ne potrebbono per tutte le bucate del mondo toglier giammai; ſenzachè i bricioli dell'oro, o delle gemme,o d'altra ſomigliante coía dura, ſcioltije ſgre tolati, e a que’ſali appiccati, ceſano, e fraſtornano l'ope razioni degli Alcali; intanto che non potendogli quelli da tutre parti inſiemeunire, no rieſcono valevoli ad iſpogliar glidella lor natia acrimonia,con rendergli ottuſi affatto, e rintuzzati delle lor ſottiliſſime punte; ficoinenel tartaro vitriolato far ſogliono, ove sì fatto intertenimento non hí 110. E ſe i fali pur non vi rimancſſcro, ma per opera d'ec cellente, e ſaggio maeſtro già tutti interamente ne goin beraſſero, certamente iminuzzoli dc'corpicciuoli ſciolti, c sbriciolati non reggerebber pure a galla nuorando in ſu i pori delle umide ſoſtanze, ma tantoſto in fondo al valo sõ. mergerebbonſi; ne meno ſcioglicrebbonſipunto per gli Bbbb wwin 502 Ragionamento Settimo umidi aliti nel deliquio; come gli intendenti del meſtier fa vellano. E di ciò ben fi può far manifeſta pruova,conme ſcolarvi dentro l'Alcali del tartaro; concioffiecofachè bcn allor di preſente fi vegga l'argento, e l'oro, e le gem me calar giù, e far toſtofondaccio: comechè alcuni cotali paltonieri, e giuntatori de’noftriſecoli pur ſi ſtudjno di di moftrarne il contrario: circumfuranei fallaces,come dice il grand'Elmonte,qui aurum, & argentum furripientes aliud in borum locum fuppofuere; incontro a’quali giuntatori al trove riſerberommia ragionare. Ma de' lavoratori di sì fatti medicaméti,così dice lo ſteſ fo Elmonte, huomo per univerſal conſentimento di tutti letterati intendentiffimo di ciò giudicato. Pudendam pa riter deploro fimplicitatem illorum, qui foliatum aurum, gē maſquecontufas hominibusmagnaſpepropinant,magno ven dentesfuam ignorantiamfinondolum; quafi ftomachusinde, welminimum expectetfubfidium. Subtilior, ideoque magis condolendus efterror eorum, quiaurum, argentum,coralia, perlas, atque fimilia per liquores acidos corrodunt, atque dif folvere videntur;putantque hoc pacto intra venas admiffum iri, verè ſuasproprietates nobiſcum communicatura.Nefciät enim, ah neſciunt acidum venis hoſtile; ideoque peregrina diſſolventiúfuperata, & tranſmutata aciditate,ejufmodi me talla,& lapides pulveré effesatante; qui utcunquein tenuiffi mum pollinemfit redaétus,nihil tamen à ſtomacho conficitur, aut nobisfuas vires partitur. Ed Angelo Sala nel meſtier della Chimica ofercitato affai, e ferino, e veritiero ſcritto Te: omnes illi, ſclama, qui talibus portentofis promifis, quo rum ne minimum re ipfa præftare pofunt, multum gloriantur, Banquam.agyrta, &impoftores babendi funt; licet ab aliqui bus, intendendo egli di coloro appunto, de' quali noi ra gionato abbiamo: ſciocchi,e ignoranti della Chimica, qui facilè vanis perſuafionibus ducuntur, tanquam profundi ar. canorum naturæ fcrutatores fufcipiantur,magniquefiant, da contra ab iiſdem ingenuisfine oſtentatione quantum in artis poteſtate eft exhibentes negligantur. E prima di ciò avea egli detto: meritò fufpeéti habentur, qui primam dari materia philofophorum tùm ad quorumcunque morborum curationem, tùmadmetallorum tranfmutationem, multis, jiſque ad oſtë tationem, & fraudem comparanis rationibus probare conan tur. Qui ex auro, quod necfummaignis violentia, autul lo corroſivo cogi poteft, ut vim fuam metallicam exuat, se liquorempotabilemverum fine peregrina miſtura conficere poffe jactitant. Qui non folùm colorem, innatam tin &tu ram ex omnibus metallis, lapidibus presiofos, fed etiam fpi ritus, olea, & ſales non minus, ac exvegetabilibus fe fepa rare poffe profitentur: Qui ex.talco, corpore illu metallico, & incombuſtibili, balſamicum, &temperatumliquorem ad per petuam faciei venuftatem promittunt. Qui veram tincturam coraliurum ejufdem cumipfis coraliis coloris, faporis, &tem peramenti, majoris tamen virtutis ad Epilepſie, & Melan cholie curationem vendunt; du ex ipfis margaritis talē quin tamellentiam,quæ humidum radicale confumptum meliusquá ullumaliud fimplex,aut compofitumreftituat. E quancunque gli acuti lali ſoglian talor raddolcirli al quanto, o per me'dir mitigarhi accozzádoſi in modo co'mi nuzzoli demetalliſciolti, che le lor fottiliffimepunteaca biar fito ne vengano, come nel vitriolodel ferro agevolmé te fi può vedere; non,però di meno il più delle volte il con trario n'avviene; perciocchè le punte delle particelle, che compongono i fali, accozzandoſi talvolta con gli sbricio latiminuzzi de’metalli, vengon si fartamente a ſchierarſi, e comporſi, ch’a guiſa di pungentiſſime ricciaje, od’aſpri riccj fieramente aguzzandoſi, ed arruffandoſinefquarcia no le viſcere ', e con mortali punzecchiamenti talor n’ucci dono; ficomealla giornata nel ſoliinato, e nel precipitato, e achenell'oro ſciolto p l'acqua regia avvenir veggiamo. Perchè l'avvedutiflimo Chimico Ofualdo Crollio, dicoral oro favellando, dannandone ſommamente l'uſo,non datur, dice, illo nocentius toxicum. Ed io porto pur ferma opi nione, che da sì fatti medicamenti, ſe non ſi deſſero tanto miſuratamente, e a ſpiluzzico, non nien gravi, e manifeſti danni ſeguirebbono, che dal ſolimato, e dal precipitato avvenir ſogliono; perchè non ardirebbono imedici ſcioc Bbbb 2 chi, c 564 RagionamentoSettimo chi, e ignoranti, ſe nella chimica eſercitati foffero, cotali medicamenti, anzinocevoliſſimiveleni, a'loro ammalati per cagion veruna imporre; e comprenderebbon pure che corali, che chiaman riſtorativi, in luogo di dovere agli in fermi sfidati lc ſmarrite forze ravvivare, inaggiormente gliele abbattono. E ſappiano pure, che ſecondochè nes dicano i più veritieri Chimici, più agevole aſſai è a fabbri car di nuovo l'oro, che'l già fatto diſtruggere. Ne è dacredere, che quell'olio d'oro tanto celebre, e famoſo in Portogallo, curi, e ſaldi le ferite con altro, ches co'ſali roditori, ed acuti dell'acqua regia, che if diffolve; perciocchè corrugando quelli, e riſtrignendo i vaſi acquo fi del noſtro corpo, nó fanno alla ferita umore alcuno trape lare; perchè gli ſpiriti de ſali frizzanti, e lazzi la virtù dell' olio dell'oro, o ſia egli oro potabile, è certamente da attri buire; che per altro, ficome diceva colui, l'oro sì fattamé. te ſciolto troppo ſpoſfato, e di niun momento ſenza il fal roditore egli riuſcirebbe: ma affai a ingordo pregio paghe rebbeſi quel poco d'utile, che rade volte ricever fe ne ſuo le, ſe paragonafial riſchio, in cui la vita del malato mani feftamente incorre. Ne altrimenti è da credere degli ap parecchiamentidelle perle, de’coralli, e dellc gemme; perocchè, come di ſopra detto è, sì fattamente nel loro Atritolamento gli acuti fali vi s’appiccano, che per quindi torgli vano affatto, e inutile ogniſtudio riuſcirebbc.' Emi ricorda pure eſſer capitato una volta alle mani del Donzel li un talmagiſtero di ſmeraldi, che manifeſtamente di que' ſali, onde compoſto era, putiva; e quelvalent'huomoall? aperto riſchio della perfona colui ſottraffe, che di preſente predere il doveva. Perchè i buoniChimicisépre dal far co tali apparecchiamenti ſono ſtati oltremodo guardinghi; e'l Gluctradio medeſimo ne'cométi, ch'ei fe in fu'l libro delſuo Beguino, forte gli biaſima, e danna. Anzi quantunque il Cratone nel meſtier di cotali medicine ragionevolméte da ſeguitar non fia; non però di meno in ciò, chcnarra delle perle, egli ſenza dubbio ſembra dir vero. Acetum radi catum, ſon ſue parolefua, acrimonia, & vi corroſiva, atq; cauſtica non modo margaritas, verum alia etiam diſolvere; &in cinerem quafi redigere, atque quemadmodum Chymiſte loquuntur, calcinare polje nemini dubium eft. Huc autem no eft fpiritum margaritarum elicere, fed totam earumfubftan. tiam corrumpere. D.Vaoylelius ſenior mihi narravit Epiſco pumn Vratislavienſem Gaſparem Logum, magiſterium hocper larumperſuaſum à fratrefepèporrectum à Paracelfifta quo dam ebibife, atque eo demortuo tunicas ventriculi nigras, egy corruptas apparuiſe. Eodem eventu ufam effe Marchionis Iohannis conjugem, in qua ventriculi tunicæ planè fuerunt erofa. E ciò certamente avvenir debbe dal non aver ſapu to il componitore di quellavorjo qual cofa apprèffo'l Para cello ſia veramente l'aceto radicato, e dall'averſi egli ſervi to in luogo di quello d'un cotal liquore minerale oltre modo acuto, e roditore. E quantunque diciò per avven tura non ſi poſſa ne'magiſterj delle perle, e decorallifac ti per opera d'alcuni piacevoli fali, o liquori vegetabili dottare,tuttavia comechè ſi cõfacciaio a qualche āmalato, pure in molte,e molte malattie comuneméte ſi dánano;per chè in luogo d'abbeverarſi di quel ſale acetoſo, che nelle noſtre viſcere calor ritrovano, accreſcendolo maggiormen te, le cagionidelle inalattie ne multiplicano. Ma chi baſtevole ſarebbe giammai a raccontar le frodi, c le baratteric, che in sì fatte materie tutto giorno com metter fi fogliono? Ed è egli recente ancor la memoria in queſtaCittà di quel Polacco, chevedeva a carisſimo prez zo lo ſpirito del nitro per l'Alcacſt; e di quel gran Barbar ſoro Ciciliano, ilquale con ſue ciarle, e giunterie molti, e molti ne preſe faccendo Calandrini gli huomini, e dando a diveder loro l'elitropia fu per lo mugnone, vendendo, e di fpenſando la tintura del verderame per quella degli ſme raldi, c'l biſmuto calcinato con acqua forte, e ſciolto, co me dicono, per deliquio, in luogo di veraciſſimo latte di perle; e f quel che minor male certamente era ) Peliſſire di propierà per balſamo di Criſto, e la cintura del Chermes per quella de'coralli. Così bé ſapea falſeggiar sì fatte ma raviglie, come colui, cui fa dire il noſtro Dante la giu nella: decima bolgia dello Inferno: Sì vedrai ch'Io fon l'ombra di Capocchio, Che falfaili metalli con Alchimia: E ten deiricordar ſeben, t'adocchio, Com'Iofui dinatura buona foimia. E non ha guari di tempo; cheda qualche malvagio fpe? ziale comunemente vendevali (edimedici pur l'imponeva no a'loro infermi ſotto nome d’eſtratto di caffia ) la caffia medeſima, ineſcolatovi dentro gutgummi: e queſto mede fimo pure meſcolar ſoleva nell'eſtratto del Rabarbaro per renderlo maggiormente efficace, e vigoroſo, con quel dá no, e nocimento de’miſeri ammalati,che immaginar poſfia mo; e gli ſcimuniti, e balordi medici ignoranti affatto dela la Chimica, ingaonacine reſtavano,giudicando ſcioccamé te maggiorſempre, e più vigoroſa negli eſtratti l'efficacia dellemedicine dover riuſcire. E ſomigliantemente dall'ignoranza della chimica anco ra avviene, che i baccelloni, e ſemplici medici credendo di foverchio agli Artefici, veggonfi tutto dì mandar fuora varie, e diverſe moſtruoſe, e ridevoliricette di medicines, le quali o non inai fi videro al mondo, o folamente ne’libri di poco pregio, o dalle bocche, o dalle penne di chi trop po lor crede furono appreſe; ma quanti danni ne fian ſegui ti a’poveri infermi, chi potràmairaccontare:Dirò lo fola mente, ch'un celebre Galieniſta de'noftri tempi per aver lerro forle egli il Tirocinio delBeguino, o altro ſomiglia te libro di Chimica, ftimandofi egli già gran maeſtro in quella, preſe ardire d'ordinare a una cattivellainferma lo fpirito del nitro volgare fchietto; e comechè lo ſpeziale tá to quanto intendente della biſogna a tutta ſua poſſa il con traſtafle, pur colei preſolo, dopo acerbilliini dolori nabif fando, e rabbiando fe ne morì. Ma di sì ſciocche, e irra gionevoli ricette ben ne potrei Io un lungo catalogo qui diviſare, ſe non che per troppa modeſtia me ne taccio; temendo non diciò ſe n'adiraſſe alcuno, come di fallo per avventura da ſe maffimamente commeflo; ſenzachè v'ha perſona, ch’avendonc finora un lunghisſimo ordine intel R 1 iuto, ne, futo, infra non lungo tempo forſe divolgandolo, farà intors, no aciò la vaghezza de'curioſi interamente paga. E dall'ignoranza della Chimica medefinamente avvic che tutto di daʼmedici il ſale del vitriolo ordinar ſi co ftumi; il che certamente non avverrebbe, fe ſapeſſefi qua to eglioltremodo malagevol fia il comporlo; e che gli ſpe ziali in vece del ſale del vitriolo, dar fogliano il vitriolo medeſimo bianco, o pure il vitriolo riprodotto dal capo: morto, ſicome dicono; il quale talvolta aſſai più del vetro medeſiino, e de'fiori dell'Antimonio violento ſuol riuſcire; cagionando acerbillimi dolori nelle viſcere, e talora anche manifeftamcnte uccidendo. Così non ha guari di tempo per pochi granelli di cſſo moriſli in Caſtel nuovomiſerabil mente rabbiando Gio:Battiſtade'Benedetti ftrolago di gra grido. Ma i noſtri ſciocchi, e baccelloni medici immagi nando di porre in opera un benigniſſimo, e piacevol medi camento, in luogo di quello un crudelifimo, c micidial ve leno ne vengono talvolta ad ordinare. E ſon' anchei medicinegli ſpiriti de'corpi vegetabili da? mueftridiſtillatori, ſommamente beffati; perciocchè colo ro cavar gli ſogliono per limbicchi di rame con gravilli mo danno di colui, che prender gli dec; conciolliecoſa chè la flemma di que' corpi formentati, gravida di quel ſale acetoſo, che non mai partir ſe ne può, trae ſoven te qualche nocevol particella della campana, e con la ſua mordacità tanto quanto la rode, e la ſminuzza. Quinci poi a poco a poco, ne l’huom ſe nc può in prima avvedere,[con volge, e morde le viſcere, e diſtempera il corpo, cagione vole oltremodo, e difettoſa l'economia di quello renden do. Ma veggo Signori che s’lo diſtintaméte narrar vi volei gli errori tutti ne' quali incorrono i medici p nó ſaper pūto di chimica troppo lūgo, e ſtucchevole ne diverrebbe il mio ragionaméto; perchè ritornando di nuovo ad avvercirglin confortargli, e ſcongiurarglia non inframmetterſi d'impre ſa di tanto riſchio, fe pienamente non ne fan riuſcire, dico di nuovo, che laſcjno da parte ſtare le pericoloſisſime medicine della Chimica, e ſolo alle lor menovili, ccomunali attendano: Ludere qui neſcit campeftribus abftinet armis; Indoctuſque pila, diſcive, trochive quieſcit, Ne ſpiſſa riſum tollant impunècorona. E perchè dirò lo non reſterà anche un medico della Chi mica ignorante d'ordinarchimichemedicine?masſimamé re, che non ne fieguono le ſcherne di lui, ma la morte de gli infermi; perchè a ragion lagnavaſi il Sennerti d'alcuni maeſtriScimmionide'ſuoi tempi, i quali, com'egli dice, quum rerum Chymicarum planè ignari fint,ne tamen Chymi cis aliqua ex parte inferiores videantur, chymica medicame ta, quorum vires, & præparationis modum ignorant, fatis periculosè ufurpant. Or che direbbe egli, s'ancor vivendo vedeſſe la tracotanza del noſtro ſecolo, e ſcorgeſſe pures in queſta noftra Città, in queſto Regno non eſſere ſpeziale anzi no eller barbiere, non eſſer cerrerano,non doniccico: 1a, che non componga Chimicimedicamenti:non effermc dico, che non gli ordini, appena che ne ſappia il noine, o bene, o malc, in tutte ſortidimalattie? Anzi, che direb be egli pure, ſe vedeſſe cotali Squaſimodei de'noftri tempi andar tronfj, e pettoruti biaſimando la Chimica in cotali, che forſe ſaggiamente, e con prudenza l'adoperano, quan do eglino ignoranti, e non punto intendenti di quella più ch' alcun' altro poi follemente delle chimiche medicinc fi ſervono? E comechècotalimaeſtri zucche al vento diſa per tutto miliantino; pur nulla conoſcendoſidella vecchia, e della nuova medicina, abborrano, e meſcolano alla groſ ſa il tutto, con danno, e rovina di chilor crede. Ma per favellare appunto de'tempi noſtri, dice l'avve. dutisſimo, eingegnoſisſimo Roberto Boile,Obfervo noviſ fimis annis Chymiam ceptam efe (uti meretur) à viris doctis, quiprius eamfpreverant, excoli; ejuſquefcientiam à pluri bus, qui ipfam nunquam coluerunt, arrogari,ne eam ignora. re exiſtimentur. Vndè faftum quodplures Chymicorum de rebus philofophicis notiones fumptæ fint pro conceſis, atque in uſum verſa; & fic ab eximiis admodum ſcriptoribus,tiim phyſicis, tùm medicis adopsate. E finalmente anche ſe alla medicina non foſſe meſtier la chimica, a che ragunarſi a giornate tāti parlamenti, e tante ſcuole di Chiinica nella Germania, nellaFrácia, nell'Inghil terra, e in altri molti famoſisſimiluoghi d'Europa? A che tanti valentisſimi medici (de'quali alquanti più famoſi Ga dieniſti per brevità ſolamente rapporterò ) avrebber durate tante fatiche, ſparſi tanti ſudori, vegghiate tante notti per imprenderla, per appararla? E per racer d'Avicenna, di Rali, di Meſue, d'Abulcafi, e d'altri famoſi medici Arabi, e ſomigliantemente di Ramondo Lulli, d’Arnaldo da Vil lanova, e d'altri di que'barbari, e infelici tempi: quanto ſudor vi ſparſero Giovanni da Bagnuolo,Gio:Battiſta Món tano: Giacomo Silvio grandiffimo parteggiano diGalieno, Giovan Fernelio, Corrado Geſneri, Teodoro Zuingero, Andrea de'Mattioli,Gio: Giacomo Veccheri, Gabriel Fal loppio, Felice de' Platteri, Martin Rollando, Anſelmo Boezio, Girolamo Cardano, Giulio Cefare della Scala, Gregorio, e Daniello Orftio, Pietro Caſtelli, Marco Aure lio Severini, Daniel Sennerti, Girolamo de'Roſli, Andrea Cefalpini, e Giovanni Eurnio, e Giovan Cratonc? il qual, come alcun'altro deʼmentovati, comeche con ogni sforzo in prima ſtudiato li foſſe di contraſtare, e abbatter la Chi mica, pure alla per fine tratto dalla verità volle appararla, e ſeguirla; e introduſſe in Vienna, com ' egli narra, nel la Corte Imperiale molti ſalutevoli, e nobili medicamē. ti; perchè poi ne fu da altri medici fieramente perſeguita to, e biaſimato. Ed egli ſembra certamente ſventura ſin golar della Chimica, fe pur egli non è anche di tutt' altre cofe grandi, e magnifiche: poichè non s'arri fchia alcun giammai a tacciar coſa, di che pienamente non ſappia, e non ne ſia in prima a baſtanza informato:ma folo la Chimica fi biaſima, e s'accagiona da chi men n'in-. tende; e giugne a tanto l'invidia,e la malavoglienza de'bef fardi, che con arrabbiati morſi fan lacerare empiamente un meſtier,dicui appena fanno il nome.: Machi baſterebbe giammai ad annoverar tutti coloro, Сccc chc 570 Ragionamento Settimo che le chimiche medicine adoperano? certamente non è medico a'tempi noſtri, ch'abbia fior di ſenno, che per be ne ciò fare, con ogni ſtudio diligenteméte nó appari la chi mica; e ſi è ciò ſolaméte vantaggio della noſtra ctà, o della noftra fioritiffima Italia nella quale anche a'tempiaddietro la Chimica da tutte genti,che tanto quáto n’ebber contez za avidiſſimamente fu ricevuta. E Pier Caſtelli ad un co tal meſtolone, che inutile, e ſoverchia a'medici giudicava fa, fciat,diſſe, in Germaniamedicină exercere Chymiæ igna rum non poffe, &vixin Gallia, & in Italia; e'l teſtè men tovato Daniello Orſtio: encomia Chymie non opus eft, ut hic recenfeam: quia verum eft, quod habet alicubi Heur nius: ceſpitat, jam profecto fine hacarte medicina. E prima dicoſtoro avea già detto il Mattioli: medicum abſolutum effe non poſſe; immo nec mediocrem quidem, qui in Chymica non fit exercitatus: nella qual ſentenza fu dopo ancora Da niel Sennerti, e in varj altri luoghi l'accennato Caſtelli, tant'altri valenti ſcrittori, Ch'a nominar perduta opra ſarebbe. Ho traſandato a bello ſtudio di avviſare quanto l'uſo della Chimica ſi diſtenda nella maggior parte dell'arti più curio fe, e più utili al genere umano: imperocchè l'acqueodori fere, gli olj, tanta varietà di liſcj, che lavoranſi per orname to delle donne, le gioje artificiali, che dalla Chimica, qua fi emula della natura produconſi, la varietà de'colori, che formanſi per uſo della pittura, le paſte da indorare, e lac que da partire i metalli, che continuamente adoperanſi dagli Orafi, tutti ſono effetti, coperazionidella Chimica; delle quali la ſola operazione della menzionata acqua da partire i metalli, diè cagione di tanta maraviglia a quel grā lume delle buone lettere Budeo, che nel terzo libro de Af se, ebbe a dire: hujus eft id artificium, ut vi aqua medicata, quam Chryſulcam appellant,quantulamcunqueauri partem argento, aut cuivis metallo illitam, aut confufam,nullo di Spendio abſtrabat, ita ut inauraturis nibil jam depereat mă do, niſi quod ufu interteritur. Res omnino fupenda auri ar gentiquequotamcunque portionem ex ære eximere, etiã, quod magis mireris manente vafculi forma quaſa interdum, a inani, veluti quadam idea à materia abſtracta. E l’Alciato ammirò pariinente la medeſima acqua in chiolando il teſto della legge Idem Pomponius, S. fed fi D. de rei vind. nella quale ſi dice, che'l rame miſchiato con argento non può ſepararſi,e però nõ vi può aver luogo la vindicazione, qual dicono: onde e' ſcriſſe potuit hæc sētētia Vlpiani têpore obſer vari, hodie forte aliud erit, etenim inventa eſt ars,qua Chry ſulcæ aqua viaurum à quocunque alio metallo fepararipoteft, cujus rei quamvis pauci ſintartifices, vixque finguli in ma gnis Civitatibus, cum tamen ſeparatio fieri poffit, apparèt non effe fuprafcripta rationi hodie locum. Ma cotali brighe a'cervelli più ozioſi de' noſtri laſciana do:poichè la chimica eſſer così giovevole, e oltremodo ne cellaria alla medicina baltevolmente è detto, trapaſſeremo ora a diviſare delle ſtrade, perle quali aggiugner ſi poſſa alla contezza di sì nobil meſtiere. Primieramente colui che nel faticoſo meſtier della Chimica eſercitar ſi voglia, conviene, che non ſolo, comc Teobaldo avviſa, ſia nel latino idioma ben addottrinato: ma d'altri, e d'altri ancora egli abbia conoſcimento:concioffiecoſachè in molte lingue del la Chimica i volumi ſiano ſcritti, e con tanti eniminio eri boboli inviluppati, come altrovc dicemmo,che ben richie dono ſottiliſſimi, c.alti cervelli per iſpiegargli: Ea fuit om nium hactenus invidia, dice di lor querelandoli Geremia Bartio, idque præpofterum occultandi ftudium, ac labor, ut non tantum à fe inventa artificia ſpagyrica, tanquam eleuf, na facra celarint: ſed veterum etiam arcana, fimpliciori, apertiorique orationis genere propalata, impofioria perplexi tate, do notarum hieroglyphicarum obſcuritate, in tenebras ipfis Cimmeriis, & Ægyptiis denfiores conjecerint. E oltre a queſto deeil Chimicoper lo ſciogliméto e per l'inneſtamé. to de’naturali corpi aver diligentemente ſtudiato in fiſica, e conſeguentemente in Geometria, e in tutte altre ſcienze ad imprender filica ſommamente neceſſarie; ſenza le qua li mal certamente può egli il ſuo intendimento fornire,quáa tuinqueavveduto fit, e valoroſo aſſai: così quel famolin C cc c 2 mo medico; e chimico Arnaldo da Villanova: quicunque ad hancfcientiam vultpervenire, &non eſs philofophus, fa tuus eft; per tacere il Morieno, e altri. Maconviene oltrº a ciò,che per internarſi nelle cupe, e profonde ſpecula zioni della natura, ne' tre vaftiffimi reami di quella con ra pidiffimo ingegno traſcorra, e molto in eſli ſpii, molto co prenda, e avviſi tutte quelle coſe, ch'e' continuo aver dee tra le mani, e vada pure per inveſtigare nuove coſe; cer cando per lande, e per valli, e per colli, e per fiumi, e per nuovi mari Fior varj, e varie piante, erbe diverſe, c oltr'a ciò augelli, e peſci, e altri infiniti animali, e minic re, e gemme, e altre, e altre fatiche a sì lungo meſtiere appartenenti volentieri imprenda, come già fecero que chiarisſimi lumi dell'arteRamondo Lullio, e Teofraſto Pa racelſo. Oltr’a ciò egli è di meſtieri al chimico eſſer otti mamente avviſato della natura, e delle qualità di tutti gli ordigni, e ſtrumenti del meſtiere, e ſopratutto del fuoco; € fottilmente anche comprendere checo’ſemi di quello sé premai ſi vengono ad accoppiarealquãte particelle, o fali gne, o d'altre ſorte di quelle coſe, che ſi lavorano; perchè poi vengono oltremodo a variarſene gli effetti, e l'opera zioni delle chimiche medicine. Macertamente Nõ è pareggio da picciola barca, e troppo fuor dimiſura n’allungherei il ragionamento,fee tutto ciò,ch'ad un perfetto Chimico abbiſogna recar quà partitamente lo vi volesſi; ſolamente non laſcerò di nuovo d'avviſar coſa importantisſima a mio credere a cal meſtie re: ed è, che il voler da’ſoli libridegli autorila chimica ap parare, è impreſa oltremodo malagevole,e dura affai,mal ſimamente a colui,cheper la filoſofia, e per la medicina ſervir ſe ne yuole. La qualcoſa, ſicome dicemmo,ſopra tutto naſce dall'aver quella gli avveduti ſcrittori a bello Audio con enimmi,e viluppi intralciata; e ciò fanno per. non manifeſtare a tutta gente i ſegreti più profondi dell'ar te; nella qual cofa adoperano certamente gran ſenno, ſe guitando i conſigli degli antichisſimi padri dell'arte gli Ege. Del Sig.Lionardodi Capoa. 573 Egéziaci ſapientiperciocchè;, come cancò quel giocondo ſatirico Fiorentino nel ſuo Orlando rifatto, Le cofe belle prezioſe, e care, Saporite, foavi, e delicate Scoverie in man non fi debbon portare, Perchè da'porci non ſiano imbrattate. Perchè poi molti, e molti, che ſi ſono affaticati, e s'af fatican tuttavia di ſpiegare gli aſcoſi ſentimenti de’Chimi ci maeſtri, ne rimangono certamente di gran lunga ingan nati, e ſovente ancora ne' loro errori traggonnon volendo coloro, che creduli troppo preſtan lor fede; masſimamen te nelle bifogne di maggior conſiderazione della medicina, come fon quelle intorno alle qualiora noi ragioniamo. E quel, che maggiorméte accreſce la malagevolezza fiè,che fpesſiſlime fiate, quandofan ſembianza di parlar manife ſtamente, e alla ſcoperta ſenza aggiramenti di parole, al lor maggiormente n’inviluppano. Omnium rerum, avvi fa il gran Claudio Salmaſio, quæ ad hanc fcientiam perti nent vocabula, ab ufu, & confuetudine communifubmoveritt auctores fui, &peculiarem fibi dialectum vindicarunt, fa lis myſtis tanti arcani intelle &tam. Fornaculam fortem, ve caminum, in quo argentum,& aurum fundebatur,quod ore hiāti, &patulo effet.E fu ancora conoſciuto dal ſapiêtisſimo Boile,dicédo egli quelle parole.Hæcpropterea adjicio, quod qui vel ullatenus in rebus Chymicis eft verfatus, non poteft no ex obſcuro corum ambiguo, & ferè ænigmatico tradendi, que docere præſe ferunt,modo percipere; ipfis. confilium non effe, st intelligantur,nifi à filiis artis (utvocant, nec vel ab iis quidemfine difficultate, & incerti ſucceffusexperimentis;adeo ut eorum nonnulli vix unquam tàm candide loquantur, quă guando trita inter ipforum fententia utuntnr: ubi palàm la quuti fumus, ibi nihil diximus. E’l dottiſſimo Samuel Boc ciardi in favellado della chimica, ars enim ipſa tam eft abdi ta, ut in ejus cognitione adipiſcenda oleum, & operam miſe rè perdant pleriquemortalium. Et qui adeptos ſe putāt quaſ cæteris hanc gloriã inviderët,tot verborü involucris,atq; am bagibus artis arcana obtegunt;ut videant, ideo folü fcripfiffe ut nõ intelligerent? E peraddurre di ciò un ſolo efemplo, chi non crederebbe interamente al Beguino, ea tant'altri moderni autori eſſere lo ſpirito del nitro diſtillato coi bo lo, quelmedeſimoappunto, che gli antichi Chimiciin, molte malattie di darper bocca uſavano? Epur la biſogna non va così; perciocchè quel degli antichi d'altra,e più sé plice maniera componevali; e lo ſpirito rapportato dal Be guino, non ſolamentenon giova, anzi n'offende notabil mente le viſcere; perchè molti della lor perſona mal capi tati ne ſono, per avere i medici ſoverchiamente al Beguino preſtato credenza; come dicemmo teſtè di quella cattivel. la inferma: ecento, e mille altri eſempli addur ſe ne po trebbono. E quinci avvien poi, che non ſi veggono a’dì noſtri quelle maraviglioſe cure, che ſi leggono già per iná degli antichi Chimici eſſer fatte;avvegna pure,che que'me deſimi lor medicamenti ne’loro ſcritti ſi ritrovino, ma sì in viluppati, e alla groſſa diſegnati, che inal certamente per huom ſi poſſono adoperare. E a ciò ben dovea riguarda re Pier Caſtelli, che troppo mal conſigliato, il libro de mendaciis Chymicorum, con ſua poca loda compoſe. Or veggali di grazia chente, e quali fian le malage volezze; le quali intorno a un sì faticoſo meſtier s'in contrano, e come ſe ne poffa in ſoli due meſi huom mai ſuis luppare, ficome non meno ſciocco, che malizioſo fi ſtudia di darnea divedere, il Billicchio; quando egli ſotto gli ann maeſtramenti di Angelo Sala per imprender quel poco, ch' ei ne feppe, tanto tempo infelicemente logorovvi. E concioſliecoſachè cotalarte più operativa, che ſpecu lativa fia: egli è di meſtieri all'avveduto Chimico,anzi coll' uſo, e colla ſperienza, che col rivolger de’libri appararla; perchè poco ragionevolmente colui i ſuoi ſcolari confor taya, dicendo Vos exemplaria Gebri Nocturna verſate manu, verfate diurna; perciocchè quantunque in ſui libri diGebro, e d'altri fa. moſi Chimici molto li poffa apparare, non però di meno ſe non ſi pruova col fuoco: econ altri chimici ſtrumenti,ciò, che Del Sig. Lionardo di Capoa che ne'libri ' de’valét'huomini ſi legge indarno di pienamen te ſaperlo vantar huom puore; perchè il Chimico prudéte, e avveduto è da dir, che più co'carboni, e co'fornelli che coʻlibri uſar debbia; ne per altro certamente detto viene il chimico, filoſofo pe'l fuocò. E comechè dura oltremo, do, e malagevole talcoſaneſembri, pure chiunque d'in tendere a sì glorioſo ſtudio preſume, ſappia innanzi tratto, ché Της δ' αρετής ιδρώG θεοί πτοπίροιθεν έθηκαν Α'θάνατοι, μακρος δε και όρθιG- ομG-επ' αυτίω, Και τζηχυς το πρώτον:επήν δ' εις άκρονίκητα, Ρηϊδίη δ'ήπατοι πέλα χαλεπήπτε εούσα. Innanzi a la virtù poſto i ſudori Hannoglieterni, & immortali Dü: Aleiper lungo, ed erto calle vaſſi, Che duro inprima appar, ma quando alfommo Si giugne, agevol èquel, ch'aſpro apparve; ma per paſſar ad altro non fa certamente meſtiere, ch'Io avvili, potendofi agevolmente da quel ch'è detto cogliere, che dee colui, che pretende avanzarſi in medicina ſtudiar in tutte le ſette di quella; ne in meſtier di tanta conſide. razione, quant'è la ſalute, e la vita degli huomini haw egli a riſparmiar fatica in rivoltar qualunque libro, ne ar roffarfi di ſpiarne da qualunque perſona, per appararne co ſa di comun giovamento, e di qualche pro-alla inedicina; perciocchè ſicome avviſa l'intendentiſſimo Plinio: nullus adeò malus liber eft, ex quo non quidpiam utilitatis erui pof fit. E Giuſeppe della Scala: ego ſum is, qui ab omnibus di Scere volo,neque tam malum librumeffeputo, ex quo non alia quem fruitum colligere poffim. Ne è perſona cotanto ſcioca ca, e balorda, da cui talvolta non poſſaſi apparare qualche coſa, eſſendo vero il detto d'Eſchilo πελάκι του και μωρος ανήρ κα @ καίρον είπε, che per tacere altri, il Padre della giocoſa poeſia toſcana nell'Orlando rifatto, così gentilmente cantando ſpiegò Haqualche volta un Ortolanparlato, Cofe molto a propoſito a la gente. Ma particolarmente de’medici favellando ſcriſſe a tal pro, poſito Conſalvodi Toledo famoſo medico de'ſuoi tempi, e Arciveſcovo di Lione: prudens le&tor, vel auditor, omnes libenter audit, omnia legit: non fcripturam, non perfonam, non doctrinam Spernit:ab omnibus indifferenter, quod fibi deeffe videtur querit, non quantum fciat,fed quantum igno ret, confiderat. E'l Quercetano anch'egli dice, ch'un co tale ſconoſciuto contadino tolſe d'addoſſo d'un gran per ſonaggio la ſeccaggine d'un moleftiffimo capogirlo, cui no aveapotuto porre alcun compenſo, e vani erano riuſcitii molti, e varj conſigli de' valentiſſimimedici. E fenza dia partirſi da queſta noſtra Città, egli è gran tempo, ch'ado perar folevanſi dalla gente volgare efficaciffimi rimedi per li bozzoli della gola, e perle ſcrofole; e al mal della pun ta guarire alcuniuſavanocon feliciſſime riuſcite,aftenendo ſi da’ falafli, l'olio del lino, l'olio dell'olive, il ſangue del becco, il ſalnitro, l'incenſo, la pece, la raſchiatura delde te del Cinghiale, i fiori del papavere roſli, la calce, il gen giovo, e'l zafferano; nella colica la cenere d'alcuni legni, nella riſipola il ſangue della lepre, il ranno, e l'acqua del vitriolo, e della calce, e altrimolti medicamenti, che non fa meſtieri, ch'lo quì rapporti;il perchè ſembra degno, an zi di commendazione, che no l'avviſo del Paracelſo, il qua le vuole, che'l medico non ſempre debba uſare co'letterati, e bazzicar nelle ſcuole, come ſe da lor ſolamente, e non altronde ancora s'apparaſſe tutto ciò, ch’alla medicina ri chiedefi; ma gli convenga anche girne dalle vecchiarelle, dalle zingane,da'ciurmadori, e da’vecchj, e ſperimentati contadini; dalle cui ſcuole talvolta apprenderanne aſſai più, ch’altrove per avventura non farebbe; e quinci fi coglie, the'l medico, non menche del chimico è detto, debba an dar ſe poſſibil fia,per dirla co'verſi del poeta Peregrinando da'piùfreddi cerchi Del noſtro mondo a gli Etiopi acceſi. E queſto ancora, acciocchè egli avviſar poſſa la varietà, o la natura delle terre, delle minicre,dell’acque, degliani mali, dell'aria, delle ſtagioni, de'coſtumi, de'cibi, delle bevande, delle medicine, delle malattie, e delle maniere di ciaſchedun paeſe. Ma con tutto, che tanto, e tanto af faticato egli s'abbia il medico per apprender le contezze già dette,no dee ftimar già ſe eſſere al fommo grado della medicina pervenuto: concioffiecofachè ne men vero ſia ciò che l'Elmonte dice, che in tutta l'Europa appena un ſolo medico ſi trovi:imperocchè queſto ſteſſo ne'maggiori bi ſogni troveraſſi dal ſuo ſaper ingannato; come ſi vide, per tacer del Paracelſo, nell'Elmonte medeſimo, che forſe quell'uno ſi era, il quale non potè ſe medeſimo del mal del la punta guarire;e pure di queſto male,e de'ſuoirimedj egli più d'ogn'altro medico ragionevolmente filoſofaro avea. Ma laſciando ciò daparte ſtare, mi par tempo omai, che veggiamo, quali efſer debbano i maeſtri, i quali introdur poſlano lo ſcolare al conoſcimento di táte ſcienze, quali ab biamo avviſato ellerneceſſarie alla medicina. E conciofi ſiecoſachè di ſopra ſia per noi detto, infra l'altre coſe al medico la notizia dell'erbc ſommamente abbiſognare; conveniente coſa mi parrebbe, acciocchè gli ſcolari in ciò avanzar ſi poteſſero, d'un compiuto, eperfetto giardin de femplici lenoſtre ſcuole ornare, e quivi un'eſpertiſimo er bolajo ritenere, il quale gliele doveſſe ad una ad una ad ditare, con iſpiegar loro la natura, i nomi, e gli effetti di quelle; acciocchè avveduramente poi ciaſcuno uſar le do velle. E ciò tanto monta al comun deila medicina, che ragionevolmére il Caſtellicosì ne ſcriſſe: ficutmedicus fim plicium ignarus non eft bonus medicus, ita Academia, quæ horto fimplicium publico caret, non eft perfecta Academiae. E poco addietro egli medeſimo avea molti, e molti danni annoverati, che per non eſſer nelle ſcuole della medicina il giardino de'ſemplici, avvenirnefogliono. E certamente niun maiſaprebbe, comechè ſagace, cavveduto molto ſi foffe, giugner al vero conoſcimento de ſemplici alla me dicina appartenenti, ſenza aver huom, che d'efli affai pie namente informato innanzi tratto diligentemente gliele inſegnale. La qual coſa fu da Galieno avviſata, allorche dilic, parlando de'ſemplici: Convien certamente, che non Dddd nina, una, o due, o tre volte,ma tratto tratto gli vada minutame te offervando con qualche'maeſtro, il qualgliele additi,come bocca gliele inſegni. E altrove: Quinci immagino i giovani valorofi eller non pocoſpronatia comprender la materia de medicamenti; eglino medeſimi non una, o due, e tre fiates ma ſoventi volte ravviſandola; concioficofachè la vera co tezza delle coſe apparenti coldiligente gratamento de ſenfi ap prender fi foglia. Ed altrove ancora biaſimando coloro, i quali di ſapere per veduta le coſe lordiſegnate non curano: diſſe:Sonocoſtoro fomigliantiffimi a Banditori, i qualii ſe gnali tutti, e i marchi d'unoſchiavofuggitivo, comeche mai non l'abbian veduto, a ſuon di tromba vanpubblicando; im perciocchè apparando ciò eglino daaltrui, comecanzone il vă per tutto poirecitando; che ſe per avventura intervenije, cbe il pubblicato a bando loro dinanzi capitale, eglino certa menteper tutto ciò no'lravviſerebbono. E ciò tanto mag giormente avviene, quanto,che da’libri ſolamente degli Icrittori non ſi poſſono agevofmente apprendere, tra perlaz traſcuraggine di coloro nel dipignergli, e diſegnargli,e per le contele, ch'intorno a quelli ſovente infra ſe hanno go anche pe’molti, e moltinomi, che i ſemplici hanno, chia mandoſi diverſamente da ciafcuno. Coſa, la qual cotanto fe ſudare, e affaticare il doctiſſimo Ruellj; perciocchè, co mc egli dice: in berbulæ cujufdam facie repreſentanda, no tas tam variè delineant, utquidvisaliud potius, quam ſtir pemipfam demonftrare videantur: aut cerie eandem multi plici prorſus effigie: quæ antalis ufquam effe poffit pleriqaw omnes dubitant. Quare me tantorum impulit virorumdift fidium, per vaftas ire regionum multarum ſolitudines, invia montium juga peragrare, lacus inacceffos Inftrare, abditas terra fibras fcrutari, hiantes vallium ſequi ſpecus, vel cum corpufculi bajus periculo præcipitia nonnunquam tentare, ut inſpectu eriam, ne dum cognitione res ipfas comprehenderem. E ciò certamente fu non poca fatica d'un tanto valenthuo mo, e convenevole a ciaſcuno, ch'a sì fatro meſtiere in tender preſuma.Se non ſe noi in ciò riſparmiar ne potrem ino, con apparar quì in un ben fornito giardino tutte l'era be da ! be da confarſi ad ulo di medicina, ſenza andarle raccoglie do con tanto ſconcio, e riſchio delle noſtre perſone. Ag. giungafi a ciò, ch'abbiamo detto che l'orto de'ſemplici tão to più nelle noſtre ſcuole, ed entro queſta medeſima noſtra Città biſognevoi ne fia, quanto che, come ben Dioſcorido avviſa ad acquiſtar pienamente cotali conoſcenze ne con vegna, e nel tempo,che germogliano, e nel tempo, che creſcono, e nel tempo, che languiſcono le piante diligen temente confiderare: τον δε βελόμενον εν τούτοις εμπειρίαν έχεις deti na to ye try agtsQuñ Erasnov ix tūs gãsexuá(over, aig ade Ogexedeafso παρτυγχάνειν • ούτεγαν ότι βλάση εν πτυχηχώς μόνον δύναται το ακ μαζον γνωρίσει ούτε έωes κως το ακμάζονα και το αρτοφυές επιγνώναι.. Perchè a ciò riguardādo ilComū di Piſa,di Perugia, di Bo. logna, di Mompelicri, di Parigi, e d'altre molte Città d'Eu ropa,hánocógrádiſſima loda nelle loro ſcuole i séplicitut tiin ragguardevoli giardini piātati.Maſopra tutti in ciò s'a váza il famoſiflimo, e comendevole Orto di Padova find a ducento anni addietro di tutti i più ſtrani, e ſconoſciuti sé plici, ch'a medicina ficcian meſtieri compiutamente forni to; del qual mai ſempre han tenuto cura huomini in tal meſtiere, e in tutt'altre parti di medicina intendentiflimi: ficome certamente fu Luigi Mondelli, Luigi dell' Anguil Jara, Melchior Guilandini, Giacomo Antonio Cortufio, Proſpero Alpino, Giovan Prevozi, il Cavalier Veslinci Giovanni Rodio, ed altri molti per le lor famoſe opere in iſtampa pubblicate almondo chiariſſimi. Ne certamente con táto ſtudio ciò fatto avrebbono que fapientiflimi huomini, cotanta ſpeſa, e tempo logorandovi, fe a più d'una pruova il grá biſogno di sì fatto giardino pie namente avviſato non aveſſero; il qual ſenzadubbio più, ch'altrove, in queſta noſtra Città, in queſte noſtre ſcuole apertamente ſi ſcorge, non avendovi ne pur uno mezzana mente inteſo de’ſemplici, a cui per una, comechè non mol to ſtrana, e ſconoſciuta pianta ricorrer ſi poſſa; da poi che la paffata piſtolenza tutti gliene tolſe. Intanto, che l'av vedutiſlimo Giuſeppe Donzelli, che in ciò pochi ebbe a ſc pari, infra i ſemplici, de'quali in una cotal bottegaalai fi Dddd 2 1 -mofaa compor s’avea la Triaca, fei, o ſette adulterini un giorno riconobbene. Or che della noſtra Città, e delle no ftre ſcuole quel famofo ſcrittor direbbe, che sì ebbe a ſcla mare? Conveniens in omnibus V niverſitatibushurtus fimpli ciumpublicus non folum ad warięweden perfectionem Academia, &ut diſeantjuniores medici, atque Pharmacopei,feu ad ur bis ornamentum, decus, fed quod maximum, quod optă dum, ad civium ſalutem neceſſarius omninò eft. Quot nãq; quafo errata à pharmacopæis in fimplicium delectu committi tur? quot agri indè necantur? E cócioſliecoſachè ſia dimoſtro ſopra più,e più altre con tezze a un medico abbiſognare; e ſpezialméte lo ſtudio del le lingue, farebbe meſtiere introdurre ne'noſtri ftudj, mae Ari di lingua greca; perciocchè séza quella malagevolmére potrà ne’libri degli antichi huom vātaggiarſi;eſlendo quel li in greca favella compoſti; e comechè nel latino traporta ti già tutti or ne ſiano; non però di meno molte fiate i vol garizzatori non a baſtanza eſſendo, o della materia, o del la lingua intendenti, in non pochi errori ſono incorſi; e per tacer d'altri, o quante, e quante fiatc vien ripigliato da' Galieniſti, e tolto in fallo ſconciamente Avicenna peraver Jui troppo di leggieri preftato fede a coloro, che nell'ara beſco idioma avevano i greci autori traslatati.E certamen te qual inai Xi!rem noi per ficuro, e fedel traslatatore,ſe an che Plinio, anzi il inedefino Cicerone,che così pratico fu della greca favella, pur malamente alcune delle greche pa role nel latino trafportando,da molti avvedutiſſimi ſcritto ri ne vien forte accagionato? Ma meſtier anche farebbe ri ſtorar la vuota ſcuola della filoſofia, ein man de'medici ri porla, come già prima coſtumavaſi. Ma della notomia lo non ſo che dir mi debba; certiſtima coſa eſſendo, che do po Marco Aurelio Severini le noſtre ſcuole mai non abbia no Notomiſta avuto; ſenzachè il medeſimo Marc Aurelio, o perchè di fcco cotal biſogna le riſpondeffe,o che gli fta tuti, no’l richiedefſono, pochiſſima cura ei ſe ne dava. Egli, silo non vado errato, una faccenda di tanta conſiderazio ne, e di tanta lieva si dovrebbe eſſer ordinata, che un di ligen Del Sig. Lionardo di Capoa 181 ligéte notomiſta alle ſcuole s'introducefle, e facédofi ada giare di tutto ciò che biſogno a lui fia,un giorno alınen pec ogni ſettimana la notomia diqualche particolar membro d'animal faceffe; perciocchè in sì fatta guiſa non ha dub bio, che a'giovani, perchè perfetti notomiſti diveniſſero, agevole ſtrada fi ſcoprirebbe. Non fo poi lo fe ben fitro vino inſieme unite le due cattedre della notomia, e della cirugia, e come di due peſi cotanto gravi un medeſimo let tore acconciamente ſcaricar fi poſſa; perchè loderei, che queſte due ſcuole amendue di ſomma conſiderazione, e d' igual fatica ſi partiſsero, e dibuona ragione da due valen ti maeſtri ſi reggeffero. E fomigliantemete anche direi del. le matematiche, le quali cotanto biſognevoli fono al co mune, che non ſolamente per la medicina, e per la filoſofia fan meſtieri, ma per l'arti della guerra ancora, c per la na vigazione, e per le mercatanzic, e per tutto il civil con mercio. Ma oltre a tutte queſte ſcuole, che noi abbiamo dovrebbeſila ſcuola della Chiinica imporre; la quale per quel,chie già ne fia baſtantemente per noidetto, così gio vevole, e neceffaria è al genere umano, ne da'folilibriſen za la guida d'un buono, & cccellente maeſtro apparar mai baſtantemente ſi puote; e non ha il torto l'avvedutisſimo, ed aſſai ben conoſciuto di sì fatte coſe Monſignor Giovan ni Cianpoli, a vituperare, e biaſimare la dappocaggine delle ſcuole p no avervi la chimica introdotta; ma ſpezial méte al noſtro ſtudio la ſcuola della chimica fa meſtiere: avédoſi a far notomia dell'acquc minerali di Pozzuoli, e d ' Iſchia, alle quali i noſtri medici ſenza eſſer della lor natura conoſciuti grå novero d'ammalati poco faggiamente códá nano; quátúque talvolta non pocx ſciagura necoglieſſe ad alcuno; alcheanche por mére dovea il noſtro Capaccio, quãdo diſſe: Medici hoc têpore (Sed quis medicus? quiGaleni tantum methodum legerit?qui impunè homines occidit? ) cum mihil reliqui habeant medendis corporibus, vel cum re ipfa. ignorent, quo morbigenere ægri fins affecti, ad aquas Baja. nas eos rejiciunt, quas nemini unquam prodeffe cognovi. No. vi tamen ftolidos noftræ ætatis homines, quificaci eò profici Scan ' 582 RagionamentoSettimo fcantur, jam ſe videre, caciores indè reverſicontendunt. E certamente una cotal biſogna a comun giovamento fornir fi dovrebbe; perciocchè non abbiam noi fin'ora ſcrittor di lieva avuto, ilqualdiſtintamente eſaminate l'abbia, come chè il Iaſolino ſcriva eſſerſi valuto dell'opera d'un certo Chimico per eſaminare i bagni d'Iſchia; dal quale ingan nato, follemente credette eſſer non ſo quali miniere di fo le, e diluna in quelle acque. Ma per accennar qualche coſa dell'altre parti della mea dicina: Io richiederei, che i Lettori di ella, oltre alle yolgari opinioni d'Ippocrate, e diGalieno ſpiegar dover fero tutt'altre ſentenze degli antichi, e moderni autori,ac ciocchè gli ſcolari, ſicomeGalieno, c altri famoſi valend huominigià ferono, di tutto ciò chenella medicina ſi trat: ta,appieno inforınar ſi poſſano; e ſe bene sì fatte contezze di poco, o niun momento fieno alla medicina, avendo noi a fufficienza dimoſtrato eſſer quella per ſe ſteſſa incerta, e fallace, e che niuna ſetta di quella abbia in ſe dottrina, che vi ſi poſſa per huom alcuno ſtabile fondamento porre, ne coſa di certo mai determinare; impertanto potranno agevolmente ayviſare i giovani in ponendo mente alla va rietà delle ſecte, e dell'opinioni, e alle varie, e ſoventi fia te contrarie maniere di medicare, che fra i medici ditem ро in tempo ſono venyte in ſu, qual via nel meſtier del me 'dicare debban genere, Ne in queſta guiſa alcun contraſto allo ſtatuto del noſtro Regno mai fi farebbe, ficome alcuni daquelle parole: li bros authenticos tam Hippocratis, quamGaleni in fcholis da Geant: vorrebbono argomentare, c ftabilire; e che altro, che la dottrina d'Ippocrate,e di Galieno nons’avelſe a inſegna: re; cócioſliecofachè col dipartirli talvolta da Galicno,i sé timenti di Galieno medeſimomaggiormente fifoguano; ne potrà a buona ragionechiamarli ſeguace di Galieno colui, il quale non faccia, come Galieno adoperò, ſcegliendo datutti libri il migliore, ſicome a ciò fare egli i ſuoi ſcola. w inſtantemente conforta. Solo - nó laſcerò d'avvertire ſo pra l'accennato ſtatuto, ſecondo le fpoſizioni d'alcuni, che sion vietò la legge per quelle parole,il ſeguire, einſegnare; ancoraaltri nonininori autori; coſtumando le leggi, qua do vogliono riſerbare, e vietar tutt'altre coſe, diſegnarle con quelle particelle duntaxat, tantummodo, folum, che i Dottori chiamano taſſative; ſenzachè, ſe colla mente del Legislatore vogliam noi ſporre la legge, come ragio, nevolmente è da fare, certamente non che lo ſpiegare an, che altri nomen famoſi autori vietato ne fia, anzi egli n'è apertamente conceſſo, o per medire impoſto; conciollie cofachè l'intendimento del legislatore in ordinando una si fatta legge,, altro certainente ſtato non ſia, ſecondo che da quella ſi puòcomprendere, ſe non ſe di formare un, perfetto ge valentemedico; il quale, conte già abbiam di moſtrato,cal divenir non potrebbe, s'egli di tutto ciò che fin'ora in medicina è ſcritto piena contezza non abbia. E. certamente ſe l'Imperador Federicoamici!limo, e bene in formato delle buone lettere', che fe lo ſtatuto, e Pier delle Vigne,per quanto cõportaffer que'barbari tempi, ſciéziato huomo, che ſcriſfelo, econrpilollo, aveſſer mai potuto di tantie sinobili ritrovati, e dottrine de" novelli medici, e filoſofanti alcuna concezza avere, eglino ſenza dubbio non pure permeſſo,ma commendato anche avrebbono,che nelle ſcuole a pro del Comune ſpoſti, einſegnati ſi foffero. E tanto più del noſtro avviſo ora noici rendiam ſicuri, qua to che riguardando alla volgar coſtuma di quel barbaro, e rozzo ſecolo, veggiamo apertamente, che corale ſtatuto, o no mandolfi mai di que’tempiad effetto;o pur ſe andò avā ti, fu preſo ſempre in quelmedeſimo ſentimento, nel quale ora noi lo ſpiegamo; inperciocchè in Padova, e altrove la dottrina degli Arabiallor pubblicamente ſi ſponeva; e ab biamo, chepiù che d'Ippocrate,e di Galieno,i medicaméti di Ralis,d'Avicena,c di Meſueallor ſi coſtumavano; anzi in queſte noſtre ſcuole medeſime,laſciati da parce i Greci maeſtri, con comandamento đe’noftri maeſtrati il trattato delle febbri d'Avicenna allor leggevaſi,per racer del nono di Rafi: cum publico bujus almeCivitatis juſu ordinariams Avicennale &turam de febribushoc anno interpretarer, fcrifle già 584 Ragionamento Settimo 1 gia Paolo Tucca, famoſo maeſtro in medicina di queſta noſtra Città. Ne altre doitrine in vero, o diviſamenti,ſe nó que'degliArabi,quà sépre ſono ſtati ſeguitati in medicá do, licome già baſtantemente per noi ſi diffe; e tuttaviade' noftri cempi ancor ſeglionfi; ſegnal certiſſimo, che i me deſimi ancora ne ſiano ſtati ſempre nelle ſcuole de maeſtri inſegnati. Ne Giovanni degli Argentieri, oftinatiſlimo nimico di Galicno, e de'Galieniſti tucci,havrebbe quì midi potuto liberamente mandar giù le loro doterine, aper tamente cozzandovi, ſe per legge ne foſſe ſtato impo ſto a dover āzi Ippocrate, c Galieno,che la verità medeli ma, e la ſperienza ſeguire. E che direm noi di cotanti al tri autori, che da ſentimenti di Galieno traſandando, ove la verità il richiedeva apertamente il contraſtarono? certa mére male a lor huopo táta tracotáza impreſſa avrebbono, ſe contro i divieti imperiali altronde, che da Ippocrate, e da Galieno raccolta l'arte faticoſisſima della medicina nel - le ſcuole inſegnata aveſſero.E lo mi fo a credere,che tāto ito doposì fatto ſtatuto,comeche foſſer preſi a leggerfi i di ſegnati autori, pur tutt'altro chequelli ſpiegar dovevanſi;ne in modo alcuno da’ſentiméti di coloro la medicina tutta di pēder poteva: poichè allora pochisſime opere d'Ippocratese di Galieno dall'arabeſco nel latin linguaggio ſconce,e gua íte, e tutte piene di barbarie erano traportate: e l'opere d'Ippocrate poco certamente a capital tenute furono dagli Arabi; de'quali la doctrina allora per tutto trionfando fio riva; intanto, che Avicenna per comun yoce era principe della medicina chiamaco. E tanto parmial preſente della traccia, che tener debbano nell'inſegnare i pubblici mae ſtri della medicina aver baſtantemente accennato. Ma lo ben m'accorgo, che alpreſente ne verrebbe a huopo, chu attenédo le promeſſe già fatte, diviſar de’mnaeſtri della filo Cofia, comeanch'esſidebbiano eſſer liberi, e non appiccar-, fi all'altrui autorità nell'inſegnare; ma di ciò nel ſeguente ragionamento farem parole, Rai più illuftri, è più glorioſi pregidi que ſta oltre ad ogn'altra d'Italia,belliſſima,e amena Città,è da giudicare: p mio avviſo laver ella ſempremai, o prodotti, o al tronde a lei venuti corteſeinente accolti, % 9 e albergati pellegrini ingegni, e ſaggi, ſcorti, e liberi nello inveſtigare i ripoſti, e profondimiſte rj della natura. E nel vero per non far parole de' più anti chi tempi, chi è di voi, che non ſappia, che quìBernardi no Teleſio, cui diede ilcuore innanzi ad ogn'altro di fron teggiare i maggiori tiranni della filoſofia, che quella avea no a vile, e duriſſimo fervaggio miſeramente condotta, co poſe, e diè fuora que ſuoipregiatiſſimilibri della natura delle coſe? Chi è di voi che non ſappia, che quì pariméte poi Sertorio Quattrománi, Aſcanio Perfio, L.atino Tácredi, Tomaſo Cápanella,Vincézo,c Giovan Battiſta della Por ta, Col’Antonio Stigliola,Frāceſco Muti,e altri, e altri egre gj filoſofanti ſcosſero virilmente il giogo impoſto alle ſcuo. le dell'autorità degli antichi mnaeſtri, della quale dubitar Еесс punto non che farle alcuncontraſto avrebbe il coinune cõ lentimento delle genti a ſomma ſcempiezza recato? Vlti mamente, chi è divoi, che non ſappia, e che non abbia co’propi occhjveduto, che quì cbbe cominciamentoquel la nonmai baftevolmente commendata accademia, che de. gl'inveſtiganti appellofli, ſol perchè era intendiméto di lei, poftergata ogni qualunque autorità d'huomo mortale, alla ſcorta della ſperienza ſolamente, e del ragionevol diſcorſo andar dictro per iſpiar le cagioni de'naturali avvenimentia Echi giammai potrebbe colle dovute lodi tutti i nobili fpi riti, che in tal famoſa aſſemblea felicemente filoſofar fi vi dero rammentare? Ella ricoveroſſi, come voi ben ſapete, ſotto la protezion di D. Andrea Concubletti già Marche fe d'Arena, ch'ebbe l'animo intefo a vincer la virtù de’luoi maggiori, i quali fur ſempremai larghiſſimi favoreggiato ri delle lettere più eſquiſite; e annoverò ella fra'ſuoipiù ca si un Monfignor Caramuele, un Daniello Spinola,un Frá ceſco, e Gennaro d’Andrea, un Gio: Battiſta Capucci, un Luc' Antonio Porzio, un D.Michele Gentile, un To maffo Cornelio, e altri, e altri curiofi, e ſagaci interpreti della natura, che collor fenno, e ftadio,e gloriofe fatiche generoſamente s'oppofero all'impetuofo torrente delPabu fo, chegià ſtabilito, e accreſciuto diforze dal conſentimen to deglihuomini,e dallautorità che gli avea data il tempo, alvero, e alla ragione ſovraftar avviſavanſi; huomini vera mente d’immortal gloria degni, e certamente da commen dare, e da avere in pregio vie più di que' primi, che alla fi Jofofia diedero operá, ecominciamento; conciofficcoíachè; fe eglino difcorrendo regolatamente, e oſſervando con dili genza saperfono la ftrada alla contezza delle coſe naturali, altro veramente noh fecero, ſaluo chc fecondare quef rego lamento, per lo quale caminar fogliono l'arti, e le fcienze, e l'altre coſe tutte di quaggiù, le quali cominciando da roz zi, e baffi principi, dal cattivo, e men buono, al buono, indi al migliore e alla fine a qualche ſtato di perfezione aggiuo gono; ne a queſta opera fare altra malagevolezza s’incontra di quella dell'applicazione,e della fatica,ſenza le quali non è dato agli huomini acquiſtare utile, o onore veruno. Ma ove p rammendare ciò che p fatal legge delle coſe umane, o per altro accidente fia venuto una fiata in dichinamento, e corruttura, primieramente hanſi a ſuperare i gravi impedi menti del mal abito già fatto per lo conſentimento della moltitudine, e per la lunghezza del tempo fortemente ra: dicato negli animi; e dopoauer ciò operato durar fi debbom no parimente le medeſime fatiche, ſe non maggiori, che durarono que'primi autori, e padri della filoſofia; perchè non è lingua,non è penna,che gli poſſa a baſtanzacommen dare. Maio perchè tante volte pazientemente avete degna to d'aſcoltarmi,o Signori,in queſto ultimo mio ragionamen to, che dovrò fare, ſe non ſe incoraggiarviad una sì bella impreſa di liberamente filoſofare, e diviſarvi altresì quanto di liberi filoſofanti, e maeſtri le noſtre ſcuole abbiſognino; ne a ciò fare veruna induſtria, veruno ſtudio, veruna fati ca reputerò vana, e inutile: imperocchè ove ſia ſeguito il mio avviſo., ſpero, che a voi ſomma gloria alcomun ſom mo pro, camefelice termine di queſte poche fatiche, che per altrui utilità ho durate, ſia per ſeguirnezeper dare omai comincianento,dico, ch'egli ſembrerebbe ad alcuni ben fatto aſſai, che s'aveſſe a rinovellare l'antico, e ormai per lungo ſpazio in tralaſciato uſo di ſporre a parola p parola il teſto d'Ariſtotele. E quancunque il miglior partito ſareb be,intorno a ciò imitando le più famoſe ſcuole d'Europa,ri pigliare l'antichiſfima traccia già tenuta da’ Greci nello in ſegnare, Oye poi queſta non li voleſſe ſeguire, certamente giudicherei il men male, che ſi faceſſer le chioſe in ſu'l già detto teſto d'Ariſtotele; imperocchè in sì fatta maniera grande ſcemo ne verrebbe il numero innumerabile di quel le quiſtioni, in cui, e'l tempo,e'l cervello, non men de’mac ſtri,vilogorano tutto di milerevolmente gli ſcolari; sì ve ramente, che poi i maeſtri a quella guila, e con quella li bertà l'opere d’Ariſtotele aveſſero a trattare, colla quales cgli quelle di Platone, e d'altri antichi trattar ſolea. E co me a ſuo eſemplo fecero poi delle ſue mcdefime Tcofraſto, Ermia, Filopono, caltri, e altri ſuoi più nobili ſeguacije Ессе 2 clio 588 Ragionamento Ottavô chioſatori, cioè a dir, ch'egli s'aveſſe minutamente a cri vellare ogni fuo detto, diſaininar a fpiluzzico ogni ſua ra gione, econ nuovi,ė nuovi ſaggi provare, e riprovare ogni fperienza, ch'egli aver fatto teſtimonia nelle coſe della na tura; e ficomene'miſterjdalla Divina eterna fapienza, che ne ingannar ſi plote, ne ingannare altrui a noi già rivelati, nő dobbiamo più oltre inveſtigare; così nelle dottrine in. fegnatene da’šiloſofi,e particolarmente dallo Stagirita,egli fi dee ſempreinai ſtare in ſu l'avviſo,ed aprir, come fuol dir fi, mille occhi, e mille, per veder ſe ciò,che egli nel ſuo indice ne ſcriſſe ficonformi coll'ampio, e immenſo volun medell'Vniverfo. Ma perchè chiaro appaja, e ſi poſſa quaſi diſli toccar cô mani quáto mal ſicurain quallivoglia materia ſia la dottri na d'Ariſtotele,ne daremo ora, comechè breve, qualche faggio; e primieramente in que ſentimenti, che da criſtia no orecchio fenz'orrore no potrebbongiammai udirſizcioè, che l'eterno Dio non ſia il gran fattore dell'Vniverſo, e de gli huomini: ne di noi punto fi brighi, ne con noi voglia, o poſſa uſare in alcunaguiſa, ne in ſonno, ne in vegghia: e ch'egli non ſia colui, ond'ogni bene avvenga. Che la per fertabeatitudine fol nella preſente vita neli conceda, ſen za alcun godimento nellaltra poterfi ſperare. Che la det ta beatitudine nella fola virtù non confifta: ma le fac cia meſtiere de'beni della fortuna: dipartendoſi dal parcr del ſuo Macſtro Platone (cotanto commendato dal gran Padre Agoſtino ) colà ove diſſe, cſſere la perfetta beatitu dine non altrocheil godimento di Dio. Che buona ſia l'é pia legge di Minoffe,il quale volca, chelecito foffe il pec car cótra a natura, acciocchè nó creſceffe oltre al cõvene vole il numero de'cittadini. Che gli huomini abbian la vera fapienza: burlandoſi di Simonide, che detto avea effer Dio folamente il ſapiente; e ftizzandoſi contro Platone, ches ſcriſſe eſſere l'umana ſapienza vile, e bazzeſca. Che igio, vani debbano fraftornarhi, comcincapaci, dalle morali dio fcipline. Che la modeſtia non fia virtù: nc virtù di fortez za ſia il ſofferir pazientemente le ingiuric, la povertà, gli 1 efilj, la morte, o altri infortunj: le quali coſe, come em pie la medefima gentilità condannerebbe, che fortiſſimi sé, za contraſto ſtimò Meltiade nel ſoſtener la prigionia,Temi ftocle l'eſilio, Socrate la morte. Ma che direm poi di quel ſuo ſentimento dietro all'eters nità del mondo,tante, e tante volte da lui ridetto, e pro varo, facendo contro il vero arme i ſofiſmi?Che dell'empie fuc beſtemmie intorno alla natura del grande Iddio, il qua le ſcioccamente egli chiama (wor, cioè a dire animale. E a lui di vantaggio egli l'onnipotenza, ela providenza, elas libertà dell'operare empiamente toglie; oltre a ciò non potendo talor la fuafolle, e pertinace miſcredenza celare, apertamente dice eſſere la religione un politico ritrovato da tener a freno le genti, e che la dignità del Sacerdozio debba compartirli a' ſoldati veterani. E che diremo intor no alle pene, e premj, che dila ſi danno ſecondo l'operes che di quà per noi fatte fono: E che direm’anche dello in ferno, il qual egli dice effer certamente novella da vegliar de; morendocon noi l'anime ancora, ne altra coſa di noi reſtando dopo morte, fe non ſe il freddo cadavero, ſenza, fentimento niuno? e tali alla per finc Ariſtotele ne trattadig come Se fate foſſim’anime di ferpi. Ma non verrei mai a fine, ſe tutte quì diſtintamente re car lo voleſſi le fue empie, e peſtilenzioſe doctrine, dalle quali contaminato il miſcredente Arabo chioſacore in's prima; e poi altristolſero l'occaſione di comporre, e di co pilare quell'infame libro,de'tre ſeduttori del mondo. Quin ci apertamente fi pare con qualita ragione detto aveſſe già Lattanzio Firmiano: Deum non colit, nec curat omninò Ari Hoteles: e prima di lui il grande Origene nel libro, cli’ei ſcriſſe cótro Celſo Epicureo,avea già detto eſſere Ariſtote le piggiore aſſai d'Epicuro; e dipiù biaſima Origene mole? altre malvagità,e ſcelleratezze inAriſtotele,e la peripateti ci ſcuola tutta ne taccia; e'l beato Serafino da Fermo, e S. Vincenzo Ferreri abboininando, e maladicendo la dottri na d'Ariſtotele, e quella d'Averroe ſuo ſeguace ſoleva.gri dareeffer quellephialas ire Dei projectas fuper aquasfapië tiæ chriſtiane, unde facte furtamare, ficut abfynthium; per chè anche la venerabile ſua ordine avca ſeveramente proi. bito a’ſuoi frati il leggere l'opere d'Ariſtotele. E ben ſi paa re, cometeſtimoniano Laerzio Diogene, Ammonio, Cle mente d’Aleſſandria, e altri, ch'Ariſtotele rivolto fi foſſes agli ſtudidella filoſofia per ordinazione di quel Diavolo, che ſotto il mérito nome d'Apolline già dar ſoleya le riſpo Ite in Delfo;ne altra cagione ritrova San Girolamo alla Arriana ereſia, che dottrine d'Ariſtotele: Arriana berefis argumentationum rivos, de Ariſtotelæo forte mutuatur: fic enim Arrianos inperfidiam iviſse cognovimus,dum Chri Si generationem putant ufufaculialligandam, relinquunt Apoftolum, fequuntur Ariſtotelem, E S. Baſilio il magno ſchermendo, e vituperando oltremodo l'Ereſiarca Euno mio dice, che coll'armi d'Ariſtarele tentava egli d'abbat tere, e diſtruggere Criſto; e ſpezialmente in un luogo, ov? egli dice: deh laſcia forſennato il malvagio, e danneyole gærrir d'Ariſcotele: laſcia io c'avverto quel velenoſo, e pe ſtilenzial ſuo favellare intorno alla natura dell'anima: è in tutto caccia via da te quelle ſue mondane ſentenze, copi nioni. Or ſe nelle coſe, che abbiam noi di certo, come loni quelle della noſtra ſanta Fede, così manifeſtamente Ari ſtotele graſandò; certamente dovremmo noi anche nell'al tre tenerlo ſoſpetto, e dubitarne continuo degli uſati ſuoi crrorijanzi dovremmo pure giudicar falſo apertamente tut te quelle ſue premeſſe, dalle quali egli pervia di neceffarie cõſeguéze ſuol cavare gli ſciocchiſſimi ſuoi falli intorno alla noftra sáta Fede.E veraméte il ſiſtema in ſu'l quale egli ap. poggia, o tutta, o la maggior parte della ſua vana filoſo fia,egliè l'eternità della materia, del movimento, del mon do, delle intelligenze: la neceſſità di Dio nell'operarc,e la virtù finita di lui: e altri, e altri ſentimenti a queſti fomi glianti. Ma che dire noi di quelle coſe d’Ariſtotele,le quali quã tunque per la noſtra S. Fede non fi determinino,pur la Ipe 1 ricn DelSig. Lionardo di Capoa اور rienza così manifeftamente ora a noile dimoſtra, che nulla più èda dubitarne? O forſe negando noi fede agli occhi noſtri medeſimi, e dimentendone i ſentimenti, e le dimo ſtranze, crederem noi oſtinatamente ad Ariſtotele, e non ne prenderem pure faggio da altri più avveduti, e men cre. duli ſcrittori i quali in buona verità affermino ſe avere fpe rimentato tutt'altro di ciò, cheAriſtotele nefcrive: Adun que perchè credere noi,che l'arco celeſte nó poffa maggior d'un mezzo cerchio apparere, quando contro l'avviſo d'A: riftotele, Franceſco Pico della Mirandola, il Campanella, il Gaſſendi, il Blancani, ed altri molti maggiore affai l'of ſervarono? Anzi Io l'ho purriguardato, che non ſol mag giore, del mezzo cerchio apparir foglia, ma talvolta anco ra in un cerchio compiuto, e intero, dove il Sol fia alto, e l'huom da qualche monte aſſai rilevato ilriguardi. E dell' arco celeſte lunare,perchè'giudicherem noi eſſer quello co tanto malagevole aformarſi, che ne' plenilunj ſolamente apparer radiſfime volte ne foglia: anzi le egh è pur vero (perciocchè vien comunemente giudicato, maffimamente da Alberto Magno per una delle più favolofe novelle d'A riſtotele ) cgli dovrebbe pur più ſovente apparere, che non Polervòcolui in due fole volte per lo lunghiffimo ſpazio di cinquant'anni; quafi egli in ciaſcuna notte dicotanto tem po ſenza prender mai ſonno foſſe ſtato ſempre a bada al ſe reno per riguardarlo; non altrimenti che Fra Puccio ftayaſi digiuno orádo alle ſtelle, mentre la fua donna rinchiuſa có colui troppo alla ſcapeſtrata ruzz.ava. Ma degli errori d'A riſtorelein si fatte materie ne diſcorrono appieno il Tele fio, il Campanella, ed altri eccellenti autori. Ma che direm noi della proporzione, e convenenza,che infra fe hanno nel mondo peripatetico quaſi in ben librata bilancia in andar ſu le coſe leggiere, e giù le gravi? E la fciando per ora ad Ariſtotcle il creder, ch'ei fa fuor d'ogni ragione effere la leggerezza non men che la gravezza me delima, qualità delle coſe: e come poi per ſua dappocag gine lafciando di ſpiegare d'amédue la natura ad altro tra paſli: dirò ſolamente della ſua fciocchilimatracotanza il non volere far pruova di ciò, che ſogna, che una pietra di mille libre fcenda mille volte più preſto, ch'un altra d'una libra; potendo con durar poca fatica,ravviſare, che que due mobili, tutto che tanto diſuguali di peſo, diſcendano però eguali in velocità. E chedirem noi intorno aciò, che Ariſtotele vaneggia do ne vuol dare a divedere delle coſe, che poſte in acqua, o ſcendano giù, o galleggino? e come egli tratto dalla ſuaſciocca maniera del filoſofare, vuol,che peropera della larghezza, o ſtrettezza della figura, o fendan l'acqua,o nuo tino a galla coſe più gravi aſſai dell'acqua medeſima, non riguardando egli punto alle vere cagioni, che in ciò con venir poſſano. Intorno alla qualcoſa così ſmentito, eri creduto ne fu egli dal noſtro ſottiliſſimo Galilei, che nutta più ne ſarebbe il favellarne. Ma che direm noi dell'acque del mare? onde egli appre. ſe il noſtro Ariſtotele eſſer quelle più dolci aſſai, e men fan late nel fondo,che di ſopra li ſieno? Ahi quanto cauti gli huomini efer denno Preſso a color,che non veggon pur l'opra; Ma per entro i penfier miran col fenno. Così traſcurati, e bambi ſi ſon laſciati trarre a ' ſuoi ſco cj, e difettoſi fillogiſmi i poco avveduti,e troppo creduli ſuoi ſeguaci, che nulla curandodi vederlo per pruova,giu rano, ch'egli ſia infallibile verità: quum hoc, dice Giulio Ceſare dalla Scala, pro comperto,veroque habeatur, in fun do maris aquas dulces effe. Ma Franceſco Patrizio huomo di maraviglioſo ſapere, e di non ordinario avvedimento così operando pur con tutte diligêze diviſarene dallo Sca ligero, ritrovando alla per fine il contrario, ne ſcrive: quñi mare ftaretplacidiffimum, nec itineris tantillum navis confi ceret, nullo Spirante vento experiri libuit, vafe cattitering ejufmodi, quale ipſe deſcribit, funi longiffimo alligato, quem nautæ fcandalium vocant, & altero leviore funiculo operculo accommodato, ita ut attractus illud aperire poſſet. Itaques manibus propriis utrumquefunem in mare demifimus: vas cafu plumbo pilotico fenfim ad fundumpervenit altiffimum, ſcilicet CXLVII.: quum fenfiterramtenere, minorem funem traxi, operculum referavi. Extraximus opertum mari ple. num, falfo, amaroque, baud majorefalfedine, vel minore quàmquod in ſuperficie pofitum vafe alio guftabamuscompa rando. Ma finalmēte intorno a ciò n'ha rimoſſa ogni dub biezza il chiariſſimo Boile, il qual dice, che non ſolo i tuf fatori moderni inghileſi han fempremai aſſaggiata l'ac qua nel fondo del mare ſalſa, non men, che quella diſopra; anzi dipiù in cerci luoghi della zona corrida ritrovato no una fiata nel fondo del mare pezzolinidiſale, e ſe ne ſervirono a lor agio per condir le vivande i peſcatori. Nó diffimile altresì da queſto dell'acqua ſalſa è quel, che Ari {totele apporta ne’libri delle ſue metcore, intorno al vino; affermando con franchezza grande, che i vapori del vino ſi vengano a cambiare in acqua toſto che ſi riſtringano. Ne men groffa di queſta è quell'altra ridevol balordag gine del noſtro natural filoſofante,intorno al rame; la qual parimente nelle ſue meteore volle, che ſi leggeſſe;cioè, che'l ramenon ſi poſſa per coſa del inondo įn altro color tignere. E quinci veggafi pure quanto male a lor huopo i filoſofi nan turali non ſappian di Chimica. E che direm noi intorno a’mari, i quali dice Ariſtotele eſſer molti, e molti, che non ſi congiungano inſieme, trat tone ſolamente il mar roſſo; il qualſecondo il ſuo avviſe, p piccioliſſime focinell'Oceano Atlático entrar ſi vede Nar ra ancora egli, e follemente giudica i Beti, e la Dannoja naſcer da’monti Pirenei; e nel Parapamiffo l.2 lor prima fő te avere il Battro, el Coaſpe, e l'Indo, e l’Araſle, cche da queſto poi li venga eglia diramareil Tapai. Coſe tutte manifeſtamente falle, e impoſſibili;concioſliecoſachè fap pia ben ciaſcuno tanto quãto di ciò intendente, che'l Coal pe per la Perſia diſcorra, e di la dalla Perſia il Battro allin Battriana Provincia dea nome, e l'Indo naſca nell'Indiwi perchè non è da credere, che fiumi diſcorrenti in Provin cie cotanto infra fé lontane, e rimoſſe, in un modelimo luogo tutti, e da una medeſiına fonte ſorgano; c'l Tanai ſa ben ciaſcuno, che naſca ne'inonti Rifci. Ma di più dice Ffff Ariſtotele, che nella Liguria un fiume grandiflimo; e non minor del Po s'inghiotta tutto, e fi divori dalla terra, e quindi dinuovo poi rinaſcendo diſcorra altrove. Ma in corno al primo naſcimento de'fiumitutti,egli molto ſcioc camente parlando dice, che ciaſcun fi formi, es’ingeneri negli altiſſimi monti dal vaporoſo aere per virtù del freddo a viva forza riſtretto, e condenſo, e diſtillante continuo in acqua nelle naſcoſe caverne, e nelle picciole buche della terra; e quindi poi fa che prendano perpetuo movimento con una cotal gravezza, la quale perrocce, e per burrati, eper lande, e pervalli faccendo l'acqua diſcorrere, eca dere La fa inquieta, inftabile, e vagante. Nel qual modo follemente filoſofando fa egli nafcer non folamente piccioli fiumicelli, e fonti, e poveri rivi, ma no ne ferba anche i più ſuperbi, e vaſti fiumi del mondo. La qual coſa quanto ſia ſciocca, e da ridere, ben può comprenderlo chiunque ha favilfuzza d'intendiinento, fen za ch’lo più ne dica. Eche direm noi di quella così ſmiſu. sata, e incredibile altezza del monte Caucaſos Baja, ch'avanza inver quante novelle, Quante mai differ favole, ecarote Stando alfuoco a filar le vecchiarelle. Eglimillantando delle cime di quello dice, che fino alla terza parte della notte ſian dalfole illuminate; che fatta ne la ragione ſecondochène ſcrive il ſottiliſſimo Peripate tico filofofante Giacomo Mazzoni, farebbe il monte dal tezza almen di ſettant'otto miglia noſtre Italiane per linea perpendicolare; c quì non può non gridar eoli: papa in quos aculeos imprudens me conjeci! rident enim hoc Ariſtotelis dictum Mathematici; putant enim eum pueriliter lapfum efle. Cæterum ego dico eum ſequutum effe famam. La quale ſču fa del Mazzoni Io non lo ſe maggiormente debba fcagio nare, o tacciare il noſtro veritiero, e accortiſſimo Filoſofo. Ma d'altra parte Giuſeppe Blancani famoſifſimo Matema tico, cercando a biftento di menomar cotanta altezza del Mazzoni, la riſtrigne ſolamente a miglia cinquantadue; qua DelSig.Lionardo di Capoa. 509 quia tamen, ſoggiugne poi, adhuo omnem veritatem nimium exfuperat; e biaſimandoſi forte della ſcuſa del Mazzonifa piertiores judicent, dice, num recte philofophus, cujus eſiree condita, &abditadocere, excufetur,fedicatur eum popula. rem famamfequutum effe. Ma fe falla così ſconciamente Ariſtotele in narrando con ſe falſe per vere, non meno errar ſuole egli talora in rifiu. tar come mentite, e falſe quelle, che manifeftamente ſon vere. Così egli nega efſer il vero ciò che cutto dà ſperimé €2 avvenire nelle contrade della Paleſtina, e propriamente in quel miſerabil luogo, in cui già cadde Fiamma dal Cielo in dilatate faldea E di natura vendicò t'offeſe Sovra le genti, in maloprar sì falde. Fu già terra feconda,almopaeſe; Hor acque for bituminofe, e calde, E fteril lago, e quanto ei volge, e gira, Compreſs'èl'aria, egrave il lezzo fpira. Di quel fetidohumorgiammainon beve L'affaticato peregrina, e laſo, Non greggia, non armento:e cofa greve, (Benchefia gravepur, qual ferro;of affo,) Sornuota quaſi abete,od orno leve: L'huom non s'attuffa mai, ne giugneal baſſo. Cosìagevole egli è Ariſtotele a negare, e ad affermare a fuo talento tutto ciò, ch'e' vuole, fenza aver riguardo niuno alla verità. E volle Ariſtotele anche oſtinaramente contendere, e negare contro l'avviſo di molti valent'huo mini, fotto la torrida Zona la terra eſſer abitabile. Ma che direm Noi della Galaſſia, o vogliam dire cerchio di lat te, il quale fecondo Ariſtotele è un incendio perpetuo bruciate nella region dell'aria per l'eſalazioni, che dal le baſſe valli, e dagli alci monti vi manda continuo la cerra; errore così grande, che anche i più cari ſeguaci di lui ſe n'avvidero, e apertamente ne'l ripigliarono; in torno alla qual coſa, ſon veramente degne da notar quel le parole d'Olimpiodoro avvedutiſſimo ſuo interpetre, colle Ffff 2 quali 1 596 Ragionamento Ottava quali egli comincia a chioſar quel luogo: il Reo (dic' egli, fervendoſi del volgar detto ) è di miglior condizione dell attore; concioffiecoſachè allegando tutti gli antichi filoſo fanti nel ciel la Galaffia, ſolamente Ariſtotele portando falſa opinione, nell'aria ła pone; perchè il Campanella eb be a dire:hancfententiam nemo fequacum ſectatur, nifi ftul si quidam:fra' quali non vergognoſli di porre il ſuo nome CeſareCremonini:mathematica,et rationis expertes;e Aver roe, il quale così a capital tiene la reverenda autorità del ſuo caro Ariſtotele, che tranguggiar volentieri fi fuole tutte ſuc bagatelle, e ſue bugie, quantunque groſſe,e fmi ſurate elle fieno, pur ciò non potè a niun inodo inghiottire. Ma che direbbono a’giorni noſtri il Cremonini, e gli altri oſtinati fuoi ſeguaci, fe mercè del Teleſcopio guataſfero quelle tanto picciole ſtellucce, ch’ammucchiare inſieme, e riſtrette laſsù formano la Galaſſia, edi quà ne fembrano per la lor picciolezza una confufa liſta appena di mal di ſtinto ſplendore; il chefenza conſiglio del Teleſcopio be conobbe il fottiliſſimo Democrito, allor che, come Plu tarco, e Macrobio teſtimoniano,difſe eſfer la faſcia del latte non altro,che moltitudine di ſtelle fiffe in quella parte tan to picciole,e non vedute diſtintamente a noi per la lor pic ciolezza, non già perchè allumate non fian dal ſole per lo tramezzamento della terra, come falſamyente ne vuol dar a diveder Ariſtotele ch'abbia detto Democrito, per avval lare il buon nome di quello, con accagionarlo d'un mani feftisſimo errore. Ma chi non fa quanto egli fiafi apertaméte aggirato Aristotele intorno al luogo, e alla generazion delle stelle comete, e quanto fanciulleſcamente e'ne diviſi; e già n'è prie troppo a ciaſcun manifefta la verità, avendone sì ben fa vellato il noſtro Ipparco (che tal meritamente dal Gaſſer di vien chiamato Ticone ) e l'ingegnofisſimo Chepleri, e cotant'altri moderni Aſtronomi, e filoſofanti, i quali n’hā così dimentito, e ricreduto Ariſtotele, chenulla più. E che direm noi intorno all'incorruttibiltà,come dicono del Cie lo, intorno alla natura del ſole, e dell'altre ſtelle? E che direm noi della favoloſa novella della sfera del fuoco? Ne. mi farò ora a voler dir della Terra, la qual ne’libri del Cie lo avendo Ariſtotele poſta ritonda, pure ſpagato, dice ne’ libri delle meteore,ch'ella inverſo Settentrione, alquanto più rilevata, e alta filia. Nedi ciò anche contento, ne’li bri medeſimi delle meteore, come ſe caduto gli foffe della memoria, ciò, che non guari addietro n'avea ſcritto, portas opinione eſſer la terra, non già ritonda,ma da due lati pia na a guiſa ditamburo,o di cilindro, o dirottame di colom na: ftando ella, ſon ſue parole, non altrimenti,che tamburo; perciocchètale è lafigura della terra: equantunque ſi paja ch'eifavelli della terra abitabile, di queſta anche aveans favellato gli antichi filoſofi, i quali egli biaſima travolgen do i lor ſentiméti;mache che ſia di ciò, falfo pariméte ſi è, la terra abitabile efſer a guiſa di tamburo; ondeebbe a di re il Tallo, comechè peripatetico e' fi foffe: Tal che nonſembra l'habitata terra Timpano più,come affermando inſegna Il gran Maeſtro di color,chefanno. Ma delle contradizioni, e mutamenti d'Ariſtotele,i que. li quafi in ogni carta delle ſue opere s’incontrano, lun gofarebbe ora a dire; le quali così manifeſte, e così ſpeſ fe ne'ſuoi libri ſono, chei inedeſimiſuoi parziali non oſan negarle. E conciosſiecofachè molti famoſi ſcrittori s'ab biano preſo briga di fcoprirgliele, tralaſcerò lo al preſen te di più divifarne. Solamente non vo lafciar di trarne a noſtro concio, cheAriſtotele avvegnachè tutt'altro inoſtrar volefle,filoſofar folea non meno incerto e dubbioſo, che il luo maeſtro Platone, e Socrate ſi aveſſer già fatto; e feco dochè più in concio gli rendevali ſerviva delle opinioni al trui; e quelle, e queſte, or abbracciando, or rifiutan do a ſuo talento, non altrimenti che noi nelle varie ſta gioni dell'anno de' noſtri veſtimenti facciamo. E certa mente lo direi co'l dottisſimo Ramo,la filoſofia d'Ariſtotele da quelle vane ciance in fuora, che dir ſi poſſono propia mente ſue, eſfer una confufa meſcolanza de ſentimene ti degli antichi ſoventemente da lui non troppo bene capi 598 Ragionamento Ottavo 1 2 4. 4 capiti, e malamente ſpiegati; ficome in più luoghi delle ſue opere manifeſtamente fi fcorge. Collecta femel iftafunt, dite l'accennato Ramo, de multis, magnis infinitorum authorum; & operum vigiliis; recognita nufquam funt. E piaceſſe pureal Cielo, ch’a’tempi noftridurati pur foſſero imalandati libri di quegli antichivalent'huomini,che più agevolmente ſenza fallo ne ſarebbe creduta cotanta verità, E quinciſi pare, con quanta ragione detto aveſſe l'iſtorico Timeo appo Suida, eſſer Ariſtotele ditardo, ed ottuſo in tendimero: Tίμαι φησιν κατ ' Αριστοτέλες,είναι αυτονευσχερή,θρα συν, πιοπιτή,αλ' ου σοφισών,όψιμαθή.μισον υπάρχοντας το πολυήμητου ιαπιείον αποκεκλεικόG, και στις πασαν αυλήν, και σκηνήν έμπισηδηκόα. Timeo diſse contr’Ariftotele, efser lui impronto, orgoglioſo, rintuzzato d'intendimēto,eda ciaſcuno odiato: il qual con ſue maladizionifi fe ftrada in tutte le corti, e per ogni ſcena pro verbiava; che che ſi dica il Cauſabono: il qualpoco, o nul la inteſo di sì fatte faccende dice, in favellando di Timeo, falfifima enim omniaquæcunq; dedivino viro epitimæus ifte nugatuseft. E le inai ſidee dar alcun luogo alle conghiet ture, più balordo, e ſciocco eſſer veramente ſtaro di quel, chc Timco, ed Eliano ancora ne raccontano e ſembra cer tamente Ariſtotele;perciocchèegli ben vent'anni conſumo nella feuola di Platone,e periſtudio,e ſudor, ch'e'vi logo raffe,nó potè mai avāzarne più che forſe ſi ſarebbe approfit tato il più minutoícolaretto. E ciò maggiormente ſilaſcia credere dall'aver lui molto ſcioccaméte apprefe alcune sé téze del ſuo maeſtro, e molto ſtorpiatele, e malmenatelei. Ma di ciò forte altrove più agiatamente diremo. E ritor: nando ora a ciò, che propoſto avevamo, cioè a rapportar come ſconciamente Ariſtotele cerca talora di contraſtare, ed abbattere gli altrui veri ſentimenti: maraviglioſo certa mente, e degno aſſai da notarſi e' miſembra qucl, che egli dice del ragnolo: ed è,che avendo già detto in prima De mocrito, che le ſottiliſſime fila, onde ilragnatelo con arti icioſo lavorio teſſer ſuole maraviglioſamente le fuc tele, egli dentro le ſue viſcere le ingenerise per lo fondo le trag ga per quella parte ch'è bello il tacere;levofli incótanente fuſo Ariſtotele, e opponendoli orgogliolamente a un tan to huomo, diſſe, che Democrito in ciò manifeftamente fal lava, e che le fila forminſi dal ragnatelo per tutte parti del ſuo corpo, a guiſa di corteccia, o di lanugine, chetut ta gli vadano coprendo la buccia; o non altrimenti che s? avventino le penne dell'Itrice: ου διμύανται δ ' αφιέναι οι αράχναι το αράχνιον, ευθύς γεννώμενον, ουδ' έσωθεν, ως αν περιθωμα, καθάπερ φησί ΔημόκριτGάλ ’ από του σώματG- οίον φλοιόν, ή του βάλον τοίς Dertiv,oi'or ai uspiges: cioè i ragnateli nati appena mādan fuq ri le fila,non già dalleparti dentro aguiſa di fecce d'anima li, come falfamente immagina Democrito, madalleparti di fuori, aguiſa d'una ſcorza, opur di quegli animali, che ſono gliano, Jaettano i peli, come è l'Iſtrice, Ma quì non ſi può ſenza maraviglia coſiderare la traſcu raggine,e lentezza de’poco curioſi peripateticisi quali se zabadar puntoalla verità del fatto,confarne pruova han cosìvergognoſamente ſeguito il parere d’Ariſtotele, laſcia do daparte quello di Democrico;ilquale tutto il corſo del la ſua vita, che fu affai ben lungo, in far eſperienze avea logorato; e tanto più degni di biafimo ſi rendono, quanto che l'impreſa non richiedeva cotanto fenno, e avvedimen to, o fatica per venirne a capo: che ben ancora le feminel le delcontado, e imuratori, e gli ſpazzacamini avveder ſe ne poſſuno, allor, che ne’lor piccioli abituri veggono fa re il tombo agl'induſtriofi ragnuoli, per inteſſer le ragne alle moſche. Ma fu egli certaméte cagioned'un sì folle errore l' aver eſli dato intera credenza ad Ariſtotele.E nel vero, chi mai ſoſpettar avrebbe potuto, eſſere ſtato Ariſtotele così fciocco, e ardimentoſo nel ſuo lcrivere, che manifeſtame te aveffe voluto contraddire al divino Democrito ſenza aver lui in prima ſottilmente conſiderata la biſogna, e ſpe rimentata per più d'una pruova co’propi occhj. la ſua ragio ne; maſſimamente,che a doverne far ſaggio non gli era me ftieri inviar mefli ad Aleſsandro, e farli venir dalla Media, o dall'Ircania, c dalle più rimoſſe contrade dell'Indie nuo ve, e non più conoſciute belve; che ben poteva egli nella camminata della ſua caſa propia veder ne*cáconi i ragnuoli filare; Coo Ragionamento Ottaud; filare;pchèvalſe tátol'autorità d'Ariſtotele,che in coſa co tāto manifeſta ſe ne ſarebbe per avvétura ancoroggi ſepol tala verità, avédo ad Ariſtotelecreduto l'Aldovrádi,e cota. ti altri famoſi ſcrittori,ſe la ſperienza nõ aveſſe nõ ha guari moſtro pienamente aver Democrito la ragione, peropera del curiofiflimo Giuſeppe Blancani in prima, e poi di Tom maſo Moufeto: acceptomanu bacillo Araneum quendam:dia ce il Blancani: ex iis, quicirculares telas, quas nonnulli, & quidem aptè labyrinthos appellant, ingenio utique mathe matico contexunt,fic adii, ut Araneuspro arbitrio ſuper bar cillum liberè inambularet; dum ipſe interim curiofius illums obfervarem quanam videlicet ex parte filum foras ederet: cum ecce tibiaraneus experienti mibi ultro favensfefe exba culo demiſit, ita tamen ut ex filo fuoin aëre fufpenfus rema neret: cum primum obferuo ipſum inverſum, hoc eſt capice deorſum, ventre ſurſum pendere; ut autem acutius cerne rem eum opacecuidam rei oppofui, ne pre nimia luce tenuiffi mum aranei filum aciem oculorum effugeret; quo facto cla riſfimè videbam filum ſeceſſu Aranei prodire. Mamolti ſe coli prima del Blancani avea ciò parimente ravviſato il ſa gaciſſimo Plinio; mane a Plinio, ne al Blancani volle pre ítar credenza il Vosſio padre: così poco acconcio egli eb be l'intendimento a diviſar delle cole della natura. Ma poichè deʼragnateli facciam parole,non tralaſcerò di conſi derare quanto dietro al partorire di quegli il noſtro Ariſto tele vanamente anco s'aggiri, dicendo partorire i ragnoli cotali vermicelli vivi, e non già le uova, come alcuni im maginano; ma quanto ciò ſia dalvero lontano, dicalo in miz vece il diligentisſimo Redi; il quale narra, che per tut te diligenze, ch'egli ulate v’aveſſe, non avea mai veder po tuto ne’ragnateli ſe non l'ovare, e dalle lor uova poi nalce. re i piccioli ragnolini; Ma non meno è da notare ilgravif fimo fallo d'Ariſtotele intorno al Canclo in dicendo efferli ingannati coloro, tra'quali fu Erodoto, che diceano il Ca melo aver più di quattro ginocchjie pur chiaramente ſcor geli, il Camelo, comc Erodoto dicea,aver ſei ginocchji e le cotāto intorno a coinunali e ben conoſciuti aniinali ſcioc chinen camente Ariftotele travede che dovrem noi credere di que's più rimoſſi alle noſtre contrade, e meno uſati,de quali egli nátrâ cotante ſtrane, e incredibili novelle, e più affai, che me diceffe mai fra Cipolla a que’ſemplicicontadini da Cero taldo? Narra egli del Lione Ariſtotele, che non abbia mi dolle alcune nell'offa maggiori del ſuo corpo; ma che ſola mente in alcune delle picciole, cioè delle gambe ne abbia, avvegnachè sì ſottili, e poche quelle ſiano, che par,che af fatto eglinon ne aveſſe; onde egli avviſa poi naſcere l'in vincibil fortezza del Lione. Ma quanto ciò falfo fia, non pure per Ateneo, che forte ne ’ ripiglia, ne ſi fa chiaro;ma dopo lui ancora più apertamente fu dimoſtrato dal chiarif fimo Borricchio; il quale aperti due gran lioni in Afnias, reggia di Danimarca,vide egli avere in molte delle loroof ſa copia grandiſſima di midollc; e prima del Borricchio fu ravviſato in queſta noftra patria in un Lione del Signor D.Tiberio Carrafa, Principe di Biſignano: il quale fu tro vato parimente pieno di midolle; e quinci apertamente fcorgeſi, quanto a torto ſiano accagionati, e biaſimati da’ critici ſeguaci d'Ariſtotele il noſtro dotiſfimo Stazio,paver lui poſto in bocca ad Achillo que'verli nec ullis Vberius fatiaffe famem, sedſpiſſa Leonum Viſcera ſemianimefque libens traxiffe medullas: et gran Lodovico Arioſto, quando fa egli, che la maga Melilla affacciandoti nella forma d'Atlante, all'effeminato Ruggicri così dica: Dimidolle già d'Orſi, e di Lioni Ti porſi.io dunque li primi aiimenti; perciocchè dicono non aver midolle i Lioni; il che an che credendo ad Ariſtotele il Mazzoni, ricorre per difen der l'Arioſto, giuſta il ſuo coſtumein quella ſua infelice di feſa di Dante, a ſottigliezze così vane, e puerili, ch' egli ſteſſo vien aſtretto a chiamarle altrove ſofiſtiche, e cavillo fe: Ma non meno ſciocco è quell'altro crror d'Ariſtotele, diccndo egli aver i Lioni così dure, e falde l'offa, che fre gandoſi inſieme, agevolmente ſe ne tragga il fuoco; non altri oli 12 ull Do le Gggg 602 Ragionamento Ottavo altrimenti, che avvenir loglia nella pictra focaja. Ma ciò manifeſtamente fperimentoſli falſo in que' menzionatiLio ni d'Afnia, i quali comechè fortis e gagliarde l'offa avelle ro, non però di meno per diligenza, chevi fi adoperaffe, non ſe ne potè trar mai picciolisluna ſcintilla di fuoco;, fen zachèſe ciò pur foſſe vero,non ne dovea però cavare Aria ftotele per via d'argomento l'invincibil durezza di cotali offa; concioſliecofachè anco in fregandoſi due tron molto dure, e pieghevoli canne d'India, o due molliflimc ferole, o altri simili legniaccender ſi foglia il fuoco anzicorpi, che fian talmente duri,che in fregandoſi no li roinpano in qual che parte, non poſſono accender in niuna maniera il fuoco. Dice oltre a ciò Ariſtotele, eſfer l'olla del collo del Lione, comeanche quelle del Lupo non rotte, e partite, ficome tutt'altri animali le hanno, e poi per opera de’nodi con giunte; ma tutte intere, e diſtefe in ſu lo ſchenale sì fat taméte, che in niun modo ſi poffan piegare; ma in ciò, oltre a Giulio Ceſare dellaScala ritrovollo in fallo ed apertame. te lo convinſe di bugiardo, il Borricchio; dicendo, per ve duta fermamente di que’Lioni,quorum colla vertebris ſuis, & articulis pulcherrimè diſtincta erant. Finalmente afferma Ariſtotele eller l'orina del Lione di ſconcio, e ſpiacevolisſimo'odore; ondeavvien poi, dice egli, che i cani fiutar fogliono gli alberi, perciocchè il Lio AC, come il cane appoggia una delle coſce al pedal dell'al bero, quando e' vuole ſtallare; c più appreffo ſoggiugne: e lafcia il Lionegrave, e iníopportabil puzzo negli avan zi de cibi, ch'egli divorar ſuole; e ciò avvenir Ariſtore Je ſoggiugne dal peſſimofiato, che il Lione fpira; percioc che, come e narra, le interiora oltremodo putono al Lio ne. Coſa, la quale manifeſtamente da a divedere nõ aver mai Ariſtotele alcũ Lione aperto, o teſtè occiſo,veduto.Ma troppo lúgo ne diverrei, fe tutt'altre novelle d'Ariſtotele in torno alLionerecarlo què voleſli; pchè tacerò acheciò, che: Ariſtotele fognò del Camclo; immaginado egli ſu'l dolfo di quello ungrá gobbo;non avvisādo, il Camelo no averlo maggiore deporci,e de'canize che quella eminéza,la quale nel DelSig.Lionardo di Capoa. 603 nel Camelo ſi ſcorge fia formata da'peli; c ciò, che e' fogaz del Camaleõte,dicédo no averil Camaleõte ſangue, ſe no ſe vicino al cuore; ed eſſerdi carne prive le ſuemaſcello; e'l principio della coda. Ne addurrò per la medeſima ra gione i ſuoi ragionamenti dietro al Coccodrillo alle Aqui le, e ad altri molti animali, che manifeftamente per prud va ora falſiffimi eſſere fi ſcorgono;e tuttavia da'famoſi ſcrit tori de’tempi noftri ne fon notati; me ſolamente è qucftas ventura del noſtro ſecolo; imperocchè nc'traſandati tempi ancora v’hebbe degli affennati, e diligenti ſcrittori, i quali de'ſuoi groſi, e infiniti falli intorno alla ſtoria degli animali manifeſtamente Ariſtotele dimentirono; ed Afinio Pollione, quel famofiffimo, e ſaggio oratore rivale di Mar co Tullio Cicerone, incontro a’lunghi volumi d'Ariſtotele ben diece libri compoſe della natura degli animali; il qual fe pur egli affatto non era ſenza giudicio, e ſcimunito, ben è da credere, che con chiare, ſalde, e ragionevoli fpcricn že n’aveſſe fgannati, e ricreduti de' grandisſimi crrori prefi in quc'libri per Ariſtotcle: c più veritieramente narrata la natura, o le factezze di corali animalida lui ben conoſciu ti; ma la rubberia del tempo netolle cotali fatiche. Ebé s'avvide ancheAteneo dell'infinite bugie narrate da Ari ftotele; ond’ebbe a dire; con qual cura, ö diligenza, potè mai egligiugnere a fapere, che coſa fi facciano i peſci nel ma re, come dormano, e qual ſia il lor vitto,o qual Proteo, o qual Nereo uſcito fuori del pelago alla riva andò araggua. gliargliene. Come gli porè effer noto lo spazio della vitae dell' Api, e delle Moſche; ove mai potè vedere un' edere nata da corni d'un cervio; e dopo aver narrato queſte, e cent'altre novelluzze da ridere, e da tenere a bada la bruz zaglia deʼlettori, dette da Ariſtorele in fu la ſtoria degli animali, riſtucco alla per fine di più annoverarne, trala fcio 1o, dic'egli, di narrar molte coſe,e multe,nelle quali ma nifeftamente lo fpeziale, cioè Ariftotele fi vede avere ſconcia mente delirato. Ma quanto al fatto della ſtoria degli ani mali, Io porto fermislima opinione, non effer vero ciò che narran dilui alcuni, e che buccinavaſigià (ficome riferiſce Gggg 2 Atenco) nella ſua patria Stagira; cioè, ch'egli avuto aveſſe Ariſtotele dalla liberalità del Magno Aleſſandro, per po refla più acconciamente fornire ottocento talenti, che ſo condo la ragion del dottisſimo Budeo giungono alla ſom ma di quattrocento ottantamila ſcudi de’noftri tempi: e che per una sì glorioſa, e mirabil opera gli foſſer deſtinati, co me narra Plinio:aliquot millia hominum in totius Afic,Gree ciæque tractu parere juffa,omnium,quos venatus,piſcatuſque slebant,quibufque vivaria, armenta, piſcine, aviaria in cura erant, ne quid ufquam gentium ignoraretur ab ea quospercontando quinquaginta fermèvolumina de animali bus condidit. E’n queſto parer ini conferma in prima la va rietà degli ſcrittori in narrar queſto fatto; imperocchè Elia no ſagaciffimo ſcrittore, e raro nell'inveſtigar le greche an tichità, dice, che la ſomma de’danari, non già da Alellar dro, ma da Filippo ad Ariſtotele foſſe ſtata donata. Co fazla quale affatto inverifimil ſi pare; conciosliecoſachè a Filippo tra per le continue guerre, ch'e' fece in Grecia, e perle grandi impreſe, ch'e' diſegnava contro la poderoſif kima Monarchia Perſiana, gli faceva meſtiere, anzi d'accu mudar danari, che di ſpendergli,e ſcialacquargli in peſchie rejo vivaj, in uccellami, in cacciagioni, o ſomiglianci co fe. Aleſſandro poi,priina d'incominciar la guerra contro Dario, ad altro certamente dovette badar, ch'a ſomigliã ti ſcacciapenſieri; fcozachè non avea sì gran dominio daw poter ſeguire ciò,chc Plinio millanta; manel tempo della guerra, oltrechè la cura dell'armi era valevole a fraſtornar gli ogn'altra impreſa egli di più era allor divenuto si nimi co d'Ariftotele, che per fargli onta, e diſpetto,mnādò Am baſciadori, e doni a Senocrate ſucceſſor di Platone, e fie ro emulo d'Ariftotele. E dirò ancora, che ſe mai Ariſto tele ebbe parte ne’teſorid Aleffudro, in tutto altro certa mente l'aveffe inveſtico, che in acquiſtar notizia, e contez za delle coſe della natura. Neglimancò agio da farlozim perocchè egli era, come ne da teſtimonianza Tineo:760578 γαςείμαργον, έψαρτυτήν, επ σάμα φερόμενον εν πάσιν: cioè gram paraſito, e divorator delle più ghiotte vivande, ne fi ritene va di gos va difvögliarſi di qualunque cibo. E in oltre non gli mann cò quel pizzicore, per cuii giovani male il loro avere ſpé, dendo, le più fiate miſeramente ne capitano; e tinto s'in veſchiò nella pania, che per amor venne in furore, e matto; e come narra Laerzio,sì fortemente innamoroſli della con cubina d'Ermia, che a leicosì immolò, come a Cerere Eleuſina folean già fare gli Atenieſi; e per tali cagionia tal ſegno di miſeria pervenne, che alla fine riduſſeli vergo, gnoſamente a tradir la patria a’Macedoni: poi tolſe a fare il foldato,ove ne meno eſſendoviſi niente avantaggiato, vode le far borrega di ſpeziale; e anche per civanzarſi nonver gognavafi di vender quell'olio, ove in prima bagnandoſi avea depoſto le ſozzure tutte del corpo; e con fimili ſtiti. chezze s’avvisò di dar compenfo per avventura agli ſcia facquamenti di quella prodigalità, con cui difperfe,e con fumò tutto il paterno retaggio. Io adunque mi fo a cres dere, ch'egli non nai vedefle notomie di morti, non ches di vivi animali; e che folamente ne ſcriveſſe per udito yes per ciò, che ne’libri degli antichi fconciaméte forſe appre lo n'aveva, o immaginato. Perchèpoi così alla rimpazza ta confonde, é meſcola il tutto, ragionando de' nervi, es delle vene, cheben'a lui fi potrebbe adattare quel verſo di Orazio Delphinum ſylvis appingit,fluctibus apram. Così cgli follemente immagina naſcer i nervi,e le venej tutte dalcuore; il qual dice ſolamente eſſer quello, onde il ſenſo, ei movimenti negli animali fi facciano; ne ad al tro fervire il cervello, fuor folamente, che ad alleggiare, e temperare l'abbondevol caldo del cuore. E ſomiglianti altre balordaggini, e fcipitezze narra: anzi maggiori affaiz in ſomma intorno alla fabbrica, diſpoſizione, ed ufici del le parti del corpo umano tanti,e tanti falli commiſe,che ben potè dir Ateneo: coſe tali ſcriffe Ariftotele, parlando della ſtoria degli animali, 'che come dice il Comico, daglá ufcempiati,e pecoroni quaſi a fravaganza,quaſi a miracoloſ gredoro. E ben fi parc, che Galicno medeſimo foffeſi con lui portato modeftamente, anzi che no, allor che diſſe po + 1 CO Ariſtotele conotcerti di notomia. E ben’a noftr'huopo di que' ſettanta libri, i quali, ſecondochè Antigono ne ſcriva, Ariſtotele intorno agli animali compoſe, ſolamen te que’pochi ſe ne leggono, che il tempone laſciò; per ciocchè maggiori cagioni di fallare i ſuoi favorevoli avrebbono; fi enim,dice ſaggiamente il Borrichio,compen dii peccata numerari vix poffunt, illa operis totius modo ex tarent, effent fortaſſis innumerabilia. E queſte adunque só ic gran pruove dell'ingegno maraviglioſo del divino Ari ftotcle queſte le riuſcite delle tante ſpeſe, del tanto aju to,ch'egli ebbedalla liberalità del grand'Aleſſandro? que Ite le ripoſte notizie, ch'egli acquiſtò dalle tante fatiches da lui durare? Ma ſenza venir tinto buccinato, fenza tan ti ſoccorſi, e ajuti, o quant'oltre, non dirò Democrito, no dirò Eraſiſtrato,non dirò Erofilo,non dirò altri antichi, ma un folo Arveo ne'confini d'un Iſola riſtrerto, o quant'oltre avanzoſli, sì chemeritevolmente, e ne ſtupiſce l'aman ſa pere, e l'amira il preſente ſecolo, el celebrerà il futuro, Ma che direi noi intorno all'altre coſe della natura, cu gencralınére in tutta la filoſofia naturale? Eglicosì ſciocco, e gocciolonc fu Ariſtotele, che diffidandoſi di parteggiar lo in ogni ſuo fallo,iſuoi medefimi ſeguaci,talor vergogno ſamente l'abbandonarono. E per nulla dir de' Greci; o d' Avicenna, d’Algazele, e d'altri Arabi filoſofanti,qualno ftro buon peripatetico per Dio fu così teſo, e oſtinato,che talor da lui apertamente non fi partiſſe? cper tacer d'altri, ilBeato Alberto, lume della Criſtiana ſapienza, e della venerabile Ordine de'Domenicani, avendo l'opere d'Ari ftotele ſpiegate, niuna delle ſueopinioni approvar volle; anzi così proteftando i ſuoi ſentimenti alla per fin conchiu de: in his nihil dixi ſecundum opinionem meam propriam, fed juxta pofitiones peripateticorum; & ideo illos laudet, velre prehendat, non me.E quel gran maeſtro in divinità e in peri patetica filoſofia Benedetto Pereira della Compagnia di Giesù, il quale in quel ſuo libro de rerum naturaliums, principiis, dopoaver largamente conſiderati i poco fermi argomenti, c fillogiſmi, con cui le coſe dubbic, e incertes. fievolinente egli tratta, cosi:della ſua natural filoſofia dice: doctrinam rerum naturalium, quam nobis fcriptam reliquit Ariſtoteles, fi quis velitbeneſentire, propriè loqui, nous poteft dici abfolutè,din totum ſcientia; perciocchè riguar dando alle fondamenta di quella, e ravviſandole,che falſe, e che dubbie, e malamente con falde, c naturali ragioni raf fermate, ficome il medeſimo Ariſtotele teſtimonia, dicendo eſſer quelle ſolamente dialettiche: ragionevolmente poi e': ne tragge, e conchiude alla fine: quum igitur phyſica Arifto telis fit falfa pars, pars autem topica tantum probabilia.. contineat, non poteft dici abfolutè, & in totum fcientia. Ma acciocchè perciaſcuno ſcorger (ipoffa, quanto inu tile, quanto vana, quáto priva d'ogni falda dottrina egli ſi fia la filofofia d'Ariſtotele, conviene innanzi tratto da più alto principio imprender la cola. Dico adunque, che per due ſtrade ayviar fi foleano coloro, che agognavano alla ſublime altezza della natural filoſofia pervenire; una, ches quantunque falli, è nondimeno agevole, e piana, echiun que per quella prende il camino, non fida cura veruna di cſaminare, e riandare minutamente le coſe naturali, ma sē. preinai fe ne ſta fu l'univerſalità de'termini, e de' vocaboli, quali a ragionar di tutte apparenze della natura ſenza du rar molta fatica adattar ſi poſſono; e comechèſembri, che tutto dicano, che tutto ſpianino:impertanto, altro non ſo no veramente eglino,ſalvo che vanillime ciance,fra le qua li non altrimenti che ſi faceffero un tempo, ſe'l ver dice l' Arioſto, que’franceſchi, e faraceni cavalieri nel palagio in cantato d'Atlute aggirar tutto dì veggiamo confuſi gl'in cauti, e poco avveduti, fenza mai venir a capo d'alcuna ve rità; ma l'altra ſtrada, quanto più erta,ſtraripevole,e ardua, altrettanto nel vero è più nobile, e più gloriofa. Queſtas calcar generofamente li videro i diligenti inveſtigatori del le coſc, ei ſavj interpetridella natura; i quali diſcorrendo regolatamente, ed offervando con diligenza, guatavano quaſi a ſpiluzzico le coſe naturali. Dopo queſti incomin ciarono a poco a poco ne'tempi ſeguenti gli altri a traviac da queſto diritto ſenticro, ed a tenere la falfa ſtrada;o che ſe'l faceſſero perdebolezza d'ingegno, o per non durar fiatica,o p vana ambizione di farſi capi più tolto in quel cores rotto modo, che eſſer ſeguaci degli altri nella vera, c legit tima maniera di filoſofare. E fu tanta certamente loro ſchiera, e sì copioſa, che ben pochi ne rimaſero nell' arin go del buono filoſofare; di cui potrebbe ben dirdi Pochi fon, perchè rara è vera gloria: i quali per quelche già da quelle ſcarle memorie, che noi rabbiamo comprender fi poffa, furono Anafſagora,Empe docle, Leucippo, cd altri pochi, Che colle dita annoverar fi ponno; perchè ragionevolmente ebbe a dire quel ſatirico: Rari philofophi: numerus vix efttotidem,quod Thebarum porta, vel divitis oftia Nili. Ma ſopra tutti l'incomparabile Democrito adeguando il tutto col ſuo vaftiliſimo ingegno (ini giova dirlo colle pa role di Petronio Arbitro ) etatem inter experimenta con fumpfit; e con principj veramente naturali, cioè a dir ſenli bili,così maraviglioſamente ragionò di ciaſcuna coświ ch’alla natura appartener fi poffe, che a gran ragione nel vero Seneca dopo averlo detto antiquorum omnium fubtilif fimum,antiſtitem literarum.ſapientiæ caput: a chiamar l'ebbe lingua della natura; perchè non guari dopo venendo Pla tone, e diffidandoſi di poterlo col ſuo ingegno ragguaglia re, per uggia, e per invidia volle rabbioſamente dareallo fiamme tutte le divine opere di lui; poſe in non calere co tal vero, e lodevol modo diſpecular diritcamente le coſe della natura, e con univerſali, c apparenti ragioni avvilup pò il cutto. La qual maniera difiloſofare, concioffiecofa chè agevol foffe, fu poi ſeguita,e abbracciata da ciaſcuno, rimanendo quaſi morta,e ſpenta la natural filoſofia; ſe non ſe dopo la morte d'Ariſtotele levoſſi ſuſo il ſaggio Epi curo, ecol ſuo avvedutiſſimo ingegno ripreſe, e riſtorò la morta filoſofia, e la fece di nuovo fiorir ne' ſuoi doctiſſimi orti, ove rinaſcendo viffe, e morio. Perchè non ebbe il torto per avventura Dionigi d'Alicarnaſſo in chiamando il filoſofofar di quei tempi un vano berlingare, e cinguettar di vegliardi ozioſi, e ſcioperati, a ' giovani ignoranți. E Cleante ancora faggiamente ebbe a dire, che gli antichi aveſſero nelle coſe filoſofato,ei moderni ſolamente in pa role. Qualdunquefia maraviglia, ſe così mal concia, malmenata la filoſofia, non potea vantaggiarli nella Grecia. Perchè ragionevolmente diſſe quell'Egeziaco San cerdote nel Timeo, chei Greci eran ſempre giovaniſlimi,e fanciulli: emlwes del muides is ', gépur di enlew oux iso, certè ha bent, dice Franceſco Baccone, id quod puerorum eft, ut ad garriendum prompti fint; generare autem nonpoffint. Così perduta, e ſpenta la buona filoſofia, poco a capi tal tenendoſi i libri diquella, nc punto per huom riſerban doſi, o traſcrivendoſi, avvennc, che infra breve ſpazio di tempo con comune ſcoſcio delle buone lettere, affatto fi perderono; rimanendo ſolamente que’libri de' yani çiarla tori, che al guaſto, e corrotto ſecolo erano in pregio; ne? quali poteſe ben paſcerfi,e nutricar l'ambizioſa vanità de Greci. Ea tanta caduta della buona filoſofia s'aggiunſes poi l'allagamento de'Barbari nell' Imperio Romano, nel quale andandone a ruba ogni coſa, que'pochi libri, che pur v'erano rimaſi, fi perderonſi,; e come dice il teſtè rap porcaco Bacconc, doctrina humana velut naufragium per. pefa eft; & philofophia Ariftotelis, o Platonis tanquam, tabula ex materia leviori, minus ſolida per fluctus tem porum fervatæ ſunt. I qualilibri dapoi imbolati, lo non ſo come, dagli Arabi ſi tramandarono inſiemecolla ſerya, e apparente filoſofia, come altra volta fu detto alle noſtre contrade; e queſta è quella filoſofia,che infino a' dì noftri con tanta loda è ſtata ſempremai ſeguita, e tuttavia nelle Icuole comunemente s'inſegna: e a cui dicevam, che già poneſſe le prime fondamenta Platone; il quale avvegna chè ravviſaſle il yero, e diritto modo difiloſofare: percioc chè difficil molto, e malagevole gli ſembrava a ſeguirlo, lalciofſi talora anch'egli portare alla corrente de' ſofiſmi Ma non però di meno non laſciò talvolta il vero modo di filoſofare; comeagevolmente egli ravviſar fi puote ne'ſuoi Dialoghi, e malimamente in quello, ch'egli intitola il Ti Hhhh.. meo, o della natura. Perchè ben ſi pare, ch'egli ſaggia mente foſſeli attentato di gir anche per quel medeſimo sé tiero, per cui già Democrito, e gli altri primipadri, e ve rije ſovrani maeſtri della filoſofia avviatiſi erano;ma come sébra ad Ariſtotele, no ſegui egli troppo felicemente l'im preſo aringo, e di gran lunga a Democrito addietro reſtoffi. Πλάτων μεν, fono parole d'Ariftotele, περί γενέσεως έσκέψατο,28 φθοράς όπως υπάρχει τοϊς πάγμαστεκαι σερί γενέσεως ού πάσης, αλλα της ή στοιχείων πώςδε σάρκες, ή όσα και η άλων και των τοιούτων, ουδεν·έτι, ουδε. περι αλοιώσεως, ουδε περί αυξήσεως, ένα τρόπον υπάρχει τους πράγμα στν · όλο- δε παρα τα έπιπολής περί ουδενός ουδείς επίσησεν, έξω Δημα reíte;cioè Platone cöfiderò la fula generazione e'l corrõpimēta delle coſe;ne già di tutte,ma degli elemêtifolamēte; trabaſcia doariguardare, come formifla carne, el'offa, e gli altrifo miglianti corpi; ne demutamenti, o come s'accreſcano,o pig giorino cotai corpi feceparola alcuna. Finalmëte nonfu niuno, fe non ſe alla rimpazzata,e lentaměte, che ragionaſſe mai de' mutamēti delle coſe,da Democrito in fuora.Ecomechè que Ito riprédiméto fatto da Ariſtotele al ſuo maeſtro egli sébrë all'intendentiſſimo Patrizio un manifeſto, e falfſſimo appo ſtamento, e maladizione dell'invidia dilui; pur non ha tut to il corto Ariſtotele in così fattamente ragionare; imper ciocchè quantūque Platone in molti luoghi delle ſue ope re baſtantemento favellato aveſſe della generazion delle pictre, de'venti, delle gragnuole, de’nuvoli,del criſtallo, della neve, della rugiada,delvino, dell'olio, e d'altri fi ghi: e ſomigliantemente filoſofato de ſapori, degli odoris e de'colori delle coſe, e detto altresì de’mutamenti e degli accreſcimenti di quelle; e quantunque anche ſpezial mé. zione aveſſe fatta della carne, e dell’oſsa, ecome quelles s'ingenerino; pur no così addētro innoltroſi ne'ſuoi ragio namenti,che toccato aveſse diſtintamente, come con que? ſuoi quattro corpi fi doveſſono mai formar cotante coſe; perchèparve,ch'egliaveſse cominciato a filoſofar colmo do vero, che ſi conveniva; ma poifmagato a mezzo corſo foſſe ricoverato all'apparente. E queſto è quel, che vuole dir di lui Ariſtotele, biafimatone a torto dal Patrizio nella difeſa del ſuo Platone. Ma fu egli anche Platone traſcu rato a ſpiegar comeſi doveſſero partire, o accozzar que fuoi primi corpi, pereffer valevoli a produrre negli organi de' noftriſentimenti gli odori, e i ſapori, e i colori delle coſe; perchè ragionevolmente ſoggiugne Ariſtotele, niun maeſtro in filoſofia, fuor ſolamente Democrito, aver ad dentro ſpiato fino agli ultimi fondi i principj delle coſe. E ciò agevolmente fi può comprendere dallemedeſime paro le di Platone; il qual così nel ſuo Timeo dice: To dº osoīvowle φησιν ώδε γίώ διατρήσας καθαρgν, και λείαν ανεφύρgσε, και έδευσε μυε λώ, και μετα τούτη άς πύρ αυτο εν τίθησι μετ' εκείνο δε εις ύδωρ βάλει και πα Αιν δε εις σύρ,αύθις τι εις ύδωρ"μεταφέρον δ ' ούτως πολάκις εις εκάτερονυπ ' se je Dowăsnutev dzepyáo mo. L'offo vēne formato in queſta guiſa; minuzzădo in prima la terra pura, é netta,meſcolalla, e inu midilla colle midolla;quindila poſe nel fuoco;quindiattuffolla nell'acqua;quindidinuovo la poſe nel fuoco;e cosìriponendola molte frate or nel fuoco, or nell'acqua, sì, e tanto fece, che dell'acqua, e del fuocoquello alla per fin venne a ingene. rarfi. Or chi domine, non direbbe con Ariſtotele, eſſer que. Ito filoſofare alla groſſa colle fole parole, ſenza veder più in là, che la ſola buccia delle coſe perciocchè ſe la terra, come vuol Platone, era pura, e ſchietta, non era, meſtier certamente di sbriciarla; che ſe i cubi, de' quali, ſecondo lui, ella è formata, così ammaſſati, e riſtretti ſta vano, che ſegnale alcun di partiinento non avevano, già quelli veritieramente non eran mica da dir cubi; e ſeguen temcntc non era dadir terra quella, ma una cotal maſſa, che tritata, e minuzzata così ſe ne poteva formar terra, come acqua, comeanche qualunque altra coſa del mondo, ſecondo le particelle,in cui partir ſi poteva. Perchè me ftier certamente non era d'accattare altronde fuoco, o ac qua per lavorar quaſi in fucina, temperando l'oſſo,ſe tutto abbondevolmente in ſe aveva. E ſe i cubi eran partiti, e affacciati nella lor debita figura, che coſa mai potea cosi divili, e sbriciolati tenergli non il vuoto,che perlui coſta - tcinente ſi niega; non altra diſcorrente ſoſtanza, e irrego Hhla h 2 lar un 0121 Ragionamento Ottavo Jarmente figurata; imperocchè ne diquattro foli corpiscos meegli vuole verrebbono a comporſi le coſe cutte del mo. do; ne la terra pura farebbe, e da niun'altra coſa non tra meſtata. O forſe i già detti cubi poteva il ſolo moto tener diviſi? nia dovendo ciaſcun di loromuoverſi,ed eſſer d'ogni banda ſceverato oltre molte altre inconvenienze, n'occor re queſta, che non già un corpo ſaldo, ficomeè la terra: main diſcorrente verrebbero a comporre. E lomigliāte anchea queſta maniera di filoſofare fu quel diviſamento del medeſimo Placone intorno alla generazion. della carne, e de' nervi;ch'egli narra nel medeſimo Dialo go del Timeo; il qualccrtamente non è altro, che una va ga, e ben compoſta diceria; che con vane parole allettan do i ſemplici, e poco intendenti delle coſe naturali, fa, ch egli faccia ritratto di gran filoſofante Al vulgo ignaro, & a l'inferme menti. Perchè non haegli il torto Ariftotele in dir,che il ſuo mae ftro non trapalli più, che la prima buccia delle coſe in filo fofando, e nons'immerga troppo ne'naſcondigli più ſco noſciuti della natura. Di più, dice Ariftotele, e libera mente confeffa, che ſciogliere i corpi fino alla lor ſuperfi cie, come fa Placone, ſia coſa affatto ſconvenevole; per ciocchè dalle ſuperficie non ſi poffono generar qualità, altra cofa, ſe non folamente corpi faldi; il chepuò ben far Democrito co’fuoi acomi. E non molto dopo ſoggiugne: Democrito fembra aver certamente ſpecolata con propia, e convenevol ragione la natura delle coſe. E comechè in parte ingannaſſefi Ariſtotele in ciò dicendo; perciocchè bé fi ſpiega nelTimeo, come talora il caldo s'ingeneri ſenza ricorrere alla ſuperficie: non però di meno ha egli per al tro non poca ragione in biaſimarne il ſuo maeſtro, ſembraa do a ciaſcun ' ch’abbia ſenno, ſoverchio alfai, e ſconvene vole quello ſcioglimento de corpiinfino alla ſuperficie. E noi, le il tempo ce'l concedeffe, ne ragioneremmo per av, ventura più alfai, e forſe altrove ne diremo; ma non è al preſente da traſandar, che ſei quattro corpi di Platone poſſono più ſottilmente ſtricolarli, e minuzzarſi in altre fi gure, come ſi pare,ch'egli in qualche fuogo de'ſuoi ſcritti accennar voglia; vano certamente, e foverchio è a dire, che que'cotali corpicciuoli colle lor figure, e facce dean cominciamento alle coſe tutte del mondo; e non più tolto un ſolo corpo, il qual poi in molti corpicciuoli di moka te, e varie figure partito foſſe. Ma fe pur vogliams contendere, che ne ftritolar, ne partire in modo niu no que' corpi li poſſano, lo.non fo come quattro cor pi ſolamente a formar tante, e tante diverſe coſe, che noi ci veggiamo, baſtanti pur ſiano. Ne meno fo lo certa mente comprendere, come poffan que'quattro corpi cial cun luogo affatto ingombrare. Il che anche avvisò Ariſto tele; comechè egli troppo fanciullefcamente in ciò fallaffe, portando opinione, che le piramidi foffer valevoli a riem piere ciaſcuno ſpazio; nel qual manifefto errore ſmuccian do poi incorfero dietro a luituttiſuoi interpetri, e feguaci; e ne fur forte biaſimati dal P. Giuſeppe Blancani, e prima di lui da Gio: Battiſta de' Benedetti e dall'impareggiabil Geometra Franceſco Maurolico. Ma in cotanti fdruccioli, e malagevolezze abbattendo fi l'avvedutisſimo Platone, riſtando in fu le primeormes del ſuo ſpeculare,non ebbe ardimento d'innoltrarſi d'avā. taggio ne'maraviglioſi ſegreti della natura;e quaſi nocchier rotto per tempeſta in mare, che lentamente vada ridendo i più ſicuri lidi, non s'arriſchio d'ingaggiarſimaggiormen te nell'aſprezze del filoſofare, e folo andò pian piano, e có ritegno palpando le prime facce delle coſe. Ne ciò ba Stando a renderlo ſicuro da' pericoli, non volendo ne ans che affermare alcuna, comechè leggeriffima cofa, feces quaſi in iſcena comparir perſonaggi a favellar diverfaméter ciaſcú ſecodo il ſuo ſentiméto, delle coſe del mondo,e for mò Dialoghi,e ragionamenti in nome altrui per ceſſare i m ordimenti delle varie ſcuole della filoſofia. Ma lo ſcal trito, e fagace Ariſtotele all' apparence filoſofia con ogni sforzo, e con tutto lo ſtudio del ſuo ingegno riyol gendoſi, cercò artificioſamente la coſa naſcondere: e tanto operò, che venne in grado di primo filoſofante del mon 614 Ragionamento Ottauo mondo appreſſo il vulgo;ma qualeſi foffe il ſuoartificio lo brevemente vi dimoſtrerò. Compofe egli quel libro cotão to pregiato da' ſuoiparziali, nel quale delle ſole cores aſtratte impreſe a favellare: e ad eſemplo degli antichi, or di Teologia, or di ſapienza, or diprima filoſofia altiera mente chiamollo; i quali titoli fur tutti poi da' ſuoi inter petri nel ſolo titolo della Metafiſica cambiati. Intorno al qual libro ſarebbe molto da dire;ma chi pur n'è vago di qualche contezza, vegga Franceſco Patrizio, e MarioNi zolio, e Pietro Ramo ilquale con l'uſata ſua libertà,e di ligenza eſaminandolo, trovollo alla fine non eſſer altro, che la medeſima loica d'Ariſtotele, con diverſe parole, e nuovo ordine travolta: e una ſconcia, emalcompoſta me ſcolanza, e guazzabuglio di ſoli vocaboli; perchè manifc ftamente avvedutofene Nicolò da Damaſco, il cui faggio intendimento iguale a quel di Teofraſto, o d'Ariſtotele medeſimo fureputato, comechèegli de'parteggianti d'A riſtotele, c Peripatetico ſi foffe: pur giudicollo inucile af fatto alconoſcimento delle coſe; e de'medeſimi ſenti menti fu anche Plutarco. Ma che che di ciò ſia, immagi nò Ariſtotele aver baſtantemente con cotal libro dato a divedere, ch'egli aveſſe diſtintainente diviſato delle coſe univerſali, e ſtratte, per non doverle poi meſcolar colle fi fiche, come avean fatto gli antichi,i quali perciò ne furda lui gravemente biaſimati,e ripreſi: comechè a torto, fico mei medeſimi ſuoi peripatetici confeſſano. Ma poco cer tamente in ciò approdogli la ſua ſcalterita avvedutezza; perciocchè non è huomo tanto quanto intendente delle coſe del mondo,ch'abbattendoſi ne' libri della ſua natural filoſofia non s'avviſi tantoſto a’primi foglieffer quella tutta apparente, e ideale, ne ſerbare in fe coſa alcuna di ſaldo. Pur piacque oltremodo a no pochi sì fatto modo di ſchera zar filoſofando, parendo egli vago aſsai, e ingegnoſoallas ſembraglia de'giovani; i quali s'avviſavano concotali va ni, e folli diviſamenti, e millanterie già pienamente ſaper tutto, quando per avventura non ſapevan nulla.E la ſcioc ca torma del popolo vi pur correva, maravigliando ſommamente di cotanti termini ſtratti, e fantaſtichi, comes nuovi, e non ancor comprehi dagli ſcolari di baſſo inten dimento, e da dover richieder più profonda, e ſottil dot trina, checoloro non aveano; Semper enimſtolidi magis admirantur, amantq; Inverfis qua fub verbis latitantia cernunt. E per maggiormente farci veder la luna, come ſuoldir fi, nel pozzo, cominciò eglimalizioſamente a voler ragio nare di coſe naturali; e in ogni ſuo capo imprende a dir có qualche menoma faldezza di vera filoſofia; ma toſto ricor re agli uſati fofifmi,non iſpiegando mai nulla di vero,ne manifeſtando qual foffe la natura delle coſe, di cui egli fa vella; ne come di nuovo naſcano, o yengan meno, ne co me patiſcano, o operino nel mondo. Al che riguardando infra gli altri Plutarco, comechè egli non fofse cotanto ſao gace, pur delle vane ciace di lui avveduto; l'allogò di gran lunga dietro al divino Democritose co-maggior ragione in vero di quella pla qualeAriſtotele al fuo maeſtro Platone medeſimaméte Democrito átepofto avea. Ne in ciò cota to teneri,.e parzionali d'Ariſtotele i moderni filoſofanti fono, che reſi talvolta avveduri de'ſuoi trafandamentisan che i pià cari ſeguaci di lui, forte non l'accagionino: e infra gli altri quell'avvedutisſimo fuo Chioſatore, il Padre Ni colò Cabbei; il quale,comechè peripatetico di gran rino meanpur volle apertamétemanifeſtarlo in chiosådo le me teore del ſuomaeſtro.Quia iſte Philofophus (dice ) maximè pollebat ingenio metaphyfico, edapprimè ei arridebatphilofo pbariper metapbyficasabſtractiones: ubi adres phyſicas de venitur, quia ad hos ingenio fuo nonferebatur, ingenii vires nonacuit; ed in un altro luogo: Ariſtoteles magismetaphy ficis obſervationibus affuetus, quam phyficis obfervatur. E finalmente egli conchiude: fed fenties in rebusphyſicis Ari Stotelem non potuiſje metamſapientiæ attingere. Enelvero chi ſarà maicolui, che riſtucco forte, e faſtie dito delle ſue vane dicerie no'l biaſimi, e rimproveri, rin venendo in lui più, e maggiori tacce affai', che non vi rava viſa il Cabbei? Egli primieramente togliendo ad imitazio ne d'O 616 Ragionamento Ottavo ned'Ocello Lucano(ſe pur egli è l'autore di quel libro,che gli viene attribuito ) e diPlatone, oſia di Timeo, a fabbri. car la grandiſſima maſſa dell’Vniverſo tutta fantaſtica, tut ta metafiſica, e apparente, prele per principi delle coſe sé. fibili, e vere, terminitutticonfuli, e generali, e da' noftri sétiméti affatto rimoſſi;del che forteegli è da accagionare; mallimamente, ch'egli medeſimo avvisò pur una fiata, do ver delle coſe ſenſibili effer ſenſibili parimente i principj; e ciò cotanto egli giudicò vero, che preſene ſconciamente a carminare gli antichifiloſofapti. Egli ſono i principi, onde Ariſtocele vuole, che forma te le coſe tutte ſenſibili ſi foſſero, così larghi, e lontani, che ben yi ſi poſſono agevolmente ricoverare curci que'fiſici principi, che varic, e diverſe ſchiere de'filoſofanti,così an tiche, comemoderne alle coſe naturali impongono. E ciò ben ne diedea conoſcere il famoſo ChenelmoDigbinobi lillimo filoſofante del noſtro ſecolo, allor che con lodevo le artificio volendo prender gli oſtinati; e provani peripa terici, fece ſembiante d'effer anch'cgli cocale. Il qual arti ficio dopo il Digbi, molci valenc'huomini d'uſare anche ſi Audiarono. Ma laſciando ciò al preſente ſtare, non iſpie gando mai Ariſtotele ciò, che in fiſica ſia quello, a cuive ramente poſſa adattarſi quella generale, e confuſa ſua difi zione della materia, e della forma:nulla certamente ad in ſegnare e' viene. E nel vero, chemonta per Dio a ſapere, che ciò che di nuovo in queſto vaſto teatro del mondo ap pariſce, e s'ingenera, e li forma, non era in prima tale, po tendo eſservi? ed ecco la gran maraviglia, naſcoſa in prima a tutt'altri antichi filoſofanti, che egli con tante bel faggini millantando innalza, chiamandola privazione; più ragionevolinente forſe da Platone detta occaſione, e non principio delle coſe. Ma che direm noi degli altri due non men ridevoli principi delle coſe, cioè a dir materia, e forma, ſopra le quali fondamenta egli la generazion tutta dell'univerſo va fabbricando? Poveri filoſofanti antichi; voi per iftudio, e ſudori non ſapeſte trovar diviſamenti sì bclli; Ariſtotele ſolo ſeppela nateria delle coſe cſser po 1 tel  tenza, overo in potenza a divenir tali coſe, e la forma alla per fineeſſer un cotal-atto, che dandoalla materia perfe zione, la mandi avanti, e la faccia eſfer propiamente tale. E queſto è quel, che con tanti riboboli, e aggiramenti, e lunghe dicerie eglide’principj delle coſe ragiona. Ma per Dio, ſe non fi fa in che conſiſta la fiſica natura della mate ria, cioè a dire iti cui cada cal potenza a divenir quefta, o quell'altra coſa., come potrà mai ſaperſi poi la fiſica natura della forma, e ciò che abbia afarſi, acciocchè la materia imprender poffa o queſta, o quell'altra diterminata coro per informarſi? e ſe queſte pur non ſi fanno, comepotrā. mai ſaperſi le qualità, l'opere, e le paſſioni delle coſe., come, e che, c perchè l'operazioni ſortiſcano? Se a giovane, il quale apparar voleſſe a fabbricar glio riuoli,dopo molte, e molte vaneciance e' diceffe per fine il maeſtro: attendi figlio, e nota ben tutte mie parole, ch' Jo brievemente ora intendo di manifeftarti il maraviglioſo modo da compor gli oriuoli: egli primieramente convienu ſapere., che l'oriuolo fabbricaſ d'una cotal coſa, che non è mica già oriuolo; perchè ſe oriuolo ella già foſse, non potrebbe divenir oriuolo;ma agevolmente ella può venir oriuolo per.coſa acconcia a farla co effetto coral divenire: certamente,che udédo cotali novelle lo ſcolare, e avveden doſi d'eſler uccellato, Goaffe direbbe, maeſtro voi dite bene; ina quel che lo volea ſapere Io,era qual coſa è quel 12 cotal materia, che voi dite non eſser mica oriuolo, ina agevole a venir tale; e quali ſono quelle coſe, per le qua lidivien tale; ma non ritraendone alla fin riſpoſta, fe pri mieramente di faſso, o di legno,o di ferro,od'altro l'oriuol fi debba comporre; e poi con quai mezzi, e lavorj ſi fac ciz, ſchernito, ed ingannato il ' laſcerebbe colla ſua mala ventura. Or così appunto ſcherniſce, e beffil Ariſtotcle. i luoi peripatetici. Ma Eudemo un de’più cari, e più famoſi ſcolari d'Aristotele, ponendo in non cale l'autorità del maeſtro, çome in altre coſe già fatto aveva, diſse la materia delle natura li coſe eſser vero, c propiamente corpo; la qual ſentenzas fu poifermamenteabbracciata da quel famoſo, e ſortii pe Iiii 018 Ragionamento Ottavo 1 ripatetico noſtro ItalianoAndrea Ceſalpini.Ma comechè il Cefalpini in ciò moltoſi ſtudiaſſe, pur non ritrovandolive Itigio alcuno dell'opere d'Eudemo, ove appiccar fi potef fe, reſtò di farſi più avanti, e l'impreſa in ſu'l buono abbadono. Nemenopotè ſeguirſi il diviſo d'Averroe intorno a cotal biſogna; il qual diſſe doverſi aſſegnare alla materia, comeaccidentile dimenſioniincerte, e indeterminate; per chè non potendoſi a niun partito ſcufare ciò, che dice Ariſtotele intorno alla materia ', ne men riparando in par te gli errori di lui, con iſtorcere, e piegar le fue parole in altri, e diverſi ſentimenti, ragionevolmente il bialima, e'l proverbia il dottiſſimo greco Padre S. Baſilio Magno,dice do: ſe la materia d'Ariſtotele eſsendo incorporea non è, ne: che, ne qualc, ne quanto, ſarà certamente ella, come S.. Giuſtino parimente conchiudc, unacoſa.finta: cioè a dire: una fantaſima, una chimera. Ma avviſando pure Ariſtotele, che in sì fatta maniera fia. fofofandode primiprincipjdelle coſe; perdeva affatto il no me di natural filoſofante, ricorre finalmente', ma troppo tardi a coſe ſenſibili; e pone egli i quattro volgari elemen ti, come ſecondi principj decorpidiquaggiù; ma non ave do ſpiegata la fiſica natura della materia, e della forma,on de fecondo lui compoſtivengono gli elementi, no può ſpie gare (come avea fatto in prima Empedoclc, Tinco;e Plizo tone, componendogli dipicciolillimi corpicciuoli) natu ralmente procedendo, la vera eſſenza diquelli; perchè gli va diſegnando', e deſcrivendo colle lor qualità; maegli poi, come a natural filoſofo conveniva fare, le nature del le qualità non infegna; anzinepure dar briga ſi vuole d'in veſtigarle; ed appenadeſcrive, rozzamente narrando al cunipochi loro effetti aperti, e manifeſtiad ognuno; ed'in quegli anche talora sì ſconciamente e'fallar ſuole', che nul fa più; ficomeallor, che francamente egli afferma, che'l freddo uniſca tutte le coſe diqualunque genere elle ſi lie no; e pur dovea egli avviſare, che'l freddo ralora coniſce. mare il movimento all' acqua, chenon le facea calare a fondo, ſepara quelle coſe, che non convengono nella gravità, e.che di diverſo genere ſono. Così parimente erra Ariſtotele allor chedice, il caldo fceverar le coſe, che di diverſo genere ſono,, da quelle, che convengono inſieme nel genere medeſiino; imperocchè uficio del fuoco ſia col fuo rapidiſſimomovimento di ſceverar l'unedall'altre, cut te le coſe,, che ſiano di qualunque genere, comechè talo ra (il che ingannòAriſtotele )ritrovandoſi rimoſſo il cal do, non vieri, che le coſe più gravi calando più giù ſi ſepa rino dalle men gravi. Manon meno fallar {i vede Ariſto tele allor che egli imprendendo a narrar la natura dell'us mido, definiſce contro a'ſuoimedeſiınidiviſamenti la ſpe zie colla definizione del genere; dicendo: ma l'umido è quello, che dileggieri ricevendol'altrui termini, non può in ſe ſteſso.contenerſi: uygóv dè, tè dóessevoixdin õp.com evőeisov or. E no ha dubbio, che una coral definizione non avvegua al di fcorrente, di cuiegli è ſpezie l'umido.; poichè il diſcorren te altro non ſignifica, ſe non ſe quel.corpo, il quale diſcor re, s'inſinua, e penetra agevolmente, compreſo cede's e non fa reſiſtenza; perchè non eſſendo da ſe terminato prende dileggieril'altrui termine. Ma l'umido, oltre a queſto s'avviticchia in sì fatta guiſa a ' corpi ſaldi,che:ſi ré de ſenſibile; laonde altro.nonè, ſe non che una ſpecie di diſcorrente. E fe l'umido pure è tale, quale il ci.deſcrive Ariſtotele, certamente egli non dovrebbeſi poſcia dirſi fec,.co.il fuoco.con Ariſtotele, maumido; anzi umidiflimo con Bernardino Teleſio, ed Antonio Perſio converrebbe chia marſi. Ne vale a pro d'Ariſtotele ciò che dice Giacomo Zabarella, l'umido convenire in qualche guiſa al fuoco, no già per ſe, eſſendo il fuoco ſecco per fe, ma per accidente: cioè ricevere agevolméte il fuoco il termine altrui,non già per la ſiccità: non convenendo il ciò fare a tutti i corpi fece chi: ma per la tenuità delle parti di quello; anzi contra ſtando la ficcità del fuoco a quel corpo, che terminar lo yo leſſe, avvien, ch'egli non riceva così agevolmente, come i corpi umidi far fogliono, il termine altrui. Ma ſc noi il contrario ſperimentiamo di ciò, che dice il Zabarella, adattandoſi aſſai più dell'acqua, cdell'aere il Iiii fuoco a quel termine, che da altri corpi preſcritto'gli vie ne: oltre ad ogn'altro elemento umido dovrà dirſi il fuoco; che non per altro nel vero Ariſtotele, e i ſuoi ſeguaci affer inano cfler aſſai più dell'acqua, e fominaméte umida l'aria, perchè ſe la ſomma umidità conviene al fuoco, egli non aurà certamente parte niuna in quello la ſiccità; laonde ne anche per accidente il fuoco potrà ſecco mai dirſi. Enel vero la narrazione del fecco da Ariſtotele rapportata,in cui egli in vece del ſecco par che deſcriva il corpo ſaldo, in di cendo, il ſecco eſſer quello, che ſi contiene agevolmente da ſe ſteffo, c malagevolmente prende l'altrui termine: Engordà, no evóerson pèr cireiw opw, duodessor dè, egli non può con venire in modo veruno al fuoco. Or come adunque il Za barella oſa affermare, che'l fuoco fia per ſe ſecco? Oltre a ciò,ſe'l fuoco è per ſe tenue, ſarà anche per fe umido i e ſe il tenue, per quel, che ne dica Ariſtotele,è ſpecie dell'u mido, e’l fuoco non ſolamente da per ſe è tenue, ma nella tenuità l'aria, non che gli altri elementi,vince d'aſſai; con verrà ſenza fallo confeſſare giuſta la dottrina d'Ariſtotele, per fe,e vie più d'ogn'altro elemento eſſer umido il fuoco. Ma vorrei faper quì da Giacomo Zabarella, e da Ar cangeloMercenario, che volle darſi ſpezialmente una si fatta briga: onde, e come potraſli giugnere mai a ſaperes che'l fuoco fia ſecco forſe daglieffetti? ma ond'è, che il folc, per tacer d'altri, giuſta il ſentimento d'Ariſtotele non è altrimenti caldo, comechè produca calore? ſenzachè il fuoco, come afferma Ariſtotele medeſimo,ſovente ingenc rar ſuole l'umidità; come nel ghiaccio, ne'metalli, einu altre coſe molte ſcorger e' li puote; e ſe ogni qualunque corpo, o pure i più di eſſi,fi poſſono fondere in vetro, chi ardirà di dire, che'l fuoco non ſia valevole a inge nerar l'umidità > E fe mai tutte le coſe, o la maggior parte di eſſe in vetro per ſua opera fi cambiaffcro, non di rebbe ciaſcheduno, che'l fuoco le rendeſſe umide primadi fermarle in vetro? oltre a ciò allora quando l'acqua, ſecon, do Ariſtotele immagina, vien dal fuoco cambiata in aria, certamente quella maggior umidi à, per cui aria l'acqua divie Del Sig.Lionardo di Capoa. 621 diviene, in lei s'ingenera dal fuoco. Ma forſe ſarà ſecco il fuoco, perchè, come fcioccamente ſi da egli ad intendere un barbaro autore, ſi ſente da noi ſecco? Ma dal noſtro sé. ſo apertamente ſi ſcorge, che il fuoco ha tutte le propietà agli umidicorpi da Ariſtotele attribuito. Ma forſe per fi nirla argomentar fi potrà la ſiccità del fuoco dal ſuo calo re; ma eſſendo propio del calore, comc Ariſtotele dice, il rarificare, certamente da ciò umido più coſto, che fecco dovrebbe il fuoco argomentarfi. Dice altri, Ariſtotele non l'umido, ma il diſcorrente aver definito; e che fi legge umido nelle fue opere, per colpa di coloro che dallaGreca nella Latina favella trasla tarono i ſuoi libri; poichè eſſendoſi valuto e’della parola sygov nella menzionata definizione, che appo iGreci ora ſignificar vuole qualſifia corpo difcorrére, or fi riſtrigne ad aſprinier ſolo quel, che tra corpi diſcorrenti tien vigore do umidire, e chehumidum, vien detto da’latini. Eglino non bene intendendo i ſentimenti d'Ariſtotele, immaginaro no aver fui l'umido definito;perchè foggiūgono poi: a torto anche vien accagionato Ariftorele d'incoſtanza, e di co traddizione; perchè d' talora dica,Pacqua eſfer più umida dell'aere, e talora affermi (il che una fiata ſembrò pazzia a Galieno ) l'aria eſſer più umida dell'acqua. Ma quanto poco, anzi nulla rilievi a pro d'Ariſtotete ciò, che fingono coſtoro, chiarainente ſi conofce; imperocchè Ariſtotele in coſa appartenente a' fondamenti della ſua filoſofia non dovea ſervirfi di vocaboli ambigui, e dubbiofi; e ſe non v'erano i propj nella fua lingua, il che appena mi ſi laſcia credere, che aveſſe potuto avvenire, eſſendo ella così ric ca, e copiofa divoci, non gli avrebbon mancati modi, e vie di chiaramente fpiegare ciò che cgli dovea dire. Ne li può Ariftotele ſcufaredelle contraddizioni;impe rocchè, per tacer d'altro, dice egli una volta, che la tera ra ſi trovi in tutti i miſti, perchè i corpimiſti, fpezialmen te i più grandiper lo più nel luogo propio della terra ſi tro vano; ma Pacqua, perchè fa ellameſticre a terminare i cor pi compofti, effere lei ſola di que’ſemplici corpi, che terminare dileggieri dale poſſonoyn rifugão ivendéggumasaza έκαςον είναι μάλιστακαι και πλείστον έντων οικείων τόπω·ύδωρ δε δια το δείν μεν δελζεται το σύνθε % και μόνον δε είναι των απλών ευόμισαν το ύδως. Dal le quali parole chiaramente fi coglie., che o abbia Ariſtote. le definir voluto l'umido, o pure il diſcorrente; attribuen-. do egli all'acqua, come propia dote, e non comunea verun altro elemento il potere agevolmēte da ſe terminare; il che certaméte contro quel,ch'altre volte detto egli avea, viene a determinare l'acqua ſola, eſcludendone l'aria, eller o umida, o diſcorrente, M,a nella ragione, che Ariftotele di ciò indi a poco rapporta, ſi vale ſenzafallo della parola vypov a denotar l'umido; e dice eſſer quello, il quale ha, forza dicontenere, riſtrignere, e coaglutinare la terra,la quale ſenza l'acqua verrebbe a diſſiparl.; perchè eſſer:cgli.conchiude, l'acqua parimente neceſſaria alla compoſizio. ne de'miſti, con queſte parole: én dè ry Tosningav ávev Tš vggs μη δύναθα συμμένειν. άλα τούτ' είναι τοσυνέχον ή γαρ εξαιρεθείη - λέως εξ αυτής το υγρόν διαπίστοι αν• Ovc fcοrgerfi puote, che alla terra ancora convenga la definizione dell'umido data per Ariſtotele; nell'opinione del quale ſi pare, che a niuno degli elementi convenga la definizione,ch'egli del ſecco rapporta; ma di ciò ad altri laſciando il diviſare, es Jaſciando ad altri eziádio la briga di moſtrare, ch'Ariſtore le dagli effetti ſtelli,comechè pochi ch'egli rapporta nelles incnzionate definizioni,potca agevolmente cogliere la na tura di ciò ch'egli dice freddo, e umido: caldo, e ſecco: e così poi far anco di que', che chiama lor differenze; accen però ſolamente ch’Ariſtotele alior che fa parole del tenue, in dicendo, che il tenue compoſto fia di picciolo parti,per che ricampie το δε λεπον αναπληρικόν(λεπτομερές γαρ και το μικρομε. pès avænangıxóv.)noſtra ſeguir l'opinione di Democrito e che nella guiſa, che detto abbiamo,filoſofare, comechè rozza mente e ſi vede del tenue; il che dovea certamente c'fare, anche dell'altre qualità. Ma vediamo ora come Ariſtotcle a ſpiegar infelicemen te imprenda la natura del movimento, in cui non ha dub bio, che conllte cutta la nzural filoſofia. Primieramente cyli cgligiúdica eſfer ilmovimento un cotal genere,il qualej comprenda l'alterazione, l'accreſcimento, la diminuzione, la generazione, e’Imovimento, che chiaman locale. In di diſegna, e definiſce ilmovimento nel primo, e nel ſeco do capitolo della fiſica, in cotal guila: rov Suv áués.Övr. ÉVTE. dexaci, ģTovorov, cioè endelechia di quella coſa, la quale è inpotenza, in quanto ella è tale; ed altrove: aivos, évtené.. geta toī XIVSTOU, xuvytor, cioè, il movimento egli ſi è endelechia della coſa, la quale tien potenza a muoverſi, in quanto ella tien la detta potenza. Orchi domine non comprende ſe eſ ſer beffato, e uccellato da: Ariſtotele?maſſimamente, che: egli medeſimo inſegna dover eſſerela definizione più mani feſta, e più conoſciuta affiidella coſa, che ſi definiſce;per chè diceGiovanniMagiro, famoſo peripatetico, eſſere cotal definizione biafimevole', e vizioſa: atque ob eam.cau-. fäm in nonnullorum reprehenfiones incurrit. Ma. Simplicio nondimeno dice', effer quella ſommamente artificioſa, e quaſi divina; ſpiegandoli, emanifeſtandoſi con eſlå in una certa maniera maravigliofamente la natura del movimen to. MaCicerone, e Porfirio affermano ', effer quella voce ŁYTENÉXAtjun vago, e artificioſo ritrovato d'Ariſforele, per uccellar le genti; e nel vero di cotal voce ſoven ti fiate ſervisſi Ariſtotele, non ſolamente per ifpiegare il moviinento, ma l'anima ancora, e quella ſua nuova mtura: anzi ilmedeſimoIddio (coſe ſenza fillo fra eſfo lo ro aſſai diverfe ) con talnomee' ſcioccamente chiama. Per chè ben diffe l'avvedutisſimo Ramo: Entelechiæ fue Ariſtoteles nimium conceſſit nimium indulſit. Ma ſu conceda fiad Ariſtotele così bel diviſo, ne s'atté ti aſcun di privarlo della ſua endelechia; e reſti a quellas comedice motteggevolmente il medeſimo autore, inveſti to in dore il rcametutto della filoſofia; e che più? 'perdonili anche a lui ', che contro le regole della dialettica con voci equivocoſe, e oſcure le definizioni formar fi poſſano:'ela vocc iv terémax",prendaſi pure nella definizion del moto,non già per perfezione acquiſtata, e compita, mache tuttavia fi vadi acquiſtando, comepar che e' voglia: o per me”di re, per la ſtrada p la quale la perfezione s'acquiſti; la qua le ſtrada certamente anch'ella in qualche modo è perfezio ne; perchè meritevolmente è da chiamar con nome di at to della coſa, comechè imperfetto; la qual li è in poten za a mandarſi all'atto perfetto, cioè a dir alla forma, in quanto alla materia la coſa è in potenza,cioè a dire in qua to può ella effettualmente imprenderla. Or dove eglino ſono, dove conſiſtono quelle tante, e sì ſtrane maraviglie, millantate da Simplicio? Quid dignum tanto feretbic promiffor hiatu? Parturient montes, naſcetur ridiculus mus. Apporta Ariſtotele per ifpiegar maggiormente la coſa, l'eſemplo dei rame, il quale comechè poffa divenire ſtatua, nondiincno quel movimento, col quale egli poi vienead acquiſtar la perfezione, e la forma di {tatua, non appartic ne punto al rame, in quanto, ch'egli è rame, ina folame te in quanto egli può divenire, o eflere ftatua xaaxos, dice egli,κίνησίς έσιν ου γαρ το αυτό το χαλκώείναι, και διωάμει τινί κινητώ, έπει & αυτον ω απλώς, και κατα τον λόγον, ω αν και του χαλκού, και ganzes, ÉV TERÉNHO, xívyos, Mache montano alla filoſofia si fatri ravvolgimentidiyaneparole, echiè per Dio, cheno ravviſi,e non ſappia, appartener propriamente al muro, che può eſſer bianco, la ſtrada,o'l mezzo di dover eſſer tale, in quanto cgli eſſer vi poſſa > Chi ciò mai ardà a negare? Ma dell'atto, e della potenza, non ſolamente ſervir ſi voller Ariſtotele per iſporre, e ſpiegare la nariua del movimento; anzi in molte, emolte altre opportunità egli sì fattamente gli ripete,che ragionevolmente infaſtidito Bernardino Te. lelio ebbe a dire: Magnos mehercule Ariſtoteles, ut ingenuè fatetur ipſe, actus potentiave diſtinctioni gratias debet;cu jus nimirum upe ex anguftiis quibuſvis evadere nibildefpe rat; il che parimente venne avviſato da Antonio Perfio. E nel vero Ariſtotele ſpelle volte ſi ſerve dell'atto, e della potenza per rattoppare, e rabberciar le ſue Idruſcite does trine; e certamente quelle duc voci il traggono da’più ma lagevoli,e intralciati laberinti della națural filoſofia. Ma ſe finalmente definir mai voleſs Ariſtotele quel movimento, che chiaman locale, certamente egli converreba be ricorrere alla general definizione del moviméto, có giu gnervi d'avantaggio qualche diviſamēto proprio del moto locale. La qual coſa: ſecondo lui,non ſarebbe molto ma lagevole a fornire; comeeper raffermar la ſua ingegnoſif lima definizione del movimento ne fa pruova nell'altera zione, così definendola: l'alterazione, è atto di quella coſa, la quale ſi può alterare, in quanto ch'ella alterar fi puote: αλλοίωσης μεν γαρ, και του αυλοιωτού ή αλοιωτών, εντελέχω. Adunque così ancora andrebbe, ſecondo Ariſtotele,nelmo vimento del luogo la definizione: egli è il movimento del luogo, endelechia, cioè atto della coſa, che ſi può lotal méte muovere, in quáto ella ſi può localmente muovere; la qual definizione,ſe accóciaméte ſpiegherebbe la natura del movimento locale, dicalo in mia vece il medeſimo Ariſto tele, che in trattando del moto locale, a valer non ſe n'ebe be. Matacer non fi dee certamente quì, che Pier Ramo avviſando non dovere effer il genere d'una coſa, genere anche delle ſpecie di quella, perciocchè troppo rimoſſo, e lontano le ſarebbe: preſe agio di gravemente punger Ari ftotele collarori di lui medeſimo, così dicendo: Hic ende lechia rurſusnon imperfecta,fed abfoluta exprimitur; &ta mrenfo genus effet motus, non poſsetefseproximum genus cui libet motusfpeciei. Ma chi poi voleſſe eſaminare, e riandare le altre definizioni d'Ariſtotele, rinverrebbe veriſſimo sé. za fallo l'avviſo di Lodovico Vives; il quale, comechè non fi vegga mai pago di lodarlo, impertanto ebbe a dire: Ari Stoteles eſt in definiendo vafer, occultus adeo, ut pleraquefine idcircò in ejus philofophia incerta, da perplexa, parum etiam vera; dum magis curat quem in modum reprehenfionem ex cludat, quàm ut afserat verum. E perciò funneanche da Attico, eda Temiſtio alla ſeppia aſſomigliato. Ma tanto e tanto Ariſtotele dell'oſcurezzaſi compiacque, e così ſo vente in iſcrivendo uſolla, ch’ebbe a dir di lui ragionevol mente nel vero il P. Elizzaldi: Summa laus Ariſtotelis ob fcuritas fuit. E quantunque Ammonio s'attenti di ſcuſa re Ariſtotele, dicendo Ariſtotele eſsere ſtato oſcuro a bel Kkkk lo ſtu 626 Ragionamento Ottavo rezza, lo ſtudio, non per altro, ſe non ſe per iſpaventar coll'oſcu ed eſcludere dagliſtudi della filoſofia, e dalla lezio de'ſuoi libri gli huomini d'ottuſo, e baſſo intendimento; il che ſi pare, che'l medeſimo Ariſtotele dir voleſle in quel la lettera, fe pur fu ſua, e non da' ſuoi ſeguaci finta, ch'e gli ſcritta l'aveſſe ad Aleſſandro, che da Aulo Gellio venne nella latina lingua traslatata s'ngoja nixovs libros, quos edi tos quereris, non perinde, ut arcana abfcondiros,neque editos ſcito effe, neque non editos; quoniam iis ſolis, qui nos au diunt, cognobiles erunt; impertanto sì malamente venne fatto ad Ariſtotele d'aſcădere la vera cagione del ſuo ſcri yere così oſcuramente, che fu ravviſata da ognuno in gui ſa, che non poſſon far dimeno i medeſimi peripatetici ta Jora di non confeſſarla apertamente; e per tacer di Simplią cio, diTemiſtio, e d'altri molti: l'autor della cenſura de'libri d'Ariſtotele dopo averlo ſtrabocchevolmente commenda to, alla fine purdice in facendo parole delle ſue oſcurez ze: Accedebatad hæc ingenium viri te&tum, & callidums, &metuens reprehenfionis, quod inhibebat eum ne proferret interdum aperte, quæ fentiret; inde tam multa per ejus ope ra obſcura, & ambigua. Ma laſciando ciò ſtare alpreſente, nomeno che nella definitione,egliſi ſcorge eſſer Ariſtotele infelice nella diviſione del moto.Vuolegli,comeè detto,ſei eſſere le ſpezie del moto: cioè generazione, corruttura,al terazione,accreſcimento,diminuimiento, e moto locale; ma a chiunque bene, e ſottilmente la coſa ragguarda, niuna altra forte di movimento ſi fu avanti nella natura, ſe non ſe locale; e nel vero tutte le ſpecie addotteperperAriſtotele, altro non ſono,ſalvo che movimenti locali; e ſi pare,che'l medeſimo Ariſtotele ciò anche confelli; concioſliecoſachè dica egli una volta, che'l moto locale ſia il primo de’moti, eche niuna delle p lui mézionate ſpezie del moto ſi poſſa no ritrovar " inquemai diſcopagnate dalmoto locale; ed uną altra fiata apertamente affermi, che il ſolo moto locale ſia quello, che dir ſidebba propriamente moto. Divide Ari ſtotele primieramente ilmoto locale in ſemplice, e miſto; ſemplice chiama egli quel movimento, il quale è ſempre mai uniforme,e fimile a ſe medeſimo. Il moto semplice è di due maniere, retto,e circolare;cöcioffiecoſache di due mas niere ſiano le grádezze séplicirerte pariméte,e circolari; la qual ragione,quáto frivola,quanro yana fazlaſciù a voi a conſiderare, Il moto çircolare, il quale ſolamentegiuſta il ſuo avvilo, è perfetto, e regolare; vuole Ariſtotele eller quello, che fi få intorno almezzo; ma il retto allo incon tro eſſer quello, che faffi in ſuſo, ed alla in giù, Mataçé do, che avviſar dovea Ariſtotele que’movimenti, ch'egli immagina farſi intorno al çētro della terra, non eſſer altra mente circolari ', ma ellittici, follemente nel yero egli fi da ad intendere avermoto ſemplice nell'univerſo, che retto non ſia; imperocchè qualunque corpo, cheſi muove convien certamente, che ſe'n vada ad occupare il luogo a ſe più vicino; perchè ſarà mai ſempre ogni ſuo moto ret to, e formerà mai ſempre col muoverſi linee rette; laonde i moti obbliqui tutti,cácora que’che circolari ſi chiamano, altro non ſono, che moltiſſimi, e poço men chę infinitimo vimenti retri; i quali ad ogn' ora facendo angoli, a formar vengono moltiſlime, e poco men, che infinite linee rette; laonde niun moto del mondo farà circolare; imperciocchè niun moto, che in giro fi faccia mantener il corpo maiſemi pre potrà dal centro ugualmente lontano; il che richiede Ariſtotels nel inoto circolare. E quinci ſcorgeragevolme. te li puorc, quanto dal ver ſi diparta ciò che appreſo Ari ftorelc diviſa, poço faggiamente, confondendo i membri della diviſione, dicendoil moto ſemplice eller di tre ma niere: l'una di quello, che ſi fa intorno al mezzo, o lia centro: l'altra diquello, che ſi fa dal mezzo; e l'altra di quel, che ſi fa almezzo; ma degna ſenza fallo è d'aſcol tarſi con grandiſſime riſa la cagion,che di sì fatta diviſio ne cgli reca,françamëte affermando tre eſſer i ſemplici mos vimenti; concioſliecofachè abbiano i corpi tre dimenſioni, Quinci li coglie eller falſa, e vana del pari la menzionata diviſione del moto d'Ariſtotele; enon aver moto veruno nell'univerſo, che compoſto eſſendo del retto, e del circo Jare, miſto con Ariſtotele dir veramente ſi poſſa. Ma trapaſſando a quella diviſione del moto, così cele bre ne’libri d'Ariſtotele, in naturale, e violento:veramen te in iſpiegare i membri di quella oltremodo vario, ed in conſtante e ' li moſtra; perciocchè una fiara dice, il moto violento eſſer quello ch'altrõde vien comunicato; il che ſe vero fofſe, vana ſarebbe la fua diviſione; imperocchè ogni moto, giuſta Ariſtotele, altronde procede; e un'altra vole ta poi, no badado a ciò che prima avea detto,egli afferming comechè da altri cagionato effer poffa, trondimeno alcun movimento eſſer naturale. Vltimamente Ariſtotele vuole, che quel moto djr ſi debba violento, il quale venga cagio nato da eſterna cagione in un corpo, che il ripugni; maſe il moto altro veramente egli non è, fe non cambiamento di luogo, e al corpo non meno è natural queſto, che quell altro luogo: certamente al corpo niun moto ſarà mai vio lento; e ogni qualunquemoto, che nell'univerſo ſi faccia, dovrà dirfi naturale. Ne la terra, o altro corpo dique'che chiamanli gravi da ſe, comeinſieme col vulgo immagina Ariſtotele gripugna il ſalir in alto, quantunque ſi paja a noi, che non veggiamo que' corpi, che la ſpingono giù, e fan ch'ella ripugni il ſalire. Non ſembra finalmente conforme a quel ſuo famofo detto, ch'ogni coſa, che ſi muove, per alrri ſi muova, la diviſione,ch’Ariſtotele reca del movime to, in quel, che vien fatto da fe, e propio chiamato, e in quel, che da altri faſli, e per accidenteè detto. Ma una cotal diviſione mi fa ſovvenir, come ſconciamente fallò Ariſtotele nel dire, che'l generante muova ancor quando è lontano; anzi ancor quando più non è; e che le ſue intel ligenze muovano moralmente; il che ancora di colui che'l tutto muove empiaméte oſa egli affermare; che tanto egli è nel vero, quanto dire, che le intelligenze muovano non movendo le ſpere celeſti dalui ſognate. Ma dovea Ariſto tele avviſare, chela maniera dell'operare del Sovrano Mo narca dell’Vniverſo è molto lontana, e differéte da quella, che'l più acuto umano intendimento poſſa vnquemai im-, maginare;e comeegli già traſſe dal nulla le corporee ſoftá ze colla fola volőtà, colla quale potè dar loro il moro anzi gliele diede ſenza fargli puntomeſtier di toccamento veru no; e che Iddio ancora fa, che gli Angioli parimentes. comeche inviſibili fpiriti,pofanomuovere, avvegnachè nă tocchino le corporee ſoftanze; e laſciando di riferire, che dican di ciò Guglielmo da Parigi, l’Aureolo, e altrimae Ari in divinità, iquali non fi prendon briga più che tanto di venir a' particolari: Io vado conghietturando, che: dar poſſano il moviméto gli Angioli a ' corpi,in quella gui ſa per avventura, colla quale fuole l'anima ragionevolea allor che muove il ſuo corpo; la quale certamente altro nā fa allorche muove qualche membro, ſalvo che dar altra determinazione per opera della volontà a que' rapidiffimi movimenti di que’minutiſſimicorpicciuoli, che continuo dal fangue vengon per l'arterie a'nervi compartiti. Argo mentali eſser vero ciò dall'oſservare, che ficome ſcema, o creſce in cotalicorpicciuoli il movimento, così più o me no all'anima di muovere le mébra del noſtro corpo vié per meſso; non altriméti forſe l'Angelo, comechè non ſia lor forma, come è l'anima del corpo, muoveicorpi determi nando altrimentii moti de'piccioliſſimi corpicciuoli,ch'en tro lor fono, o pure que' dell'aria, o dell'etere, che gli penetra,e gli circonda; e'n quella guiſa, che'l vento soľ acqua muover logliono le piume, e le frondi, faccian ancor cglino cambiar luogo a queſto, e a quel corpo; ed eſsen do il moto delle particelle, che l'etere compongono, rapi diſſimo:può l’Angela determinandolo condurre in brevif fimo tempo da un luogo a un'altro,comechè lontaniffimos icorpi. Ma laſciando queſta curioſa digreſſione a ' facri Teologi, e al noſtro Ariſtotele ritornando, lo dico,che no men, che s'aveſse fatto del moto, ſcioccamente falla in di viſando del luogo: imperocchè egli dice eſsere il luogo quella immaginata ſuperficie delcorpo, ove la coſa allo gata ſia; la quale opinione, comechè egli la toglieſse di peſo comealcun giudica daPlatone, o da Archita,dal quale tolſe anche quella fconcia diviſione dell'ente cotanto da Lorenzo della Valle, e da altri deriſa, pure egli sì disfor mata la ci reca, che nel vero ſembra, che più toſto egli ab. + bia 630 Ragionamento Ottavo bia ſecondarvoluto l'opinionedelvulgo, il quale non fa diſtinguere il vaſo dal luogo: che adombrar i ſentimenti di que'valent'huomini; e sì ſciocca, c irragionevole parves una sì fatta opinione a Filopono, per tacer d'altri Peripa tetici, che acerbamente ne ripigliò il maeſtro; e nel yero ſe'l luogo, comeragion perſuade, e Ariſtotele medelimo inſegna, appartiene a qualſifia minima particella del corpo locato, dovrà ſenza fallo il luogo aver parimente riſpetto a qualunquc minima particella del corpo locato,e farli da quella ingombrare dimaniera; che a tutto il corpo locato corriſponda tutto il luogo, ea qualunque minima particel la del corpo corriſponda ugual minimaparticella di luogó. Conie potrà mai dunque conſiſtere la natura delluogo nels la ſuperficie più vicina del corpo contiguo, la quale a cir condare, e ad abbracciar viene il corpo locato, ed è affat to fuora di tutte le particelle di eſſo corpo; perchène ſegui rebbe, chemoyendoſi un corpo, non ſi moverebbono tut te le parti di eſſo, per tacer d'altre; e d'altre ſconvenevo lezze a'peripatetici medefimimolto ben conoſciute. Ma per nulla dir di ciò, che dice Ariſtotele del tempo, il qual ſe la mente noftra non ſi deſfe brigadi partire, e di numerar il movimento; in niun modo ſecondo lui ci ſarebbe: chen ti,per Dio ſono i diviſamenci d'Ariſtotele, dietro allana tura, e alla propietà del corpo? E laſciando ciò ad altri cô ſiderare, accennerò ſolo quanto egli vanamente s'aggiri in yolendo filoſofar, oltre alle qualità menzionate, della ra rità, e della denfità prime, comedicç'una volta ditutte ale tre qualità del corpo,Si fa egli follemente a credere, mora ſo da leggeriſſime ragioni, poter un corpo rarificandoſi in grandire, e ſenza giunta d'altro corpo ingombrare mag gior luogo, di quel che prima egli ingombrava, e maggior di fe divenire;e allo incontro poi ſenza eſſer in nulla ſcema 10, e ſenza entrar l'une delle ſue particelle entro l'altre,po tercondéſandoſiingombrar il corpo minore ſpazio di quel, che prima egli ingombrava, e divenir minore di quel ches prima egliera, Machi potrà mai ridire, come ſconciamē. te egli poi favelli della luce, come de' colori, come de? (1 pori, come degli odori, comedell'altre ſenſibili qualità.: Ma non è mio intendimento di volervi quì ad uno ad uno tutti i fallimenti d'Ariſtotele narrare; che ſe un tal filo pré delli di ragionare, certamente non ne verrei mai a capo; c nel vero ov'egli follemente non aggiroffi in filoſofando di que'corpi,ch'egli chiamaſemplicide’miſti, edelle lor qua lità? E quanto ſpiacevoli in verità ad udire ſon que’lunghi, e fuor di propoſito diviſamenti, ch'egli fa del Cielo, dell'a. nima, e delle ſue operazioni, dell' aere, de' venti, delle piove, de'fulmini, dellaneve, del tremuoto, dell'altera zione, dell'accreſcimento, della diminuzione delmeſcola mento, della generazione, della corruttura, c d'altre coſe naturali non iſpiegate certamente da lui naturalmente, fi come facea meſtieri: chenti, ſono le diviſioni, chenti, gli argomenti, in che fu egli sì infelice, che ne meno eb be ventura di poter le più vere propoſizioni provare. Ma ſopratutto in Ariſtotele mi par da notare, ch'egli in tutte le ſue opere ſi ſtudia colla ſua loica d'avviluppar mai ſem pre la verità, e di crollare, e mandar a terra i buoni, e veri ſentimenti de' più celebrifiloſofanti; perchè da Santo Am brogio venn'egli chiamato:ftudiofus impugnāde veritatis;ç molto avātidi lui per le medeſime ragioni l'antichiſſimoPa dre Tertulliano avea detto la dialettica d'Ariſtotele:artificē Aruendi, &deftruendi verfipellem in fcientiis coactam in co jecturis duram, in argumentis operatoriam contentionum ', moleftam etiam fibi ipfiomnia tractantem, ne quid omnino tractaverit. Ma non ſo come fuggito mi era dalla memoria ciò che Io avea determinato di dirvi del bel diviſamento, ch ' Ari ſtocele fa delmondo. Afferma egli il mondo di neceſſità eſſer perfetto, avendo egli larghezza, lunghezza, eſpel ſezza;dalle quali dimenſioni in fuora, altra grandezzaw, non v'abbia, dache queſte tre ſole ſon tutte le coſe; e ove fiano due, allora non diciamo tutti,ma ambodue,& aggiu gnendo a tre, allora in prima diciam tutti; il che effer di sì fatta maniera, la natura il ci inſegni, ece l'additi: c.chę per tal cagione,ci ſoggiugne cotal numero uſavali ne'ſacri ficj; nel che Ariſtotele fra tantiaggiramenti avviluppofli, non per altro, ſalvo che per iſpiegar alcuni ſencimenti de Pittagorici, da lui malamente inteſi. Quindi apertamé te appare, quantograndefata ſi dia la cracotanza di quel miſcredente Arabo Vano immaginator d'ombre, e di fole: d'Averroe in dico, il quale privo affatto d'intendimento ärdì a dire eſſer Ariſtotele la norma, el'idea a noi prepoſta dalla naturaper maraviglia di tutti iſecoli, e per addicar ne l'ultimo sforzo, e l'intero compimento d'ogni umanaj perfezione: e che egli venne a noi conceduto dall'eterna providenza per noſtro ajuto; nelle cuiopere non s'è potu to per lo travalicamento di quindici ſecoli error alcuno ri trovare; e in fine ch'a miracolo Natura il fece, e poi ruppe la ſtampa; anzi tanto s'avanzò oltre la follia d'Averroe, che diffe, fe ad Ariftotele folo voler dare intera credenza infra tutti gli altri huomini del mondo; e ne meno eccettuonne il fantili. mo Profeta Moisè, qualor difle aver Moisè dette molte coſe, ma niuna provata; al che aggiugner volle, per tacer d'altro, quell'altra beſtemmia; che coloro, i quali affer mano Iddio ritrovarſi per tutto, ſian fanciulli, e che di ſtruggano, e mandino a terra l'ordine tntto delle cagioni naturali. MacomechèAverroe foſſe di sì ottuſo, e ballo intendimento: impertanto valſe tanto la ſua autorità appo gli Arabi, che vennero a gara da tutti abbracciare, e come verità infallibili credute furono le dottrine d'Ariſtotele; laõde cõvēnè aʼnoſtri Teologi, p.poter cõvincere i ſeguaci di Macometto,quella dottrina,che appo loro era in pregio, ed iſtima apparare; e introdurre nelle ſcuole la filoſofia di Ariſtotele, o pure quella, che ſi contiene ne' libri, che ſi leggon ſotto il ſuo nome; căcioffiecoſachè dietro a tal con venente gran piari fieno infra gli ſcrittori. E veramente alcune di quelle non pajono d'Ariſtotele, come p teſtimo niāze di Tullio,di Laerzio, di Suida, e d'altri antichi ſcrit tori,e di Mario Nizolio, e di Frāceſco Patrizi, e d'altri mo derni autori fi può affermare; nondimeno però nei, co une que me que', cheveggiamo concordevolmente in tutte quell opere, che portano in fronte il nome d'Ariſtotele, da libri neobanuárwv in fuori, l'iſteſſo modo di filoſofare: portiai moopinionceſfer tutte d'Ariſtotele, o pure da qualche ſuo ſcolare ſcritte ſecondo i diviſamenti del maeſtro: Mala ſciando ciò ſtare al preſente, chiaro da quel che ſi è fin'o ra detto fivede, non eſſere conſentimento comune degli huomini in eleggere Ariftotele per primicro filoſofante; perciocchè nel lungo travalicamento di cotanti anni, dopo le prime voci del ſuo nome, forte vanamente infra gli Araa bi per dappocagine, e ſciempiezza del loro intendimento, gli altri tutti corſero lor dietro Qualcapra all'altra perſentiero alpeftro: non con fermo, e ragionevole avviſo, perchè non eſſendo vi elezione d'animo faggio, e avveduto, è da dir con Bac cone, coitio, non confenfus; e come dice il Ciampoli, copia comune, non già opinione comune. E nel vero ponendo in no cale l'originale, ad altro non badarono le ſcuole, ſe non ſe a far copie continue di quelle ſconce; e mat fatte copie del lor primiero maeſtro Ariſtotele: cd a ciò anche fare i ſemplici,e rozzi ſcolari coſtrignendo;perchè non ſenza ca gione fu detto dc' peripatetici da Lorenzo della Valle, il quale veramente fu ilprimo, che liberò la filoſofia da quel cieco,e miſero fervaggio,in cui miſerevolmére giaceva fot topoſta:Pudet referre apud quofdam elle morem initiandi di fcipulos, &jurejurando adigendi, nunquam ſe Ariſtoteli re pugnaturos: genus hominum fuperftitiofum, atque vecors, defe ipfo malè meritum; cum ſe facultate fraudent indagă då veritatis; quos fi reprehendere jure optimo poſſumus, quod hanc ſibi legem impofuerunt, qua tandem infectatione caſti. gare debemus, fi hanc legem in alios transferunt; ſenzachèno dee giudicarſi opinion comune in filoſofia quella, che nella fchiera de volgari filoſofi ſoli, avvegnachè innumerabi le, alligna; ma più dalla qualità degli avveduti ragguarda tori delle coſe, che dalla copioſa ſembraglia del popolo è da ſtimare; perciocchè, come teſtimonia il Romino Ora tore, la filoſofia, dipochigiudicatori s'appaga, cabello L111 ftudio ſchifa la moltitudine a lei ſoſpetta, e odioſa: eft phia lofophia paucis contenta judicibus, multitudinemque conful ty fugiens, eique ipfi, & fufpe ta, & invifa; eragionevol mente in verità; imperocchè, come ſaggiamente avviſa il Baccone: nihil multis placet, nifi imaginationem feriat, auf intelleétum vulgarium rationum nodis adftringat;perchè dir ſoleva Ariſtotele folamente in favellando la parte maggio re, ma nel giudicar poi la minor parte doverfimai ſempre {eguire. Ma ciò, che de' Peripatetici abbiam noi ſin ora diviſato, deſli ſenza fallo anche dire degli altri parteggian çi; de'quali tutti ebbe a dire quel valent'huomo, noneſſer credenza infra’filoſofi così ſtrana, e rimoſſa dalla ragione, che non abbia ritrovati i ſuoi difenſori. E sì abbondevole fu nel vero la greca filoſofia di sì fatte ſconce, e inveriſi mili opinioni, che non ſenza cagione fu detto da Varrone nemo ægrotus quicquamfomniat Tam infandum, quod nonaliquis dicat philofophus. ma prima potrei col Poetacotar nella diſerta piaggia l'are nege nel mar turbato l'onde,che gire ad uno ad uno anno verando degli antichi filoſofi i fallimenti; de quali più forſe ne ſarebbon conoſciuti, ſe a noi foſſero pervenute tutt'altre opere di coloro, dicui Già lunga notte involve i nomi, e l'opre. Maavendovi, come di ſopra avviſammo, infra' greci me. dici alcunivalentiſſimi maeſtri, i quali ſi valſero dell'opi nioni di Zenone, e d'Epicuro in filoſofando delle coſedel la medicina, nõ farà per avventura fuor del noſtro propo fito il brievemente accennare i miei ſentimenti intorno al la ſtoica, ed epicurea filoſofia. E per cominciar dalla ſtoi ca: grande certamente ſi fu la follia di Zenonedella ſetta ſtoica primo maeſtro, e fondatore, il quale avendo ben potuto fcorgere quanto ſi foffe oltre avanzato ſopra tutti i greci filoſofantiDemocrito nella vera ſtrada del filoſofa re, volle nondimeno più coſto gir dietro alla traccia di co loro, che apertamente avean da quella traviato; e Com? mechè men vaneggiante affai d'Ariſtotele Zenon fi mo Atri in iſpiegar le coſe della natura, non però di meno egli ancora nelle maggiori ſtrette fuolentrar nel pecoreci cio, ſenza divifar nulla di ſaldo. Così in ragionando delo la mareria la delcrive largaméte con termini (tratti e genes rali,come appūto diviſato in prima n'avea Pittagora, e Pla. tone,e Ariſtotele; della qual coſa ragionevolmēte ne fu egli force biaſimato da Seſto Empirico; eavvegnapure,ch'egli cófesſaſſe eſſer vero corpo la materia, e chiamaſſe la forma nõ cagione, ma parte delle coſe:nondimeno non iſpiegando appreſſo, che coſa veramente la formalia, e in che conſi ſta la natura del corpo, e come formar variamente fi poffa, e ne meno ſcendendo poialparticolar delle qualità, mani feſtando, e dichiarando chente fia la lor natura, ecomes ingenerino: è da dir, che neile medeſime ſconvenevolezze egli ancorcada, nelle quali già in prima detto abbiamo eſ. ſer Platone, e Ariſtotele vergognoſamente caduci. Ma non ſembra vero ciò che Cicerone, e altri fcrittori riferiſcono di Zenone, che egli aveſſe per efficiente cagio. ne conoſciuto il ſolo fuoco; imperocchè egli coinpone le coſe de’quattro volgari elementi; e alle loro qualità attri buiſce, o tutte, olamaggior parte dell'operazioni natura. li, comech'egli in ciò poco felicemente s'adoperi, per nốt aver inveſtigato in prima, come certamente conveniva, la propietà diquelli; e quinci avvien poi;che Zenone di quel le, che ſeconde qualità chiamanſi, così confuſamente an che favelli, comeſipuò vedere allor ch'egli dice, eſſer i colori le primediſpoſizioni della materia. Dice ben egli Zenone, che ſon due i primi principi delle coſe: paſ ſivo l'uno, cioè la materia, ſoſtanza ſecondo lui priva di qualità: Paltro attivo, quale ingenera ogni coſa, e vienda lui col nome d'Iddio, e di natura chiamato; e queſto vuol Zenone, ch'altro non fia, ſe nõ ſe un ſottiliffimo fuoco do. tato di ragione, e di ſapienza, il quale per tutto diſcorra, il tutto abbraccj,il tutto penetri; e che dalle varie, c varie materie in cui egli ſi trovi,varj,e varj nomi poſcia egli rice va.Ma quanto ciò ſia lõtano dalla ragione, nofa certamen. te meſtieri, ch' lo duri fatica per darlovi a divedere. E Lill 2 nel vero ſe mai Zenone argomentato ſi foffe d'inveſtigar, comeché rozzamente la natura del fuoco,non avrebbe po tutomai concepirnella ſua mente così folle, e pazza opi nione; anzi ne men avrebbe egli detto eſſer l'anime noſtre, caldi, e ſottiliſſimi fpiriti, tratti, come rapporta Seneca: ex illisfempiternis ignibus,quæſidera, acflellas vocamus,, veluti ſcintillas quafdam afrorum interris defiliiffe, atque alieno loco exiife. Concioffiecofachè il fuoco, il quale al cro non è ſe non fe un'adunamento di piccioliffimi corpic ciuoli, o sferici, o piramidali,non pofſa ne ſentire, ne in tendere, ne far niun'altra operazione, che l'anima far ſuo. le; perchè non avrebbe poi anco detto Zenone l'anime ef fer mortali, e quelle dappoco, e baffe, qualieſſere giudica l'animne degli ſciocchi, e ignoranti Cbe viſſer fenza fama, e ſenza lodo col corpo infieme attutarſi, emorire; e quelle de’dotti fo lamente che, fon più vigoroſe, dover durare ciaſcuna ſe condo il fuo potere, come fiaccole acceſe in tenacemate ria fino all'ultimo ſcoſcio del mondo: fi ut fapientibus pla cet, dicea Tacito di Zenone, e degli ſtoici, non cam corpo re extinguuntur magnæ animæ; il qual luogo chioſando il dottiſſimo Lipfio: nota, dice, magnas arimas;minutæ igitur, & fatuæ pereunt,aut non diu manent. La quale opinione motteggiando l'eloquentiſfimo Romano: Stoici, dice, uſu ram nobis largiuntar tanquam cornicibus: dia manſuros ajūt animos, ſemper negant. E quinci follemente temevano gli Stoici ilmorir ſommerfi neĪPacque; imperocchè ſtimava no, che l'aniine, come quelle, ch'eran di fuoco,veniſſero cſtinte dall'acque. Ma cotal crcdenza ella mi ſembra, che molto più antica di Zenone ſtata fi foſſe; imperocchè non per altro certamente quel grand'Eroe, d'Aſia ter rore, e'l fagace Vliſe, e'l fortiffimo Duca Trojano moſtra no aver cotanto in orrore il morir affogati nell'acque: ingemit Æneas, dice Servio, non propter mortem, fed pro ptermortisgenus; grave eft enim fecundum Homerum perire naufragio, quia anima eft ignea &, extingui videtur in ma ri contrario elemento.Ma piacevole è nel vero a udire il di viſamento's ch'eglifa Zenone, intorno alla generazion del mondo; dice egli, che Iddio ſtava primieramente in ſe ſtel ſo raccolto, il che non ſo lo, come poſſa dirſi mai del fuo € 0; e che indi poi la materia tutta in aria prima, e l'aria ape preffo in acqua cambiafle; e che ficomenel ventre della femmina fi contiene il ſeme, così ſteſſe parimente nell'ae: qua una materia abile a ingenerar tutte le coſe; e che pri mieramente ingeneraſſe Iddio diquella materia i quattro elementi, cioè il fuoco, l'acqua, l'aria, e la terra; e poidi queſti,tuttii corpi miſti formati veniffero. Il fuoco ſecon do Zenone è caldo, e l'acqua è liquida, l'aria è fredda, e la terra è arida; ma l'ordine col quale, c lic ſtelle, e gli altri ragguardevolicorpi dell'univerſo s’ingeneraſſero; vie ne ſpiegato da Zenone in sì fatta guiſa. Afferma egli, che nel ſupremo luogo foſſe collocato quelfuoco, il quale per la gran fua: ſottigliezza vien detto ctere; e che in lui pri micramente naſceſfero le ſtelle fiſſe; indi appreſſo l'ervanti, indi appreſſo l'aria., indi appreffo l'acqua; e ultimamente la terra, la quale ſta in mezzo collocata; mafolte ben fa rei Io a logorar il tempo nel racconto di queſte, e altre sì fatte empiezze, che ci vuol dare ad intendere Zenone. Ma non meno ſtoltamente erra Zenolie in ſecondando i fentimenti d'Omero', togliendo non ſolo la libertà dell’o perare agli huomini; ına ſottoponendo alla violenza delFa to il: mcdeſimo Iddio; perchè cantò Lucano, per tacer Se neca, Fileinone, e Manilio: Sive parensrerum, quum primum informia regna, Materiamq; rudem flamma cedente recepit Tinxit in æternum caufsas, quæcunéta coërcent; Se quoque Lege tenens, & fecula jufa ferentem Fatorum immoto divifit limite mundum. E prima di Lucano, quel greco poeta, così traslatato da Cicerone: Quod fore paratum eft,id fummum exfuperat lovem; perchè dicono non poter nulla Iddio contro la violenza del Fato; ne lui medeſimo poter iftorcere; o piegar l'opere de gli eterni provvedimenti; laonde ſccodo i ſentimenti di Ze none 638 Ragionamento Ottavo 1 nonediſse Seneca,o qualūquefi ful'autor di quella tragedia Non illa Deovertiſe, licet Que nexa ſuis currunt cauſſis. E a ciò ponendo mente Luciano, piacevolmente deriden do,come è fua usāza, gli Stoici, fa,che l'orgoglioſo Ciniſco ſeguace di Zenone,tratto da cotali ſentiměti, temerariamć. te diſpregjGiove, e gli Dii tutti, non temendo punto del le ſue folgori, ſe dal fato non gli erano deſtinate; poichè gli Diitutti, e Giovemedeſimo erano al fato ſoggetti; u che così gli Dii come gli huomini erano ſervi delleParche; ne potere far coſa del mondogli Dii, per menoma,ch'ella ſi foſſe, che dalle Parche non foſſe in prima ordinata, e lun gamente compoſta. Perchè altro gli Dii non effer, che mi niſtri, e ſergentidelle Parche, o per mc' dire ſtrumenti di quelle, come la ſcure, e'l trivello. E con queſte ſtoiche beſtemmie fa ch'egli ſi rida di Giove; il quale oleremodo fi vanta di quella famoſa catena delle coſe del modo appreſ ſo Omero. Il medeſimo Stoico poi giudica appo lo fteſſo Luciano eſſer anzile Parchemedeſime, che Giove da pre gare, ſe lc Parche per prieghi pur ſi moveſſero; poichè al le Parche, e non a Giove l'imperio tutto del mondo, c'1 primo reggimento de' fatiè da attribuire. Mano è da in tralaſciar,ch'avviſando anche l'aſtutiſlimo Macometto,per nulla dir di Lutero, e di Calvino, eſſer corale opinione molto in concio a'ſuoi fatti, preſela, ed inſegnolla nel ſuo Alcorano, acciocchè preſti maiſempre, e arditi i ſuoi po. poli, ponendo giù ogni timor della morte, a magnanime,e pericoloſe impreſe prontamente s’eſponeſſero; perchè a co tal credenza riguardando il Taffo, pole in bocca al valo roſo Rede'Turchi, Solimano, Giriſ pur Fortuna O buona, orea, com'è laſsù preſcritto. Ma non meno ſciocca èquell'altra credenza di Zenone intorno a ' peccati, ch'egli follemente vuole, che tutti ſiano uguali, e che ne più, ne meno falli colui, che ſpogli cru delmente della vita il ſuo propio padre, di colui, che allor, che ciò far non convenga ammazzi un bruto anima le. Equell'altra intorùo al ſuo ſapiente;il qual'eglivuole, chenon altrimenti, che ſe la filoſofia l'aveſſe dell'umana natura poſto in bando,no’l muova amore,non ira,non odio, non timore, ne qualúque altra più violéta paſſione. Senti menti in verità, per dirla coll'Arioſto, Convenientia un huomfatto diſtucco; ed Io per me non ſo come s'aveſſe giammai potuto fognar - Zenone una sì fatta novella, ch'un huomopoffa viver nel mondo libero, e Sciolto da tutte qualitati umane. Manon queſti ſolamente ſono,ma altri, e altri i falli che Zenone, e iſuoi Stoici prendono, alla noſtra fede, ed alla natura ſteſſa ripugnanti; perchè non pocomimaraviglio, come cotato preſſo alcuno ſiano commendate, e in pregio tenute quelle memorie,chedi loro rimágono; e ſpezialmé te l'opere di Seneca; imperciocchè non è punto, com 'egli follemente s'avviſano le genti, quell’ aſtuto Stoico, re ligioſo, e dabbene; concioffiecoſâche, ſe ben fifamente vi fibadi, in altro non s'argomentiSeneca ne'ſuoi libri, ch'a toglier dal mondo ogni coſtuma dipietà, e direligione; comechè faccia ſembiante nelle ſue dottrine, di'rigorofilli mo Anacoreta, e poco men, che di perfettiſſimo Criſtia no; e a prima faccia appaja, qual farſi vedervolle anche il fuo maeſtro Zenone, Virtutis verd cuſtos, rigidus que ſatelles. Ma ritornando a Zenone, egliſi parve, che talora Ze. none fi foſſe avvicinato al ſegno in filofofando delle coſe naturali; come quando egli per iſpiegar la maniera, nella quale faſli la viſta, diſſe l'occhio valerſi della aria teſa, co med'un baſtoneper conoſcer le coſe viſibili; del quale esé. plo fi valſe poi così a propofito Renato delle Carte. Com nobbe ancora Zenone, comeche a durar non viaveffe mols ta fatica,, effer il ſole più grande della terra. Argomentò al. tresì egli da' ſuoi effetti non eſser altro il ſole, ſe non le fuoco; ma da quelli certamente avviſar non ſi puote, come egli immagina', eſser quel fuoco, ond' è forma to il ſole,ſincero, e puriſſimo. Ma non ha dubbio,che Zeno 640 Ragionamento Ottavo. Zenone s'ingannò grandemente, immaginando participar la luna aſsai più dell'altre erranti ſtelle, della natura della terra: per eſserella più di eſso loro alla terra vicina; im perciocchè non ha che far con ciò punto la vicinanza, e nó v'ha ragion alcuna, la quale perſuader ci poſsa, che la lu na differiſca púto dagli altri pianeti; e oltre a ciò mal inten dendo Zenone la ſentenza degli antichi filoſofi, i quali di cevano comunicarfra di eſso loro inſieme p via di piccio liſſimi corpicciuoli dall'une all'altre continuo mandati, le ſtelle erranti, e fiſse, e la terra: afferma, che le ftelle, co me quelle, ch'animaliſono, dal mondodi quaggiù riceva no il loro alimento; e venir il ſole nutricato dal mare, la luña dall'acque dolci, e l'altre Atelle dalla terra; m2 perta cer d'altri difetti della filoſofia di Zenone, in ciò ſopra tut to fu egli oltremodo manchevole, checoltivò molto più di quel, che certamente a natural filofofo fi conveniva, gli ftudi della Loica, onde conveme, che i ſeguacidilui, for ſe aſsai più di que'priini peripatetici,nelle inutili fortigliez ze dialettiche intrigati, vennero ragionevolmente da Ga lieno contenzioſi chiamati; e quinciavvenne, ch'eglino no poterono gran fatto vantaggiarſi nello ſpecular le coſe della natura; onde ebbe a dire il medeſimo Galieno, che gli Stoici nelle inutili coſe erano alsai eſercitati, ma rozzi poi allo incontro in quelle di momento,e poco eſperti ſi dimo Atravano. Malaſciando Zenone, trapaſseremo a ragionar d'Epicuro.. Primieramente per mio avviſo mai fi par certaméte, che convengano ad Epicuro quelle ſtrabocchevoli lodi, che, da pallionati luoi ſeguaci, c ſpezialmente da Lucrezio gli vengono attribuite icon dire jufra l'altre millanterie, ch' Epicuro non huom mortale, ma Iddio ſi foſse;e ch'egli pri ma di tutt'altri rinveniſse la vera ſapienza; e chc Epicuro anche fi foſse Quel, che i termini tolfe al vaſto mondo, Le fiammeggiantimura a terraſparſe, E'l vano immenfo col penſier traſcorſe. Imperocchè, per tralaſciar ch’Epicuro altro in verità nõ faceffe, che traſcrivere le ſentenze di Democrito: i falli menti del quale non maiegli diſcoverſe, non che rammen daſſe: anzi ſe mai egli da’ſentiméti di Democrito ſi diparti, incorſe in graviſfimi falli. E gliporrò opinione Epicuro, che da una infinita, ed immenſa corporea ſoſtanza, qual ſecondo lui altro non è, ſe non ſe un radunamento d'infiniti corpicciuoli di varie, ¢ varie grandezze, e figure, e da uno ſpazio parimente im menfo, qual'egli vuoro d'ogni corpo eſſer crede,fia copoſte l'univerfose che fenza regolaméto d'intelligenza veruna, a caſo, ed a ventura, dalmoto, dall'accozzaméto,e dall'or dinamento, ſolo di que'corpicciuoline fian nati,non ſola mente queſto, in cuinoiabitiamo, ma più, e più mondi, Aggiunſe egli al diritto movimento de corpicciuoli (che apparò da Democrito) di ſuo altresi quell'altro moto pie gato,ed obbliquo, acciocchè dalle varie maniere di quello poteſſero cotante coſe ingenerarſene: e cocal movimento torto, eglidiffe naſcer dalla chinacura de' corpicciuoli, quali movendo per diritto, ed in altri corpiceiuoli incop pando, neceflariamente doveſſero in iftrigando piegarlize non men dell'altre coſe del mondo empiamente eſtimò Epicuro eſſer compoſte le noſtre anime, come dice Lu crezio Corporibus parvis, do levibus,atq; ratundis. Ma fe noi riguardiamo, non ſolaméte alla diverſità del le coſe del mondo, ma anche alla lor vaghezzase perfezio ne, e come nulla non vi ſtia a bada, ma all'acconcio fine venga mai ſempre convenevolmente dirizzata: non può in niun modo da ciaſcun comprenderli, come a riſchio, per caſo, ſenza ſottiliffima macaria di gran maeſtro debba effer formata; e per non trarre argomenti dalle ſtelle, dad ſole, dall'huomo e da altre,e altre opere maggiori d'Iddio, mi contenterò ſolo di far parole di alcuni piccioli animales ti, come ſono le moíche, le zanzare, le formiche, l'Api, gli Acari, c altei afſai cotanto menomi, e ſottili, ch’appe col microſcopio, tanto quanto, cavviſar li poſſono; e pu re fono in loro da ammirar, ſomipamente quelle picciolilli M in m in me par 642 Ragionamento Ottavo 1 me particelle, così ben compoſto, e formate, come nella notomia degli huomini medeſimi, e d'altri animali più grā di fi veggono. Sono que'corpicciuoli anch'eglino forniti de’lor membri; ne mancan lornella teſta i piccioliſſimi oc chiolini, e negli occhi le palpebre, e le tuniche, e tutto ciò, ch’ad occhio ben compoſto per rimirar fi conviene; e nel capo è anche loro il cervello, le glandole, le membrane ', ei ſottiliſſiminerbolini; da' quali il poco ſugo nutritivo al rimanente del corpicciuolo ti dirama, e comparte. E che dirò lo dello ſtomaco, delcuore, e d'altri fomiglianti me bricelli? che dell'offa, e delle vene, e dell'arterie, e del facco latteo, e de'vaſi acquoſi, e di cotante altre menomif fime particelle, chente, e quali a ben fornito corpo ſi ri chieggiono? e che delle loro piccioliſſime anime, le quali anch'elle nel reggimento tutto del corpo dimorano, e ri fvegliano i ſentimenti, e fá chc muovano i membriceili alle fue opazioni:e céto, emillaltri maraviglioſi effetti in quel lo adoperano?Ma ſopra tutto è da por menteal loro indu ftrioro ingegno; e per non dire al preſente dell'api, è da maravigliar ſommamente dell'induſtre, e faticoſa formica, Che'l vitto onde fi pafca alfreddo verno Ripon la ſtate, ebenchè lunge ancora Sian difagion moleſta i giorni algenti, Neghittofa non ceffa,e non s'allenta La negra turba,, anzi ſe freſsa avvezza Ne le fatiche, e per gli adufti campi Fervel'opra nonmen, che l'ore,e'lgiorno, Fin ch’abbia ne fuoi ſpecchiil gran ripoſto. E avendo forſe quella per pruova appreſo effer la ſementa, onde poſcia germoglian le piáte, no altro, che le piáteme de lime dentro della buccia raccolte, e riſtrette, per ceſſar l'aſprezza del verno: come apertamente col microſcopio noiveggiamo: avvedutamente per non farle ſorgere a più piacevol ftagione Ela con l'unghie propie, incide, eſega I carifratti, e inumiditi al ſole Gli aſciuga, e ſecca, el bel tempo fereno Spiando già prevede i lieti giorni. Talche quand'ella i grani a'raggi eſpone Pioggia nonſtilla da lofcure nubi, Ediſerenità l'indicio è certo. Quinci ripor ne le ſuecelle anguſte L'aſciutta meffe, e poi la ſerba, e parte Cuſtode, e diſpenziera. E’ntenta a l'opre E nonfol mentre ilſoleaccende icampi, Ma le fatiche ſuenotturne ancora Dal Ciel rimira la rotonda luna: E quelle più ſerene, e calde nutti Tolte al dolce ripoſo, al queto ſonno Aggiugneal travagliar continuo, e lungo. Ne è da traſandare ciò che delle formiche oervò Clea te. Vide egli un giorno alquáte formichetrar dal lor for micajo il cadavero d'una formica, e portarlo a un'altro vi cin formicajo; e quivi giunte uſcirne;come chiamate,alerc formiche, e andar loro incontro, e accontarſi quaſi ragio nando di lor bifogne; e indi a poco ritornarſene quelle ch? erano uſcite nella lor buca, e di nuovo quindiriuſcire,e ri trovar le foreſtiere,come rientrate foffero nella buca a re car l'imbaſciata di quelle alle lor compagne; è conſiglia teſi del cadavere della lor compagna foſfer poi ritornate a patteggiarne la riſcoſſa: e ciò due, o tre fiate facendo, alla fine dopo cotante aggirare, quaſi eſſendo di convegna de loro piaci, andaronoalla buca, e fi recarono loro un verme per taglia della morta fórmica, il qual prendendoli quelle di fuora, e laſciando il patteggiato cadavere, n'andar via; ed elle raddoſsãdoſi il cadavere ritornarono nella lor tana, quaſi per dover quello ſotterrare. Néminormaraviglia è ciò che Io un giorno fattomi per diporto ad una fineſtra di mia cafi oſſervai. Era in quella una formica, la qual ripoſtali in guato, non altrimenti, chei'ragnuoli ſi faccia no, preſe per lo piede unamoſca, la qual forte dibatten dofi, e ſcooendoſi, indarno di fuggir slargomentava; ma pur la piccioliſſima formica non potendo portarſela, o uc ciderlai, ſtrettamente fiffa la riteneva, fiache giuntavi a ca Mmmm 2 ſo un'altra formica partiffi.di preſente, e ricornò con alire formiche a condurli a forza la prcda dentro dal lor formi cajo. Ma perchène G faccia maggiorméte manifeſto,qua to ſtolta fia ', cd'irragionevole la menzionata opinione d'E picuro,e quanto fia grave l'ingiuria, che per quella vien fatta all'autore dellanatura, egli ne fameâiere,che alqua to più di ciò, che per avventura abbiſognerebbe in diſami narla c'intertegniamo. Dico adunque, che una ſoſtanza fia quella, onde cotanti aſpetti, e sì diverſe ſembianze di coſe n'appajono in queſto gran Teatro dell'univerſo, eſle re egli ſtato parere, in cui non pur Democrico ed Epicu ro:mailmedeſimo Ariſtotele (il qual più,.chalari fa ve duta diportarne contrariaopinione,dicomun conſentimé to convengono. E tanto par che coſtui voleſse dire colà: nell'ottavo libro della metafiſica: ove feriſse eſsere una, medefima coſa l'ultima materia, e laforma; e fimilmente non eſser differenci nelfubbietto la materiais e la privazio. ne(del chc.a torto altrove egliavevaripigliato Platone ) e che ſolo l'incelletto fra:cſso lor le diſtinguaje nel ſecondo della fiſica; ſcrivendo, che la forma non maipoſsa dalla, materia fceverarfi, ſe non ſe in mente noftra,ficome a niū modo può fepararſi la ſchiacciatura dal naſo;:e nel ſecon do dell'anima: ove avvifa vano eſsere l'inveſtigar, ſe l'ani ma ſia altra cofa dakcorpo diverſa;ſicome non è da elami. nare, fe la figura, che imprende la cera, fia da quella di itinaa. E finalıncnte il medeſimo par che confermis quan do ſpeſso ſpeſso va affermando, la forma eſser quiddità della coſa; che a ſua favella vuol dire la formaeſser perfe zione dellamateria,la qualiove capace diperfezione,mām. deria s'appella:ovegià perfetta conſideriſi,forma:fi-dice. Ne altriméti in verità creder poteva: chiin Dio, nelibertà, ne cnnipotenza riconoſceva;ondepotuto aveſse dal niente criando le forme (le quali ſe-veramente altro foſser, che ka materia, folla creationepotrebbe dar loro Peſsere, che che in contrario nedicano i peripatetici ) e afuo talento la materia informarne. -Mache queſta ſoſtanza, di cui ragioniamo,altro,non ſia che corpo inminutisme particelle di grandezza, difigura; di fito, di moto, e d'ordine diverſe,sbriciolaco', e diviſo, fuinſegnamêto che da Fenicjappreſero i primi Greci filor fofanti scomechè Democrico, più ch'altri, in primachia ramente diviſato l'aveſse. Maqueſta ſentenza medefima ne fa vedere eſserci ne ceſsario un'infinita onnipotenza, e ſapienza valevole a dir ſporre, e ordinare in tante guiſe, e comunicare ivarſ mo vimenti alla già dettämateria. E ciò ben conobbe da pri ma, per quel ch’lo ſappia, il fapientiflimo Greco Filolo. fante Talete Milefio; e confeſsollo manifeftamente, di cendo appreſso Cicerone: Aquam efse initium rerum:Derim autem eam mentem, quæ ex aqua cuneta fingerei. E da lui l'appreſero poi Ippone, e Ippia,.e cotant'altri antichi filo fofi, i quali tutti concordevolmente giudicarono eſserci unamentc,o una fapienza infinitajlaqualpartédo,e fceve rando queſta maſsa comune, e ordinandola, c movendola, doveſse cambiarla in cotante guiſe, quali noiveggiamo.E cotalmente vollè anche il grande Anafsagora, che dalla materia lua ſimilare, comedicono g.componcise ciaſcunai coſa del mondo: comcchè a torto poinefoſse egliprover biato, e biaſimato oltremodo da Ariſtotele, cola ove diſ ſe, ch’Anaſsagora d'un sè fatto ritrovato ſi foſse voluto: ſcioccamente ſervire, per dar ragione dell'apparenze nas turali: non altrimenti, che ſervir fi fogliono i tragici Poc tidelle loro machine piſciorre i nodi più inviluppati del le favole; edelimedeſimo ſentimento di Talete furonoan che Platone, o Timeo'; ed è da credere pure, che dal fon datore dell'Italiana filoſofia, Pittagora, e damolt’altri fa * mofi,.e ſaggj filoſofanti ſtata foſse in prima inſegnata. Ma però tutti i sì fatti filoſofanti ad un tratto ſtrabocchevol mente fallarono in negando oftinatamente eſser cotal fox ftanza uſcita dalle mani onnipotenti dell'Eterno Fattore, dicendo eſser quella ſempremaiſtata ererna. E forſe non guari illoro errore fu avāzato da quel d'Epicuro,o di De mocrito;i quali ciò checoloro alla mente operatrice afcrifo ſero, attribuirono al caſo; imperocchè la divina, ed eter 1 li e ne be 12 2 na onnipotenza eltimarono deboliífimo artefice cheſol yao leſſe della già eliftéte materia varie machinazioni formar ne; e così attribuendole il poco: ilmolto, anzi il tutto negaronle, com'è il poter criare dal niente; perchè dicono follemente, che'l ſovrano Facitore in fabbricando il mon do, tutta la materia nell'opera conſumaſſe; e quinci avve niſſe poi, che un ſolo e'ne formafle. Ma ritornando ad Epicuro: non ci dee rucar maraviglia, s'egli sì ſconciarné te dell'onnipotenzadel grande Iddio favellaffe; imperoc chè egli nonmeno ſciocco, che empio, immagino Iddio eſſer un'animale di ſembiante umano, come quello, ch'è più bello di tutt'altri;ma nondimeno ſtimò noneſſer Iddio corpo altrimenti, ina quafi corpo: ne aver Iddio ſangue, maquaſiſangue: Dice Epicuro,oltre a ciò, che gli Dii ſian vaghi, adorni, e riſplendenti, e che le membra fieno umane; ma chenon abbian però uficio niuno; e che l'al bergo degli Diilia in quello ſpazio, che vuoto rimane in fra que’tanti, e tantimondi per luifognati. Toglie affat to Epicuro empiainente poi la giuſtizia,e la provedenza di vina; e afferma, che Iddio non cura punto di Noi, Nec bene pro meritis capitur,nec tangitur.ira; i ! e riinettendo Epicuro il tutto nelle mani della volubile, ei cieca fortuna,con iſcioccaggine, e ſcempiezza eſtrema le attribuiſce De la terra, e del Ciel lo ſcettro,e'l regno. Ma'laſciando di più diviſar di queſte, e d'altre fimili em piczze d'Epicuro, ad ogn’un conoſciute: Io non ſo per me. come difender mai fi poſſa di’kuoi ſeguaci ciò che Epicuro dice de'ſuoi atoini, chenon poffin dividerſi'; imperocchè, quantunqué menomiſfimi; oltre adogni umana credenzali concepiſcano, ben potranno dividerſi da uno, o da più ato mi, ch'a guiſa di piramide acuti, meno di loro piccioli fia no; ne fa punto luogo il dire, che non avendo nell'atomo vuoto alcuno, 110'l poſſan penetrare altri atomi, ne fender lo, ne dividerlo in parti;concioſliecofachè:ben potrà quell atomo, chefendere, e partire ilvoglia, con replicati colpi a poco a poco penetrarlo, e dividerlo, ma ſi può creder 1 1 1 1 impertanto, che ſia queſta una quiſtione vana, e che o no mai; o rariſſime fiate avvenir poffa, che un'atomo per al tro ſi fenda, e ſi divida; concioſſiecoſachè quantunque li tenti di fare la diviſione di qualche atomo, che in corpo faldo ſi trovi, non potendo'effer maiqueiľatomoaffatto có gli altri atomi avviticchiato, e congiunto, ſicome a chiun quedirittamente ragguarda la cofa, egli è manifeſto: gli riuſcirà aſſai più agevole in ricevendo i colpi cedere, e diſ giugnerſi dagli altri atomi compagni, a fe vicini, che'l romperhi.S'argomenta eſſer vero ciò che lo immagino,dal vedere, che alcuni corpi faldiſfimi ſi ritrovano, i quali per qualunque forza, che l'arte, o la natura viadoperi, non ſi pofſon giammai in altri cambiare; il che altronde certamé te naſcer eglinon puote, fe no ſe dall'eſſer que’corpicciuo li tutti, che gli compongono nella figura, e'nella grandez Za non guari diſſimili infra effo loro, e dal non venir que gli mai rotti, e in particelle diviſi. Ma non mi par, che lo clebba logorar il tempo in rifiutar l'opinione del Vacuod Epicuro, apertamente perognuno ifcorgendofi falfa; co mechè valentiſſimi filoſofi cerchino pure farla apparer vera; poichè per tacer altri imbratti, concedendoſi ilva. cuo,converrebbe, cheli toccaſſero, e non fi toccaſſero l'u nos e Paltro di que'corpi,infra’quali fi fingeffe inframmeſ fo il vuoto. Oltre a queſto, fe infiniti gli atomiſono, ſe condo Epicuro: faran ſenza fallo ripieni di corpi tutti gli fpazj;ne vi avrà ſpazio vuoto alcuno nell'univerſo; in cui, comechè iinmenfo egli il faccia: Io non veggio lo, come infiniti corpi, e ſpazio vuoto infinito immaginar mai poteſ fe Epicuro. Ma non in ciò ſolamente fallar ſi vede Epicuro: maal tri, e altri errori ancor egli commettc;infra i quali mi par certamente degno oltremodo da ridere quel, ch'egli,non già per aver troppo creduto a’ſeñfi, come Cartefio crede, maperfuafo da troppo fievoli argomenti, afferma,poter ef ſere il ſole o tanto, o poco più, o poco meno grande di quel, ch'a noi ſi faccia vedere; ne men certamente rideyo le ſi è ciò, che Epicuro immagina della figura della terra, del -0 vo 1 i 648 Ragionamento Ottavo - del naſcimento, e aell'occaſo dellole, della luna, e dell'al tre erranti, e fiſſe ſtelle:: degli Idoli, o ſian ſimulacri, che ci s'appreſentan, ſecondo egli penſa, allorche noi veggia mo, e immaginiamo, le coſe;matroppo.tedioſo diverrei, s'ogni fallimento d'Epicuro voleffi lo quì riferire: maſſi mamentequei, ne qualierrò egli inſiemecon gli altri filo fofanti della Grecia; perchè ragionevolmente forſe dir di tutti fi potrebbe ciò che d’Ariftotele, e di Platone dicea S. Giuſtino, con quelle parole: ſe l'invenzione della veri sà, come d'accordo ciaſcua vuole, è ilfine della filoſofia, Io non lo come coſtoro, i quali nonebber niuna-contezza della verità, fi debban veramente chiamarfiloſofi.E ragio nevolmente ancora S. Clemente d'Aleſſandria afferma che la greca filoſofia, a riſchio, e per ventura, come alcuni vogliono, ſuole rinvenir la verità; e ſe pur talvolta la ritro va:allora pur la prende lievemente, e alla sfuggita,ſenza troppo minutamenteconſiderarla; e come altri poicredo no, crae ella ſua origine dal Diavolo; edopo altri biafimi, conchiude egli alla fine, efſer tutti rubaidi,e huomini ſcel leratiſſimi coloro, i quali appo i Grecicol nome di filoſo fanti ſi chiamavano. Ma certamente troppo a lungo, e più diquel,che al fi 1o del noſtro ragionamento forſe conveniva ſon traſcorſo a favellar dell'antiche filoſofie;ma non ſi dee impertanto pe rò inutile, e ſoverchio ciò reputare; poichè un de' più ma lagevoli,e de'meno forſe conoſciuti impedimenti,ch’abbia arreſtato il corſo della filoſofia, Ga ſtato quello dell'averſe fatto a credere gli huomini, chei greci filoſofiaveſſero fco perto, e compreſo tutto ciò, chenel vaſtiſlimo reame del la natura ſcoprire, ecomprender li yola per intendimento umano; ne per aloro certa.nente, che per una tal folle cre denza egli è avvenuto,che quel tempo,checertaméte ſpé dercucco di dovea in inveſtigar con eſperienze, e con ragio ni le coſe naturali, fi fia vanamente ſpeſoin andar cercan do quali ſiano ſtati iveri ſentimenci, o di queſto,o di quel to zuore; perchè dicea il Signor di Montagna: car les opin mions des bommes font, recevesà la fuitte des creances an ciennes, par authoritè, &à credit, commeſi c'eſtoit religion Lloy.On reçoit comme unjargon ce qui eneſtcommunement tenu:on reçoit cette veritè, avec tout for baſtiment, de ato telage d'arguments, odepreuves, comme un corps ferme; ſolide, qu'on n'esbranle plus, qu'on ne juge plus. Au contraire, chacun à qui mieuxmieux, va plaſtrani, &con fortant cette creance receuë, de tout ce que peut fa raiſon in qui eft un útilſoupple, contournable, & accommodableà tous te figure. Ainf je remplit le monde, feconfit enfadeze; den menfogne. Ce qui faict qu'on ne doubte de guere des choſes, c'eſt que les comunes impreſſions onne les efl ayeja mais, on n ' en fondepoint lepied, où gitlafaute, älafois bleſſe: on ne debat, que ſur les branches: onne demande pas fi cela eſt vray, mais s'il a eſte cinſin ou ainfin entendu E quinci derivar anche ſuole quella gran malagevolez za avviſata da Galieno, la quale ſi ſperimenta da chiun que vuoi ritrarre i ciechi parteggianti dal torto loro, e fal hace camino; e nel vero cotanto danno apportar fogliono le falſe apprefe opinioni, che eziandio a coloro, che mene daci han ſcoverti, e ravviſati gli autori di quelle,non per mettontalora, che fiyantaggin nella buona filoſofia s co me apertamente ſcorger ſi puote in Pier Ramo, ed in al tri molti si quali, quantunque aveſsero ben conoſciute le ſconvenevolezze della filoſofia d'Ariſtotele, non poterono alla buona ſtrada giammai pervenire: ne in cotonjuno for trarſi dalla maniera del filoſofare d'Ariſtotele;ę ciò perche, çome avviſa Renato: opinionibus ejus jam imbuti fuerant in juventute, quia ea fola infcholis docentur; adeoq; illis præoc cupatusfuit ipforum animus, ut ad verorum principiorumid Hotitiam pervenire non potuerint. Anzi Ariſtotele medeſimo, leggendo i volumidegli an tichi filoſofi, concepctie alcuno di que'ſentimenti onde, inavvedutamente poi traſcorſe in cotanti crrori. Così logo gendo egli in Ocello Lucano il melc cffer dolcc,perché ca gioni in noi ſentimenti di dolcezza, tratto anch'egli dall' altrui errore, !! c a ciò punto badando, non dubitò di fer mamcareil medelino narrare, giudicando la dolcezza,co Nnnn me rute 1 650 Ragionamento Ottavo me tutt'altre qualità veramente nelle coſe, e non ne’ſenti menti confiftere. Che fe egliaveffe: avvilato, il medeſimo cibo ſenza punto dimutamento ad un palato, dolce,e foa ve: a un'altro poi amaro, e diſpiacevole parere, come la colloquintida amariſſima a noi,dolce oltremodo a’topi, e ſoave li fa ſentire: certamente egli non così improvviſo avrebbe raffermata cofa non vera; e avrebbepur dubitato, non forſe ne' cibi foſſer corali particelle, dital forma, e così ordinate, e moſſe,, che in diverſi palati, or di dol cezza, or d'amarezza faceſſer ſeinbiante. Enella medeli, ma maniera cento, e mille altre ſciocchiſſime opinionid'A. riſtotele potrei lo quì rapportare, le quali appreſe egli da. gli antichi filoſofanti. Ne ciò è maraviglia; perciocchè p iſtudio, e fatica, che vi ſi logori', non ſi poſſono così affac to sbarbicare dalla mentei già allignati ſentimenti,e ban deggiargli affatto che non ritornino talvolta, quando men ſi temano. Cosi avvien appunto ad una botte, o altro va ſo guaſto putente di vin ravvolto', o -inagrito, la quale av vegnachè forte fi’rada, eſilavi: non però dimeno non ſi puòella cotanto per diligenza purgare', che non ne prenda anche il nuovo vin',che vi ſi pone, e dibreve anch'egli non dia la volta, concioſliecoſachè quantunque bennetto, e forbito fipaja ilvalo', pur ne'ſuoi pori minutiſſime particel te ancora ſi naſcondono, le quali ſpiccatene da quelle del nuovo vino, o altro ſomigliante liquore, che vi ſi pone, trameſtandofi loro, agevolmente vi nuotano per entro, per opera della fermentazione poi creſcono",intanto, che infra brieve ſpazio di tempo tutto il corrompono. Così avvenir ſuole nell'anima,la quale priva, e ſpogliata affat to delle antiche notizic,da ſe medeliina in filoſofído nuo ve notizie proccuri in luogo dell'antiche introdurre; eri porre; poichè le nuove ſpezialmente, ſea ciò ſpinte ſono da quelmovimento, chenello ſpeculare neceſſariamente ſi fa, eccitano, per qualche ſomiglianza, che è tra loro, alcuna dell'antiche, che a caſo rimaſta, ma celata viftia; dalla quale poi sēzamolta malagevolezza infecte elle ne riman gono. E comechè ciò baſtantemente, per quel ch'Io micredaj a ciaſcun lia manifeſto, pur d'avantaggio ne può eſſer chiar ro per ciò, che nella memoria artificiale fortir ne ſuole Sogliono coloro, che all'arte,veramente maraviglioſa del ricordarſi ſtudioſamente intédono,d'alcuniſpeziali luoghi valerſi quali ſiá loro sépre ſenza fatica niuna nella memo ria, come uſati, e domeſticiaffai, e oltre a ciò ſiano in qualche guiſa ſomiglianti, o uguali alle coſe che ſi voglio no ricordare; acciocchè quando poi fia meſtieri, nel fuo proprio luogociaſcuna coſa appiccata, dipreſente rinven gano; e le coſe già alla memoria preſenti,loro facciano ve nire avanti le lontane. Delche certamente ne fa manifeſta pruovà ciò che ſovente noi ſperimentiamo; che in ragio nando d'arca, o di forziere, che in noſtra caſa ſia, ne fov viene tolto di libro, o di veſtimento,o d'altra coſa ripoſtavi; eda divifamenti de palagj,o delle terre, ſubito ne ſi rap preſentan coloro, ch’ividimorano, o che da prima gli fab bricarono, o che un tempo ancor vi ſono dimorati: Cosi anche un'amico né fa rimcmbrar d'altro amico: e anche de nimici di ciaſcuno, io nominandolo ne ſovviene. Perchè al noſtro amorofo M.Franceſco Petrarca, il ſolomovimé. to dell'aura, dolcemente faceva venire avanti madonna Laura, eltempo ch'e' da primamirandola ſe n'innamoro: L'aura ferens, che fra verdi fronde Mormorando a ferir nel volto viemme Fammiriſouvenirquard'amor diemme Le prime piaghe sì dolci je profonde; E'l bel viſo veder, ch'altri m'aſconde, Che ſdeguo, o geloſia celato temme. Ma veggio, e per avventura con qualchevoftra noja eſ. fermi troppo dilungato in ragionando, e affai più certamë te di quel, cheaveva lo già propoſto di fare; non per tan to prima d'imporre a’miei ragionamenti fine, mi convienu tirar la coſa un poco più avanti. Dico adunque, che non giová punto,cheſieno ben inteſi gli fcolariin filoſofia » in chimica, in medicina, e in tutte altre coſe, che diſopra diviſammo al medico far meltieri, ſe finiti i loro ſtudi egli Nnnn: 2 no per 052 Ragionamento Ottavo ao per convenevole ſpazio di tempo non ufino qualche ſpedale, con por mente ivi alle malattie, e alle maniere, che vengon tenute nel medicarle; e qual pro,e qual danno ricevan daʼmedicamentiglinfermi; ed egli è coſa nel vero queſta così rilevante, che non ſi dovrebbe certamente co ventar mai fcolare, il quale con fedi autentiche, e con te ſtimonj non provaſſe aver lui in ciò fare tutta la ſua indu ftria, e diligenza adoperata. Sidovrebbe oltre a ciò prima di conventarlo ftrettaméte eſaminar lo ſcolare per limae ftri delle ſcuole, a ciò deſtinati, in tutte le coſe all'arte ap partenenti, e ſpezialmente nella chimica; la qual cotanto dicemmo effer a' medici neceſſaria, e di tanto riſchio a co loro, chepienamente non la poſſeggono; e a ciò certamen te con ogni rigore, ligati con facramenti, econ pene do vrebbono intendere imaeſtri,oltrea queſto de coſtumian cora dello fcolare converrebbe, che minutamente fi ricer caſſe, acciò per ogni capo s'eleggeſſero medici, quali gli abbiam noi giuſta ogninoſtra pofſa al prefente diviſati; e sì forfe per innanzi cefferebbono, quanto l'incertezza di co tal meſtiere comporta, i fallimenti de'medici: e'l co mune in qualche parte ſe ne riſtorerebbe; ne da altro cer tamente naſce, ſe non fe dal non uſarhi queſte diligenze nell'accademie, allor che vi ficonventáno gli ſcolari, che così fortemente vengano elleno talora biaſimate:approba jiones,dice il Primeroſio, fapienterà majoribus inftitutæ,ele gantes ſunt quidem, & neceffaria, fed deberent diligentius obſervari. At jam omnia negliguntur, nam quibuslibet guantumvis ſeiolis gradus exbibetur doctoratus unde ft, utex quibuſdam Academiisredeant ductores parum da fti, nihil minus, quam apti ad medicinam, aut docendam, aut faciendam. Ne perciò giudico lo convenevole, come alcuni vogliono, che i medici giovani, ſpezialmente que', che in Salerno furono conventati, fian di nuovo daeſami nare; imperciocchè baſtar dee quell'eſaminazione, allas quale eſli foggiacquero prima d'eſser conventati, accioc chè fenz'altra pruova tare del lor ſapere poſsano per innan zi liberamente medicare. Nealoriinenti volle il Re Rug gieci Normanno, ove per legge comandò non poterſi il pericoloſo meſtier della medicina uſare ſenza ſpezial lice za de' regjminiſtri a ciò deſtinati; e l'Imperador Federi go pur v'aggiunfo, chei medici del ragguirdevol Colle gio diSalerno doveſſero effer teſtiinong, che colui, che aw medicare inprenda, da tanto ſia; perciocchè parlando de gli Impirici, folamente i conventati manifeſtamente ne ri ferbarono; ne vollono eſſere da eſaminar coloro, a’quali la cura d'efaninare altrui era per lor commeſſa. Così An drea d'Iſernia ſpiegando que’capitoli dice delle bollettes delle licenze: Doctor medicinæ practicabitfine literis, quia fuitexaminatus, quando fuit doctoratus, &approbatus; for cut ibi diximus de Advocatis.. E Matteo degli Afflitti. pa. rimente dice efferſi ciò mai fempre oſſervato, che iconvé tati di Napoli, o di Salerno fenz'altra bolletta, per tutto il noſtro Regno, poſlan liberamente andarmedicando:ne altrimenti effer mai avvenuto: eft fciendum,dice l’Afflitti, quod à tanto tempore, in cujus contrarium memoria hominio non-exiſtit,nunquam fuit fervatum, quod magiftri medicine approbati in Collegio medicorum Salerni, vel Neapolis ha beat quarere literas Officialium Regis, vellicentiam à Rege, vel vicerege medieandi in Regno. Perchè ſarebbe molto ſco cio il mādarſi ciò avanti; e larebbe certamente un togliere l'autorità a'noftri Collegj di più conventar perſona in me dicina; cioè a dire, di dar licenza di liberamente me dicare; ſenzachè non ſapreiIo certamente, quali medici farebbon da eſaminare; perciocchè egualmente i giovani, ei vecchi, anzi maggiormente nel vero i vecchj ne han data cagione di farne richiedere a parlamento. Ma come potrebbon le ſecrete eſaminazioni a buó fine giammai riu. fcire, fe per averle conoſciute ſcempie ', e manchevoli, i Principi, e le Comunità ne’loro reggimenti han,, per mio avviſo le pubbliche eſaminazioniinſtituite. Sogliono re carſi per eſemplo coloro, che queſta novella eſaminazione de’mediciintrodur vogliono, i legiſti; i quali da non mol to tempo in qua ſogliono eſſer eſaminati, quantunque co ventati:maben dovrebbono avvertire, che gli Avvocati non mai vollono ſoggiacere atale eſaminamento: eleggendo anzi d'abbadonare il meſtiere, quátūquel'eſaminazione aveſse a farſi da'ſupremi miniſtri, e in alfai orrevol maniera; e fol rimaſe,che coloro ragionevolméte nel vero vi foggia ceffero, a'quali, o alcun governo, o altro onore s’aggiu gneſſc. Ne mégiudico Io ragionevole quel diviſo di dover eſa minarſi almeno i noſtri medici in Chiinica; da che la Chi mica cotanto neceſſaria alla medicina eſfer narramıno;per ciocchè da cotali eſaminazioni grandi ſconcj certamen te al noſtro comun ne feguirebbono, per molte, e mol te cagioni, le quali lo taccio al preſente per eſſer ciò ba ftantemente, a ciaſcun manifeſto; ſenzachè i vecchj anco ra, anzi con maggior ragione, che i giovani, farebbon da eſaminare; richiedendoſi.comunemente a ciaſcun medico la chimica, ed eſsendo aſſai meglio i giovani, che i vecchi medici inteſi di quella. Ma de’volgari impirici farebbe da prendere, ſe pur si potesse, strettiſſima cura, acciocchè per lordappocaggine al cun nocimento al noſtro comune non ſiegua; e comechè intorno a coſtoro baſtantemente di ſopra la detto, pure fi dee por mente a ciò ch'avviſa Galieno, allor ch'eglidice, che il curar qualunque, avvegnachè leggeriſſimomale, d' altri non ſia, ſe non ſe ſolamente di coloro, i quali di tutta la medicina pienamente fian inteſi; concioſliecorachè uns male foglia ſovente con altro male eſſer congiunto; e ſo glian talora, o per.cagion delle medicine, o peraltro sì fat to accidente ſopragiugnere: cheda colui, ch'un ſol medi camento ſappia, non ſi poſſa dar compenſo. Oltre a que fto, nel conoſcerſi delle malattie, aſai ſovente glimpirici s'ingannano: togliendo in cambio ſcioccamente una per al tra, e contrarj rimed, talora imponiendo; nella qual mala ventura, comedicemmo, cadono talora, anche i più ſcie ziati medici per la dubbiezzade'ſegnali. Perchè ſarebbe certamente il migliore victar a coteſti volgari Empirici il medicare;e miglior séza fallo ſarebbe ſtato il provvedime to del Senato di Parigi, fe del tutto aveſſe agli Empirici il medicar proibito, e non permeſſo loro il farlo lol coll'ap prova poter mc provagione,e licenza de’dotti medici;ed ebbe il torto di la gnarſi di loro Anneo Roberto dicendo, che all’onta di tut te le proibizioni eglino il capo alzaſſero; imperciocchè no mai aſſolutaméte allo incotro furon: proibiti,ſë ſotto condi. zion ſi permiſero,perchè daʼmedicijnõoſtante il gran male, ch'ei fanno di leggieri ottengono la licenza del dicarc. Ma tacer non fi dec ciò, che degl'impirici racconta Giacomo Silvio: in montepeſſulano's clarifima, & antia quiſſima medicinæ academia, fi quis borum nebulonum feme: dicummentiatur, mox raptus in afinumftrigofum, fiin venitur fcabidum, ſublimistollitur, averfus, urbe tota cir. cumducitur,Scommatisundique incefitur, conſpuitur,pulfa; tur, laceratur, fordibusomnis generis conſpurcatur; ceu olim Sacra illa mafilienfium vittima:poftremo expiata urbe ejici tur, illuc nunquam rediturus, niſi malo ſuomaximo. Magià baſtantemente ſecondo noſtra possa avendo de medici ragionato, trapaſſeremo a diviſare al preſente de gli Speziali,i quali debbon lavorare i medicamenti; maffia mamente chimici; il quale fu il ſecondo capo, onde mofle il noſtro ragionamento. Veggiam dunque brevemente, quali coſe, e quante abbiſognino a colui che voglia van taggiarſi in sìnobilmeſtiere. Immagina il volgo, che age volitima faccenda fia a ſaper fabbricare imedicaméti; per chè in man di perſone di poco ſapere, edipoca licva ado perar ſi rimira. Mio quanto di lungo certamente coſtoro ingannati ci vivono! imperciocchè atal meſtier richiedonſi poco men, che tutte altre códizioni,ch'a coloro ſon d'huo po ) che il rimanente tutto della medicina apparar bene, e lodevolmente intendono; e ciò ſenza, che lo troppa fati ca vi duri, agevolmente ſi può comprendere per coloro che alle biſogne tutte d'una cotalarte fiſamente riguardano. Ma concioſliecolachè i guaſti, e biaſimevoli coſtumi del ſe colo ciò non comportino ', dovrebbe almen chi deſidera una tanta impreſa leguire,oltre alla ſua natura, e a'genero fi, c lodevolicoſtumi,eſſer mezzanamente, per tacer dell' Araba, almeno della latina, c della greca lingua inteſo, per dover poi intendere i varj, e diverſi ſcrittori, che nell' una, e nell'altra lingua materie a ciò appartenenti deſcri vono. Appresso egliè dimeſtieri aver continuo tra le ma ni pronta, e apparecchiata la conoſcenza, non folamente di que’vegetabili,o minerali, o animali, che maneggiar fo vente coſtuma, ma di quelli ancora, che nelle ſtrane, enon ordinarie compoſizioni de’medicamenti gli poteſſero tale ra dal medico venirimpofte. Dovrebbe oltre a ciò eſler pienamente informato degli ſtrumenti tutti, e ordigni dell' arte, e delle convenenze, e proporzioni ancora, che alcu ni di quelli han co’ſemplici, de' quali egli nel ſuo lavorio ſervir li dee. Ma ſopra tutto convien, che la propietà, e la natura del fuoco egli perfettamente ſappia; acciocchè poi comprender appieno,e ravviſar poſſa quelle alterazio ni, che indi le medicinali compoſizioni ricever fogliano; alla qual coſa certamente aggiugner non potrà colui, che non prenderà per guida, e per iſcorta la Chimica; ſenza la quale Io non veggio, come bene, e lodevolmente per huố li poſſa un sì malagevole meſticre adoperare; ſenzachè migliore aſſai, e di maggior giovamento all'uman genere farebbe, ficome altrove abbiam detro, ſe da ſoli medici i medicamenti li lavoraffero; perciocchè, quanto a me, lo non ſo a niyn modo comprendere, comemai perfettamen te fabbricargli colui poſsa, il qual non abbia in prima le manicre tutte del loro operare con gli occhj propi piena mente conoſciure. Perchè dovrebbono finalmente gli ſpe ziali, oltre alle ſopradetre coſe, avere in prima tanto qua to ſtudiato in medicina, ed in qualche ſpedale co ' pro pj occhj all' operazioni de’medicamenti riguardato. E ſcorgendofi omai in tutte botteghe di ſpeziali aver non poca quantità di chimici medicamenti, non ſi dovrà più avanti dubitare, convenir lo ſpeziale almen per queſto ca po eſser della Chimiea baftevolmente inteſo, e ſperto, In quanto alle Chimiche medicine poi, comcchè per noi fia ſtato di ſopra baſtantemente raffermato, che il fabbri. carle propiamente appartenga a medici; non però di meno da cheimedici, o non vogliono per lor tracoranza, o non fanno, o non poſsono invilupparvili,lo aſsai ben giudiche ici, rei, ch' a' ſoli speziali, e a tali, quali noi diviſamino ſe ne commetteſse ſtrettamente la cura; ne altra privata perſoni s'inframmetteſse di lavorarne alcuna; male compoſizioni de'più pericoloſi, e rilevanti medicamenti, o da medici lo li, come dicemmo lavorar ſi dovrebbero, o almen dagli ſpeziali in preſenza de'medici. Ne è da dir con alcuni, po terſi alle ſconvenevolezze tutte ripararare colla ſola eſa minazione, che delle medicine chimiche fi' faceſse allor che ſiviſitano, come dir ſi ſuole, le ſpezierie; concioffie coſachè vana ſenza dubbio, e inutile cotal eſaminazione riuſcircbhe: per non poterſi mai, per ſogno niuno, lorvir tù, e lor forza baſtantemente avviſare. Echi mai ne' bof foli delle botteghe, la bontà, e finezza del mercurio di vi ta, dell'antimonio diaforetico, delbelzoardico minerale, e d'altri, e d'altri sì fatti medicamenti d'odore, e di ſapore affatto privi,per pruova de’ſentimenti avviſar mai ſapreb be, e l'eccellenza, e la perfezione ridirne, ſenza eſsey irl prima cgli ſtato preſente al lor lavorio E tanto queſta ma iagevolezza dell'indovinare i chimici medicamenti anche per li macſtri di quelli è grande, che cziandio de'più me nomi,e comunalinon ſi può nulla di certo fovétemente di viſare; ſicome que'ſali, che fiffi diconſi ci danno apertamen te a divedere; imperocchè i fali fiſi, per nulla dire del fa pore, che in tutti il medeſinio appare,ne alle varie manie re, chcin criſtallizandofi, per valermi d'una parola dell' arte, ſoglion figurarſi: ne a' varj colori,de'quali veſtono il precipitato colcotare, ne ad altro ſegnale può niuno macſtro, comęchè ſperto, e ſaggio in chimica, certamente ravviſare, e ſicuramente de terminare di qual pianta, di qual animale ſieno; conciofficcofachè parecchj ſali di diverliſt me piante fra eſſo loro,prender ſogliano in criſtallizandoſi la medeſima figura, e del color medeſimo veſtir anche ſo gliano il colcotare; ma onde ciò avvegna, non fa iuogo ora, che lo imprenda ad inveſtigare, eſſendo oltre traſcor ſo tanto co’miei ragionamenti, che mi convien riſerbare, più d'una coſa al nostro proposito appartenente, ad altra, Oooo più agiata opportunità; la quale ſe miverrà mai, come pero, diviferonne forſe pienamente, e di vantaggio in uno ſpezial libro, il quale lo ora ſto intero a comporre.  DI CAPUA, Leonardo   Nacque a Bagnoli Irpino (prov. Avellino) il 10 ag. 1617, da famiglia agiata. Nella sua Vita di Lionardo di Capoa, l'Amenta ci dice che il D. si dedicò agli studi con passione, tanto da esibire all'età di undici anni una appropriata conoscenza dei fondamenti della fede, un retto uso della retorica e dello scrivere in latino. Seguì una sua sorella a Napoli, dove frequentò la scuola dei padri della Compagnia di Gesù, studiando per sette anni filosofia e teologia. A diciotto anni si dedicò agli studi giuridici e quindi alla medicina, dei cui fondamenti classici si mostrerà critico precoce. A ventidue anni, carico di libri e di progetti di ricerca, fece ritorno a Bagnoli, con l'intenzione di approfondire le sue conoscenze naturali e anatomiche. Negli anni seguenti prende forma il suo pensiero critico intorno al giudizio dei sensi, all'incertezza delle cose e alla fallacia delle apparenze e quindi alla inadeguatezza del giudizio secondo ragione. Degli anni di ritiro a Bagnoli non abbiamo ulteriori notizie biografiche. L'Amenta ci riferisce di una certa attività letteraria: duemila sonetti amorosi in stile petrarchesco, composti nell'arco di tre anni; due tragedie alla maniera di G. Della Porta, Il martirio di s. Tecla e Ilmartirio di s. Caterina; alcune commedie; una favola boschereccia; infine, innumerevoli scritti in prosa, tutti andati perduti a causa di un assalto di banditi, subito dal D. in viaggio per Napoli.  Non sappiamo quando si stabilì definitivamente a Napoli. Poiché, comunque, ciò non accadde anteriormente ai primi degli anni Quaranta, si può ragionevolmente ritenere che la sua venuta a Napoli fosse incentivata dal ritorno di Tommaso Cornelio, di cui era amico, reduce da un lungo viaggio a Firenze, Bologna e Roma, dopo una lunga preparazione alla scuola galileiana e un contatto col Torricelli nonché con un ambiente favorevole al libertinismo e alla nuova scienza. Dal Cornelio, che nel '53 otterrà una cattedra di matematica e poi di medicina teoretica, il D. viene indirizzato alla ricerca scientifica nella linea segnata dal Galilei e da Cartesio. L'opzione era senz'altro a favore di quel nuovo mondo che la filosofia sperimentale sembrava introdurre all'interno di una cultura legata al passato e organizzata politicamente. Ai primi degli anni Sessanta, gli animi già possono dirsi divisi da controversie e da uno spirito polemicistico per nulla produttivo. Particolarmente ostile la medicina ufficiale nei confronti dei "moderni", essa arriverà a far sopprimere la divulgazione di un libro di S. Bartoli così come osteggerà le lezioni di chimica e la difesa di essa quale scienza fondamentale per il rinnovamento della medicina.  È il periodo della lettura dei grandi filosofi contemporanei di Europa, da Bacone a Galilei, a Hobbes e Cartesio. La volontà di emulare quei grandi e di fondare anche a Napoli la "nuova filosofia" condusse il D., con il Cornelio, F. D'Andrea, P. Lizzardi, G. A. Borelli ed altri, a dar vita all'Accademia degli Investiganti. Di ritorno nel 1649 da un viaggio a Roma, il Cornelio aveva portato con sé a Napoli, anche per esplicita richiesta del D., quanti più libri possibile sui nuovi orizzonti filosofico-scientifici. L'Accademia veniva fondata l'anno successivo; fu poi disciolta nel 1657 a causa della peste e poi ricostituita nel 1662 sotto la protezione di Andrea Concublet marchese d'Arena. Essa ebbe un ruolo specifico nella vita intellettuale e civile napoletana, orientata negli anni Cinquanta ad un risveglio culturale. Si tenevano rapporti letterari e scientifici con sodalizi d'Oltralpe, in particolare con la Società reale di Londra e con l'Accademia delle scienze di Parigi. Si tenevano salotti, alcuni dei quali specializzati nelle singole discipline. La casa del D. era frequentata in particolar modo da medici antigalenisti. Lo stesso Vico, da giovane, frequentò la casa del D., tanto da essere ascritto al novero degli appartenenti al partito capuistico, durante la polemica iniziata verso il 1680 intorno alla natura dell'iride tra il D. e Domenico Aulisio. Uno degli scritti che contribuì a caratterizzare l'ambito della ricerca scientifica e il clima delle controversie tra l'Accademia e la cultura tradizionale fu il Parere.  L'opera è del 1681. Con essa, affrontando il problema della filosofia naturale e razionale, il D. si proponeva di dimostrare "quanto vana, quanto priva d'ogni salda dottrina fosse la filosofia di Aristotele" (p. 94). Questo è il punto centrale della disamina critica del D., nonché il motivo primo delle future polemiche. Di esse parlò anche il Vico nella sua Autobiografia. Il Parere manifesta la esigenza di un nuovo orientamento di pensiero. Vi si dichiara di condividere le idee dei "modemi nostri filosofanti", quali Copernico e Keplero, Bruno e Galilei, Bacone, Cartesio, Gassendi, Boyle, nonché il "dottissimo Obbes". Tutti questi filosofi, stimati per la loro opposizione agli aristotelici, i quali opprimono lo spirito e la ricerca scientifica, insegnano a "sostener la filosofica verità" e a "far mostra in ogni luogo d'esser libero" (pp. 57, 59, 61). E queste rivendicazioni, peraltro giuste, sembrano essere per gli Investiganti la cosa più importante, prioritaria anche rispetto alla necessità di far luce sulla incompatibilità di pensiero tra filosofi così lontani e così entusiasticamente accolti quali un Cartesio e un Hobbes. Il che può gettare il sospetto sulle reali possibilità degli Investiganti di andare oltre una senz'altro positiva, ma poco costruttiva, operazione di rinnovamento culturale di tipo sincretistico. Nella Napoli degli anni Ottanta, quella libertà dell'indagare, aprendo la possibilità di una riflessione generale sulla vita, si traduceva, invero, anche sul piano civile, in una critica degli eccessi nell'uso del potere politico, amministrativo e culturale delle varie classi dominanti. In breve si assiste ad una radicale politicizzazione della cultura, da cui lo stesso Parere non rimase esente.  L'Amenta ci riferisce che la pubblicazione del Parere fu proibita per il suo spirito di opposizione alla corte pontificia (p. 46). In questo contesto vanno lette le Lettere apologetiche che il gesuita G. B. De Benedictis aveva scritto per confutare il Parere. La polemica avrà notevoli ripercussioni, indirettamente anche durante il "processo agli ateisti", e coinvolgerà un Valletta e un Gravina. Il D. fu difeso dalle Lettere da uno dei più rinomati e colti avvocati dell'ambiente anticurialistico e antiaristotelico: Francesco D'Andrea.  Il De Benedictis rappresentava la parte più attiva della Accademia dei Discordanti, seguaci di Aristotele. Il gesuita, nelle sue Lettere pubblicate nel 1694 con lo pseudonimo di Benedetto Aletino (il processo agli ateisti durava già da sei anni), tacciava di "libertini" e "ateisti" i seguaci della nuova filosofia con i suoi due allettamenti: la "novità" dell'opinione e la "libertà" dell'opinare (Benedetto Aletino, Lettere apologetiche in difesa della teologia scolastica e della filosofia peripatetica dedicate al Sig. D. Carlo Francesco Spinelli principe di Tarsia, Napoli 1694, pp. 256, 258, 267). Egli presentava il D. e i suoi amici, quali il D'Andrea e il Grimaldi, come giansenisti, sebbene quelli avversassero il giansenismo ed ogni rigorismo morale, oltre al fatto che solo dopo la morte del Vico il giansenismo fa la sua comparsa a Napoli, e più nella forma dell'atteggiamento antigesuitico e regalista che come dottrina teologica. Tuttavia questi erano i principali capi d'accusa rivolti al D. e ai capuisti, colpiti indirettamente attraverso i loro allievi o simpatizzanti nel processo svoltosi a Napoli tra il 1688 e il 1697 per volere della Curia di Roma.  Già nel 1671 la congregazione dell'Inquisizione aveva scritto al cardinale I. Caracciolo, arcivescovo di Napoli, per metterlo in guardia dai pericoli derivanti dalla propagazione delle idee di Cartesio. Veniva consigliato di stroncare la diffusione di quelle idee e di comunicare alla congregazione il loro apparire. Alla lettera del cardinale fece seguito a Napoli la dispersione degli Investiganti e l'isolamento di quanti sembravano aderire alle nuove idee. Sappiamo anche che nel 1685, al tempo della visita di G. Burnet a Napoli, erano rivolte al D. e ai capuisti quelle stesse accuse che, a detta del Burnet, venivano rivolte al Valletta e ai suoi seguaci, i quali erano "vus de mauvais oeil par le clergé, qui les traite d'athées et de disciples de Pomponatius" (cfr. F. Nicolini, Aspetti della vita italo-spagnuola..., Napoli 1934, p. 202). Il processo agli ateisti fu visto da molti come un processo alle stesse idee propagatesi a Napoli in favore dell'atomismo, del gassendismo, del cartesianesimo. In tal senso lo intese il Valletta, il quale vide nella opposizione al pensiero aristotelico e in una nuova riappropriazione della tradizione platonica, non esclusi Pitagora e Democrito, il mantenimento della integrità della fede stessa. Il Valletta arriverà a sostenere che la filosofia aristotelica è l'unica causa e origine di tutte le eresie, opinione che venne sostenuta anche dal Vico nella sua Historia filosofica del 1714. Le affermazioni del Valletta facevano invero da eco a quanto scriveva D. nel suo Parere: e cioè che non si vuole negare l'autorità di Aristotele, ma si esige che essa sia convalidata e suffragata dall'esperienza.  Sullo stesso piano si manterrà la Risposta del D'Andrea alle Lettere del De Benedictis: essa, infatti, difendendo il pensiero del D., si profila nell'orizzonte di una polemica intesa in senso antiscolastico e non in senso antimetafisico. Il che equivale a dire che il vero oggetto della controversia era il "metodo" dell'indagine scientifica e non i fondamenti metafisici del conoscere umano. In aperto conflitto erano non singole dottrine ma due modi di vedere opposti, inconciliabili. Ne è prova la polemica sorta, immediatamente dopo la pubblicazione del Parere, tra il D. e l'Aulisio. Il Cotugno ritiene che la polemica, tra i fautori del naturalismo e i conciliatori del meccanicismo con la teologia, indicasse in realtà un atteggiamento orientato nel senso di un moderatismo. Ad ogni modo, non si andò, nei confronti del D., oltre le confutazioni dottrinali e gli attacchi polemici; per quanto riguarda il processo agli ateisti, poi, il D. non fu coinvolto personalmente, sebbene imputati, quali un Giannelli e un De Cristofaro, sostenessero di aver appreso da lui le prime nozioni della nuova filosofia. Né gli atti conclusivi del processo intaccarono la memoria del D., morto ormai da due anni.  Il D. aveva superato già i quarant'anni di età, quando si sposò con la giovane Annamaria Orilia. Abitarono nel rione di S. Gennaro all'Olmo, nei cui libri battesimali fu registrata nel 1673 una loro figlia, morta appena nata. Nella loro casa si discuteva anche di letteratura. Il Vico, nella sua Autobiografia, confermando il giudizio dell'Amenta, ebbe a scrivere del D.: "L'eruditissinio signor Lionardo da Capova aveva rimessa la buona favella toscana in prosa, vestita tutta di grazia e di leggiadria" (p. 21).  Invero, il D. diede il suo contributo per il superamento delle forme parossistiche del marinismo esasperato, che a Napoli aveva assunto la forma di un "secentismo del secentismo". Il D. darà egli stesso il modello d'una teoria letteraria con la sua biografia storica su Andrea Cantelmo, che ben presto fu assunta come manifesto letterario dai capuisti: ritorno all'aureo toscano del Trecento e del Cinquecento, quale necessità basilare d'un retto formarsi in prosa della lingua e dello stile di uno scrittore.  Il processo agli ateisti era ancora aperto e le polemiche di certo non mitigate, quando il 17 giugno 1695, a Napoli, il D. venne a mancare. Fu sepolto nella chiesa di S. Pietro a Maiella e sulla sua tomba fu tenuto un "elogio funebre", che ne esaltò non solo la figura morale e cristiana, ma anche la statura intellettuale di maestro e di guida.  La prima e più complessa opera è senz'altro ilParere del Sig. Lionardo di Capua. Divisato in otto ragionamenti, nei quali partitamente narrandosi l'origine e il progresso della medicina, chiaramente l'incertezza della medesima si manifesta, pubblicato a Napoli nel 1681; ristampato nel 1689 a Napoli, dove vide una terza ristampa nel 1695. L'ultima edizione, accresciuta delle Lezioni intorno alla natura delle mofete, in tre tomi, in 80, fu pubblicata a Bologna nel 1714. Esso ebbe molta risonanza nella cultura del tempo; contro di esso scrisse il già ricordato De Benedictis. Muovendo dalla tesi secondo cui Aristotele ha ignorato la prova sperimentale, il D. intuisce la necessità di orientarsi verso una nuova filosofia della "mente". Invero, il D. pensa la mente come realtà connessa con il processo della natura, non allontanandosi con ciò dai ragionamenti svolti dal Cornelio nei suoi Progymnasmata physica del 1663 circa la teoria dell'etere-mente. Fondamentale è per il D. il discorso intorno agli aspetti chimici della materia e ad una implicita metafisica, inerente alla originaria forza interna alla materia, ripresa ed ampliata nelle Lezioni sulle mofete. Il punto di partenza è la questione dell'"aria", sviluppata secondo la teoria dei corpi eterei. Questa è pensata come condizione di possibili attività implicite in ogni punto dell'universo così che la stessa cartesiana "res cogitans" conosce solo in quanto sollecitata dalle "sensazioni" provocate dal movimento materiale delle cose, necessariamente ordinato in senso teleologico. Bisogna dire che il D. non riesce a separarsi del tutto dalla tradizione sensistica e vitalistica del Rinascimento. Sebbene egli affermi di affidarsi, in ultima sede, alla "prova sperimentale", la sua teoria dell'etere-mente, che soprattutto gli impedisce una piena accoglienza e comprensione di Cartesio, è profondamente radicata nella tradizione di un Telesio e d'un Bruno. Consentaneamente al modello proposto dal Cornelio, il D. ascrive molta importanza alla chimica, alle scienze sperimentali e mette al primo posto la matematica. Nel Parere egli asserisce che per essere medico bisogna prima essere filosofo, ma per essere filosofo bisogna in primo luogo sapere di "geometria" (Parere..., Bologna 1714, II, p. 73). Ilmedico, dunque, deve essere ricercatore e teorico della scienza; a causa delle incertezze della medicina, cui fa riscontro la "oscurità" della filosofia, il medico deve prepararsi in tutte le scienze. E l'"eruditissimo" D. (il Vico mise in rilievo più la sua crudizione che una qualche originalità di pensiero) rimanda alla sapienza degli antichi, i quali si accontentavano del "solo probabile" nello spiegare le cause delle realtà naturali. Invero tutto il Parere è teso a dimostrare perché la medicina debba mantenersi entro i limiti dell'esperienza e della "debole" ragione. Tuttavia il pensiero del D. trova le maggiori difficoltà proprio in ciò che costituisce il rapporto tra esperienza e ragione.  Nel 1683 il D. stampa a Napoli le Lezioni intorno alla naturadelle mofete. L'opera è introdotta da una specie di filosofia della storia, in cui è sviluppato il rapporto tra storia e scienza. Nel 1689, obbedendo ad una richiesta della regina Cristina di Svezia, il D. aggiunge al Parere i Tre ragionamenti intorno all'incertezza deimedicamenti, pubblicato a Napoli. L'opera fu ristampata con l'aggiunta di una presentazione di T. Donzelli, a Napoli, nel 1695. Del 1693 è la Vita di Andrea Cantelmo, edita a Napoli. L'opera è legata al tema dell'individuo. Vengono descritti i rapporti tra virtù e fortuna, tra storia individuale e storia naturale, tra ragione e natura.  Fonti e Bibl.: N. Amenta, Vita di Lionardo di Capoa, Venezia; G. B. Vico, Autobiografia, a cura di B. Croce, Bari, Riccio, Cenno stor. delle Accademie fiorite nella città di Napoli, in Arch. stor. per le prov. nap., Cotugno, La sorte di G. B. Vico e le polemiche scientifiche e letterarie, Bari, Nicolini, La giovinezza di G. B. Vico,  Bari, Badaloni, Introd. a G. B. Vico, Milano, Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del Seicento, Messina-Firenze 1965, pp. 90, 157- 176; A. Quondam, Minima dandreiana: prima ricognizione sul testo delle "risposte" di F. d'Andrea a Benedetto Aletino, in Riv. stor. ital., Osbat, L'Inquisizione a Napoli. Il processo agli ateisti, Roma, Alcesto Cilleneo (arcade). Lionardo di Capoa. Leonardo di Capua. Keywords: filosofia romana, Aristotele, filosofia, ragione debole, La Crusca, comunicazione, platone. Incertezza, investigare, gl’investigante, vestigia lustrat. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capua” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Carabellese – l’arena e la pietra -- la sabbia e la roccia – il segno – filosofia italiana – Luigi Speranza (Molfetta). Filosofo italiano. Grice: “I love Carabellese; his masterpiece is ‘the rock and the sand,’ which reminds me of Tuke’s Cornwall! – Tuke captured some dialectic on the sand and rocks, which I’m sure were common in Ostia, too, back in the day! Carabellese speaks of a ‘semiotic scandal’ so it all connects with my pragmatics of dialectics or conversation.” Studia a Napoli e Roma. Insegna a Palermo e a Roma.A partire da una critica ferrata alla dottrina cartesiana (Le obbiezioni al cartesianesimo; il metodo, l’idea, la dualita; Il circolo vizioso in Cartesio) porta a compimento studi critici su diversi autori, tra i quali spiccano Kant e  Rosmini. Elabora la dottrina dell'ontologismo critico, in cui l'essere non è mero oggetto della coscienza ma è a essa intrinseco come fondamento irriducibile, cioè essere-di-coscienza, che in ultima istanza altri non è che Dio (che, come già asseriva Vico, "è" e non "esiste").  Difese l'oggettività essenziale dell'essere e la filosofia, non come sapere specialistico trincerato, ma come operatrice per l'umanità tutta così che la coscienza filosofica esplica quella teoria che nel diversificarsi concreto della spiritualità risulta necessariamente implicita. E allora lo sforzo della filosofia non potrà mai, quindi, essere compiuto atto seppure la teoria si attui sempre in una pratica, che è l'altro termine del concreto. Insomma Carabellese difese la filosofia come ascesa teoretico-razionale a realtà teologiche, o come sentiero che volge al fondamento comune della vita politica e che alla politica rimane irriducibile. Altre opere: Critica del concreto; Il problema della filosofia da Kant a Fichte; Il problema teologico come filosofia; L'idealismo italiano; L'idea politica d'Italia; Da Cartesio a Rosmini. Fondazione storica dell'ontologismo critico. L'essere e la manifestazione. L'essere e la manifestazione: Dialettica della Forme. L'essere. Filosofo della coscienza concreta, Ravenna, Edizioni del Girasole. La sabbia e la roccia: l'ontologia critica di Pantaleo Carabellese. Il problema dell'io in Carabellese. Metafisica in Pantaleo Carabellese. Kant e Carabellese.  Dizionario Biografico degli Italiani. Autolimitazione della metafisica critica? Momenti della recezione italiana di Fichte con particolare riferimento all'ontologismo critico di Carabellese. E anche per lui lo gnoseologismo era il fraintendimento della vera scoperta di Kant, ed era all ' origine della moderna... intesa come « scoperta » deriva quell ' approfondimento dei concetti tradizionali che il Semerari chiama « lo scandalo...seDalla filosofia intesa come « scoperta » deriva quell ' approfondimento dei concetti tradizionali che il Semerari chiama “lo scandalo linguistico,” cioè la terminologia dell ' Ontocoscienzialismo, a prima vista sconcertante. See also the important chapter " Lo scandalo linguistico, " in G. Semerari, La sabbia e la roccia. Merleau - Ponty, Sens et non - sens, Paris, Nagel, 1948; It. trans. by P. Caruso, Senso e non senso, Milan, Il Saggiatore. La ontologia di Carabellese, così, si prospetta come una ontologia della coscienza assiologica e semantica, ossia come una critica antinaturalistica e antipsiscologistica dei valori e dei significati dell’essere»42. L’importanza del lavoro filosofico carabellesiano, secondo Semerari, consiste nell’esigenza radicale di lavorare alle radici del linguaggio filosofico, di andare al di là della storia già fatta, come scrive Semerari citando Carabellese43, scendendo sino ai suoi presupposti: ciò significa portandosi al grado zero della parola per reinventare il linguaggio filosofico e le connessioni che in esso si sono stabilite lungo la sua storia, a partire dalla cosa stessa, ossia dall’essere in cui la coscienza è già implicata. Scrive Semerari: «Sotto questo riguardo non si può trascurare la convergenza con la ontologia critica di quella parte della filosofia linguistica contemporanea per la quale, al limite tra fenomenologia, esistenzialismo e analitica, porre la questione del linguaggio è portarsi al grado zero della parola, al silenzio come radice di ogni possibilità linguistica, fare giudice della critica del linguaggio, com’è stato suggestivamente detto, la ‘coscienza silenziosa’. singolari di Coscienza si costituiscono come soggetti pensanti in comunicazione tra loro. L’alterità dell’altro io presuppone l’identità dell’io che lo esperisce come altro. Reciprocamente la coscienza della propria identità egologica richiede il rapporto di alterità come intrinseco all’essere stesso dell’io. L’alterità sempre afferma chi dice io, il quale ciò dicendo, anche trascendentalmente si distingue, senza per questo separarsi assolutamente, da un chi che riconosce di fronte a sé. Con questo chi egli afferma una relazione reciproca con la quale attua l’egoità. Soggettività ed egoità pura sono sempre pura alterità»19. L’alterità di ciascun io è, come scrive Carabellese, «l’insondabile residuo di meità intraducibile in esperienza dell’altro. Ma questa intraducibilità, che è il limite che la meità ha nell’esperienza, non prova che l’alterità sia soltanto di esperienza e non pura, ma prova, precisamente, il contrario, e cioè che, a fondamento dell’alterità empirica, c’è l’alterità pura come schietta egoità»42. Alterità e non assolutezza dell’io L’Essere di coscienza richiede la compattezza non la relazione fra Oggetto universale, Dio, e soggettività molteplice. La relazione è fra i soggetti: infatti, l’io come uno esistente, implica necessariamente l’altro, che è sempre un altro io, sottolinea il Carabellese. Diversamente l’io assoluto fichtiano, dilaga nella coscienza, identificandosi con essa, riducendo l’oggettività a negazione; ma resta così l’io nella sua solitudine e, senza l’altro, cade nel nulla del non pensare. L’io fichtiano, nell’interpretazione del Carabellese, elimina gli altri io dalla coscienza, assolutizzandosi, ma in tal modo perde la meità, approdando all’Unico, che egli vede come una nuova forma di eleatismo8. Il Carabellese sottolinea che se non è da percorrere l’identificazione dell’io con la coscienza, tuttavia questo non conduce alla cancellazione della meità; invece, pensare l’immediata appartenenza del me all’essere di coscienza, non assolutizzando il me, apre ad intendere gli altri. Non l’annullamento del me costituisce la base per la relazione responsabile in sede etica (Lévinas), ma proprio partendo dal me, per il Carabellese si giunge agli altri come altri “di” me, esistenti nella loro singolarità, non si giunge agli altri “da” me. Il me esistente nella purezza dell’Essere di coscienza apriori di cui parla il Carabellese, in primo luogo non si identifica con il corpo, in quanto quest’ultimo trova il suo limite nell’altro corpo e, più in generale nell’altra cosa: «Io, come innegabile esigenza di coscienza non sono, o se volete, non sono affatto corpo. pur mio. Ora la differenza fra me, che pur sono uno esistente, e il mio corpo, che anch’esso è uno, sta proprio (non se ne può trovar altra) nel limite, che il mio corpo trova negli altri corpi, e che io non trovo, se non voglio cadere nell’assurdo di ritenere me il mio corpo» Carabellese rifiuta l’ipotesi materialistica, perché se l’io si identificasse con il corpo non potrebbe affermare nemmeno la propria corporeità, ossia che il corpo è suo. Nella concezione materialistica l’io si identifica con il corpo che diventa la radice dell’opposizione con gli altri. Se si realizzasse questa identificazione in realtà si avrebbe la soppressione dell’io come uno di coscienza, e anche gli altri non sarebbero più altri uno di coscienza. Il nulla del non pensare si porrebbe contraddittoriamente come l’essere. Anche la concezione spiritualistica che intende l’io come spirito finito, ha come esito la riduzione dell’io a corpo, perché sostenere la limitatezza dello spirito implica sottoporlo al limite, come il corpo, eliminando così il me. Anche se Fichte ha evitato la riduzione dell’io al corpo, non ha tuttavia salvato la meità identificando l’io con la coscienza. Infatti nell’io empirico il me è sostanzialmente ridotto a corpo, a non-io. Solo l’Io, unico, assoluto pone se stesso. In Hegel, poi, ogni residuo di meità è tolta nel Soggetto assoluto. L’io perciò è spirito infinito, ma da questo non deriva per il Carabellese che venga eliminata la distinzione dell’io dal tu nella coscienza, ossia che vengano tolti gli altri, con il rischio di tornare a Fichte. Per il filosofo italiano «togliere il limite è affermare gli altri», non annullarli; infatti, per giungere alla negazione dell’altro, o degli altri, «bisogna prima ammettere – osserva il Carabellese – che gli altri, in quanto tali, escludano l’uno di tale essere, e che l’uno esclude gli altri; bisogna cioè cominciare proprio con l’opporre ad uno gli altri dall’uno, ritenendoli diversi ed opposti a questo e cioè col presupporre che uno (io) sia la coscienza, e gli altri no, e perciò siano non io, non coscienza. Cioè bisogna cominciare col presupporre la empirica limitazione dei corpi, la quale appunto, nella identificazione di me col corpo mio, fa ritenere me, col mio corpo, coscienza e gli altri, che col loro corpo limitano il corpo mio, non coscienza». Già ne Il problema teologico come filosofia il Carabellese afferma, polemizzando con Fichte, che la molteplicità soggettiva non è semplicemente empirica, ma pura, condizione trascendentale della “concretezza”; la singolarità non è solitudine, ma relazione reciproca nel pensare, sentire, agire l’Universale/Dio. L’io esistente, singolare, è uno, e come tale è ciascuno, essenzialmente altro. «Il singolare è quell’uno, di cui si sa l’alterità, ed è perciò ogni uno, ciascuno, unusquisque. Uno che non sia ciascuno, non è uno. E, ancora più incisivamente: «Io sono altro: solo così “sum qui sum”» L’altro, spirito infinito come l’io, per il Carabellese non è esteriore, né eterogeneo rispetto al me, non si risolve in una identificazione con l’oggetto realisticamente inteso. Nell’ultimo sistema il Carabellese sostiene l’“identità” dei soggetti pensanti, portando alle estreme conseguenze la determinazione dell’omogeneità, senza però indicare come possano differenziarsi i soggetti l’uno dall’altro. Il rischio dell’annullamento dell’alterità, pur se non voluto, è evidente; infatti per spiegare il darsi della molteplicità soggettiva egli parla di alterazione, come moltiplicazione infinita riferendola però non all’uno, al soggetto, ma all’Unico, ossia all’essenza divina, al che. Tuttavia, se la moltiplicazionealterazione è riferita dal Carabellese all’Unico, non all’uno: allora l’altro, è un altro uno, ossia un altro soggetto, oppure un impossibile altro Unico? Ed essendo l’Unico non soggettivo, come possono derivarne i soggetti? In realtà possiamo muovere anche al Carabellese l’osservazione di involgersi in una sorta di circolo fra Dio e io, in quanto se da un lato Dio è la qualità infinita di cui l’io è terminazione, moltiplicazione/alterazione, nello stesso tempo a Dio, in quanto non soggettivo, sono necessari i soggetti pensanti. L’uno di cui parla il Carabellese è l’io che immediatamente si intuisce singolare, e che altrettanto immediatamente avverte l’alterità: «Uno che non sia ciascuno, non è uno», afferma eloquentemente. Egli sente il pericolo di ricondurre e ridurre la meità ad una ciascunità di identici, perdendo l’originalità e l’inconfondibilità di ciascuno nei confronti degli altri. Tuttavia per il Carabellese invece proprio il recupero dell’altro consente la realizzazione di sé. Ma, se si andasse più profondo in questo amor di me spirituale, che è, o dovrebbe essere, l’amor proprio, se si sviluppasse ciò a cui esso mi costringe, si vedrebbe, che, se io veramente voglio dare una positività a questa negazione del “non tu”, se non voglio divenire un puro e semplice “non” devo considerare me come uno tale che possa e debba riversare l’amor di me uno in altro uno, che è uno come me, cioè devo riconoscere l’unità, che sono io, nell’alterità. L’amor mio proprio, che non voglia essere soltanto amor del mio corpo, è proprio amor dell’altro. L’amor proprio spirituale non mi costringe alla assolutezza (unicità e incondizionatezza) della mia unità, ma proprio alla sua alterità: l’amore è sempre amore di altro: è la grande scoperta di Cristo»15. La struttura dell’essere di coscienza apriori richiede l’alterità e Dio o, in altri. termini, l’uno molteplice e l’Unico: in tal modo è la stessa struttura coscienziale a dare fondamento alla carità. L’amor proprio e l’originalità di ciascuno si afferma e realizza nella relazione e nel riconoscimento degli altri: «Io facendo dagli altri riconoscere me tra essi, e riconoscendo me come altro, non tolgo ma affermo la mia originalità». Per il Carabellese l’amor di sé ha insita l’esigenza della relazione con l’altro; solamente chi concepisce l’io come l’Unico chiuso in se stesso, privo di meità e di relazione, il solo, parla di offesa dell’amor proprio, ma in realtà non si avvede che quell’Unico non è più nemmeno soggetto. Tuttavia i problemi restano: la relazione con l’altro identico rischia di essere più un narcisistico rispecchiamento, che una vera relazione, più una sorta di moltiplicazione dell’Unico, un suo reiterarsi che il faticoso cammino del riconoscersi. Fra i soggetti nella loro purezza, per cui sono infinitamente penetrativi e interi nella loro relazione, l’identità è già data immediatamente: ma allora non si comprendono gli erramenti, le lotte e gli scontri a livello empirico. L’altro per il Carabellese è un altro me, non la negazione del me. Ineludibile il riferimento al Parmenide platonico e all’opposizione che Platone pone tra uno e altri. Per il Carabellese, sulla base dell’essere di coscienza, tale opposizione non si dà; alla domanda del Socrate platonico su quel che siano gli altri, quando io sia, si può rispondere, che essi, non sono altri dall’uno ma altri uno, sono perciò altri “me”. Il Carabellese individua la causa della “cacciata” degli altri dalla coscienza nella erronea identificazione della coscienza concreta con l’io: per tale scambio l’io annulla la “qualità” di cui insieme agli altri è individuazione senza esaurirla. Nello stesso tempo si annulla la “quantità” pura, restando il solo, che cade nell’assurdo di non essere né soggetto, né oggetto. L’io infinitamente aperto, illimitato, identico, intero pur se nell’essenziale relazione, di cui parla il Carabellese è apriori, non si identifica con il singolo uomo vivente, limitato nello spazio e nel tempo: essere condizionato e limitata persona dell’esperienza, presuppone essere soggetto incondizionato e illimitato nell’essere di coscienza puro. Sembra presentarsi una scissione fra il soggetto in quanto pensante e l’uomo vivente spazio-temporalmente, fra “miglior coscienza” e “coscienza empirica”, per utilizzare in chiave euristica espressioni del giovane Schopenhauer, che riflette sulla duplicità della coscienza, non facendo ancora riferimento alla volontà come principio metafisico. Però proprio il pensare, da lui inteso in senso ampio come intendere, sentire e volere che si esplicano nell’attività spirituale umana, esige il livello della purezza coscienziale. Come abbiamo visto in precedenza, per il Carabellese l’assolutizzazione della. Cfr. A. Schopenhauer, La dottrina dell’idea, antologia a cura di E. Mirri, Armando, Roma. dimensione spazio-temporale, ossia del limite, condurrebbe all’annullamento dell’attività spirituale umana. Il Carabellese non intende semplicemente opporre la propria concezione a quella fichtiana, ma intende condurne all’estremo le conseguenze, ipotizzando una sorta di esperimento mentale. Infatti, se l’Io si ritenesse assoluto e si arrogasse il diritto di sopprimere il tu, riducendolo soltanto a sua esperienza, allora «rimarrebbe sì, solo Io, ma solo in quanto avrebbe soppresso il tu e quindi anche l’esperienza, che egli ne ha: non ci sarebbero più i tu, che egli dovrebbe dimostrare essere soltanto io empirici: gli altri non sarebbero empirici, non ci sarebbero. Or senza i tu (altri) ci sarei ancora io (uno)?»18. In realtà, per il Carabellese c’è un'unica soluzione, che esclude la fine tragica della disputa: «Non c’è dunque altra via d’uscita da esso, se non quella che io non mi contenti di ricambiare la tuità, ma gli ricambi proprio la meità, riconosca in lui non un tu posto da me (Fichte) ma un altro io, e perciò mentre gli riconosco la meità, che egli non mi riconosce, gli contesto il diritto di trasformarsi in Io assoluto, mostrandogli che così egli sopprime se stesso come io, e nega l’assoluto facendolo, lui, sapere e parlare come Io»19. Dio, ossia l’Unico, non è soggetto, ma come qualità infinita, costituisce l’essenza di cui i molti soggetti sono individuazione o moltiplicazione, con tutti i problemi che ne conseguono20, compreso il possibile l’esito fichtiano. Secondo il Carabellese si può dire che «sono l’identico io proprio perché siamo due»: se fosse eliminato il tu come altro me, riducendolo ad esperienza, sarebbe eliminato anche quel consentire in cui consiste la stessa esperienza. Non solo l’esperienza richiede la dimensione comunitaria, ma in generale il pensare, che è essenzialmente un convenire, un cum-sapere21 l’Universale, Dio. Quel cum non è un'aggiunta irrilevante, in quanto la dimensione intersoggettiva, comunitaria, è essenziale a tutte le forma dell’attività spirituale umana. «Ci sarà – afferma il Carabellese –, anzi c’è senza dubbio, quella empirica alterità, nella quale ciascuno di noi presenta all’altro un insondabile residuo di meità intraducibile in esperienza dell’altro, ma questa intraducibilità, che è il limite che la meità ha nella esperienza, non prova che l’alterità sia soltanto di esperienza e non pura, ma prova precisamente, il contrario, e cioè che, a fondamento dell’alterità empirica, c’è l’alterità pura come schietta egoità, prova che il limite empirico, che separa me da te, persone viventi, non è la stessa alterazione pura di noi altri due, ciascuno singolare; io, alterazione pura, per la quale ciascuno, con la propria unità è immesso nell’altro uno, Cfr. F. Valori, Il problema dell’io in Pantaleo Carabellese. Cfr. in proposito P. Carabellese, La coscienza. immissione, senza della quale è assurdo non solo l’innegabile consentimento ma anche la divergenza di noi nell’alterità nostra; consentimento, e divergenza, per i quali noi, ciascuno come altro, siamo tanti soggetti dell’Unico, che è immanente a noi molti»22. La differenza fra le egoità si dà solo a livello empirico, a livello trascendentale e metafisico i soggetti sono identici, interi23 e, nello stesso tempo infinitamente penetrativi24. Carabellese contrasted the rock of concrete, temporal, plural, relational being in the light of which the problem of the origin, of the foundation, of validity cannot be given up, with the sand of historicist becoming, of the historicist succession of the facts in which law and value coincide with the succession itself. The metaphor of sand and rock used by the same Carabellese in his later writings is taken up by Semerari in the title of a book of 1982 dedicated to critical ontologism. This metaphor gives us a good idea of the fundamental theoretical instance relating to the problem of history. Such a theoretical instance is asserted by Carabellesian ontology in its opposition to historicism through the ontological recovery of time and of existence and by contrast as well with the interpretation, traceable in Heidegger, of time and existence as the outside, as the not of meta–temporal and meta–existential Being, that is, as its decayed phenomena21.”La responsabilita profonda, grave, se una se ne vuol trovare, e questo aver SCAMBIATA LA SABBIA DELL’IERI, OGGI, E DOMANI, SEPARATI, AVER SCAMBIATA LA SABBIA DEL “FUI” PER LA ROCCIA DELL’ “ESSERE”  -- l’eterno – nell’eterno -- nella roccia, l’ieri, l’oggi, e il domani non sono separati ne successivi – la copula S EST P – non S FUI P --. La responsabilita profonda e di questa coscienza storicista, che si resolve appunto nel credere che tutta la CASA umana sia FATTA SU SABBIA [on sand, not on rock]– e DI SABBIA. Abbandoniamo questa coscienza storicista di Croce, che spessso si nasconde, forse piu intransigente anche nel dommatismo ultramondano degl’ANTI-STORICI, che pur soltanto UNA SABBIOSA STORIA (la storia della semiotica, la storia di Vitruvio) concedeno all’umana attivita consapevole. CERCHIAMO LA ROCCIA al di sotto di questo SGRETOLAMENTE (la greta), che sono i successive e separati ieri, oggi, e domani. CI riuscira forse cosi di ritrovare il fondamento e di trarre anche dallo SCAVO DI FONDAZIONE, PER LA COSTRUZIONE DELLA NOSTRA CASA, materiale piu atto che non sia quello datoci dal SABBISO SUCCEDERSI DI ETA UMANE E COSMICHE. Certo nessuna costruzione noi uomini pensanti possiame fare SULLA ROCCIA se queso nostro PENSARE NON TOCCA LA ROCCIA. Nessuna costruzione possiamo fare se nostro pensare no ha LA ROCCIA A SUO INTIMO FONDAMENTO. Ma tanto meno potremo alcuna costruzione fare SE INTENDIAMO FARLA CON POLVERE di idee che si facciano sorgere o tramonatre con la storia. Su Polvere e di polvere non si costruisce. Si COSTRIUCE SOLO CON PIETRA [stone] DURA [hardened – D. Paul] SULLA ROCCIA. ROCCIA E L’ESSERE SPIRITUALE CHE *dura* -- durazione, duro – ETERNO.”  24 Omnis ergo, qui audit verba mea haec et facit ea, assimilabitur viro sapienti, qui aedificavit domum suam supra petram.  25 Et descendit pluvia, et venerunt flumina, et flaverunt venti et irruerunt in domum illam, et non cecidit; fundata enim erat supra petram. 26 Et omnis, qui audit verba mea haec et non facit ea, similis erit viro stulto, qui aedificavit domum suam supra arenam.  27 Et descendit pluvia, et venerunt flumina, et flaverunt venti et irruerunt in domum illam, et cecidit, et fuit ruina eius magna ”.Pantaleo Carbellese. Keywords: la sabbia e la roccia – il segno, lo scandalo del significato, io/tu, Husserl, intersoggetivita, intersoggetivo, interpersonal, interattivo – interazione, azione sociale – orientazione all’altro, razionalita strategica, razionalita comunicativa, complessita intensionale, il significato, i significati, l’nsieme, la comunita, il noi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carabellese” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Caracciolo – il colloquio – filosofia italiana – Luigi Speranza (San Pietro di Morubio). Filosofo italiano. Grice: “I like Caracciolo – at Harvard, I joked on Schlipp, and stated that Heidegger was then the greatest (grossest, in German) living philosopher – as he then was, living --. Caracciolo has dedicated his life to translate Heidegger’s ‘Dutch’ mannerism into the ‘volgare’: and now I have concluded that Heidegger is perhaps the grossest dead philosopher – “in cammino verso il linguaggio: il dire originario” –“.  Grice: “Note that Caracciolo’s ‘cammino’ translates Heidegger’s ‘weg’ – my ‘way’ of words – but for Heidegger is ‘way to’ (weg zur) – as it should!” cf. Speranza, “in cammino verso la conversazione” – versus “il cammino della convresazione’ –“ Grice: “Note that in Italian, unlike German, you drop the otiose ‘the’ of ‘way – “Nel cammino” is o-kay, but “in cammino” is the choice by Caracciolo!” – cf. Aligheri, ‘nel cammino’ OF his life, towards heaven, or paradise, that is.” Studia a Verona e Pavia. Fa la conoscenza di Olivelli, con il quale collaborò alla stesura dei Quaderni del ribelle. Olivelli divenne uno dei più noti martiri della Resistenza e a lui Caracciolo dedica un saggio, “Teresio Olivelli: biografia di un martire” (Brescia). Insegna a Pavia, Lodi, Brescia, e Genova. La sua filosofia si sviluppa inizialmente all'interno della tradizione crociana, ma poi acquisisce tratti più originali a contatto con Jaspers, Löwith e Heidegger. In cammino verso il Linguaggio. Di particolare interesse e importanza sono i suoi studi sul nichilismo a partire da Leopardi e sulla dimensione religiosa dell'esistenza. Nella sua riflessione egli ha pure mostrato una forte attenzione per il rapporto tra pensiero e poesia, tra pensiero e musica. Altre opere: “L'estetica di Benedetto Croce nel suo svolgimento e nei suoi limiti (Torino); L'estetica e la religione di Croce (Arona); Estetica (Brescia); Etica e trascendenza, Brescia); Arte e pensiero nelle loro istanze metafisiche. I problemi della "Critica del giudizio", Milano); Studi kantiani, Napoli); La persona e il tempo, Arona; Saggi filosofici, Genova); Studi jaspersiani, Milano); La religione come struttura e come modo autonomo della coscienza, Milano); Arte e linguaggio, Milano); Religione ed eticità, Napoli); Löwith, Napoli); Nichilismo, Napoli); Nichilismo ed etica, Genova); Studi heideggeriani, Genova); Nulla religioso e imperativo dell'eterno, Genova); Politica e autobiografia, Brescia); Leopardi e il nichilismo, Milano); La virtù e il corso del mondo (Alessandria); L'assolutezza del Cristianesimo e la storia delle religioni, Napoli); Filosofia della religione; In cammino verso il Linguaggio; Theophania. Lo spirito della religione antica. Filosofia umana. Esistenza e Trascendenza. Lo spazio della trascendenza. La prospettiva estetica ed etico-religiosa. Caracciolo. Sentieri del suo filosofare. Unterwegs zur Sprache. In cammino verso il linguaggio. F.-W. von Herrmann, Die Sprache. Il Linguaggio. Die Sprache im Gedicht. Il linguaggio nella poesia. Eine Erörterung von Georg Trakls Gedicht. Aus einem Gespräch von der Sprache. Zwischen einem Japaner und einem Fragenden. Das Wesen der Sprache. L’essenza del linguaggio. Das Wort. La parola. Il verbo. Der Weg zur Sprache. In cammino verso il linguaggio. Essere e tempo. La riflessione esplicita sul linguaggio. ζῷον λόγον ἔχον. Ermeneutica e metodo storico-ermeneutico. Il ‘non’ come fondamento. Più in alto della realtà sta la possibilità. La Kehre. L’essere: un problema che rimane problema. Poesia. L'arte come messa in opera della verità. Hӧlderlin. Il tempo della povertà. Il pensiero come Kehre. In cammino verso il silenzio. La differenza e il fondamento. In cammino verso il linguaggio: il dire originario. In cammino verso il linguaggio: il suono del silenzio. “Heidegger is the greatest living philosopher”.  Martin Heidegger In cammino verso il linguaggio Curatore: A. Caracciolo Mursia Editore 2014 Pagine: 222 13 maggio 2015 Nel 1959 Heidegger scrisse In cammino verso il linguaggio. Ci sono alcune cose interessanti e volevo proporvele questa sera. Innanzi tutto l’esordio in cui è molto chiaro e molto deciso dice: L’uomo parla, noi parliamo nella veglia e nel sonno, parliamo sempre anche quando non proferiamo parola ma ascoltiamo o leggiamo soltanto perfino quando neppure ascoltiamo o leggiamo ma ci dedichiamo a un lavoro o ci perdiamo nell’ozio, in un modo o nell’altro parliamo ininterrottamente, parliamo perché il parlare ci è connaturato. Il parlare non nasce da un particolare atto di volontà, si dice che l’uomo è per natura parlante, e vale per acquisito, che l’uomo a differenza della pianta e dell’animale è l’essere vivente capace di parola, dicendo questo non si intende affermare soltanto che l’uomo possiede accanto ad altre capacità anche quella del parlare, si intende dire che proprio il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in quanto uomo. L’uomo è uomo in quanto parla, è la lezione di Wilhelm Von Humboldt, resta però da riflettere che cosa significhi “l’Uomo”. Ora considera una poesia di Carl Kraus: Quando la neve cade alla finestra a lungo risuona la campana della sera, per molti la tavola è pronta, la casa è tutta in ordine. Alcuni nel loro errare giungono alla porta per oscuri sentieri, aureo fiorisce l’albero delle grazie, la fresca linfa della terra, silenzioso entra il viandante, il dolore ha pietrificato la soglia, là risplende in pura luce, sopra la tavola, pane e vino. La sua ferita piena di grazie lenisce la dolce forza dell’amore “o nuda sofferenza dell’uomo” colui che muto ha lottato con gli angeli. Ve l’ho letta visto che ne parla, che cosa “chiama” la prima strofa? Perché lui dice che il linguaggio è qualcosa che “chiama” le cose letteralmente dice “il linguaggio parla” ma come parla? Dove ci è dato cogliere questo suo parlare? questo già è interessante perché non è l’uomo, ma è il linguaggio che parla, dice: innanzi tutto in una parola già detta, in questa infatti il parlare si è già realizzato, il parlare non finisce in ciò che è stato detto. Qui sentirete a breve echeggiare anche molte cose di Lacan e di altri. In ciò che è stato detto il parlare resta custodito, in ciò che è stato detto il parlare riunisce il modo del suo perdurare, è ciò che grazie ad esso perdura, il suo perdurare, la sua essenza, ma per lo più, e troppo spesso, ciò che è stato detto noi lo incontriamo soltanto come il passato del parlare. // Lui considera la prima strofa e dice: che cosa “chiama” la prima strofa? Chiama cose, dice loro di venire, dove? Non certo qui, nel senso di farsi presenti fra ciò che è presente, sicché per esempio la tavola di cui parla Kraus venga a collocarsi fra le file di poltrone da loro occupate, il luogo  2 dell’arrivo che è con-chiamato nella chiamata, è una presenza serbata intatta nella sua natura di assenza, è questo il luogo in cui quel nominante chiamare dice alle cose di venire, in una assenza, poi preciserà fra breve il chiamare è un invitare tenete conto che sta dicendo della parola è l’invito alle cose ad essere veramente tali per gli uomini, la “caduta della neve” (qui cita un’altra strofa di Kraus) porta gli uomini sotto il cielo che si oscura inoltrandosi nella notte, il suonare della “campana della sera” li porta come mortali di fronte al divino, “casa” e “tavola” vincolano i mortali alla terra, le cose che la poesia nomina in tal modo “chiamate”, adunano presso di sé cielo e terra, i mortali e i divini, i quattro “cielo, terra, i mortali e i divini” costituiscono nel loro relazionarsi una unità originaria, le cose trattengono presso di sé il quadrato dei “quattro”, in questo adunare e trattenere consiste l’esser cosa delle cose, l’unitario quadrato di cielo e terra, mortali e divini, immanente all’essenza delle cose in quanto cose, noi lo chiamiamo “il mondo”. La poesia nominando le cose le chiama in tale loro essenza, queste nel loro essere e operare come cose dispiegano il mondo, nel mondo esse stanno e in questo loro stare nel mondo è la realtà e la loro durata, le cose in quanto sono e operano come tali portano a compimento il mondo. Nel tedesco antico “portare a compimento” si dice “bern, bären” donde i termini “gebären” “generare” e “Gebärde” “gesto”, quanto mettono in atto la loro essenza le cose sono cose, in quanto mettono in atto la loro essenza esse generano il mondo. La prima strofa chiama le cose al loro esser tali, dice loro di venire, tal dire chiamando le cose le chiama presso, le invita, al tempo stesso sospinge verso le cose, affida queste al mondo da cui si manifestano, per questo la prima strofa nomina non soltanto cose ma insieme il mondo, chiama i molti che come mortali fanno parte del quadrato del mondo, le cose condizionano i mortali ciò a questo punto significa: le cose visitano di volta in volta i mortali sempre e solo insieme col mondo. La prima strofa parla nell’atto che dice alle cose di venire, la seconda strofa parla in modo diverso dalla prima eccetera … qual è la questione qui? Importante perché ci sta dicendo che c’è il mondo che è fatto di che cosa? “dei, mortali, cielo, terra”, il mondo è ciò per cui le cose sono quelle che sono, adesso ve la dico in modo molto più semplice e capirete subito: “le cose” sono gli enti, il “mondo” è l’Essere. In questa posizione sta dicendo che senza il mondo cioè senza l’“Essere”, che poi questo mondo, lui è preciso qui quando dice “la caduta della neve” per esempio nel verso “porta gli uomini sotto il cielo che si oscura inoltrandosi nella notte e il suonare della campana della sera li porta come mortali di fronte al divino” cioè queste parole costruiscono la scena entro la quale la “cosa” può apparire, come se fosse, adesso preciseremo meglio, come se la “cosa” fosse una sorta di significante, adesso sto un po’ stravolgendo ma per farvi capire, il “mondo” il significato, senza significante non c’è significato e viceversa, il significato cioè ciò che questa “cosa”, questa parola produce, se lui nomina il “suonare della campana” è chiaro che questo suonare della campana evoca qualcosa, evoca il divino, evoca la religione, evoca tantissime cose, adesso lui ne cita solo una, ma potrebbero essere sterminate ed è all’interno di questo che l’ente compare, Intervento: come se le cose potessero apparire solo in questa scena che è il “mondo”. Esattamente, però senza gli enti il mondo non c’è. Intervento: il mondo è la totalità degli enti? Sì, esattamente, poi: Come il chiamare che nomina la cose chiama presso e rimanda lontano, così il dire che nomina il “mondo” è invito a questo a farsi vicino e al tempo stesso lontano. Cosa vuole dire che “chiama presso e rimanda lontano” questo “chiamare”? le chiama le cose parlando, io chiamo le cose quindi è come se me le avvicinassi ma mentre avvicino queste cose, queste cose si allontanano anche, si allontanano perché di cosa sono fatte? Intervento: c’è sempre quell’assenza di prima. Sì, queste parole sono assenti, nel senso che non sono lì in quanto tali, sono lì sempre in quanto riferite al mondo ecco: esso, il chiamare, affida il mondo alle cose e insieme accoglie e custodisce le cose nello splendore del mondo, il mondo concede alle cose la loro essenza. Quindi è questo mondo, questa scena, io adesso uso dei termini che lui non usa ma solo per rendere le cose più semplici, è questo “mondo” che dà alle cose la loro essenza, qui sembra essere ancora platonico, questo mondo  3 potrebbe essere pensato come il mondo delle idee ed è questo mondo delle idee che da alle cose, agli aggeggi la loro essenza. Le cose d’altra parte fanno essere il mondo, il mondo consente le cose. Il parlare delle prime due strofe parla nell’atto che sollecita le cose a venire verso il mondo e il mondo verso le cose- tenete sempre conto che sta descrivendo cosa fa il linguaggio: neppure però costituiscono soltanto una coppia, mondo e cose non sono infatti realtà che stiano l’una accanto all’altra, esse si compenetrano vicendevolmente, compenetrandosi i due passano attraverso una linea mediana, in questo si costituisce la loro unità, per tale unità sono intimi linea mediana e l’intimità, per indicare tale linea la lingua tedesca usa il termine “das …” il “fra” “fra mezzo” la lingua latina dice “inter”, all’“inter” latino corrisponde il tedesco “unter”. Intimità di mondo e cosa non è fusione - ora cominciate a pensare a queste due cose “mondo e cosa” come significato e significante e adesso vi dirò perché non è una fusione fra le due cose, pensate a De Saussure, L’intimità di mondo e cosa regna soltanto dove mondo e cosa nettamente si distinguono e restano distinti, nella linea che è a mezzo tra i due, nel fra mezzo di mondo e cosa, nel loro “inter”, questo “unter, domina lo stacco. ora adesso non so se è già il caso di dire qua, ecco qui comincia con la questione della “differenza”: L’intimità di mondo e cosa è nello stacco, “Schied” “del frammezzo” e nella “dif-ferenza” “Unter Schied”, il termine “differenza” è qui sottratto all’uso corrente e consueto non indica un concetto generico nella cui area rientrino molteplici specie di differenza, la “dif-ferenza” di cui qui si parla esiste solo come quest’una e unica, la dif-ferenza regge, non però con essa identificandosi, quella linea mediana nel modo e nella relazione alla quale, e grazie alla quale, mondo e cose trovano la loro unità, l’intimità della dif-ferenza è l’elemento unificante della diafora, di ciò che differenziando porta e compone, la dif-ferenza porta il mondo al suo esser mondo, porta le cose al suo esser cose, portandoli a compimento li porta l’un verso l’altro. Il termine “dif-ferenza” non indica per ciò più una distinzione posta tra oggetti del pensiero presentativo – Oggetti del pensiero presentativo sono quelli che il pensiero mostra, presenta – né la differenza è solo una relazione oggettivamente esistente tra mondo e cosa, che il pensiero presentativo venendovisi a imbattere possa constatare, né la differenza è comunque relazione tra mondo e cosa destinata ad essere in un ulteriore momento negata e trascesa – cioè non può togliersi – la differenza di mondo e cosa fa che le cose emergano come quelle che generano il mondo, fa che il mondo emerga come quello che consente le cose. La dif-ferenza è la dimensione in quanto misura nella sua interezza facendo essere nella sua propria essenza lo spazio di mondo e cosa, la differenza come linea mediana di mondo e cose rappresenta generandola la misura in cui mondo e cosa realizzano la loro essenza, nel nominare che chiama “cosa” e “mondo” quel che è propriamente nominato è la dif-ferenza. A questo punto è ovvio che ciascuno di voi ha pensato necessariamente a Derrida, il quale Derrida ha preso a man bassa da Heidegger ma tra breve sarà ancora più evidente, lui, Derrida ha preso Heidegger e lo ha riletto con De Saussure dice: “Questo chiamare” ricordate prima ha detto del chiamare: Questo chiamare è l’essenza del parlare, la dif-ferenza è la chiamata dalla quale soltanto ogni “chiamare” è esso stesso chiamato, alla quale pertanto ogni possibile “chiamare” appartiene. // Il linguaggio parla in quanto suono nella “quiete” (adesso dirà che cosa intende) la quiete acquieta, (ovviamente) portando mondo e cose alla loro essenza, il fondare e comporre mondo e cose nel modo dell’acquietamento è l’evento della dif-ferenza, il linguaggio, il suono della quiete è in quanto “la dif-ferenza”, è come farsi evento, l’essere del linguaggio è l’evenire della dif-ferenza. Il suono della quiete non è nulla di umano, certo l’uomo è nella sua essenza parlante, il termine “parlante” significa qui che emerge ed è fatto se stesso dal parlare del linguaggio. (lui è preciso su questo cioè non è l’uomo che parla, è il linguaggio che parla, e il linguaggio non è un ente, non è un oggetto al pari degli altri, infatti quando la logica parla di “linguaggio oggetto” compie un abominio per Heidegger, perché il linguaggio non è un oggetto, mai può essere oggetto dunque: In forza di tale evenire l’uomo nell’atto che è dalla lingua portato a se stesso, alla sua propria essenza continua ad appartenere all’essenza del linguaggio, al suono della quiete (cioè è l’uomo che appartiene all’essenza del linguaggio non viceversa) tale evento (il suono della quiete) si realizza in quanto l’essenza del linguaggio (il suono della quiete) si avvale del parlare dei mortali per essere dai mortali percepita come appunto “suono della quiete”, solo in quanto  4 gli uomini rientrano nel dominio del suono della quiete, i mortali sono a loro modo capaci di un parlare attuantesi in suoni. Il parlare dei mortali è un “nominante chiamare”, (questo è fondamentale in Heidegger lo ripeto “il parlare è un nominante chiamare”) è invito alle cose e al mondo farsi presso muovendo dalla semplicità della differenza. La pura del parlare mortale è la parola della poesia, l’autentica poesia non è mai un modo più elevato della lingua quotidiana vero è piuttosto il contrario, che cioè il parlare quotidiano è una poesia dimenticata come logorata nella quale a stento è dato ancora percepire il suono di un autentico chiamare. Ecco la questione che sta ponendo è esattamente quella che pone Derrida, questo suono, questo suono silenzioso che non si sente ma che tuttavia è ciò che costituisce la condizione della parola che chiama, beh è ciò che Derrida ha elaborato come “differance”, lui usa per indicare questo suono che non c’è, usa questo esempio, lui scrive in francese “difference” in francese si scrive così, però a “difference” sostituisce alla e una a, scrivendo quindi “differance” che in francese è scorretto perché si scrive “difference”, però dice anche cambiando la e con la a, il suono della parola in francese “differance” non cambia, è esattamente lo stesso cioè questa e non si sente, che metta la e o metta la a, è uguale, non si sente, cioè quella cosa che lui chiama la “differance” è esattamente questo suono muto, che tuttavia è quella cosa che consente alla parola di essere tale e cioè di, mettiamola così, lui, forse dovrei aggiungere qualcosa, lui, Derrida muove a queste considerazioni partendo da De Saussure, dal segno di De Saussure “significante/significato” e quindi ciò che dice è che questa barra è quella che divide il significante dal significato ma è quella che compone il segno, senza questa barra che distingue il significante dal significato il segno non c’è, però questa barra si scrive, si mette il trattino, come faceva De Saussure, ma non c’è, non suona né nel significante né nel significato ecco questa barra è la “dif-ferance”, è quella cosa che non compare, che non ha suono però è la condizione perché il segno sia segno, cioè perché la parola sia la parola è indeterminabile cioè questo suono di cui parla qui Heidegger il “suono della quiete” è questo suono, senza questo “cosa e mondo”, adesso la dico in modo molto rozzo ma si sovrapporrebbero l’uno altro, l’ente, cesserebbe di essere tale perché l’ente è tale perché inserito all’interno del mondo, e il mondo è tale perché esiste un ente che lo pone in essere, esattamente come il significante e il significato. Heidegger non parla né di significante né di significato, non gliene importa assolutamente nulla, per lui il mondo è l’essere, è l’esserci “Dasein”. Ciò che a noi interessa invece è intendere come anche in Heidegger si siano poste delle questioni molto precise intorno al linguaggio, soprattutto rispetto al fatto che il linguaggio non è un oggetto, non è una proprietà dell’uomo, non è una sua facoltà tra altre, ma è il linguaggio che parla, ricordate la famosa asserzione di Lacan quando dice “ça parle” cioè qualcosa parla, viene da qui ovviamente, è stato Heidegger a porre la questione in termini precisi, tali per cui ha preso atto del fatto che il linguaggio non è una proprietà, è questo che dice, non è una proprietà, non è un ente, non è qualcosa di cui gli umani dispongano ma è il linguaggio che parla. Che significa questo per quanto ci riguarda? Significa una cosa importante: è il linguaggio a parlare e a costruire l’uomo, e anche le cose, perché Heidegger dice che le chiama, le chiama alla presenza, però di fatto il linguaggio è quella struttura, come andiamo dicendo da tempo, senza la quale non sarebbe possibile per gli umani il dirsi tali, non sarebbe possibile costruire nessun pensiero, nulla. Quindi lui dice che il linguaggio “chiama le cose”, sì, le chiama nel senso che le crea, le produce letteralmente, e in effetti non lo dice, forse lo usa da qualche parte, non usa la parola “costruire” ma in ogni caso ciò che sta dicendo è che il linguaggio è quella cosa che in un certo senso, adesso permettetemi di dire questa cosa che ad Heidegger non piacerebbe, ma “preesiste” l’uomo in un certo senso, “preesiste” tra virgolette, perché è come se il linguaggio fosse da sempre lì, è questo mondo all’interno del quale qualche cosa può apparire. Ed è una posizione molto interessante che per altro moltissimi hanno ripreso, tutti coloro che si sono minimamente interrogati intorno al linguaggio in qualche modo hanno tenuto conto di queste asserzioni di Heidegger, questo testo è celeberrimo “In cammino verso il linguaggio”  5 Intervento: scusi, dicendo appunto dell’uomo e del linguaggio, non dice che il linguaggio “costruisce” o “inventa” l’uomo, ma dice che il linguaggio fa qualsiasi cosa, però non è giunto a dire che l’uomo non esisterebbe in quanto uomo, se non ci fosse il linguaggio? Nel senso che mantiene l’uomo un’entità che parla, che dice delle cose, o no? Dice in modo molto chiaro: Il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in quanto uomo, Dice ancora: La parola è cenno e non segno, nel senso di semplice denotazione la logica ma anche la linguistica ha sempre considerato la parola come un segno denotante qualche cosa, un segno linguistico che denota un aggeggio qualunque, lui dice che la parola è cenno, accennare a qualche cosa, alludere a qualche cosa, riferirsi indirettamente a qualche cosa, come dire lasciare che questa cosa appaia senza una determinazione precisa, cioè senza una denotazione, la denotazione appunto “de nota”, la denotazione dice qual è il significato di una cosa, ricordate la differenza fra denotazione e connotazione? Dicendo che la parola è cenno, qua nella parte in cui fa questo dialogo ipotetico con un giapponese, è come dire che la parola indica qualche cosa ma che è al di là della parola, la parola è un cenno in quanto indica il mondo all’interno del quale questa parola è inserita, ma lo accenna, non lo determina, non lo può determinare. Intervento: lo potrebbe determinare l’esserci, “Dasein”? è l’“esserci” nel mondo che determina la cosa, ovviamente di volta in volta. Sì, Heidegger oscilla però in genere tende a considerare che l’essere non può stare senza l’ente, altre volte invece sembra dire che, così notava Severino, che l’Essere possa darsi senza l’ente, cosa abbastanza improbabile, è come dire “un significante senza un significato” che cos’è? È niente. Intervento: non ho capito: che l’ente possa esserci senza l’essere, significante senza significato? Heidegger dice che l’ente e l’essere non possono darsi l’uno senza l’altro, così come, stavo dicendo, allo stesso modo come il significante e il significato non possono darsi l’uno senza l’altro. In questo senso dicevo, allora qui si riferisce a “Sein und Zeit”: Si trattava e si tratta, era ed è, di evidenziare l’essere dell’essente, certamente non più alla maniera della metafisica ma in modo che l’essere stesso si manifesti, l’essere stesso, ciò significa la presenza di ciò che può farsi presente, (la “presenza di ciò che può farsi presente”) vale a dire la differenza dei due momenti sulla base dell’unità, è questa differenza che esige l’uomo per la sua propria essenza … che è come dire cioè l’essere stesso, a questo punto se lui lo pone come la differenza dei due momenti “cosa/mondo” sulla base dell’unità, sulla base del fatto che sono inscindibili, dice che allora: è questa differenza che esige l’uomo per la sua propria essenza cioè questa differenza tra il fatto che mondo e cosa pur essendo assolutamente inscindibili sono tuttavia separati, è da lì che l’uomo trae la sua essenza, dal fatto che il significante e il significato cioè ogni parola che dice mostra si presentifica qualche cosa, nel senso che chiama qualche cosa ma mentre chiama la cosa, chiama anche il mondo all’interno del quale questa cosa è inserita e senza il quale mondo non esisterebbe neppure … Intervento: è molto vicino alla semiotica, in fondo parla di connessioni … Tutti coloro che si sono addentrati in queste questioni, e questa è un’altra cosa che forse compare in ciò che vado dicendo ultimamente, si sono trovati a interrogare questioni molto simili, perché quando si incomincia a riflettere sul modo in cui funziona il linguaggio è inevitabile accorgersi che la parola è all’interno di qualche cosa, per Heidegger è il mondo, per Greimas non è più il mondo ma un contesto di segni all’interno del quale il nucleo segnico acquista un significato, per la psicanalisi è la parola che non si può intendere se a questa parola non vengono associati tramite associazioni libere le connessioni alle quali è agganciata. Modi di interrogare una questione che sono sì differenti però incontrano molto spesso quasi una stessa direzione da seguire, quasi gli stessi elementi Intervento: però l’uomo incontrando il mondo lo simbolizza nella parola? Può accadere certo, siamo però già verso Lacan (lo evoca) sì evocandolo può anche simbolizzarlo, se vuole, non è proibito. Ecco qui parla del “non pensato” sempre riferendosi indirettamente alla differenza perché è l’impensato, non si può pensare la differenza in quanto tale, così come non può  6 neanche dirsi perché non c’è ma pur non essendoci in quanto ente costituisce, come dice Heidegger quel suono muto che tuttavia è ciò che consente a questi due elementi la cosa e il mondo di stare distinti ma al tempo stesso uniti. Intervento: non avevo conosciuto Heidegger su questo aspetto. All’Università … Su alcune cosa ha riflettuto attentamente, soprattutto intorno al linguaggio qui incomincia a parlarne in modo abbastanza esplicito già nel suo primo scritto “Essere e tempo” poi mano a mano riflettendo intorno all’Essere si accorge che una riflessione intorno all’Essere comporta una riflessione intorno al linguaggio necessariamente. Il parlare inteso nella sua pienezza significante trascende sempre la dimensione puramente fisico sensibile del suono ovviamente il parlare non è soltanto il suono ma il linguaggio come significato fattosi suono o segno scritto è qualcosa di essenzialmente soprasensibile, qualcosa che perennemente oltrepassa il puramente sensibile, il linguaggio così inteso è per sua costitutiva natura metafisico.) È la metafisica che rappresenta, badate bene: si parla, si rappresenta, se si rappresenta si compie un’operazione metafisica. Poi sul volere sapere: Il voler sapere e l’avida richiesta di spiegazioni non portano mai a un interrogare pensante, nel volere sapere si cela già sempre la presunzione di un auto coscienza che si appella a una ragione auto fondata e alla sua razionalità, il volere sapere non vuole che si stia in ascolto di fronte a ciò che è degno di essere pensato. Intervento: è una forma di controllo Esattamente, e poi c’è la seconda parte di cui ci occuperemo nel prosieguo perché ciò che stiamo facendo è straordinariamente vicino a ciò che qui Heidegger ci sta dicendo, lui non ha dubbi sul fatto che l’uomo è quello che è, perché c’è il linguaggio, non ha nessun dubbio lo pone proprio nelle prime pagine il che comporta ovviamente delle implicazioni, perché se l’uomo non è se non nel linguaggio allora, dice lui giustamente, occorre porsi in ascolto del linguaggio, che non significa ascoltare quello che qualcuno dice, ma porsi in ascolto del linguaggio e porsi in ascolto della domanda che c’è nel linguaggio, nella chiamata che il linguaggio è, il linguaggio è un chiamare le cose e fra le cose, chiama anche l’uomo nonostante che sia l’uomo la condizione perché ci sia questa chiamata. Questa è una questione sempre presente in Heidegger, infatti è stato accusato di “umanismo”, “accusato” tra virgolette, mentre lui si è sempre difeso da questo, la sua non è una posizione esistenzialista, ha dovuto attraversare l’esistenzialismo perché l’unico esistente è l’uomo, questo accendisigari per Heidegger non esiste, c’è, ma non esiste, solo gli umani esistono cioè soltanto coloro che sono in condizioni di porre la domanda, questo aggeggio, questo accendino non fa nessuna domanda. Per Heidegger l’uomo è il portatore in un certo senso del linguaggio, forse non necessariamente l’unico, però a quanto ci consta per il momento si, e questo, sempre per Heidegger, è fondamentale perché l’uomo può trarre la verità, cioè la verità sull’essere e quindi il fatto che l’essere non sia nient’altro che l’esserci dell’uomo in quanto progetto ciascuna volta, solamente nel dialogo. Nel dialogo tra umani ovviamente, ma un dialogo dove le cose si interrogano, dove si mantiene aperta la domanda non la chicchera, il parlare per il sentito dire, il sentito dire vuole dire anche averlo letto da qualche parte, ma non averlo interrogato in modo autentico. Interrogare in modo autentico e lasciarsi interrogare dalla cosa: una qualunque cosa pone delle questioni, per esempio “che cos’è?” o quando mi trovo all’interno di un progetto su come posso utilizzare quella certa cosa, pone comunque sempre delle domande, l’uomo è sempre all’interno di questo domandare, continuamente. Questo è il domandare autentico, quello che si lascia interrogare da ciò che sta dicendo, da ciò che sta facendo, le cose che sta incontrando, non da colui che invece si precipita a dare la risposta o come dicevo prima ha la fretta di sapere tutto dimenticandosi della domanda. Nella parte successiva ci saranno delle cose molto interessanti da dire. per esempio sulla poesia che per lui è importante perché la poesia accenna, e in questo accennare lascia che la parola chiami le cose, senza fermarle, senza bloccarle, senza mortificarle ma le lascia essere, lasciar essere questo è sempre stato fondamentale per Heidegger.  7 20 maggio 2015 Heidegger prosegue: La ricerca scientifica e filosofica mira da qualche tempo (siamo nel ‘59) in modo sempre più deciso a costruire ciò che viene chiamato “metalinguaggio” (qui ce l’ha con i filosofi analitici) giustamente pertanto la filosofia scientifica che si prefigge di costruire tale super linguaggio, intende se stessa come metalinguistica. Metalinguistica suona come metafisica, non soltanto suona “come” ma è, la metalinguistica è infatti la metafisica della totale trasformazione tecnica di ogni lingua in semplice strumento interplanetario di informazione, metalinguaggio e sputnik, metalinguistica e tecnica missilistica sono la stessa cosa. // (Poi cita una poesia, una poesia di Stefan George, il titolo è Das Wort (la parola). Meraviglia di lontano o sogno io portai al lembo estremo della mia terra e attesi fino a che la grigia Norna (Norna è la dea del fato, del destino) il nome trovò nella sua fonte, meraviglia o sogno potei allora afferrare consistente e forte ed ora fiorisce e splende per tutta la marca. (la marca è un territorio di confine) Un giorno giunsi colà dopo un viaggio felice con un gioiello ricco e fine, ella cercò a lungo e al fine mi annunciò “qui nulla di eguale dorme sul fondo”, al che esso sfuggì alla mia mano e mai più la mia terra ebbe il tesoro, così io appresi triste la rinuncia: “nessuna cosa è dove la parola manca”. Un numero infinito di persone considera non di meno anche questa cosa dello sputnik un prodigio, questa “cosa” che gira vertiginosamente in uno spazio del mondo ove non è mondo, e per molti essa era ed è tutt’ora un sogno, prodigio e sogno della tecnica moderna, la quale dovrebbe essere la meno disposta a riconoscere valido il pensiero che sia la parola a procurare alle cose la loro esistenza, non le parole ma le azioni contano nei calcoli dell’ossessivo calcolare planetario, lasciamo la fretta del pensare, non è proprio anche questa “cosa” quel che essa è, e così come essa è, in nome del suo nome? Certamente. Se l’affrettare nel senso del massimo potenziamento tecnico della velocità, di quella velocità nel cui spazio temporale soltanto le macchine e i congegni moderni possono essere quello che sono, (questi marchingegni sono quelli che sono perché esiste la velocità cioè esiste il concetto di velocità) se l’affrettare dunque, non avesse parlato all’uomo e non l’avesse posto sotto il suo comando, (sta parlando della tecnica ovviamente) questo comando non avesse spinto e disposto l’uomo alla fretta, se la parola di un tale disporre non avesse parlato non ci sarebbe nessuno sputnik, nessuna cosa è là dove la parola manca. La parola del linguaggio e il suo rapporto con la cosa, con qualunque cosa che è sotto il riguardo dell’essere e il modo di essere della cosa stessa resta un enigma. (l’enigma sarebbe il rapporto fra la parola e la cosa, ecco già questo dice delle cose perché nessuna cosa è dove la parola manca, beh la dice già lunga sul fatto che se non c’è la parola, se manca la parola non c’è nessuna cosa, non c’è nulla. Questo Heidegger l’aveva inteso molto bene ovviamente, non è un caso che riprenda questa poesia di Stefan George) Dice poi: l’ultimo verso infatti appunto “nessuna cosa è dove la parola manca” in tedesco “Kein ding ist wo das Wort gebricht” l’ultimo verso potrebbe allora avere anche un significato diverso da quello di un asserzione e costatazione volta nella forma del discorso indiretto che dice “nessuna cosa è dove la parola manca”, quel che segue i due punti, dopo la parola “rinuncia” (perché ci sono due punti dopo “così io presi triste la rinuncia: nessuna cosa è dove la parola manca”) non indica ciò cui si rinuncia, ma indica l’ambito entro cui la rinuncia deve immettersi, indica il comando a consentire e accordarsi al rapporto fra parola e cosa ora esperito, (“ora” esperito nel momento in cui si dice allora si esperisce la cosa, allora c’è la cosa, e la cosa è quello che è) ciò di cui il poeta ha preso la rinuncia è la sua precedente opinione nei riguardi del rapporto fra cosa e parola, rinuncia concerne il rapporto poetico con la parola a lui fino a quel momento consueto, la rinuncia è la disposizione a un rapporto diverso, nel verso “Kein ding sei wo das Wort gebricht” “sai” non sarebbe allora sul piano grammaticale un congiuntivo (“sai” vuol dire “sia”, l’indicativo è “ist”) al posto dell’indicativo “ist” bensì una forma dell’imperativo, un ordine cui il poeta obbedisce per rispettarlo anche in futuro, nel verso “nessuna cosa “sia” laddove la parola manca”, il “sia” significherebbe allora “non considerare d’ora in poi una cosa come esistente dove la parola manca” (è un imperativo categorico” e non so per quale via mi ha evocato le parole di Parmenide “sulla via del non essere non ti ci incamminerai, ma seguirai la via dell’Essere.” Con quel “sia” inteso come  8 comando, il poeta si dispone ad accettare quella rinuncia per cui egli abbandona la convinzione che qualcosa esista, già esista, anche quando la parola manca. (Non c’è già la cosa) Che significa rinuncia? La parola “Verzicht” Rientra nell’aria del verbo “verzeihen”; una locuzione antica dice “Sich eines Dinges verzeihen”, e significa “abbandonare qualcosa” “rinunciarvi”. Zeihen corrisponde al latino dicere, all’antico alto tedesco “sagan” (il sagen del tedesco moderno), da cui “saga”. La rinuncia è un Entsagen, letteralmente un “disdire”. Nella sua rinuncia il poeta dice “no” al suo precedente rapporto con la parola, questo soltanto? No. Nell’atto in cui rifiuta qualcosa, già gli è stato destinata una chiamata alla quale egli non si sottrae più. (nella sua rinuncia, dice, rinuncia soltanto all’idea che qualcosa ci sia anche senza la parola? già questa è una bella rinuncia. Rinuncia di fronte a ciò che incontro, a pensare che questa cosa che incontro sia già lì prima che io la dica, prima della parola, non che io la dica propriamente, però aggiunge no, non è proprio così, ciò a cui non si sottrae è ciò che gli è stato destinato “una chiamata alla quale egli non si sottrae più”. Chi lo chiama a quella maniera, se non la parola?) In termini più chiari il poeta ha capito che solo la parola fa sì che la parola appaia e sia pertanto presente come quella cosa che è, la rinuncia che il poeta apprende è della natura di quella compiuta rinuncia alla quale soltanto è dato attingere ciò che da lungo nascosto è propriamente già destinato. Il poeta esperisce la sua vocazione di poeta come una chiamata alla parola, ma cosa raggiunge il poeta? Non una semplice nozione, seguendo questa chiamata, egli giunge nel rapporto della parola con la cosa, questo rapporto non è però una relazione fra la cosa da una parte e la parola dall’altra (qui c’è la parola e lì c’è l’ente e la relazione è in mezzo) la parola stessa è il rapporto che via via incorpora e trattiene in sé la cosa, in modo che essa è una cosa. Sulle prime e per lungo tratto pare che alla fonte del linguaggio (poi dirà che è la parola la fonte dell’Essere) il poeta abbia bisogno di portare soltanto le meraviglie che lo incantano (qui sta sempre commentando la poesia di George) e i sogni che lo estasiano, pare che le parole che a quella fonte egli va, con non incrinata fiducia, a cercare siano solo quelle che convengono a quanto di meraviglia e sogno ha preso corpo nella sua fantasia, prima di allora il poeta, confermato in questo dalla felice riuscita delle sue precedenti composizioni poetiche, era dell’opinione (qui sta parlando di George) dell’opinione che le cose poetiche meraviglia e sogni avessero già, da e per sé, garanzia di esistenza (come ciascuno pensa) e che tutto consistesse poi nel saper trovare per esse anche la parola atta ad esprimerle e rappresentarle. (non è questo il pensiero comune?) Sulle prime e a lungo è parso che le parole fossero come pigli che afferrano ciò che già esiste, ed è per sé esistente considerato, e ad esso danno consistenza ed espressione portandolo così a bellezza. (qui ripete ancora una parte della poesia): Qui meraviglia e sogni, là nomi che afferrano gli uni e gli altri fusi in uno e la poesia era nata, tutto fuso insieme, bastava essa a quello che è il compito del poeta dar vita a ciò che permane, perché duri e sia? Ad un certo punto giunge però Stefan, per Stefan George il momento nel quale il poetare che fino allora gli era stato consueto, quel poetare sicuro di sé viene bruscamente meno riportandogli alla mente la parola di Hölderlin, ma ciò che permane fondano i poeti, infatti un giorno il poeta arriva il viaggio per di più è stato buono e anche per questo egli è pieno di speranza, dalla dea del destino carica d’anni e chiede il nome per il gioiello ricco e fine che porta sulla mano (questo gioiello ricco e fine è la parola) solo che lei chiede il nome della parola (e questo crea qualche problema) questo non è meraviglia di lontano e neppure sogno, la dea cerca a lungo ma invano, alla fine gli annuncia “nulla d’eguale dorme qui sul fondo” (non c’è la parola per dire la parola, “nulla d’eguale” cioè nulla che sia come il gioiello ricco e fine che gli sta sulla mano) la parola capace di far essere quel gioiello che sta semplicemente lì sulla mano quello che esso è, una tale parola dovrebbe scaturire da quella sicura custodia che riposa nella quiete di un sonno profondo, soltanto una parola veniente di lì potrebbe portare e fermare il gioiello nella ricchezza e gentilezza del suo semplice essere. (Ripete le parole del poeta) “Nulla di eguale dorme qui sul fondo” a tal dire esso sfuggì alla mia mano (questo gioiello) e mai più la mia terra ebbe il tesoro. Il fine ricco gioiello che era lì sulla mano non giunge all’essere di una cosa, non diventa tesoro cioè ricchezza custodita nella poesia di quella terra, il poeta non precisa la natura del gioiello che non poté divenire tesoro della sua terra ma che gli donò tuttavia l’esperienza del  9 linguaggio, l’occasione di apprendere quella rinuncia nella quale l’abdicazione corrisponde, da parte del rapporto fra parola e cosa, l’assenso a un disvelamento, l’oggetto ricco e fine è cosa diversa dalla meraviglia di lontano oppure sogno, se poi la parola canta il cammino poetico proposto proprio di Stefan George è lecito pensare che nel gioiello sia adombrata la delicata ricchezza della semplicità che nell’ultimo periodo della sua attività si presenta al poeta come ciò che deve essere detto “la parola della parola”. Qui Heidegger affronta una questione, poi diremo mano a mano, e se la porta appresso perché ovviamente non ha soluzione cioè quella parola che è all’origine della parola, e la Norna, la dea del destino, del fato glielo dice qui “sul fondo non giace nulla di simile”, non c’è, non c’è il fine, il limite del linguaggio, il punto da cui comincia. Certo che non c’è, Heidegger poi lo allude, lo allude nel dire autentico del poeta e il dire autentico del poeta è quello che ovviamente nel pensiero di Heidegger è quello che lascia dire l’Essere, lo lascia apparire, lo disvela, l’ἀλήθεια. Però ciò che qui il poeta cerca di fatto è la parola della parola, cioè l’essenza propriamente della parola, ma qui si scontra contro un qualche cosa che non c’è perché è la parola che dà l’essenza alle cose, dà l’Essere alle cose, e quindi ci vorrebbe un altro Essere che dia Essere all’Essere della parola, la cosa non avrebbe più senso. Heidegger lo pone come una sorta di enigma, però di fatto non possiamo parlare di enigma quanto piuttosto del tentativo di dare anche alla parola o meglio di trasformare la parola in ente, lui dirà tra un po’ che la parola non è un ente al pari di qualunque altro, è un'altra cosa, è ciò che da l’accesso all’ente, infatti lo dice utilizzando la poesia “nulla è là dove la parola manca”, se nulla è là dove la parola manca è ovvio che anche la parola potrebbe essere intesa come ente, ma a questo punto la cosa non funziona più. L’apparire di qualche cosa che è il λόγος, lo vedremo più avanti, λόγος non inteso come il discorso, il racconto, la ragione, nulla di tutto ciò, il λόγος è una delle forme dell’Essere per Heidegger, è questo logos che consente l’apertura cioè il linguaggio consente l’aprirsi della parola che nomina qualche cosa, nel momento in cui nomina qualche cosa questa cosa è. C’è. Intervento: la parola è ciò che differenzia l’istinto dalla pulsione. Intervento: l’uomo, diciamo, arrivando a possedere la parola nominando gli oggetti, qualificandosi come possessore della parola, identificandosi come ciò che padroneggia la realtà, come il bambino che si distacca dall’uniforme primordiale sia come essere sociale, essere sociale organizza la società che si differenzia dal gruppo indistinto dall’orda primitiva, o comunque dai gruppi degli animali. Intervento: dal branco degli animali, esattamente grazie, ecco possedendo la parola ecco io la intenderei così … Heidegger ha un’opinione differente, perché dice: “quando poniamo una domanda al linguaggio, una domanda sulla sua essenza, già del linguaggio deve esserci stato fatto dono, non possiamo chiederci qualcosa sul linguaggio se già non possediamo il linguaggio, se vogliamo porre una domanda sull’essenza, sull’essenza cioè del linguaggio allora anche del significato di “essenza” ci deve essere già stato fatto dono, domanda “a” e domanda “su” presuppongono qui, come sempre, che ciò cui e su cui va la domanda abbia già fatto giungere la parola sollecitatrice, ogni posizione di domanda è possibile solo in quanto ciò che si fa problema ha già iniziato a parlare e a dire di se stesso. // (cita ancora la frase: nessuna cosa è dove la parola manca) Accenna al rapporto tra parola e cosa prospettando il modo che la parola stessa risulti il rapporto, in quanto essa trae all’essere (la parola) e mantiene nell’essere ogni cosa (qualunque essa sia), senza la parola che si identifica con la forza del rapporto, il complesso delle cose, il mondo, sprofonda nel buio insieme all’io che porta all’estremo lembo della propria terra, alla fonte dei nomi ciò che ha incontrato di meraviglia e di sogno. Perché quel che ci interessa è un’esperienza, un essere in cammino, noi oggi in questa lezione che segna il passaggio tra la prima e la terza conferenza (in genere la seconda fa questo, il passaggio fra la prima e la terza) rifletteremo sul cammino, è necessaria al riguardo un’osservazione preliminare dato che la maggior parte di loro si occupa in prevalenza di ricerca scientifica, (il pubblico che aveva)nelle scienze la via al sapere va sotto il nome di metodo, “metodo” “μετα ὁδός” “attraverso il cammino” “lungo il cammino”, il metodo non è specie nella scienza moderna un puro strumento al servizio della scienza  10 anzi al contrario è il metodo che ha assunto a proprio servizio la scienza. Questo fatto è stato visto in tutta la sua portata per la prima volta da Nietzsche, che così ne parla nelle annotazioni che seguono, queste fanno parte del corpus degli inediti pubblicato postumo dal titolo “Der Wille zur Macht” “La volontà di potenza”. La prima dice “ciò che caratterizza il nostro XIX secolo non è la vittoria della scienza ma la vittoria del metodo scientifico sulla scienza”. L’altra notazione incomincia con la proposizione “Le idee più importanti furono trovate per ultime, ma le idee più importanti sono i metodi” in realtà anche Nietzsche è giunto assai tardi a scoprire questo rapporto tra metodo e scienza e precisamente l’ultimo anno della sua lucidità mentale nel 1888 a Torino. Nelle scienze non solo il tema viene posto dal metodo ma viene immesso nel metodo e vi resta sottoposto, la corsa folle, che oggi trascina le scienze verso mete che esse stesse ignorano, ha la sua forza propulsiva nel potenziamento e nel progressivo assoggettamento alla tecnica del metodo e delle possibilità a questo intrinseche, nel metodo è tutta la potenza del sapere, il tema rientra nel metodo. Bene vi lascio riflettere su queste questioni, mercoledì prossimo riprendiamo questo testo. 27 maggio 2015 Vi rileggo la poesia di Stefan George perché la riprende si chiama “La parola”, Das Wort: Meraviglia di lontano o sogno io portai al lembo estremo della mia terra e attesi fino a che la grigia Norna il nome trovò nella sua fonte, meraviglia o sogno potei allora afferrare consistente e forte ed ora fiorisce e splende per tutta la marca. Un giorno giunsi colà dopo viaggio felice con un gioiello ricco e fine, ella cercò a lungo e alfine mi annunciò “qui nulla d’eguale dorme sul fondo”. Al che esso sfuggì alla mia mano e mai più la mia terra ebbe il tesoro, così io appresi triste la rinuncia “nessuna cosa è dove la parola manca”. C’è da dire qui che la questione che sta ponendo questa poesia è interessante perché di fatto sta chiedendo alla Norna di fornirgli, dicevamo l’altra volta, la parola della parola, e cioè un qualche cosa che è fuori della parola e che dovrebbe garantire l’essere della parola. Ovviamente cercare la parola fuori dalla parola è un problema, tant’è che la Norna, saggia, dice “qui nulla d’eguale dorme sul fondo” e allora lui ha appreso la rinuncia: non troverà mai qualche cosa che da fuori della parola possa garantire la parola… Intervento: sarebbe il significato del significato? Non esattamente, perché il significato del significato è ancora un altro significato, quindi un altro termine, un altro elemento linguistico, qui cerca invece proprio la garanzia, cioè il qualche cosa che è fuori dal linguaggio e che dia alla parola la sua consistenza. “Nessuna cosa è dove la parola manca” accenna al rapporto tra parola e cosa, prospettandolo in modo che la parola stessa risulti il rapporto, in quanto essa trae all’essere e mantiene nell’essere ogni cosa, qualunque essa sia. // Infatti fra le primissime cose cui diede voce il pensiero occidentale rientra il rapporto tra cosa e parola e precisamente nella figura del rapporto tra essere e dire, questo rapporto sorprende il pensiero in modo così subitaneo e sconvolgente da dirsi in una sola parola, esso suona “λόγος”, ma ancora più sconcertante è per noi il fatto che in tutto questo non si fa un’esperienza pensante del linguaggio, nel senso cioè che il linguaggio stesso in base a quel rapporto giunga propriamente a dirsi. Cioè sta dicendo che il linguaggio non “si dice” nel senso che non c’è modo di aggirare il linguaggio, di uscire dal linguaggio e poi di lì parlare del linguaggio sapendo di che cosa si sta parlando, non c’è uscita dal linguaggio Se sempre il linguaggio ricusa, in questo senso, la sua essenza (cioè non dice mai che cosa realmente è, perché appunto dovrebbe uscire fuori dalla parola) allora questo rifiuto fa parte dell’essenza del linguaggio (il rifiuto della Norna). Il linguaggio non solo si trattiene così in se stesso nel nostro corrente parlarlo, ma trattenendosi esso in sé, con la sua origine nega la sua essenza a quel pensiero presentativo nel quale comunemente ci muoviamo, per questo non possiamo nemmeno più dire che l’essenza del linguaggio sia il linguaggio dell’essenza (come diceva prima) a meno che la parola “linguaggio” non indichi nel secondo caso qualcosa d’altro che cioè quel rifiuto dell’essenza del linguaggio a dirsi, proprio esso, parla. (In altri termini sta dicendo che il linguaggio non dice se  11 stesso, si trattiene dal dire di se stesso nell’accezione che indicavo prima, e cioè come se volesse parlare da fuori il linguaggio per dire che cos’è esattamente il linguaggio, si trattiene dal fare questo. Heidegger dice che non possiamo nemmeno più dire che l’“essenza del linguaggio sia il linguaggio dell’essenza” come diceva prima e cioè che l’essenza del linguaggio, ciò che è più proprio al linguaggio è il linguaggio dell’essenza, il linguaggio dell’essenza è quel linguaggio che parla di ciò che è proprio, a meno che, dice, questo linguaggio non lo si intenda nelle due cose in modo differente e cioè nel secondo caso intendendo che è proprio lui che parla e cioè il linguaggio dell’essenza è ciò che parla continuamente, il linguaggio dell’essenza vale a dire sarebbe, per dirla con Heidegger, il “dire originario”, quel dire cioè che muove nel momento in cui è qualcosa, qualcosa appare e questo dire lascia che ciò che appare interroghi, ciò che si dice, a questo punto, il “λόγος” ciò che fa esistere le cose, a questo punto è lui, è soltanto lui che parla. Qui c’è adesso forse qualcosa che è ancora più chiaro, dice:) “Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca”. Così suona la rinuncia del poeta e noi abbiamo aggiunto che qui viene in evidenza il rapporto fra cosa e parola. (Il rapporto tra cosa e parola è importante perché è ciò che la metafisica ha sempre cercato di stabilire con certezza, lì c’è la parola e lì c’è la cosa, però è un problema come dicevamo la volta scorsa, è la questione tipica della metafisica e cioè il problema del “terzo uomo” come diceva già Aristotele, cioè c’è un terzo elemento che deve fare da tramite tra i due, il problema è che questo terzo elemento che deve consentire il bloccarsi di questa relazione tra cosa e parola, anziché compiere questo rinvia la cosa all’infinito, perché poi dopo il “terzo uomo” c’è il quarto, c’è il quinto c’è il sesto e così via all’infinito e quindi non raggiungerà mai la cosa): Abbiamo anche detto che “cosa” (lui lo mette tra virgolette) indica qui ogni possibile essente quale ne sia il modo d’essere. (cioè qualunque cosa) Abbiamo detto ancora riguardo alla parola, che questa non solo sta in rapporto con la cosa ma porta la cosa che di volta in volta nomina, la cosa in quanto essente che è e tale, “è”(tra virgolette) in questo reggendola, trattenendola, dandole per così dire il sostentamento a essere cosa, questo sarebbe il parlare autentico (la parola che fa essere ciò che dice, nel momento in cui dice le cose è in quel momento che esistono, che sono quello che sono. È questo che sta dicendo. Conseguentemente abbiamo detto che la parola non si limita ad essere in rapporto con la cosa ma che la parola stessa è ciò che porta e serba la cosa come cosa. (che è ancora di più che “la parola stessa è la cosa”, perché la parola è ciò che porta e “mantiene” e fa perdurare la cosa in quanto cosa, dice che la “parola in quanto ciò che porta e serba è il rapporto stesso”. Qui badate bene che dice “è il rapporto stesso” anzi l’ha già detto varie volte, come dire che questo rapporto tra parola e cosa è la parola stessa, quindi non c’è più la parola e la cosa ma c’è una relazione tra parola e cosa, nel senso che la parola rende la cosa quella che è, e solo la parola può farlo, cioè il λόγος, e questo è la parola. Qui si potrebbe anche fare un accenno alla questione della metafisica, così come trascorre da Platone fino a Heidegger, non è altro che lo spostare una cosa presente a una cosa che presente non è, e che deve dare il senso, il significato a ciò che è presente, da qui tutte le distinzioni dalle più antiche alle più recenti: “sensibile – ultrasensibile”, “immanente – trascendente”, “significante – significato”, “enunciazione – enunciato”, l’ultimo in ordine di tempo: “conscio – inconscio”. Per questo dico che tutta questa struttura è metafisica, è metafisica sempre in questa accezione ovviamente, cioè ciò che questo significato di “metafisica” che, come dicevo, trascorre da Platone fino ad Heidegger, indica che ciascuna volta in cui qualche cosa deve la sua esistenza, la sua essenza, il suo significato, a qualche cos’altro, questa è una struttura metafisica. Che ha degli effetti ovviamente, perché comporta la supposizione che una certa cosa sia quello che è in base a quell’altra, quindi quell’altra dà alla prima il suo significato, lo ferma, lo blocca e che quindi questo secondo elemento costituisca l’essenza, potremmo quasi dire, del primo, bloccandolo nel significato, ciò che potrebbe, dico “potrebbe”, consentire un passo fuori, ammesso che sia possibile, dalla metafisica. È da considerare che invece ciò che dà il significato al primo elemento costituisca anche questo un elemento che trae il proprio significato da altro, poi da altro, poi da altro ancora e così via all’infinito, a questo punto non c’è la possibilità di bloccare un significato  12 ovviamente, ma questo significato, come ci dice la semiotica, non è altro che un rinvio continuo, infatti, a quella serie di contrapposizioni potremmo anche aggiungere quella di Greimas, cioè i sememi danno un senso ai semi nucleari ché da solo, di per sé, il sema nucleare non significa niente. Ora è chiaro che è il linguaggio che è strutturato così, per questo da tempo sto dicendo che la metafisica illustra il modo in cui il linguaggio funziona, né più né meno, per cui non hanno neanche tutti i torti i metafisici a dire che non c’è uscita dalla metafisica. Posta in questi termini in effetti non c’è uscita dalla metafisica, e neanche attraverso la via immaginata da Heidegger ovviamente): La “parola per la parola” non è dato trovarla là dove il destino dona il linguaggio (cioè se c’è il linguaggio allora la parola per la parola non c’è, una parola che dica la parola in modo definitivo, l’ultima parola sulla parola, non c’è, non si trova perché c’è il linguaggio, il linguaggio che nomina e fa essere, quindi non c’è), linguaggio che nomina e fa essere per l’essente, non c’è la parola che dica l’essenza del linguaggio, perché questa sia e come essente splenda e fiorisca la parola per la parola un tesoro certamente ma un tesoro non conquistabile per la terra del poeta, e per il pensiero? Può il pensiero? Quando il pensiero cerca di meditare la parola poetica (cioè la parola autentica per Heidegger) questo si rivela: la parola, il dire non ha essere. Il nostro modo corrente di concepire si ribella quando gli si propone un pensiero così audace. Scritte o parlate ognuno pur vede e sente delle parole, esse sono. Possono essere come cose, realtà afferrabili dai nostri sensi, basta solo per far l’esempio più banale aprire un dizionario è pieno di “cose” stampate, certamente puri vocaboli, non una sola parola, poiché la parola grazie alla quale i vocaboli si fanno parola, un dizionario non è in grado né di captarla né di custodirla, dove dobbiamo andare a cercare la parola? dove il dire? Dall’esperienza poetica della parola ci viene un cenno che può essere di grande aiuto: la parola non è cosa, nulla di essente, invece noi abbiamo cognizione delle cose quando per esse c’è a disposizione la parola allora la cosa è. Ma qual è la natura di questo “è”, “la cosa è”? e questo “è” è anch’esso una cosa sovrapposta a un’altra, messale su come un cappuccio, noi non troviamo mai questo “è” come cosa sopra altra cosa, per questo “è” la situazione è la stessa che per la parola, questo “è” non fa parte delle cose che sono più di quanto non lo faccia la parola. (sta dicendo che la parola non è, nel senso dell’Essere, cioè come lo intende la filosofia comunemente, e cioè come ente, qui allude al fatto che la parola non sia determinabile, così come lo è per esempio un vocabolo, un lessema, quindi intende con parola ovviamente un’altra cosa.) Improvvisamente ci risvegliamo dalla sonnolenza di un pensare frettoloso, e scorgiamo qualcosa di diverso in ciò che l’esperienza del linguaggio dice, riguardo alla parola gioca il rapporto fra questo “è” che per sé non è, e la parola che si trova nella stessa situazione che cioè non è nulla che sia, (qui sta cercando di complicare le cose, adesso vediamo se) né l’“è” nella parola hanno l’essenza della cosa, (l’abbiamo detto prima: non sono enti) l’Essere né ha il rapporto con l’“è” la parola al quale è affidato il compito di concedere via, via un “è”, (sta dicendo che né questo è, quando diciamo che “la parola è qualcosa”, questo “è” per lui costituisce un problema, diciamo “la parola è”, “è” cosa? infatti né l’“è” né la parola in questa frase hanno l’essenza della cosa, cioè non hanno l’Essere) né ha (soggetto l’Essere) il rapporto fra l’“è” e la parola, ciò non di meno, né l’“è”, né la parola e il dire di questa, possono venire cacciati nel vuoto del niente (non sono niente, qualcosa pur sono) Che indica l’esperienza poetica della parola quando il pensiero riflette su di essa? Essa rimanda a quel degno d’essere pensato, pensare il quale si pone al pensiero fino dai tempi più antichi e anche se in modo velato come suo proprio compito, esso rimanda a quello di cui in tedesco può dirsi “es gibt senza che possa dirsi “ist” cioè è, “gibt” “esso dà” “si offre”, di ciò di cui può dirsi “est gibt” fa parte anche la parola (adesso incomincia a intravedersi che cosa intende con quello che sta dicendo “la parola non è, propriamente, ma è ciò che si dà, ciò che si offre”.)forse non solo anche, ma prima di ogni altra cosa, in modo tale che nella parola e nella sua essenza si cela quello che “gibt” appunto “dà”, nella parola si cela quello che essa stessa da. Della parola pensando con rigore non dovremmo mai dire “es ist” cioè “essa è” ma “es gibt”, ciò non nel senso di quando si dice “es gibt Worte” “qualcosa dà la parola” ma nel senso che la parola stessa dà, non è qualcosa che dà la parola ma è la parola che dà, la parola: la datrice. Ma che dà la parola?  13 secondo l’esperienza poetica e la tradizione più antica del pensiero la parola dà: l’Essere (ecco perché prima diceva che la parola non è l’Essere, la parola dà l’Essere) Ma se così stanno le cose allora in quel “es, das gibt” “esso, il dare” noi dovremmo pensando cercare la parola come ciò stesso che dà e mai è dato. La parola “es gibt” si trova in tedesco usata in molteplici modi, si dice per esempio “es gibt an der sonningen Halde Erdbeeren” “ci sono fragole sul pendio soleggiato”, “là ci sono le fragole”, nella nostra riflessione “es gibt” è usato diversamente non “des gibt …” “si dà la parola” ma “es das Word gibt…” cioè “essa la parola dà”. Quando Freud dice “Wo es war, soll Ich werden” questo “es” può essere inteso benissimo come “qualcosa” “là dove qualcosa era occorre che io avvenga” è una delle traduzioni che sono state fatte di questa frase. Così dilegua completamente lo spettro dell’“es” davanti al quale molti e a ragione trovano sconcerto, ma ciò che è degno di essere pensato resta, si fa anzi evidente, questa realtà semplice e inafferrabile che noi indichiamo con l’espressione “es, das word, gibt” si rivela come ciò che propriamente è degno di essere pensato e cioè che “essa” la parola da, per la determinazione di questo mancano ancora da per tutto i termini di misura forse il poeta li conosce ma il suo poetare ha appreso la rinuncia e tuttavia con la rinuncia nulla ha perduto (la rinuncia era quella del poeta di avere quella parola che dice la parola stessa, a questo rinuncia perché la Norna dice che non ce l’ha) il gioiello però gli sfugge certamente ma sfugge nella forma comportata dall’esser per esso negata la parola (questo gioiello sfugge, ma sfugge in che senso? Sfugge perché gli sfugge la parola per dirlo) Negare è trattenere ma qui appunto si rivela l’aspetto sorprendente del potere proprio della parola, il gioiello (che è la parola) non si dissolve affatto nell’inerte insignificanza del niente, (qui si riferisce a quando prima diceva, che la parola non è Essere, non ha l’Essere) la parola non sprofonda nella banale incapacità di dire (non è che la parola non può dirsi perché non siamo capaci a dirla, dice:) no, il poeta non abdica alla parola tuttavia il gioiello si sottrae nel mistero che riempie di stupore … per questo il poeta come dicono i versi introduttivi al canto medita anche più di prima, compone ancora, compone cioè un dire e in forma anche diversa da quella di prima. (ecco qui dicendo che non è la parola che si dà, ma è la parola che dà, ovviamente pone la parola come già aveva fatto in precedenza come λόγος in quanto Essere, nell’accezione che indica Heidegger ovviamente, cioè di “Dasein” “esserci”) Se però l’affinità tra poetare e pensare è quella del dire, allora siamo portati a supporre che l’evento domini come quel dire originario con il quale il linguaggio ci dice della sua essenza, il suo dire non si perde nel vuoto esso ha già sempre raggiunto il segno, che altro è questo segno se non l’uomo? Che l’uomo è uomo solo se ha risposto affermativamente alla parola del linguaggio, se è assunto nel linguaggio perché lo parli (ovviamente, questo dicevo è importante perché la presenza dell’uomo è ciò che fa, per Heidegger, la possibilità stessa dell’esserci, “esserci” riguarda l’esistente, l’esistente è l’uomo. Per questo si trova a dire molto spesso che l’Essere è il dialogo da uomo a uomo, perché la parola abita l’uomo. Anche le nuove teorie cioè i metodi della misurazione dello spazio e del tempo, la teoria della relatività e dei quanti e la fisica nucleare, non hanno cambiato in nulla il carattere parametrico di spazio e tempo (in tutte queste discipline i concetti di spazio e tempo sono sempre esattamente gli stessi, quelli per esempio di Anassagora) e nemmeno sono in grado di produrre un simile cambiamento, se ne fossero capaci ne verrebbe a crollare l’intero apparato della moderna scienza tecnica della natura. (perché non avrebbe più questi parametri sui quali è stata costruita ogni cosa) Tutto parla contro, in primo luogo la caccia alla formula fisica capace di interpretare il cosmo in termini matematici, la famosa teoria del “Tutto”, sennonché ciò che spinge al perseguimento affannoso di tale formula non è primariamente la passione personale dei ricercatori, ché questi si trovano ad essere quel che sono in forza di un esigenza prepotente che coinvolge e domina il pensiero moderno nella sua globalità, fisica e responsabilità, “bello!” e nella difficile situazione di oggi importante, ma resta una partita doppia dietro la quale si cela un passivo che non può essere sanato né da parte della scienza, né da parte della morale, sempre poi che sanabile sia. (Naturalmente poi qual è questo passivo che rimane? La dico così brutalmente “è il non sapere ciò che stanno facendo”, con tutto ciò che questo comporta ovviamente, poi ecco l’ultimo capitoletto si chiama “la parola”. Qui fa delle domande, tre domande): (Ripete di nuovo il verso  14 finale “Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca) Si è tentati di trasformare il verso finale in un’asserzione “Nessuna cosa è dove la parola manca” dove qualcosa “es gebrit” “manca” cioè c’è una frattura, un danno, “recar danno a una cosa” vuol dire sottrarle qualcosa, farle mancare qualcosa, non c’è cosa dove la parola manca, solo quando c’è la parola per dirla la cosa è, (allora ecco le tre domande): 1) Che è la parola per avere tale potere? 2) Che è la cosa per avere bisogno della parola per essere? 3) Che significa qui “essere”, dal momento che appare come un dono conferito alla cosa dalla parola? (qui riassume in una parola tutto ciò che ha detto nel libro praticamente. Cioè l’Essere stesso appare come “un dono conferito alla cosa dalla parola”, qui è chiarissimo … Intervento: risponde alle domande poi, perché qui è un po’ antropocentrico? Si può dire anche di Heidegger che sia antropocentrico, anche se a lui non sarebbe piaciuto, infatti per lui l’uomo è oggetto di interesse, cioè l’esistenzialismo, solo perché si accorge che l’esistenza dell’uomo è la condizione per potere fare un discorso sull’Essere, cioè dice che non c’è l’Essere senza l’uomo, cioè senza colui che parla, senza colui che fa essere le cose.) Il primo verso della poesia dà la risposta “meraviglia di lontano o sogno” “nomi” per quello di cui al poeta giunge notizia di lontano come di cosa meravigliosa o per quello che lo visita nel sogno, l’uno e l’altro sono considerati dal poeta senza ombra di dubbio come realtà reali, come qualcosa che è, realtà che egli tuttavia non vuole tenere per sé ma vuole rappresentare, per questo occorrono i nomi. Tali nomi sono parole per mezzo delle quali ciò che già è e per tale è tenuto, assume così consistente concretezza che da quel momento splende e fiorisce e così facendo esercita tutta la regione e il dominio che è proprio della bellezza … i “nomi” sono le parole che rappresentano (Qui si può intendere in due modi, perché “i nomi sono le parole che rappresentano” può intendersi sia in questo modo e cioè che i nomi sono parole che rappresentano qualche cos’altro, ma anche che “i nomi rappresentano altre parole”. I nomi sono le parole che rappresentano parole rappresentanti altre cose, oppure i nomi sono le parole che rappresentano, sono le parole stesse che rappresentano i nomi,) Essi (i nomi) propongono all’immaginazione ciò che già è, grazie alla loro virtù rappresentativa i nomi testimoniano il loro decisivo dominio sulle cose, è l’esigenza stessa dei nomi che porta il poeta a poetare, per raggiungerli egli deve prima giungere con i viaggi là dove … Sono due casi, nel primo caso potremmo dire che “nomina sunt consequentia rerum” nel secondo “nomina non sunt consequentia rerum” “i nomi sono la conseguenza delle cose” nel secondo “i nomi non sono la conseguenza delle cose”. I nomi che la fonte custodisce (qui si riferisce sempre alla poesia di Stefan George) sono come qualcosa che dorme, che ha bisogno solo di essere destato per servire come rappresentazione delle cose, nomi e parole sono come un solido patrimonio finalizzato alle cose, che poi viene utilizzato per rappresentarle, sennonché la fonte, alla quale fino a quel momento il dire poetico ha attinto le parole cioè i nomi che rappresentano la realtà, non dona più nulla. Quale esperienza fa qui il poeta? Soltanto quella che quando si tratta del gioiello portato sulla mano il nome non si trova? (il gioiello è sempre la parola) soltanto quella che ora il gioiello deve sì restare senza nome, ma può tuttavia restare sulla mano del poeta? No, altro accade e ha dello sconcertante, ma sconcertante non è né il fatto che manca il nome, né il fatto che il gioiello scompare con il mancare della parola, è quindi la parola che trattiene il gioiello nel suo essere presente: (cioè la parola trattiene se stessa) la parola, nient’altro che la parola lo prende e lo porta a tale esser presente e in questo lo serba, la parola presenta improvvisamente un altro più alto potere, non è più solo la presa sulla realtà, come presenza già colta dall’immaginazione, quella presa che consiste nel dare un nome, non è soltanto mezzo per rappresentare ciò che sta dinnanzi, al contrario (qui veniamo alla questione) è la parola che conferisce la presenza cioè l’Essere, nel quale qualcosa si manifesta come essente, quest’altro potere della parola trae su di sé l’attenzione del poeta in modo brusco e improvviso, al tempo stesso però la parola che ha quel potere manca, perciò il gioiello dilegua, non per questo si dissolve nel nulla, resta un tesoro che poi il poeta non potrà mai custodire nella sua terra, (che cosa si dilegua, che cosa manca? Qui non siamo nella questione della “mancanza a essere”, siamo al fatto che ciò che manca è quella parola che da fuori del linguaggio finalmente dica che cos’è veramente la parola. Il nome che si dà alla parola è un’altra parola, non è qualcosa che da fuori  15 dovrebbe garantire che sia esattamente quella cosa. E qui insiste sul fatto che la parola fa sì che la cosa sia, cosa tutt’altro che irrilevante) Il tesoro e la terra del poeta mai giunge a possedere, è la parola per l’essenza del linguaggio, la potenza e la vita della parola scorta d’improvviso (qual è la potenza della parola? il fatto di fare essere le cose) il suo essere e operare vorrebbe pervenire alla parola, alla sua propria parola ma la parola, per l’essenza della parola, non viene concessa. La parola che dica che cosa veramente è, è questo che non viene concesso, è questo che manca, in questo senso diceva. L’ultimo capitoletto “In cammino verso il linguaggio” che poi dà il nome al testo. Ecco qui parla dell’¡λήθεια: il testo di Aristotele evidenzia con un dire chiaro e sobrio quella classica struttura in cui si cela l’essenza del linguaggio inteso come parlare, le lettere indicano i suoni, i suoni indicano le affezioni dell’anima, le affezioni indicano le cose che colpiscono l’anima, il “mostrare” “das Zeigen” è quello che costituisce e regge l’intera impalcatura, in modo vario, velando e disvelando, esso il mostrare, porta qualcosa ad apparire, fa che ciò che appare sia avvertito e ciò che viene avvertito sia considerato (cioè esista) quando riflettiamo sul linguaggio in quanto linguaggio già abbiamo abbandonato il modo di procedere rimasto finora consueto nella riflessione sul linguaggio. Non possiamo più andare alla ricerca di concetti generali come “energia” “attività” “lavoro” “forza spirituale” “visione del mondo”, espressione sotto i quali condurre il linguaggio come un caso particolare di tale generalità. Anziché spiegare il linguaggio come questa o quest’altra cosa fuggendone in tal modo lontano, il cammino verso il linguaggio vorrebbe fare esperire il linguaggio come linguaggio, nell’essenza del linguaggio, il linguaggio è sì compreso, ma afferrato per mezzo di altro da esso è il famoso metalinguaggio (di cui diceva prima il metalinguaggio come metafisica) se volgiamo invece l’attenzione unicamente al linguaggio come linguaggio, questo pretende allora da noi che mettiamo finalmente in evidenza tutto quello che fa parte del linguaggio in quanto linguaggio (è quello che ho cercato di fare in questi anni intendendo che cosa fa funzionare il linguaggio) Nel parlare rientrano i parlanti, ma il rapporto tra parlanti e parlare non è riducibile a quello tra causa ed effetto (se no sarebbe come dire che qualcosa dà la parola, mentre lui è stato preciso, “è la parola che dà”, ma cosa dà? Le cose, l’Essere.) I parlanti trovano piuttosto nel parlare il loro essere presenti, presenti a che? A ciò con cui parlano, presso cui dimorano in quanto realtà che sempre già li riguarda, è quanto dire “gli altri, le cose, tutto ciò che fa che queste siano cose, queste precise cose e quelli gli altri quei concreti altri” (questo fa la parola, fa esistere tutte queste cose qui) A tutto questo ora in un modo, ora in un altro già sempre è andato l’appello del parlare. // Ma come sono pensati il parlare e il “parlato”, nel breve racconto che si è precedentemente fatto del linguaggio? Essi si rivelano già come ciò per cui e in cui qualcosa si fa parola, giunge a farsi evidente in quanto qualcosa è detto. Dire e parlare non sono la stessa cosa, uno può parlare, parla senza fine, e tutto quel parlare non dice nulla, un altro invece tace, non parla e può col suo non parlare dire molto, ma che significa dire, “sagen” in tedesco? Per esperire questo è necessario attenersi a ciò che la lingua tedesca già costringe a pensare con la parola “sagen”. “Sagan” significa “mostrare” “far che qualcosa appaia” “si veda” “si senta” // Ciò che fa essere il linguaggio come linguaggio è il dire originario “die saghe” in quanto “mostrare” “die Zeige”, il mostrare proprio di questo non si basa su un qualche segno ma tutti i segni traggono origine da un mostrare nel cui ambito e per i cui fini soltanto acquistano la possibilità di essere segni. (Ma non sta proprio in questo mostrare, nel fatto che tutti i segni traggono origine da un mostrare che si impianta la metafisica stessa, la sua stessa possibilità? Ma ne riparleremo perché è una questione tutt’altro che semplice) // (siamo alla fine volevo riprendere le tre domande che faceva prima, adesso possiamo rispondere a ciò che si è domandato): Il dire originario è mostrare, in tutto ciò (ricordate: il dire originario è mostrare. Questo è il dire originario per Heidegger) in tutto ciò che ci volge la parola, che ci tocca come oggetto di parola o parola, che ci si partecipa, che in quanto non detto è in attesa di noi, non solo ma in quello stesso parlare, che noi veniamo mettendo in atto, che è operante il mostrare sempre e comunque, in virtù di questo che ciò che è presente appare, ciò che è assente dispare. Questo (è sempre il dire originario il soggetto) dischiude ciò che è presente nel suo esser presente (che sembra una ripetizione inutile “dischiude il suo essere presente nel suo essere presente” ma il fatto che qualcosa sia presente per Heidegger non è così automatico, occorre qualcosa che dischiuda, apra l’orizzonte entro il quale qualche cosa può essere presente, non basta che sia presente perché che sia presente da sé non significa niente se non c’è il linguaggio che fa essere presente.) il dire originario domina compone in unità la libera distesa di quella radura … da dove viene il mostrare? La domanda vuol sapere troppo e troppo in fretta (non è che possiamo sapere tutto subito) gioverà accontentarsi di osservare la natura e l’origine del moto presente nel mostrare, non è necessaria qui una lunga ricerca è sufficiente l’intuizione repentina, non obliabile e perciò sempre nuova, di ciò che, sì, è a noi familiare, ma che noi tuttavia lungi dal riconoscere nel modo che ci conviene neppure cerchiamo di conoscere, questa realtà sconosciuta e non di meno familiare da cui ogni mostrare del dire originario trae il proprio moto, è per ogni essere presente ed essere assente l’alba di quel mattino nel quale soltanto può trovare inizio la vicenda del giorno e della notte. Alba che insieme l’ora prima e l’ora più remota tale realtà appena ci è dato nominarla, essa è l’“ort” che non tollera “Er-örterung”. Il tempo che non concede di essere raggiunto perché è luogo di tutti i luoghi e di tutti gli spazi del gioco del tempo, noi la chiameremo con una parola antica e diremo: ciò che muove nel mostrare del dire originario è lo “Eignen”. Lo Eignen adduce ciò che è presente e assente in quello che gli è proprio, cosicché emergendone la cosa presente e assente, si rivela nella sua vera identità e resta se stessa. // Il linguaggio non si irrigidisce in se stesso nel senso di un narcisismo di tutto dimentico tranne che di sé, come sarebbe potuto apparire, (eventualmente) come dire originario il linguaggio è il mostrare appropriante, che appunto prescinde da sé per dischiudere così per mostrare la possibilità di rilevarsi nella figura che gli è propria, (cioè il linguaggio consente alla cosa di mostrarsi e permette anche alla cosa di mostrarsi per quello che è. Il linguaggio è questa possibilità delle cose di essere quelle che sono. Ma non toglie alle cose il fatto che sono quelle che sono.) Il linguaggio che parla dicendosi cura che il nostro parlare, ascoltare il dire che non ha suono, corrisponda a quel che esso (linguaggio) viene dicendo, in tal modo anche il silenzio che non di rado si pone a fondamento del linguaggio, come sua scaturigine, è già un corrispondere (corrispondere alla chiamata del dire, ovviamente, cioè del λόγος. La conclusione sarà a questo punto la risposta a quelle tre domande.) Poiché noi uomini, per essere quelli che siamo, restiamo immessi nel linguaggio, né mai possiamo uscirne e posarci a un punto da cui ci sia dato circoscriverlo con lo sguardo, noi vediamo il linguaggio sempre solo in quanto il linguaggio stesso già si è affissato su di noi (appoggiato su di noi, fissato su di noi) ci ha appropriato a sé, il fatto che del linguaggio ci è precluso il sapere, (perché per sapere sul linguaggio bisognerebbe uscire dal linguaggio e tutte queste storie) il sapere inteso secondo la concezione tradizionale fondata sull’idea che conoscere sia rappresentare, non è certamente un difetto bensì il privilegio grazie al quale siamo eletti e attratti in una sfera superiore, in quella in cui noi assunti a portare a parole il linguaggio dimoriamo come immortali insomma siamo fortunati ad essere parlanti. Allora le tre domande alle quali potete, a questo punto, rispondere voi stessi: Che è la parola per avere tanto potere? È l’Essere è il logos. Perché la parola ha tanto potere? Perché è ciò che in quanto Essere è ciò che consente alle cose di apparire, ma che è la cosa per avere bisogno della parola per essere? La parola ha bisogno della parola per essere la cosa, e quindi è quella cosa che diventa cosa soltanto se la parola la fa essere cosa. Terza domanda: che significa qui Essere dal momento che appare come un dono conferito alla cosa dalla parola? che significa qui Essere? Λόγος, nient’altro che λόγος e bell’è fatto. Ecco, io vi ho fatto considerare queste cose perché non è tanto il fatto del contenuto delle affermazioni di Heidegger quanto il modo in cui approccia la questione del linguaggio, in un modo che lui direbbe “non presentativo” cioè non mostra, non dice che cos’è il linguaggio come fa la linguistica, come fa la filosofia del linguaggio, come fa la filosofia in generale approcciando il linguaggio come ente, perché sta qui la differenza ontologica: ente/Essere. Il linguaggio è Essere non è ente. Sono considerazioni interessanti che possono portare ad altre considerazioni, possono aprire altre vie, per questo motivo vi ho letto alcune cose di questo testo di Martin Heidegger. The uttered speech of private life is fluctuating and variable. In  every period it varies according to the age, class, education, and habits of  the speaker. His social experience, traditions and general background,  his ordinary tastes and pursuits, his intellectual and moral cultivation are  all reflected in each man’s conversation. These factors determine and  modify a man’s mode of speech in innumerable ways. They may affect  his pronunciation, the speed of his utterance, his choice of vocabulary,  the shade of meaning he attaches to particular words, or turns of phrase,  the character of such similes and metaphors as occur in his speech, his  word order and the structure of his sentences.   But the individual speaker is also affected by the character of those  to whom he speaks. He adjusts himself in a hundred subtle ways to the  age, status, and mental attitude of the company in which he finds himself.  His own state of mind, and the mode of its expression are unconsciously  modified by and attuned to the varying degree of intimacy, agreement,  and community of experience in which he may stand with his companions  of the moment.   Thus an accomplished man of the world, in reality, speaks not  one but many slightly different idioms, and passes easily and instinc-  tively, often perhaps unknown to himself, from one to another, according  to the exigence of circumstances. The man who does not possess,  to some extent at least, this power of adjustment, is of necessity a stranger  in eveuy company but that of one particular type. No man who is not  a fool will consider it proper to address a bevy of Bishops in precisely  the same way as would be perfectly natural and suitable among a party  of fox-hunting country gentlemen.   A learned man, accustomed to choose his own topics of conversation  and dilate upon them at leisure in his College common room where he  can count upon the civil forbearance of other people like himself, would  be thought a tedious bore, and a dull one at that, if he carried his  pompous verbiage into the Officers’ Mess of a smart regiment. 'A  meere scholler is but a woefull creature says Sir Edmund Verney, in  a letter in which he discusses a proposal that his son should be sent to  Leyden, and observes concerning this— ‘ 'tis too private for a youth of  his yeares that must see company at convenient times, and studdy men as  well as bookes, or else his bearing may make him rather ridiculous then  esteemed ^   There is naturally a large body of colloquial expression which is  common to all classes, scholars, sportsmen, officers, clerics, and the rest,  but each class and interest has its own special way of expressing itself,  which is more or less foreign to those outside it. The average colloquial speech of any age is at best a compromise between a variety of different  jargons, each evolved in and current among the members of a particular  section of the community, and each, within certain social limits, affects  and is affected by the others. Most men belong by their ciicumstanccs  or inclinations to several speech-communities, and have little difficulty in  maintaining Ihhmsclvcs creditably in all of these. The wider the social  opportunities and experience of the individual, and the keener his lin-  guistic instinct, the more readily does he adapt himself to the company  in which he finds himself, and the more easily docs he fall into line with  its accepted traditions of speech and bc aiing.   But if so much variety in the details of colloquial usage exists in  a single age, with such well-marked differences between the conventions  of each, how much greater will be the gulf which separates the types of  familiar conversation in different ages. Do we realize that if we could,  by the workings of some Time Machine, be suddenly transported back  into the seventeenth century, most of us would find it extremely difficult  to carry on, even among the kind of people most nearly corresponding  with those with whom we are habitually associated in our present age,  the simplest kind of decent social intercourse? Even if the pronunciation  of the sixteenth century offered no difficulty, almost every other element  which goes to make up the medium of communication with our fellows  would do so.   We should not know how to greet or take leave of those we met, how  to express our thanks in an acceptable manner, how to ask a favour, pay  a compliment, or send a polite message to a gentleman's wife. We  should be at a loss how to begin and end the simplest note, whether to  an intimate friend, a near relative, or to a stranger. We could not scold  a footman, commend a child, express in appropriate terms admiration for  a woman’s beauty, or aversion to the opposite quality. We should hesitate  every moment how to address the person we were talking to, and should be  embarassed for the equivalent of such instinctive phrases as — look here, old  man ; my dear chap ; my dear Sir ; excuse me ; I beg your pardon ;  I’m awfully sorry; Oh, not at all; that 's too bad ; that ’s most amusing ;  you see ; don't you know ; and a hundred other trivial and meaningless  expressions with which most men fill out their sentences. Our innocent  impulses of pleasure, approval, dislike, anger, disgust, and so on, would  be nipped in the bud for want of words to express them. How should we  say, on the spur of the moment — what a pretty girl 1 ; what an amusing  play I ; how clever and witty Mr. Jones is ! ; poor woman ; that's a perfectly  rotten book ; I hate the way she dresses ; look here, Sir, you had better  lake care what you say ; Oh, shut up ; I'm hanged if I'll do that ; I’m very  much obliged to you. I'm sure ?   It is very probable that we perfectly grasp the equivalents of all these  and a thousand others when we read them in the pages of Congreve and  his contemporaries, but it is equally certain that the right expressions  would not rise naturally to our lips as we required them, were we  suddenly called upon to speak with My Lady Froth, or Mr. Brisk.   The fact is that we should feel thoroughly at sea in such company,  and should soon discover that we had to learn a new language of polite  society. In illustrating the colloquial style of the fifteenth century we have to  be content, either with the account of conversations given in letters, or with  such other passages from letters of the period as appear to be nearest  to the speech of everyday life.   The following passages are from the Shillingford Letters, to which  reference is repeatedly made in this book (see p. 65, &c.}, and are  extracted from the accounts given by the stout and genial Mayor of  Exeter, in letters to his friends, of his conversations with the Chancellor  during his visit to London.   Shillingford begins by referring to himself as ‘ the Mayer but suddenly  changes to the first person— in describing the actual meeting, again  returning for a moment to the impersonal phrase.   Jolm Shillingford*   ‘The Saterdey next (28 Oct. 1447) tberafter the mayer came to West-  minster sone apon ix. atte belle, and ther mette w* my lorde Chanceller atte  brode dore a litell fro the steire fote comyng fro the Sterrechamber, y yn  the courte and by the dore knellyng and salutyng hym yn the moste godely  wyse that y cowde and recommended yn to his gode and gracious lordship  my feloship and all the comminalte, his awne peeple and bedmen of the  Cite of Exceter. He seyde to the mayer ij tymes “ Well come ’’ and the  tyme “Right well come Mayer'’ and helde the Mayer a grete while faste by  the honde, and so went forth to his barge and w* hym grete presse, lordis  and other, &c. and yn especiall the tresorer of the kynges housholde, w*  wham he was at right grete pryvy communication. And therfor y, mayer,  drowe me apart, and mette w* hym at his goyng yn to his barge, and ther  toke my leve of hym, seyyng these wordis, “ My lord, y wolle awayte apon  youre gode lordship and youre better leyser at another tyme He seyde  to me ayen, “Mayer, y pray yow hertely that ye do so, and that ye speke w*  the Chief Justyse and what that ever he will y woll be all redy”. And thus  departed. A little later : —   * Nerthelez y awayted my tyme and put me yn presse and went right to my  lorde Chaunccller and seide, “My lorde y am come at your coinmaundc-  ment, but y se youre grete bysynesse is suchc that ye may not attencle ”,  He seide “Noo, by his trauthe and that y myght right well se”. Y scide  “Yee, and that y was sory and hadde pyty of his grete vexacion”. He  seide “ Mayer, y moste to morun ride by tyme to the Kyng, and come ayen  this wyke : ye most awayte apon my comyng, and then y wol speke the  justise and attende for yow ” &c. — p. 7.   * He seyde “ Come the morun Monedey ” (the Chancellor was speaking on  Sunday) . . . “the love of God ” Y seyde the tyme was to shorte, and prayed  hym of Wendysdey ; y enfourmed hym (of t)he grete malice and venym that  they have spatte to me yn theire answeris as hit appercth yn a copy that  y sende to yow of. My lorde seide, “ Alagge alagge, why wolde they do so ?  y woll sey right sbarpely to ham therfor and y nogh   Margery Brews*   The following brief extracts from the letters of Margery Brews, the  affianced wife of Jolm Fasten (junior) are like a ray of sunlight in the  dreary wilderness of business and litigation, which are the chief subjects  of correspondence between the Pa&tons. Even this Iove*letter is not wholly free from the taint, but the girl's gentle affection for her lover is  the prevailing note*   * Yf that ye cowde be content with that good and my por persone I wold  be the meryest mayclen on grounde, and yf ye thynke not your selffe soe  satysfyed or that ye myght hafe much mor good, as I hafe ujtidyrstonde be  youe afor ; good trewe and iovyng volentyne, that ye take no such labur  iippon yowe, as to come more for that matter, but let it passe, and never  more to be spokyn of, as I may be your trewe lover and bedewoman during  my lyfe .’ — Pas ton Letters^ hi, A few years later Mrs. Fasten writes to her 'trewe and Iovyng  volentyne ' : ' My mother in lawe thynketh longe she here no word from you. She is in  goode heaie, blissed be God, and al yowr babees also. I marvel I here no  word from you, weche greveth me ful evele. I sent you a letter be Basiour  sone of Norwiche, wher of I have no word.’ To this the young wife adds  the touching postscript : — ' Sir I pray yow if ye tary longe at London that it  wii plese to sende for me, for I thynke longe sen I lay in your armes.’ —  Paston Letie?-Sj iii, p. 293 (1482).    Sir Thomas More.   No figure in the eaily part of Henry VIII’s reign is more distin-  guished and at the same time more engaging than that of Sir Thomas  More* A few typical records of his conversation, as preserved by his  devoted biographer and son-in-law Roper, are chosen to illustrate the  English of this time. The context is given so that the extracts may  appear in Roper's own setting.   'Not long after this the Watter baylife of London (sonietyme his servaunte)  liereing, where he had beene at dinner, certayne Marchauntes^ liberally to  rayle against his ould Master, waxed so discontented therwith, that he  hastily came to him, and tould him what he had hard: "and were I Sir”  (quoth he) " in such favour and authoritie with my Prince as you are, such  men surely should not be suffered so villanously and falsly to misreport and  slander me. Wherefore 1 would wish you to call them before you, and to  there shame, for there lewde malice to punnish them.” Who smilinge upon  him sayde, " Watter Baylie, would you have me punnish them by whome  1 reccave more benefit! then by you all that be my frendes ? Let them  a Gods name speakc as lewdly as they list of me, and shoote never soe  many airowcs at me, so long as they do not hitt me, what am I the worse?  But if the should once hitt me, then would it a little trouble me : howbeit,  I trust, by Gods helpe, (here shall none of them all be able to touch me.  I have more cause, Water Bayly (I assure thee) to pittie them, then to  be angrie with them.” Such frutfiill communication had he often tymes  with his familiar frendes. Soe on a tyme walking a long the Thames syde  with me at Chelsey, in talkinge of other thinges he sayd to me, " Now,  would to God, Sonne Roger, upon condition three things are well estab-  lished in Christendome, I were put in a sacke, and here presently cast into the  Thames.” " What great thinges be these, Sir ” quoth I, " that should move  you $0 to wish?” "Wouldest thou know, sonne Roper, what they be”  quoth he? “Yea marry, Sir, with a good will if it please you”, quoth I,  “ I faith, they be these Sonne ”, quoth he. The first is, that where as the  most part of Christian princes be at mortall warrs, they weare at universal  peace. The second, that wheare the Church of Christ is at this present soare afflicted witli many heresies and errors, it were well settled in an  uniformity. The third, that where the Kinges matter of his marriage is now  come into question, it were to the glory of God and quietnesse of all parties  brought to a good conclusion : ’’ where by, as I could gather, he judged, that  otherwise it would be a disturbance to a great part of Christ endome/   ‘ When Sir Thomas Moore had continued a good while in the Tower, my  Ladye his wife obtayned license to see him, who at her first comminge like  a simple woman, and somewhat worldlie too, with this manner of salutations  bluntly saluted him, ‘‘What the good yeai'e, Moore” quoth shee,   I marvell that you, that have beene allwayes hitherimto taken for soe wise  a man, will now soe playe the foole to lye here in this close filthie prison, and  be content to be shutt upp amonge myse and rattes, when you might be  abroad at your libertie, and with the favour and good will both of the  King and his Councell, if you would but doe as all the Bushopps and best  learned of this Realme have done. And seeing you have at Chelsey a right  fayre house, your librarie, your books, your gallerie, your garden, your  orchards, and all other necessaries soe handsomely about you, where you  might, in the companie of me your wife, your children, and houshould be  merrie, I muse what a Gods name you meane here still thus fondlye to tarry.’'  After he had a while quietly hard her, “ I pray thee good Alice, tell me,  tell me one thinge.” “ What is that ? ” (quoth shee). “ Is not this house  as nighe heaven as myne owne?” To whome shee, after her accustomed  fashion, not likeinge such talke, answeared, “ Tilh valie, Tille valle ”  “How say you, Alice, is it not soe?” quoth he. Bone deus, bone  Deusy man, will this geare never be left?” quoth shee. “Well then  Alice, if it be soe, it is verie well. For I see noe great cause whie  I should soe much joye of my gaie house, or of any thinge belonginge  thereunto, when, if I should but seaven yeares lye buried under ground,  and then arise, and come thither againe, I should not fayle to finde some  Iherin that would bidd me gett out of the doores, and tell me that weare  none of myne. What cause have I then to like such an house as would  soe soone forgett his master?” Soe her perswasions moved him but a little.*   The last days of this good man on earth, and some of his sayings just  before his death, are told with great simplicity by Roper. We cannot  forbear to quote the affecting passage which tells of Sir Thomas More’s  last parting from his daughter, the writer’s wife.   ‘When Sir Tho. Moore came from Westminster to the Towreward againe,  his daughter my wife, desireous to see her father, whome shee thought shee  should never see in this world after, and alsoe to have his finall blessinge,  gave attendaunce aboutes the Towre wharfe, where shee knewe he should  passe by, eVe he could enter into the Towre. There tarriinge for his  coininge home, as soone as shee sawe him, after his blessinges on her  knees reverentlie receaved, shoe hastinge towards, without consideration  and care of her selfe, pressinge in amongest the midst of the thronge and  the Companie of the Guard, that with Hollbards and Billes weare round  about him, hastily ranne to him, and then openlye in the sight of all them  embraced and tooke him about the necke, and kissed him, whoe well likeing  her most daughterlye love and affection towards him, gave her his fatherlie  blessinge, and manye goodlie words of comfort besides, from whome after  shee was departed, shee not satisfied with the former sight of her deare  father, havinge respecte neither to her self, nor to the presse of the people  and multitude that were about him, suddenlye turned backe againe, and  rann to him as before, tqoke him about the necke, and divers tymes togeather  most lovinglay kissed him, and at last with a full heavie harte was fayne to  departe from him; the behouldinge whereof was to manye of them that were  present thereat soe lamentablcj that it made them for very sorrow to mourne  and weepe.’ In his last letter to his ' dearely beloved daughter, written with a Cole  Sir Thomas More refers to this incident :' And I never liked your  manners better, then when you kissed me last. For* I like when  daughterlie Love, and deare Charitie hath noe leasure to looke to worldlie  Curtesie   Next morning ‘ Sir Thomas even, and the Utas of St. Peeter in the yeare  of our Lord God, earlie in the morninge, came to him Sir Thomas  Pope, his singular trend, on messedge from the Kinge and his Councell,  that hee should before nyne of the clocke in the same morninge suffer  death, and that therefore fourthwith he should prepare himselfe thereto.   Pope sayth he, for your good tydinges I most hartily thankyou.  I have beene allwayes^ bounden much to the Kinges Highnes for the  benehtts and honors which he hath still from tyme to tyme most bounti-  fully heaped upon mee, and yete more bounden I ame to his Grace for  putting me into this place, where I have had convenient tyme and space to  have remembraunce of my end, and soe helpe me God most of all Pope,  am I bound to his Highnes, that it pleased him so shortlie to ridd me of  the miseries of this wretched world. And therefore will I not fayle most  earnestlye to praye for his Grace both here, and alsoe in another world, .And I beseech you, good Pope, to be a meane unto his Highnes, that  my daughter Margarette may be present at my buriall.’’ “ The King is well  contented allreadie*' (quoth M^’ Pope) ‘‘that your Wife, Children and other  frendes shall have free libertie to be present thereat “O how much be-  hoiilden” then said Sir Thomas Moore “am I to his Grace, that unto my  poore buriall vouchsafeth to have so gratious Consideration.*’ Wherewithal!   Pope takeinge his leave of him could not refrayne from weepinge, which  Sir Tho. Moore perceavinge, comforted him in this wise, “ Quiete yourselfe  good M^ Pope, and be not discomforted. For I trust that we shall once in  heaven see each other full merily, where we shall bee sure to live and love  togeather in joyfull blisse eternally.Wolsey.   The Ij/e of Wolsey, by George Cavendish, a faithful and  devoted servant of the Cardinal, who was with him on his death-bed,  gives a wonderfully interesting picture of this remarkable man, in affluence  and in adversity, and records a number of conversations which have  a convincing air of verisimilitude. The following specimens are taken  from the Kelmscott Press edition of 1893, which follows the spelling of  the author's MS. in the British Museum.   ‘ After ther departyng^ my lord came to the sayd howsse of Eston to his  lodgyng, where he had to supper with hyme dyvers of his frends of the court.  And syttyng at supper, in came to hyme Doctor Stephyns, the secretary,  late ambassitor unto Rome ; but to what entent he came I know not ;  howbeit my lord toke it that he came bothe to dissembell a certeyn  obedyence and love towards hyme, or ells to espie hys behaviour, and to  here his commynycacion at supper. Not withstandyng my lord bade hyme  well come, and commaundyd hyme to sytt down at the table to supper;  with whome my lord had thys commynycacion with hyme under thys  maner. Mayster Secretary, quod my lord, ye be-welcome home owt of  Rally; whan came ye frome Rome? Forsothe, quod he, I came home  allmost a monethe agoo ; and where quod my lord have you byn ever  sence? Forsothe, quod he, folowyng the court this progresse. Than have  ye hunted and had good game and pastyme. Forsothe, Syr, quod he, and  so I have, I thanke the kyngs Majestie, What good greyhounds have ye?  quod my lord. I have some syr quod he. And thus in huntyng, and in  lyke disports, , passed they all ther commynycacion at supper. And after  supper my lord and he talked secretly together until it was mydnyght or  they departed.’ Than all thyng beyng ordered as it is before reherced, my lord  prepared hyme to depart by water. ^ And before his departyng he com-  maundyd Syr William Gascoyne, his treasorer, to se these thyngs byfore  remembred, delyverd safely to the kyng at his repayer. That don, the  seyd Syr William seyd unto my lord. Syr I ame sorry for your grace, for  I understand ye shall goo strayt way to the tower. Ys this the good  comfort and councell, quod my lord, that ye can geve your mayster in  adversitie? Yt hathe byn allwayes your naturall inclynacion to be very  light of credytt, and mych more lighter in reporting of false newes,  I wold ye shold knowe, Syr William, and all other suche blasphemers,  that it is nothyng more false than that, for I never, thanks be to god,  deserved by no wayes to come there under any arrest, allthoughe it hathe  pleased the kyng to take my howse redy furnysshed for his pleasyr at this  tyme. I wold all the world knewe, and so I confesse to have no thyng,  other riches, honour, or dignyty, that hathe not growen of hyme and by  hyme ; therefore it is my verie dewtie to surrender the same to hyme agayn  as his very owen, with al my hart, or ells I ware and onkynd servaunt.  Therefore goo your wayes, and geve good attendaunce unto your charge,  that no thyng be embeselled.’ ‘And the next day we removed to Sheffeld Parke, where therle of Shrews-  bury lay within the loge, and all the way thetherward the people cried and  lamented, as they dyd in all places as we rode byfore. And whan we came  in to the parke of Sheffeld, nyghe to the logge, my lord of Shrewesbury, with  my lady his wyfe, a trayn of gentillwomen, and all my lords gentilmen, and  yomen, standyng without the gatts of the logge to attend my lords commy ng,  to receyve hyme with myche honor ; whome therle embraced, sayeng these  words. My lord quod he, your grace is most hartely welcome unto me, and  glade to se you in my poore loge ; the whiche I have often desired ; and  myche more gladder if you had come after another sort. Ah, my gentill  lord of Shrewesbury quod my lord, I hartely thanke you ; and allthoughe  I have no cause to rejoyce, yet as a sorowe full hart may joye, I rejoyce my  chaunce, which is so good to come into the hands and custody of so noble  a persone, whose approved honor and wysdome hathe byn allwayes right  well knowen to all nobell estats. And Sir, howe soever my ongentill accusers  hathe used ther accusations agenst me, yet I assure you, and so byfore your  lordshipe and all the world do I protest, that my demeanor and procedyngs  hathe byn just and loyall towards my soverayn and liege lord ; of whose  behaviour and doyngs your lordshipe hathe had good experyence ; and evyn  accordyng to my trowthe and faythfulnes, so I bescche god helpe me in this  my calamytie. I dought nothyng of your Irouthe, quod therle, tlierfore my  lorde I beseche you be of good chere and feare not, for I have receyved  letters from the kyng of his owen hand in your favour and entertaynyng the  whiche you shall se. Sir, I ame nothyng sory but that I have not wherwith  worthely to receyve you, and to entertayn you accordyng to your honour and  my good wyll ; but suche as I have ye are most hartely welcome therto,  desiryng you to accept my good wyll accordyngly, for I wol not receyve you  as a prisoner, but as my good lord, and the kyngs trewe faythfull subjecte ;  and here is my wyfe come to salute you. Whome my lord kyst barehedyd,  and all hir gentilwomen ; and toke my lords servaunts by the hands, as well  gentilmen and yomen as other. Then these two lords went arme in arme into the logge, conductyng my lord into a fayer chamber at thend of a goodly  gallery within a newe tower, and here my lord was lodged.’ Here are some short portions of dialogue between Wolsey and his  friends, just before his death :   * Uppon Monday in the mornyng, as I stode by his bedds' side, abought  viii of the clocke, the wyndowes beyng cloose shett, havyng wake lights  burnyng uppon the cupbord, I behyld hyme, as me seemed, drawyng fast to  his end. He perceyved my shadowe uppon the wall by his bedds side,  asked who was there. Sir I ame here, quod I. Howe do you ? quod he to  me. Very well Sir, if I myght se your grace well. What is it of the clocke ?  quod he to me. Forsothe Sir, quod I, it is past viii. of the clocke in the  mornyng. Eight of the clocke, quod he, that cannot be, rehersing dyvers  times eight of the clocke, eight of the clocke. Nay, nay, quod he at the last,  it cannot be viii of the clocke, for by viii of the clocke ye shal loose your  mayster ; for my tyme drawyth nere that I must depart out of this world.’‘ Mayster Kyngston farewell. I can no moore, but why she all thyngs to  have good successe. My tyme drawyth on fast. I may not tary with you.  And forget not I pray you, what I have seyd and charged you with all : for  whan I ame deade, ye shall peradventure remember my words myche better.  And even with these words he began to drawe his speche at lengthe and his  tong to fayle, his eyes beyng set in his hed, whos sight faylled hyme ; than  we began to put hyme in rembraunce of Christs passion, and sent for the  Abbott of the place to annele hyme ; who came with all spede and mynestred  unto hyme all the servyce to the same belongyng ; and caused also the gard  to stand by, bothe to here hyme talk byfore his deathe, and also to here  wytnes of the same ; and incontinent the clocke strake viii, at whiche tyme  he gave uppe the gost, and thus departed he this present lyfe.’Latimer.   The Sermons of Bp. Latimer present good examples^ of colloquial  oratory, and the style is but little removed from the colloquial style of the  period. The following are from the Sermon of the Ploughers, preached. ' For they that be lordes vyll yll go to plough. It is no mete office for  them. It is not semyng for their state. Thus came up lordyng loiterers.  Thus crept in vnprechinge prelates, and so haue they longe continued.   ‘ For how many vnlearned prelates haue we now at this day ? And no  maruel. For if ye plough men yat now be, were made lordes they woulde  cleane gyue ouer ploughinge, they woulde leaue of theyr labour and fall to  lordyng outright, and let the plough stand. And then bothe ploughes nor  walkyng nothyng shoulde be in the common weale but honger. For euer  sence the Prelates were made Loordes and nobles, the ploughe standeth,  there is no worke done, the people starue.   ‘ Thei hauke, thei hunt, thei card, they dyce, they pastyme m theyr pre-  lacies with galaunte gentlemen, with theyr daunsmge mmyons, and with  theyr freshe companions, so that ploughinge is set a syde. And by tne  lordinge and loytryng, preachynge and ploughinge is cleane gone . .   ^^‘But^iiowe for the defaulte of vnpreaching prelates me thinke I coulde  gesse what myghte be sayed for excusynge of them : They are so troubeled  wyth Lordelye lyuynge, they be so placed in palacies, couched m courte^  ruffelynge in theyr rentes, daunceyng in theyr dominions, burdened with  ambassages, pamperynge of theyr paunches lyke a monke that maketh his jubilie, moundiynge in their maungers, and moylynge in their gaye manoures  and mansions, and so troubeled wyth loy terynge in theyr Lordeshyppes : that  they canne not attende it. They are other wyse occupyed, some in the  kynges matters, some are ambassadoures, some of the pryuie counsell, some  to furnyslie the courte, some are Lordes of the Parliamente, some are  presidentes, and some comptroleres of myntes. Well, well.   Is thys theyr duetye? Is thys theyr offyee? Is thys theyr callyng?  Should we haue ministers of the church to be comptrollers of the myntes ?  Is thys a meete office for a prieste that hath cure of soules ? Is this hys  charge ? I woulde here aske one question : I would fayne knowe who comp-  trolleth the deuyll at home at his parishe, whyle he comptrolleth the mynte ?  If the Apostles mighte not ieaue the office of preaching to be deacons, shall  one Ieaue it for myntyng ? ’   Wilson’s Ar^e of Rhetorique (1560) has a section 'Of deliting the  hearers, and stirring them to laughter ’ in which are enumerated ' What  are the kindes of sporting, or mouing to laughter'. The subject is  illustrated by various ' pleasant ' stories, which if few of them would now  make us laugh, are at least couched in a very easy and colloquial style  and enlivened by scraps of actual conversation. The most amusing  element in the whole chapter is the attitude of the writer to the subject,  and the combination of seriousness and scurrility with which it is handled.   ' The occasion of laughter’ says Wilson, 'and themeane that maketh us mery  ... is the fondnes, the filthines, the deformitie, and all such euill be-  hauiour as we see to be in other? ... Now when we would abashe a  man for some words that he hath spoken, and can take none aduauntage  of his person, or making of his bodie, we either doubt him at the first,  and make him beleeue that he is no wiser then a Goose : or els we confute  wholy his sayings with some pleasaunt iest, or els we extenuate and diminish  his doings by some pretie meanes, or els we cast the like in his dish, and  with some other devise, dash hym out of countenance : or last of all, we  laugh him to scorne out right, and sometimes speake almost neuer a word,  but only in continuaunce, shewe our selues pleasaunt’. — ^p. 136.   ‘ A frend of mine, and a good fellowe, more honest then wealthie, yea and  more pleasant then thriftie, liauing need of a nagge for his iourney that he  had in hande, and being in the countrey, minded to go to Parlnaie faire in  Lincolnshire, not farre from the place where he then laie, and meeting by the  way one of his acquaintaunce, told him his arrande, and asked him how  horses went at the Faire. The other aunswered merely and saidc, some  trot sir, and some amble, as farre as I can see. If their paces be altered,  I praye you tell me at our next meeting. And so rid away as fast as his  horse could cary him, without saying any word more, whereat he then  being alone, fel a laughing hartely to him self, and looked after a good  while, vntil the other was out of sight.’ — p. 140.   'A Gentleman hauing heard a Sermon at Panics, and being come home,  was asked what the preacher said. The Gentleman answered he would  first heare what his man could saie, who then waited vpon him, with his  hatte and cloake, and calling his man to him, sayd, nowe sir, whate haue  you brought from the Sermon. Forsothe good Maister, sayd the seruaunt  your cloake and your hatte- A honest true dealing seruaunt out of doubt,  piaine as a packsadclle, bauing a better soule to God, though his witte was  simple, then those haue, that vnder the colour of hearing, giuc them selues  to priuie picking, and so bring other mens purses home in their bosomes,  in the steade of other mens Sermons.’— pp. 14X-2.   These two stories are intended to illustrate the point that ' We shall  delite the hearers, when they looke for one ansvvere, and we make them a cleane contrary, as though we would not seeme to vnderstand what they  would haue   ^Churlish aunsweres like the hearers sometimes very well. When the  father was cast in judgement, the Sonne seeing him weepe : why weepe  you Father? (quoth he) To whom his Father aunswered. ^What? Shall  I sing I pray thee seeing by Lawe I am condemned to "dye. Socrates  likewise bieing^ mooued of his wife, because he should dye an innocent  and guiltlesse in the Law: Why for shame woman (quoth he) wilt thou  haue me to dye giltic and deseruing. When one had falne into a ditch,  an other pitying his fall, asked him and saied : Alas how got you into  that pit ? Why Gods mother, quoth the other, doest thou aske me how  I got in, nay tell me rather in the mischiefe, how I shall get out.’   The nearest approach to the colloquial style in Bacon is to be found  in the Apophthegms, in which are scraps of conversation. A few may be  quoted, if only on account of the author.   ‘ Master Mason of Trinity College, sent his pupil to an other of the fellows,  to borrow a book of him, who told him, I am loth to lend my books out of  my chamber, but if it please thy tutor to come and read upon it in my chamber,  he shall as long as he will.” It was winter, and some days after the same  fellow sent to M^‘ Mason to borrow his bellows ; but M^’ Mason said to his  pupil, ‘‘ I am loth to lend my bellows out of my chamber, but if thy tutor  would come and blow the fire in my chamber, he shall as long as he will.”  —ApophtJi. There were fishermen drawing the river at Chelsea: M^* Bacon came  thither by chance in the afternoon, and offered to buy their draught : they  were willing. He askcvl them what they would take ? They asked thirty  shillings. M^ Bacon offered them ten. They refused it. Why then said  M^* Bacon, I will be only a looker on. They drew and catched nothing.  Saith M^ Bacon, Are not you mad fellows now, that might have had an  angel in your purse, to have made merry withal, and to have warmed you  thoroughly, and now you must go home with nothing. Ay but, saith the  fishermen, we had hope then to make a better gain of it. Saith M^’ Bacon,  ‘‘ Well my master, then I will tell you, hope is a good breakfast, but it is  a bad supper.” — p, 136.   Otway^s Comedies have all the coarseness and raciness of dialogue  of the latter half of the seventeenth century, and a pretty vein of genuine  comicality. They are packed with the familiar slang and colloquialisms  of the period. A few passages from Friendship in Fashion illustrate  at once the speech and the manners of the day.    Enter Lady SQUEAMISH at the Door,   Sir Noble Clmnsey, Hah, my Lady Cousin ! —Faith Madam you see I am  at it.   Malagene, The Devil’s wit, I think ; we could no sooner talk of wh —  but she must come in, with a pox to her. Madam, your Ladyship’s most  humble Servant.   Ldy Squ. Oh, odious ! insufferable ! who would have thought Cousin, you  would have serv’d me so— fough, how he stinks of wine, I can smell him  hither. — How have you the Patience to hear the Noise of Fiddles, and  spend your time in nasty drinking ?   Sir Noble, Hum ! ’tis a good Creature : Lovely Lady, thou shalt take  thy Glass.   Ldy Sgu, Uh gud ; murder 1 I had rather you had offered me a toad.   B b   Sir N, Then Malagene, here’s a Health to my Lady Cousin’s Pelion  upon Ossa. [Drinks and breaks the   Ldy Squ, Lord, dear Malagene what ’s that ?   MaL A certain Place Madam, in Greece, much talk’t of by the Ancients ;  the noble Gentleman is well read.   Ldy Squ. 'Nay he’s an ingenious Person I’ll assure you.   Sir N. Now Lady bright, I am wholly thy Slave: Give me thy Hand,  I’ll go straight and begin my Grandmother’s Kissing Dance ; but first deign  me the private Honour of thy Lip.   Ldy Squ. Nay, fie Sir Noble 1 how I hate you now ! for shame be not so  rude : I swear you are quite spoiled. Get you gone you good-natur’d Toad  you. [Exetmti\    Malagene, . . . I’m a very good Mimick ; I can act Punchinello, Scara-  mouchir, Harlequin, Prince Prettyman or anything. 1 can act the rumbling  of a Wheel -barrow.   Valentine, The rumbling of a Wheel-barrow !   MaL Ay, the rumbling of a Wheel-barrow, so I say — Nay more than that,  I can act a Sow and Pigs, Saussages a broiling, a Shoulder of Mutton a  roasting : I can act a fly in a Honey-pot,   Truman, That indeed must be the Effect of very curious Observation.   MaL No, hang it, I never make it my business to observe anything, that  is Mechanicke. But all this I do, you shall see me if you will : But here  comes her Ladyship and Sir Noble.   Ldy Squ, Oh, dear M^ Truman, rescue me. Nay Sir Noble for Heav’n’s  sake.   Sir N, I tell thee Lady, I must embrace thee : Sir, do you know me ! I am  Sir Noble Clumsey : I am a Rogue of an Estate, and I live— Do you want  any money ? I have fifty pounds.   VaL Nay good Sir Noble, none of your Generosity we beseech you. The  Lady, the Lady, Sir Noble.   Sir N. Nay, ’tis all one to me if you won’t take ft, there it is. — Hang  Money, my Father was an Alderman.   MaL ’Tis pity good Guineas should be spoil’d, Sir Noble, by your leave.   [Picks up the Guineasl\   Sir N. But, Sir, you will not keep my Money ?   MaL Oh, hang Money, Sir, your Father was an Alderman.   Sir N, Well, get thee gone for an Arch-Wag — I do but sham all this  while i — ^but by Dad he ’s pure Company. Lady, once more I say be civil, and come kiss me.   VaL Well done Sir Noble, to her, never spare.   Ldy Squ, I may be even with you tho for all this, Valentine : Nay  dear Sir Noble : M^ Truman, I’ll swear he’ll put me into Fits.   Sir N, No, but let me salute the Hem of thy Garment, Wilt thou marry  me? [LTneels.]   MaL Faith Madam do, let me make the Match.   Ldy Squ, Let me die Malagene, you are a strange Man, and Fll  swear have a great deal of Wit. Lord, why don’t you write ?   MaL Write? I thank your Ladyship for that with all my Heart. No  I have a Finger in a Lampoon or so sometimes, that ’s all.   Truman, But he can act.   Ldy Squ, I’ll swear, and so he does better than any one upon our  Theatres; I have seen him. Oh the English Comedians are nothing, not  comparable to the French or Italian: Besides we want Poets.   SirN, Poets! Why I am a Poet; I have written three Acts of a Play,  and have nam’d it already. ’Tis to be a Tragedy.   Ldy Squ. Oh Cousin, if you undertake to write a Tragedy, take my Counsel : Be sure to say soft melting tender things in it that may be moving,  and make your Lady’s Characters virtuous whatever you do.   Sir N. Moving I Why, I can never read it myself but it makes me laugh :  well, ’tis the pretty’st Plot, and so full of Waggery.   Ldy Sgti, Oh ridiculous I   Mai But Knight, the Title ; Knight, the Title.   Sir N, Why let me see ; ’tis to be called The Merry Conceits of Love ;  or the Life and Death of the Emperor Charles the Fifth, with the Humours  of his Dog Boabdillo.   Mai PI a, ha, ha. . Ldy Squ, But dear Malagene, won’t you let us see you act a little  something of Harlequin? I’ll swear you do it so naturally, it makes me  think Fm at the Louvre or Whitehall all the time. [Mai acis.] O Lord,  don’t, don’t neither ; I’ll swear you’ll make me burst. Was there ever any-  thing so pleasant ?   Trwn, Was ever anything so affected and ridiculous ? Her whole Life  sure is a continued Scene of Impertinence. What a damn’d Creature is  a decay’d Woman, with all the exquisite Silliness and Vanity of her Sex, yet  none of the Charms ! [Mai s^peaks in PunchinelMs voicei\   Ldy Squ, O Lord, that, that ; that is a Pleasure intolerable. Well, let  me die if I can hold out any longer.   A Comparison between the Stages, wiih an Examen of the Generous  Conqueror^ printed in 1702, is a dialogue between ^ Two Gentlemen’,  Sullen and Ramble (see below), and ^a Critick’,upon the plays of the day and  others of an earlier date. The style is that of easy and natural familiar con-  versation, with little or no artificiality, and incidentally, the tract throws  light upon contemporary manners and social habits. The following  examples are designed to illustrate the colloquial handling of indifferent  topics, and the small-talk of the early eighteenth century, as well as  the treatment of the immediate subject of the essay.   Sullen. They may talk of the Country and what they will, but the Park  for my money.   Ramble. In its proper Season I grant you, when the Mall is pav’d with  lac’d shoes ; when the Air is perfum’d with the rosie Breath of so many fine  Ladies ; when from one end to the other the Sight is entertain’d with nothing  but Beauty, and the whole Prospect looks like an Opera.   Sull And when is it out of Season Ramble ?   Ram. When the Beauties desert it ; when the absence of this charming  Company makes it a Solitude : Then Sullen, the Park is to me no more than  a Wilderness, a very Common ; and a Grove in a country Garden with a  pretty Lady is by much the pleasanter Landscape.   Sull To a Man of your Quicksilver Constitution it may be so, and the  Cuckoo in May may be Music t’ee a hundred Miles off, when all the Masters  in Town can’t divert you.   Ram. I love everything as Nature and the Nature of Pleasure has con-  triv’d it ; I love the Town in Winter, because then the Country looks aged  and deform’d ; and I hate the Town in Summer, because then the Country is  in its Glory, and looks like a Mistress just drest out for enjoyment.   Sull Very well distinguish’d : Not like a Bride, but like a Mistress.   Ram. I distinguish ’em by that comparison because I love nothing well  enough to be wedded to ’t : I’m a Proteus in my Appetite, and love to change  my Abode with my Inclination,   Sull I differ from you for the very Reason you give for your change ; the  Town is evermore the same to me ; and tho* the Season makes it look after  another manner, yet still it has a Face to please me one way or other, and  both Winter and Summer make it agreeable, —pp. 1-3*   B b 2   Here is a conversation during dinner at the ' Blew Posts \   Critik, What have you order’d ?   Ramh. A Brace of Carp stew’d, a piece of Lamb, and a Sallet ; d’ee  like it ?   Crit, I like, anything in the World that will indure Cutting : Prithee  Cook make haste or expect I shall Storm thy Kitchin.   SulL Why thou’rt as hungry as if thou hadst been keeping Garrison in  Mantua : I don’t know whether Flesh and Blood is safe in thy Company.   CriL I wish with all my Heart thou wert there, that thou mightst under-  stand what it is to fast as 1 have done : Come, to our Places • . . the blessed  hour is come. . . . Sit, sit . . . fall to, Graces are out of Fashion.   Ramb. I wish the Charming Madam Subligny were here.   CriL Gad so don’t 1 : I had rather her P'eet were pegg’d down to the  Stage; at present my Appetite stands another way : Waiter, some Wine . , .  or I shall choak. . Suit, This Fellow eats like an Ostrich, the Bones of these great Fish are  no more to him than the Bones of an Anchovy ; they melt upon his Tongue  like marrow Puddings.   Crit Ay, you may talk, but I’m sure I find ’em not so gentle ; here ’s  one yet in my Throat will be my death ; the Flask . . . the Flask . . . ,   Ramb. But Critick, how did you like the Play last Night ?   Crit. I’ll tell you by and by, Lord Sir, you won’t give a Man time to break  his Fast: This Fish is such washy Meat ... a Man can’t fix his knife in ’t,  it runs away from him as if it were still alive, and was afraid of the Hook :  Put the Lamb this way.   SulL The Rogue quarrels with the Fish, and yet you cou’d eat up the  whole Pond ; the late Whale at Cuckold’s point, with all its oderiferous Gar-  badge, wou’d ha’ been but a Meal to him : Well, how do you like the Lamb ?  does that feel your knife?   Crit. A little more substantial, and not much : Well, I shou’d certainly be  starv’d if I were to feed with the French, I hate their thin slops, their Pot-  tages, Frigaces, and Ragous, where a Man may bury his Hand in the Sauce,  and dine upon Steam : No, no, commend me to King Jemmy’s English  Surloin, in whose gentle Flesh a Man may plunge a Case-knife to the tip of  the Handle, and then draw out a Slice that will surfeit half a Score Yeoman of  the Guard. Some Wine ye Dog . . . there . , . now I have slain the Giant ;  and now to your Question . . . what was it you askt me ?   Ramb. Won’t you stay the Desert ? Some Tarts and Cheese ?   Crit I abominate Tarts and Cheese, they’re like a faint After-kiss, when  a Man is sated with better Sport ; there ’s no more Nourishment in ’em, than  in the paring of an Apple. Here Waiter take away. . . .   Ramb. Then remove every Thing but the Table-cloth.’ , .   Ramb. Here Waiter — send to the Booksellers in Pell mell for the Generous  Conqueror and make haste . . , you say you know the Author Critick.   Crit. By sight I do, but no further ; he ’s a Gentleman of good Extraction,  and for ought I know, of good Sense.   Ramb. Surely that’s not to be questioned; I take it for granted that  a Man that can write a Play, must be a Man of good Sense.   Crit That is not always a consequence, I have known many a singing  Master have a worse voice than a Parish Clerk, and I know two dancing  Masters at this time, that are directly Cripples : . . . A Ship-builder may fit  up a Man of War for the West Indies, and perhaps not know his Compas :  Or a great Trpelier, with Heylin, that writ the Geography of the whole  World, may, like him, not know the way from the next Village to his  own House.   Ramb. Your Comparisons are remote M*^ Critick.   Cfit. Not so remote as some successful Authors are from good sense ;  Wit and Sense are no more the same than Wit and Humour; nay there is  even in Wit an uncertain Mode, a variable Fashion, that is as unstable as  the Fashion of our Cloaths : This may be proved by their Works who writ  a hundred Years ago, compar’d with some of the modern ; Sir Philip Sidney,  Don, Overbury, nay Ben himself took singular delight in playing with their  Words : Sir Philip is everywhere in his Arcadia jugling, which certainly by  the example of so great a Man, proves that sort of Wit then in Fashion ; now  that kind of Wit is call’d Punning and Quibbling, and is become too low for  the Stage, nay even for ordinary Converse ; so that when we find a Man who  still loves that old fashion’d Custom, we make him remarkable, as who is  more remarkable than Capt. Swan.   Ramb. Nay, your Quibble does well now a Days, your best Comedies  tast of ’em ; the Old Batchelor is rank.   Crit. But ’tis every Day decreasing, and Queen Betty’s Ruff and Fardin-  gale are not more exploded ; But Sense Gentlemen, is and will be the same  to the World’s end.   SulL And Nonsense is infinite, for England never had such a Stock and  such Variety.   Ramb. Yet I have heard the Poets that flourish’d in the last Reign but  two, complain of the same Calamity, and before that Reign the thing was the  same : All Ages have produced Murmurers ; and in the best of times you shall  hear the Trades-man cry — Alas Neighbour ! sad Times, very hard Times .. ,  not a Penny of Money stirring . . . Trade is quite dead, and nothing but War  . . . War and Taxes . . . when to my knowledge the gluttonous Rogue shall  drink his two Bottles at Dinner, and his Wife have half a Score of rich Suits,  a purse of Gold for the Gallant, and fifty Pounds worth of Gold and Silver  Lace on her under Petticoats.   Sail, Nay certainly, this that Ramble now speaks of is a great Truth;  those hypocritical Rogues are always grumbling; and tho’ our Nation never  had such a Trade, or so much Money, yet ’tis all too little for their voracious  Appetites : As I live — says he, I can’t afford this Silk one Penny cheaper —  d’ee mind the Rogues Equivocation ? as I live — ^that is, he lives like a Gen-  tleman — but let him live like a Tradesman and be hang’d ; let him wear  a Frock, and his Wife a blew Apron.   Ramb, See, the Book ’s here : go Waiter and shut the Door. — pp. 76-9.   The dialogue of Hichardson, ' sounynge in moral vertu ^ devoid of all  the lighter touches, is typical of the age that was beginning, the age of  reaction against the levities and negligences in speech and conduct  of the seventeenth and early eighteenth centuries.   The following conversation of rather an agitated character, between  a mother and daughter, is from Letter XVI, in Clarissa Ifarlozue{i*j4S):   * • * • My mother came up to me. I love, she was pleased to say, to come  into this appartment.— No emotions child I No flutters ! — Am I not your  mother F—Am I not your fond, your indulgent mother P-— Do not discompose  me by discomposixig Do not occasion me uneasiness, when I would   glveyau nothing but pleasure. Come my dear, we will go into your closet. . . .  PI ear me out and then speak ; for I was going to expostulate. You are no  stranger to the end of M^ Solmes’s visits — O Madam! — Hear me out;  and then speak. — He is not indeed everything I wish him to be : but he is  a man of probity and has no vices — No vices Madam ! — Hear me out child. —  You have not behaved much amiss to him : we have seen with pleasur *. that  you have not — O Madam, must I not now speak ! I shall have done pre.‘ fently,  —A young creature of your virtuous and pious turn, she was pleased ! say,  cannot surely love a predicate ; you love your brother too well, to wish p see  any one who had like to have killed him, and who threatened youri incles  and defies us all You have had your own way six or seven times : v|? | w^nt  to secure you against a man so vile. Tell me (I have a right to know)  whether you prefer this man to all others ? — Yet God forbid that I should  know you do ; for such a declaration would make us all miserable. Yet tell  me, a.re your affections engaged to this man ?   I know what the inference would be if I had said they were not You hesitate  — You answer me not — You cannot answer me — Rising — Nevermore will  I look upon you with an eye of favour — O Madam, Madam ! Kill me not  with your displeasure — I would not, I need not, hesitate one moment, did  I not dread the inference, if I answer you as you wish. — Yet be that inference  what it will, your threatened displeasure will make me speak. And I declare  to you, that I know not my own heart if it be not absolutely free. And pray,  let me ask my dearest Mamma, in what has my conduct been faulty, that  like a giddy creature, I must be forced to marr^r, to save me from— from  what ? Let me beseech you Madam to be the Guardian of my reputation \  Let not your Clarissa be precipitated into a stale she wishes not to enter into  with any man ! And this upon a supposition that otherwise she shall marry  herself, and disgrace her whole family.   When then, Clary [passing over the force of my plea] if your heart be free  — O my beloved Mamma, let the usual generosity of your dear heart operate  in my favour.^ Urge not upon me the inference that made me hesitate.   I won’t be interrupted, Clary — You have seen in my behaviour to you, on  this occasion, a truly maternal tenderness ; you have observed that I have  undertaken the task with some reluctance, because the man is not everything ;  and because I know you carry your notions of perfection in a man too high.  — Dearest Madam, this one time excuse me ! Is there then any danger that  I should be guilty of an imprudent thing for the man’s sake you hint at ?  Again interrupted! Am I to be questioned, and argued with? You know  this won’t do somewhere else. You know it won’t. What reason then,  ungenerous girl, can you have for arguing with me thus, but because you  think from my indulgence to you you may ?   What can I say ? What can I do ? What must that cause be that will not  bear being argued upon ?   Again ! Clary Harlowe —   Dearest Madam forgive me : it was always my pride and my pleasure to  obey you. But look upon that man — see but the disagreeableness of his  person — Now, Clary, do I see whose pei'son you have in your eye ! — Now is  M^’ Solmes, I see, but coinparatively disagreeable ; disagreeable only as an«  other man has a much more specious person.   But, Madam, are not his manners equally so 1 — Is not his person the true  representation of his mind ? — That other man is not, shall not be, anything  to me, release me from this one man, whom my heart, unbidden, resists.   Condition thus with your father. Will he bear, do you think, to be thus  dialogued with? Have I not conjured you, as you value my peace — What is  it that / do not give up ?*~-This very task, because I apprehended you would  not be easily persuaded, is a task indeed upon me. And will you give up  nothing ? Have you not refused as many as have been offered to you ? If you  would not have us guess for whom, comply ; for comply you must, or be  looked upon as in a state of defiance with your whole family. And saying  thus she arose, and went from me.’   Miss AusteiL.   The following examples of Miss Austen’s dialogue are not selected  because they are the most sparkling conversations in her works, but  rather because they appear to be typical of the way of speech of the  period, and further they illustrate Miss Austeff s incomparable art. The  first passage is ixomEmma^ which was written between i8ii and  3^5   i8i6. Mr. Woodhouse and his daughter have just received an invitation  to dine with the Coles, enriched tradespeople who had settled in the  neighbourhood. Emma's view of them was that they were ' very respect-  able in their way, but they ought to be taught that it was not for them to  arrange the times on which the superior families would visit them On  the present occasion, however, ‘ she was not absolutely w^ithout inclina-  tion for the party. The Coles expressed themselves so properly — there  was so much real attention in the manner of it — so much consideration  for her father/ Emma having decided in her own mind to accept the  invitation — some of her intimate friends were going — it remained to  explain to her father, the ailing and fussy Mr. Woodhouse, that he  would be left alone without his daughter s company for the evening, as it  was out of the question that he should accompany her. ‘ He was soon  pretty well resigned.’   ‘ I am not fond of dinner-visiting ” said he ; “I never was. No more is  Emma. Late hours do not agree with us. I am sorry and Cole  should have done it. I think it would be much better if they would come in  one afternoon next summer and take their tea with us ; take us in their  afternoon walk, which they might do, as our hours are so reasonable, and  yet get home without being out in the damp of the evening. The dews of  a summer evening are what I would not expose anybody to. However as  they are so very desirous to have dear Emma dine with them, and as you  will both be there [this refers to his friend Weston and his wife], and  Knightley too, to take care of her I cannot wish to prevent it, provided  the weather be what it ought, neither damp, nor cold, nor windy.” Then  turning to Weston with a look of gentle reproach — “Ah, Miss Taylor,  if you had not married, you would have staled at home with me.”   “ Well, Sir ”, cried Weston, as I took Miss Taylor away, it is incumbent  upon me to supply her place, if I can ; and I will step to M^’® Goddard in  a moment if you wish it.” . . . With this treatment M^ Woodhouse was  soon composed enough for talking as usual. “ He should be happy to see  M^*® Goddard. He had a great regard for Goddard; and Emma  should write a line and invite her. James could take the note. But first  there must be an answer written to M’^® Cole.”   “ You will make my excuses, my dear, as civilly as possible. You will say  that I am quite an invalid, and go nowhere, and therefore must decline their  obliging invitation ; beginning with my comj^limentsy of course. But you will  do everything right. I need not tell you what is to be done. We must  remember to let James know that the carriage will be wanted on Tuesday.  I shall have no fears for you with him. We have never been there above  once since the new approach was made ; but still I have no doubt that James  will take you very safely ; and when you gel there you must tell him at what  time you would have him come for you again ; and you had better name an  early hour. You will not like staying late. You will get tired when tea is over.”   “ But you would not wish me to come away before I am tired, papa ? ”   Oh no my love ; but you will soon be tired. There will be a great many  people talking at once. You will not like the noise.”   “But my dear Sir,” cried M^’ Weston, “if Emma comes away early, it  will be breaking up the party.”   “ And no great harm if it does ” said Woodhouse. “ The sooner every  party breaks up the better.”   “ But you do not consider how it may appear to the Coles. Emma’s going  away directly after tea might be giving offense. They are good-natured  people, and think little of their own claims ; but still they must feel that  anybody’s hurrying away is no great compliment ; and Miss Woodhouse’s doing it would be more thought of than any other personas in the room.  You would not wish to disappoint and mortify the Coles, I am sure, sir;  friendly, good sort of people as ever lived, and who have been your neighbours  these /en years.”   ‘^No, upon no account in the world, Weston, I am much obliged to  you for reminding me. I should be extremely sorry to be giving them any  pain. I know what worthy people they are. Peny tells me that Cole  never touches malt liquor. You would not think it to look at him, but he is  bilious — M^' Cole is very bilious. No, I would not be the means of giving  them any pain. My dear Emma we must consider this. I am sure rather  than run any risk of hurting and Cole you would stay a little longer  than you might wish. You will not regard being tired. You will be perfectly  safe, you know, among your friends.”   Oh 5^es, papa. I have no fears at all for myself ; and I should have no  scruples of staying as late as Weston, but on your account. I am only  afraid of your silting up for me. I am not afraid of your not being ex-  ceedingly comfortable with Goddard. ^ She loves piquet, you know ; but  when she is gone home I am afraid you will be sitting up by youiself, instead  of going to bed at your usual time ; and the idea of that would entirely  destroy my comfort. You must promise me not to sit up.” *   The next example is in a very different vein. It is from Sense and  Sensibility (chap, xxi) and records the mode of conversation of the  Miss Steeles. These two ladies are among Miss Austen's vulgar  characters, and their speech lacks the restraint and decorum which her  better-bred personages invariably exhibit. While the Miss Steeles’ con-  versation is in sharp contrast with that of the Miss Dashwoods, with  whom they are here engaged, both in substance and manner, it evidently  passed muster among many of the associates of the latter, especially with  their cousin Sir John Middleton, in whose house, as relations of his  wife's, the Miss Steeles are staying. Apart from the vulgarity of thought,  the diction appears low when compared with that of most of Miss Austen's  characters. As a matter of fact it is largely the way of speech of the  better society of an earlier age, which has come down in the world, and  survives among a pretentious provincial bourgeoisie.   ‘ ‘^What a sweet woman Lady Middleton is” said Lucy Steele . . . '‘And  Sir John too ” cried the elder sistei', “ what a charming man he is ! ” . . .   And what a charming little family they have ! I never saw such fine children  in my life. I declare I quite doat upon them already, and indeed I am  always destractedly fond of children.” "I should guess so” said Elinor  with a smile “from what I witnessed this morning.”   “I have a notion” said Lucy, “you think the little Middletons rather too  much indulged ; perhaps they may be the outside of enough ; but it is natural  in Lady Middleton; and for my part I love to see children full of life and  spirits ; I cannot bear them if they are tame and quiet”   “I confess ” replied Elinor, “that while I am at Barton Park, I never  think of tame and quiet children with any abhorrence.” *    “ And how do you like Devonshire, Miss Dashwood ? (said Miss Steele)  I suppose you were very sorry to leave Sussex.”   In some suiyrise at the familiarity of this question, or at least in the  manner in which it was spoken, Elinor replied that she was.   “Norland is a prodigious beautiful place, is not it?” added Miss Steele,  “We have heard Sir John admire it excessively,” said Lucy, who seemed  to think some apology necessary for the freedom of her sister. “ I think     MISS LUCY STEELE    B11   every one admire it ’'replied Elinor, “who ever saw the place; though  it is not to be supposed that any one can estimate its beauties as we do."   “ And had you many smart beaux there ? I suppose you have not so many  in this part of the world ; for my part I think they are a vast addition  always."   “ But why should you think " said Lucy, looking ashamec^ of her sister,  “that there are not as many genteel young men in Devonshire as Sussex."   “ Nay, my dear, Fm sure I don’t pretend to say that there an’t. Fm sure  there ’s a vast many smart beaux in Exeter ; but you know, how could I tell  what smart beaux there might be about Norland? and I was only afraid the  Miss Dashwoods might find it dull at Barton ; if they had not so many as  they used to have. But perhaps you young ladies may not care about beaux,  and had as lief be without them as with them. For my part, I think they are  vastly agreeable, provided they dress smart and behave civil. But I can’t  bear to see them dirty and nasty. Now, there’s Rose at Exeter, a pro-  digious smart young man, quite a beau, clerk to Simpson, you know,  and yet if you do but meet him of a morning, he is not fit to be seen. I sup-  pose your brother was quite a beau, Miss Dashwood, before he married, as  he was so rich ? "   “ Upon my word," replied Elinor, “I cannot tell you, for I do not per-  fectly comprehend the meaning of the word. But this I can say, that if he  ever was a beau before he married, he is one still, for there is not the smallest  alteration in him."   “ Oh ! dear 1 one never thinks of married men’s being beaux — they have  something else to do."   “Lord! Anne", cried her sister, “you can talk of nothing but beaux; —  you will make Miss Dashwood believe you think of nothing else."’   It is not surprising that ‘ “ this specimen of the Miss Steeles’" was enough.  The vulgar freedom and folly of the eldest left her no recommendation  and as Elinor was not blinded by the beauty, or the shrewd look of the  youngest, to her want of real elegance and artlessness, she left the house  without any wish of knowing them better   Greetings and Farewells.   Only the slightest indication can be given of the various modes of greet-  ing and bidding farewell These seem to have been very numerous, and  less stereotyped in the fifteenth and sixteenth centuries than at present. It  is not easy to be sure how soon the formulas which we now employ, or  their ancestral forms, came into current use. The same form often serves  both at meeting and parting.   In 1451, Agnes Paston records, in a letter, that "after evynsonge,  Angnes Ball com to me to my closett and dad me good evyn \ In the  account, quoted above, p. 362, given by Shillingford of his meetings  with the Chancellor, about 1447, he speaks of "saluting hym yn the  moste godely wyse that y coude ' but does not tell us the form he used.  The Chancellor, however, replies " Welcome^ ij times, and the tyme   Right met come Mayer'% and helde the Mayer a grete while faste by  the honde I   In the sixteenth century a great deal of ceremonial embracing and  kissing was in vogue. Wolsey and the King of France, according to  Cavendish, rode forward to meet each other, and they embraced each  other on horseback. Cavendish himself when he visits the castle of the  Lord of Cr^pin, a great nobleman, in order to prepare a lodging for the Cardinal, is met by this great personage, who ^ at his first coming  embraced me, saying I was right heartily welcome'. Henry VIII was  wont to walk with Sir Thomas More, ' with his arm about his neck \  The actual formula used in greeting and leave-taking is too often un-  recorded. When the French Embassy departs from England, whom  Wolsey has sb splendidly entertained, Cavendish says — ' My lord, after  humble commendations had to the French King bade them adieu'. The  Earl of Shrewsbury greets the Cardinal thus — ‘ My Lord, your Grace is  most heartily welcome unto me', and Wolsey replies ‘Ah my gentle  Lord of Shrewsbury, I heartily thank you '.   It is not until the appearance of plays that we find the actual forms of  greeting recorded with frequency. In Roister Doister, there are a fair  number: — God heepe thee worshipful Master Roister Doister; Welcome  my good wenche ; God you saue and see Nourse ; and the reply to this —  Welcome friend Merrygreeke; Good flight Roger old farewell   Roger old knaue ; well mef^ I bid you right welcome, A very favourite  greeting is God he with you,   God continue your Lordship is a form of farewell in Chapman's  Monsieur D'Olive, and God-den ‘ good evening occurs in Middleton's  Chaste Maid in Cheapside. Sir Walter Whorehoimd in the same play  makes use of the formula ‘ I embrace your acquaintance Sir \ to which  the reply is vows your service Str\ Massinger's New Way to pay  old Debts contains various formulas of greeting. I ain still your creature^  says Allworth to his step-mother Lady A. on taking leave ; of two old  domestics he takes leave with ‘ rny service to both \ and they reply ‘ ours  waits on you In reply to the simple Farewell Tom, of a friend,  All worth answers ^ All joy stay with you \ Sir Giles Overreach greets  Lord Lovel with ‘ Good day to My Lord ' ; and the prototype of the modern  how are you is seen in Lady Allworth's ‘ Hoiv dost thou Marrall P '  A graceful greeting in this play is ‘ Fou are happily encountered'.   The later seventeenth-century comedies exhibit the characteristic  urbanity of the age in their formulas of greeting and leave-taking.   ‘ A happy day to you Madam is Victoria's morning compliment to  Mrs. Goodvile in Otway's Friendship in Fashion, and that lady replies—  ‘ Dear Cousin, your humble servant'. Sir Wilfull Witwoud in Congreve's  Way of the World, says ‘ Save you Gentleman and Lady ' on entering  a room. His younger brother, on meeting him, greets him with ‘ Four  servant Brother", and the knight replies ‘ servant! Why yours Sir,  Four servant again ; "s heart, and your Friend and Servant to that \  Tm everlastingly your humble servant, deuce take me Madam, says Mr. Brisk  to Lady Froth, in the Double Dealer.   Your servant is a very usual formula at this period, on joining or  leaving company. In Vanbrugh's Journey to London, Colonel Courtly  on entering is greeted by Lady Headpiece — Colonel your servant; her  daughter Miss Betty varies it with^ — Four servant Colonel, and the visitor  replies to both — Ladies, your most ohedienL   Mr. Trim, the formal coxcomb in ShadwelFs Bury Fair, parts thus  from his friends — Sir, I kiss your hands ; Mr, Wildish— -S’/r your most  humble servant; Trim — Oldwii I am your most faithful servant;  Mr. Oldwit — Four servant sweet il/'* Trim, Four servant, madam good morrow to you, is Lady Arabella's greeting  to Lady Headpiece, who replies — to you Madam (Vanbrugh's  Journey to London). The early eighteenth century appears not to  differ materially from the preceding in its usage. Lord Formal in  Fielding's Love in Several Masques, says Ladies your most humble  servafit, and Sir Apish in the same play — Four Ladyships everlasting  creature^    Epistolary Formulas.   The writing of letters, both familiar and formal, is such an inevitable  part of everyday life, that it seems legitimate to include here some  examples of the various methods of beginning and ending private letters  from the early fifteenth century onwards. A proper and exhaustive  treatment of the subject would demand a rather elaborate classification,  according to the rank and status of both the writer and the recipient,  and the relation in which they stood to each other — whether master  and servant, or dependant, friend, subject, child, spouse, and so on.  In the comparatively few examples here given, out of many thousands,  nothing is attempted beyond a chronological arrangement The status  and relationship of the parties is, however, given as far as possible. We  note that the formula employed is frequently a conventional and more  or less fixed phrase which recurs, with slight variants, again and again.  At other times the opening and closing phrases are of a more personal  and individual character.   1418. Archbp* Chichele to Hen. V, Signs simply: your preest and bede-  man. — Ellis, i. i. 5.   142 5. IVilL Fasten to . Right worthy and worshepfull Sir. I recom-   maunde me to you, &c. Ends : Almyghty God have you in his governaunce.  Your frend unknowen. — Past. Letters, i. 19-20.   1440. Agnes to Will. Fasten. Inscribed: To my worshepful housbond  W. Paston be this letter takyn. Dere housbond I reccommaunde me to yow.  Ends : The Holy Trinite have you in governaunce. — P. L. i. 38-9.   1442-5. Dtike of Buckingham to Lord Beau 7 nont, Ryght worshipful and  with all my herte right enterly beloved brother, I recomaunde me to you,  thenking right hastili your good brotherhode for your gode and gentill letters.  I beseche the blissid Trinite preserve you in honor and prosperite. Your  trewe and feithfull broder H. Bukingham. — P. L- i. 61-2.   1443. Margaret to John Paston. Ryth worchipful husbon, I reccomande  me to yow desyryng her tel y to her of your wilfar. Almyth God have you in  his kepyn and sendo yow helth, Yorys M. Paston. — P. L. i. 48-9.   1444. James Gresham to Will. Fasten. Please it your good Lordship to  wete, &c. Ends : Wretyn right simply the Wednesday next to fore the Fest.  By your laiost symple servaunt — P. L. i, 50.   1444, Duchess of Norfolk to J. Past 07 i. Ryght tmsty and entirely wel-  bclovcd we grete you wel hertily as we kan , . . and siche agrement as, &c.  ... we shall duely performe yt with the myght of Jesu who haff you in his  blissed keping. — P. L. i. 57,   1444. Sir R. Ckamberlayn to Agn. Paston. Ryght worchepful cosyn,  I comand me to you. And I beseche almyty God kepe you. Your Cosyn  Sir Roger Chamberlain.   1445. Agnes to Edm. Fasten. To myn welbelovid sone. I grete you wel.  Be your Modre Angnes Paston.— i, 58, 59.     380 COLLOQUIAL IDIOM   1449, Marg, to John Paston. Wretyn at Norwych in hast, Be your gronyng  Wyfr.-~i. 76“7-   1449. Same to sa 7 ne. No mor I wryte to ^ow atte this tyme* Your Mar-  karyte Paston. — i. 42-3.   1449. John Paston, Ends : Be ^owre pore Broder*   1449. E Its. ^ Clare to J, Paston, No raore I wrighte to 50 w at this tyme,  but Holy Cost have 50W in kepyng. Wretyn in haste on Scynt Peterys day  be candel lyght, Be your Cosyn E. C. — P. L. i. 89-90.   1450. Duke of Suffolk to his son. My dear and only welbeloved sone.  Your trewe and lovynge fader Suffolk. — P. L. i. 12 1-2.   1450, IVilL Lomme to J, Paston, I prey you this bille may recomaunde  me to mastrases your moder and wyfe. Wretyn yn gret hast at London. —  P.L. i. 126.   1450. y. Gresham to ^ my Mats ter Whyte Esguyer\ After due recomen-  dacion I recomaund me to yow.   1450. J, Paston to above, James Gresham, I pray you labour for the, &c.  — i. 145*   1450. Justice Yelverton to Sir J, Fastolf, By your old Servaunt William  Yelverton Justice. — P, L. i. 166.   1453. Agnes toJ, Paston, Sone I grete you well and send you Godys  blessyng and myn. Wretyn at Norwych ... in gret hast, Be your moder  A. Paston. — P. L. i. 259.   1454. J, Paston to Earl of Oxford* Youre servaunte to his powr John  Paston. — P. L. i. 276,   1454. Lord Scales to J, Paston, Our Lord have you in governaunce. Your  frend The Lord Scales. — P. L. i. 289.   1454, Thomas Howes to J, Paston, I pray God kepe yow. Wiyt at Castr  hastly ij day of September, Your owne T. Howes. — P. L. i. 301.   1454. The same. Your chapleyn and bedeman Thomas Howes.— *i. 31 8.   1455. /• PoLstolf to Duke of Norfolk, Writen at my pore place of  Castre, Your humble man and servaunt. — P. L. i. 324.   1455. /. Cudworth, Bp. of Lmcoln^ to J, Patton, And Jesu preserve you,  J. Bysshopp of Lincoln. — P.L. i. 350.   1456. Archbp, Bourchier to Sir J, Fastolf, The blissid Trinitee have you  everlastingly in His keping, Written in my manoir of Lamehith, Your feith-  full and trew Th, Cant. — P. L. i. 382.   1456 (Nephew to uncle). H, Fylinglay to Sir J, Fastolf Ryght wor-  shipful unkell and my ryght good master, I recomniaund me to yow wyth all  my servys. And Sir, my brother Paston and I have, &c. . . . Your nevew  and servaunt — P. L. i. 397.   1458. John Jerningham to Marg, Paston. Nomor I wryte unto you at  this tyme. . . . Your owne umhle servant and cosyn J. J.— P, L. i. 429.   1458 (Daughter to her mother). Elh, Poynings to Agn, Paston, Right  worshipful and my most entierly belovde moder, in the most lowly maner  I recomaund me unto your gode moderhode. . . . And Jesu for his grete  mercy save yow. By your humble daughter. — P. L. i, 434-5.   1469. Chancellor and University of Oxford to Sir John Say, Ryght wor-  shipful our trusty and entierly welbeloued, after harty commendacyon. . . .  Ends : yo’-' trew and harty louers The Chancelir and Thuniversite of Oxon-  ford. — Ellis.   1477. John Paston to Ms mother* Your sone and humbyll servaunt P. —  P. L. iii. 176.   1481-4. Edm, Paston to Ms mother, umble son and servant. —   P. L. iii, 280.   1482. J, Paston to Ms mother. Your sone and trwest servaunt — P. h*  iii. 290.   1482. Margery Paston to her hushaftd. No more to you at this tyme, Be  your servaunt and bede woman.— iii. 293, 1485. Duke of Norfolk to J, Faston. Welbelovyd frend I cummaund me  to yow. . . . I shall content you at your metyng with me, Yower lover J. Nor-  folk.— iii. 320,   1485. Eliz, Browne to J. Paston. Your loving awnte E. B.   1485. Duke of Suffolk to f Paston, Ryght welbeloved we grete you well.  . , . Suffolk, yor frende. — iii. 324-5.   1490. Bp* of Durham to Sir fohn Paston* IH2, Xps*. Rygiit wortchipful  sire, and myne especial and of long tyme apprevyd, trusty and feythful frende,  I in myne hertyeste wyse recommaunde me un to you. . . , Scribyllyd in the  moste haste, at my castel or manoir of Aucland the xxvij of Januay. Your  own trewe luffer and frende John Duresme. — iii. 363.   1490. Lumen H ary son to Sir f Past on. Onerabyll and well be lov^^'d  Knythe, I commend me on to 5our masterchepe and to my lady 5owyr wyffe.  . , . No mor than God be wyth 50W, L. H. at ^ouyr comawndment.   1503. Q. Margaret of Scotland to her father Hen. VII. My moste dere  iorde and fader in the most humble wyse that I can thynke I recommaunde  me unto your Grace besechyng you off your dayly blessyngys. . . . Wrytyn  wyt the hand of your humble douter Margaret. — Ellis i. i. 43.   Hen. VI J to his Mother.^ the Countess of Richmond. Madam, my most  enterely wilbeloved Lady and Moder . . . with the hande of youre most  humble and lovynge sone. — Ellis, i. i. 43-5.   Margaret to Hen. VI 1 . My oune suet and most deare kynge and all my  worldly joy, yn as humble manner as y can thynke I recommand me to your  Grace ... by your feythful and trewe bedewoman, and humble modyr Mar-  garet R, — Ellis, i. I. 46.   1513. Q. Margaret oj Scotland to Hen. VI IL Richt excellent, richt hie  and mithy Prince, our derrist and best belovit Brothir. . . . Your louyn systar  Margaret. — Ellis, i. i. 65. (The Queen evidently employed a Scottish Secre-  tary.)   1515. Margaret to Wolsey. Yours Margaret R. — Ellis, i. i. 131.   1515. Thos. Lord Howard, Lord Admiral, to Wolsey. My owne gode  Master Awlmosner. . . . Scrybeled in gret hast in the Mary Rose at Plymouth  half o^' after xj at night . . . y^ own Thomas Howard.   c. 1515. West Bp. of Ely to Wolsey. Myne especiall good Lorde in my  most humble wise I recommaund me to your Grace besechyng you to con-  tynue my gode Lorde, and I schall euer be as I am bounden your dayly  bedeman. . . . Y^ chapelayn and bedman N 1 . Elien.   c. 1520. Archbp. Warham to Wolsey. Please ityo^ moost honorable Grace  to understand. ... At your Graces commaundement, Willm. Cantuar. —  Ellis, iii. I. 230. Also : Euer, your own Willm. Cantuar.   Langland Bp. of Lincoln to Wolsey. My bownden duety mooste lowly  remembrede unto Your good Grace. . . . Yo^ moste humble bedisman John  Lincoln.— Ellis, iii. l. 248.   Cath, of Aragon to Princess Mary. Doughter, I pray you thinke not, &c.  —Ellis, i, 2. 19, • . . Your lovyng mother Katherine the Queue.   Archibald, E. of Angus. Addresses letter to Wolsey : To my lord Car-  dinallis grace of Ingland. — Ellis, iii. i. 291.   1521. Bp. Tunstal to Wolsey. Addresses letter :— to the most reverend  fader in God and his most singler good Lorde Cardinal. — Ellis, iii. i* 273.   Ends a letter : By your Gracys most humble bedeman Cuthbert TunstalL  —Ellis, iii. I. 332 -   1515 or 1521. Duke of Buckingham to Wolsey, Yorys to my power  E. Bukyngham.   Gccvin Douglas, Bp. of Dunkeld, to Wolsey. ZgI chaplan wy^ his lawfull  seruyse Gavin bischop of Dunkeld.— Ellis, iii. i. 294- Zo^ humble servytor  and Chaplein of Dunkeld.— Ellis, iii. i. 296. Zo^ humble seruytor and  dolorous Chaplan of Dunkeld.— Ellis, iii. i. 303-   Wolsey to Gardiner {afterwards Bp. of Winchester)* Ends : Your assurjd  lover and bedysman T. Car^s Ebor.— Ellis, i. 2. 6. Again : Wryttyn hastely  at Asher with the rude and shackyng hand of your dayly bedysman and  assuryd frende T. Car^^® Ebor.   1532. T/ios, AudUy {Lord Keeper) to CromwelL Yo^' assured to his litell  Thomas Audeley Gustos Sigiili.   Edw. E, of Hertford {afterwards Lord Protector). Thus I comit you to  God hoo send yo^‘ lordshep as well to far as I would mi selfe . . . w^ the hand  of yo^ lordshepis assured E. Hertford.   Hen. VI 11 to Catherine Parr. No more to you at thys tyme swethart  both for lacke off tyme and gret occupation off bysynes, savyng we pray you  in our name our harte blessyngs to all our chyldren, and recommendations to  our cousin Marget and the rest off the laddis and gentyll women and to our  Consell alsoo. Wryttyn with the hand off your lovyng howsbande Henry R.  — Ellis, i. 2. 130.   Princess Mary to CromwelL Marye Princesse. Maister Cromwell I  commende me to you. — Ellis, i. 2. 24,   Prince Edward to Catherine Parr. Most honorable and entirely beloued  mother. . . . Your Grace, whom God have ever in his most blessed keping.  Your louing sonne, E. Prince. — Ellis, i. 2. 13 1.   1547. Henry Radclyf E. of Sussex, to his wife. Madame with most  lovyng and hertie commendations. — Ellis, i. 2. 137.   Princess Elizabeth to Ediv. VI. Your Maiesties humble sistar to com-  maundement Elizabeth. — Ellis, i. 2. 146 ; Your Maiesties most humble sistar  Elizabeth. — Ellis, i. 1. 148.   Princess Elizabeth to Lord Protector. Your assured frende to my litel  power Elizabeth. — Ellis, i. 2. 158.   Edward VI to Lord Protector Somerset. Derest Uncle. . . • Your good  neuew Edward. — Ellis, ii. i. 148.   Q.Mary to Lord Admiral Seymour. Your assured frende to my power  Marye. — Ellis, i. 2. 153.   Princess Elizabeth to Q. Mary (on being ordered to the Tower). Your  Highnes most faithful subjec that hath bine from the begining and wyl be to  my ende, Elizabeth. (Transcr. of 1732). — Ellis, ii. 2. 257.   1553, Princess Elizabeth to the Lords of the Council. Your verye lovinge  frende, Elizabeth- — Ellis, ii. 2. 213.   1554, Henry Darnley to Q. Mary of England. Your Maiesties moste  bounden and obedient subjecte and servant Henry Darnley.   Queen Dowager to Lord Admiral Seymour. By her ys and schalbe  your humble true and lovyng wyffe duryng her lyf Kateryn the Quenc. — Ellis,  i. 2. 152.   Q. Mary to Marquis of Winchester, Your Mystresse assured Marye the  Queue. -—Ellis, ii. 2. 252.   Sir John Grey of Pyrgo to Sir William Cecil. It is a great while me  thinkethe, Cowsine Cecill, since I sent unto you. ... By your lovyng cousin  and assured frynd John Grey. — Ellis, ii, 2. 73-4; Good cowsyne Cecil!. . , .  By yo^ lovyng Cousine and assured pouer frynd dowring lyfe John Grey. —  Ellis, ii. 2. 276.   Lady Catherine Grey, Cmmtess of Hertford, to Sir W, Cecil. Good cosyne  Cecill . . . Your assured frend and cosyne to my small power Katheryne  Hartford. — Ellis, ii. 2. 278 ; Your poore cousyne and assured frend to my  small power Katheryne Hartford. — Ellis, ii. 2. 287.   1564. Sir W. Cecil to Sir Thos. Smith. Your assured for ever W. Cecill.  — Ellis, ii. 2. 295 ; Yours assured W. Cecill— Ellis, ii, 2. 297 ; Your assured  to command W, Cecill — Ellis, ii. 2, 300.   1 566. Duchess of Somerset to Sir W. Cecil. Good M^ Secretary, yf I have  let you alone all thys whyle I pray you to thynke yt was to tary for my L, of  Leycesters assistans. ... I can nomore . . , and so do leave you to God Yo’^  assured lovyng frynd Anne Somerset,— Ellis, ii. 288. Christopher Jonson, Master of Winchester^ to Sir W, CeciL Right  honourable my duetie with all humblenesse consydered. . . . Your honoures  most due to commando, Christopher Jonson. — Ellis, ii. 2. 313.   1569. Lacfy Stanhope to Sir W, CeciL Right honorable, my humble  dewtie premised. . . . Your honors most humblie bound Anne Stanhope. —  Ellis, il 2. 324. _ ^ ^ ^ ,   1574. Sir Philip Sidney to the E. of Leicester, Righte Honorable and my  singular good Lorde and Uncle. . . . Your L. most obedi. . . , Philip Sidney.  —Works, p. 345.   1576. Sir Philip Sidney to Sir Francis Walsingham, Righte Honorable  ... I most humbly recommende my selfe unto yow, and leaue yow to the  Eternals most happy protection, . , . Yours humbly at commawndement  Philipp Sidney.   1578. Sir Philip Sidney to Edward Molineux^ Esq. (Secretary to Sir H.  Sidney), Molineux, Few words are best My letters to my father have  come to the eyes of some. Neither can I condemn any but you. . . . (The  writer assures M. that if he reads any letter of his to his father ^ without his  commandment or my consent, I will thrust my dagger into you. And trust  to it, for I speak it in earnest’. . . .) In the meantime farewell. From court  this last of May 1 578, By me Philip Sidney.— p. 328.   1580. Sir Philip Sidney to his brother Robert. My dear Brother . . .  God bless you sweet boy and accomplish the joyful hope I conceive of you.  , . . Lord I how I have babbled : once again farewell dearest brother. Your  most loving and careful brother Philip Sidney.   1582. Thomas Watson ^ To the frendly Reader^ (in Passionate Centurie of  Love). Courteous Reader , . . and so, for breuitie sake (I) aprubtlie make and  end ; committing the to God, and my worke to thy fauour. Thine as thou  art his, Thomas Watson.   Anne of Denmark to James L Sir ... So kissing your handes I remain  she that will ever love Yow best, Anna R. — Ellis, i. 3. 97.   c. 1585. Sir Philip to Walsingham. Sir , . . your louing cosin and frend.  In several letters to Walsingham Sidney signs *your humble Son’. ^   1586. Wm. Webbe to Ma. (= ^ Master ’) Edward Sulyard Esquire (Dedi-  catory Epistle to the Discourse of English Poetrie). May it please you Syr,  thys once more to beare with my rudenes, &c. ... I rest, Your worshippes  faithfull Seruant W. W.   1593. Edward Alleyn to his wife. My good sweete mouse . . . and so  swett mouse farwell. — Mem. of Edw. Alleyn, L 36; my good sweetharte and  loving mouse . . . thyn ever and no bodies else by god of heaven. — ibid.   1596, Thos., Lord Buckhurst, afterwards Earl of Dorset^ to Sir Robert  CeciL Sir . . . Your very lo: frend T. Buckhurst.   1 597, Sir W. Raleigh to Cecil. S*^ I humblie thanke yow for your letter . , .  S^ I pray love vs in your element and wee will love and honor yow in ours  and every wher. And remayne to be comanded by yow for evermore  W Ralegh.   1602. Same to same. Good Secretary. . . . Thus I rest, your very  loving and assured frend T, Buckhurst,— Works, xxxiv-xi.   1603. Same to same. My very good Lord. . ♦ . So I rest as you know,  Ever yours T. Buckurst   1605, Same to same. ... I pray God for your health and for mine own  and so rest Ever yours ...   1607. Same to the University of Oxford. Your very loving friend and  Chancellor T. Dorset— xlvi.   cr. 1608. Sir Menry Wotton to Henry Prince of Wales. Youre zealous  pooie servant H. W. — Ellis, i. 3* loo.   Q. Anne of Denmark to Sir George Villiers (afterwards Duke of Buc-  kingham). My kind Dog. # • . So wishing you all happiness Anna R.  Ellis, i. 3, ICO. Charles Duke of York to Prince Heniy. Most loving Brother  I long to see you, . . . Your H. most loving brother and obedient servant,  Charles. — Ellis, i. 3. 96.   1612. Prince Charles to James L Your most humble and most   obedient sone and servant Charles. — Ellis, i. 3. 102.   Same to Viljiers. Steenie, There is none that knowes me so well as your-  self. . , . Your treu and constant loving frend Charles P. — Ellis, i. 3. 104.   King Jaynes to Buckingham or to Prince Charles, My onlie sweete and  deare chylde I pray thee haiste thee home to thy deare dade by sunne setting  at the furthest. — Ellis, i. 3. 120.   Sa 7 ne to Buckingham, My Steenie. . . . Your clear dade, gosseppe and  stewarde. — Ellis, i. 3, 159.   Same to both. Sweet Boyes. . . . God blesse you both my sweete babes,  and sende you a safe and happie returne, James R. — Ellis, i. 3 121.   Prmce Charles a?id Buckingham to James, Y’our Majesties most humble  and obedient sone and servant Charles, and your humble slave and doge  Steenie.—Ellis, i. 3. 122.   1623. Buckingham to James. Dere Dad, Gossope and Steward. . . • Your  Majestyes most humble slave and doge Steenie. — Ellis, i, 3. 146-7.   1623. Lord Herbert to James, Your Sacred Majesties most obedient,  most loyal, and most affectionate subjecte and servant, E. Herbert   The letters of Sir John Suckling (Works, ii, Reeves & Turner) are  mostly undated, but one to Davenant has the date 1629, and another to  Sir Henry Vane that of 1632.   The general style is more modern in tone than those of any of the  letters so far referred to. (See on Suckling’s style, pp. 152-3.) The  beginnings and endings, too, closely resemble and are sometimes identical  with those of our own time.   To Davenant, Vane, and several other persons of both sexes, Suckling  signs simply — ^ Your humble servant J. S.’, or 'J. Suckling’. At least  two, to a lady, end * Your humblest servant The letter to Davenant  begins ‘WilL; that to Vane — ‘Right Honorable’. Several letters  begin ‘ Madam ‘ My Lord one begins ‘ My noble friend another  ‘ My Noble Lord several simply ‘ Sir The more fanciful letters,  to Aglaura, begin ‘ Dear Princess ’, ‘ Fair Princess ’, ‘ My clear Dear  ‘ When I consider, my dear Princess ’, &c. One to a cousin begins  ‘ Honest Charles   The habit of rounding off the concluding sentence of a letter so that  the valedictory formula and the writer’s name form an organic part of it,  a habit very common in the eighteenth century — in Miss Burney, for  instance — is found in Suckling’s letters. For example : ‘ I am still the   humble servant of my Lord that 1 was, and when I cease to be so,   I must cease to be John Suckling’; ‘yet could never think myself  unfortunate, while I can write myself Aglaura her humble servant ’ ; ‘ and  should you leave that lodging, more wretched than Montferrat needs  must be your humble servant J. S.’, and so on.   The longwindedness and prolixity wiiich generally distinguish the  openings and closings of letters of the fifteenth and the greater part of  the sixteenth century, begin to disappear before the end of the latter  period. Suckling is as neat and concise as the letter-writers of the  eighteenth century. ‘Madam, your most humble and faithful servant'  might serve for Dr. Johnson.  Most of our modern formulas were in use before the end of the first  half of the seventeenth century, though some of the older phrases still  survive. But we no longer find " I commend me unto your good master-  ship, beseeching the Blessed Trinity to have you in his governance and  such-like lengthy introductions. The Correspondence of Dr. Basire (see  pp. 163-4) is very instructive, as it covers the period from 1634 to 1675,  by which latter date letters have practically reached their modern form.  Dr. Basire writes in 1635-6 to Miss Frances Corbet, his fiancee, 'Deare  Fanny ^ Deare Love ^ ^ Love and ends ' Your most faithfuil frend J. B.',  'Thy faithful frend and loving servaunt J. B.", 'Your assured frend  and loving well-wisher J. B/, 'Your ever iouing frend J. B.' When  Miss Corbet has become his wife, he constantly writes to her in his  exile which lasted from 1640 to 1661, letters which apart from our present  purpose possess great human and historical interest. These letters generally  begin ' My Dearest', and ' My deare Heart', and he signs himself ' Your  very Iouing husband', 'Yours, more than ever', 'Your faithful husband',  ' My dearest. Your faithful friend ', ' Yours till death ' Meanewhile assure  your selfe of the constant love of— My dearest — ^Your loyall husband   The lady to whom these affectionate letters were addressed, bore with  wonderful patience and cheerfulness the anxieties and sufferings incident  upon a state bordering on absolute want caused by her husband's depriva-  tion of his living under the Commonwealth, his prolonged absence, together  with the cares of a family of young children, and very indifferent health.  She was a woman of great piety, and in her letters ‘ many a holy text  around she strews ' in reply to the religious soliloquies of her husband. Her  letters all begin ' My dearest ’, and they often begin and close with pious  exclamations and phrases — 'Yours as much as euer in the Lord, No, more  thene euer ' ; ' My dearest, I shall not faile to looke thos plases in the  criptur, and pray for you as becometh your obedient wife and serunt in  the Lord F. B. ’ ; another letter is headed ' Jesu 1 and ends — ' I pray God  send vs all a happy meting, I ham your faithful in the Lord, F. B.'  Many of the letters are headed with the Sacred Name. Others of  Mrs. Basire's letters end — 'Farwall my dearest, I ham yours faithful  for euer'; 'I euer remine Yours faithfuil in the Lord'; 'So with my  dayly prayers to God for you, I desire to remene your faithfuil loveing  and obedient wif '.   It may be worth while to give a few examples of beginnings and ends  of letters from other persons in the Basire Correspondence, to illustrate  the usage of the latter part of the seventeenth century.   These letters mostly bear, in the nature of an address, long superscrip-  tions such as 'To the Reverend and ever Honoured Doctour Basire,  Prebendary of the Cathedral Church in Durham. To be recommended  to the Postmaster of Darneton' (p. 213, dated 1662).   This letter, from Prebendary Wrench of Durham, begins ' Sir and  ends — ' Sir, Your faithfuil and unfeigned humble Servant R. W.'   In the same year the Bishop of St. David's begins a letter to Dr. Basire  — ' Sir and ends — ' Sir, youre uerie sincere friend and seruant, Wil.  St, David's p. 219,   The Doctor's son begins — ' Reverend Sir, and most loving Father '  and ends with the same formula, adding — ' Your very obedient Son, P. B ^   p. 221. To his Bishop (of Durham) Dr. Basire begins 'Right Rev.  Father in God, and my very good Lord ending ' I am still, My L<i,  Your Lp 3 . faithfull Servant Isaac Basire’. In 1666 the Bishop of Carlisle,  Dr. Rainbow, evidently an old friend of Dr. B/s, begins 'Good  Mr. Archdeacon and ends ' I commend you and yours to God’s grace  and remaine,'Your very faithfull frend Edw, Carlioi’, p. 254.   In 1668 the Bishop of Durham begins ' M^ Archdeacon ’ and ends ' In  the interim I shall not be wanting at this distance to doe all I can, who  am, Sir, Your very loving ffriend and servant TJo. Duresme', p. 273.  Dr. Barlow, Provost of Queen’s, begins 'My Reverend Friend’, and  ends ‘Your prayers are desired for, Sir, Your affectionate friend and  Seruant, Tho. Barlow’, p. 302 (1673). Dr. Basire begins a letter to  this gentleman — ‘ Rev. Sir and my Dear Friend ’ . . , ending ' I remain,  Reverend Sir, Your affectionate frend, and faithful servant To his  son Isaac, he writes in 1664 — 'Beloved Son’, ending — ‘So prays your  very lovinge and painfull Father, Isaac Basire ’.   Having now brought our examples of the various types of epistolary  formulas down to within measurable distance of our own practice, we  must leave this branch of our subject. Space forbids us to examine and illus-  trate here the letters of the eighteenth century, but this is the less necessary  as these are very generally accessible. The letters of that age, formal or  intimate, but always so courteous in their formulas, are known to most  readers. Some allusion has already been made (pp. 20-1) to the tinge of  ceremoniousness in address, even among friends, which survives far into  the eighteenth century, and may *be seen in the letters of Lady Mary  Montagu, of Gray, and Horace Walpole, while as late as the end of the  century we find in the letters of Cowper, unsurpassed perhaps among  this kind of literature for grace and charm, that combination of stateliness  with intimacy which has now long passed away.    Exclamations, Expletives, Oaths, &e.   Under these heads comes a wide range of expressions, from such as  are mere exclamations with little or no meaning for him who utters or  for him who hears them, or words and phrases added, by way of emphasis,  to an assertion, to others of a more formidable character which are  deliberately uttered as an expression of spleen, disappointment, or rage,  with a definitely blasphemous or injurious intention. In an age like  ours, where good breeding, as a rule, permits only exclamations of the  mildest and most meaningless kind, to express temporary annoyance,  disgust, surprise, or pleasure, the more full-blooded utterances of a former  age are apt to strike u$ as excessive. Exclamations which to those who  used them meant no more than ' By Jove ’ or ' my word ’ do to us, would  now, if they were revived appear almost like rather blasphemous irreve-  rence. It must be recognized, however, that swearing, from its mildest  to its most outrageous forms, has its own fashions. These vary from  age to age and from class to class. In every age there are expressions  which are permissible among well-bred people, and others which are not.  In certain circles an expression may be regarded with dislike, not so much because of any intrinsic wickedness attributed to it, as merely  because it is vulgar. Thus there are many sections of society at the  present time where such an expression as ‘ O Crikey * is not in use. No  one would now pretend that in its present form, whatever may underlie  it, this exclamation is peculiarly blasphemous, but many persons would  regard it with disfavour as being merely rather silly and distinctly  vulgar. It is not a gentleman’s expression. On the other hand, ^ Good  Heavens \ or ^ Good Gracious \ while equally innocuous in meaning and  intention, would pass muster perhaps, except among those who object, as  many do, to anything more forcible than ‘ dear me \   Human nature, even when most restrained, seems occasionally to  require some meaningless phrase to relieve its sudden emotions, and the  more devoid of all association with the cause of the emotion the better  will the exclamation serve its purpose. Thus some find solace in such  a formula as ‘ O liitle haiC which has the advantage of being neither  particularly funny nor of overstepping the limits of the nicest decorum,  unless indeed these be passed by the mere act of expressing any emotion  at all. It is really quite beside the mark to point out that utterances of  this kind are senseless. It is of the very essence of such outbursts — the  mere bubbles on the fountain of feeling — ^that they are quite unrelated  to any definite situation. There is a certain adjective, most offensive to  polite ears, which plays apparently the chief r 61 e in the vocabulary of  large sections of the community. It seems to argue a certain poverty  of linguistic resource when we find that this word is used by the same  speakers both to mean absolutely nothing — being placed before every  noun, and often adverbially before all adjectives — and also to mean a  great deal — everything indeed that is unpleasant in the highest degree.  It is rather a curious fact that the word in question while always impos-  sible, except perhaps when used as it were in inverted commas, in such  a way that the speaker dissociates himself from all responsibility for, or  proprietorship in it, would be felt to be father more than ordinarily  intolerable, if it were used by an otherwise polite speaker as an absolutely  meaningless adjective prefixed at random to most of the nouns in a sen-  tence, and worse than if it were used deliberately, with a settled and full  intent. There is something very terrible in an oath torn from its proper  home and suddenly implanted in the wrong social atmosphere. In these  circumstances the alien form is endowed by the hearers with mysterious  and uncanny meanings ; it chills the blood and raises gooseflesh.   We do not propose here to penetrate into the sombre history of  blasphemy proper, nor to exhibit the development through the last few  centuries of the ever-changing fashions of profanity. At every period  there has been, as Chaucer knew —   a companye   Of yonge folk, that haunteden folye,   As ryot, hasard, stewes and tavemes,   Wher-as with harpes, lutes and gitemes, ^   They daunce and pleye at dees both day and night,   And ete also and drinken over hit might,   Thurgh which they doon the devel sacrifyse  Within the develes tempel in cursed wyse,   By superfiuitee abhominable;   c c 2   Hir othes been so grete and so dampnable^   That it is grisly for to here hem swere ;   Our blissed lordes body they to-tere;   Hem though te Jewes rent him noght y-nough.   We are concerned, for the most part, with the milder sort of expres-  sions which serve to decorate discourse, without symbolizing any strong  feeling on the part of those who utter them. Some of the expletives  which in former ages were used upon the slightest occasion, would  certainly appear unnecessarily forcible for mere exclamations at the  present day, and the fact that such expressions were formerly used so  lightly, and with no blasphemous intention, shows how frequent must  have been their employment for familiarity to have robbed them of all  meaning.   So saintly a person as Sir Thomas More was accustomed, according  to the reports given of his conversation by his son-in-law, to make use  of such formulas as a Gods name^ p. xvi ; would to God, ibid. ; in good  faith, xxviii, but compared with some of the other personages mentioned  in his Life, he is very sparing of such phrases. The Duke of Norfolk,  ‘his singular deare friend*, coming to dine with Sir Thomas on one  occasion, ‘ fortuned to find him at Church singinge in the quiere with  a surplas on his backe ; to whome after service, as the(y) went home  togither arme in arme, the duke said, “ God body, God body, My lord  Chauncellor, a parish Clark, a parish Clarke ! ” '   On another occasion the same Duke said to him ^ By the Masse,  Moore, it is perillous strivinge with Princes ... for Gode's body,  Moore, Indignatio principis mors est *, p. xxxix. In the conversation  in prison, with his wife, quoted above, p. 364, we find that the good  gentlewoman ‘ after her accustomed fashion * gives vent to such exclama-  tions as ‘ What the goody ear e Moore ' : ‘ Tille mile, tille vallc ' ; ^ Bone   deus, hone Deus man \ ‘ I muse what a Gods name you meane here thus  fondly to tarry*. At the trial of Sir Thomas More, the Lord Chief  Justice swears by St, Julian — ‘ that was ever his oath p. li.   ‘ Tilly folly, Sir John, ne’er tell me and ‘ What the good year ! ' are  both also said by Mrs. Quickly in Henry IV, Pt. II, ii. 4. Marry, which  means no more than ‘ indeed *, was a universally used expletive in the  sixteenth century, Roper uses it in speaking to More, Wolsey uses it,  according to Cavendish ; it is frequent in Roister Doister, and is con-  stantly in the mouths of Sir John Falstaff and his merry companions.  By sweete Sanct Anne, by cocke, by gog, by cocks precious potsiick, kocks  nownes, by the armes of Caleys, and the more formidable by the passion of  God Sir do not so, all occur in Roister Doister, and further such exclama-  tions as O Lords, hoigh dagh !, I dare sweare, I shall so God me saue,  I make God a vow (also written avow), would Christ I had, &c. Meaning-  less imprecations like the Devil take me, a mischiefe take his token and him  and thee too are sprinkled about the dialogue of this play. The later plays  of the great period offer a mine of material of this kind, but only a few  can be mentioned here. What a Devil (instead of the Devil), what a pox,  hfr lady, bounds, d blood, Gods body, by the mass, a plague on thee, are  among the expressions in the First Part of Henry IV, In the Second  Part Mr. Justice Shallow swears by cock and pie. By the side of these  are mild formulas such as Tm a Jew else^ Tm a rogue if I drink today.   In Chapman’s comedies there is a rich sprinkling both of the slighter  forms of exclamatory phrases, as well as of the more serious kind. Of  the former we may note j/ faitk^ Ur lord^ Ur lady, by the Lord, How the  divell (instead of how a devil), all in A Humorous Day's Mirth ; He he  sworne, All Fooles; of the latter kind of expression Gods precious soles.,  H. D. M. ; sjoot, shodie, God^s my life, Mons. D'Olive ; Gods my passion,  H. D. M. ; swounds, zwoundes, Gentleman Usher.   Massinger's New Way to pay old Debts has 'slight, 'sdeath, and a fore-  shadowing of the form of asseveration so common in the later seventeenth  century in the phrase — ‘ If I know the mystery . . . may I perish ii. 2,   It is to the dramatists of the later seventeenth and early eighteenth  century that the curious inquirer will go for expletives and exclamatory  expressions of the greatest variety. Otway, Congreve, and Vanbrugh  appear to excel all their predecessors and contemporaries in the fertility  of their invention in this respect. It is indeed probable that while some  of the sayings of Mr. Caper, my Lady Squeamish, my Lady Plyant,  my Lord Foppington, and others of their kidney, are the creations of the  writers who call these ' strange pleasant creatures ' into existence, many  others were actually current coin among the fops and fine ladies of the  period. Even if many phrases used by these characters are artificial con-  coctions of the dramatists they nevertheless are in keeping with, and  express the spirit and manners of the age. If Mr. Galsworthy or  Mr. Bernard Shaw were to invent corresponding slang at the present  day, it would be very different from that of the so-called Restoration  Dramatists. The bulk of the following selection of expletives and oaths is  taken from the plays of Otway, Congreve, Wycherley, Mrs. Aphra Behn,  Vanbrugh, and Farquhar. A few occur in Shadwell, and many more  are common to all writers of comedies. These are undoubtedly genuine  current expressions some of which survive.   Among the more racy and amusing are : —   Ld me die : ‘ Let me die your Ladyship obliges me beyond expression*  (Mr. Saunter in Otway's Friendship in Fashion) ; ^ Let me die, you have  a great deal of wit' (Lady Froth, Congreve's Double Dealer); also  much used by Melantha, an affected lady in Dryden's Marriage \ la   Mode. . . 1   Ld me perish — ‘ I'm your humble servant let me perish ' (Brisk, Double   Dealer) ; also used by Wycherley, Love in a Wood.   ^le (Vanbrugh's Relapse),   Death and eternal iartures Sir, I vow the packet's (= pocket) too high  (Lord Foppington),   Burn me if I do (Farquhar, Way to win him).   Mai me, ^ rat my packet handkerchief (Lord Foppington).   Never Never stir if it did not' (Caper, Otway, Friendship in   Love) ; * Thou shalt enjoy me always, dear, dear friend, never stir '•   BU take my death you're handsomer ' (Mrs. Millamont, Congreve, Way   of the World). ,   Bm a Person (Lady Wishfort, Way of the World). Stap my vitals (Lord Foppington ; very frequent).   Split my wmdpipe — Lord Foppington gives his brother his blessing, on  finding that the latter has married by a trick the lady he had designed  for himself— 'You have married a woman beautiful in her person,  charming in her airs, prudent in her canduct, canstant in her inclina-  tions, and of a nice marality split my windpipe   As I hope to breathe (Lady Lurewell, Farquhar, Sir Harry Wildair),   Tm a Dog if do (Wittmore in Mrs. Behn’s Sir Patient Fancy).   By the Universe (Wycherley, Country Wife).   I swear and declare (Lady Plyant) ; / swear and vow (Sir Paul Plyant,  Double Dealer) ; I do protest and vow (Sir Credulous Easy, Aphra Behn’s  Sir Patient Fancy) ; I protest I swoon at ceremony (Lady Fancyfull,  Vanbrugh, Provok'd Wife) ; 1 profess ingenuously a very discreet young  man (Mrs, Aphra Behn, Sir Patient Fancy).   Gads my hfe (Lady Plyant).   O Crimine (Lady Plyant).   O Jeminy (Wycherley, Mrs. Pinchwife, Country Wife).   Gad take me, between you and I, I was deaf on both ears for three  weeks after (Sir Humphrey, Shadwell, Bury Fair).   ril lay my Life he deserves your assistance (Mrs. Sullen, Farquhar,  Beaux' Strategem).   By the Lord Harry (Sir Jos. Wittol, Congreve, Old Bachelor).  the universe (Wycherley, Mrs. Pinchwife, Country Wife).   Gadzooks (Heartfree, Vanbrugh, Provok'd Wife) ; Gadt s Bud (Sir Paul  Plyant, Double Dealer) ; Gud soons (Lady Arabella, Vanbrugh, Journey  to London) ; Marry-gep (Widow Blackacre, Wycherley, Plain Dealer) ;  ^sheart (Sir Wilful, Congreve, Way of the World) ; Eh Gud, eh Gud  (Mrs. Fantast, Shadwell, Bury Fair); Zoz I was a modest fool; ads^-  zoz (Sir Credulous Easy, Devonshire Knight, Aphra Behn, Sir  Petulant Fancy); 'D's diggers Sir (a groom in Sir Petulant Fancy);  ^sheart (Sir Wilf. Witwoud, Congreve, Way of the World); odsheart  (Sir Noble Clumsey, Otway, Friendship in Fashion); Adsheart (fkx Jos,  Wittol, Congreve, Old Bachelor) ; Gadswouns (Oldfox, Plain Dealer).  By the side of marry, frequent in the sixteenth and seventeenth centuries,  the curious expression Marry come up my dirty cousin occurs in Swift's  Polite Conversations (said by the young lady), and again in Fielding's  Tom Jones — said by the lady's maid Mrs. Honor. With this compare  marry gep above, which probably stands for ' go up   Such expressions as Lard are frequent in the seventeenth-century  comedies, and the very modern-sounding as sure as a gun is said by  Sir Paul Plyant in the Double Dealer.   The comedies of Dryden contain but few of the more or less mild, and  fashionable, semi-bantering exclamatory expressions which enliven the  pages of many of his contemporaries ; he sticks on the whole to the more  permanent oaths — 'sdeath, ^sblood, &c. It must be allowed that the  dialogue of Dry den's comedies is inferior to that of Otway or Congreve  in brilliancy and natural ease, and that it probably does not reflect the  familiar colloquial English of the period so faithfully as the conversation  in the works of these writers. Dryden himself says, in the Defense of  the Essay of Dramatic Poesy, ' I know I am not so fitted by Nature to write Comedy : 1 want that Gaiety of Flumour which is required to it.  My Conversation is slow and dull, my Humour Saturnine and reserv’d :  In sliortj I am none of those who endeavour to break all Jests in Com-  pmy, or make Repartees   It may be noted that the frequent use — almost in ever;^ sentence — of  such phrases as A/ me perish, hum me, and other meaningless interjec-  tions of this order, is attributed by the dramatists only to the most  frivolous fops and the most affected women of fashion. The more  serious characters, so far as such exist in the later seventeenth-century  comedies, aie addicted rather to the weightier and more sober sort of  swearing. It is perhaps unnecessary to pursue this subject beyond the*  first third of the eighteenth century. Farquhar has many of the manner-  isms of his slightly older contemporaries, and some stronger expressions,  e. g. ‘ There was a neighbour's daughter I had a woundy kindness for  Truman, in Twin Rivals ; but Fielding in his numerous comedies has  but few of the objurgatory catchwords of the earlier generation. Swearing,  both of the lighter kind as well as of the deliberately profane variety,  appears to have diminished in intensity, apart from the stage country  squire, suc h as Squire Badger in Don Quixote, who says ^ShodUkins and  ecod, and Squire Western, whose artless profanity is notorious. Ladies  in these plays, and in Swift's Polite Conversations, still say lard, O Ltid,  and la, and mercy, ^shuhs, God bless my eyesight, but the rich variety of  expression which we find in Lady Squeamish and her friends has  vanished. Some few of the old mouth-filling oaths, such as zounds,  ^sdeath, and so on, still linger in Goldsmith and Sheridan, but the number  of these available for a gentleman was very limited by the end of the  century. From the beginning of the nineteenth century it would seem  that nearly all the old oaths died out in good society, as having come to  be considered, from unfamiliarity, either too profane or else too devoid  of content to serve any purpose. It seems to be the case that the serious  oaths survive longest, or at any rate die hardest, while each age produces  its own ephemersil formulas of mere light expletive and asseveration.    Hyperbole ; Compliments ; Approval ; Disapproval ; Abuse,   Very characteristic of a particular age is the language of hyperbole  and exaggeration as found in phrases expressive on the one hand of  compliments, pleasure, approval, amusement, and so on, and of disgust,  dislike, anger, and kindred emotions, on the other. Incidentally, the  study of the different modes of expressing such feelings as these leads  us also to observe the varying fashion in intensives, corresponding to the  present-day awfully, frightfully, and the rest, and in exaggeration generally,  especially in paying compliments.   The following illustrations are chiefly drawn from the seventeenth  century, which offers a considerable wealth of material.   It is wonderful what a variety of expressions have been in use, more  or less transitorily, at different periods, as intensives, meaning no more  than i>iry, very much, &c. Rarely in Chapman^s Gentleman Usher —  ^How did you like me aunt? 0 rarely, rarely \ ^Oh lord, that, that is a pleasure intolerahU \ Lady Squeamish in Otway’s Friendship in Love ;  ‘Let me die if that was not extravaganily pleasant vtry amusing),  ibid. ; ^ I vow he himself sings a tune extreme prettily \ ibid. : ‘ I love  dancing immoderately \ ibid. ; ‘ O dear ’tis violent hot \ ibid. ; ‘ Deuce take  me if your Ladyship has not the art of surprising the most naturally in  the world — I hope you'll make me happy in communicating the Poem  Brisk in Congreve's Double Dealer ; ‘With the reserve of my Honour,  I aSvSure you Careless, I don't know anything in the World I would  refuse to a Person so meritorious — You’ll pardon my want of expression',  Lady Plyant in Double Dealer; to which Careless replies — ‘O your  “Xadyship is abounding in all Excellence^ particularly that of Phrase ; My  Lady Froth is very well in her Accomplishments — But it is when my  Lady Plyant is not thought of— if that can ever be ' ; Lady Plyant : —  ‘O you overcome me — That is so excessive' ; Brisk, asked to write notes  to Lady Froth's Poems, cries ‘ With all my Heart and Soul, and proud of  the vast Honour let me perish ‘ I swear Careless you are very  alluring^ and say so many fine Things, and nothing is so moving as a fine  Thing. . , . Well, sure if I escape your Importunities, I shall value myself  as long as I live, I swear ; Lady Plyant. The following bit of dialogue  between Lady Froth and Mr. Brisk illustrates the fashionable mode of  bandying exaggerated, but i*ather hollow compliments.   ‘ Ldy P. Ah Gallantry to the last degree — Brisk was ever anything so  well bred as My Lord ? Brisk — Never anything but your Ladyship let me  perish. Ldy F, O prettily turned again ; let me die but you have a great  deal of Wit. Mellefont don^t you think Brisk has a World of Wit ?  MeUefont — O yes Madam. Brisk — O dear Madam — Ldy F» An mfinite  deal! Brisk, O Heaven Madam. ■'Ldy F. More Wit — than Body.  Brisk — Pm everlastingly your humble Servant^ deuce take me Madam.   Lady Fancyful in Vanbrugh’s Provok'd Wife contrives to pay herself  a pretty compliment in lamenting the ravages of her beauty and the con-  sequent pretended annoyance to herself — ‘ To confess the truth to you,  Fm so everlastingly fatigued with the addresses of unfortunate gentlemen  that were it not for the extravagancy of the example, I should e'en tear  out these wicked eyes with my own fingers, to make both myself and  mankind easy   Swift's Polite Conversations consist of a wonderful string of slang  words, phrases, and clicMs^ all of which we may suppose to have been  current in the conversation of the more frivolous part of Society in the  early eighteenth century. The word pure is used for very — ‘ this almond  pudden is pure good ’ ; also as an Adj., in the sense of excellent^ as in ‘ by  Dad he's pure Company \ Sir Noble Clumsey's summing-up of the 'Arch-  Wag' Malagene. To divert in the characteristic sense of ‘amuse',  and instead of this — ‘ Well ladies and gentlemen, you are pleased to divert  yourselves'. Lady Wentworth in 1706 speaks of her ‘munckey' as  ‘ full of devertin tricks and twenty years earlier Cary Stewkley (Verney),  taxed by her brother with a propensity for gambling, writes ‘ whot dus  becom a gentilwoman as plays only for divariion I hope I know   The idiomatic use of obliging is shown in the Polite Conversations, by  Lady Smart, who remarks, in answer to rather excessive praise of her  house — ‘ My lord, your lordship is always very obliging ' ; in the same sense Lady Squeamish says 'I sweai*e Mr. Malagene you are a very  obliging person \   Extreme amusement, and approval of the persons who provoke it, are  frequently expressed with considerable exaggeration of phrase. Some  instances are quoted above, but a few more may be added^. ‘ A you mad  slave you, you are a ticUing Acior\ says Vincentio to Pogio in Chapman’s  Gentleman Usher.   Mr. Oldwit, in Shadwelbs Bury Fair, professes great delight at the  buffoonery of Sir Humphrey : — ‘ Forbear, pray forbear ; you'll be the  death of me ; 1 shall break a vein if I keep you company, you arch Wag  you, . . . Well Sir Humphrey Noddy, go thy ways, thou art the ar«hesT  Wit and Wag. I must forswear thy Company, thou'lt kill me elsei'  The arch wag asks ' What is the World worth without Wit and Waggery  and Mirth ? and describing some prank he had played before an admiring  friend, remarks — Mf you’d seen his Lordship laugh! I thought my  Lord would have killed himself. He desired me at last to forbear ; he  was not able to endure it! 'Why what a notable Wag^s this" is said  sarcastically in Mrs. Aphra Behn’s Sir Patient Fancy.   The passages quoted above, pp. 369-71, from Otway’s Friendship in  Love illustrate the modes of expressing an appreciation of ' Waggery   In the tract Reasons of Mr. Bays for changing his religion (1688),  Mr. Bays (Dryden) remarks a propos of something he intends to write —  ^you 'll half kill yourselves with laughing at the conceit and again  ' I protest Ml’ Crites you are enough to make anybody split with laugh-  ing', Similarly 'Miss’ in Polite Conversation declares — 'Well, I swear  you'll make one die with laughing   The language of abuse, disparagement, contempt, and disapproval,  whether real or in the nature of banter, is equally characteristic.   The following is uttered with genuine anger, by Malagene Goodvile  in Otway’s Friendship in Love, to the njusicians who are entertaining  the company — ' Hold, hold, what insufferable rascals are these ? Why  you scurvy thrashing scraping mongrels, ye make a worse noise than  crampt hedgehogs. ’Sdeath ye dogs, can’t you play more as a gentleman  sings ? ’   The seventeenth-century beaux and fine ladies were adepts in the art  of backbiting, and of conveying in a few words a most unpleasant picture  of an absent friend — 'O my Lady Toothless’ cries Mr. Brisk in the  Double Dealer, ' O she ’s a mortifying spectacle, she "s always chewing  the cud like an old Ewe ’ ; ' Fie M*^ Brisk, Eringos for her cough ’ pro-  tests Cynthia ; Lady Froth : — ' Then that t’other great strapping Lady—  I can't hit of her name ; the old fat fool that paints so exorbitantly ’ ;  Brisk : — ' I know whom you mean — But deuce take me I can't hit of her  Name neither— Paints d’ye say ? Why she lays it on with a trowel’   Mr. Brisk knows well how to 'just hint a fault ' Don't you apprehend  me My Lord? Careless is a very honest fellow, but harkee — ^you under-  stand me — somewhat heavy, a little shallow or so   Lady Froth has a picturesque vocabulary to express disapproval—  '0 Filthy M** Sneer? he's a nauseous figure, a most fulsamic Fop .  Nauseous and filthy are favourite words in this period, but are often used so  as to convey little or no specific meaning, or in a tone of rather affectionate banter. ^ He ’s one of those nauseous offerers at wit Wycherley’s Country  Wife ; ^ A man must endeavour to look wholesome ’ says Lord Foppington  in Vanbrugh's Relapse, ‘lest he make so nauseous a figure in the side  box, the ladies should be compelled to turn their eyes upon the Play ’ ;  again the same nobleman remarks ‘ While I was but a Knight I was  a very nauseous fellow ’ ; and, speaking to his tailor — I shall never be  reconciled to this nauseous packet A remarkable use of the verb, to  express a simple aversion, is found in Mrs. Millamont’s ^ I nauseate walking ;  'tis a country divertion ' (Congreve, Way of the World).   In the Old Bachelor, Belinda, speaking of Belmour with whom she is  Th In^e, cries out, at the suggestion of such a possibility — ‘ Filthy Fellow I  ... Oh I love your hideous fancy I Ha, ha, ha, love a Man 1 ' In the  same play Lucy the maid calls her lover, Setter, ‘ Beast, filthy toad ’  during an exchange of civilities. ‘ Foh, you filthy toad I nay, now IVe  done jesting ’ says Mrs. Squeamish in the Country Wife, when Horner  kisses her. ‘Out upon you for a filthy creature' cries ‘Miss^ in the  Polite Conversations, in reply to the graceful banter of Neverout.   Toad is a term of endearment among these ladies ; ‘ I love to torment  the confounded toad' says Lady Fidget, speaking of Mr. Horner for  whom she has a very pronounced weakness. ‘ Get you gone you good-  natur’d toad you ' is Lady Squeamish's reply to the rather outre compli-  ments of Sir Noble.   Plague (Vb.), plaguy^ plaguily are favourite expressions in Polite Con-  versations. Lord Sparkish complains to his host — ‘ My Lord, this venison  is plaguily peppered ' ; ' 'Sbubs, Madam, I have burnt my hand with your  plaguy kettle ' says Neverout, and the Colonel observes, with satisfaction,  that ‘ her Ladyship was plaguily bamb'd ‘ Don't be so teizing ; you  plague a body so ! can't you keep your filthy hands to yourself? ' is  a playful rap administered by ‘ Miss ' to Neverout.   Strange is another word used very indefinitely but suggesting mild  disapproval — ‘ I vow you'll make me hate you if you talk so strangely, but  let me die, I can't last longer ' says Lady Squeamish, implying a certain  degree of impropriety, which nevertheless makes her laugh ; again, she  says, ‘I'll vow and swear my cousin Sir Noble is a strange pleasant  creature   We have an example above of exorbitantly in the sense of ‘out-  rageously', and the adjective is also used in the same sense — ^‘Most  exorbitant and amazing' is Lady Fantast’s comment, in Bury Fair, upon  her husband's outburst against her airs and graces. We may close this  series of illustrations, which might be extended almost indefinitely, with  two from the Verney Memoirs, which contain idiomatic uses that have  long since disappeared. Susan Verney, wishing to say that her sister's  husband is a bad-tempered disagreeble fellow, writes ‘poore peg has  married a very humersome cros boy as ever I see' (Mem. ii. 361, 1:647).  Edmund Verney, Sir Ralph's heir, having had a quarrel with a neigh*  bouring squire concerning boundaries and rights of way, describes him  as ‘very malicious and stomachfull' (Mem. iv. 3:77, 1682). The phrase  ‘as ever I see' is common in the Verney letters, and also in the Went-  worth Papers. Preciosity, &c.   We close this chapter with some examples of seventeenth-century  preciosity and euphemism. The most characteristic specimens of this  kind of affected speech are put by the writers into the mopths of female  characters, and of these we select Shadwell's Lady Fantast and her  daughter (Bury Fair), Otway's Lady Squeamish, Congreve's Lady  Wishfort, and Vanbrugh's Lady Fancyful in the Provok'd Wife. Some  of the sayings of a few minor characters may be added ; the waiting-  maids of these characters are nearly as elegant, and only less absurd  than their mistresses.   Luce, Lady Fantast's woman, summons the latter's stepdaughter as  follows : — ^ Madam, my Lady Madam Fantast, having attir'd herself in  her morning habiliments, is ambitious of the honour of your Ladyship's  Company to survey the Fair ' ; and she thus announces to her mistress  the coming of Mrs. Gertrude the stepdaughter : — ‘ Madame, M^s Gatty  ' will kiss your Ladyship's hands here incontinently '. The ladies Fan-  tast, highly respectable as they are in conduct, are as arrant, pretentious,  and affected minxes as can be found, in manner and speech, given to  interlarding their conversation with sham French, and still more dubious  Latin. Says the daughter — ‘To all that which the World calls Wit and  Breeding, I have always had a natural Tendency, a penchen^ derived, as  the learned say, ex traduce, from your Ladyship : besides the great  Prevalence of your Ladyship's most shining Example has perpetually  stimulated me, to the sacrificing all my Endeavours towards the attaining  of those inestimable Jewels ; than which, nothing in the Universe can be  so much a mon gre, as the French say. And for Beauty, Madam, the  stock I am enrich'd with, comes by Emanation from your Ladyship, who  has been long held a Paragon of Perfection : most Charmanf, most Tuant!  ‘Ah my dear Child' replies the old lady, ‘II alas, alas 1 Time has been,  and yet I am not quite gone . When Gertrude her stepsister, an  attractive and sensible girl, comes in Mrs. Fantast greets her with  ‘ Sweet Madam Gatty, I have some minutes impatiently expected your  Arrival, that I might do myself the Great Honour to kiss your hands and  enjoy the Favour of your Company into the Fair ; which I see out of my  Window, begins to fill apace.'   To this piece of afifectation Gatty replies very sensibly, ‘ I got ready as  soon as e'er I could, and am now come to wait on you ', but old Lady  Fantast takes her to task, with ‘ Oh, fie, Daughter ! will you never attain  to mine, and my dear Daughter's Examples, to a more polite way of  Expression, and a nicer form of Breeding ? Fie, fie ; I come to wait on  you! You should have said; I assure you Madam the Honour is all  on my side ; and I cannot be ambitious of a greater, than the sweet  Society of so excellent a Person. This is Breeding/ ‘Breeding!'  exclaims Gatty, ‘ Why this had been a Flam, a meer Flam And with  this judgement, we may leave My Lady Fantast.   We pass next to Lady Squeamish, who is rather ironically described by  Goodvile as ‘the most exact Observer of Decorums and Decency alive  Her manner of greeting the ladies on entering, along with her cousin  Sir Noble Clumsey, if it has the polish, has also the insincerity of her age—' Dear Madam Goodvile, ten thousand Happinesses wait on you !  Fair Madam Victoria, sweet charming Camilla, which way shall I express  my Service to you ? — Cousin your honour, your honour to the Ladies. —  Sir Noble : — Ladies as low as Knee can bend, or Head can bow, I salute  you all : And Gallants, I am your most humble, most obliged, and most  devoted Servant/   The character of this charming lady, as well as her taste in language,  is well exhibited in the following dialogue between her and Victoria.   ^ Oh my dear Victoria ! the most unlock’d for Happiness ! the pleasantest  Wlc^ent ! the strangest Discovery ! the very thought of it were enough to  cure Melancholy. Valentine and Camilla, Camilla and Valentine, ha, ha, ha,   Viet, Dear Madam, what is ’t so transports you ?   Ldy Sqti, Nay ’tis too precious to be communicated : Hold me, hold me,  or I shall die with laughter — ha, ha, ha, Camilla and Valentine, Valentine and  Camilla, ha, ha, ha — 0 dear, my Heart’s broke.   Viet, Good Madam refrain your Mirth a little, and let me know the Story,  that I may have a share in it.   Ldy Squ, An Assignation, an Assignation tonight in the lower Garden ; —  by strong good Fortune I overheard it all just now — but to think of the  pleasant Consequences that will happen, drives me into an Excess of Joy  beyond all sufferance.   Viet, Madame in all probability the pleasantest Consequence is like to be  theirs, if any body’s ; and I cannot guess how it should touch your Ladyship  in the least.   Ldy Squ, O Lord, how can you be so dull ? Why, at the very Hour and  Place appointed will I greet Valentine in Camilla’s stead, before she can be  there herself ; then when she comes, expose her Infamy to the World, till  I have thorowly revenged my self for all the base Injuries her Lover has  done me.   Viet But Madam, can you endure to be so malicious ?   Ldy Squ, That, that ’s the dear Pleasure of the thing ; for I vow I’d  sooner die ten thousand Deaths, if I thought I should hazard the least  Temptation to the prejudice of my Honour.   Viet, But why should your Ladyship run into the mouth of Danger?  Who knows what scurvy lurking Devil may stand in readiness, and seize  your Virtue before you are aware of him ?   Ldy Squ, Temptation? No, I’d have you know I scorn Temptation:  I durst trust myself in a Convent amongst a Kennel of cramm’d Friers:  Besides, that ungrateful ill-bred fellow Valentine is iny mortal Aversion,  more odious to me than foul weather on a May-day, or ill smell in a Morning.  ... No, were I inclined to entertain Addresses, I assure you I need not  want for Servants ; for I swear I am so perplexed with Billet-Doux^ every  day, I know not which way to turn myself: Besides there’s no Fidelity, no  Honour in Mankind. O dear Victoria I whatever you do, never let Love  come near your Heart : Tho really 1 think true Love is the greatest Pleasure  in the World.’   And so we let Lady Squeamish go her ways for a brazen jilt, and an  affected, humoursome baggage. If any one wishes to know whither her  ways led her, let him read the play.   Only one more example of foppish refinement of speech from this  play — the remarks of the whimsical Mr. Caper to Sir Noble Clumsey,  who coming in drunk, takes him for a dandng-master — ^ I thought you  had known me’ says he, rather ruefully, but adds, brightening— 'I doubt you may be a little overtaken. Faith, dear Heart, Fm glad to see you so  merry I ’   The character of Lady Wishfort in the Way of the World is perhaps  one of the best that Congreve has drawn; her conversation in spite of  the deliberate affectation ir^ phrase is vivid and racy, and for all its  preciosity has a naturalness which puts it among the triumphs of Con-  greve’s art. He contrives to bring out to the full the absurdity of the  lady’s mannerisms, in feeling and expression, to combine these with vigour  and ease of diction, and to give to the whole that polish of which he is the  unquestioned master in his own age and for long after.   The position of Lady Wishfort is that of an elderly lady of great ouii  ward propriety of conduct, and a steadfast observer of decorum, in sjl^ch  no less than in manners. Her equanimity is considerably upset by the  news that an elderly knight has fallen in love with her portrait, and wishes  to press his suit with the original. The pretended knight is really a valet  in disguise, and the whole intrigue has been planned, for reasons into  which we need not enter here, by a rascally nephew of Lady Wishfort’s.  This, however, is not discovered until the lover has had an interview with  the sighing fair. The first extract reveals the lady discussing the coming  visit with Foible her maid (who is in the plot).   ‘ I shall never recompose my Features to receive Sir Rowland with any  Oeconomy of Face Fm absolutely decayed. Look, F oible.   Foible, Your Ladyship has frown’d a little too rashly, indeed Madam.  There are some Cracks discernible in the white Varnish.   Ldy W, Let me see the Glass— Cracks say’st thou ? Why I am arrantly  flead (e. g. flayed) — I look like an old peel’d Wall. Thou must repair me  Foible before Sir Rowland comes, or I shall never keep up to my picture.   F, I warrant you, Madam ; a little Art once made your picture like you ;  and now a little of the same Art must make you like your Picture. Your  Picture must sit for you, Madam.   Ldy W, But art thou sure Sir Rowland will not fail to come ? Or will he  not fail when he does come? Will he be importunate, Foible, and push?  For if he should not be importunate ... I shall never break Decorums —   I shall die with Confusion ; if I am forc’d to advance— O no, I can never  advance. ... I shall swoon if he should expect Advances. No, I hope  Sir Rowland is better bred than to j)ut a Lady to the Necessity of breaking  her Forms. I won’t be too coy neither.— I won’t give him Despair— But  a little Disdain is not amiss ; a little Scorn is 2X\mm%,--Foible.--h little  Scorn becomes your Ladyship . — Ldy IV. Yes, but Tendeimess becomes me  best— A Sort of a Dyingness— You see that Picture has a Sort of a — Ha  Foible !— A Swimmingness in the Eyes— Yes, I’ll look so— My Neice affects  it but she wants Features. Is Sir Rowland handsom ? Let my Toilet be  remov’d— I’ll dress above. I’ll receive Sir Rowland here. Is he handsom ?  Don’t answer me. I won’t know : I’ll be surpris’d ; He’ll be taken by Sm-  prise.— By Storm Madam. Sir Rowland’s a brisk Man.— TV.  —Is he ! O then he’ll importune, if he ’s a brisk Man. I shall save Decorums  if Sir Rowland importunes. I have a mortal Terror at the Apprehension of  offending against Decorums. O Pm glad he ’s a brisk Man. Let my things  be remov’d good Foible*’   The next passage reveals the lady ready dressed, and expectant of  Sir Rowlands arrival.   — ‘Well, and how do I look Foible! — Z; Most killing well, Madam.  Ldy IV, Well, and how shall I receive him ? In what Figure shall I give     39S colloquial IDIOM   his Heart the first Impression ? There is a great deal in the first Impression,  Shall I sit? — No, I won’t sit — I’ll walk— ay I’ll walk from the door upon his  Entrance; and then turn full upon him — No, that will be too sudden. I’ll  lie, ay Ell lie down — I’ll receive him in my little Dressing-Room. There *s  a Couch — Yes, yes, I’ll give the first Impression on a Couch — I won’t lie  neither, but loll, and lean upon one Elbow; with one Foot a little dangling  off, jogging in ^ thoughtful Way — Yes— Yes — and then as soon as he appears,  start, ay, start and be surpris’d, and rise to meet him in a pretty Disorder —  Yes — O, nothing is more alluring than a Levee from a Couch in some Con-  fusion— It shews the Foot to Advantage, and furnishes with Blushes and  recomposing Airs beyond Comparison. Hark ! there ’s a Coach.’   .^t it is when theure du Berger draws near, as she supposes, that  Lady Wishfort rises to the subiimest heights of expression : —   ‘Well, Sir Rowland, you have the Way, — you are no Novice in the Labyrinth  of Love— You have the Clue — But as I’m a Person, Sir Rowland, you must  not attribute my yielding to any sinister Appetite, or Indigestion of Widow-  hood ; nor impute my Complacency to any Lethar^ of Continence — I hope  you don’t think me prone to any iteration of Nuptials — If you do, I protest  I must recede — or think that I have made a Prostitution of Decorums, but  in the Vehemence of Compassion, or to save the Life of a Person of so much  Importance — Or else you wrong my Condescension — If you think the least  Scruple of Carnality was an Ingredient, or that —   Here Foible enters and announces that the Dancers are ready, and thus  puts an end to the scene at its supreme moment of beauty — and  absurdity. Even Congreve could not remain at that level any longer.   It is worth while to record that in this play, a maid, well called Mincings  announces — ‘ Mem, I am come to acquaint your Laship that Dinner is  impatient The hostess invites her guests to go into dinner with the  phrase — ‘ Gentlemen, will you walk ? '   This chapter and book cannot better conclude than with a typical piece  of seventeenth-century formality. May it symbolize at once the author's  leave-taking of the reader and the eagerness of the latter to pursue the  subject for himself.   The passage is from the Provok’d Wife : —   ‘ Lady FancyfuL Madam, your humble servant, I must take my leave.   Lady Brute. What, going already madam ?   Ldy F. I must beg you’ll excuse me this once ; for really 1 have eighteen  visits this afternoon. . . . {Goin^ Nay, you shan’t go one step out of  the room.   Ldy B. Indeed I’ll wait upon you down.   Ldy F. No, sweet Lady Brute, you know I swoon at ceremony.   Ldy B, Pray give me leave — Ldy F. You know I won’t — I^dy B. — You  know I must. — Ldy F. — Indeed you shan’t — Indeed I will — Indeed you shan’t  — Ldy B. — ^Indeed I will.   Ldy F. Indeed you shan’t. Indeed, indeed, indeed, you shan’t’   [Exit running. They follow.\ Alberto Caracciolo. Keywords: il colloquio, in cammino verso il linguaggio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caracciolo” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Caramella – gl’eroi di Vico – filosofia italiana – Caritone e Melanippo -- Luigi Speranza (Genova). Filosofo italiano. Grice:”I like Caramella – like me, he is into the metaphysics of conversation! And he reminds me that I should re-read Vico!” --  Grice: “I like Caramella; he prefaced Fichte’s influential tract on ‘la filosofia della massoneria’ – but also wrote on more orthodox subjects like Kant, Cartesio, Bergson, and most of them!” – Grice: “Like me, he thought truth is found in conversation!” Ancora al liceo, comincia a collaborare con Gobetti, il quale gli affida la trattazione della filosofia su “Energie Nove”. Dopo un primo contatto con PGobetti e La Rivoluzione liberale, su segnalazione di questi, entra in collaborazione con Radice, da cui apprese le dottrine del neo-idealismo di Croce e Gentile. Dopo la laurea, insegna a Genova. Per le sue idee antifasciste fu arrestato e rinchiuso prima nelle carceri di Marassi a Genova, e poi fu trasferito a San Vittore a Milano; fu scarcerato, ma venne sospeso dall'insegnamento e dalla libera docenza. Ottenne, per intercessione di Croce, l'incarico di filosofia a Messina. Vinse la cattedra a Catania. Prese parte ai convegni organizzati dalla Scuola di mistica fascista  Insegna a Palermo, ereditando la cattedra che era stata di Gentile. Il suo allievo principale, che ne cura il lascito, è Armetta, docente alla Pontifica Facoltà Teologica di Sicilia.  La sua vasta cultura, gli permise di vedere la continuità della filosofia antica romana classica e e, nell'ambito della filosofia italiana, l'unità delle opposte dialettiche nella legge vivente dello spirito e nel dinamismo della natura e della storia. Apprezzato storico della filosofia. La sua filosofia si può definire un neo-idealismo crociano e gentiliano, ma reinterpretatto alla luce dello spiritualismo. La sua filosofia supera lo storicismo e la dottrina crociana degli opposti e dei distinti, e si esprime nell'interpretazione della pratica come eticità storica.. La religione e la teosofia rappresentano la possibilità dello spirito attento da un lato alla concretezza dell'uomo e dall'altro all'ineffabilità. Lo spirito, anziché risolversi nella filosofia, colloca il proprio progresso in intima unità con il progresso della filosofia stessa: da un lato è esclusa la riduzione dello spirito ad atteggiamento pratico; dall'altro, le è conferito una distinta funzione teoretica.  Altre opere: “Problemi e sistemi della filosofia, Messina); “Religione, teosofia e filosofia”; “Logica e Fisica” (Roma); “La filosofia di Plotino e il neoplatonismo” Catania); Ideologia”; “Metafisica, filosofia dell'esperienza”; “Metalogica, filosofia dell'esperienza” (Catania); “Autocritica, in: Filosofi italiani contemporanei, M.F. Sciacca, Milano); “L'Enciclopedia di Hegel, Padova); “La filosofia dello Stato nel Risorgimento, Napoli); “Introduzione a Kant, Palermo); “Conoscenza e metafisica, Palermo); “La mia prospettiva etica, Palermo); “Carteggio con Croce. Carteggio. La dialettica del vero e del certo nella "metafisica vichiana" di Caramella, in Miscellanea di scritti filosofici in memoria di Caramella, Palermo. Ontologia storico-dialettica di Caramella.Lo spirito nella filosofia di Caramella.Caramella. La verità in dialogo. Carteggio con Radice.Dizionario biografico degli italiani. Il linguaggio come auto-analisi. 2 S. Caramella, La cultura ligure nell’alto Medioevo, in II Comune di Genova,  La recente V ita d i Bruno, con documenti e inediti 1, in cui Vincenzo Spampanato lia potuto finalmente sintetizzare oltre vent’anni di ricerche bruniane, mi suggerisce l’opportunità di un breve eenno sul soggiorno del filosofo nella n o s tra regione, così sulla base di quanto lo Spampanato ha messo novamente in luce come su quella delle antiche notizie da lui rinfrescate. Cel resto l’unica seria esposizione dei fatti che stiamo per narrare era, prima delle dotte pagine dello Spampanato, nella biografia del Berti2: ma sommaria e imprecisa per molti rispetti. Arrivò il Bruno in Genova poco prima della domenica delle Palme, nell’anno in cui la festa cadeva il 15 aprile? Cont raria m en te al parere del Berti, il quale sostiene non essere capace di prova che il filosofo sia entrato nella nostra città, dobb iam o infatti tener presente una scena del Candelaio dove tino dei protagonisti giura, entrando in scena, sulla « benedetta coda dell’asino, che adorano i Genoesi’3 », e il passo correlativo dello Spaccio d e lla B e stia trio n fa n te, che dice proprio così: « Ho visto io i religiosi di Castello in Genova mostrar per breve tempo e far baciare la velata coda, dicendo: non toccate, baciate: questa è la santa reliquia di quella benedetta asina che fu fatta degna di portar il nostro Dio dal monte Oliveto a Jerosolina. Adoratela, baciatela, -porgete limosina: Centum accipietis, et vita aeternam possidebitis». I « religiosi di Castello» sono, è evidente, i Domenicani di Santa Maria di Castello, dove uffiziavano: e la preziosa reliquia doveva certo esser mostrata 1 Messina, Principato, Vedi, per l’argomento di questa com unicazione, Torino, Paravia, ed. Spampanato (Bari, Laterza), ed. Gentile (Dial. morali di G. B.), Quetifet Echard, S c rip t. ord. praed., t. il, p. in. Società Ligure di Storia Patria - al p opolo nella precisa circostanza della commemorazione del giorno in cui Gesù discese trionfante su ll’asina a Gerusalemme 1. Il Bruno veniva da Roma, um ile fu ggiasco. A v ev a avu to notizia che il processo istruttorio p endente presso l’inquisizione, per i sospetti di erodossia avanzati contro di lui, non annunziava buon esito: e così, deposto l’ abito, si diresse verso la valle Padana. Più tardi raccontò egli stesso, ai giudici di V enezia, di essere andato subito a N oli. Ma è prob abile c h e la peste, da cui quella plaga fu proprio in quel torno di rem po violentemente aiflitta, lo abbia genericam ente con sigliato a v o lgersi verto la Liguria, contrada m eno infetta, o non ancora raggiunta dal contagio, e a fermarsi alm eno qualche giorno a Genova. Le sarcastiche espressioni dello Spaccio ci fanno im m aginare agevolmente il Bruno là sulla piazzetta della vetusta ch iesa romanica, pieno l’animo non già di ammirazione estetica perla caratteristica facciata o per gli ornamenti molteplici dell’ interno, eh’ è tutto un m usaico di con q uiste orientali, - e tanto meno di interesse psicologico e religioso per la folla affluente ed effluente dal tempio, - ma di cruccio e disdegno: lui da poco a ccostatosi alle nuove idee dei riformatori oltremontani, lui per questo costretto a fuggire di patria e dall’ am ato co n v e n to napoletano di San Domenico Maggiore, dove gli allievi p endevano dalla sua parola, dottamente teologizzante. La peste arrivò presto, anzi subito, anche a Genova; a Milano l’ ambasciatore veneto Ottaviano di Mazi ne aveva già n o ­ tizia tre giorni dapo il 15 aprile, il m ercoledì santo 2. E allora il Bruno, com e ci attestano, questa volta, più veracem ente, le sue note dichiarazioni ai giudici veneti, se ne andò a N oli. Forse il ricordo dantesco, che per lui u m anista p oteva con tar qualche cosa, e la simiglianza del nom e con quello della sua Nola; forse la persistente libertà della piccola repubblica, e anche, chissà, qualche lettera di raccomandazione, qualche c o n ­ siglio di amico lo spinsero in quel tranquillo rifugio, l’ unico veramente tranquillo per lui nella storia delie sue lunghe peregrinazioni. « Andai a Noli, territorio genoese, d ove m i intrattenni quattro o cinque mesi a insegnar la gram m atica a’ putti ». « Io 1 Per la storia d ella re liqu ia v. Imbriani, Natanar II in Propu gnatore, Vili, M utin elli, Storia arcana ed aneddotica d’Italia, Società Ligure di Storia Patria - biblioteca digitale - stetti in Noli circa quattro o cinque mesi, insegnando la grammatica a’ figliuoli e leggendo la Sfera o certi gentiluomini...1 ». Lo Spampanato, per ragioni di coerenza con ulteriori dati biografici, pensa che il soggiorno sia durato un po’ più di quattro mesi. Comunque, le occupazioni del Nolano a Noli sono ben chiare: l’ esule cercava di trar qualche mezzo di vita con lezioncine private. Ma anche « leggeva la Sfera a certi gentiluomini »: la Sfera, cioè il famoso trattato di Giovanni da Sacroboseo, professore alla Sorbona e monaco domenicano quasi contemporaneo di Dante: che si soleva considerare come perfetta e sintetica esposizione di una teoria fisico-geometrica fondamentale per l’astronomia tolemaica, (la teoria delle sfere celesti), e che Γ insinuarsi dell’ ipotesi copernicana aveva, nella seconda metà del Cinquecento, rimesso in gran voga2. Persino a Noli era d u n q u e penetrato il novello interesse del secolo per i problemi astronomici; perfino a Noli alcuni giovani signori sentivano il bisogn o di stipendiare un povero erudito piovuto di lontano perchè spiegasse loro il sistema del mondo. E il Bruno cominciava di quia occuparsi direttamente di quelle indagini che fur o n o oggetto delle polemiche da lui sostenute in Inghilterra e che formano l’argomento della Cena delle Ceneri. Non possiamo n atu ralm e n te sapere (a meno che venissero fuori i quaderni di queste sue legioni liguri) s’ egli già a Noli professasse la dottrina copernicana, servendosi della Sfera per criticare il sistema tolem aico: o invece, come il Galilei ne’ suoi corsi allo Studio di Padova, si limitasse all’illustrazione del classico libretto. Un sacerdote napoletano, anzi padre Iazzarista, Raffaele de Martinis, che p otè consultare gli atti del Santo Uffizio, asserisce nella sua biografia del Bruno che a questi fu intentato in Vercelli un processo (che sarebbe il quarto dopo i primi due di Napoli 1 D occ. veneti, vili, c. 8 r-v. (SPAMPANATO). Vedi A. Pellizzar i, Il quadrivio nel Rinascimento (Genova, Perrella). Bruno (Napoli). Ma cfr. Amabile, in Atti Acc. Scienze mor. e politiche di Napoli n.; espampanato (e anche Tocco in Arch. fiir Gesch. der P h ilo s., Bonghi, ne La Cultura, Gentile, Bruno e il pensiero del Rinascimento, [Firenze, Vallecchi Società Ligure di Storia Patria -  e il terzo di Roma) « dalla Inquisizione dello Repubblica g e n o ­ vese»: ma dell’asserzione importantissima (secondo la quale si potrebbe proprio pensare aver il Bruno palesato ancora una volta la sua eterodossia nell’insegnamento di Noli) il De Martinis non dà, e confessa di non aver potuto trovare, le prove. E la notizia non pare affatto fondata, posto che manca ogni riferimento a questo processo genovese nei posteriori documenti processuali di Venezia, e di Roma dove pur dovrebbe trovarsi, posto che a Vercelli non ci consta che il Bruno facesse soggiorno (nè quindi l’inquisizione genovese avrebbe avuto ragione alcuna di perseguirvelo). « Eppoi me partii de là [da Noli] ed andai prima a Savona, dove stetti circa quindeci giorni; e da Savona a Turino, dove non trovando trattenimento a mia satisfazione venni a Venezia per il Po1 ». Da Venezia, di lì a due mesi, a Padova; da Padova a Brescia, Bergamo, Milano. Qui rivestì l’ abito, e poi per Buffalora, Novara, Vercelli, Chivasso, Torino, Susa arrivò alla Novalesa, sotto il Cenisio. Un giorno ancora e fu in Francia, oltre monti, lanciato per la gran carraia della Sua fortuna. Troverà onori, trionfi accademici, soddisfazioni di filosofo e di scrittore; ma la queta pace di Noli, mai più. S antino C aramella 1 Docc. veti., c. 8La Logica di Porto Reale. Con Prefazione del Prof. Santino... Storia del pensiero e del gusto letterario in Italia ad uso dei licei.  La scuola di mistica fascista e la discoperta del vero Vico L'azione combinata della storiografia al bianchetto e della credulità strisciante fra le righe del conformismo teologico, ha fatto sparire la notizia della sfida al neoidealismo, che fu lanciata dalle avanguardie cattoliche inquadrate nella scuola milanese di mistica fascista. In tal modo la memoria storica degli italiani è stata privata della nozione necessaria a contrastare seriamente l'ideologia totalitaria e ad avviare gli studi filosofici su un cammino di ricerca opposto a quello tracciato dall'intossicante influsso del gramscismo. Un percorso, quella anticipato dalla scuola di mistica fascista, che avrebbe messo capo ad un'evoluzione del Novecento - un'autentica rivoluzione italiana - di segno contrario al coatto e calamitoso trasferimento (narrato da Ruggero Zangrandi) degli intellettuali fascisti nel partito di Palmiro Togliatti. L'accertata esistenza di una forte opposizione cattolica alla filosofia di matrice hegeliana, comunque, fa crollare i due pilastri della mistificazione comunista: la leggenda della complicità cattolica con l'ideologia anticomunista prevalente in Germania - leggenda sintetizzata dal calunnioso slogan «Pio XII papa di Hitler» - e la rappresentazione degli intellettuali italiani nella figura di un coacervo nazifascista, redento in extremis dalla longanimità del partito staliniano. La vicenda degli oppositori italiani all'idealismo rivela, invece, l'autonomia, la straordinaria vitalità e l'attitudine del pensiero cattolico ad entusiasmare ed orientare i giovani studiosi, che avevano aderito al fascismo senza separarsi dalla radice religiosa della patria italiana. Curiosamente, l'autorità del pensiero cattolico si rafforzò nella prima fase della II guerra mondiale, quando la Germania nazionalsocialista sembrava avviata a vincere la guerra. Dopo che il governo italiano ebbe sottoscritto l'alleanza con la Germania, il dubbio si era, infatti, diffuso fra i giovani, causando la divisione dell'area fascista in due opposte scuole di pensiero: una corrente maggioritaria, intesa a metter fine al dominio della cultura tedesca e perciò risoluta a percorrere la via d'uscita indicata dalla tradizione cattolica, e una corrente minoritaria, rimasta fedele ai princìpi dell'idealismo e perciò decisa a seguire le avanguardie germaniche sulla via del fanatismo e dell'estremismo anticristiano. Espressione del fermento in atto durante quegli anni cruciali è un magnifico saggio di Nino Tripodi, interprete delle novità introdotte nella scuola milanese di mistica fascista dal cardinale Ildefonso Schuster e dal fondatore dell'Università cattolica del Sacro Cuore, il francescano Agostino Gemelli (confronta «Il pensiero politico di Vico e la dottrina del fascismo», Milani). Tripodi, grazie ad una profonda conoscenza della filosofia italiana tentò un audace confronto tra lo storicismo cristiano di Giambattista Vico e la dottrina politica di Mussolini. L'affinità del fascismo e della scienza nuova, nell'acuta analisi di Tripodi, non è causata dalle letture (Mussolini, infatti, non cita mai Vico) ma dalla comune tendenza a riconoscere che «maestra non è la mente di questo o quell'uomo che razionalmente pone un principio, ma la storia delle attività di tutti gli uomini che si svolgono come debbono svolgersi perché provvidenzialmente si compia la socialità che ad esse è intrinseca». La scelta di Tripodi cade su Vico poiché «fu perenne nel suo spirito la distinzione tra la sostanza divina e quella delle creature, tra l'essenza o ragion di essere di Dio e quella delle cose create, come fu perenne ed inequivocabile la inintelligibilità di Dio se ricercata nel mondo bruto della natura anziché in quello della storia, nella quale la Provvidenza si manifesta, chiamando gli uomini a collaboratori della divinità». Pubblicato e presto rimosso dalla censura di sinistra e dall'indifferenza di destra, il saggio di Tripodi raccoglie e approfondisce i risultati delle ricerche iniziate da quegli studiosi cattolici (nel testo sono citati Emilio Chiocchetti, Giorgio Del Vecchio, Francesco Amerio, Agostino Gemelli, Francesco Olgiati, Santino Caramella, Francesco Orestano, Armando Carlini e Balbino Giuliano) che avevano sostenuto l'irriducibilità della tradizione italiana alla filosofia tedesca, confutando le tesi di Croce e di Gentile su Vico precursore dell'idealismo. Tripodi afferma, ad esempio, che il pensiero fascista, per quanto concerne l'ontologia, «ha sempre creduto nella finitezza dell'umano, riconoscendo che esiste una parete invalicabile, sulla quale lo spirito umano non può scrivere che una sola parola, Dio» mentre gli idealisti, convinti di sfondare quella parete, «hanno spiegato la dottrina fascista attraverso il monismo soggettivista o le dimostrazioni immanentistiche, falsando così gli inequivocabili atteggiamenti dualistici di essa». Di qui il ribaltamento della linea neoidealista e la scelta dello storicismo cristiano di Vico quale orizzonte filosofico della tradizione vivente in Italia malgrado gli apparenti successi della modernità: «La stessa barriera che Vico oppone, in nome della genuinità del pensiero italiano al razionalismo, la oppone il fascismo all'idealismo. Né Gentile, né Croce, anche se il primo ha la camicia nera e cercò di darla al secondo pongono gli estremi della nostra dottrina». Tripodi indica in Vico l'antagonista dell'irrealismo e del soggettivismo dominanti nell'età moderna: «Vico non può essere idealista perché la sua filosofia impugna Cartesio e fa impugnare in Kant gli iniziatori delle dottrine, costruite unicamente su di una realtà interiore». La filosofia vichiana, inoltre, è apprezzata perché rivendica la responsabilità dell'azione umana nei fatti della storia «che altre indagini speculative avevano invece interpretato o come involuti in una meccanica autonoma e materiale o come creazione ideale definita dal pensiero che l'aveva posta. La coscienza delle proprie virtù creatrici della storia non deve però indurre l'uomo a dimenticare che la causa prima di esse sta al di fuori della sua singolarità terrena. E non al di fuori perché affidata al caso o al fato, ma perché contenuta nella volontà di Dio e rappresentata nella linea tracciata dalla sua divina provvidenza». L'invito a separare il destino dell'Italia fascista dalle chimere del razionalismo e dalle suggestioni dell'attivismo prometeico e dell'amor fati, non poteva essere formulato con maggiore chiarezza. Nelle penetranti tesi formulate da Tripodi è in qualche modo anticipato lo schema della strategia culturale elaborata, nel dopoguerra, dai pensatori dell'avanguardia cattolica (Giorgio Del Vecchio, Nicola Petruzzellis, Michele Federico Sciacca, Augusto Del Noce, Francisco Elias de Tejada, Rocco Montano, Francesco Grisi, Giovanni Torti) che nella filosofia di Vico vedranno lo strumento adatto a contrastare e battere i poteri dell'astrazione hegeliana trasferita, intanto, nella parodia inscenata dal gramscismo. La posta in gioco era la corretta impostazione della dottrina del diritto naturale, in ultima analisi la soluzione del problema riguardante il rapporto tra la giustizia ideale e le cangianti leggi che i popoli producono nel corso della loro storia. Dagli scritti giuridici di Vico, Tripodi trasse una indicazione che gli permise di risolvere il problema senza nulla concedere alle dottrine storicistiche contemplanti un pensiero dell'assoluto che evolve nel tempo: «esiste non una separazione ma una diversa gradazione d'intensità etica tra giustizia e diritto. La prima è un diritto naturale soprastorico, che è patrimonio universale e depositario del sommo vero. Il secondo è dato dall'insieme delle norme che il mondo delle nazioni partitamente elabora nel suo progressivo avvicinamento alla giustizia». Di qui l'indicazione di due altri motivi del consenso fascista alla scienza nuova: il fermo rifiuto delle astrazioni suggerite dal contrattualismo e la confutazione delle teorie utilitaristiche, che ritengono l'interesse materiale unica molla delle azioni umane. Nella definizione del comune fondamento della teoria dello Stato, Tripodi sostiene, pertanto, che nel pensiero di Vico come in quello di Mussolini la Provvidenza fa prevalere la solidarietà sull'istinto egoistico: «la provvidenza ha il suo più alto attributo nel senso della socialità che perennemente richiama agli uomini, facendo loro vincere il senso egoistico per cui vorrebbero tutto l'utile per se e niuna parte per lo compagno». Tripodi conclude il suo ragionamento affermando che «l'unitario ordine di idee nel quale relativamente alla concezione dello Stato si muovono la dottrina vichiana e quella fascista» è dimostrato dalla condivisione del fine soprannaturale: «l'uomo trova nello Stato l'organizzazione storica che gli consente di realizzare quei principi morali conferitigli dalla divinità e con ciò di assolvere alla sua stessa funzione trascendente di uomo». E' evidente che l'identificazione della dottrina fascista con la filosofia vichiana era, per Tripodi, un mezzo usato al fine rafforzare la convinzione sulla necessità, imposta dai dubbi destati dall'alleanza con il nazionalsocialismo, di rompere con la cultura prevalente in Germania e di condurre all'approdo cattolico le vere ragioni dell'ideologia fascista. E' però incontestabile che le tesi di Tripodi erano un ottimo strumento per estinguere l'ipoteca che la filosofia tedesca aveva acceso sulla cultura italiana. Non a caso, nel dopoguerra, Tripodi occupò un posto di prima fila nel gruppo degli intellettuali dell'INSPE (Vecchio, Costamagna, Ottaviano, Marzio, Teodorani, Volpe, Sottochiesa, Tricoli, Siena, Grammatico, Rasi) l'istituto che progettava la trasformazione del MSI di Arturo Michelini in avanguardia di una moderna e rigorosa destra cattolica. L'attenzione prestata da Pio XII all'evoluzione del MSI in conformità alle tesi di Tripodi, aprivano le porte del futuro alla destra. Il congresso del MSI, che doveva tenersi a Genova nel luglio del 1960, doveva, infatti, approvare in via definitiva la lungimirante linea culturale e politica di Tripodi, mandando a vuoto i progetti dell'oligarchia favorevole all'apertura a sinistra. Purtroppo la tollerata (dai democristiani) violenza della piazza comunista impedì lo svolgimento di quel congresso, respingendo il MSI nel sottosuolo dionisiaco del pensiero moderno e nelle magiche grotte del tradizionalismo spurio. La lunga immersione nell'area dell'indigenza filosofica impoverì a tal punto la cultura di destra che, quando la discesa in campo di Berlusconi offrì un'altra occasione all'inserimento nella politica di governo, la classe dirigente del MSI, ottusa dalla retorica almirantiana ed espropriata dal pensiero neodestro, non seppe produrre altro che le esangui e rachitiche tesi di Fiuggi.  Nato a Genova il 22 giugno 1902 da Eleucadio e da Francesca Delfò, segui gli studi classici nella città natale. Ancora liceale, cominciò a collaborare a Energie nuove di P. Gobetti, con il quale aveva preso contatto epistolare, dicendosi lettore entusiasta del periodico e seguace della dottrina filosofica crociana. Il Gobetti, ormai orientato verso interessi più specificamente politici, affidò al giovane C. la trattazione sulla rivista dei temi filosofici. Su segnalazione del Gobetti, Giuseppe Lombardo Radice cominciò ad accogliere i suoi scritti su L'Educazione nazionale.  In linea con l'orientamento pedagogico idealistico del Lombardo Radice, fin dall'inizio degli anni Venti il C. prese le distanze dal positivismo pedagogico con un contributo (Studi sul positivismo pedagogico, Firenze 1921), nato proprio da un suggerimento del pedagogista siciliano che nel dicembre 1919 glielo aveva proposto come tema di studio.  È qui osteggiato un pensiero ispirato agli schemi dell'evoluzionismo deterministico e del positivismo scientifico; in particolare e avversato il meccanicismo naturalistico biologicoevolutivo (Spencer e Ardigò), cui viene opposta la concezione umanistica dell'educazione di un Angiulli, di un Siciliani, di un Gabelli. Un'idea di fondo anima le critiche del C.: è inutile ogni speculazione teoretica che non sappia apportare nuove indicazioni pedagogiche per il miglioramento delle condizioni di vita umana, sociale e pratica.  Nello stesso orizzonte critico degli Studi si muovono Le scuole di Lenin (Firenze), La pedagogia di Vincenzo Gioberti e la Guida bibliografica della pedagogia, specialmente italiana e recente (ibid. 1923), che faceva seguito alla Bibliografia ragionata della pedagogia (Milano) scritta in collaborazione con il Lombardo Radice.  Nutrito di idee democratiche, che gli facevano ritenere inadeguato per l'obiettivo della costruzione di una "nuova Italia" il vecchio quadro politico postunitario, il C. si impegnò politicamente partecipando alla costituzione a Genova di un gruppo democratico di sinistra, che aveva tra i leader Arturo Codignola. Collaborò sia all'Arduo, sia al quotidiano socialriformista Il Lavoro.  In particolare, tipico dei gruppo di pedagogisti che, in certo qual modo, si ponevano nell'ambito del pensiero gentiliano (verso cui anche il C. veniva avvicinandosi sulla scia del Lombardo Radice, sia pure su posizioni autonome), è il tema dell'educazione come strumento di realizzazione di una coscienza democratico-nazionale. Da qui, anche per l'influsso delle idee gobettiane, l'attenta considerazione di quanto veniva fatto in quel campo in Unione Sovietica, all'indomani della rivoluzione bolscevica. In Le scuole di Lenin l'ammirazione con cui il C. guardava al piano scolastico educativo diretto da Lunačarskij era determinata in concreto dalla considerazione che si trattava di una rivoluzione culturale unica nella storia dell'umanitàl tesa all'elevazione delle classi inferiori per farle partecipare alla guida della società; la critica più forte, propria della formazione laico-democratica del C., stava nella denuncia del carattere dogmatico delle idee del Lunačarskij, quando questi sosteneva che la sua scuola del lavoro non era disgiungibile dal sistema sociale comunista e dal controllo politico del partito. Conseguita la laurea in filosofia, ottenne presso l'università di Genova la libera docenza in storia della filosofia e vinse il concorso per le grandi sedi per la cattedra di filosofia, pedagogia ed economia negli istituti magistrali, ottenendo come sede Genova. Frattanto la collaborazione con il Gobetti, che più che un sodalizio intellettuale aveva costituito un formativo comune impegno politico-sociale all'insegna del programma di democrazia liberale, lo portò in breve tempo allo scontro con il fascismo ormai trionfante.  è la diffida dei prefetto di Torino contro la Rivoluzione liberale (alla quale il C. collabora) e i suoi redattori. La conferma di questo impegno politico e intellettuale, il C. la offrì ulteriormente curando la pubblicazione postuma di Risorgimento senza eroi (Torino) del Gobetti e continuando a far uscire IlBaretti, pur orientando la rivista sempre più verso temi letterari e filosofici onde evitare scontri ancora più aspri con il regime. Nel 1926, grazie al Croce, che ormai era divenuto per lui - come per tanti altri antifascisti - "maestro di libertà", assunse la direzione della collana "Scrittori d'Italia" edita da Laterza. Nel maggio di quell'anno fu costretto a rinunciare alla collaborazione all'Enciclopedia Italiana, a cui era stato invitato dal Gentile, per gli atttacchi mossigli dalla stampa di regime.  Il dissenso dalla politica del fascismo ne provoco l'arresto il 21 apr. 1928; rinchiuso prima nelle carceri. di Marassi a Genova e quindi trasferito a S. Vittore a Milano, fu scarcerato il 6 luglio dello stesso anno. Venne sospeso dall'insegnamento e dalla libera docenza. Le accuse - come si legge in una lettera al Croce (in Il Dialogo, 1980) - erano tra l'altro di aver collaborato "al giornale socialistoide-democratico Il Lavoro" di Genova e di aver avuto rapporti con l'associazione antifascista Giovane Italia, insomma di essere "in una condizione di incompatibilità con le direttive generali del governo". Scagionato anche grazie all'intervento del Croce, il C. fu riammesso all'insegnamento il 9 aprile e la libera docenza gli fu restituita con d. m. Venne però destinato all'istituto magistrale di Messina, dove prese servizio dal 16 settembre.  Dall'ottobre di quell'anno ottenne l'incarico di filosofia e storia della filosofia e di pedagogia presso il magistero dell'università di Messina. Mantenne questi incarichi finché, nel 1933, vincitore di più concorsi, fu chiamato a coprire la cattedra di pedagogia nell'università di Catania. Passò alla cattedra di filosofia teoretica, conseguendo l'ordinariato.  Furono questi anni di studio intenso. Pur nel crocianesimo di base, si intravvede in Religione, teosofia, filosofia (Messina) e in Senso comune. Teoria e pratica (Bari) lo sforzo di plasmare un proprio e originale impianto teoretico.  In dialogo con i principali pensatori dell'idealismo tedesco e italiano, il C. si misura particolarmente con la crociana logica dei distinti. L'indagine si muove sul terreno dell'attività teoretico-pratica dello Spirito. Particolarmente Religione, teosofia, filosofia rappresenta questo tentativo compiuto dal C. per una revisione del sistema idealistico: vi è fatta emergere l'esigenza di un pensiero spirituale più attento da una parte alla concretezza dell'uomo e dall'altra alla ineffabilità di Dio. Perseguendo tale assunto, nella ricerca di un ordine della verità oltre la logica e la nozione di storia del Croce, il C. ripercorre in Senso comune le tappe storiche del pensiero occidentale, ricostruendo la genesi della dualità dello Spirito nella filosofia greca e poi seguendola nel suo sviluppo e nel suo problematicizzarsi nel pensiero moderno. La concezione della filosofia come educazione e storia, la stretta connessione tra la filosofia e la sua storia pongono il C. medianamente tra il Croce e il Gentile, e tuttavia nel senso di una sicura indipendenza dal loro pensiero. La sua posizione teoretica può essere così schematizzata: la teoresi è fondamentalmente caratterizzata dalla dialettica dei distinti, mentre la prassi genera lo scontro tra gli opposti; la sintesi dei distinti non è un tertium quid da essi distinto, ma consiste nella loro stessa inscindibile relazione. La loro circolarità consente, come riaffermerà in Ideologia (Catania), di guardare alla pratica come alla realizzazione della teoria, così che si può parlare e di un finalismo teoretico della pratica e di un finalismo pratico della teoria.  All'approfondimento critico dei neoidealismo italiano, il C. affianca l'approfondimento del rapporto tra ricerca filosofica e fede religiosa. Egli mantiene costante il dialogo tra filosofia, scienza e fede nelle trattazioni della piena maturità: Ideologia (Catania), Metalogica: filosofia dell'esperienza, Metafisica vichiana (Palermo), in cui è auspicata la possibilità della sopravvivenza del problema metafisico nell'orizzonte di una metafisica rinnovata, Conoscenza e metafisica. In quest'ultima opera è affrontato il rapporto verità-conoscere, con l'intento di delimitare i confini del sapere scientifico e di affermare razionalmente la capacità di intelligere la realtà della rivelazione. Qui la religione, anziché risolversi nella filosofia, colloca il proprio progresso in intima unità con il progresso della filosofia stessa: da un lato è esclusa la riduzione della religione ad atteggiamento pratico; dall'altro, le è conferita una distinta funzione teoretica. La piena adesione del C. allo spiritualismo cristiano, dunque, fa si che sia elusa la riduzione della filosofia a metodologia, senza dover rinunciare alla fondamentale esigenza di criticità, e che l'interesse si concentri su quelle istanze spiritualistiche, invero in lui presenti dagli anni giovanili sia come atteggiamento di vita - lo si evince dalle Lettere dal carcere - sia come ricerca originale di pensiero. In tal senso, l'adesione allo spiritualismo cristiano va dunque letta più nella prospettiva della continuità, dinamica e perciò trasformantesi e trasformante, che in quella della svolta.  Durante la sua lunga e proficua attività accademica, il C. ricoprì numerose cariche, tra cui quella di preside della facoltà di lettere e filosofia dell'università di Catania; fu presidente di sezione del British Council di Catania e presidente di sezione della Società filosofica italiana a Catania e a Palermo; fu anche presidente di sezione dell'Associazione pedagogica italiana. A Palermo si era stabilito definitivamente allorché venne chiamato prima alla cattedra di pedagogia e poi a quella di filosofia teoretica presso la facoltà di lettere e filosofia.  Il C. morì a Palermo. Opere: Per un elenco completo si rinvia a Bibliografia degli scritti di S. C., a cura di T. Caramella, in Miscellanea di studi filosofici in memoria di S. C. (suppl. n. 7 degli Atti dell'Accad. di scienze lettere e arti di Palermo), Palermo. Oltre alle opere citate ci limitiamo a ricordare qui: E. Bergson, Milano 1925; Antologia vichiana, Messina, Breve storia della pedagogia, La filosofia di Plotino e il neoplatonismo, Catania; Autocritica, in Filosofi italiani contemporanei, a cura di Sciacca, Milano L'Enciclopedia di Hegel, Padova; La filosofia dello Stato nel Risorgimento, Napoli; Introduzione a Kant, Palermo La pedagogia tedesca in Italia, Roma; Pedagogia. Saggio di voci nuove, Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centrale dello Stato, Casellario politico centrale, Per l'epistolario del C. contributi in: Lettere dal carcere di S. C., in Giornale di metafisica, Carteggio con Croce e Gobetti, in Il Dialogo, Carteggio Lombardo Radice-S. C., a cura di T. Caramella, Genova. Vedi inoltre: M.F. Sciacca, Profilo di S. C., in Annali della facoltà di magistero della università di Palermo,  Di Vona, Religione e filosofia nel pensiero giovanile di S. C., Conigliaro, Verità e dialogo nel pensiero di S. C., in Il Dialogo, Guzzo, S. C., in Filosofia, Sciacca, Il pensiero di S. C., in Atti dell'Accad. di scienze lettere e arti di Palermo, Sofia, Il dialogo di S. C. con gli uomini d'oggi, in Labor, Cafaro, Commemoraz. di S. C., in Nuova Riv. pedagogica, Piovani, La dialettica del vero e del certo nella "metafisica vichiana" di S. C., in Miscellanea di scritti filosofici in memoria di S. C., Palermo Ganci, S. C., Raschini, Commemoraz. del prof. S. C., in Giornale di metafisica, Brancato, S. C.: senso fine e significato della storia, Trapani 1974; V. Mathieu, Filosofia contemporanea, Firenze 1978, pp. 8-10; P. Prini, La ontologia storico-dialettica di S. C., in Theorein, Pareyson, Inizi e caratteri del pensiero di S. C., in Giornale di metafisica, Corselli, La vita dello spirito nella filosofia di S. C., in Labor, Raschini, Storiografia e metafisica nella interpretazione vichiana di S. C., in Filosofia oggi, V (1982), pp. 267-278; M. Corselli, La figura di S. C., in Labor, Sciacca, S. C. filosofo, pedagogista, educatore, in Pegaso. Annali della facoltà di magistero della università di Palermo.  δικά , ώς φησιν Ηρακλείδης ο Ποντικός εν τω περί Ερωτικών. ούτοι Φανέντες επιβουλεύοντες Φαλάριδί,Chariton& Melanippus και βασανιζόμενοι αναγκαζόμενοί τε λέγειν τους συν- confpirant . ειδότας,ουμόνονουκατείπον, αλλά καιτονΦάλα- adν.Ρhala ριν αυτόν είς έλεον ' των βασάνων ήγαγον , ως α π ο λύσαι αυτουςπολλά επαινέσαντα. διοκαιοΑπόλ. λων, ησθείς επί τούτοις, αναβολην του θανάτου το Φαλάριδίέχαρίσατο, τούτοέμφήναςτουςπυνθανομέ νουςτηςΠυθίαςόπωςαυτόεπιθώνται έχρησέτεκαι cπερί των αμφί τον Χαρίτωνα , προτάξας του εξαμέ τρου το πεντάμετρον, καθάπερ ύστερον και Διονύσιος 'Αθηναίος εποίησεν, ο επικληθεις Χαλκους, εν τοις Έλεγείοις. έστιδεοχρησμόςόδε  ετε -- Ευδαίμων Χαρίτων και Μελάνιππος έφυ , θείαςαγητηρες έφαμερίοιςφιλότατος. 1 Perperamέλαιονms.Εp.& moxαπολαύσαι1ns.A.proαπολύσαι. α > 737 Σ 2 Alibi άγητήρες. 2 amasius, ut ait Heraclides Ponticus in libro de A m a toriis. Hi igitur deprehensi insidias ftruxisse Phalaridi & tormentis subiecti quo coniuratos denunciare coge rentur, non modo non denunciarunt, fed etiam Phala rin ipsum ad misericordiam tormentorum commoverunt , ut plurimum collaudatos dimitteret. Quare etiam Apol lo,delectatusfacto,moram mortisindullitPhalaridi,hoc ipsum declarans his qui ipsum de ratione, qua tyran num adgrederentur,consuluerunt:atqueetiamdeCha ritone & Melanippo oraculum edidit, in quo pentame ter praepofitus hexametro erat; quemadmodum etiam pofteaDionysiusAthenienfis, isquiAeneuseftcognomi natus , in Elegiis fecit. Erat autem oraculum hocce : > Felix & Chariton & Melanippus erat, mortalium genti auctores coeleftis amoris. Santino Caramella. Keywords: il culto dell’eroe, gl’eroi, il culto degl’eroi, Niso ed Eurialo, Nicodemo, gl’eroi di Vico, “la verita in dialogo”, soggetto, intersoggetivita, lo spirito oggetivo, spiriti intersoggetivi, Apollo su Nicodemo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caramella” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Caramello – interpretare – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo Italiano. Grice: “I love Caramello – he exemplifies all that I say about latitudinal and longitudinal unities of philosophy – Aquinas is a ‘great,’ and Caramello has dedicated his life to him!”  Studia al prestigioso liceo classico Gioberti di Torino, entra in seminario e riceve l'ordinazione presbiteriale con una speciale dispensa papale dovuta alla giovane età a cui aveva completato gli studi. Si laurea a Torino. Insegna a Torino, e Chieri. Studia e cura Aquino. Praemittit autem huic operi philosophus prooemium, in quo sigillatim exponit ea, quae in hoc libro sunt tractanda. Et quia omnis scientia praemittit ea, quae de principiis sunt; partes autem compositorum sunt eorum principia; ideo oportet intendenti tractare de enunciatione praemittere de partibus eius. Unde dicit: primum oportet constituere, idest definire quid sit nomen et quid sit verbum. In Graeco habetur, primum oportet poni et idem significat. Quia enim demonstrationes definitiones praesupponunt, ex quibus concludunt, merito dicuntur positiones. Et ideo praemittuntur hic solae definitiones eorum, de quibus agendum est: quia ex definitionibus alia cognoscuntur.  Si quis autem quaerat, cum in libro praedicamentorum de simplicibus dictum sit, quae fuit necessitas ut hic rursum de nomine et verbo determinaretur; ad hoc dicendum quod simplicium dictionum triplex potest esse consideratio. Una quidem, secundum quod absolute significant simplices intellectus, et sic earum consideratio pertinet ad librum praedicamentorum. Alio modo, secundum rationem, prout sunt partes enunciationis; et sic determinatur de eis in hoc libro; et ideo traduntur sub ratione nominis et verbi: de quorum ratione est quod significent aliquid cum tempore vel sine tempore, et alia huiusmodi, quae pertinent ad rationem dictionum, secundum quod constituunt enunciationem. Tertio modo, considerantur secundum quod ex eis constituitur ordo syllogisticus, et sic determinatur de eis sub ratione terminorum in libro priorum.  Potest iterum dubitari quare, praetermissis aliis orationis partibus, de solo nomine et verbo determinet. Ad quod dicendum est quod, quia de simplici enunciatione determinare intendit, sufficit ut solas illas partes enunciationis pertractet, ex quibus ex necessitate simplex oratio constat. Potest autem ex solo nomine et verbo simplex enunciatio fieri, non autem ex aliis orationis partibus sine his; et ideo sufficiens ei fuit de his duabus determinare. Vel potest dici quod sola nomina et verba sunt principales orationis partes. Sub nominibus enim comprehenduntur pronomina, quae, etsi non nominant naturam, personam tamen determinant, et ideo loco nominum ponuntur: sub verbo vero participium, quod consignificat tempus: quamvis et cum nomine convenientiam habeat. Alia vero sunt magis colligationes partium orationis, significantes habitudinem unius ad aliam, quam orationis partes; sicut clavi et alia huiusmodi non sunt partes navis, sed partium navis coniunctiones.  His igitur praemissis quasi principiis, subiungit de his, quae pertinent ad principalem intentionem, dicens: postea quid negatio et quid affirmatio, quae sunt enunciationis partes: non quidem integrales, sicut nomen et verbum (alioquin oporteret omnem enunciationem ex affirmatione et negatione compositam esse), sed partes subiectivae, idest species. Quod quidem nunc supponatur, posterius autem manifestabitur.  Sed potest dubitari: cum enunciatio dividatur in categoricam et hypotheticam, quare de his non facit mentionem, sicut de affirmatione et negatione. Et potest dici quod hypothetica enunciatio ex pluribus categoricis componitur. Unde non differunt nisi secundum differentiam unius et multi. Vel potest dici, et melius, quod hypothetica enunciatio non continet absolutam veritatem, cuius cognitio requiritur in demonstratione, ad quam liber iste principaliter ordinatur; sed significat aliquid verum esse ex suppositione: quod non sufficit in scientiis demonstrativis, nisi confirmetur per absolutam veritatem simplicis enunciationis. Et ideo Aristoteles praetermisit tractatum de hypotheticis enu nciationibus et syllogismis. Subdit autem, et enunciatio, quae est genus negationis et affirmationis; et oratio, quae est genus enunciationis.  Si quis ulterius quaerat, quare non facit ulterius mentionem de voce, dicendum est quod vox est quoddam naturale; unde pertinet ad considerationem naturalis philosophiae, ut patet in secundo de anima, et in ultimo de generatione animalium. Unde etiam non est proprie orationis genus, sed assumitur ad constitutionem orationis, sicut res naturales ad constitutionem artificialium. Videtur autem ordo enunciationis esse praeposterus: nam affirmatio naturaliter est prior negatione, et iis prior est enunciatio, sicut genus; et per consequens oratio enunciatione. Sed dicendum quod, quia a partibus inceperat enumerare, procedit a partibus ad totum. Negationem autem, quae divisionem continet, eadem ratione praeponit affirmationi, quae consistit in compositione: quia divisio magis accedit ad partes, compositio vero magis accedit ad totum. Vel potest dici, secundum quosdam, quod praemittitur negatio, quia in iis quae possunt esse et non esse, prius est non esse, quod significat negatio, quam esse, quod significat affirmatio. Sed tamen, quia sunt species ex aequo dividentes genus, sunt simul natura; unde non refert quod eorum praeponatur. Praemisso prooemio, philosophus accedit ad propositum exequendum. Et quia ea, de quibus promiserat se dicturum, sunt voces significativae complexae vel incomplexae, ideo praemittit tractatum de significatione vocum: et deinde de vocibus significativis determinat de quibus in prooemio se dicturum promiserat. Et hoc ibi: nomen ergo est vox significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat qualis sit significatio vocum; secundo, ostendit differentiam significationum vocum complexarum et incomplexarum; ibi: est autem quemadmodum et cetera. Circa primum duo facit: primo quidem, praemittit ordinem significationis vocum; secundo, ostendit qualis sit vocum significatio, utrum sit ex natura vel ex impositione; ibi: et quemadmodum nec litterae et cetera.  Est ergo considerandum quod circa primum tria proponit, ex quorum uno intelligitur quartum. Proponit enim Scripturam, voces et animae passiones, ex quibus intelliguntur res. Nam passio est ex impressione alicuius agentis; et sic passiones animae originem habent ab ipsis rebus. Et si quidem homo esset naturaliter animal solitarium, sufficerent sibi animae passiones, quibus ipsis rebus conformaretur, ut earum notitiam in se haberet; sed quia homo est animal naturaliter politicum et sociale, necesse fuit quod conceptiones unius hominis innotescerent aliis, quod fit per vocem; et ideo necesse fuit esse voces significativas, ad hoc quod homines ad invicem conviverent. Unde illi, qui sunt diversarum linguarum, non possunt bene convivere ad invicem. Rursum si homo uteretur sola cognitione sensitiva, quae respicit solum ad hic et nunc, sufficeret sibi ad convivendum aliis vox significativa, sicut et caeteris animalibus, quae per quasdam voces, suas conceptiones invicem sibi manifestant: sed quia homo utitur etiam intellectuali cognitione, quae abstrahit ab hic et nunc; consequitur ipsum sollicitudo non solum de praesentibus secundum locum et tempus, sed etiam de his quae distant loco et futura sunt tempore. Unde ut homo conceptiones suas etiam his qui distant secundum locum et his qui venturi sunt in futuro tempore manifestet, necessarius fuit usus Scripturae.  Sed quia logica ordinatur ad cognitionem de rebus sumendam, significatio vocum, quae est immediata ipsis conceptionibus intellectus, pertinet ad principalem considerationem ipsius; significatio autem litterarum, tanquam magis remota, non pertinet ad eius considerationem, sed magis ad considerationem grammatici. Et ideo exponens ordinem significationum non incipit a litteris, sed a vocibus: quarum primo significationem exponens, dicit: sunt ergo ea, quae sunt in voce, notae, idest, signa earum passionum quae sunt in anima. Dicit autem ergo, quasi ex praemissis concludens: quia supra dixerat determinandum esse de nomine et verbo et aliis praedictis; haec autem sunt voces significativae; ergo oportet vocum significationem exponere.  Utitur autem hoc modo loquendi, ut dicat, ea quae sunt in voce, et non, voces, ut quasi continuatim loquatur cum praedictis. Dixerat enim dicendum esse de nomine et verbo et aliis huiusmodi. Haec autem tripliciter habent esse. Uno quidem modo, in conceptione intellectus; alio modo, in prolatione vocis; tertio modo, in conscriptione litterarum. Dicit ergo, ea quae sunt in voce etc.; ac si dicat, nomina et verba et alia consequentia, quae tantum sunt in voce, sunt notae. Vel, quia non omnes voces sunt significativae, et earum quaedam sunt significativae naturaliter, quae longe sunt a ratione nominis et verbi et aliorum consequentium; ut appropriet suum dictum ad ea de quibus intendit, ideo dicit, ea quae sunt in voce, idest quae continentur sub voce, sicut partes sub toto. Vel, quia vox est quoddam naturale, nomen autem et verbum significant ex institutione humana, quae advenit rei naturali sicut materiae, ut forma lecti ligno; ideo ad designandum nomina et verba et alia consequentia dicit, ea quae sunt in voce, ac si de lecto diceretur, ea quae sunt in ligno.  Circa id autem quod dicit, earum quae sunt in anima passionum, considerandum est quod passiones animae communiter dici solent appetitus sensibilis affectiones, sicut ira, gaudium et alia huiusmodi, ut dicitur in II Ethicorum. Et verum est quod huiusmodi passiones significant naturaliter quaedam voces hominum, ut gemitus infirmorum, et aliorum animalium, ut dicitur in I politicae. Sed nunc sermo est de vocibus significativis ex institutione humana; et ideo oportet passiones animae hic intelligere intellectus conceptiones, quas nomina et verba et orationes significant immediate, secundum sententiam Aristotelis. Non enim potest esse quod significent immediate ipsas res, ut ex ipso modo significandi apparet: significat enim hoc nomen homo naturam humanam in abstractione a singularibus. Unde non potest esse quod significet immediate hominem singularem; unde Platonici posuerunt quod significaret ipsam ideam hominis separatam. Sed quia hoc secundum suam abstractionem non subsistit realiter secundum sententiam Aristotelis, sed est in solo intellectu; ideo necesse fuit Aristoteli dicere quod voces significant intellectus conceptiones immediate et eis mediantibus res.  Sed quia non est consuetum quod conceptiones intellectus Aristoteles nominet passiones; ideo Andronicus posuit hunc librum non esse Aristotelis. Sed manifeste invenitur in 1 de anima quod passiones animae vocat omnes animae operationes. Unde et ipsa conceptio intellectus passio dici potest. Vel quia intelligere nostrum non est sine phantasmate: quod non est sine corporali passione; unde et imaginativam philosophus in III de anima vocat passivum intellectum. Vel quia extenso nomine passionis ad omnem receptionem, etiam ipsum intelligere intellectus possibilis quoddam pati est, ut dicitur in III de anima. Utitur autem potius nomine passionum, quam intellectuum: tum quia ex aliqua animae passione provenit, puta ex amore vel odio, ut homo interiorem conceptum per vocem alteri significare velit: tum etiam quia significatio vocum refertur ad conceptionem intellectus, secundum quod oritur a rebus per modum cuiusdam impressionis vel passionis.  Secundo, cum dicit: et ea quae scribuntur etc., agit de significatione Scripturae: et secundum Alexandrum hoc inducit ad manifestandum praecedentem sententiam per modum similitudinis, ut sit sensus: ita ea quae sunt in voce sunt signa passionum animae, sicut et litterae sunt signa vocum. Quod etiam manifestat per sequentia, cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc.; inducens hoc quasi signum praecedentis. Quod enim litterae significent voces, significatur per hoc, quod, sicut sunt diversae voces apud diversos, ita et diversae litterae. Et secundum hanc expositionem, ideo non dixit, et litterae eorum quae sunt in voce, sed ea quae scribuntur: quia dicuntur litterae etiam in prolatione et Scriptura, quamvis magis proprie, secundum quod sunt in Scriptura, dicantur litterae; secundum autem quod sunt in prolatione, dicantur elementa vocis. Sed quia Aristoteles non dicit, sicut et ea quae scribuntur, sed continuam narrationem facit, melius est ut dicatur, sicut Porphyrius exposuit, quod Aristoteles procedit ulterius ad complendum ordinem significationis. Postquam enim dixerat quod nomina et verba, quae sunt in voce, sunt signa eorum quae sunt in anima, continuatim subdit quod nomina et verba quae scribuntur, signa sunt eorum nominum et verborum quae sunt in voce. Deinde cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc., ostendit differentiam praemissorum significantium et significatorum, quantum ad hoc, quod est esse secundum naturam, vel non esse. Et circa hoc tria facit. Primo enim, ponit quoddam signum, quo manifestatur quod nec voces nec litterae naturaliter significant. Ea enim, quae naturaliter significant sunt eadem apud omnes. Significatio autem litterarum et vocum, de quibus nunc agimus, non est eadem apud omnes. Sed hoc quidem apud nullos unquam dubitatum fuit quantum ad litteras: quarum non solum ratio significandi est ex impositione, sed etiam ipsarum formatio fit per artem. Voces autem naturaliter formantur; unde et apud quosdam dubitatum fuit, utrum naturaliter significent. Sed Aristoteles hic determinat ex similitudine litterarum, quae sicut non sunt eaedem apud omnes, ita nec voces. Unde manifeste relinquitur quod sicut nec litterae, ita nec voces naturaliter significant, sed ex institutione humana. Voces autem illae, quae naturaliter significant, sicut gemitus infirmorum et alia huiusmodi, sunt eadem apud omnes.  Secundo, ibi: quorum autem etc., ostendit passiones animae naturaliter esse, sicut et res, per hoc quod eaedem sunt apud omnes. Unde dicit: quorum autem; idest sicut passiones animae sunt eaedem omnibus (quorum primorum, idest quarum passionum primarum, hae, scilicet voces, sunt notae, idest signa; comparantur enim passiones animae ad voces, sicut primum ad secundum: voces enim non proferuntur, nisi ad exprimendum interiores animae passiones), et res etiam eaedem, scilicet sunt apud omnes, quorum, idest quarum rerum, hae, scilicet passiones animae sunt similitudines. Ubi attendendum est quod litteras dixit esse notas, idest signa vocum, et voces passionum animae similiter; passiones autem animae dicit esse similitudines rerum: et hoc ideo, quia res non cognoscitur ab anima nisi per aliquam sui similitudinem existentem vel in sensu vel in intellectu. Litterae autem ita sunt signa vocum, et voces passionum, quod non attenditur ibi aliqua ratio similitudinis, sed sola ratio institutionis, sicut et in multis aliis signis: ut tuba est signum belli. In passionibus autem animae oportet attendi rationem similitudinis ad exprimendas res, quia naturaliter eas designant, non ex institutione.  Obiiciunt autem quidam, ostendere volentes contra hoc quod dicit passiones animae, quas significant voces, esse omnibus easdem. Primo quidem, quia diversi diversas sententias habent de rebus, et ita non videntur esse eaedem apud omnes animae passiones. Ad quod respondet Boethius quod Aristoteles hic nominat passiones animae conceptiones intellectus, qui numquam decipitur; et ita oportet eius conceptiones esse apud omnes easdem: quia, si quis a vero discordat, hic non intelligit. Sed quia etiam in intellectu potest esse falsum, secundum quod componit et dividit, non autem secundum quod cognoscit quod quid est, idest essentiam rei, ut dicitur in III de anima; referendum est hoc ad simplices intellectus conceptiones (quas significant voces incomplexae), quae sunt eaedem apud omnes: quia, si quis vere intelligit quid est homo, quodcunque aliud aliquid, quam hominem apprehendat, non intelligit hominem. Huiusmodi autem simplices conceptiones intellectus sunt, quas primo voces significant. Unde dicitur in IV metaphysicae quod ratio, quam significat nomen, est definitio. Et ideo signanter dicit: quorum primorum hae notae sunt, ut scilicet referatur ad primas conceptiones a vocibus primo significatas.  Sed adhuc obiiciunt aliqui de nominibus aequivocis, in quibus eiusdem vocis non est eadem passio, quae significatur apud omnes. Et respondet ad hoc Porphyrius quod unus homo, qui vocem profert, ad unam intellectus conceptionem significandam eam refert; et si aliquis alius, cui loquitur, aliquid aliud intelligat, ille qui loquitur, se exponendo, faciet quod referet intellectum ad idem. Sed melius dicendum est quod intentio Aristotelis non est asserere identitatem conceptionis animae per comparationem ad vocem, ut scilicet unius vocis una sit conceptio: quia voces sunt diversae apud diversos; sed intendit asserere identitatem conceptionum animae per comparationem ad res, quas similiter dicit esse easdem.  Tertio, ibi: de his itaque etc., excusat se a diligentiori harum consideratione: quia quales sint animae passiones, et quomodo sint rerum similitudines, dictum est in libro de anima. Non enim hoc pertinet ad logicum negocium, sed ad naturale. Postquam philosophus tradidit ordinem significationis vocum, hic agit de diversa vocum significatione: quarum quaedam significant verum vel falsum, quaedam non. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit differentiam; secundo, manifestat eam; ibi: circa compositionem enim et cetera. Quia vero conceptiones intellectus praeambulae sunt ordine naturae vocibus, quae ad eas exprimendas proferuntur, ideo ex similitudine differentiae, quae est circa intellectum, assignat differentiam, quae est circa significationes vocum: ut scilicet haec manifestatio non solum sit ex simili, sed etiam ex causa quam imitantur effectus.  Est ergo considerandum quod, sicut in principio dictum est, duplex est operatio intellectus, ut traditur in III de anima; in quarum una non invenitur verum et falsum, in altera autem invenitur. Et hoc est quod dicit quod in anima aliquoties est intellectus sine vero et falso, aliquoties autem ex necessitate habet alterum horum. Et quia voces significativae formantur ad exprimendas conceptiones intellectus, ideo ad hoc quod signum conformetur signato, necesse est quod etiam vocum significativarum similiter quaedam significent sine vero et falso, quaedam autem cum vero et falso.  Deinde cum dicit: circa compositionem etc., manifestat quod dixerat. Et primo, quantum ad id quod dixerat de intellectu; secundo, quantum ad id quod dixerat de assimilatione vocum ad intellectum; ibi: nomina igitur ipsa et verba et cetera. Ad ostendendum igitur quod intellectus quandoque est sine vero et falso, quandoque autem cum altero horum, dicit primo quod veritas et falsitas est circa compositionem et divisionem. Ubi oportet intelligere quod una duarum operationum intellectus est indivisibilium intelligentia: in quantum scilicet intellectus intelligit absolute cuiusque rei quidditatem sive essentiam per seipsam, puta quid est homo vel quid album vel quid aliud huiusmodi. Alia vero operatio intellectus est, secundum quod huiusmodi simplicia concepta simul componit et dividit. Dicit ergo quod in hac secunda operatione intellectus, idest componentis et dividentis, invenitur veritas et falsitas: relinquens quod in prima operatione non invenitur, ut etiam traditur in III de anima.  Sed circa hoc primo videtur esse dubium: quia cum divisio fiat per resolutionem ad indivisibilia sive simplicia, videtur quod sicut in simplicibus non est veritas vel falsitas, ita nec in divisione. Sed dicendum est quod cum conceptiones intellectus sint similitudines rerum, ea quae circa intellectum sunt dupliciter considerari et nominari possunt. Uno modo, secundum se: alio modo, secundum rationes rerum quarum sunt similitudines. Sicut imago Herculis secundum se quidem dicitur et est cuprum; in quantum autem est similitudo Herculis nominatur homo. Sic etiam, si consideremus ea quae sunt circa intellectum secundum se, semper est compositio, ubi est veritas et falsitas; quae nunquam invenitur in intellectu, nisi per hoc quod intellectus comparat unum simplicem conceptum alteri. Sed si referatur ad rem, quandoque dicitur compositio, quandoque dicitur divisio. Compositio quidem, quando intellectus comparat unum conceptum alteri, quasi apprehendens coniunctionem aut identitatem rerum, quarum sunt conceptiones; divisio autem, quando sic comparat unum conceptum alteri, ut apprehendat res esse diversas. Et per hunc etiam modum in vocibus affirmatio dicitur compositio, in quantum coniunctionem ex parte rei significat; negatio vero dicitur divisio, in quantum significat rerum separationem.  Ulterius autem videtur quod non solum in compositione et divisione veritas consistat. Primo quidem, quia etiam res dicitur vera vel falsa, sicut dicitur aurum verum vel falsum. Dicitur etiam quod ens et verum convertuntur. Unde videtur quod etiam simplex conceptio intellectus, quae est similitudo rei, non careat veritate et falsitate. Praeterea, philosophus dicit in Lib. de anima quod sensus propriorum sensibilium semper est verus; sensus autem non componvel dividit; non ergo in sola compositione vel divisione est veritas. Item, in intellectu divino nulla est compositio, ut probatur in XII metaphysicae; et tamen ibi est prima et summa veritas; non ergo veritas est solum circa compositionem et divisionem.  Ad huiusmodi igitur evidentiam considerandum est quod veritas in aliquo invenitur dupliciter: uno modo, sicut in eo quod est verum: alio modo, sicut in dicente vel cognoscente verum. Invenitur autem veritas sicut in eo quod est verum tam in simplicibus, quam in compositis; sed sicut in dicente vel cognoscente verum, non invenitur nisi secundum compositionem et divisionem. Quod quidem sic patet.  Verum enim, ut philosophus dicit in VI Ethicorum, est bonum intellectus. Unde de quocumque dicatur verum, oportet quod hoc sit per respectum ad intellectum. Comparantur autem ad intellectum voces quidem sicut signa, res autem sicut ea quorum intellectus sunt similitudines. Considerandum autem quod aliqua res comparatur ad intellectum dupliciter. Uno quidem modo, sicut mensura ad mensuratum, et sic comparantur res naturales ad intellectum speculativum humanum. Et ideo intellectus dicitur verus secundum quod conformatur rei, falsus autem secundum quod discordat a re. Res autem naturalis non dicitur esse vera per comparationem ad intellectum nostrum, sicut posuerunt quidam antiqui naturales, existimantes rerum veritatem esse solum in hoc, quod est videri: secundum hoc enim sequeretur quod contradictoria essent simul vera, quia contradictoria cadunt sub diversorum opinionibus. Dicuntur tamen res aliquae verae vel falsae per comparationem ad intellectum nostrum, non essentialiter vel formaliter, sed effective, in quantum scilicet natae sunt facere de se veram vel falsam existimationem; et secundum hoc dicitur aurum verum vel falsum. Alio autem modo, res comparantur ad intellectum, sicut mensuratum ad mensuram, ut patet in intellectu practico, qui est causa rerum. Unde opus artificis dicitur esse verum, in quantum attingit ad rationem artis; falsum vero, in quantum deficit a ratione artis.  Et quia omnia etiam naturalia comparantur ad intellectum divinum, sicut artificiata ad artem, consequens est ut quaelibet res dicatur esse vera secundum quod habet propriam formam, secundum quam imitatur artem divinam. Nam falsum aurum est verum aurichalcum. Et hoc modo ens et verum convertuntur, quia quaelibet res naturalis per suam formam arti divinae conformatur. Unde philosophus in I physicae, formam nominat quoddam divinum.  Et sicut res dicitur vera per comparationem ad suam mensuram, ita etiam et sensus vel intellectus, cuius mensura est res extra animam. Unde sensus dicitur verus, quando per formam suam conformatur rei extra animam existenti. Et sic intelligitur quod sensus proprii sensibilis sit verus. Et hoc etiam modo intellectus apprehendens quod quid est absque compositione et divisione, semper est verus, ut dicitur in III de anima. Est autem considerandum quod quamvis sensus proprii obiecti sit verus, non tamen cognoscit hoc esse verum. Non enim potest cognoscere habitudinem conformitatis suae ad rem, sed solam rem apprehendit; intellectus autem potest huiusmodi habitudinem conformitatis cognoscere; et ideo solus intellectus potest cognoscere veritatem. Unde et philosophus dicit in VI metaphysicae quod veritas est solum in mente, sicut scilicet in cognoscente veritatem. Cognoscere autem praedictam conformitatis habitudinem nihil est aliud quam iudicare ita esse in re vel non esse: quod est componere et dividere; et ideo intellectus non cognoscit veritatem, nisi componendo vel dividendo per suum iudicium. Quod quidem iudicium, si consonet rebus, erit verum, puta cum intellectus iudicat rem esse quod est, vel non esse quod non est. Falsum autem quando dissonat a re, puta cum iudicat non esse quod est, vel esse quod non est. Unde patet quod veritas et falsitas sicut in cognoscente et dicente non est nisi circa compositionem et divisionem. Et hoc modo philosophus loquitur hic. Et quia voces sunt signa intellectuum, erit vox vera quae significat verum intellectum, falsa autem quae significat falsum intellectum: quamvis vox, in quantum est res quaedam, dicatur vera sicut et aliae res. Unde haec vox, homo est asinus, est vere vox et vere signum; sed quia est signum falsi, ideo dicitur falsa.  Sciendum est autem quod philosophus de veritate hic loquitur secundum quod pertinet ad intellectum humanum, qui iudicat de conformitate rerum et intellectus componendo et dividendo. Sed iudicium intellectus divini de hoc est absque compositione et divisione: quia sicut etiam intellectus noster intelligit materialia immaterialiter, ita etiam intellectus divinus cognoscit compositionem et divisionem simpliciter.  Deinde cum dicit: nomina igitur ipsa et verba etc., manifestat quod dixerat de similitudine vocum ad intellectum. Et primo, manifestat propositum; secundo, probat per signum; ibi: huius autem signum et cetera. Concludit ergo ex praemissis quod, cum solum circa compositionem et divisionem sit veritas et falsitas in intellectu, consequens est quod ipsa nomina et verba, divisim accepta, assimilentur intellectui qui est sine compositione et divisione; sicut cum homo vel album dicitur, si nihil aliud addatur: non enim verum adhuc vel falsum est; sed postea quando additur esse vel non esse, fit verum vel falsum.  Nec est instantia de eo, qui per unicum nomen veram responsionem dat ad interrogationem factam; ut cum quaerenti: quid natat in mari? Aliquis respondet, piscis. Nam intelligitur verbum quod fuit in interrogatione positum. Et sicut nomen per se positum non significat verum vel falsum, ita nec verbum per se dictum. Nec est instantia de verbo primae et secundae personae, et de verbo exceptae actionis: quia in his intelligitur certus et determinatus nominativus. Unde est implicita compositio, licet non explicita.  Deinde cum dicit: signum autem etc., inducit signum ex nomine composito, scilicet Hircocervus, quod componitur ex hirco et cervus et quod in Graeco dicitur Tragelaphos; nam tragos est hircus, et elaphos cervus. Huiusmodi enim nomina significant aliquid, scilicet quosdam conceptus simplices, licet rerum compositarum; et ideo non est verum vel falsum, nisi quando additur esse vel non esse, per quae exprimitur iudicium intellectus. Potest autem addi esse vel non esse, vel secundum praesens tempus, quod est esse vel non esse in actu, et ideo hoc dicitur esse simpliciter; vel secundum tempus praeteritum, aut futurum, quod non est esse simpliciter, sed secundum quid; ut cum dicitur aliquid fuisse vel futurum esse. Signanter autem utitur exemplo ex nomine significante quod non est in rerum natura, in quo statim falsitas apparet, et quod sine compositione et divisione non possit verum vel falsum esse.  Postquam philosophus determinavit de ordine significationis vocum, hic accedit ad determinandum de ipsis vocibus significativis. Et quia principaliter intendit de enunciatione, quae est subiectum huius libri; in qualibet autem scientia oportet praenoscere principia subiecti; ideo primo, determinat de principiis enunciationis; secundo, de ipsa enunciatione; ibi: enunciativa vero non omnis et cetera. Circa primum duo facit: primo enim, determinat principia quasi materialia enunciationis, scilicet partes integrales ipsius; secundo, determinat principium formale, scilicet orationem, quae est enunciationis genus; ibi: oratio autem est vox significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de nomine, quod significat rei substantiam; secundo, determinat de verbo, quod significat actionem vel passionem procedentem a re; ibi: verbum autem est quod consignificat tempus et cetera. Circa primum tria facit: primo, definit nomen; secundo, definitionem exponit; ibi: in nomine enim quod est equiferus etc.; tertio, excludit quaedam, quae perfecte rationem nominis non habent, ibi: non homo vero non est nomen.  Circa primum considerandum est quod definitio ideo dicitur terminus, quia includit totaliter rem; ita scilicet, quod nihil rei est extra definitionem, cui scilicet definitio non conveniat; nec aliquid aliud est infra definitionem, cui scilicet definitio conveniat.  Et ideo quinque ponit in definitione nominis. Primo, ponitur vox per modum generis, per quod distinguitur nomen ab omnibus sonis, qui non sunt voces. Nam vox est sonus ab ore animalis prolatus, cum imaginatione quadam, ut dicitur in II de anima. Additur autem prima differentia, scilicet significativa, ad differentiam quarumcumque vocum non significantium, sive sit vox litterata et articulata, sicut biltris, sive non litterata et non articulata, sicut sibilus pro nihilo factus. Et quia de significatione vocum in superioribus actum est, ideo ex praemissis concludit quod nomen est vox significativa.  Sed cum vox sit quaedam res naturalis, nomen autem non est aliquid naturale sed ab hominibus institutum, videtur quod non debuit genus nominis ponere vocem, quae est ex natura, sed magis signum, quod est ex institutione; ut diceretur: nomen est signum vocale; sicut etiam convenientius definiretur scutella, si quis diceret quod est vas ligneum, quam si quis diceret quod est lignum formatum in vas.  Sed dicendum quod artificialia sunt quidem in genere substantiae ex parte materiae, in genere autem accidentium ex parte formae: nam formae artificialium accidentia sunt. Nomen ergo significat formam accidentalem ut concretam subiecto. Cum autem in definitione omnium accidentium oporteat poni subiectum, necesse est quod, si qua nomina accidens in abstracto significant quod in eorum definitione ponatur accidens in recto, quasi genus, subiectum autem in obliquo, quasi differentia; ut cum dicitur, simitas est curvitas nasi. Si qua vero nomina accidens significant in concreto, in eorum definitione ponitur materia, vel subiectum, quasi genus, et accidens, quasi differentia; ut cum dicitur, simum est nasus curvus. Si igitur nomina rerum artificialium significant formas accidentales, ut concretas subiectis naturalibus, convenientius est, ut in eorum definitione ponatur res naturalis quasi genus, ut dicamus quod scutella est lignum figuratum, et similiter quod nomen est vox significativa. Secus autem esset, si nomina artificialium acciperentur, quasi significantia ipsas formas artificiales in abstracto.  Tertio, ponit secundam differentiam cum dicit: secundum placitum, idest secundum institutionem humanam a beneplacito hominis procedentem. Et per hoc differt nomen a vocibus significantibus naturaliter, sicut sunt gemitus infirmorum et voces brutorum animalium.  Quarto, ponit tertiam differentiam, scilicet sine tempore, per quod differt nomen a verbo. Sed videtur hoc esse falsum: quia hoc nomen dies vel annus significat tempus. Sed dicendum quod circa tempus tria possunt considerari. Primo quidem, ipsum tempus, secundum quod est res quaedam, et sic potest significari a nomine, sicut quaelibet alia res. Alio modo, potest considerari id, quod tempore mensuratur, in quantum huiusmodi: et quia id quod primo et principaliter tempore mensuratur est motus, in quo consistit actio et passio, ideo verbum quod significat actionem vel passionem, significat cum tempore. Substantia autem secundum se considerata, prout significatur per nomen et pronomen, non habet in quantum huiusmodi ut tempore mensuretur, sed solum secundum quod subiicitur motui, prout per participium significatur. Et ideo verbum et participium significant cum tempore, non autem nomen et pronomen. Tertio modo, potest considerari ipsa habitudo temporis mensurantis; quod significatur per adverbia temporis, ut cras, heri et huiusmodi.  Quinto, ponit quartam differentiam cum subdit: cuius nulla pars est significativa separata, scilicet a toto nomine; comparatur tamen ad significationem nominis secundum quod est in toto. Quod ideo est, quia significatio est quasi forma nominis; nulla autem pars separata habet formam totius, sicut manus separata ab homine non habet formam humanam. Et per hoc distinguitur nomen ab oratione, cuius pars significat separata; ut cum dicitur, homo iustus.  Deinde cum dicit: in nomine enim quod est etc., manifestat praemissam definitionem. Et primo, quantum ad ultimam particulam; secundo, quantum ad tertiam; ibi: secundum vero placitum et cetera. Nam primae duae particulae manifestae sunt ex praemissis; tertia autem particula, scilicet sine temporeit, manifestabitur in sequentibus in tractatu de verbo. Circa primum duo facit: primo, manifestat propositum per nomina composita; secundo, ostendit circa hoc differentiam inter nomina simplicia et composita; ibi: at vero non quemadmodum et cetera. Manifestat ergo primo quod pars nominis separata nihil significat, per nomina composita, in quibus hoc magis videtur. In hoc enim nomine quod est equiferus, haec pars ferus, per se nihil significat sicut significat in hac oratione, quae est equus ferus. Cuius ratio est quod unum nomen imponitur ad significandum unum simplicem intellectum; aliud autem est id a quo imponitur nomen ad significandum, ab eo quod nomen significat; sicut hoc nomen lapis imponitur a laesione pedis, quam non significat: quod tamen imponitur ad significandum conceptum cuiusdam rei. Et inde est quod pars nominis compositi, quod imponitur ad significandum conceptum simplicem, non significat partem conceptionis compositae, a qua imponitur nomen ad significandum. Sed oratio significat ipsam conceptionem compositam: unde pars orationis significat partem conceptionis compositae.  Deinde cum dicit: at vero non etc., ostendit quantum ad hoc differentiam inter nomina simplicia et composita, et dicit quod non ita se habet in nominibus simplicibus, sicut et in compositis: quia in simplicibus pars nullo modo est significativa, neque secundum veritatem, neque secundum apparentiam; sed in compositis vult quidem, idest apparentiam habet significandi; nihil tamen pars eius significat, ut dictum est de nomine equiferus. Haec autem ratio differentiae est, quia nomen simplex sicut imponitur ad significandum conceptum simplicem, ita etiam imponitur ad significandum ab aliquo simplici conceptu; nomen vero compositum imponitur a composita conceptione, ex qua habet apparentiam quod pars eius significet.  Deinde cum dicit: secundum placitum etc., manifestat tertiam partem praedictae definitionis; et dicit quod ideo dictum est quod nomen significat secundum placitum, quia nullum nomen est naturaliter. Ex hoc enim est nomen, quod significat: non autem significat naturaliter, sed ex institutione. Et hoc est quod subdit: sed quando fit nota, idest quando imponitur ad significandum. Id enim quod naturaliter significat non fit, sed naturaliter est signum. Et hoc significat cum dicit: illitterati enim soni, ut ferarum, quia scilicet litteris significari non possunt. Et dicit potius sonos quam voces, quia quaedam animalia non habent vocem, eo quod carent pulmone, sed tantum quibusdam sonis proprias passiones naturaliter significant: nihil autem horum sonorum est nomen. Ex quo manifeste datur intelligi quod nomen non significat naturaliter.  Sciendum tamen est quod circa hoc fuit diversa quorumdam opinio. Quidam enim dixerunt quod nomina nullo modo naturaliter significant: nec differt quae res quo nomine significentur. Alii vero dixerunt quod nomina omnino naturaliter significant, quasi nomina sint naturales similitudines rerum. Quidam vero dixerunt quod nomina non naturaliter significant quantum ad hoc, quod eorum significatio non est a natura, ut Aristoteles hic intendit; quantum vero ad hoc naturaliter significant quod eorum significatio congruit naturis rerum, ut Plato dixit. Nec obstat quod una res multis nominibus significatur: quia unius rei possunt esse multae similitudines; et similiter ex diversis proprietatibus possunt uni rei multa diversa nomina imponi. Non est autem intelligendum quod dicit: quorum nihil est nomen, quasi soni animalium non habeant nomina: nominantur enim quibusdam nominibus, sicut dicitur rugitus leonis et mugitus bovis; sed quia nullus talis sonus est nomen, ut dictum est.  Deinde cum dicit: non homo vero etc., excludit quaedam a nominis ratione. Et primo, nomen infinitum; secundo, casus nominum; ibi: Catonis autem vel Catoni et cetera. Dicit ergo primo quod non homo non est nomen. Omne enim nomen significat aliquam naturam determinatam, ut homo; aut personam determinatam, ut pronomen; aut utrumque determinatum, ut Socrates. Sed hoc quod dico non homo, neque determinatam naturam neque determinatam personam significat. Imponitur enim a negatione hominis, quae aequaliter dicitur de ente, et non ente. Unde non homo potest dici indifferenter, et de eo quod non est in rerum natura; ut si dicamus, Chimaera est non homo, et de eo quod est in rerum natura; sicut cum dicitur, equus est non homo. Si autem imponeretur a privatione, requireret subiectum ad minus existens: sed quia imponitur a negatione, potest dici de ente et de non ente, ut Boethius et Ammonius dicunt. Quia tamen significat per modum nominis, quod potest subiici et praedicari, requiritur ad minus suppositum in apprehensione. Non autem erat nomen positum tempore Aristotelis sub quo huiusmodi dictiones concluderentur. Non enim est oratio, quia pars eius non significat aliquid separata, sicut nec in nominibus compositis; similiter autem non est negatio, id est oratio negativa, quia huiusmodi oratio superaddit negationem affirmationi, quod non contingit hic. Et ideo novum nomen imponit huiusmodi dictioni, vocans eam nomen infinitum propter indeterminationem significationis, ut dictum est.  Deinde cum dicit: Catonis autem vel Catoni etc., excludit casus nominis; et dicit quod Catonis vel Catoni et alia huiusmodi non sunt nomina, sed solus nominativus dicitur principaliter nomen, per quem facta est impositio nominis ad aliquid significandum. Huiusmodi autem obliqui vocantur casus nominis: quia quasi cadunt per quamdam declinationis originem a nominativo, qui dicitur rectus eo quod non cadit. Stoici autem dixerunt etiam nominativos dici casus: quos grammatici sequuntur, eo quod cadunt, idest procedunt ab interiori conceptione mentis. Et dicitur rectus, eo quod nihil prohibet aliquid cadens sic cadere, ut rectum stet, sicut stilus qui cadens ligno infigitur.  Deinde cum dicit: ratio autem eius etc., ostendit consequenter quomodo se habeant obliqui casus ad nomen; et dicit quod ratio, quam significat nomen, est eadem et in aliis, scilicet casibus nominis; sed in hoc est differentia quod nomen adiunctum cum hoc verbo est vel erit vel fuit semper significat verum vel falsum: quod non contingit in obliquis. Signanter autem inducit exemplum de verbo substantivo: quia sunt quaedam alia verba, scilicet impersonalia, quae cum obliquis significant verum vel falsum; ut cum dicitur, poenitet Socratem, quia actus verbi intelligitur ferri super obliquum; ac si diceretur, poenitentia habet Socratem.  Sed contra: si nomen infinitum et casus non sunt nomina, inconvenienter data est praemissa nominis definitio, quae istis convenit. Sed dicendum, secundum Ammonium, quod supra communius definit nomen, postmodum vero significationem nominis arctat subtrahendo haec a nomine. Vel dicendum quod praemissa definitio non simpliciter convenit his: nomen enim infinitum nihil determinatum significat, neque casus nominis significat secundum primum placitum instituentis, ut dictum est. Postquam philosophus determinavit de nomine: hic determinat de verbo. Et circa hoc tria facit: primo, definit verbum; secundo, excludit quaedam a ratione verbi; ibi: non currit autem, et non laborat etc.; tertio, ostendit convenientiam verbi ad nomen; ibi: ipsa quidem secundum se dicta verba, et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit definitionem verbi; secundo exponit eam; ibi: dico autem quoniam consignificat et cetera.  Est autem considerandum quod Aristoteles, brevitati studens, non ponit in definitione verbi ea quae sunt nomini et verbo communia, relinquens ea intellectui legentis ex his quae dixerat in definitione nominis. Ponit autem tres particulas in definitione verbi: quarum prima distinguit verbum a nomine, in hoc scilicet quod dicit quod consignificat tempus. Dictum est enim in definitione nominis quod nomen significat sine tempore. Secunda vero particula est, per quam distinguitur verbum ab oratione, scilicet cum dicitur: cuius pars nihil extra significat.  Sed cum hoc etiam positum sit in definitione nominis, videtur hoc debuisse praetermitti, sicut et quod dictum est, vox significativa ad placitum. Ad quod respondet Ammonius quod in definitione nominis hoc positum est, ut distinguatur nomen ab orationibus, quae componuntur ex nominibus; ut cum dicitur, homo est animal. Quia vero sunt etiam quaedam orationes quae componuntur ex verbis; ut cum dicitur, ambulare est moveri, ut ab his distinguatur verbum, oportuit hoc etiam in definitione verbi iterari. Potest etiam aliter dici quod quia verbum importat compositionem, in qua perficitur oratio verum vel falsum significans, maiorem convenientiam videbatur verbum habere cum oratione, quasi quaedam pars formalis ipsius, quam nomen, quod est quaedam pars materialis et subiectiva orationis; et ideo oportuit iterari.  Tertia vero particula est, per quam distinguitur verbum non solum a nomine, sed etiam a participio quod significat cum tempore; unde dicit: et est semper eorum, quae de altero praedicantur nota, idest signum: quia scilicet nomina et participia possunt poni ex parte subiecti et praedicati, sed verbum semper est ex parte praedicati.  Sed hoc videtur habere instantiam in verbis infinitivi modi, quae interdum ponuntur ex parte subiecti; ut cum dicitur, ambulare est moveri. Sed dicendum est quod verba infinitivi modi, quando in subiecto ponuntur, habent vim nominis: unde et in Graeco et in vulgari Latina locutione suscipiunt additionem articulorum sicut et nomina. Cuius ratio est quia proprium nominis est, ut significet rem aliquam quasi per se existentem; proprium autem verbi est, ut significet actionem vel passionem. Potest autem actio significari tripliciter: uno modo, per se in abstracto, velut quaedam res, et sic significatur per nomen; ut cum dicitur actio, passio, ambulatio, cursus et similia; alio modo, per modum actionis, ut scilicet est egrediens a substantia et inhaerens ei ut subiecto, et sic significatur per verba aliorum modorum, quae attribuuntur praedicatis. Sed quia etiam ipse processus vel inhaerentia actionis potest apprehendi ab intellectu et significari ut res quaedam, inde est quod ipsa verba infinitivi modi, quae significant ipsam inhaerentiam actionis ad subiectum, possunt accipi ut verba, ratione concretionis, et ut nomina prout significant quasi res quasdam.  Potest etiam obiici de hoc quod etiam verba aliorum modorum videntur aliquando in subiecto poni; ut cum dicitur, curro est verbum. Sed dicendum est quod in tali locutione, hoc verbum curro, non sumitur formaliter, secundum quod eius significatio refertur ad rem, sed secundum quod materialiter significat ipsam vocem, quae accipitur ut res quaedam. Et ideo tam verba, quam omnes orationis partes, quando ponuntur materialiter, sumuntur in vi nominum.  Deinde cum dicit: dico vero quoniam consignificat etc., exponit definitionem positam. Et primo, quantum ad hoc quod dixerat quod consignificat tempus; secundo, quantum ad hoc quod dixerat quod est nota eorum quae de altero praedicantur, cum dicit: et semper est et cetera. Secundam autem particulam, scilicet: cuius nulla pars extra significat, non exponit, quia supra exposita est in tractatu nominis. Exponit ergo primum quod verbum consignificat tempus, per exemplum; quia videlicet cursus, quia significat actionem non per modum actionis, sed per modum rei per se existentis, non consignificat tempus, eo quod est nomen. Curro vero cum sit verbum significans actionem, consignificat tempus, quia proprium est motus tempore mensurari; actiones autem nobis notae sunt in tempore. Dictum est autem supra quod consignificare tempus est significare aliquid in tempore mensuratum. Unde aliud est significare tempus principaliter, ut rem quamdam, quod potest nomini convenire, aliud autem est significare cum tempore, quod non convenit nomini, sed verbo.  Deinde cum dicit: et est semper etc., exponit aliam particulam. Ubi notandum est quod quia subiectum enunciationis significatur ut cui inhaeret aliquid, cum verbum significet actionem per modum actionis, de cuius ratione est ut inhaereat, semper ponitur ex parte praedicati, nunquam autem ex parte subiecti, nisi sumatur in vi nominis, ut dictum est. Dicitur ergo verbum semper esse nota eorum quae dicuntur de altero: tum quia verbum semper significat id, quod praedicatur; tum quia in omni praedicatione oportet esse verbum, eo quod verbum importat compositionem, qua praedicatum componitur subiecto.  Sed dubium videtur quod subditur: ut eorum quae de subiecto vel in subiecto sunt. Videtur enim aliquid dici ut de subiecto, quod essentialiter praedicatur; ut, homo est animal; in subiecto autem, sicut accidens de subiecto praedicatur; ut, homo est albus. Si ergo verba significant actionem vel passionem, quae sunt accidentia, consequens est ut semper significent ea, quae dicuntur ut in subiecto. Frustra igitur dicitur in subiecto vel de subiecto. Et ad hoc dicit Boethius quod utrumque ad idem pertinet. Accidens enim et de subiecto praedicatur, et in subiecto est. Sed quia Aristoteles disiunctione utitur, videtur aliud per utrumque significare. Et ideo potest dici quod cum Aristoteles dicit quod, verbum semper est nota eorum, quae de altero praedicantur, non est sic intelligendum, quasi significata verborum sint quae praedicantur, quia cum praedicatio videatur magis proprie ad compositionem pertinere, ipsa verba sunt quae praedicantur, magis quam significent praedicata. Est ergo intelligendum quod verbum semper est signum quod aliqua praedicentur, quia omnis praedicatio fit per verbum ratione compositionis importatae, sive praedicetur aliquid essentialiter sive accidentaliter.  Deinde cum dicit: non currit vero et non laborat etc., excludit quaedam a ratione verbi. Et primo, verbum infinitum; secundo, verba praeteriti temporis vel futuri; ibi: similiter autem curret vel currebat. Dicit ergo primo quod non currit, et non laborat, non proprie dicitur verbum. Est enim proprium verbi significare aliquid per modum actionis vel passionis; quod praedictae dictiones non faciunt: removent enim actionem vel passionem, potius quam aliquam determinatam actionem vel passionem significent. Sed quamvis non proprie possint dici verbum, tamen conveniunt sibi ea quae supra posita sunt in definitione verbi. Quorum primum est quod significat tempus, quia significat agere et pati, quae sicut sunt in tempore, ita privatio eorum; unde et quies tempore mensuratur, ut habetur in VI physicorum. Secundum est quod semper ponitur ex parte praedicati, sicut et verbum: ethoc ideo, quia negatio reducitur ad genus affirmationis. Unde sicut verbum quod significat actionem vel passionem, significat aliquid ut in altero existens, ita praedictae dictiones significant remotionem actionis vel passionis.  Si quis autem obiiciat: si praedictis dictionibus convenit definitio verbi; ergo sunt verba; dicendum est quod definitio verbi supra posita datur de verbo communiter sumpto. Huiusmodi autem dictiones negantur esse verba, quia deficiunt a perfecta ratione verbi. Nec ante Aristotelem erat nomen positum huic generi dictionum a verbis differentium; sed quia huiusmodi dictiones in aliquo cum verbis conveniunt, deficiunt tamen a determinata ratione verbi, ideo vocat ea verba infinita. Et rationem nominis assignat, quia unumquodque eorum indifferenter potest dici de eo quod est, vel de eo quod non est. Sumitur enim negatio apposita non in vi privationis, sed in vi simplicis negationis. Privatio enim supponit determinatum subiectum. Differunt tamen huiusmodi verba a verbis negativis, quia verba infinita sumuntur in vi unius dictionis, verba vero negativa in vi duarum dictionum.  Deinde cum dicit: similiter autem curret etc., excludit a verbo verba praeteriti et futuri temporis; et dicit quod sicut verba infinita non sunt simpliciter verba, ita etiam curret, quod est futuri temporis, vel currebat, quod est praeteriti temporis, non sunt verba, sed sunt casus verbi. Et differunt in hoc a verbo, quia verbum consignificat praesens tempus, illa vero significant tempus hinc et inde circumstans. Dicit autem signanter praesens tempus, et non simpliciter praesens, ne intelligatur praesens indivisibile, quod est instans: quia in instanti non est motus, nec actio aut passio; sed oportet accipere praesens tempus quod mensurat actionem, quae incepit, et nondum est determinata per actum. Recte autem ea quae consignificant tempus praeteritum vel futurum, non sunt verba proprie dicta: cum enim verbum proprie sit quod significat agere vel pati, hoc est proprie verbum quod significat agere vel pati in actu, quod est agere vel pati simpliciter: sed agere vel pati in praeterito vel futuro est secundum quid.  Dicuntur etiam verba praeteriti vel futuri temporis rationabiliter casus verbi, quod consignificat praesens tempus; quia praeteritum vel futurum dicitur per respectum ad praesens. Est enim praeteritum quod fuit praesens, futurum autem quod erit praesens.  Cum autem declinatio verbi varietur per modos, tempora, numeros et personas, variatio quae fit per numerum et personam non constituit casus verbi: quia talis variatio non est ex parte actionis, sed ex parte subiecti; sed variatio quae est per modos et tempora respicit ipsam actionem, et ideo utraque constituit casus verbi. Nam verba imperativi vel optativi modi casus dicuntur, sicut et verba praeteriti vel futuri temporis. Sed verba indicativi modi praesentis temporis non dicuntur casus, cuiuscumque sint personae vel numeri. Deinde cum dicit: ipsa itaque etc., ostendit convenientiam verborum ad nomina. Et circa hoc duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: et significant aliquid et cetera. Dicit ergo primo, quod ipsa verba secundum se dicta sunt nomina: quod a quibusdam exponitur de verbis quae sumuntur in vi nominis, ut dictum est, sive sint infinitivi modi; ut cum dico, currere est moveri, sive sint alterius modi; ut cum dico, curro est verbum. Sed haec non videtur esse intentio Aristotelis, quia ad hanc intentionem non respondent sequentia. Et ideo aliter dicendum est quod nomen hic sumitur, prout communiter significat quamlibet dictionem impositam ad significandum aliquam rem. Et quia etiam ipsum agere vel pati est quaedam res, inde est quod et ipsa verba in quantum nominant, idest significant agere vel pati, sub nominibus comprehenduntur communiter acceptis. Nomen autem, prout a verbo distinguitur, significat rem sub determinato modo, prout scilicet potest intelligi ut per se existens. Unde nomina possunt subiici et praedicari.  Deinde cum dicit: et significant aliquid etc., probat propositum. Et primo, per hoc quod verba significant aliquid, sicut et nomina; secundo, per hoc quod non significant verum vel falsum, sicut nec nomina; ibi: sed si est, aut non est et cetera. Dicit ergo primo quod in tantum dictum est quod verba sunt nomina, in quantum significant aliquid. Et hoc probat, quia supra dictum est quod voces significativae significant intellectus. Unde proprium vocis significativae est quod generet aliquem intellectum in animo audientis. Et ideo ad ostendendum quod verbum sit vox significativa, assumit quod ille, qui dicit verbum, constituit intellectum in animo audientis. Et ad hoc manifestandum inducit quod ille, qui audit, quiescit.  Sed hoc videtur esse falsum: quia sola oratio perfecta facit quiescere intellectum, non autem nomen, neque verbum si per se dicatur. Si enim dicam, homo, suspensus est animus audientis, quid de eo dicere velim; si autem dico, currit, suspensus est eius animus de quo dicam. Sed dicendum est quod cum duplex sit intellectus operatio, ut supra habitum est, ille qui dicit nomen vel verbum secundum se, constituit intellectum quantum ad primam operationem, quae est simplex conceptio alicuius, et secundum hoc, quiescit audiens, qui in suspenso erat antequam nomen vel verbum proferretur et eius prolatio terminaretur; non autem constituit intellectum quantum ad secundam operationem, quae est intellectus componentis et dividentis, ipsum verbum vel nomen per se dictum: nec quantum ad hoc facit quiescere audientem.  Et ideo statim subdit: sed si est, aut non est, nondum significat, idest nondum significat aliquid per modum compositionis et divisionis, aut veri vel falsi. Et hoc est secundum, quod probare intendit. Probat autem consequenter per illa verba, quae maxime videntur significare veritatem vel falsitatem, scilicet ipsum verbum quod est esse, et verbum infinitum quod est non esse; quorum neutrum per se dictum est significativum veritatis vel falsitatis in re; unde multo minus alia. Vel potest intelligi hoc generaliter dici de omnibus verbis. Quia enim dixerat quod verbum non significat si est res vel non est, hoc consequenter manifestat, quia nullum verbum est significativum esse rei vel non esse, idest quod res sit vel non sit. Quamvis enim omne verbum finitum implicet esse, quia currere est currentem esse, et omne verbum infinitum implicet non esse, quia non currere est non currentem esse; tamen nullum verbum significat hoc totum, scilicet rem esse vel non esse.  Et hoc consequenter probat per id, de quo magis videtur cum subdit: nec si hoc ipsum est purum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ubi notandum est quod in Graeco habetur: neque si ens ipsum nudum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ad probandum enim quod verba non significant rem esse vel non esse, assumpsit id quod est fons et origo ipsius esse, scilicet ipsum ens, de quo dicit quod nihil est (ut Alexander exponit), quia ens aequivoce dicitur de decem praedicamentis; omne autem aequivocum per se positum nihil significat, nisi aliquid addatur quod determinet eius significationem; unde nec ipsum est per se dictum significat quod est vel non est. Sed haec expositio non videtur conveniens, tum quia ens non dicitur proprie aequivoce, sed secundum prius et posterius; unde simpliciter dictum intelligitur de eo, quod per prius dicitur: tum etiam, quia dictio aequivoca non nihil significat, sed multa significat; et quandoque hoc, quandoque illud per ipsam accipitur: tum etiam, quia talis expositio non multum facit ad intentionem praesentem. Unde Porphyrius aliter exposuit quod hoc ipsum ens non significat naturam alicuius rei, sicut hoc nomen homo vel sapiens, sed solum designat quamdam coniunctionem; unde subdit quod consignificat quamdam compositionem, quam sine compositis non est intelligere. Sed neque hoc convenienter videtur dici: quia si non significaret aliquam rem, sed solum coniunctionem, non esset neque nomen, neque verbum, sicut nec praepositiones aut coniunctiones. Et ideo aliter exponendum est, sicut Ammonius exponit, quod ipsum ens nihil est, idest non significat verum vel falsum. Et rationem huius assignat, cum subdit: consignificat autem quamdam compositionem. Nec accipitur hic, ut ipse dicit, consignificat, sicut cum dicebatur quod verbum consignificat tempus, sed consignificat, idest cum alio significat, scilicet alii adiunctum compositionem significat, quae non potest intelligi sine extremis compositionis. Sed quia hoc commune est omnibus nominibus et verbis, non videtur haec expositio esse secundum intentionem Aristotelis, qui assumpsit ipsum ens quasi quoddam speciale. Et ideo ut magis sequamur verba Aristotelis considerandum est quod ipse dixerat quod verbum non significat rem esse vel non esse, sed nec ipsum ens significat rem esse vel non esse. Et hoc est quod dicit, nihil est, idest non significat aliquid esse. Etenim hoc maxime videbatur de hoc quod dico ens: quia ens nihil est aliud quam quod est. Et sic videtur et rem significare, per hoc quod dico quod et esse, per hoc quod dico est. Et si quidem haec dictio ens significaret esse principaliter, sicut significat rem quae habet esse, procul dubio significaret aliquid esse. Sed ipsam compositionem, quae importatur in hoc quod dico est, non principaliter significat, sed consignificat eam in quantum significat rem habentem esse. Unde talis consignificatio compositionis non sufficit ad veritatem vel falsitatem: quia compositio, in qua consistit veritas et falsitas, non potest intelligi, nisi secundum quod innectit extrema compositionis.  Si vero dicatur, nec ipsum esse, ut libri nostri habent, planior est sensus. Quod enim nullum verbum significat rem esse vel non esse, probat per hoc verbum est, quod secundum se dictum, non significat aliquid esse, licet significet esse. Et quia hoc ipsum esse videtur compositio quaedam, et ita hoc verbum est, quod significat esse, potest videri significare compositionem, in qua sit verum vel falsum; ad hoc excludendum subdit quod illa compositio, quam significat hoc verbum est, non potest intelligi sine componentibus: quia dependet eius intellectus ab extremis, quae si non apponantur, non est perfectus intellectus compositionis, ut possit in ea esse verum, vel falsum.  Ideo autem dicit quod hoc verbum est consignificat compositionem, quia non eam principaliter significat, sed ex consequenti; significat enim primo illud quod cadit in intellectu per modum actualitatis absolute: nam est, simpliciter dictum, significat in actu esse; et ideo significat per modum verbi. Quia vero actualitas, quam principaliter significat hoc verbum est, est communiter actualitas omnis formae, vel actus substantialis vel accidentalis, inde est quod cum volumus significare quamcumque formam vel actum actualiter inesse alicui subiecto, significamus illud per hoc verbum est, vel simpliciter vel secundum quid: simpliciter quidem secundum praesens tempus; secundum quid autem secundum alia tempora. Et ideo ex consequenti hoc verbum est significat compositionem. Postquam philosophus determinavit de nomine et de verbo, quae sunt principia materialia enunciationis, utpote partes eius existentes; nunc determinat de oratione, quae est principium formale enunciationis, utpote genus eius existens. Et circa hoc tria facit: primo enim, proponit definitionem orationis; secundo, exponit eam; ibi: dico autem ut homo etc.; tertio, excludit errorem; ibi: est autem oratio omnis et cetera.  Circa primum considerandum est quod philosophus in definitione orationis primo ponit illud in quo oratio convenit cum nomine et verbo, cum dicit: oratio est vox significativa, quod etiam posuit in definitione nominis, et probavit de verbo quod aliquid significet. Non autem posuit in eius definitione, quia supponebat ex eo quod positum erat in definitione nominis, studens brevitati, ne idem frequenter iteraret. Iterat tamen hoc in definitione orationis, quia significatio orationis differt a significatione nominis et verbi, quia nomen vel verbum significat simplicem intellectum, oratio vero significat intellectum compositum.  Secundo autem ponit id, in quo oratio differt a nomine et verbo, cum dicit: cuius partium aliquid significativum est separatim. Supra enim dictum est quod pars nominis non significat aliquid per se separatum, sed solum quod est coniunctum ex duabus partibus. Signanter autem non dicit: cuius pars est significativa aliquid separata, sed cuius aliquid partium est significativum, propter negationes et alia syncategoremata, quae secundum se non significant aliquid absolutum, sed solum habitudinem unius ad alterum. Sed quia duplex est significatio vocis, una quae refertur ad intellectum compositum, alia quae refertur ad intellectum simplicem; prima significatio competit orationi, secunda non competit orationi, sed parti orationis. Unde subdit: ut dictio, non ut affirmatio. Quasi dicat: pars orationis est significativa, sicut dictio significat, puta ut nomen et verbum, non sicut affirmatio, quae componitur ex nomine et verbo. Facit autem mentionem solum de affirmatione et non de negatione, quia negatio secundum vocem superaddit affirmationi; unde si pars orationis propter sui simplicitatem non significat aliquid, ut affirmatio, multo minus ut negatio.  Sed contra hanc definitionem Aspasius obiicit quod videtur non omnibus partibus orationis convenire. Sunt enim quaedam orationes, quarum partes significant aliquid ut affirmatio; ut puta, si sol lucet super terram, dies est; et sic de multis. Et ad hoc respondet Porphyrius quod in quocumque genere invenitur prius et posterius, debet definiri id quod prius est. Sicut cum datur definitio alicuius speciei, puta hominis, intelligitur definitio de eo quod est in actu, non de eo quod est in potentia; et ideo quia in genere orationis prius est oratio simplex, inde est quod Aristoteles prius definivit orationem simplicem. Vel potest dici, secundum Alexandrum et Ammonium, quod hic definitur oratio in communi. Unde debet poni in hac definitione id quod est commune orationi simplici et compositae. Habere autem partes significantes aliquid ut affirmatio, competit soli orationi, compositae; sed habere partes significantes aliquid per modum dictionis, et non per modum affirmationis, est commune orationi simplici et compositae. Et ideo hoc debuit poni in definitione orationis. Et secundum hoc non debet intelligi esse de ratione orationis quod pars eius non sit affirmatio: sed quia de ratione orationis est quod pars eius sit aliquid quod significat per modum dictionis, et non per modum affirmationis. Et in idem redit solutio Porphyrii quantum ad sensum, licet quantum ad verba parumper differat. Quia enim Aristoteles frequenter ponit dicere pro affirmare, ne dictio pro affirmatione sumatur, subdit quod pars orationis significat ut dictio, et addit non ut affirmatio: quasi diceret, secundum sensum Porphyrii, non accipiatur nunc dictio secundum quod idem est quod affirmatio. Philosophus autem, qui dicitur Ioannes grammaticus, voluit quod haec definitio orationis daretur solum de oratione perfecta, eo quod partes non videntur esse nisi alicuius perfecti, sicut omnes partes domus referuntur ad domum: et ideo secundum ipsum sola oratio perfecta habet partes significativas. Sed tamen hic decipiebatur, quia quamvis omnes partes referantur principaliter ad totum perfectum, quaedam tamen partes referuntur ad ipsum immediate, sicut paries et tectum ad domum, et membra organica ad animal: quaedam vero mediantibus partibus principalibus quarum sunt partes; sicut lapides referuntur ad domum mediante pariete; nervi autem et ossa ad animal mediantibus membris organicis, scilicet manu et pede et huiusmodi. Sic ergo omnes partes orationis principaliter referuntur ad orationem perfectam, cuius pars est oratio imperfecta, quae etiam ipsa habet partes significantes. Unde ista definitio convenit tam orationi perfectae, quam imperfectae.  Deinde cum dicit: dico autem ut homo etc., exponit propositam definitionem. Et primo, manifestat verum esse quod dicitur; secundo, excludit falsum intellectum; ibi: sed non una hominis syllaba et cetera. Exponit ergo quod dixerat aliquid partium orationis esse significativum, sicut hoc nomen homo, quod est pars orationis, significat aliquid, sed non significat ut affirmatio aut negatio, quia non significat esse vel non esse. Et hoc dico non in actu, sed solum in potentia. Potest enim aliquid addi, per cuius additionem fit affirmatio vel negatio, scilicet si addatur ei verbum.  Deinde cum dicit: sed non una hominis etc., excludit falsum intellectum. Et posset hoc referri ad immediate dictum, ut sit sensus quod nomen erit affirmatio vel negatio, si quid ei addatur, sed non si addatur ei una nominis syllaba. Sed quia huic sensui non conveniunt verba sequentia, oportet quod referatur ad id, quod supra dictum est in definitione orationis, scilicet quod aliquid partium eius sit significativum separatim. Sed quia pars alicuius totius dicitur proprie illud, quod immediate venit ad constitutionem totius, non autem pars partis; ideo hoc intelligendum est de partibus ex quibus immediate constituitur oratio, scilicet de nomine et verbo, non autem de partibus nominis vel verbi, quae sunt syllabae vel litterae. Et ideo dicitur quod pars orationis est significativa separata, non tamen talis pars, quae est una nominis syllaba. Et hoc manifestat in syllabis, quae quandoque possunt esse dictiones per se significantes: sicut hoc quod dico rex, quandoque est una dictio per se significans; in quantum vero accipitur ut una quaedam syllaba huius nominis sorex, soricis, non significat aliquid per se, sed est vox sola. Dictio enim quaedam est composita ex pluribus vocibus, tamen in significando habet simplicitatem, in quantum scilicet significat simplicem intellectum. Et ideo in quantum est vox composita, potest habere partem quae sit vox, inquantum autem est simplex in significando, non potest habere partem significantem. Unde syllabae quidem sunt voces, sed non sunt voces per se significantes. Sciendum tamen quod in nominibus compositis, quae imponuntur ad significandum rem simplicem ex aliquo intellectu composito, partes secundum apparentiam aliquid significant, licet non secundum veritatem. Et ideo subdit quod in duplicibus, idest in nominibus compositis, syllabae quae possunt esse dictiones, in compositione nominis venientes, significant aliquid, scilicet in ipso composito et secundum quod sunt dictiones; non autem significant aliquid secundum se, prout sunt huiusmodi nominis partes, sed eo modo, sicut supra dictum est.  Deinde cum dicit: est autem oratio etc., excludit quemdam errorem. Fuerunt enim aliqui dicentes quod oratio et eius partes significant naturaliter, non ad placitum. Ad probandum autem hoc utebantur tali ratione. Virtutis naturalis oportet esse naturalia instrumenta: quia natura non deficit in necessariis; potentia autem interpretativa est naturalis homini; ergo instrumenta eius sunt naturalia. Instrumentum autem eius est oratio, quia per orationem virtus interpretativa interpretatur mentis conceptum: hoc enim dicimus instrumentum, quo agens operatur. Ergo oratio est aliquid naturale, non ex institutione humana significans, sed naturaliter.  Huic autem rationi, quae dicitur esse Platonis in Lib. qui intitulatur Cratylus, Aristoteles obviando dicit quod omnis oratio est significativa, non sicut instrumentum virtutis, scilicet naturalis: quia instrumenta naturalia virtutis interpretativae sunt guttur et pulmo, quibus formatur vox, et lingua et dentes et labia, quibus litterati ac articulati soni distinguuntur; oratio autem et partes eius sunt sicut effectus virtutis interpretativae per instrumenta praedicta. Sicut enim virtus motiva utitur naturalibus instrumentis, sicut brachiis et manibus ad faciendum opera artificialia, ita virtus interpretativa utitur gutture et aliis instrumentis naturalibus ad faciendum orationem. Unde oratio et partes eius non sunt res naturales, sed quidam artificiales effectus. Et ideo subdit quod oratio significat ad placitum, idest secundum institutionem humanae rationis et voluntatis, ut supra dictum est, sicut et omnia artificialia causantur ex humana voluntate et ratione. Sciendum tamen quod, si virtutem interpretativam non attribuamus virtuti motivae, sed rationi; sic non est virtus naturalis, sed supra omnem naturam corpoream: quia intellectus non est actus alicuius corporis, sicut probatur in III de anima. Ipsa autem ratio est, quae movet virtutem corporalem motivam ad opera artificialia, quibus etiam ut instrumentis utitur ratio: non sunt autem instrumenta alicuius virtutis corporalis. Et hoc modo ratio potest etiam uti oratione et eius partibus, quasi instrumentis: quamvis non naturaliter significent. Postquam philosophus determinavit de principiis enunciationis, hic incipit determinare de ipsa enunciatione. Et dividitur pars haec in duas: in prima, determinat de enunciatione absolute; in secunda, de diversitate enunciationum, quae provenit secundum ea quae simplici enunciationi adduntur; et hoc in secundo libro; ibi: quoniam autem est de aliquo affirmatio et cetera. Prima autem pars dividitur in partes tres. In prima, definit enunciationem; in secunda, dividit eam; ibi: est autem una prima oratio etc., in tertia, agit de oppositione partium eius ad invicem; ibi: quoniam autem est enunciare et cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit definitionem enunciationis; secundo, ostendit quod per hanc definitionem differt enunciatio ab aliis speciebus orationis; ibi: non autem in omnibus etc.; tertio, ostendit quod de sola enunciatione est tractandum, ibi: et caeterae quidem relinquantur.  Circa primum considerandum est quod oratio, quamvis non sit instrumentum alicuius virtutis naturaliter operantis, est tamen instrumentum rationis, ut supra dictum est. Omne autem instrumentum oportet definiri ex suo fine, qui est usus instrumenti: usus autem orationis, sicut et omnis vocis significativae est significare conceptionem intellectus, ut supra dictum est: duae autem sunt operationes intellectus, in quarum una non invenitur veritas et falsitas, in alia autem invenitur verum vel falsum. Et ideo orationem enunciativam definit ex significatione veri et falsi, dicens quod non omnis oratio est enunciativa, sed in qua verum vel falsum est. Ubi considerandum est quod Aristoteles mirabili brevitate usus, et divisionem orationis innuit in hoc quod dicit: non omnis oratio est enunciativa, et definitionem enunciationis in hoc quod dicit: sed in qua verum vel falsum est: ut intelligatur quod haec sit definitio enunciationis, enunciatio est oratio, in qua verum vel falsum est.  Dicitur autem in enunciatione esse verum vel falsum, sicut in signo intellectus veri vel falsi: sed sicut in subiecto est verum vel falsum in mente, ut dicitur in VI metaphysicae, in re autem sicut in causa: quia ut dicitur in libro praedicamentorum, ab eo quod res est vel non est, oratio vera vel falsa est.  Deinde cum dicit: non autem in omnibus etc., ostendit quod per hanc definitionem enunciatio differt ab aliis orationibus. Et quidem de orationibus imperfectis manifestum est quod non significant verum vel falsum, quia cum non faciant perfectum sensum in animo audientis, manifestum est quod perfecte non exprimunt iudicium rationis, in quo consistit verum vel falsum. His igitur praetermissis, sciendum est quod perfectae orationis, quae complet sententiam, quinque sunt species, videlicet enunciativa, deprecativa, imperativa, interrogativa et vocativa. (Non tamen intelligendum est quod solum nomen vocativi casus sit vocativa oratio: quia oportet aliquid partium orationis significare aliquid separatim, sicut supra dictum est; sed per vocativum provocatur, sive excitatur animus audientis ad attendendum; non autem est vocativa oratio nisi plura coniungantur; ut cum dico, o bone Petre). Harum autem orationum sola enunciativa est, in qua invenitur verum vel falsum, quia ipsa sola absolute significat conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum.  Sed quia intellectus vel ratio, non solum concipit in seipso veritatem rei tantum, sed etiam ad eius officium pertinet secundum suum conceptum alia dirigere et ordinare; ideo necesse fuit quod sicut per enunciativam orationem significatur ipse mentis conceptus, ita etiam essent aliquae aliae orationes significantes ordinem rationis, secundum quam alia diriguntur. Dirigitur autem ex ratione unius hominis alius homo ad tria: primo quidem, ad attendendum mente; et ad hoc pertinet vocativa oratio: secundo, ad respondendum voce; et ad hoc pertinet oratio interrogativa: tertio, ad exequendum in opere; et ad hoc pertinet quantum ad inferiores oratio imperativa; quantum autem ad superiores oratio deprecativa, ad quam reducitur oratio optativa: quia respectu superioris, homo non habet vim motivam, nisi per expressionem sui desiderii. Quia igitur istae quatuor orationis species non significant ipsum conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum, sed quemdam ordinem ad hoc consequentem; inde est quod in nulla earum invenitur verum vel falsum, sed solum in enunciativa, quae significat id quod mens de rebus concipit. Et inde est quod omnes modi orationum, in quibus invenitur verum vel falsum, sub enunciatione continentur: quam quidam dicunt indicativam vel suppositivam. Dubitativa autem ad interrogativam reducitur, sicut et optativa ad deprecativam.  Deinde cum dicit: caeterae igitur relinquantur etc., ostendit quod de sola enunciativa est agendum; et dicit quod aliae quatuor orationis species sunt relinquendae, quantum pertinet ad praesentem intentionem: quia earum consideratio convenientior est rhetoricae vel poeticae scientiae. Sed enunciativa oratio praesentis considerationis est. Cuius ratio est, quia consideratio huius libri directe ordinatur ad scientiam demonstrativam, in qua animus hominis per rationem inducitur ad consentiendum vero ex his quae sunt propria rei; et ideo demonstrator non utitur ad suum finem nisi enunciativis orationibus, significantibus res secundum quod earum veritas est in anima. Sed rhetor et poeta inducunt ad assentiendum ei quod intendunt, non solum per ea quae sunt propria rei, sed etiam per dispositiones audientis. Unde rhetores et poetae plerumque movere auditores nituntur provocando eos ad aliquas passiones, ut philosophus dicit in sua rhetorica. Et ideo consideratio dictarum specierum orationis, quae pertinet ad ordinationem audientis in aliquid, cadit proprie sub consideratione rhetoricae vel poeticae, ratione sui significati; ad considerationem autem grammatici, prout consideratur in eis congrua vocum constructio. Postquam philosophus definivit enunciationem, hic dividit eam. Et dividitur in duas partes: in prima, ponit divisionem enunciationis; in secunda, manifestat eam; ibi: necesse est autem et cetera.  Circa primum considerandum est quod Aristoteles sub breviloquio duas divisiones enunciationis ponit. Quarum una est quod enunciationum quaedam est una simplex, quaedam est coniunctione una. Sicut etiam in rebus, quae sunt extra animam, aliquid est unum simplex sicut indivisibile vel continuum, aliquid est unum colligatione aut compositione aut ordine. Quia enim ens et unum convertuntur, necesse est sicut omnem rem, ita et omnem enunciationem aliqualiter esse unam.  Alia vero subdivisio enunciationis est quod si enunciatio sit una, aut est affirmativa aut negativa. Enunciatio autem affirmativa prior est negativa, triplici ratione, secundum tria quae supra posita sunt: ubi dictum est quod vox est signum intellectus, et intellectus est signum rei. Ex parte igitur vocis, affirmativa enunciatio est prior negativa, quia est simplicior: negativa enim enunciatio addit supra affirmativam particulam negativam. Ex parte etiam intellectus affirmativa enunciatio, quae significat compositionem intellectus, est prior negativa, quae significat divisionem eiusdem: divisio enim naturaliter posterior est compositione, nam non est divisio nisi compositorum, sicut non est corruptio nisi generatorum. Ex parte etiam rei, affirmativa enunciatio, quae significat esse, prior est negativa, quae significat non esse: sicut habitus naturaliter prior est privatione.  Dicit ergo quod oratio enunciativa una et prima est affirmatio, idest affirmativa enunciatio. Et contra hoc quod dixerat prima, subdit: deinde negatio, idest negativa oratio, quia est posterior affirmativa, ut dictum est. Contra id autem quod dixerat una, scilicet simpliciter, subdit quod quaedam aliae sunt unae, non simpliciter, sed coniunctione unae.  Ex hoc autem quod hic dicitur argumentatur Alexander quod divisio enunciationis in affirmationem et negationem non est divisio generis in species, sed divisio nominis multiplicis in sua significata. Genus enim univoce praedicatur de suis speciebus, non secundum prius et posterius: unde Aristoteles noluit quod ens esset genus commune omnium, quia per prius praedicatur de substantia, quam de novem generibus accidentium.  Sed dicendum quod unum dividentium aliquod commune potest esse prius altero dupliciter: uno modo, secundum proprias rationes, aut naturas dividentium; alio modo, secundum participationem rationis illius communis quod in ea dividitur. Primum autem non tollit univocationem generis, ut manifestum est in numeris, in quibus binarius secundum propriam rationem naturaliter est prior ternario; sed tamen aequaliter participant rationem generis sui, scilicet numeri: ita enim est ternarius multitudo mensurata per unum, sicut et binarius. Sed secundum impedit univocationem generis. Et propter hoc ens non potest esse genus substantiae et accidentis: quia in ipsa ratione entis, substantia, quae est ens per se, prioritatem habet respectu accidentis, quod est ens per aliud et in alio. Sic ergo affirmatio secundum propriam rationem prior est negatione; tamen aequaliter participant rationem enunciationis, quam supra posuit, videlicet quod enunciatio est oratio in qua verum vel falsum est.  Deinde cum dicit: necesse est autem etc., manifestat propositas divisiones. Et primo, manifestat primam, scilicet quod enunciatio vel est una simpliciter vel coniunctione una; secundo, manifestat secundam, scilicet quod enunciatio simpliciter una vel est affirmativa vel negativa; ibi: est autem simplex enunciatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, praemittit quaedam, quae sunt necessaria ad propositum manifestandum; secundo, manifestat propositum; ibi: est autem una oratio et cetera.  Circa primum duo facit: primo, dicit quod omnem orationem enunciativam oportet constare ex verbo quod est praesentis temporis, vel ex casu verbi quod est praeteriti vel futuri. Tacet autem de verbo infinito, quia eumdem usum habet in enunciatione sicut et verbum negativum. Manifestat autem quod dixerat per hoc, quod non solum nomen unum sine verbo non facit orationem perfectam enunciativam, sed nec etiam oratio imperfecta. Definitio enim oratio quaedam est, et tamen si ad rationem hominis, idest definitionem non addatur aut est, quod est verbum, aut erat, aut fuit, quae sunt casus verbi, aut aliquid huiusmodi, idest aliquod aliud verbum seu casus verbi, nondum est oratio enunciativa.  Potest autem esse dubitatio: cum enunciatio constet ex nomine et verbo, quare non facit mentionem de nomine, sicut de verbo? Ad quod tripliciter responderi potest. Primo quidem, quia nulla oratio enunciativa invenitur sine verbo vel casu verbi; invenitur autem aliqua enunciatio sine nomine, puta cum nos utimur infinitivis verborum loco nominum; ut cum dicitur, currere est moveri. Secundo et melius, quia, sicut supra dictum est, verbum est nota eorum quae de altero praedicantur. Praedicatum autem est principalior pars enunciationis, eo quod est pars formalis et completiva ipsius. Unde vocatur apud Graecos propositio categorica, idest praedicativa. Denominatio autem fit a forma, quae dat speciem rei. Et ideo potius fecit mentionem de verbo tanquam de parte principaliori et formaliori. Cuius signum est, quia enunciatio categorica dicitur affirmativa vel negativa solum ratione verbi, quod affirmatur vel negatur; sicut etiam conditionalis dicitur affirmativa vel negativa, eo quod affirmatur vel negatur coniunctio a qua denominatur. Tertio, potest dici, et adhuc melius, quod non erat intentio Aristotelis ostendere quod nomen vel verbum non sufficiant ad enunciationem complendam: hoc enim supra manifestavit tam de nomine quam de verbo. Sed quia dixerat quod quaedam enunciatio est una simpliciter, quaedam autem coniunctione una; posset aliquis intelligere quod illa quae est una simpliciter careret omni compositione: sed ipse hoc excludit per hoc quod in omni enunciatione oportet esse verbum, quod importat compositionem, quam non est intelligere sine compositis, sicut supra dictum est. Nomen autem non importat compositionem, et ideo non exigit praesens intentio ut de nomine faceret mentionem, sed solum de verbo. Secundo; ibi: quare autem etc., ostendit aliud quod est necessarium ad manifestationem propositi, scilicet quod hoc quod dico, animal gressibile bipes, quae est definitio hominis, est unum et non multa. Et eadem ratio est de omnibus aliis definitionibus. Sed huiusmodi rationem assignare dicit esse alterius negocii. Pertinet enim ad metaphysicum; unde in VII et in VIII metaphysicae ratio huius assignatur: quia scilicet differentia advenit generi non per accidens sed per se, tanquam determinativa ipsius, per modum quo materia determinatur per formam. Nam a materia sumitur genus, a forma autem differentia. Unde sicut ex forma et materia fit vere unum et non multa, ita ex genere et differentia. Excludit autem quamdam rationem huius unitatis, quam quis posset suspicari, ut scilicet propter hoc definitio dicatur unum, quia partes eius sunt propinquae, idest sine aliqua interpositione coniunctionis vel morae. Et quidem non interruptio locutionis necessaria est ad unitatem definitionis, quia si interponeretur coniunctio partibus definitionis, iam secunda non determinaret primam, sed significarentur ut actu multae in locutione: et idem operatur interpositio morae, qua utuntur rhetores loco coniunctionis. Unde ad unitatem definitionis requiritur quod partes eius proferantur sine coniunctione et interpolatione: quia etiam in re naturali, cuius est definitio, nihil cadit medium inter materiam et formam: sed praedicta non interruptio non sufficit ad unitatem definitionis, quia contingit etiam hanc continuitatem prolationis servari in his, quae non sunt simpliciter unum, sed per accidens; ut si dicam, homo albus musicus. Sic igitur Aristoteles valde subtiliter manifestavit quod absoluta unitas enunciationis non impeditur, neque per compositionem quam importat verbum, neque per multitudinem nominum ex quibus constat definitio. Et est eadem ratio utrobique, nam praedicatum comparatur ad subiectum ut forma ad materiam, et similiter differentia ad genus: ex forma autem et materia fit unum simpliciter.  Deinde cum dicit: est autem una oratio etc., accedit ad manifestandam praedictam divisionem. Et primo, manifestat ipsum commune quod dividitur, quod est enunciatio una; secundo, manifestat partes divisionis secundum proprias rationes; ibi: harum autem haec simplex et cetera. Circa primum duo facit: primo, manifestat ipsam divisionem; secundo, concludit quod ab utroque membro divisionis nomen et verbum excluduntur; ibi: nomen ergo et verbum et cetera. Opponitur autem unitati pluralitas; et ideo enunciationis unitatem manifestat per modos pluralitatis.  Dicit ergo primo quod enunciatio dicitur vel una absolute, scilicet quae unum de uno significat, vel una secundum quid, scilicet quae est coniunctione una. Per oppositum autem est intelligendum quod enunciationes plures sunt, vel ex eo quod plura significant et non unum: quod opponitur primo modo unitatis; vel ex eo quod absque coniunctione proferuntur: et tales opponuntur secundo modo unitatis.  Circa quod considerandum est, secundum Boethium, quod unitas et pluralitas orationis refertur ad significatum; simplex autem et compositum attenditur secundum ipsas voces. Et ideo enunciatio quandoque est una et simplex puta cum solum ex nomine et verbo componitur in unum significatum; ut cum dico, homo est albus. Est etiam quandoque una oratio, sed composita, quae quidem unam rem significat, sed tamen composita est vel ex pluribus terminis; sicut si dicam, animal rationale mortale currit, vel ex pluribus enunciationibus, sicut in conditionalibus, quae quidem unum significant et non multa. Similiter autem quandoque in enunciatione est pluralitas cum simplicitate, puta cum in oratione ponitur aliquod nomen multa significans; ut si dicam, canis latrat, haec oratio plures est, quia plura significat, et tamen simplex est. Quandoque vero in enunciatione est pluralitas et compositio, puta cum ponuntur plura in subiecto vel in praedicato, ex quibus non fit unum, sive interveniat coniunctio sive non; puta si dicam, homo albus musicus disputat: et similiter est si coniungantur plures enunciationes, sive cum coniunctione sive sine coniunctione; ut si dicam, Socrates currit, Plato disputat. Et secundum hoc sensus litterae est quod enunciatio una est illa, quae unum de uno significat, non solum si sit simplex, sed etiam si sit coniunctione una. Et similiter enunciationes plures dicuntur quae plura et non unum significant: non solum quando interponitur aliqua coniunctio, vel inter nomina vel verba, vel etiam inter ipsas enunciationes; sed etiam si vel inconiunctione, idest absque aliqua interposita coniunctione plura significat, vel quia est unum nomen aequivocum, multa significans, vel quia ponuntur plura nomina absque coniunctione, ex quorum significatis non fit unum; ut si dicam, homo albus grammaticus logicus currit.  Sed haec expositio non videtur esse secundum intentionem Aristotelis. Primo quidem, quia per disiunctionem, quam interponit, videtur distinguere inter orationem unum significantem, et orationem quae est coniunctione una. Secundo, quia supra dixerat quod est unum quoddam et non multa, animal gressibile bipes. Quod autem est coniunctione unum, non est unum et non multa, sed est unum ex multis. Et ideo melius videtur dicendum quod Aristoteles, quia supra dixerat aliquam enunciationem esse unam et aliquam coniunctione unam, vult hic manifestare quae sit una. Et quia supra dixerat quod multa nomina simul coniuncta sunt unum, sicut animal gressibile bipes, dicit consequenter quod enunciatio est iudicanda una non ex unitate nominis, sed ex unitate significati, etiam si sint plura nomina quae unum significent. Vel si sit aliqua enunciatio una quae multa significet, non erit una simpliciter, sed coniunctione una. Et secundum hoc, haec enunciatio, animal gressibile bipes est risibile, non est una quasi coniunctione una, sicut in prima expositione dicebatur, sed quia unum significat. Et quia oppositum per oppositum manifestatur, consequenter ostendit quae sunt plures enunciationes, et ponit duos modos pluralitatis. Primus est, quod plures dicuntur enunciationes quae plura significant. Contingit autem aliqua plura significari in aliquo uno communi; sicut cum dico, animal est sensibile, sub hoc uno communi, quod est animal, multa continentur, et tamen haec enunciatio est una et non plures. Et ideo addit et non unum. Sed melius est ut dicatur hoc esse additum propter definitionem, quae multa significat quae sunt unum: et hic modus pluralitatis opponitur primo modo unitatis. Secundus modus pluralitatis est, quando non solum enunciationes plura significant, sed etiam illa plura nullatenus coniunguntur, et hic modus pluralitatis opponitur secundo modo unitatis. Et secundum hoc patet quod secundus modus unitatis non opponitur primo modo pluralitatis. Ea autem quae non sunt opposita, possunt simul esse. Unde manifestum est, enunciationem quae est una coniunctione, esse etiam plures: plures in quantum significat plura et non unum. Secundum hoc ergo possumus accipere tres modos enunciationis. Nam quaedam est simpliciter una, in quantum unum significat; quaedam est simpliciter plures, in quantum plura significat, sed est una secundum quid, in quantum est coniunctione una; quaedam sunt simpliciter plures, quae neque significant unum, neque coniunctione aliqua uniuntur. Ideo autem Aristoteles quatuor ponit et non solum tria, quia quandoque est enunciatio plures, quia plura significat, non tamen est coniunctione una, puta si ponatur ibi nomen multa significans.  Deinde cum dicit: nomen ergo et verbum etc., excludit ab unitate orationis nomen et verbum. Dixerat enim quod enunciatio una est, quae unum significat: posset autem aliquis intelligere, quod sic unum significaret sicut nomen et verbum unum significant. Et ideo ad hoc excludendum subdit: nomen ergo, et verbum dictio sit sola, idest ita sit dictio, quod non enunciatio. Et videtur, ex modo loquendi, quod ipse imposuerit hoc nomen ad significandum partes enunciationis. Quod autem nomen et verbum dictio sit sola manifestat per hoc, quod non potest dici quod ille enunciet, qui sic aliquid significat voce, sicut nomen, vel verbum significat. Et ad hoc manifestandum innuit duos modos utendi enunciatione. Quandoque enim utimur ipsa quasi ad interrogata respondentes; puta si quaeratur, quis sit in scholis? Respondemus, magister. Quandoque autem utimur ea propria sponte, nullo interrogante; sicut cum dicimus, Petrus currit. Dicit ergo, quod ille qui significat aliquid unum nomine vel verbo, non enunciat vel sicut ille qui respondet aliquo interrogante, vel sicut ille qui profert enunciationem non aliquo interrogante, sed ipso proferente sponte. Introduxit autem hoc, quia simplex nomen vel verbum, quando respondetur ad interrogationem, videtur verum vel falsum significare: quod est proprium enunciationis. Sed hoc non competit nomini vel verbo, nisi secundum quod intelligitur coniunctum cum alia parte proposita in interrogatione. Ut si quaerenti, quis legit in scholis? Respondeatur, magister, subintelligitur, ibi legit. Si ergo ille qui enunciat aliquid nomine vel verbo non enunciat, manifestum est quod enunciatio non sic unum significat, sicut nomen vel verbum. Hoc autem inducit sicut conclusionem eius quod supra praemisit: necesse est omnem orationem enunciativam ex verbo esse vel ex casu verbi.  Deinde cum dicit: harum autem haec simplex etc., manifestat praemissam divisionem secundum rationes partium. Dixerat enim quod una enunciatio est quae unum de uno significat, et alia est quae est coniunctione una. Ratio autem huius divisionis est ex eo quod unum natum est dividi per simplex et compositum. Et ideo dicit: harum autem, scilicet enunciationum, in quibus dividitur unum, haec dicitur una, vel quia significat unum simpliciter, vel quia una est coniunctione. Haec quidem simplex enunciatio est, quae scilicet unum significat. Sed ne intelligatur quod sic significet unum, sicut nomen vel verbum, ad excludendum hoc subdit: ut aliquid de aliquo, idest per modum compositionis, vel aliquid ab aliquo, idest per modum divisionis. Haec autem ex his coniuncta, quae scilicet dicitur coniunctione una, est velut oratio iam composita: quasi dicat hoc modo, enunciationis unitas dividitur in duo praemissa, sicut aliquod unum dividitur in simplex et compositum.  Deinde cum dicit: est autem simplex etc., manifestat secundam divisionem enunciationis, secundum videlicet quod enunciatio dividitur in affirmationem et negationem. Haec autem divisio primo quidem convenit enunciationi simplici; ex consequenti autem convenit compositae enunciationi; et ideo ad insinuandum rationem praedictae divisionis dicit quod simplex enunciatio est vox significativa de eo quod est aliquid: quod pertinet ad affirmationem; vel non est aliquid: quod pertinet ad negationem. Et ne hoc intelligatur solum secundum praesens tempus, subdit: quemadmodum tempora sunt divisa, idest similiter hoc habet locum in aliis temporibus sicut et in praesenti.  Alexander autem existimavit quod Aristoteles hic definiret enunciationem; et quia in definitione enunciationis videtur ponere affirmationem et negationem, volebat hic accipere quod enunciatio non esset genus affirmationis et negationis, quia species nunquam ponitur in definitione generis. Id autem quod non univoce praedicatur de multis (quia scilicet non significat aliquid unum, quod sit unum commune multis), non potest notificari nisi per illa multa quae significantur. Et inde est quod quia unum non dicitur aequivoce de simplici et composito, sed per prius et posterius, Aristoteles in praecedentibus semper ad notificandum unitatem enunciationis usus est utroque. Quia ergo videtur uti affirmatione et negatione ad notificandum enunciationem, volebat Alexander accipere quod enunciatio non dicitur de affirmatione et negatione univoce sicut genus de suis speciebus.  Sed contrarium apparet ex hoc, quod philosophus consequenter utitur nomine enunciationis ut genere, cum in definitione affirmationis et negationis subdit quod, affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, scilicet per modum compositionis, negatio vero est enunciatio alicuius ab aliquo, scilicet per modum divisionis. Nomine autem aequivoco non consuevimus uti ad notificandum significata eius. Et ideo Boethius dicit quod Aristoteles suo modo breviloquio utens, simul usus est et definitione et divisione eius: ita ut quod dicit de eo quod est aliquid vel non est, non referatur ad definitionem enunciationis, sed ad eius divisionem. Sed quia differentiae divisivae generis non cadunt in eius definitione, nec hoc solum quod dicitur vox significativa, sufficiens est definitio enunciationis; melius dici potest secundum Porphyrium, quod hoc totum quod dicitur vox significativa de eo quod est, vel de eo quod non est, est definitio enunciationis. Nec tamen ponitur affirmatio et negatio in definitione enunciationis sed virtus affirmationis et negationis, scilicet significatum eius, quod est esse vel non esse, quod est naturaliter prius enunciatione. Affirmationem autem et negationem postea definivit per terminos utriusque cum dixit: affirmationem esse enunciationem alicuius de aliquo, et negationem enunciationem alicuius ab aliquo. Sed sicut in definitione generis non debent poni species, ita nec ea quae sunt propria specierum. Cum igitur significare esse sit proprium affirmationis, et significare non esse sit proprium negationis, melius videtur dicendum, secundum Ammonium, quod hic non definitur enunciatio, sed solum dividitur. Supra enim posita est definitio, cum dictum est quod enunciatio est oratio in qua est verum vel falsum. In qua quidem definitione nulla mentio facta est nec de affirmatione, nec de negatione. Est autem considerandum quod artificiosissime procedit: dividit enim genus non in species, sed in differentias specificas. Non enim dicit quod enunciatio est affirmatio vel negatio, sed vox significativa de eo quod est, quae est differentia specifica affirmationis, vel de eo quod non est, in quo tangitur differentia specifica negationis. Et ideo ex differentiis adiunctis generi constituit definitionem speciei, cum subdit: quod affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, per quod significatur esse; et negatio est enunciatio alicuius ab aliquo quod significat non esse. Posita divisione enunciationis, hic agit de oppositione partium enunciationis, scilicet affirmationis et negationis. Et quia enunciationem esse dixerat orationem, in qua est verum vel falsum, primo, ostendit qualiter enunciationes ad invicem opponantur; secundo, movet quamdam dubitationem circa praedeterminata et solvit; ibi: in his ergo quae sunt et quae facta sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter una enunciatio opponatur alteri; secundo, ostendit quod tantum una opponitur uni; ibi: manifestum est et cetera. Prima autem pars dividitur in duas partes: in prima, determinat de oppositione affirmationis et negationis absolute; in secunda, ostendit quomodo huiusmodi oppositio diversificatur ex parte subiecti; ibi: quoniam autem sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod omni affirmationi est negatio opposita et e converso; secundo, manifestat oppositionem affirmationis et negationis absolute; ibi: et sit hoc contradictio et cetera.  Circa primum considerandum est quod ad ostendendum suum propositum philosophus assumit duplicem diversitatem enunciationis: quarum prima est ex ipsa forma vel modo enunciandi, secundum quod dictum est quod enunciatio vel est affirmativa, per quam scilicet enunciatur aliquid esse, vel est negativa per quam significatur aliquid non esse; secunda diversitas est per comparationem ad rem, ex qua dependet veritas et falsitas intellectus et enunciationis. Cum enim enunciatur aliquid esse vel non esse secundum congruentiam rei, est oratio vera; alioquin est oratio falsa.  Sic igitur quatuor modis potest variari enunciatio, secundum permixtionem harum duarum divisionum. Uno modo, quia id quod est in re enunciatur ita esse sicut in re est: quod pertinet ad affirmationem veram; puta cum Socrates currit, dicimus Socratem currere. Alio modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re non est: quod pertinet ad negationem veram; ut cum dicitur, Aethiops albus non est. Tertio modo, cum enunciatur aliquid esse quod in re non est: quod pertinet ad affirmationem falsam; ut cum dicitur, corvus est albus. Quarto modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re est: quod pertinet ad negationem falsam; ut cum dicitur, nix non est alba. Philosophus autem, ut a minoribus ad potiora procedat, falsas veris praeponit: inter quas negativam praemittit affirmativae, cum dicit quod contingit enunciare quod est, scilicet in rerum natura, non esse. Secundo autem, ponit affirmativam falsam cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, esse. Tertio autem, ponit affirmativam veram, quae opponitur negativae falsae, quam primo posuit, cum dicit: et quod est, scilicet in rerum natura, esse. Quarto autem, ponit negativam veram, quae opponitur affirmationi falsae, cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, non esse. Non est autem intelligendum quod hoc quod dixit: quod est et quod non est, sit referendum ad solam existentiam vel non existentiam subiecti, sed ad hoc quod res significata per praedicatum insit vel non insit rei significatae per subiectum. Nam cum dicitur, corvus est albus, significatur quod non est, esse, quamvis ipse corvus sit res existens. Et sicut istae quatuor differentiae enunciationum inveniuntur in propositionibus, in quibus ponitur verbum praesentis temporis, ita etiam inveniuntur in enunciationibus in quibus ponuntur verba praeteriti vel futuri temporis. Supra enim dixit quod necesse est enunciationem constare ex verbo vel ex casu verbi. Et hoc est quod subdit: quod similiter contingit, scilicet variari diversimode enunciationem circa ea, quae sunt extra praesens tempus, idest circa praeterita vel futura, quae sunt quodammodo extrinseca respectu praesentis, quia praesens est medium praeteriti et futuri. Et quia ita est, contingit omne quod quis affirmaverit negare, et omne quod quis negaverit affirmare: quod quidem manifestum est ex praemissis. Non enim potest affirmari nisi vel quod est in rerum natura secundum aliquod trium temporum, vel quod non est; et hoc totum contingit negare. Unde manifestum est quod omne quod affirmatur potest negari, et e converso. Et quia affirmatio et negatio opposita sunt secundum se, utpote ex opposito contradictoriae, consequens est quod quaelibet affirmatio habeat negationem sibi oppositam et e converso. Cuius contrarium illo solo modo posset contingere, si aliqua affirmatio affirmaret aliquid, quod negatio negare non posset. Deinde cum dicit: et sit hoc contradictio etc., manifestat quae sit absoluta oppositio affirmationis et negationis. Et primo, manifestat eam per nomen; secundo, per definitionem; ibi: dico autem et cetera. Dicit ergo primo quod cum cuilibet affirmationi opponatur negatio, et e converso, oppositioni huiusmodi imponatur nomen hoc, quod dicatur contradictio. Per hoc enim quod dicitur, et sit hoc contradictio, datur intelligi quod ipsum nomen contradictionis ipse imposuerit oppositioni affirmationis et negationis, ut Ammonius dicit. Deinde cum dicit: dico autem opponi etc., definit contradictionem. Quia vero, ut dictum est, contradictio est oppositio affirmationis et negationis, illa requiruntur ad contradictionem, quae requiruntur ad oppositionem affirmationis et negationis. Oportet autem opposita esse circa idem. Et quia enunciatio constituitur ex subiecto et praedicato, requiritur ad contradictionem primo quidem quod affirmatio et negatio sint eiusdem praedicati: si enim dicatur, Plato currit, Plato non disputat, non est contradictio; secundo, requiritur quod sint de eodem subiecto: si enim dicatur, Socrates currit, Plato non currit, non est contradictio. Tertio, requiritur quod identitas subiecti et praedicati non solum sit secundum nomen, sed sit simul secundum rem et nomen. Nam si non sit idem nomen, manifestum est quod non sit una et eadem enunciatio. Similiter autem ad hoc quod sit enunciatio una, requiritur identitas rei: dictum est enim supra quod enunciatio una est, quae unum de uno significat; et ideo subdit: non autem aequivoce, idest non sufficit identitas nominis cum diversitate rei, quae facit aequivocationem. Sunt autem et quaedam alia in contradictione observanda ad hoc quod tollatur omnis diversitas, praeter eam quae est affirmationis et negationis: non enim esset oppositio si non omnino idem negaret negatio quod affirmavit affirmatio. Haec autem diversitas potest secundum quatuor considerari. Uno quidem modo, secundum diversas partes subiecti: non enim est contradictio si dicatur, Aethiops est albus dente et non est albus pede. Secundo, si sit diversus modus ex parte praedicati: non enim est contradictio si dicatur, Socrates currit tarde et non movetur velociter; vel si dicatur, ovum est animal in potentia et non est animal in actu. Tertio, si sit diversitas ex parte mensurae, puta loci vel temporis; non enim est contradictio si dicatur, pluit in Gallia et non pluit in Italia; aut, pluit heri, hodie non pluit. Quarto, si sit diversitas ex habitudine ad aliquid extrinsecum; puta si dicatur, decem homines esse plures quoad domum, non autem quoad forum. Et haec omnia designat cum subdit: et quaecumque caetera talium determinavimus, idest determinare consuevimus in disputationibus contra sophisticas importunitates, idest contra importunas et litigiosas oppositiones sophistarum, de quibus plenius facit mentionem in I elenchorum. Quia philosophus dixerat oppositionem affirmationis et negationis esse contradictionem, quae est eiusdem de eodem, consequenter intendit distinguere diversas oppositiones affirmationis et negationis, ut cognoscatur quae sit vera contradictio. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit quamdam divisionem enunciationum necessariam ad praedictam differentiam oppositionum assignandam; secundo, manifestat propositum; ibi: si ergo universaliter et cetera. Praemittit autem divisionem enunciationum quae sumitur secundum differentiam subiecti. Unde circa primum duo facit: primo, dividit subiectum enunciationum; secundo, concludit divisionem enunciationum, ibi: necesse est enunciare et cetera. Subiectum autem enunciationis est nomen vel aliquid loco nominis sumptum. Nomen autem est vox significativa ad placitum simplicis intellectus, quod est similitudo rei; et ideo subiectum enunciationis distinguit per divisionem rerum, et dicit quod rerum quaedam sunt universalia, quaedam sunt singularia. Manifestat autem membra divisionis dupliciter: primo quidem per definitionem, quia universale est quod est aptum natum de pluribus praedicari, singulare vero quod non est aptum natum praedicari de pluribus, sed de uno solo; secundo, manifestat per exemplum cum subdit quod homo est universale, Plato autem singulare. Accidit autem dubitatio circa hanc divisionem, quia, sicut probat philosophus in VII metaphysicae, universale non est aliquid extra res existens. Item, in praedicamentis dicitur quod secundae substantiae non sunt nisi in primis, quae sunt singulares. Non ergo videtur esse conveniens divisio rerum per universalia et singularia: quia nullae res videntur esse universales, sed omnes sunt singulares. Dicendum est autem quod hic dividuntur res secundum quod significantur per nomina, quae subiiciuntur in enunciationibus: dictum est autem supra quod nomina non significant res nisi mediante intellectu; et ideo oportet quod divisio ista rerum accipiatur secundum quod res cadunt in intellectu. Ea vero quae sunt coniuncta in rebus intellectus potest distinguere, quando unum eorum non cadit in ratione alterius. In qualibet autem re singulari est considerare aliquid quod est proprium illi rei, in quantum est haec res, sicut Socrati vel Platoni in quantum est hic homo; et aliquid est considerare in ea, in quo convenit cum aliis quibusdam rebus, sicut quod Socrates est animal, aut homo, aut rationalis, aut risibilis, aut albus. Quando igitur res denominatur ab eo quod convenit illi soli rei in quantum est haec res, huiusmodi nomen dicitur significare aliquid singulare; quando autem denominatur res ab eo quod est commune sibi et multis aliis, nomen huiusmodi dicitur significare universale, quia scilicet nomen significat naturam sive dispositionem aliquam, quae est communis multis. Quia igitur hanc divisionem dedit de rebus non absolute secundum quod sunt extra animam, sed secundum quod referuntur ad intellectum, non definivit universale et singulare secundum aliquid quod pertinet ad rem, puta si diceret quod universale extra animam, quod pertinet ad opinionem Platonis, sed per actum animae intellectivae, quod est praedicari de multis vel de uno solo. Est autem considerandum quod intellectus apprehendit rem intellectam secundum propriam essentiam, seu definitionem: unde et in III de anima dicitur quod obiectum proprium intellectus est quod quid est. Contingit autem quandoque quod propria ratio alicuius formae intellectae non repugnat ei quod est esse in pluribus, sed hoc impeditur ab aliquo alio, sive sit aliquid accidentaliter adveniens, puta si omnibus hominibus morientibus unus solus remaneret, sive sit propter conditionem materiae, sicut est unus tantum sol, non quod repugnet rationi solari esse in pluribus secundum conditionem formae ipsius, sed quia non est alia materia susceptiva talis formae; et ideo non dixit quod universale est quod praedicatur de pluribus, sed quod aptum natum est praedicari de pluribus. Cum autem omnis forma, quae nata est recipi in materia quantum est de se, communicabilis sit multis materiis; dupliciter potest contingere quod id quod significatur per nomen, non sit aptum natum praedicari de pluribus. Uno modo, quia nomen significat formam secundum quod terminata est ad hanc materiam, sicut hoc nomen Socrates vel Plato, quod significat naturam humanam prout est in hac materia. Alio modo, secundum quod nomen significat formam, quae non est nata in materia recipi, unde oportet quod per se remaneat una et singularis; sicut albedo, si esset forma non existens in materia, esset una sola, unde esset singularis: et propter hoc philosophus dicit in VII Metaphys. quod si essent species rerum separatae, sicut posuit Plato, essent individua. Potest autem obiici quod hoc nomen Socrates vel Plato est natum de pluribus praedicari, quia nihil prohibet multos esse, qui vocentur hoc nomine. Sed ad hoc patet responsio, si attendantur verba Aristotelis. Ipse enim non divisit nomina in universale et particulare, sed res. Et ideo intelligendum est quod universale dicitur quando, non solum nomen potest de pluribus praedicari, sed id, quod significatur per nomen, est natum in pluribus inveniri; hoc autem non contingit in praedictis nominibus: nam hoc nomen Socrates vel Plato significat naturam humanam secundum quod est in hac materia. Si vero hoc nomen imponatur alteri homini significabit naturam humanam in alia materia; et sic eius erit alia significatio; unde non erit universale, sed aequivocum. Deinde cum dicit: necesse est autem enunciare etc., concludit divisionem enunciationis. Quia enim semper enunciatur aliquid de aliqua re; rerum autem quaedam sunt universalia, quaedam singularia; necesse est quod quandoque enuncietur aliquid inesse vel non inesse alicui universalium, quandoque vero alicui singularium. Et est suspensiva constructio usque huc, et est sensus: quoniam autem sunt haec quidem rerum etc., necesse est enunciare et cetera. Est autem considerandum quod de universali aliquid enunciatur quatuor modis. Nam universale potest uno modo considerari quasi separatum a singularibus, sive per se subsistens, ut Plato posuit, sive, secundum sententiam Aristotelis, secundum esse quod habet in intellectu. Et sic potest ei aliquid attribui dupliciter. Quandoque enim attribuitur ei sic considerato aliquid, quod pertinet ad solam operationem intellectus, ut si dicatur quod homo est praedicabile de multis, sive universale, sive species. Huiusmodi enim intentiones format intellectus attribuens eas naturae intellectae, secundum quod comparat ipsam ad res, quae sunt extra animam. Quandoque vero attribuitur aliquid universali sic considerato, quod scilicet apprehenditur ab intellectu ut unum, tamen id quod attribuitur ei non pertinet ad actum intellectus, sed ad esse, quod habet natura apprehensa in rebus, quae sunt extra animam, puta si dicatur quod homo est dignissima creaturarum. Hoc enim convenit naturae humanae etiam secundum quod est in singularibus. Nam quilibet homo singularis dignior est omnibus creaturis irrationalibus; sed tamen omnes homines singulares non sunt unus homo extra animam, sed solum in acceptione intellectus; et per hunc modum attribuitur ei praedicatum, scilicet ut uni rei. Alio autem modo attribuitur universali, prout est in singularibus, et hoc dupliciter. Quandoque quidem ratione ipsius naturae universalis, puta cum attribuitur ei aliquid quod ad essentiam eius pertinet, vel quod consequitur principia essentialia; ut cum dicitur, homo est animal, vel homo est risibilis. Quandoque autem attribuitur ei aliquid ratione singularis in quo invenitur, puta cum attribuitur ei aliquid quod pertinet ad actionem individui; ut cum dicitur, homo ambulat. Singulari autem attribuitur aliquid tripliciter: uno modo, secundum quod cadit in apprehensione; ut cum dicitur, Socrates est singulare, vel praedicabile de uno solo. Quandoque autem, ratione naturae communis; ut cum dicitur, Socrates est animal. Quandoque autem, ratione sui ipsius; ut cum dicitur, Socrates ambulat. Et totidem etiam modis negationes variantur: quia omne quod contingit affirmare, contingit negare, ut supra dictum est. Est autem haec tertia divisio enunciationis quam ponit philosophus. Prima namque fuit quod enunciationum quaedam est una simpliciter, quaedam vero coniunctione una. Quae quidem est divisio analogi in ea de quibus praedicatur secundum prius et posterius: sic enim unum dividitur secundum prius in simplex et per posterius in compositum. Alia vero fuit divisio enunciationis in affirmationem et negationem. Quae quidem est divisio generis in species, quia sumitur secundum differentiam praedicati ad quod fertur negatio; praedicatum autem est pars formalis enunciationis; et ideo huiusmodi divisio dicitur pertinere ad qualitatem enunciationis, qualitatem, inquam, essentialem, secundum quod differentia significat quale quid. Tertia autem est huiusmodi divisio, quae sumitur secundum differentiam subiecti, quod praedicatur de pluribus vel de uno solo, et ideo dicitur pertinere ad quantitatem enunciationis, nam et quantitas consequitur materiam.  Deinde cum dicit: si ergo universaliter etc., ostendit quomodo enunciationes diversimode opponantur secundum diversitatem subiecti. Et circa hoc duo facit: primo, distinguit diversos modos oppositionum in ipsis enunciationibus; secundo, ostendit quomodo diversae oppositiones diversimode se habent ad verum et falsum; ibi: quocirca, has quidem impossibile est et cetera.  Circa primum considerandum est quod cum universale possit considerari in abstractione a singularibus vel secundum quod est in ipsis singularibus, secundum hoc diversimode aliquid ei attribuitur, ut supra dictum est. Ad designandum autem diversos modos attributionis inventae sunt quaedam dictiones, quae possunt dici determinationes vel signa, quibus designatur quod aliquid de universali, hoc aut illo modo praedicetur. Sed quia non est ab omnibus communiter apprehensum quod universalia extra singularia subsistant, ideo communis usus loquendi non habet aliquam dictionem ad designandum illum modum praedicandi, prout aliquid dicitur in abstractione a singularibus. Sed Plato, qui posuit universalia extra singularia subsistere, adinvenit aliquas determinationes, quibus designaretur quomodo aliquid attribuitur universali, prout est extra singularia, et vocabat universale separatum subsistens extra singularia quantum ad speciem hominis, per se hominem vel ipsum hominem et similiter in aliis universalibus. Sed universale secundum quod est in singularibus cadit in communi apprehensione hominum; et ideo adinventae sunt quaedam dictiones ad significandum modum attribuendi aliquid universali sic accepto.  Sicut autem supra dictum est, quandoque aliquid attribuitur universali ratione ipsius naturae universalis; et ideo hoc dicitur praedicari de eo universaliter, quia scilicet ei convenit secundum totam multitudinem in qua invenitur; et ad hoc designandum in affirmativis praedicationibus adinventa est haec dictio, omnis, quae designat quod praedicatum attribuitur subiecto universali quantum ad totum id quod sub subiecto continetur. In negativis autem praedicationibus adinventa est haec dictio, nullus, per quam significatur quod praedicatum removetur a subiecto universali secundum totum id quod continetur sub eo. Unde nullus dicitur quasi non ullus, et in Graeco dicitur, udis quasi nec unus, quia nec unum solum est accipere sub subiecto universali a quo praedicatum non removeatur. Quandoque autem attribuitur universali aliquid vel removetur ab eo ratione particularis; et ad hoc designandum, in affirmativis quidem adinventa est haec dictio, aliquis vel quidam, per quam designatur quod praedicatum attribuitur subiecto universali ratione ipsius particularis; sed quia non determinate significat formam alicuius singularis, sub quadam indeterminatione singulare designat; unde et dicitur individuum vagum. In negativis autem non est aliqua dictio posita, sed possumus accipere, non omnis; ut sicut, nullus, universaliter removet, eo quod significat quasi diceretur, non ullus, idest, non aliquis, ita etiam, non omnis, particulariter removeat, in quantum excludit universalem affirmationem.  Sic igitur tria sunt genera affirmationum in quibus aliquid de universali praedicatur. Una quidem est, in qua de universali praedicatur aliquid universaliter; ut cum dicitur, omnis homo est animal. Alia, in qua aliquid praedicatur de universali particulariter; ut cum dicitur, quidam homo est albus. Tertia vero est, in qua aliquid de universali praedicatur absque determinatione universalitatis vel particularitatis; unde huiusmodi enunciatio solet vocari indefinita. Totidem autem sunt negationes oppositae.  De singulari autem quamvis aliquid diversa ratione praedicetur, ut supra dictum est, tamen totum refertur ad singularitatem ipsius, quia etiam natura universalis in ipso singulari individuatur; et ideo nihil refert quantum ad naturam singularitatis, utrum aliquid praedicetur de eo ratione universalis naturae; ut cum dicitur, Socrates est homo, vel conveniat ei ratione singularitatis.  Si igitur tribus praedictis enunciationibus addatur singularis, erunt quatuor modi enunciationis ad quantitatem ipsius pertinentes, scilicet universalis, singularis, indefinitus et particularis.  Sic igitur secundum has differentias Aristoteles assignat diversas oppositiones enunciationum adinvicem. Et primo, secundum differentiam universalium ad indefinitas; secundo, secundum differentiam universalium ad particulares; ibi: opponi autem affirmationem et cetera. Circa primum tria facit: primo, agit de oppositione propositionum universalium adinvicem; secundo, de oppositione indefinitarum; ibi: quando autem in universalibus etc.; tertio, excludit dubitationem; ibi: in eo vero quod et cetera.  Dicit ergo primo quod si aliquis enunciet de subiecto universali universaliter, idest secundum continentiam suae universalitatis, quoniam est, idest affirmative, aut non est, idest negative, erunt contrariae enunciationes; ut si dicatur, omnis homo est albus, nullus homo est albus. Huius autem ratio est, quia contraria dicuntur quae maxime a se distant: non enim dicitur aliquid nigrum ex hoc solum quod non est album, sed super hoc quod est non esse album, quod significat communiter remotionem albi, addit nigrum extremam distantiam ab albo. Sic igitur id quod affirmatur per hanc enunciationem, omnis homo est albus, removetur per hanc negationem, non omnis homo est albus. Oportet ergo quod negatio removeat modum quo praedicatum dicitur de subiecto, quem designat haec dictio, omnis. Sed super hanc remotionem addit haec enunciatio, nullus homo est albus, totalem remotionem, quae est extrema distantia a primo; quod pertinet ad rationem contrarietatis. Et ideo convenienter hanc oppositionem dicit contrarietatem.  Deinde cum dicit: quando autem etc., ostendit qualis sit oppositio affirmationis et negationis in indefinitis. Et primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum per exempla; ibi: dico autem non universaliter etc.; tertio, assignat rationem manifestationis; ibi: cum enim universale sit homo et cetera. Dicit ergo primo quod quando de universalibus subiectis affirmatur aliquid vel negatur non tamen universaliter, non sunt contrariae enunciationes, sed illa quae significantur contingit esse contraria. Deinde cum dicit: dico autem non universaliter etc., manifestat per exempla. Ubi considerandum est quod non dixerat quando in universalibus particulariter, sed non universaliter. Non enim intendit de particularibus enunciationibus, sed de solis indefinitis. Et hoc manifestat per exempla quae ponit, dicens fieri in universalibus subiectis non universalem enunciationem; cum dicitur, est albus homo, non est albus homo. Et rationem huius expositionis ostendit, quia homo, qui subiicitur, est universale, sed tamen praedicatum non universaliter de eo praedicatur, quia non apponitur haec dictio, omnis: quae non significat ipsum universale, sed modum universalitatis, prout scilicet praedicatum dicitur universaliter de subiecto; et ideo addita subiecto universali, semper significat quod aliquid de eo dicatur universaliter. Tota autem haec expositio refertur ad hoc quod dixerat: quando in universalibus non universaliter enunciatur, non sunt contrariae.  Sed hoc quod additur: quae autem significantur contingit esse contraria, non est expositum, quamvis obscuritatem contineat; et ideo a diversis diversimode exponitur. Quidam enim hoc referre voluerunt ad contrarietatem veritatis et falsitatis, quae competit huiusmodi enunciationibus. Contingit enim quandoque has simul esse veras, homo est albus, homo non est albus; et sic non sunt contrariae, quia contraria mutuo se tollunt. Contingit tamen quandoque unam earum esse veram et alteram esse falsam; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal; et sic ratione significati videntur habere quamdam contrarietatem. Sed hoc non videtur ad propositum pertinere, tum quia philosophus nondum hic loquitur de veritate et falsitate enunciationum; tum etiam quia hoc ipsum posset de particularibus enunciationibus dici.  Alii vero, sequentes Porphyrium, referunt hoc ad contrarietatem praedicati. Contingit enim quandoque quod praedicatum negatur de subiecto propter hoc quod inest ei contrarium; sicut si dicatur, homo non est albus, quia est niger; et sic id quod significatur per hoc quod dicitur, non est albus, potest esse contrarium. Non tamen semper: removetur enim aliquid a subiecto, etiam si contrarium non insit, sed aliquid medium inter contraria; ut cum dicitur, aliquis non est albus, quia est pallidus; vel quia inest ei privatio actus vel habitus seu potentiae; ut cum dicitur, aliquis non est videns, quia est carens potentia visiva, aut habet impedimentum ne videat, vel etiam quia non est aptus natus videre; puta si dicatur, lapis non videt. Sic igitur illa, quae significantur contingit esse contraria, sed ipsae enunciationes non sunt contrariae, quia ut in fine huius libri dicetur, non sunt contrariae opiniones quae sunt de contrariis, sicut opinio quod aliquid sit bonum, et illa quae est, quod aliquid non est bonum.  Sed nec hoc videtur ad propositum Aristotelis pertinere, quia non agit hic de contrarietate rerum vel opinionum, sed de contrarietate enunciationum: et ideo magis videtur hic sequenda expositio Alexandri. Secundum quam dicendum est quod in indefinitis enunciationibus non determinatur utrum praedicatum attribuatur subiecto universaliter (quod faceret contrarietatem enunciationum), aut particulariter (quod non faceret contrarietatem enunciationum); et ideo huiusmodi enunciationes indefinitae non sunt contrariae secundum modum quo proferuntur. Contingit tamen quandoque ratione significati eas habere contrarietatem, puta, cum attribuitur aliquid universali ratione naturae universalis, quamvis non apponatur signum universale; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal: quia hae enunciationes eamdem habent vim ratione significati; ac si diceretur, omnis homo est animal, nullus homo est animal.  Deinde cum dicit: in eo vero quod etc., removet quoddam quod posset esse dubium. Quia enim posuerat quamdam diversitatem in oppositione enunciationum ex hoc quod universale sumitur a parte subiecti universaliter vel non universaliter, posset aliquis credere quod similis diversitas nasceretur ex parte praedicati, ex hoc scilicet quod universale praedicari posset et universaliter et non universaliter; et ideo ad hoc excludendum dicit quod in eo quod praedicatur aliquod universale, non est verum quod praedicetur universale universaliter. Cuius quidem duplex esse potest ratio. Una quidem, quia talis modus praedicandi videtur repugnare praedicato secundum propriam rationem quam habet in enunciatione. Dictum est enim supra quod praedicatum est quasi pars formalis enunciationis, subiectum autem est pars materialis ipsius: cum autem aliquod universale profertur universaliter, ipsum universale sumitur secundum habitudinem quam habet ad singularia, quae sub se continet; sicut et quando universale profertur particulariter, sumitur secundum habitudinem quam habet ad aliquod contentorum sub se; et sic utrumque pertinet ad materialem determinationem universalis: et ideo neque signum universale neque particulare convenienter additur praedicato, sed magis subiecto: convenientius enim dicitur, nullus homo est asinus, quam, omnis homo est nullus asinus; et similiter convenientius dicitur, aliquis homo est albus, quam, homo est aliquid album. Invenitur autem quandoque a philosophis signum particulare appositum praedicato, ad insinuandum quod praedicatum est in plus quam subiectum, et hoc praecipue cum, habito genere, investigant differentias completivas speciei, sicut in II de anima dicitur quod anima est actus quidam. Alia vero ratio potest accipi ex parte veritatis enunciationis; et ista specialiter habet locum in affirmationibus quae falsae essent si praedicatum universaliter praedicaretur. Et ideo manifestans id quod posuerat, subiungit quod nulla affirmatio est in qua, scilicet vere, de universali praedicato universaliter praedicetur, idest in qua universali praedicato utitur ad universaliter praedicandum; ut si diceretur, omnis homo est omne animal. Oportet enim, secundum praedicta, quod hoc praedicatum animal, secundum singula quae sub ipso continentur, praedicaretur de singulis quae continentur sub homine; et hoc non potest esse verum, neque si praedicatum sit in plus quam subiectum, neque si praedicatum sit convertibile cum eo. Oporteret enim quod quilibet unus homo esset animalia omnia, aut omnia risibilia: quae repugnant rationi singularis, quod accipitur sub universali.  Nec est instantia si dicatur quod haec est vera, omnis homo est omnis disciplinae susceptivus: disciplina enim non praedicatur de homine, sed susceptivum disciplinae; repugnaret autem veritati si diceretur, omnis homo est omne susceptivum disciplinae.  Signum autem universale negativum, vel particulare affirmativum, etsi convenientius ponantur ex parte subiecti, non tamen repugnat veritati etiam si ponantur ex parte praedicati. Contingit enim huiusmodi enunciationes in aliqua materia esse veras: haec enim est vera, omnis homo nullus lapis est; et similiter haec est vera, omnis homo aliquod animal est. Sed haec, omnis homo omne animal est, in quacumque materia proferatur, falsa est. Sunt autem quaedam aliae tales enunciationes semper falsae; sicut ista, aliquis homo omne animal est (quae habet eamdem causam falsitatis cum hac, omnis homo omne animal est); et si quae aliae similes, sunt semper falsae: in omnibus enim eadem ratio est. Et ideo per hoc quod philosophus reprobavit istam, omnis homo omne animal est, dedit intelligere omnes consimiles esse improbandas. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum, comparando universales enunciationes ad indefinitas, hic determinat de oppositione enunciationum comparando universales ad particulares. Circa quod considerandum est quod potest duplex oppositio in his notari: una quidem universalis ad particularem, et hanc primo tangit; alia vero universalis ad universalem, et hanc tangit secundo; ibi: contrariae vero et cetera.  Particularis vero affirmativa et particularis negativa, non habent proprie loquendo oppositionem, quia oppositio attenditur circa idem subiectum; subiectum autem particularis enunciationis est universale particulariter sumptum, non pro aliquo determinato singulari, sed indeterminate pro quocumque; et ideo, cum de universali particulariter sumpto aliquid affirmatur vel negatur, ipse modus enunciandi non habet quod affirmatio et negatio sint de eodem: quod requiritur ad oppositionem affirmationis et negationis, secundum praemissa.  Dicit ergo primo quod enunciatio, quae universale significat, scilicet universaliter, opponitur contradictorie ei, quae non significat universaliter sed particulariter, si una earum sit affirmativa, altera vero sit negativa (sive universalis sit affirmativa et particularis negativa, sive e converso); ut cum dicitur, omnis homo est albus, non omnis homo est albus: hoc enim quod dico, non omnis, ponitur loco signi particularis negativi; unde aequipollet ei quae est, quidam homo non est albus; sicut et nullus, quod idem significat ac si diceretur, non ullus vel non quidam, est signum universale negativum. Unde hae duae, quidam homo est albus (quae est particularis affirmativa), nullus homo est albus (quae est universalis negativa), sunt contradictoriae.  Cuius ratio est quia contradictio consistit in sola remotione affirmationis per negationem; universalis autem affirmativa removetur per solam negationem particularis, nec aliquid aliud ex necessitate ad hoc exigitur; particularis autem affirmativa removeri non potest nisi per universalem negativam, quia iam dictum est quod particularis affirmativa non proprie opponitur particulari negativae. Unde relinquitur quod universali affirmativae contradictorie opponitur particularis negativa, et particulari affirmativae universalis negativa.  Deinde cum dicit: contrariae vero etc., tangit oppositionem universalium enunciationum; et dicit quod universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae; sicut, omnis homo est iustus, nullus homo est iustus, quia scilicet universalis negativa non solum removet universalem affirmativam, sed etiam designat extremam distantiam, in quantum negat totum quod affirmatio ponit; et hoc pertinet ad rationem contrarietatis; et ideo particularis affirmativa et negativa se habent sicut medium inter contraria.  Deinde cum dicit: quocirca has quidem etc., ostendit quomodo se habeant affirmatio et negatio oppositae ad verum et falsum. Et primo, quantum ad contrarias; secundo, quantum ad contradictorias; ibi: quaecumque igitur contradictiones etc.; tertio, quantum ad ea quae videntur contradictoria, et non sunt; ibi: quaecumque autem in universalibus et cetera. Dicit ergo primo quod quia universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae, impossibile est quod sint simul verae. Contraria enim mutuo se expellunt. Sed particulares, quae contradictorie opponuntur universalibus contrariis, possunt simul verificari in eodem; sicut, non omnis homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, omnis homo est albus, et, quidam homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, nullus homo est albus. Et huiusmodi etiam simile invenitur in contrarietate rerum: nam album et nigrum numquam simul esse possunt in eodem, sed remotiones albi et nigri simul possunt esse: potest enim aliquid esse neque album neque nigrum, sicut patet in eo quod est pallidum. Et similiter contrariae enunciationes non possunt simul esse verae, sed earum contradictoriae, a quibus removentur, simul possunt esse verae. Deinde cum dicit: quaecumque igitur contradictiones etc., ostendit qualiter veritas et falsitas se habeant in contradictoriis. Circa quod considerandum est quod, sicut dictum est supra, in contradictoriis negatio non plus facit, nisi quod removet affirmationem. Quod contingit dupliciter. Uno modo, quando est altera earum universalis, altera particularis, ut supra dictum est. Alio modo, quando utraque est singularis: quia tunc negatio ex necessitate refertur ad idem (quod non contingit in particularibus et indefinitis), nec potest se in plus extendere nisi ut removeat affirmationem. Et ideo singularis affirmativa semper contradicit singulari negativae, supposita identitate praedicati et subiecti. Et ideo dicit quod, sive accipiamus contradictionem universalium universaliter, scilicet quantum ad unam earum, sive singularium enunciationum, semper necesse est quod una sit vera et altera falsa. Neque enim contingit esse simul veras aut simul falsas, quia verum nihil aliud est, nisi quando dicitur esse quod est, aut non esse quod non est; falsum autem, quando dicitur esse quod non est, aut non esse quod est, ut patet ex IV metaphysicorum.  Deinde cum dicit: quaecumque autem universalium etc., ostendit qualiter se habeant veritas et falsitas in his, quae videntur esse contradictoria, sed non sunt. Et circa hoc tria facit: primo proponit quod intendit; secundo, probat propositum; ibi: si enim turpis non probus etc.; tertio, excludit id quod facere posset dubitationem; ibi: videbitur autem subito inconveniens et cetera. Circa primum considerandum est quod affirmatio et negatio in indefinitis propositionibus videntur contradictorie opponi propter hoc, quod est unum subiectum non determinatum per signum particulare, et ideo videtur affirmatio et negatio esse de eodem. Sed ad hoc removendum philosophus dicit quod quaecumque affirmative et negative dicuntur de universalibus non universaliter sumptis, non semper oportet quod unum sit verum, et aliud sit falsum, sed possunt simul esse vera. Simul enim est verum dicere quod homo est albus, et, homo non est albus, et quod homo est probus, et, homo non est probus.  In quo quidem, ut Ammonius refert, aliqui Aristoteli contradixerunt ponentes quod indefinita negativa semper sit accipienda pro universali negativa. Et hoc astruebant primo quidem tali ratione: quia indefinita, cum sit indeterminata, se habet in ratione materiae; materia autem secundum se considerata, magis trahitur ad id quod indignius est; dignior autem est universalis affirmativa, quam particularis affirmativa; et ideo indefinitam affirmativam dicunt esse sumendam pro particulari affirmativa: sed negativam universalem, quae totum destruit, dicunt esse indigniorem particulari negativa, quae destruit partem, sicut universalis corruptio peior est quam particularis; et ideo dicunt quod indefinita negativa sumenda est pro universali negativa. Ad quod etiam inducunt quod philosophi, et etiam ipse Aristoteles utitur indefinitis negativis pro universalibus; sicut dicitur in libro Physic. quod non est motus praeter res; et in libro de anima, quod non est sensus praeter quinque. Sed istae rationes non concludunt. Quod enim primo dicitur quod materia secundum se sumpta sumitur pro peiori, verum est secundum sententiam Platonis, qui non distinguebat privationem a materia, non autem est verum secundum Aristotelem, qui dicit in Lib. I Physic. quod malum et turpe et alia huiusmodi ad defectum pertinentia non dicuntur de materia nisi per accidens. Et ideo non oportet quod indefinita semper stet pro peiori. Dato etiam quod indefinita necesse sit sumi pro peiori, non oportet quod sumatur pro universali negativa; quia sicut in genere affirmationis, universalis affirmativa est potior particulari, utpote particularem affirmativam continens; ita etiam in genere negationum universalis negativa potior est. Oportet autem in unoquoque genere considerare id quod est potius in genere illo, non autem id quod est potius simpliciter. Ulterius etiam, dato quod particularis negativa esset potior omnibus modis, non tamen adhuc ratio sequeretur: non enim ideo indefinita affirmativa sumitur pro particulari affirmativa, quia sit indignior, sed quia de universali potest aliquid affirmari ratione suiipsius, vel ratione partis contentae sub eo; unde sufficit ad veritatem eius quod praedicatum uni parti conveniat (quod designatur per signum particulare); et ideo veritas particularis affirmativae sufficit ad veritatem indefinitae affirmativae. Et simili ratione veritas particularis negativae sufficit ad veritatem indefinitae negativae, quia similiter potest aliquid negari de universali vel ratione suiipsius, vel ratione suae partis. Utuntur autem quandoque philosophi indefinitis negativis pro universalibus in his, quae per se removentur ab universalibus; sicut et utuntur indefinitis affirmativis pro universalibus in his, quae per se de universalibus praedicantur.  Deinde cum dicit: si enim turpis est etc., probat propositum per id, quod est ab omnibus concessum. Omnes enim concedunt quod indefinita affirmativa verificatur, si particularis affirmativa sit vera. Contingit autem accipi duas affirmativas indefinitas, quarum una includit negationem alterius, puta cum sunt opposita praedicata: quae quidem oppositio potest contingere dupliciter. Uno modo, secundum perfectam contrarietatem, sicut turpis, idest inhonestus, opponitur probo, idest honesto, et foedus, idest deformis secundum corpus, opponitur pulchro. Sed per quam rationem ista affirmativa est vera, homo est probus, quodam homine existente probo, per eamdem rationem ista est vera, homo est turpis, quodam homine existente turpi. Sunt ergo istae duae verae simul, homo est probus, homo est turpis; sed ad hanc, homo est turpis, sequitur ista, homo non est probus; ergo istae duae sunt simul verae, homo est probus, homo non est probus: et eadem ratione istae duae, homo est pulcher, homo non est pulcher. Alia autem oppositio attenditur secundum perfectum et imperfectum, sicut moveri opponitur ad motum esse, et fieri ad factum esse: unde ad fieri sequitur non esse eius quod fit in permanentibus, quorum esse est perfectum; secus autem est in successivis, quorum esse est imperfectum. Sic ergo haec est vera, homo est albus, quodam homine existente albo; et pari ratione, quia quidam homo fit albus, haec est vera, homo fit albus; ad quam sequitur, homo non est albus. Ergo istae duae sunt simul verae, homo est albus, homo non est albus.  Deinde cum dicit: videbitur autem etc., excludit id quod faceret dubitationem circa praedicta; et dicit quod subito, id est primo aspectu videtur hoc esse inconveniens, quod dictum est; quia hoc quod dico, homo non est albus, videtur idem significare cum hoc quod est, nullus homo est albus. Sed ipse hoc removet dicens quod neque idem significant neque ex necessitate sunt simul vera, sicut ex praedictis manifestum est. Postquam philosophus distinxit diversos modos oppositionum in enunciationibus, nunc intendit ostendere quod uni affirmationi una negatio opponitur, et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod uni affirmationi una negatio opponitur; secundo, ostendit quae sit una affirmatio vel negatio, ibi: una autem affirmatio et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: hoc enim idem etc.; tertio, epilogat quae dicta sunt; ibi: manifestum est ergo et cetera.  Dicit ergo primo, manifestum esse quod unius affirmationis est una negatio sola. Et hoc quidem fuit necessarium hic dicere: quia cum posuerit plura oppositionum genera, videbatur quod uni affirmationi duae negationes opponerentur; sicut huic affirmativae, omnis homo est albus, videtur, secundum praedicta, haec negativa opponi, nullus homo est albus, et haec, quidam homo non est albus. Sed si quis recte consideret huius affirmativae, omnis homo est albus, negativa est sola ista, quidam homo non est albus, quae solummodo removet ipsam, ut patet ex sua aequipollenti, quae est, non omnis homo est albus. Universalis vero negativa includit quidem in suo intellectu negationem universalis affirmativae, in quantum includit particularem negativam, sed supra hoc aliquid addit, in quantum scilicet importat non solum remotionem universalitatis, sed removet quamlibet partem eius. Et sic patet quod sola una est negatio universalis affirmationis: et idem apparet in aliis.  Deinde cum dicit: hoc enim etc., manifestat propositum: et primo, per rationem; secundo, per exempla; ibi: dico autem, ut est Socrates albus. Ratio autem sumitur ex hoc, quod supra dictum est quod negatio opponitur affirmationi, quae est eiusdem de eodem: ex quo hic accipitur quod oportet negationem negare illud idem praedicatum, quod affirmatio affirmavit et de eodem subiecto, sive illud subiectum sit aliquid singulare, sive aliquid universale, vel universaliter, vel non universaliter sumptum; sed hoc non contingit fieri nisi uno modo, ita scilicet ut negatio neget id quod affirmatio posuit, et nihil aliud; ergo uni affirmationi opponitur una sola negatio.  [80425] Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 4 Deinde cum dicit: dico autem, ut est etc., manifestat propositum per exempla. Et primo, in singularibus: huic enim affirmationi, Socrates est albus, haec sola opponitur, Socrates non est albus, tanquam eius propria negatio. Si vero esset aliud praedicatum vel aliud subiectum, non esset negatio opposita, sed omnino diversa; sicut ista, Socrates non est musicus, non opponitur ei quae est, Socrates est albus; neque etiam illa quae est, Plato est albus, huic quae est, Socrates non est albus. Secundo, manifestat idem quando subiectum affirmationis est universale universaliter sumptum; sicut huic affirmationi, omnis homo est albus, opponitur sicut propria eius negatio, non omnis homo est albus, quae aequipollet particulari negativae. Tertio, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale particulariter sumptum: et dicit quod huic affirmationi, aliquis homo est albus, opponitur tanquam eius propria negatio, nullus homo est albus. Nam nullus dicitur, quasi non ullus, idest, non aliquis. Quarto, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale indefinite sumptum et dicit quod isti affirmationi, homo est albus, opponitur tanquam propria eius negatio illa quae est, non est homo albus.  [80426] Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 5 Sed videtur hoc esse contra id, quod supra dictum est quod negativa indefinita verificatur simul cum indefinita affirmativa; negatio autem non potest verificari simul cum sua opposita affirmatione, quia non contingit de eodem affirmare et negare. Sed ad hoc dicendum quod oportet quod hic dicitur intelligi quando negatio ad idem refertur quod affirmatio continebat; et hoc potest esse dupliciter: uno modo, quando affirmatur aliquid inesse homini ratione sui ipsius (quod est per se de eodem praedicari), et hoc ipsum negatio negat; alio modo, quando aliquid affirmatur de universali ratione sui singularis, et pro eodem de eo negatur. Deinde cum dicit: quod igitur una affirmatio etc., epilogat quae dicta sunt, et concludit manifestum esse ex praedictis quod uni affirmationi opponitur una negatio; et quod oppositarum affirmationum et negationum aliae sunt contrariae, aliae contradictoriae; et dictum est quae sint utraeque. Tacet autem de subcontrariis, quia non sunt recte oppositae, ut supra dictum est. Dictum est etiam quod non omnis contradictio est vera vel falsa; et sumitur hic large contradictio pro qualicumque oppositione affirmationis et negationis: nam in his quae sunt vere contradictoriae semper una est vera, et altera falsa. Quare autem in quibusdam oppositis hoc non verificetur, dictum est supra; quia scilicet quaedam non sunt contradictoriae, sed contrariae, quae possunt simul esse falsae. Contingit etiam affirmationem et negationem non proprie opponi; et ideo contingit eas esse veras simul. Dictum est autem quando altera semper est vera, altera autem falsa, quia scilicet in his quae vere sunt contradictoria.  Deinde cum dicit: una autem affirmatio etc., ostendit quae sit affirmatio vel negatio una. Quod quidem iam supra dixerat, ubi habitum est quod una est enunciatio, quae unum significat; sed quia enunciatio, in qua aliquid praedicatur de aliquo universali universaliter vel non universaliter, multa sub se continet, intendit ostendere quod per hoc non impeditur unitas enunciationis. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod unitas enunciationis non impeditur per multitudinem, quae continetur sub universali, cuius ratio una est; secundo, ostendit quod impeditur unitas enunciationis per multitudinem, quae continetur sub sola nominis unitate; ibi: si vero duobus et cetera. Dicit ergo primo quod una est affirmatio vel negatio cum unum significatur de uno, sive illud unum quod subiicitur sit universale universaliter sumptum sive non sit aliquid tale, sed sit universale particulariter sumptum vel indefinite, aut etiam si subiectum sit singulare. Et exemplificat de diversis sicut universalis ista affirmativa est una, omnis homo est albus; et similiter particularis negativa quae est eius negatio, scilicet non est omnis homo albus. Et subdit alia exempla, quae sunt manifesta. In fine autem apponit quamdam conditionem, quae requiritur ad hoc quod quaelibet harum sit una, si scilicet album, quod est praedicatum, significat unum: nam sola multitudo praedicati impediret unitatem enunciationis. Ideo autem universalis propositio una est, quamvis sub se multitudinem singularium comprehendat, quia praedicatum non attribuitur multis singularibus, secundum quod sunt in se divisa, sed secundum quod uniuntur in uno communi.  Deinde cum dicit: si vero duobus etc., ostendit quod sola unitas nominis non sufficit ad unitatem enunciationis. Et circa hoc quatuor facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exemplificat; ibi: ut si quis ponat etc.; tertio, probat; ibi: nihil enim differt etc.; quarto, infert corollarium ex dictis; ibi: quare nec in his et cetera. Dicit ergo primo quod si unum nomen imponatur duabus rebus, ex quibus non fit unum, non est affirmatio una. Quod autem dicit, ex quibus non fit unum, potest intelligi dupliciter. Uno modo, ad excludendum hoc quod multa continentur sub uno universali, sicut homo et equus sub animali: hoc enim nomen animal significat utrumque, non secundum quod sunt multa et differentia ad invicem, sed secundum quod uniuntur in natura generis. Alio modo, et melius, ad excludendum hoc quod ex multis partibus fit unum, sive sint partes rationis, sicut sunt genus et differentia, quae sunt partes definitionis: sive sint partes integrales alicuius compositi, sicut ex lapidibus et lignis fit domus. Si ergo sit tale praedicatum quod attribuatur rei, requiritur ad unitatem enunciationis quod illa multa quae significantur, concurrant in unum secundum aliquem dictorum modorum; unde non sufficeret sola unitas vocis. Si vero sit tale praedicatum quod referatur ad vocem, sufficiet unitas vocis; ut si dicam, canis est nomen.  Deinde cum dicit: ut si quis etc., exemplificat quod dictum est, ut si aliquis hoc nomen tunica imponat ad significandum hominem et equum: et sic, si dicam, tunica est alba, non est affirmatio una, neque negatio una. Deinde cum dicit: nihil enim differt etc., probat quod dixerat tali ratione. Si tunica significat hominem et equum, nihil differt si dicatur, tunica est alba, aut si dicatur, homo est albus, et, equus est albus; sed istae, homo est albus, et equus est albus, significant multa et sunt plures enunciationes; ergo etiam ista, tunica est alba, multa significat. Et hoc si significet hominem et equum ut res diversas: si vero significet hominem et equum ut componentia unam rem, nihil significat, quia non est aliqua res quae componatur ex homine et equo. Quod autem dicit quod non differt dicere, tunica est alba, et, homo est albus, et, equus est albus, non est intelligendum quantum ad veritatem et falsitatem. Nam haec copulativa, homo est albus et equus est albus, non potest esse vera nisi utraque pars sit vera: sed haec, tunica est alba, praedicta positione facta, potest esse vera etiam altera existente falsa; alioquin non oporteret distinguere multiplices propositiones ad solvendum rationes sophisticas. Sed hoc est intelligendum quantum ad unitatem et multiplicitatem. Nam sicut cum dicitur, homo est albus et equus est albus, non invenitur aliqua una res cui attribuatur praedicatum; ita etiam nec cum dicitur, tunica est alba.  Deinde cum dicit: quare nec in his etc., concludit ex praemissis quod nec in his affirmationibus et negationibus, quae utuntur subiecto aequivoco, semper oportet unam esse veram et aliam falsam, quia scilicet negatio potest aliud negare quam affirmatio affirmet. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum et ostendit quomodo dividunt verum et falsum oppositae enunciationes; hic inquirit de quodam quod poterat esse dubium, utrum scilicet id quod dictum es t similiter inveniatur in omnibus enunciationibus vel non. Et circa hoc duo facit: primo, proponit dissimilitudinem; secundo, probat eam; ibi: nam si omnis affirmatio et cetera.  Circa primum considerandum est quod philosophus in praemissis triplicem divisionem enunciationum assignavit, quarum prima fuit secundum unitatem enunciationis, prout scilicet enunciatio est una simpliciter vel coniunctione una; secunda fuit secundum qualitatem, prout scilicet enunciatio est affirmativa vel negativa; tertia fuit secundum quantitatem, utpote quod enunciatio quaedam est universalis, quaedam particularis, quaedam indefinita et quaedam singularis. Tangitur autem hic quarta divisio enunciationum secundum tempus. Nam quaedam est de praesenti, quaedam de praeterito, quaedam de futuro; et haec etiam divisio potest accipi ex his quae supra dicta sunt: dictum est enim supra quod necesse est omnem enunciationem esse ex verbo vel ex casu verbi; verbum autem est quod consignificat praesens tempus; casus autem verbi sunt, qui consignificant tempus praeteritum vel futurum. Potest autem accipi quinta divisio enunciationum secundum materiam, quae quidem divisio attenditur secundum habitudinem praedicati ad subiectum: nam si praedicatum per se insit subiecto, dicetur esse enunciatio in materia necessaria vel naturali; ut cum dicitur, homo est animal, vel, homo est risibile. Si vero praedicatum per se repugnet subiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio esse in materia impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si vero medio modo se habeat praedicatum ad subiectum, ut scilicet nec per se repugnet subiecto, nec per se insit, dicetur enunciatio esse in materia possibili sive contingenti. His igitur enunciationum differentiis consideratis, non similiter se habet iudicium de veritate et falsitate in omnibus. Unde philosophus dicit, ex praemissis concludens, quod in his quae sunt, idest in propositionibus de praesenti, et in his quae facta sunt, idest in enunciationibus de praeterito, necesse est quod affirmatio vel negatio determinate sit vera vel falsa. Diversificatur tamen hoc, secundum diversam quantitatem enunciationis; nam in enunciationibus, in quibus de universalibus subiectis aliquid universaliter praedicatur, necesse est quod semper una sit vera, scilicet affirmativa vel negativa, et altera falsa, quae scilicet ei opponitur. Dictum est enim supra quod negatio enunciationis universalis in qua aliquid universaliter praedicatur, est negativa non universalis, sed particularis, et e converso universalis negativa non est directe negatio universalis affirmativae, sed particularis; et sic oportet, secundum praedicta, quod semper una earum sit vera et altera falsa in quacumque materia. Et eadem ratio est in enunciationibus singularibus, quae etiam contradictorie opponuntur, ut supra habitum est. Sed in enunciationibus, in quibus aliquid praedicatur de universali non universaliter, non est necesse quod semper una sit vera et altera sit falsa, qui possunt ambae esse simul verae, ut supra ostensum est.  Et hoc quidem ita se habet quantum ad propositiones, quae sunt de praeterito vel de praesenti: sed si accipiamus enunciationes, quae sunt de futuro, etiam similiter se habent quantum ad oppositiones, quae sunt de universalibus vel universaliter vel non universaliter sumptis. Nam in materia necessaria omnes affirmativae determinate sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus; negativae vero falsae. In materia autem impossibili, e contrario. In contingenti vero universales sunt falsae et particulares sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus. In indefinitis autem, utraque simul est vera in futuris sicut in praesentibus vel praeteritis.  Sed in singularibus et futuris est quaedam dissimilitudo. Nam in praeteritis et praesentibus necesse est quod altera oppositarum determinate sit vera et altera falsa in quacumque materia; sed in singularibus quae sunt de futuro hoc non est necesse, quod una determinate sit vera et altera falsa. Et hoc quidem dicitur quantum ad materiam contingentem: nam quantum ad materiam necessariam et impossibilem similis ratio est in futuris singularibus, sicut in praesentibus et praeteritis. Nec tamen Aristoteles mentionem fecit de materia contingenti, quia illa proprie ad singularia pertinent quae contingenter eveniunt, quae autem per se insunt vel repugnant, attribuuntur singularibus secundum universalium rationes. Circa hoc igitur versatur tota praesens intentio: utrum in enunciationibus singularibus de futuro in materia contingenti necesse sit quod determinate una oppositarum sit vera et altera falsa.  Deinde cum dicit: nam si omnis affirmatio etc., probat praemissam differentiam. Et circa hoc duo facit: primo, probat propositum ducendo ad inconveniens; secundo, ostendit illa esse impossibilia quae sequuntur; ibi: quare ergo contingunt inconvenientia et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod in singularibus et futuris non semper potest determinate attribui veritas alteri oppositorum; secundo, ostendit quod non potest esse quod utraque veritate careat; ibi: at vero neque quoniam et cetera. Circa primum ponit duas rationes, in quarum prima ponit quamdam consequentiam, scilicet quod si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera vel falsa ita in singularibus et futuris sicut in aliis, consequens est quod omnia necesse sit vel determinate esse vel non esse. Deinde cum dicit: quare si hic quidem etc. vel, si itaque hic quidem, ut habetur in Graeco, probat consequentiam praedictam. Ponamus enim quod sint duo homines, quorum unus dicat aliquid esse futurum, puta quod Socrates curret, alius vero dicat hoc idem ipsum non esse futurum; supposita praemissa positione, scilicet quod in singularibus et futuris contingit alteram esse veram, scilicet vel affirmativam vel negativam, sequetur quod necesse sit quod alter eorum verum dicat, non autem uterque: quia non potest esse quod in singularibus propositionibus futuris utraque sit simul vera, scilicet affirmativa et negativa: sed hoc habet locum solum in indefinitis. Ex hoc autem quod necesse est alterum eorum verum dicere, sequitur quod necesse sit determinate vel esse vel non esse. Et hoc probat consequenter: quia ista duo se convertibiliter consequuntur, scilicet quod verum sit id quod dicitur, et quod ita sit in re. Et hoc est quod manifestat consequenter dicens quod si verum est dicere quod album sit, de necessitate sequitur quod ita sit in re; et si verum est negare, ex necessitate sequitur quod ita non sit. Et e converso: quia si ita est in re vel non est, ex necessitate sequitur quod sit verum affirmare vel negare. Et eadem etiam convertibilitas apparet in falso: quia, si aliquis mentitur falsum dicens, ex necessitate sequitur quod non ita sit in re, sicut ipse affirmat vel negat; et e converso, si non est ita in re sicut ipse affirmat vel negat, sequitur quod affirmans vel negans mentiatur.  Est ergo processus huius rationis talis. Si necesse est quod omnis affirmatio vel negatio in singularibus et futuris sit vera vel falsa, necesse est quod omnis affirmans vel negans determinate dicat verum vel falsum. Ex hoc autem sequitur quod omne necesse sit esse vel non esse. Ergo, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, necesse est omnia determinate esse vel non esse. Ex hoc concludit ulterius quod omnia sint ex necessitate. Per quod triplex genus contingentium excluditur.  Quaedam enim contingunt ut in paucioribus, quae accidunt a casu vel fortuna. Quaedam vero se habent ad utrumlibet, quia scilicet non magis se habent ad unam partem, quam ad aliam, et ista procedunt ex electione. Quaedam vero eveniunt ut in pluribus; sicut hominem canescere in senectute, quod causatur ex natura. Si autem omnia ex necessitate evenirent, nihil horum contingentium esset. Et ideo dicit nihil est quantum ad ipsam permanentiam eorum quae permanent contingenter; neque fit quantum ad productionem eorum quae contingenter causantur; nec casu quantum ad ea quae sunt in minori parte, sive in paucioribus; nec utrumlibet quantum ad ea quae se habent aequaliter ad utrumque, scilicet esse vel non esse, et ad neutrum horum sunt determinata: quod significat cum subdit, nec erit, nec non erit. De eo enim quod est magis determinatum ad unam partem possumus determinate verum dicere quod hoc erit vel non erit, sicut medicus de convalescente vere dicit, iste sanabitur, licet forte ex aliquo accidente eius sanitas impediatur. Unde et philosophus dicit in II de generatione quod futurus quis incedere, non incedet. De eo enim qui habet propositum determinatum ad incedendum, vere potest dici quod ipse incedet, licet per aliquod accidens impediatur eius incessus. Sed eius quod est ad utrumlibet proprium est quod, quia non determinatur magis ad unum quam ad alterum, non possit de eo determinate dici, neque quod erit, neque quod non erit. Quomodo autem sequatur quod nihil sit ad utrumlibet ex praemissa hypothesi, manifestat subdens quod, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, oportet quod vel ille qui affirmat vel ille qui negat dicat verum; et sic tollitur id quod est ad utrumlibet: quia, si esse aliquid ad utrumlibet, similiter se haberet ad hoc quod fieret vel non fieret, et non magis ad unum quam ad alterum. Est autem considerandum quod philosophus non excludit hic expresse contingens quod est ut in pluribus, duplici ratione. Primo quidem, quia tale contingens non excludit quin altera oppositarum enunciationum determinate sit vera et altera falsa, ut dictum est. Secundo, quia remoto contingenti quod est in paucioribus, quod a casu accidit, removetur per consequens contingens quod est ut in pluribus: nihil enim differt id quod est in pluribus ab eo quod est in paucioribus, nisi quod deficit in minori parte.  Deinde cum dicit: amplius si est album etc., ponit secundam rationem ad ostendendum praedictam dissimilitudinem, ducendo ad impossibile. Si enim similiter se habet veritas et falsitas in praesentibus et futuris, sequitur ut quidquid verum est de praesenti, etiam fuerit verum de futuro, eo modo quo est verum de praesenti. Sed determinate nunc est verum dicere de aliquo singulari quod est album; ergo primo, idest antequam illud fieret album, erat verum dicere quoniam hoc erit album. Sed eadem ratio videtur esse in propinquo et in remoto; ergo si ante unum diem verum fuit dicere quod hoc erit album, sequitur quod semper fuit verum dicere de quolibet eorum, quae facta sunt, quod erit. Si autem semper est verum dicere de praesenti quoniam est, vel de futuro quoniam erit, non potest hoc non esse vel non futurum esse. Cuius consequentiae ratio patet, quia ista duo sunt incompossibilia, quod aliquid vere dicatur esse, et quod non sit. Nam hoc includitur in significatione veri, ut sit id quod dicitur. Si ergo ponitur verum esse id quod dicitur de praesenti vel de futuro, non potest esse quin illud sit praesens vel futurum. Sed quod non potest non fieri idem significat cum eo quod est impossibile non fieri. Et quod impossibile est non fieri idem significat cum eo quod est necesse fieri, ut in secundo plenius dicetur. Sequitur ergo ex praemissis quod omnia, quae futura sunt, necesse est fieri. Ex quo sequitur ulterius, quod nihil sit neque ad utrumlibet neque a casu, quia illud quod accidit a casu non est ex necessitate, sed ut in paucioribus; hoc autem relinquit pro inconvenienti; ergo et primum est falsum, scilicet quod omne quod est verum esse, verum fuerit determinate dicere esse futurum.  Ad cuius evidentiam considerandum est quod cum verum hoc significet ut dicatur aliquid esse quod est, hoc modo est aliquid verum, quo habet esse. Cum autem aliquid est in praesenti habet esse in seipso, et ideo vere potest dici de eo quod est: sed quamdiu aliquid est futurum, nondum est in seipso, est tamen aliqualiter in sua causa: quod quidem contingit tripliciter. Uno modo, ut sic sit in sua causa ut ex necessitate ex ea proveniat; et tunc determinate habet esse in sua causa; unde determinate potest dici de eo quod erit. Alio modo, aliquid est in sua causa, ut quae habet inclinationem ad suum effectum, quae tamen impediri potest; unde et hoc determinatum est in sua causa, sed mutabiliter; et sic de hoc vere dici potest, hoc erit, sed non per omnimodam certitudinem. Tertio, aliquid est in sua causa pure in potentia, quae etiam non magis est determinata ad unum quam ad aliud; unde relinquitur quod nullo modo potest de aliquo eorum determinate dici quod sit futurum, sed quod sit vel non sit.  Deinde cum dicit: at vero neque quoniam etc., ostendit quod veritas non omnino deest in singularibus futuris utrique oppositorum; et primo, proponit quod intendit dicens quod sicut non est verum dicere quod in talibus alterum oppositorum sit verum determinate, sic non est verum dicere quod non utrumque sit verum; ut si quod dicamus, neque erit, neque non erit. Secundo, ibi: primum enim cum sit etc., probat propositum duabus rationibus. Quarum prima talis est: affirmatio et negatio dividunt verum et falsum, quod patet ex definitione veri et falsi: nam nihil aliud est verum quam esse quod est, vel non esse quod non est; et nihil aliud est falsum quam esse quod non est, vel non esse quod est; et sic oportet quod si affirmatio sit falsa, quod negatio sit vera; et e converso. Sed secundum praedictam positionem affirmatio est falsa, qua dicitur, hoc erit; nec tamen negatio est vera: et similiter negatio erit falsa, affirmatione non existente vera; ergo praedicta positio est impossibilis, scilicet quod veritas desit utrique oppositorum. Secundam rationem ponit; ibi: ad haec si verum est et cetera. Quae talis est: si verum est dicere aliquid, sequitur quod illud sit; puta si verum est dicere quod aliquid sit magnum et album, sequitur utraque esse. Et ita de futuro sicut de praesenti: sequitur enim esse cras, si verum est dicere quod erit cras. Si ergo vera est praedicta positio dicens quod neque cras erit, neque non erit, oportebit neque fieri, neque non fieri: quod est contra rationem eius quod est ad utrumlibet, quia quod est ad utrumlibet se habet ad alterutrum; ut navale bellum cras erit, vel non erit. Et ita ex hoc sequitur idem inconveniens quod in praemissis. Ostenderat superius philosophus ducendo ad inconveniens quod non est similiter verum vel falsum determinate in altero oppositorum in singularibus et futuris, sicut supra de aliis enunciationibus dixerat; nunc autem ostendit inconvenientia ad quae adduxerat esse impossibilia. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit impossibilia ea quae sequebantur; secundo, concludit quomodo circa haec se veritas habeat; ibi: igitur esse quod est et cetera.  Circa primum tria facit: primo, ponit inconvenientia quae sequuntur; secundo, ostendit haec inconvenientia ex praedicta positione sequi; ibi: nihil enim prohibet etc.; tertio, ostendit esse impossibilia inconvenientia memorata; ibi: quod si haec possibilia non sunt et cetera. Dicit ergo primo, ex praedictis rationibus concludens, quod haec inconvenientia sequuntur, si ponatur quod necesse sit oppositarum enunciationum alteram determinate esse veram et alteram esse falsam similiter in singularibus sicut in universalibus, quod scilicet nihil in his quae fiunt sit ad utrumlibet, sed omnia sint et fiant ex necessitate. Et ex hoc ulterius inducit alia duo inconvenientia. Quorum primum est quod non oportebit de aliquo consiliari: probatum est enim in III Ethicorum quod consilium non est de his, quae sunt ex necessitate, sed solum de contingentibus, quae possunt esse et non esse. Secundum inconveniens est quod omnes actiones humanae, quae sunt propter aliquem finem (puta negotiatio, quae est propter divitias acquirendas), erunt superfluae: quia si omnia ex necessitate eveniunt, sive operemur sive non operemur erit quod intendimus. Sed hoc est contra intentionem hominum, quia ea intentione videntur consiliari et negotiari ut, si haec faciant, erit talis finis, si autem faciunt aliquid aliud, erit alius finis.  Deinde cum dicit: nihil enim prohibet etc., probat quod dicta inconvenientia consequantur ex dicta positione. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit praedicta inconvenientia sequi, quodam possibili posito; secundo, ostendit quod eadem inconvenientia sequantur etiam si illud non ponatur; ibi: at nec hoc differt et cetera. Dicit ergo primo, non esse impossibile quod ante mille annos, quando nihil apud homines erat praecogitatum, vel praeordinatum de his quae nunc aguntur, unus dixerit quod hoc erit, puta quod civitas talis subverteretur, alius autem dixerit quod hoc non erit. Sed si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera, necesse est quod alter eorum determinate verum dixerit; ergo necesse fuit alterum eorum ex necessitate evenire; et eadem ratio est in omnibus aliis; ergo omnia ex necessitate eveniunt.  Deinde cum dicit: at vero neque hoc differt etc., ostendit quod idem sequitur si illud possibile non ponatur. Nihil enim differt, quantum ad rerum existentiam vel eventum, si uno affirmante hoc esse futurum, alius negaverit vel non negaverit; ita enim se habebit res si hoc factum fuerit, sicut si hoc non factum fuerit. Non enim propter nostrum affirmare vel negare mutatur cursus rerum, ut sit aliquid vel non sit: quia veritas nostrae enunciationis non est causa existentiae rerum, sed potius e converso. Similiter etiam non differt quantum ad eventum eius quod nunc agitur, utrum fuerit affirmatum vel negatum ante millesimum annum vel ante quodcumque tempus. Sic ergo, si in quocumque tempore praeterito, ita se habebat veritas enunciationum, ut necesse esset quod alterum oppositorum vere diceretur; et ad hoc quod necesse est aliquid vere dici sequitur quod necesse sit illud esse vel fieri; consequens est quod unumquodque eorum quae fiunt, sic se habeat ut ex necessitate fiat. Et huiusmodi consequentiae rationem assignat per hoc, quod si ponatur aliquem vere dicere quod hoc erit, non potest non futurum esse. Sicut supposito quod sit homo, non potest non esse animal rationale mortale. Hoc enim significatur, cum dicitur aliquid vere dici, scilicet quod ita sit ut dicitur. Eadem autem habitudo est eorum, quae nunc dicuntur, ad ea quae futura sunt, quae erat eorum, quae prius dicebantur, ad ea quae sunt praesentia vel praeterita; et ita omnia ex necessitate acciderunt, et accidunt, et accident, quia quod nunc factum est, utpote in praesenti vel in praeterito existens, semper verum erat dicere, quoniam erit futurum.  Deinde cum dicit: quod si haec possibilia non sunt etc., ostendit praedicta esse impossibilia: et primo, per rationem; secundo, per exempla sensibilia; ibi: et multa nobis manifesta et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit propositum in rebus humanis; secundo, etiam in aliis rebus; ibi: et quoniam est omnino et cetera. Quantum autem ad res humanas ostendit esse impossibilia quae dicta sunt, per hoc quod homo manifeste videtur esse principium eorum futurorum, quae agit quasi dominus existens suorum actuum, et in sua potestate habens agere vel non agere; quod quidem principium si removeatur, tollitur totus ordo conversationis humanae, et omnia principia philosophiae moralis. Hoc enim sublato non erit aliqua utilitas persuasionis, nec comminationis, nec punitionis aut remunerationis, quibus homines alliciuntur ad bona et retrahuntur a malis, et sic evacuatur tota civilis scientia. Hoc ergo philosophus accipit pro principio manifesto quod homo sit principium futurorum; non est autem futurorum principium nisi per hoc quod consiliatur et facit aliquid: ea enim quae agunt absque consilio non habent dominium sui actus, quasi libere iudicantes de his quae sunt agenda, sed quodam naturali instinctu moventur ad agendum, ut patet in animalibus brutis. Unde impossibile est quod supra conclusum est quod non oporteat nos negotiari vel consiliari. Et sic etiam impossibile est illud ex quo sequebatur, scilicet quod omnia ex necessitate eveniant.  Deinde cum dicit: et quoniam est omnino etc., ostendit idem etiam in aliis rebus. Manifestum est enim etiam in rebus naturalibus esse quaedam, quae non semper actu sunt; ergo in eis contingit esse et non esse: alioquin vel semper essent, vel semper non essent. Id autem quod non est, incipit esse aliquid per hoc quod fit illud; sicut id quod non est album, incipit esse album per hoc quod fit album. Si autem non fiat album permanet non ens album. Ergo in quibus contingit esse et non esse, contingit etiam fieri et non fieri. Non ergo talia ex necessitate sunt vel fiunt, sed est in eis natura possibilitatis, per quam se habent ad fieri et non fieri, esse et non esse.  Deinde cum dicit: ac multa nobis manifesta etc., ostendit propositum per sensibilia exempla. Sit enim, puta, vestis nova; manifestum est quod eam possibile est incidi, quia nihil obviat incisioni, nec ex parte agentis nec ex parte patientis. Probat autem quod simul cum hoc quod possibile est eam incidi, possibile est etiam eam non incidi, eodem modo quo supra probavit duas indefinitas oppositas esse simul veras, scilicet per assumptionem contrarii. Sicut enim possibile est istam vestem incidi, ita possibile est eam exteri, idest vetustate corrumpi; sed si exteritur non inciditur; ergo utrumque possibile est, scilicet eam incidi et non incidi. Et ex hoc universaliter concludit quod in aliis futuris, quae non sunt in actu semper, sed sunt in potentia, hoc manifestum est quod non omnia ex necessitate sunt vel fiunt, sed eorum quaedam sunt ad utrumlibet, quae non se habent magis ad affirmationem quam ad negationem; alia vero sunt in quibus alterum eorum contingit ut in pluribus, sed tamen contingit etiam ut in paucioribus quod altera pars sit vera, et non alia, quae scilicet contingit ut in pluribus.  Est autem considerandum quod, sicut Boethius dicit hic in commento, circa possibile et necessarium diversimode aliqui sunt opinati. Quidam enim distinxerunt ea secundum eventum, sicut Diodorus, qui dixit illud esse impossibile quod nunquam erit; necessarium vero quod semper erit; possibile vero quod quandoque erit, quandoque non erit. Stoici vero distinxerunt haec secundum exteriora prohibentia. Dixerunt enim necessarium esse illud quod non potest prohiberi quin sit verum; impossibile vero quod semper prohibetur a veritate; possibile vero quod potest prohiberi vel non prohiberi. Utraque autem distinctio videtur esse incompetens. Nam prima distinctio est a posteriori: non enim ideo aliquid est necessarium, quia semper erit; sed potius ideo semper erit, quia est necessarium: et idem patet in aliis. Secunda autem assignatio est ab exteriori et quasi per accidens: non enim ideo aliquid est necessarium, quia non habet impedimentum, sed quia est necessarium, ideo impedimentum habere non potest. Et ideo alii melius ista distinxerunt secundum naturam rerum, ut scilicet dicatur illud necessarium, quod in sua natura determinatum est solum ad esse; impossibile autem quod est determinatum solum ad non esse; possibile autem quod ad neutrum est omnino determinatum, sive se habeat magis ad unum quam ad alterum, sive se habeat aequaliter ad utrumque, quod dicitur contingens ad utrumlibet. Et hoc est quod Boethius attribuit Philoni. Sed manifeste haec est sententia Aristotelis in hoc loco. Assignat enim rationem possibilitatis et contingentiae, in his quidem quae sunt a nobis ex eo quod sumus consiliativi, in aliis autem ex eo quod materia est in potentia ad utrumque oppositorum.  Sed videtur haec ratio non esse sufficiens. Sicut enim in corporibus corruptibilibus materia invenitur in potentia se habens ad esse et non esse, ita etiam in corporibus caelestibus invenitur potentia ad diversa ubi, et tamen nihil in eis evenit contingenter, sed solum ex necessitate. Unde dicendum est quod possibilitas materiae ad utrumque, si communiter loquamur, non est sufficiens ratio contingentiae, nisi etiam addatur ex parte potentiae activae quod non sit omnino determinata ad unum; alioquin si ita sit determinata ad unum quod impediri non potest, consequens est quod ex necessitate reducat in actum potentiam passivam eodem modo.  Hoc igitur quidam attendentes posuerunt quod potentia, quae est in ipsis rebus naturalibus, sortitur necessitatem ex aliqua causa determinata ad unum quam dixerunt fatum. Quorum Stoici posuerunt fatum in quadam serie, seu connexione causarum, supponentes quod omne quod in hoc mundo accidit habet causam; causa autem posita, necesse est effectum poni. Et si una causa per se non sufficit, multae causae ad hoc concurrentes accipiunt rationem unius causae sufficientis; et ita concludebant quod omnia ex necessitate eveniunt.  Sed hanc rationem solvit Aristoteles in VI metaphysicae interimens utramque propositionum assumptarum. Dicit enim quod non omne quod fit habet causam, sed solum illud quod est per se. Sed illud quod est per accidens non habet causam; quia proprie non est ens, sed magis ordinatur cum non ente, ut etiam Plato dixit. Unde esse musicum habet causam, et similiter esse album; sed hoc quod est, album esse musicum, non habet causam: et idem est in omnibus aliis huiusmodi. Similiter etiam haec est falsa, quod posita causa etiam sufficienti, necesse est effectum poni: non enim omnis causa est talis (etiamsi sufficiens sit) quod eius effectus impediri non possit; sicut ignis est sufficiens causa combustionis lignorum, sed tamen per effusionem aquae impeditur combustio.  Si autem utraque propositionum praedictarum esset vera, infallibiliter sequeretur omnia ex necessitate contingere. Quia si quilibet effectus habet causam, esset effectum (qui est futurus post quinque dies, aut post quantumcumque tempus) reducere in aliquam causam priorem: et sic quousque esset devenire ad causam, quae nunc est in praesenti, vel iam fuit in praeterito; si autem causa posita, necesse est effectum poni, per ordinem causarum deveniret necessitas usque ad ultimum effectum. Puta, si comedit salsa, sitiet: si sitiet, exibit domum ad bibendum: si exibit domum, occidetur a latronibus. Quia ergo iam comedit salsa, necesse est eum occidi. Et ideo Aristoteles ad hoc excludendum ostendit utramque praedictarum propositionum esse falsam, ut dictum est.  Obiiciunt autem quidam contra hoc, dicentes quod omne per accidens reducitur ad aliquid per se, et ita oportet effectum qui est per accidens reduci in causam per se. Sed non attendunt quod id quod est per accidens reducitur ad per se, in quantum accidit ei quod est per se, sicut musicum accidit Socrati, et omne accidens alicui subiecto per se existenti. Et similiter omne quod in aliquo effectu est per accidens consideratur circa aliquem effectum per se: qui quantum ad id quod per se est habet causam per se, quantum autem ad id quod inest ei per accidens non habet causam per se, sed causam per accidens. Oportet enim effectum proportionaliter referre ad causam suam, ut in II physicorum et in V methaphysicae dicitur.  Quidam vero non attendentes differentiam effectuum per accidens et per se, tentaverunt reducere omnes effectus hic inferius provenientes in aliquam causam per se, quam ponebant esse virtutem caelestium corporum in qua ponebant fatum, dicentes nihil aliud esse fatum quam vim positionis syderum. Sed ex hac causa non potest provenire necessitas in omnibus quae hic aguntur. Multa enim hic fiunt ex intellectu et voluntate, quae per se et directe non subduntur virtuti caelestium corporum: cum enim intellectus sive ratio et voluntas quae est in ratione, non sint actus organi corporalis, ut probatur in libro de anima, impossibile est quod directe subdantur intellectus seu ratio et voluntas virtuti caelestium corporum: nulla enim vis corporalis potest agere per se, nisi in rem corpoream. Vires autem sensitivae in quantum sunt actus organorum corporalium per accidens subduntur actioni caelestium corporum. Unde philosophus in libro de anima opinionem ponentium voluntatem hominis subiici motui caeli adscribit his, qui non ponebant intellectum differre a sensu. Indirecte tamen vis caelestium corporum redundat ad intellectum et voluntatem, in quantum scilicet intellectus et voluntas utuntur viribus sensitivis. Manifestum autem est quod passiones virium sensitivarum non inferunt necessitatem rationi et voluntati. Nam continens habet pravas concupiscentias, sed non deducitur, ut patet per philosophum in VII Ethicorum. Sic igitur ex virtute caelestium corporum non provenit necessitas in his quae per rationem et voluntatem fiunt. Similiter nec in aliis corporalibus effectibus rerum corruptibilium, in quibus multa per accidens eveniunt. Id autem quod est per accidens non potest reduci ut in causam per se in aliquam virtutem naturalem, quia virtus naturae se habet ad unum; quod autem est per accidens non est unum; unde et supra dictum est quod haec enunciatio non est una, Socrates est albus musicus, quia non significat unum. Et ideo philosophus dicit in libro de somno et vigilia quod multa, quorum signa praeexistunt in corporibus caelestibus, puta in imbribus et tempestatibus, non eveniunt, quia scilicet impediuntur per accidens. Et quamvis illud etiam impedimentum secundum se consideratum reducatur in aliquam causam caelestem; tamen concursus horum, cum sit per accidens, non potest reduci in aliquam causam naturaliter agentem.  Sed considerandum est quod id quod est per accidens potest ab intellectu accipi ut unum, sicut album esse musicum, quod quamvis secundum se non sit unum, tamen intellectus ut unum accipit, in quantum scilicet componendo format enunciationem unam. Et secundum hoc contingit id, quod secundum se per accidens evenit et casualiter, reduci in aliquem intellectum praeordinantem; sicut concursus duorum servorum ad certum locum est per accidens et casualis quantum ad eos, cum unus eorum ignoret de alio; potest tamen esse per se intentus a domino, qui utrumque mittit ad hoc quod in certo loco sibi occurrant.  Et secundum hoc aliqui posuerunt omnia quaecumque in hoc mundo aguntur, etiam quae videntur fortuita vel casualia, reduci in ordinem providentiae divinae, ex qua dicebant dependere fatum. Et hoc quidem aliqui stulti negaverunt, iudicantes de intellectu divino ad modum intellectus nostri, qui singularia non cognoscit. Hoc autem est falsum: nam intelligere divinum et velle eius est ipsum esse ipsius. Unde sicut esse eius sua virtute comprehendit omne illud quod quocumque modo est, in quantum scilicet est per participationem ipsius; ita etiam suum intelligere et suum intelligibile comprehendit omnem cognitionem et omne cognoscibile; et suum velle et suum volitum comprehendit omnem appetitum et omne appetibile quod est bonum; ut, scilicet ex hoc ipso quod aliquid est cognoscibile cadat sub eius cognitione, et ex hoc ipso quod est bonum cadat sub eius voluntate: sicut ex hoc ipso quod est ens, aliquid cadit sub eius virtute activa, quam ipse perfecte comprehendit, cum sit per intellectum agens.   Sed si providentia divina sit per se causa omnium quae in hoc mundo accidunt, saltem bonorum, videtur quod omnia ex necessitate accidant. Primo quidem ex parte scientiae eius: non enim potest eius scientia falli; et ita ea quae ipse scit, videtur quod necesse sit evenire. Secundo ex parte voluntatis: voluntas enim Dei inefficax esse non potest; videtur ergo quod omnia quae vult, ex necessitate eveniant.  Procedunt autem hae obiectiones ex eo quod cognitio divini intellectus et operatio divinae voluntatis pensantur ad modum eorum, quae in nobis sunt, cum tamen multo dissimiliter se habeant.  Nam primo quidem ex parte cognitionis vel scientiae considerandum est quod ad cognoscendum ea quae secundum ordinem temporis eveniunt, aliter se habet vis cognoscitiva, quae sub ordine temporis aliqualiter continetur, aliter illa quae totaliter est extra ordinem temporis. Cuius exemplum conveniens accipi potest ex ordine loci: nam secundum philosophum in IV physicorum, secundum prius et posterius in magnitudine est prius et posterius in motu et per consequens in tempore. Si ergo sint multi homines per viam aliquam transeuntes, quilibet eorum qui sub ordine transeuntium continetur habet cognitionem de praecedentibus et subsequentibus, in quantum sunt praecedentes et subsequentes; quod pertinet ad ordinem loci. Et ideo quilibet eorum videt eos, qui iuxta se sunt et aliquos eorum qui eos praecedunt; eos autem qui post se sunt videre non potest. Si autem esset aliquis extra totum ordinem transeuntium, utpote in aliqua excelsa turri constitutus, unde posset totam viam videre, videret quidem simul omnes in via existentes, non sub ratione praecedentis et subsequentis (in comparatione scilicet ad eius intuitum), sed simul omnes videret, et quomodo unus eorum alium praecedit. Quia igitur cognitio nostra cadit sub ordine temporis, vel per se vel per accidens (unde et anima in componendo et dividendo necesse habet adiungere tempus, ut dicitur in III de anima), consequens est quod sub eius cognitione cadant res sub ratione praesentis, praeteriti et futuri. Et ideo praesentia cognoscit tanquam actu existentia et sensu aliqualiter perceptibilia; praeterita autem cognoscit ut memorata; futura autem non cognoscit in seipsis, quia nondum sunt, sed cognoscere ea potest in causis suis: per certitudinem quidem, si totaliter in causis suis sint determinata, ut ex quibus de necessitate evenient; per coniecturam autem, si non sint sic determinata quin impediri possint, sicut quae sunt ut in pluribus; nullo autem modo, si in suis causis sunt omnino in potentia non magis determinata ad unum quam ad aliud, sicut quae sunt ad utrumlibet. Non enim est aliquid cognoscibile secundum quod est in potentia, sed solum secundum quod est in actu, ut patet per philosophum in IX metaphysicae.  Sed Deus est omnino extra ordinem temporis, quasi in arce aeternitatis constitutus, quae est tota simul, cui subiacet totus temporis decursus secundum unum et simplicem eius intuitum; et ideo uno intuitu videt omnia quae aguntur secundum temporis decursum, et unumquodque secundum quod est in seipso existens, non quasi sibi futurum quantum ad eius intuitum prout est in solo ordine suarum causarum (quamvis et ipsum ordinem causarum videat), sed omnino aeternaliter sic videt unumquodque eorum quae sunt in quocumque tempore, sicut oculus humanus videt Socratem sedere in seipso, non in causa sua. Ex hoc autem quod homo videt Socratem sedere, non tollitur eius contingentia quae respicit ordinem causae ad effectum; tamen certissime et infallibiliter videt oculus hominis Socratem sedere dum sedet, quia unumquodque prout est in seipso iam determinatum est. Sic igitur relinquitur, quod Deus certissime et infallibiliter cognoscat omnia quae fiunt in tempore; et tamen ea quae in tempore eveniunt non sunt vel fiunt ex necessitate, sed contingenter.  Similiter ex parte voluntatis divinae differentia est attendenda. Nam voluntas divina est intelligenda ut extra ordinem entium existens, velut causa quaedam profundens totum ens et omnes eius differentias. Sunt autem differentiae entis possibile et necessarium; et ideo ex ipsa voluntate divina originantur necessitas et contingentia in rebus et distinctio utriusque secundum rationem proximarum causarum: ad effectus enim, quos voluit necessarios esse, disposuit causas necessarias; ad effectus autem, quos voluit esse contingentes, ordinavit causas contingenter agentes, idest potentes deficere. Et secundum harum conditionem causarum, effectus dicuntur vel necessarii vel contingentes, quamvis omnes dependeant a voluntate divina, sicut a prima causa, quae transcendit ordinem necessitatis et contingentiae. Hoc autem non potest dici de voluntate humana, nec de aliqua alia causa: quia omnis alia causa cadit iam sub ordine necessitatis vel contingentiae; et ideo oportet quod vel ipsa causa possit deficere, vel effectus eius non sit contingens, sed necessarius. Voluntas autem divina indeficiens est; tamen non omnes effectus eius sunt necessarii, sed quidam contingentes. Similiter autem aliam radicem contingentiae, quam hic philosophus ponit ex hoc quod sumus consiliativi, aliqui subvertere nituntur, volentes ostendere quod voluntas in eligendo ex necessitate movetur ab appetibili. Cum enim bonum sit obiectum voluntatis, non potest (ut videtur) ab hoc divertere quin appetat illud quod sibi videtur bonum; sicut nec ratio ab hoc potest divertere quin assentiat ei quod sibi videtur verum. Et ita videtur quod electio consilium consequens semper ex necessitate proveniat; et sic omnia, quorum nos principium sumus per consilium et electionem, ex necessitate provenient. Sed dicendum est quod similis differentia attendenda est circa bonum, sicut circa verum. Est autem quoddam verum, quod est per se notum, sicut prima principia indemonstrabilia, quibus ex necessitate intellectus assentit; sunt autem quaedam vera non per se nota, sed per alia. Horum autem duplex est conditio: quaedam enim ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod non possunt esse falsa, principiis existentibus veris, sicut sunt omnes conclusiones demonstrationum. Et huiusmodi veris ex necessitate assentit intellectus, postquam perceperit ordinem eorum ad principia, non autem prius. Quaedam autem sunt, quae non ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod possent esse falsa principiis existentibus veris; sicut sunt opinabilia, quibus non ex necessitate assentit intellectus, quamvis ex aliquo motivo magis inclinetur in unam partem quam in aliam. Ita etiam est quoddam bonum quod est propter se appetibile, sicut felicitas, quae habet rationem ultimi finis; et huiusmodi bono ex necessitate inhaeret voluntas: naturali enim quadam necessitate omnes appetunt esse felices. Quaedam vero sunt bona, quae sunt appetibilia propter finem, quae comparantur ad finem sicut conclusiones ad principium, ut patet per philosophum in II physicorum. Si igitur essent aliqua bona, quibus non existentibus, non posset aliquis esse felix, haec etiam essent ex necessitate appetibilia et maxime apud eum, qui talem ordinem perciperet; et forte talia sunt esse, vivere et intelligere et si qua alia sunt similia. Sed particularia bona, in quibus humani actus consistunt, non sunt talia, nec sub ea ratione apprehenduntur ut sine quibus felicitas esse non possit, puta, comedere hunc cibum vel illum, aut abstinere ab eo: habent tamen in se unde moveant appetitum, secundum aliquod bonum consideratum in eis. Et ideo voluntas non ex necessitate inducitur ad haec eligenda. Et propter hoc philosophus signanter radicem contingentiae in his quae fiunt a nobis assignavit ex parte consilii, quod est eorum quae sunt ad finem et tamen non sunt determinata. In his enim in quibus media sunt determinata, non est opus consilio, ut dicitur in III Ethicorum. Et haec quidem dicta sunt ad salvandum radices contingentiae, quas hic Aristoteles ponit, quamvis videantur logici negotii modum excedere. Postquam philosophus ostendit esse impossibilia ea, quae ex praedictis rationibus sequebantur; hic, remotis impossibilibus, concludit veritatem. Et circa hoc duo facit: quia enim argumentando ad impossibile, processerat ab enunciationibus ad res, et iam removerat inconvenientia quae circa res sequebantur; nunc, ordine converso, primo ostendit qualiter se habeat veritas circa res; secundo, qualiter se habeat veritas circa enunciationes; ibi: quare quoniam orationes verae sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter se habeant veritas et necessitas circa res absolute consideratas; secundo, qualiter se habeant circa eas per comparationem ad sua opposita; ibi: et in contradictione eadem ratio est et cetera.  Dicit ergo primo, quasi ex praemissis concludens, quod si praedicta sunt inconvenientia, ut scilicet omnia ex necessitate eveniant, oportet dicere ita se habere circa res, scilicet quod omne quod est necesse est esse quando est, et omne quod non est necesse est non esse quando non est. Et haec necessitas fundatur super hoc principium: impossibile est simul esse et non esse: si enim aliquid est, impossibile est illud simul non esse; ergo necesse est tunc illud esse. Nam impossibile non esse idem significat ei quod est necesse esse, ut in secundo dicetur. Et similiter, si aliquid non est, impossibile est illud simul esse; ergo necesse est non esse, quia etiam idem significant. Et ideo manifeste verum est quod omne quod est necesse est esse quando est; et omne quod non est necesse est non esse pro illo tempore quando non est: et haec est necessitas non absoluta, sed ex suppositione. Unde non potest simpliciter et absolute dici quod omne quod est, necesse est esse, et omne quod non est, necesse est non esse: quia non idem significant quod omne ens, quando est, sit ex necessitate, et quod omne ens simpliciter sit ex necessitate; nam primum significat necessitatem ex suppositione, secundum autem necessitatem absolutam. Et quod dictum est de esse, intelligendum est similiter de non esse; quia aliud est simpliciter ex necessitate non esse et aliud est ex necessitate non esse quando non est. Et per hoc videtur Aristoteles excludere id quod supra dictum est, quod si in his, quae sunt, alterum determinate est verum, quod etiam antequam fieret alterum determinate esset futurum.  Deinde cum dicit: et in contradictione etc., ostendit quomodo se habeant veritas et necessitas circa res per comparationem ad sua opposita: et dicit quod eadem ratio est in contradictione, quae est in suppositione. Sicut enim illud quod non est absolute necessarium, fit necessarium ex suppositione eiusdem, quia necesse est esse quando est; ita etiam quod non est in se necessarium absolute fit necessarium per disiunctionem oppositi, quia necesse est de unoquoque quod sit vel non sit, et quod futurum sit aut non sit, et hoc sub disiunctione: et haec necessitas fundatur super hoc principium quod, impossibile est contradictoria simul esse vera vel falsa. Unde impossibile est neque esse neque non esse; ergo necesse est vel esse vel non esse. Non tamen si divisim alterum accipiatur, necesse est illud esse absolute. Et hoc manifestat per exemplum: quia necessarium est navale bellum esse futurum cras vel non esse; sed non est necesse navale bellum futurum esse cras; similiter etiam non est necessarium non esse futurum, quia hoc pertinet ad necessitatem absolutam; sed necesse est quod vel sit futurum cras vel non sit futurum: hoc enim pertinet ad necessitatem quae est sub disiunctione.  Deinde cum dicit: quare quoniam etc. ex eo quod se habet circa res, ostendit qualiter se habeat circa orationes. Et primo, ostendit quomodo uniformiter se habet in veritate orationum, sicut circa esse rerum et non esse; secundo, finaliter concludit veritatem totius dubitationis; ibi: quare manifestum et cetera. Dicit ergo primo quod, quia hoc modo se habent orationes enunciativae ad veritatem sicut et res ad esse vel non esse (quia ex eo quod res est vel non est, oratio est vera vel falsa), consequens est quod in omnibus rebus quae ita se habent ut sint ad utrumlibet, et quaecumque ita se habent quod contradictoria eorum qualitercumque contingere possunt, sive aequaliter sive alterum ut in pluribus, ex necessitate sequitur quod etiam similiter se habeat contradictio enunciationum. Et exponit consequenter quae sint illae res, quarum contradictoria contingere queant; et dicit huiusmodi esse quae neque semper sunt, sicut necessaria, neque semper non sunt, sicut impossibilia, sed quandoque sunt et quandoque non sunt. Et ulterius manifestat quomodo similiter se habeat in contradictoriis enunciationibus; et dicit quod harum enunciationum, quae sunt de contingentibus, necesse est quod sub disiunctione altera pars contradictionis sit vera vel falsa; non tamen haec vel illa determinate, sed se habet ad utrumlibet. Et si contingat quod altera pars contradictionis magis sit vera, sicut accidit in contingentibus quae sunt ut in pluribus, non tamen ex hoc necesse est quod ex necessitate altera earum determinate sit vera vel falsa.  Deinde cum dicit: quare manifestum est etc., concludit principale intentum et dicit manifestum esse ex praedictis quod non est necesse in omni genere affirmationum et negationum oppositarum, alteram determinate esse veram et alteram esse falsam: quia non eodem modo se habet veritas et falsitas in his quae sunt iam de praesenti et in his quae non sunt, sed possunt esse vel non esse. Sed hoc modo se habet in utriusque, sicut dictum est, quia scilicet in his quae sunt necesse est determinate alterum esse verum et alterum falsum: quod non contingit in futuris quae possunt esse et non esse. Et sic terminatur primus liber. Postquam philosophus in primo libro determinavit de enunciatione simpliciter considerata; hic determinat de enunciatione, secundum quod diversificatur per aliquid sibi additum. Possunt autem tria in enunciatione considerari: primo, ipsae dictiones, quae praedicantur vel subiiciuntur in enunciatione, quas supra distinxit per nomina et verba; secundo, ipsa compositio, secundum quam est verum vel falsum in enunciatione affirmativa vel negativa; tertio, ipsa oppositio unius enunciationis ad aliam. Dividitur ergo haec pars in tres partes: in prima, ostendit quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad dictiones in subiecto vel praedicato positas; secundo, quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad determinandum veritatem vel falsitatem compositionis; ibi: his vero determinatis etc.; tertio, solvit quamdam dubitationem circa oppositiones enunciationum provenientem ex eo, quod additur aliquid simplici enunciationi; ibi: utrum autem contraria est affirmatio et cetera. Est autem considerandum quod additio facta ad praedicatum vel subiectum quandoque tollit unitatem enunciationis, quandoque vero non tollit, sicut additio negationis infinitantis dictionem. Circa primum ergo duo facit: primo, ostendit quid accidat enunciationibus ex additione negationis infinitantis dictionem; secundo, ostendit quid accidat circa enunciationem ex additione tollente unitatem; ibi: at vero unum de pluribus et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de enunciationibus simplicissimis, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur tantum ex parte subiecti; secundo, determinat de enunciationibus, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur non solum ex parte subiecti, sed etiam ex parte praedicati; ibi: quando autem est tertium adiacens et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit rationes quasdam distinguendi tales enunciationes; secundo, ponit earum distinctionem et ordinem; ibi: quare prima est affirmatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit rationes distinguendi enunciationes ex parte nominum; secundo, ostendit quod non potest esse eadem ratio distinguendi ex parte verborum; ibi: praeter verbum autem et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit rationes distinguendi enunciationes; secundo, exponit quod dixerat; ibi: nomen autem dictum est etc.; tertio, concludit intentum; ibi: erit omnis affirmatio et cetera.  Resumit ergo illud, quod supra dictum est de definitione affirmationis, quod scilicet affirmatio est enunciatio significans aliquid de aliquo; et, quia verbum est proprie nota eorum quae de altero praedicantur, consequens est ut illud, de quo aliquid dicitur, pertineat ad nomen; nomen autem est vel finitum vel infinitum; et ideo, quasi concludens subdit quod quia affirmatio significat aliquid de aliquo, consequens est ut hoc, de quo significatur, scilicet subiectum affirmationis, sit vel nomen, scilicet finitum (quod proprie dicitur nomen, ut in primo dictum est), vel innominatum, idest infinitum nomen: quod dicitur innominatum, quia ipsum non nominat aliquid cum aliqua forma determinata, sed solum removet determinationem formae. Et ne aliquis diceret quod id quod in affirmatione subiicitur est simul nomen et innominatum, ad hoc excludendum subdit quod id quod est, scilicet praedicatum, in affirmatione, scilicet una, de qua nunc loquimur, oportet esse unum et de uno subiecto; et sic oportet quod subiectum talis affirmationis sit vel nomen, vel nomen infinitum.  Deinde cum dicit: nomen autem etc., exponit quod dixerat, et dicit quod supra dictum est quid sit nomen, et quid sit innominatum, idest infinitum nomen: quia, non homo, non est nomen, sed est infinitum nomen, sicut, non currit, non est verbum, sed infinitum verbum. Interponit autem quoddam, quod valet ad dubitationis remotionem, videlicet quod nomen infinitum quodam modo significat unum. Non enim significat simpliciter unum, sicut nomen finitum, quod significat unam formam generis vel speciei aut etiam individui, sed in quantum significat negationem formae alicuius, in qua negatione multa conveniunt, sicut in quodam uno secundum rationem. Unum enim eodem modo dicitur aliquid, sicut et ens; unde sicut ipsum non ens dicitur ens, non quidem simpliciter, sed secundum quid, idest secundum rationem, ut patet in IV metaphysicae, ita etiam negatio est unum secundum quid, scilicet secundum rationem. Introducit autem hoc, ne aliquis dicat quod affirmatio, in qua subiicitur nomen infinitum, non significet unum de uno, quasi nomen infinitum non significet unum.  Deinde cum dicit: erit omnis affirmatio etc., concludit propositum scilicet quod duplex est modus affirmationis. Quaedam enim est affirmatio, quae constat ex nomine et verbo; quaedam autem est quae constat ex infinito nomine et verbo. Et hoc sequitur ex hoc quod supra dictum est quod hoc, de quo affirmatio aliquid significat, vel est nomen vel innominatum. Et eadem differentia potest accipi ex parte negationis, quia de quocunque contingit affirmare, contingit et negare, ut in primo habitum est.  Deinde cum dicit: praeter verbum etc., ostendit quod differentia enunciationum non potest sumi ex parte verbi. Dictum est enim supra quod, praeter verbum nulla est affirmatio vel negatio. Potest enim praeter nomen esse aliqua affirmatio vel negatio, videlicet si ponatur loco nominis infinitum nomen: loco autem verbi in enunciatione non potest poni infinitum verbum, duplici ratione. Primo quidem, quia infinitum verbum constituitur per additionem infinitae particulae, quae quidem addita verbo per se dicto, idest extra enunciationem posito, removet ipsum absolute, sicut addita nomini, removet formam nominis absolute: et ideo extra enunciationem potest accipi verbum infinitum per modum unius dictionis, sicut et nomen infinitum. Sed quando negatio additur verbo in enunciatione posito, negatio illa removet verbum ab aliquo, et sic facit enunciationem negativam: quod non accidit ex parte nominis. Non enim enunciatio efficitur negativa nisi per hoc quod negatur compositio, quae importatur in verbo: et ideo verbum infinitum in enunciatione positum fit verbum negativum. Secundo, quia in nullo variatur veritas enunciationis, sive utamur negativa particula ut infinitante verbum vel ut faciente negativam enunciationem; et ideo accipitur semper in simpliciori intellectu, prout est magis in promptu. Et inde est quod non diversificavit affirmationem per hoc, quod sit ex verbo vel infinito verbo, sicut diversificavit per hoc, quod est ex nomine vel infinito nomine. Est autem considerandum quod in nominibus et in verbis praeter differentiam finiti et infiniti est differentia recti et obliqui. Casus enim nominum, etiam verbo addito, non constituunt enunciationem significantem verum vel falsum, ut in primo habitum est: quia in obliquo nomine non concluditur ipse rectus, sed in casibus verbi includitur ipsum verbum praesentis temporis. Praeteritum enim et futurum, quae significant casus verbi, dicuntur per respectum ad praesens. Unde si dicatur, hoc erit, idem est ac si diceretur, hoc est futurum; hoc fuit, hoc est praeteritum. Et propter hoc, ex casu verbi et nomine fit enunciatio. Et ideo subiungit quod sive dicatur est, sive erit, sive fuit, vel quaecumque alia huiusmodi verba, sunt de numero praedictorum verborum, sine quibus non potest fieri enunciatio: quia omnia consignificant tempus, et alia tempora dicuntur per respectum ad praesens.  Deinde cum dicit: quare prima erit affirmatio etc., concludit ex praemissis distinctionem enunciationum in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, in quibus triplex differentia intelligi potest: una quidem, secundum affirmationem et negationem; alia, secundum subiectum finitum et infinitum; tertia, secundum subiectum universaliter, vel non universaliter positum. Nomen autem finitum est ratione prius infinito sicut affirmatio prior est negatione; unde primam affirmationem ponit, homo est, et primam negationem, homo non est. Deinde ponit secundam affirmationem, non homo est, secundam autem negationem, non homo non est. Ulterius autem ponit illas enunciationes in quibus subiectum universaliter ponitur, quae sunt quatuor, sicut et illae in quibus est subiectum non universaliter positum. Praetermisit autem ponere exemplum de enunciationibus, in quibus subiicitur singulare, ut, Socrates est, Socrates non est, quia singularibus nominibus non additur aliquod signum. Unde in huiusmodi enunciationibus non potest omnis differentia inveniri. Similiter etiam praetermittit exemplificare de enunciationibus, quarum subiecta particulariter ponuntur, quia tale subiectum quodammodo eamdem vim habet cum subiecto universali, non universaliter sumpto. Non ponit autem aliquam differentiam ex parte verbi, quae posset sumi secundum casus verbi, quia sicut ipse dicit, in extrinsecis temporibus, idest in praeterito et in futuro, quae circumstant praesens, est eadem ratio sicut et in praesenti, ut iam dictum est. Postquam philosophus distinxit enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, hic accedit ad distinguendum illas enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur ex parte subiecti et ex parte praedicati. Et circa hoc duo facit; primo, distinguit huiusmodi enunciationes; secundo, manifestat quaedam quae circa eas dubia esse possent; ibi: quoniam vero contraria est et cetera. Circa primum duo facit: primo, agit de enunciationibus in quibus nomen praedicatur cum hoc verbo, est; secundo de enunciationibus in quibus alia verba ponuntur; ibi: in his vero in quibus et cetera. Distinguit autem huiusmodi enunciationes sicut et primas, secundum triplicem differentiam ex parte subiecti consideratam: primo namque, agit de enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum non universaliter sumptum; secundo de illis in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum; ibi: similiter autem se habent etc.; tertio, de illis in quibus subiicitur nomen infinitum; ibi: aliae autem habent ad id quod est non homo et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit diversitatem oppositionis talium enunciationum; secundo, concludit earum numerum et ponit earum habitudinem; ibi: quare quatuor etc.; tertio, exemplificat; ibi: intelligimus vero et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exponit quoddam quod dixerat; ibi: dico autem et cetera. Circa primum duo oportet intelligere: primo quidem, quid est hoc quod dicit, est tertium adiacens praedicatur. Ad cuius evidentiam considerandum est quod hoc verbum est quandoque in enunciatione praedicatur secundum se; ut cum dicitur, Socrates est: per quod nihil aliud intendimus significare, quam quod Socrates sit in rerum natura. Quandoque vero non praedicatur per se, quasi principale praedicatum, sed quasi coniunctum principali praedicato ad connectendum ipsum subiecto; sicut cum dicitur, Socrates est albus, non est intentio loquentis ut asserat Socratem esse in rerum natura, sed ut attribuat ei albedinem mediante hoc verbo, est; et ideo in talibus, est, praedicatur ut adiacens principali praedicato. Et dicitur esse tertium, non quia sit tertium praedicatum, sed quia est tertia dictio posita in enunciatione, quae simul cum nomine praedicato facit unum praedicatum, ut sic enunciatio dividatur in duas partes et non in tres.  Secundo, considerandum est quid est hoc, quod dicit quod quando est, eo modo quo dictum est, tertium adiacens praedicatur, dupliciter dicuntur oppositiones. Circa quod considerandum est quod in praemissis enunciationibus, in quibus nomen ponebatur solum ex parte subiecti, secundum quodlibet subiectum erat una oppositio; puta si subiectum erat nomen finitum non universaliter sumptum, erat sola una oppositio, scilicet est homo, non est homo. Sed quando est tertium adiacens praedicatur, oportet esse duas oppositiones eodem subiecto existente secundum differentiam nominis praedicati, quod potest esse finitum vel infinitum; sicut haec est una oppositio, homo est iustus, homo non est iustus: alia vero oppositio est, homo est non iustus, homo non est non iustus. Non enim negatio fit nisi per appositionem negativae particulae ad hoc verbum est, quod est nota praedicationis.  Deinde cum dicit: dico autem, ut est iustus etc., exponit quod dixerat, est tertium adiacens, et dicit quod cum dicitur, homo est iustus, hoc verbum est, adiacet, scilicet praedicato, tamquam tertium nomen vel verbum in affirmatione. Potest enim ipsum est, dici nomen, prout quaelibet dictio nomen dicitur, et sic est tertium nomen, idest tertia dictio. Sed quia secundum communem usum loquendi, dictio significans tempus magis dicitur verbum quam nomen, propter hoc addit, vel verbum, quasi dicat, ad hoc quod sit tertium, non refert utrum dicatur nomen vel verbum.  Deinde cum dicit: quare quatuor erunt etc., concludit numerum enunciationum. Et primo, ponit conclusionem numeri; secundo, ponit earum habitudinem; ibi: quarum duae quidem etc.; tertio, rationem numeri explicat; ibi: dico autem quoniam est et cetera. Dicit ergo primo quod quia duae sunt oppositiones, quando est tertium adiacens praedicatur, cum omnis oppositio sit inter duas enunciationes, consequens est quod sint quatuor enunciationes illae in quibus est, tertium adiacens, praedicatur, subiecto finito non universaliter sumpto. Deinde cum dicit: quarum duae quidem etc., ostendit habitudinem praedictarum enunciationum ad invicem; et dicit quod duae dictarum enunciationum se habent ad affirmationem et negationem secundum consequentiam, sive secundum correlationem, aut analogiam, ut in Graeco habetur, sicut privationes; aliae vero duae minime. Quod quia breviter et obscure dictum est, diversimode a diversis expositum est.  Ad cuius evidentiam considerandum est quod tripliciter nomen potest praedicari in huiusmodi enunciationibus. Quandoque enim praedicatur nomen finitum, secundum quod assumuntur duae enunciationes, una affirmativa et altera negativa, scilicet homo est iustus, et homo non est iustus; quae dicuntur simplices. Quandoque vero praedicatur nomen infinitum, secundum quod etiam assumuntur duae aliae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus; quae dicuntur infinitae. Quandoque vero praedicatur nomen privativum, secundum quod etiam sumuntur duae aliae, scilicet homo est iniustus, homo non est iniustus; quae dicuntur privativae. Quidam ergo sic exposuerunt, quod duae enunciationes earum, quas praemiserat scilicet illae, quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem, quae sunt de praedicato finito secundum consequentiam vel analogiam, sicut privationes, idest sicut illae, quae sunt de praedicato privativo. Illae enim duae, quae sunt de praedicato infinito, se habent secundum consequentiam ad illas, quae sunt de finito praedicato secundum transpositionem quandam, scilicet affirmatio ad negationem et negatio ad affirmationem. Nam homo est non iustus, quae est affirmatio de infinito praedicato, respondet secundum consequentiam negativae de praedicato finito, huic scilicet homo non est iustus. Negativa vero de infinito praedicato, scilicet homo non est non iustus, affirmativae de finito praedicato, huic scilicet homo est iustus. Propter quod Theophrastus vocabat eas, quae sunt de infinito praedicato, transpositas. Et similiter etiam affirmativa de privativo praedicato respondet secundum consequentiam negativae de finito praedicato, scilicet haec, homo est iniustus, ei quae est, homo non est iustus. Negativa vero affirmativae, scilicet haec, homo non est iniustus, ei quae est, homo est iustus. Disponatur ergo in figura. Et in prima quidem linea ponantur illae, quae sunt de finito praedicato, scilicet homo est iustus, homo non est iustus. In secunda autem linea, negativa de infinito praedicato sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa. In tertia vero, negativa de privativo praedicato similiter sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa: ut patet in subscripta figura.Sic ergo duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem de finito praedicato, sicut privationes, idest sicut illae quae sunt de privativo praedicato. Sed duae aliae quae sunt de infinito subiecto, scilicet non homo est iustus, non homo non est iustus, manifestum est quod non habent similem consequentiam. Et hoc modo exposuit herminus hoc quod dicitur, duae vero, minime, referens hoc ad illas quae sunt de infinito subiecto. Sed hoc manifeste est contra litteram. Nam cum praemisisset quatuor enunciationes, duas scilicet de finito praedicato et duas de infinito, subiungit quasi illas subdividens, quarum duae quidem et cetera. Duae vero, minime; ubi datur intelligi quod utraeque duae intelligantur in praemissis. Illae autem quae sunt de infinito subiecto non includuntur in praemissis, sed de his postea dicetur. Unde manifestum est quod de eis nunc non loquitur.  Et ideo, ut Ammonius dicit, alii aliter exposuerunt, dicentes quod praedictarum quatuor propositionum duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, sic se habent ad affirmationem et negationem, idest ad ipsam speciem affirmationis et negationis, ut privationes, idest ut privativae affirmationes seu negationes. Haec enim affirmatio, homo est non iustus, non est simpliciter affirmatio, sed secundum quid, quasi secundum privationem affirmatio; sicut homo mortuus non est homo simpliciter, sed secundum privationem; et idem dicendum est de negativa, quae est de infinito praedicato. Duae vero, quae sunt de finito praedicato, non se habent ad speciem affirmationis et negationis secundum privationem, sed simpliciter. Haec enim, homo est iustus, est simpliciter affirmativa, et haec, homo non est iustus, est simpliciter negativa. Sed nec hic sensus convenit verbis Aristotelis. Dicit enim infra: haec igitur quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt disposita; ubi nihil invenitur ad hunc sensum pertinens. Et ideo Ammonius ex his, quae in fine I priorum dicuntur de propositionibus, quae sunt de finito vel infinito vel privativo praedicato, alium sensum accipit.  [Ad cuius evidentiam considerandum est quod, sicut ipse dicit, enunciatio aliqua virtute se habet ad illud, de quo totum id quod in enunciatione significatur vere praedicari potest: sicut haec enunciatio, homo est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere potest dici quod est homo iustus; et similiter haec enunciatio, homo non est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere dici potest quod non est homo iustus. Secundum ergo hunc modum loquendi, manifestum est quod simplex negativa in plus est quam affirmativa infinita, quae ei correspondet. Nam, quod sit homo non iustus, vere potest dici de quolibet homine, qui non habet habitum iustitiae; sed quod non sit homo iustus, potest dici non solum de homine non habente habitum iustitiae, sed etiam de eo qui penitus non est homo: haec enim est vera, lignum non est homo iustus; tamen haec est falsa, lignum est homo non iustus. Et ita negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita; sicut etiam animal est in plus quam homo, quia de pluribus verificatur. Simili etiam ratione, negativa simplex est in plus quam affirmativa privativa: quia de eo quod non est homo non potest dici quod sit homo iniustus. Sed affirmativa infinita est in plus quam affirmativa privativa: potest enim dici de puero et de quocumque homine nondum habente habitum virtutis aut vitii quod sit homo non iustus, non tamen de aliquo eorum vere dici potest quod sit homo iniustus. Affirmativa vero simplex in minus est quam negativa infinita: quia quod non sit homo non iustus potest dici non solum de homine iusto, sed etiam de eo quod penitus non est homo. Similiter etiam negativa privativa in plus est quam negativa infinita. Nam, quod non sit homo iniustus, potest dici non solum de homine habente habitum iustitiae, sed de eo quod penitus non est homo, de quorum quolibet potest dici quod non sit homo non iustus: sed ulterius potest dici de omnibus hominibus, qui nec habent habitum iustitiae neque habent habitum iniustitiae.  His igitur visis, facile est exponere praesentem litteram hoc modo. Quarum, scilicet quatuor enunciationum praedictarum, duae quidem, scilicet infinitae, se habebunt ad affirmationem et negationem, idest ad duas simplices, quarum una est affirmativa et altera negativa, secundum consequentiam, idest in modo consequendi ad eas, ut privationes, idest sicut duae privativae: quia scilicet, sicut ad simplicem affirmativam sequitur negativa infinita, et non convertitur (eo quod negativa infinita est in plus), ita etiam ad simplicem affirmativam sequitur negativa privativa, quae est in plus, et non convertitur. Sed sicut simplex negativa sequitur ad infinitam affirmativam; quae est in minus, et non convertitur; ita etiam negativa simplex sequitur ad privativam affirmativam, quae est in minus, et non convertitur. Ex quo patet quod eadem est habitudo in consequendo infinitarum ad simplices quae est etiam privativarum.  Sequitur, duae autem, scilicet simplices, quae relinquuntur, remotis duabus, scilicet infinitis, a quatuor praemissis, minime, idest non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad eas; quia videlicet, ex una parte simplex affirmativa est in minus quam negativa infinita, sed negativa privativa est in plus quam negativa infinita: ex alia vero parte, negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita, sed affirmativa privativa est in minus quam infinita affirmativa. Sic ergo patet quod simplices non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad infinitas.  Quamvis autem secundum hoc littera philosophi subtiliter exponatur, tamen videtur esse aliquantulum expositio extorta. Nam littera philosophi videtur sonare diversas habitudines non esse attendendas respectu diversorum; sicut in praedicta expositione primo accipitur similitudo habitudinis ad simplices, et postea dissimilitudo habitudinis respectu infinitarum. Et ideo simplicior et magis conveniens litterae Aristotelis est expositio Porphyrii quam Boethius ponit; secundum quam expositionem attenditur similitudo et dissimilitudo secundum consequentiam affirmativarum ad negativas. Unde dicit: quarum, scilicet quatuor praemissarum, duae quidem, scilicet affirmativae, quarum una est simplex et alia infinita, se habebunt secundum consequentiam ad affirmationem et negationem; ut scilicet ad unam affirmativam sequatur alterius negativa. Nam ad affirmativam simplicem sequitur negativa infinita; et ad affirmativam infinitam sequitur negativa simplex. Duae vero, scilicet negativae, minime, idest non ita se habent ad affirmativas, ut scilicet ex negativis sequantur affirmativae, sicut ex affirmativis sequebantur negativae. Et quantum ad utrumque similiter se habent privativae sicut infinitae.  Deinde cum dicit: dico autem quoniam etc., manifestat quoddam quod supra dixerat, scilicet quod sint quatuor praedictae enunciationes: loquimur enim nunc de enunciationibus, in quibus hoc verbum est solum praedicatur secundum quod est adiacens alicui nomini finito vel infinito: puta secundum quod adiacet iusto; ut cum dicitur, homo est iustus, vel secundum quod adiacet non iusto; ut cum dicitur, homo est non iustus. Et quia in neutra harum negatio apponitur ad verbum, consequens est quod utraque sit affirmativa. Omni autem affirmationi opponitur negatio, ut supra in primo ostensum est. Relinquitur ergo quod praedictis duabus enunciationibus affirmativis respondet duae aliae negativae. Et sic consequens est quod sint quatuor simplices enunciationes. Deinde cum dicit: intelligimus vero etc., manifestat quod supra dictum est per quandam figuralem descriptionem. Dicit enim quod id, quod in supradictis dictum est, intelligi potest ex sequenti subscriptione. Sit enim quaedam quadrata figura, in cuius uno angulo describatur haec enunciatio, homo est iustus, et ex opposito describatur eius negatio quae est, homo non est iustus; sub quibus scribantur duae aliae infinitae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus. In qua descriptione apparet quod hoc verbum est, affirmativum vel negativum, adiacet iusto et non iusto. Et secundum hoc diversificantur quatuor enunciationes.  Ultimo autem concludit quod praedictae enunciationes disponuntur secundum ordinem consequentiae, prout dictum est in resolutoriis, idest in I priorum. Alia littera habet: dico autem, quoniam est aut homini aut non homini adiacebit, et in figura, est, hoc loco homini et non homini adiacebit. Quod quidem non est intelligendum, ut homo, et non homo accipiatur ex parte subiecti, non enim nunc agitur de enunciationibus quae sunt de infinito subiecto. Unde oportet quod homo et non homo accipiantur ex parte praedicati. Sed quia philosophus exemplificat de enunciationibus in quibus ex parte praedicati ponitur iustum et non iustum, visum est Alexandro, quod praedicta littera sit corrupta. Quibusdam aliis videtur quod possit sustineri et quod signanter Aristoteles nomina in exemplis variaverit, ut ostenderet quod non differt in quibuscunque nominibus ponantur exempla. Boezio.COMMENTARII in LIBRUM ARISTOTELIS IIEPI EPMHNEIAS RECENSUIT CAROLUS MEISER. PARS POSTERIOR SECUNDAM EDITIONEM ET INDICES CONTINENS. CHE T HILLr L»,v-LIPSIAE IN AEDIBUS B. G. TEUBNERI. LIPSIAE: TYPIS B. G. TETJBNERI. In secundae editionis textu recensendo lii libri manu scripti mihi praesto fuerunt: S codex (Salisb. 10) bibliothecae Palatinae Vindobonensis (Endlicheri) qui continet f. 1— 8V versionem continue scriptam libri Aristotelici itEQi EQiirjvecag, quam littera 2J signavi, deinde f. 9— 176v sex libros Boetii commentariorum. F codex (Frisingensis 166) Monacensis 6366  s. XI  et  X:  vetustior  manus  s.  X  incipit  a  f.  33  (p.  352  edi¬  tionis  Basileensis  =  p. 171 nostrae editionis). T codex (Tegernseensis 479) Monacensis 18479 s. XI, qui f. 1 — 56v priorem editionem expositionis Boetii, f. 57v—65v versionem continuam, quam 1. % signavi, f. 66v191 secundam  editionem  complectitur.   E  codex  (Ratisb.  S.  Emm.  582)  Monacensis  14582  s.  XI.   Praeter hos quattuor codices, quorum  plenam  scripturae  discrepantiam  studio  legentium  proposui,  hi  quattuor alii libri a  me  hic  aut  illic  inspecti  et  difficilioribus  locis  excussi  sunt:   X  codex  Einsidlensis  301  s.  X,  in  quo  non  pauca  desiderantur:  nam  desunt  p.  371,  17  huius  editionis  conposita  —  378,  6  sit,  395,  21  possibile  —  410,  17  non  necessarium,  postremo  desinit  in  verba  p.  417,  19  de  contingenti  et  de  possi  (sic),  ut  finis  quinti  et  sextus  liber  totus  perierit.   J  codex  Einsidlensis  295  s.  XI. IV PRAEFATIO. G  codex  Sangallensis  830  s.  XI.   B  codex  Bernensis  332  s.  XII,  in  quo desunt p. 383, 1  ut  in  eo  —  434,  3  et  dicit.   Hos  omnes  codices  ex  uno  eodemque  fonte  fluxisse  inde  apparet,  quod  eaedem  in  omnibus  lacunae,  eaedem  interpolationes,  eadem  vitiorum  genera  deprehenduntur,  et  de  lacunis  quidem  conferas: p. 70, 15. 161, 18. 208, 22. 288, 7. 382, 8. 432, 9, praeterea p. 126, 8. 267, 12. 290, 18. 312, 14. 341, 3. 447, 9. 482, 14. 489, 7, de interpolationibus autem — 13. iisdem vero cunctos vitiis foedatos esse ut demonstrem, satis erit  unum  aut  alterum  ex  plurimis  passim  obviis  proferre  exemplum,  nam  et  p.  361,  ubi  Peripatetica  interrogationis  divisio  proditur,  cum  in  codicibus  nostris  v.  8  sqq.  legatur:  'non dialecticae  autem  interrogationis  duae  sunt  species,  sicut  audivimus  docet5,  manifestum  est  pro  vocabulo  corrupto  'audivimus5  Eu  de  mus  restituendum  fuisse  et  p.  324,  23  quin  recte  scripserim:  'ad  tenacioris  memoriae  subsidium5,  cum  codices  inperversa  scriptione  t  elatior  is  consentiant,  quis  est  qui  dubitet?  confer  praeterea  p.  237,  25  —  28  locum  illum  in  omnibus  aequaliter  libris  turbatum.   Pro  fundamento  autem  textus  constituendi  codicem  S  habui,  omnium  longe  praestantissimum,  qui  non  raro  ceteris  fidelius  verae  scripturae  vestigia  servaverit,  confer  e.  c.  p.  500,  9,  ubi  huius  codicis  lectio  'a  bonum5  propius  ad  verum  'ad  unum 5  accedit  quam  reliquorum  'ad  bonum5,  hoc  unum  dolendum  est,  quod  a  correctore  quodam,  quamquam  multa  emendata  sunt,  tamen  ipsis  locis  difficillimis  ita  rasuris  depravatus  est,  ut  quid  primitus  in  eo  scriptum  fuerit  saepe  dinosci  non  possit,  nec  tamen  multum  interest,  cum  propter  similitudinem  ceterorum  codicum  fere  semper  quid  S  habuerit  ex  aliis  suspicari  liceat.    V    Codici  S  plerumque  consentit  F,  nisi  quod  in  hoc  librarius  interdum  pravo  varietatis  studio  et  verba  transposuisse  et  pro  solitis  rariora  vocabula  inculcasse  videtur,  nam  cum  hic  codex  p.  395,  20  pro  voce  Socratem  mire  elimannum  posueri,  quod  aperte  falsum  est,  iure  in  dubium  vocari  potest,  num  recte  aliis  locis  hunc  codicem  solum  contra  ceterorum  consensum  secutus  sim.  quare  hos  locos  notare  velim  et  quid  F  habeat,  quid  ceteri  adscribam:    F    ceterip.  195,  21  autumant  putant   208,  25  itidem  similiter   212,  17  infit  dicit   223,  1  potiores  meliores   246,  20  itidem  similiter.    Ad  S  et  F  libros  optimos  proxime  accedit  E,  et  ipse  optimae  notae  idemque  pulcherrime  et  diligentissime  scriptus,  a  secunda  manu  et  in  S  (=  S2)  et  in  E  (=  E2),  rarius  in  F  (=  F2)  multa  egregie  sunt  emendata.  N  J  G  et  ipsi  in  optimis  numerandi  sunt  et  intima  cognation cum  S  F  E  coniuncti,  sed  vix  quidquam  novi  ex  iis  elicitur,  quod  non  in  ceteris  reperiatur.   Minus  fidei  codici  T tribuendum  est,  quippe  qui  fere  semper  cum  secunda  manu  codicis  G  (=  G2)  consentiat,  ut  quae  in  G  supra  lineam  vel  in  margine  leguntur  in  T  in  textum  irrepserint,  quare  nec  interpolationibus  vacat  et  variae  lectiones  promiscue  iuxta  positae  inveniuntur,  sunt  tamen  quae  in  hoc  codice  melius  quam  in  ceteris  servata  videantur.   Minimae  auctoritatis  et  omnium  deterrimus  est  codex  B  (plerumque  =  E2),  qui  pauca  emendavit,  plurima  demendo  addendo  mutando  turbavit  ac  miscuit.   Ut  in  prima,  sic  in  secunda  editione  lemmata  non  plenum  Aristotelis  textum  exhibent,  sed  pauciora  in  secunda  editione  desiderantur,  quorum  quaedam  in  E   Boetii  comment.  II.  a**    VI  PRAEFATIO. a  secunda  manu  in  margine  et  in  B  sunt  addita,  ceteram  B  saepius  prima  tantum  et  postrema  Aristotelis  verba  expositioni  Boetii  praemittit,  quae  vocula  'usque5  (vel  'reliqua  usque5)  iunguntur  (cf.  p.  227,  13  —  26). De versione Boetiana libri Aristoteliei  Ttegi  eQ[ir}-  vaiccg eiusque a nostro Aristotelis textu discrepantia in Fleckeiseni annal. vol. CXVII p. 247 — 253 (a.  1878)  disputavi.   Monachii  mense  Martio  a.  MDCCCLXXX.    Car.  Meiser. Boezio. IH LIBRVM ARISTOTELIS nEPI EPMHNEIAS  COMMENTARII. SECVNDA EDITIO. Boetii comment.  II.   .    S = codex (Salisb. n. 10)  Vindobonensis  n.  80.   ( E  —  praemissa  translatio).   F  =  codex  (Frisingensis  n.  166)  Monacensis  n.  6366.   T  =  codex  (Tegernseensis  n.  479)  Monacensis  n. 18479. (X  =  praemissa  translatio).   E  =  codex  (Ratisb.  S.  Emm.  n.  582)  Monacensis  n.  14582.  N  =  codex  Einsidlensis  n.  301.   J  =  codex  Einsidlensis  n.  295.   G  =  codex  Sangallensis  n.  830.  B  =  codex  Bernensis  n.  332.  b  =  editio  Basileensis  a.  1570. ANICII  MANLII  SEVERINI  BOETII  COMMENTARIORVM  IN  LIBRVM  ARISTOTELIS  IIEPI  EPMHNEIA2   SECVNDAE  EDITIONIS   LIBER  PRIMYS.  Alexander  in  commentariis  suis  hac  se  inpul-  sum  causa  pronuntiat  sumpsisse  longissimum  expositionis  laborem,  quod  in  multis  ille  a  priorum  scriptorum  sententiis  dissideret:  mihi  maior  persequendi  operis  causa  est,  quod  non  facile  quisquam  vel  transferendi  vel  etiam  commentandi  continuam  sumpserit  seriem,  nisi  quod  Vetius  Praetextatus  priores   MANLII  SEVERINI  BOETII  VIRI  ILLVSTRIS  EX  CONSVLV  ORDINE  (CONS  ORD F) IN PERIERMENIAS ARISTOTOLIS (ARESTOTELIS F) EDITIONIS SECVNDAE  LIBER  PRIMVS  INCIPIT.  SF  A-M-S-B-  SECVNDA   AEDITIO  IN  LIBRVM  PERI  HERMENIAS  INCIPIT.  GT  ANICII  MALLII   SEVERINI  BOETII  VIRI  ILL  •  AEDITIONIS  SCDAE  IN  PERIERMENIAS  ARIST-  LIB  •  PRIMVS  INCIPIT.  J  ANICII  MANLII  SEVERINI  BOETII  VIRI CLARISSIMI ET ILLVSTRIS EX CONSVLARI  ORDINE  PATRICII  SCDAE  EDITIONIS  EXPO SITIONV  IN  ARISTOTELIS  PERIHERMENIAS  •  INCIPIT  LIBER   primvs.  E  titulum  om.  NB   1  Alexander  —  longissimum  om.  N  2  longissimg  T  4  dissidet  F  6  etiam  om.  F   1*    ed.Bas    5\ 4  SECVNDA  EDITIO postremosque  analyticosnon vertendo Aristotelem Latino  sermoni  tradidit,  sed  transferendo  Themistium,  quod  qui  utrosque  legit  facile  intellegit.  Albinus  quoque  de  isdem  rebus  scripsisse  perhibetur,  5  cuius  ego  geometricos  quidem  libros  editos  scio,  de  dialectica  uero  diu  multumque  quaesitos  reperire  non  valui,  sive  igitur  ille  omnino  tacuit,  nos  praetermissa  dicemus,  sive  aliquid  scripsit,  nos  quoque  docti  viri  imitati  studium  in  eadem  laude  versabimur.  sed  10  quamquam  multa  sint  Aristotelis,  quae  subtilissima  philosophiae  arte  celata  sint,  hic  tamen  ante  omnia  liber  nimis  et  acumine  sententiarum  et  verborum  brevitate  constrictus  est.  quocirca  plus  hic  quam  in  decem  praedicamentis  expositione  sudabitur.   15  Prius  igitur  quid  vox  sit  definiendum  est.  hoc  enim  perspicuo  et  manifesto  omnis  libri  patefiet  intentio.   Vox  est  aeris  per  linguam  percussio,  quae  per  quasdam  gutturis  partes,  quae  arteriae  vocantur,  ab  20  animali  profertur,  sunt  enim  quidam  alii  soni,  qui  eodem  perficiuntur  flatu,  quos  lingua  non  percutit,ut  est  tussis,  haec  enim  flatu  fit  quodam  per  arterias  egrediente,  sed  nulla  linguae  inpressione  formatur  24  atque  ideo  nec  ullis  subiacet elementis, scribi enim  290 nullo modo potest, quocirca vox haec non dicitur, sed tantum sonus, illa quoque potest  esse  definitio vocis, ut eam dicamus sonum esse cum quadam imaginatione SIGNIFICANDI, vox namque cum emittitur, SIGNIFICATIONIS alicuius causa profertur,  tussis  vero  30  cum  sonus  sit,  nullius  SIGNIFICATIONIS  causa  subrepit   3  Qu§  qui  T  4  eisdem  E  5  ergo  T  6  repp.   sic  semper  codices  7  omnino  ille  T  12  nimis  tacumine  T  16  omnis  om.  F  17  intentio  de  voce  SG-J  et  in  marg.  T  definitio  vocis  E  diff  vocis  F2  19  guturis  F  29  alicuius  —  SIGNIFICATIONIS  G2  in  marg.  tusis  F  30  subripit  S  surripit  GT    I. 5 potius  quam  profertur,  quare  quoniam  noster  flatus  ita  sese  habet,  ut  si  ita  percutitur  atque  formatur,  ut  eum  lingua  percutiat,  vox  sit:  si  ita  percutiat,  ut  terminato  quodam  et  circumscripto  sono  vox  exeat,  locutio  fit  quae  Graece  dicitur  Xs%ig.  locutio  enim  est  articulata  vox  (neque  enim  hunc  sermonem  id  est  Xe%iv  dictionem  dicemus,  idcirco  quod  cpccGiv  dictionem  interpretamur,  Xi%iv  vero  locutionem),  cuius  locutionis  partes  sunt  litterae,  quae  cum  iunctae  fuerint,  unam  efficiunt  vocem  coniunctam  conpositamque,  quae  locutio  praedicatur.  sive  autem  aliquid  quaecumque  vox  significet,  ut  est  hic  sermo  homo,  sive  omnino  nihil,  sive  positum  alicui  nomen  significare  possit,  ut  est  hlityri  (haec  enim  vox  per  se  cum  nihil SIGNIFICET,  posita  tamen  ut  alicui  nomen  sit  SIGNIFICABIT),  sive  per  se  quidem  nihil  SIGNIFICET,  cum  aliis  vero  iuncta  designet,  ut  sunt  coniunctiones:  haec  omnia  locutiones  vocantur,  ut  sit  propria  locutionis  forma  vox  conposita  quae  litteris  describatur,  ut  igitur  sit  locutio,  voce  opus  est  id  est  eo  sono  quem  percutit  lingua,  ut  et  vox  ipsa  sit  per  linguam  determinata  in  eum  sonum  qui  inscribi  litteris  possit,  sed  ut  haec  locutio  significativa  sit,  illud  quoque  addi  oportet,  ut  sit  aliqua  significandi  imaginatio,  per  quam  id  quod  in  voce  vel  in  locutione  est  proferatur:  ut  certe  ita  dicendum  sit:  si  in  hoc  flatu,  quem  per  arterias  emittimus,  sit  linguae  sola  percussio,  vox  est;  sin  vero  talis  percussio  sit,  ut  in  litteras  redigat  sonum,  locutio;  quod  si  vis  quoque  quaedam  imaginationis  adda-   1  quoniam  dei.  S2  om.  F  2  percutitur  atque  formatur  g2p2g2g.  percuti  atq.  formari  SFEN,  percuti  atq.  formari  possit  T  (possit  supra  lin.  GJ)  ut  cu  eu  B  3  sit]  est  STGNJ  ( corr.  S2)  5  fit]  sit  S2FE2  lexis  codices,  item  6   et  8  lexin,  7  phasin  9  literae  in  marg.  S  quae  coniunctae  S,  corr.  S2  13  alicuius  SF  14  blythyri  SG  blithyri  NT  blytbiri  EF?  {in  fine  suprascr.  s  F)  21  et  ut  b  22  scribi?  28  fit  T    5   10   15   20    6   tur,  illa  SIGNIFICATIVA  vox  redditur.  concurrentibus  igitur  his  tribus:  linguae  percussione,  articulato  vocis  sonitu,  imaginatione  aliqua  proferendi  fit  interpretatio,  interpretatio  namque  est  vox  articulata  per  se  ipsam  5  significans,  quocirca  non  omnis  vox  interpretatio  est.  sunt  enim  ceterorum  animalium  voces,  quae  interpretationis  vocabulo  non  tenentur,  nec  omnis  locutio  interpretatio  est,  idcirco  quod  (ut  dictum  est)  sunt  locutiones  quaedam,  quae  significatione  careant  et  cum per  se  quaedam  non  significent,  iunctae  tamen  cum  aliis  significant,  ut  coniunctiones.  interpretatio  autem  in  solis  per  se  significativis  et  articulatis  vocibus  permanet.  quare  convertitur,  ut  quidquid  sit  interpretatio,  illud  significet,  quidquid  significat,  interpretationis  15  vocabulo  nuncupetur,  unde  etiam  ipse  quoque  Aristoteles  in  libris  quos  de  poetica  scripsit  locutionis  partes  esse  syllabas  vel  etiam  coniunctiones  tradidit,  quarum  syllabae  in  eo  quod  sunt  syllabae  nihil  omnino  significant,  coniunctiones  vero  consignificare  20  quidem  possunt,  per  se  vero  nihil  designant,  interpretationis  vero  partes  hoc  libro  constituit  nomen  et  verbum,  quae  scilicet  per  se  ipsa  SIGNIFICANT,  nihilo¬minus  quoque  orationem,  quae  et  ipsa  cum  vox  sit  ex  significativis  partibus  iuncta  significatione  non  ca-  25  ret.  quare  quoniam  non  de  oratione  sola,  sed  etiam  de  verbo  et  nomine,  nec  vero  de  sola  locutione,  sed  etiam  de SIGNIFICATIVA  locutione,  quae  est  interpretatio,  hoc  libro ab Aristotele tractatur,  idcirco  quoniam  in   16  Ar.  Poet.  c.  20.    1 significatiua  b:  significatio  SG-TE,  significatione  FS1 2E2?  redditur  uox  T  4  interpretatio  om.  SNF,  in  marg.  addunt  GE  quae  namq;  S2F  10  iunctae  F:  iuncta  ceteri  14  illud  quoq;  E  16  arte  poetica  S2FE  23  post  orationem  addit  partem  esse  tradidit  S2F  cum  om.  T  28  in  hoc  S2F   ab  om.  T    I.    7    verbis  atque  nominibus  et  in  significativis  locutionibus  nomen  interpretationis  aptatur,  a  communi  nomine  eorum,  de  quibus  hoc  libro  tractabitur,  id  est  ab  interpretatione,  ipse  quoque  de  interpretatione  liber  inscriptus  est.  cuius  expositionem  nos  scilicet  quam  5  maxime  a  Porphyrio  quamquam  etiam  a  ceteris  transferentes  Latina  oratione  digessimus,  hic  enim  nobis  expositor  et  intellectus  acumine  et  sententiarum  dispositione  videtur  excellere,  erunt  ergo  interpretationis  duae  primae  partes  nomen  et  verbum,  his  enim  10  quidquid  est  in  animi  intellectibus  designatur;  his  namque  totus  ordo  orationis  efficitur,  et  in  quantum  vox  ipsa  quidem  intellectus  significat,  in  duas  (ut  dictum  est)  secatur  partes,  nomen  et  verbum,  in  quantum  vero  vox  per  intellectuum  medietatem  subiectas  intellectui  res  demonstrat,  significantium  vocum  Aristoteles  numerum  in  decem  praedicamenta  partitus  est.  atque  hoc  distat  libri  huius  intentio  a  praedicamentorum  in denariam  multitudinem  numerositate  p.  291  collecta, ut hic quidem tantum de numero SIGNIFICANTIUM vocum quaeratur,  quantum  ad  ipsas  attinet  voces,  quibus  significativis  vocibus  intellectus  animi  designentur,  quae  sunt  scilicet  simplicia  quidem  nomina  et  verba,  ex  his  vero  conpositae  orationes:  praedicamentorum  vero  haec  intentio  est:  de  significa-  25  tivis  rerum  vocibus  in  tantum,  quantum  eas  medius  animi  SIGNIFICET  intellectus,  vocis  enim  quaedam  qualitas  est  nomen  et  verbum,  quae  nimirum  ipsa  illa  decem  praedicamenta  significant,  decem  namque  praedicamenta  numquam  sine  aliqua  verbi  qualitate  vel  30  nominis  proferentur,  quare  erit  libri  huius  intentio  de  significativis  vocibus  in  tantum,  quantum  con-   1  in  om.  E  3  in  hoc  S2F  9 dispositio  S  corr.  S2  10 partes  primae  T  11  intellectus  F  corr.  F1  12  totius  F  18  in  hoc  T  20  in  tantum?  26  uocibus  tractare  F,  uoc.  dicere  TE, tractare inmarg. S  31proferuntur  S2F  32  signatiuis S  corr. S2    8    SECVNDA  EDITIO    ceptiones  animi  intellectus  que  significent,  de  decem  praedicamentis  autem  libri  intentio  in  eius  commentario  dicta  est,  quoniam  sit  de  significativis  rerum  vocibus,  quot  partibus  distribui  possit  earum  signifi-  5  catio  in  tantum,  quantum  per  sensuum  atque  intellectuum  medietatem  res  subiectas  intellectibus  voces  ipsae  valeant  designare,  in  opere  vero  de  poetica  non  eodem  modo  dividit  locutionem,  sed  omnes  omnino  locutionis  partes  adposuit  confirmans  esse  locu-  10  tionis  partes  elementa,  syllabas,  coniunctiones,  articulos,  nomina,  casus,  verba,  orationes,  locutio  namque  non  in  solis  significativis  vocibus  constat,  sed  supergrediens  significationes  vocum  ad  articulatos  sonos  usque  consistit,  quaelibet  enim  syllaba  vel quodlibet  nomen  vel  quaelibet  alia  vox,  quae  scribi  litteris  potest,  locutionis  nomine  continetur,  quae  Graece  dicitur  sed  non  eodem  modo  interpretatio.  huic  namque  non  est  satis,  ut  sit  huiusmodi  vox  quae  litteris  valeat  adnotari,  sed  ad  hoc  ut  aliquid  quoque  significet,  praedicamentorum  vero  in  hoc  ratio  constituta  est,  in  quo  hae  duae  partes  interpretationis  res  intellectibus  subiectas  designent,  nam  quoniam  decem  res  omnino  in  omni  natura  reperiuntur,  decem  quoque  intellectus  erunt,  quos  intellectus quoniam  verba  nominaque  significant,  decem  omnino  erunt  praedicamenta,  quae  verbis  atque  nominibus  DESIGNENTUR,  duo  vero  quaedam  id  est  nomen  et  verbum,  quae  ipsos  significent  intellectus,  sunt  igitur  elementa  interpretationis  verba  et  nomina,  propriae  vero  partes  30  quibus  ipsa  constat  interpretatio  sunt  orationes,  orationum  vero  aliae  sunt  perfectae,  aliae  inperfectae.   7  Ar.  Poet.  c.  20.    3  pro  quoniam:  cum  F  4  quod  F  7  arte  poetica  FE2,  arte  in  marg.  S  17  lexis  FTE  31  aliae  uero  inp.  TE,  aliae  inperf.  om.  S  in  marg.  addit  S2    I.    9    perfectae  sunt  ex  quibus  plene  id  quod  dicitur  valet  intellegi,  inperfectae  in  quibus  aliquid  adhuc  plenius  animus  exspectat  audire,  ut  est  Socrates  cum  Platone.  nullo  enim  addito  orationis  intellectus  pendet  ac  titubat  et  auditor  aliquid  ultra  exspectat  audire,  perfectarum  vero  orationum  partes  quinque  sunt:  deprecativa  ut  Iuppiter  omnipotens,  precibus  si  flecteris  ullis,  Da  deinde  auxilium,  pater,  atque  haec  omina  firma,  imperativa  ut  Yade  age,  nate,  voca  Zephyros  et  labere  pennis,  interrogativa  ut  Dic  mihi,  Damoeta,  cuium  pecus?  an  Meliboei?  vocativa  <(ufi>  0  pater,  o  hominum  rerumque  aeterna  potestas,  enuntiativa,  in  qua  veritas  vel  falsitas  invenitur,  ut  Principio  arboribus  varia  est  natura  serendis,  huius  autem  duae  partes  sunt,  est  namque  et  simplex  oratio  enuntiativa  et  conposita.  simplex  ut  dies  est,  lucet,  conposita  ut  si  dies  est,  lux  est.  in  hoc  igitur  libro  Aristoteles  de  enuntiativa  simplici  oratione  disputat  et  de  eius  elementis,  nomine  scilicet  atque  verbo,  quae  quoniam  et  significativa  sunt  et  significativa  vox  articulata  interpretationis  nomine  continetur,  de  communi  (ut  dictum  est)  vocabulo  librum  de  interpretatione  appellavit,  et  Theophrastus  quidem  in  eo  libro,  quem  de  adfirmatione  et  negatione  conposuit,  de  enuntiativa  oratione  tractavit,  et  Stoici  quoque  in  his  libris,  quos  ttsqI  a^tco^uzcov  appellant,  de  isdem   7  Yerg.  Aen.  II  689.  691  9  Yerg.  Aen.  IY  223   11  Yerg.  Ecl.  III  1  12  Yerg.  Aen.  X  18  14  Yerg.   Georg.  II  9    9  omnia  TE  10  pinnis  S^1  11  damgta  T  12   melibei  T  ut  b  :'om.  codices,  alterum  o  om.  SFE1  15   creandis  Vergilii  codices  16  et  om.  E  17  est  et  conp.  S2FE2  lux  est  F2E2  21  uox  et  art.  S2FE2  27  peri  axiomaton  codices  5 10 15 20 25  nihilominus  disputant,  sed  illi  quidem  et  de  simplici  et  de  non  simplici  oratione  enuntiativa  speculantur,  Aristoteles  vero  hoc  libro  nihil  nisi  de  sola  simplici  enuntiativa  oratione  considerat.  Aspasius  quoque  et  5  Alexander  sicut  in  aliis  Aristotelis  libris  in  hoc  quoque  commentarios  ediderunt,  sed  uterque  Aristotelem  de  oratione  tractasse  pronuntiat,  nam  si  oratione  aliquid  proferre  (ut  aiunt  ipsi)  interpretari  est,  de  interpretatione  liber  nimirum  veluti  de  oratione  per-  10  scriptus  est,  quasi  vero  sola  oratio  ac  non  verba  quoque  et  nomina  interpretationis  vocabulo  concludantur.  aeque  namque  et  oratio  et  verba  ac  nomina,  quae  sunt  interpretationis  elementa,  nomine  interpretationis  |  vocantur,  sed  Alexander  addidit  inperfecte  15  sese  habere  libri  titulum:  neque  enim  designare,  de  qua  oratione  perscripserit,  multae  namque  (ut  dictum  est)  sunt  orationes;  sed  adiciendum  vel  subintellegendum  putat  de  oratione  illum  scribere  philosophica  vel  dialectica  id  est,  qua  verum  falsumque  valeat  expediri.  20  sed  qui  semel  solam  orationem  interpretationis  no¬  mine  vocari  recipit,  in  intellectu  quoque  ipsius  inscriptionis  erravit,  cur  enim  putaret  inperfectum  esse  titulum,  quoniam  nihil  de  qua  oratione  disputaret  adiecerit?  ut  si  quis  interrogans  quid  est  homo?  alio  25  respondente  animal  culpet  ac  dicat  inperfecte  illum  dixisse,  quid  sit,  quoniam  non  sit  omnes  differentias  persecutus,  quod  si  huic,  id  est  homini,  sunt  quae¬  dam  alia  communia  ad  nomen  animalis,  nihil  tamen  inpedit  perfecte  demonstrasse,  quid  homo  esset,  eum  30  qui  animal  dixit:  sive  enim  differentias  addat  quis  sive  non,  hominem  animal  esse  necesse  est.  eodem  quoque  modo  et  de  oratione,  si  quis  hoc  concedat  primum,  nihil  aliud  interpretationem  dici  nisi  orationem,   5  alios  —  libros  in  hunc?  21  recepit?  21.22  scriptionis  S^1  23.  24  adiecit  T  26  non  o.  diff.  sit  E  30  addit   T  33  interpretatione  F I. 11 cur  qui  de  interpretatione  inscripserit  et  de  qua  interpretatione  dicat  non  addiderit  culpetur,  non  est.  satis  est  enim  libri  titulum  etiam  de  aliqua  continenti  communione  fecisse,  ut  nos  eum  et  de  nominibus  et  verbis  et  de  orationibus,  cum  baec  omnia  uno  interpretationis  nomine  continerentur,  supra  fecisse  docuimus,  cum  bic  liber  ab  eo  de  interpretatione  notatus  est.  sed  quod  addidit  illam  interpretationem  solam  dici,  qua  in  oratione  possit  veritas  et  falsitas  inveniri,  ut  est  enuntiativa  oratio,  fingentis  est  (ut  ait  Porphyrius)  significationem  nominis  potius  quam  docentis,  atque  ille  quidem  et  in  intentione  libri  et  in  titulo  falsus  est,  sed  non  eodem  modo  de  iudicio  quoque  libri  buius  erravit.  Andronicus  enim  librum  bunc  Aristotelis  esse  non  putat,  quem  Alexander  vere  fortiterque  redarguit,  quem  cum  exactum  diligentemque  Aristotelis  librorum  et  iudicem  et  repertorem  iudicarit  antiquitas,  cur  in  huius  libri  iudicio  sit  falsus,  prorsus  est  magna  admiratione  dignissimum,  non  esse  namque  proprium  Aristotelis  bine  conatur  ostendere,  quoniam  quaedam  Aristoteles  in  principio  libri  huius  de  intellectibus  animi  tractat,  quos  intellectus  animae  passiones  vocavit,  et  de  bis  se  plenius  in  libris  de  anima  disputasse  commemorat,  et  quoniam  passiones  animae  vocabant  vel  tristitiam  vel  gaudium  vel  cupiditatem  vel  alias  huiusmodi  adfectiones,  dicit  Andronicus  ex  boc  probari  hunc  li¬  brum  Aristotelis  non  esse,  quod  de  huiusmodi  adfectionibus  nihil  in  libris  de  anima  tractavisset,  non  intellegens  in  hoc  libro  Aristotelem  passiones  animae  non  pro  adfectibus,  sed  pro  intellectibus  posuisse,  his  Alexander  multa  alia  addit  argumenta,  cur  hoc  opus  Aristotelis  maxime  esse  videatur,  ea  namque  dicuntur  hic,  quae  sententiis  Aristotelis  quae  sunt  de  enuntia-   5.  6  continentur F 6 cum om. F1 haec S, corr. S2 10. 11 potius sign. nom. S2F 22 et animae T 23 in supra lin. T 24 vocabat b 30 prius pro om. S1 Hic E1 5 10 15 20 25 30 12 SECVNDA  EDITIO tione  consentiant;  illud  quoque,  quod  stilus  ipse  pro¬  pter  brevitatem  pressior  ab  Aristotelis  obscuritate  non  discrepat;  et  quod  Theophrastus,  ut  in  aliis  solet,  cum  de  similibus  rebus  tractat,  quae  scilicet  ab  Ari-  5  stotele  ante  tractata  sunt,  in  libro  quoque  de  adfirmatione  et  negatione,  isdem  aliquibus  verbis  utitur,  quibus  hoc  libro  Aristoteles  usus  est.  idem  quoque  Theophrastus  dat  signum  hunc  esse  Aristotelis  librum:  in  omnibus  enim,  de  quibus  ipse  disputat  post magistrum,  leviter  ea  tangit  quae  ab  Aristotele  dicta  ante  cognovit,  alias  vero  diligentius  res  non  ab  Aristotele  tractatas  exsequitur,  hic  quoque  idem  fecit,  nam  quae  Aristoteles  hoc  libro  de  enuntiatione  tra¬  ctavit,  leviter  ab  illo  transcursa  sunt,  quae  vero  magister  eius  tacuit,  ipse  subtiliore  modo  considerationis  adiecit.  addit  quoque  hanc  causam,  quoniam  Aristoteles  quidem  de  syllogismis  scribere  animatus  num-  quam  id  recte  facere  potuisset,  nisi  quaedam  de  propositionibus  adnotaret.  mihi  quoque  videtur  hoc  20  subtiliter  perpendentibus  liquere  hunc  librum  ad  ana-  lyticos  esse  praeparatum,  nam  sicut  hic  de  simplici  propositione  disputat,  ita  quoque  in  analyticis  de  simplicibus  tantum  considerat  syllogismis,  ut  ipsa  syllo¬  gismorum  propositionumque  simplicitas  non  ad  aliud  25  nisi  ad  continens  opus  Aristotelis  pertinere  videatur,  quare  non  est  audiendus  Andronicus,  qui  propter  passionum  nomen  hunc  librum  ab  Aristotelis  operibus  separat.  Aristoteles  autem  idcirco  passiones  animae  |  293  intellectus  vocabat,  quod  intellectus,  quos  sermone  di-  30  cere  et  oratione  proferre  consuevimus,  ex  aliqua  causa  atque  utilitate  profecti  sunt:  ut  enim  dispersi  homines  colligerentur  et  legibus  vellent  esse  subiecti  civitatesque  condere,  utilitas  quaedam  fuit  et  causa,  quocirca   3  et  b:  uel  codices  15  subtilior  S1  16  addidit  E  17  pro  scribere:  est  T  19  hoc  uidetur  F  22  in  om.  F1  29  uocauit  E    I  c,  1. 13    quae  ex  aliqua  utilitate  veniunt,  ex  passione  quoque  provenire  necesse  est.  nam  ut  divina  sine  ulla  sunt  passione,  ita  nulla  illis  extrinsecus  utilitas  valet  adiungi:  quae  vero  sunt  passibilia  semper  aliquam  causam  atque  utilitatem  quibus  sustententur  inveniunt.  5  quocirca  huiusmodi  intellectus,  qui  ad  alterum  oratione  proferendi  sunt,  quoniam  ex  aliqua  causa  atque  utilitate  videntur  esse  collecti,  recte  passiones  animi  nominati  sunt,  et  de  intentione  quidem  et  de  libri  inscriptione  et  de  eo,  quod  hic  maxime  Aristotelis  10  liber  esse  putandus  est,  haec  dicta  sufficiunt,  quid  vero  utilitatis  habeat,  non  ignorabit  qui  sciet  qua  in  oratione  veritas  constet  et  falsitas.  in  sola  enim  haec  enuntiativa  oratione  consistunt,  iam  vero  quae  dividant  verum  falsumque  quaeve  definite  vel  quae  varie  15  et  mutabiliter  veritatem  falsitatemque  partiantur,  quae  iuncta  dici  possint,  cum  separata  valeant  praedicari,  quae  separata  dicantur,  cum  iuncta  sint  praedicata,  quae  sint  negationes  cum  modo  propositionum,  quae  earum  consequentiae  aliaque  plura  in  ipso  opere  considerator  poterit  diligenter  agnoscere,  quorum  magnam  experietur  utilitatem  qui  animum  curae  alicuius  investigationis  adverterit,  sed  nunc  ad  ipsius  Aristotelis  verba  veniamus.   1.  Primum  oportet  constituere,  quid  nomen  et  quid  verbum,  postea  quid  est  negatio  et  adfirmatio  et  enuntiatio  et  oratio.   Librum  incohans  de  quibus  in  omni  serie  tractaturus  sit  ante  proposuit,  ait  enim  prius  oportere  de    2  sunt  om.  F1  5  inuenient  E  8  animae?  11  suf¬  ficiant  b  16  patiantur  T  16.  17  quae  iuncta  om.  F,  in  marg.  quae  iunctim  F2?  17.18  iuncta  —  cum  om.  S1  20.21   consideratior  SF*T  21  quorum  ego:  quarum  codices  22  curae  ego:  cura  codices  23  ipsius  om.  F  25  quid  Ar.  xL:  quid  sit  codices  26  sit  uerbum  codices  praeter  2/E2  est  om.  2%  {eras,  in  S)    quibus  disputaturus  est  definire,  hic  enim  constituere  definire  intellegendum  est.  determinandum  namque  est  quid  haec  omnia  sint  id  est  quid  nomen  sit,  quid  verbum  et  cetera,  quae  elementa  interpretationis  esse praediximus,  sed  adfirmatio  atque  negatio  sub  interpretatione  sunt,  quare  nomen  et  verbum  adfirmatio-  nis  et  negationis  elementa  esse  manifestum  est.  his  enim  conpositis  adfirmatio  et  negatio  coniunguntur.  exsistit  hic  quaedam  quaestio,  cur  duo  tantum  nomen et  verbum  se  determinare  promittat,  cum  plures  partes  orationis  esse  videantur,  quibus  hoc  dicendum  est  tantum  Aristotelem  hoc  libro  definisse,  quantum  illi  ad  id  quod  instituerat  tractare  suffecit,  tractat  namque  de  simplici  enuntiativa  oratione,  quae  scilicet huiusmodi  est,  ut  iunctis  tantum  verbis  et  nominibus  conponatur.  si  quis  enim  nomen  iungat  et  verbum,  ut  dicat  Socrates  ambulat,  simplicem  fecit  enun¬  tiativam  orationem,  enuntiativa  namque  oratio  est  (ut  supra  memoravi)  quae  habet  in  se  falsi  verique designationem,  sed  in  hoc  quod  dicimus  Socrates  ambulat  aut  veritas  necesse  est  contineatur  aut  fal-  sitas.  hoc  enim  si  ambulante  Socrate  dicitur,  verum  est,  si  non  ambulante,  falsum,  perficitur  ergo  enuntiativa  oratio  simplex  ex  solis  verbis  atque  nominibus.  25  quare  superfluum  est  quaerere,  cur  alias  quoque  quae  videntur  orationis  partes  non  proposuerit,  qui  non  totius  simpliciter  orationis,  sed  tantum  simplicis  enuntiationis  instituit  elementa  partiri,  quamquam  duae  propriae  partes  orationis  esse  dicendae  sint,  nomen  30  scilicet  atque  verbum,  haec  enim  per  sese  utraque  significant,  coniunctiones  autem  vel  praepositiones  nihil  omnino  nisi  cum  aliis  iunctae  designant;  participia  verbo  cognata  sunt,  vel  quod  a  gerundivo  modo   2  definire  om.  S1  17  et  T  22.  23  est  verum  F  25  quae  om.  S1  26  proposuit  T  33  uerbis  E2?  vero  verbo  editio  princeps  conata  T  gerundi  FXE  (gerunti?  F)    I  c.  1.    15    veniant  vel  quod  tempus  propria  significatione  con¬  tineant;  interiectiones  vero  atque  pronomina  nec  non  adverbia  in  nominis  loco  ponenda  sunt,  idcirco  quod  aliquid  significant  definitum,  ubi  nulla  est  vel  passio¬  nis  significatio  vel  actionis,  quod  si  casibus  horum  5  quaedam  flecti  non  «possunt,  nihil  inpedit.  sunt  enim  quaedam  nomina  quae  monoptota  nominantur,  quod  si  quis  ista  longius  et  non  proxime  petita  esse  arbitretur,  illud  tamen  concedit,  quod  supra  iam  diximus,  non  esse  aequum  calumniari  ei,  qui  non  de  omni  ora-  10  tione,  sed  de  tantum  simplici  enuntiatione  proponat,  quod  tantum  sibi  ad  definitionem  sumpserit,  quantum  arbitratus  sit  operi  instituto  sufficere,  quare  dicendum  est Aristotelem  non  omnis  orationis  partes  hoc  p.  294  opere  velle  definire,  sed  tantum  solius  simplicis  enuntiativae  orationis,  quae  sunt  scilicet  nomen  et  verbum,  argumentum  autem  huius  rei  hoc  est.  postquam  enim  proposuit  dicens:  primum  oportet  constituere,  quid  sit  nomen  et  quid  verbum,  non  statim  inquit,  quid  sit  oratio,  sed  mox  addidit  et  quid  sit  20  negatio,  quid  adfirmatio,  quid  enuntiatio,  postremo  vero  quid  oratio,  quod  si  de  omni  oratione  loqueretur,  post  nomen  et  verbum  non  de  adfirmatione  et  negatione  et  post  hanc  de  enuntiatione,  sed  mox  de  oratione  dixisset,  nunc  vero  quoniam  post  nominis et  verbi  propositionem  adfirmationem,  negationem  et  enuntiationem  et  post  orationem  proposuit,  confitendum  est,  id  quod  ante  diximus,  non  orationis  universalis,  sed  simplicis  enuntiativae  orationis,  quae  divi¬  ditur  in  adfirmationem  atque  negationem,  divisionem  30  partium  facere  voluisse,  quae  sunt  nomina  et  verba,  haec  enim  per  se  ipsa  intellectum  simplicem  servant,   1.  2  continent  F  7  monopta  S  9  concedat  b  10  calumpniari  E  eum?  11  tantum  de  E2  enuntiatione  om.  S1  12  sumpserat  F  14  omnes  SFT  20  et  om.  F  26  et  negationem  et  F  31  uerba  et  nomina  F  „    quae  eadem  dictiones  vocantur,  sed  non  sola  dicuntur,  sunt  namque  dictiones  et  aliae  quoque:  orationes  vel  inperfectae  vel  perfectae,  cuius  plures  esse  partes  supra  iam  docui,  inter  quas  perfectae  orationis  species  5  est  enuntiatio,  et  haec  quoque  alia  simplex,  alia  con-  posita  est.  de  simplicis  vero  enuntiationis  speciebus  inter  philosophos  commentatoresque  certatur,  aiunt  enim  quidam  adfirmationem  atque  negationem  enuntiationi  ut  species  supponi  oportere,  in  quibus  et Porphyrius  est:  quidam  vero  nulla  ratione  consentiunt,  sed  contendunt  adfirmationem  et  negationem  aequivoca  esse  et  uno  quidem  enuntiationis  vocabulo  nuncupari,  praedicari  autem  enuntiationem  ad  utrasque  ut  nomen  aequivocum,  non  ut  genus  univocum;  quorum  princeps  Alexander  est.  quorum  contentiones  adponere  non  videtur  inutile,  ac  prius  quibus  modis  adfirmationem  atque  negationem  non  esse  species  enuntiationis  Alexander  putet  dicendum  est,  post  vero  addam  qua  Porphyrius  haec  argumentatione dissolverit.  Alexander  namque  idcirco  dicit  non  esse  species  enuntiationis  adfirmationem  et  negationem,  quoniam  adfirmatio  prior  sit.  priorem  vero  adfirmationem  idcirco  conatur  ostendere,  quod  omnis  negatio  adfirmationem  tollat  ac  destruat,  quod  si  ita  25  est,  prior  est  adfirmatio  quae  subruatur  quam  negatio  quae  subruat,  in  quibus  autem  prius  aliquid  et  posterius  est,  illa  sub  eodem  genere  poni  non  possunt,  ut  in  eo  titulo  praedicamentorum  dictum  est  qui  de  his  quae  sunt  simul  inscribitur.  amplius:  negatio  30  omnis,  inquit,  divisio  est,  adfirmatio  conpositio  atque  coniunctio.  cum  enim  dico  Socrates  vivit,  vitam  cum  Socrate  coniunxi;  cum  dico  Socrates  non  vivit,  vitam  a  Socrate  disiunxi.  divisio  igitur  quaedam  negatio  est,  coniunctio  adfirmatio.  conpositi  autem  est  con-   1  eaedem  SF  sola  ego:  solae  codices  2  quoq;  ut  b   4.  5  est  species  F  5  alias  —  alias  E2  12  unum  S1T  22  fit  T    I  c.  1.    17    iunctique  divisio,  prior  est  igitur  coniunctio,  quod  est  adfirmatio;  posterior  vero  divisio,  quod  est  negatio,  illud  quoque  adicit,  quod  omnis  per  adfirmationem  facta  enuntiatio  simplicior  sit  per  negationem  facta  enuntiatione,  ex  negatione  enim  particula  negativa  5  si  sublata  sit,  adfirmatio  sola  relinquitur,  de  eo  enim  quod  est  Socrates  non  vivit  si  non  particula  quae  est  adverbium  auferatur,  remanet  Socrates  vivit.  simplicior  igitur  adfirmatio  est  quam  negatio,  prius  vero  sit  necesse  est  quod  simplicius  est.  in  quantitate  etiam  quod  ad  quantitatem  minus  est  prius  est  eo  quod  ad  quantitatem  plus  est.  omnis  vero  oratio  quantitas  est.  sed  cum  dico  Socrates  ambulat,  minor  oratio  est  quam  cum  dico  Socrates  non  ambulat,  quare  si  secundum  quantitatem  adfirmatio minor  est,  eam  priorem  quoque  esse  necesse  est.  illud  quoque  adiunxit  adfirmationem  quendam  esse  habitum,  negationem  vero  privationem,  sed  prior  habitus  privatione:  adfirmatio  igitur  negatione  prior  est.  et  ne  singula  persequi  laborem,  cum  aliis  quoque  modis demonstraret  adfirmationem  negatione  esse  priorem,  a  communi  eas  genere  separavit,  nullas  enim  species  arbitratur  sub  eodem  genere  esse  posse,  in  quibus  prius  vel  posterius  consideretur,  sed  Porphyrius  ait  sese  docuisse  species  enuntiationis  esse  adfirmationem  et  negationem  in  his  commentariis  quos  in  Theophrastum  edidit;  hic  vero  Alexandri  argumentationem  tali  ratione  dissolvit,  ait  enim  non  oportere  arbitrari,  quaecumque  quolibet  modo  priora  essent  aliis,  ea  sub  eodem  genere poni  non  posse,  sed  quae-  p.  295  cumque  secundum  esse  suum  atque  substantiam  priora vel  posteriora  sunt,  ea  sola  sub  eodem  genere  non  ponuntur,  et  recte  dicitur,  si  enim  omne  quidquid   15  si  om.  S^E1  16  quoq.  priorem  F  esse  om.  SF  22  separaret  SF,  separabat  S2F2,  separat  T  nullus  SF1  24  aliquid  prius  GrTE  consideratur  F  26  iis  F2  Boetii  comxnent.  prius  est  cum  eo  quod  posterius  est  sub  uno  genere  esse  non  potest,  nec  primis  substantiis  et  secundis  commune  genus  poterit  esse  substantia;  quod  qui  dicit  a  recto  ordine  rationis  exorbitat,  sed  quemad-  5  modum  quamquam  sint  primae  et  secundae  substan¬  tiae,  tamen  utraque  aequaliter  in  subiecto  non  sunt  et  idcirco  esse  ipsorum  ex  eo  pendet,  quod  in  subiecto  non  sunt,  atque  ideo  sub  uno  substantiae  genere  conlocantur:  ita  quoque  quamquam  adfirmationes  ne-  10  gationibus  in  orationis  prolatione  priores  sint,  tamen  ad  esse  atque  ad  naturam  propriam  aequaliter  enuntiatione  participant,  enuntiatio  vero est  in  qua  veritas  et  falsitas  inveniri  potest,  qua  in  re  et  adfirmatio  et  negatio  aequales  sunt,  aequaliter  enim  et  adfir-  15  matio  et  negatio  veritate  et  falsitate  participant,  quocirca  quoniam  ad id  quod  sunt  adfirmatio  et  negatio  aequaliter  ab  enuntiatione  participant,  a  communi  eas  enuntiationis  genere  dividi  non  oportet,  mihi  quoque  videtur  quod  Porphyrii  sit  sequenda  sententia,  ut  20  adfirmatio  et  negatio  communi  enuntiationis  generi  supponantur,  longa  namque  illa  et  multiplicia  Alexandri  argumenta  soluta  sunt,  cum  demonstravit  non  modis  omnibus  ea  quae  priora  sunt  sub  communi  genere  poni  non  posse,  sed  quae  ad  esse  proprium  25  atque  substantiam  priora  sunt  illa  sola  sub  communi  genere  constitui  atque  poni  non  posse.  Syrianus  vero,  cui  Philoxenus  cognomen  est,  hoc  loco  quae¬  rit,  cur  proponens  prius  de  negatione,  post  de  adfir-  matione  pronuntiaverit  dicens:  primum  oportet  30  constituere,  quid  nomen  et  quid  verbum,  po¬  stea  quid  est  negatio  et  adfirmatio.  et  primum  quidem  nihil  proprium  dixit,  quoniam  in  quibus  et  ad-   1  posterius]  prius  S^E1  6  utraeque  b  8  sint  E  13  et  post  re  om.  F  16  ad  ego  addidi:  om.  codices  17  pro  a:  et  SF  21  supponatur  SF  multiplica  F  ^  30  quid   sit  n.  codices  31  est  om.  F  primum  S:  primo  S2  et  ceteri    I  c.  1.    19    firmatio  potest  et  negatio  provenire,  prius  esse  negatio,  postea  vero  adfirmatio  potest,  ut  de  Socrate  sanus  est.  potest  ei  aptari  talis  adfirmatio,  ut  de  eo  dicatur  Socrates  sanus  est;  etiam  huiusmodi  potest  aptari  negatio,  ut  de  eo  dicatur  Socrates  sanus  non  est.  quoniam  ergo  in  eum  adfirmatio  et  negatio  poterit  evenire,  prius  evenit  ut  sit  negatio  quam  ut  adfirmatio.  ante  enim  quam  natus  esset:  qui  enim  natus  non  erat,  nec  esse  poterat  sanus,  liuic  illud  adiecit:  servare  Aristotelem  conversam  propositionis  et  exsecutionis  distributionem.  hic  enim  prius  post  nomen  et  verbum  de  negatione  proposuit,  post  de  adfirmatione,  dehinc  de  enuntiatione,  postremo  vero  de  oratione,  sed  proposita  definiens  prius  orationem,  post  enuntiationem,  tertio  adfirmationem,  ultimo  vero  loco  negationem  determinavit,  quam  hic  post  propositionem  verbi  et  nominis  primam  locaverat,  ut  igitur  ordo  servaretur  conversus,  idcirco  negationem  prius  ait  esse  propositam,  qua  in  expositione  Alexandri  quoque  sententia  non  discedit,  illud  quoque  est  additum,  quod  non  esset  inutile,  enuntiationem  genus  adfirmationis  et  negationis  accipi  oportere,  quod  quamquam  (ut  dictum  est)  ad  prolationem  prior  esset  adfirmatio,  tamen  ad  ipsam  enuntiationem  id  est  veri  falsique  vim  utrasque  aequa¬  liter  sub  enuntiatione  ab  Aristotele  constitui,  id  etiam  Aristotelem  probare,  praemisit  enim  primam  nega¬  tionem,  secundam  posuit  adfirmationem,  quae  res  nihil  habet  vitii,  si  ad  ipsam  enuntiationem  adfirmatio  et  negatio  ponantur  aequales,  quae  enim  natura  aequa¬  les  sunt,  nihil  retinent  contrarii  indifferenter  acceptae,  est  igitur  ordo  quo  proposuit:  primum  totius  orationis   1  est.  potest  T  2  non  est  F;  non  supra  lin.  SE;  sanus  est  delet  S2  3  de  eo  om.  T1  6  eo?  8  post  esset  addit  potuit  dici  sanus  non  est  T,  in  marg.  G2  enim  om.  F,  eras,  in  E  12  et  hinc  E  17  primum  F  ergo  T  23  est  F  (in  rasura)  26  probare  dicit  FTE2S2(m»Mf^.)  probare  dr  Misit  G  (suprascr.  dicit  Premisit  G2)  enim  om.  E1  31  quod  F,  quoq.  T   2  *    5   10   elementum,  nomen  scilicet  et  verbum,  post  haec  ne¬  gationem  et  adfirmationem,  quae  species  enuntiationis  sunt,  quorum  genus  id  est  enuntiationem  tertiam  nominavit,  quartam  vero  orationem  posuit,  quae  ipsius  enuntiationis  genus  est.  et  horum  se  omnium  definitiones  daturum  esse  promisit,  quas  interim  relinquens  atque  praeteriens  et  in  posteriorem  tractatum  differens  illud  nunc  addit  quae  sint  verba  et  nomina  aut  quid  ipsa  significent,  quare  antequam  ad  verba  Aristotelis  ipsa  veniamus,  pauca  communiter  de  nominibus  atque  verbis  et  de  his  quae  significantur  a  verbis  ac  nominibus  disputemus,  sive  enim  quaelibet  interrogatio  sit  atque  responsio,  sive  perpetua  cuiuslibet orationis  continuatio  atque  alterius  auditus  et  intellegentia,  sive  hic  quidem  doceat  ille  vero  discat,  tribus  his  totus  orandi  ordo  perficitur:  rebus,  intellecti¬  bus,  vocibus,  res  enim  ab  intellectu  concipitur,  vox  vero  conceptiones  animi  intellectusque  significat,  ipsi  vero  intellectus  et  concipiunt  subiectas  res  et  significantur  a  vocibus,  cum  igitur  tria  sint  haec  per  quae  omnis  oratio  conlocutioque  perficitur,  res  quae  sub-  iectae  sunt,  intellectus  qui  res  concipiant  et  rursus  a  vocibus  significentur,  voces  vero  quae  intellectus  designent,  quartum  quoque  quiddam  est,  quo  voces  ipsae valeant  designari,  id  autem  sunt  litterae,  scriptae  namque  litterae  ipsas  significant  voces,  quare  quattuor  ista  sunt,  ut  litterae  quidem  significent  voces,  voces  vero  intellectus,  intellectus  autem  concipiant  res,  quae  scilicet  habent  quandam  non  confusam  neque  30  fortuitam  consequentiam,  sed  terminata  naturae  suae  ordinatione  constant,  res  enim  semper  comitantur  eum  qui  ab  ipsis  concipitur  intellectum,  ipsum  vero  intellectum  vox  sequitur,  sed  voces  elementa  id  est   3  quarum?  17  —  20  res  —  vocibus  om.  F,  in  marg.  add.  F1?  26  significent  SF  30  suae  naturae  E  31  constat  SE  comitatur  F2  32  eum  dei.  F2  intellectus  F    I  c.  1.    21    litterae,  rebus  enim  ante  propositis  et  in  propria  substantia  constitutis  intellectus  oriuntur,  rerum  enim  semper  intellectus  sunt,  quibus  iterum  constitutis  mox  significatio  vocis  exoritur,  praeter  intellectum  nam¬  que  vox  penitus  nihil  designat,  sed  quoniam  voces  sunt,  idcirco  litterae,  quas  vocamus  elementa,  repertae  sunt,  quibus  vocum  qualitas  designetur,  ad  cognitionem  vero  conversim  sese  res  habet,  namque  apud  quos  eaedem  sunt  litterae  et  qui  eisdem  elementis  utuntur,  eisdem  quoque  nominibus  eos  ac  verbis  id  est  vocibus  uti  necesse  est  et  qui  vocibus  eisdem  utuntur,  idem  quoque  apud  eos  intellectus  in  animi  conceptione  versantur,  sed  apud  quos  idem  intellectus  sunt,  easdem  res  eorum  intellectibus  subiectas  esse  manifestum  est.  sed  hoc  nulla  ratione  convertitur,  namque  apud  quos  eaedem  res  sunt  idemque  intel¬  lectus,  non  statim  eaedem  voces  eaedemque  sunt  lit¬  terae.  nam  cum  Romanus,  Graecus  ac  barbarus  simul  videant  equum,  habent  quoque  de  eo  eundem  intellectum  quod  equus  sit  et  apud  eos  eadem  res  sub-  iecta  est,  idem  a  re  ipsa  concipitur  intellectus,  sed  Graecus  aliter  equum  vocat,  alia  quoque  vox  in  equi  significatione  Romana  est  et  barbarus  ab  utroque  in  equi  designatione  dissentit,  quocirca  diversis  quoque  voces  proprias  elementis  inscribunt,  recte  igitur  dictum  est  apud  quos  eaedem  res  idemque  intellectus  sunt,  non  statim  apud  eos  vel  easdem  voces  vel  ea¬  dem  elementa  consistere,  praecedit  autem  res  intel¬  lectum,  intellectus  vero  vocem,  vox  litteras,  sed  hoc  converti  non  potest,  neque  enim  si  litterae  sint,  mox  aliqua  ex  his  significatio  vocis  exsistit,  hominibus  namque  qui  litteras  ignorant  nullum  nomen  quaelibet  ele¬  menta  significant,  quippe  quae  nesciunt,  nec  si  voces   1  positis  F  8  habent  T  20  sit  om.  F1  24  designi-  ficatione  S1  28  intellectum  res  F  31  consistit  E    sint,  mox  intellectus  esse  necesse  est.  plures  enim  voces  invenies  quae  nihil  omnino  significent,  nec  intellectui  quoque  subiecta  res  semper  est.  sunt  enim  intellectus  sine  re  ulla  subiecta,  ut  quos  centauros  5  vel  chimaeras  poetae  finxerunt,  horum  enim  sunt  in¬  tellectus  quibus  subiecta  nulla  substantia  est.  sed  si  quis  ad  naturam  redeat  eamque  consideret  diligenter,  agnoscet  cum  res  est,  eius  quoque  esse  intellectum:  quod  si  non  apud  homines,  certe  apud  eum,  qui  pro-  10  priae  divinitate  substantiae  in  propria  natura  ipsius  rei  nihil  ignorat,  et  si  est  intellectus,  et  vox  est;  quod  si  vox  fuerit,  eius  quoque  sunt  litterae,  quae  si  Ignorantur,  nihil  ad  ipsam  vocis  naturam,  neque  enim,  quasi  causa  quaedam  vocum  est  intellectus  aut  vox  causa  litterarum,  ut  cum  eaedem  sint  apud  ali¬  quos  litterae,  necesse  sit  eadem  quoque  esse  nomina:  ita  quoque  cum  eaedem  sint  vel  res  vel  intellectus  apud  aliquos,  mox  necesse  est  intellectuum  ipsorum  vel  rerum  eadem  esse  vocabula,  nam  cum  eadem  sit  20  et  res  et  intellectus  hominis,  apud  diversos  tamen  homines  huiusmodi  substantia  aliter  et  diverso  no¬  mine  nuncupatur,  quare  voces  quoque  cum  eaedem  sint,  possunt  litterae  esse  diversae,  ut  in  hoc  nomine  quod  est  homo:  cum  unum  sit  nomen,  diversis  litte-   25  ris  scribi  potest,  namque  Latinis  litteris  scribi  potest,   potest  etiam  Graecis,  potest  aliis  nunc  primum  inventis  litterarum  figuris,  quare  quoniam  apud  quos  eaedem  res  sunt,  eosdem  intellectus  esse  necesse  est,  apud  quos  idem  intellectus  sunt,  voces  eaedem  non   30  sunt  et  apud  quos  eaedem  voces  sunt,  non  necesse   2  significant  F  3  est  semper  E  9  omnes  T2  Denm  b  10  snbst.  div.  E  13  nataram  pertinet  F2  14  quaedam  causa  F  15  ut  enim  cum  S2F  16  pro  litterae:  uoces  E2  easdem  E2  pro  nomina:  literas  E2  18  mox  non  S2FE2  25  namque  —  potest  in  marg.  F  28  res  om.  F1  29  non  eaedem  (non  supra  lin .)  F  30  prius  sunt  om.  F    I  c.  1.    23    est  eadem  elementa  constitui;  dicendum  est  res  et  intellectus,  quoniam  apud  omnes  idem  sunt,  |  esse  na-  p.297  turaliter  constitutos,  voces  vero  atque  litteras,  quo¬  niam  diversis  hominum  positionibus  permutantur,  non  esse  naturaliter,  sed  positione,  concludendum  est  5  igitur,  quoniam  apud  quos  eadem  sunt  elementa,  apud  eos  eaedem  quoque  voces  sunt  et  apud  quos  eaedem  voces  sunt,  idem  sunt  intellectus;  apud  quos  autem  idem  sunt  intellectus,  apud  eosdem  res  quoque  eae¬  dem  subiectae  sunt:  rursus  apud  quos  eaedem  res  10  sunt,  idem  quoque  sunt  intellectus;  apud  quos  idem  intellectus,  non  eaedem  voces;  nec  apud  quos  eaedem  voces  sunt,  eisdem  semper  litteris  verba  ipsa  vel  no¬  mina  designantur,  sed  nos  in  supra  dictis  sententiis  elemento  atque  littera  promiscue  usi  sumus,  quae  15  autem  sit  horum  distantia  paucis  absolvam,  littera  est  inscriptio  atque  figura  partis  minimae  vocis  articulatae,  elementum  vero  sonus  ipsius  inscriptionis:  ut  cum  scribo  litteram  quae  est  a,  formula  ipsa  quae  atramento  vel  graphio  scribitur  littera  nominatur,  20  ipse  vero  sonus  quo  ipsam  litteram  voce  proferimus  dicitur  elementum,  quocirca  hoc  cognito  illud  dicen¬  dum  est,  quod  is  qui  docet  vel  qui  continua  oratione  loquitur  vel  qui  interrogat,  contrarie  se  habet  his  qui  vel  discunt  vel  audiunt  vel  respondent  in  his  tribus,  25  voce  scilicet,  intellectu  et  re  (praetermittantur  enim  litterae  propter  eos  qui  earum  sunt  expertes),  nam  qui  docet  et  qui  dicit  et  qui  interrogat  a  rebus  ad  intellectum  profecti  per  nomina  et  verba  vim  propriae  actionis  exercent  atque  officium  (rebus  enim  subiectis ab  his  capiunt  intellectus  et  per  nomina  verbaque   0   14  designentur  T  doctis  S1  17.  18  min.  p.  art.  voc.   E  19  littera  T  pro  a:  id  T  20  grafio  STE  24.  25  vel  qui  F1  29  profecti  ego :  profecto  SFE,  profectu  T,  profectus  S2F2E2  30  exercent  ego:  exercet  codices  atque  in  marg.  S    pronuntiant),  qui  vero  discit  vel  qui  audit  vel  etiam  qui  respondet  a  nominibus  ad  intellectus  progressi  ad  res  usque  perveniunt,  accipiens  enim  is  qui  discit  vel  qui  audit  vel  qui  respondet  docentis  vel  dicentis  5  vel  interrogantis  sermonem,  quid  unusquisque  illorum  dicat  intellegit  et  intellegens  rerum  quoque  scientiam  capit  et  in  ea  consistit,  recte  igitur  dictum  est  in  voce,  intellectu  atque  re  contrarie  sese  habere  eos  qui  docent,  dicunt,  interrogant  atque  eos  qui  discunt,  audiunt  et  re-  10  spondent,  cum  igitur  haec  sint  quattuor,  litterae,  voces,  intellectus,  res,  proxime  quidem  et  principaliter  litterae  verba  nominaque  significant,  haec  vero  principaliter  qui¬  dem  intellectus,  secundo  vero  loco  res  quoque  designant,  intellectus  vero  ipsi  nihil  aliud  nisi  rerum  significativi  15  sunt,  antiquiores  vero  quorum  est  Plato,  Aristoteles,  Speusippus,  Xenocrates  hi  inter  res  et  significationes  intellectuum  medios  sensus  ponunt  in  sensibilibus  rebus  vel  imaginationes  quasdam,  in  quibus  intellectus  ipsius  origo  consistat,  et  nunc  quidem  20  quid  de  hac  re  Stoici  dicant  praetermittendum  est.  hoc  autem  ex  his  omnibus  solum  cognosci  oportet,  quod  ea  quae  sunt  in  litteris  eam  significent  orationem  quae  in  voce  consistit  et  ea  quae  est  vocis  oratio  quod  animi  atque  intellectus  orationem  designet,  25  quae  tacita  cogitatione  conficitur,  et  quod  haec  intel¬  lectus  oratio  subiectas  principaliter  res  sibi  concipiat  ac  designet,  ex  quibus  quattuor  duas  quidem  Aristo¬  teles  esse  naturaliter  dicit,  res  et  animi  conceptiones,  id  est  eam  quae  fit  in  intellectibus  orationem,  idcirco  30  quod  apud  omnes  eaedem  atque  inmutabiles  sint;   6  et  om.  S1  12  uerba  et  nomina  S2F,  nomina  et  uerba  (in  ras .)  E  12  — 13  haec  —  designant  in  marg.  E  14  significationes  F  16  //usippus  S,  siue  usippus  S2FT  19   nunc  om.  SFT  20  dicunt  SF  23  et  quod  S2FE2  est  om.  S1  uocis  est  F  24  quod  dei.  S2,  om.  FE  29  intel¬  lectus  S1    I  c.  1.    25    duas  vero  non  naturaliter,  sed  positione  constitui,  quae  sunt  scilicet  verba  nomina  et  litterae,  quas  idcirco  naturaliter  fixas  esse  non  dicit,  quod  (ut  supra  demonstratum  est)  non  eisdem  vocibus  omnes  aut  isdem  utantur  elementis,  atque  hoc  est  quod  ait:  5   Sunt  ergo  ea  quae  sunt  in  voce  earum  quae  sunt  in  anima  passionum  notae  et  ea  quae  scribuntur  eorum  quae  sunt  in  voce,  et  quemadmodum  nec  litterae  omnibus  eaedem,  sic  nec  voces  eaedem,  quorum  autem  haec  primorum  notae,  eaedem  omnibus  passiones  animae  et  quorum  hae  similitudines,  res  etiam  eaedem,  de  his  quidem  dictum  est  in  his  quae  sunt  dicta  de  anima,  alterius  est  enim  negotii.   Cum  igitur  prius  posuisset  nomen  et  verbum  et  quaecumque  secutus  est  postea  se  definire  promisisset,  haec  interim  praetermittens  de  passionibus  animae  deque  earum  notis,  quae  sunt  scilicet  voces,  pauca  praemittit,  sed  cur  hoc  ita  interposuerit,  plurimi  |com-  p.298  mentatores  causas  reddere  neglexerunt,  sed  a  tribus  20  quantum  adhuc  sciam  ratio  huius  interpositionis  explicita  est.  quorum  Hermini  quidem  a  rerum  veritate  longe  disiuncta  est.  ait  enim  idcirco  Aristotelen  de  notis  animae  passionum  interposuisse  sermonem,  ut  utilitatem  propositi  operis  inculcaret,  disputaturus  25  enim  de  vocibus,  quae  sunt  notae  animae  passionum,  recte  de  his  quaedam  ante  praemisit,  nam  cum  suae  nullus  animae  passiones  ignoret,  notas  quoque  cum  animae  passionibus  non  nescire  utilissimum  est.  neque  enim  illae  cognosci  possunt  nisi  per  voces  quae  sunt  30   1  non  om.  S1  4.5  eisdem  FE  10  noces  eaedem  F  Ar.:  eaedem  uoces  ceteri  hae  codices  cf.  p.  43 ,  6  12  animae   sunt  codices :  sunt  om.  Ar.  cf.  ed.  I  hae  27,  he§  X:  eaedem  ceteri  14  dicta  post  anima  X  enim  om.  X1  (enim  est  X2)   16  definire  se  F  20  neglexerunt  h:  neglexerant  codices  21.  22  explicata  E  ( corr .  E2)  23  Aristotelem  F    26    SECVNDA  EDITIO    earum  scilicet  notae.  Alexander  vero  aliam  huius-  modi  interpositionis  reddidit  causam,  quoniam,  in¬  quit,  verba  et  nomina  interpretatione  simplici  conti¬  nentur,  oratio  vero  ex  verbis  nominibusque  coniuncta  5  est  et  in  ea  iam  veritas  aut  falsitas  invenitur;  sive  autem  quilibet  sermo  sit  simplex,  sive  iam  oratio  coniuncta  atque  conposita,  ex  his  quae  significant  mo¬  mentum  sumunt  (in  illis  enim  prius  est  eorum  ordo  et  continentia,  post  redundat  in  voces):  quocirca  quo-  10  niam  significantium  momentum  ex  his  quae  signifi¬  cantur  oritur,  idcirco  prius  nos  de  his  quae  voces  ipsae  significant  docere  proponit,  sed  Herminus  hoc  loco  repudiandus  est.  nihil  enim  tale  quod  ad  cau¬  sam  propositae  sententiae  pertineret  explicuit.  Ale-  15  x  and  er  vero  strictim  proxima  intellegentia  praeter¬  vectus  tetigit  quidem  causam,  non  tamen  principalem  rationem  Aristotelicae  propositionis  exsolvit.  sedPor-  phyrius  ipsam  plenius  causam  originemque  sermonis  huius  ante  oculos  conlocavit,  qui  omnem  apud  priscos  20  philosophos  de  significationis  vi  contentionem  litem¬  que  retexuit,  ait  namque  dubie  apud  antiquorum  philosophorum  sententias  constitisse  quid  esset  proprie  quod  vocibus  significaretur,  putabant  namque  alii  res  vocibus  designari  earumque  vocabula  esse  ea  quae sonarent  in  vocibus  arbitrabantur,  alii  vero  incorporeas  quasdam  naturas  meditabantur,  quarum  essent  signifi¬  cationes  quaecumque  vocibus  designarentur:  Platonis  aliquo  modo  species  incorporeas  aemulati  dicentis  hoc  ipsum  homo  et  hoc  ipsum  equus  non  hanc  cuiuslibet  subiectam  substantiam,  sed  illum  ipsum  hominem  specialem  et  illum  ipsum  equum,  universaliter  et  incorporaliter  co-   2  interpraetationis  T  6  pro  iam:  autem  S,  om.  F  7  significantur  b  13  ad  in  marg.  E  20  de  om.  F1  21   apud  om.  E1  22  sententiae  S1  24  eorum/////q;  SE,  eorumq;  T  uocubula  T  25  sonarent  ego:  sonauerunt  S,  sonauerint  S2FE,  sonuerint  T  31  equum  significare  T    I  c.  1.    27    gitantes  incorporales  quasdam  naturas  constituebant,  quas  ad  significandum  primas  venire  putabant  et  cum  aliis  item  rebus  in  significationibus  posse  coniungi,  ut  ex  his  aliqua  enuntiatio  vel  oratio  conficeretur,  alii  vero  sensus,  alii  imaginationes  significari  vocibus  arbitrabantur.  cum  igitur  ista  esset  contentio  apud  supe¬  riores  et  haec  usque  ad  Aristotelis  pervenisset  aeta¬  tem,  necesse  fuit  qui  nomen  et  verbum  significativa  esset  definiturus  praediceret  quorum  ista  designativa  sint.  Aristoteles  enim  nominibus  et  verbis  res  subiectas  significari  non  putat,  nec  vero  sensus  vel  etiam  imaginationes,  sensuum  quidem  non  esse  significativas  voces  nomina  et  verba  in  opere  de  iustitia  sic  de¬  clarat  dicens  cpvdeL  yaQ  ev&vg  diriQ^rai  tcc  rs  votf-  { Lata  nal  ta  aiGfrri [luta,  quod  interpretari  Latine  potest  hoc  modo:  natura  enim<(statim)>divisa  sunt  intellectus  et  sensus,  differre  igitur  aliquid  arbi¬  tratur  sensum  atque  intellectum,  sed  qui  passiones  animae  a  vocibus  significari  dicit,  is  non  de  sensibus  loquitur,  sensus  enim  corporis  passiones  sunt,  si  igitur  ita  dixisset  passionescorporis  a  vocibus  significari,  tunc  merito  sensus  intellegeremus,  sed  quoniam  passiones  animae  nomina  'et  verba  significare  propo¬  suit,  non  sensus  sed  intellectus  eum  dicere  putandum  est.  sed  quoniam  imaginatio  quoque  res  animae  est,  dubitaverit  aliquis  ne  forte  passiones  animae  imagi-   14  Ar.  fragm.  coli.  VRose  76    2  per  quas  se  F2  9  designativa  b:  designificatiua  co¬  dices  14  dirjQ7]Tcu  ego  (cf.  Ar.  1162,22  eth.  Nic.  VIII,  14:  sv&vs  yocQ  di7iQi]Tcu  tu  %Qya  v.ul  S6TLV  sxsQu  uvSqos  Y.ui  yv-  vaixog):  anhphtai  SGNJTE;  verba  Graeca  om.  F  (<4>rsEl  FAP  EY&  et  alia  in  marg.  F2),  dicens  hic  deest  grecum  quod  interpretari  B  15  AIZTHMATA  EN  Latine  om.  F  16  potes  VRose  statim  ego  add.:  om.  codices  diuersa  E2  est  N  19  a  om.  S*F  23  designificare  F  26  animae  om.  F    5   10   15   20   25    nationes,  qnas  Graeci  (pavraCiag  nominant,  dicat,  sed  haec  in  libris  de  anima  verissime  diligentissimeque  separavit  dicens  etircv  de  cpavraoCa  eteqov  epaOeog  nal  unoepaGeag'  Gvintloxr}  yaQ  vorj[icctav  etirlv  ro  ccArjfreg  5  xcd  ro  tyevdog.  rd  de  tcqcotcc  vocata  t C  dioCcei  rov  [. irj  cpavrcc<D[iuTa  eivcu;  rj  ovde  ravra  <pavrcc6[iarcc,  «AA’  ovk  ccvev  cpuvratitiarav.  quod  sic  interpretamur:  est  autem  imaginatio  diversa  adfirmatione  et  ne¬  gatione;  conplexio  namque  intellectuum  est  10  veritas  et  falsitas.  primi  vero  intellectus  quid  discrepabunt,  ut  non  sint  imaginationes?  an  certe  neque  haec  sunt  imaginationes,  sed  sine  imaginationibus  non  sunt,  quae  sententia  demonstrat  aliud  quidem  esse  imaginationes,  aliud  in-  15  telleetus;  ex  intellectuum  quidem  conplexione  adfirma-  299  tiones  fieri  et  negationes:  |  quocirca  illud  quoque  du¬  bitavit,  utrum  primi  intellectus  imaginationes  quaedam  essent,  primos  autem  intellectus  dicimus,  qui  simplicem  rem  concipiunt,  ut  si  qui  dicat  Socrates  solum  20  dubitatque  utrum  huiusmodi  intellectus,  qui  in  se  nihil  neque  veri  continet  neque  falsi,  intellectus  sit  an  ipsius  Socratis  imaginatio,  sed  de  hoc  quoque  aperte  quid  videretur  ostendit,  ait  enim  an  certe  neque  haec  sunt  imaginatione,  sed  non  sine  imaginationibus  sunt,  id  est  quod  hic  sermo  significat  qui  est  Socrates  vel  alius  simplex  non  est  quidem  imaginatio,  sed  intellectus,  qui  intellectus  praeter  ima¬  ginationem  fieri  non  potest,  sensus  enim  atque  ima-   3  Ar.  de  an.  III,  8:  432,  10 — 14.   1  fantasias  F,  phantasias  ceteri  2  haec  b:  hoc  codices  diligentissimeque  neq;  N  ( corr .  aeque  N1?)  3 — 7  dicens.   EZTIN  je  ( cet.  om.)  F,  dicens  hic  item  deest  grecum  B  6  cpcivtuGiiuxci  —  imaginationes:  <E>ANTAZMsl  codices  pro  rj:  N  codices  7  interpretatur  EN  10  aliquid  S2F  13.  14  demonstret  T,  corr.  T2  19  quis  F  25  idem  ( pro  id  est)  T2  26  pro  qui:  quid  S,  quod  S2F    I  c.  1.    29    ginatio  quaedam  primae  figurae  sunt,  supra  quas  velut  fundamento  quodam  superveniens  intellegentia  nitatur,  nam  sicut  pictores  solent  designare  lineatim  corpus  atque  substernere  ubi  coloribus  cuiuslibet  exprimant  vultum,  sic  sensus  atque  imaginatio  naturaliter  in  5  animae  perceptione  substernitur,  nam  cum  res  aliqua  sub  sensum  vel  sub  cogitationem  cadit,  prius  eius  quaedam  necesse  est  imaginatio  nascatur,  post  vero  plenior  superveniat  intellectus  cunctas  eius  explicans  partes  quae  confuse  fuerant  imaginatione  praesumptae.  10  quocirca  inperfectum  quiddam  est  imaginatio,  nomina  vero  et  verba  non  curta  quaedam,  sed  perfecta  significant.  quare  recta  Aristotelis  sententia  est:  quaecumque  in  verbis  nominibusque  versantur,  ea  neque  sensus  neque  imaginationes,  sed  solam  significare  in-  15  tellectuum  qualitatem,  unde  illud  quoque  ab  Aristo¬  tele  fluentes  Peripatetici  rectissime  posuerunt  tres  esse  orationes,  unam  quae  scribi  possit  elementis,  alteram  quae  voce  proferri,  tertiam  quae  cogitatione  conecti  unamque  intellectibus,  alteram  voce,  tertiam  20  litteris  contineri,  quocirca  quoniam  id  quod  signifi¬  caretur  a  vocibus  intellectus  esse  Aristoteles  puta¬  bat,  nomina  vero  et  verba  significativa  esse  in  eorum  erat  definitionibus  positurus,  recte  quorum  essent  significativa  praedixit  erroremque  lectoris  ex  multiplici  25  veterum  lite  venientem  sententiae  suae  manifestatione  conpescuit.  atque  hoc  modo  nihil  in  eo  deprehenditur  esse  superfluum,  nihil  ab  ordinis  continuatione  se-  iunctum.  quaerit  vero  Porphyrius,  cur  ita  dixerit:  sunt  ergo  ea  quae  sunt  in  voce,  et  non  sic:  sunt  30   3  si  quod  S^1  7  ait.  sub  om.  F  enim  (pro  eius)  E   10  confuse  b:  confusae  SF,  confusa  TE  in  im.  S2,  in  yma-  ginationem  F  praesumpta  T  15  imaginationis  SFE1?   18  sit  ( pro  possit)  S1  19  cogitationem  SFE  20  conecti  ego :  conectit  codices,  connectitur  b  21  teneri  F,  corr.  F2  22  esse  om.  T1  28  ad  T    igitur  voces;  et  rursus  cur  ita  et  ea  quae  scribun¬  tur  et  non  dixerit:  et  litterae,  quod  resolvit  hoc  modo,  dictum  est  tres  esse  apud  Peripateticos  ora¬  tiones,  unam  quae  litteris  scriberetur,  aliam  quae  pro-  5  ferretur  in  voce,  tertiam  quae  coniungeretur  in  animo,  quod  si  tres  orationes  sunt,  partes  quoque  orationis  esse  triplices  nulla  dubitatio  est.  quare  quoniam  ver¬  bum  et  nomen  principaliter  orationis  partes  sunt,  erunt  alia  verba  et  nomina  quae  scribantur,  alia  quae  10  dicantur,  alia  quae  tacita  mente  tractentur,  ergo  quo¬  niam  proposuit  dicens:  primum  oportet  constituere,  quid  nomen  et  quid  verbum,  triplex  autem  nominum  natura  est  atque  verborum,  de  quibus  potis¬  simum  proposuerit  et  quae  definire  velit  ostendit,  et  15‘quoniam  de  his  nominibus  loquitur  ac  verbis,  quae  voce  proferuntur,  idem  ipsum  planius  explicans  ait:  sunt  ergo  ea  quae  sunt  in  voce  earum  quae  sunt  in  anima  passionum  notae  et  ea  quae  scribuntur  eorum  quae  sunt  in  voce,  velut  si  diceret:  20  ea  verba  et  nomina  quae  in  vocali  oratione  proferuntur  animae  passiones  denuntiant,  illa  autem  rursus  verba  et  nomina  quae  scribuntur  eorum  verborum  nominum¬  que  significantiae  praesunt  quae  voce  proferuntur,  nam  sicut  vocalis  orationis  verba  et  nomina  conceptiones  animi  intellectusque  significant,  ita  quoque  verba  et  nomina  illa  quae  in  solis  litterarum  formulis  iacent  ijjorum  verborum  et  nominum  significativa  sunt  quae  loquimur,  id  est  quae  per  vocem  sonamus,  nam  quod  ait:  sunt  ergo  ea  quae  sunt  in  voce,  30  subaudiendum  est  verba  et  nomina,  et  rursus  cum  dicit:  et  ea  quae  scribuntur,  idem  subnectendum  rursus  est  verba  scilicet  vel  nomina,  et  quod  rursus   1  cur  om.  F1  4.  5  proferetur  F2T  8  post  nomen  ras.  sex  vel  octo  litt.  in  S  12  quid  sit  n.  codices  17  ergo  om.  SF  21  uerba  rursus  F  24  uerba  orationis  F  30.  31  cum  dicit  rursus  F  32  vel]  et  b    I  c.  1.    31    adiecit:  eorum  quae  sunt  in  voce,  addendum  eo¬  rum  nomimum  atque  verborum  quae  profert  atque  explicat  vocalis  oratio,  quod  si  nihil  deesset  omnino,  ita  foret  totius  plenitudo  sententiae:  sunt  ergo  ea  verba  et  nomina  quae  sunt  in  voce  earum  quae  sunt  5  in  anima  passionum  notae  et  ea  verba  et  nomina  quae  scribuntur  eorum  verborum  et  nominum  quae  sunt  in  voce,  quod  communiter  intellegendum  est,  li¬  cet  ea  |  quae  subiunximus  deesse  videantur,  quare  non  p.  300  est  disiuncta  sententia,  sed  primae  propositioni  con-  10  tinua.  nam  cum  quid  sit  verbum,  quid  nomen  definire  constituit,  cum  nominis  et  verbi  natura  sit  multiplex,  de  quo  verbo  et  nomine  tractare  vellet  clara  signifi¬  catione  distinxit,  incipiens  igitur  ab  his  nominibus  ac  verbis  quae  in  voce  sunt,  quorum  essent  significa-  15  tiva  disseruit,  ait  enim  haec  passiones  animae  designare.  illud  quoque  adiecit  quibus  ipsa  verba  et  no¬  mina  quae  in  voce  sunt  designentur,  his  scilicet  quae  litterarum  formulis  exprimuntur,  sed  quoniam  non  omnis  vox  significativa  est,  verba  vero  vel  nomina  20  numquam  significationibus  vacant  quoniamque  non  omnis  vox  quae  significat  quaedam  positione  designat,  sed  quaedam  naturaliter,  ut  lacrimae,  gemitus  atque  maeror  (animalium  quoque  ceterorum  quaedam  voces  naturaliter  aliquid  ostentant,  ut  ex  canum  latratibus  25  iracundia  eorumque  alia  quadam  voce  blandimenta  monstrantur),  verba  autem  et  nomina  positione  signi¬  ficant  neque  solum  sunt  verba  et  nomina  voces,  sed  voces  significativae  nec  solum  significativae,  sed  etiam  quae  positione  designent  aliquid,  non  natura:  non  di-  30  xit:  sunt  igitur  voces  earum  quae  sunt  in  anima  pas¬  sionum  notae,  namque  neque  omnis  vox  significativa   5.  6  quae  sunt  in  v.—  nomina  in  marg.  F  15  sunt]  sunt  designantes  TGr  17  et  uerba  et  T  20  vel]  et  b  21  va¬  cant  ego:  uacarent  codices ,  carent  b  que  om.  S1  22  qua¬  dam  S2E  24  moerorem  S,  merore  FE  32  nam  FT    est  et  sunt  quaedam  significativae  quae  naturaliter  non  positione  significent,  quod  si  ita  dixisset,  nihil  ad  proprietatem  verborum  et  nominum  pertineret,  quocirca  noluit  communiter  dicere  voces,  sed  dixit  5  tantum  ea  quae  sunt  in  voce,  vox  enim  universale  quiddam  est,  nomina  vero  et  verba  partes,  pars  autem  omnis  in  toto  est.  verba  ergo  et  nomina  quoniam  sunt  intra  vocem,  recte  dictum  est  ea  quae  sunt  in  voce,  velut  si  diceret:  quae  intra  vocem  continentur  intel-  10  lectuum  designativa  sunt,  sed  hoc  simile  est  ac  si  ita  dixisset:  vox  certo  modo  sese  habens  significat  intellectus.  non  enim  (ut  dictum  est)  nomen  et  verbum  voces  tantum  sunt,  sicut  nummus  quoque  non  solum  aes  inpressum  quadam  figura  est,  ut  nummus  vocetur,  15  sed  etiam  ut  alicuius  rei  sit  pretium:  eodem  quoque  modo  verba  et  nomina  non  solum  voces  sunt,  sed  positae  ad  quandam  intellectuum  significationem,  vox  enim  quae  nihil  designat,  ut  est  garalus,  licet  eam  grammatici  figuram  vocis  intuentes  nomen  esse  con-  20  tendant,  tamen  eam  nomen  philosophia  non  putabit,  nisi  sit  posita  ut  designare  animi  aliquam  conceptio¬  nem  eoque  modo  rerum  aliquid  possit,  etenim  nomen  alicuius  nomen  esse  necesse  erit;  sed  si  vox  aliqua  nihil  designat,  nullius  nomen  est;  quare  si  nullius  est,  25  ne  nomen  quidem  esse  dicetur,  atque  ideo  huiusmodi  vox  id  est  significativa  non  vox  tantum,  sed  verbum  vocatur  aut  nomen,  quemadmodum  nummus  non  aes,  sed  proprio  nomine  nummus,  quo  ab  alio  aere  discre¬  pet,  nuncupatur,  ergo  haec  Aristotelis  sententia  30  qua  ait  ea  quae  sunt  in  voce  nihil  aliud  designat  nisi  eam  vocem,  quae  non  solum  vox  sit,  sed  quae  cum  vox  sit  habeat  tamen  aliquam  proprietatem  et   4  dicere  ( pro  dixit)  T  9.  10  des.  s.  intell.  T,  corr.  T2   13  nummos  S1  18  garulus  F  20  putabit  ego:  putavit   codices  22  aliq.  rer.  F  25  dicitur  T  ideo  om.  F1  27  —  28  non  —  nummus  in  marg.  S  30  qua  ait  om.  F1    I  c.  1.    33    aliquam  quodammodo  figuram  positae  significationis  inpressam.  horum  vero  id  est  verborum  et  nominum  quae  sunt  in  voce  aliquo  modo  se  habente  ea  sunt  scilicet  significativa  quae  scribuntur,  ut  hoc  quod  di¬  ctum  est  quae  scribuntur  de  verbis  ac  nominibus  5  dictum  quae  sunt  in  litteris  intellegatur,  potest  vero  haec  quoque  esse  ratio  cur  dixerit  et  quae  scri¬  buntur:  quoniam  litteras  et  inscriptas  figuras  et  voces,  quae  isdem  significantur  formulis,  nuncupamus  (ut  a  et  ipse  sonus  litterae  nomen  capit  et  illa  quae  10  in  subiecto  cerae  vocem  significans  forma  describitur),  designare  volens,  quibus  verbis  atque  nominibus  ea  quae  in  voce  sunt  adparerent,  non  dixit  litteras,  quod  ad  sonos  etiam  referri  potuit  litterarum,  sed  ait  quae  scribuntur,  ut  ostenderet  de  his  litteris  dicere  quae  15  in  scriptione  consisterent  id  est  quarum  figura  vel  in  cera  stilo  vel  in  membrana  calamo  posset  effingi,  alioquin  illa  iam  quae  in  sonis  sunt  ad  ea  nomina  referuntur  quae  in  voce  sunt,  quoniam  sonis  illis  no¬  mina  et  verba  iunguntur.  sed  Porphyrius  de  utraque  expositione  iudicavit  dicens:  id  quod  ait  et  quae  scribuntur  non  potius  ad  litteras,  sed  ad  verba  et  nomina  quae  posita  sunt  in  litterarum  inscriptione  referendum,  restat  igitur  ut  illud  quoque  addamus,  cur  non  ita  dixerit:  sunt  ergo  ea  quae  sunt  in  voce  25  intellectuum  notae,  sed  ita  earum  quae  sunt  in  anima  passionum  notae,  nam  cum  ea  quae  sunt  p.30l  in  voce  res  intellectusque  significent,  principaliter  qui¬  dem  intellectus,  res  vero  quas  ipsa  intellegentia  con-  prehendit  secundaria  significatione  per  intellectuum  30  medietatem,  intellectus  ipsi  non  sine  quibusdam  pas¬  sionibus  sunt,  quae  in  animam  ex  subiectis  veniunt  rebus,  passus  enim  quilibet  eius  rei  proprietatem,   3  sese  E  5  et  F  8  scriptas  b  15  se  de?  15.  16   quae  inscriptione  T  17  menbrana  F  23  proposita  F   24  illas  Tl  26  si  T  31.  32  medietatibus  {pro  pass.)  T  Boetii  comment.  II.  3    34    quam  intellectu  conplectitur,  ad  eius  enuntiationem  designationemque  contendit,  cum  enim  quis  aliquam  rem  intellegit,  prius  imaginatione  formam  necesse  est  intellectae  rei  proprietatemque  suscipiat  et  fiat  vel  5  passio  vel  cum  passione  quadam  intellectus  perceptio,  hac  vero  posita  atque  in  mentis  sedibus  conlocata  fit  indicandae  ad  alterum  passionis  voluntas,  cui  actus  quidam  continuandae  intellegentiae  protinus  ex  intimae  rationis  potestate  supervenit,  quem  scilicet  explicat  et  10  effundit  oratio  nitens  ea  quae  primitus  in  mente  fundata  est  passione,  sive,  quod  est  verius,  significatione  progressa  oratione  progrediente  simul  et  significantis  seorationis  motibus  adaequante,  fit  vero  baec  passio  velut  figurae  alicuius  inpressio,  sed  ita  ut  in  animo  15  fieri  consuevit,  aliter  namque  naturaliter  inest  in  re  qualibet  propria  figura,  aliter  vero  eius  ad  animum  forma  transfertur,  velut  non  eodem  modo  cerae  vel  marmori  vel  chartis  litterae  id  est  vocum  signa  mandantur.  et  imaginationem  Stoici  a  rebus  in  animam  20  translatam  loquuntur,  sed  cum  adiectione  semper  dicentes  ut  in  anima,  quocirca  cum  omnis  animae  passio  rei  quaedam  videatur  esse  proprietas,  porro  autem  designativae  voces  intellectuum  principaliter,  rerum  dehinc  a  quibus  intellectus  profecti  sunt  significatione nitantur, quidquid  est  in  vocibus  significativum,  id  animae  passiones  designat,  sed  hae passiones animarum ex rerum similitudine procreantur, videns  4 intellegi T  ( corr.  T1)  5  intellectio  T  6  Haec  T   8  quidem  F  9  quem  actum  F,  actum  supra  lin.  J,  s.  actum  supra  lin.  S2  12  oratione  ego:  oratio  codices;  oratio  suprascr.  s.  explicat  S2,  oratio  ///////////explicat  F  significatione  dei  et  post  simul  transponit  F2  (E  in  marg.:  aliter  siue  quod  est  verius  significatione  progrediente  oratio  progressa  simul  et  se  signif.  or.  mot.  adaeq.)  13  metibus  S1,  mentibus  F1  17  transferetur  T,  corr.  T2  17  vel  om.  F  19  a  om.  S1  25  nitatur  S^1  27  animorum  SFE  et  T^1    I  c.  1.    35    namque  aliquis  sphaeram  vel  quadratum  vel  quamlibet  aliam  rerum  figuram  eam  in  animi  intellegentia  qua¬  dam  vi  ac  similitudine  capit,  nam  qui  sphaeram  viderit,  eius  similitudinem  in  animo  perpendit  et  cogitat  atque  eius  in  animo  quandam  passus  imaginem  id  cuius  imaginem  patitur  agnoscit,  omnis  vero  imago  rei  cuius  imago  est  similitudinem  tenet:  mens  igitur  cum  intellegit,  rerum  similitudinem  conprehendit.  unde  fit  ut,  cum  duorum  corporum  maius  unum,  minus  alterum  contuemur,  a  sensu  postea  remotis  corporibus  illa  ipsa  corpora  cogitantes  illud  quoque  memoria  servante  noverimus  sciamusque  quod  minus,  quod  vero  maius  corpus  fuisse  conspeximus,  quod  nullatenus  eveniret,  nisi  quas  semel  mens  passa  est  rerum  similitudines  optineret.  quare  quoniam  passiones  animae  quas  intellectus  vocavit  rerum  quaedam  similitudines  sunt,  idcirco  Aristoteles,  cum  paulo  post  de  passio¬  nibus  animae  loqueretur,  continenti  ordine  ad  simili¬  tudines  transitum  fecit,  quoniam  nihil  differt  utrum  passiones  diceret  an  similitudines,  eadem  namque  res  in  anima  quidem  passio  est,  rei  vero  similitudo,  et  Alexander  hunc  locum:  sunt  ergo  ea  quae  sunt  in  voce  earum  quae  sunt  in  anima  passionum  notae  et  ea  quae  scribuntur  eorum  quae  sunt  in  voce,  et  quemadmodum  nec  litterae  omni¬  bus  eaedem,  sic  nec  voces  eaedem  hoc  modo  conatur  exponere:  proposuit,  inquit,  ea  quae  sunt  in  voce  intellectus  animi  designare  et  hoc  alio  probat  exemplo,  eodem  modo  enim  ea  quae  sunt  in  voce  passiones  animae  significant,  quemadmodum  ea  quae  scribuntur  voces  designant,  ut  id  quod  ait  et  ea  quae   1  aliquis  om.  T,  aliqui  E  feram  S,  speram  S2FT  3  ui§  (pro  vi  ac)  SF  speram  FT  9  duum  S2F2  12  sciamusque  ego:  sciemusq.  codices  14  mens  om.  T  20  pass.  animae  editio  princeps  24  inscribuntur  SFE  26  eaedem  uoces  codices  (item  p.  36,  6.  7)  29  enim  modo  F    scribuntur  ita  intellegamus,  tamquam  si  diceret:  quemadmodum  etiam  ea  quae  scribuntur  eorum  quae  sunt  in  voce,  ea  vero  quae  scribuntur,  inquit  Alexander,  notas  esse  vocum  id  est  nominum  ac  verbo-  5  rum  ex  hoc  monstravit  quod  diceret  et  quemadmo¬  dum  nec  litterae  omnibus  eaedem,  sic  nec  voces  eaedem,  signum  namque  est  vocum  ipsarum  significationem  litteris  contineri,  quod  ubi  variae  sunt  litterae  et  non  eadem  quae  scribuntur  varias  quoque  10  voces  esse  necesse  est.  haec  Alexander.  Porphy-  rius  vero  quoniam  tres  proposuit  orationes,  unam  quae  litteris  contineretur,  secundam  quae  verbis  ac  nominibus  personaret,  tertiam  quam  mentis  evolveret  intellectus,  id  Aristotelem  significare  pronuntiat,  15  cum  dicit:  sunt  ergo  ea  quae  sunt  in  voce  earum  quae  sunt  in  anima  passionum  notae,  quod  ostenderet  si  ita  dixisset:  sunt  ergo  ea  quae  sunt  in  p.  302  voce  et  verba  et  nomina  animae  passionum  |  notae,  et  quoniam  monstravit  quorum  essent  voces  significa-  20  tivae,  illud  quoque  docuisse  quibus  signis  verba  vel  nomina  panderentur  ideoque  addidisse  et  ea  quae  scribuntur  eorum  quae  sunt  in  voce,  tamquam  si  diceret:  ea  quae  scribuntur  verba  et  nomina  eorum  quae  sunt  in  voce  verborum  et  nominum  notae  sunt.  25  nec  disiunctam  esse  sententiam  nec  (ut  Alexander  putat)  id  quod  ait:  et  ea  quae  scribuntur  ita  in¬  tellegendum,  tamquam  si  diceret:  sicut  ea  quae  scribuntur  id  est  litterae  illa  quae  sunt  in  voce  significant,  ita  ea  quae  sunt  in  voce  notas  esse  animae  30  passionum,  primo  quod  ad  simplicem  sensum  nihil  addi  oportet,  deinde  tam  brevis  ordo  tamque  neces¬  saria  orationis  non  est  intercidenda  partitio,  tertium  vero  quoniam,  si  similis  significatio  est  litterarum  vo-   5  quo  TE1  9  eaedem  F,  eedem  T  13  quae  F  14  ari-  stotelen  T  18  prius  et  om.  TE  20  et  b  29  sunt  om.  SF  30  primum?  quidem  quod  b  31  deinde  quod  b  tamque]  tamquam  T  33  esset  E2    I  c.  1.    37    cumque,  quae  est  vocum  et  animae  passionum,  opor¬ tet  sicut  voces  diversis  litteris  permutantur,  ita  quoque  passiones  animae  diversis  vocibus  permutari,  quod  non  fit.  idem  namque  intellectus  variatis  potest  voci¬  bus  significari,  sed  Alexander  id  quod  eum  superius  sensisse  memoravi  boc  probare  nititur  argumento,  ait  enim  etiam  in  hoc  quoque  similem  esse  significa¬  tionem  litterarum  ac  vocum,  quoniam  sicut  litterae  non  naturaliter  voces,  sed  positione  significant,  ita  quoque  voces  non  naturaliter  intellectus  animi,  sed  aliqua  positione  designant,  sed  qui  prius  recepit,  ut  id  quod  Aristoteles  ait:  et  ea  quae  scribuntur  ita  dictum  esset,  tamquam  si  diceret:  sicut  ea  quae  scribuntur,  quidquid  ad  hanc  sententiam  videtur  ad-  iungere,  aequaliter  non  dubitatur  errare,  quocirca  nostro  iudicio  qui  rectius  tenere  volent  Porphyrii  se  sententiis  adplicabunt.  Aspasius  quoque  secundae  sententiae  Alexandri,  quam  supra  posuimus,  valde  consentit,  qui  a  nobis  in  eodem  quo  Alexander  errore  culpabitur.  Aristoteles  vero  duobus  modis  esse  has  notas  putat  litterarum,  vocum  passionumque  ani¬  mae  constitutas:  uno  quidem  positione,  alio  vero  na¬  turaliter.  atque  hoc  est  quod  ait:  et  quemadmodum  nec  litterae  omnibus  eaedem,  sic  nec  voces  eaedem,  nam  si  litterae  voces,  ipsae  vero  voces  intellectus  animi  naturaliter  designarent,  omnes  homines  isdem  litteris,  isdem  etiam  vocibus  uterentur,  quod  quoniam  apud  omnes  neque  eaedem  litterae  neque  eaedem  voces  sunt,  constat  eas  non  esse  naturales,  sed  hic  duplex  lectio  est.  Alexander  enim  hoc  modo  legi  putat  oportere:  quorum  autem  haec  primo-   1.  2  oporteret  E  11  recipit  S,  corr.  S2 18—19  quam  —  Alexander  in  marg.  S  21  vocum  om.  S1  24.  25  eaedem  v.  codices  {item  p.  38,  10  et  29)  27  hisdem  S2F2TE   hisdem  SF2TE  31  hae  codices  {item  p.  38,  18)    5   10   15   20   25   30    38    rum  notae,  eaedem  omnibus  passiones  animae  et  quorum  eaedem  similitudines,  res  etiam  eaedem,  volens  enim  Aristoteles  ea  quae  positione  significant  ab  bis  quae  aliquid  designant  naturaliter  5  segregare  hoc  interposuit:  ea  quae  positione  significant  varia  esse,  ea  vero  quae  naturaliter  apud  omnes  eadem,  et  incobans  quidem  a  vocibus  ad  litteras  venit  easque  primo  non  esse  naturaliter  significativas  demonstrat  dicens:  et  quemadmodum  nec  litterae  10  omnibus  eaedem,  sic  nec  voces  eaedem,  nam  si  idcirco  probantur  litterae  non  esse  naturaliter  signifi¬  cantes,  quod  apud  alios  aliae  sint  ac  diversae,  eodem  quoque  modo  probabile  erit  voces  quoque  non  naturaliter  significare,  quoniam  singulae  hominum  gentes  15  non  eisdem  inter  se  vocibus  conio quantur.  volens  vero  similitudinem  intellectuum  rerumque  subiectarum  docere  naturaliter  constitutam  ait:  quorum  autem  haec  primorum  notae,  eaedem  omnibus  passio¬  nes  animae,  quorum,  inquit,  voces  quae  apud  diver-  20  sas  gentes  ipsae  quoque  diversae  sunt  significationem  retinent,  quae  scilicet  sunt  animae  passiones,  illae  apud  omnes  eaedem  sunt,  neque  enim  fieri  potest,  ut  quod  apud  Romanos  homo  intellegitur  lapis  apud  barbaros  intellegatur,  eodem  quoque  modo  de  ceteris  25  rebus,  ergo  huiusmodi  sententia  est,  qua  dicit  ea  quae  voces  significent  apud  omnes  hominum  gentes  non  mutari,  ut  ipsae  quidem  voces,  sicut  supra  mon¬  stravit  cum  dixit  quemadmodum  nec  litterae  omnibus  eaedem,  sic  nec  voces  eaedem,  apud  30  plures  diversae  sint,  illud  vero  quod  voces  ipsae  si¬  gnificant  apud  omnes  homines  idem  sit  nec  ulla  ra-   1  animae  sunt  codices  ( item  19)  7  inchoatis  T  8  significas  S1,  signifitiuas  T  15  colloquuntur  b  17  //////ait  S,  quod  ait  TE  (quod  dei.  E1?)  22  apud  om.  F,  add.  F1   23  qui  T  24  modo  quoq.  F  29  apud  ego:  cum  apud  codices  31  fit  F    I  c.  1.    39    tione  valeat  permutari,  qui  sunt  scilicet  intellectus  rerum,  qui  quoniam  naturaliter  sunt  permutari  non  possunt,  atque  hoc  est  quod  ait:  quorum  autem  haec  primorum  notae,  id  est  voces,  eaedem  om¬  nibus  passiones  animae,  ut  demonstraret  voces  5  quidem  esse  diversas,  quorum  autem  ipsae  voces  signi¬  ficativae  essent,  quae  sunt  scilicet  animae  passiones,  easdem  apud  omnes  esse  nec  |  ullratione,  quoniam  p.303  sunt  constitutae  naturaliter,  permutari,  nec  vero  in  hoc  constitit,  ut  de  solis  vocibus  atque  intellectibus  10  loqueretur,  sed  quoniam  voces  atque  litteras  non  esse  naturaliter  constitutas  per  id  significavit,  quod  eas  non  apud  omnes  easdem  esse  proposuit,  rursus  intel¬  lectus  quos  animae  passiones  vocat  per  hoc  esse  naturales  ostendit,  quod  apud  omnes  idem  sint,  a  quibus id  est  intellectibus  ad  res  transitum  fecit,  ait  enim  quorum  hae  similitudines,  res  etiam  eaedem  hoc  scilicet  sentiens,  quod  res  quoque  naturaliter  apud  omnes  homines  essent  eaedem:  sicut  ipsae  animae  passiones  quae  ex  rebus  sumuntur  apud  omnes  horni-  20  nes  eaedem  sunt,  ita  quoque  etiam  ipsae  res  quarum  similitudines  sunt  animae  passiones  eaedem  apud  omnes  sunt,  quocirca  quoque  naturales  sunt,  sicut  sunt  etiam  rerum  similitudines,  quae  sunt  animae  passiones.  H  er  minus  vero  huic  est  expositioni  con-  25  trarius.  dicit  enim  non  esse  verum  eosdem  apud  omnes  homines  esse  intellectus,  quorum  voces  significativae  sint,  quid  enim,  inquit,  in  aequivocatione  dicetur,  ubi  unus  idemque  vocis  modus  plura  significat?  sed  magis  hanc  lectionem  veram  putat,  ut  ita  30  sit:  quorum  autem  haec  primorum  notae,  hae  omnibus  passiones  animae et quorumhae similitudines, res etiam hae: ut demonstratio vi-  4 hae codices (item 31) animae sunt codices (item 32)  21 quarum b: quorum codices  23 homines  F,  corr.  F2  res  quoq.  b  28  sunt  F  31  autem  ovi.deatur quorum voces significativae sint vel quorum passiones animae similitudines, et lioc simpliciter accipiendum  est  secundum  Her minum,  ut  ita  dicamus:  quorum  voces  significativae  sunt,  illae  sunt  animae passiones,  tamquam  diceret:  animae  passiones  sunt,  quas  significant  voces,  et  rursus  quorum  sunt  similitudines  ea  quae  intellectibus  continentur,  illae  sunt  res,  tamquam  si  dixisset:  res  sunt  quas  significant  in¬  tellectus.  sed  Porphyrius  de  utrisque  acute  subti-  10  literque  iudicat  et  Alexandri  magis  sententiam  probat,  hoc  quod  dicat  non  debere  dissimulari  de  multiplici  aequivocationis  significatione,  nam  et  qui  dicit  ad  unam  quamlibet  rem  commodat  animum,  scilicet  quam  intellegens  voce  declarat,  et  unum  rursus  intel-  15  lectum  quemlibet  is  qui  audit  exspectat,  quod  si,  cum  uterque  ex  uno  nomine  res  diversas  intellegunt,  ille  qui  nomen  aequivocum  dixit  designet  clarius,  quid  illo  nomine  significare  voluerit,  accipit  mox  qui  audit  et  ad  unum  intellectum  utrique  conveniunt,  qui  rursus  fit  unus  apud  eosdem  illos  apud  quos  primo  diversae  fuerant  animae  passiones  propter  aequivocationem  nominis.  neque  enim  fieri  potest,  ut  qui  voces  positione  significantes  a  natura  eo  distinxerit  quod  easdem  apud  omnes  esse  non  diceret,  eas  res  quas  esse  naturaliter  25  proponebat  non  eo  tales  esse  monstraret,  quod  apud  omnes  easdem  esse  contenderet,  quocirca  Alexander  vel  propria  sententia  vel  Porphyrii  auctoritate  probandus  est.  sed  quoniam  ita  dixit  Aristoteles:  quorum  autem  haec  primorum  notae,  eaedem omnibus  passiones  animae  sunt,  quaerit  Ale-   9.  10  suptiliterq.  SE  11  hoc  dei.  S2,  om.  F  quod  F:   quo  STEGN,  quoque  E2  dicit  E2  14  voce  eras,  in  F   16  utrique? 17 designat T quod T 18 nomen S1 23 distinxerint T quos (suprascr.  d)  S,  qui  (in  marg.  quod)  T  24  eas]  is?  25  demonstraret  T  27  pro  porphirii  E  29  hae  codices  I  c.  1. 41    x  and  er:  si  rerum  nomina  sunt,  quid  causae  est  ut  primorum  intellectuum  notas  esse  voces  diceret  Aristoteles?  rei  enim  ponitur  nome,  ut  cum  dicimus  homo  significamus  quidem  intellectum,  rei  tamen  nomen  est  id  est  animalis  rationalis  mortalis,  cur  ergo  5  non  primarum  magis  rerum  notae  sint  voces  quibus  ponuntur  potius  quam  intellectuum?  sed  fortasse  quidem  ob  hoc  dictum  est,  inquit,  quod  licet  voces  rerum  nomina  sint,  tamen  non  idcirco  utimur  vocibus,  ut  res  significemus,  sed  ut  eas  quae  ex  rebus  nobis  io  innatae  sunt  animae  passiones,  quocirca  propter  quo¬  rum  significantiam  voces  ipsae  proferuntur,  recte  eorum  primorum  esse  dixit  notas,  in  hoc  vero  Aspa-  sius  permolestus  est.  ait  enim:  qui  fieri  potest,  ut  eaedem  apud  omnes  passiones  animae  sint,  cum  tam  15  diversa  sententia  de  iusto  ac  bono  sit?  arbitratur  Aristotelem  passiones  animae  non  de  rebus  incorporalibus,  sed  de  his  tantum  quae  sensibus  capi  possunt  passiones  animae  dixisse,  quod  perfalsum  est.  neque  enim  umquam  intellexisse  dicetur,  qui  fallitur,  et  fortasse  quidem  passionem  animi  habuisse  dicetur,  quicumque  id  quod  est  bonum  non  eodem  modo  quo  est,  sed  aliter  arbitratur,  intellexisse  vero  non  dicitur.  Aristoteles  autem  cum  de  similitudine  loquitur,  de  intellectu  pronuntiat,  neque  enim  fieri  potest,  ut  qui  25  quod  bonum  est  malum  esse  arbitratur  boni  similitudinem  mente  conceperit,  neque  enim  intellexit  rem  subiectam.  sed  quae  sunt  iusta  ac  bona  ad  positionem  omnia  naturamve  referuntur,  et  si  de  iusto  ac  bono  p.  304  ita  loquitur,  ut  de  eo  quod  civile  ius  aut  civilis  in-  30   1  quod  T  causa  S  F  2  dixerit  b  4  pro  tamen:  quidem  T  6  sunt  E,  corr.  E2  8  quidem  post  dictum  F  10  nris  STE  (corr.  S2E2)  11  sint  S  praeter  T 13esse prim.  F 22  ///////id  S, cum  id  TE  (cum  dei.  E2)  quidem  (pro  quod  est)  T  quo  S2F2:  quod  SFTE  23  dicetur?   29  si  om.  S1  30  ita  om.  F1 iuria  dicitur,  recte  non  eaedem  sunt  passiones  animae,  quoniam  civile  ius  et  civile  bonum  positione  est,  non  natura,  naturale  vero  bonum  atque  iustum  apud  omnes  gentes  idem  est.  et  de  deo  quoque  idem:  cuius  5  quamvis  diversa  cultura  sit,  idem  tamen  cuiusdam  eminentissimae  naturae  est  intellectus,  quare  repetendum  breviter  a  principio  est.  <(a^>partibus  enim  ad  orationem  usque  pervenit:  nam  quod  se  prius  quid  esset  verbum,  quid  nomen  constituere  dixit,  hae  mi-  10  nimae  orationis  partes  sunt;  quod  vero  adfirmationem  et  negationem,  iam  de  conposita  ex verbis  et  nominibus  oratione  loquitur,  quae  eaedem  rursus  partes  sunt  enuntiationis,  et  post  enuntiationis  propositionem  de  oratione  loqui  proposuit,  cuius  ipsa  quoque  enuntiatio,  pars  est.  et  quoniam  (ut  dictum  est)  triplex  est  oratio,  quae  in  litteris,  quae  in  voce,  quae  in  intellectibus  est,  qui  verbum  et  nomen  definiturus  esset  eaque  significativa  positurus,  dicit  prius  quorum  significativa  sint  ipsa  verba  et  nomina  et  incohat  quidem  ab  his  nominibus  et  verbis  quae  sunt  in  voce  dicens:  sunt  ergo  ea  quae  sunt  in  voce  et  demonstrat  quorum  sint  significativa  adiciens  earum  quae  sunt  in  anima  passionum  notae.  rursus  nominum  ipsorum  verborumque  quae  in  voce  sunt  ea  verba  et  nomina  quae  essent  in  litteris  constituta  significativa  esse  declarat  dicens  et  ea  quae  scribuntur  eorum  quae  sunt  in  voce,  et  quoniam  quattuor  ista  quaedam  sunt:  litterae,  voces,  intellectus,  res,  quorum  litterae  et  voces  positione  sunt,  natura  vero  res  atque intellectus,  demonstravit  voces  non  esse  naturaliter,  sed  positione  per  hoc  quod  ait  non  easdem  esse  apud  omnes,  sed  varias,  ut  est  et  quemadmodum  nec   1  non  recte  F  7  a  ego  add.:  om.  codices  8  quod  om.  T 15.  16  or.  est  F  16  postrem.  in  om.  FE  18  ea  quae  FE  positurus  b:  positurus  est  codices  22  sign.  sint  F  eorum  SFE  30  litteras  et  voces?  31  per  om.  SFT  quod  b:  quo///F,  quo  STE I  c.  1. 43 litterae  omnibus  eaedem,  sic  nec  voces  eaedem.  ut  vero  demonstraret  intellectus  et  res  esse  naturaliter,  ait  apud  omnes  eosdem  esse  intellectus,  quorum  essent  voces  significativae,  et  rursus  apud  omnes  easdem  esse  res,  quarum  similitudines  essent  animae  passiones,  ut  est  quorum  autem  haec  primorum  notae,  scilicet  quae  sunt  in  voce,  eaedem  omnibus  passiones  animae  et  quorum  hae  similitudines,  res  etiam  eaedem,  passiones  autem  animae  dixit,  quoniam  alias  diligenter  ostensum  est  omnem  vocem  animalis  aut  ex  passione  animae  aut  propter  passionem  proferri,  similitudinem  vero  passionem  animae  vocavit,  quod  secundum  Aristotelem  nihil  aliud  intellegere  nisi  cuiuslibet  subiectae  rei  proprietatem  atque  imaginationem  in animae ipsius  reputatione suscipere, de quibus animae passionibus in libris se de anima commemorat diligentius disputasse, sed quoniam  demonstratum  est,  quoniam  et verba et nomina et oratio intellectuum  principaliter  significativa  sunt,  quidquid  est  in  voce  significationis  ab  intellectibus  venit,  quare  prius  paululum  de  intellectibus  perspiciendum  ei  qui  recte  aliquid  de  vocibus  disputabit,  ergo  quod  supra  passiones  animae  et  similitudines  vocavit,  idem  nunc  apertius  intellectum  vocat  dicens:   Est  autem,  quemadmodum  in  anima  aliquotiens  quidem  intellectus  sine  vero  vel  falso,  aliquotiens  autem  cui  iam  necesse  est  horum  alterum  inesse,  sic  etiam  in  voce;  circa  conpositionem  enim  et  divisionem  est  falsitas  veri-   1.  2  eaedem  v.  codices  2  et]  ut  intellectus esse quarum b: quorum codices 6 haec E Ar. : hae Eet  ceteri  8  animae  sunt  codices  aliud  S:  aliud  est  est  aliud  TE ait. quon.]  quomodo  E  22  perspiciendum  S:  persp.  est S2FTE  de  om.  SF  23  disputauit  S^F1TE  28  cui  Ar.  <p  cf.  ed.  I:  cum  codices  30  autem falsitas  ueritasq;   ueritas  fals. ceteri SECVNDA EDITIO tasque.  nomina  igitur  ipsa et verba consimilia  sunt  sine  conpositione  vel  divisione  intellectui, ut homo vel album, quando  non  additur  aliquid;  neque  enim  adhuc  verum  aut  falsum  est.  huius  autem  signum  hoc  est:  hircocervus  enim  significat  aliquid,  sed  nondum  verum  vel  falsum,  si  non  vel  esse  vel  non  esse  addatur,  vel  simpliciter  vel  secundum  tempus. Pietro Caramello. Keywords: interpretare, peryermeneias, Aquino, blityri – blythyri SG blithyri NT blythiri EF? (in fine suprascr. S F)”. “signatiuis” “significativis” garalus  garulus F. --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caramello” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Carando – l’implicatura conversazionale di Socrate – filosofia italiana – Luigi  Speranza (Pettinengo). Filosofo italiano. Grice: “I like Carando; a typical Italian philosopher, got his ‘laurea,’ and attends literary salons! – There is a street named after him – whereas at Oxford the most we have is a “Logic lane!” --  Ennio Carando (Pettinengo), filosofo. Studia a Torino. Si avvicina all'anti-fascismo attraverso l'influenza di Juvalta (con cui discusse la tesi di laurea) e di Martinetti. Collaborò alla Rivista di filosofia di Martinetti, dove pubblicò un saggio su Spir. Insegna a Cuneo, Modena, Savona, La Spezia. Sebbene fosse quasi completamente cieco dopo l'armistizio si diede ad organizzare formazioni partigiane in Liguria e in Piemonte (fu anche presidente del secondo CLN spezzino). Era ispettore del Raggruppamento Divisioni Garibaldi nel Cuneese, quando fu catturato in seguito ad una delazione.  Sottoposto a torture atroci, non tradì i compagni di lotta e fu trucidato con il fratello Ettore, capitano di artiglieria a cavallo in servizio permanente effetivo e capo di stato maggiore della I Divisione Garibaldi. Un filosofo socratico. La metafisica civile di un filosofo socratico. Partigiano. Dopo l'armistizio Ennio Carando, che insegnava a La Spezia presso il Liceo Classico Costa, entrò attivamente nella lotta di liberazione organizzando formazioni partigiane in Liguria e in Piemonte. A chi gli chiedeva di non avventurarsi in quella decisione così pericolosa rispondeva fermamente: "Molti dei miei allievi sono caduti: un giorno i loro genitori potrebbero rimproverarmi di non aver avuto il loro stesso coraggio". For centuries the First Alkibiades was respected as a major  dialogue in the Platonic corpus. It was considered by the Academy to be  the proper introduction to the study of Plato's dialogues, and actually  formed the core of the serious beginner's study of philosophy. Various  ancient critics have written major commentaries upon the dialogue (most  of which have subsequently been lost). In short, it was looked upon as  a most important work by those arguably in the best position to know.   In comparatively recent times the First Alkibiades has lost its  status. Some leading Platonic scholars judge it to be spurious, and as  a result it is seldom read as seriously as several other Platonic  dialogues. This thesis attempts a critical examination of the dialogue  with an eye towards deciding which judgement of it, the ancient or the  modern, ought to be accepted. I wish to take advantage of this opportunity at last to thank my  mother and father and my sister. Lea, who have always given freely of  themselves to assist me. I am also grateful to my friends, in particular  Pat Malcolmson and Stuart Bodard, who, through frequent and serious  conversations proved themselves to be true dialogic partners. Thanks  are also due to Monika Porritt for her assistance with the manuscript.   My deepest gratitude and affection extend to Leon  Craig, to whom I owe more than I am either able, or willing, to express  here. Overpowering curiosity may be aroused in a reader upon his noticing  how two apparently opposite men, Socrates and Alkibiades, are drawn to  each other's conversation and company. Such seems to be the effect  achieved by the First Alkibiades , a dialogic representation of the beginning of their association. Of all the people named in the titles of  Platonic dialogues, Alkibiades was probably the most famous. It seems  reasonable to assume that one's appreciation of the dialogue would be en¬  hanced by knowing as much about the historical Alkibiades as would the  typical educated Athenian reader. Accordingly, this examination of the  dialogue will commence by recounting the major events of Alkibiades' scareer, on the premise that such a reminder may enrich a philosophic  understanding of the First Alkibiades.  The historical Alkibiades was born to Kleinias and Deinomakhe.   Although the precise date of his birth remains unknown (cf. 121d), it was   most surely before 450 B.C. His father, Kleinias, was one of the wealthy   men in Athens, financially capable of furnishing and outfitting a trireme in wartime. Of Deinomakhe we know nothing save that she was well born.   As young children Alkibiades and his brother, Kleinias, lost their father   4   in battle and were made wards of their uncle, the renowned Penkles.   He is recognized by posterity as one of the greatest statesmen of Greece.  Athens prospered during his lengthy rule in office and flourished to such  an extent that the "Golden Age of Greece" is also called the "Age of Perikles." When Alkibiades came under his care, Perikles held the  highest office in Athens and governed almost continuously until his  death which occurred shortly after the outbreak of the Peloponnesian War.   At an early age Alkibiades was distinguished for his striking  beauty and his multi-faceted excellence. He desired to be triumphant in  all he undertook and generally was so. In games and sport with other  boys he is said to have taken a lion's share of victories. There are no  portraits of Alkibiades in existence from which one might judge his looks,  but it is believed that he served his contemporaries as the standard  artistic model for representations of the gods. No doubt partly because  of his appearance and demeanor, he strongly influenced his boyhood  companions. For example, it was rumored that Alkibiades was averse to  the flute because it prevented the player from singing, as well as dis¬  figuring his face. Refusing to take lessons, he referred to Athenian  deities as exemplars, calling upon Athena and Apollon who had shown disdain for the flute and for flautists. Within a short time flute-playing   had ceased to be regarded as a standard part of the curriculum for a gentleman's education. Alkibiades was most surely the talk of the town   among the young men and it is scarcely a wonder that tales of his youthful escapades abound.   Pursued by many lovers, he for the most part scorned such attentions. On one occasion Anytos, who was infatuated with Alkibiades, invited him to a dinner party. Instead, Alkibiades went drinking with some  of his friends. During the evening he collected his servants and bade  them interrupt Anytos' supper and remove half of the golden cups and  silver ornaments from the table. Alkibiades did not even bother to  enter. The other guests grumbled about this hybristic treatment of Anytos, who responded that on the contrary Alkibiades had been moderate  and kind in leaving half when he might have absconded with all. Alkibiades  certainly seems to have enjoyed an extraordinary sway over some of his  admirers. Alkibiades sought to enter Athenian politics as soon as he became   eligible and at about that time he first met Socrates. The First  Alkibiades is a dramatic representation of what might have happened at that fateful meeting. Fateful it was indeed, for the incalculable richness of the material it has provided for later thought as well as for the lives of the two men. By his own admission, Alkibiades felt that his   feeling shame could be occasioned only by Socrates. Though it caused him   discomfort, Alkibiades nevertheless chronically returned to occasion to save Alkibiades'   life. The generals were about to confer on him a prize for his valor but he insisted it be awarded to AlkiThis occurred near the  beginning of their friendship, at the start of the Peloponnesian War.   Later, during the Athenian defeat at the battle of Delion, Alkibiades   repaid him in kind. In the role of cavalryman, he defended Socrates who was on foot. Shortly thereafter, Alkibiades charged forward into  politicsbiades., campaigns he mounted invariably meeting with success. Elected  strategos (general) in 420 B.C. on the basis of his exploits, he was one  of the youngest ever to wield such high authority. Generally opposing Nikias and the plan for peace, Alkibiades as the leader of the democrats  allied Athens with various enemies of Sparta. His grandiose plans for  the navy rekindled Athenian ambitions for empire which had been at best  smouldering since the death of Perikles. Alkibiades' policy proposals  favored the escalation of the war, and he vocally supported Athens' con¬  tinuation of her position as the imperial power in the Mediterranean.   His first famous plan, the Athenian alliance with Argos, is recounted in  detail by Thucydides. Thucydides provides an especially vivid portrait   of Alkibiades and indicates that he was unexcelled, both in terms of diplomatic maneuvering and rhetorical ability. By arranging for the   Spartan envoys to modify their story from day to day, he managed to make Nikias look foolish in his trust of them. Although Alkibiades suffered  a temporary loss of command, his continuing rivalry with Nikias secured  him powerful influence in Athens, which was heightened by an apparent  failure of major proportions by Nikias in Thrace. Alkibiades' sustained opposition to Nikias prompted some of the  radical democrats under Hyperbolos to petition for an ostrakismos . This  kind of legal ostracism was a device intended primarily for the over¬  turning of stalemates. With a majority of the vote an ostrakismos could  be held. Citizens would then write on a potsherd the name of the one man  in all of Attika they would like to see exiled. There has been famous  ostracisms before this time, some ofwhich were almost immediately  regretted (e.g., Aristeides the Just, in 482 B.C.). At any rate,  Hyperbolos campaigned to have Alkibiades ostracized. Meanwhile, in one  of their rare moments of agreement, Alkibiades persuaded Nikias to join  with him in a counter-campaign to ensure that the percentage of votes  required to effect Alkibiades' exile would not be attained. They were so successful that the result of the ostrakismos was the exile of Hyperbolos. That was Athen's last ostrakismos. Thucydides devotes two books (arguably the most beautiful of his  History of the Peloponnesian War) to the Sicilian Expedition. This  campaign Alkibiades instigated is considered by many to be his most note¬  worthy adventure, and was certainly one of the major events of the war. Alkibiades debated with Nikias and convinced the Ekklesia (assembly) to launch the expedition. Clearly no match for Alkibiades'   rhetoric, Nikias, according to the speeches of Thucydudes, worked an   effect opposite his intentions when he warned the Athenians of the ex-  19    Rather than being daunted by the magnitude of the cost of the pense   expedition, the Athenians were eager to supply all that was necessary. This enthusiasm was undoubtedly enhanced by the recent reports of the   vast wealth of Sicily. Nikias, Alkibiades and Lamakhos were appointed   co-commanders with full power (giving them more political authority than anyone in Athen's recent history).   Immediately prior to the start of the expedition, the Hermai   throughout Athens were disfigured. The deed was a sacrilege as well as   22   a bad omen for the expedition. Enemies of Alkibiades took this oppor¬  tunity to link him with the act since he was already suspected of pro¬faning the Eleusian Mysteries and of generally having a hybristic dis¬  regard for the conventional religion. He was formally charged with  impiety. Alkibiades wanted to have his trial immediately, arguing it   would not be good to command a battle with the charge remaining undecided. His enemies, who suspected the entire military force would  take Alkibiades' side, urged that the trial be postponed so as not to  delay the awaiting fleet's scheduled departure. As a result they sailed with Alkibiades' charge untried.   When the generals arrived at Rhegion, they discovered that the   24   stories of the wealth of the place had been greatly exaggerated.   Nonetheless, Alkibiades and Lamakhos voted together against Nikias to remain and accomplish what they had set out to do. Alkibiades thought   it prudent that they first establish which of their allies actually had   been secured, and to try to persuade the rest. Most imperative, he   26   believed, was the persuasion of the Messenians. The Messenians would   not admit Alkibiades at first, so he sailed to Naxos and then to Katana.   Naxos allied with Athens readily, but it is suspected that the Katanaians had some force used upon them. Before the Athenians could address the   Messenians or the Rhegians, both of whom held important geographic   positions and were influential, a ship arrived to take Alkibiades back   to Athens. During his absence from Athens, his enemies had worked hard   to increase suspicion that he had been responsible for the sacrilege,   and now, with the populace aroused against Alkibiades, they urged he be   28   immediately recalled.   Alkibiades set sail to return in his own ship, filled with his   friends. At Thouri they escaped and went to the Peloponnese. Meanwhile the Athenians sentenced him to death. He revealed to the Spartans his   idea that Messenian support in the west was crucial to Athens. The   Spartans weren't willing to trust Alkibiades given his generally anti-   Spartan policies, and they particularly did not appreciate his past   treatment of the Spartan envoys. In a spectacular speech, as recounted   by Thucydides, Alkibiades defended himself and his conduct in leaving  30   Athens. Along with a delegation of Korinthians and Syrakusans,  Alkibiades argued for Sparta's participation in the war in Sicily. He also suggested to them that their best move against Athens was to fortify   a post at Dekelia in Attika. In short, once again Alkibiades proved   himself to be a master of diplomacy, knowing the right thing to say at   any given time, even among sworn enemies. The Spartans welcomed Alkibiades. Because of his knowledge of Athenian affairs, they acted   32   upon his advice about Dekelia (413 B.C.). Alkibiades did further  service for Sparta by inciting some Athenian allies in Asia Minor, par¬  ticularly at Khios, to revolt. He also suggested to Tissaphernes, the   Persian satrap of Asia Minor, that he ought to consider an alliance with  33   Sparta.   However, in 412 B.C. Alkibiades lost favor with the Spartans. His    loyalty was in doubt and he was suspected of having seduced the Spartan queen; she became pregnant during a long absence of the king.   Alkibiades prudently moved on, this time fleeing to the Persian court of   Tissaphernes where he served as an advisor to the   satrap. He counselled   Tissaphernes to ally neither with Sparta nor with Athens; it would be in   his best interests to let them wear each other down. Tissaphernes was   pleased with this advice and soon listened to Alkibiades on most matters,   having, it seems, complete confidence in him. Alkibiades told him to   lower the rate of pay to the Spartan navy in order to moderate their   activities and ensure proper conduct. He should also economize and   reduce expenditures. Alkibiades cautioned him against being too hurried  in his wish for a victory. Tissaphernes was so delighted with   Alkibiades' counsel that he had the most beautiful park in his domain named after him and developed into a luxury resort.   The Athenian fleet, in the meantime, was at Samos, and with it  lay the real power of Athens. The city had been brought quite low by the war, especially the Sicilian expedition, which left in the hands of  the irresolute and superstitious Nikias turned out to be disastrous for  the Athenians. Alkibiades engaged in a conspiracy to promote an oligarchic  revolution in Athens, ostensibly to ensure his own acceptance there. How¬  ever, when the revolution occurred, in 411 B.C., and the Council of Four   37   Hundred was established, Alkibiades did not associate himself with it.   He attached himself to the fleet at Samos and relayed to them the promise  of support he had exacted from Tissaphernes. The support was not forth¬  coming, however, but despite the sentiment among some of the Athenians  at Samos that Alkibiades intended to trick them, the commanders and   38   soldiers were confident that Athens could never rise without Alkibiades.  They appointed him general and re-instated him as the chief-in-command  of the Athenian Navy. He sent a message to the oligarchic Council of  Four Hundred in Athens telling them he would support a democratic boule  of 5,000 but that the Four Hundred would have to disband. There was no  immediate response.   In the meantime, with comparatively few men and ships, Alkibiades   managed to deflect the Spartans from their plan to form an alliance with   the Persian fleet. Alkibiades became an increasingly popular general   among the men at Samos, and with his rhetorical abilities he dissuaded   them from adopting policies that would likely have proven disastrous.   He insisted they be more moderate, for example, in their treatment of   unfriendly ambassadors, such as those from Athens. The Council of Four   Hundred sent an emissary to Samos, but Alkibiades was firm in his refusal to support them. This pleased the democrats, and since most of the   oligarchs were by this time split into several factions, the rule of the   40   Four Hundred fragmented of its own accord. Alkibiades sent advice from Samos as to the form of government the 5,000 should adopt, but he still   42   did not consider it the proper time for his own return.   During this time Alkibiades and the Athenian fleet gained major   victories, defeating the Spartans at Kynossema, at Abydos (411 B.C.), and   43    at Kyzikos (410 B.C.)    Seeking to regain some control, Tissaphernes    had Alkibiades arrested on one occasion when he approached in a single   ship. It was a diplomatic visit, not a battle, yet Tissaphernes had him   imprisoned. Within a month, however, Alkibiades and his men escaped. In   order to ensure that Tissaphernes would live to regret the arrest,   Alkibiades caused a story to be widely circulated to the effect that   Tissaphernes had arranged the escape. Suffice it to say the Great King of Persia was not pleased. Alkibiades also recovered Kalkhedonia and Byzantion for the Athenians. After gathering money from various sources and assuring himself   of the security of Athenian control of the Hellespont, he at last   decided to return to Athens. It had been an absence of seven years.   46   He was met with an enthusiastic reception in the Peiraeus. All charges   against him were dropped and the prevailing sentiment among the Athenians   was that had they only trusted in his leadership, they would still be the great empire they had been. With the hope that he would be able to  restore to them some of their former glory, they appointed Alkibiades  general with full powers, a most extraordinary command. He gained  further support from the Athenians when he led the procession to Eleusis  (the very mysteries of which he had earlier been suspected of blaspheming)  on the overland route. Several years earlier, through fear of the  Spartans at Dekelia, the procession had broken tradition and gone by sea. This restoration of tradition ensured Alkibiades political support from the more pious sector of the public who had been hesitant about  48   him. He had so consolidated his political support by this time that   such ever persons as opposed him wouldn't have dared to publicly declare   49   their opinions.   Alkibiades led a number of successful expeditions over the next   year and the Athenians were elated with his command. He had never failed   in a military undertaking and the men in his fleet came to regard themselves a higher class of soldier. However, an occasion arose during  naval actions near Notion when Alkibiades had to leave the major part of  his fleet under the command of another captain while he sailed to a near¬  by island to levy funds. He left instructions not to engage the enemy  under any circumstances, but during his absence a battle was fought none¬  theless. Alkibiades hurriedly returned but arrived too late to salvage  victory. Many men and ships were lost to the Spartans. Such was his   habit of victory that the people of Athens suspected that he must have wanted to lose. They once again revoked his citizenship.   Alkibiades left Athens for the last time in 406 B.C. and retired   to a castle he had built long before. Despite his complete loss of   civic status with the Athenians, his concern for them did not cease. In   his last attempt to assist Athens against the Spartan fleet under Lysander,   Alkibiades made a special journey at his own expense to advise the new   strategoi . He cautioned them that what remained of the Athenian fleet   was moored at a very inconvenient place, and that the men should be held   in tighter rein given the proximity of Lysander's ships. They disregarded   his advice with utter contempt (only to regret it upon their almost   52   immediate defeat) and Alkibiades returned to his private retreat.  There he stayed in quiet luxury until assassinated one night in 404 B.C. The participants in the First Alkibiades , Socrates and Alkibiades,  seem at first blush to be thoroughly contrasting. To start with appear¬  ances, the physical difference between the two men who meet this day  could hardly be more extreme. Alkibiades, famous throughout Greece for  his beauty, is face to face with Socrates who is notoriously ugly. They  are each represented in a dramatic work of the period. Aristophanes   refers to Alkibiades as a young lion; he is said to have described   54   Socrates as a "stalking pelican." Alkibiades is so handsome that his   figure and face served as a model for sculptures of Olympian gods on high   temple friezes. Socrates is referred to as being very like the popular   representation of siloni and satyrs; the closest he attains to Olympian   heights is Aristophanes' depiction of him hanging in a basket from the   55   rafters of an old house.   Pre-eminent among citizens for his wealth and his family, Alkibiades is speaking with a man of non-descript lineage and widely  advertised poverty. Alkibiades, related to a family of great men, is  the son of Kleinias and Deinomakhe, both of royal lineage. Socrates, who  is the son of Sophroniskos the stone-mason and Phainarete the midwife,  does not seem to have such a spectacular ancestry. Even as a boy Alkibiades was famous for his desire to win and his  ambition for power. Despite being fearful of it, people are familiar with  political ambition and so believe they understand it. To them, Alkibiades  seemed the paragon of the political man. But Socrates was more of a  mystery to the typical Athenian. He seemed to have no concern with im¬  proving his political or economic status. Rather, he seemed preoccupied  to the point of perversity with something he called 'philosophy, 1  literally 'love of wisdom.' Alkibiades sought political office as soon as he became of age. He felt certain that in politics he could rise above  all Athenians past and present. His combined political and military  success made it possible for him to be the youngest general ever elected.  Socrates, by contrast, said that he was never moved to seek office; he  served only when he was required (by legal appointment). In his lifetime  Socrates was considered to have been insufficiently concerned with his  fellows' opinions about him, whereas from his childhood people found  Alkibiades' attention to the demos remarkable - in terms either of his  quickness at following their cue, or of his setting the trend.   Both men were famous for their speaking ability, but even in this  they contrast dramatically. The effects of their speech were different.  Alkibiades could persuade peop  le, and so nations, to adopt his political  proposals, even when he had been regarded as an enemy. Socrates' effect  was far less widespread. Indeed, for most people acquainted with it,  Socratic speech was suspect. People were moved by Alkibiades' rhetoric  despite their knowing that that was his precise intention. It was  Socrates, however, who was accused of making the weaker argument defeat  the stronger, though he explicitly renounced such intentions. Alkibiades'  long moving speeches persuaded many large assemblies. Socrates' style of  question and answer was not nearly so popular, and convinced fewer men.   Socrates is reputed to have never been drunk, regardless of how  much he had imbibed. This contrasts with the (for the most part)  notoriously indulgent life of Alkibiades. He remains famous to this day  for several of his drunken escapades, one of which is depicted by Plato  in a famous dialogue. Though both men were courageous and competent in war, Socrates    never went to battle unless called upon, and distinguished himself only during general retreats. Alkibiades was so eager for war and all its  attendant glories that he even argued in the ekklesia for an Athenian  escalation of the war. He was principally responsible for the initiation  of the Sicilian expedition and was famous for his bravery in wanting to  go ever further forward in battle. It was, instead, battles in speech  for which Socrates seemed eager; perhaps it is a less easily observed  brand of courage which is demanded for advance and retreat in such clashes.   Both men could accommodate their lifestyles to fit with the circum¬  stances in which they found themselves, but as these were decidedly dif¬  ferent, so too were their manners of adaptation. Socrates remained ex¬  clusively in Athens except when accompanying his fellow Athenians on one  or two foreign wars. Alkibiades travelled from city to city, and seems  to have adjusted well. He got on so remarkably well at the Persian court  that the Persians thought he was one of them; and at Sparta they could not  believe the stories of his love of luxury. But, despite his outward con¬  formity with all major Athenian conventions, Socrates was st  ill con¬  sidered odd even in his home city.   In a more speculative vein, one might observe that neither  Alkibiades nor Socrates are restricted because of their common Athenian  citizenship, but again in quite different senses. Socrates, willing (and  eager) to converse with, educate and improve citizen and non-citizen  alike, rose above the polis to dispense with his need for it. Alkibiades,  it seems, could not do without political or public support (as Socrates  seems to have), but he too did not need Athens in particular. He could  move to any polis and would be recognized as an asset to any community.  Socrates didn't receive such recognition, but he did not need it. Still,    Alkibiades, like Socrates, retained an allegiance to Athens until his death and continued to perform great deeds in her service.   Despite their outwardly conventional piety (e.g., regular  observance of religious festivals), Alkibiades and Socrates were both  formally charged with impiety, but the manner of their alleged violations  was different. Alkibiades was suspected of careless blasphemy and con¬  temptuous disrespect, of profaning the highest of the city's religious  Mysteries; Socrates was charged with worshipping other deities than those  allowed, but was suspected of atheism. Though both men were convicted  and sentenced to death, Alkibiades refused to present himself for trial  and so was sentenced in absentia . Socrates, as we know, conducted his  own defense, and, however justly or unjustly, was legally convicted and  condemned. Alkibiades escaped when he had the chance and sought refuge  in Sparta; Socrates refused to take advantage of a fully arranged escape  from his cell in Athens. Alkibiades, a comparatively young man, lived to  see his sentence subsequently withdrawn. Socrates seems to have done his best not to have his sentence reduced. His rela¬  tionship with Athens had been quite constant. Old charges were easily  brought to bear on new ones, for the Athenians had come to entertain a  relatively stable view of him. Alkibiades suffered many reverses of  status with the Athenians.   Surprised from his sleep, Alkibiades met his death fighting with  assassins, surrounded by his enemies. After preparing to drink the hem¬  lock, Socrates died peacefully, surrounded by his friends.   It seems likely that Plato expects these contrasts to be tacitly  in the mind of the reader of the First Alkibiades . They heighten in  various ways the excitement of this dialogue between two men whom every  Athenian of their day would have seen, and known at least by reputation. Within a generation of the supposed time of the dialogue, moreover, each  of the participants would be regarded with utmost partiality. It is un¬  likely that even the most politically apathetic citizen would be neutral  or utterly indifferent concerning either man. Not only would every  Athenian (and many foreigners) know each of them, most Athenians would  have strong feelings of either hatred or love for each man. The extra¬  ordinary fascination of these men makes Plato's First Alkibiades all the  more inviting as a natural point at which to begin a study of political  philosophy.   In the First Alkibiades , Socrates and Alkibiades, regarded by  posterity as respective paragons of the philosophic life and the political  life, are engaged in conversation together. As the dialogue commences,  Alkibiades in particular is uncertain as to their relationship with each  other. Especially interesting, however, is their implicit agreement that  these matters can be clarified through their speaking with one another.   The reader might first wonder why they even bother with each other; and  further wonder why, if they are properly to be depicted together at all,  it should be in conversation. They could be shown in a variety of  situations. People often settle their differences by fighting, a  challenge to a contest, or a public debate of some kind. Alkibiades and  Socrates converse in private. The man identified with power and the man  identified with knowledge have their showdown on the plain of speech.   The Platonic dialogue form, as will hopefully be shown in the  commentary, is well suited for expressing political philosophy in that  it allows precisely this confrontation. A Platonic dialogue is different  from a treatise in its inclusion of drama. It is not a straightforward  explication for it has particular characters who are interacting in specific ways. It is words plus action, or speech plus deed. In a  larger sense, then, dialogue implicitly depicts the relation between  speech and deed or theory and practice, philosophy and politics, and re¬  flecting on its form allows the reader to explore these matters.   In addition, wondering about the particulars of Socratic speech  may shed light upon how theory relates to practice. As one attempts to  discover why Socrates said what he did in the circumstances in which he  did, one becomes aware of the connections between speech and action, and  philosophy and politics. One is also awakened to the important position  of speech as intermediary between thought and action. Speech is unlike  action as has just been indicated. But speech is not like thought either.  It may, for instance, have immediate consequences in action and thus  demand more rigorous control. Philosophy might stand in relation to  thought as politics does to action; understanding 'political philosophy'  then would involve the complex connection between thought and speech, and  speech and action; in other words, the subject matter appropriate to  political philosophy embraces the human condition. The Platonic dialogue  seems to be in the middle ground by way of its form, and it is up to the  curious reader to determine what lies behind the speech, on both the side  of thought and action. Hopefully, in examining the First Alkibiades these  general observations will be made more concrete. A good reader will take  special care to observe the actions as well as the arguments of this  dialogue between the seeker of knowledge and the pursuer of power.   Traditionally, man's ability to reason has been considered the  essential ground for his elevated status in the animal kingdom. Through  reason, both knowledge and power are so combined as to virtually place  man on an altogether higher plane of existence. Man's reason allows him to control beasts physically much stronger than he; moreover, herds outnumber man, yet he rules them. Both knowledge and power have long attracted men recognizably   superior in natural gifts. Traditionally, the highest choice a man could   57   confront was that between the contemplative and the active life. In  order to understand this as the decision par excellence , one must compre¬  hend the interconnectivity between knowledge and power as ends men seek.  One must also try to ascertain the essential features of the choice. For  example, power (conventionally understood) without knowledge accomplishes  little even for the mighty. As Thrasymakhos was reminded, without  knowledge the efforts of the strong would chance to work harm upon them¬  selves as easily as not ( Republic). The very structure of the dialogue suggests that the reader  attentive to dramatic detail may learn more about the relation between  power and knowledge and their respective claims to rule. Alkibiades  and Socrates both present arguments, and the very dynamics of the  conversation (e.g., who rules in the dialogue, what means he uses whereby  to secure rule, the development of the relationship between the ruler  and the ruled) promise to provide material of interest to this issue.   B. Knowledge, Power and their Connection through Language   As this commentary hopes to show, the problem of the human use of  language pervades the Platonic dialogue known as the First Alkibiades.  Its ubiquity may indicate that one's ability to appreciate the signifi¬  cance of speech provides an important measure of one's understanding of  the dialogue. Perhaps the point can be most effectively conveyed by  simply indicating a few of the many kinds of references to speech with  which it is replete. Socrates speaks directly to Alkibiades in complete privacy, but he employs numerous conversational devices to construct  circumstances other than that in which they find themselves. For example,  Alkibiades is to pretend to answer to a god; Socrates feigns a dialogue  with a Persian queen; and at one point the two imagine themselves in a  discussion with each other in full view of the Athenian ekklesia .   Socrates stresses that he never spoke to Alkibiades before, but that he  will now speak at length. And Socrates emphasizes that he wants to be  certain Alkibiades will listen until he finishes saying what he must say.  In the course of speaking, Socrates employs both short dialogue and long  monologue. Various influences on one's speaking are mentioned, including  mysterious powers that prevent speech and certain matters that inherently  demand to be spoken about. The two men discuss the difference between  asking and answering, talking and listening. They refer to speech about  music (among other arts), speech about number, and speech about letters.  They are importantly concerned with public speaking, implicitly with  rhetoric in all its forms. They reflect upon what an advisor to a city  can speak persuasively about. They discuss the difference between per¬  suading one and many. The two men refer to many differences germane to  speaking, such as private and public speech, and conspiratorial and  dangerous speech. Fables, poems and various other pictures in language  are both directly employed by Socrates and the subject of more general  discussion. Much of the argument centers on Alkibiades' understanding  of what the words mean and on the implicit presence of values embedded  in the language. They also spend much time discussing, in terms of  rhetorical effect, the tailoring of comments to situations; at one point  Socrates indicates he would not even name Alkibiades' condition if it  weren't for the fact that they are completely alone. They refer to levels of knowledge among the audience and the importance of this factor  in effectively persuading one or many. And in a larger sense already  alluded to, reflection on Plato's use of the dialogue form itself may also  reveal features of language and aspects of its relation to action.   Socrates seems intent upon increasing Alkibiades' awareness of the many  dimensions to the problem of understanding the role of language in the  life of man. Thus the reader of the First Alkibiades is invited to share  as well in this education about the primary means of education: speech,  that essential human power. Perhaps it may be granted, on the basis of the above, that the  general issue of language is at least a persistent theme in the dialogue.  Once that is recognized it becomes much more obvious that speech is  connected both to power, or the realm of action, and knowledge, the realm  of thought. Speech and power, in the politically relevant sense, are  thoroughly interwoven. The topics of freedom of speech and censorship  are of paramount concern to all regimes, at times forming part of the  very foundation of the polity. This is the most obvious connection: who  is to have the right to speak about what, and who in turn is to have the  power to decide this matter. Another aspect of speech which is crucial  politically seems to be often overlooked and that is the expression of  power in commands, instruction and explanation. The more subtle side of  this political use of speech is that of education. Maybe not all political  men do understand education to be of primary importance, but that clearly  surfaces as one of the things which Alkibiades learns in this dialogue.   At the very least, the politically ambitious man seeks control  over the education of others in order to secure his rule and make his  political achievements lasting. With respect to education, the skilled user of language has more power than someone who must depend solely on  actions in this regard. Circumstances which are actually unique may be  endlessly reproduced and reconsidered. By using speech to teach, the  speaker gains a power over the listener that might not be available had  he need to rely upon actions. Not only can he tell of things that cannot  be seen (feelings, thoughts and the like), but he can invent stories  about what does not even exist.   Myths and fables are generally recognized to have pedagogic  value, and in most societies form an essential part of the core set of  beliefs that hold the people together. Homer, Shakespeare and the Bible  are probably the most universally recognized examples influencing western  society. To mold and shape the opinions of men through fables, lies and  carefully chosen truths is, in effect, to control them. Such use of  language can be considered a weapon also, propaganda providing a most  obvious example. Hobbes, for instance, recognizes these qualities of  speech and labels them 'abuses.' Most of the abuse appears to be consti¬  tuted by the deception or injury caused another; Hobbes all the while   58   demonstrates himself to be master of the insult. Summing up these  observations, one notices that speech plays a crucial part in the realm  of power, especially in terms of education, a paramount political activity.   The connection of speech to knowledge, the realm of thought is much  less in need of comment. The above discussion of education points to the  underlying concern about knowledge. Various subtleties in language (two  of which - metaphor and irony - will be presently introduced), however,  make it more than the instrument through which knowledge is gained, but  actually may serve to increase a person's interest in attaining knowledge;  that is, they make the end, knowledge, more attractive. A most interesting understanding of speech emerges when one  abstracts somewhat from actual power and actual knowledge to look at the  relationship between the realms of action and thought. Action and  thought, epitomized by politics and philosophy, both require speech if  they are to interact. Politics in a sense affects thought, and thought  should guide action. Both of these exchanges are normally effected  through speech and may be said to describe the bounds of the subject area  of political philosophy. Political philosophy deals with what men do and  think (thus concerning itself with metaphysics, say, to the extent to  which metaphysical considerations affect man). Political philosophy may  be understood as philosophy about politics, or philosophy that is politic.  In this latter sense, speech via the expression of philosophy in a politic  manner, suggests itself to be an essential aspect to the connection be¬  tween these two human realms - thought and action. The reader of the  First Alkibiades should be alert to the ways in which language pertains  to the relationship between Socrates and Alkibiades. For example, their  concern for each other and promise to continue conversing might shed some  light on the general requirements and considerations power and knowledge  share. As has already been indicated, considerable attention is paid to  various characteristics of speech in the discussion between the two men.   Rhetoricians, politicians, philosophers and poets, to mention but  a few of those whose activity proceeds primarily through speech, are  aware of the powers of language and make more or less subtle use of  various modes of speech. The First Alkibiades teaches about language and  effectively employs many linguistic devices. Called for at the outset  is some introductory mention of a few aspects of language, in order that  their use in the dialogue may be more readily reflected upon. Metaphor, a most important example, is a complex and exciting  feature of language. A fresh and vivid metaphor is a most effective  influence on the future perceptions of those listening. It will often  form a lasting impression. Surely a majority of readers are familiar  with the experience of being unable to disregard an interpretation of  something illuminated by an especially bright metaphor. Many people  have probably learned to appreciate the surging power of language by  having themselves become helplessly swamped in a sea of metaphor. There are two aspects to the power of attracting attention through  language that a master of metaphor, especially, can summon. Both indicate  a rational component to language, but both include many more features of  reason than mere logical deduction. The first is the power that arises  when someone can spark connections between apparently unrelated parts of  the world. This is an interesting and exciting feature of man's rational  capability, deriving its charm partly from the natural delight people  apparently take in having connections drawn between seemingly distinct  objects.   The other way in which he can enthrall an audience is through  harvesting some of the vast potential for metaphors that exist in the  natural fertility of any language. There are metaphors in everyday  speech that remain unrecognized (are forgotten) for so long that dis¬  belief is experienced when their metaphoric nature is revealed. Men's  opinions about much of the world is influenced by metaphor. A most important set of examples involve the manner in which the invisible is  spoken of almost exclusively through metaphoric language based on the  visible. This curious feature of man's rationality is frequently ex¬  plored by Plato. The most famous example is probably Socrates's description of education as an ascent out of a cave ( Republic),  but another perhaps no less important example occurs in the First  Alkibiades . Not only is the invisible metaphorically explained via some¬  thing visible, but the metaphor is that of the organ of sight itself  (cf. 132c-133c, where the soul and the eye are discussed as analogues)!   The general attractiveness of metaphor also demonstrates that man  is essentially a creature with speech. That both man and language must  be understood in order for a philosophic explanation to be given of  either, is indicated whenever one tries to account for the natural  delight almost all people take in being shown new secrets of meaning, in  discovering the richness of their own tongue, and in the reworking of  images - from puns and complex word games to simple metaphors and  idiomatic expressions. Man's rationality is bound up with language, and  rationality may not be exclusively or even primarily logic; it is importantly metaphor. Subtle use is often made of the captivating power of various forms  of expression. One of the most alluring yet bedevilling of these is  irony. Irony never unambiguously reveals itself but suggests mystery  and disguise. This enhances its own attractiveness and simultaneously  increases the charm of the subject on which irony is played; there seems  little doubt that Socrates and Plato were able to make effective use of  this feature for they are traditionally regarded as the past masters of  it. Eluding definition, irony seems not amenable to a simple classifi-  catory scheme. It can happen in actions as well as speeches, in drama as  well as actual life. It can occur in an infinite variety of situations. One cannot be told how exactly to look for irony; it cannot be reduced to rules. But to discover its presence on one's own is thoroughly-  exciting (though perhaps biting). The possibility of double ironies increases the anxiety attending ironic speech as well as its attractive¬  ness. The merest suggestion of irony can upset an otherwise tranquil  moment of understanding. Probably all listeners of ironic speech or  witnesses of dramatic irony have experienced the apprehensiveness that  follows such an overturned expectation of simplicity.   It appears to be in the nature of irony that knowledge of its  presence in no way diminishes its seductiveness but rather enhances its  effectiveness. Once it is discovered, it has taken hold. This charming  feature of Socrates' powerful speech, his irony, is acknowledged by Alkibiades even as he recognizes himself to be its principal target (Symposium 215a-216e). The abundance of irony in the First Alkibiades makes it difficult  for any passage to be interpreted with certitude. It is likely that the  following commentary would be significantly altered upon the recognition  of a yet subtler, more ironic, teaching in the dialogue. It is thus up  to each individual, in the long run, to make a judgement upon the dialogue,  or the interpretation of the dialogue; he must be wary of and come to  recognize the irony on his own.  The Superior Man is a Problem for Political Philosophy   One mark of a great man is the power of making  lasting impressions upon people he meets. Another  is so to have handled matters during his life that  the course of after events is continuously affected  by what he did.   Winston Churchill  Great Contemporaries   It may be provisionally suggested that both Socrates and Alkibiades  are superior men, attracted respectively to knowledge and power. Certainly a surface reading of the First Alkibiades would support such a  judgement. One could probably learn much about the character of the  political man and the philosophic man by simply observing Socrates and  Alkibiades. It stands to reason that a wisely crafted dialogue repre¬  senting a discussion between them would reveal to the careful, reflective  reader deeper insight into knowledge, power and the lives of those  dedicated to each.   Socrates confesses that he is drawn to Alkibiades because of the   youth's unquenchable ambition for power. Socrates tells Alkibiades that   59   the way to realizing his great aspirations is through the philosopher.  Accordingly Socrates proceeds to teach Alkibiades that the acquisition of  knowledge is necessary in order that his will to power be fulfilled. By  the end of the dialogue, Socrates' words have managed to secure the  desired response from the man to whom he is attracted: Alkibiades in a  sense redirects his eros toward Socrates. This sketch, though superficial, bespeaks the dialogue's promise to unravel some of the mysterious  connections between knowledge and power as these phenomena are made  incarnate in its two exceptional participants.   The significance of the superior man to political philosophy has,  for the most part, been overlooked in the last century or so, the exceptions being rather notorious given their supposed relation to the  largest political event of the Twentieth Century.^ in contemporary  analysis, the importance of great men, even in the military, has tended  to be explained away rather than understood. This trend may be partly  explained by the egalitarian views of the dominant academic observers of  political things.   As the problem was traditionally understood, the superior man tends to find himself in an uneasy relationship with the city. The drive,  the erotic ambition distinguishes the superior man from most others, and  in that ambition is constituted their real threat to the polity as well  as their real value. No man who observed a war could persist in the  belief that all citizens have a more or less equal effect on the outcome,  on history. A certain kind of superiority becomes readily apparent in  battle and the bestowal of public honors acknowledges its political  value. Men of such manly virtue are of utmost necessity to all polities,  at least in times of extremes. Moreover, political philosophers have  heretofore recognized that there are other kinds of battlefields upon  which superior men exercise their evident excellence.   It is, however, during times of peace that the community ex¬  periences fear about containing the lions,^ recognizing that they  constitute an internal threat to the regime. Thus, during times of peace  a crucial test of the polity is made. A polity's ability to find a  fitting place for its noble men speaks for the nobility of the polity.   In many communities, the best youths turn to narrow specialization in  particularized scientific disciplines, or to legal and academic sophistry,  to achieve distinction. It is not clear whether this is due to the  regime's practicing a form of politics that attracts but then debases or  corrupts the better sort of youth, or because the best men find its  politics repugnant and so redirect their ambitions toward these other  pursuits. In any event, the situation in such communities is a far cry  from that of the city which knows how to rear the lion cubs. Not surprisingly, democracy has always had difficulty with the  superior men. Ironically, today the recognition of the best men in  society arises most frequently among those far from power or the desire to enter politics. Those who hold office in modern democracies are not  able to uphold the radically egalitarian premises of the regime and still  consistently acknowledge the superiority of some men. This has reper¬  cussions at the base of the polity: the democratic election. Those bent  on holding public office are involved in a dilemma, a man's claim to  office is that he possesses some sort of expertise, yet he cannot main¬  tain a platform of simple superiority in an egalitarian regime. Many  aspirants are required to seek election on the basis of some feature of  their character (such as their expenditure of effort) instead of their  skills, and such criteria are often in an ambiguous relation to the  duties of office.   The problem is yet more far-reaching. Those regimes committed to  the enforced equalization of the unequal incongruously point with pride  to the exceptional individuals in the history of their polities. A  standard justification for communist regimes, for example, is to refer  to the distinguished figures in the arts and sports of their nation.  Implicitly the traditional view has been retained: great men are one of  the measures of a great polity.   A less immediate but more profound problem for political philosophy  is posed by the very concept of the best man. Three aspects of this  problem shall be raised, the last two being more fully discussed as they  arise in commenting upon the First Alkibiades .   All who have given the matter some thought will presumably agree  that education is, in part at least, a political concern, and that the  proper nurture of youth is a problem for political philosophy. According¬  ly, an appropriate beginning is the consideration of the ends of nurture.  The question of toward what goal the nurture of youth is to aim is a question bound up with the views of what the best men are like. This is  inevitably the perspective from which concerned parents adopt their own  education policies. Since the young are nurtured in one manner or  another regardless, all care given to the choice of nurtures is justified   It must be remembered that children will adopt models of behavior  regardless of whether their parents have guided their choice. As the  tradition reminds is, the hero is a prominent, universal feature in the  nurture of children. Precisely for that reason great care ought to be  taken in the formation and presentation (or representation) of heroic  men and deeds. The heroes of history, of literature and of theater  presumably have no slight impact on the character of youth. For instance  canons of honesty are suggested by the historical account of young  Lincoln, codes of valor have been established by Akhilleus, and young  men's opinions about both partnerships and self-reliance are being in¬  fluenced by the Western Cowboy.   The religious reverence with which many young observe the every  word and deed of their idols establishes "the hero" as a problem of  considerable significance. One could argue that the hero should be long  dead. His less than noble human characteristics can be excised from the  public memory and his deeds suitably embellished (cf. Republic 391d.6).  Being dead, the possibility of his becoming decadent or otherwise evil  is eliminated. Although attractive, this suggestion presents a rather  large problem, especially in a society in which there is any timocratic  element. The honors bestowed on living men may be precisely what trans¬  forms them into the "flesh and blood" heroes of the young. Should honors  not be delivered until after a man's death, however (when he cannot turn  to drink, women or gambling), it may dampen many timocrats' aspirations. If the superior man is not recognized during his lifetime, he must at  least obtain some assurance of a lasting honor after his death. This  might be difficult to do, if he is aware of how quickly and completely  the opinions of those bestowing honor, the demos , shift. Since this  turned out to assume great importance historically for Alkibiades, the  reader of the First Alkibiades might be advised to pay attention to what  Socrates teaches the young man about power and glory. The role of heroes extends beyond their pedagogic function of  supplying models to guide the ambitions of youth. Heroes contribute to  the pride of a family, help secure the glory of a nation and provide a  tie to the ancestral. Recognition of this should suffice to indicate  that the problem of superior men is a significant one for political  philosophy.   Presumably any political theory requires some account of the  nature of man. It may already be clear at this point that a compre¬  hensive philosophic account of man's nature must include a consideration  of the superior man. Traditionally, in fact, the concept of the best  man has been deemed central to an adequate understanding. Many people  who would readily grant the importance of the problem of understanding  human nature consider it to be a sort of statistical norm. That position  does not concede the necessity of looking toward the best man. For the  immediate purpose of analyzing this dialogue, it seems sufficient that  the question be reopened, which may be accomplished simply by indicating  that there are problems with seeing nature as "the normal."   Without any understanding of the best man (even one who is not  actualized), comparison between men would be largely meaningless and  virtually any observation of, or statement about persons would be ambiguous since they involve terms which imply comparing men on some  standard. There would be no consistent way to evaluate any deviation  whatsoever from the normal. For example, sometimes it is better to be  fierce, sometimes it is not. If one describes a man as being more  capable of fierceness than most men one would not know how to evaluate  him relative to those men, without more information. It is necessary  to have an understanding of the importance of those matters in which it  is better to be fierce, to the best man. If it is important for the  best man to be capable of being very fierce, then, and only then, it  seems, could one judge a man who is able to be fierce at times to be a  better man with respect to that characteristic. Any meaningful  description of him, then depends on the view of the best man. This is  implicit in the common sense understanding anyway. The statement "X is  more capable of fierceness than most men,' prompts an implicit qualitative  judgement in most men's minds on the basis of their views of the best man.  The statement "X has darker hair than most men," does not, precisely  because most understandings of the best man do not specify hair color. A concept of the best is necessary if a man is to be able to  evaluate his position vis a vis others and discern with what he must take  pains with himself. The superior man understands this. Aiming to  actualize his potential to the fullest in the direction of his ideal,  he obviously does not compete with the norm. He strives with the best  of men or even with the gods. Whenever he sees two alternatives, he  immediately wonders which is best. The superior youth comes to learn  that a central question of his life is the question of with whom is his  contest.   Having raised this second aspect of the philosophic concern about the best man, one is led quite naturally to a related problem he poses for  political philosophy with respect to what has been a perennial concern of  the tradition, indeed perhaps its guiding question, namely: "What is the  best regime?" The consideration of the best regime may be in light of a concern  for the "whole" in some sense, or for the citizen or for the "whole" in  some sense, or from some other standpoint. Apart from the problem of how  to understand "the whole," a large philosophic question remains regarding  whether the best for a city is compatible with the best for a man. The  notion of the superior man provides a guide of some sort (as the 'norm'  does not) to the answer regarding what is best for a man; the view of the  best regime suggests (as the 'norm' does not) what is good for a city.   But what must one do if the two conflict? As has become apparent, the  complex question of the priority of the individual or the social order is  raised by the very presence of the superior man in a city. The dialogue  at various points tacitly prompts the reader to consider some of the  intricacies of this issue.   Upon considering what is best for man generally, for a man in  particular, and for a city, one notices that most people have opinions  about these things, and not all of them act upon these opinions. One  eventually confronts a prior distinction, the difference between doing  what one thinks is good, knowing what is good, and doing what one knows  is good. While it is not entirely accurate to designate them respectively  as power, knowledge, and knowledge with power, these terms suggest how  the problems mentioned above are carried through the dialogue in terms of  the concern for the superior man.   Provisionally, one may suggest that Alkibiades provides a classic example of the superior man. In a sense not obvious to the average   Athenian, so too is Socrates. They both pose distinct political problems,   and they present interesting philosophic puzzles as well. But there is   another reason, no less compelling for being less apparent, that recommends   the study of the First Alkibiades . Since antiquity the First Alkibiades   has been subtitled, "On the Nature of Man." At first blush this subtitle   63   is not as fitting as the subtitles of some other aporetic dialogues.   The question "What is the nature of Man?" is neither explicitly asked nor   directly addressed by either Socrates or Alkibiades, yet the reader is   driven to consider it. One might immediately wonder why " Alkibiades " is   the title of a dialogue on the nature of man, and why Socrates chooses to   64   talk about man as such with Alkibiades. Perhaps Alkibiades is par¬  ticularly representative, or especially revealing about man. Perhaps he  is unique or perhaps he is inordinately in need of such a discourse. One  must also try to understand Socrates' purpose, comprehend the significance  of any of Alkibiades' limitations, and come to an understanding of what the  character of his eros is (e.g., is it directed toward power, glory, or  is it just a great eros that is yet to be directed). In the course of  grappling with such matters, one also confronts one's own advantages and  liabilities for the crucial and demanding role of dialogic partner.   Perhaps the very things a reader fastens his attentions upon are  indicative of something essential about his own particular nature. If  the reader is to come to a decision as to whether the subtitle affixed  in antiquity to the dialogue is indeed appropriate, these matters must  be judged in the course of considering the general question of whether  the dialogue is indeed about "the nature of man." The mystery and challenge of a dialogue may serve to enhance its attractiveness. One of the most intriguing philosophic problems of the  First Alkibiades may well be the question of whether it is in fact about  man's nature. With a slight twist, the reader is faced with another  example of Socrates' revision of Meno's paradox ( Meno 80e). Sometimes  when a reader finds what he is looking for, discovering something he was  hoping to discover, it is only because his narrowness of attention or  interest prevented him from seeing conflicting material, and because he  expended his efforts on making what he saw conform to his wishes. The  good reader of a dialogue will, as a rule, take great care to avoid such  myopia. In order to find out whether the dialogue is primarily about the  nature of man (and if so, what is teaches about the nature of man), the  prudent reader will caution himself against begging the question, so to  speak. If one sets out ignorant of what the nature of man is, one may  have trouble recognizing it when one finds it. Conversely, to complete  the paradox, to ask how and where to find it (in other words, inquiring  as to how one will recognize it), implies that one ought already know  what to expect from knowledge of it. This could be problematic, for  the inquiry may be severely affected by a preconceived opinion about  which question will be answered by it. "Philosophical prejudices"  should have no part in the search for the nature of man.   This is a difficulty not faced to the same extent by other aporetic   dialogues which contain a question of the form "What is _?" Once   this first question is articulated, the normal way of pursuing the answer  is open to the reader. He may proceed naturally from conventional opinion,  say, and constantly refine his views according to what he notices. It ap¬  pears, however, that the reader of the First Alkibiades cannot be certain    that it will address the nature of man, and the dialogue doesn't seem to directly commence with a consideration of conventional opinions. Most  readers of the dialogue know what a man is insofar as they could point to  one (111b,ff.), but very few know what man is. Perhaps as the dialogue  unfolds the careful reader will be educated to a point beyond being  ignorant of how to look for something that he mightn't recognize even  when he found it. By this puzzle the reader is drawn more deeply into  the adventure of touching on the mysteries of his own nature. To borrow  a metaphor from a man who likely knew more about Socrates and Alkibiades  than has anyone else before or since, the same spirit of adventure  permeates the quest for knowledge of man as characterizes sailing  through perilous unknown waters on a tiny, frail craft, attempting to  avoid perishing on the rocks. One can only begin with what one knows,  such as some rudimentary views about navigation technique and more or  less correct opinions about one's home port. Upon coming to appreciate  the difficulties of knowing, fully and honestly, one's own nature, one  realizes how treacherous is the journey. In all likelihood one will  either be swamped, or continue to sail forever, or cling to a rock  under the illusion of having reached the far shore.   This thesis is an introduction to the First Alkibiades . Through  their discussion, and more importantly through his own participation in  their discussion, Socrates and Alkibiades reveal to the reader something  about the nature of man. Both the question of man's nature and the  problem of the superior man have been neglected in recent political  theory; especially the connection between them has been overlooked. To  state the thesis of this essay with only slight exaggeration: an under¬  standing of politics - great and small - is impossible without knowledge  of man, and knowledge of man is impossible without knowledge of the best of men. This thesis, investigating the dialogue entitled the First  Alkibiades , focusses on certain things the dialogue seems to be about,  without pretending to be comprehensive. It is like the dialogue in one  respect at least: it is written in the interest of opening the door to  further inquiry, and not with subsequently closing that door. Through  a hopefully careful, critical reading of the First Alkibiades , I attempt  to show that the nature of man and the superior man are centrally tied  both to each other and to any true understanding of (great) political  things. The spirit of the critique is inspired by the definition of a  "good critic" ascribed to Anatole France: "A good critic is one who  tells the story of his mind's adventures among the masterpieces." The First Alkibiades begins abruptly with the words "Son of  Kleinias, I suppose you are wondering..." The reader does not know where  the dialogue is taking place; nor is he informed as to how Socrates and  Alkibiades happened to meet on this occasion. Interlocutors in other  direct dramatic dialogues may sooner or later reveal this information in  their speeches. In narrated dialogues, Socrates or another participant  may disclose the circumstances of the discussion. In the case of this  dialogue, however, no one does. The reader remains uncertain that it is  even taking place in Athens proper and not in the countryside about the  city. It may be reasonable to suggest that in this case the setting of  the dialogue does not matter, or more precisely, the fact that there is  no particular setting is rather what matters. The discussion is not  dependent on a specific set of circumstances and the dialogue becomes  universally applicable. The analysis will hopefully show the permanence  of the problems thematically dealt with in the dialogue. Philosophically  it is a discussion in no way bound by time or place. Further support is  lent to this suggestion by the fact that there is no third person telling  the story and Socrates is not reporting it to anyone. Nobody else is  present.   Plato presents to the reader a dramatic exchange which is  emphatically private. Neither Socrates nor Alkibiades have divulged the  events of this first dialogic encounter between the man and the youth.   The thorough privacy of the discussion as well as the silence concerning the setting help to impute to the reader an appreciation of the autonomous  nature of the discourse. There is a sense in which this dialogue could  happen whenever two such people meet. Consequently, the proposition  implicitly put forth to the reader is that he be alive to the larger  significance of the issues treated; the very circumstances of the dialogue,  as mentioned here, sufficiently support such a suggestion so as to place  the onus for the argument in the camp of those who want to restrict the  relevance of the dialogue to Socrates and Alkibiades in 5th century  Athens.   That the two are alone is a feature that might be important to  much of the reader's interpretation, for attention is drawn to the fact  by the speakers themselves. Such privacy may have considerable  philosophic significance, as it has a clear effect on the suitability of  some of the material being discussed (e.g., 118b.5). There is no need  for concern about the effect of the discussion upon the community as  there might be were it spoken at the ekklesia ; the well-being of other  individuals need not dissuade them from examining radical challenges to  conventional views, as might be the case were they conversing in front of  children or at the marketplace; and there is no threat to either partici¬  pant, as there might be were they to insult or publicly challenge some¬  one's authority. Conventional piety and civic-mindedness need place no  limitations on the depth of the inquiry; the only limits are those im¬  plicit in the willingness and capability of the participants. For  example, an expectation of pious respect for his guardian, Perikles,  could well interfere with Alkibiades' serious consideration of good  statesmanship. The fact that they are unaccompanied, that Perikles is  spoken of as still living, and that Socrates first mentions Perikles in a respectful manner (as per 118c, 104b-c), permits a serious (if finally  not very flattering) examination of his qualifications. Socrates and  Alkibiades are alone and are not bound by any of the restrictions  normally faced in discussions with an audience. The reader's participa¬  tion, then, should be influenced by this spirit of privacy, at least in  so far as he is able to grasp the political significance of the special  "silence" of private conversation.   Somewhere in or about their usual haunts, Socrates and Alkibiades  chanced to meet. If their own pronouncements can be taken literally,  they were in the process of seeking each other. Alkibiades had been  about to address Socrates but Socrates began first (104c-d). Since his  daimon or god had only just ceased preventing him from talking to  Alkibiades (105d), Socrates was probably waiting at Alkibiades' door  (106e.10).   Although the location is unknown, the reader may glean from  various of their comments a vague idea of the time of the dialogue. In  this case, it appears, the actual dramatic date of the dialogue is of  less importance than some awareness of the substance of the evidence  enabling one to deduce it. Alkibiades is not yet twenty (123d) but he  must be close to that age for he intends shortly to make his first  appearance before the Athenian ekklesia (106c). Until today Socrates  had been observing and following the youth in silence; they had not  spoken to each other. This corroborates the suggestion that the action  of the dialogue takes place before the engagement at Potidaia (thus  before the outbreak of the Peloponnesian War, i.e. before 432 B.C.) for  they knew each other by that time ( Symposium, 219e). Perikles and his  sons are referred to as though they were living, offering further confirmation that the dramatic date is sometime before or about the onset  of the war with Sparta. The action of the dialogue must take place be¬  fore that of the Protagoras ,^ since Socrates has by then a reputation  of sorts among the young men, whereas Alkibiades seems not to have heard  very much of Socrates at the beginning of the First Alkibiades .   Socrates addresses Alkibiades as the son of Kleinias. This per¬  haps serves as a reminder to the young man who believes himself so self-  sufficient as to be in need of no one (104a). In the first place, his  uniqueness is challenged by this address. His brother (mention of whom  occurs later in the dialogue - 118e.4) would also properly turn around in  response to Socrates' words. More importantly, however, it indicates  that he too descended from a family. His ancestry is traced to Zeus  (121a), his connections via his kin are alleged to be central to his  self-esteem (104b), and even his mother, Deinomakhe, assumes a role in  the discussion (123c) . He is attached to a long tradition.   Through observation of Alkibiades' case in particular, the fact  that a man's nature is tied to descent is made manifest. Alkibiades lost  his father, Kleinias, when he was but a child (112c) . He was made a ward  of Perikles and from him received his nurture. For most readers, drawing  attention to parentage would not distinguish nature from nurture. One  is a child of one's parents both in terms of that with which one is born,  one's biological/genetic inheritance, and of that which one learns. In  the case of Alkibiades, however, to draw attention to his father is to  draw attention to his heredity, whereas it was Perikles who raised him.  The philosophic distinction between nature and nurture is emphasized by  the apparent choice of addresses open to Socrates. Alkibiades is both  the son of Kleinias and the ward of Perikles. It seems fitting that a dialogue on human nature begin by drawing attention to two dominating  features of all men's characters, their nature and their nurture.   Socrates believes that Alkibiades is wondering. He is curious  about the heretofore hidden motives for Socrates' behavior. As a facet  of a rational nature, wonder or curiosity separates men from the beasts.  Wondering about the world is characteristic of children long before they  fully attain reason, though it seems to be an indication of reason; most  adults retain at least some spark of curiosity about something. The  reader is reminded that the potential for wonder/reason is what is  common to men but not possessed by beasts, and it serves to distinguish  those whom we call human.   Reason in general, and wonder in particular, pose a rather complex  problem for giving an account of the nature of man. Though enabling one  to distinguish men from beasts, it also allows for distinctions between  men. Some are more curious than others and some are far more rational  than others. The philosopher, for example, appears to be dominated by  his rational curiosity about the true nature of things. Some people  wonder only to the extent of having a vague curiosity about their future.  It appears that the criteria that allow one to hierarchically differ¬  entiate man from beast also provide for the rank-ordering of men. Some  people would be "more human" than others, following this line of  analysis. This eatablishes itself as an issue in understanding what,  essentially, man is, and it may somehow be related to the general  problem of the superior man, since his very existence invites comparison  by a qualitative hierarchy. He might be the man who portrays the human  characteristics in the ideal/proper quantities and proportions. He may  thus aid our understanding of the standard for humans. Another opportunity to examine this issue will arise upon reaching the part of  the dialogue wherein Socrates points out that Alkibiades can come to know  himself after he understands the standard for superior men, after he  understands with whom he is to compete (119c,ff.).   There are at least two other problems with respect to the analysis  of human curiosity. The first is that it seems to matter what people  are curious about. Naturally children have a general wonder about things,  but at a certain stage of development, reason reveals some questions are  more important than and prior to others. It seems clear that wondering  about the nature of the world (i.e., what it really is), its arche (basic  principles), and man's proper place in it, or the kind of wondering  traditionally associated with the philosophic enterprise, is of a higher  order than curiosity about beetles, ancient architecture, details of  history, or nuances of linguistic meaning. This further complicates the  problems of rank-ordering men.   The second problem met with in giving an account of wonder and  its appropriate place in life is that next to philosophers and children,  few lives are more dominated by a curiosity of sorts than that of the  "gossiping housewife." She is curious about the affairs of her neighbors  and her neighbor's children. The passion for satisfying that curiosity  is often so strong as to literally dominate her days. It seems im¬  possible to understand such strong curiosity as "merely idle," but one  would clearly like to account for it as essentially different from the  curiosity of the philosopher. That the reader may not simply disregard  consideration of gossiping women, or consider it at best tangential, is  borne out by the treatment of curiosity in the First Alkibiades.    It is indicated in the dialogue that daughters, wives and mothers must figure into an account of wonder. There are seven uses of 'wonder'   6 V   ( thaumadzein ). The first three involve Socrates and Alkibiades attest¬  ing to Alkibiades' wonder, including a rare pronouncement by Socrates  of his having certain knowledge: he knows well that Alkibiades is  wondering (104c.4; 103a.1, 104d.4). The last three are all about women  wondering. Keeping in mind the centrality of  wondering to the nature of the philosopher (it seems to be a chief thing  in his nature), one sees that careful attention must be given to  curiosity. We have other reasons to suspect that femininity is in some  way connected to philosophy, and perhaps a careful consideration of the  treatment of women in the dialogue would shed light on the problem.   There is a sense in which wonder is a most necessary prerequisite  to seeking wisdom (cf. also Theaitetos 155d). To borrow the conclusion  of Socrates' argument with Alkibiades concerning his coming to know  justice (106d-e; 109e), one has to be aware of a lack of something in  order to seek it. A strong sense of wonder, or an insatiable curiosity  drives one to seek knowledge. This type of intense wondering may con¬  ceivably be a major link in the connection between the reason and the  spirit of the psyche (cf. Republic 439e-440a). In the Republic these  two elements are said to be naturally allied, but the reader is never  explicitly told how they are linked, or what generally drives or draws  the spirit toward reason. An overpowering sense of wonder seems the  most immediate link. Perhaps another link is supplied when the import¬  ance of the connection of knowledge to power is recognized; a connection  between the two parts of the psyche might be supplied by a great will to  power, for power presumably requires knowledge to be useful. However,  final judgement as to how the sense of wonder and the desire for power differ in this regard, and which, if any, properly characterizes the  connections between the parts of Alkibiades' psyche must await the  reader's reflection on the dialogue as a whole. Likewise, his evaluation  as to which class of men contains Alkibiades will be properly made after  he has finished the dialogue.   Socrates believes that Alkibiades is wondering. Precisely that  feature of Alkibiades' nature is the one with which Socrates chooses to  begin the discussion and therewith their relationship. One may thus  explore the possibility that wondering is what distinguishes Alkibiades,  or essentially characterizes him. The discussion to this point would  admit of a number of possibilities. Curiosity could set Alkibiades apart  from other political figures, or it may place him above men generally,  indicating that he is one of the best or at least potentially one of the  best men - should reason/curiosity prove to be characteristic of the best.  Alkibiades' ostensible wondering could bespeak the high spirit which  characterized his entire life; perhaps one of the reasons he would choose  to die rather than remain at his present state (105a-b) is that he is  curious to see how far he can go, how much he can rule.   Socrates remarks that he is Alkibiades' lover; he is the first of  Alkibiades' lovers. Socrates suggests two features of his manner which,  taken together, would be likely to have roused the wonder of Alkibiades.  Socrates, the first lover, is the only one who remains; all the other  lovers have forsaken Alkibiades. Secondly, Socrates never said a word  to Alkibiades during his entire youth, even though other lovers pushed  through hoardes of people to speak with Alkibiades. A youth continuously  surrounded by a crowd of admirers would probably wish to know the motives  of a most constant, silent observer - if he noticed him. Socrates has at last, after many years, spoken up.   Assuring Alkibiades that no human cause kept him from speaking,  Socrates intimates that a daimonic power had somehow opposed his uttering  a single word. The precise nature of the power is not divulged.   Obviously not a physical restraint such as a gag, it can nevertheless  affect Socrates' actions. Socrates, one is led to believe, is a most  rational man. If it was not a human cause that kept him from speaking,  then Socrates' reason did not cause him to keep silent. It was not  reason that opposed his speech. Whatever the daimonic power was, it was  of such a force that it could match the philosopher's reason. An under¬  standing of how Socrates' psyche would be under the power of this  daimonic sign would be of great interest to a student of man. In at  least Socrates' case, this power is comparable in force to the power of  reason. Socrates tells Alkibiades that the power of the daimon in  opposing his speaking was the cause of his silence for so many years.   The reader does not forget, however, that the lengthy silence was not  only Socrates'. Something else, perhaps less divine, kept Alkibiades  silent.   It is noteworthy that the first power Socrates chooses to speak  of with Alkibiades is a non-human one, and one which takes its effect by  restraining speech. Alkibiades is interested in having control over the  human world; the kind of power he covets involves military action and  political management. Young men seem not altogether appreciative of  speech. Even when they acknowledge the power made available by a  positive kind of rhetorical skill, they do not appear especially con¬  cerned with any negative or restraining power that limits speech such as  the power of this daimon. Not only is talk cheap, but it is for women and old men, in other words, for those who aren't capable of actually  doing anything. The first mention of power ( dynamis) in the dialogue  cannot appear to Alkibiades to pertain to his interest in ruling the  human world, but it does offer the reader both an opportunity for re¬  flection on power in general, and a promise to deal with the connection  between power and speech in some fashion. What the dialogue teaches  about language and power will be more deeply plumbed when Alkibiades  learns the extent of the force of his words with Socrates (112e, ff.).   According to Socrates, Alkibiades will be informed of the power  of this daimonic sign at some later time. Since apparently the time is  not right now, either Socrates is confident that he and Alkibiades will  continue to associate, or he intends to tell Alkibiades later during the  course of this very dialogue. Socrates, having complied with his daimon,  comes to Alkibiades at the time when the opposition ceases. He appears  to be well enough acquainted with the daimon to entertain good hopes that  it will not oppose him again.   By simple observation over the years, Socrates has received a  general notion of Alkibiades' behavior toward his lovers. There were  many and they were high-minded, but they fled from Alkibiades' surpassing  self-confidence. Socrates remarks that he wishes to have the reasons for  this self-confidence come to the fore. By bringing Alkibiades' reasons  to speech, Socrates implies, among other things, that this sense of  superiority does not have a self-evident basis of support. He also sug¬  gests that there is a special need to have reasons presented. Perhaps  Alkibiades' understanding of his own feelings either is wrong or in¬  sufficient; at any rate, they have previously been left unstated. If  they are finally revealed, Alkibiades will be compelled to assess them. Socrates proceeds to list the things upon which Alkibiades prides himself.   Interestingly, given his prior claim that he learned Alkibiades'  manner through observation, most of the things Socrates presently mentions  are not things one could easily learn simply through observation of  actions. One cannot see the mobility of Alkibiades' family or the power  of his connections. More important to Socrates' point, one cannot see  his pride in his family. He might "look proud," but others must determine  the reason. It is difficult to act proud of one's looks, family and wealth  while completely abstaining from the use of language. It has thus become  significant to their relationship that Socrates was also able to observe  Alkibiades' speech, for it is through speech that pride in one's family  can be made manifest. By listing these features, Socrates simultaneously  shows Alkibiades that he has given considerable thought to the character  of the youth. He is able to explain the source of a condition of  Alkibiades' psyche without having ever spoken to Alkibiades. Only a  special sort of observer, it seems, could accomplish that.   Alkibiades presumes he needs no human assistance in any of his  68   affairs; beginning with the body and ending with the soul, he believes  his assets make him self-sufficient. As all can see, Alkibiades is not   69   in error believing his beauty and stature to be of the highest quality.  Secondly, his family is one of the mightiest in the city and his city  the greatest in Greece. He has numerous friends and relatives through  his father and equally through his mother, who are among the best of men.  Stronger than the advantages of all those kinsmen, however, is the power  he envisions coming to him from Perikles, the guardian of Alkibiades and  his brother. Perikles can do what he likes in Greece and even in  barbarian countries. That kind of power - the power to do as one likes - Alkibiades is seeking (cf. 134e-135b). The last item Socrates includes  in the list is the one Alkibiades least relies on for his self-esteem,  namely his wealth.   Socrates places the greatest emphasis on Alkibiades' descent and  the advantages that accrue therefrom. This is curious for he was pur¬  portedly supplying Alkibiades' reasons for feeling self-sufficient; if  this is a true list, he has done the contrary, indicating Alkibiades to  be quite dependent upon his family. Even so, the amount of stress on the  family appears to exceed that necessary for showing Alkibiades not to be  self-sufficient. As has already been observed, this is accomplished by  paying close attention to the words at the start of the dialogue. At  this point, Alkibiades' father's relations and friends, his mother's  relations and friends, his political connections through his kinsmen and  his uncle's great power are mentioned as well as the position of his  family in the city and of his city in the Hellenic world. Relative to  the other resources mentioned, Socrates goes into considerable depth with  regards to Alkibiades' descent. It is literally the central element in  the set of features that Socrates wanted to be permitted to name as the  cause of Alkibiades' self-esteem. Quite likely then, the notion of  descent and its connections to human nature (as Alkibiades' descent is  connected, by Socrates' implication, to qualities of his nature) are  more important to the understanding of the dialogue than appears at the  surface. This discussion will be renewed later at the opening of the  longest speech in the First Alkibiades . At that point both participants  claim divine ancestry immediately after agreeing that better natures come  from well-born families (120d-121a). That will afford the reader an  opportunity to examine why they might both think their descent significant. Socrates has offered this account of Alkibiades' high-mindedness  suggesting they are Alkibiades' resources "beginning with the body and  ending with the soul." In fact, after mentioning the excellence of his  physical person, Socrates talks of Alkibiades' parents, polis , kinsmen,  guardian, and wealth. Unless the reader is to understand a man's soul  to be made by his family (and that is not said explicitly), these things  do not even appear to lead toward a consideration of the qualities of his  soul, but lead in a different direction. One might expect a treatment of  such things as Alkibiades' great desires, passions, virtues and thoughts,  not of his kinsfolk and wealth. Perhaps the reader is not yet close  enough to an understanding of the human soul. At this point he may not  be prepared to discern the qualities of soul in Alkibiades which would  properly be styled "great." Socrates and Alkibiades may provide  instruction for the reader in the dialogue, so that by the end of his  study he will be better able to make such a judgement were he to venture  one now, it might be based on conventional opinions of greatness. By not  explicitly stating Alkibiades' qualities of soul at this point, the  reader is granted the opportunity to return again, later, and supply  them himself. The psyche is more difficult to perceive than the body,  and as is discussed in the First Alkibiades (129a-135e), this significant¬  ly compounds the problems of attaining knowledge of either. If this is  what Socrates is indicating by apparently neglecting the qualities of  Alkibiades' soul, he debunks Alkibiades' assets as he lists them. The  features more difficult to discern, if discerned, would be of a higher  rank. Fewer men would understand them. Socrates, however, lists  features of Alkibiades that are plain for all to see. The qualities that even the vulgar can appreciate, when said to be such are not what the superior youth would most pride himself upon. The many  are no very serious judges of a man's qualities.   In view of these advantages, Alkibiades has elevated himself and  overpowered his lovers, and according to Socrates, Alkibiades is well  aware of how it happened that they fled, feeling inferior to his might.  Precisely on account of this Socrates can claim to be certain that  Alkibiades is wondering about him. Socrates says that he "knows well"  that Alkibiades must be wondering why he has not gotten rid of his eros .  What he could possibly be hoping for, now that the rest have fled is a  mystery. Socrates, by remaining despite the experience of the rest, has  made himself intriguing. This is especially the case given his analysis  of Alkibiades. How could Socrates possible hope to compete with  Alkibiades in terms of the sort of criteria important to Alkibiades?   He is ugly, has no famous family, and is poor. Yet Socrates had not  been overpowered; he does not feel inferior. Here is indeed a strange  case, or so it must seem to the arrogant young man. Socrates has  managed to flatter Alkibiades by making him out to be obviously superior  to any of his (other) lovers - but he also places himself above  Alkibiades, despite the flattery.   In his first speech to Alkibiades, Socrates has praised him and  yet undercut some of his superiority. He has aroused Alkibiades'  interest both in Socrates and in Socrates' understanding of him. It is  conceivable that no other admirer of Alkibiades has been so frank, and  it is likely that none have been so strange - to the point of alluding  to daimons. Yet something about Socrates and Socrates' peculiar erotic  attraction to Alkibiades makes Alkibiades interested in hearing more    from the man. It is clear that he cannot want to listen merely because he enjoys being flattered and gratified, for Socrates' speech is ironic  in its praise. He takes even as he gives.   Philosophically, this op ening speech contains a reference to most  of the themes a careful reader will recognize as being treated in the  dialogue. Some of these should be listed to   give an indication of the  depths of the speech that remain to be plumbed. The reader is invited  to examine the nature of power - what it is essentially and through what  it affects human action. As conventionally understood, and as it is  attractive to Alkibiades, power is the ability to do what one wants.  According to such an account, it seems Perikies has power. This notion  of power is complicated by the non-human power referred to by Socrates  which stops one from doing what one wants. Power is also shown to be  connected to speech. Another closely related theme is knowledge. All  of these are connected explicitly in that the daimonic power knew when  to allow speech . In the opening speech by Socrates, he claims to know  something, and the reader is introduced to a consideration of observation  and speech as sources of knowledge. He is also promised a look at what  distinguishes one's perception of oneself from other's opinions of one,  through Socrates' innuendo that his perception of Alkibiades may not be  what Alkibiades perceives himself to be. There is also reference to a  difference in ability to perceive people's natures - namely the many's  ability is contrasted with Socrates', as is the ability of the high-  minded suitors. The dialogue will deal with this theme in great depth.  Should it turn out that this ability is of essential importance to a  man's fulfillment, the reader is hereby being invited to examine what are  the essentially different natures of men. Needless to say, the reader of  the dialogue should return again and again to this speech, to the initial treatment of these fundamental questions.   The relationship of body to soul, as well as the role of 'family'  and ' polis ' in the account of man's nature, are introduced here in the  opening words. They indicate the vastness of the problem of understanding  the nature of man. Socrates and Alkibiades seem superior to everyone else,  but they too are separate. Socrates is shown to be unique in some sense  and he cites especially strange causes of his actions. There is no  mention of philosophy or philosopher in this dialogue, but the reader is  introduced to a strange man whose eros is different from other men, in¬  cluding some regarded as quite excellent, and who is motivated by an as  yet unexplained daimonic power.   On another level, the form of the speech and the delivery itself  attest to some of the thought behind the appropriateness or inappropriate¬  ness of saying certain things in certain situations. Even the mechanics  or logistics of the discussion prove illuminating to the problem. In  addition, the very fact that they are conversing tog  ether and not  depicted as fighting together in battle, or even debating with each other  in the public assembly, renders it possible that speech - and perhaps  even a certain kind of speech (e.g., private, dialectical) - is essential  to the relation between the two superior men said to begin in the First  Alkibiades .   Finally (though not to suggest that the catalogue of themes is  complete), one must be awakened to the significance of the silence being  finally broken. With Socrates' first words, the dialogue has begun to  take place. Socrates and Alkibiades have commenced their verbal  relationship. There is plenty of concern in the dialogue about language:  what is to be said and not said, and when and how it is to be said. The first speech by Socrates in the First Alkibiades has alerted the reader  to this.   Alkibiades addresses Socrates for the first time. Though already  cognizant of his name, Alkibiades does not appear to know anything else  about him. To Socrates' rather strange introduction he responds that  he was ready to speak with reference to the same issue; Socrates has just  slightly beat him. Alkibiades seems to have been irritated by Socrates'  constant presence and was on the brink of asking him why he kept bother¬  ing him. Socrates' opening remarks have probably mitigated his annoyance  somewhat and allowed him to express himself in terms of curiosity instead.  He admits, indeed he emphatically affirms (104d), that he is wondering  about Socrates' motives and suggests he would be glad to be informed.  Alkibiades thus expresses the reader's own curiosity; one wonders in a  variety of respects about what Socrates' objective might be. Alkibiades  might perceive different possibilities than the reader since he seems  thoroughly unfamiliar with Socrates. A reader might wonder if Socrates  wanted to influence Alkibiades, and to what end. Did Socrates want to  make Alkibiades a philosopher; what kind of attraction did he feel for  Alkibiades; why did he continue to associate with him? These questions  and more inevitably confront the reader of the First Alkibiades even  though they might at first appear to be outside the immediate bonds of  the dialogue. For these sorts of questions are carried to a reading of  the dialogue, as it were; and given the notoriety of Alkibiades and of  Socrates, it is quite possible that they were intended to be in the  background of the reader's thoughts. Perhaps the dialogue will provide  at least partial answers.    If Alkibiades is as eager to hear as he claims, Socrates can assume that he will pay attention to the whole story. Socrates will not  then have to expend effort in keeping Alkibiades' attention, for  Alkibiades has assured him he is interested. Alkibiades answers that he  certainly shall listen.   Socrates, not quite ready to begin, insists that Alkibiades be   prepared for perhaps quite a lengthy talk. He says it would be no wonder   if the stopping would be as difficult as the starting was. One does not   expect twenty years of non-stop talk from Socrates, naturally, and so   one is left to wonder - despite (or perhaps because of) his claim that   70   there is no cause for wonder - why he is making such a point about this  beginning and the indeterminacy of the ending. The implication is that  there remains some acceptable and evident relation between beginnings  and endings for the reader to discern. In an effort to uncover what he  is, paradoxically, not to wonder about, the careful reader will keep  track of the various things that are begun and ended and how they are  begun and ended in the First Alkibiades .  Although innocuous here, Alkibiades' response "speak good man, I  will listen," gives the reader a foreshadowing of his turning around at  the end of the dialogue. There it is suggested that Alkibiades will  silently listen to Socrates. Until the time of the dialogue the good  man has been silent, listening and observing while any talking has been  done by Alkibiades or his suitors.   Assured of a listener, Socrates begins. He is convinced that he  must speak. However difficult it is for a lover to talk to a man who  disdains lovers, Socrates must be daring enough to speak his mind. This  is the first explicit indication the reader is given concerning certain  qualities of soul requisite for speaking, not only for acting. It also suggests some more or less urgent, but undisclosed, necessity for  Socrates to speak at this time. Should Alkibiades seem content with the  above mentioned possessions, Socrates is confident that he would be re¬  leased from his love for Alkibiades - or so he has persuaded himself.  Socrates is attracted to the unlimited ambition Alkibiades possesses. The caveat introduced by Socrates (about his having so persuaded  himself) draws attention to the difference between passions and reason  as guides to action, and perhaps also a difference between Socrates and  other men. For the most part one cannot simply put an end to passions  on the basis of reason. One may be able to substitute another passion  or appetite, but it is not as easy to rid oneself of it. However,  instead of having to put away his love, Socrates is going to lay  Alkibiades' thought open to him.   Socrates intends to reveal to Alkibiades the youth's ambition. This can only be useful in the event that he has never considered his  goals under precisely the same light that Socrates will shed on them.   By doing this Socrates will also accomplish his intention of proving to  Alkibiades that he has paid careful attention to the youth (105a).  Alkibiades should be in a position to recognize Socrates' concern by  the end of this speech; this suggests a capability on the part of both.  Many cannot admit the motives of their own actions, much less reveal to  someone else that person's own thoughts. Part of the significance of  the following discussion, therefore, is to indicate both Socrates'  attentiveness to Alkibiades and Alkibiades' perception of it.   Should some (unnamed) god ask Alkibiades if he would choose to  die rather than be satisfied with the possessions he has, he would  choose to die. That is Socrates' belief. If Socrates is right, it bespeaks a high ambition for Alkibiades, and it does so whether or not  Alkibiades thought of it before. His possessions, mentioned so far,  include beauty and stature, great kinsmen and noble family, and great  wealth (though the last is least important to him). In an obvious sense,  Alkibiades must remain content with some of what he has. He cannot, for  example, acquire a greater family. His ambition, then, as Socrates  indicates, is for something other than he possesses. The hopes of  Alkibiades' life are to stand before the Athenian ekklesia and prove to  them that he is more honorable than anyone, ever, including Perikles.   As one worthy of honor he should be given the greatest power, and having  the greatest power here, he would be the greatest among Greeks and even  among the barbarians of the continent. If the god should further propose that Alkibiades could be the  ruler of Europe on the condition that he not pass into Asia, Socrates  believes Alkibiades would not choose to live. He desires to fill the  world with his name and power. Indeed Socrates believes that Alkibiades  thinks no man who ever lived worthy of discussion besides Kyros and  Xerxes ( the Great Kings of Persia). Of this Socrates claims to be sure,  not merely supposing - those are Alkibiades' hopes.   There are a number of interesting features about the pretense of  Alkibiades responding to a god. Alkibiades might not admit the extent  of his ambition to the Athenian people who would fear him, or even to  his mother, who would fear for him; it therefore would matter who is  allegedly asking the question. It is a god, an unidentified god whose  likes and dislikes thus remain unknown. Alkibiades cannot take into  account the god's special province and adjust his answer accordingly.   The significance of the god is most importantly that he is more powerful than Alkibiades can be. But why could not Socrates have simply asked him,  or, failing that, pretend to ask him as he does in a moment? It is pos¬  sible that speaking with an omniscient god would allow Alkibiades to  reveal his full desire; he would not be obliged to hid his ambition from  such a god as he would from most men in democratic Athens. But it is  also plausible that Socrates includes the god in the discussion for the  purpose of limiting Alkibiades' ambition (or perhaps as a standard for  power/knowledge). Not to suggest that Socrates means to moderate what  Alkibiades can do, he nevertheless must have realistic bounds put upon  his political ambition. Assume, for the moment, that more questions  naturally follow the proposal of limiting his rule to Europe. If  Alkibiades were talking to Socrates (instead of to a deity with greater  power), he might not stop at Asia. If he thought of it, he might wish to  control the entire world and its destiny. He would dream that fate or  chance would even be within the scope of his ambition. The god in this example is presented as being in a position to  determine Alkibiades' fate; he can limit the alternatives open to  Alkibiades and can have him die. With Socrates' illustration, Alkibiades  is confronting a being which has a power over him that he cannot control.  The young man is at least forced to pretend to be in a situation in  which he cannot even decide which options are available. It is import¬  ant for a political ruler to realize the limits placed on him by fate.   The notion that the god is asking Alkibiades these questions makes it  unlikely that Alkibiades would answer that he should like to rule heaven  and earth, or even that he would like supreme control of earth (for that  is likely to be the god's own domain). Alkibiades probably won't  suggest to a god that he wants to rule Fate or the gods of the Iliad who hold the fate of humans so much in hand. Chance cannot be controlled   by humans, either through persuasion or coersion. It can only have its   effect reduced by knowledge. Alkibiades' political ambitions have to   be moderated to fit what is within the domain of fate and chance and to   be educated about the limits of the politically possible. Socrates, by   pretending that a god asks the questions, can allow Alkibiades to admit   the full extent of his ambitions over humans, but it also serves to keep   him within the arena of human politics. If he would have answered   Socrates or a trusted friend in discussion, he might not have easily   accepted that limit. It is necessary for any politically ambitious man,   and doubly so if he is young, to cultivate a respect for the limits of   what can politically be accomplished under one's full control. This may have helped Alkibiades establish a political limit m his own mind.   Another feature of the response to the god which should be noted  is that it marks the second of three of Socrates' exaggerated claims to  know aspects of Alkibiades' soul. In the event that the reader should  have missed the first one wherein he claims to "know well" that  Alkibiades wonders (104c), Socrates here emphasizes it. He is not  simply inferring or guessing, he asserts; he knows this is Alkibiades'  hope (105c). Shortly he will claim to have observed Alkibiades during  every moment the boy was out of doors, and thus to know all that  Alkibiades has learned (106e).   Just as it is impossible for Socrates to have watched Alkibiades  at every moment, so he cannot be certain of what thought is actually  going through Alkibiades' mind. Socrates' claim to knowledge has to be  based on something other than physical experience or being taught.  Alkibiades has not told anyone that these are his high hopes. Perhaps Socrates' knowledge is grounded in some kind of experience   He knows what state Alkibiades' soul is in because he knows what   Alkibiades must hope, wonder and know. It may be that Socrates has an   access to this knowledge of Alkibiades' soul through his own soul. His   soul may be or may have been very like Alkibiades'. Since Socrates will   later argue that one cannot know another without knowing oneself  perhaps one of the reasons he knows Alkibiades' soul so well is that it matches his in some way. It is not out of the question that their  souls share essential features and that those features perhaps are not  shared by all other men. Clearly not all other men have found knowledge  of Alkibiades' soul as accessible as has Socrates. And Socrates will be  taking Alkibiades' soul on a discussion beyond the bounds of Athenian  politics and politicians. He instructs Alkibiades that his soul cannot  be patterned upon a conventional model, just as Socrates is obviously not  modelling himself upon a standard model. These two men are somehow in  a special position for understanding each other, and their common sight  beyond the normally accepted standards may be what allows Socrates to  make such apparently outrageous claims. At this point, instead of waiting to see how Alkibiades will  respond, Socrates manufactures his own dialogue, saying that Alkibiades  would naturally ask what the point is. He is supposing that Alkibiades  recognizes the truth of what has gone before. Since it is likely that  Alkibiades would have enjoyed the speech to this point and thought it  good, Socrates must bring him back to the topic. By using this device  of a dialogue within a speech, Socrates is able to remind Alkibiades  (and the reader) - by pretending to have Alkibiades remind Socrates -  that they were supposed to learn not Alkibiades' ambitions, but those of Socrates (supposing that they are indeed different).   Socrates responds (to his own question) that he conceives himself  to have so great a power ove    r Alkibiades that the dear son of Kleinias  and Deinomakhe will not be able to achieve his hopes without the  philosopher's assistance (105d). Because of this power the god prevented  him from speaking with Alkibiades. Socrates hopes to win as complete a  power over Alkibiades as Alkibiades does over the polis . They both wish  to prove themselves invaluable, Socrates by showing himself more worthy  than Alkibiades' guardian or relatives in being able to transmit to him  the power for which he longs. The god prevented Socrates from talking  when Alkibiades was younger, that is, before he held such great hopes.  Now, since Alkibiades is prepared to listen, the god has set him on.  Alkibiades wants power but he does not know what it is, essentially.   Yet he must come to know in order not to err and harm himself. Part of  the relationship between philosophy and politics is suggested here, and  perhaps also some indication of why Socrates and Alkibiades need each  other. An understanding of the causes of their coming together would be  essential to an account of their relation, it seems, and such under¬  standing is rendered more problematic by the role of the god.   Socrates wants as complete power over Alkibiades as Alkibiades  does over the polis . If one supposes that the power is essentially  similar, this might imply that Socrates would actually have the power  over the polis . A complete power to make someone else do as one wants  (as power is conventionally understood) seems to be the same over an  individual as over a state. Socrates and Alkibiades hope to prove  themselves invaluable (105a). That is not the same as being worthy of  honor (105b); past performance is crucial to the question of one's  honor, whereas a possibility of special expertise in the future is  sufficient to indicate one is invaluable. If a teacher is able to  promise that his influence will make manifest to one the problems with  one's opinions, and will help to clarify them, the teacher has indicated  himself to be invaluable. Should one then, on the basis of the teacher's  influence change one's opinions, and thus one's advice and actions, the  teacher will, in effect, be the man with power over all that is affected  by one's advice and actions, over all over which one has power.   Socrates, in affecting politically-minded youths, has an effect  on the polity. To have power over the politically powerful is to have  power in politics. Socrates' daimon had not let Socrates approach while  Alkibiades' hopes for rule were too narrowly contained. His ambitions  had to become much greater. If for no other reason than to see that  over which Socrates expects or intends to have indirect power, one should  be eager to discover Alkibiades' ambition - to discover that end which he  has set for himself, or which Socrates will help to set for him. The  reader also has in mind the historical Alkibiades: to the extent to  which Alkibiades' designs in Europe and Asia did come to pass, was  Socrates responsible as Plato, here, has him claim to be? The reader  might also be curious about the reverse: what actions of the historical  Alkibiades make this dialogue (and Socrates' regard) credible?   Alkibiades is astounded, Socrates sounds even stranger than he  looks. But Alkibiades' interest is aroused, even if he is skeptical.   He doesn't admit to the ambitions that have been listed; however he  will concede them for the sake of finding out just how Socrates thinks  of himself as the sole means through whom Alkibiades can hope to realize  them. Perhaps he never had the opportunity to characterize his ambitions that way - he may never have talked to a god. Socrates may only have   clarified those hopes for Alkibiades; but on the other hand, the   philosopher (partly, at least) may be responsible for imparting them to   the young man. At any rate, even if Socrates merely made these goals   obvious to the youth, one must wonder as to his purpose. Alkibiades   feels confident in claiming that no denial on his part will persuade   Socrates. He asks Socrates to speak (106a).   Socrates replies with a question which he answers himself. He   asks if Alkibiades expects him to speak in the way Alkibiades normally   hears people speak - in long speeches. Alkibiades' background is thus   73   indicated to some extent. He has heard orators proclaim. Socrates   points out that he will proceed in a way that is unusual to Alkibiades -   at least in so far as proving claims. By suggesting there is more than   one way to speak, Socrates indicates that differences of style are   significant in speech, and he invites the reader to judge/consider   which is appropriate to which purposes.   Socrates protests that his ability is not of that sort (the   orator's), but that he could prove his case to Alkibiades if Alkibiades   consents to do one bit of service. By soliciting Alkibiades' efforts,   Socrates may be intending to gain a deeper commitment from the youth.   If he is responsible somewhat for the outcome he may be more sincere in  74   his answers. Alkibiades will consent to do a service that is not   difficult;    he is interested but not willing to go to a great deal of   trouble. At this stage of the discussion he has no reason to believe   75   that fine things are hard. Upon Socrates' query as to whether  answering questions is considered difficult, Alkibiades replies that it    is not. Socrates tells him to a nswer and Alkibiades tells Socrates to  ask. His response suggests that Alkibiades has never witnessed a true  dialectical discuss    ion. He has just played question and answer games.  Not many who have experienced a dialogue, and even fewer who have  spoken with Socrates, would say it   is not hard. Alkibiades, too, soon  experiences difficulty.   Socrates asks him if he'll admit he has these intentions but   Alkibiades won't affirm or deny except toget on with the conversation.   Should Socrates want to believe it he may; Alkibiades desires to know   what is coming before he acknowledges more.   Accepting this, Socrates proceeds. Alkibiades, he notes, intends   shortly to present himself as an advisor to the Athenians. If Socrates   76   were to take hold of him as he was about to ascend the rostrum in  front of the ekklesia and were to ask him upon what subject they wanted  advice such as he could give, and if it was a subject about which  Alkibiades knew better than they, what would he answer?   This is an example of a common Socratic device, one of imagining  that the circumstances are other than they are. Socrates hereby employs   I   it for the third time in the dialogue, and each provides a different  effe   ct. On the first occasion, Socrates pretended a god was present to  provide Alkibiades with an important choice. Socrates did not speak in  his own name. The second example was when Socrates ventured that  Alkibiades would ask a certain question, and so answered it without  waiting to see if he would indeed have asked that question. In both of  those, the physical setting of the First Alkibi   ades was appropriate to  his intentions. This time, however, Socrates supplies another setting -  a very different setting - for a part of the discussion.   Speech is plastic in that it enables Socrates to manufacture an almost limitless variety of situations. By the sole use of human reason  and imagination, people are able to consider their actions in different  lights. This is highly desirable as it is often difficult to judge a  decision from within the context in which it was made. The malleability  of circumstances that is possible in speech allows one to examine  thoughts and policies from other perspectives. One may thus, for  example, evaluate whether it is principle or prejudice that influences  one's decisions, or whether circumstance and situation play a large or a  small role in the rational outcome of the deliberation. This rather  natural feature of reason also permits some consideration of consequences   without having to effect those consequences, and this may result in the aversion of disastrous results.   The plastic character of speech is crucial to philosophic dis¬  course as well, providing the essential material upon which dialectics  is worked. In discussion, the truly important features of a problem may  be more clearly separated from the merely incidental, through the care¬  ful construction of examples, situations and counterexamples. If not  for the ability to consider circumstances different from the one in  which one finds oneself, thinking and conversing about many things would  be impossible. And this is only one aspect of the plasticity of speech  which proves important to philosophic discussion. Good dialogic  partners exhibit this ability, since they require speech for much more  than proficiency in logical deduction. Speech and human imagination must  work upon each other. Participants in philosophical argument must  recognize connections between various subjects and different circum¬  stances. To a large extent, the level of thought is determined by the  thinker's ability to 'notice' factors of importance to the inquiry at hand. The importance of 'noticing' to philosophic argument will be con¬  sidered with reference to two levels of participation in the First  Alkibiades , both of which clearly focus on the prominence of the above  mentioned unique properties of speech as opposed to action.   'Noticing' is important to dialectics in that it describes how,  typically, Socrates' arguments work. An  interlocutor will suggest, say,  a solution to a problem, and upon reflection, Socrates - or another inter¬  locutor (e.g., as per llOe) - will notice, for example, that the solution  apparently doesn't work in all situations (i.e., a counter-example occurs  to him), or that not all aspects of the solution are satisfactory, and  so on. The ability of the participants to recognize what is truly im¬  portant to the discussion, and to notice those features in a variety of  other situations and concerns, is wha      t lends depth to the analysis. As  this has no doubt been experienced by anyone who has engaged in serious  arguments, it presumably need not be further elaborated.   The other aspect in which 'noticing' is important to philosophy  and how it influences, and is in turn influenced by, rational discourse  is in terms of how one ought to read a philosophic work. As hopefully  will be shown in this commentary on the First Alkibiades , a reader's  ability to notice dramatic details of the dialogue, a  nd his persistence  in carefully examining what he notices, importantly affects the benefit  he derives from the study of the dialogue. Frequently, evidence to this  effect can be gathered through reflective consideration of Socrates'  apparently off-hand examples, which turn out upon examination to be  neither offhand in terms of their relation to significant aspects of the  immediate topic, nor isolated in terms of bringing the various topics in  the dialogue into focus. As shall become more apparent as the analysis proceeds, the examples of ships and doctors, say, are of exceedingly  more philosophic importance than their surface suggests. Not only do  they metaphorically provide a depth to the argument (perhaps unwitnessed  by any participant in the dialogue besides the reader) but through  their  repeated use, they also help the reader to discern essential philosophic  connections between various parts of the subject under discussion.   The importance of 'recognition' and 'noticing' to dialectics (and   the importance of the malleability of subject matter afforded by speech)  may be partly explained by the understanding of the role of metaphor in  human reason. Dialectics involves the meticulous division of what has  been properly collected (c.f., for example Phaidros 266b). Time and  time again, evidence is surveyed by capable partners and connections    are  drawn between relevantly similar matters before careful distinctions are  outlined. The ability to recognize similarities, to notice connections,  seems similar to the mind's ability to grasp metaphor. Metaphor relies  to an important extent on the language user's readiness to 'collect'  similar features from various subjects familiar to him, a procedure the  reader of the First Alkibiades has observed to be crucial to the  philosophic enterprise.   Socrates often refrains from directly asking a question, pre¬  facing it by "supposing someone were to ask" or even "supposing I were  to ask." The circumstances of the encounters need to be examined in  order to understand his strategy. What might be the relevance of  Socrates asking Alkibiades to imagine he was about to ascend the plat¬  form, instead of, for example, in the market place, in another city,  near a group of young men, or in the privacy of his own home? And why  could not the setting be left precisely the same as the setting of the  dialogue? The situation at the base of the platform in front of the ekklesia is, needless to say, quite a bit different from the situation  they are in now. Alkibiades is not likely to give the same answer if  his honor and his entire political career are at stake, as they might be  in such a profoundly public setting. Socrates' device, on this occasion  helps serve to indicate that what counts as politic, or polite, speech  varies in different circumstances.   As Socrates has constructed the example, the Athenians proposed  to take advice on a subject and Alkibiades presumed to give them advice.  This might severely limit the subjects on which Alkibiades or another  politician could address them. Were the ekklesia about to take counsel  on something, it would be a m  atter they felt was settled by special  knowledge, and a subject on which there were some people with recognizable  expertise. The kinds of questions they believe are settled by uncommon  knowledge or expertise may be rather limited. It is not likely that  they would ask for advice on matters of justice. Most people feel they  are competent to decide that (i.e., that the knowledge relevant to  deciding is generally available, or common). Expertise is acknowledged  in strategy and tactics, but knowledgeability about politics in general  is less likely to be conceded than ability in matters of efficacy. All  of these sentiments limit the kinds of advice which can be given to the  ekklesia , and the councillor's problems are compounded by such considera¬  tions as what things can be    persuasively addressed in public speeches to  a mixed audience, and what will be effective in pleasing and attracting  the sympathy of the audience to the speaker. To be rhetorically effect¬  ive one must work with the beliefs/opinions/prejudices people confidently  and selfishly hold. Alkibiades agrees with Socrates that he would answer that it was a subject about which he had better knowledge. He would have to. If  Alkibiades wishes to be taken seriously by them, he should so answer in  front of the people. Even if he would be fully aware of his ignorance,  he might have motives which demand an insistence on expertise. He  couldn't admit to several purposes for which he might want to influence  the votes of the citizenry. Not all of those reasons can be made known  to them; not all of those reasons can be voiced from the platform at the  ekklesia . Sometimes politicians have to make decisions without certain  knowledge, but must nevertheless pretend confidence. These considerations  indicate again the importance of the role of speech to the themes of  this dialogue. There is a difference between public and private speech.  Some things simply cannot be said in front of a crowd of people, and  other things which would not be claimed in private conversation with  trusted friends would have to be affirmed in front of the ekklesia .   Just as a speaker may take advantage of the fact that crowds can be  aroused and swept along by rhetoric that would not so successfully move  an individual (e.g., patriotic speeches inciting citizens to war, and on  the darker side, lynch mobs and riots), so he understands that he could  never admit to a crowd things he might disclose to a trusted friend  (e.g., criticizing re ligious or political authorities).   Socrates suggests that Alkibiades believes he is a good advisor  on that which he knows, and those would be things which he learned from  others or through his own discovery. Alkibiades agrees that there don't  seem to be any other alternatives. Socrates further asks if he would  have learned or discovered anything if he hadn't been willing to learn  or inquire into it and whether one would ask about or learn what one  thought one knew. Alkibiades readily agrees that there must have been a period in his life when he might have admitted to ignorance to which  he doesn't admit now. Socrates suggests that one learns only what one  is willing to learn and discovers only what one is willing to inquire  into . The asymmetry of this may indicate the general problems of the  argument as the difference in phrasing (underlined) alerts the reader to  examine it more closely.   Discoveries, of course, usually involve a large measure of  accident or chance. And if they are the result of an inquiry, the in¬  quiry often has a different or more general object. Columbus didn't  set out to discover the New World; he wanted to establish a shorter  trading route to the Far East. Darwin did not set out to discover  evolution; he sought to explain why species were different. Earlier he  did not set out to discover that species were different; he observed the  animal kingdom. Not only may one stumble upon something by accident,  but by looking for one thing one may come to know something else. For  example, someone might not be motivated by a recognition of ignorance  but may be trying to prove a claim to knowledge. In the search for  proof he may find the truth. Or, alternatively, in the pursuit of some¬  thing altogether different, such as entertainment through reading a  story, one may discover that another way of life is better. The argu¬  ment thus appears to be flawed in that it is not true that one discovers  only what one is willing to inquire into. Thus Alkibiades may have  discovered what he now claims to know without ever having sought it as  a result of recognizing his ignorance. Socrates has been able to pass  this argument by Alkibiades because of the asymmetry of the statement.  Had he said "one discovers only what one is willing to discover,"    Alkibiades might have objected. Another difficulty with the argument is that one is simply not  always willing to learn what others teach and one nevertheless may  learn. One might actually be unwilling, but more often one is simply  neutral, or oblivious to the fact that one is learning. In the case of  the former (learning despite being unwilling), one need only remember  that denying what one hears does not keep one from hearing it. Propa¬  ganda can be successful even when it is known to be propaganda.   However, by far the most common counter-example to Socrates'  argument is the learning that occurs in everyday life. Many things are  not learned as the result of setting out to learn. Such knowledge is  acquired in other ways. Men come to have a common sense understanding  of cause and effect by simply doing and watching. One learns one's  name and who one's mother is long before choosing to learn, being willing  to study, or coming to recognize one's ignorance. Language is learned  with almost no conscious effort, and one is nurtured into conventions  without setting out to learn them. Notions of virtues are gleaned from  stories and from shades of meaning in the language, or even as a result  of learning a language. And, in an obvious sense, whenever anything is  heard, something is learned - even if only that such a person said it.   One cannot help observing; one does not selectively see when one one's eyes  are open, and one cannot even close one's ears to avoid hearing.   The above are, briefly, two problems with the part of Socrates'  argument that suggests people learn or discover only what they are  willing to learn or inquire into. The other parts of the argument may  be flawed as well. Socrates has pointed to the reader's discovery of  some flaws by a subtle asymmetry in his question. It is up to the  reader to examine the rest (in this case - to be willing to inquire into it). For example, there may be difficulties with the first suggestion  that one knows only what one has learned or discovered. It is possible  that there are innate objects of knowledge and that they are important  to later development. Infants, for example, have an ability to sense  comfort and discomfort which is later transferred into feeling a wide  variety of pleasures and pains. They neither learn this, nor discover it  (in any ordinary sense of "discovery"). The sense of pleasure and pain  quite naturally is tied to and helps to shape a child's sense of justice  (110b), and may thus be significant to the argument about Alkibiades'  knowledge or opinions about justice. In any event, closer examination  of Socrates' argument has shown the reader that the problem of knowing  is sufficiently complex to warrant his further attention. The rest of  the dialogue furnishes the careful reader with many examples and  problems to consider in his attempt to understand how he comes to know  and what it means to know.   Socrates knows quite well what things Alkibiades has learned, and  if he should omit anything in the relating, Alkibiades must correct him.  Socrates recollects that he learned writing, harping and wrestling - and  refused to learn fluting. Those are the things Alkibiades knows then,  unless he was learning something when he was unobserved - but that,  Socrates declares, is unlikely since he was watching whenever Alkibiades  stepped out of doors, by day or by night.   The reader will grant that the last claim is an exaggeration.  Socrates could not have observed every outdoor activity of the boy for  so many years. Yet Socrates persists in declaring that he knows what  Alkibiades learned out of doors. As suggested earlier, Socrates may be  indicating that he knows Alkibiades through his own soul. In that event one must try to understand why Socrates couldn't likewise claim to know  what went on indoors, or why Socrates doesn't announce to Alkibiades an  assumption that what goes on indoors is pretty much the same everywhere.  The reader may find what Alkibiades may have learned "indoors" much more  mysterious, and he may consider it odd that Socrates does not have access  to that- What occurs indoors (and perhaps to fully understand one would  need to acknowledge a metaphoric dimension to "indoor") that would  account for Socrates drawing attention to his knowledge of the outdoor  activities of Alkibiades?   Even if one confines one's attention to the literal meaning, there  is much of importance in one's nurture that happens inside the home.  Suffice it to notice two things. The first is that the domestic scene  in general, and household management in particular, are of crucial im¬  portance to politics. The second is that the teachers inside the home  are typically the womenfolk.   These are of significance both to this dialogue and (not un¬  related) to an understanding of politics. Attention is directed, for   example, toward the maternal side of the two participants in this dialogue. In addition, as has already been mentioned, the womenfolk  in this dialogue are the only ones who wonder, besides Alkibiades. The  women are within (cf. Symposium 176e); they have quite an effect on the  early nurture of children (cf. Republic 377b-c and context). Perhaps  the women teach something indoors that Socrates could not see, or would  not know regardless of how closely akin he was to Alkibiades by nature.   If that is so, the political significance of early education, of that  education which is left largely to women, assumes a great importance. Women> it is implied, are able to do something to sons that men cannot and perhaps even something which men cannot fully appreciate. An  absolutely crucial question arises: How is it proper for women to in¬  fluence sons?   Socrates proceeds to find out which of the areas of Alkibiades'  expertise is the one he will use in the assembly when giving advice. In  response to Socrates' query whether it is when the Athenians take advice  on writing or on lyre playing that Alkibiades will rise to address them,  the young man swears by Zeus that he will not counsel them on these  matters. (The possibility is left open that someone else would advise  the Athenians on these matters at the assembly). And, Socrates adds,  they aren't accustomed to deliberating about wrestling in the ekklesia. For some reason, Socrates has distinguished wrestling from the other two  subjects. Alkibiades will not advise the Athenians on any of the three;  he will not talk about writing or lyre-playing even if the subject would  come up; he will not speak about wrestling because the subject won't come  up. Regardless of the reader's suspicion that the first two subjects are  also rarely deliberated in the assembly, he should note the distinction  Socrates draws between the musical and the gymnastic arts. The attentive  reader will also have observed that the e    ducation a boy receives in school  does not prepare him for advising men in important political matters; it  does not provide him with the kinds of knowledge requisite to a citizen's  participation in the ekklesia .   But then on what will Alkibiades advise the Athenians? It won't  be about buildings or divination, for a builder will serve better (107a-  b). Regardless of whether he is short, tall, handsome, ugly, well-born  or base-born, the advice comes from the one who knows, not the wealthy;  the reader might notice that this undercuts all previously mentioned bases of Alkibiades' self-esteem. According to Socrates, the Athenians  want a physician to advise them when they deliberate on the health of  the city; they aren't concerned if he's rich or poor, Socrates suggests,  as if being a successful physician was in no way indicated by financial  status.   There are a number of problems with this portion of the argument.  Firstly, the advisor's rhetorical power (and not necessarily his knowledge)  is of enhanced significance when that of which he speaks is something most  people do not see to be clearly a matter of technical expertise, or even  of truth or falsity instead of taste. This refers especially to those  things that are the subject of political debate. Unlike in the case of  medicine, people do not acknowledge any clear set of criteria for  political expertise, besides perhaps 'success' for one's polity, a thing  not universally agreed upon. Most people have confidence in their  knowledge of the good and just alternatives available (cf. llOc-d).   Policy decisions about what are commonly termed ’value judgements'  are rarely decided solely on the basis of reason. Especially in  democracies, where mere whims may become commands, an appeal to  irrational elements in men's souls is often more effective. Men's fears  too, especially their fear of enslavement, can be manipulated for various  ends. Emotional appeals to national pride, love of family and fraternity,  and the possibility of accumulating wealth are what move men, for it is  these to which men are attracted. Rational speech is only all-powerful  if men are all-rational.   Secondly, it is not clear that a man's nobility or ignobility  should be of no account in the ekklesia. At least two reasons might be    adduced for this consideration. There is no necessary connection between knowing and giving good advice. Malevolence as well as ignorance may-  cause it. A bad man who knows might give worse advice than an ignorant  man of good will who happens to have right opinions. Unless the knower  is a noble person there is no guarantee that he will tender his best  advice. An ignoble man may provide advice that serves a perverse  interest, and he might even do it on the basis of his expert knowledge.  Another reason for considering nobility important in advisors is that it  might be the best the citizens can do. Most Athenians would not believe  that there are experts in knowledge about justice as there are in the  crafts. If they won't grant that expertise (and there are several  reasons why it would be dangerous to give them the power to judge men on  that score), then it is probably best that they take their advice from  a gentleman, a nobleman, or even a man whose concern for his family's  honor will help to prevent his corruption.   Thirdly, since cities obviously do not succumb to fevers and  79   bodily diseases, one must in this case treat the "physician of the  diseased city" metaphorically. It is not certain that the Athenians  would recognize the diseased condition of a city. To the extent to  which they do, they tend to regard political health in economic terms  (as one speaks of a "healthy economy"). In that case, whether a man  was rich or poor would make a great deal of difference to them. They  wouldn't be likely to take advice on how to increase the wealth (the  health) of a city from someone who could not prove his competence in  that matter in his private life. In addition, since most people are im¬  portantly motivated by wealth, they will respect the opinions of one who  is recognizably better at what they are themselves doing - getting  wealthy. It seems to be generally the case that people will attend to the speech of a wealthy man more than to a poorer but perhaps more  virtuous man.   In other words, then, it is not clear that what Socrates has said  about the Athenian choice of advisors is true (107b-c). Moreover, it is  not clear that it should be true. Factors such as conventional nobility  probably should play a part in the choice of councillors, even if it is  basically understood in terms of being well-born. People's inability to  evaluate the physicians of the city, and people's emphasis on wealth also  are evidence against Socrates' claims.   Socrates wants to know what they'll be considering when Alkibiades   stands forth to the Athenians. It has been established that he won't   advise on writing, harping, wrestling, building or divination. Alkibiades   figures he will advise them when they are considering their own affairs.   Socrates, in seeming perversity, continues by asking if he means their affairs concerning ship-building and what sorts of ships they should  80   have. Since that is of course not what Alkibiades means, Socrates  proposes that the reason and the only reason is that the young man doesn't  understand the art of ship-building. Alkibiades agrees, but the reader  need not. Socrates, by emphasizing the exclusivity of expertise through  the use of so many examples, has alerted the reader, should he otherwise  have missed the point, that there are many reasons for not advising about  something besides ignorance.   In some matters, for example, it is hard to prove knowledge and  it may not always be best to go to the effort of establishing one's claim  to expertise. If the knowledgeable can perceive, say, that no harm will  come the way things are proceeding, there might not be any point to  claiming knowledge. Another reason for perhaps keeping silent is that the correct view has been presented. There are thus other things with  which to occupy one's time. Perhaps a major reason for keeping silent  about advising on some matters is simply indifference; petty politics  can be left to others. In fact there are, it would seem, quite a number  of reasons for keeping silent besides ignorance. And, on the other hand,  it is unlikely that someone with a keen interest would acknowledge  ignorance as a sufficient condition for their silence. Many who voice  their opinions on public matters do not thereby mean to implicitly claim  their expertise, but only to express their interestedness.   Socrates' ship-building example has a few other interesting  features. Firstly, in a strict sense what Socrates and Alkibiades agree  to is wrong: knowledge of shipbuilding is not the exclusive basis for  determining which ships to build. Depending on whether it is a private  or public ship-building program, the passenger, pilot or politician  decides. Triremes or pleasure-craft, or some other specific vessels are  demanded. The ship-builder then builds it as best he can. But his  building is dictated by his customers, if he is free, or his owners, if  he is a slave.   The prominence of Plato's famous "ship-of-state" analogy ( Republic  488a-489c) allows the reader to look metaphorically at the example of  'ship-building,' and the question of what sort of 'ships' ought to get  built. In terms of the analogy, then, Socrates is asking Alkibiades if  he will be giving advice on statebuilding and what kind of polis ought  to be constructed. This is, it seems, the very thing upon which  Alkibiades wants to advise the Athenians. He wants very much to build  Athens into a super Empire. The recognition of the ship-of-state  analogy brings to the surface a most fundamental political question which lurks behind much of the discussion of the dialogue: which sort  of regime ought to be constructed? The importance of the question of  the best regime to political philosophy is indicated and reinforced by  the very test of the importance of the question in the analogy. The con¬  sideration of what sort of ship ought to be built stands behind the whole  activity of ship-building, and yet is one that is not answered by the  technical expert. The user (passenger/citizen) and the ruler (pilot/  statesman) are the ones that make the decision. On the basis of an  example that has already been shown to be suspect, namely Socrates'  mention of ship-building, the reader of the First Alkibiades is provided  with the opportunity to consider the intricasies of the analogy and a  question of central importance to the political man. Alkibiades must  gain t he ability to advise the Athenians as to what ships they ought to  build.   For the moment, however, Socrates asks on what affairs Alkibiades   means to give advice, and the young man answers those of war or peace or   other affairs of the polis . Socrates asks for clarification on whether   Alkibiades means they'll be deliberating about the manner of peace and   war; will they be considering questions of on whom, how, when and how   long it is better to make war (107c). But if the Athenians were to ask   these sorts of questions about wrestling, Socrates remarks, they'd call   not on Alkibiades but on the wrestling master, and he would answer in light of what was better. Similarly, when singing and accompanying  lyre-playing and dancing, some ways and times are better. Alkibiades  agrees.The word 'better' was used both in the case of harping to accom-  82   pany singing and in the case of wrestling (108a-b). For wrestling the standard of the better is provided by gymnastics; what supplies it in   the case of harping? Alkibiades doesn't understand and Socrates suggests   that he imitate him, for Socrates' pattern could be generalized to yield a correct answer in all cases. Correctness comes into being by the  art, and the art in the case of wrestling is fairly ( kalos) said to be  gymnastics (108c). If Alkibiades is to copy Socrates, he should copy  him in fair conversation, as well, and answer in his turn what the art  of harping, singing and dancing is. But Alkibiades still cannot tell him  the name of the art (108c). Socrates attempts another tact and deviates  slightly from the pattern he had suggested Alkibiades imitate. Presumably  Alkibiades will be able to answer the questions once Socrates asks the  right one. He doesn't assume that Alkibiades is ignorant of the answer,  so he takes care in choosing the appropriate questions. Perhaps his  next attempt will solicit the desired response. The goddesses of the  art are the Muses. Alkibiades can now acknowledge that if the art is  named after them, it is called 'Music.' The musical mode, as with the  earlier pattern of gymnastics, will be correct when it follows the  musical art. Now Socrates wants Alkibiades to say what the 'better' is  in the case of making war and peace, but Alkibiades is unable.   There are a number of reasons why he would be unable on the basis  of the pattern Socrates has supplied. One of these has to do with the  pattern itself. It is not clear there is an art ( techne) , per se , of  making war and peace. The closest one could come to recognizing such an  art would be to suggest it is the art of politics, but even if that is  properly an art (i.e., strictly a matter of technical expertise) knowing  only its name would not provide a clear standard of 'better.' The term  'political' does not of its own designate a better way to wage war and peace. Despite the possibility that the art in this case is of a higher  order than music or gymnastics, it remains unclear that Alkibiades can  use the same solution as Socrates suggested in the case of music. Who  are the gods or goddesses who give their name to the art of war and peace?  Perhaps one way to understand this curious feature of the discussion is  to consider that Socrates might be suggesting that there is a divine  standard for politics as well as for music.   According to Socrates, Alkibiades' inability to answer about the  standard or politics is disgraceful (108e). Were Alkibiades an advisor  on food, even without expert knowledge (i.e., even if he wasn't a  physician), he could still say that the 'better' was the more wholesome.   In this case, where he claims to have knowledge and intends to advise as  though he had knowledge (notice the two are not the same), he should be  ashamed to be unable to answer questions on it.   At this point the reader must pause. If Socrates simply wanted  to make this point and proceed with the argument, he has chosen an un¬  fortunate example in discussing the advisor on food. There are a number  of features of his use of this example that, if transferred, have quite  important repercussions for the discussion of the political advisor.  Firstly, it may be remarked that Socrates has admitted that the ability  to say what the 'better' is, is not always necessarily contingent upon  technical knowledge. Secondly, someone who answers "more wholesome" as  the better in food has already implicitly or explicitly accepted a  hierarchy of values. He has architectonically structured the arts that  have anything to do with food in such a manner as to place health at the  apex. Someone who had not conceded such a rank-ordering might have said  "cheapest," "most flavorful," or even "sweetest." Thus this example clearly indicates the centrality of understanding the architectonic  nature of politics. Thirdly, and perhaps least importantly, Socrates  has more clearly indicated a distinction that was suggested in the  previous example. It is a different matter to know that 'wholesome'  food is better for one than it is to know which foods are wholesome.  Socrates had, prior to this, been attempting to get Alkibiades to name  the art which provides the standard of the good in peace and war. Even  if Alkibiades had been able to name that art, there would have been no  indication of his substantive knowledge of the art. Conversely it might  be possible that he would have substantive knowledge of something without  being able to refer to it as a named art.   One might account for Alkibiades' inability to n  ame the art of  political advice by reference to something other than his knowledge and  ignorance. Perhaps the very subject matter would render such a statement  difficult. For instance, if politics is the 'art' which structures all  others, it would be with a view to politics that the respective 'betters'  in the other arts would be named. The referent of politics would be of  an entirely different order however. Perhaps its 'better,' the compre¬  hensive 'better,' would be simply 'the good.' At any rate, it is a  question of a different order, a different kind of question, insofar as  the instrumentally good is different from the good simply. This  suggestion is at least partly sustained by the observation that Socrates  uses a different method to discover the answer in this case than in the  previous 'patterns' supplied by wrestling and harping.   Alkibiades agrees that it does indeed seem disgraceful, but even  after further consideration he cannot say what the 'better' (the aim or  good providing a standard of better) is with respect to peace and war. As Socrates' question about the goddesses of harping deviated from the  example of wrestling, so Socrates' attempt here is a deviation. He asks  Alkibiades what people say they suffer in war and what they call it.   The reader might note peace has been omitted from consideration.  Alkibiades says that what is suffered is deceit, force and robbery  (109b), and that such are suffered in either a just or an unjust way.   Now it is clearer why 'peace' was not mentioned. It might be more difficult to argue in parallel fashion that the most important distinction  in peace was between just peace and unjust peace.   Socrates asks if it is upon the just or the unjust that Alkibiades  will advise the Athenians to  make war. Alkibiades immediately recognizes  at least one difficulty. If for some reason it would be necessary to go  to war with those who are just, the advisor would not say so. That is  the case not only because it is considered unlawful, but, as Alkibiades   adds, it is not considered noble either. Socrates assumes Alkibiades will appeal to these things when addressing the ekklesia . Alkibiades   here proves he understands the need for speaking differently to the   public, or at least for remaining prudently silent about certain matters.   Within the bounds of the argument to this point, wealth and   prestige (not to mention dire necessity) may be 'betters' in wars as readily as justice. One may only confidently infer two things from  Alkibiades' admissions. The people listening to the advice cannot be  told that those warred upon are just; and to tell them so would be un¬  lawful and ignoble. One might be curious as to the proper relation  between lawfulness, nobility and justice, and the reader of the dialogue,  in sorting out these considerations, might examine the argument surrounding this statement of their relation. The next few discussions in the First Alkibiades seem to focus on  establishing Alkibiades' claim to knowledge about justice. Either  Alkibiades has not noticed his own ignorance in this matter or Socrates  has not observed his learning and taking lessons on justice. Socrates  would like to know, and he swears by the god of friendship that he is  not joking, who the man.was who taught Alkibiades about justice.   Alkibiades wants to know whether he couldn't have learned it  another way. Socrates answers that Alkibiades could have learned it  through his own discovery. Alkibiades, in a dazzling display of quick  answers, responds that he might have discovered it if he'd inquired, and  he might have inquired if there was a time when he thought he did not  know. Socrates says that Aliibiades has spoken well (110a), but he  wants to know when that time was. Socrates seems to acknowledge  Alkibiades' skill in speaking. These formally sharp answers would  probably be the kind praised in question and answer games. Socrates  says Alkibiades has spoken well, but immediately instructs Alkibiades  about how to speak in response to the next question. Alkibiades is to  speak the truth; the dialogue would be futile if he didn't answer truly.  So here it is acknowledged that truth (at least for the sake of useful  dialogue) is the standard for speaking well. He quickly follows the  insincere praise with an indication of the real criteria for determining  if something was well-spoken. Socrates is not destroying Alkibiades'  notion of his ability to achieve ideals, he is instead destroying the  ideals. He acknowledged Alkibiades' skill and then suggests it is not  a good skill to have. Socrates, in effect, tells Alkibiades to forget  the clever answers and to speak the truth. One of the themes of  Socrates' instruction of the youth seems to be the teaching of proper goals or standards.   Alkibiades admits that a year ago he thought he knew justice and  injustice, and two, three and four years ago as well. Socrates remarks  that before that Alkibiades was a child and Socrates knows well enough  that even then the precocious child thought he knew. The philosopher had  often heard Alkibiades as a boy claim that a playmate cheated during a  game, and so labelled him unjust with perfect confidence (110b).  Alkibiades concedes that Socrates speaks the truth but asks what else  should he have done when someone cheated him? Socrates points out that  this very question indicates Alkibiades' belief that he knows the answer.  If he recognized his ignorance, Socrates responds, he would not ask what  else he should have done as though there was no alternative.   Alkibiades swears that he must not have been ignorant because he  clearly perceived that he was wronged. If this implies that, as a child,  he thought he knew justice and injustice, then so he must. And he admits  he couldn't have discovered it while he thought he knew it (110c).  Socrates suggests to Alkibiades that he won't be able to cite a time  when he thought he didn't know, and Alkibiades swears again that he can¬  not. Apparently, then, he must conclude that he cannot know the just on  the basis of discovery (llOd).   This argument appears to depend on the premise that one begins  at a loss, completely ignorant, and then one subsequently discovers what  justice is. But such an assumption is surely unwarranted. The discovery  could be a slow, gradual process of continual refinement of a child's  understanding of justice. Often one's opinions are changed because one  discovers something that doesn't square with previous beliefs. If one  is sufficiently confident of the new factor, one's beliefs may change. During the course of the succeeding dialogue, the reader may see a  number of ways in which this procedure might take place in a person's  life.   Socrates draws to Alkibiades' attention that if he   doesn't know justice by his own discovery, and didn't learn it from   others, how could he know it. Alkibiades suggests that perhaps he said   the wrong thing before and that he did in fact learn it, in the same way   as everyone else. It is not clear that this is a sincere move on   Alkibiades' part (though it proves later in the dialogue to have   support as being the actual account of the origin of most people's views   of justice). Perhaps in order to win the argument he is willing to   simply change the premises. Unfortunately, his changing of this one   entirely removes the need for the argument. Socrates doesn't bother   to point out to Alkibiades that if everybody knows it, and in the same   way, then Alkibiades has no claim to special expertise, and so no basis   for presuming to advise the Athenians. Alkibiades' abilities in speaking   have been demonstrated, a care and willingness to learn from dialogue   86   have yet to be instilled.   As is presently indicated to Alkibiades, his answer brings about   a return to the same problem - from whom did he learn it? To his reply   that the many taught him (llOe), Socrates responds that they are not   87   worthy teachers in whom he is taking refuge. They are not competent   88   to teach how to play and how not to play draughts and since that is  insignificant compared to justice, how can they teach the more serious  matter? Alkibiades perceptively counters this by pointing out that they  can teach things more worthy than draughts; it was they and no single    master who taught Alkibiades to speak Greek. Alkibiades by this point proves that he is capable of quick and  independent thought. He doesn't merely follow Socrates' lead in answer¬  ing but in fact points out an important example to the contrary. The  Greek language is taught by the many quite capably even though they can¬  not teach the less important draughts nor many other peculiar skills.   A number of issues important to the discussion are brought to the  surface by this example. First, one should notice that language is  another thing Alkibiades has learned which Socrates didn't mention.  Language is necessary for learning most other subjects, and one can learn  quite a lot by just listening to people speaking. A common language is  the precondition of the conversation depicted in the First Alkibiades ,  as is some general agreement, however superficial, between Socrates and  Alkibiades as to what they mean when they say 'justice.' In order to  have an argument over whether or not one of them is indeed knowledgeable  about justice and injustice, they must have some notion of what 'justice'  conventionally means. They are not talking about the height of the sky,  the price of gold, or the climate on mountaintops. Justice ( dikaios) is  a word in the Greek language. Most people share sufficient agreement  about its meaning so as to be able to teach people how the word should  be used. This conventional notion of justice thus informs a child's  sense of justice, and as is shown by the strategy of the Republic as  well as of the First Alkibiades , the conventional opinions about justice  must be dealt with and accounted for in any more philosophic treatment.   One must assume that conventional opinions about justice have  some connection, however tenuous, with the truth about it. This exempli¬  fies the peculiar nature of 'agreement' as a criterion of knowledge.   That experts agree about their subject matter is not altogether beside the point, but too much emphasis should not be placed upon it. There are  innumerable examples of "sectarian" agreements, none of which by that  fact have any claim to truth. There is also considerable agreement in  conventional opinions and the "world-views" of various communities  which must be accounted for but not necessarily accepted.   Socrates admits to Alkibiades (whom he chooses to address, at  this moment, as "well-born," perhaps in order to remind him that he dis¬  tinguishes himself from the many) that the people can be justly praised  for teaching such things as language, for they are properly equipped  (and actually the many do not teach one how to use language well). To  teach, one ought to know, and an indication of their knowing is that they  agree among each other on the language. If they disagreed they couldn't  be said to know and wouldn't be able to teach. One might parenthetically  point to some other important things that the many teach. Children learn  the laws from the many, including the laws/rules of games. To call some¬  one a cheater (110b) does not mean someone knows justice; they simply  must know the rules of the game and be able to recognize when such rules  have been violated. Rules of games are strictly conventional. They gain  their force from an agreement, implicit or explicit, between the players.  One might wonder if justice is, correspondingly, the rules of a super-  game, or if it is something standing behind all rule-obeying.   The many agree on what stone and wood are. If one were to say  "stone" or "wood," they could all reach for the same thing. That is what  Alkibiades must mean by saying that all his fellow citizens have knowledge  of Greek. And they are good teachers in as much as they agree on these  terms in public and private. Poleis also agree among each other (111b,    118d, 126c-e; cf. Lakhes 186d). Anyone who wanted to learn what stone  and wood were would be rightly sent to the many.   The fact that Greeks agree with each other when they name objects  hardly accounts for their knowledge of the language, much less their   ability to teach it. Naming is far from being the bulk of speaking a   , 89   language, (Hobbes and Scripture to the contrary notwithstanding ). Not   only is it improper to consider many parts of speech as having the   function of designating things, but even descriptive reference to the   sensible world is only a partial aspect of the use of language. To   mention only a few everyday aspects of language that do not obviously   conform, consider the varied use of commands, metaphors, fables, poetry   and exclamation. To suggest that what constitutes one's knowledge of a   language is to point to objects and use nouns to name them, would be   completely inadequate. It would be so radically insufficient, in fact,   that it could not even account for its own articulation.   Language consists of much more than statements which correspond  to observables in the actual world. But even were one to restrict one's  examination of language to understanding what words mean, or refer to,  one would immediately run into difficulties. All sorts of words are  used in everyday language which demand some measure of evaluation on the  part of the user and the listener. A dog may be pointed to and called  "dog." A more involved judgement is required in calling it a "wild dog,"  or "wolf," not to say a "bad dog." Agreement or disagreement on the use  of such terms does not depend on knowledge of the language as much as on  the character of the thing in question.   There are problems even with Socrates' account of naming. One  cannot be certain that the essence of a thing has been focussed upon by  those giving the name to the thing. One might fasten upon the material, or the form, or yet some other feature of the object. For example, a  piece of petrified wood, or a stone carving of a tree would significantly  complicate Socrates' simple example. It is not at all clear that the  same thing would be pointed to if someone said "stone." The reader may  remember that the prisoners in the cave of the Republic spend quite a bit  of their time naming the shadows on the wall of the cave ( Republic 515b,  516c). The close connection between this discussion and that of the  Republic is indicated also by the fact that the objects which cast the  shadows in the cave are made of stone and wood ( Republic 515a.1). People  in the cave don't even look at the objects when they name things.  According to the analogy of the cave they would be the people teaching  Alkibiades to speak Greek; they are the people in actual cities. And  what they call "stone" and "wood" are only an aspect of stone and wood,  the shadowy representations of stone and wood. If the essences of stone  and wood, comparatively simple things, are not denoted by language, one  can imagine in what the agreement might consist in the popular use of  words like "City" and "Man." The question of the relation of a name to  the essential aspect of the thing adds a significant dimension to the  philosophic understanding of the human use of language.   Alkibiades and Socrates seem to be content with this analysis of  naming, however, and Socrates readily proceeds to the next point in the  argument. If one wanted to know not only what a man or a horse (note  the significance of the change from stone and wood) was, but which was a  good runner, the many would not be able to teach that - proof of which  is their disagreement among themselves. Apparently finding this example  insufficient, Socrates adds that should one want to know which men were  healthy and which were diseased, the many would also not be able to  teach that, for they disagree (llle).   Notice two features of these examples that may be of philosophic   interest. To begin with, the respective experts are, first the gymnastics trainer and second, the physician. In this dialogue, both the gymnastics  expert and the doctor have arguments advanced on their behalf, supporting  their claim to be the proper controllers of, or experts about, the whole  body (126a-b, 128c). As supreme rulers of the technae of the body they  have different aspects of the good condition in mind and consequently  might give different advice (for example on matters of diet). Thereupon  one is confronted with the standard problem of trying to maintain two or  more supreme authorities: which one is really the proper ruler in the  event of conflict.   There is yet another aspect of the same problem that is of some  concern to the reader of the First Alkibiades . One might say that the  relation of the body to the soul is a very persuasive issue in this  dialogue, and the suggestion that there are two leaders in matters of  the body causes one to wonder whether there is a corresponding dual  leadership in the soul.   Secondly, the reader notices that the composition of "the many"  shifts on the basis of what is being taught. On the one hand, the doctor  fits into "the many" as being unable to tell the good runner; on the  other hand, when the focus is on health, all but the doctor appear to  constitute "the many."   The question of how to understand the make-up of the many points  to a very large issue area in philosophy, namely that which is popularly  termed the 'holism vs. individualism debate,' or more generally, the    question of the composition and character of groups. What essentially characterizes groups - in particular that politically indispensible  group, "the many?" This issue is not superfluous to this dialogue, nor  to this portion of this dialogue. By placing the doctor alone against  the many (in the second example), one unwittingly contradicts oneself.  Alkibiades and Socrates fall among the ranks of the Many as well as the  Few.   Perhaps the most obvious problem connected with determining the  composition of the group, "the many," is brought into focus when one  tries to discover how one "goes to the many" to learn (llld). There are  quite a few possibilities. Does the opinion of "the many" become the  average (mean) opinion of all the different views prevalent in a city?   Or is it the opinion held by the majority? One might go to each indi¬  vidual, to each of a variety of representative individuals, or even to  51% of the individuals in a given place, and then statistically evaluate  their opinions, arriving at one or another form of majority consensus.   Or, one might determine conventional opinion by asking various indi-   91   viduals what they believe everyone else believes. There seem to be  countless ways of understanding "the many," each of which allows for  quite different outcomes. The problems for the student of political  affairs, as well as for the aspiring politician, are compounded because  the many do not appear to hold a single view unanimously or unambiguously  on many of the important questions.   Regardless of which is the appropriate understanding of "the many,  the reader must at all events remember that "the many" and "the few" are  a perennial political division. There are, likewise, several ways in  which "the few" are conceived. Some consider them to be the men of    wealth, the men of virtue, the men of intelligence, and so on. Reference to "the few," however, is rarely so vague as reference to the many,  since people who speak of "the few" are usually aware of which criteria  form the bases of the distinction. Despite the lack of clarity con¬  cerning the division between "the many" and "the few," it is appealed  to, in most regimes as being a fundamental schizm. Most regimes, it may  be ventured, are in fact based either upon the distinction, or upon  trying to remove the distinction, and they appeal to this division,  however vague, to legitimate themselves.   At this point in the discussion of the First Alkibiades (llle),  Alkibiades and Socrates are considering whether the many are capable  teachers of justice. They appear to be making their judgement solely on  the basis of the criterion of agreement. One might stop to consider not  only whether agreement is sufficient to indicate knowledge, but indeed  whether it is even necessary. One cannot simply deny the possi¬  bility that one might be able to gain knowledge because of disagreements.  Profound differences of opinion might indicate the best way of learning  the truth, as, for example the disagreements among philosophers about  justice teaches at the very least what the important considerations might  be. Socrates continues. Since disagreement among the many indicates  that they are not able to teach (though lack of ability rarely prevents  them from trying anyway, cf. Apology 24c-25a; Gorgias 461c), Socrates  asks Alkibiades whether the many agree about justice and injustice, or if  indeed they don't differ most on those very concerns. People do not   92   fight and kill in battle because they disagree on questions of health,  but when justice is in dispute, Alkibiades has seen the battles. And if    he hasn't seen them (Socrates should know this, after all, cf. 106e) he has heard of the fights from many, particularly from Homer, because he's  heard the Odyssey and Iliad. Alkibiades' familiarity with Homer is of great significance. It,  along with his knoweldge of Greek, are probably the two most crucial  "oversights" in Socrates' list of what Alkibiades learned. In fact, they  are of such importance that they overshadow the subjects in which he did  take lessons, in terms of their effect on his character development, his  common-sense understanding, and on his suitability for political office.  Homer is an important source of knowledge and of opinion, and is respons¬  ible for there being considerable consensus of belief among the Greeks in  many matters. He provides the authoritative interpretation of the gods  as well as of the qualities and actions of great men. If Alkibiades  knows Homer and if he knows that Homer is about justice, then he has  learned much more about justice than one would surmise on the basis of  his formal schooling.   Alkibiades agrees with Socrates' remark that the Iliad and Odyssey  are about disagreements about justice and injustice. He also accepts the  interpretation that a difference of opinion about the just and the unjust  caused the battles and deaths of the Akhaians and Trojans; the dispute  between Odysseus and Penelope's suitors; and the deaths and fights of  the Athenians, Spartans and Boiotians at Tanagra and Koroneia. (One  notes that Socrates has blended the fabulous with the actual, and has  chosen, as his non-mythic example, probably the one over which it is  most difficult for Alkibiades to be non-partisan - the battle in which  his father died. This also raises his heritage to the level of the  epic.) The reader need not agree with this interpretation on a number  of counts. Firstly, the central case is noteworthy in that Socrates interprets Odysseus' strife with the men of Ithaka to be over a woman,  and not primarily the kingdom and palace. It is not at all clear, more¬  over, that what caused the altercation between Odysseus and the suitors  was a difference of opinion about justice. They might have all wanted  the same thing, but the reaction of the suitors at Odysseus' return   indicates that they didn't feel they were in the right - they admitted  93   gurlt. Secondly, what is noticeable in Homer is that only one aspect  of the epic is about the dispute about justice (and also, both Homeric  examples involve a conflict between eros and justice, represented by  Helen and Penelope). In the epics the disagreement among the many refers  not to the many of one polis but of various poleis against each other.  Indeed the many of each polis in the Trojan war agree.   These observations foreshadow the discussion that will presently  come to the fore in the dialogue under somewhat different circumstances.  The problem of the difference between the just and the expedient is a  key one in political philosophy, and it is introduced by the reflection  that in a number of instances disagreement does not focus on what the  just solution is, but on who should be the victor, who will control the  thing over which the sides are disputing. Both sides agree that it  would be good to control one thing. More shall be said about this later  in the context of the discussion.   Socrates inquires of Alkibiades whether the people involved in  those wars could be said to understand these questions if they could  disagree so strongly as to take extreme measures. Though he must admit  that  teachers of that sort are ignorant, Alkibiades had nevertheless re¬  ferred Socrates to them. Alkibiades is quite unaware of the nature of  justice and injustice and he also cannot point to a teacher or say when    he discovered them. It thus seems hard to say he has knowledge of them. Alkibiades agrees that according to what Socrates has said it is  not likely that he knows (112d). Socrates takes this opportunity to  teach Alkibiades a most important lesson. Though apparently a digression,  it will mark a pivotal point in the turning around of Alkibiades that  occurs by the middle of the discussion.   Socrates says that Alkibiades' last remark was not fair ( kalos)  because he claimed Socrates said that Alkibiades was ignorant, whereas  actually Alkibiades did. Alkibiades is astounded. Did he_ say it?   Socrates is teaching Alkibiades that the words spoken in an argument  ought indeed to have an effect on one's life, that the outcomes of argu¬  ments are impersonal yet must be taken seriously, and that responsibility  for what is said rests with both partners in dialogue. The results of  rational speech are to be trusted; reason is a kind of power necessarily  determining things. Alkibiades cannot agree in speech and then decide,  if it is convenient, to dismiss conclusions on the grounds that it was  someone else who said it. Arguments attain much more significance when  they are recognized as one's own. One must learn they are not merely  playthings (cf. Republic 539b). Accepting responsibility for them and  their conclusions is essential. It is important politically with  reference to speech, as well as in the more generally recognized sense  of assuming responsibility for one's actions. To cite an instance of  special importance to this dialogue, who is responsible for Alkibiades -  Perikles? Athens? Socrates? Alkibiades himself? One can often place  responsibility for one's actions on one's society, one's immediate  environment, or one's teachers. Perhaps it is not so easy to shun  responsibility for conclusions of arguments. Most men desire consistency    and at least feel uneasy when they are shown to be involved in  contradictions. In this discussion of who must accept responsibility for  the conclusions of rational discourse, Alkibiades learns yet another  lesson about the power of speech. He has, by his own tongue, convicted  himself of ignorance.   Socrates demonstrates to Alkibiades that if he asks whether one or  two is the larger number, and Alkibiades answers that two is greater by  one, it was Alkibiades who said that two was greater than one. Socrates  had asked and Alkibiades had answered; the answer was the speaker.  Similarly, if Socrates should ask which letters are in "Socrates" and  Alkibiades answered, Alkibiades would be the speaker. On the basis of  this the young man agrees that, as a principle, whenever there is a  questioner and an answerer, the speaker is the answerer. Since so far  Socrates had been the questioner and Alkibiades the answerer, Alkibiades  is responsible for whatever has been uttered.   What has been disclosed by now is that Alkibiades, the noble son   of Kleinias, intends to go to the ekklesia to advise on that of which he   knows nothing. Socrates quotes Euripides - Alkibiades "hear it from   94   [himself] not me." Socrates doesn't pull any punches. Not only does  he refer to an almost incestuous woman to speak of Alkibiades' condition,  but he follows with what must seem a painfully sarcastic form of address  (since it is actually ironic) which the young man would probably wish to  hear from serious lips. Alkibiades, the "best of men,' is contemplating  a mad undertaking in teaching what he has not bothered to learn.   Alkibiades has been hit, but not hard enough for him to change his  mind instead of the topic. He thinks that Athenians and the other Greeks  don't, in fact, deliberate over the justice of a course of action - they    consider that to be more or less obvious - but about its advantageousness  (113d). The just and the advantageous are not the same, for great in¬  justices have proven advantageous, and sometimes little advantage has been  gained from just action. Socrates announces that he will challenge  Alkibiades' knowledge of what is expedient, even if he should grant that  the just and the advantageous are ever so distinct (113e).   Alkibiades perceives no hindrance to his claiming to know what is  advantageous unless Socrates is again about to ask from which teacher  he learned it or how he discovered it. Hereupon Socrates remarks that  the young man is treating arguments as though they were clothing which,  once worn, is dirtied. Socrates will ignore these notions of Alkibiades,  implying that they involve an incorrect understanding of philosophic  disputation. Alkibiades must be taught that what is ever correct  according to reason remains correct according to reason. Variety in  arguments is not a criterion affecting their rational consistency.   Socrates shall proceed by asking the same question, intending it to, in  effect, ask the whole argument. He claims to be certain that Alkibiades  will find himself in the same difficulty with this argument.   The reader will recognize that Alkibiades is not likely to en¬  counter precisely the same problems with this new argument. The nature  of the agreement and disagreement by individuals and states over the  matter of usefulness or advantageousness is different than that concern¬  ing justice. A man may know it would be useful to have something, or  expedient to do something, and also know it to be unjust. States, too,  may agree on something's advantageousness, say controlling the Hellespont  but they may disagree on who should control it. The conflict in these  cases is not the result of a disagreement as to what is true (e.g., it  is true that each country's interests are better served by control of key sea routes), but it is based precisely on their agreement about the  truth regarding expediency. When states and individuals are primarily  concerned with wealth, then knowing what is useful presents far fewer  problems than knowing what is just.   Since Alkibiades is so squeamish as to dislike the flavor of old  arguments, Socrates will disregard his inability to corroborate his  claim to knowledge of the expedient. Instead he will ask whether the  just and the useful are the same or different. Alkibiades can question  Socrates as he had been questioned, or he can choose whatever form of  discourse he likes. As he feels incapable of convincing Socrates,  Alkibiades is invited to imagine Socrates to be the people of the  ekklesia ; even there, where the young man is eager to speak, he will have  to persuade each man singly (114b). A knowledgeable man can persuade one  alone and many together (114b-c). A writing master is able to persuade  either one or many about letters and likewise an arithmetician in¬  fluences one man or many about numbers.   For quite a few reasons the reader might object to Socrates'  inference from these examples to the arena of politics. Firstly, they  are not the kinds of things discussed in politics, and one might suspect  that the "persuasion" involved is not of the same variety. Proof of  this might be offered in the form of the observation that the inability  to persuade in politics does not necessarily imply the dull-wittedness  of the audience. Strong passions bar the way for reason in politics  like they rarely do in numbers and letters. This leads to the second  objection. Not only is knowledge of grammar and arithmetic fundamentally  different than politics, but they represent extreme examples in them¬  selves. They correspond to two very diverse criteria of knowledge both of which have been previously introduced in the dialogue. The subject  matter of letters is decided upon almost exclusively by agreement; that  of numbers is learned most importantly through discovery, and this does  not depend on people's agreement (cf. 112e-113a, 126c; and 106e reminds  one that Alkibiades has taken lessons only in one of these).   Presumably, however, if the arithmetician and grammarian can, then  Alkibiades also will be able to persuade one man or many about that which  he knows. Apparently the only difference between the rhetorician in front  of a crowd and a man engaged in dialogue is that the rhetorician persuades  everyone at once, the latter one at a time. Given that the same man per¬  suades either a multitude or an individual, Socrates invites Alkibiades  to practice on him to show that the just is not the expedient. (Ironically,  there may be no one Alkibiades ever meets who is further from the multitude).   If it weren't for his earlier statement (109c) where he indicated  his recognition of the difference between private and public speech, it  would appear that Alkibiades had quite a lot to learn before he confronted  the ekklesia . One might readily propose that there is indeed very little  similarity between persuading one and persuading the multitude. In a  dialogue one man can ask questions that reveal the other's ignorance;   Socrates does this to Alkibiades in this dialogue, he might not in public. In a dialogue, there needn't always be public pressure with which  to contend (an important exception being courtroom dialogue); a public  speech, especially one addressing the ekklesia must yield to or otherwise  take into account the strength of the many. Often when addressing a crowd  one only has to address the influential. At other times one need only  appeal to the least common denominator. There are factors at work in    crowds which affect reactions to a speaker, factors which do not seem to be present in one-to-one dialogue. When addressing a multitude, a speaker  must be aware of the general feelings and sentiments of the group, and  address himself to them. When in dialogue he can tailor his comments to  one man's specific interests. To convince the individual, however, he  will have to be precisely right in his deduction of the individual's senti¬  ments - in a crowd a more general understanding is usually sufficient.   Mere hints at a subject will be successful; when addressing a multitude  with regard to a policy, a rhetorician will not be taken to task for  every claim he makes. If his general policy is pleasing to the many, it  is unlikely that they will critically examine all of his reasons for pro¬  posing the policy. Also, when speaking to a crowd, one is not expected  to prove one's technical expertise. An individual may be able to discover  the limits of one's knowledge; a crowd will rarely ask. This whola  analysis, however, is rendered questionable by the ambiguity of the  composition of "the many," discussed above. One could, for example, come  across a very knowledgeable crowd, or a stupid individual and many of the  above observations would not hold. However, the situations most directly  relevant to the dialogue involve rhetoric toward a crowd such as that of  the ekklesia , and thoughtful dialogue between individuals such as  Alkibiades and Socrates.   If Alkibiades ever intends to set forth a plan of action to the  Athenians, the adoption of his proposal will depend on his convincing  them in the ekklesia . The ability to persuade the multitude attains  great political significance; and especially in democracies, a man's  ability in speaking is often the foundation of his power.   Once recognized, this power is susceptible to cultivation. Rhetoric, the art of persuasive speech, is the art which provides the knowledge requisite to gain effective power over an audience. All   political men are aware of rhetoric; their rhetorical ability to a large   95   extent determines their success or failure. Of course, there are at  least two important qualifications or limits on the power of even the  most persuasive speech. The first limit is knowledge. A man who knows  grammar and arithmetic will not be swayed wrongly about numbers, when  they are used in any of the conventional ways. That an able rhetorician  escape detection in a lie is a necessity if he is to be successful among  those knowledgeable in the topic he addresses. Presumably those who  possess only beliefs about the matter would be more readily seduced to  embrace a false opinion.   The second limit is more troubling. It is the problem of those   who simply are not convinced by argument. They distrust the spoken word.   These seem to fall into three categories. The first is exemplified in the   character of Kallikles in the Gorgias . It primarily includes those who   are unwilling to connect the conclusions of arguments to their own lives.   They may agree to something in argument and, moments later, do something   quite contrary to their conclusions. This characteristic is well-   displayed in Kallikles who, when driven to a contradiction doesn't even  96   care. He holds two conflicting opinions and holds them so strongly  that he doesn't even care that they support conclusions that are contrary  to reason and yield contrary results. Kallikles is unwilling to continue  discussing with Socrates ( Gorgias); he does not  want to learn from rational speech. He remains unconvinced by Socrates'  argument and by his rhetoric ( Gorgias). If Socrates is to rule Kallikles, he will need more than reason  and wisdom and beautiful speech ( Gorgias 523a-527e); he will need some kind of coercive power.   Secondly, almost all people have some experience of those who in¬  consistently maintain in speech what they do not uphold in deed. This is  the most immediate level on which to recognize the problem of the rela¬  tion of theory to practice. Alkibiades seems to have this opinion of  speech at the beginning of the dialogue, for he can admit almost anything  in speech (106c.2). Two things, however, show that he is far above it.   He implicitly recognizes that the realm of speech is the realm within  which he must confront Socrates, and he has a desire for consistency.  Kallikles is too dogmatic to even recognize his inconsistency. But when  Socrates forces Alkibiades to take responsibility for all the conclusions  they have reached to that point (112e. 5ff.), he realizes he must have  made an error either in his premises or his argument. This marks the  first and major turning around of Alkibiades. He recognizes that he has  said he is ignorant.   A third type of person who is not convinced by rhetoricians is the  one who distrusts argument because he recognizes the skill involved in  speaking. Not because he is indifferent to the compulsion of reason but  precisely because he wants to act according to reason, he desires to be  certain of not being tricked. (Most people are also familiar with the  feeling that something vaguely suspicious is going on in a discussion.)   He is convinced that there are men - e.g., sophists - who are skilled at  the game of question and answer and can make anyone look like a fool.   And so what? He is not at all moved by their victory in speech. Some¬  thing other than rational speech is needed to convince him. Indeed, this  is one of the most difficult challenges Socrates meets in the Republic ,    and indicates a higher level of the theory/practice relationship. Adeimantos is not convinced by mere words. He has to be shown that  philosophy is useful to the city, among other things ( Republic 487b.1-d.5;  498c.5 ff; 367d.9-e.5; 367b.3; 389a.10). Although he is distrustful of  mere speech, he learns to respect it as a medium through which to under¬  stand the political. He has the example of Socrates whose life matches,  or is even guided by, his speech. Socrates' difficulty lies in making  the case in speech to this man who does not put full stock in the con¬  clusions of speech. One must wonder, moreover, what kinds of deeds will  suffice for those others who cannot even view Socrates. This is the  problem faced by all writers who want to reach this sort of person.   Perhaps one might consider very clever speakers like Plato to be per¬  forming the deed of making the words of a Socrates appear like the deeds  of Socrates, in the speech of the Dialogues. Almost paradoxically, they  must convince through speech that speech isn't "mere talk."   Alkibiades charges Socrates with hybris and Socrates acknowledges  it for the time being, for he intends to prove to Alkibiades the opposite  view, namely that the just is the expedient (114d). Socrates doesn't  deny the charge, or even, as one might expect, playfully redirect it as  might be appropriate; the accusation is made by a man who, not much  later, will be considered hybristic by almost the entire Athenian public.  It is not clear precisely what is hybristic about Socrates' last remarks.  Hybris is a pride or ambition or insolence inappropriate to men. Perhaps  both men are hybristic as charged; in this instance it is not imperative  that they defend themselves for they are alone. Possibly anyone who  seeks total power as does Alkibiades, or wisdom like Socrates, is too  ambitious and too haughty. They would be vying with the gods to the  extent that they challenge civic piety and the supremacy of the deities of the polis . One wants to rule the universe like a god, the other to  know it like a god.   The charge of hybris has been introduced in the context of  persuading through speech. Allegedly the person who knows will have the  power to persuade through speech. This is itself rather a problematic  claim as it implies all failure to persuade is an indication of ignorance.  However questionable the assertion, though, the connection it recalls  between these three important aspects of man's life - knowledge, power  and language - is too thoroughly elaborated to be mere coincidence. It  is very likely that the reader's understanding of these two exceptional  men and the appropriateness of the charge of hybris will have something  to do with language's relation to knowledge and power. Alkibiades asks Socrates to speak, if he intends to  demonstrate to Alkibiades that the just is not distinct from the ad¬  vantageous. Not inclined to answer any questions (cf. 106b), Alkibiades  wishes Socrates to speak alone. Socrates, pretending incredulity, asks  if indeed Alkibiades doesn't desire most of all to be persuaded and  Alkibiades, playing along, agrees that he certainly does. Socrates  suggests that the surest indication of persuasion is freely assenting,  and if Alkibiades responds to the questions asked of him, he will most  assuredly hear himself affirm that the just is indeed the advantageous.  Socrates goes so far as to promise Alkibiades that if he doesn't say it,  he never need trust anybody's speech again.   This astonishingly extravagant declaration by Socrates bespeaks  certain knowledge on his part. Socrates implies he is confident of one  of two things. Perhaps he knows that the just is advantageous, or the  true relationship between the two, and thus argues for the proof of the claim that anyone who knows can persuade. (The immense difficulties with  this have already been suggested.) What is more likely, however, is that  he does not think the just is identical to the advantageous, but he knows  he can win the argument with Alkibiades and drive him to assert whatever  conclusion he wants (that he could in effect make the weaker argument  appear the stronger). If the latter is true, the reader is reminded of  the power of speech and the possible dangers that can arise from its use.  He will also wonder if Socrates is quite right in his proposal that  Alkibiades need never trust anyone's speech if he cannot be made to  agree. It seems to be more indicative of the untrustworthiness of speech  if Alkibiades should agree, not that he refuse to agree. However, the  reader has been placed in the enviable position of being able to judge  for himself, through a careful review of the argument. His personal  participation, to the limit of his ability, is after all the only means  through which he can be certain that he isn't being duped into believing  something instead of knowing it.   Alkibiades doubts he will admit the point, but agrees to comply,  confident that no harm will attend his answers. Whereupon Socrates  claims that Alkibiades speaks like a diviner (cf. 127e, 107b, 117b), and  proceeds, presuming to be articulating Alkibiades' actual opinion.   Some just things are advantageous and some are not (115a). Some  just things are noble and some are not. Nothing can be both base and  just, so all just things are noble. Some noble things might be evil and  some base things may be good, for a rescue is invested with nobility on  account of courage, and with evil because of the deaths and wounds.  However, since courage and death are distinct, it is with respect to  separate aspects that the rescue can be said to be both noble and evil.  Insofar as it is noble it is good, and it is noble because of courage.  Cowardice is an evil on par with (or worse than, 115d) death. Courage  ranks among the best things and death among the worst. The rescue is  deemed noble because it is the working of good by courage, and evil  because it is the working of evil by death. Things are evil because of  the evil produced and good on account of the good that results. In as  much as a thing is good it is noble and base inasmuch as it is evil.   To designate the rescue as noble but evil is thus to term it good but  evil (116a). In so far as something is noble it is not evil, and neither  is anything good in so far as it is base. Whoever does nobly does well  and whoever does well is happy (116b). People are made happy through  the acquisition of good things. They obtain good things by doing well  and nobly. Accordingly, doing well is good and faring well is noble.   The noble and good are the same. By this argument all that is noble is  good. Good things are expedient (116c) and as has already been admitted,  those who do just things do noble things (115a); those who do noble things  do good things (116a). If good things are expedient then just things are  expedient.   As Socrates points out, it is apparently Alkibiades who has  asserted all of this. Since he argues that the just and the expedient  are the same, he could hardly do other than ridicule anyone who rose up  to advise the Athenians or the Peparathians believing he knew the just  and the unjust and claiming that just things are sometimes evil. Before proceeding, the reader must pause and attempt to determine  the significance of the problem of the just versus the expedient. No  intimate familiarity with the tradition of political philosophy is re¬  quired in order to observe that the issue is dominant throughout the tradition/ perhaps most notably among the moderns in the writings of  Machiavelli and Hobbes who linked the question of justice and expediency  to the distinction between serving another's interest and serving one's  own interest. They, and subsequent moderns, in the spirit of the  "Enlightenment," then proceed with the intention of eradicating the dis¬  tinction. Self-interest, properly understood, is right and is the proper  basis for all human actions. Not only is there a widespread connection  between the issue, the traditional treatment of the issue, and human  action - but the reader might recall that the ancient philosophers, too,  considered it fundamental. One need only realize that the philosophic  work par excellence , Plato's Republic , receives its impetus from this  consideration. The discussion of the best regime (perhaps the topic of  political philosophy) arises because of Glaukon's challenging reformula¬  tion of Thrasymakhos' opinion that justice is the advantage of the  stronger. Recognition of this fact sufficiently corroborates the view  that this issue warrants careful scrutiny by serious students of political  philosophy. Socrates has chosen this topic as the one on which to  demonstrate the internal conflicts in Alkibiades' soul. Perhaps that  is a subtle indication to the reader as to where he might focus when he  begins the search for self-knowledge, the inevitable prerequisite for  his improvement.   Alkibiades swears by all the gods. He is overwhelmed. Alkibiades  protests that he isn't sure he knows even what he is saying; he continual¬  ly changes his views under Socrates' questioning. Socrates points out to  him that he must be unaware of what such a condition of perplexity  signifies. If someone were to ask him whether he had two or three eyes,  or two or four hands, he would probably respond consistently because he knows the answer. If he voluntarily gives contradictory replies, they  must concern things about which he is ignorant. Alkibiades admits it is  likely; but there are probably other reasons why one might give contra¬  dictory answers, just as one might intentionally appear to err - in speech  speech.   Alkibiades' ignorance with regard to justice, injustice, noble,  base, evil and good is the cause of his confusion about them. Whenever  a man does not know a thing, his soul is confused about that thing.   By Zeus (fittingly), Alkibiades concedes he is ignorant of how to  rise into heaven. There is no confusion in his opinion about that simply  because he is aware that he doesn't know. Alkibiades must take his part  in discerning Socrates' meaning. He knows he is ignorant about fancy  cookery, so he doesn't get confused, but entrusts it to a cook.   Similarly when aboard ship he knows he is ignorant of how to steer, and  leaves it to the pilot. Mistakes are made when one thinks one knows  though one doesn't. Otherwise people would leave the job to those who  do know. The ignorant person who knows he is ignorant doesn't make  mistakes (117e). Those who make mistakes are those who think they know  when they don't; those who know act rightly; those who don't, leave it  to others.   All this is not precisely true for a number of reasons. Chance  or fortune always plays a part and something unexpected could interfere  in otherwise correctly laid plans. Also, as any honest politician or  general would have to say, sometimes courses of action must be decided  and acted upon, even when one is fully cognizant of one's partial  ignorance.   The worst sort of stupidity, Socrates testifies is the stupidity conjoined with confidence. It is a cause of evils and the most pernicious  evils occur through its involvement with great matters like the just, the  noble, the good and the advantageous. Alkibiades' bewilderment regarding  these momentous matters, coupled with his ignorance of his very ignorance,  imputes to him a rather sorry condition. Alkibiades admits he is afraid so.   Socrates at this point (118b) makes clear to Alkibiades the nature  of his predicament. He utters an exclamation at the plight of the young  man and deigns to give it a name only because they are alone. Alkibiades,  according to his own confession, is attached to the most shameful kind of  stupidity. Perhaps to contrast Alkibiades' actual condition with what he  could be, Socrates chooses precisely this moment to refer to Alkibiades  as "best of men" (cf. also 113c). With such apparent sarcasm still  reverberating in the background, Socrates intimates that because of this  kind of ignorance he is eager to enter politics before learning of it.  Alkibiades, far from being alone, shares this lot with most politicians  except, perhaps, his guardian Perikies, and a few others.   Already recognized to be obviously a salient feature of the action  of the dialogue, the fact that the two are alone, engaged in a private  conversation, is further stressed here as the reader approaches the  central teaching of the First Alkibiades . Alkibiades has been turned  around and now faces Socrates. They can confide in each other even to  the extent of criticizing all or nearly all of Athens' politicians.   They shall, in the next while, be saying things that most people should  not hear. And at this moment it seems to be for the purpose of naming  Alkibiades' condition that Socrates reminds the reader of their privacy.   A number of possible reasons for the emphasis on privacy in this regard  come to mind. Socrates likely would not choose to call Alkibiades  stupid in front of a crowd.   In the first place, his having just recognized his ignorance makes  him far less stupid than the crowd and it would be inappropriate to have  them feel they are better than he. Alkibiades is by nature a cut above  the many, and it would be a sign of contempt to expose him to ridicule  in front of the many. Though he may be in a sorry condition, he is being  compared to another standard than the populace.   Secondly, to expose and make Alkibiades sensitive to public censure  is probably not in his best interests. A cultivation in most noble youths  of the appropriate source of their honor and dishonor is important.  Socrates, by not making Alkibiades feel mortified in front of the many,  is heightening his respect for the censure of men like Socrates. Without  this alternative, the man who seeks glory is confronted with a paradox of  sorts. He wants the love/adoration of the many, and yet he despises the  things they love or adore. Alkibiades is being shown that the praise of  few (and if the principle is pushed to its limit, eventually the praise  of one - oneself, i.e. pride) is more to be prized.   Thirdly, as Socrates explains to Meletus in his trial ( Apology  26a), when someone does something unintentionally, it is correct to  instruct him privately and not to summon the attention of the public.  Alkibiades is not ignorant on purpose; Socrates should privately instruct  him. It is also probable that Alkibiades will only accept private  criticism which doesn't threaten his status.   And perhaps fourthly, if Socrates were to insult Alkibiades in  public the many would conclude that there was a schizm between them.  Because they are men whose natures are akin, and because of their  (symbolic) representation of politics and philosophy, or power and knowledge, any differences they have must remain private. It is in their  best interest as well as the interest of the public, that everyone per¬  ceive the two as being indivisible. And as was observed earlier, even  the wisest politicians must appear perfectly confident of their knowledge  and plans. This is best done if they conceal their private doubts and  display complete trust in their advisors, providing a united front when  facing the many.   When Socrates suggests Perikles is a possible exception, Alkibiades  names some of the wise men with whom Perikles conversed to obtain his  wisdom. Those whom he names are conventionally held to be wise; Alkibiades  might not refer to the same people by the end of this conversation with  Socrates. In any event, upon Alkibiades' mention of the wise men,   Socrates insinuates that Perikles' wisdom may be in doubt. Anybody who  is wise in some subject is able to make another wise in it, just as  Alkibiades' writing teacher taught Alkibiades, and whomever else he  wishes, about letters. The person who learns is also then able to en¬  lighten another man. The same holds true of the harper and the trainer  (but apparently not the flute player, cf. 106e). The ability to point  to one's student and to show his capability is a fine proof of knowing  anything. If Perikles didn't make either of his sons wise, or Alkibiades'  brother (Kleinias the madman) ,why is Alkibiades in his sorry condition?  Alkibiades confesses that he is at fault for not paying attention to  Perikles. Still, he swears by the king of gods that there isn't any  Athenian or stranger or slave or foreman who is said to have become wise  through conversation with Perikles, as various students of sophists have  been said to have become wise and erudite through lessons. Socrates  doesn't need to explicate the conclusion. Instead, he asks Alkibiades what he intends to do.   The conclusion of the argument is never uttered. It is obviously  meant to question Perikles' wisdom, but rather than spell it out, the  topic is abruptly changed. If Perikles were dead, not alive and in  power, piety would not admit of even this much criticism to be levied.  Alkibiades would be expected to defend his uncle against those outside  the family; and all Athenians to defend him against critics from other  poleis . In addition, if this was a public discussion, civic propriety  would demand silence in front of the many concerning one's doubts about  the country's leaders. But since they are indeed alone, and need not  worry about the effects on others of their discussion of Perikles'  wisdom, they might have concluded the argument. The curious reader will  likely examine various reasons for not finishing it. Three possibilities  appear to be somewhat supported by the discussion to this point.   One notices, to begin with, that it would be adequate for the  argument, if a person could be found who was reputed to have gained  wisdom from Perikles. Given that a reputation among the many has not  been highly regarded previously in the dialogue, there seems little need  to press this point in the argument. If a man was said to have been  made wise by Perikles, the criteria by which that judgment would be made  seem much less reliable than the criteria whereby the many evaluate a  man's skill in letters. There is no proof of Perikles' ability to make  another wise in finding someone who is reputed to be wise. Conversely,  Perikles may well have made someone wise who did not also achieve the  reputation for wisdom.   A second point in connection with the argument is that the three  subjects mentioned are those in which Alkibiades has had lessons. Alkibiades has ability in them, yet cannot point to people whom he has  made wise in letters, harping or wrestling. That does not seem sufficient  proof that he is ignorant (thus that his master was ignorant and so on) .   It is also not clear that Alkibiades' teachers could have made any student  whomsoever they wished, wise in these subjects; Perikles 1 sons must have  achieved their reputation as simpletons (118e) from failing at something.  Knowledge cannot require, for proof, that one has successfully taught  someone else. Not all people try to teach what they know. There must be  other proofs of competence, such as winning at wrestling, or pleasing an  audience through harping. Similarly, not having taught someone may not  prove one's ignorance; it may just indicate unwilling and incapable  students. Alkibiades, for example, didn't learn to play the flute. There  is no indication that his teacher was incapable - either of playing or of  teaching. Alkibiades is said to have refused to learn it becaus e of con¬  siderations of his own. It might also be suggested that pointing to  students doesn't solve the major problem of proving someone's knowledge.   Is it any easier to recognize knowledge in a student than in a teacher?   A third closely connected point is that some knowledge may be of   such significance that the wise man properly spends his time actively   98   using it (e.g., by ruling) and not teaching it. Perikles, through  ruling, may have made the Athenians as a whole better off, and perhaps  even increased their knowledge somewhat. Had his son and heirs to his  power observed his example while he was in office, they too might have  become wiser. Adding further endorsement to this notion is the quite  reasonable supposition that some of the things a wise politician knows  cannot be taught through speech but only through example, just as some  kinds of knowledge must be gained by experience. He may communicate his teaching through his example, or even less obviously, through whatever   institutions or customs he has established or revised. Some subjects   should  probably also be kept secret for the state, and some types of   prudential judgement are acquired only be guided experience. Perikles's very silence,  indeed, may be a testimony to his political wisdom.   In response to Socrates' question as to what Alkibiades will do,  the young man suggests that they put their heads together (119b). This  marks the completion of Alkibiades' turning around. Alkibiades, who  began the discussion annoyed and haughty has requested Socrates' assistance in escaping his predicament. He is ready to accept Socrates' advice.  This locution (of putting their heads together) will be echoed later by  Socrates (124c) and will mark another stage of their journey together.   The central portion of the dialogue, the portion between the two joinings  of their heads, is what shall be taken up next. Since most of the men who do the work of the polis are uneducated  (119b), Alkibiades presumes he is assured of gaining an easy victory  over them on the basis of his natural qualities. If they were educated,  he would have to take some care with his learning, just as much training  is required to compete with athletes. But they are ignorant amateurs  and should be no challenge.   Socrates launches into an exclamatory derision of this "best of  men." What he has just said is unworthy of the looks and other resources  of his. Alkibiades doesn't know what Socrates means by this and Socrates  responds that he is vexed for Alkibiades and for his love. Alkibiades  shouldn't expect this contest to be with these men here. When Alkibiades  inquires with whom his contest is to be, Socrates asks if that is a  question worthy of a man who considers himself superior. Alkibiades wants to ascertain if Socrates is suggesting that his contest is not with these  men, the politicians of the polis .   This passage is central to the First Alkibiades . The answer im¬  plicit in Socrates' response I deem to be far more profound than it might  seem to the casual observer. Hopefully the analysis here will support  this judgement and show as well, that this question of the contest (agon)  is a paramount question in Alkibiades' life, in the lives of all superior  men, and in the quest for the good as characterized by political philosophy.   If Alkibiades' ambition is really unworthy of him, if he thinks he  ought to strive only be be as competent as the Athenians, then Socrates  is vexed for his love. Earlier (104e) the reader was informed that  Socrates would have had to put aside his love for Alkibiades if Alkibiades  proved not to have such a high ambition. Thus Socrates was attracted to  Alkibiades' striving nature. He followed the youth about for so long  because Alkibiades' desires for power were growing. What thus differ¬  entiates Alkibiades from other youths (such as several of those with  whom Socrates is shown in the dialogues, to have spent time) is that he  has more exalted ambitions than they. Should Socrates come to the con¬  clusion that Alkibiades does not in fact have this surpassing will for  power, the philosopher would be forced to put away his love for  Alkibiades. Now, after some discussion, it seems there is a possibility  that Alkibiades wants only to be as great as other politicians. Many  boys wish this; Alkibiades' eros would not be outstanding. Were this  true, it would indeed be no wonder if Socrates were vexed for his love.   However, it appears that this is just something Alkibiades has  said (119c.3, 9). Socrates' love is not released, so Alkibiades passes  this, the test of Socrates' love. It is at this point in the dialogue that one can finally discern the character of the test. The question,  really, is what constitutes a high enough ambition. An athlete must try  to find out with whom to train and fight, for how long, how closely, and  at what time (119b; 107d-108b). He determines all of this himself; he  determines, in other words, the extent of his ambition to improve and  care for himself in terms of his contest. That with whom he fights  determines how he prepares himself. The contest is thus a standard  against which to judge his achievement.   The next step appears to be obvious: for the athlete of the soul  as well as the athlete of the body, the question is with whom ought he  contest. Socrates suggests shortly that should Alkibiades' ambition be  to rule Athens, then his contest would rightly be with other rulers,  namely the Spartan kings and the Great King of Persia. Since Socrates  apparently proceeds to compare in some detail the Spartan and Persian  princes' preparations for the contest, the surface impression is that  Alkibiades really must presume his contest to be with the Persians and  Spartans. The reader remembers, however, that Alkibiades would rather  die than be limited to ruling Athens (105b-c). What is the proper  contest for someone who desires to rule the known, civilized world and  to have his rule endure beyond his own lifetime; what is the preparation  requisite for truly great politics? At this point the question of the  contest assumes an added significance. The reference cannot be any  actual ruler; the inquiry has encountered another dimension of complexity.   The larger significance is, it is suspected, connected to the  earlier, discussion about the role of the very concept of the superior  man in political philosophy, particularly in understanding the nature of  man. The very idea that a contest for which one ought to prepare oneself is with something not actualized by men of the world (at least not in an  obvious sense since it cannot be any actual ruler) poses problems for  some views of human nature. For example, in the opinion of those who  believe that man's "nature" is simply what he actually is, or what is  "out there"; the actual men of the world and their demonstrated range  of possibilities are what indicate the nature of man. On this view,  man's nature, typically is understood to be some kind of statistical norm.  These people will agree that politics is limited by man and thought about  political things is thus limited by man's nature, but they will not con¬  cede the necessity of looking toward the best man.   The argument to counter this position is importantly epistemo¬  logical. It is almost a surety that any specific individual will deviate  from the norm to some degree, and the difference can only be described as  tending to be higher or lower than, or more or less than, the norm. This  deviation, which is to one side or other of the norm, makes the individual  either better or worse than the norm. Thus individuals, it may be said,  can be arranged hierarchically based on their position relative to the  norm and "the better”.  Whenever one tries to account for an individual's hierarchical  position vis a vis the norm, it is done in terms of circumstances which  limit or fail to limit his realization of his potential. Since no one  is satisfied with an explanation of a deviation such as "that is under¬  standable, 25% of the cases are higher than normal," some explanation of  why this individual stopped short, or proceeded further than average is  called for. 100 The implicit understanding of the potential, or of the  proper/ideal proportions, then, is what allows for comparison between  individuals. By extension, this understanding of the potential, whether or not it is actualized, is what provides the ability to judge between  regimes or societies. The amount a polity varies (or its best men, or  its average men) from the potential is the measure of its quality  relative to other polities. The explanation of this variation (geo¬  graphic location, form of regime, economic dependency, or other standard  reasons) will be in terms of factors which limit it from nearing, or  allow it to approach nearer the goal.   As it is not uniformly better to have more and not less the normal  of any characteristic, any consistent judgement of deviation from the norm  must be made in light of the best. Indeed, it usually is, either explicitly or implicitly. This teleological basis of comparison is the  common-sensical one, the prescientific basis of judgement. When someone  is heard to remark "what a man," one most certainly does not understand  him to be suggesting that the man in question has precisely normal  characteristics. Evaluating education provides a clear and fitting  example of how the potential, not the norm, serves as the standard for  judging. A teacher does not attempt to teach his students to conform  to the norm in literary, or mathematical ability. It would be ludicrous  for him to stop teaching mid-year, say, because the normal number of his  students reached the norm of literacy for their age. Indeed, education  itself can be seen as an attempt to exceed the norm (in the direction of  excellence) and thereby to raise it. That can only be done if there is  a standard other than the norm from which to judge the norm itself. The  superior man understands this. He competes with the best, not the norm.   As a youth he comes to know that a question central to his ambition, or  will for power is that of his proper contest.   The theoretical question of how one knows with whom to compete is very difficult although it may (for a long time) have a straightforward  practical solution. It is at the interface between the normally accepted  solution and the search for the real answer that Alkibiades and Socrates  find themselves, here in the middle of their conversation.   For most people during part of their lives, and for many people  all of their life, the next step in one's striving, the next contestant  one must face, is relatively easy to establish. Just as a wrestler pro¬  ceeds naturally from local victory through stages toward world champion¬  ship, so too does political ambition have ready referents - up to a  point. It is at that point that Alkibiades finds himself now, no doubt  partly with the help of Socrates prodding his ambitions (e.g., 105b. ff,  105e). What had made it relatively easy to know his contestant before  were the pictures of the best men as Alkibiades understood them, namely  politically successful men, Kyros and Xerxes (much as an ambitious  wrestler usually knows that a world championship title is held by some¬  one in particular). Alkibiades' path had been guided. Socrates has  chosen to address Alkibiades now, perhaps because Alkibiades' ambition  is high enough that the conventional models no longer suffice. Alkibiades  is at the stage wherein he must discover what the truly best man is,  actual examples have run out. He recognizes that he needs Socrates' help  (119b); no one else has indicated that Alkibiades' contest might take  place beyond the regular sphere of politics, with contestants other than  the actual rulers of the world. But how is he to discover the best man  in order that he may compete?   This is the theoretical question of most significance to man, and  could possibly be solved in a number of ways. Within the confines of the  dialogue, however, this analysis will not move further than to recognize both the question/ and its centrality to political philosophy. 101 To  note in passing, however, there may be many other questions behind that  of the best man. There may, for example, be more than one kind of best  man, and a decision between them may involve looking at a more prior  notion of "best." At any rate, it has been shown that it is apparently no accident  that the central question in a dialogue on the nature of man is a question  by a superior youth as to his proper contest. What is not yet understood  is why a philosophic man's eros is devoted to a youth whose erotic  ambition is for great politics, a will to power over the whole world.   By means of a thinly veiled reference to Athen's Imperial Navy,  over which Alkibiades would later have full powers as commander, Socrates  attempts to illustrate to the youth the importance of choosing and recog¬  nizing the proper contestants. Supposing, for example, Alkibiades were  intending to pilot a trireme into a sea battle, he would view being as  capable as his fellows merely a necessary qualification. If he means to  act nobly ( kalos ) for himself and his city, he would want to so far sur¬  pass his fellows as to make them feel only worthy enough to fight under  him, not against him. It doesn't seem fitting for a leader to be satis¬  fied with being better than his soldiers while neglecting the scheming  and drilling necessary if his focus is the enemy's leaders. Alkibiades  asks to whom Socrates is referring and Socrates responds with another  question. Is Alkibiades unaware that their city often wars with Sparta  and the Great King? If he intends to lead their polis , he'd correctly   suppose his contest was with the Spartan and Persian kings. His contest  is not with the likes of Meidias who retain a slavish nature and try to  run the polis by flattering, not ruling it. If he looks to that sort  for his goal, then indeed he needn't learn what's required for the  greatest contest, or perform what needs exercising, or prepare himself  adequately for a political career. Alkibiades, the best of men,  has to consider the implications of believing that the Spartan generals  and the Persian kings are like all others (i.e., no better than normal). 103  Firstly, one takes more care of oneself if one thinks the opponents worthy,  and no harm is done taking care of oneself. Assuredly that sufficiently   establishes that it is bad to hold the opinion that they are no better than anyone else.   Almost as a second thought, Socrates turns to another criterion   which might indicate why having a certain opinion is bad - truth (cf.   Republic 386c). There is another reason, he continues, namely that the   opinion is probably false. It is likely that better natures come from   well-born families where they will in the end become virtuous in the event they are well brought up. The Spartan and Persian kings, descended   from Perseus, the son of Zeus, are to be compared with Socrates' and  Alkibiades' ancestral lines to see if they are inferior. 100 Alkibiades  is quick to point out that his goes back to Zeus as well, and Socrates  adds that he comes from Zeus through Daidalos and Hephaistos, son of Zeus.  Since ancestral origin in Zeus won't qualitatively differentiate the  families, Socrates points out that in both cases - Sparta and Persia -  every step in the line was a king, whereas both Socrates and Alkibiades  (and their fathers) are private men. The royal families seem to win the  first round. The homelands of the various families could be next com¬  pared, but it is likely that Alkibiades' her   itage, which Socrates is able  to describe in detail, would arouse laughter. In ancestry and in birth  and breeding, those people are superior, for, as Alkibiades should have observed, Spartan kings have their wives guarded so that no one outside the line could corrupt the queen, and the Persians have such awe for  the king that no one would dare, including the queen.   With the conclusion of Socrates' and Alkibiades' examination of  the various ancestries of the men, and before proceeding to the dis¬  cussions of their births and nurtures, a brief pause is called for to  look at the general problem of descent and the philosophic significance  to have in this dialogue. References to familial descent are diffused throughout the First  Alkibiades . It begins by calling attention to Alkibiades' ancestry and  five times in the dialogue is he referred to as the son of Kleinias. On two occasions he is even addressed as the  son of Deinomakhe. If that weren't enough, this dialogue  marks one of only two occasions on which Socrates' mother, the midwife  Phainarete, is named (cf. Theaitetos 149a). The central of the things  on which Socrates said Alkibiades prides himself is his family, and  Socrates scrutinizes it at the greatest length. The sons of Perikles  are mentioned, as are other familial relations such as the brother of  Alkibiades. The lineages of the Persian kings, of the Spartan kings,  of Alkibiades and Socrates are probed, and Socrates reveals that he has  bothered to learn and to repeat the details. The mothers of the Persian  kings and Spartan kings are given an important role in the dialogue, and  in general the question of ancestry is noticeably dominant, warranting  the reader's exploration.   As already discussed in the beginning, the reference to Alkibiades'  descent might have philosophic significance in the dialogue. Here again,  the context of the concern about descent is explicitly the consideration of the natures of men. Better natures usually come from better ancestors  (as long as they also have good nurtures). At the time of birth, an  individual's ancestry is almost the only indication of his nature, the  most important exception being, of course, his sex. But, as suggested by  Socrates' inclusion of the proviso that they be well brought up (120e), a  final account of man's nature must look to ends not only origins, and to  his nurture, not only descent. Nurture ( paideia) is intended to mean a  comprehensive sense of education, including much more than formal school¬  ing; indeed, it suggests virtually everything that affects one's up¬  bringing. The importance of this facet in the development of a man's  nature becomes more obvious when one remembers the different character¬  istics of offspring of the same family (e.g., Kleinias and Alkibiades,  both sons of Kleinias and Deinomakhe, or the sons of Ariston participating  in the Republic ). These suggestions, added to the already remarked upon  importance of nurture in a man's life, mutually support the contention  that nature is to be understood in terms of a fulfilled end providing a  standard for nurture. The nature of man, if it is to be understood in  terms of a telos , his fulfilled potential, must be more than that which  he is born as. An individual's nature, then, is a function of his  descent and his nurture. Often they are supplementary, at least super¬  ficially; better families being better educated, they are that much more  aware and concerned with the nurture of their offspring. 'Human nature'  would be distinguished from any individual's nature in so far as it  obviously does not undergo nurture; but if properly understood, it pro¬  vides the standard for the nurture of individuals. To the point of birth,  then, ancestry is the decisive feature in a man's nature, and thus sets  limits on his nature. When his life begins, that turns around, and education and practice become the key foci for a man's development. After birth a man cannot alter his ancestry, and nurture assumes its   role in shaping his being, his nature.   The issue is addressed in a rather puzzling way by Socrates' claim   that his ancestry goes through Daidalos to Hephaistos, the son of Zeus.   This serves to establish (as authoritatively as in the case of the others)   that he is well-born. It does nothing to counter Alkibiades' claim that   he, like the Persian and Spartan kings, is descended from Zeus (all of   them claiming descent from the king of the Olympians); in other words, it   does not appear to serve a purpose in the explicit argument and the   reader is drawn to wonder why he says it.   Upon examination one discovers that this is not the regular story.   Normally in accounts of the myths, the paternal heritage of Hephaistos   is ambiguous at best . Hesiod relates that Hephaistos was born from Hera   109   with no consort. Hera did not mate with a man; Haphaistos had no   father. 1 '*’ 0 Socrates thus descends from a line begun by a woman - the  queen of the heavens, the goddess of marriage and childbirth (cf.  Theaitetos 148e-151e; also 157c, 160e-161e, 184b, 210b-c; Statesman  268b). By mentioning Hephaistos as an ancestor, Socrates is drawing  attention to the feminine aspect of his lineage. An understanding of  the feminine is crucial to an account of human nature. The male/female  division is the most fundamental one for mankind, rendering humans into  two groups (cf. Symposium 190d-192d). The sexes and their attraction  to each other provide the most basic illustration of eros , perhaps man's  most powerful (as well as his most problematic) drive or passion. Other  considerations include the female role in the early nurture of children  (Republic 450c) and thus the certain, if indirect effect of sex on the polls (it is not even necessary to add the suspicions about a more subtle  part for femininity reserved in the natures of some superior men, the  philosophers). Given this, it is quite possible that Socrates is sug¬  gesting the importance of the male/female division in his employment of  'descent' as an extended philosophic metaphor for human nature.   A brief digression concerning Hephaistos and Daidalos may be use¬  ful at this point. Daidalos was a legendary ingenious craftsman, in¬  ventor and sculptor (famous for his animate sculptures). He is said to  have slain an apprentice who showed enough promise to threaten Daidalos'  supremacy, and he fled to Krete. In Krete he devised a hollow wooden  cow which allowed the queen to mate with a bull. The offspring was the  Minotaur. Daidalos constructed the famous labyrinth into which select  Athenian youths were led annually, eventually to be devoured by the  Minotaur. ^ Daidalos, however, was suspected of supplying the youth  Theseus (soon to become a great political founder) with a means to exit  from the maze and was jailed with his son Ikaros. A well known legend  tells of their flight. Minos, the Kretan king was eventually killed in  his pursuit of Daidalos.   Hephaistos was the divine and remarkably gifted craftsman of the  Olympians, himself one of the twelve major gods. Cast from the heavens  as an infant, Hephaistos remained crippled. He was, as far as can be  told, the only Olympian deity who was not of surpassingly beautiful  physical form. It is interesting that Socrates would claim descent from  him. Hephaistos was noted as a master craftsman and manufactured many  wondrous things for the gods and heroes. His most remarkable work might  have been that of constructing the articles for the defence of the noted  warrior, Akhilleus, the most famous of which was the shield (Homer,  Iliad y XVIII/ 368-617).   The next topic discussed in this, the longest speech in the dialogue, is the nurture of the Persian youths. Subsequently Socrates   discourses about Spartan and Persian wealth and he considers various   possible reactions to Alkibiades' contest with the young leaders of both   countries. The account Socrates presents raises questions as to his   possible intentions. It is quite likely that Socrates and Xenaphon, who   also gives an account of the nurture of the Persian prince, have more in   mind than mere interesting description. Their interpretations and   presentations of the subject differ too markedly for their purposes to have been simply to report the way of life in another country. Thus,   rather than worry over matters of historical accuracy, the more curious  features of Socrates' account will be considered, such as the relative  emphasis on wealth over qualities of soul, and the rather lengthy  speculation about the queens', not the kings', regard for their sons.   In pointed contrast to the Athenians, of whose births the  neighbors do not even hear, when the heir to the Persian throne is  born the first festivities take place within the palace and from then on  all of Asia celebrates his birthday. The young child is cared for by  the best of the king's eunuchs, instead of an insignificant nurse, and  he is highly honored for shaping the limbs of the body. Until the boy  is perhaps seven years old, then, his attendant is not a woman who would  provide a motherly kind of care, nor a man who would provide an example  of masculinity and manliness, but a neutered person. The manly Alkibiades,  as well as the reader, might well wonder as to the effect this would have  on the boy, and whether it is the intended effect.   At the age of seven the boys learn to ride horses and commence to hunt. This physical activity, it seems, continues until the age of four¬  teen when four of the most esteemed Persians become the boys' tutors.   They represent four of the virtues, being severally wise, just, temperate,  and courageous. The teaching of piety is conducted by the wisest tutor  of the four (which certainly allows for a number of interesting possi¬  bilities) . He instructs the youth in the religion of Zoroaster, or in  the worship of the gods, and he teaches the boy that which pertains to a  king - certainly an impressive task. The just tutor teaches him to be  completely truthful (122a); the temperate tutor to be king and free man  overall of the pleasures and not to be a slave to anyone, and the brave  tutor trains him to be unafraid, for fear is slavery. Alkibiades had  instead an old (and therefore otherwise domestically useless) servant to  be his tutor.   Socrates suspends discussion of the nurture of Alkibiades'  competitors. It would promise to be a long description and too much of  a task (122b). He professes that what he has already reported should  suggest what follows. Thereby Socrates challenges the reader to examine  the manner in which this seemingly too brief description of nurture at  least indicates what a complete account might entail.   This appears to be the point in the dialogue which provides the  most fitting opportunity to explicitly and comprehensively consider  nurture. It has become clear to Socrates and Alkibiades that the correct  nurture is essential to the greatest contest, and Socrates leaves  Alkibiades (and the reader) with the impression that he regards the  Persian nurture to be appropriate. One might thus presume that an  examination of Persian practices would make apparent the more important  philosophical questions about nurture. Socrates had been specific in noticing the subjects of instruction  received by Alkibiades (106e), and the reader might follow likewise in  observing the lessons of the Persian princes. On the face of it, Socrates  provides more detail regarding this aspect of their nurture than others,  so it might be prudent to begin by reflecting upon the teaching of  religion and kingly things, of truth-telling, of mastering pleasures, and  of mastering fears. Perhaps the Persian system indicates how these virtues  are properly seen as one, or how they are arranged together, for one sus¬  pects that conflicts might normally arise in their transmission. These  subjects are being taught by separate masters. A consistent nurture  demands that they are all compatible, or that they can agree upon some  way of deciding differences. If the four tutors can all recognize that  one of them ought to command, this would seem to imply that wisdom some¬  how encompasses all other virtues. In that case, the attendance of the  one wise man would appear to be the most desirable in the education of a  young man. The wise man's possession of the gamut of virtues would  supply the prince with a model of how they properly fit together. With¬  out a recognized hierarchy, there might be conflicts between the virtues.  Indeed, as the reader has had occasion to observe in an earlier context  of the dialogue, two of the substantive things taught by two different  tutors may conflict strongly. There are times when a king ought not to  be honest. The teacher of justice then would be suggesting things at  odds with that which pertains to a king. How would the boys know which  advice to choose, independently of any other instruction? In addition,  Socrates suggests that the bravest Persian (literally the 'manliest')  tells or teaches the youth to fear nothing, for any fear is slavery.   But surely the expertise of the tutor of courage would seem to consist in his knowing what to fear and what not to fear. Otherwise the youth  would not become courageous but reckless. Not all fears indicate that  one is a slave: any good man should run out of the way of a herd of  stampeding cattle, an experienced mountain climber is properly wary of  crumbling rock, and even brave swimmers ought to remain well clear of  whirlpools. For this to be taught it appears that the courageous tutor  would have to be in agreement with the tutor of wisdom. These sorts of  difficulties seem to be perennial, and a system of nurture which can  overcome them would provide a fine model, it seems, for education into  virtues. If the Persian tutors could indeed show the virtues to be  harmonious, it would be of considerable benefit to Alkibiades to under¬  stand precisely how it is accomplished.   The question of what is to be taught leads readily to a considera¬  tion of how to determine who is to teach. The problem of ascertaining  the competence of teachers seems to be a continuing one (as the reader of  this dialogue has several occasions to observe - e.g., llOe, ff.). But  besides their public reputation there is no indication of the criteria  employed in the selection of the Persian tutors. To this point in the  dialogue, two criteria have been acknowledged as establishing qualifica¬  tion for teaching (or for the knowledge requisite for teaching). Agree¬  ment between teachers on their subject matter (lllb-c) is important for  determining who is a proper instructor, as is a man's ability to refer to  knowledgeable students (118d). As has already been indicated, both of  these present interesting difficulties. Neither, however, is clearly or  obviously applicable to the Persian situation. The present king might  prove to be the only student to whom they can point (in which case they  may be as old as Zopyros) and he might well be the only one in a position to agree with them. It is conceivable that some kinds of knowledge are  of such difficulty that one cannot expect too many people to agree. If  the Persians have indeed solved the problems of choosing tutors, and of  reconciling public reputation for virtue with actual possession of  virtue, they have overcome what appears to be a most persistent diffi¬  culty regarding human nurture.   Another issue which surfaces in Socrates' short account of the  Persian educational system is that of the correct age to begin such  nurture. Education to manhood begins at about the age of puberty for  the prince. If the virtues are not already quite entrenched in his  habits or thoughts (in which latter case he would have needed another  source of instruction besides the tutors - as perhaps one might say the  Iliad and Odyssey provide for Athenian youths such as Alkibiades), it is  doubtful that they could be inculcated at the age of fourteen. Socrates  is completely silent about the Persians' prior education to virtue, dis¬  closing only that they began riding horses and participating in "the  hunt." Since both of those activities demand some presence of mind, one  may presume that early Persian education was not neglected. This  earliest phase of education is of the utmost importance, however, for if  the boy had been a coward for fourteen years, one might suspect tutoring  by a man at that point would not likely make him manly. And to make  temperate a lad accustomed to indulgence would be exceedingly difficult.  Forcibly restricting his consumption would not have a lasting effect un¬  less there were some thing to draw upon within the understanding of the  boy, but Socrates supplies Alkibiades with no hint as to what that might  be. Presently the young man will be reminded of Aesop's fables and the  various stories that children hear. If, in order to qualify as proper nurturing, such activities as children participate in - e.g., music and  gymnastics - ought to be carried out in a certain mode or with certain  rules (cf. Republic 377a-e; 376c-414c), Socrates gives no indication of  their manner here. Unless stories and activities build a respect for  piety and justice, and the like, it is not obvious that the respect will  be developed when someone is in his mid-teens. It would seem difficult,  if not impossible, to erase years of improper musical and gymnastic  education. Socrates remains distressingly silent about so very much of  the Persian (or proper) method of preparing young men for the great  contest.   The only one who would care about Alkibiades 1 birth, nurture or  education, would be some chance lover he happened to have, Socrates says  in reference to his seemingly unique interest in Alkibiades' nature  (122b). He concludes what was presumably the account of the education  of the Persian princes, intimating that Alkibiades would be shamed by a  comparison of the wealth, luxury, robes and various refinements of the  Persians. It is odd that he would mention such items in the context  immediately following the list of subjects the tutors were to teach in  the education of the soul of the king - including the complete mastery  of all pleasure. It is even more curious that he would deign to mention  these in the context of making Alkibiades sensitive to what was required  for his preparation for his proper contest. The historical Alkibiades,  it seems, would not be so insensitive to these luxuries as to need reminding of them, and the dialogue to this point has not given any indica¬  tion that these things of the body are important to the training  Alkibiades needs by way of preparing for politics. The fact that Socrates  expressly asserts that Alkibiades would be ashamed at having less of those things corroborates the suggestion that more is going on in this long  speech than is obvious at the surface.   Briefly, and in a manner that doesn't appear to make qualities of  soul too appealing, Socrates lists eleven excellences of the Spartans:  temperance, orderliness, readiness, easily contented, great-mindedness,  well-orderedness, manliness, patient endurance, labor loving, contest  loving and honor loving. Socrates neither described these glowingly,  nor explains how the Spartans come to possess them. He merely lists  them. Then, interestingly, he remarks that Alkibiades in comparison is  a child . He does not say that Alkibiades would be ashamed, or that he  would lose, but that he had somehow not yet attained them. Like some  children presumably, he may have the potential to grow into them if they  are part of the best nature. There is no implication, then, that  Alkibiades' nature is fundamentally lacking in any of these virtues, and  this is of special interest to the reader given the more or less general  agreement, even during his lifetime, as to his wantonness. Socrates  here suggests that Alkibiades is like a child with respect to the best  nature. This part of Socrates' speech reveals two possible alternatives  to the Persian education, alternatives compatible with the acquisition of  virtue. A Spartan nurture was successful in giving Spartans the set of  virtues Socrates listed. Since Alkibiades obviously cannot regain the  innocence necessary to benefit from early disciplined habituation, and  since Socrates nevertheless understands him to be able to grow into  virtue in some sense, there must be another way open to him. This  twenty year old "child" has had some early exposure to virtue, at least  through poetry, and perhaps it is through this youthful persuasion that Socrates will aid him in his education. Indeed Socrates appeals often  to his sense of the honorable and noble - which is related to virtue even  if improperly understood by Alkibiades. As the dialogue proceeds from  this point/ Socrates appears to be importantly concerned with making  Alkibiades virtuous through philosophy. He is trying to persuade  Alkibiades to let his reason rule him in his life, most importantly in  his desire to know himself. Perhaps, on this account, one might acquire  virtue in two ways, a Spartan nurture, for example, and through philosophy.   Again, however, Socrates stops before he has said everything he  might have said, and turns to the subject of wealth. In fact, Scorates  claims that he must not keep silent with regard to riches if Alkibiades  thinks about them at all. Thus, according to Socrates, not only is it  not strange to turn from the soul to wealth, but it is even appropriate.  Socrates must attest to the riches of Spartans, who in land and slaves  and horses and herds far outdo any estate in Athens, and he most  especially needs to report on the wealth of gold and silver privately  held in Lakedaimon. As proof for this assertion, which certainly runs  counter to almost anyone's notion of Spartan life, Socrates uses a fable  within this fabulous story.   Socrates assumes Alkibiades has learned Aesop's fables - somehow -  for without supplying any other details he simply mentions that there are  many tracks of wealth going into Sparta and none coming out. In order to  explain Socrates' otherwise cryptic remarks, the children's fable will be  recounted. Aesop's story concerns an old lion who must eat by his wits  because he can no longer hunt or fight. He lies in a cave pretending to  be ill and when any animals visit him he devours them. A fox eventually  happens by, but seeing through the ruse he remains outside the cave. When ths lion asks why he doesn't come in, the fox responds that he sees too  many tracks entering the cave and none leaving it.   The lion and the fox represent the classic confrontation between  power and knowledge. 114 One notices that in the fable the animals  generally believe an opinion that proves to be a fatal mistake. The fox  doesn't. He avoids the error. The implication is that Socrates and  Alkibiades have avoided an important mistake that the rest of the Greeks  have made. One can only speculate on what it is precisely. They seem  to be the only ones aware of one of Sparta's qualities, a quality which,  oddly, is in some sense essential to Alkibiades' contest. Perhaps  Socrates' use of the fable merely suggests that erroneous opinions about  the nature of one's true contestant may prove fatal, but there may be  more to it than that.   This fable fittingly appears in the broad context of nurture;  myths and fables are generally recognized for their pedagogic value. Any  metaphoric connection this fable brings to mind with the more famous   Allegory of the Cave in Plato's Republic will necessarily be speculative. But they are not altogether out of place. The cave, in a sense,   represents the condition of most people's nurtures and thus represents a  fitting setting for a fable related in this dialogue. Given Socrates'  fears of what will happen to Alkibiades (132a, 135e) and Alkibiades' own  concern for the demos , the suggested image of people (otherwise fit  enough to be outside) being enticed into the cave and unable to leave it  might be appropriate.   At any rate, in terms of the argument for Sparta's wealth, this  evidence does nothing to show that the wealth is privately held. It is  apparent, after all, that the evidence indicates gold is pouring into  Spsi’ts. from all over Greece, but not coining' out of the country, whereas  Socrates seems to interpret this as private, not public wealth. Perhaps  the reader may infer from this that a difference between city and man is  being subtly implied. Socrates is suggesting that wealth is an important  part of the contest, and yet he includes himself in the contest at a  number of points. This rather inconclusive and ambiguous reference to  the wealth of Sparta and the Spartans might suggest that the difference  between the city and man regarding riches, may be that great wealth is  good for a city (for example, as Thucydides observes, wealth facilitates  warmaking), and is thus something a ruler should know how to acquire -  but not so good for an individual. Socrates' next statement supports  this interpretation. A king's being wealthy might not mean that he uses  it privately. Socrates informs Alkibiades that the king possesses the  most wealth of any Spartans for there is a special tribute to him (123a-  b) . In any case, however great the Spartan fortunes appear compared with  the fortunes of other Greeks, they are a mere pittance next to the Persian  king's treasures. Socrates was told this himself by a trustworthy person  who gathered his information by travelling and finding out what the local  inhabitants said. Socrates treats this as valuable information, yet which,  given his chosen way of life, he couldn't have acquired firsthand.   Large tracts of land are reserved for adorning the Persian queen  with clothes, individual items having land specially set aside for them.  There were fertile regions known as the "king's wife's girdle," veil,  etc.Certainly an indication of wealth, it also seems to suggest a  wanton luxury, especially on the part of women (and which men flatter  with gifts).   Returning to the supposed contest between Alkibiades and the Spartan and the Persian kings, Socrates adopts a very curious framework  for the bulk of the remainder of this discourse. He continues in terms  of the thoughts of the mother of the king and proceeds as though she were,  in part, in a dialogue with Alkibiades 1 mother, Deinomakhe. If she found  out that the son of Deinomakhe was challenging her son, the king's mother,  Amestris, would wonder on what Alkibiades could be trusting. The manner  in which Socrates has the challenge introduced to Amestris does not  reveal either of the men's names. Only their mothers are referred to -  and the cost of the mothers' apparel seems to be as important to the  challenge or contest as the size of the sons' estates. Only after he is  told that the barbarian queen is wondering does the reader find out that  her son's name is Artaxerxes and that  she is aware that it is Alkibiades  who is challenging her son. She might well have been completely ignorant  of the existence of Deinomakhe's family, or she may have thought it was  Kleinias, the madman (118e), who was the son involved. Since there is no  contest with regards to wealth - either in land or clothing - Alkibiades  must be relying on his industry and wisdom - the only thing the Greeks  have of any worth.   Perhaps because she is a barbarian, or because of some inability  on her part, or maybe some subtlety of the Greeks, she doesn't recognize  the Greeks' speaking ability as one of their greatest accomplishments.  Indeed, both in the dialogue and historically, it was his speaking ability  on which Alkibiades was to concentrate much of his effort, and through  which he achieved many of his triumphs. Greeks in general and Athenians  in particular spent much time cultivating the art of speaking. Sophists  and rhetoricians abounded. Rhapsodists and actors took part in the many  dramatic festivals at Athens. Orators and politicians addressed crowds of  people almost daily Cor so it seems).   Socrates continues. If she were to be informed (with reference to  Alkibiades' wisdom and industriousness) that he was not yet twenty, and was  utterly uneducated, and further, was quite satisfied with himself and re¬  fused his lover's suggestion to learn, take care of himself and exercise  his habits before he entered a contest with the king, she would again be  full of wonder. She would ask to what the youth could appeal and would  conclude Socrates and Alkibiades (and Deinomakhe) were mad if they thought  he could contend with her son in beauty ( kalos ), stature, birth, wealth,  and the nature of his soul (123e). The last quality, the nature of the  soul, has the most direct bearing on the theme of the dialogue, and as  the reader remembers, is the promised but not previously included part of  the list of reasons for Alkibiades' high opinion of himself (104a. ff.).  Since it is also the most difficult to evaluate, one might reasonably  wonder what authority Amestris' judgement commands. It is feasible for  the reader to suspect that this is simply Socrates' reminder that a  mother generally favors her own son. But perhaps her position and  experience as wife and mother to kings enables her in some sense to judge  souls.   Lampido, another woman, the daughter, wife and mother of three  different kings, would also wonder, Socrates proposes, at Alkibiades'  desire to contest with her son, despite his comparatively ignoble ( kakos )  upbringing. Socrates closes the discussion with the mothers of kings by  asking Alkibiades if it is not shameful that the mothers and wives  (literally, "the women belonging to the kings ) of their enemies have a  better notion than they of the qualities necessary for a person who wants    to contend with them. The problem of understanding human nature includes centrally the  problem of understanding sex and the differences between men and women.  Thus political philosophy necessarily addresses these matters. Half of  a polity is made up of women and the correct ordering of a polity re¬  quires that women, as well as men, do what is appropriate. However,  discovering the truth about the sexes is not simple in any event, partly  at least because of one's exclusion from personal knowledge about the  other sex; and it has become an arduous task to gather honest opinions  from which to begin reflecting.   The discussion of women in this central portion of the dialogue  is invested with political significance by what is explored later re¬  garding the respective tasks of men and women (e.g., 126e-127b). Before  proceeding to study the rest of this long speech, it may be useful to  briefly sketch two problem areas. Firstly the outline of some of the  range of philosophic alternatives presented by mankind's division into  two sexes will be roughly traced out. This will foreshadow the later  discussion of the work appropriate to the sexes. Secondly, a suggestion  shall be ventured as to one aspect of how 'wonder' and philosophy may be  properly understood to have a feminine element - an aspect that is con¬  nected to a very important theme of this dialogue.   Thus, in order to dispel some of the confusion before returning  to the dialogue, the division of the sexes may imply, in terms of an  understanding of human nature, that there is either one ideal that both  sexes strive towards, or there is more than one. If there is one goal  or end, it might be either the 'feminine,' the 'masculine, a combina¬  tion of the traits of both sexes, or a transcendent "humanness" that  rises above sexuality. The first may be dismissed unless one is willing to posit that everything is "out-of-whack" in nature and all the wrong   people have been doing great human deeds. Traditionally, the dominant opinion has implicitly been that the characteristics of 'human' are for  the most part those called 'masculine', or that males typically embody  these characteristics to a greater extent. Should this be correct, then  one may be warranted in considering nature simply "unfair" in making half  of the people significantly weaker and less able to attain those character¬  istics. Should the single ideal for both sexes be a combination of the  characteristics of both sexes, still other difficulties arise. A normal  understanding of masculine and feminine refers to traits that are quite  distinct; those who most combine the traits, or strike a mean, appear  to be those who are most sexually confused.   The other possibility mentioned was that there be two (or more)  sets of characteristics - one for man and one for woman. The difficulty  with this alternative is unlike the difficulties encountered in the one-  model proposal. One problem with having an ideal for each sex, or even  with identifying some human characteristics more with one sex than the  other, is that all of the philosophic questions regarding the fitting  place of each sex still remain to be considered.   Some version of this latter alternative seems to be endorsed later  in the First Alkibiades (126e-127b). There it is agreed £md agreement  frequently is the most easily met of the suggested possible criteria of  knowledge mentioned in the dialogue) that there are separate jobs for  men and women. Accordingly, men and women are said to be rightly unable  to understand each other's jobs and thus cannot agree on matters sur¬  rounding those jobs.   One of the implications of this, however, unmentioned by either Socrates or Alkibiades, is that women therefore ought not to nurture  young sons. A woman does not and cannot grasp what it is to be a man  and to have manly virtue. Thus they cannot raise manly boys. However,  this is contrary to common sense. One would think that if there was any  task for which a woman should be suited (even if it demands more care  than is often believed) it would be motherhood. Because of this a mother  would have to learn a man's business if she would bear great sons. At  this point the problems of the surface account of the First Alkibiades  become apparent to even the least reflective reader.   If it is the same task, or if the same body of knowledge (or  opinion) is necessary for being a great man as for raising a great man,  then at least in one case the subjects of study for men and women are not  exclusive. Women dominate the young lives of children. They must be able  to turn a boy's ambitions and desires in the proper direction until the  menfolk take over. Since it would pose practical problems for her to  attempt to do so in deed, she must proceed primarily through speech, in¬  cluding judicious praise and blame, and that is why the fables and myths  women relate ought to be of great concern to the men (cf. for example.  Republic 377b-c). If, on the other hand, it requires completely differ¬  ent knowledge to raise great sons than it does to be great men, then men,  by the argument of the dialogue should not expect to know women's work.   If this is the proper philosophic conclusion the reader is to reach, then  it is not so obviously disgraceful for the womenfolk to know better than  Socrates and Alkibiades what it takes to enter the contest (124a). The  disgrace, it seems, would consist in being unable to see the contra¬  dictions in the surface account of the First Alkibiades , and thus not  being in a position to accept its invitation to delve deeper into the problem of human nature.   At this point a speculation may be ventured as to why, in this   dialogue, wonder takes on a feminine expression, and why elsewhere.   Philosophy herself is described as feiminine Ce.g., Republic 495-b-c,   536c, 495e; Gorgias 482a; cf. also Letter VII 328e, Republic 499c-d,   548b-c, 607b). One might say that a woman's secretiveness enhances her seductiveness. Women are concerned with appearance (cf. 123c; the   very apparel of the mothers of great sons is catalogued) . Philosophy and  women may be more alluring when disclosure ("disclothesure") of their  innermost selves requires a certain persistence on the part of their  suitors. Philosophy in its most beguiling expression is woman-like.   When subtle and hidden, its mystery enhances its attractiveness. Perhaps  it will be suggested - perhaps for great men to be drawn to philosophy she  must adopt a feminine mode of expression, in addition to the promise of a  greater power; if viewed as a goddess she must be veiled, not wholly  naked.   To further explore the analogue in terms of expression, one notices  that women are cautious of themselves and protective of their own. They  are aware, and often pass this awareness on to men that in some circles  they must be addressed or adorned in a certain manner in order to avoid  ridicule and appear respectable. As well, a woman's protection of her  young is expected. Philosophy, properly expressed, should be careful to  avoid harming the innocent; and a truly political philosopher should be  protective of those who will not benefit from knowing the truth. If the  truth is disruptive to the community, for example, he should be most  reluctant to announce it publicly. The liberal notion that every truth  is to be shared by all might be seen to defeminize philosophy. Women, too in speech will lie and dissemble to protect their own; in deed, they are  more courageous in retreat, able to bear the loss of much in order to  ensure the integrity of that of which they are certain is of most im¬  portance .   Political philosophy is not only philosophy about politics; it is  doing (or at least expressing) all of one's philosophizing in a politic  way. Its expression would be "feminine." This suggestion at least  appears to square with the role of women in the dialogue. It accounts  for the mothers' lively concern over the welfare and status of the power¬  ful; it provides a possible understanding of how the 'masculine' and  'feminine' may have complementary tasks; it connects the female to  'wonder'; it lets the reader see the enormous significance of speech to  politics; it reminds one of the power of eros as a factor in philosophy,  in politics, in Socrates' attraction to Alkibiades, and in man's  attraction to philosophy; it helps to explain why both lines of descent,  the maternal as well as the paternal, are emphasized in the cases of the  man coveting power and the man seeking knowledge. Through the very ex¬  pression of either, politics and philosophy become interconnected.   Socrates addresses Alkibiades as a blessed man and tells him to  attend him and the Delphic inscription, "know thyself." These people  (presumably Socrates is referring to the enemy, with whose wives they  were speaking; however, the analysis has indicated why the referent is  left ambiguous: there is a deeper sense of 'contest' here than war with  Persians and Spartans) are Socrates' and Alkibiades' competitors, not  those whom Alkibiades thinks. Only industriousness and techne will give  them ascendancy over their real competitors. Alkibiades will fail in  achieving a reputation among Greeks and barbarians if he lacks those qualities. And Socrates can see that Alkibiades desires that reputation  more than anyone else ever loved anything.   The reader may have noticed that the two qualities Socrates men¬  tions are very similar to the qualities of the Greeks mentioned by the  barbarian queen above. Socrates is implicitly raising the Greeks above  the barbarians by making the Greek qualities the most important, and he  diminishes the significance of their victory in terms of wealth and land.   He thus simultaneously indicts them on two counts. They do not recognize  that Alkibiades is their big challenge, sothey are in the disgraceful  condition of which Alkibiades was accused, namely not having an eye to  their enemies but to their fellows. By raising the Greek virtues  above  the barbarian qualities, Socrates throws yet more doubt on the view that  they are indeed the proper contestants for Alkibiades. It is interesting  that the barbarian queen knew or believed these were the Greek's  qualities but she did not correctly estimate their importance.   Another wonderful feature of this longest speech in the First  Alkibiades is the last line: "I believe you are more desirous of  it than anyone else is of anything," (124b). Socrates ascribes to Alkibiades  an extreme eros . It may even be a stranger erotic attraction or will to  power than that marked by Socrates' eros for Alkibiades. But the  philosopher wants to help and is able to see Alkibiades' will. Socrates  even includes himself in the contest. Socrates is indeed a curious   man. So ends the longest speech in the dialogue.   Alkibiades agrees. He wants that. Socrates' speech seems very  true. Alkibiades has been impressed with Socrates' big thoughts about  politics, for Socrates had indicated that he is familiar enough with the  greatest foreign political powers to make plausible/credible his implicit is* orf or explicit criticism of them. Socrates has also tacitly approved of  Alkibiades 1 ambitions to rule not only Athens, but an empire over the  known world. Alkibiades must be impressed with this sentiment in  democratic Athens. In addition to all this, Socrates has hinted to the  youth that there is something yet bigger. Alkibiades requests Socrates'  assistance and will do whatever Socrates wants. He begs to know what is  the proper care he must take of himself.   Socrates echoes Alkibiades' sentiment that they must put their   heads together (124c; cf. 119b). This is an off-quoted line from Homer's  119   Iliad. In the Iliad the decision had been made- that information must   be attained from and about the Trojans by spying on their camp. The  brave warrior, Diomedes, volunteered to go, and asked the wily Odysseus  to accompany him. Two heads were better than one and the best wits of  all the Greek heroes were the wits of Odysseus. Diomedes recognized this  and suggested they put their heads together as they proceed to trail the  enemy to their camp, enter it and hunt for information necessary to an  Akhaian victory.   Needless to say, the parallels between the Homeric account, the  situation between Alkibiades and Socrates, and the Aesopian fable, are  intriguing. When Alkibiades uttered these lines previously, it was  appropriate in that he requested the philosopher (the cunning man) to go  with him. Alkibiades and Socrates, like Diomedes and Odysseus, must  enter the camp of the enemy to see what they were up against in this  contest of contests, so to speak. Alkibiades, assuming the role of  Diomedes, in a sense initiated the foray although an older, wiser man had  supplied the occasion for it. Alkibiades had to be made to request  Socrates' assistance. The part of the dialogue following Alkibiades's quoting of Homer was a discussion of the contest of the superior man and  ostensibly an examination of the elements of the contest. They thoroughly  examined the enemy in an attempt to understand the very nature of this  most important challenge.   This time, however, the wilier one (Socrates/Odysseus) is asking  Alkibiades/Diomedes to join heads with him. The first use of the quote  served to establish the importance of its link to power and knowledge.   The second mention of the quote is perhaps intended to point to a con¬  sideration of the interconnectedness of power and knowledge. In what way  do power and knowledge need each other? What draws Socrates and Alkibiades  together?   The modern reader, unlike the Athenian reader, might find an example   from Plato more helpful than one from Homer. Some of the elements of the   relationship are vividly displayed in the drama of the opening passages of   the Republic . The messenger boy runs between the many strong and the few  120 ...   wise. His role is similar to that of the auxiliary class of the   dialogue but is substantively reversed. Although he is the go-between  who carries the orders of one group to the other and has the ability to  use physical means to execute those orders (he causes Socrates literally  to "turn around," and he takes hold of Socrates' cloak), he is carrying  orders from those fit to be ruled to those fit to rule. What is es¬  pecially interesting is the significance of these opening lines for the  themes of the First Alkibiades . The first speaker in the Republic pro¬  vides the connection between the powerful and the wise . And he speaks  to effect their halt. There has to be a compromise between those who  know but are fewer in number, and those who are stronger and more numer¬    ous but are unwise. The slave introduces the problem of the competing claims to rule despite the fact that he has been conventionally stripped  of his.   Polemarkhos, on behalf of the many (which includes a son of  Ariston) uses number and strength as his claims over the actions of  Socrates and Glaukon. Socrates suggests that speech opens up one other  possibility. Perhaps the Few could persuade the Many. He does not sug¬  gest that the many use speech to persuade the few to remain (although  this is what in fact happens when Adeimantos appeals to the novelty of  a torch race). Polemarkhos asks "could you really persuade if we don't  listen?" and by that he indicates a limit to the power of speech.   Later in the dialogue it is interesting that the two potential rulers of  the evening's discussion, Thrasymakhos and Socrates, seem to fight it out  with words or at least have a contest. The general problem of the proper  relation between strength and wisdom might be helpfully illuminated by  close examination of examples such as those drawn from the Republic , the  Iliad and Aesop's fable.   In any event, Socrates and Alkibiades must again join heads. Pre¬  sumably, the reader may infer, the examination of the Spartans and Persians  was insufficient. (That was suspected from the outset because Alkibiades  would rather die than be limited to Athens. Sparta and Persia would be  the proper contestants for someone intending only to rule Europe.) Per¬  haps they will now set out to discover the real enemy, the true contestant.  The remainder of the dialogue, in a sense, is a discussion of how to com¬  bat ignorance of oneself. One might suggest that this is, in a crucial  sense, the enemy of which Alkibiades is as yet not fully aware.   Socrates, by switching his position with Alkibiades vis-a-vis the  guote, reminds the reader that Odysseus was no slouch at courage and that Diomedes was no fool. It also foreshadows the switch in their roles made  explicit at the end of the dialogue. But even more importantly, Socrates  tells Alkibiades that he is in the same position as Alkibiades. He needs  to take proper care of himself too, and requires education. His case is  identical to Alkibiades' except in one respect. Alkibiades' guardian  Perikles is not as good as Socrates' guardian god, who until now guarded  Socrates against talking with Alkibiades. Trusting his guardian, Socrates  is led to say that Alkibiades will not be able to achieve his ambitions  except through Socrates.   This rather enigmatic passage of the First Alkibiades (124c) seems  to reveal yet another aspect of the relation between knowledge and power.  If language is central to understanding knowledge and power, it is thus  instructive about the essential difference, if there is one, between men  who want power and men who want knowledge. Socrates says that his  guardian (presumably the daimon or god, 103a-b, 105e), who would not let  him waste words (105e) is essentially what makes his case different than  that of Alkibiades. In response to Alkibiades' question, Socrates only  emphasizes that his guardian is better than Perikles, Alkibiades'  guardian, possibly because it kept him silent until this day. Is  Socrates perhaps essentially different from Alkibiades because he knows  when to be silent? The reader is aware that according to most people,  Socrates and Alkibiades would seem to differ on all important grounds.  Their looks, family, wealth and various other features of their lives  are in marked contrast. Socrates, however, disregards them totally, and  fastens his attention on his guardian. And the only thing the reader  knows about his guardian is that it affects Socrates' speech.   Socrates claims that because he trusts in the god he is able to say (he does not sense opposition to his saying) that Alkibiades needs   Socrates. To this Alkibiades retorts that Socrates is jesting or playing   like a child. Not only may one wonder what is being referred to as a  121   jest, but one notices that Socrates surprisingly acknowledges that   maybe he is. He asserts, at any rate, he is speaking truly when he re¬  marks that they need to take care of themselves - all men do, but they  in particular must. Socrates thereby firmly situates himself and  Alkibiades above the common lot of men. He also implies that the higher,  not the lower, is deserving of extra care. Needless to say, the notion  that more effort is to be spent on making the best men even better is  quite at odds with modern liberal views.   Alkibiades agrees, recognizing the need on his part, and Socrates  joins in fearing he also requires care. The answer for the comrades  demands that there be no giving up or softening on their part. It would  not befit them to relinquish any determination. They desire to become  as accomplished as possible in the virtue that is the aim of men who are  good in managing affairs. Were one concerned with affairs of horseman¬  ship, one would apply to horsemen, just as if one should mean nautical  affairs one would address a seaman. With which men's business are they  concerned, queries Socrates. Alkibiades responds assured that it is the  affairs of the gentlemen ( kalos kai agathos) to whom they must attend,  and these are clearly the intelligent rather than the unintelligent.   Everyone is good only in that of which he has intelligence (125a).  While the shoemaker is good at the manufacture of shoes, he is bad at the  making of clothing. However, on that account the same man is both bad  and good and one cannot uphold that the good man is at the same time bad  (but cf. 116a). Alkibiades must clarify whom he means by the good man. By altering the emphasis of the discussion to specific intelligence or  skills, Socrates has effectively prevented Alkibiades from answering "gentlemen" again, even if he would think that the affairs of gentlemen  in democracies are the affairs with which a good ruler should be concerned.   Given his purported ambitions, it is understandable that  Alkibiades thinks good men are those with the power to rule in a polis  (125b). Since there are a variety of subjects over which to rule, or hold  power, Socrates wants to clarify that it is men and not, for example,  horses, to which Alkibiades refers. Socrates undoubtedly knew that  Alkibiades meant men instead of horses; the pestiness of the question  attracts the attention of the reader and he is reminded of the famous  analogy of the city made by Socrates in the Apology . Therein, the city  is likened to a great horse ( Apology 30e). It would thus not be wholly  inappropriate to interpret this bizarre question in a manner which,  though not apparent to Alkibiades, would provide a perhaps more meaning¬  ful analysis. Socrates might be asking Alkibiades if he intends to rule  a city or to rule men (in a city). It is not altogether out of place to  adopt the analogy here; corroborating support is given by the very subtle  philosophic distinctions involved later in distinguishing ruling cities  from ruling men (cf. 133e). For example, cities are not erotic, whereas  men are; cities can attain self-sufficiency, whereas men cannot. It  does not demand excessive reflection to see how erotic striving and the  interdependency of men affects the issues of ruling them. What is good  for a man, too, may differ from what is good for a city (as mentioned  above with reference to wealth), and in some cases may even be incompatible  with it. These are all issues which demand the consideration of rulers  and political thinkers. Additional endorsement for the suitability of the analogy between city and man for interpreting this passage, is provided  by Socrates in his very next statement. He asks if Alkibiades means  ruling over sick men (125b). Earlier (107b-c) the two had been dis¬  cussing what qualified someone to give advice about a sick city.   Alkibiades doesn't mean good rule to be ruling men at sea or  while they are harvesting (though generalship and farming, or defence and  agriculture, are essential to a city). He also doesn't conclude that good  rule is useful for men who are doing nothing (as Polemarkhos is driven to  conclude that justice is useful for things that are not in use - Republic  333c-e). In a sense Alkibiades is right. Rulers rule men when they are  doing things such as transacting business, and making use of each other  and whatever makes up a political life (125c). But rule in a precise,  but inclusive, sense is also rule over men when they are inactive. The  thoughts and very dreams are ruled by the true rulers, who have con¬  trolled or understood all the influences upon men.   Socrates fastens onto one of these and tries to find out what kind   of rule Alkibiades means by ruling over men who make use of men.   Alkibiades does not mean the pilot's virtue of ruling over mariners who   make use of rowers, nor does he mean the chorus teacher who rules flute   122   players who lead singers and employ dancers; Alkibiades means ruling  men who share life as fellow citizens and conduct business. Socrates in¬  quires as to which techne gives that ability as the pilot's techne gives  the ability to rule fellow sailors, and the chorus teacher's ability to  rule fellow singers. At this point the attentive reader notices that  Socrates has slightly altered the example. He has introduced an element  of equality. When the consideration of the polis was made explicit, the  pilot and chorus teacher became "fellows" -"fellow sailors" and "fellow singers." This serves at least to suggest that citizenship in the polis  is an equalizing element in political life. To consider oneself a  fellow citizen with another implies a kind of fraternity and equality  that draws people together. Despite, say, the existence of differences  within the city, people who are fellow citizens often are closer to each  other than they are to outsiders who may otherwise be more similar.   There is another sense in which Socrates' shift to calling each  expert a "fellow" illuminates something about the city. This is dis¬  covered when one wonders why Socrates employed two examples - the chorus  teacher and the pilot.   One reason for using more than a single example is that there is  more than one point to illustrate. It is then up to the reader to  scrutinize the examples to see how they importantly differ. The onus is  on the reader, and this is a tactic used often in the dialogues. Someone  is much more likely to reflect upon something he discovered than some¬  thing that is unearthed for him. One important distinction between  these two technae is that a pilot is a "fellow sailor" in a way that the  chorus teacher is not a "fellow singer." Even in the event a pilot  shares in none of the work of the crew rules (as the chorus teacher need  not actually sing), if the ship sinks, he sinks with it. So too does the  ruler of a city fall when his city falls. This is merely one aspect of  the analogy of the ship-of-state, but it suffices to remind one that the  ruler of a polity must identify with the polity, perhaps even to the ex¬  tent that he sees the fate of the polity as his fate (cf. Republic 412d).   Perhaps more importantly, there is a distinction between the  chorus master and the pilot which significantly illuminates the task of  political rule. A pilot directs sailors doing a variety of tasks that make sailing possible# whereas the chorus master directed singers per¬  forming in unison . Perhaps political rule is properly understood as in¬  volving both.   Alkibiades suggests that the techne of the ruler (the fellow-  citizen) is good counsel# but as the pilot gives good not evil counsel  for the preservation of his passengers, Socrates tries to find out what  end the good counsel of the ruler serves. Alkibiades proposed that the  good counsel is for the better management and preservation of the polis  (126a).   In the next stage of the discussion Socrates makes a number of  moves that affect the outcome of the argument but he doesn't make a point  of explicating them to Alkibiades. Socrates asks what it is that becomes  present or absent with better management and preservation . He suggests  that if Alkibiades were to ask him the same question with respect to the  body, Socrates would reply that health became present and disease absent.  That is not sufficient. He pretends Alkibiades would ask what happened  in a better condition of the eyes# and he would reply that sight came and  blindness went. So too deafness and hearing are absent and present when  ears are improved and getting better treatment . Socrates would like  Alkibiades# now# to answer as to what happens when a state is improved  and has better treatment and management . Alkibiades thinks that friend¬  ship will be present and hatred and faction will be absent.   From the simple preservation of the passangers of a ship# Socrates  has moved to preservation and better management# to improved and getting  better treatment# to improvement, better treatment and management. Simple  preservation# of course# is only good (and the goal of an appropriate  techne) when the condition of a thing is pronounced to be satisfactory, such that any change would be for the worse. In a ship the pilot only  has to preserve the lives of his passengers by his techne , he does not  have to either make lives or improve them. In so far as a city is in¬  volved with more than mere life, but is aiming at the good life, mere  preservation of the citizens is not sufficient. Socrates' subtle trans¬  formation indicates the treatment necessary in politics.   Another point that Socrates has implicitly raised is the hierarchy  of technae . This may be quite important to an understanding of politics  and what it can properly order within its domain. Socrates employs the  examples of the body and the eyes (126a-b). The eyes are, however, a  part of the body. The body cannot be said to be healthy unless its parts,  including the eyes, are healthy; the eyes will not see well in a generally  diseased body. The two do interrelate, but have essentially different  virtues. The virtue of the eyes and thus the techne attached to that  virtue, are under/within the domain of the body and its virtue, health.   The doctor, then, has an art of a different order than the optometrist.  (The doctor and his techne may have competition for the care of the body;  the gymnastics expert has already been met and he certainly has things  to say about the management of the body - cf. 128c but the principle there  would be a comprehensive techne .) Given the example of the relation of  the parts to the whole, perhaps Socrates is suggesting that there is an  analogue in the city: the health of the whole city and the sight of a  part of the city. The reader is curious if the same relation would hold  as to which techne had the natural priority over the other. Would the  interests of the whole rule the interests of a part of the city?   Socrates' examples of the body and the part of the body could, in  yet another manner, lead toward contemplation of the political. There is a possible connection between all three. The doctor might well have to  decide to sacrifice the sight of an eye in the interests of the whole  body. Perhaps the ruler (the man possessing the political techne) would  have to decide to sacrifice the health (or even life) of individuals (may¬  be even ones as important as the "eyes" of the city) for the well-being of  the polis . Thus, analogously# the political art properly rules the  various technae of the body.   Earlier the reader had occasion to be introduced to a system of  hierarchies (108c-e). Therein he found that harping was ruled by music and  wrestling by gymnastics. Gymnastics, as the techne of the body, is, it is  suggested, ruled by politics. Perhaps music should also be ruled by  politics. In the Republic , gymnastics is to the body roughly what music  is to the soul. Both, however, are directed by politics and are a major  concern of political men. It is fortunate for Alkibiades that he is  familiar with harping and gymnastics (106e), so that as a politician he  will be able to advise on their proper performance. One already has reason  to suspect that the other subject in which Alkibiades took lessons is  properly under the domain of politics.   Alkibiades believes that the better management of a state will  bring friendship into it and remove hatred and faction. Socrates in¬  quires if he means agreement or disagreement by friendship. Alkibiades  replies that agreement is meant, but one must notice that this sig¬  nificantly reduces the area of concern to which Alkibiades had given  voice. He had mentioned two kinds of strife, and one needn t think long  and hard to notice that friendship normally connotes much more than  agreement. Socrates next asks which techne causes states to agree about  numbers; does the same art, arithmetic, cause individuals to agree among  each other and with themselves. In addition to whatever suspicion one entertains that this is not the kind of agreement Alkibiades meant when  he thought friendship would be brought into a city with better management/  one must keep in mind the similarity between this and an earlier argument  (111c). In almost the same words, people agreed "with others or by them¬  selves" and states agreed, with regard to speaking Greek, or more pre¬  cisely, with naming. There are two features of this argument which should  be explored. Firstly, one might reflect upon whether agreement between  states is always essentially similar to agreement between people, or  agreement with oneself. People can fool themselves and they can possess  their own "language." Separate states may have separate weights and  measures, say, but individuals within a state must agree. Secondly,  there may be more than one kind of agreement with which the reader should  be concerned in this dialogue. This might be most apparent were there  different factors which compelled different people, in different circum¬  stances, to agree. Men sometimes arrive at the same conclusions through  different reasons.   The first two examples employed by Socrates illuminate both of  these points. Arithmetic and mensuration are about as far apart as it is  possible to be in terms of the nature of the agreement. Mensuration is  simply convention or agreement, and yet its entire existence depends on  people's knowing the standards agreed upon. Numbers, on the contrary,  need absolutely no agreement (except linguistically in the names given to  numbers) and no amount of agreement can change what they are and their  relation to each other.   The third example represents the type of agreement much closer to  that with which it is believed conventional politics is permeated. It is  the example of the scales — long symbolic of justice. Agreement with  people and states about weights on scales depends on a number of factors,  as does judgement about politics. There is something empirical to  observe, namely the action as well as the various weights; there is a  constant possibility of cheating (on one side or another) against which  they must take guard; there is a judgement to be made which is often  close, difficult and of crucial importance, and there is the general  problem of which side of the scale/polity is to receive the goods, and  what is the standard against which the goods are measured. To spell out  only one politically important aspect of this last factor, consider the  difference between deciding that a certain standard of life is to pro¬  vide the measure for the distribution of goods, and deciding that a  certain set of goods are to be distributed evenly without such a standard.  In one case the well off would receive no goods, they being the standard;  in the other case all would supposedly have an equal chance of receiving  goods. Other political factors are involved in determining what should  be weighed, what its value is, who should preside over the weighing, and  what kind of scale is to be used. The third example, the scales, surely  appears to be more pertinent to Socrates and Alkibiades than either of  the other two, although one notices that both arithmetic and mensuration  are involved in weighing.   Alkibiades is requested to make a spirited effort to tell Socrates  what the agreement is, the art which achieves it, and whether all parties  agree the same way. Alkibiades supposes it is the friendship of father  and mother to child, brother to brother and woman to man (126e). A good  ruler would be able to make the people feel like a family - their fellow  citizens like fellow kin. This seems to be a sound opinion of Alkibiades;  many actual cities are structured around families or clans or based on  legends of common ancestry (cf. Republic 414c-415d) . There is a complication, however, which is not addressed by either participant in  the dialogue. Socrates had suggested three parts to the analysis of  agreement - its nature, the art that achieves it, and whether all agree  in the same way. Alkibiades in his response suggests three types of  friendship which may differ dramatically in all of the respects Socrates  had mentioned. And the political significance of the three kinds of  friendship also has different and very far-reaching effects. Consider  the different ties, and feelings that characterize man-woman relation¬  ships. And imagine the different character of a regime that is  patterned not on the parent-child relation, but instead characterized by  male-female attraction!   In a dialogue on the nature of man in which there is already  support for the notion that "descent" and "family" figure prominently in  the analysis of man's nature, it seems likely that the three kinds of  familial (or potentially familial) relationships mentioned here would be  worthy of close and serious reflection. Socrates, however, does not take  Alkibiades to task on this, but turns to an examination of the notion  that friendship is agreement, and the question of whether or not they  can exist in a polis . Socrates had himself suggested that Alkibiades  meant agreement by friendship (126c), and in this argument that  restricted sense of friendship plays a significant role in their arriving  at the unpalatable conclusion. The argument leads to the assertion that  friendship and agreement cannot arise in a state where each person does   his own business.   asks Alkibiades if a man can agree with a woman about  wool—working when he doesn't have knowledge of it and she does. And  further, does he have any need to agree, since it is a woman's accomplishment? A woman, too, could not come to agreement with a man  about soldiering if she didn't learn it - and it is a business for men.  There are some parts of knowledge appropriate to women and some to men  on this account (127a) and in those skills there is no agreement between  men and women and hence no friendship - if friendship is agreement. Thus  men and women are not befriended by each other so far as they are per¬  forming their own jobs, and polities are not well-ordered if each person  does his own business (127b). This conclusion is unacceptable to  Alkibiades; he thinks a well-ordered polity is one abounding in friend¬  ship, but also that it is precisely each party doing his own business  that brings such friendship into being. Socrates points out that this  goes against the argument. He asks if Alkibiades means friendship can  occur without agreement, or that agreement in something may arise when  some have knowledge while others do not. These are presumably the steps  in the argument which are susceptible to attack. Socrates incidentally  provides another opening in the argument that could show the conclusion  to be wrong. He points out that justice is the doing of one's own work  and that justice and friendship are tied together. But Alkibiades, per¬  haps remembering his shame (109b-116d), does not pursue this angle,  having learned that the topic of justice is difficult. In order to  determine what, if anything, was wrongly said, various stages of the  argument will now be examined.   By beginning with the consideration of why anyone would suppose a  state was well-ordered when each person did his own business, one  observes that otherwise every individual would argue about everything  done by everybody. The reader may well share Alkibiades suspicion that  what makes a state well-ordered is that each does what he is capable of and trusts the others to do the same. This indicates, perhaps, the major  problems with the discussion between Socrates and Alkibiades. Firstly,  there are many ways that friendship depends less upon agreement than on  the lack of serious disagreement. Secondly, agreement can occur, or be  taken for granted, in a number of ways other than by both parties having  knowledge.   As revealed earlier in the dialogue, Alkibiades would readily  trust an expert in steering a ship as well as in fancy cooking (117c-d).  Regardless of whether it was a man's or a woman’s task, he would agree  with the expert because of his skill. In these instances he agreed  precisely because he had no knowledge and they did. Of course, faith in  expertise may be misplaced, or experts may lose perspective in under¬  standing the position of their techne relative to others. But though  concord and well-ordered polities do not necessarily arise when people  trust in expertise, friendship and agreement can come about through each  man's doing his own business.   Agreement between people, thus, may come about when one recognizes  his ignorance. It may also arise through their holding similar opinion  on the issue, or when one holds an opinion compatible with knowledge  possessed by another. For example, a woman may merely have opinions  about soldiering, but those opinions may allow for agreement with men,  who alone can have knowledge. Soldiering is a man's work, but while men  are at war the women may wonder about what they are doing, or read  stories about the war, or form opinions from talking to other soldiers'  wives, or have confidence in what their soldier—husbands tell them.   There is also a sense in which, if war is business for men, women don't  even need opinions about how it is conducted for they are not on the battlefield. They need only agree on its importance and they need not  even necessarily agree on why it is important (unless they are raising  sons). Women will often agree with men about waging war on grounds  other than the men's. For example, glory isn't a prime motivator for most  women's complying with their husbands' desires to wage war. It has been  suggested that agreement may arise on the basis of opinion and not  knowledge, and further that opinions need not be similar, merely com¬  patible. As long as the war is agreed to by both sexes, friendship will  be in evidence regardless of their respective views of the motives of war.   Apathy or some other type of disregard for certain kinds of work  may also eliminate disagreement and discord, provided that it isn't a  result of lack of respect for the person's profession. For example, a  man and a woman might never disagree about wool-working He may not care  how a spindle operates and would not think of interfering. And he  certainly wouldn't have to be skilled at the techne of wool-working to  agree with his wife whenever she voiced her views - his agreement with  her would rest on his approval of the resulting coat.   Socrates has not obtained from Alkibiades' speech the power to  learn what the nature of the friendship is that good men must have.  Alkibiades, invoking all the gods (he cannot be sure who has dominion  over the branch of knowledge he is trying to identify), fears that he  doesn't even know what he says, and has for some time been in a very  disgraceful condition. But Socrates reminds him that this is the cor¬  rect time for Alkibiades to perceive his condition, not at the age of  fifty, for then it would be difficult to take the proper care. In answer¬  ing Alkibiades' question as to what he should do now that he is aware of  his condition, Socrates replies he need only answer the questions Socrates puts to him. With the favor of the god (if they can trust in Socrates'  divination - cf. 107b, 115a) both of them shall be improved.   What Socrates may have just implied is that while Alkibiades'  speech is unable to supply the power to even name the qualities of a good  man, Socratic speech in itself has the power to actually make them better.  All Alkibiades must do is respond to the questions Socrates asks. The  proper use of language, it is suggested, has the power to make good men.  One may object that speech cannot have that effect upon a listener who is  not in a condition of recognizing his ignorance, but one must also recog¬  nize that speech has the power to bring men to that realization. Almost  half of the First Alkibiades is overtly devoted to this task. Indeed it  seems unlikely that people perceive their plight except through some form  of the human use of language except when they are visually able to com¬  pare themselves to others. It would be difficult to physically coerce  men into perceiving their condition. An emotional attempt to draw a  person's awarness - such as a mother's tears at her son's plight - needs  speech to direct it; the son must learn what has upset her. Speech is  also necessary to point to an example of a person who has come to a  realization of his ignorance. Socrates or someone like him, might  discern his condition by himself, but even he surely spent a great deal  of time conversing with others to see that their confidence in their  opinions was unfounded. In any event, what is important for the under¬  standing of the First Alkibiades is that Socrates has succeeded in con¬  vincing Alkibiades that thoughtful dialogue is more imperative for him  at this point than Athenian politics.   Together they set out to discover (cf. 109e) what is required to  take proper care of oneself; in the event that they have never previously done so, they will assume complete ignorance. For example, perhaps one  takes care of oneself while taking care of one's things (128a). They are  not sure but Socrates will agree with Alkibiades at the end of the argu¬  ment that taking proper care of one's belongings is an art different from  care of oneself (128d). But perhaps one should survey the entire argu¬  ment before commenting upon it.   Alkibiades doesn't understand the first question as to whether a  man takes care of feet when he takes care of what belongs to his feet, so  Socrates explains by pointing out that there are things which belong to  the hand. A ring, for example, belongs to nothing but a finger. So too  a shoe belongs to a foot and clothes to the body. Alkibiades still  doesn't understand what it means to say that taking care of shoes is  taking care of feet, so Socrates employs another fact. One may speak of  taking correct care of this or that thing, and taking proper care makes  something better. The art of shoemaking makes shoes better and it is by  that art that we take care of shoes. But it is by the art of making  feet better, not by shoemaking, that we improve feet. That art is the  same art whereby the whole body is improved, namely gymnastic.   Gymnastic takes care of the foot; shoemaking takes care of what  belongs to the foot. Gymnastic takes care of the hand; ring engraving  takes care of what belongs to the hand. Gymnastic takes care of the  body; weaving and other crafts take care of what belongs to the body.   Thus taking care of a thing and taking care of its belongings involve  separate arts. Socrates repeats this conclusion after suggesting that   care of one's belongings does not mean one takes care of oneself.   Further support is here recognized, in this dialogue, for a  hierarchical arrangement of the technae , but that simultaneously somewhat qualifies the conclusion of the argument. Gymnastic is the art of   taking care of the body and it thus must weave into a pattern all of the   arts of taking care of the belongings of the body and of its parts. Its   very control over those arts, however, indicates that they are of some   importance to the body. Because they have a common superior goal, the   taking care of the body, they are not as separate as the argument would   suggest. Just as shoes in bad repair can harm feet, shoes well made   may improve feet (cf. 121d, for shaping the body). They are often made   in view of the health or beauty of the body as are clothes and rings.   Because things which surround one affect one, as one's activities and one's   reliance on some sorts of possessions affect one, proper care for the be-   123   longings of the body may improve one's body.   Socrates continues. Even if one cannot yet ascertain which art  takes care of oneself, one can say that it is not an art concerned with  improving one's belongings, but one that makes one better. Further, just  as one couldn't have known the art that improves shoes or rings if one  didn't know a shoe or a ring, so it is impossible that one should know  the techna that makes one better if one doesn't know oneself (124a).  Socrates asks if it is easy to know oneself and that therefore the writer  at Delphi was not profound, or if it is a difficult thing and not for  everybody. Alkibiades replies that it seems sometimes easy and sometimes  hard. Thereupon Socrates suggests that regardless of its ease or  difficulty, knowledge of oneself is necessary in order to know what the  proper care of oneself is. It may be inferred from this that most  people do not know themselves and are not in a position to know what the  proper care of themselves is. They might be better off should they adopt  the opinions of those who know, or be cared for by those who know more.  In order to understand themselves, the two men must find out how,   generally, the 'self' of a thing can be seen (129b), Alkibiades figures   Socrates has spoken correctly about the way to proceed, but instead of   124   thus proceeding, Socrates interrupts in the name of Zeus and asks  whether Alkibiades is talking to Socrates and Socrates to Alkibiades.  Indeed they are. Thus Socrates says, he is the talker and Alkibiades  the hearer. This is a thoroughly baffling interruption, for not only is  its purpose unclear, but it is contradictory. They have just agreed that  both were talking.   Socrates pushes onward. Socrates uses speech in talking (one  suspects that most people do). Talking and using speech are the same  thing, but the user and the thing he uses are not the same thing. A  shoemaker who cuts uses tools, but is himself quite different from a  tool; so also is a harper not the same as what he uses when harping.   The shoemaker uses not only tools but his hands and his eyes, so,  if the user and the thing used are different, then the shoemaker and  harper are different from the hands and eyes they use. So too, since  man uses his whole body, he must be different from his body. Man must  be the user of the body, and it is the soul which uses and rules the body.  No one, he claims, can disagree with the remark that man is one of three  things. Alkibiades may or may not disagree, but he needs a bit of   clarification. Man must be soul, or body, or both as one whole. Al¬  ready admitted is the proposition that it is man that rules the body,  and the argument has shown that the body is ruled by something else, so  the body deesn't rule itself. What remains is the soul.   The unlikeliest thing in the world is the combination of both,  gQQj-^-(- 0 g suggests (130b) , for if one of the combined ones was said not to share in the rule, then the two obviously could not rule. It is not  necessary to point out to the reader that the possibility of a body's  share in the rule was never denied, nor to indicate that what Socrates    ostensibly regards as the unlikeliest thing of all, is what it seems most  reasonable to suspect to be very like the truth. Emotions and appetites,  so closely connected with the body, are a dominant and dominating part  of one's life. They account for a major part of people's lives, and even  to a large extent influence their reason (a faculty which most agree is  not tied to the body in the same way). The soul might be seen to be at  least partly ruled by the body if it is appetites and emotions which  affect whether or not reason is used and influence what kind of decisions  will be rationally determined.   Anyhow, according to Socrates, if it is not the body, or the com¬  bined body and soul, then man must either be nothing at all, or he must  be the soul (130c). But the reader is aware that only on the briefest  of glances does this square with "the statement that no one could dissent  to," (cf. 130a). Man cannot be 'nothing' according to that statement any  more than he can be anything else whatsoever, such as 'dog,' 'gold,'  'dream,' etc. 'Nothing' was not one of the alternatives.   Alkibiades swears that he needs no clearer proof that the soul is  man, and ruler of the body, but Socrates, overruling the authority of  Alkibiades' oath, responds that the proof is merely tolerable, sufficing  only until they discover that which they have just passed by because of  its complexity. Unaware that anything had been by-passed (Socrates had  interrupted that part of the discussion with his first conventional  oath - 129b), the puzzled Alkibiades asks Socrates. He receives the reply  that they haven't been considering what generally makes the self of a thing discoverable, but have been looking at particular cases (130d; cf.  129b). Perhaps that will suffice, for the soul surely must be said to  have a more absolute possession of us than anything else.   So, whenever Alkibiades and Socrates converse with each other,  it is soul conversing with soul; the souls using words (130d.l). Socrates,  when he uses speech, talks with Alkibiades' soul, not his face. Socratic  speech is thus essentially different from the speech of the crowds of  suitors who conversed with Alkibiades (103a, cf. also 106b). If Socrates'  soul talks with Alkibiades' soul and if Alkibiades is truly listening,  then it is Alkibiades' soul, not one of his belongings that hears Socrates  (cf. 129b-c). Someone who says "know thyself" (cf. 124a, 129a) means  "know thy soul"; knowing the things that belong to the body means knowing  what is his, but not what he is.   The reader will note how the last two steps of the argument subtly,  yet definitely, indicate the ambiguous nature of the body's position in  this analysis. Someone who knows only the belongings of the body will not  know the man. According to the argument proper, someone who knew the  body, too, would still only know a man's possessions, not his being.   Socrates continues, pressing the argument to show that no doctor  or trainer, insofar as he is a doctor or a trainer, knows himself.   Farmers and tradesmen are still more remote, for their arts teach only  what belongs to the body (which is itself only a possession of the man)  and not the man (131a). Indeed, most people recognize a man by his body,  not by his soul, which reveals his true nature.   126   gocrates pauses briefly to introduce consideration of a virtue.  Seemingly out of the blue, he remarks that "if knowing oneself is  temperance" then no craftsman is temperate by his te c h ne (131b). Because of this the good man disdains to learn the technae . This sudden intro¬  duction of the virtue/ defining temperance as self-knowledge/ will assume  importance later in the dialogue (e.g., at 133c).   Returning to the argument, Socrates proposes that one who cares  for the body cares for his possessions. One who cares for his money  cares not for himself, nor for his possessions, but for something yet  more remote. He has ceased to do his own business.   Those who love Alkibiades' body don't love Alkibiades but his   possessions. The real lover is the one who loves his soul. The one who  loves the body would depart when the body's bloom is over, whereas  the lover of the soul remains as long as it still tends to the better. Socrates is the one that remained; the others left when the bloom of the  body was over. Silently accepting this insult to his looks, one of his  possessions, Alkibiades recognizes the compliment paid to himself. The  account of the cause of Socrates' remaining and the others' departure,  however, has changed somewhat from the beginning CIO3b, 104c). Then the  lovers left because a quality of Alkibiades' soul was too much for them  (but not for Socrates) to handle. Now it is a decline in a quality of  the body that apparently caused them to depart, but it is still an  appreciation of the soul that retains Socrates' interest.   Perhaps the significance of this basic shift is to indicate to  Alkibiades the true justification for his self-esteem. His highminded¬  ness was based on his physical qualities and their possessions, not on  his soul. Socrates may be insulting the other lovers, but he is at the  same time making it difficult for Alkibiades to lose his pride in the  things of the body. Thus Socrates' reinterpretation of the reasons for  the lovers' departure reinforces the point of the argument, namely that one's soul is more worthy of attention and consideration than one's body.   Alkibiades is glad that Socrates has stayed and wants him to re¬  main. He shall, at Socrates' request, endeavour to remain as handsome   as he can. So Alkibiades, the son of Kleinias, "has only one lover and   128   that a cherished one," Socrates, son of Sophroniskos and Phainarite.   Now Alkibiades knows why Socrates alone did not depart. He loves  Alkibiades, not merely what belongs to Alkibiades (131e).   Socrates will never forsake Alkibiades as long as he (his soul)  is not deformed by the Athenian people. In fact that is what especially  concerns Socrates. His greatest fear is that Alkibiades will be damaged  through becoming a lover of the demos - it has happened to many good  Athenians. The face (not the soul?) of the "people of great-hearted  Erekhtheos" is fair, but to see the demos stripped is another thing. As  the dialogue approaches its end, Socrates becomes poetic in his utter¬  ances. On this occasion he prophetically quotes Homer ( Iliad II, 547).  When listing the participants on the Akhaian side of the Trojan War,   Homer describes the leader of the Athenians, the "people of the great¬  hearted Erekhtheos," as one like no other born on earth for the arrange¬  ment and ordering of horses and fighters. Alkibiades would become  famous for his attempts to order poleis and his arranging of naval  military forces.   In the Gorgias, Scorates relates a myth about the final judgement  of men, and one of the interesting features of the story is that the  judges and those to be judged are stripped of clothes and bodies ( Gorgias  523a-527e). 129 All that is judged is the soul. This allows the judges  to perceive the reality beneath the appearance that a body and its belong¬  ings provide. Flatterers (120b) would not be as able to get to the Blessed Isles/ although actually, in political regimes, living judges are  often fooled by appearances. Judges too are stripped so that they could  see soul to soul (133b; cf. Gorgias 523d), and would be less likely to be  moved by rhetoric, poetry, physical beauty or any other of the elements  that are tied to the body through, for example, the emotions and appetites.  It seems thus good advice for anyone who desires to enter politics that  he get a stripped view of the demos . In addition, those familiar with the  myth in the Gorgias might recognize the importance of Alkibiades stripping  himself, and coming to know his own soul, before he enters politics.   Socrates is advising Alkibiades to take the proper precautions. He  is to exercise seriously, learning all that must be known prior to an  entry into politics (132b). Presumably this knowledge will counteract  the charm of the people. Alkibiades wants to know what the proper exer¬  cises are, and Socrates says they have established one important thing and  that is knowing what to take care of. They will not inadvertently be  caring for something else, such as, for example, something that only be¬  longs to them. The next step, now that they know upon what to exercise,  is to care for the soul and leave the care of the body and its possessions  to others.   If they could discover how to obtain knowledge of the soul, they  would truly "know themselves." For the third time Socrates refers to the  Delphic inscription (132c; 124a, 129a) and he claims he has discovered  another interpretation of it which he can illustrate only by the example  of sight. Should someone say "see thyself" to one's eye, the eye would  have to look at something, like a mirror, or the thing in the eye that  is like a mirror (132d-e). The pupil of the eye reflects the face of the person looking into it like a mirror. Looking at anything else  (except mirrors, water, polished shields, etc.) won't reflect it. Just  as the eye must look into another eye to see itself, so must a soul  look into another soul. In addition it must look to that very part of  the soul which houses the virtue of a soul - wisdom - and any part like  wisdom (133b; cf. 131b). The part of the soul containing knowledge and  thought is the most divine, and since it thus resembles god, whoever sees  it will recognize all that is divine and will get the greatest knowledge  of himself.   In order to see one's own soul properly, then, Socrates suggests  that it is necessary to look into another's soul. Alkibiades must look  into someone's soul to obtain knowledge of himself, and he must possess  knowledge of himself in order to be able to rule himself. This last is  a prerequisite for ruling others. Since it lacks a 'pupil,' the soul  doesn't have a readily available window/mirror for observing another's  soul, as the eye does for observing oneself through another's eye. Such  vision of souls can only be had through speech. Through honest dialogue  with trusted friends and reflection upon what was said and done, one may  gain a glimpse of their soul. The souls must be "stripped" so that  words are spoken and heard truly. Socrates, by being the only lover who  remained, and, having shown his value to Alkibiades, will continue to  speak (104e, 105e). He is offering Alkibiades a look at his soul.   This is in keeping, it appears, with the advice that Alkibiades  look to the rational part of the soul. Socrates is the picture of the  rational man; through his speech the reader is also offered the oppor¬  tunity to try to see into Socrates' soul to better understand his own.  Again, as discussed above, a man's nature can be understood by looking to the example of the best, even if it is only an imitation of the best  in Dialogues.   Socrates now recalls the earlier mention of temperance as though  they had come to some conclusion regarding the nature of the virtue.   They had supposedly agreed that self-knowledge was temperance (133c; cf.  131b). Lacking self-knowledge or temperance, one could not know one's  belongings, whether they be good or evil. Without knowing Alkibiades  one could not know if his belongings are his. Ignorance of one's be¬  longings prohibits familiarity with the belongings of belongings (133d).  Socrates reminds Alkibiades that they have been incorrect in admitting  people could know their belongings if they didn't know themselves (133d-e).   This latter argument raises at least two difficulties. Firstly,  it renders problematic the suggestion that one should leave one's body  and belongings in another's care (132c). These others, it seems, would  be doctors and gymnastics trainers - the only experts of the body ex¬  plicitly recognized in the dialogue. Remembering that neither doctor or  trainer knows himself (131a), one might wonder how he can know Socrates'  and Alkibiades' belongings. He cannot, according to the argument here  (133c-d) know his own belongings without knowing himself and he cannot  be familiar with others' belongings while ignorant of his own.   The argument, secondly, creates a problem with the understanding  heretofore suggested about how men generally conduct their lives. Most  people do not know themselves and do not properly care for themselves.   The argument of the dialogue has intimated that they in fact care for  their belongings. Thus it would seem that, in some sense, they do know  their belongings, just as Alkibiades' lovers, ignorant of Alkibiades  and probably ignorant of themselves, still know that Alkibiades' body belonged to Alkibiades. And they knew, like he knew C104a-c) that his  looks and his wealth belong to his body. The reader might conclude from  this that the precise knowledge they do not have is knowledge either of  what the belongings should be like, or what their true importance and  proper role in a man's life should be. Knowledge of one's soul would  consist, partly, in knowing how to properly handle one's belongings.   That allows one to do what is right, and not merely do what one likes.   It is the task of one man and one techne (the chief techne in the  hierarchy) to grasp himself, his belongings, and their belongings. Some¬  one who doesn't know his belongings won't know other mens'. And if he  doesn't know theirs, he won't know those of the polity.   This last remark raises the consideration of what constitutes the  belongings of a polity. And that immediately involves one in reflection  upon whether the city has a body, and a soul. What is the essence of the  city? The reader is invited to explore the analogy to the man, but even  more, it is suggested that he is to reflect upon how to establish the  priority of one over the other. This invitation is indicated by the dis¬  cussion of the one techne that presides over all the bodies and belong¬  ings. The relation of the city to the individual man has been of  perennial concern to political thinkers, and a most difficult aspect of  the problem terrain involves the very understanding of the City and Man  (cf. 125b).   The question is multiplied threefold with the possibility that an  adequate understanding of the city requires an account of its soul, its  body and its body's belongings. An account of man, it has been suggested  in this dialogue, demands knowing his soul, body, possessions, and the   relation and ordering of each. It is quite possible that what is    proper best for a man will conflict with what is best for a city. The city  might be considered best off if it promotes an average well-being.   Having its norm, or median, slightly higher than the norm of the next  city would indicate it was better off. It is also possible that the cir¬  cumstances within which each and every man thrives would not necessarily  bring harmony to a city.   The problem of priority is further complicated by the introduction  of the notion that the welfare of each citizen is not equally important  to the city. Perhaps what is best for a city is to have one class of its  members excel, or to have it produce one great man. What is to be under¬  stood as the good of the city's very soul?   Furthermore, even if the welfare of the whole city is to be  identified with the maximum welfare of each citizen, it might still be  the case that the policies of the city need to increase the welfare of a  few people. For example, in time of war the welfare of the whole polity  depends on the welfare of a few men, the armed forces. As long as war  is a threat, the good of the city Cits body, soul, or possessions) could  depend on the exceptional treatment of one class of its men.   Knowledge of the true nature of the polity is essential for  political philosophy and so for proper political decision-making. Men  ignorant of the polity, the citizens, or themselves cannot be statesmen  or economists (133e; cf. Statesman 258e). Such a man, ignorant of his  and others' affairs will not know what he is doing, therefore making  mistakes and doing ill in private and for the demos . He and they will   be wretched.   Temperance and goodness are necessary for well-being, so it is  bad men who are wretched. Those who attain temperance not those who become wealthy, are released from this misery. ^ Similarly, cities need   virtue for their well-being, not walls, triremes, arsenals, numbers or   size (134b; The full impact of this will be felt if one remembers that   this dialogue is taking place immediately prior to the outbreak of the   war with Sparta. Athens is in full flurry of preparation, for she has   seen the war coming for a number of years) . Proper management of the   polis by Alkibiades would be to impart virtue to the citizens and he   131   could not impart it without having it (134c). A good governor has to   acquire the virtue first. Alkibiades shouldn't be looking for power as  it is conventionally understood - the ability to do whatever one pleases -  but he should be looking for justice and temperance. If he and the state  acted in accordance with those two virtues, they would please god; their  eyes focussed on the divine, they will see and know themselves and their  good. If Alkibiades would act this way, Socrates would be ready to  guarantee his well-being (134e). But if he acts with a focus on the god¬  less and dark, through ignorance of humself his acts will go godless and  dark.   Alkibiades has received the Socratic advice to forget about power  as he understands it, in the interest of having real power over at least  himself. Conventionally understood, and in most applications of it,  power is the ability to do what one thinks fit ( Gorgias 469d) . Various  technae give to the skilled the power to do what they think fit to the  material on which they are working. The technae , however, are hier¬  archically arranged, some ruling others. That is, some are archetectonic  with respect to others. What is actually fit for each techne is dictated  by a logically prior techne . The techne with the most power is the one  that dictates to the other techne what is fit and what is not. This    understanding seems to disclose two elements of power: the ability to do what one thinks is fit, and knowing what is fit.   If a man can do what he wants but is lacking in intelligence, the   result is likely to be disastrous (135a; Republic 339a-e, Gorgias 469b,   470a). If a man with tyrannical power were sick and he couldn't even be   talked to, his health would be destroyed. If he knew nothing about   navigation, a man exercising tyrannical power as a ship's pilot may well   132   cause all on board to perish. Similarly in a state a power without   excellence or virtue will fare badly.   It is not tyrannical power that Alkibiades should seek but virtue,  if he would fare well, and until the time he has virtue, it is better,  more noble and appropriate for a man, as for a child, to be governed by a  better than to try to govern; part of being 'better' includes knowledge  that right rule is in the subject's interest. It is appropriate for a   bad man to be a slave; vice befits a slave, virtue a free man (135c; it   seems strange that vice should be appropriate for anyone, slave or free,  perhaps, rather, it defines a slave). One should most certainly avoid  all slavery and if one can perceive where one stands, it may not at  present be on the side of the free (135c). Socrates must indicate to  Alkibiades the importance of a clearer understanding of both what he  desires, power, and what this freedom is. In a conventional, and ambigu¬  ous sense, the man with the most freedom is the king or tyrant who is  not sub ject to anyone. Socrates must educate Alkibiades. The man who  wants power like the man who seeks freedom, doesn't know substantively  what he is looking for; the only power worth having comes with wisdom,  which alone can make one free.   Socrates confides to Alkibiades that his condition ought not to  be named since he is a noble ( kalos) man (cf. 118b - is this another condition which will remain unnamed despite their solitude?). Alkibiades  must endeavour to escape it. If Socrates will it, Alkibiades replies, he  will try. To this Socrates responds that it is only noble to say "if  god wills it." This appears to be Socrates' pious defence to a higher  power. However, since he has drawn attention to the phrase himself, a  reminder may be permitted to the effect that it is not necessarily quite  the conventional piety to which he refers: a strange parade of deities  has been presented for the reader's review in this dialogue.   Alkibiades is eager to agree and wants, fervently, to trade  places with Socrates (135d). From now on Alkibiades will be attending  Socrates. Alkibiades, this time, will follow and observe Socrates in  silence. For twenty years Socrates has been silent toward Alkibiades,  and now, thinking it appropriate to trade places, Alkibiades recognizes  that silence on his part will help fill his true, newly found needs.   In the noise-filled atmosphere of today, it is especially difficult  to appreciate (and thus to find an audience that appreciates) the im¬  portance of the final aspect of language that will be discussed in  connection with knowledge and power - silence. The use of silence for  emphasis is apparently known to few. But note how a moment of silence  on the television draws one's attention, whether or not the program was  being followed. And an indication of a residual respect for the power  of silence is that one important manner of honoring political actors and  heroes is to observe a moment of silence. Think, too, how judicious use  of silence can make someone ill at ease, or cause them to re-examine  their speech. The words "ominous" and "heavy" may often be appropriately  used to describe silence. Silence can convey knowledge as well as power,  and as the above examplss may serve to show, it may have a significant role in each. When one begins to examine the role of silence in the lives  of the wise and the powerful, one begins to see some of the problems of a  loud society.   To start with, the reader acquaints himself with the role of  silence in political power. As witnessed in the dialogue, and, as well,  in modern regimes, there are many facets of this. Politicians must be  silent about much. Until recently, national defence was an acceptable  excuse for silence on the part of the leaders of a country. The exist¬  ence of a professional "news" gathering establishment necessitates that  this silence be total, and not only merely with respect to external  powers, for some things that the enemy must not know must be kept from  the citizens as well (cf. 109c, 124a).   Politicians are typically silent about some things in order to  attain office, and about even more things in order to retain it. Dis¬  senters prudently keep quiet in order to remain undetained or even alive.  Common sense indeed dictates that one observe a politic silence on a  wide variety of occasions. Men in the public eye may conceal their dis¬  belief in religious authority in the interests of those in the community  who depend on religious conviction for their good conduct. Most con¬  sider lying in the face of the enemy to be in the interests of the polity,  and all admire man who keeps silent even in the face of severe enemy  torture. Parents often keep silent to protect their children, either  when concerned about outsiders or about the more general vulnerability  of those unable to reason.   One important political use of silence is in terms of the myths  and fables related to children. Inestimable damage may be done when the  "noble lie" that idealistically structures the citizen's understanding of his regime is repudiated in various respects by the liberal desire to  expose all to the public in the interests of enlightenment. At the point  where children are shown that the great men they look up to are "merely  human," one most clearly sees the harm that may be done by breaking  silence. Everybody becomes really equal, despite appearances to the con¬  trary, since everyone - even the heroes - acts from deep, irrational  motives, appetites, fears, etc. High ideals and motives for action are  debunked.   Since many of the political uses of silence mentioned above con¬  cern appropriate silence about things known, the next brief discussion  will focus on silence and knowledge. The primary aspect of the general  concern for silence in the life devoted to the pursuit of knowledge is a  function of the twin features of political awareness and political con¬  cern. Though closely tied to the aforementioned appropriate uses of  silence, this is concerned less with the disclosure of unsalutary facts  about the life and times of men than with questions and truths of a  higher order. For example, if it could be discerned that man's condition  was abysmal, that he would inevitably become decadent, it would not be  politically propitious to announce the fact on the eight-o'clock newscast  There seem to be at least two situations in which such facts are revealed  A politically unaware man might not realize it; a politically aware but  somehow unconcerned man might not care about the well-being of the  community as a whole.   There are at least two additional respects in which silence is im¬  portant to the life of knowledge. Both play a part in Alkibiades' educa¬  tion in the First Alkibiades and contribute to his desire to trade places    with Socrates. Firstly one must be silent to learn what others have to say. On the face of it, this seems a trivial and fairly obvious thing  to say. However when one appreciates the importance of trust and friend¬  ship in philosophic discourse, one perceives that the notion of silence  important to this aspect of learning is much broader than the mere  logistics of taking turns speaking. To mention only a single example,  one has to prove one's ability to "keep one's mouth shut" in order to  develop the kind of trust essential to frank discussion among dialogic  partners.   Secondly, silence enhances mystery if there is reason to suspect  that the silent know more than they have revealed. This attraction to  the mysterious accounts for many things, including to mention only one  example, the great appeal of detective stories. If both witnesses and  the author did not know more than they let on in the beginning, if the  reader/detective did not have to take great care in extracting the truth  from muddled accounts, it is not likely that the genre would have the  enduring readership it now enjoys.   Both of these might be tied directly to Socrates' initial silence  toward Alkibiades. Socrates had kept quiet until Alkibiades had reached  a certain stage in the development of his ambition. His prolonged  silence, and then his repeated reminders of it, as he begins to speak,  increases Alkibiades' curiosity. As it becomes more and more apparent  to Alkibiades that Socrates knows what he is talking about, Alkibiades  becomes increasingly desirous of learning. He wants Socrates to reveal  the truth to him, the truth he suspects Socrates is keeping to himself  (e.g., 124b, 132b, 127e, 119c, 130d, 131d, 135d). Throughout the dis¬  cussion the men discuss ever more important subjects and it is readily  apparent that their mutual trust grows at least partly because of their recognition of what is appropriately kept silent (e.g., 109c, 118b,   135c). In addition, at yet another level, it has been frequently ob¬  served that Socrates' silence ragarding a part of the truth, or the  necessity of an example, or a segment of the argument, indicates to the  careful reader a greater depth to the issues. Recognition of this  silence increases the philosophic curiosity of the readers as he attempts  to discover both the subject of, and the reason for, the silence.   Alkibiades has suggested that he shall switch "places" with  Socrates. Socrates has attended on him for all this time and now  Alkibiades wants to follow Socrates. This is only one of a number of  "switches" that occur in the turning around of Alkibiades, witnessed  only by Socrates and the careful reader.   In the beginning Socrates says that the lovers of Alkibiades  left because his qualities of soul were too overpowering. He is flatter¬  ing Alkibiades in order, perhaps, to entice Alkibiades to begin listening.  In the end he suggests they ceased pursuing the youth because the bloom  of his beauty (the appearance of his body) has departed from him. At  first glance this is not complimentary at all. Nevertheless it is now  that Alkibiades claims to want very much to remain and listen. He will  even bear insults silently.   At the start Alkibiades is haughty, superior and self-sufficient.   In the end he wishes to please Socrates, recognizing his need for the  power of speech in his coming to know himself. At first he believes he  already knows, and arguments seem extraneous. By the end he wants to  talk over the proper care of his soul at length with Socrates.   Probably the most notable turning around in the dialogue is the  lover—beloved switch between the beginning and the end (cf. also Symposium 217d). But a number of puzzling features come to the fore when  one attempts to draw out the implications of the change. In what way is  their attraction switched? Socrates is attracted to Alkibiades' un¬  quenchable eros . Perhaps a mark of its great will for power is that it  is now directed toward Socrates. However, what does that suggest about  Socrates' eros in turn, either in terms of its strength or its direction?  What kind of eros is attracted to a most powerful eros which in turn is  directed back to it? Do Socrates and Alkibiades both have the same in¬  tensity of desires and are their ambitions not directed toward the same  ends?   Perhaps Socrates' answer will suffice. He is pleased with the  well-born man. His eros is like a stork - he has hatched a winged eros  and it returned to care for him. (This is the first indication that  Socrates assumes responsibility for the form of Alkibiades' desires; it  also indicates another whole series of problems regarding how Alkibiades  will "care for" Socrates). They are kindred souls (or at least have  kindred eros) , and their relationship is now one of mutual aid. Socrates  will look into Alkibiades' soul to find his own and Alkibiades will peer  into Socrates' soul in attempting to discern his. The reader is im¬  plicitly invited to look too; he has the privilege starting again and  examining the souls more closely each time he returns to the beginning.   Alkibiades agrees that that is the situation in which they find  themselves and he will immediately begin to be concerned with justice.  Socrates wishes he'll continue, but expresses a great fear. In an ironic  premonition of both their fates, he says he doesn't distrust Alkibiades'  nature, but, being able to see the might of the state (cf. 132a), he  fears that both of them will be overpowered.There is always an irony involved in concluding an essay on a   Platonic dialogue. The most fitting ending, it seems, would be to whet   one's appetite for more. This I shall attempt to do by pointing out an   intriguing feature about the dialogue in general. If one were to look   at the Platonic corpus as a kind of testament to Socrates, a story by   Plato of a Socrates made young and beautiful regardless of their historical   accuracy. For example, the Theaitetos , Sophist and Statesman all take   place at approximately the same time, shortly before Socrates' trial.   Similarly, the Euthyphro and Apology occur about then. The Crito and   Phaido follow shortly thereafter, and so on. The First Alkibiades has its   own special place. The First Alkibiades may well be the dialogue in   133   which Socrates makes his earliest appearance. The Platonic tradition   has presented us with this as our introduction to Socrates, to philosophy.   Why? This dialogue marks the first Socratic experience with philosophy   that we may witness. Why? The fateful first meeting between Socrates   and Alkibiades is also our first meeting with Socrates. Why? The   reader's introduction to the philosopher and to philosophizing is in a   conversation about a contest for the best man. Why? One must assume   134    that, for some reason, Plato thought this fitting. Plato, Republic 377a.9-10. The dialogue is known as the  First Alkibiades , Alkibiades I and Alkibiades Major . Its title in Greek  is simply Alkibiades but the conventional titles enable us to distinguish  it from the other dialogue called Alkibiades . Stephanus pagination in  the text of this thesis refers to the First Alkibiades of Plato. The  Loeb text (translated by W. Lamb, 1927) formed the core of the reading.  However, whenever a significant difference was noted between the Lamb  translation and that of Thomas Sydenham ( circa 1800), my own translation  forms the basis of the commentary. Unless otherwise noted, all other  works referred to are by Plato.   2. The major sources for Alkibiades' life are Thucydides, Xenophon,  Plutarch and Plato. It seems to be the case that no history can be  "objective." Since one cannot record everything, a historian must choose  what to write about. Their choice is made on the basis of their opinion  of what is important and therein vanishes the "objectivity" so sought  after but always kept from modern historians. The superiority of the  accounts of the men referred to above lies partially in that they do not  pretend to that "value-neutral" goal, even though their perspective may  nonetheless be impartial.   I wish to take this opportunity to emphasize the limited importance  of the addition of this sketch of the historical Alkibiades. Were it  suggested that such a familiarity were essential to the understanding of  the dialogue, it would be implied that the dialogue as it stands is in¬  sufficient, and that I was in a position to remedy that inadequacy. As  a rule of thumb in interpretation one should not begin with such pre¬  suppositions. However, there are a number of ways in which the reading  of the dialogue is enriched by knowing the career of Alkibiades. For  example, the reader who doesn't know that Alkibiades' intrigues with  (and illegitimate son by) the Spartan queen was a cause of his fleeing  from Sparta and a possible motive for his assassination, would not have  a full appreciation of the comment by Socrates on the security placed  around the Spartan queens (121b-c). At all events, extreme caution is  necessary so that extra historical baggage will not be imported into the  dialogue. It might be quite easy to prematurely evaluate the historical  Alkibiades, and thereby misunderstand the dialogue.   3. We are also told she had dresses worth fifty minae (123c). Plutarch, Life of Alkibiades , 1.1 (henceforth referred to  simply as Plutarch); Plato, Alkibiades I , 112c, 124c, 118d—e.  Plutarch, II. 4-6.   6. Diodoros Siculus, Diodoros of Sicily , XII. 38. iii-iv (hence¬  forth Diodoros).   7. This is the Anytos who was Socrates' accuser. He was also  notorious in Athens for being the first man to bribe a jury (composed of  500 men)! He had been charged with impiety. Some suspect that Alkibiades'  preference for Socrates caused Anytos to be jealous and that this was a  motive for his accusation of Socrates.   8. Plutarch, IV. 5.   9. The historical accuracy of the representation is impossible to  determine and, so far as we need be concerned, philosophically irrelevant.   10. Actually Alkibiades admits this in a dialogue which Plato  wrote (cf. Symposium 212c-223b, esp. 215a, ff.).    11. Plutarch, VI. 1.   12. Plato, Symposium 219e-220e; Plutarch VII. 3.   13. Plato, Symposium 220e-221c; Plutarch VII. 4; Diadoros XIII.  69. i-70. vi; cf. Thucydides, History of the Peloponnesian War , IV 89-  101 (henceforth: Thucydides).   14. Thucydudes, V. 40-48.   15. Cf. also Plutarch, X. 2-3.   16. Plutarch, XIV. 6-9; Thucydides V. 45.   17. Plutarch, XIII. 3-5. Cf. Aristotle's discussion in his  Politics , 1284al5-b35; 1288a25-30; 1302b5-22; 1308bl5-20.   18. Thucydides, VI. 16-18.   19. Diodoros, XII. 84. i-iii; Thucydides, VI. 9-25, 8-15.   20. Thucydides, VI. 25.   21. Plutarch, XVIII. 1-2; Thucydides, VI. 26.   22. The Hermai were religious statues, commonly positioned by the  front entrance of a dwelling. Hermes was the god of travelling and of  property. Cf. Thucydides, VI. 27-28.    23.   Thucydides,   VI. 29; Plutarch, XVIII. 3-XX. 1   24.   Thucydides,   VI. 46.   25.   Thucydides,   VI. 48-50.  Thucydides, VI. 48.   27. Thucydides, VI. 50-51.   28. Plutarch, XX. 2-XXI. 6; Diodoros, XIII. 4 i-iv; Thucydides,   VI. 60-61.   29. Plutarch, XXII. 1-4.   30. Thucydides, VI. 88-93.   31. Plutarch, XXIII. 1-6.   32. Thucydides, VII. 27-29.   33. Thucydides, VIII. 6, 11-14.   34. Plutarch, XXIII. 7-8; cf. also Plato, Alkibiades I , 121b-c  where Plato's mention might provide some support for a claim that the  motive was other than lust.   35. Thucydides, VIII. 45-47; Plutarch, XXV 1-2.   36. Plutarch, XXIV. 3-5.   37. Thucydides, VIII. 48-54.   38. Diodoros, XIII. 41. iv-42iii; Plutarch, XXVI. 1-6.   39. Thucydides, VIII. 72-77.   40. Thucydides, VIII. 89-93.   41. Thucydides, VIII. 97. For an excellent and beautiful examina¬  tion of this in Thucydides, read Leo Strauss, "Preliminary Observations of  the Gods in Thucydides' Work." INTERPRETATION , IV:1, Winter 1974, Martinus  Nijhoff, The Hague, Netherlands.    42.   Plutarch,   XXVII. 1-4.   43.   Xenophon,   Hellenika I, i, 11-18; Diodoros, XIII. 49. iii-52ii   44.   Xenophon,   Hellenika, I, i, 9-10; Plutarch, XXVII. 4-XXVIII. 2   45.   Xenophon,   Hellenika, I, iii, 1-22.   46.   Xenophon,   Hellenika, I, iv, 8-17; Plutarch, XXXI. 1-XXXII. 3.   47.   Xenophon,   Hellenika, I, iv, 20-21; Plutarch, XXXII. 4-XXXIII.   48.   Plutarch,   XXXIV. 2-6.   49.   Diodoros,   XIII. 68. i-69. iii. 50. Plutarch, XXIX. 1-2.   51. Xenophon, Hellenika I, v, 11-16; Plutarch, XXXV. 2-XXXVI. 2.   52. Plutarch, XXXVI-XXXVIII.   53. Diodoros, XIV. 11. i-iv; Plutarch XXXVIII. 4-XXXIX. 5. There  are various accounts, the similar feature being the Spartan instigation.  It is not likely that it was a personal assassination (because of the  queen), but it was probably not purely due to political motives, either.   54. Aristophanes, Frogs , 1420-1431; cf. Aristophanes, Clouds,   362; Plato, Symposium 221b.   55. Aristophanes, Clouds , 217 ff.   56. Politically speaking, however, this is not to be thoroughly  disregarded, for in their numbers they can trample even the best of men.   57. Cf. for example: Plato, Gorgias 500c, Aristotle, Politics  1324a24 ff., Rousseau, Social Contract , Book I, Preface and Bk. II, chap.  7, Marx, Theses on Feuerbach , #11.   58. Hobbes, Leviathan , edited by C. B. MacPherson, Pelican Books,  Middlesex, 1968, page 102 ff.    59. It is interesting that Socrates uses the promise of power to  entice Alkibiades to listen so that he can persuade him that he doesn't  know what power is. It is very important for the understanding of the  dialogue that the reader remember that Socrates has characterized  Alkibiades' desire for honor (105b) as a desire for power. This is of  crucial significance throughout the dialogue, and in particular in con¬  nection with Socrates' attempts to teach Alkibiades from whom to desire  honor, and in what real power consists. The reader is advised to keep  both in mind throughout the dialogue. Perhaps at the end he may be in a  position to judge in what the difference consists.   60. The most notorious example, perhaps, is Martin Heidegger,  although he was surely not the only important man implicated with fascism.   61. Cf. Aiskhylos, Agamemnon 715-735, and Aristophanes, Frogs  1420-1431, for the metaphor. The latter is a reference to Alkibiades  himself, the former a statement of the general problem. (f. also  Republic 589b; Laws 707a; Kharmides 155d; and Alkibiades I 123a).   62. The fully developed model resulting from this effort should  probably only be made explicit to the educators. The entire picture  (including the hero's thoughts about the cosmos, etc.) would be baffling  to children and most adults, and would thus detract from their ability  to identify with the model. Perhaps a less thoroughly-developed example  would suffice for youths. However, the entire conception of the best  man that the youths are to emulate should be made explicit. The task is  difficult but worth the effort, since the consistency of two or more features of the model can only be positively ascertained if he is fully  developed. An obvious example of where conflicts might arise should  this not be done is where, say, a very hybristic, superior and self-  confident young man is the leader of the radical democratic faction of  a city. Some kind of conflict is inevitable there, and those tensions  are much more obvious though not necessarily more penetrating than those  caused by incompatible metaphysical views.   63. For example, Lakhes , Kharmides , Republic , Euthyphro .   64. These questions are not the same, for in many dialogues the  person named does not have the longest, or even a seemingly major speak¬  ing part; e.g., Gorgias , Phaedo , Minos , Hipparkhos .Protagoras , 336d. Here Alkibiades is familiar with Socrates,  for he recognizes his "little joke" about his failing memory. However,  Socrates was not yet notorious throughout Athens, for the eunuch guarding  the door did not recognize him ( Protagoras 314d). Much of this specula¬  tion as to the date depends on there not being anachronisms between (as  opposed to within) Platonic dialogues. We have no priori reason to  believe there are no anachronisms. However, it might prove to be useful  to compare what is said about the participants in other dialogues. The  problem of anachronisms within dialogues is a different one than we are  referring to in our discussion of the dramatic date. Plato, for a variety  of philosophic purposes, employs anachronisms within dialogues, including  perhaps, that of indicating that the teaching is not time-bound.   66. This is obviously related to teleology, a way of accounting  for things that concentrates on the fulfilled product, the end or teleos  of the thing and not on its origin, as the most essential for under¬  standing the thing. The prescientific, or common-sensical, understanding  of things is a teleological one. The superior/ideal/proper character¬  istic of things somehow inform the ordinary man's understanding of the  normal. This prescientific view is important to return to, for it is  such an outlook, conjoined with curiosity, that gives rise to philosophic  wonder.    67. 103a.1, 104c.4, 104d.4, 104e.l, 123c.8, 123e.3, 124a.2. For  this kind of detailed information, I found the Word Index to Plato , by  Leonard Brandwood, an invaluable guide.   68. The challenge to self-sufficiency is important to every  dialogue, to all men. It is something we all, implicitly or explicitly,  strive towards, a key question about all men's goals. Even these days,  one thing that will still make a man feel ashamed is to have it suggested  that he depends on someone (especially his spouse).   The first step toward self-improvement has to be some degree of  self-contempt, and that might be sparked if Alkibiades realizes his  dependency.    69. Socrates might be saying this to make the youth open up. It  isn't purely complimentary; he doesn't say you are right. (Cf. also  Kharmides 158 a-b). I am indebted for this observation to Proclus  whose Commentary on the First Alkibiades , is quite useful and interesting. In order to claim that something is or is not a cause for  wonder, one apparently would have to employ some kind of criteria. Such  criteria would refer to some larger whole which would render the thing   in question either evident or worthy of wonder or trivial. None of these  has been explicitly suggested in the dialogue with reference either to  difficulty of stopping speech or beginning to talk.   71. It may be important to note that this discussion refers to  political limits, political ambitions. Perhaps a higher ambition (per¬  haps indeed the one Socrates is suggesting to Alkibiades) can be under¬  stood as an attempt to tyrannize nature herself, to rule (by knowing the  truth about) even the realm of possibility and not to be confined by it.   72. One notices that this, by implication, is a claim by Socrates  to know himself, not exactly a modest claim.   73. Interestingly, he does not consider what Alkibiades heard in  such speeches to be part of his education, "comprehensively" listed at  106e.    74. This appears similar to Socrates' strategy with Glaukon. Cf.  Craig, L.H., An Introduction to Plato's Republic , pp. 138-202; especially  pp. 163-4; Bloom, A., "Interpretive Essay," in The Republic of Plato ,   pp. 343-4.   75. Cf. Republic , 435c.   76. Cf. Republic , 327b, 449b; Kharmides , 153b; Parmenides , 126a.While imagined contexts may influence one's thinking and  speaking in certain ways, one is not naively assuming that then one will  speak and act the same as one would if the imagined were actualized.   Many things might prevent one from doing as well as one imagined. An  example familair to the readers of Plato might be the construction of the  good city in speech. Cf. 105d, 131e, 123c, and 121a. One might be curious as to  the difference between Phainarete's indoor teaching of Socrates and  Deinomakhe's indoor teaching of Alkibiades. Also perhaps noteworthy is  that Alkibiades was taught indoors by his actual mother: the masculine  side of his nurture was not provided by his natural father. Except see Hobbes, Leviathan, chapter 29; Plato, Republic ,  372e. And one must remember that when the plague strikes, the city is  dramatically affected.   80. Thucydides, VI. 21; I. 142-3; II. 13.   81. Note two things: (1) Athenians don't debate about this at  the ekklesia ; (2) Alkibiades, as well as the wrestling master, would be  qualified (118c-d).   Socrates drops dancing here; perhaps it is similar enough to wrestling to need no separate mention/ and to provide no additional  material for consideration. But if that were so one might wonder why it  was mentioned in the first place.    83. Perhaps "all cases" should be qualified to "all cases which  are ruled by an art." The general ambiguity surrounding this remark in¬  vites the reader's reflection on the extent to which Socrates' suggestion  could be seen to be a much more general kind of advice. Perhaps  Alkibiades would be better off imitating Socrates - period. Or perhaps  something else about Socrates' pattern (of life) could be said to provide  "the correct answer in all cases," - he is after all a very rational man.   84. The referent here is unclear in the dialogue. It could be  'lawfulness' and 'nobility' just as readily as the 'justice' which  Socrates chooses to consider; that choice significantly shapes the course  of the dialogue. Note: Socrates brought up 'lawful' (even though there  probably is no law in Athens commanding advisors to lie to the demos in  the event they war on just people); whereas Alkibiades' concern was  nobility.   85. This would be especially true if considerations of justice  legitimately stop at the city's walls. Cf. also Thucydides, I. 75, and  compare the relative importance of these motives in I. 76.  This conclusion may not be fair to Alkibiades, for he is  clearly not similar to Kallikles (see below) since he is convinced that  he must speak with Socrates to get to the truth. He wants to keep  talking. But he is still haughty. He has just completed a short dis¬  play of skill that wasn't sufficiently appreciated by Socrates, and, most  importantly, there will be an unmistakeable point in the dialogue at which  Alkibiades does become serious about learning. Alkibiades will confess  ignorance and that will mark a most important change in his attitude.   His attention here isn't focussed on the premises but on the conclusion  of the argument.   87. There are a number of possibilities here for speculation as  to the cause of his taking refuge - from shame? from the truth? from  the argument?   88. Draughts is a table game with counters, presumably comparable  to chess. Draughts is a Socratic metaphor for philosophy or dialectics.  The example arises in connection with language, and seem to indicate the  reader's participation in the dialogue. First, of course, Plato must  have us in mind, for Alkibiades cannot know that draughts are Socrates'  metaphor for philosophical dialectics. Second, the metaphor itself de¬  mands reflecting upon. How not to play is a strange thing to insert.  Though proceeding through negation is often the only way to progress in  philosophy, one doesn't set out to learn how not to play. The many indeed  cannot teach one to philosophize, but the question of how not to  philosophize often has to be answered in light of the many, as does the  question of how not to "argue." The philosopher must show caution both  because of the many's potential strength over himself, and through his  consideration of their irenic co-existence; he must not rock the boat, so  to speak. Cf. Hobbes, Leviathan , p. 100; Genesis 2:19-20.   90. It is interesting that with reference to "running" (the  province of the gymnastics expert or horseman) Socrates mentions both  horses and men. In the example of "health" he mentions only men. Pre¬  sumably he is indicating that there is some distinction to be made  between men and horses that is relevant to the two technae . Quite likely  this distinction shall prove to be a significant aid in the analysis of  the metaphors of 'physician 1 and 'gymnast' that so pervade this dialogue.  Borrowing the analogy of 'horses' from the Apology (30e), wherein cities  are said to be like horses, one might begin by examining in what way a  gymnastics expert pertains more to the city than does a doctor, or why  "running" and not "disease" is a subject for consideration in the city,  while both are important for men. Perhaps a good way to begin would be  by understanding how, when man's body becomes the focus for his concerns,  the tensions arise between the public and private realm, between city and  man.    91. The practical political problem, of course, is not simply  solved either when the philosophic determination of 'the many' is made,  or when empirical observation yields the results confirming what 'the  many' believe. The opinions must still be both evaluated and accounted  for.    92. However, when it is an extreme question of health - e.g.,  starvation, a plague - a question of life or death, they do. The con¬  dition of the body does induce people to fight and the condition of the  body seems to be the major concern of most people and is thus probably  a real, though background, cause of most wars and battles.   93. Homer, Odyssey , XXII 41-54; XVIII 420-421; XX 264-272, 322-  337, 394.   94. In Euripides' play, Hippolytos , Phaedra, the wife of Theseus,  is in love with her stepson Hippolytos, and though unwilling to admit,  she is unable to conceal, her love from her old nurse. She describes him  so the nurse has to know, and then says she heard it from herself, not  Phaedra.   95. It is undoubtedly some such feature of power as this that  Alkibiades expects Socrates to mention as that power which only he can  give Alkibiades. It may be that Socrates' power is closely tied to  speech - we are not able to make that judgement yet - but Alkibiades  is certainly not prepared for what he gets.   The reader is cautioned to remember that Socrates is assuming  power to be the vehicle for Alkibiades' honor. At least one sense in  which this is necessary to Socrates' designs has come to light.   Alkibiades could be convinced that he should look for honor in a narrower  group of people once he thought they were the people with the secret to  power. It is not as likely that he would come to respect that group  (especially not for being the real keys to power) if he hadn't already  had his sense of honor reformed. Cf. Gorgias , beginning at 499b and continuing through the end.  He certainly doesn't seem to care, although it may be a bluff or a pose.   97. Such as, perhaps, a dagger only partially concealed under his  sleeve - Gorgias 469c-d.   98. This, of course, is from the perspective of the city. Very  powerful arguments have been made to the contrary. The city may not be  the primary concern of the wisest men.   99. Perhaps it should be pointed out, though, that men who devote  themselves to public affairs frequently neglect their family - again the  tension between public and private is brought to our attention (cf. Meno,  93a-94e).   100. The fact that oaks grow stunted in the desert does not mean  that the stunted oak of the desert is natural. The only thing we could  argue is natural is that 'natural' science could explain why the acorn  was unable to fulfill its potential, just as 'natural' science can explain  how there can be two-headed, gelded, or feverish horses. In any  explanation of this sort the reference is to a more ideal tree or horse.  And any examination of an existing tree or horse will involve a reference  to an even more perfect idea of a tree or a horse.   101. It may be of no small significance that Socrates uses the  word ' ideas ' in this central passage. It is the only time in this  dialogue that the word is used and it seems at first innocuous. 'Ideas'  is another form of ' eidos ' - 'the looks' so famous in the central   epistemological books of the Republic. What is so exceptional about the   " *   use here is that it occurs precisely where the question of the proper  contest, the question of the best man, is raised. Socrates says, "My,  my, best of men, what a thing to say! How unworthy of the looks and  other advantages of yours." We are perhaps being told it is unworthy  of 'the looks,' 'the ideas , 1 that Alkibiades does not pose a high enough  ambition. The translators (who never noted this) are not in complete  error. Their error is one of imprecision. The modifier "your" ( soi)  is an enclitic and would have been understood (by Alkibiades) to refer  to "looks" as well as to his other advantages. However, as an enclitic,  it is used as a subtle kind of emphasis, and it is clearly the "other  advantages" that are emphasized. The 'soi' would normally appear in  front of the first of a list of articles. It doesn't here, and the  careful reader of the Greek text would certainly be first impressed  with it as " the looks." The reference to Alkibiades' looks would be a  second thought. And only in someone not familiar with the Republic or  with the epistemological problem of the best man, would the "second-  thought" be weighty anough to drown the first impression.   Incidentally, it is indeed interesting that the word for the  highest metaphysical reality in Plato's works is a word so closely tied  to everyday appearance. Once again there is support for the dialectical  method of questioning and answering, to slowly and carefully refine the  world of common opinion and find truth or the reality behind appearance.   102. Whether the war justly or unjustly is not mentioned. I believe that the referent to "others" is left ambiguous.  Note also that here (120c) Socrates speaks of the Spartan generals  ( strategoi ), a subtle change from 'king' (120a) a moment earlier. Per¬  haps he is implying a difference between power and actual military  capability.   104. This is/ of course/ generally good advice. Cf. Thucydides  I 84: one shouldn't act as though the enemy were ill-advised. One must  build on one's foresight, not on the enemy's oversight.   105. The important provision of nurture is added to nature. Cf.  103a and the discussion of the opening words of the dialogue.   106. Socrates has included himself in the deliberation explicitly  at this point, serving as a reminder to the reader that both of these  superior men should be considered in the various discussions, not just  one. A comparison of them and what they represent will prove fruitful to  the student of the dialogue.   107. Plato, another son of Ariston, is perhaps smiling here; we  recall why it is suspected that Alkibiades left Sparta and perhaps why  he was killed.   Two more facets of this passage are, firstly, that this might be  seen as another challenge by Socrates (in which case we should wonder as  to its purpose). Secondly, it implies that Alkibiades' line may have  been corrupted, or is at least not as secure as a Spartan or Persian one.  Alkibiades cannot be positive that his acknowledged family and kin are  truly his.   108. There is a very important exception and one significant to  this dialogue as well as to political thinking in general. One may change  one's ancestry by mythologizing it (or lying) as Socrates and Alkibiades  have both done. This may serve an ulterior purpose; recall, for example,  the claims of many monarchies to divine right.   109. Hesiod Theogony 928; cf. also Homer, Iliad 571 ff.   110. The opposite of Athena, Aphrodite ( Symposium 180d), and  Orpheus ( Republic 620a).   111. A number of Athenians may have thought this was much the  same effect as Socrates had. He led promising youths into a maze from  which it was difficult to escape. This discussion should be compared in detail with the  education outlined in the Republic . Such a comparison provides even more  material for reflection about the connection between a man's nurture and  his nature. (One significant contrast: the Persians lack a musical  education).   113. Compare, for example, the difference concerning horseback   riding: Plato, Alkibiades I, 121e; and Xenophon, Kyropaideia , I, iii, 3. Cf., for example, Machiavelli, The Prince , chapters 18, 19.  The only other fox in the Platonic corpus (besides its being the name of  Socrates' deme - Gorgias 495d) is in the Republic (365c) where the fox is  the wily and subtle deceiver in the facade of justice which is what  Adeimantos, in his elaboration of Glaukon's challenge, suggests is all  one needs.   115. The reader of the dialogue has already been reminded of the  Allegory of the Cave, also in the context of nurture, at 111b.   116. Thomas Sydenham, Works of Plato Vol. I , p. 69, points out -  that Herodotos tells us that this is not exclusively a Persian custom.  Egyptians, too, used all the revenue from some sections of land for the  shoes and other apparel of the queen. Cf. Herodotos, Histories , II, 97.   117. Cf. Pamela Jensen, "Nietzsche and Liberation: The Prelude to  a Philosophy of the Future ," Interpretation 6:2, p. 104: "[Nietzsche] does  not suppose truth to be God, but a woman, who has good reasons to hide  herself from man: her seductiveness depends upon her secretiveness..."   118. This greatly compounds the problems of understanding the two  men and their eros . What has heretofore been interpreted by Socrates as  Alkibiades' ambition for power is now explicitly stated to be an ambition  for reputation. Are we to understand them as more than importantly  connected, but essentially similar? And what are we to make of Socrates'  inclusion of himself at precisely this point? Does he want power too?  Reputation? Perhaps we are to see both men (and maybe even all erotic  attraction whatsoever) as willing to have power. Socrates sees power   as coming through knowledge. Alkibiades sees it as arising from reputa¬  tion. Is Socrates in this dialogue engaged in teaching Alkibiades to  respect wisdom over glory in the interests of some notion of power? The  philosopher and the timocrat come out of (or begin as) the same class of  men in the Republic. The reader should examine what differences relevant  to the gold/philosophic class, if any, are displayed by Socrates and  Alkibiades. Perhaps Socrates' education of Alkibiades could be seen as  a project in alchemy - transforming silver into gold.   119. Homer, Iliad , X. 224-6. Cf. Protagoras , 348d; Symposium ,  174d; Alkibiades II , 140a; as well as Alkibiades I , 119b, 124c.   120. This is not intended to challenge Prof. Bloom's interpreta¬  tion ( The Republic of Plato , p. 311). As far as I am capable of under¬  standing it and the text, his is the correct reading. However, with  respect to this point I believe the dialogue substantiates reading the  group of men with Polemarkhos as the many with power, and Socrates and  Glaukon as the few wise.   121. This is left quite ambiguous. The jest could refer to:   a) Socrates' claim to believe in the gods   b) Socrates' reason as to why his guardian is better   c) Socrates' claim that he is uniquely capable of providing Alkibiades  with power. In the Republic, inodes and rules of music are considered of  paramount political importance. Cf. Republic 376c-403c.   123. Cf. however. Symposium , 174a, 213b. At this stage of the  argument Socrates does not distinguish between the body and the self.   124. This is the only time Socrates swears by an Olympian god.   He has referred to his own god, the god Alkibiades "talked" to, a general  monotheistic god, and he has sworn upon the "common god of friendship"   (cf. Gorgias 500b, 519e, Euthyphro 6b), as well as using milder oaths  such as 1 Babai 1 (118b, 119c). It would probably be very interesting to   find out how Socrates swears throughout the dialogues and reflect on their  connection to his talk of piety, and of course, his eventual charge and  trial.    125. Strictly speaking that is the remark on which there won't be  disagreement, not the one following it. "Man is one of three things,"   is something no one can disagree with. (He is what he is and any two  more things may be added to make a set of three.) Why does Socrates  choose to say it this way? And why three? Are there three essential  elements in man's nature? As we shall presently see, he does assume a  fourth which is not mentioned at this time.   126. Though first on the list of Spartan virtues, temperance  ( sophrosyne ), a virtue so relevant to the problem of Alkibiades, does  not receive much treatment in this dialogue. One might also ask: if  temperance is knowing oneself, is there a quasi-virtue, a quasi¬  temperance based on right opinion?   127. This is what Socrates' anonymous companion at the beginning  of Protagoras suggests to Socrates with respect to Alkibiades.   128. Homer, Odyssey , II. 364. Odysseus' son, Telemakhos, is  called the "only and cherished son" by his nurse when he reveals to her  his plan of setting out on a voyage to discover news about his father.   His voyage too (permitting the application of the metaphor of descent  and human nature) is guarded by a divine being. Alkibiades/Telemakhos  is setting out on a voyage to discover his nature.   129. For other references to "stripping" in the dialogues, see  Gorgias 523e, 524d; cf. also Republic 601b, 612a, 359d, 361c, 577b, 474a,  452a-d, 457b; Ion 535d; Kharmides 154d, 154e; Theaitetos 162b, 169b;   Laws 772a, 833c, 854d, 873b, 925a; Kratylos 403b; Phaidros 243b;   Menexenos 236d; Statesman 304a; Sophist 237d.   130. This word for release (apallattetai) has only been used  for the release of eros to this point in the dialogue (103a, 104c, 104e,  105d). Parenthetically, regarding this last passage, we note also that  the roles of wealth and goodness in well-being have not been thoroughly  0 xplored. Perhaps he is suggesting a connection between becoming rich  and not becoming temperate.   131. One might interject here that perhaps the virtues resulting  from, say, a Spartan nurture, do not depend on the virtues of the governors. Perhaps they depend on the virtue or right opinion of the  lawgiver, but maybe not even that. There might be other counterbalancing  factors, as, for example, Alexander Solzhenitsyn suggests about Russians  today - (Harvard Commencement Address, 1978, e.g., paragraph 22).   132. As was mentioned with respect to their other occurrences in  the dialogue, the metaphors of the diseased city, physician of the city,  doctor of the body, pilot of ship, ship-of-state and passenger are all  worth investigating more thoroughly, and in relation to each other.  There is a dialogue, the Parmenides , in which the "Young  Socrates" speaks. We do not know what to make of this, but the fact that  he is called the "Young" Socrates somehow distinguishes his role in this,  from the other dialogues. He is not called "Young Socrates" in the  Alkibiades I , nor is he referred to as "Middle-aged Socrates" in the  Republic , nor is he named "Old Socrates" in the Apology .   134. Having come this far, the reader might want to judge for  himself some recent Platonic scholarship pertaining to the First  Alkibiades. In comparatively recent times the major source of interest  in the dialogue has been the popular dispute about its authenticity.   Robert S. Brumbaugh, in Plato for the Modern Age , (p. 192-3)  concludes:   But the argument of the dialogue is clumsy, its dialectic  constantly refers us to God for philosophic answers, and  its central point of method - tediously made - is simply  the difficulty of getting the young respondent to make  a generalization. There is almost none of the inter¬  play of concrete situation and abstract argument that  marks the indisputably authentic early dialogues of  Plato. Further, the First Alkibiades includes an almost  textbook summary of the ideas that are central in the  authentic dialogues of Plato's "middle" period; so  markedly that it was in fact used as an introductory  textbook for freshman Platonists by the Neo-Platonic  heads of the Academy ... it would be surprising if  this thin illustration of the tediousness of induction  were ever Plato's own exclusive philosophic theme: he  had too many other ideas to explore and offer.   Benjamin Jowett, translator of the dialogue and thus familiar with  the writings, says in his introduction to the translation:   ... we have difficulty in supposing that the same  writer, who has given so profound and complex a notion  of the characters both of Alkibiades and Socrates in  the Symposium should have treated them in so thin and  superficial a manner as in the Alkibiades , or that he  would have ascribed to the ironical Socrates the  rather unmeaning boast that Alkibiades could not  attain the objects of his ambition without his help; or that he should have imagined that a mighty  nature like his could have been reformed by a few not  very conclusive words of Socrates... There is none  of the undoubted dialogues of Plato in which there is  so little dramatic verisimilitude.Schleiermacher, originator of the charge of spuriousness,  analyzed the dialogue, (pp. 328-336). It is to him that we owe the  current dispute. Saving the best for last:   ... there is nothing in it too difficult or too  profound and obscure for even the least prepared  tyro... This ... work ... appears to us but very  insignificant and poor...   and   ... [genuinely Platonic passages] may be found  sparingly dispersed and floating in a mass of  worthless matter...   and   ... we must not imagine for a moment that in these  speeches some philosophic secrets or other are  intended to be contained. On the contrary, though  many genuine Platonic doctrines are very closely  connected with what is here said, not even the  slightest trace of them is to be met with...   and   ... in short, however we may consider it, [the  Alkibiades ] is in this respect either a contradiction  of all other Platonic dialogues, or else Plato's own  dialogues are so with reference to the rest. And  whoever does not feel this, we cannot indeed afford  him any advice, but only congratulate him that his  notions of Plato can be so cheaply satisfied...   In any event, much could be said about whether anything important  to the philosophic enterprise would hinge upon the authorship.   My comments concerning the issue will be few. Firstly there is  no evidence that could positively establish the authorship. Even should  Plato rise from the dead to hold a press conference, we are familiar  enough with his irony to doubt the straightforwardness of such a state¬  ment.    Secondly, many of the arguments are based on rather presumptuous  beliefs that their proponents have a thorough understanding of the corpus  and how it fits together. I will not comment further on such self-  satisfaction.   Thirdly, there are a number of arguments based on stylistic  analyses. If only for the reason that these implicitly recognize that  the dialogue itself must provide the answer, they will be addressed.   Two things must be said. First, style changes can be willed, so to  suggest anything conclusive about them is to presume to understand the  author better than he understood himself. Second, style is only one of  the many facets of a dialogue, all of which must be taken into account  to make a final judgement. As is surely obvious by now, that takes  careful study. And perhaps all that is required of a dialogue is that  it prove a fertile ground for such study. Aristophanes. The Eleven Comedies . New York: Liveright Publishing  Corp., 1943.   The King James BIBLE. Nashville, U.S.A.: Kedeka Publishers, 1976.   Bloedow, E. F. Alcibiades Reexamined . Weisbaden: Franz Steiner Verlag,  1973.   Bloom, Allan D. The Republic of Plato . Translated, with Notes and an  Interpretive Essay, by Allan Bloom. New York: Basic Books, 1968.   Brandwood, Leonard. A Word Index to Plato . Leeds: W. S. Maney and  Son, Ltd., 1976.   Brumbaugh, R. S. Plato for the Modern Age . U.S.A.: Crowell Collier  Press, 1962.   Churchill, Winston. Great Contemporaries . London: Macmillan and Co.   Ltd., 1943.   Craig, Leon H. An Introduction to Plato's Republic . Edmonton: printed  and bound by the University of Alberta, 1977.   de Romilly, Jacqueline. Thucydides and Athenian Imperialism . Translated  by Philip Thody. Oxford: Basil Blackwell, 1963.   Diodorus Siculus. 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Grice e Carapelle: l’implicatura conversazionale – linguaggio e metafilosofia – linguaggio oggetto – meta-linguaggio – Peano – Tarski 1944 – bootstrapping -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I like Carcano; I cannot say he is an ultra-original philosopher, but I may – My favourite is actually a tract on him, on ‘meta-philosophy,’ or rather ‘language and metaphilosophy,’ which is what I’m all about! How philosophers misuse ‘believe,’ say – but Carcano has also philosophised on issues that seem very strange to Italians, like ‘logica e analisi,’ ‘semantica’ and ‘filosofia del linguaggio’ – brilliantly!” Quarto Duca di Montaltino, Nobile dei Marchesi di Carapelle. Noto per i suoi studi di fenomenologia, semantica, filosofia del linguaggio e più in generale di filosofia analitica. Studia a Napoli, durante i quali si formò alla scuola di Aliotta e si dedica allo studio delle scienze. Studia a Napoli e Roma. Sulla scia teoretica del suo tutore volle approfondire le problematiche poste dalla filosofia e riesaminare attentamente il linguaggio in uso. La sua tesi centrale è che correnti come il pragmatismo, il positivismo, la fenomenologia, l'esistenzialismo e la psicoanalisi, fossero il portato dell'esigenza teoretica di una maggiore chiarezza – la chiarezza non e sufficiente -- delle varie questioni che emergevano da una crisi culturale, vitale ed esistenziale. Al centro di tale crisi giganteggia la polemica fra senza senso metafisico e senso anti-metafisica, soprattutto a causa del vigore critico del positivismo logico, contro il quale a sua volta lui -- che ritiene necessaria una sostanziale alleanza o quantomeno un aperto dialogo fra la metafisica e la scienza -- pone diversi rilievi critici, principale dei quali è quello di minare alla base l'unità dell'esperienza, alla Oakeshott -- che senza una cornice o una struttura metafisica in cui inserirsi rimarrebbe indefinitamente frammentata in percezioni fra loro irrelate. A questo inconveniente si può rimediare temperando il positivismo con lo sperimentalismo, ovvero accompagnando alla piena accettazione del metodo una piena apertura all’esperienza così come “esperienza” è stata intesa, ad esempio, nella fenomenologia intenzionalista intersoggetiva di Husserl. In questo senso si può procedere a mantenere una costante tensione sui problemi posti dalla filosofia, in opposizione a ogni dogma di sistema, e al contempo non cadere nell'angoscia a cui conduce lo scetticismo radicale che tutto rifiuta, compresa l'esperienza. Non si tratterebbe dunque per la filosofia di definire verità immutabili ma di sincronizzarsi col ritmo del metodo basato sull’esperienza fenomenologico, sussumendo i risultati sperimentali e integrandoli nel continuum di una struttura metafisica mediante il ponte dell'esperienza. Altre opere: “Filosofia e civiltà” (Perrella, Roma); Filosofia (Soc. Ed. del Foro Italiano, Roma); Il problema filosofico. Fratelli Bocca, Roma); La semantica, Fratelli Bocca, Roma – cf. Grice, “Semantics and Metaphysics”) Metodologia filosofica, una rivoluzione filosofica minore. Libreria scientifica editrice, Napoli 1958. Esistenza ed alienazione” (MILANI, Padova); Scienza unificata, Unita della scienza (Sansoni, Firenze); Analisi e forma logica (MILANI, Padova); Il concetto di informativita, MILANI, Padova); La filosofia linguistica, Bulzoni Editore, Roma. Dizionario biografico degli italiani, Roma. Ben altrimenti articolato e puntuale ci sembra l'intervento operato sulla fenomenologia da Paolo Filiasi Carcano di Montaltino de Carapelle, quarto duca di Montaltino, ed allievo di Aliotta a Na­poli e pur fedele estensore delle sue teorie, sulle quali, per questo mo­ tivo, ci siamo nell'ultima parte dilungati sorvolando sullo scarso ruolo t-he gioca in esse l'opera di Husserl. L'iter formativo di Carcano interseca situazioni ed esperienze riscontrabili, come ve­ dremo, anche in altri giovani filosofi della stessa generazione. Di più, nel.suo caso, c'è una singolare — e probabilmente indotta — analogia con la vicenda teoretica del primo Husserl. In realtà, — scrive l'autore in un brano autobiografico del 1956 — io non posso dire di essere venuto alla filosofia in maniera diretta, per un'intima voca­ zione alla speculazione o per un normale maturarsi dei miei studi e della mia men­ talità giovanile, ma questa era soprattutto caratterizzata da un'intensa passione pèrle scienze e da una viva disposizione per la matematica54. Questo germinale orientamento, unito a una sensibilità religiosa che non tarderà a manifestarsi, ebbe come primo e scontato effetto di allontanare Filiasi Garcano dall'area neo-idealistica, il cui radicale immanentismo, la esclusione dei concetti di peccato e di grazia e l'avversione per ogni for- 53 Ibidem, p. 7. 54 P. Filiasi Carcano, 17 ruolo della metodologia nel rinnovamento della filo­ sofia contemporanea, in AA.W., La filosofia contemporanea in Italia. Invito al dialogo, Asti, Arethusa, 1958, p. 219.  ma di naturalismo, non potevano in alcun modo essere accettati 55. Di qui un sentimento di estraneità e di insoddisfazione subito denunciati fin dai primi scritti, l'intima perplessità e la difficoltà di orientarsi in una temperie culturale già decisa e fissata nelle sue grandi linee da altri. E, d'altro canto, un naturale rivolgersi al problema metodologico, come pre­ liminare assunzione di consapevolezza circa i percorsi teoretici che con­ veniva seguire per ottenere uno scopo valido, senza tuttavia ancora nul­ la presumere circa la necessità di quei percorsi o la natura di questo sco­ po. In tal senso, l'elaborazione di una qualsivoglia metodologia doveva prevedere come esito programmatico, da un lato, una sorta di epochizza- zione delle grandi tematiche metafisiche e della tradizionale formulazione dèi problemi, dall'altro lato, un lungo e paziente lavoro di analisi, con­ fronto, chiarificazióne e comprensione che consentisse di recuperare, di quelle tematiche e di quei problemi, il contenuto più autentico. Ma più lo sguardo critico del giovane filòsofo andrà maturando fino ad abbracciare nel suo complesso il controverso panorama culturale del tempo, più quel programma iniziale perderà la sua connotazione prope­ deutica per trasformarsi in compito destinale, in una ' fighi for clarity* che assumeva i termini di un radicale esame di coscienza nei confronti della filosofia. Scrive Filiasi Carcano: Confesserò che varie volte ho avuto ed ho l'impressione di non aver abba­ stanza compreso, e per questo alla mia spontanea insoddisfazione (al tempo stesso scientifica e religiosa) si mescola un senso di incomprensione. Questo stato d'animo spiega bene il mio atteggiamento che non è propriamente di critica (...), ma ha piut­ tosto il carattere di un prescindere, di una sospensione del giudizio, di una messa in parentesi, in attesa di una più matura riflessione 56. Al fondo dei dualismi e delle vuote polemiche che, nella comunità filoso- fica italiana degli anni Trenta, sembravano prevaricare sulle più urgenti esigenze scientifiche e di sviluppo, Filiasi Carcano coglie i sintomi dì un conflitto epocale, di una inquietudine psicologica e di un'incertezza morale che andranno a comporsi in una vera e propria fenomenologia della crisi. ' Crisi della civiltà ', anzitutto, come recita il titolo della sua opera prima 57, dove al desiderio di fuggire l'alternativa del dogmatismo fa da 55 Per questi punti mi sono riferito a M. L. Gavazzo, Paolo Filiasi Carcano,. «Filosofia oggi», X, 1, 1987, pp. 57-74.; * P; Filiasi Carcano, // ruolo della metodologia,;cit., p. 220. 57 Cfr. P. Carcano, Crisi della civiltà e orientamenti della filosofia contraltare l'eterno dissidio tra ragione e fede. Crisi esistenziale, di con­ seguenza, dovuta al prevalere delle tendenze scettiche e antimetafisiche su quelle spirituali e religiose. Crisi della filosofia, infine, fondata sulla raggiunta consapevolezza del suo carattere problematico, sull'incapacità di realizzare interamente la pienezza del suo concetto. Come moto di reazione immediata occorreva allora, oltreché circoscrivere le proprie pre­ tese conoscitive ponendosi su un piano risolutamente pragmatico, assur­ gere ad una più compiuta presa di coscienza storica e conciliare la filoso­ fia con una mentalità scientificamente educata. Solo, cioè, il confronto con una seria problematica scientifica (la quale Filiasi Carcano vedeva realizzata nell'ottica positivista dello sperimentalismo aliottiano) avreb­ be potuto segnare per la filosofia l'avvento di una più matura riflessione intorno alle proprie dinamiche interne e ai propri genuini compiti critici. E a questo scopo parve a Filiasi Carcano, fin dai suoi studi d'esor­ dio, singolarmente soccorrevole proprio l'opera di Edmund Husserl. Scri­ ve Angiolo Maros Dell'Oro: A un certo punto si intromise Husserl. Filiasi Carcano pensò, o sperò, che là fenomenologia sarebbe stata la ' scienza delle scienze', capace di indicargli la via zu den Sachen selbsf, per dirla con le parole del suo fondatore. Da allora è stata invece per lui l'enzima patologico di una problematica acuta 58. Sùbito rifiutata, in realtà, come idealismo metafisico, quale eira frettolo­ samente spacciata in certe grossolane versioni del tempo (non esclusa, lo ^bbiamo visto,.quella del suo, maestro), la fenomenologia viene aggredita alla radice dal giovane studioso, con una cura e un rigore filologico — i quali pure riscontreremo in altri suoi coetanei — giustificabili solo con l'urgenza di una richiesta culturale cui l'ambiente nostrano non poteva evidentemente soddisfare. Non è un caso che Filiasi Carcano insista, fin dal suo primo articolo dedicato ad Husserl, sul valore della fenomeno­ logia, ad un tempo, emblematico, nel quadro d'insieme della filosofia contemporanea, e liberatorio rispetto al giogo dei tradizionali dogmi idealistici che i giovani, soprattutto in Italia, si sentivano gravare sulle spalle ". contemporanea, pref. di A. Aliotta, Roma, Libreria Editrice Perrella,  Cf. Il pensiero scientifico ìtt Italia 'Creiriòria, Màngiarotti Editore, 1963, p. 108. 39 Cfr. P. Filiasi Cartario/ Da Carierò'ad H«w&f/,:« Ricerche filoSofìche », In piena coscienza, — scriverà l'autore — se abbiamo voluto scio­ gliere l'esperienza da una necessaria interpretazione idealistica, non è stato per forzarla nuovamente nei quadri di una metafisica esistenziale, ma per ridare ad essa, secondo lo schietto spirito della fenomenologia, tutta la sua libertà 60. Tale schiettezza, corroborata da un carattere decisamente antisistema­ tico e dal recupero di una vitale esigenza descrittiva, avrebbe consentito lo schiudersi di un nuovo, vastissimo territorio di indagine, sospeso tra constatazione positivistica e determinazione metafisica, ma capace, al tem­ po stesso, di metter capo ad un positivismo di grado superiore e ad un più autentico pensare metafisico. Si trattava, in sostanza, non tanto di dedurre i caratteri di una nuova positività oppure di rifondare una me- tafisica, quanto piuttosto di guadagnare un più saldo punto d'osserva­ zione dal quale far spaziare sul multiverso esperienziale il proprio sguar­ do fenomenologicamente addestrato. È in questo punto che la fenome­ nologia, riabilitando l'intuizione in quanto fonte originaria di autorità (Rechtsquelle), operando in base al principio dell'assenza di presupposti e offrendo i quadri noetico-noematici per la sistemazione effettiva del suo programma di ricerca, veniva ad innestarsi sul tronco dello sperimenta­ lismo di stampo aliottiano, che Filiasi Carcano aveva assimilato a Napoli negli anni del suo apprendistato filosofia). Il ritorno ' alle cose stesse * predetto dalla fenomenologia non solo manteneva intatta la coscienza cri­ tica rimanendo al di qua di ogni soglia metafisica, ma anche e più che mai serviva a ribadire il carattere scientifico e descrittivo della filosofia. In un passo del 1941 si possono scorrere, a modo di riscontro, i punti di un vero e proprio manifesto sperimentalista: Descrivere la nostra esperienza nel mondo con l'aiuto della critica più raffi­ nata; cercare di raccordarne i vari aspetti in sintesi sempre più vaste e più com­ prensive, esprimenti, per cosi dire, gradi diversi della nostra conoscenza del mon­ do; non perdere mai il senso profondo della problematicità continuamente svol- gentesi dal corso stesso della nostra riflessione; infine stare in guardia contro tutte le astrazioni che rischiano di alterare e disperdere il ritmo spontaneo della vita: sono questi i principali motivi dello sperimentalismo e (...) al tempo stesso, i modi mediante i quali esso va incontro alle più attuali esigenze logiche e metodologiche del pensiero contemporaneo61. D'altro canto, si diceva, non è neppure precluso a questo program- *° P. Filiasi Carcano, Crisi della civiltà, cit., p. 138. 61 P. Filiasi Carcano, Antimetafisica e sperimentalismo, Roma, Perrella ma un esito trascendente, e a fenderlo possibile sarà ancora una volta, in virtù della sua cruciale natura teoretica, proprio l'atteggiamento feno­ menologico. Scrive Filiasi Carcano: In realtà, il dilemma tra una scienza che escluda l'intuizione e una intui­ zione che escluda la scienza, non c'è che su di un piano realistico ma non su di un piano fenomenologicamente ridotto: su questo piano scienza e intuizione tornano ad accordarsi, accogliendo una pluralità di esperienze, tutte in un certo senso le­ gittime e primitive, ma tutte viste in un particolare atteggiamento di spirito che sospende ogni giudizio metafisico. È questo, com'io l'intendo, il modo particola­ rissimo con cui la filosofia può tornare oggi ad occuparsi di metafisica. Certo, nella prospettiva husserliana, il problema del trascendens puro e semplice, che farà da sfondo a tutto il percorso speculativo di Filiasi Carcano, sembrava rimanere ingiudicato o, almeno, intenzionalmente rin­ viato in una sorta di ' al di là ' conoscitivo, Ma in ordine alla missione spirituale che l'uomo deve poter esplicare nel mondo storico, il metodo fenomenologico conserva tutta la sua efficacia. Esso —nota Filiasi Carcano nelle ultime pagine del suo Antimetafisica e spe­ rimentalismo — certo difficilmente può condurre a risultati, ma compie per lo meno analisi e descrizioni interessanti, e tanto più notevoli in quanto tende a sollevare il velo dell'abitudine per farci ritrovare le primitive intuizioni della vita religiosa 63. Dato questo suo carattere peculiare e l'orizzonte significativo nel quale viene assunta fin dal principio, la fenomenologia continuerà a va­ lere per Filiasi Carcano come referente teoretico di prim'ordine, accom­ pagnandolo, con la tensione e la profondità tipiche delle esperienze fon­ damentali, in tutti i futuri sviluppi della sua speculazione. La terza grande area di interesse per il pensiero hussèrliano negli anni Trenta in Italia, fa capo all'Università.di Torino e si costituisce prin­ cipalmente intorno all'attività 4i tre studiosi: il primo, già incontrato e che, in qualche modo, fa da ponte fra questa e la neoscolastica mila­ nese è Carlo Mazzantini; il secondo è Annibale Pastore —ne parleremo ora — che teneva nell'ateneo torinese la cattedra di filosofia teoretica; 6- P, Filiasi Corcano,. Crisi.della civiltà,.eit,,. p.., 184.,:;  Carcano, Antimetafisica e sperimentalismo, cit., p. 153.  Apparently, David Hilbert was the first to use the prefix meta(from the Greek over) in the sense we use it in metalanguage, metatheory, and now metasystem. He introduced the term metamathematics to denote a mathematical theory of mathematical proof. In terms of our control scheme, Hilbert's MST has a non-trivial representation: a mapping of proofs in the form of usual mathematical texts (in a natural language with formulas) on the set of texts in a formal logical language which makes it possible to treat proofs as precisely defined mathematical objects. This done, the rest is as usual: the controlled system is a mathematician who proves theorems; the controlling person is a metamathematician who translates texts into the formal logical language and controls the work of the mathematician by checking the validity of his proofs and, possibly mechanically generating proofs in a computer. The emergence of the metamathematician is an MST. Since we have agreed not to employ semantically closed languages, we have to use two different languages in discussing the problem of the definition of truth and, more generally, any problems in the field of semantics. The first of these languages is the language which is "talked about" and which is the subject- matter of the whole discussion; the definition of truth which we are seeking applies to the sentences of this language. The second is the language in which we "talk about" the first language, and in terms of which we wish, in particular, to construct the definition of truth for the first language. We shall refer to the first language as "the object-language,"and to the second as "the meta-language." It should be noticed that these terms "object-language" and "meta- language" have only a relative sense. If, for instance, we become inter- ested in the notion of truth applying to sentences, not of our original object-language, but of its meta-language, the latter becomes automatically the object-language of our discussion; and in order to define truth for this language, we have to go to a new meta-language-so to speak, to a meta- language of a higher level. In this way we arrive at a whole hierarchy of languages. The vocabulary of the meta-language is to a large extent determined by previously stated conditions under which a definition of truth will be considered materially adequate. This definition, as we recall, has to imply all equivalences of the form (T): (T) X is true if, and only if, p. The definition itself and all the equivalences implied by it are to be formulated in the meta-language. On the other hand, the symbol 'p' in (T) stands for an arbitrary sentence of our object-language.  Let “A(p)** mean “I assert p between 5.29 and 5.31’*. Then q is “there is a  proposition p such that A(p) and p is fake”. The contradiction emerges from the  supposition that q is the proposition p in question. But if there is a hierarchy of  meanings of the word “false** corresponding to a hierarchy of propositions, we  shall have to substitute for q something more definite, i.e. “there is a proposition  p of order «, such that k{p) and p has falsehood of order n*\ Here n may be any  integer: but whatever integer it is, q will be of order « + i? and will not be capable  of truth or falsehood of order n. Since I make no assertion of order n, q is false,   The hierarchy must extend upwards indefinitely, but not  downwards, since, if it did, language could never get started.  There must, therefore, be a language of lowest type. I shall  define one such language, not the only possible one.* I shall call  this sometimes the “object-language”, sometimes the “primary  language”. My purpose, in the present chapter, is to define and  describe this basic lai^age. The languages which follow in the  hierarchy I shall call secondary, tertiary, and so on; it is to be  understood that each language contains all its predecessors.   The primary language, we shall find, can be defined both  logically and psychologically; but before attempting formal  definitions it will be well to make a preliminary informal explora-  tion.   It is clear, from Tarski’s argument, that the words “true”  and “false” cannot occur in the primary language; for these  words, as applied to sentences in the language, belong to the  (« -t- language. This does not mean that sentences in the  primary language are neither true nor false, but that, if “/>” is a  sentence in this language, the two sentences “p is true” and  “p is false” belong to the secondary language. This is, indeed,  obvious apart from Tarski’s argument. For, if there is a primary  language, its words must not be such as presuppose the existence  of a language. Now “true” and “false” are words applicable to  sentences, and thus presuppose the existence of language. (I  do not mean to deny that a memory consisting of images, not  words, may be “true” or “false”; but this is in a somewhat  different sense, which need not concern us at present.) In the  primary language, therefore, though we can make assertions, we  cannot say that our own assertions or those of others are either  true or false.   When I say that we make assertions in the primary language,  I must guard against a misunderstanding, for the word “assertion”   and, since q is not a possible value of p, the argument that q is also true collapses.  The man who says ‘T am telling a lie of order n” is telling a He, but of order  n 4 - I. Other ways of evading the paradox have been suggested, e.g. by Ramsey,  “Foundations of Mathematics”, p. 48.   * My liierarchy of languages is not identical with Carnap's or Tarski's. Proceeding psychologically, I construct a  language (not the language) fulfilling the logical conditions for  the langu^e of lowest type; I call this the “object-language” or  the “primary language”. In this language, every word “denotes”  or “means” a sensible object or set of such objects, and, when  used alone, asserts the sensible presence of the object, or of one of   *9     AN INQUIRY INTO MEANING AND TRUTH   the set of objects, which it denotes or means. In defining this  language, it is necessary to define “denoting” or “meaning” as  applied to object-words, i.e., to the words of this language. Paolo Filiasi Carcano di Montaltino di Carapelle. Paolo Filiasi Carcano. Paolo Carcano. Montaltino. Keywords: linguaggio e metafilosofia, semantica, quarto duca di montaltino, semantica ed esperienza, semantica e fenomenologia, filiasi carcano, montaltino, carapelle. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carapelle” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Carbonara: l’implicatura conversazionale l’esperienza e la prassi – Cicerone e il pratico -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Potenza). Filosofo Italiano. Grice: “I like Carbonara; my favourite of his tracts are one on ‘del bello,’ – another one on ‘dissegno per una filosofia critica dell’esperienza pura: immediatezza e reflessione’ – but mostly his ‘esperienza e prassi,’ which fits nicely with my functionalist method in philosophical psychology: there is input (esperienza), but there is ‘prassi,’ the behavioural output --; I would prefer this to the tract on the ‘filossofia critica’ since I’m not sure we need ‘reflexion’ to explain, say, communication – not at least in the way Carbonara does use ‘reflessione,’ alla Husserl.  Conseguito il diploma liceale, si trasferì a Napoli, frequentando la facoltà di filosofia. Ottenuta la laurea sotto Aliotta, collabora per “Logos”. Insegna a Campobasso, Nocera Inferiore, Cagliari, Catania, e Napoli.  Con “Disegno d'una filosofia critica dell'esperienza pura”, rifacendosi alla filosofia kantiana e riprendendo il discorso idealistico ne mette in rilievo il tentativo fallito di Gentile di dare concretezza all’astratto. Nell'attualismo, il ritorno all’atto, al fatto, si risolve infatti nell'atto sempre uguale e sempre diverso del pensare, unica realtà e verità del pensiero e della storia: «vera storia non è quella che si dispiega nel tempo, ma quella che si raccoglie nell'eterno atto del pensare»..  Il problema secondo Carbonara anda esaminato riportandolo alla sua origine, cioè al problema del rapporto tra esperienza e concetto, tra realtà e concetto così come era stato affrontato dalla filosofia kantiana e che Gentile crede di risolvere stabilendo un rapporto dialettico tra il concetto e il suo negativo all'interno del concetto stesso. La soluzione invece era in nuce secondo Carbonara nella sintesi a priori kantiana dove convivono forma (segnante) e contenuto (segnato) per cui la coscienza è per un verso forma, contenitore (segnante) di un contenuto (segnato) storico e per un altro *coincide* col suo contenuto (segnato) in quanto il contenuto (segnato) non avrebbe realtà al di fuori della forma della coscienza segnante.  La successiva questione si pone considerando oltre il rapporto del pensiero – il segnante -- con la materia quella collegata all'origine del pensiero stesso. Ancora una volta Kant intravede la soluzione nella teoria dell' “io penso” che però va ora intesa non come la struttura logico-metafisica della realtà storica, ma come la sua struttura psicologica ma *trascendentale* o "esistenziale", secondo una concezione della "filosofia dell'esperienza pura" nel senso che l'esperienza coincide col divenire della vita dello spirito e deve restare indifferente al problema, ch'è propriamente di natura ontologica, circa la sua dipendenza o indipendenza da una realtà diversa dal mio spirito. Il rapporto tra pensiero e materia porta Carbonara ad indagare quello tra filosofia e scienza con “Scienza e filosofia” in Galilei, in cui sostiene che mentre da un punto di vista filosofico non si può andare oltre l'ambito dell'autocoscienza (il mio spirito – Il “I am hearing a noise” di Grice) del cogito cartesiano, al contrario la scienza si basa sulla necessità di fondarsi sul mondo esterno (nel spirito dell’altro – intersoggetivita). Forse la soluzione di questa antinomia, sostiene Carbonara, va ricercata nell'insoddisfazione dello stesso idealismo verso se stesso  non potendo rinunciare a se stesso ma neppure al suo opposto -- nec tecum nec sine te  -- solus ipse. Si interessa anche della filosofia rinascimentale a Firenze. Nota come in quel periodo si fosse realizzata una fusione tra il cristianesimo e il neo-platonismo così come ad esempio in Ficino prete cattolico che visse la sua fede come teologia razionale dando una base filosofica, trascurando la stessa rivelazione, alla sua spiritualità religiosa:  In Ficino, il platonismo si congiunge al cristianesimo non soltanto sul fondamento di una religiosità profonda da cui il primo appare permeato, ma anche per una tradizione storica ininterrotta, per cui l'antichissima saggezza, ripensata da Platone e dai neoplatonici, si ritrova trasfigurata ma tuttavia persistente nei Padri della Chiesa e nei dottori della Scolastica. Come apprendiamo dall'Epistolario di Ficino, la sapienza e intesa come un dono divino e come mezzo per cui l'uomo può elevarsi fino a Dio. Tale principio fu poi appreso da Pitagora, Eraclito, Platone, Aristotele, i neoplatonici. Riemerse nella speculazione filosofica ispirata dalla Rivelazione cristiana e si ritrovò quindi in Agostino. Lo stesso Cicerone figura nella catena dei platonici romani.  Riallacciandosi a quella tradizione e meditando sui testi platonici, Ficino concepí il disegno, portato a termine di ricostruire su fondamento platonico la teologia il platonismo vi è considerato come il nucleo essenziale di una teologia razionale i cui princípi coincidono con quelli della rivelazione. Tale coincidenza è il principale argomento con cui si riesce a dimostrare l'eccellenza del cristianesimo rispetto alle altre religioni positive. Del resto Ficino è disposto ad ammettere che qualsiasi culto, purché esercitato con animo puro, reca onore e gradimento a Dio. Altre opere: “L'individuo, i dividui, e la storia; Scienza e filosofia in Galilei; Esperienza; Umanesimo e Rinascimento (Catania) Del Bello; Introduzione alla Filosofia (Napoli;  Materialismo storico e idealismo critico; Sviluppo e problemi dell'estetica crociana; I presocratici; Esperienza ed umanesimo (Napoli) La filosofia di Plotino; “Persona e libertà”; Ricerche di un'estetica del contenuto”; Esperienza e prassi; Discorso empirico delle arti, Il platonismo nel Rinascimento.  Iu un momento diverso dalla storica ora presente of¬  frire in veste italiana alla coltura filosofica del nostro paese  il Sistema di Dottrina morale secondo i principi della Dot¬  trina della scienza di Giovanni Amedeo Fichte (‘) sarebbe  stata opera già esaurientemente giustificata e dalla gran¬  dezza di quel genio speculativo, e dal vivo crescente inte¬  resse del nostro tempo per il suo originale sistema ideali-  stico-romantico, e dalla capitale importanza che nella strut¬  tura del sistema stesso ha la Dottrina morale, e dall’op¬  portunità, quindi, di agevolare la diretta conoscenza di  questa a quanti tra noi non fossero in grado di leggerla  e gustarla nè nella classica (nonostante i suoi difetti) edizione tedesca dovuta alla pietà filiale di Fichte — divenuta oggi assai rara, ma di recente  lori. Gotto. Fichte, Das System der Sittenlehre nach <leu Prin-  zipletl (lev Wìsseuschaftslehre, Jena und Leipzig, Gabler, 1798.   (*) V. il voi. IV delle Opere complete (Sitmmtliche 1 Verke) di Giov.  Am. Fichte, edite in otto volumi e con assai utili prefazioni da Eli. Ehm.  Fichte (Berlin, Veit e C., 1845-46), dopo altri tre volumi di Opere  postume (Nachgelasseiie Werlce) apparsi per cura dello stesso editore  a Bonn fin dal 1884-35, ma aggiunti come ultimi agli otto prece¬  denti, i quali diventano perciò undici. I difetti, che sono stati rim-  fedelmente riprodotta (con tatti i suoi difetti) da Fritz Me-    proverati all’ edizione del Fichte figlio, consistono, tra gli altri — a  parte le critiche riguardanti 1’ordinamento generale degli scritti pa¬  terni (sulle quali v. A. Ravà, Le opere di Fichte, in Rivista di Filo¬  sofia, sett.-die. 1914) — in errori di stampa, lacune casuali o soppressioni arbitrarie di una o più parole, aggiunte o trasposizioni di  vocaboli, deposizione dei capoversi e punteggiatura non sempre quali  si avrebbe ragione di aspettarsi, ecc. ; donde non poche nè lievi difficolta per intendere bene e rendere esattamente in altra lingua il pen¬  siero dell’autore. La qual cosa ci preme far rilevare, anche perchè  non sembri esagerazione, se diciamo che fu lavoro di non poca lena,  sostenuta soltanto dall’interesse per l’opera fiehtiana, quello da noi  compiuto attorno a una traduzione che ci proponemmo eseguire con  la più 'scrupolosa fedeltà al testo originale, ma, in pari tempo, curando il più possibile la chiarezza del contenuto e l’italianità della  forma. Al quale duplice fine ci parve opportuno di riportare tra pa¬  rentesi curve ( ) le espressioni genuine e più caratteristiche dell’au¬  tore, quando il nostro idioma non si prestava a riprodurle se non  inadeguatamente ovvero assumendo un certo aspetto di stranezza, e  di chiudere tra parentesi quadre [ J le espressioni aggiunte dal tra¬  duttore con intento interpretativo o dilucidativo. Il lettore, in tal  modo, è sempre messo sull’avviso circa i punti in cui il linguaggio  dell’autore è meno trasparente e può giudicare se talvolta al traduttore — secondo il noto bisticcio - non sia accaduto di essere involon¬  tariamente il traditore del pensiero tichtiano. TI quale pensiero riesce  tanto più difficile a restituire nella sua forma genuina, in quanto che  esso non solo fu iu continua evoluzione e trasformazione, ma ebbe  dal Fichte, più oratore elio scrittore , le mutevoli formulazioni occasionali adatte alla predicazione, all’insegnamento e alla polemica, anziché la stabile struttura definitiva di un’opera d’arte destinata a tra¬  mandare ai posteri il documento autentico di un sistema compiuto;  e la Dottrina inorale, di cui ci occupiamo qui, risente anch’essa, nello  stile, del carattere proprio a quella gran parte delle opere del Fichte,  che sono o riproduzioni o preparazioni, ampiamente elaborate in  iscritto, di lezioni e corsi accademici. Si aggiunga a ciò che la Sit-  tenlehre (1798), e nel contenuto e uella forma, è la continuazione c  l’applicazione di quella Wissetischaflslehre che il Medicus, in  una sua monografia dedicata al Fichte, uou esita a chiamare “ il libro,  torse, più difficile che esista in tutta la letteratura filosofica (sie ist  vielleicht das schiiieriijste Rudi in der yesmnten philósophischen Luc¬  ratile) „ (cfr. Grosse Denker, editi nel 1911 a Lipsia, Verlag Quelle   dicus ( 1 ) — , uè nella libera e, proprio nei punti ove H testo  è meno chiaro, monca versione inglese fattane dal Kroeger; (in francese o in altra lingua non ci risulta sia stata  mai tradotta, il che non ha certo contribuito ad accrescerle    et Meyer, senza «lata, <la E. vou Aster) — della Dottrina  della Scienza abbiamo iu italiano la traduzione fattane da A. Tilouer  (Bari, Laterza, 1910) — j si noti, inline, che il Fichte figlio sconsi¬  gliava il Bouillier dal tradurre in altra lingua quelle, tra le opere  del padre, che non avessero un contenuto popolare e fossero scritte  in una rigorosa forma scientifico-filosofica — ecco le sue parole: “ .Te  conseille de ne pas traduire les oeuvres scientifiques proprement dites,  «:t d’ uno forme philosophique rigoureuse. 11 est à peu près impossi-  ble de les traduire «lana votre luugne; il faudrait les transformer et  eu changer l’exposition. Uue traduction littérale mirait le doublé iu-  convénient de taire violence à votre 1 angue, et de ne pas reproduire  le veritable esprit du système. „ (cfr. MéUiode pour arrivar à la tir  bica heureuse par Udite, traditit par M. Bouillier, aver, uno Introdaction  par Fichte le File, Paris, Ladrango) — : e si sarà, speriamo, meglio disposti a giudicare con qualche indulgenza le manchevolezze anche da noi sentite, ma che non riuscimmo ad evitare, so  pur erano evitabili, iu questa nostra traduzione, in cui la lettera do¬  veva più che mai venir suggerita e giustificata dallo spirito della dot-  liiua tradotta, onde ci s imponeva di continuo la necessità di ripen-  norr e, per quanto ci fu possibile, di rivivere il pensiero del Fichte.   '' 11 Jmc Gotti*. Fichte, IVerke, Auswahl in sechs Btinden (mit  nielli ci en Bildnisxen Fichtes ), edizione e introduzione di FimtzMediCUS,  Leipzig, 1908-1912. Non intendiamo detrarre nulla alle lodi giustamente!  tributate d’ ogni parte a questa nuova edizione delle principali opere  del Fichte, condotta di recente a termine e salutata nel mondo fìloso-  tico come un importante e lieto avvenimento, soprattutto per il con¬  tributo che porterà alla diffusione e alla conoscenza della dottrina  lichtiana; dobbiamo soltanto osservare che, almeno per quanto concerne  .1 System der Sittenlehre, di cui diamo qui la traduzione, la collazione  del testo nelfediz. del Medicus non presenta assolutamenta nulla di  diverso e nulla di migliorato, rispetto a quella del 1845-46 curata da  Lm. Era. Fichte ; se mai, anzi, qualche errore di stampa in più ; onde  essa non ci è stata di nessun aiuto. Tanto per la verità.   () The Science of Etìlica as based on thè Science of knowledge  by Ioh. Gotti. Fichte, tradnz. di A. E. Kroeoeh. edita da W. T. Har¬  ris (London, Kegau Paul, Treucli, Trubner et Co., Ltd., 1907). il numero dei lettovi). Dorante, poi, l’attuale immane cata¬  clisma bellico che sì inaspettatamente ha tutta Europa scon¬  volto e le nostre coscienze profondamente turbato, in questa  tragica ora chè tigne il mondo di sanguigno, perchè proprio  nella terra classica dell’idealismo filosofico, sfrenatasi l'eb¬  brezza mistica di una supposta superiorità di razza e di col¬  tura, prevalso un malinteso spirito di egemonia mondiale,  straripata la prepotenza del militarismo, scatenatisi gli  istinti e le cupidigie più basse, la civiltà sembra inabis¬  sata nel buio e la scienza si è trasformata, con scempio  di ogni leggo umana e divina, in strumento di barbarie, rin¬  negando quel carattere umano che della scienza è e deve  essere la vera, sovrana, immortale bellezza, in questa im¬  mensa mina di tutta la scala dei valori, due forti ragioni  di più — contrariamente a quanto potrebbe parere a prima  vista — c’inducono all’opera stessa: da un lato mostrare  con quale serenità, imparzialità e altezza di vedute noi ita¬  liani, che più volte nella storia fummo maestri di civiltà,  sappiamo riconoscere, pur quando gli animi nostri siano  agitati da moti sentimentali avversi, il possente contributo  di pensiero e di moralità che gli spiriti geniali, a qualun¬  que nazione appartengano, hanno recato alla coltura ; dal-  1’ altro fornire, con la divulgazione delle dottrine morali  di un filosofo tedesco come il Fichte — da cui più spe¬  cialmente con grave errore si vorrebbe derivare il panger¬  manismo — una prova di più della radicale deviazione che  le fiualità della Germania odierna, rappresentata dai Nietz¬  sche, dai Treitschke, dai Bernhardi, dai Chamberlain, dai  Woltmaun, segnano rispetto alle idealità profondamente  umane e universali rifulgenti in tutta la letteratura e in  tutta la filosofia della Germania classica, rappresentata da un Leibniz, da un Lessing, da un Herder, da un Gboethé,  da uno Schiller, da un Kant e dallo stesso Fichte (*).   Perchè anche il Fichte, al pari del suo grande predecessoro Kant — il filosofo della pace a cui Con esat-   *   tozza soltanto relativa egli fu contrapposito come il filosofo  della guerra —, aspirava, pur con tutte le esagerazioni es¬  senzialmente teutoniche del suo pensiero, al regno della ra¬  gione, al Vemunftstaat, basato sul riconoscimento del va¬  lore dello spirito quale unico, vero e assoluto valore, e co¬  stituito da personalità autonome e responsabili che devono  svolgersi soltanto entro le linee di un ordinamento razio¬  nale del tutto. Che se la magnificazione e la glorificazione  della lingua e del popolo tedesco a cui il Fichte assurge,  a cominciare dai Caratteri fondamentali dell’età presente (*)    (*) V. in proposito nella Revue de Métaphysique et de Morale (nov,  1914, pubbl. nel nov. 1915) l’importante articolo di V. Basch, L’Al-  le magne classique et le pangermanisme. V. inoltre Sante Ferra ni,  Fra la guerra e V Università (Seatri Ponente, 1915); in questo di¬  scorso inaugurale dell'anno accademico 1915-16 all’università di Ge¬  nova, l'A., dopo avere stigmatizzato con indignata parola “ la nuova  sofìstica, più audace e più operativa dell'antica, die in Germania per  decenni lavorò a eccitare gli spiriti e a iriebbriarsi nel sogno del  dominio mondiale a qualunque patto,,, “ le iniquità senza pari, cor¬  ruttrici, vigliacche, brutali, e le violazioni dei patti più solenni che  quel popolo sostituisce .... al valore degli eroi pagani, alla cavalleria  del guerriero medievale „ e u la volontà sinistra che informò i me¬  todi alla subdola preparazione dell'immane delitto „ (p. 7), invita a  distinguere in'quella nazione lo opere dei grandi avi e quelle dei ue-  poti : “ Quali e quante pagine troveremmo nei primi, atto a rintuz-  i zare, a riprovare, a distruggere le smodate ambizioni dell’ oggi ! e   quanti successori vedremmo rinnegati!,, (p. 13) e, per antitesi, si  ferma a illuminare nella loro sublime purezza le figure del Kant e a»  del Fichte.   ( 2 ) Grundziige dea gegenviirtigen Zeilullers (Sanimi!. Werke, VI).  Queste conferenze, tenute nel 1804-05, si direbbero quasi altrettanti  aifreschi di filosofia della storia, di cui lo Herder aveva dato il mo. sino ai Discorsi alla, nazione tedesca (*), attraverso la serie  di opuscoli politici intermedi ( 2 ), hanno potuto giustamente  apparire come la radice del pangermanismo, non ne segue  perciò che il Pielite stesso fosse un pangermanista. u Come !  esclama il Basoh ( 3 ), pangermanista quel Fichte che parla  nel 1807-08 a Berlino, ancora occupata dai francesi, dinanzi  a spie francesi, dopo Auerstftdt e Iena, dopo Eylau e Fried  iand, dopo quel trattato di Tilsit di cui sappiamo le stipu¬  lazioni draconiane ! Chi non vede che appunto perchè il  suo popolo era asservito, umiliato, esposto a essere can¬  cellato dalla carta d Europa con un tratto di penna del-  l’onnipossente imperatore francese, e appunto perchè la  Germania era stata spezzettata, la Prussia smembrata, egli  ha, per legittima reazione e con sflflrzo ammirevole, esaltato,  idealizzato, divinizzato quel popolo, opponendo alla realtà  la visione magnifica di un avvenire che a lui stesso appa¬  riva problematico ? Le Reden sono un’ utopia ; un’ utopia  cento volte quel Germano autoctono, quel Mut ter land ,  quella lingua madre ; e il Fichte lo sapeva bene e 1’ ha    dello, e in cui il Ciclite, con una miscela di nazionalismo mistico o di  cosmopolitismo umanitario, tratteggia a grandi periodi l’evoluzione dei  genere umano dalle sue più lontane origini sino ai suoi più remoti  destini futuri, passaudo attraverso le cinque età: ni dell’ innocenze o  ragiono istintiva, b) dell’ autorità o ragione coercitiva, c) del peccato o  ribellione contro la ragione sia istintiva sia coercitiva, d) della giustizia o arte della ragione, e) della santità o scienza della ragione.   (') Reden an die deutsche Nailon ( Summit. Werke, VII).   (-) Segnaliamo, tra gli altri, i Discorsi ai combattenti tedeschi al-  1 inizio della campagna del 1806 (Reden an die deutschen Kricgev zu  All funge des Feldzuges) (Stillanti. 11 erke t VII) e i dialoghi patriottici  dell’anno 1807, Il patriottismo e il suo contrario (Dei- Patriotismus  und sein Gegentheil), (Sananti. Werke, XI, Nacliyel. Werke, III).   ( 3 1 V. art. cit., pp. 783-784.      det-.fo egli st.esso. Questa lingua, questo popolo egli li póneva  non come già esistenti, ma come qualcosa che bisognava  creare, se si voleva salvare la nazione tedesca dalla rovina  totale e impedire che fosse radiata dal numero dei popoli  \ilidipendenti. Questa lingua e questo popolo non erano una  Veallà, ma un ideale, o meglio un imperativo „ ('). Del  lèsto non abbiamo avuto anche noi, nella nostra letteratura,  un (fenomeno analogo ai Discorsi alia nazione tedesca, in  <\\i<\Primato morale e virile degli italiani , in cui, inver¬  tendo, il puuto di vista fichtiano, il Gioberti costruiva una  filosofa della storia non meno utopistica, ma che pur tanti  petti sdpsse, taute anime accese negli anni più belli del  nostro riscatto (*) ? Che se poi il libro eloquente ed essen¬  zialmente. opera di fede del Fichte sia inteso non alla let¬  tera ma nel suo profondo significalo filosofico, spogliato  dei suoi particolari riferimenti spaziali e temporali e con¬  siderato sub specie aeternitatis , allora non solo oltrepassa  il valore di ubo scritto d’occasione, ma si eleva all’altezza  di un’ opera sublime, perennemente suggestiva di nobili  pensieri e di eroiche azioni. L’ autore, sempre ispirandosi  a quel suo idealismo immanente, che egli contrappone a    (') Li il leit-motiv proprio di tutta la filosofia fichtiana porre il  “ dover essere ossia 1' “ idealo „, come condizione creatrice e ragione  sufficiente e spiegazione finale dell’ u essere ossia del “ reale „. Se  il Kant potè dirsi il Coporuico dolla filosofia, in quanto trasferì il  punto di vista del problema filosofico dall' oggetto al soggetto, dal¬  l'essere al conoscere, il Fichte può dirsi anch’egli il Copernico della  filosofia, in quanto spostò di nuovo quel punto di vista dal conoscere  al fare, dall’essere al dover-esserc : la vera realtà, il vero assoluto  sta per lui nell’ideale, nel dovere.   ( ! ) V., in Rivista di Filosofa (ott.-dec. 1915 ), A. Faggi, Il “ Pri¬  mato „ del Gioberti e i “ Discorsi alla nazione tedesca „ del Fichte.     qualsivoglia dogmatismo, specialmente se materialistico,  sostiene in sostanza che non c’è possibilità di filosofia  e di poesia, di religione e di educazione, di libertà e di  progresso, se non là dove lo spirito crei o trovi in sè, e in  nessun modo attinga dal di fuori, il principio propulsore e  direttivo di tutta l’esistenza (*). Questo idealismo immanent/  egli chiama filosofia tedesca, ossia viva, di fronte a qualsiasi  filosofia straniera, ossia morta. E che intende egli , per  tedesco ?  Non occorre ricordare che secondo il Fichte vi sono dué sistemi  filosofici rigorosamente conseguenti, ciascuno dal suo punto/di vista:  a) il dogmatismo, b) l’ idealismo. Ul^cio della filosofia è spiegare l’espe¬  rienza, la quale è costituita dalle rappresentazioni delle Còse. Ora si  può a) o far derivare la rappresentazione dalle cose, come fa il dogma¬  tismo, b) o far derivare la cosa dalla rappresentazione, cóme fa l’idea¬  lismo. Lo scegliere l’una piuttosto che l’altra delle dué vie possibili  dipende dal carattere individuale. Un sistema filosofico — bastereb¬  bero queste parole a mostrare quanta fede pratica, quanta iniziativa per¬  sonale ed energia spirituale il Fichte mettesse nella sua filosofia e  quanta ne esigesse da chi questa filosofia voglia comprendere — non è  uno strumento inanimato che si possa a piacimento possedere o alie¬  nare : esso scaturisce dal più profondo dell’anima umana: “ Iras far  eine Philosophie man wàihle, hangt... davon ab, was man far ein Mensch  ist: demi ein philosophisclies System ist nicht ein todter Hausrath , dea  man ablegen oder abnehmen honnte, irte es mis beliebte, sonderà es  ist beseelt durch die Seele des Menschen, der es ìiat. „ (Erste Ein lei-  tung in die Wissensehaftsle'ire , Scimmtl. IVerke, I, p. 434). La scelta  sarà diversa secondo che prevarrà in noi il sentimento dell’indipen¬  denza e dell’attività o il sentimento della dipendenza e della passi¬  vità; un carattere flaccido per natura, ovvero rilassato e incurvato  dalla schiavitù dello spirito, dal lusso raffinato o dalla vanità, non  s’innalzerà mai all’idealismo: 11 ein von Notar schiaffar oder durch  Geistesknechtschaft gelehrten Luxus and Eitelkeit erschla/fler und  gekrùmmler Chardhter toird sich nie zum Idealismus erheben. „ (ibid.).  E ciò, indipendentemente dalle ragioni teoretiche che anch’esse dànno  un’incontestabile superiorità di filosofia esaurientemente persuasiva  all’idealismo di fronte all’in9ufficiente e assurdo dogmatismo. Nel settimo discorso, in cui si approfondisce il .con- '  cotto àe]Y originarie là, e germanicità di un popolo (‘) l’autore stesso ha cura di far rilevar^ u con chiarezza per¬  fetta „ ciò che in tutto il suo libro ha intesò per tedesco  (was uoir in unsrer bishcrigen Schilderung unter Deut-  schen verstanden haben). “ Il vero e proprio punto di di¬  visione — egli scrive — sta in questo: o si crede che nel¬  l’uomo ci sia qualcosa di assolutamente primo e originario,  si crede nella libertà, nell’infinito miglioramento e nell’e¬  terno progresso della nostra specie, oppure si nega tutto  ciò e si crede di vedere e comprendere chiaramente che è  vero tutto il contrario. Coloro che vivono creando e pro¬  ducendo il nuovo, coloro che, se non hanno questa sorte,  almeno abbandonano decisamente quel che non ha valore  (,das Nichtige) e vivono aspettando che da qualche parte  la corrente della vita originaria venga a rapirli con sè,  coloro che, non essendo neppure tanto avanti, almeno pre¬  sentono la verità, e non l’odiano o non la paventano, ma  l’amano: tutti costoro sono uomini originari e, considerati  come popolo, sono un popolo vergine ( Urvolk), sono il  popolo per eccellenza, sono tedeschi. Coloro, invece, che si  rassegnano a essere un che di secondo e derivato e chia¬  ramente concepiscono e riconoscono sè stessi come tali,  tali sono in realtà, e sempre più tali divengono in forza  di questa loro credenza; essi sono un’appendice della vita  che una volta prima di loro o accanto a loro viveva per  impulso proprio, essi sono l’eco che la roccia rimanda di    () S’intitola: Noch tiefere Erfassung der Ursprunglichkeit utid  Deutscheit eines Volkes (Sammtl. Werke, VII, pp. 359-377), (nella trad.  ita!. Burich, Palermo, Sandron).  una voce già spenta, e, considerati come popolo, non sono  un popolo vergine, anzi di fronte a questo sono stranieri  ed estranei (Fremete und Andando-) „ (»). Ecco, dunque,  che cosa significa: tedesco! non già il tedesco considerato  Ine et nune, ma il simbolo di un tipo ideale, onde il Fichte,  continuando, aggiunge: u Chiunque crede nella spiritualità,  nella libertà e nel progresso di questa spiritualità mediante  la libertà, egli, dovunque sia nalo, qualunque lingua parli  (wo es auch geboren seg und in welcher Sprache cs reile)  e dei nostri, appartiene a noi, ci seguirà; chiunque, invece,  crede nella stasi generale, nella decadenza, nel ricorso circo¬  lare e pone a governo del mondo una natura morta, egli,  dovunque sia nato, qualunque^lingua parli, è non-tedesco  (undeutscll), è per noi uno straniero, ed è desiderabile che  quanto prima si stacchi completamente da noi „ ( 2 ). I Di¬  scorsi alla nazione tedesca, dunque, soltanto occasional¬  mente si rivolgono al popolo germanico, mentre nella loro  profonda verità si rivolgono a tutti i popoli moderni, a  tutti gli uomini che hanno fede nella libera spiritualità,  di qualunque paese essi siano, additando a ciascuno la via  sulla quale si può servire alla propria patria particolare  e insieme alla gran patria comune, si può essere a un  tempo nazionalista e cosmopolita, perchè gl’ interessi su¬  premi ed essenziali dell’umanità sono sempre e dovunque  gli stessi.   Ma a dimostrare in modo* 1 definitivo quanto l’autore  dei Discorsi sia alieno dal cosidetto pangermanismo sta il   () Reden an die deutsche Nalioti (Stimmll. Werke, VII, p, 874),  (nella trad. ital.).   (’) Ibid. p. 375, (nella trad. ital., pp. 144-145); il nerette delle  parole " dovunque sia nato ecc. „ è nostro discorso decimoterzo, donde trae maggior luce il significato  di tutti gli altri. Si direbbe che i pangermanisti, ai quali  piace farsi forti dell’auLorità del uostro filosofo, si siano di  proposito arrestati dinanzi a questa sua arringa, che pure è  il punto culminante verso cui tendono le rimanenti e che  può dirsi un vero catechismo antimperialistico. Tutto ciò  che all’imperialismo della Germania odierna sembra l’ideale  che essa sarebbe chiamata ad attuare: il possesso di colonie,  l’esclusiva libertà dei mari, il commercio e l’industria mon¬  diali, le guerre di aggressione e ili conquista, la barbarie  scientificamente organizzata, le vessazioni sui paesi invasi,  la visione di una monarchia universale, l’egemonia assoluta,  vi ò rappresentato come odioso e insensato (‘).   Ammettiamo pure che il Fichte abbia combattuto questa  criminosa megalomania perchè essa nel 180G s’incarnava  sotto i suoi occhi nella Francia napoleonica; non è men vero,  però, che l’ideale opposto, a lui caro, rispondeva in modo re¬  ciso a tutta una concezione politica che fa di lui il figlio e  il rappresentante più genuino della rivoluzione francese. La  sua vita, i suoi scritti di filosofia pratica e di filosofia della  storia nte sono prova ampia, piena, sicura, e se anche su¬  birono modificazioni, queste riguardano non il suo pen¬  siero e i suoi sentimenti, i quali in fondo rimasero sempre  gli stessi, ma le mutate circostanze esteriori, il mutato  aspetto della Francia, divenuta, da repubblicana e libera¬  trice, imperialistica e liberticida. Nato popolo — figlio di  un povero tessitore, infatti, comincia la vita avviandosi al  mestiere paterno e guardando le oche — , egli sempre po-    (*) Kedeii ecc. (Sàmmll. I Verke, VII, pp. 459-480), nella irad. ital.,I    polo è rimasto nel più profondo dell’anima, per quanto  ricca e forte sia divenuta poi la sua coltura, a qualunque  sommità della scienza, dell’eloquenza e della gloria siasi  inalzato il sùo genio. Già sin dagl’ inizi della sua fama si  rivela un democratico ardente, giacobino quasi, irrecouci-  1 iabile avversario di ogni pregiudizio religioso, politico e  nazionalistico. Subito dopo la sua Rivendicazione delia li-  berlà di pensiero dai principi d'Europa die /ino allora  l'acecano oppressa (1793) (‘), egli, nei suoi Contributi alla  rettifica dei giudizi del pubblico sulla rivoluzione fran¬  cese (1793) (*), plaude ai principi dell’89 col fervido entu¬  siasmo d’un uomo la cui classe usciva redenta da quel grande  atto di liberazione sociale, e aterina la sua fede nella rivo¬  luzione stessa, proclama i diritti del popolo, frusta a sangue  il militarismo, maledice alle guerre mosse da interessi o da  capricci dinastici, e lancia contro principi e monarchie as¬  solute i primi strali di quell’eloquenza appassionata che fa  di lui forse il più grande oratore della Germania. Zuruckfarderung der Denkfreihe.it von den Filrsten Europas,  die eie bisher unterdriikten (Sdmmtl. If erke, VI).   (*) Beitriige zar Berichtigung der Urtheile des PubVcuins iiber  die franzòsische Revolution (Sananti. Werke, VI).   C) In queste sue prime opere politiche, elio per lungo tempo furono  messe all’indice in tutta la Germania, il Fichte mostra che la ri¬  voluzione francese fu il prodotto necessario della libertà del pensiero,  che la persona morale ha il diritto di elevarsi contro lo Stato, e che  l’uomo uscito dalle mani della natura è autonomo, e che è inaliena¬  bile il diritto dei cittadini di moditicare la costituzione, di uscire da  un’associazione politica per crearne una nuova, di fare ciò che ap¬  punto si chiama una rivoluzione. Fine ultimo degli uomini ò   la coltura di tutti per la libertà, ma le monarchie, egli afferma, invece  di lavorare al perfezionamento dei sudditi, sono state centro di de¬  pravazione morale. Come hanno inteso, infatti, i sovrani la coltura  dei sudditi a loro affidati? Sotto forma di educazione alla guerra;  perchè, dicono essi, la guerra coltiva. « Qra, è vero che la guerra   Il Fondamento del Diritto naturale secondo i principi    inalza le nostre anime a sentimenti e azioni eroiche, al disprezzo del  pericolo e della morte, alla noncuranza dei beni continuamente esposti  ni saccheggio, a una simpatia per tutto ciò che ha aspetto umano,  perchè i pericoli e i dolori sopportati in comune stringono di più gli  altri a noi. Ma non crediate di vedere in queste mie parole un pa¬  negirico della vostra follia bellicosa, o fors’anco l’umile preghiera che  l’umanità dolente v’indirizzerebbe perchè non cessiate dal decimarla  con guerre sanguinose. La guerra non inalza all’eroismo se non le  anime già per natura eroiche; incita, invece, le anime poco nobili alla  ruberia e all'oppressione della debolezza priva di difesa. La guerra  crea a un tempo eroi e vili rapinatori, ma aitimi ’ delle due specie  quale in numero maggiore ? „ (cfr. Sàmmtl. Werke, VII, pp. 90-91). Nel  fondare e governare i loro Stati i monarchi mirano a rafforzare la  loro onnipotenza all’interno, ad allargare le loro frontiere all’esterno:  due fini, questi, tutt’altro che favorevoli alla coltura dei loro sudditi.  1 monarchi pretendono di essere i custodi del necessario equilibrio  delle forze europee; ma questo fine, se è il loro, è perciò anche quello  dei loro popoli? “ Credete proprio — egli domanda ai principi tede¬  schi — che l'artista o il contadino lorenese o alsaziano abbia molto  a cuore di veder menzionata la propria città o il proprio villaggio, nei  manuali di geografia, sotto la rubrica dell’impero germanico, e che  por ottenere ciò butti via lo scalpello o l’aratro ? Il pericolo della  guerra, ossia di ciò che lede e ferisce a morte la coltura, ultimo fine  dell’evoluzione umana, deriva unicamente dalla monarchia assoluta,  la (piale tende per necessità alla monarchia universale. Sopprimete  questa causa, e tutti i mali che ne derivano scompariranno anch’essi,  e le guerre terribili e i preparativi della guerra, ancor più terribili,  non saranno più necessari (ibid. p. 95). — Più oltre, poi, troviamo il  Fichte antisemita e antimilitarista: antisemita contro quegli ebrei  “ che sono refrattari ad assimilarsi alle nazioni in mezzo a cui plu¬  vi vono „; antimilitarista contro l’esercito del suo tempo “ che met¬  teva il proprio onore nella propria umiliazione e trovava nell’impu¬  nità per le sue angherie contro i borghesi e i contadini un compenso  ai pesi del proprio stato „. E continua: “ Il più brutale semibarbaro  crede acquistare con la divisa militare una superiorità sul contadino  timido e spaventato, che sopporta le sue prepotenze e i suoi insulti  per non essere, per soprammercato, anche bastonato. Il giovincello  che può vantare più antenati, ma non certo più coltura, considera  la propria spada come un titolo sufficiente per guardare dall’alto e  con disprezzo il commerciante, l’uomo di scienza e l’uomo di Stato. \Vilt —    della Dottrina della scienza (1796) (') e Lo Stato commer¬  ciale chiuso (1800) contengono auch’essi una filosofia poli¬  tica che, scaturita interamente, oltreché dal pensiero kan¬  tiano, dai principi della rivoluzione francese, supera quel  pensiero e questi principi per le conseguenze economiche che  egli fu il primo a trarne, e approda aH’atfermazione di un  diritto dei popoli e di un diritto dei cittadini del mondo  (Volker- und Weltbnrgerrechl) e alla necessità di un’a¬  nione di popoli ( Vdlkerbund) — ben diversa da uno Stato di  popoli (Volkerstaat) — che garantisca la giustizia e porti  gradatamele alla Pace perpetua (zUm ewigen Friede) Grundlage des Natnrrechte nach Prinzipien dee ìVissenscliafls  Pin e (Siimmil. Werhe, IH).   (*) Ber geschlossene Handelsstaat (StillimiI. Werhe, III). Vediue-  auclie la traduz. ita!, di tì. B. P., Dell'intimo ordinamento di uno Stato  ec<\, Lugano, 1851, e l’altra (anonima) Lo Stato secondo ragione e lo  Stato commerciale chiuso, Torino, Bocca, 190».   ( 3 ) Ecco, sommariamente, la dottrina politico-economica del Fichte:  La radice più profonda dell’Io è l’Io pratico o la libera volontà; e  poiché alla libera volontà di eiasenu individuo si contrappone quella  degli altri, nasce una libera azione reciproca tra lo diverse volontà  individuali, per regolare la quale gli uomini'hanno concluso il con¬  tratto sociale da cui è uscito lo Stato. Nello Stato il potere legisla¬  tivo appartiene alla comunità dei cittadini; l’esecutivo può essere af¬  fidato sia all’elezione (democrazia), sia alla cooptazione (aristocrazia),  sia all’elezioue e alla cooptazione insieme (aristodemocrazia). Tutte  queste forme di governo sono egualmente legittime, purché vi sia  accanto a esse uu altro potere ìndipendente, VSforato, il quale decida  dei casi in cui il potere esecutivo, essendo caduto in errori o colpe, deve  risponderne dinanzi alla comunità. Oltre a questo contratto sociale-  politico, il Fichte, oltrepassando la prudenza borghese del Kant, il  quale ammetteva come legittima l’ineguaglianza economica accanto  all’eguaglianza politica, istituisce uu contratto sociale-ecouomico  (Eitjenthumverlrag) / egli proclama originari in ciascun uomo il diritto  alla vita e il diritto al lavoro, e di fronte alla proprietà privata (pro¬  dotti del suolo coltivato, bestiame, case, mobili, ecc.) dichiara pro¬  prietà dello Stato ciò che la natura produce da sola e ciòcia' la col- sino all’alt,imo anno della sua vita, nelle lezioni sulla Z>n/- '    letti vitti produce meglio del singolo individuo (miniere, foreste, grandi  industrie, seryizì pubblici, ecc.). Per l’elaborazione dei prodotti na¬  turali richiede corporazioni di competenza tecnica, e sulla qualità o  quantità dei prodotti industriali il diritto di sorveglianza Ha parte  dello Stato. Donde segue la necessità che da uu lato i cittadini ri-  uuuzino alla libertà industriale, e dall’altro si stabilisca uno scambio  armonico tra i prodotti naturali e i prodotti industriali, essendo reci¬  procamente gli uni indispensabili alla produzione degli altri. Per questo  scambio si è formata la classe speciale dei commercianti. Per impe¬  dire ai produttori di elevare ad arbitrio i prezzi dei prodotti, lo Stato  accumula iu magazzini generali, mediaute prestazioni in natura degli  agricoltori e prestazioni d’opera degli artigiani, i frutti della terra e  gli strumenti del lavoro, si che i prezzi veugouo livellati. Per obbli¬  gare i produttori a vendere, lo Stato mette iu circolazione la moneta,  la quale rappresenta la somma di ricchezza che può essere venduta,  e rende possibile a uu produttore di cedere i suoi prodotti anche in  un momento iu cui non gli occorra ancora di prendere in cambio altri  prodotti. E atiinehè sia garantita la proprietà e regolata la circola¬  zione dei prodotti e mantenuto l’equilibrio tra agricoltori, industriali  e commercianti — equilibrio che sarebbe turbato dall’importazione  di prodotti stranieri, dei quali i cittadini debbono assolutamente poter  fare a meno - è necessario che lo Stato vieti tutti gli accessi ai  commercianti di fuori e ai contrabbandieri di dentro, che sia cioè  uno Stato commerciale rigorosamente chiuso. Il Fichte si ripromette  le conseguenze più vantaggiose per la moralità del “ popolo fortu¬  nato „ elio adotti la perfetta chiusura commerciale e viva soltanto  di ciò che ò prodotto e fabbricato dal paese, venduto e consumato  nel paese (cfr. Der geschlossene llandelsstaat, Sàmmll. ÌVerke, III,  pp. 501-509), e conclude che di li innanzi sarà la scienza il miglior legame intemazionale tra tutte le nazioni divenute Stati chiusi : perché  “ nessuno Stato della terra, dopoché il sistema politico-economico  dianzi descritto sia diventato universale, e siasi fonduta pace perpe¬  tua tra i popoli, avrà il menomo interesse a celare ad altri le proprie  scoperte, giacché ogni Stato potrà servirsene soltanto all’interno per il  proprio sviluppo e non già per opprimere gli altri Stati o acqui¬  stare una qualsivoglia preponderauza su di essi. Nulla, quindi, impedirà  la libera comunicazione tra i dotti e gli artisti di tutte le nazioni:  di 11 innanzi i giornali, invece di guerre e battaglie, trattati di pace  e di alleanza, conterranno soltanto notizie dei progressi della scienza,  delle nuove invenzioni, del perfezionamento della legislazione e degli     trina dello Sialo ('), tenute a Berlino nel 1813, proprio  quando la Prussia si preparava a quella guerra d’indi¬  pendenza che egli tanto si era adoperato a suscitare, si  domanda ancora una volta quale sia la guerra legittima  (der Wahrhafte Krieg) e risponde: Una guerra è giusta  soltanto qualora la libertà e l’indipendenza nazionale di  un popolo siano attaccati; gli uomini, per compiere il loro  destino, devono formare società libere, e uno Stato non  ha valore se non in quanto può contribuire all’avvento  del regno universale della libertà e della ragione. A questa  guerra veramente popolare vuole il Fichte nelle sue le- ordinamenti di governo; e. ogni Stato si affretterà ad arricchirsi delle  scoperte degli altri popoli.  Nè si ha a temere, del  resto, dalla chiusura commerciate dei singoli Stati il loro isolamento,  perchè i rispettivi sudditi, iu quanto cittadini del mondo (Weltbiirger),  circolano liberamente da uno Stato all’altro, portando seco i diritti  inerenti alla persona e alla proprietà; occorre anzi, per questo, una  legislazione comune che garantisca tali diritti e punisca l’ingiu¬  stizia commessa dal cittadino di uno Stato a danno del cittadino di  un altro Stato. I diversi Stati, inoltre, fanno contratti, concludono  trattati e sono rappresentati gli uni presso gli altri da ambasciatori.  Nel caso che uno degli Stati contraenti violi il contratto, la guerra  è 1’ unico mezzo per punirlo di questa violazione. Ma ogni guerra è  aleatoria, e se proprio lo Stato che violò il contratto rimanesse vit¬  torioso, in quanto più forte?! A evitare tale ingiustizia bisogna che  un’Unione distati, meglio ancora, un’Unione di popoli (VSlkerbund)  s'impegni a punire, viribus uniti», lo Stato che, appartenente o no  all’Unione, si rifiuti di riconoscere l’indipendenza degli Stati uniti  o violi un contratto concluso con uno di essi (Orundlage des Na¬  ta rrechts nach Prinsipien der Wissenscliaftslelire, Sa minti- Werke ,  III, p. 379). Quanto più questa Unione si allargherà, estendendosi a  poco a poco su tutta la terra, tanto meglio sarà assicurata la Pace  perpetua (der ewige Friede), che è il solo rapporto legale tra gli Stati:  la guerra dev’essere soltanto mezzo al fine supremo, che è la conser¬  vazione della pace; mai fine a sé stessa. Die Slaalslehre oder uber das Verhaltniss des Urstaates zum  Vernunftreiche (Siimintl. Werke, IV). zioni preparare gli uditori, perchè è questa “ la guerra  legittima, la guerra cioè in cui non si tratta di famiglie  regnanti, ma in cui il popolo si leva a difendere la pro¬  pria vita, la propria individualità, le proprie prerogative,  la guerra a eui soltanto i vili vorrebbero sottrarsi, e  per cui invece i cittadini con esultanza daranno i loro  beni, il loro sangue, rifiutando ogni proposta di pace sino  a che non siano garantiti contro ogni minaccia ulterio-  re „ ('). L’oratore, è vero, contrappone ancora una volta  qui il carattere germanico al carattere neolatino e spe¬  cialmente al francese, per concluderne che non bisognava  aspettarsi certo da un Napoleone, strangolatore della na¬  scente libertà della Francia rivoluzionaria, l’attuazione del  regno di giustizia che l’architetto del mondo affidava invece  al popolo tedesco; ma ciò attesta anche come il filosofo pa¬  triota del 1813 fosse sempre sotto la medesima ispirazione  che lo animava veut’anni prima nel suo entusiasmo per la  rivoluzione francese; e, malgrado tutte le apparenze in con¬  trario, è sempre la medesima ispirazione quella che tra¬  spare nel Disegno ili uno scritto politico della prima cera  Ì813 ( 2 ), destinato a illustrare il proclama del re di Prussia  “ Al mio popolo „ : quivi il Fichte, se, dinanzi al pericolo  mortale che minacciava la nazione tedesca, riconosce la  necessità di porle a capo come despota sovrano (, Zwingherr)  il re di Prussia, uou perciò rimane meno fedele al suo ideale  democratico; per lui — ha dovuto riconoscerlo lo stesso    (*) Veber den Begriff des wahrhaften Krieges (Summit. IVerke,   (*) 4 «a dem Entwurfe zu etnei- politischen Schrift ini FruhUnge  1813 (Stimma. Werke, VII). Treifcscbke (') — la "Repubblica, senza re, senza principe,  senza signori, è sempre il vero Stato di ragione. Passato  il pericolo, il sovrano stesso dovrà adoperarsi con tutte le  sue forze a disabituare i suoi sudditi dalla soggezione, a    (>) Fichte nini die nationale Idee, in Historische und politiseli*  Aufsalse, 4. ediz. Leipzig, Hirzel, 1*71, voi. I, p. ISo. « Nodi inumo-  sehwebt ihm als hòchtes Zini vor Augeu eine “ Republik dei- Deutschen  oline FUrsten und Erbadel „, dodi er begreift, dosa diesea Zini in  weiter Ferne liege. Fui- jetzt gilt ee da* “ die Deutscbeu sioh selbst  mit Bewus 9 tsein maoheu „ ». Si, è vero, il Fichte colloca in un  tempo ancora assai lontano la vagheggiala attuazione del suo ideale  repubblicano, al punto che uno ilei frammenti di una sua opera po¬  litica, scritta a Kònigsberg nell’inverno 18011-07 e rimasta incom¬  piuta s’intitola: La repubblica tedesca al principio del sec. XXII,  sotto il suo V." protettore (Die Republik der Deutschen su Anfani / des  sirei- und zwanzigsten Jahrhunderls, un ter ihrem fiinften Reichsvogtei,  ina intanto quale coraggioso e severo linguaggio rivoluzionario egli  tiene contro i principi alemanni, cosi in questo frammento come al¬  trove! Cou la spietata crudeltà del chirurgo che, per guarire radical¬  mente una piaga purulenta, affonda il bisturi nel pili vivo delle carni,  egli mette a nudo tutti i difetti e le turpitudini del suo tempo e del  suo paese e propone come rimedio una nuova costituzione, la quale  dovrebbe stabilire l’eguaglianza di tutti' i popoli teutonici e non am¬  mettere altra disuguaglianza tra gl’individui elio non sia quella del-  p ingegno; una costituzione adatta a una nazione come la germanica,  la quale, die’egli, pressoché incurante del giudizio dello altre na¬  zioni, ha la caratteristica di raccogliersi in se stessa e di min chie¬  dere nulla più che di vivere pacificamente secondo il proprio genio.  “ Una nazione, la quale, còme la tedesca, non mira che ad affermare  e conservare per sé la propria torma disesistenza (ibr eigentìiiimliches  St'jti) e in nessun modo a imporla ad altri (keinesweges anderen es  aufzudringen), non senza intenzione é stata collocata in mezzo a po¬  poli , i quali, tosto che abbiano acquistato una mediocre quantità di  coltura, sentono il bisogno di diffonderla al di fuori; nell’eterno di¬  segno della storia umana essa è destinata a servire di diga a questa  intempestiva invadenza e a fornire non solo a sé stessa , ma a tutti  gli altri popoli d’Europa la garanzia di poter progredire, ciascuno a  suo modo, verso il fine comune (.... sie seg [die deutsche Natimi ], im  eteigen Entwurfe eines Menschengeschlechles jm Qanzen, bestimint, als  ein Damm dazustehen gegen jene unzeitige Zudringlichheit, und uni  renderli, in altri termini, capaci di fare a meno di lui.. u Se  cosi non dovesse avvenire nel futuro della Germania —  esclama egli con forza — importerebbe poco che una parte  di essa fosse governata da un maresciallo francese come  Bernadotte, nel cui spirito almeno sono passate le visioni  entusiasmanti della libeità, piuttosto che da un signorotto  tedesco, tronfio d’orgoglio, immorale e di una brutalità e  di un’arroganza sfrontate „ ('). Quando si leggano queste  parole contenute in quel medesimo Scritto politico della pri¬  mavera. ISIS, che non interamente a torto si è potuto con¬  siderare come il luogo letterario in cui l’autore si è più  inoltrato sulla via del nazionalismo, e quando si ricordi il  noto particolare della vita del Fichte, ili avere cioè, nel  febbraio 1813, dopo la disastrosa campagna di Russia, impe¬  dito come un orrendo delitto il macello a tradimento della  guarnigione lfaucese rimasta a Berlino, chi vorrà ancora  vedere nel nostro filosofo un pangermanista a cui si possa  far risalire la responsabilità non solo delle teorie insensate  degli odierni teutomani, ma persino del cinismo satanico  con cui e per terra e per aria e per mare pretendono ap-    nichf tuie sich, sonderà nudi alien anderen europaischen Vblkern die  Garantie zu leisten, ilass sie auf dire eigene Weise laufen konnten  zìi detti gemeinsamen Siete) „ (Sdmmtl. Werke, VII, p. 633). Quale  stridente contrasto tra l'ufficio storico-politico che il Pielite asse¬  gnava alla nazione tedesca o quello che la Germania odierna pre¬  tende arrogarsi !   (*) Aus dem Enluourfe eie. {Siimitili. ÌVerke, VII, p. 669). « Weun  wir dahor nieht im Auge behielten, vvas Deutschland zu werden hat,  so 18ge an sich nicht so viel durun, ob ein franzusischer Marscliall,  wie Bernadotte, an dem weuigstens friiher begeisternde Bilder der  Freiheit voriibergegangen sind, oder ein deutscher aufgehaseuer Edel-  maun, ohne Sitten uud mit Rohlieit und frechem Ueberrauthe, iiber  eineu Theil von Deutschland gebiete. »   plicarle i novelli barbari odierni, i rossi devastatori joiù veri  e maggiori dello stesso Attila flagellum Dei?   Tanto più tempestivo, e tanto più salutare e conforte¬  vole ci sembra, dunque, dinanzi alla mostruosa degenera-  zioue del senso morale di cui dà spettacolo l’odierna nazione  tedesca, ostentando di non riconoscere altro diritto all’in¬  fuori del despotismo e della forza bruta, rievocare dalla  letteratura classica di questa stessa nazione la dottrina mo¬  rale di uno dei più grandi assertori e della forza del diritto  e del diritto che individui e pispoli hanno alla giustizia,  all’indipendenza, alla libertà.  Chi abbia seguito nella storia della filosofia le vicende  toccate alla dottrina di G. A. Fichte ('), avrà notato come  al grande entusiasmo e ai vivaci dibattiti suscitati dal suo  primo apparire succedesse per vari decenni un immeritato  oblio, dovuto al predominio delle 1 dottrine uscite dal suo  seno e specialmente dello hegelismo, i cui rappresentanti,  imponendo alla storia della filosofia un loro preconcetto di  scuola, quello cioè di non tener conto nella speculazione  prehegeliana se non di quanto avesse contribuito a prepa¬  rare il sistema del loro maestro, avevano abituato a vedere  nel Fichte nulla più che il pensatore da cui era derivato  un deciso indirizzo idealist ico alla speculazione post kan¬  tiana (’). Vani furono gli sforzi del figlio ilei Ficht.e, Ema-    (') Ofr. in proposito A. Ravà, Introduzione allo studi» tirila filo-  sofia (li Fichte, Modena, Formiggiui, 1909, pp. 13-22.   ( s ) V., per es., Karl Ludw. Michelet, Geschichte der lefzten Sy-  steme der Philosophie in Deutschland voli Kant bis Hegel (Berlin,  1837-38), in cui alla prima filosofia del Fichte seno dedicate le  miele Ermanno, per mostrare il valore che la filosofia, pa¬  terna aveva per sè stessa ('). Soltanto verso la metà del  sec. XIX, col risvegliarsi dello spirito nazionale germanico,  risorse la fortuna del grande rigeneratore della coscienza   tedesca, del filosofo popolare, dell’oratore eloquente, del fer-   *   vido nazionalista, ilei supposto pangermanista; ma, appunto  per questa circostanza, l’attenzione fu rivolta di preferenza  alla sua filosofia politica, arbitrariamente o artificiosamente  interpretata (*), e il centenario della nascita del Fichte,  nel 1862, fu solennemente celebrato da tutta la Germania    pp. 481-587 ilei voi. I, e alla seconda filosofia le pp, 129-204 del voi. II;  A. Oli', avendo avuto il torto di prendere quest’opera come guida  principale per una conoscenza della filosofia tedesca postkantiana, fu  trattò a un’eccessiva reazione contro il Kant e contro lo hegelismo  nel suo libro: Hegel ri la philosophie allemande (Paris, 1844).   (') Di Em. Ehm. Fichte, oltre le Prefazioni (dianzi ricordate) a  vari degli undici voli, delle Opere complete di G. A. Pielite, vedi ancora:  i Beitràge sur Charuk'teristik dar ncueren Philosophie (Sulzbach, 1829)  di cui la 2.“ ediz. (18-11) può considerarsi come un’opera nuova; il  voi. .7. G. Fichte ' s Lehen and litterarlscher Briefwechsel (Sulzbach,  ISSO), con cui, prima ancora che con la pubblicazione delle opere, cercò  richiamare l’attenzione sulla personalità e sull’attività pratica del  padre, affinchè nascesse cosi gradatamente anche l’interesse per il  suo pensiero; e infine V Introduci ion (in frane.) alla Méthodc pour  arriver à la vie blenheureuse par Fichte (traduz. Bouillier) (Paris, 1845).   ( s ) V., per es.: t due voli, del Busse, Fidile und sei ne Bezìehung  zar Gegenwart des deutsehen Volkes (Halle, 1848-49), la conferenza  dello Zeli.eh, l'idi lo aìs Politiker (1859, ristampata in Zelleh, Vor-  Irdgr und Abliandlinigen, voi. 1, Leipzig, 1865) e l’opuscolo del Las¬  sa lle, Melile's poìilisches Vermdchtnis and die neuesle Gegenwart  (Hamburg, 1860, ristampato in Lassallk, Reden und Schriflen, Berlin,  1891-93, voi. I). Bisogna, invece, uscire dalla Germania per trovare,  negli anni immediatamente anteriori alla metà del sec. XIX, un’espo¬  sizione prettamente storica e serenamente obiettiva di tutta la filo¬  sofia del Fichte quale si ha nella solida opera del Willm, Histoire de  la Philosophie allemande drpttis Kant jusqu’k Hegel (voi. 11, Paris  1847), opera premiata, su relazione del de iléinusat, dall'istituto di con significato più politico che filosofico; — mia singolare  fatalità, poi, (che sembra un’ironia della storia a chi in¬  tenda il vero senso delle teorie politiche del Fichte) ha vo¬  luto che il cèntenario della sua morte, nel 1914, coincidesse  con l’irrompere improvviso della premeditata aggressione  pangermanistica! — (').    Francia e ancora utile e pregevole, nonostante la sua vetustà; la si  può leggere con profitto anche dopo le ampie ed eccellenti monografie  posteriori del Fischer (Fichles Leben,\Verke und Lehre, Heidelberg,  18691900 3 ") e del Leon (La philosophie de Fichte et ses rapportò  uvee la conscience coti tempo faine, Paris, 1902), il quale ultimo ha de¬  dicato al suo soggetto per molti anni un lungo studio e un grande  amore.   ( l ) Questo carattere politico-nazionalistico degli scritti usciti in  occasione del centenario del Fichte fu ben rilevato da von Rkichi.IN-  Memusco nel suo articolo l)er hundertòte Geburistng ./. O. Fichtes  (in Zeitschrift fiir Philosophie uud philos. Kritih, Nuova serie, voi. 42,  Halle, 1863). Vedine la lunga lista nell’UKBERWKO-HEiNZE. Grundriss  der Geschiclite dcr Philosophie, IV, Berlin, 1906, p. 8; qui basti ricor¬  dare per tutti il discorso già citato del Treitbchke, Fichte i ind die  nutionale Idee. L’uso e l’abuso del Fichte a scopi patriottici e impe¬  rialistici non cessò io Germania col conseguimento dell'unità tedesca ;  più di una volta le conferenze tenute nelle università tedesche in occa¬  sione del natalizio dell’Imperatore hanno avuto per argomento pre  ferito la personalità o qualche dottrina particolare del Fichte: per es.,  nel 1890 all’università di Strasburgo, terra di conquista, il Windel-  band faceva un’alta affermazione di germaniSmo parlando del Videa dello  Stato tedesco secondo il Fichte (Windelband, Fiehte's Idee des dent-  schen Stante, Freiburg i. Breisgau, 189oT; nel 1909, all’università di  Kiel, Golz Martius inneggiava al cinquantesimo anno di Guglielmo II,  ricordando la vita e l’opera “ di un uomo, il quale ha grandemente  cooperato all’elevazione e all’emancipazione delle forze morali della  Germania, e della cui azione efficacissima, insieme e accanto alla con¬  cezione politica dello Stein, ricorre oggi il centenario; di un uomo, a  cui appunto ora la nazione tedosca si appresta a dimostrare la pro¬  pria gratitudine inalzandogli un monumento nella capitale [e il mo¬  numento è poi sorto a Berlino], insomma, di Giovanni Amedeo Fichte „.  (Redc zur Feier des Geburtstages seiner Majeshit des Deutschen Kai-  sers Kdttigs von Preiissen Wilhelm 11 von Golz Martius, Kiel, 1909). Se nella seconda metà del sec. XIX tra molti scritta'  rolli di occasione cominciò ad apparire qualche studio serio  di tutta l’opera fichtiaua ('), il suo aspetto, per lo sposta¬  mento dell’attenzione dal lato politico ai fondamenti teo¬  retici del sistema, fu non meno unilaterale di quello che  continuarono a presentare, in tempi più recenti, le disser¬  tazioni te le monografie sulla dottrina giuridioo-sociale del    (•) Ricordiamo, per es. : il Lòwio, Die Philosophie Fichte’s iiach  (lini Gesaimntergehnisse ihrer EntuHchelung und in ihrem Verhiilt-  nitise zìi Kant unii Spinosa (Stuttgart, 1862) [l’Autore, seguace del  dualismo de[ Giintlior e perciò d’indirizzo radicalmente opposto a  tinello del Fichte, mira specialmente a mostrare la logica coerenza in  cui le due diverse forme assunte dal sistema fichtiauo stanno al prin¬  cipio fondamentale del sistema stesso anche là dove, secondo lui, si con¬  traddicono, pei concluderne l’insufficienza del principio stesso]; il L.\s-  soN, ./. G. Fichte Un Verhaltniss zu Kirche und Slaat (Berlin, 1863)  [l’Autore, dominato, com’è, dall’ idea religiosa quale può rientrare nella  concezione hegelismi, considera fondamentale la seconda forma della  lilosolia lichtiana, quella in cui prevale il pensiero religioso, pur giu¬  dicandola non riuscita e insoddisfaeeute] ; e sopra tutti il già ricor¬  dato Fibciusr, Fichtes Leben, Werke und Lehre (voi. V della 1." ediz.  Heidelberg, 1869, e voi. VI della 3.“ ediz.. 1900 della Geschichtc der  neueren Fhilosophic) [opera veramente classica per la larghissima e  accuratissima esposizione di quasi tutte le opere del grande idealista;  in essa si sostiene la tesi che le due forme della filosofia lichtiana,  quella anteriore al 1800 e quella posteriore, non sarebbero che duo  opposte direzioni assuute rispetto allo stesso principio fondamentale  del sistema: uel primo periodo il Fichte, partendo dalla lilosolia teore¬  tica, si sarebbe elevato alla filosofia del diritto, alla lilosolia morale,  alla filosofia religiosa, all'Assoluto; quivi, infatti, il postulato di  quell'ordiuamento morale del mondo, che per lui la tutt uno con 1 In  assoluto e con Dio (die lebendige unii loirkende moralische Ordnung  itti selbst Goti), è il punto di arrivo; noi secondo periodo, invertito il  cammino e trasformato quel postulato da punto di arrivo in putito di  partenza, il Fidilo avrebbe preceduto dall’Assoluto alla religione, alla  morale, al diritto e alla scienza. — Più denigratore che profoudo è  stato giustamente giudicato, infine, il libro del NoàCK, J. G. Fichte  nach sei non Leben, Leliren und Wirken (Leipzig, 1862). filosofo tedesco, inopportunamente staccata da tutto il resto  deli’edifizio speculativo.   Anche nella maggior parte degli odierni studi storici  sul Lichte divenuti più che mai frequenti dopoché al  moto neo-kantiano iniziatosi al grido: ritorniamo al Kant!  (zurìick zu Kant!) (') si associò, come orientamento filo¬  sofico, un moto neo-fichtiano: ritorniamo al Fichte!j(zuriick  zu Fichte!) che è andato sempre più accentuandosi dagli  ultimi decenni del secolo scorso ai giorni nostrf (*) è   - \ j   (') 11 ritorno al Kant si suole farlo risalire alla celebre lezione  dello Zellar: Ueber die Bedeutung und Aufgabe der Er/iJnntnistheorie  (Heidelberg, 1862); ma già nel 1847 il Weisse pronunziava a Lipsia  un discorso: In welchem Sitine sich die deutsche Philisopkie wieder  a " Kanl zu orientieren hai (Leipzig, 1847),. dal quale si rileva la sua  avversione alla dialettica hegeliana e il suo sforzo por contrapporre  al panteismo idealistico un teismo etico.   n? V ' m P ro P oa ìto I’Uebeuweg-Hbinzb, Grundtjss der Geschichle  (ter p/iilosop/tie seit Beginn des neunzehnten Jahrhundcrts (Berlin, 1906,  10» ediz.), § 26, Elnwìrkung Fichtes auf neuere Lahren, pp. 264-269*  e .coltre le pp. 317, 347, 361, 514, .547-548. Se ne ricava il largo é  potente influsso che la filosofia fichtiana, intesa sia come idealismo  soggettivo, sia come idealismo etico, sia come panpsichismo, ha eser¬  citato e sopra le varie nuove dottrine sorte in Germania e sopra menti  speculative di altri paesi (Inghilterra, Nord-America, ecc.). Per la re¬  cente e assai ricca letteratura intorno al nostro filosofo vedi lo stesso  voi. dell’Uebervveg-Heinze, pp. 8-9, il Baldwin, Dictionary of philoso-  phy and psychology (New York-London, 1905) voi. IH, parte I,  pp. 204-208, e per quella recentissima, ancor yù abbondante, cfr. i quat-’  tro voli, editi da Arnold Rude, Die P/iilosop/tie der Gegemoarl (Hei¬  delberg, 1910-1914) e contenenti pressoché tutta la bibliografia filosofica  internazionale degli anni 1908-1912. Nel 1914 (centenario della morte  del Fichte e scoppio della guerra europea) la Bibliotheh fUr Philosop/tie,  edita da Ludwig Stein, pubblicava l’opuscolo di P. Stàhler, ./. G.  Fichte, ein deutscher Den/ter (conferenza tenuta il 23 aprile nel cir¬  colo tedesco di Charcow in Russia), in cui FA., movendo dal* bisogno  spirituale oggi sempre più intensamente sentito di una nuova orien¬  tazione circa la concezione del mondo, affermava essere appunto il  Fichte il più atto a fornire una chiara risposta alla questione, una forse da rilevare una certa esclusività d’interesse, corri¬  spondente all’ interesse prevalentemente critico e gnoseolo¬  gico che ha animato siuo a ieri il pensiero contemporaneo;  di guisa che in questa rifioritura di studi fichtiani, mentre   alla teoria della conoscenza ò assegnato per lo più il posto   *   d’onore, le altre parti del sistema, in ispecie le più pra¬  tiche, vengono relativamente lasciate nell’ombra. Il che  nuoce alla dottrina e anche alla figura del nostro filosofo,  le quali così risultano monche e diminuite, e spesso oscu¬  rale e falsate; quando invece il Fichte reclamava sempre e  vivamente che i futuri critici non giudicassero la sua con¬  cezione se non nella sua totalità, se non ponendosi cioè in  quel punto di vista centrale, da cui si dominano e s'illu¬  minano tutti gli aspetti; tanto più, poi, che nessuu’altra con¬  cezione come la sua aspirava a essere una rigorosa unità, or¬  ganica, inscindibile, completa, a rispecchiare, quasi, quei¬  raltra rigorosa unità, altrettanto massiccia quanto severa  e semplice, che era la personalità stessa del Fichte, il quale  appartiene all’eletta schiera di spiriti eminenti che nella  storia deH’uinauità seppero unire in intima connessione la  speculazione filosofica con la vita vissuta, fondendo armo¬  nicamente pensiero e azione, investendo del medesimo pro¬    risposta che 11 non ha nè corna nè denti „ (die u tceder Horner nodi  Zàhne hai „), ed essere sempre il Fichte “ la stella polare (der Leit-  sternj verso la quale possiamo di nuovo orientare la nostra vita e il  nostro sapere „ (cfr. la prefazione, p. 3). Peccato che l’opuscolo dello  Srahler uscisse accompagnato nello stesso anno da altri due volu¬  metti della stessa Biblioteca, riguardanti, sebbene con intento pura¬  mente storico, figure filosofiche ben diverse dall’ideale figura del Fichte,  e di significato più sintomatico in quel nefasto anno, e cioè: il Pro-  tagoras-Niclzsche-Stirner di B. Iachsiann e il Nietzsches Metaphysik-  limi ihr Verhdltniss zu Erkenntnialheorie u. Ethih di S. Flemming.   fondo interesse le più fredde concezioni astratte della ricerca  teoretica e le più ardenti questioni concrete dell’attività  pratica, intensificando la luce diffusa dalla loro opera in-  stauratricè nel campo del sapere col calore irradiantesi dalla  loro missione riformatrice nel campo del dovere (').   *   # *   E invero non si può negare al sistema del nostro filo¬  sofo la sua principale caratteristica : quella di essere cioè    (') È veramente ammirevole nel Fichte — che lo Zeller giustamente  definiva anche per il carattere morale un idealista nato — il rapporto  stretto che uni sempre la sua vita alla sua dottrina. “ Jamais la manière  d’agir et di sentir — cosi scrive Cristiano Bauthoi.mf.ss nella sua Ili-  gioire critique des doefriu^s religieuses de la philosophie moderne (Pa¬  ris, 1855, voi. I, pp. 384-885) — jamais la conduite et l’àrae ne fu-  rent séparées chez lui de la manière de penser et de voir. Ce qu : il  croyait était eu méme temps le nerf de sa volonté, le soufflé et. l’in-  spiration de son existence entière. Prenant au sérieux tous les mou-  vements de son intelligence, il vonlait vivre de ce qu' il coucevait,  et taire vivre ce qu’ il savait, cornine il ne vonlait savoir que ce qu’ il  pouvait aimer, admirer et pratiquer. Ce n’ótait pas lii l’héroique  effet d’uu parti pris, c’était le propre de sa naturo méme, où lo seu-  timent de la valeur morale, de la diguité personnelle, se confondait  avec une telle hauteur de pensée, avec une hardiesso de speculatimi  si intrèpide, qu’ elle pouvait, semidei- la rósolution d’nn caractère l'u-  domptable. La ilestiuée, il est vrai, avait surtout coutribué à Pac-  croissemeut de nette énergie, de cette trempe primitive. Fiofite avait  eu longtemps à combattre, non seulement des adversaires et des enne-  mie, mais les soucis et la misère, le froid ot la faim. Avant, do lutter  pour la libertà de penser et pour P indépendance de sa patrie, il avaiti  pour s'assurer le pain dn jour, endnré tout.es les rigueurs matórielles  ot sociales; et de tant d’èpreuves diverses, il était sorti plus vigou-  reux, plus courageux, plus convaiucu de ce que peut et vaut la no-  b lesse d’àme. Ausai ne saurait-ou contempler, sans ètre à.la foia tou-  chó et fortifié, le tableau de ses souffrauces et de ses victoires, na'i-  vemeut et inodesteraeut trace dans cette Vie et correspondance, qu’ a  publiée lo lils qui porte si eonvenablemeut son illustre nom. „     con tutti i suoi difetti, i suoi errori e, diciamolo pure,  la sua oscurità — un vero sistema. In esso trovi subito  un’idea che l’ha generato tutto quanto, che ne è il centro,  l’anima e ne fa l’unità : idea ovunque presente e ovunque  feconda, da cui nascono il metodo, le divisioni, gli svolgi¬  menti, le applicazioni, e da cui germogliano in ogni dire¬  zione soluzioni, buone o cattive, a tutti i problemi teore¬  tici e pratici. Esso è non solo uno nel suo insieme e omo¬  geneo nelle sue parti, ma universale: tutte le grandi que¬  stioni intorno a Dio, all’uomo, alla natura, e ai loro rap¬  porti, rientrano nel suo quadro e vi si coordinano; vi si  potranno notare lacune, rifacimenti, mutevolezza di atteg¬  giamenti e di espressioni, indefinitezza di disegno e incom¬  piutezza di linee, ma ciò va attribuito più alle contingenze  esteriori in mezzo a cui il sistema si svolse (‘), che non  alla sua idea ispiratrice, la quale, posta l’universalità della  dottrina a cui dà vita, non poteva non esercitare un in¬  flusso auch’esso universale sulla coltura del tempo e delle  età posteriori sino a noi, assicurando così al nome dell’au¬  tore una fama imperitura nella storia dello spirito umano. Intorno itilo svolgimento del pensiero lichtiano et'r. \V. Kaiutz,  .S ludi<’u z. EnUoicklungsgeschichU der Fichteschen Wissemchaftslehre  (Berlin, 1902) e nnolie E. Focus, Vom Werden rlreier Denker : Fichte,  Schelling, Schleiermachcr (Tiibingen, 1904).   (*) V. la nota nella pree. p. XXVIU e cfr. anello IC. VoitLÀNDlSK,  Oeschichte der Philosophie (Leipzig, 1902, 8* edili. 1911, voi. II, pp. 28(5-  287). — Federigo Schlegel considerava la Wissenschaftslehre del Fichte  una delle “ tre maggiori tendenze del secolo (circi griissten Tetidenzen  iteti Jahrshunderts) „ accanto al Wilhelm Meister del Goethe e alla  Rivoluzione francese. E innegabile che il filosofo di Jena fu il filo¬  sofo per eccellenza della scuola romantica, le cui idee, a giudizio  concorde degli storici e in particolare dello I-Iaym, che su ciò insiste  ctm forza (cfr. Die romantische Schuie, p. 214 e segg.), sono derivate in Quale questa idea ispiratrice? È l’idea più alta e, pei  la coscienza comune, la più paradossale che sia sorta nella  storia della filosofìa : la sintesi, cioè, di due termini in ap¬  parenza così inconciliabili come l’io e il non-io, il cono¬  scere e l’essere, la libertà e la necessità, lo spirito e la na¬  tura, nel monismo superiore, nella “ superiore filosofia  (Jiohere Phihsophie) „ . direbbe lo Schelling, della libertà.  11 sistema del Fichte consiste, intatti, in una * filosofia  della libertà „ /e poiché il suo principio metafisico s’iden¬  tifica con l’ideale morale, giustamente fu chiamato un Idea¬  lismo elico ('). La vecchia metafisica s’intitolava scienza  dell’essere, ontologia, e nell’essere riponeva l’assoluto, il  reale, e dall’essere derivava ciò che dev’essere l’ideale. Se¬  condò il Fichte, invece^l’assoluto, il principio ultimo e su¬  premo da cui veniamo e a cui tendiamo non ù 1 essei e, ma    grandissima parte dalla Dottrina tirila scienza. E si spiega la predi-  lezione dei romantici per un sistema come il ttchtiano, il «piale tra¬  sforma il kantismo ancora esitante in un idealismo assoluto, e a  tutto uscire, sotto il rispetto metafisico, da «piella stessa genialità  dell’ lo, da cui i romantici tutto derivavano sotto il rispetto estetico.   (•) Fu detto anche Idealismo soggettivo, ma tale definizione e ei-  ronea, perchè V Io che il Fichte pone al principio di tutto il suo si¬  stema non è l’io individuale, sì bene 1 ’/o collettivo, universale, che  sta a fondamento di tutti gl’individui, l’/o,assoluto, l’originaria in¬  cognita X, dalla cui unità, ancora chiusa in sè stessa e incosciente,  dovrà uscire, in virtù di quel misterioso urto (Ansiosa), che è il t eus  er m china di tutta la metafisica Uchtiana, l’antitesi cosciente del  soggettivo e dell’oggettivo. “ Il mio lo assoluto - dice il Fichte -  non è l’individuo; soltanto cortigiani offesi e filosofi irritati contro  di me hanno cosi male interpretato la mia filosofia, per attribuirmi  l’infame dottrina dell’egoismo pratico (.... mein absolutes Teh tst mcht  das Individuili» ; so haben beleidigte Hóflinge und drgerhchc Phiìo-  sophm mich erklàrt, uni mir die sehandliche Lehre des prahtischen  Egoismus anzudichten). „ (Cfr. G. Ws ioi.lt. Zar GescMchte derneue-  reti Philosophie (Hamburg, 1864, 2* ediz. 1864, p. 74). il dovere, è un ideale che non è, ma dev'essere. L’essere  in quanto essere, in quanto quid stabile e compiuto, in  quanto cosa o materia inerte, a rigore non esiste ; la fis¬  sità, l’immobilità di ciò che chiamiamo sostanza, soStrato,   materia, non è che apparenza. Agire, tendere, volere, ecco   *   in che consiste la realtà vera. L’universo è il fenomeno  della Volontà pura, il simbolo dell’ Idea morale, che è la  vera cosa in se, il vero Assoluto. Filosofare significa com  vincersi che l'essere non è nulla, che il dovere è tutto ;  significa riflettere sul proprio io empirico, individuale,  unica ultivilà libera che tende incessantemente ad attuare  ciò che dev' essere, ossia il Dovere, il Bene, /.’ Io asso¬  luto, universale; significa acquistare la coscienza di por-  lare con sè la libertà che crea e soggioga il mondo, ap¬  punto per attuare il Dovere, il Bene, l'Ideale morale,  l' “ Io „ o la Libertà assoluta.   Il Kant aveva bene ammesso che il soggetto, ossia la  ragione e la libertà, impone una forma e una legge agli  oggetti della conoscenza: dell’ Io egli aveva fatto, si, il  legislatore del mondo, ma non era giunto a farne addirit¬  tura il creatore; poiché aveva lasciato sussistere ancora,  ili fronte al soggetto, uu oggetto, una cosa in sè, capace  d’imporre un limite al soggetto. Per il Fichte, invece, il  quale dà all’ io empirico un significato universale, questa  pretesa cosa in sè, ultimo residuo del dogmatismo, è una  chimera che bisogna esorcizzare, perchè è semplicemente  la parte dell’ Io ancora incosciente che il progresso della  conoscenza trae a poco a poco alla luce della coscienza ;  sarebbe assurda, infatti, di fronte alla Libertà assoluta, al-  V Io assoluto e universale, una materia non creata da lui  e a lui imposta dal di fuori. E poi, questa misteriosa cosa in sè. supposta al ili là di ogni conoscenza, questo essere  senza intelligenza, a che si riduce, se non a un contenuto  mentale ( Oeilankending ) e quasi a un fantasma, creato da  noi stessi a spiegarci le sensazioni e le rappresentazioni  che in noi sorgono, non per libera creazione nostra, ma  prodotte dal di fuori. Se un limite esiste all'attività del-  ]> jo , gli è perchè l ’lo stesso lo pone liberamente alla pro¬  pria attività illimitata, con lo scopo di avere il modo di sop¬  primerlo e di esentare cosi quella stessa attività propria e  di rivelare a si stesso la propria essenza, che è la libertà.  La moralità e la virtù, del resto, non suppongono lo sforzo  e la lotta? bisogna, dunque, per attuarle, crearsi perenue-  mente ostacoli e superarli; onde V Io nel primo momento  della propria evoluzione “ pone sè stesso „ (tesi), nel se¬  condo momento u contrappone a sè il non-lo „ (antitesi),  e nel terzo momento “ si riconosce nel non-Io „ (sintesi);  tre aiti, questi, a cui corrispondono i tre modi di esistenza,  i tre oggetti del sapere, che sono l’uomo, il mondo, Dio.  Guai se l’7o desistesse un solo istante dali’esercizio della  propria libera attività! cesserebbe immantinente di esistere;  di qui il carattere “ titanico „ che il Fischer ammira nel-  p Jo fichtiano, destinato per natura sua a continuamente  agire, produrre, volere ('). f    (•) Per approssimarsi in qualche modo al concetto dell lo iich-  tiauo nel quale va ricercato il fondamento di ogni esperienza, giova  fare completamente astrazione da qualsiasi contenuto rappresentalo  della nostra coscienza empirica. Dopo questa immensa sottrazione, si  consideri la rappresentazione più vuota che possa pensarsi, 1 unica  affermazione che non abbisogni di nessuna dimostrazione, il principio  logico d’identità: A è A, col quale uon si afferma nemmeno che zi  esiste, ma soltanto che: se A esiste, A dev’essere A. Orbene, quan¬  tunque con tale affermazione si formuli soltanto una vuota venta e   Un cosi intenso idealismo non era mai sorto prima.del  Pielite. Esso insegna che il variopinto e multisono mondo  sensibile, che si estende nello spazio e si svolge nel tempo,  non ha esistenza propria e indipendente : 1’ unico ch'e ve¬  ramente esista è l’ lo. E lo stesso Io esiste solo in quanto  agisce. Dal suo operare, dal suo rifrangersi in In e non-lo,  sorge per lui il mondo visibile, percepibile e connesso da    non  i ponga nessuna esistenza, si compie, tuttavia, un atto del pen¬  siero, un giudizio, e un giudizio d’incrollabile certezza, il quale porta  direttamente a porre e a riconoscere 1'esistenza reale dell’/o. Infatti,  donde proviene il verbo “ è „, con cui il primo A è messo in rela¬  zione col secondo A, il soggetto col predicato? Il nesso tra i due ter¬  mini del giudizio è beu soltanto nell’/o e per opera dell’/o. Dunque,  nellu precedente proposizioue: A è A, ebe è la più evidente, per  quanto la più vuota di contenuto, che si possa formulare, si nasconde  già l’ lo, si trova già l’attività certa di aè stessa; perché, meutre per  A non si ha il diritto di fare, oltre il giudizio ipotetico: se A esiste,  A è A, nnehe il giudizio categorico: A esiste, in quantiche anatale  affermazione richiederebbe un’ulteriore dimostrazione, per V Io, invece,  anello se non sappiamo assolutamente nulla più di questo: che è A,  possiamo dire non solo: se V Io esiste, l’ Io è l’/o, ma altresì: l’ Io  esiste (ciò elio ricorda l’agostiniano e il cartesiano: Cogito ergo sum).  Ma V Io è, per natura sua, essenzialmente attività, e, prima ancora  di acquistare coscienza dei propri prodotti, dei propri atti, e di sè  stesso, crea, con la sua immagiuazione produttrice, perenne e inesau¬  ribile, le innumerevoli rappresentazioni, che poi lu riHeasioue farà  apparire alla sua intelligenza come oggetti, come non-lo; perchè —  va sempre ricordato questo punto originale della dottrina del Fichte  - il non-lo, ossia il mondo esterno, è posto ilall’/o inconscio, non  già dall' Io cosciente; è un prodotto, quindi, anteriore a quella rela¬  zione di antitesi e sintesi tra soggettivo e oggettivo che è la co¬  scienza, e quando la coscienza nasce, s’impone a essa come già dato.  Così, grazie a questa produzione inconscia dell’ immaginazione dell' lo  — di quell’immaginazione che già per il Descartes era il trait d’u-  nion tra l’anima e il corpo, e per il Kant l’intermediaria tra le in¬  tuizioni pure della sensibilità e le categorie dell’intelletto —, il non-lo  apparisce all’ intelligenza come un limite dal di fuori senza essere  perciò estraneo all’/o, essendo sempre un prodotto dell’/o inconscio.  leggi, il quale perciò non è che il sistema delle nostre rap¬  presentazioni, il rispecchiarsi dell’ lo nell’/o. Ma anche que¬  sto rispecchiamento non ci rivela in modo puro e immediato  ]’ intima essenza del nostro spirito, perchè non uel rappre¬  sentarsi è il nostro più alto operare, non nel rappresentarsi  è tutto il nostro Io. Noi operiamo veramente soltanto nel  libero volere morale; noi attuiamo completamente il nostro  Io soltanto «piando, con attività rinnovata al lume della  coscienza, ci sforziamo di soggiogare il mondo delle rappre¬  sentazioni scaturite dall’inesauribile fonte dell’ lo inconscio   _ il quale mondo non è che “ il materiale sensibilizzato   del nostro dovere (unsre Welt ist das versinnlichte Mute-  rial unsrer Pjlicht) „ — e ci sforziamo di trasformarlo nel  mondo della libertà, nel mondo soprasensibile ed eterna¬  mente in fieri del Bene; poiché, esclama il Fichte, “ es¬  sere liberi è nulla, divenir liberi è il cielo (frei se‘in ist  nichts, frei wenlen ist dei' Ilimmel) ! „   La costruzione filosofica del Fichte può dirsi monolitica,  ed è tale da superare in semplicità persino quella eretta,  da un punto di vista e con centro «li gravita affatto opposti,  dallo Spinoza: — al Jacobi il sistema del filosofo tedesco  appariva il rovescio del sistema del filosofo olaudese —. E  qui sta il vantaggio della concezione fichtiana anche sulla  kantiana ; il Kant non aveva tanto fornito un sistema,  quanto, piuttosto, i germi e i materiali per più sistemi ;  nella lotta contro il dogmatismo e contro lo scetticismo  egli aveva voluto inalzare alla scienza propriamente detta,  più che un tempio, una fortezza; e, per rendere questa  fortezza iuespuguabile da tutti i lati, ne aveva costruito  -i bastioni quasi in tempi diversi, quasi in stile diverso :  onde nella sua filosofia non solo rimane il dualismo inconciliabile tra l’essere e il conoscere, tra il conoscere'e il  lai e, ma nell ambito stesso del conoscere manca una rigo¬  rosa unità tra i diversi poteri conoscitivi, tra la sensibilità  con lo sue intuizioni pure, l’intelletto con le sue categorie,  la ragione con le sue idee metafisiche. Il filosofa di Ko-  nigsbei'g da una parte pareva chiudere lo spirito umano  tutto nel giro del proprio mondo interno, nel fenomeno,  dall altra gli lasciava intravedere, al di là di questo mondo  interno, un altro mondo, il noumeno, avvolto sempre da  densa nebbia e sempre refrattario alla conoscenza. Donde  la domanda : questo mondo esistente in sè è quello stesso  che ci si i ivela nella voce della coscienza, ed è possibile  tiadui lo in atto con la pura e buona volontà? La risposta  del Kant, almeno nell’espressione datale dall’autore, se non  nello spirito dell’autore stesso, era stata cosi cauta, che  ognuno poteva trarne le conseguenze a suo proprio rischio.  Iusomma, non si poteva non riportare l’impressione che  nella, dotti ina kantiana la verità fosse svelata soltanto a  mezzo, e che a essa mancasse, dal punto di vista scienti¬  fico, cosi il fondamento come il coronamento. Il Fichte,  invece, da quel pensatore ben più ardito e deciso ch’egli  eia e che si era formato sullo stampo dello Spinoza, s’im¬  possessò dei materiali kantiani, e fece della Critico un si¬  stema unitario: Tutto ciò che è, è per noi; tutto ciò che  è per noi, può essere soltanto per opera nostra; nell’atti¬  vità dell’ lo è racchiuso il conoscere e l’essere, il sensibile  e il soprasensibile, il reale e 1’ ideale ; nell’autocoscienza  (Se/bstbeiousstsein) — lo stesso Kant aveva già insinuato  che la misteriosa incognita nascosta sotto i fenomeni sensibili  poteva benissimo essere quella stessa che portiamo con noi —  è l’unità di tutti i poteri dello spirito, l’unità delle forme cosi del fenomeno come della cosa in sè che sta a fonda¬  mento del fenomeno, l’unità del sistema delle nostre rap¬  presentazioni e del sistema dei nostri doveri, l’unità della  nostra essenza teoretica e della nostra essenza pratica :  1’ unità, e con 1’ unità il fondamento e il coronamento di  tutta la dottrina. Se il Reinhold aveva cercato un principio  superiore, come principio unico indispensabile a dare forma  sistematica di scienza alla dottrina della conoscenza, se il  Beck aveva interpretato lo spirito della filosofia kantiana  nel senso idealistico, se il Jacobi aveva reclamato l’elimi¬  nazione della “ cosa in sè „, ecco nella filosofia del Fichte  soddisfatti tutti insieme questi desideri, e in pari tempo  fornita ai risultati della Critica della ragione 1’ evidenza  richiesta dallo Schulze (').    (!) La filosofia del Kant, raccoglie, a dir cosi, in un'unità vivente  tutti i germi e principi motori del pensiero moderno, e il sistema del  Fichte non è che una delle direzioni che poteva prendere il kan¬  tismo. La direzione fichtiana, quindi, scaturisce naturalmente dalle  premesso kantiane, ma non deve considerarsi perciò., come vorrebbe  il Leon, quusi l’unico e necessario completamento del kantismo: altre  direzioni, assai divergenti dalla fichtiana, l'anno capo legittimamente  aneli’ esse al Kaut., dei cui discepoli può ripetersi ciò che Cicerone  dicova dei diversi discepoli di Socrate: alii aliuiì suinpsenuit • il  Fichte è un kantiano all’ incirca nel medesimo senso che Platone fu  un socratico, e sta allo Spinoza come Platone a Parmenide ; col  Kaut afferma l’ideale morale, con lo Spinoza l’unità dei “ due moudi  onde la Bua filosofia, dicemmo già, è un’originale sintesi, forse Unica  nel suo genere ai tempi moderni, di ciò che sembra assolutamente  inconciliabile: il monismo e la libertà, il mondo delle cause o il  inondo dei fini. Anziché ritornare sui singoli problemi della Critica  della ragione, egli s’impadronisce del centro animatore di quella  Critica, e trae fuori dal pensiero fondamentale dell’ auto-attività  dello spirito, in quanto forza reale e fine a sé stesso, un uuovo quadro  del mondo di grandiosa arditezza, entro il quale l’idealismo, che  nella filosofia kautiana era latente sotto 1’ involucro di prudenti re-  La filosofia del Fichte, abbiamo detto, è una filosofia  della Libertà, poiché ha per principio una realtà assoluta,  intesa come Io pratico, come Attività pura, come Auto-deter¬  minazione, ed è uno sforzo poderoso per dedurre da questo  principio oltreché le condizioni della vita etica, anche le  funzioni della ragione teorica, celebrando in tal modo quel  primato della ragione pratica che il Kant aveva già pro¬  clamato , e facendo perciò della ragione pura un organo  della moralità. L’attività dell’ Io assoluto alterna i suoi  atti di produzione inconscia con i suoi atti di riflessione  cosciente, la sua direzione centrifuga ed espansiva che si  protende verso l’infinito, con la direzione centripeta e cou-    strizioni, viene chiamato a potente vita, e ciò che di sublime il  grande lilosofo dell’ imperativo categorica aveva insegnato intorno  alla libertà morale di fronte alla necessità naturale, viene tradotto  dal linguaggio di un moderato contegno in quello di un energico en¬  tusiasmo. li mondo può comprendersi soltanto in base allo spirito e  lo spirito soltanto in base alla volontà. La dottrina del Fichte è tutta  nel vivere e nel fare, tanto vero che comincia non con la definizione  di un concetto, ma con la richiesta di un atto (Thathandlung): “ poni  te stesso, fai con coscienza ciò che bui fatto inconsapevolmente ogni  qual volta ti sei chiamato io, analizza questo atto di autocoscienza  e riconosci nei suoi elementi le energie da cui scaturisce ogni realtà  Questa intima vitalità del principio lichtiaiio, che ricorda l'atto puro  aristotelico e il perpetuo divenire eracliteo, e in conseguenza della  quale Dio, anziché una sostanza assoluta già compiuta, sarebbo un  ordino cosmico sempre attenutesi, mai attuato, si ridette anche uel-  l’opera filosòfica dell’autore, il cui spirito, fiero e irrequieto, si svolse  iu continua lotta non solo nella pratica, ma anche nel pensiero. Nelle  sue lezioni, come nei suoi scritti, spesso egli riprende daccapo la  serie delle sue deduzioni e sempre iu modo diverso e quasi conver¬  sando coi suoi uditori e coi suoi lettori, mai trascurando le possibili  obiezioni da parte di questi ; sicché il suo filosofare sembra compiersi  trattile che arresta la prima e respinge V Io in sè stesso;  pone a sè stessa V urto (Anstoss) della sensazione, il limite  della rappresentazione, l’intoppo del non-Io ; è insomma  teoretica : soltanto al fine di diventare pratica. Tutto  1’ apparato della conoscenza non serve che a darci la pos¬  sibilità di compiere il nostro dovere: quel dovere che è  1’ unica realtà vera, 1’ unico in-sè (An-sich) del mondo fe¬  nomenico, perchè le cose sono in sè ciò che noi dobbiamo  farne ; 1’ io teoretico pone oggetti, affinchè 1’ io pratico  trovi resistenze (il tedesco Gegenstand = oggetto è qui  preso come sinonimo di Widerstund = resistenza) ; 1’ og¬  gettività esiste soltanto per essere la materia indispensa¬  bile all’azione, per ricevere da questa la forma che deve  elaborarla e inalzarla sì da rendere sempre più visibile    alla presenza d’interlocutori, è come un filosofare in comune e per  più rispetti richiama alla mente il dialogo platonico. Del resto al  Fichte sarebbe parsa vana una filosofia avulsa dal suo ambiente na¬  turale, l’umanità, ond'egli si faceva un dovere di agire e influire  energicamente sui suoi contemporanei e su quanti fossero in rela¬  zione con lui , e visse in continuo coutatto col mondo e con la so¬  cietà; al contrario del Kant, tra la vita e la speculazione del quale  non appare certo Io stretto connubio che è nel nostro filosofo ; in¬  fatti, i rapporti sociali e tutto il contegno esteriore del grande soli¬  tario di Konigsberg furono, rispetto alla sua vita interiore e al suo  pensiero, cosi indifferenti come il guscio al gheriglio ma turo ; mentre  il Kant per molti e molti auui aveva portato entro di so,i suoi gravi  pensieri senza che alcuno sospettasse nemmeno che cosa accadesse  nell’ intimo di questo professore che senza differenza dagli altri teneva  i suoi corsi universitari, il Fichte, invece, impaziente di ogni ritardo  nella missione rigeneratrice, a cui con orgogliosa coscienza di sè si  sentiva chiamato, lasciava prorompere la manifestazione delle sue  idee, anche se non definitivamente elaborate, man mano che scaturi¬  vano dal profondo della sua anima agile e trasmutabile e disposta  agli atteggiamenti più diversi secondo i campi a cui si applicava, se¬  condo i problemi ché affrontava, secondo i momenti in cui agiva.  1’ attività dell lo. In conclusione , noi siamo Intelligenza  Per poter essere Volontà. La Dotti-ina della Scienza ,  quindi , nel sistema del Fichte, è tutta in servigio della  filosofia pratica , la quale , attraverso la Dottrina del Di¬  ritto, va a culminare nella Dottrina morale, e'mira ad  attuare quel regno dei fini che il Kant contrapponeva al  regno delle cause, e che jier il nostro filosofo consiste nel-  1’adempimento completo del Dovere, nel dominio assoluto  dell’ lo, nel trionfo supremo della Libertà.   E invero, mentre da un lato la Dottrina della Scienza  ci apprende che il fondo, l’essenza dello spirito umano  non è l’intelligenza ma 1’ attività, non il pensare ma il  volere — nella forma , almeno, in cui attività e volere  sono accessibili all’ uomo — , e che l’intelligenza — pur  essendo inseparabile dall’attività, da cui è condizionata e  di cui e condizione — resta subordinata all’ attività come  la forma al proprio contenuto, come la riflessione al proprio  oggetto, d’altra parte la Dottrina morale ci mostra il pro¬  cedimento con cui lo spirito umano si sforza — il che è  preciso suo dovere — di prendere coscienza, mediante l’in¬  telligenza, di quell’attività pura, di quella volontà, di  quella libertà infinita, che è appunto il fondo suo , la sua  essenza assoluta. Dal che risulta evidente lo stretto nesso  che avvince la Dottrina morale alla Dottrina della Scienza ;  quella si deduce direttamente dai principi di questa, in  quanto la moralità, secondo il Fichte, non è che uno dei  momenti pii\ importanti, anzi il più essenziale, dell’ attua¬  zione di quell’ Io puro , di quella Libertà assoluta che la  Dottrina della Scienza pone al di là dei limiti di ogni  coscienza , e da cui 1’ io empirico deriva e a cui 1’ io em¬  pirico aspira. Il passaggio dall’ Io puro, assoluto e infinito, per via di limiti e determinazioni, all’ io empirico, relativo  e finito, ossia dalla Libertà all’Intelligenza, è il problema  a cui pili specialmente si applica la Dottrina della Scienza ;  il passaggio dall’io empirico, relativo e finito, per via di  superamenti e liberazioni, all’Io puro, assoluto, infinito, è  il problema a cui più specialmente si applica la Dottrina  morale. L’ un problema è il reciproco dell’ altro, e la so¬  luzione di entrambi dipende dalla soluzione dell’antinomia  tra la finitezza dell’Io-intelligenza , attività oggettivante  (che pone oggetti, limitazioni, resistenze), e l’infinitezza  dell’ Io-libertà , attività pura (= che ha per essenza 1’ as¬  solutezza, l’illimitatezza, l’autonomia). E come il Fichte  risolve tale antinomia con quell’attività a un tempo finita  e infinita che è lo sforzo (Streben) — attività finita, perchè  lo sforzo implica una limitazione, una determinazione, che  impedisce l’immediato compimento dell’atto nella sua infi¬  nità; attività infinita, perchè questa determinazioue non  ha nulla di assoluto, di fisso, è un limite che l’attività fa  indietreggiare incessantemente per conseguire l’infinità — ,  ne segue che l’idea dello sforzo è , nella sua filosofia, il  cardine fondamentale dell’ attività teoretica non meno che  dell’ attività pratica, dell’ Intelligenza non meno che della  Volontà, della Dottrina della Scienza non meno che della  Dottrina morale. Nella Dottrina morale , a oui ora è ri¬  volta la nostra attenzione, lo sforzo esprime la tendenza  dell’Io a identificare la sua attività oggettivante con la sua  attività pura, e lo svolgimento dell’ Io è tutto nel rapporto  tra queste due attività : l’infinita Libertà non può attuarsi  se non at traverso la limitazione e l’Intelligenza, ma non  c’è limitazione uè Intelligenza se non rispetto all’infinita  Attività pura elle di continuo le sorpassa. Lo sforzo, quindi, può definirsi un’attività in cui l’infinito è posto non come  stato attuale, ma come meta da raggiungere, un’attività  in cui 1’ adeguazione del finito e dell’ infinito non è , ma  dev'essere , un’attività, insomma, che ha per contenuto  il Dovere e che del Dovere è a sua volta il contenuto.   Diamo, in breve, il disegno della Dottrina morale. La Dottrina morale si apre I) con un’ Introduzione ,  in cui sono sinteticamente presentati i presupposti filosofici  dell’etica; e si svolge in tre Libri, dei quali II) il primo  trae da quei presupposti il principio della moralità, III) il  secondo deduce da essi la realtà e 1’ applicabilità di questo  principio, IV) il terzo fa l’applicazione sistematica del prin¬  cipio stesso, ed espone quindi la morale propriamente detta. I presupposti filosofici dell' etica, contenuti nell’Introduzione e perfettamente conformi alla Dottrina della  Scienza , muovono dal principio che la vera filosofia sol¬  tanto allora è possibile, quando si abbia un punto in cui  il soggettivo e l’oggettivo, l’essere in sè e la rappresenta¬  zione di esso non siano divisi, ma facciano tutt’uno, e che  un tal punto si trova nell’Egoità o Io puro, nell’Intel¬  ligenza o Ragione. Senza questa assoluta identità del sog¬  getto e dell’oggetto nell’Io, la quale peraltro non si lascia  cogliere immediatamente come un dato della coscienza at¬  tuale, ma soltanto argomentare per via di ragionamento,  la filosofia non approda a nessun risultato. Bisogna, dunque,  ammettere un’Unità fondamentale e primitiva, la quale,  tosto che nasce una coscienza attuale — o anche soltanto  l’autocoscienza —, si scinde necessariamente in soggetto e oggetto, poiché “ solamente in quanto io, essere cosciente,  mi distinguo da me, oggetto della coscienza, divengo co¬  sciente di me stesso „ ( 1 ). Bisogna ammettere, inoltre, che  l’oggettivo abbia causalità sul soggettivo, e viceversa il  soggettivo sull’oggettivo, per rendere concordi tra loro, e  in generale possibili, il pensiero e il pensato, la ragione e  il suo dominio sulla natura. E appunto perchè il legame  causale tra soggetto e oggetto è duplice — ognuna delle  due parti è causa ed effetto dell’altra: il soggettivo è ef¬  fetto dell’oggettivo uel conoscere , Soggettivo è effetto del  soggettivo nell 'operare — , la filosofia si divide in teore¬  tica e pratica.   Senonchè, come avemmo già occasione di notare (*),  l’Io puro, ossia 1’ U.nità soggettivo-oggettiva ancora indi¬  visa, non è un fatto ( Thatsache ), ma un atto ( Thathand -  tutiff), la sua natura originaria è attività: è, dunque, pra¬  tica. Perciò il principio : “ Io mi trovo come operante nel  mondo sensibile „ ( 3 ) è di capitale importanza per il nostro  conoscere. Da esso comincia ogni coscienza ; senza la co¬  scienza della mia attività non è possibile nessuna autoco¬  scienza, senza l’autocoscienza nessuna coscienza di un  quid diverso da me. Infatti, la percezione della mia atti¬  vità suppone una resistenza al di fuori di noi; “ ovunque  e in quanto tu percepisci attività, tu percepisci necessa¬  riamente anche resistenza ; altrimenti tu non percepisci  attività „ (Ora la resistenza è affatto indipendente dalla    (') Sittenlehre (Stimanti. Werke, Voi. IV, ediz. cit.), pag. 1 (nostra  traduz. pag. 1).  Cfr. pvec. Sittenlehre, p. 3 (nostra traduz. p. 3).   ( 4 ) Ibid. p. 7 (ibid. p. 6).     XI.V    mia attività, è anzi il suq opposto; è qualcosa che esiste  soltanto e in nessun modo agisce, qualcosa di quieto e  morto, die tende semplicemente a rimanere quel che è,  qualcosa che nel proprio campo contrasta all’azione*della  libertà, ma non può mai invadere il campo di questa. Un  qualcosa di simile, dunque, è “ pura oggettività „ , e si  chiama., col suo proprio nome, materia. Senza la rap¬  presentazione di una tale materia, niente resistenza alla  nostra attività, quindi niente attività, niente autocoscienza,  niente coscienza, niente essere. La rappresentazione del  puro oggettivo resta così dedotta necessariamente dalle  leggi stesse della coscienza ( l ).   Con la medesima necessità con cui viene dedotto il puro  oggettivo, viene posto anche il suo contrario, il sogget¬  tivo, ossia 1’ attività propriamente detta, sotto la forma di  un’ agilità (Agililàt) o forza efficiente. Ma poiché nella  coscienza, quasi come in un prisma, ogni unità si rifrange  in soggetto e oggetto, così in essa, avvenuto lo sdoppia¬  mento dell’Io puro in soggettivo e oggettivo, anche il sog¬  gettivo si sdoppia a sua volta, e si ha da una parte 1’ at¬  tività propriamente detta, veduta come una forza reale,  come un oggettivo esistente in me, dall’altra il soggettivo,  fonie inesauribile di questa forza reale, fonte originaria  non derivante da nessun oggettivo, e dalle cui profondità  oscure e inaccessibili sgorga, con libero, spontaneo e talora  impetuoso moto interno, l’infinita varietà delle nostre rap¬  presentazioni, dei nostri concetti ; per conseguenza la mia  attività — ossia il soggettivo ancora indiviso nella sua  unità anteriore alla coscienza — , quando sia veduta attra-    (*) Ibid. pp. 7-8 (itici, p. 7).  verso il tramite della coscienza, appare come un oggettivo,  che da un lato scaturisce da un soggettivo perennemente  rinascente a ogni estrinsecarsi dell’oggettivo, dall'altro de¬  termina l’oggetti vita pura dianzi chiamata materia (‘). Così  si rivela alla coscienza la nostra assoluta auto-attività, la  cui essenza sta nel produrre rappresentazioni, nel creare  concetti, e la cui manifestazione sensibile dicesi libertà.  Ciascun concetto, riguardato come determinante l’oggettivo  in virtù della propria causalità, diventa un concetto-line,  e allora esso stesso appare un qualcosa di oggettivo e si  chiama uua volizione; e lo spirituale che in noi si consi¬  dera come principio immediato delle volizioni dicesi volontà.   Spetta, dunque , alla volontà agire sulla materia ed  esercitare causalità nel mondo sensibile ; ma ciò non le  sarebbe possibile se non avesse uno strumento che sia esso  stesso materia , ossia quel corpo articolato che è il nostro    (‘) Nel Leon (op. cit. pp. 255-260) trovasi ben descritta la natura  dell’attività spirituale nel senso fichtiano, attività clic è, a un tempo  e continuamente, produzione di sè e riflessione sopra di sè, oggetti¬  vazione e soggettività, io reale e io ideale, attualità e potenzialità;  chi voglia intendere una tale attività, che ha la caratteristica di esi¬  stere e di essere anteriore alla propria esistenza, devo ricordarsi che  essa non va pensata alla maniera delle cose, perché, contrariamoute  alla natura di queste ultime, la cui realtè si esaurisce tutta quanta  nell'essere oggettivo, l’attività spirituale può ripiegarsi su di sé,  può riflettersi. E a ciò si deve quel fenomeno meraviglioso e cosi  lontano dal meccanismo materiale, per cui 1’ esistenza ideale deter¬  mina l’esistenza reale, l’idea ha causalità, lo spirito è libertà. Onde  si vede che la libertà è proprio (come il Kant aveva ailermato, senza  però dimostrarlo) il comiuciamento assoluto d’uno stato, la creazione  di un’ esistenza seuza rapporto di dipendenza reale con un’ altra esi¬  stenza. E si vede altresì che solamente 1’ essere ragionevole, dotato  d’intelligenza e riflessione, è capace di libertà, poiché in lui soltanto  è possibile una causalità in forza di un concetto. organismo. E invero u io , consideralo come un principio  di attività nel mondo dei corpi, sono un corpo articolato,  e la rappresentazione del mio corpo non è altro che  la rappresentazione di me stesso come causa nel inondo  materiale 5 e perciò, mediatamente, non altio che un ceito  aspetto della mia attività assoluta „ ('). Volontà e corpo  sono quindi una medesima cosa , riguardata però da due  lati diversi: una medesima cosa, perchè soltanto fin dove  si estende l'immediata causalità della volontà sul corpo,  si estende il corpo articolato , necessario strumento della  causalità sulla materia; riguardata però da due lati di¬  versi , perchè , in virtù dell’ azione sdoppiatrice della co¬  scienza, la volontà appare come il soggettivo che esercita  la sua causalità sul corpo, e il corpo come 1 ’oggettivo i  cui mutamenti coincidono con quelli di tutta l’oggettività  o realtà corporea. Similmente una medesima cosa, riguar¬  data però anch’ essa da due lati diversi, sono la natura  che la mia causalità può cangiare, ossia la costituzione e  T ordinamento della materia , e la natura non cangiabile ,  ossia la materia pura : la natura mutevole è 1 ’ oggettivo  considerato soggettivamente e in connessione con 1 ’ io, in¬  telligenza attiva ; la natura immutevolo è Soggettivo con¬  siderato oggettivamente e soltanto in sè.   Secondo il precedente ragionamento , i molteplici ele¬  menti che l’analisi ritrova nella percezione della nostra  causalità sensibile vengono dedotti dalle leggi della co¬  scienza e ridotti all' unità, all’ unico assoluto su cui si tonda  ogni coscienza e ogni essere, all 'attività pura. Questa at¬  tività, in virtù della legge fondamentale della coscienza,    (!) Sittenlehre, p. 11 (nostra traduz. pp. 10-11).  per cui 1 essere attivo non si comprende senza una resi¬  stenza su cui agisce, non si comprende cioè se non come un  Io-soggetto operante sopra un Non-Io-oggetto, appare sotto  forma di efficienza su qualcosa fuori dell'Io. Ma tutti gli  elementi contenuti in questa apparenza, a partire dal con¬  cetto-fine propostomi assolutamente da me stesso, sino  alla materia greggia del mondo esterno su cui esercito la  mia causalità, non sono che anelli intermedi dell’apparenza  totale, e perciò semplici apparenze anch’essi. L’unico reale 1   vero è la mia auto-attività, la mia indipendenza, la mia  libertà.   IL - Da tali presupposti bisogna ora dedurre il  principio della moralità. L’ uomo trova in sè un’ obbliga¬  zione assoluta e categorica a fare o non fare certe azioni  indipendentemente da ogni fine esteriore, la quale si ac¬  compagna immancabilmente con la natura umana e costi¬  tuisce la nostra caratteristica morale. Donde ha origine  questa obbligazione o Dovere, che vai quanto dire la  leggo morale, ossia il' principio della moralità? Secondo  che esige la Dottrina della Scienza , tale origine non va  ricercata altrove che in noi stessi, nell’ Jo. Onde il primo  problema da risolvere a tal fine è:^ u Pensare sè stesso  come puramente sè stesso, ossia come distaccato da tutto  ciò che non è io. „ (*).   La soluzione di questo problema si ottiene così : Io  non trovo me stesso se non nella mia volontà, se non  come volente ; e trovarsi volente significa riconoscere in  se una sostanza che vuole. L’intelligenza è la coscienza    fl ) Ibid. p. 18 (ibid. p. 20).  puramente soggettiva; la coscienza del proprio io in quanto  io non può nascere che dalla volontà,. Ma la volontà non  si concepisce se non supponendo qualcosa di diverso dal-  1’ io, perchè ogni volontà reale è una determinata volizione  che ha un concetto-fine, che tende cioè ad attuare un og¬  getto concepito come possibile, un oggetto che stia fuori di  noi. Ne segue che, per trovare me stesso e nuli’altro che me  stesso , bisogna fare astrazione da questo oggetto esterno  della mia volontà: ciò che rimane allora sarà il mio es¬  sere puro, la volontà assoluta, il principio della nostra filo¬  sofia. Ne segue altresì che il carattere essenziale e distin¬  tivo dell’ io è una tendenza ad agire di propria iniziativa  e indipendentemente da ogni impulso estraneo, a determi¬  nare sè stesso in modo incondizionato e autonomo , è, in  una parola, la libertà. Ora, appunto questa tendenza e  questa libertà costituisce l’io preso in sè, l’io considerato  all’ infuori di ogni relazione con checchessia di diverso  da sè.   Ma ogni essere non è se non in quanto viene riferito  a un’ intelligenza, la quale sa che esso è ; in altri termini  suppone una coscienza. L’io, quindi , non è se non in  quanto si pone, non è se non in forza della coscienza che  ha di sè; onde esso deve avere la coscienza di quella ten¬  denza alla libera auto-determinazione che dicemmo costi¬  tuire la sua essenza. E invero l’io che, mediante l’intelli¬  genza, pone sè stesso come tendenza all’autonomia assoluta  o libertà, è un essere il cui principio si trova non in un  altro essere, ma in un quid di categoria diversa — l’unico  quid che possa concepirsi oltre l’essere — e cioè nel pen¬  siero , inteso non come qualcosa di sostanziale, sì bene  come attività pura, come movimento dell’intelligenza senza     restrizioni e senza fissità. Orbene, da questa intima fusione  dell’io in quanto tendenza all’attività assoluta o libertà e  dell’io in quanto intelligenza, dell’io in quanto essere e  dell’ io in quanto riflessione , è possibile dedurre il prin¬  cipio della moralità. Come?   L’Io assoluto, non ancora rifratto dal prisma della  coscienza, è determinato, come abbiamo detto, dalla sua  tendenza all’attività assoluta, e questa determinazione di¬  venta oggetto o contenuto dell’ intelligenza. Ma , siccome  l’Io assoluto nella sua unità integrale, nella sua semplicità  e identità originaria non può essere mai oggetto della co¬  scienza , bisogna che questa si sforzi di apprenderlo , al¬  meno per approssimazione, attraverso la dualità dell’essere  oggettivo e della riflessione soggettiva, mediante quella  specie di espediente che consiste nel considerare il sog¬  gettivo e 1’oggettivo come determina»tisi reciprocamente  1’ uno 1’ altro, come complementari, quindi come insepara¬  bili e impensabili l’uno senza l’altro. E allora, se si con¬  cepisce il soggettivo come determinato dall’ oggettiv'o (nel  qual caso nasce quella relazione psicologica che si chiama  sentimento), essendo l’oggetto, rispetto al soggetto, qual¬  cosa di per sè stante, di fisso .e permanente, si troverà  che il contenuto del pensiero è immutabile e necessario  e che l’intelligenza impone a sè stessa la legge di una  attività propria e assoluta. Se poi si concepisce l’oggettivo  come determinato dal soggettivo (nel qual caso nasce quel-  l’altra relazione psicologica che si chiama volontà), es¬  sendo il soggetto, rispetto all’ oggetto, qualcosa di mobile,  di attivo e indipendente, si troverà che l’io si pone come  libero. Si arriverà cosi — combinando, i due risultati , la  legge necessaria da una parte e la libertà illimitata dal-        1’ altra — all’ idea di una legge che l’io liberamente -im¬  pone a sè stesso : la legge ha per contenuto la libertà , e  la libertà è sottoposta alla legge. Legge e libertà, per tal  modo , si determinano reciprocamente : esse fanno insieme  una sola e medesima unità. Tra la libertà ( = attività in-  condizionata e illimitata) e l’autonomia ( = imposizione  spontanea di una legge a sè stesso) non c’ è incompatibi¬  lità; esse nascono entrambe da quello sdoppiamento che è  dovuto alla natura dell’ attività spirituale e che è a un  tempo posizione di sè e riliessione sopra di sè, oggetto e  soggetto. In altri termini, si ha qui l’intima fusione, nel-  1’ unità dell’ io, tra 1’ intelligenza, che concepisce la nostra  essenza come libertà, e la volontà, che è 1’ attuazione del-  1’autonomia, tra la libertà-concetto e la libertà-atto, e il  legame che unisce 1’ una all’ altra è di causalità non Inec-  canico-coercitiva ma psichico-imperativa, è di necessità  non teorica ma pratica, è il legame morale del dovere. La  libertà-idea non può non tradursi, dece tradursi in libertà-  realtà; il Dovere, obbligazione per eccellenza, sta nell’at¬  tuare l’essenza nostra, nel divenire, attraverso la coscienza,  quel ohe siamo in fondo al nostro essere assoluto anteriore  alla coscienza, nel renderci cioè liberi ; e in ciò precisa¬  mente consiste il principio supremo di tutta la moralità,  il quale per tal guisa risulta dedotto, come ci proponevamo,  dalla natura dell’ io.   Posto l’io, è in pari tempo posta anche la tendenza  all’assoluta auto-attività, alla libertà; ma la libertà non  acquista valore se non per un’ intelligenza che ne faccia  la legge determinante delle nostre azioni ; ne segue che  l’io deve sottoporsi con coscienza e quindi con libertà alla  legge della propria natura, che è la legge della libertà,    senz’altro fine che la libertà, stessa. La moralità, appunto  perchè esprime direttamente l’essenza dell’io, la sua pra¬  ticità assoluta e la sua autonomia, è una perpetua legisla¬  zione dell’io imposta a sè stesso, sotto un triplice rispetto :  a) rispetto all’adozione stessa della legge morale, ado¬  zione la quale non può essere che una libera sottomissione,  una spontanea adesione alla logge; h) rispetto all’applica¬  zione della legge a ciascun caso particolare, applicazione  nella quale il giudizio morale è sempre un atto di auto¬  nomia, un consenso di noi con noi stessi ; c) rispetto al  contenuto della legge, uel quale contenuto è evidente che  ogni determinazione della volontà da parte di una causa  estranea a sè stessa, che vai (pianto dire alla ragione, co¬  stituirebbe un’eteronomia affatto contraria alla legge mo¬  rale. Per tal modo si può concludere che la vita morale  tutta quanta non è altro che una ininterrotta auto-legisla¬  zione dell’io, una perenne autonomia dell’essere razionale;  e dove questa autolegislazione cessa, ivi comincia l’ immo¬  ralità (').   IH- - Alla deduzione del . principio della moralità  segue la deduzione della realtà e dell’ applicabilità del  principio stesso, senza di che quest’ ultimo rimarrebbe  un’ astrazione e la morale si ridurrebbe a un formalismo  vuoto e sterile. Invece la morale ha una realtà, la legge  morale ha efficacia nel mondo sensibile in cui viviamo ;  onde il principio della moralità è non solo vero , logica¬    ci Tbid. p. 5C ibid. p. 55). A chiarire ancor meglio la deduzione  della legge morale dall’Io, ricollegandola con i principi e le conse¬  guenze della Dottrina della Scienza giova il seguente schema fornito        — un — mente possibile e giustificato dalla ragione, ma altresì  reale e applicabile : reale, perchè è un concetto che deve  attuarsi nel mondo sensibile (*) ; applicabile, perchè il mondo  sensibile è tale, per origine e natura, da prestarsi* come  strumento all’attuazione di quel principio.    dal Fischer ( Geschichte der neuem Philosophie, voi. VI, Fichte unti  seine Vorgànger, 4 a ediz. 1914, p. 458) e nel quale viene simboleggiato  lo sdoppiarsi dell’ Io nella coscienza teorica e il suo reintegrarsi nella  legge morale :    Io    Soggetto = Oggetto   Coscienza  (Divisione)    Soggetto .  Autoattività  Causalità del Concetto  Libertà    Oggetto  Materia  Causalità della Materia  Necessità    Libertà = Necessità  Legge della Libertà    Libertà sotto la Legge della Libertà  (Assoluta Autonomia)   Legge Morale   (‘) Come si vede, qui la realtà del principio morale non è la realtà  già attuata di ciò che esiste nel mondo meccanico dei fatti naturali  o nel mondo giuridico della convivenza sociale , ma la realtà di ciò  che deve esistere nel mondo morale della volontà; le prime due specie  di realtà sono sotto la categoria della necessità (leggi naturali) o della  coercizione (leggi sociali), l’ultima, invece, di cui ora si tratta, è  sotto la categoria della contingenza, della libertà (legge morale).   Infatti, il principio della moralità dianzi dedotto è a  un tempo un principio teorico, in quanto l’io si determina  da sè dinanzi a sè stesso come essere assolutamente indi-  pendente e libero — il che costituisce la materia della  legge morale —, e un principio pratico, in quanto l’io im¬  pone da sè a sè stesso 1’ attuazione della propria natura  — il che costituisce la forma (imperativa) della legge mo¬  rale —. Ogni singolo io è libero, ecco il principio teo¬  rico ; Ovatterai ogni singolo io come un essere libero,  ecco il principio pratico derivante, sotto forma di comando ,  da quel principio teorico. In sostanza la legge pratica della  libertà potrebbe formularsi così : “ Opera secondo la cono¬  scenza che hai della natura e del fine originario degli es¬  seri Giusta i principi della Dottrina della Scienza, le  cose che abbiamo posto fuori di noi non sono, in fondo,  che le nostre idee ; di qui l’armonia tra la determina¬  zione teorica degli oggetti e gl’ imperativi morali che da  questa determinazione teorica scaturiscono rispetto agli og¬  getti stessi. La spiegazione dell’ accordo dei fenomeni con  la nostra volontà sta nell’accordo della volontà con la na¬  tura, a cominciare dalla natura nostra : noi non possiamo  volere se non ciò a cui ci spinge 1’ impulso naturale ; questo  impulso non è la legge morale, ma^ legge morale non  può nulla comandare il cui oggetto non sia nella sfera di  questo impulso. L’essere ragionevole, il quale deve porre  sè stesso come assolutamente libero e indipendente, non può  far ciò senza in pari tempo determinare teoricamente il suo  mondo mediante la rappresentazione ; e la sua libertà, che  è un principio pratico, esige che questa determinazione teo¬  rica da parte del pensiero si mantenga e si completi me¬  diante l’azione da parte della volontà. L’azione della liberta dell’ io sul mondo determinato come rappresenta¬  zione consiste nella modificazione di uno stato del mondo  stesso mercè il dominio di un concetto anteriormente posto ;  è la produzione di una realtà conformemente a un’idea data  come suo principio ; significa, per conseguenza, proprio l’in¬  verso della rappresentazione, la quale è la determinazione  di un concetto secondo una realtà anteriormente posta. E  come l’enigma della rappresentazione, ossia il rapporto tra  la cosa e l’idea, trovava la sua soluzione nell’identità ori¬  ginaria dei due termini, essendo la cosa un prodotto in¬  conscio dell’ io, similmente qui il l’apporto tra il concetto  e la realtà ha il suo fondamento nel fatto che la produ¬  zione di questa realtà non è la produzione di una cosa in  sè, di una realtà assoluta, che sarebbe in qualche modo  esteriore alla coscienza, ma è sempre uno stato di coscienza,  una determinazione dell’ io. E allora non è più questione  di sapere come sia possibile nel mondo una modificazione  da parte della libertà, poiché, essendo il mondo esso stesso  un prodotto della libertà , un limite che l’io pone a sè  stesso, è questione di sapere come sia possibile, mediante  la libertà, un cangiamento nell’io, un’estensione dei suoi  limiti ; e se si osserva che 1’ io, oggetto di questa modifi¬  cazione, è l’io limitato., ossia l’io empirico, e che la legge  della libertà, sotto la quale si operano nell’ io empirico  queste modificazioni, esprime l’io puro, l’io assoluto, è  evidente che il problema circa la realtà del principio mo¬  rale, circa l’attuazione della libertà , si riduce , in fondo ,  alla questione già esposta anteriormente circa i rapporti  tra l’io empirico, naturale, e l’io eterno, assoluto (*).    (‘) Sittenlehre, pp. 63-75 (nostra traduz. pp. 63-74). — Cfr. anche  prec. pp. XLI-XLII. Per dedurre ora la realtà e la conseguente applica¬  bilità del principio dell’ etica, bisogna dedurne la materia  e la sfera d’ azioue, bisogna stabilire, cioè, anzitutto l'og¬  getto della nòstra attività in generale ('), poi la causalità  reale dell’essere ragionevole (Quanto al primo punto si  ha questo teorema: “ L’essere l'agionevole non può attri¬  buirsi nessun potere, senza pensare in pari tempo qualcosa  fuori di sè a cui quel potere sia diretto „ ; egli, infatti, non  può attribuirsi la libertà, senza pensare più azioni reali e  determinate come possibili per opera della libertà, e non può  pensare nessun’ azione come reale e determinata, senza sup¬  porre all’ esterno qualcosa su cui quest’ azione sia eser¬  citata ( 3 ). Esiste, dunque, fuori di noi e posta dal pensiero,  una materia a cui la nostra attività si riferisce e che può  essere modificata all’ infinito. Quanto al secondo punto  si ha quest’altro teorema: u L’essere ragionevole non può  trovare in sè nessun’ applicazione della propria libertà, ossia  nessun volere reale, senza in pari tempo attribuire a sè stesso  una reale causalità o efficienza sul mondo esterno r , e non  può attribuirsi una siffatta causalità o.efficienza, senza deter¬  minarla in una certa maniera. Ora, l’attività pura non può  essere determinata in sè, altrimenti non sarebbe più pura ;  essa non può essere 'determinata se non da ciò che le si  oppone, ossia dai suoi limiti. Questi limiti non possono es¬  sere percepiti se non nell’esperienza sensibile e, inquanto  oggetto d’intuizione sensibile, consistono in una diversità  o varietà di materia. Onde l’io, il quale non sarebbe at-    (*) Ibid. pp. 75-88 (ibid. pp. 75-87).   (*j Ibid. pp. 89-101 (ibid. pp. 87-98).   ( 3 ) Ibid. pp. 75, 79 e 81 (ibid. pp. 75, 78 e 80). tivo se non si sentisse limitato, viene posto come un’ at¬  tività che preme, per allargarli, sopra i limiti entro cui lo  rinserra la diversa materia che gli resiste, il nou-io che  gli si oppone. L’essere ragionevole, dunque, esercita una  causalità reale nel mondo sensibile, e tale causajit.à con¬  siste non già nel creare o distruggere la materia su cui si  esercita — tale materia è condizione indispensabile per  l’attività dell’essere ragionevole —, ma nell’introdurvi ul¬  teriori determinazioni nuove ; u io ho causalità „ significa  sempre: u io allargo i miei confini „, che vai quanto dire:  “ io attuo progressivamente il concetto di libertà — se¬  condo che mi è imposto dalla legge morale —, pur non giun¬  gendo mai a un’ attuazione completa „. Di guisa che la no¬  stra esistenza, mentre uel mondo intelligibile è legge morale, nel mondo sensibile è azione reale: il punto in cui  le due esistenze si riuniscono è la libertà intesa come facoltà  assoluta di determinare 1’ azione mediante la legge (*).   Risulta da quanto precede che il principio della mo¬  ralità, ossia la libertà, non può attuarsi se non opponendo  all’attività pura dell’ io una limitazione o un sistema di  limitazioni, e imponendo alla medesima attività un progres¬    si Ibid. pp. 91-92 (ibid. pp. 89-90). — Abbiamo qui una delle idee  fondamentali del sistema ficbtiauo, cioè: l’impossibilità per noi di  separare il sensibile dall’intelligibile, la negazione del dualismo, l’as¬  surdità di concepire nell’ àmbito della coscienza un carattere noume-  nico radicalmente distinto dal carattere fenomenico. Secondo il Fichte  — scrive il Léon (op. cit. p. 269) — il sensibile è la condizione per  l’intelligibile....; Benza il sensibile, il quale determinandolo lo attua,  il puro intelligibile rimarrebbe allo stato di potenza indeterminata e  vuota. Questa concezione segua la rovina del misticismo, che pretende  isolare lo spirito dal corpo e relegarlo in una sfera chimerica ; l'Io  iichtiano non è fatto di singoli pezzi separabili ad arbitrio ; esso forma  in tutti i suoi elementi una gerarchia, un vero organismo.   sivo ampliameuto di questa limitazione o sistema di limi¬  tazioni. Il che si verifica anche quando si tratti non di un  fine ultimo, come la libertà assoluta, ma di fini intermedi.  Il più spesso’ci accade di non poter attuare immediata¬  mente un determinato fine scelto dalla nostra volontà, e  siamo costretti, per conseguirlo, a servirci di certi mezzi  già determinati in* antecedenza senza il nostro intervento :  non perveniamo al nostro fine se non attraverso una serie  di gradi interposti ; che equivale a dire : tra il sentimento  da cui sono partito con la volontà e il sentimento a cui  mi sforzo di giungere intercedono altri sentimenti, di cui  ognuno è l’esponente dei limiti che mi si oppongono, li¬  miti che con la mia causalità, con la mia azione, io fo in¬  dietreggiare ogni volta di più, estendendo cosi pi-ogressiva-  mente la mia attività reale. La mia causalità, dunque, ap¬  pare come un’azione continua e diversa, come una serie  ininterrotta di sforzi e di sentimenti svariati ; poiché essa è  assolutamente una e identica in quanto attività, ma pre¬  senta tuttavia infiniti aspetti multiformi a causa della  multiforme resistenza che incontra da parte degl’ infiniti  oggetti esterni; — esterni, s’intende, e posti indipendente¬  mente da noi, per chi non adotti o ignori il punto di vista  della filosofia trascendentale e rimanga al punto di vista  della coscienza comune —.   Intesa nel modo descritto, la causalità dell’ essere ra¬  gionevole contiene in sé la sintesi assoluta della cono¬  scenza e dell’ attività, determinantisi reciprocamente nella  concezione e nel perseguimento di un medesimo fine. L’es¬  sere ragionevole, infatti, non ha una conoscenza se non in se¬  guito a una limitazione della propria attività (tesi); ma d’altro  canto non ha attività se non in seguito a una conoscenza (antitesi) ; conoscenza e attività sono poste come identiche  nella volontà (sintesi) ( l ). Come si ottiene questa sintesi?  Basta pensare all’ essenza originaria dell’ io oggettivamente  considerato : sappiamo che tale essenza è assoluta attività e  nuli’altro che attività; e poiché l’attività, oggettivamente  presa, è impulso, e nell’io nulla esiste o accade di cui egli  non abbia coscienza, cosi, posto nell’ io oggettivo un im¬  pulso, vien posto altresì iu esso un sentimento di questo  impulso. Il sentimento o coscienza primitiva dell’impulso  è, dunque, l’anello sintetico in cui con l’attività è posta la  conoscenza e con la conoscenza l’attività.   Soltanto è da aggiungere che, se dal punto di vista  pratico la conoscenza e l’attività sono inseparabili, la co¬  scienza che accompagna qui l’impulso non è affatto la co¬  scienza riflessa e iu nessun grado una riflessione libera ; in  essa non c’ è neppure quella specie di libertà che caratte¬  rizza la rappresentazione e che ci permette di non rappre¬  sentarci l’oggetto, di fare cioè astrazione da esso ; è una  coscienza tutta spontanea, che s’impone a noi con necessità, è  un sentimento di cui non siamo in nessun modo padroni.  Il sistema d’impalisi e di sentimenti di che s’intesse  1’ io empirico oggettivo deve quindi concepirsi come na¬  tura, come la nostra natura, come cioè qualcosa di dato,  di non prodotto da noi, d’ indipendente dalla libertà ,  ma su cui la libertà può esercitarsi, e si esercita, allorché  l’io-soggetto ne fa oggetto di riflessione e consente o no  a soddisfarlo ; e invero, tosto che riflettiamo sui nostri  impulsi originari, non siamo più dominati da essi ; sono  essi, invece, dominati da noi, perchè dipende da noi asse¬    di Ibid. pp.      condarli o no ; comincia allora il vero ufficio della nostra  libertà cosciente. Nasce così la differenza tra la facoltà  appetitiva inferiore del semplice impulso di natura e la  facoltà appetitiva superiore del medesimo impulso sottoposto  alla riflessione e alla libertà (*).   Giova chiarire meglio la facoltà appetitiva inferiore,  prima di passare alla superiore. Abbiamo detto che essa  costituisce ciò che in noi si chiama natura; ma bisogna  distinguere la natura nostra dalla natura delle cose in cui  regna il puro meccanismo. Nel mondo meccanico non c’è  attività propriamente detta, c’ è soltanto una trasmissione  di urti attraverso tutta la serie di cause ed effetti, senza  che nessun anello produca o modifichi la forza trasmessa.  Nella natura nostra, al contrario, c’è una vera spontaneità,  la quale non è ancora la libera causalità del pensiero, del  concetto, perchè è una necessaria determinazione dell’esi¬  stenza reale per opera di questa esistenza stessa, ma sta  tuttavia al disopra del puro meccanismo, perchè consiste in  una determinazione proveniente da una serie di cause ed  effetti disposta non più secondo un ordine lineare di suc¬  cessione, sì bene secondo un ordine ricorrente di recipro-  canza ; quivi, infatti, le singole parti sono a un tempo ef¬  fetti e cause del tutto, onde si ha quel che si dice un or-    (Per essere più chiari :  l’impulso e il sentimento che l’accompagna mancano di libertà; la  volontà e la riflessione che ne è condizione hanno per essenza la li¬  bertà; a parte, però, questa differenza di capitale importanza ma sol¬  tanto formale, l’impulso e il sentimento, per quanto riguarda il loro  contenuto materiale, sono identici alla volontà e alla riflessione; l’og¬  getto a cui tendono necessariamente i primi diventa l’oggetto libe¬  ramente accettato o ripudiato dalle seconde.    gallismo, ossia una costituzione, la quale, lungi dal dipen¬  dere da un’azione esterna, Ira in sè stessa il principio della  propria determinazione, è dotata insomma di spontaneità,.  La reciprocanza di azione tra le parti di un tutto orga¬  nico in natura si spiega così: a ciascuna di esse le altre  non lasciano che una certa quantità di realtà, onde cia¬  scuna parte per la rimanente realtà che le manca non  ha che una tendenza (o impulso) risultante dallo stato de¬  terminato delle altre parti : ciascuna tende a formare il  tutto, a integrarsi con la realtà delle altre ; e cosi in  un’ unità organica la realtà è in proporzione inversa  della tendenza (o impulso) derivante dalla mancanza di  realtà; realtà e tendenzfP (o impulso) si completano a  vicenda ; ciascuna parte tende a soddisfare il bisogno di  tutte, e tutte a loro volta tendono a soddisfare il bisogno  di ciascuna ; ogni singola parte tende a combinare la pro¬  pria essenza e la propria azione con l’essenza e l’azione  delle rimanenti, e questa tendenza giustamente si dice im¬  pilino plastico (Bildungstrieb), cosi nel senso attivo come nel  senso passivo della parola, perchè è la facoltà a un tempo  così d’imprimere come di ricevere forme. Questa facoltà  organizzatrice è universale, essenziale, inerente a tutte  le parti e a tutti gli elementi, onde ciò che si chiama un  tutto naturale, ossia un tutto chiuso, può altresì chiamarsi  un prodotto organico della natura, a costituire il quale certi  elementi della natura, in virtù della causalità di cui questa  è dotata, hanno riunito il loro essere e il loro operare in  un solo e medesimo essere, in un solo e medesimo operare. Ciò posto, ecco quanto accade in quel tutto organico  della natura che è 1’ io individuale, empirico, a partire dai  più bassi impulsi sino alle più alte tendenze.   Iu ciascun io individuale, appunto perchè esso è un  tutto organico della natura, l’essenza delle parti consiste  in una tendenza a conservare unite a sè altre determinate  parti, e siffatta tendenza, se attribuita al tutto, dicesi im¬  pulso all' autoconservazione ; alla conservazione, s’intende,  non dell’esistenza in generale, che è un’astrazione, ma di  un’esistenza determinata. L’impulso all’autoconservazione,  che è poi la tendenza a perseverare nel proprio essere,  porta 1’ essere organico a inferire a sè certi oggetti della  natura; di qui l’appetito o la brama verso questi oggetti,  appetito o brama dapprima vaghi e indeterminati, quasi  come il primo grido inarticolato dell’orgauismo ancora in¬  fante, poi sempre più determinati e differenziati, come il  linguaggio articolato dell’orgauismo adulto. E — si noti  bene — non già la diversità degli oggetti determina lo  specificarsi dei vari appetiti e desideri ; al contrario, i di¬  versi modi del desiderio, mediante le proprie determina¬  zioni, si creano i propri oggetti. La coscienza o l’intelli¬  genza* che ci rappresenta gli oggetti non è che il riflesso  dei nostri istinti,, inclinazioni, tendenze, della nostra vita  pratica in generale; non, dunque, gli oggetti suscitano, quasi  loro fine, gli appetiti, ma gli appetiti hanno il proprio  fine in sè stessi, nella propria soddisfazione, e noi non per¬  seguiamo, attraverso gli oggetti, altro che i nostri desideri  esteriorizzati nelle cose (‘). Ma se è così, se ciò che ci sfor¬  ziamo d’ottenere è non l’oggetto — il quale si riduce a    im simbolo —, sì bene la soddisfazione della nostra _ten- •  denza, della nostra brama, in altri termini, il nostro godi¬  mento, il nostro piacere, si comprende come, tanto dal punto  di vista della pura natura irriflessa, quanto da quell» della  riflessione sulla natura, sia il piacere il fine supremo della  nostra condotta ; di guisa che, nel primo passaggio imme¬  diato dallo stato di pura natura allo stato di coscienza ri¬  flessa, la nostra azione cangia di forma — da necessaria e  istintiva diventa libera e riflessa, e tale cangiamento ne  modifica radicalmente il carattere — , ma il suo contenuto  rimane ancora il medesimo, è ancora il piacere: al punto da far sembrare che l’uomo con la riflessione non si elevi al di  sopra della natura, se non per sottoporlesi meglio e perse¬  guire con pili luce e sicurezza il fine edonistico. Ora, finché è  spinto al piacere e dipende dagli oggetti dei suoi appetiti,   ]' uomo rimane confinato nell’ esercizio della facoltà appeti¬  ti va inferiore. Ma l’attività ragionevole in lui tende con co- 1  scienza e riflessione a determinarsi assolutamente da sé, a  rendersi indipendente da ogni oggetto che non sia essa stessa,  quindi anche e soprattutto dal piacere; e allora la nostra  azione si differenzia da quella compiuta allo stato di pura  natura, oltreché per la forma, anche per il contenuto, es¬  sendo questo costituito non pili dal piacere — comunque  ricercato, per istinto cieco e necessario, ovvero per volontà ,  cosciente e libera — , ma dalla libertà stessa, che è l’es  senza nostra e il nostro vero fine supremo. L’ uomo si eleva  cosi all’esercizio della facoltà appetitiva superiore, di quella  che appartiene non a lui prodotto di natura, ma a lui spirito puro. Ciò non ostante, le due facoltà appetitive, l’inferiore e la  superiore, costituiscono un solo e medesimo impulso origi¬  nario dell’io, dell’io veduto da due lati diversi : nella facoltà  appetitiva inferiore, ossia nell’ impulso naturale, mi concepisco come oggetto, uella facoltà appetitiva superiore, ossia  nell’impulso spirituale, mi concepisco come soggetto, mentre  tutta la mia essenza si ritrova nell’ identità del soggetto  e dell’oggetto, ò soggetto-oggetto. Dall’azione reciproca  dei due impulsi nascono tutti i fenomeni dell’ io ; ma en¬  trambi si fondono in un unico e medesimo io , onde debbono essere conciliati, unificati ; ed ecco in qual modo :  l’impulso superiore rinunzia alla purezza della propria at¬  tività — purezza che consiste nel non essere determinato  da un oggetto —, lasciandosi determinare da un oggetto,  e l’impulso inferiore rinunzia al piacere in quanto fine, al  piacere per il piacere ; si ha così per risultato della loro  unione un’ attività oggettiva, il cui oggetto e fine ultimo  è un’ assolute libertà, un’assoluta indipendenza da ogni na¬  tura;'un fine, questo, proiettato all’infinito e perciò irrag¬  giungibile — raggiungerlo sarebbe porre termine in pari  tempo all’attività e alla natura che dell’attività è il limite  correlativo, la condizione indispensabile —; un fine , tut¬  tavia , a cui è possibile avvicinarsi sempre più, facendo  uso della libertà e della facoltà appetitiva superiore.Non si obietti qui — dice il Fichte  ( Sittenlehre, p. 150, nostra traduz. pp. 145-146) — che un’approssima¬  zione all’infinito è contraddittoria, in quantoche un infinito a cui po¬  tessimo avvicinarci cesserebbe d’essere un infinito e diverrebbe in  certo qual modo suscettivo di misura. L’infinito non è una cosa, un  oggetto posto come dato e verso il quale si avanzerebbe come verso  un termine fissato in precedenza, ma è igu ideale, ossia appunto ciò  che si oppone alla realtà del dato, ciò che nessun dato può esaurire ; Infatti, grazie alla sintesi dianzi descritta, l’io svelle  sè stesso da tutto ciò che sembra trovarsi fuori di lui,  entra in possesso di sè e si pone dinanzi a sè come asso¬  lutamente indipendente, essendo l’io riflettente indipen¬  dente per sè stesso, l’io riflettuto tutfc’ uno con l’io riflet¬  tente, ed entrambi uniti in una sola inseparabile persona,  alla quale il riflettuto dà la forza reale e il riflettente la co¬  scienza. La persona così costituita non può più agire ormai  se non secondo e mediante concetti, e poiché tutto ciò che  ha la propria ragion d’ essere in un concetto è un prodotto  della libertà , cosi d’ ora innanzi l’io non agirà più se non  liberamente, anche quando non faccia che assecondare l’im¬  pulso di natura , perchè anche in tal caso egli non opera  meccanicamente ma con coscienza, e in lui non più il  cieco impulso naturale , si bene la coscienza da lui acqui¬  stata di questo impulso naturale è il primo fondamento del  suo operare, il quale perciò è libero — come poco fa no¬  tammo — se non nel contenuto, almeno nella forma (‘).   Ma che significa essere libero e agire liberamente?  Prima di giungere alla riflessione l’io è di natura sua    e questo ideale clie portiamo in noi stessi indietreggia dinanzi a noi  man mano che ci eleviamo verso di esso. Noi possiamo bene allargare i nostri limiti, inalzarci sempre più verso la libertà, ma non pos¬  siamo mai sopprimere totalmente questi limiti, attuare cioè la li¬  bertà; a qualunque grado di liberazione noi si giunga, la libertà as¬  soluta rimane sempre un ideale. Insomma, .con l’idea di un progress o  infinito il Fichte risolve la contraddizione tra la libertà e la natura : la  natura deve tendere alla libertà come a un fine infinito, e se l’infi¬  nito potesse essere attuato, la natura s’identificherebbe con la li¬  bertà ; la realtà di questo progresso non è nel conseguimento — im¬  possibile — di un fine fissato a un dato punto, ma nel valore sempre  più alto della nostra azione. (Cfr. Léon, op. cit. p. 276).   (*) Ibid. pp. 133-136 (ibid. pp. 129-132). libero, ma per un’ intelligenza fuori di lui, non già per sè  stesso ; per essere libero anche agli occhi propri egli deve  porsi come tale , e come tale non si pone se non allorché  diventa cosciente del suo passaggio dallo stato indetermi¬  nato a uno stato determinato. L’ io determinante e l’io  determinato scftio un solo e medesimo io, prodotto dalla sin¬  tesi del inflettente e del riflettuto , dell’ io-soggetto e del-  1’ io-oggetto. Per siffatta sintesi la concezione di un fine di¬  venta immediatamente azione e l’azione diventa conoscenza  della libertà. Senonchè l’indeterminatezza non è soltanto  uon-determinatezza (ossia zei'o), sì bene un deciso librarsi  tra più possibili determinazioni (ossia una grandezza ne¬  gativa) ; altrimenti essa non potrebbe essere posta e sa¬  rebbe un nulla. Ora, finché non intervenga la facoltà appeti¬  tiva superiore, non si vede in che modo la libertà possa  scegliere tra più determinazioni possibili; perchè: o si  trova in presenza del solo impulso naturale, e allora non  ha nessuna ragione per non seguirlo, anzi ha ogni ragione  per seguirlo; ovvero si trova in presenza di più impulsi  — la quale ipotesi non si comprende nel caso di cui ora  si tratta — e allora seguirà naturalmente il più forte ; nel-  l’una e nell’altra ipotesi, dunque, nessuna possibilità d’in¬  determinatezza. Siccome però l’essere ragionevole non può  esistere senza quella tra le condizioni della sua ragione¬  volezza che si chiama sentimento morale e consapevolezza  della libertà, bisogna bene ammettere, nell’ impulso origi¬  nario delirio, un impulso ad acquistare la coscienza e della  moralità e della libertà. Ma tale coscienza, si è visto, ha per  condizione uno stato indeterminato, e non si produce se l’io  obbedisce unicamente all'impulso naturale ; occorre, dunque,  che vi sia nell’io un impulso o tendenza a trarre dal proprio      Lxvn    seno, e non già dall’impulso naturale, il contenuto o l’oggetto  dell’azione; occorre, in altri termini, che vi sia una ten¬  denza alla libertà per sè stessa-, e che alla libertà formale  — quella per cui lo stesso risultato, che la natura avrebbe  prodotto se avesse potuto ancora agire, nasce invece da un  nuovo principio, da una nuova forza, ossia dalla coscienza  libera — si aggiunga la libertà materiale — quella per  cui si ha non solo un nuovo principio operante, ma altresì  una serie di effetti tutta nuova anche nel contenuto, onde  non solo è l’intelligenza la forza che opera, ma essa in¬  telligenza opera qualcosa di ben diverso da ciò che avrebbe  operato la natura — (‘).   In virtù della libertà materiale io mi sento emancipato  dall’ impulso di natura, gli oppongo resistenza, e tale resi¬  stenza, considerata come essenziale all’ io, quindi come im¬  manente, è essa stessa un impulso, l ’impulso pwro*dell’ io.  L’impulso naturale si manifesta come iuclinazione e, per  il fatto che io posso dominare la sua forza e sottoporla alla  mia libertà, questa forza diventa qualcosa di cui non fo  stima. L’impulso puro, invece, in quanto mi eleva sopra  la natura e mi pone in grado di contrappormele con la  più semplice risoluzione, si manifesta come tale da ispi¬  rarmi stima e da investirmi di una dignità, la quale, es¬  sendo al disopra di ogni natura, m’ impone rispetto verso  me stesso; l’impulso puro, anziché al piacere, porta al di¬  sprezzo del piacere ed esige l’affermazione e la conserva¬  zione della mia assoluta indipendenza e libertà (*).    (*) Ibid. pp. 136-139 (ibid. pp. 132-185).  (*) Ibid. pp. 139-142 (ibid. pp. 135-138). L’adempimento di questa esigenza e il suo contrario  significano rispettivamente l’accordo e il disaccordo tra l’i-  deale tendenza essenziale dell’ io puro all’assoluta libertà e  il reale stato accidentale dell’io empirico ; suscitano, quindi,  il mio interesse — m’interessa, infatti, ossia tocca diretta-  mente il mio sentimento, tutto ciò che lia immediata rela¬  zione col mio impulso fondamentale (‘) —, si accompagnano,  dunque, a piacere o dolore ; ma — e questo è di capitale  importanza — si tratta qui di stati affettivi che non hanno  nulla a fare con l’affettività comune, perchè consistono  in una contentezza e in un disgusto di sè la cui natura  non si confonde mai con quella del piacere o del dolore dei  sensi. Il piacere sensibile che nasce dall’ accordo tra l’im¬  pulso naturale e la realtà non dipende da me in quanto  sono un io, ossia in quanto sono libero ; esso è tale da  strappare me a me, da rendermi estraneo a me stesso e da  farmi dimenticare in esso ; è, in una parola, involontario ,  e questa qualità lo caratterizza nel modo più esatto. Al¬  trettanto vale del suo opposto, ossia del dolore sensibile.  Il piacere morale, al contrario, che nasce dall’accordo tra  l’impulso puro e la realtà, è qualcosa non di estraneo ma  di dipendente dalla mia libertà, qualcosa che potrei aspet¬  tarmi in conformità d’una regola, come non potrei aspet¬  tarmi, invece, il piacere involontario ; esso, quindi, non mi  trasporta fuori di me, anzi mi fa rientrare in me stesso e,  meno tumultuario, ma più intimo del piacere sensibile, m’in-    (‘) Intorno al concetto dell’ interesse il Fichte fa una specie di  digressione ( Sittenlehre, pp. 142-147, nostra traduz. pp. 138-142) per¬  meglio illuminare la sua trattazione sul sentimento morale e sulla  coscienza morale.      fonde, in quanto soddisfazione e auto-stima, nuovo coraggio'  e nuova forza. Similmente il suo opposto, ossia il dolore  morale, appunto perchè dipende dalla libertà, è un rimpro¬  vero interno, si associa a un sentimento di auto-disistima  e sarebbe insopportabile se il sentirci ancora capaci di pro¬  varlo non ci risollevasse dinanzi a noi stessi, e non ravvi¬  vasse la coscienza della nostra natura superiore e della no¬  stra assoluta libertà, insomma la coscienza morale fdas  Oetoissen), vale a dire : la consapevolezza immediata dell’a¬  dempimento del dovere, dell’accordo cioè tra l’azione (nel  mondo della natura) e il fine ideale (la libertà) (‘). '   Ora, la coscienza morale si connette strettamente con  l’impulso morale, il quale è di natura mista, perchè parte¬  cipa a un tempo dell’impulso puro e dell’impulso naturale.  Come ?   Ogni volizione reale tende all’azione e ogni azione si  porta sopra un oggetto : ogni volizione reale, quindi, è em¬  pirica. E poiché non posso agire sugli oggetti se non me¬  diante una forza fisica, la quale non proviene che dal-  I’ impulso naturale, cosi ogni fine concepito dall’intelligenza  finisce per coincidere con 1^ soddisfazione di un impulso  naturale. Certo, chi vuole è l'io -intelligenza non già la na-  /M/'fl-iucoscieuza ; ma, quanto al contenuto, il mio volere  non può avere materia diversa da quella che la natura  vorrebbe anch’essa, se di volere fosse capace : non c’ è li¬  bertà circa la materia delle azioni. E allora quale causalità  rimane all’impulso puro, che pur non può esserne destituito?  Affinchè rimanga una causalità all’ impulso puro, bisogna  che la materia dell’azione sia conforme a esso non meno    *    (') Siltenlekre, p. 146 (nostra trai! uz. p. 142).  che all’ impulso naturale. Tale duplice conformità si com¬  prende soltanto così : 1’ impulso puro nell'operare tende alla  piena emancipazione dalla natura ; ma i limiti che l’attività  dell' io impone a sè stessa costringono l’operare entro i con¬  fini dell’ impulso naturale ; onde l’azione conforme a questo  secondo impulso diventa conforme anche al primo quando  al pari di esso tenda alla piena emancipazione dalla natura,  si trovi cioè in una serie di sforzi, continuando la quale  all’infinito, l’io si approssima sempre più all’indipendenza  assoluta. Deve esservi una serie di tal genere, che muova  dal punto in cui la persona si trova posta per la propria  natura e si prolunghi all’ infinito verso il .fine supremo e  ideale — si badi bene a questo appellativo che esclude  ogni possibilità, di attuazione completa — di ogni attività,  altrimenti uon sarebbe possibile una causalità dell’ impulso  puro : questa serie si può chiamare la destinazione morale  dell’ essere ragionevole finito, e seguendola possiamo sapere  in ogni momento quale è il nostro dovere. Il principio della  morale può, dunque, formularsi cosi : Adempì in ogni mo¬  mento la tua destinazione. Quel che in ogni momento è con¬  forme alla nostra destinazione morale, ossia al fine a cui si  dirige l’impulso puro, è in pari tempo conforme all’impulso  naturale, ma uon tutto quel che è conforme all’impulso natu¬  rale è conforme alla nostra destinazione morale. Appunto  perciò l’impulso morale è misto: esso riceve dall’impulso na¬  turale la materia dell’operare, dall’impulso pui'O la forma;  per esso io debbo agire con la coscienza di adempiere un do¬  vere ; gl’ impulsi ciechi della natura, come la simpatia, la  compassione, la benevolenza spontanea, in quanto tali non  hanno nulla di morale, perchè contraddice alla moralità il  lasciarsi spingere ciecamente. L’impulso morale differisce    — 1.XX1    profondamente dal cieco impulso naturale, e molto ai av¬  vicina all’ impulso puro, perchè la sua causalità è ambigua  (può avere effetto e può anche non averne), perchè esso co¬  manda: sii libero (cioè: sii in grado di fare e di a'stenerti  dal fare). E in questo comando appare per la prima volta  un imperativo categorico, un imperativo che è un prodotto  nostro proprio (nostro in quanto siamo intelligenze capaci  di agire per concetti), e il cui oggetto è il fine non subor¬  dinato a nessun altro fine. L’impulso morale, infatti, non  ha per fine nessun godimento ; esso esige u la libertà per  la libertà „.   È poi evidente in questa formula imperativa il duplice  significato della parola “ libertà „, la quale sta a designare  nel primo posto un operare in quanto tale, ossia un pu¬  ramente soggettivo, e nel secondo posto uno stato oggettivo  che dev’essere conseguito, ossia 1’ ultimo fine assoluto , la  piena nostra indipendenza da tutto ciò che è fuori di noi.  In altri termini : io debbo agire con libertà per divenire  libero; e soltanto determinandomi da me stesso e non se¬  guendo altro che le ispirazioni del sentimento del dovere  agisco con libertà e divengo veramente indipendente dalla  natura, veramente libero. A questa distinzione tra la li¬  bertà come attività e la libertà come risultalo , che è di  così grande importanza nel nostro sistema, se ne aggiunge  un’ altra entro il concetto stesso di libertà intesa come at¬  tività : la distinzione, cioè, tra la forma e la materia del-  1’ attività libera ; distinzione da cui nasce la divisione della  dottrina morale e con cui si passa all’ applicazione siste¬  matica del principio della moralità ; di che si tratta nel  terzo libro (').    (*) Ibid. pp. 142-156 (ibid. pp. 188-152).  Quest’ultimo libro si divide in tre parti: A) la  prima discorre delle condizioni formali della moralità  delle nostre azioni : B) la seconda del contenuto materiate  della legge morale; C) la terza, infine, espone la dottrina  dei doveri propriamente delta.   A) Condizioni formali della moralità delle nostre  azioni. — Il principio formale di ogni moralità può enun¬  ciarsi così : “ opera sempre secondo la convinzione che  hai intorno al tuo dovere „. Questo imperativo o legge  — che presuppone naturalmente e logicamente una libera  volontà (') — si scinde in due precetti, di cui 1’ uno con¬  cerne la forma o la condizione : u procurati la convinzione  di ciò che è tuo dovere „ , 1’ altro la materia o il condi¬  zionato : “ fai ciò che ritieni con convinzione tuo dovere  9 failo soltanto perchè lo ritieni tale Ora, la convinzione  nasce dall’ accordo di un atto della facoltà giudicatrice con  t’ impulso morale, e il criterio della giustezza della nostra  convinzione è un sentimento intimo al di là del quale non  si può risalire, perchè con esso si raggiunge 1’ espressione  diretta della nostra essenza assoluta e della nostra finalità.  Per conseguenza, la coscienza morale, che in quel senti¬  mento ha radice, va immune per natura sua da dubbio e  da errore, non può ingannarsi, nè è suscettiva di rettifiche  da parte di un’ inconcepibile coscienti più interiore, è essa  stessa giudice di ogni convinzione e le sue sentenze non  ammettono appello. Voler oltrepassare la propria coscienza  morale per timore che possa essere erronea, sarebbe come  voler uscire fuori di sè, voler separarsi da sè stesso. È  condizione formale della moralità , quindi, non decidersi   (*) Della volontà iu particolare e della sua natura cosi opposta al  juro meccanismo, il Pielite tratta nel § 14 della Sitlenlehre  (nostra traduz. pp. 155-160).  all’azione se non per soddisfare alla propria coscienza mo¬  rale, all’impulso originario dell’io puro, senza sottostare  ad altra autorità che non sia quella della propria convin-  zione, del proprio giudizio. Chi, dunque, agisce senza con¬  sultare la sua coscienza, senza essersi prima assicurato  j delle decisioni di questa, agisce, come suol dirsi, senza co¬   scienza, e perciò immoralmente, è colpevole e non può im¬  putare la sua colpa ad altri che a sè stesso (*). Similmente  opera senza coscienza, e perciò senza moralità, chi si lascia  guidare dall’autorità altrui, perchè la convinzione della co¬  scienza morale e la certezza della sua giustezza non na¬  scono mai da giudizi estranei, ma traggono origine esclu¬  sivamente dal soggetto : sarebbe una flagrante contraddi¬  zione far-e di qualche cosa che non sono io stesso un sen-  • timento di me stesso. In conclusione: in tutta la nostra  condotta (si tratti della ricerca scientifica, ovvero della  vita pratica) 1’ azione , per essere morale, deve uscire da  un’ intima convinzione, perchè soltanto allora essa esprime  veramente la nostra autonomia spirituale ; ogni azione fatta  per autorità (si tratti dell’ accettazione di una verità che  non risponde in noi a una convinzione, ovvero del compi¬  mento di un’ azione che accettiamo come un ordine) va  direttamente contro il verdetto della coscienza, è male, è  I colpa (*).    (') Giova ricordare che per il Fichte non vi sono azioni indiffe¬  renti; tutte debbono essere riferite alla legge morale, uon foss’altro  per assicurarsi che sono lecite; onde anche le azioni più indifferenti  iu apparenza, vanno sottoposte a matura riflessione, sempre iu vista  della legge morale.   ,(*) Siltenlehre, pp. 1 B8-175 (nostra tradnz. pp. KìO-172). — Risulta  qui ancora una volta definitivamente stabilito il primato della ragione  pratica sulla ragione teorica; di quella ragione pratica che agli occhi E facile argomentare da ciò quale sia la causa del  male o della colpa nell’essere ragionevole finito. Quel che  in generale costituisce l’essere ragionevole trovasi neces¬  sariamente ih ciascun individuo ragionevole, altrimenti  questi non sarebbe più tale. Ora, secondo la legge morale,  P io individuale, finito, empirico, che vive nel tempo, deve  tendere a divenire un’esatta copia dell’Io primitivo, ori¬  ginario, infinito, extra-temporale; ma, sottoposto com’è alla  condizione del t^mpo, non può acquistare la chiara co¬  scienza di tutto ciò che primitivamente e originariamente  fa l’essenza dell’Io, se non mediante un lavoro successivo  e una progressione nel tempo. Finché questo lavoro più o  meno faticoso e questa progressione più o meno lenta non  abbiano compiuto nell’ io empirico individuale il passaggio  dallo stato d’ irriflessione al massimo sviluppo della co¬  scienza morale, c’ è sempre luogo nella nostra condotta al-  l’immoralità, alla colpa, al male. Conviene, dunque, seguire  questa storia dello sviluppo della coscienza emjnrica, per  vedere attraverso quali fasi germogli e maturi il seme della  moralità, notando a tal proposito ohe tutto sembrerà suc¬  cedere come casualmente, perchè tutto dipende dalla libertà,  e in nessun modo da una meccanica legge di natura (').   Anzitutto, e al suo grado pivi dàsso, l’io empirico si  riduce a un’attività istintiva ; l’istinto, senza dubbio, si ac¬  compagna con la coscienza, dista però ancor molto dalla    del Fichte è veramente la ragione, e nella quale si attua l’accordo  dell’essere e dell’agire, dell’oggetto e del soggetto, della produzione e  della riflessione, e che ci fornisce l’intuizione, la coscienza immediata  dell’ Io assoluto. E risulta anche come la morale del Fichte fluisca  per essere in sostanza una morale del sentimento.   (<) Jhid. pp. 177-178 (ibid. pp. 171-175).      riflessione; l’uomo allora segue meramente e semplicemente  M’ impulso naturale e, così facendo, è libero per un’ intelli¬  genza fuori di lui, ma per sè stesso è puro animale.   I Tuttavia l’uomo può riflettere su questo stato; e tale  riflessione è per natura sua un atto di libertà : essa non è  nè fisicamente nè logicamente necessaria, ma soltanto mo¬  ralmente obbligatoria: chi vuole adempiere la propria de¬  stinazione e acquistare in sè la coscienza dell’ Io puro,  deve riflettere su questo suo stato, e mercè tale riflessione  si eleva, quasi, sopra sè stesso, si stacca dalla natura, se  ne distingue e le si oppone come intelligenza libera ; ac¬  quista cosi il potere di differire ‘la propria autodetermi¬  nazione e di scegliere quindi tra più modi — la pluralità  dei modi nasce appunto dalla riflessione e dal differimento  della risoluzione — di soddisfare l’impulso naturale. Tale  scelta si compie secondo una massima liberamente adottata  dall’ io individuale, e perciò profondamente diversa dal prin¬  cipio supremo che scaturisce dalla legge morale e che non  è, come la massima, un libero prodotto della coscienza em¬  pirica ; per conseguenza, nel caso di una massima cattiva,  la colpa spetta tutta all’ io individuale. Ora, in questa se¬  conda fase di sviluppo, dovuta al primo grado della rifles¬  sione, l’io acquista coscienza del fine a cui tende 1’ im¬  pulso naturale, lo fa suo e adotta come regola di .condotta  la massima della felicità. L’uomo rimane dunque ancora  un animale, ma diventa un animale intelligente, prudente:  è già formalmente libero; soltanto mette la sua libertà al  servigio dell’ impulso naturale. La massima della felicità,  per quanto sia un prodotto della sua libertà, non può es¬  sere diversa da quella che è, e, una volta posta, egli le ob¬  bedisce necessariamente. Senonchè la massima stessa, e con essa il carattere ohe ne risulta, non ha nulla di neces-,  sario e non è detto che l’io individuale debba arrestarvi»]/  se vi si arresta è soltanto sua colpa; nulla lo costringe L  progredire, è vero, ma egli deve e può progredire, facenti  uso della propria libertà ed elevandosi liberamente a qn  piu alto grado di riflessione. Il male morale non deriva ile  non dal fatto che l’uomo il più delle volte non esercita la  propria libertà, onde a ragione il Kant riteneva il male  radicale innato nell’uomo e nondimeno prodotto dalla sua  libertà.   Quando però — con nuovo miracolo della sua sponta¬  neità — 1’ uomo, nella fase ora descritta, esercita la pro¬  pria libertà, una seoonda riflessione si compie, che, al pari  della precedente, ha carattere non di necessità fisica o lo¬  gica, ma di obbligatorietà morale, e in virtù di essa nasce  una terza fase, nella quale l’io individuale prende coscienza  della sua opposizione rispetto alla natura e della sponta¬  neità del proprio operare, ed erige questa spontaneità  stessa, ossia la propria volontà, a nuova massima di con¬  dotta. Non piu la ricerca della felicità guida ora le sue  azioni, ma il godimento di un’ indipendenza dal nou-io  la quale non ammette freno al proprio capriccio e fa di sè  stessa il proprio idolo. Si ha, quindi, un progresso verso  la libertà assoluta, ma non ancora la vera libertà morale,  non ancora la volontà riflessa sottoposta alla legge del do¬  vere. Anzi, mentre la massima della felicità è, si, man¬  canza di legge, ma non addirittura rovesciamento della  l e gg®> n ® ostilità contro questa, lt^ massima della volontà  egoistica e arbitraria, invece, può portare sino alla trasgres¬  sione intenzionale della legge. Il carattere della condotta  ispirata a tale massima è soltanto la soddisfazione dell’amor proprio, dell’ orgoglio, del bisogno di dominare, ottenuta a  qualsiasi costo, anche di dolori corporei ; e appunto questa  idolatria della volontà egoistica spiega pressoché tutta la  storia umana : essa riempie grandissima parte del teatro  del inondo con le sue lotte e le sue guerre, con, le sue  vittorie e le sue sconfitte. u II soggiogamento dei corpi e  delle anime dei popoli, le guerre di conquista e di reli¬  gione, e tutti i misfatti cou cui l’umanità si è disono¬  rata non si spiegano altrimenti. Che cosa indusse l'inva¬  sore, l - oppressore a perseguire il proprio fine con pericolo  e fatica ? Sperava egli forse che per tal modo si ac¬  crescerebbero le fonti dei suoi godimenti sensitivi? No  davvero. 1 Ciò ohe io voglio deve accadere, a quel che  io dico si deve stare ’ : ecco 1’ unico principio che lo mo¬  veva „ (‘). Un siffatto culto della volontà egoistica certa¬  mente non è senza una certa aureola di grandezza, poiché  giunge anche al disinteresse: non al disinteresse che deriva  dall' obbedienza al dovere e che solo ha significato morale,  ma a un disinteresse di carattere impulsivo, derivante dal  desiderio di suscitare ammirazione, di cattivarsi stima, e che  rimane tuttora una forma di amor proprio e di orgoglio.  E un culto che porta sino al sacrifizio della vita — e ci  vuole del coraggio a vincere in noi la natura — , ma questo  sacrifizio è senza valore etico, perché è fatto soltanto al  proprio io individuale, è puro egoismo. «Certo, rispetto  alla fase precedente, la quale non mirava che alla felicità  sensibile, la fase ora descritta segna un progresso e sta  come a rappresentare 1’ età eroica dello sviluppo morale ;  ma dal punto di vista della moralità nulla di più perico¬    li Ibid. p. 190 (ibid. p. 186). luso che arrestarvisi, perchè essa ci abitua a considerare  come nobili e meritori, come rari e ammirevoli, come  opera mpererogativa, atti che sono semplicemente dove¬  rosi, e a considerare d’ altra parto tutto ciò che a vantaggio  nostro si fa da Dio, dalla natura, dagli altri uomini, come  nulla più che doveri verso di noi. Con siffatte pretensioni  la massima della volontà egoistica e senza, freno, adottata  in questa fase, è peggiore di ogni altra, perchè finisce ad¬  dirittura col corrompere le stesse radici della moralità :  “ >1 pubblicano peccatore non vale più del fariseo sedicente  giusto, in quanto che nessuno dei due ha il menomo va¬  lore ; ma il secondo è assai più difficile a convertire del  primo „ (*).   Per elevarsi al disopra di questa terza fase basta che  l’uomo — con un terzo atto di riflessione, al pari dei  precedenti spontaneo ma inesplicabile, non necessario ma  obbligatorio — acquisti coscienza chiara di quell’ originario  impulso all’ indipendenza assoluta che, considerato (analo¬  gamente a un eminente grado di capacità intellettuale)  come un dono gratuito della natura, può chiamarsi genio  della virtù, ma che, allo ^tato d’impulso cieco, pi'oduce  un carattere assai immorale. Mercè la riflessione, quell’ im¬  pulso si trasforma in una legge assolutamente imperativa,  e poiché ogni riflessione limita e determina ciò che è ri¬  flettuto, anche quell’impulso sarà limitato dalla riflessione,  e da cieco impulso verso una causalità sconfinata diventerà  una legge di causalità condizionata ; riflettendo, l’uomo sa  di dovere assolutamente qualche cosa ; e affinchè questo  sapere si tramuti in azione, bisogna che egli adotti la mas-    (*) Ibid. p. 191 (ibid. p. 187).  sima : adempì il Ino dovere perchè è tuo dovere. Sorge così  la coscienza morale, la quale impone appunto alla volontà  arbitraria, alla volontà senza regola uè freno della fase pre¬  cedente, l’obbedienza al principio assoluto della ragione.   Una volta conseguita questa chiara coscienza del do¬  vere, la nostra condotta vi si conforma necessariamente,  essendo inconcepibile che noi ci decidiamo di proposito e  con piena chiarezza a ribellarci alla nostra legge, a mancare  al nostro dovere, appunto perchè è la nostra legge, ap¬  punto perchè è il nostro dovere : vi sarebbe in ciò, oltre  che una contraddizione evidente, una condotta veramente  diabolica, se lo stesso concetto u diavolo „ non fosse contrad¬  dittorio (*).   Soltanto può accadere che la chiara coscienza del do¬  vere si annebbii, si oscuri, che la riflessione non si mantenga  sempre alle altezze della moralità, e la nostra condotta,  perciò, cessi di essere conforme alla legge morale. Il do¬  vere primo, quindi, e anche il più alto, è mantenere la  coscienza del dovere in tutta l’intensità della sua luce e  «Iella sua forza. Bisogna vegliare continuamente su noi  stessi, alimentare senza tregua il fuoco sacro della rifles¬  sione; possiamo fare di questa riflessione un’abitudine,  •senza perciò renderla una necessità, senza pregiudizio cioè  della libertà, allo stesso modo diesi può fare un’abitudine  dell’irriflessione, con cui la coscienza empirica comincia, e  persistere in essa, senza renderla perciò una necessità e  senza escludere quindi 1’ esercizio della libertà. Nella sua Ascetih «fa Animili/ zur Murai ( Ascetica conir ap~  pendice alta Morale) i 1708) — contenuta in Nuahgelarsene Werke ,   voi. Ili, pp. 119-144 e tradotta in inglese dal Kroeger nel voi. Se la coscienza morale svanisce del tutto, si da non  lasciar sopravvivere più nessun sentimento del dovere, noi    The sciunce of Elltics bij Fichte (1907) dianzi ricordato — il Pielite  si adopera a fornire il mozzo pratico per mantener viva o luminosa,  una volta nata per opera della libertà, la coscienza del dovere, 'l'ale  mezzo consiste ned’associazione delle idee, intermediaria tra la ne¬  cessità della natura e la libertà della ragione, e precisamente nel-  l’associare in precedenza la rappresentazione dell'atto futuro con  la rappresentazione dell’atto conforme al dovere. Occorre, in altri ter¬  mini, che i due propositi : 1) voglio fare quest’ azione, 2) non voglio  agire se non conforme al dovere, siano indissolubilmente uniti in  ima sintesi, e la funzione propria dell’ Ascetica consiste appunto in  questa associazione permanente e anticipata del concetto del do¬  vere non solo col concetto della nostra condotta in generale il che  sarebbe ancora troppo vago e astratto — ma con i concetti di azioni  determinate, soprattutto di quelle abituali, quotidiane, in cui più fa¬  cilmente possiamo peccare per omissione o violazione del dovere;  mentre invece per le azioni eccezionali e straordinarie difficilmente  manca I intervento della riflessione e la conseguente chiarezza della  coscienza. Di qui due regole: 1) un esame di coscienza generale dei  casi in cui siamo più esposti al pericolo di cadere in colpa; 2) la  risoluzione ferma e sempre attiva di ridettero, in questi casi, sopra  noi stessi e di sorvegliarci, opponendo alla forza cieoa e alla resi¬  stenza passiva di certi stati di coscienza, divenuti abitudini quasi  invincibili, la causalità iutelligAte della coscienza morale: è noto  ohe spesso basta ridettero sulla propria passione e rendersi consape¬  voli delle associazioni che la costituiscono per liberarsene, dissociando  mentalmente i fattori da cui nasce e controbilanciando il piacere  che ci aspettiamo dal suo soddisfacimento col disprezzo che accom¬  pagna la trasgressione del dovere. Ma, affinchè l’esame della propria  coscienza abbia valore etico, bisogna che non si riduca a una pura  aulocontemplazione, a un’ analisi fatta quasi per semplice giuoco  estetico; bisogna, invece, che si proponga la nostra riforma morale,  il miglioramento della nostra attività. Tale esortazione, del resto, si  rivolge non già agli uomini privi di coltura, la cui vita é tutta ri¬  volta all’azione, ond’essi non ridettono se non per agire, ma agli  artisti, ai letterati, e persino ai lilosotì e ai sacerdoti, per i quali è  frequente il grave pericolo di dimenticare il valore pratico delle coso,  di arrestarsi alla contemplazione e di nou tradurre la speculazione  in azione. ricadiamo in uno degli stati che precedono la moralità e  operiamo secondo la massima o della felicità o del dominio  arbitrario della nostra volontà egoistica. Se, invece, ci ri¬  mane ancora un sentimento vago e intermittente del dóvere.  possono verificarsi le seguenti tre specie d’indeterminatezza  corrispondenti alle tre condizioni che rendono determinato  il dovere. L’indeterminatezza può concernere: a) la materia  del dovere, cioè l’applicazione della legge morale a un dato  caso : in ciascun singolo caso tra più azioni possibili non  ce n è che una conforme al dovere ; ma, per insufficiente  attenzione e riflessione, noi cediamo segretamente, e quasi  a nostra insaputa, a qualche altra sollecitazione e perdiamo  il filo conduttore della coscienza ; b) il momento del do¬  vere : in ciascun singolo caso si deve adempiere subito  ciò che è dovere; ma, per l’affievolirsi della coscienza, ci  illudiamo che non occorra affrettarsi a ciò, procrastiniamo  il nostro perfezionamento e ci abituiamo a procrastinarlo  all’ infinito ; c) la forma del dovere : l’imperativo mo¬  rale è categorico, esige obbedienza assoluta e incondi¬  zionata ; ma, se perdiamo di vista tale sua caratteristica,  consideriamo il dovere, anziché come un comando, come  un semplice consiglio che si può seguire quando piaccia e  non costi troppa abnegazione, e con cui si può anche  transigere; di qui quei compromessi, quegli accomodamenti  con la propria coscienza che sono altrettanti modi di elu¬  dere la legge morale, altrettante cause di torpore per la  riflessione, e che pongono nel massimo pericolo la nostra  salvezza spirituale, quando per caso non sopravvenga  dall’esterno una forte scossa, la quale ci sia occasione a  rientrare in noi, a ravvederci. Quest’ultima maniera d’in¬  tendere il dovere, infatti, accusa la morale di rigorismo impraticabile, sotto lo specioso pretesto che l’ adempimento  del dovere impone troppi sacrifizi, quasi che non fosse ap¬  punto in ciò 1’ obbligo nostro: nel sacrificar tutto al dovere,  la vita, l’onore e ogni cosa all’uomo più caramente di¬  letta (*).   Quale che sia il modo di oscurarsi della coscienza, si  può dire in generale che la causa di questo suo oscurarsi  e del conseguente smarrirsi della moralità, la causa iu-  somma del male, va ricercata in una sconfitta della libertà.  Se la riflessione che ci eleva alla libertà consiste in una  creazione da parte della libertà e quasi in un colpo di  grazia che ci strappa all’oppressione della natura, il man-  tenimento della chiara coscienza del dovere non può es¬  sere che un perpetuo riprodursi di questo atto creativo,  una creazione continuata, uno sforzo incessante della ri¬  flessione, dell’ attenzione ; e appunto perciò al menomo affie¬  volirsi della nostra vigilanza consegue la nosti-a caduta e  il trionfo delle forze antagonistiche della natura, le quali  sono sempre e necessariamente in azione : tosto che cessa  lo sforzo morale, l’impulso^ naturale inevitabilmente ha il  sopravvento e, con la luce della coscienza, si spegue anche  la virtù. Ogni uomo, dallo stato di natura, con cui s’inizia  la sua vita in una specie d’innocenza — perchè sono ancora  ignorati gli stati superiori in cui l’innocenza primitiva  assume aspetto di colpa —, perviene necessariamente alla  coscienza di sé stesso : a ciò gli basta riflettere sulla li¬  bertà che ha di scegliere tra più azioni possibili per sod¬  disfare 1’ impulso naturale; siamo allora in quella fase in  cui egli opera secondo la massima dell’ interesse o della    (') Siuenlehre, pp. 192-197 (nostra traduz. pp. 186-193). felicità. In questo grado di sviluppo rimano volentieri, trat- '  tenutovi dalla forza d 'inerzia che l’uomo, in quanto essere  sensibile, ha in comune con tutta la natura fisica. È vero  che, in virtù della sua natura superiore, egli deve 'strap¬  parsi a questo stato, e può farlo perchè dotato di libertà ;  ma proprio la sua libertà è impedita in questo stato, essendo  essa alleata con quella forza d'inerzia, da cui dovrebbe in¬  vece svincolarsi ; come farà egli a elevarsi alla libertà,  quando per questa elevazione stessa deve far uso della  libertà ? donde attingerà la forza che faccia da contrap¬  peso nella bilancia per vincere la forza d’inerzia ? Cer¬  tamente non nella sua natura empirica, la quale in nessun  modo fornisce alcunché di simile ; gli occorre, dunque, un  aiuto superiore ; 1’ uomo naturale qui non può nulla da sé:  vedremo presto da qual miracolo sarà salvato.   Intanto sappiamo che F inerzia , la pigrizia — la quale  a forza di riprodursi indefinitamente diviene impotenza  morale — è il vizio radicale, il male innato, il peccato  originale: l'uomo è per natura pigro, dice assai giusta¬  mente il Kant. — Da pigrizia nasce immediatamente viltà,  il secondo vizio fondamentale dell’ uomo ; la viltà è la  pigrizia d’affermare la propria libertà e indipendenza  nello scambio ili azione con gli altri : donde tutte le specie  di schiavitù fisica e morale tra gli uomini. In genere si ha  abbastanza coraggio dinanzi a coloro di cui si conosce la  debolezza relativa, ma si è disposti a cedere, a umiliarsi,  dinanzi a una supposta e temuta superiorità qualsiasi ; si  preferisce la sottomissione piuttosto che lo sforzo neces¬  sario a resistere; precisamente come quel marinaio che pre¬  feriva le eventuali pene dell’ inferno al lavoro faticoso di  correggersi in questa vita. — Il vile si consola di questa sottomissione forzata con 1’ astuzia e con la frode ; da viltà  nasce inevitabilmente il terzo vizio fondamentale : falsità.  È questa il risultato di uno sforzo indiretto che si compie  per ricuperare l’indipendenza perduta, quell’indipendenza  che nessun nomo può sacrificare ad altri cosi interamente  come il pigro finge di fare per essere dispensato dalla fatica  di difenderla in aperta battaglia. Falsità, menzogna, ma¬  lizia, insidia derivauo dall’esistenza di un oppressore, e  ogni oppressore deve aspettarsi tali frutti. Soltanto il vile  è falso; il coraggioso non mente e non è falso: per orgo¬  glio, se non per virtù.   Ma come pud aiutarsi l’uomo, quando in lui è radi¬  cata la pigrizia, la quale paralizza appunto l’unica forza  con cui' egli deve aiutarsi ? che cosa gli mauca propria¬  mente? — Non già t la forza, che egli ben possiede, ma la  coscienza della forza e l’Impulso a farne uso. — E donde  gli verrà questo impulso? — Non da altra foute che dalla  riflessione: è necessario che 1’ io empirico, avendo in sè l’im¬  magine dell’Io assoluto, e vedendosi in tutta la propria  bruttezza, senta orrore di sè ; soltanto per questa via potrà  formarsi la coscienza di quel che deve essere, soltanto di  là verrà l’impulso. In genere gl’ individui che formano la  grande maggioranza degli uomini hanno bisogno di ap¬  prendere la propria libertà da altri individui liberi, che  essi contemplano come modelli ; ma vi souo nella moltitu¬  dine spiriti eletti a cui fu dato di essere gl’ iniziatori della  moralità e quasi i primi maestri dell' umanità, per es. i  fondatori di religione. Si comprende come costoro, non  avendo attinto dall’ esempio altrui la consapevolezza della  propria indipendenza, e non trovando nella propria natura  empirica il principio dell’ emancipazione da questa natura empirica, si credano ispirati dall' alto da una grazia so¬  prannaturale, da uno spirito divino, mentre invece non han  fatto che obbedire alla propria natura superiore, all’Io as¬  soluto, di cui l’io finito e individuale deve divenire la  copia fedele ( J ).   B) Contenuto materiale della legge morale, ovvero  veduta sistematica dei nostri doveri. — Una volta eman¬  cipato dalla schiavitù della natura e divenuto cosciente  della propria libertà formale, 1’ uomo deve far uso di questa  per compiere l’infinita serie di azioni diretta verso 1’ as¬  soluta libertà materiale. Quale la materia di queste azioni?  In qual modo 1’ io individuale si eleverà gradatamente sino  a quell’ indipendenza assoluta, a quello stato oggettivo di  libertà, che è il fine ultimo della sua libera attività sog¬  gettiva? — L’accennammo già: l’attuazione dello stato di  libertà non si ottiene se non determinando il mondo in  funzione della libertà stessa, operando cioè come chi  considera e tratta le cose dal punto di vista non della  loro esistenza data, ma della loro finalità, non del loro es¬  sere, ma del loro dover-essere, e le modifica perciò e le  adatta progressivamente nella direzione di questa finalità,  di questo dovere. Tale determinazione del mondo secondo  1’ idea della libertà, determinazione posta come obbligatoria  e come praticamente necessaria, costituisce il sistema dei  nostri doveri, la materia della moralità. In altri termini, la  morale propriamente detta non è che l’insieme delle con¬  dizioni a cui il mondo va sottoposto e a cui deve prestarsi  per essere strumento all’ attuazione della libertà.   Queste condizioni possono ridursi a tre, perchè triplice è il punto di vista da cui può considerarsi il mondo. Il  mondo si può considerare : a) in sè, come pura e semplice  materia, come natura corporea ; b) nel suo rapporto col  pensiero, come materia di conoscenza ; c ) nel suo rapporto  col volere, come oggetto indispensabile all’ esercizio dell’ at¬  tività, come il luogo d’incontro delle molteplici sfere di li¬  bertà individuale, come il teatro della società. E per la  morale si tratta appunto di mostrare a) nella nostra na¬  tura corporea, b) nella nostra intelligenza, c) nella nostra  vita sociale, gli strumenti per l’attuazione della libertà, la  quale non può divenire reale se non operando sul mondo  oggettivo, per mezzo del corpo, dell’intelligenza e della  società. Come, dunque, dobbiamo trattare, in vista del fine  ideale da raggiungere, a) il corpo, b) l’intelligenza, c) la  società ? ' «   a) Il nostro corpo, essendo da una parte prodotto  di natura, dall’ altra strumento della causalità del concetto,  funziona da intermediario tra la necessità e la libertà. La  volizione si esercita immediatamente su di esso, e per esso  modifica mediatamente il mondo esterno secondo i nostri  concetti. Di qui risulta chiaro un triplice dovere rispetto  al corpo : 1) un dovere negativo : non far mai del proprio  corpo il fine ultimo delle proprie azioni ; 2) un dovere po¬  sitivo : conservare e coltivare il proprio corpo nell’interesse  della libertà ; 3) un dovere limitativo : evitare come illecito  ogni piacere corporeo che non si riferisca al fine ultimo  della nostra attività. u Mangiate e bevete in onore di Dio:  se questa morale vi sembra troppo austera, tanto peggio  per voi ; non ce n’ è un’ altra „ L’intelligenza è la forma indispensabile attraverso  cui può attuarsi la libertà, poiché soltanto la riflessione  dà alla libertà la sua legge; fuori dell’intelligenza ci sarà  1’ istinto cieco, non già la coscienza morale ; l’intelligenza  è il veicolo stesso della moralità. Diciamo di più-: per la  legge morale , mentre il corpo è condizione materiale pu¬  ramente esterna e soltanto della sua causalità, l’intel¬  ligenza è condizione materiale veramente interna e di  tutta quanta la sua essenza. Di qui un triplice dovere  anche verso l’intelligenza : 1) un dovere negativo : non  subordinare mai materialiter — ossia nelle sue ricerche  e cognizioni — l’intelligenza a nessuna autorità, foss’anche  quella della legge morale ; la ricerca da parte della ragione  teorica dev’ essere assolutamente libera e disinteressata ,  non deve preoccuparsi di altro che non sia l’acquisto  della conoscenza ; 2) un dovere positivo : formare l’intel¬  ligenza il più possibile ; il più possibile imparare, pensare,  indagare ; 8) un dovere limitativo : subordinare formaliier  l’intelligenza alla moralità, la quale rimane sempre il fine  supremo ; riferire al dovere tutte le nostre investigazioni ;  coltivare la scienza non per curiosità ma per dovere, es¬  sendo essa strumento di moralità (').   c) La società, infine, può dirsi addirittura l’espres¬  sione vivente della libertà , in quanto questa non si con¬  cepisce come qualcosa d’individuale, ma soltanto come  una recijjrocanza di rapporti tra più individui corporei,  intelligenti e volenti. L’ideale della libertà, quindi, si  attua non nel singolo uomo , ma nella comunità di tutti  gli uomini, in seno alla quale V individuo diviene persona.  e senza la quale per l’ individuo nessun perfezionamento,  anzi nemmeno l’esistenza stessa, sarebbe possibile, essendo  individuo e società termini correlativi, coudizionantisi a  vicenda. Se così è, se 1’ io empirico non può porsi altri¬  menti che come individuo, e se come tale non può pre¬  scindere dai suoi rapporti con la società , che vai quanto  dire dalla esistenza di altri individui e dalla loro libertà,  è evidente che egli non può voler sopprimere questa esi¬  stenza e questa libertà, da cui sono determinate l’esistenza  e la libertà sua propina. La mia tendenza all’indipendenza  assoluta, fine supremo della mia attività, è dunque subor¬  dinata alla libertà .degli altri. Le libere azioni degli altri  sono gli originari punti di confine della mia individualità,  e a esse io reagisco f non meno liberamente, autodetermi-  nandomi a quella serie di azioni che prescelgo e da cui  uscirà costituita la mia personalità, non essendo io se non  quel che mi fo • con le mie azioni, e non consistendo il  mio essere in altro che nel mio operare. Soltanto che  mentre il mio operare, rispetto a quegli originari punti di  confine della mia individualità, ossia rispetto ai liberi in¬  flussi degli altri , mi appare 1’ effetto della mia assoluta  autodeterminazioue, della mia libera causalità, quei punti  di confine , quei liberi influssi^ degli altri , invece , mi ap¬  paiono come predeterminati p priori ; alla stessa guisa  che dal punto di vista altrui s’invertono le parti , e agli  altri appare liberamente autodeterminato il loro agire su  di me e predeterminato a priori il mio reagire su di loro.  Il che dà luogo , è vero , a un’ antinomia tra predetermi¬  nazione e autodeterminazione, ma a un’ antinomia che si  risolve facilmente cosi : tutte le azioni libere (le mie come  le altrui) sono predeterminate ab aeterno (ossia fuori del tempo) dalla ragione universale ; ma il momento in cui  ciascuna deve accadere e gli attori di essa non sono pre-  ^ determinati : ecco, quindi, predestinazione e libertà perfet¬  tamente conciliate (*). Ciò premesso - è evidente il-dovere  fondamentale verso la società : non impedire , con 1’ eser¬  cizio della propria libertà, la libertà degli altri, hou trat¬  tare gli altri uomini come cose, come semplici strumenti  della propria libertà. Ma anche nell’ interno di questo do¬  vere sembra annidarsi un’ antinomia : da una parte devo  tendere all’ indipendenza assoluta , all’ emancipazione da  ogni limitazione, dall’altra devo rispettare la libertà altrui,  la quale è una vera limitazione alla mia libertà ; da una  parte devo agire sul moudo sensibile si da farne, come il  mio corpo, il mezzo per giungere al line supremo , all’ as¬  soluta libertà, dall’ altra non mi è lecito modificare i pro¬  dotti della libertà altrui. Come comporre questa nuova  contraddizione ? Non difficile la soluzione : basta supporre  tra le molteplici libertà individuali , anziché contrasto,  vera comunanza di azione ; se dal punto di vista giuridico  occorre una forza coercitiva (l’autorità dello Stato), la  quale, restringendo l’esercizio delle libertà individuali an¬  tagonistiche , renda possibile il loro mutuo sviluppo , dal  punto di vista morale, invece, tutti gli individui sottostanno  alla medesima legge, tutti perseguono il medesimo fine ,  tutti sono in certo qual modo identici nella loro condotta  conforme al dovere. perchè tutti hanno il medesimo do¬  vere, e l’emancipazione degli uni, lungi dall’opporlesi, è  necessaria all’ emancipazione degli altri, perchè l’indipendenza di ciascuno va di pari passo con l’indipendenza di  tutti, perchè la libertà , intesa nel senso morale, non si  attua se uon uella collettività, degli esseri liberi. Dunque,  non già limitazione o interferenza tra le libertà indivi¬  duali, sì bene confluenza, collaborazione a un’opera comune,  al trionfo della ragione : il rispetto della libertà altrui è  qui compatibile con 1’ esercizio assoluto della libertà pro¬  pria, perchè questa e quella si accordano e si completano  reciprocamente, la liberazione dell’uno è in pari tempo la  liberazione di tutti.   E invero , 1’ originaria tendenza all’ indipendenza as¬  soluta non si riferisce a un determinato individuo ; ha per  oggetto la libertà assoluta, l’autonomia della ragione in  generale. L’ultimo fine della moralità è il regno della  ragione in quanto ragione, il che non si ottiene se non  nella comunanza e con la cooperazioue di tutti gli esseri  che partecipano della ragione, di tutta l’umanità ; la libertà,  — ripetiamo — non hì concepisce sotto la forma dell' in¬  dividualità, essa è di natura essenzialmeute sociale e uni¬ versale, e non si attua nel singolo uomo se uon in quanto  questi da u individuo „ si eleva a “ persona „ per confon¬  dersi in ispirito con tutti, gli esseri ragionevoli. Di qui  trae luce e spiegazione la nota formula kantiana : u Opera  in modo da poter pensare la massima della tua volontà  come principio d’ una legislazione universale „ , formula  più euristica che costitutiva della moralità, perchè non è  un principio — come sembrava al Kant, a cui il metodo  da lui adottato interdiceva di penetrare sino al fondo delle  cose — ma soltanto una conseguenza di quel vero prin¬  cipio che consiste nel comando dell’ assoluta indipendenza della ragione ('). Di qui deriva la necessità che tutti-siano  veramente liberi , che nessuno sia impedito nell* esercizio  dulia ragione e nell’adempimento del dovere, che ciascuno  si adoperi ad avvicinare sempre più quell’ ideale" — per  quanto destinato a rimanere sempre un ideale — che è  la moralizzazione dell’umanità. Soltanto l’uso della libertà  contrario alla legge morale ho il dovere di annullare ; ma  siccome ciascuno deve operare secondo le proprie convin¬  zioni , cosi mi è lecito cercar di determinare o modificare  soltanto la convinzione degli altri, mai la loro azione. E  poiché non si può agire sulle convinzioni degli altri uomini  se non vivendo in mezzo a essi, anche per questa via si  ribadisce la necessità morale della società e il dovere per  ognuno di vivere in essa. Segregarsi dalla società significa  rinunziare ad attuare il fine della ragione ed essere indif¬  ferente al propagarsi della moralità, al trionfo della libertà,  al bene dell’ umanità ; “ chi si propone di aver cura sola-    (*) Ilari, p. 234 ibici. pp. 229-230). Secondo il Fichte la suddetta  formula kantiana va intesa non già nel senso : — perchè un quid  può essere principio di una legislazione universale, perciò dev’essere  massima della mia volontà — ma nel senso opposto : — perchè un  quid dev’ essere massima della mia volontà, perciò può essere anche  principio di uua legislazione universale — ; in altri termini, non la  forma determina il contenuto della moralità, ma il contenuto deter¬  mina la forma: se la moralità ha per contenuto 1’ attuazione universale della ragione, ne segue che ciascun individuo il quale operi di-  siuteressatameute, secondo ragione, può pensare la propria condotta  come un dovere per chiunque altro operi nelle medesime circostanze ;  la proposizione kantiana, appunto con questa universalizzazione della  condotta individuale , non fornisce altro che un eccellente mezzo di  controprova per accertarci se, agli effetti della morale , la condotta  di un individuo sopporti o no universalità, possa o no erigersi a  legge per tutti: è perciò una proposizione euristica, non già costitu¬  tiva della moralità. mente di sè , dal lato morale, in verità non ha cura nep¬  pure di si, perchè suo fine ultimo dev’essero il prendersi  cura di tutto il genere umano, la sua virtù non è virtù,  ma soltanto im servile, venale egoismo....; non già con una  vita eremitica, dedita a pensieri sublimi e speculazioni  pure, non già col fantasticare , ma soltanto con 1’ operare  nella e per la società si soddisfa al dovere (*).   La necessità etica della società e il dovere che ne  deriva all’ individuo di vivere in essa e di lavorarvi alla  moi'alizzazione degli uomini, operando sul loro spirito e  formando le loro convinzioni, implica l’istituzione di quella  repubblica morale che i?i chiama la Chiesa e che è condi¬  zione indispensabile per la reciproca azione sociale diretta  a produrre credenze pratiche concordi e con esse il pro¬  gresso della moralità. La Chiesa , infatti, rappresenta nel  suo simbolo, accettato da tutti i suoi membri, quell’accordo  primitivo e, a dir così, minimo, che solo rende possibile  una comunità spirituale. Ma il simbolo non è, nè può es¬  sere, che un punto di partenza o un mezzo, nou già un  punto di arrivo o uu fine ; esso è indefinitamente perfet¬  tibile mercè la continua reciproca azione degli spiriti gli  uni sugli altri e il conseguente sviluppo della moralità ,  e non può, quindi, rimanere fisso e invariabile. Così, ap¬  punto, l’intende il protestantismo. Iuvece, come fa il pa¬  pismo, lavorare pur contro la propria convinzione a man¬  tenere il simbolo in una fissità assoluta, a rendere la ra¬  gione stazionaria, a costringere gli altri in una fede già  superata , significa, oltre che ignoranza , trasgressione del  dovere, perchè allora si fa del simbolo non più 1’ espres-    (') Ibid. p. 235 (ibid. p. 230).     xeni    sione puramente prdVvisoria di un accordo destinato a  permettere la discussione delle diverse opinioni in vista  dell’ ulteriore sviluppo morale della comunità, ma la for¬  mula definitiva di una verità assoluta e immutevole, il  che sta in recisa opposizione con lo spirito della moralità,  la cui essenza consiste nello sforzo e nel progresso all’ in¬  finito (*).   Come la Cliiesa è istituzione necessaria al perfeziona¬  mento morale per quanto riguarda le convinzioni interne,  così lo Stato è istituzione necessaria per quanto riguarda  le azioni esterne, 1’ operare sul mondo sensibile. Ciò che  sta fuori del mio corpo, ossia tutto il mondo sensibile , è  patrimonio comune e il coltivarlo secondo le leggi della  ragione non spetta a me soltanto, ma a tutti gli individui  ragionevoli ; di guisa che il mio operare su di esso inter¬  ferisce con l’ operare degli altri, e può accadermi , perciò,  di arrecar danno alla libertà altrui, quando il mio operare  non sia all’ unisono con 1’ altrui volontà : il che assoluta-  mente non mi è lecito. Quel che interessa tutti io non  posso fare senza il consenso di tutti, e senza seguire,  quindi, principi universalmente accettati, previo accordo,  tacito o esplicito, circa una parziale restrizione volontaria  e generale delle diverse libertà individuali. Il consenso a  questa restrizione e 1’ accordo che determina i comuni di¬  ritti e la reciproca azione sul mondo sensibile è oggetto  del cosidetto contratto sociale e costituisce lo Stato. Lo  Stato , grazie alle leggi conosciute e accettate da tutti i  cittadini , rende possibile a ciascuno di essi di conciliare  l’esercizio della propria libertà col rispetto dovuto alla    (') Ibid. p. 230 e pp. ‘241-245 (ibid. p. 231 e pp. 233-240). libertà degli altri; rende passibile, iu altri termini, preve¬  nendo eventuali conflitti nell’incontro delle libertà indivi¬  duali, quella convivenza sociale die è condizione strie iy ua  non della moralità'; di qui il suo alto significato e il suo  valore etico (').   La necessità del simbolo nella Chiesa, il rispetto delle  leggi nello Stato, impongono, non tanto alle convinzioni  dell’ individuo — le quali sono incoercibili — quanto alla  loro manifestazione e comunicazione, certi limiti che non  si possono oltrepassare senza mettersi fuori del simbolo o  fuori della legge, fuori, iusomma, della comunità morale e  civile ottenuta iu un dato momento del progresso umano.  E pur tuttavia si è tenuti non solo a formarsi una con¬  vinzione indipendente da ogni autorità, ma anche ad affer¬  marla e parteciparla agli altri. Come conciliare questa con¬  traddizione tra 1’ assoluta libertà delle singole coscienze e  il rispetto alla fede comune ? come risolvere questo con¬  flitto di doveri ? Non altrimenti che mediante una limita¬  zione reciproca dei due doveri , che vai quanto dire : am¬  mettere la libertà assoluta delle convinzioni e della loro  comunicazione, ma circoscrivere questa libertà e questa  comunicazione a quel particolare gruppo sociale che è il pubblico dotto. E invero, l’assoluta libertà delle convinzioni e della  loro comunicazione, se è impraticabile nel vasto ambito  della Chiesa e dello Stato , perchè per essere morale do¬  vrebbe raccogliere — cosa impossibile — 1’ adesione una¬  nime di tutti i membri della comunità chiesastica e politica, è, invece, praticabile nel ristretto pubblico dei dotti,  il quale sta come anello di congiunzione tra la convinzione  comune e la privata.   Il carattere distintivo del pubblico dotto è uifa asso¬  luti libertà e indipendenza di pensiero ; il principio della  sua costituzione è la massima di non sottoporsi a nes¬  suna autorità , di basarsi in tutto sulla propria riflessione  e di rigettare assolutamente da sè tutto ciò che non sia  da questa confermato. Nella repubblica dei dotti non è  possibile nessun simbolo, nessuna direttiva prestabilita,  nessun riserbo ; tra dotti si deve poter dichiaral e tutto  ciò di cui si è persuasi, appunto come si oserebbe dichia¬  rarlo alla propria coscienza ; giudice della verità sarà il  tempo, ossia il progresso della coltura. E come assoluta¬  mente libera è l’investigazione scientifica, così pure libero  a tutti deve essere 1’ adito a essa. Per chi nel suo intimo  non può più credere all’ autorità , è contro coscienza con¬  tinuare a credervi, è dovere di coscienza associarsi al pub¬  blico dotto. Lo Stato e la Chiesa debbono tollerare i dotti,  altrimenti violerebbero» te coscienze, perchè nessuna po¬  tenza terrena ha il diritto d’imporsi in materia di co¬  scienza. Lo Stato e la Chiesa debbono anzi riconoscere la  repubblica dei dotti, perchè questa è condizione del loro  progresso morale , in quanto che soltanto in essa possono  elaborarsi i concetti che modificheranno , perfezionandoli,  e il simbolo e la costituzione dello Stato: sin anche come  pubblici ufficiali — per es. nelle università — i dotti pos¬  sono lavorare all’educazione degli uomini e alla formazione  scientifica degli insegnanti e dei funzionari tutti della  Chiesa e dello Stato. È da aggiungere, però, che il dotto,  insieme con l’incontestabile diritto che ha all’ esistenza, all' indipendenza e alla massima libertà di ricerca e cri¬  tica nel campo del pensiero, lia anche il preciso dovere  di sottomettersi all’autorità della Chiesa e dello Stato nel  campo deU’azioue ; onde non è lecito a chi ne faccia parte  nè diffondere le propine convinzioni, ancora discutibili e  non universalmente accettate, tra i fedeli e i cittadini  che vivono fuori della repubblica dotta, nè , tanto meno ,  attuarle senz’ altro nel mondo sensibile , minando cosi, o  addirittura sovvertendo, senza il consenso di tutti, gli ordi¬  namenti e i poteri costituiti ; Stato e Chiesa hanno il di¬  ritto di impedire ciò. Sarebbe un’oppressione della coscienza  proibire al predicatore di esporre in scritti scientifici le  sue convinzioni dissenzienti, ma rientra perfettamente nel-  1’ordine vietargli di portarle sul pulpito, ed egli stesso,  se'è illuminato, sentirebbe la propria immoralità quando  facesse così.   In conclusione: l’ultimo fine di ogni attività sociale  è l’accordo universale tra gli uomini, accordo non possibile  se non sul puro ragionevole, perchè qui soltanto ritrovasi  ciò che agli uomini è comune. Col presupposto d’ un tale  accordo cade la differenza tra un pubblico dotto e un pub¬  blico non dotto ; scompaiono anche Chiesa e Stato. Condi¬  videndo tutti le medesime convinzioni, a che servirebbe  più il potere legislativo e coercitivo dello Stato? Riunite  tutte le coscienze individuali nella visione diretta della  verità assoluta, a ohe servirebbero più i simboli provvisori  e mutevoli della Chiesa ? Il pensiero e l’azione di ciascuno  confluirebbe col pensiero e 1’ azione di tutti, la legge mo¬  rale troverebbe la sua espressione nella sublime armonia  di tutti gli esseri ragionevoli e buoni, nella suprema comu¬  nione dei santi, l’io empirico e individuale, completamente liberato da ogni limitazione, svanirebbe completamente in  seno all’Io puro e assoluto, si attuerebbe, insomma, nella  realtà l’Ideale, l’Infinito, Dio. Il contenuto materiale della  moralità è tutto in Questo perenne e progressivo attuarsi  del regno della ragione nel regno della natura, è tutto in  questa ascensione, in quest’approssimarsi del mondo verso  lo Spirito, vei’so la Libertà (').   C) Dottrina dei doveri propriamente detta. Da  quanto precede risulta evidente che l’io empirico q la  persona è soltanto mezzo all’ attuazione del fine supremo  morale. La proposizione del Kant : L’uomo è /ine in se,  è giusta purché completata così : l'uomo è fine in .sr. ma  per gli altri. Siccome la legge si dirige a ciascuno e il  suo fine è la ragione in generale , ossia 1’ umanità tutta  quanta , ne segue che tutti sono fine a ciascuno , ma nes¬  suno è fine a se stesso ; 1’ attività di ciascuno è semplice  strumento per attuare la ragione. Con che la dignità del-  1’ uomo non è abbassata, è anzi inalzata, poiché a ciascun  individuo vien affidato il raggiungimento del fine univer¬  sale della ragione e dalla cura e dall’ attività di lui di¬  pende l’intera comunità degli esseri ragionevoli, mentre  egli , invece, non dipende da nulla. Ciascuno diventa Dio  nella misura che gli è possibile , ossia con riguardo alla  libertà degli altri, e appunto perchè tutta la sua iudivi-  dualità scompare, egli diventa pura rappresentazione della  legge morale nel mondo sensibile, vero Io puro. Errano  di molto coloro che pongono la perfezione in pie medita¬  zioni, in un devoto covare sopra sé stessi, e di qui aspet¬  tano l’annientarsi della propria individualità e il loro con-    (‘) Ibid. pp. 248-253 (ibid. pp. 243-248).  fluire culi la divinità; la loro virtù è, o rimane, e geliamo ;  essi vogliono fare perfetti soltanto se stessi. La vera virtù,  invece, consiste nell’operare, e nell’operare per la comu¬  nità : è quindi oblio, abnegazione intera di sè nell’interesse  della totalità degli esseri ragionevoli.   Se cosi è, se l’io empirico o individuale serve sola¬  mente di mezzo all’attuazione del fine supremo, ossia all’av¬  vento del regno della ragione, ne segue che i doveri verso  l’io empirico sono mediati e condizionati di fronte a quelli  che, riferendosi direttamente al fine supremo , diconsi im¬  mediati e incondizionati, ossia assoluti. Senonchè la pro¬  mozione del fine supremo è possibile soltanto in virtù di  una ben disegnata divisione di lavoro, altrimenti potrebbe  molto accadere in più modi, e molto non accadere affatto.  È necessario, dunque, attuare una tale divisione di lavoro,  mediante 1’ istituzione di divei'se professioni , da cui na¬  scono doveri diversi, che diremo particolari o trasferibili  (perchè s’impongono soltanto a chi abbia scelto quella  data professione) di fronte ai doveri che sono generali o  intrasferibili (perchè s’impongono indistintamente a tutti  gli esseri umani). Combinando questa seconda classifica¬  zione dei doveri, fatta dal punto di vista del soggetto  della moralità, con la precedente, fatta dal punto di vista  dell’oggetto della moralità, si hanuo quattro specie di  doveri :   1) generali condizionati   2) particolari condizionati   3) generali incondizionati   4) particolari incondizionati. I doveri generali condizionati — abbiamo dette — '   si riferiscono all’io empirico in quanto mezzo e strumento   indispensabile per 1 adempimento della legge morale: primo   tra essi, dunque , V autoconservazione , la conservazione ,   cioè , di questo mezzo o strumento. *L’ autoconservazione   *   già richiesta dal diritto naturale come condizione ne¬  cessaria al I attuarsi di quel futuro da cui attendiamo la  soddisfazione implicita nell’oggetto del nostro volere pre¬  sente , e perciò come qualcosa di relativo — diventa per  la moralità materia di un comando assoluto ; per 1’ uomo  morale si tratta non più di attendere un risultato più o  meno egoistico e interamente conseguibile nel tempo, ma  di lavorare disinteressatamente all’attuazione di quel fine  supremo di cui egli non potrà mai godere , perchè posto  all’ infinito.   Dal dovere dell’ autoconservazione nasce : — a) un  divieto : evita tutto ciò che, secondo la tua coscienza, può  mettere in pericolo la tua conservazione in quanto stru¬  mento della moralità (il digiuno e 1’ intemperanza in ri¬  guai do al corpo, l’inerzia intellettuale, il soverchio sforzo,  l’occupazione irregolare, il disordine della fantasia, la col¬  tura unilaterale, ecc. in riguardo all’ intelligenza) ; non  espone al pericolo la tua salute, il tuo corpo, la tua vita,  quando non vi sia necessità morale. Segue da ciò la più  recisa condanna del suicidio : la moralità può comandare  di esporre la vita, non già di distruggerla ; la vita è la  condizione stessa dell’ adempimento del dovere, e il sui¬  cidio, distruggendo la vita, la sottrae appunto al dominio  della legge ; suicidarsi significa dichiarare di non voler  più adempiere il dovere. — b) un comando : opera tutto  quello che ritieni necessario alla tua conservazione (il buon     mauteuimeuto del corpo, il nuo adattamento perfetto ai  fini che deve conseguire, la coltura dell’intelligenza, la  ricreazione estetica, eco.).   Non va mai dimenticato, però, che il dovere dell’auto-  conservazioue è condizionato , essendo l’io empirico sem¬  plice strumento della moralità : quindi , dove il fine della  moralità non fosse compatibile col dovere «Iella conserva¬  zione , sarebbe moralmente necessario che la vita dell’ in¬  dividuo venisse sacrificata a quel fine, che il dovere coudi-  zionato fosse subordinato al dovere incondizionato : quando  la moralità lo esige, ho il dovere di arrischiare la mia  vita, e tutti i pretesti con cui cercassi di nascondere la  mia viltà — per es., quello di risparmiarmi la vita per  operare ancora dell’ altro bene che altrimenti rimarrebbe  incompiuto — andrebbero contro il dovere, il quale co¬  manda in modo assoluto e non ammette indugi al suo  adempimento (').   2. Tra i doveri particolari condizionati — attinenti ,  cioè, ai diversi uffici e alle diverse professioni individua¬  li — sta anzitutto quello d’avere un ufficio, d’esercitare una  professione nell’interesse della società, di contribuire in  qualche misura all’ esistenza e all’ organizzazione sociale ;  poi 1’ altro di scegliersi a ogni modo un ufficio , una pro¬  fessione, e non già secondo l’inclinazione, ma con la co¬  scienza d’ avere la migliore attitudine all’ uno o all’ altra ,  considerate le proprie forze , la propria coltura , le condi¬  zioni esterne dipendenti da noi , poiché non il sodisfaci-  mento dei nostri gusti dev’ essere lo scopo della nostra  vita, ma 1’ avanzamento del fine della ragione : onde gli uomini uou dovrebbero scegliersi uno stato prima d’essere  giunti alla necessaria maturità della ragione, e sino a  questa maturità si dovrebbe educarli tutti allo stesso modo;  infine il dovere di attendere con tutta coscienza all’ufficio  o alla professione prescelta, formando sempre meglio all’uno  o all’ altra il corpo e lo spirito , secondo che più occorre  (all’agricoltore, per es., occorre più la forza e la resistenza  fisica , all’ artista la destrezza e 1’ agilità dei movimenti,  allo scienziato la coltura spirituale in tutte le direzioni, ecc.).  Di una gerarchia delle professioni e degli uffici secondo il  loro grado di dignità , si può parlare dal punto di vista  sociale soltanto nel senso che le molteplici occupazioni  umane sono subordinate le une alle altre come il condi¬  zionato e la condizione, come il mezzo e il fine ; ma dal  punto di vista morale esse hanno tutte lo stesso valore ,  tutte la stessa dignità : quel che importa è adempieide  bene (*).   3. I doveri generali incondizionati si riferiscono non  più allo strumento, ma al fine stesso della moralità , che  è il dominio della ragione nel mondo sensibile e nella tota¬  lità degli individui per opera di ciascun individuo.   Primo tra essi il dovere verso quella libertà formale  di tutti gli esseri ragionevoli, nella quale sta 1’ origine ,  la radice stessa della moralità. La libertà formale di eia-  scun individuo poggia sopra due condizioni : A) la perma¬  nenza del rapporto tra la volontà individuale e il corpo  che ue è 1’ organo esecutivo ; B) la permanenza del rap¬  porto tra il corpo individuale e il mondo sensibile che ne  è la sfera d’ azione. Di qui due specie di doveri concerneuti l’inviolabilità: A) del corpo altrui; B) della altrui  libertà d’azione. A) L'inviolabilità del corpo altrui im¬  plica : a) il divieto di esercitare qualsiasi violenza o coer¬  cizione fisica su altri (la condanna, quindi, della schiavitù,  della tortura, dell’ omicidio eoe.), b) il comando d’aver  cura della vita e della salute degli altri come della propria,  essendo gli altri, al pari di noi, strumenti della moralità  (ama il tuo prossimo come te stesso). B) L’ altrui libertà  d’azione esige : — in primo luogo l’esatta conoscenza dei  rapporti tra le cose, senza la quale manca ogni garanzia  che il risultato dell’ azione sarà conforme al disegno della  volontà ; di qui il dovere della veracità, il quale implica :   a) il divieto d’ingannare il prossimo (con l’inganno si dan-  neggia la libertà degli altri, trattandoli non come persone  ma come cose) e la conseguente condauna del venir meno  alle promesse e del mentire (nessuna menzogna è lecita,  neppure la menzogna pietosa, o la pretesa menzogna ne¬  cessaria, neppure col pretesto dell’interesse altrui, o, peggio  ancora, con quello dell’ interesse della moralità, perchè la  menzogna stessa, per essenza sua, nasce da viltà ed è  sempre radicalmente immorale; b.) il comando d’illuminare  e istruire il prossimo e di comunicargli la verità ; — in  secondo luogo la proprietà, ossia quella sfera d’azione nel  mondo sensibile senza la quale manca, oltreché la materia  prima per attuare i disegni della propria volontà, altresì  la sicura coscienza di non disturbare, con l’esercizio della  propria libertà, la libertà degli altri, come esige la legge  morale ; di qui il dovere dell’ istituzione e della conserva¬  zione della proprietà, il quale implica : a) il divieto di  distruggerla, usurparla o menomarla in qualsiasi maniera;   b) il comando d’acquistarsi una proprietà e di procurarne    una a ciascun individuo (come ogni oggetto dev’ èssere  proprietà di ciascuno affinchè tutto il mondo sensibile  rientri nel dominio della ragione, così ognuno deve avere  una proprietà ; in uno Stato in cui un sol cittadino non  abbia una proprietà, ossia una sfera esclusiva se non di  oggetti, almeno di diritti a certe azioni, non esiste in ge¬  nerale nessuna legittima proprietà ; la beneficenza consiste  non nel fare l’elemosina, ma nel fornire a ciascuno il modo  di vivere del proprio lavoro) (*).   Un’ osservazione importante : in fatto di libertà non  può mai nascere conflitto tra esseri che operino secondo  ragione ; ma quando della libertà si faccia un uso con¬  trario al diritto, nasce collisione tra determinati atti di  più individui e viene posta in pericolo , quindi, la vita o  la proprietà , insomma la libertà del singolo. E poiché è  proprio dello Stato attuare l’idea della legalità, così spetta  allo Stato appianare gli eventuali conflitti tra individui ,  contenendo , mediante la forza della legge giuridica, cia¬  scuno entro i propri confini. Non sempre , però , lo Stato  può immediatamente intervenire a comporre contese : sot¬  tentra allora il dovere della persona privata. È dovere  universale, in tal caso, salvare dal pericolo la libertà del-  1’ essere ragionevole, senza far distinzione se si tratti di  noi o di altri, perchè tutti, indistintamente , siamo stru¬  menti della logge morale. Se sono io l’aggredito, il dovere  dell’ autoconservazione m’impone di difendermi con tutte  le forze ; se è in pericolo il mio simile a me vicino,  l’amore del prossimo m’impone di salvarlo anche a rischio  della mia vita ; se più di uno è assalito nello stesso tempo,    (*) Ibid. pp. 275-299 (ibid. pp. 269-292). si devo portare aiuto anzitutto a quello ohe si può salvare  più presto e del quale oi accorgiamo prima. In questo  adempimento del dovere non può essere mai mio fine uc¬  cidere 1’ aggressore , il nemico , ma soltanto disarmarlo ;  posso cercare d’indebolirlo , di ridurlo all’ impotenza . di  ferirlo , ma sempre in modo che la sua morte non sia il  mio fine. u Se, peraltro, rimanesse ucciso, ciò dipende dal  caso, contro la mia intenzione, e io non sono perciò re¬  sponsabile „. Si deve, insomma, trattare il nemico con  1’ amore dovuto a ogni altro prossimo, perchè è aneli’ egli  strumento della moralità e se dalle sue azioni per il mo¬  mento non si può concludere che 1’ opposto, non si deve,  tuttavia , mai disperare che egli sia capace di migliora¬  mento. L’ uomo animato da sentimento morale non ha. nè  riconosce, nessun nemico personale; chi sente piu viva¬  mente un’ ingiustizia soltanto perchè fatta a lui, è ancora  un egoista, è ancora lontano dalla vera moralità (‘).   La libertà formale altrui, verso la quale s’impongono  i doveri ora descritti, è condizione necessaria ma non suf¬  ficiente per la moralità negli altri ; questa è resa possibile  da quella , ma, alfiuchè sia anche reale, bisogna che gli  altri prendano di fatto coscienza del loro dovere. Di qui  il comando, per chi si sia già elevato alla coscienza del  dovere, di allargare e promuovere la vita morale intorno  a sè, di elevare gli altri alla moralità. In qual modo ?  poiché sarebbe assurdo voler produrre la virtù con mezzi  coercitivi, con premi o gastighi : la moralità non si lascia  imporre dal di fuori, nè per forza , ma nasce soltanto da  una determinazione interiore ; come può, dunque, tale de-    (») Ibid. pp. 300-313 (ibid. pp. 293-304). terminazione nascere per opera di un altro in colui che.  ne è il soggetto e che deve possedere già dentro di sé le  condizioni atte a produrla? 14li è che, per chi guardi  bene, realmente esiste la possibilità, di un influsso ^morale  da coscienza a coscienza, ed esiste grazie a un sentimento  che serve di leva alla virtù, ma il cui sviluppo esige ap¬  punto un’ azione dal di fuori, l’azione dell’esempio altrui :  è questo il sentimento del rispetto o della stima, il quale,  sempre latente nel cuore dell’uomo, da cui è inestirpa¬  bile, si desta, dinanzi alla condotta virtuosa degli altri,  suscita, a sua volta, il bisogno di provare il medesimo  sentimento dinanzi alla condotta propria, il bisogno, cioè,  dell’autostima, e sprona, per tal via, alla moralità. Sorge,  così, per ognuno il dovere del buon esempio, essendo  l’esempio il vero strumento dell’educazione morale. E poi¬  ché l’esempio, per avere efficacia, per agire sulla coscienza  altrui, dev’ essere pubblico, ne segue che anche la pubbli¬  cità della condotta morale è per noi un dovere : essa nasce  dalla franchezza dell’ operare virtuoso e non ha nulla di  comune con 1’ ostentazione, la quale deriva dal desiderio  d’ essere ammirato (').   4. I doveri particolari condizionati si dicono così  perchè hanno sempre per oggetto il fine supremo della  moralità, il dominio della ragione, ina, anziché all’umanità  o alla società in genere, si riferiscono a ben determinate  relazioni umane, a ben definiti organismi sociali, quale  che sia la loro origine , vuoi da una stabile legge di na¬  tura — nel qual caso diconsi naturali — vuoi dalla mo¬  bile scelta delle singole volontà — nel qual caso diconsi artificiali. Dalle relazioni naturali nascono i doveri  di stato, dalle artificiali i doveri di vocazione (').   A) Due relazioni naturali sono possibili per l’uomo,  e insieme costituiscono l’organismo sociale della famiglia :  a) la relazione tra coniugi, b) la relazione tra genitori e  figli. Di qui due specie di doveri di stato : a) doveri tra  coniugi, b) doveri tra genitori e figli, a) La relazione co¬  niugale è già 1’ inizio della moralità nella natura, segna  già il passaggio da questa a quella , perchè è uno stato  che da una parte si fonda sopra un impulso naturale —  l’istinto sessuale — dall’ altra implica, in entrambi x sessi,  sentimenti — reciproca dedizione completa e perpetuo re¬  ciproco amore, reciproca fedeltà — che trasformano la sen¬  sualità brutale in una spiritualità umana. Il coniugio , as¬  sociazione naturale e morale a un tempo, è condizione  precipua per l’esistenza di quella società che vedemmo  essere a sua volta condizione cosi indispensabile per 1’ at¬  tuarsi della moralità, e, in quanto t,ale, costituisce un do¬  vere che implica : a) il comando di contrarre matrimonio,  quando si verifichi la sua base naturale , 1’ amore, (l’indi¬  viduo umano fisico non è un uomo o una donna, è, a un  tempo, 1’ uno e 1’ altra ; lo stesso dicasi dell’ individuo  umano morale : vi sono in lui aspetti dell’ umanità — e  proprio i più nobili e disinteressati — i quali solamente  nel matrimonio possono formarsi ; perciò u rimaner celibi  senza propria colpa è una grande infelicità, ma rimaner  celibi per propria colpa è una gran colpa „) ; fi) il divieto  di relazioni sessuali fuori del matrimonio (queste relazioni,  infatti, sono fondate o sull’ amore della donna , e allora    (*) Ibid. pp. 326-327 (ibid. pp. 316-318).        CVII    s’ impone moralmente il matrimonio , ovvero soltanto sul'  piacere o sull’interesse, ohe vai quanto dire sull’indegnità  della donna, e allora sono immorali non solo per la donna  ohe si avvilisce, ma anche per l’uomo che l’avvilisce, che  vede in lei non più un essere umano e ragionevole , ma  un semplice strumento di voluttà ('). b) La relazione tra  genitori e figli dà luogo a due serie inverse di doveri :  u) da parte dei genitori il dovere di vigilare la vita e la  salute dei loro nati e in pari tempo di suscitare e favo¬  rire in essi lo sviluppo della libertà secondo la direzione  del fine umano : insomma il dovere dell’allevamento e del-  P educazione alla moralità. L’adempimento di questo do¬  vere — che del resto è una specificazione del dovere uni¬  versale che a tutti incombe di plasmare sè e gli altri in  conformità della legge morale — risponde nella famiglia  a un bisogno del cuore, perchè la prole, per i coniugi, non  è semplicemente prossimo , ma il prodotto del loro reci¬  proco amore ; (1) da parte dei figli, se minorenni il dovere  di obbedienza, se maggiorenni il dovere di rispetto, vene¬  razione, assistenza ai genitori ( ! ).   B) Due relazioni artificiali ,ma non meno indispen¬  sabili delle naturali alla vita comune, possono essere sta¬  bilite dalla libera scelta dei singoli individui e insieme  costituiscono l’organismo sociale dello Stato: a) agire di¬  rettamente sugli uomini , in quanto esseri ragionevoli ;  b ) agire sulla natura, in quanto mezzo o strumento per le  nostre azioni verso gli uomini. Su questa base e in forza  della suaccennata necessità di una armonica divisione del    (•) Ibid. pp. 327-398 (ibid. pp. 318-324).  (*) Ibid. pp. 333-343 (ibid. pp. 324-333) lavoro movale e di una organizzazione gerarchica dell’ at-  1’ attività degl’ individui per la promozione del fine su¬  premo, si distinguono due specie di classi sociali, con due  corrispondenti specie di doveri di vocazione : a) classi su¬  periori (scienziati, educatori, artisti, impiegati), che lavo-   t   vano al progresso spirituale della società, e sono, perciò,  quasi 1’ anima dello Stato ; b) classi inferiori (minatori,  agricoltori , artigiani, commercianti) che assicurano 1’ esi¬  stenza economica della società e sono, perciò, quasi il  corpo dello &tato.   a) Quali i doveri di vocazione delle classi superiori ?  — L’ uomo allora soltanto adempirà la sua vera destina¬  zione quando abbia una visione chiara del dovere ; è ne¬  cessario, dunque, formare anzitutto la sua conoscenza teo¬  rica. Tale ufficio è la missione del dotto (*). Chi consideri  tutti gli uomini come una sola famiglia , è tratto a fare  delle loro cognizioni un unico sistema, il quale si accresce  e si elabora attraverso i secoli, come si accresce e si ela¬  bora attraverso gli anni l’esperienza del singolo individuo.  Ciascuna generazione, quindi, eredita dal passato un tesoro  di formazione scientifica, che la classe dotta è chiamata a  conservare e aumentare. I dotti sono i depositari e quasi  1’ archivio della coltura della loro età ; non però alla ma¬  niera dei non dotti, che si arrestano ai risultati, si bene  come chi possiede anche i principi ohe condussero lo spi-    (*) L’essenza e la missione del dotto furono più volte per il  Fichte argomento di conferenze e di lezioni. Vedi in proposito nel  voi. VI dei Sàmmtl. Werke Ueber die Bestimmung des Gelchrten (le¬  zioni tenute a Erlangen nel 1805) ; e nel voi. Ili dei Nachgel. Werhe,  Ueber die Bestimmung des Gelchrten (cinque lezioni tenute a Berlino  nel 1811).  A    rito umano a questi risultati. E primo dovere del dotto,  quindi, acquistare una veduta stori co-filosofica del cam¬  mino della scienza sino al suo tempo: altrimenti egli non  potrebbe nè intendere il significato della verità , uè epu¬  rarla dagli errori che 1* offuscano. È inoltre dovere del  dotto amare rigorosamente la verità e lavorare al suo pro¬  gresso mediante una ricerca sincera e disinteressata. la  quale non si proponga altro che servire al fine ultimo  dell’umanità, all’avvento del regno della ragione nel mondo.  Il dotto, come ogni virtuoso, deve obliare se stesso in  questo fine : fare sfoggio di abilità nel difendere errori  sfuggiti o brillanti paradossi è soltanto egoismo e vanità  che la morale disapprova e un’ elementare prudenza scon¬  siglia ; perchè soltanto il vero e il buono permane : il  falso, per quanto sfolgori a tutta prima , è destinato a  perire (').   La formazione della conoscenza teorica è solfante  mezzo al fine supremo di promuovere la moralità, ed è un  mezzo inefficace quando non vi si aggiunga l’operare pra¬  tico, quando, cioè, alla visione da parte dell’intelligenza  non si aggiunga 1’ azione da parte della volontà. Ora, è  ufficio d’ur.a speciale classe di dotti, dedicarsi in modo  particolare all’ educazione della volontà del pubblico non  dotto, alla moralizzazione del popolo : sono essi i ministri  della Chiesa, i quali, appunto perchè si sono messi al ser¬  vizio della comunità etico-religiosa, hanno il dovere di  adempiere il loro ufficio in nome della comunità stessa,  attenendosi scrupolosamente a ciò ohe è oggetto di fede  generale, al simbolo. Debbono, si, essere uomini di scienza e, ilei loro campo speciale, vedere al di là e meglio di  quanto vedano le anime affidate alla loro cura, ma nel-  1 educare queste anime, nell’ inalzarle a vedute superiori ,  devono procedere in modo che tutte a un tempo possano  seguirli, altrimenti si romperebbe quell’accordo spirituale  che fa 1 essenza della Chiesa. Gli educatori del popolo ,  in quanto tali , non devono svolgere o dimostrare cono¬  scenze teoretiche e principi, e tanto meno polemizzarvi  sopra, come si fa nella repubblica dotta; non è loro mis¬  sione porre articoli di fede o creare la fede — perchè ar¬  ticoli e fède esistono già come legame vivente della co¬  munità etico-religiosa — ma ravvivare e rafforzare la fede  che il credente ha già nel progresso morale , ed elevare  con essa lo spirito di lui all’eterno, al divino. Soprattutto  l’esempio che danno è importante a tal fine ; la fede della  comunità riposa in grandissima parte sulla fede loro, e il  più spesso non è che una fede nella loro fede. Ora, se in  essi la vita non risponde alla fede , la fiducia in questa  rimane profondamente scossa (‘).   Spetta al dotto formare 1’intelligenza, spetta all’edu¬  catore morale formare la volontà dell’ uomo : sta tra i due  l’artista, il quale ha il privilegio di educare il senso este¬  tico , interposto come tratto d’unione tra la conoscenza  teoretica e 1 attività pratica. L’ artista non agisce soltanto  sull’ intelletto, come fa 1’ uomo di scienza, nè soltanto sul  cuore, come fa il moralista popolare, ma sullo spirito umano  tutto quanto : 1’ arte bella investo e pervade tutta l’anima  in quanto siuLesi di tutte le facoltà. La formula pili espres¬  siva di ciò che 1’ arte fa è la seguente : l' arie rende coninne il punto di vista trascendentale. Il filosofo si eleva  ed eleva con sé gli altri a questo punto di vista col la¬  voro del pensiero e seguendo una regola ; l’artista vi si  trova già senza rendersene conto : nou ne conosce altri.   Bai punto di vista trascendentale il mondo è fatto : dal   » *   punto di vista comune il mondo è dato ; dal punto di  vista estetico il mondo è dato, sì, ma non altrimenti che  come tatto. Il mondo reale, voglio dire la natura, presenta  due aspetti : da un lato è il prodotto delle determinazioni  o limitazioni a noi poste, dall’altro è il prodotto della  nostra attività libera, ideale, trascendentale. Sotto il primo  rispetto la natura è essa stessa limitata da ogni parte,  sotto il secondo è da per tutto libera. La prima maniera  di vedere è volgare , la seconda è estetica. Per es., ogni  forma nello spazio può considerarsi come circoscritta dai  corpi vicini, ma anche come la manifestazione della forza  espansiva, della pienezza interna del corpo che ha questa  forma. Chi vede i corpi nelle prima maniera uon vede  che forme contorte, compresse , mostruose : vede la brut¬  tezza ; chi li vede nella seconda maniera, vede in essi la  vigoria, la vita , lo sforzo della uatura : vede la bellezza.  Vale altrettanto della legge morale : in quanto comanda  assolutamente essa comprime ogni tendenza della natura, e  veder la nostra uatura a questo modo è come vederla  schiava ; ma la legge morale fa tutt’ uno con l’Io , ne è  anzi l’espressione più intima, onde, obbedendo ad essa,  obbediamo a noi stessi : veder la nostra natura a que¬  st’altra mauiei’a è vederla esteticamente ^ ossia come bel¬  lezza. 1. artista vede tutto dal lato bello, vede in tutto  energia , vita , libertà ; il suo mondo è interiore, è nel-  1 umanità , e perciò 1’ arte riconduce 1’ uomo al fondo di ne stesso, strappandolo al dominio della natura, liberandolo  dai vincoli della sensibilità e rendendogli l’indipendenza,  che e il supremo fine morale. Idi guisa che il senso este¬  tico non e.la virtù, ma prepara alla virtù, e la coltura  estetica ha, un rapporto positivo con l’avanzamento del  fine morale. La moralità dell’ artista può raccogliersi in  questi due precetti : u ) un itimelo per tutti gli uomini :  non ti fare artista a dispetto della natura, non pretendere  di essere artista quando la natura uon t’ispira ; b) un co¬  mando per il vero artista: guardati dal favorire, o per  egoismo, o per desiderio di fama, il gusto corrotto del tuo  tempo; sforzati soltanto a riprodurre l’ideale che è in te;  ispiiati alla santità della tua missione, e sarai, a un tempo,  uomo migliore e migliore artista (*).   L opera del dotto dell’educatore e dell’artista, in ser¬  vigio del fine supremo morale, presuppone sempre quella  libera reciprocità d’azione tra gli uomini, che è condizione  prima di ogni comunità e a garantir la quale — finché il  regno della ragione non sia una realtà — è necessario lo  Stato. Quali sono ora i doveri degli impiegati, ossia degli  ufficiali dello Stato ? L’ impiegato subalterno è rigorosa¬  mente legato alla lettera della legge, la quale, perciò ,  dev’ essere chiara e uon dar luogo a dubbi d’interpreta¬  zione. Quanto all impiegato superiore, al legislatore, al  giudice inappellabile, i quali non sono che i gerenti della  volontà comune affermatasi, espressamente o tacitamente,  nel contratto sociale, debbono aneli’ essi conformarsi alla  costituzione politica attuale , nata dalla volontà comune ,  con la riserva, però, di perfezionarla secondo le idee della ragione, tenendo gli occhi tìnsi alla costituzione ideale.  Chi regge lo Stato deve avere una chiara veduta circa il  fine della costituzione — il quale non può essere che il  progresso umano — deve , perciò , elevarsi mediante con¬  cetti sopra 1’ esperienza comune, dev’essere un do'tto nella  sua materia, deve, come dice Platone, partecipare alle Idee,  e lavorare all’attuazione dell’ideale, favorendo la coltura  delle classi superiori. Da queste classi il progresso si dif¬  fonderà poi nella comunità tutta quanta e trarrà seco, col  suffragio universale, la riforma della costituzione. Il reg¬  gitore di uno Stato, quindi, è sempre responsabile dinanzi  al suo popolo del modo ond’egli lo governa, e se può con¬  siderarsi come legittima ogni costituzione che non renda  impossibile il progresso in generale e quello dei singoli  individui, sarebbe assolutamente illegittimo e immorale un  governo che si proponesse di conservare tutto com’ è at¬  tualmente ( l ).   b) Quali i doveri di vocazione delle classi inferiori ?  — La nostra vita e il nostro operare sono condizionati  dalla materia, la quale va trattata conformemente al fine  supremo che è il dominio della ragione sulla natura. Quanto  piu questo dominio si estende, tanto più l’umanità progre¬  disce ; è necessario, dunque, elaborare la rozza natura e  renderla adatta ai fini spirituali ; è qui, appunto, 1’ ufficio  delle classi sociali inferiori, il cui lavoro, riferendosi come  ogni altro alla moralità di tutti, ha il medesimo valore  etico del lavoro delle classi superiori, alla pve/sibilità del  quale è condizione indispensabile. E poiché dal perfeziona¬  mento meccanico e tecnico del lavoro materiale è facilitata (*)      (*) Ibid. pp. 35G-3G1 (ibid. pp. 344-349). la conquista della natura, ed è quindi promosso il progresso  dell’ umanità, è nu dovere per le classi inferiori migliorare  e inalzare il loro mestiere. TI che riohiede 1’ adempimento  d un altro dovere concernente i rapporti tra la classe in¬  feriore e la superiore. J1 perfezionamento industriale di¬  pende da conoscenze , scoperte , invenzioni, che rientrano  nell ufficio professionale dei dotti ; è dovere, dunque, della  classe inferiore, onorare la classe piò colta appunto perchè,  tale e attenersi ai consigli e alle proposte che da essa le  provengono per quanto riguarda il miglioramento di questo  o quel ramo d’industria, di questo o quel genere di vite,  domestica, di questo o quel sistema di educazione, ecc. Dal  canto suo, poi, la classe superiore, ben lungi dal disprez¬  zai e, deve tenere nella piu alta stima la classe inferiore,  rispettarne la libertà, riconoscere il valore dell’ opera sua  in riguardo agli interessi superiori dell’ umanità. Soltanto  in una giusta reciprocanza di rapporti tra le varie classi  sociali sta la base del perfezionamento umano, inteso come  fine supremo di ogni dottrina morale (*).    Riassumendo : la Dottrina Morule, nelle tre parti in  cui si divide, si propone un triplice oggetto e ottiene un  triplice risultato.   u) Anzitutto nella deduzione del principio della mo¬  ralità il Fichte mostra come la Ragione e la Libertà, le  quali a tutta prima per la coscienza empirica non sono che  ideali, divengano poi in essa principi di azione, esercitino  una causalità. L’io empirico individuale non può porsi nè    d) Tbid. pp. 861-365 (Tbid. pp. 849-852). pensarsi se non in base all’ Io puro universale , se non in  quanto ha per principio e per fine l’Ideale ; e l’Io puro  universale non può attuarsi se non ha per strumento l’io  empirico individuale. L’ unità dell’ ideale non acquista cau¬  salità, non diviene efficace nel mondo se non pluralizzan¬  dosi, quasi in centri luminosi, in spiriti individuali, i quali  soltauto possono dirsi realmente esistenti e attivi. Ora, ap¬  punto questo reciproco rapporto tra i molteplici io empi¬  rici e 1’ unico Io puro fornisce il contenuto del dovere e  rende il dovere intelligibile. Il dovere, infatti, è la neces¬  sita imposta all’ Io puro, ossia alla Libertà, di attraversare  1’ intelligenza , ossia l’io empirico , di divenire quindi in¬  telligibile, per passare dallo stato ideale di potenza a quello  leale di atto, necessità che non significa eteronomia perchè  non impone alla Libertà se non la propria attuazione. L’in¬  telligibilità del dovere : ecco il primo risultato che il Fichte  ottiene, colmando l’abisso che il Kant aveva lasciato aperto  tra la conoscenza e la volontà, e facendo dell’ intelligenza  la condizione interna, il veicolo della libertà; poiché l’in¬  telligenza esprime quasi lo sforzo della libertà infinita per  assumere, con la coscienza di sè, la forma del reale.   b) In secondo luogo, a proposito dell’applicabilità del  principio morale, il Fichte mostra come il mondo si presti  all attuazione della ragione e della libertà ; il che significa  che la natura non è radicalmeute cattiva, non è assoluta-  mente refrattaria allo spirito ; c’ è anzi una stretta paren¬  tela tra lo spirito e la natura, non essendo questa che un  prodotto inconscio di quello. Soltanto che l’attuazione del-  1 ideale morale non si compie a un tratto nel mondo con  un semplice decreto della volontà, ma è la meta di un  progresso. L’idea di sviluppo, di progresso è una categoria della moralità ; ecco il secondo risultato che il Fichte ot¬  tiene eliminando l’assoluta irriducibilità riaffermata dal  Kant tra libertà e natura . spirito e materia, idealità e  realtà, e facendo la natura, la materia, la realtà suscettive  di un progressivo liberarsi, spiritualizzarsi, idealizzarsi al-  l’infinito.   c) Infine, nel fare 1’ applicazione del principio mo¬  rale, il Fichte mostra come il progresso richieda, per com¬  piersi, una duplice condizione ; l’uua formale : occorre che  1’ individuo acquisti in sè la coscienza della libertà e della  legge morale ; 1’ altra materiale : occorre che 1’ individuo  apprenda come il contenuto del dovere sia nell’ attuare la  moralità non solo in lui, ma anche fuori di lui, negli altri  individui, nel genere umauo tutto quanto , la cui totalità  appunto rappresenta la ragione universale ; occorre, insom¬  ma , che 1’ individuo sappia di essere strumento indispen¬  sabile per 1’ attuarsi dell’ ideale nel mondo , per 1’ emanci¬  pazione cioè dell’ umanità intera dai vincoli della natura  e per la sua elevazione al regno dello spirito. La sosti¬  tuzione d’ un ideale sociale a un ideale individuale : ecco  il terzo risultato che il Fichte ottiene trasformando la for¬  mula kantiana : “ Ogni uomo è esso stesso fine „ in que¬  st’ altra : “ ogni uomo è esso stesso fine in quanto mezzo  ad attuale la ragione universale „ e subordinando così il  singolo al tutto, 1’ individuo all’ umanità.   È facile argomentare, in base a questo triplice risul¬  tato, le radicali innovazioni di cui, rispetto alla morale tra¬  dizionale, è feconda la dottrina fichtiana.   L’intelligibilità del dovere porta seco la razionalità  dell’azione e sostituisce alla fede, opera della grazia divina  o di uu impulso incosciente, la convinzione della propria coscienza, l’unione indissolubile dell’energia della volontà  con la luce del pensiero. Per ben operare, all’ intellettua¬  lismo socratico basta il retto giudizio, al volontarismo cri¬  stiano basta il cuore puro : il Fichte fonde i due 'punti di  vista ed esige per la moralità degli atti così la dirittura  del giudizio come la purezza del cuore, così l’intima per¬  suasione come la buona volontà. Un dovere irrazionale, im¬  penetrabile a ogni sforzo della riflessione è, secondo lui,  altrettanto immorale quanto un dovere adempiuto per se¬  condi fini. Inintelligibilità e insincerità sono per il Fichte  ugualmente incompatibili col concetto del dovere.   L’ idea di sviluppo e di progresso, intesa come cate¬  goria della moralità, porta seco la riabilitazione della na¬  tura rispetto allo spirito, alla cui attuazione, anziché osta¬  colo, è condizione e mezzo. Senza la natura — vedemmo —  mancherebbe allo spirito l’oggetto su cui esercitare la pi-o-  pria attività, la quale ha bisogno d’agire sulla natura per  liberarsi dalla natura; senza i corpi individuali, che della  natura fanno parte, mancherebbe alla libertà dello spirito  il modo di pluralizzarsi in tante sfere d’ azione, le quali,  sebbene distinte, sono in recipi'oco rapporto fra loro, sì da  applicarsi tutte al medesimo universo e da rappresentare,  unite insieme, e attuare la vivente unità del cosmo e della  ragione universale. Ogni organismo corporeo, infatti, è stru¬  mento indispensabile affinchè la libera attività spirituale  abbia causalità nel mondo ; e da ciò deriva a esso e , per  estensione, a tutta quanta la natura, una consacrazione mo¬  rale, che non si accorda con la condanna della natura e  del corpo pronunziata dall’ ascetismo cristiano , ma nem¬  meno con l’apoteosi della natura e del corpo celebrata dal¬  l’edonismo pagauo ; una consacrazione morale che vieta a un tempo così la macerazione, come il blandimento della  carne, e che mentre, restituisce alla vita dei sensi il suo  ufficio subordinato e la sua vera finalità nella vita morale   — si ricordi la prescrizione fichtiana già citata : u Man¬  giate e bevete a gloria di Dio ; se questa morale vi sembra  troppo austera, tanto peggio per voi ; non ce n’ è un’ al¬  tra „ — non ritiene necessario nè una risurrezione dei  corpi, nè un’ immortalità personale. Perché il Fichte non  si contenta più di una moralità che miri a una vita futura,  o che si appaghi di un sogno di perfezione interiore, ma  vuole attuare sulla terra stessa il regno dei cieli, ripo¬  nendo la beatitudine, come già il Lessing aveva detto della  verità, non nel possesso, ma nella conquista della libertà :  “ essere liberi è nulla, divenire liberi è il cielo ! La sostituzione dell’ ideale sociale all’ ideale indivi¬  duale porta seco l’inversione del rapporto di dipendenza  tra morale e diritto , 1’ accentuazione massima del valore  del regime di giustizia e la radicale trasformazione del  concetto tradizionale di carità. È, infatti, un’ originale ca¬  ratteristica della dottrina fichtiana l’aver posto non più   — come si soleva in passato — la morale a condizione del  diritto, ma il diritto a condizione della morale. Per il Fichte  la libertà, materia del dovere, non si concepisce senza la  società, ma la società non si concepisce senza rapporti di  giustizia, dunque la giustizia, ossia il diritto (juslitiu da  jus = diritto) è il fondamento della morale ; affinchè la  moralità possa attuarsi, occorre prima assicurare a tutti  1’ eguaglianza nel possesso della libertà esteriore, e procu¬  rare a tutti indistintamente, con una legislazione regola¬  trice dell’attività economica, quella parte di agiatezza ma¬  teriale che è necessaria all’opera di emancipazione morale  o di elevazione verso la vita dello spirito. Questa emanci¬  pazione ed elevazione spirituale, poi, non deve uè può fi¬  nire nel singolo individuo, che nella dottrina fiohtiana nou  ha per sè nessun valore assoluto, ma dev’ essere promossa  da ciascun uomo in tutti gli altri uomini, perchè l’ideale  etico, ben lungi dal ridurci a una salvezza individuale, a  una perfezione interiore, a una santità eremitica incurante  della sorte delle altre anime, o una santità operosa sol¬  tanto per conquistarsi un posto nel cielo , consiste invece  nella moralizzazione e nella salvezza di tutto il genere  umano, nell’avvento del regno della ragione su questa terra  e in tutta 1’ umanità. Di qui deriva , secondo il Fichte, il  vero concetto della carità : sforzarsi d’inalzare i nostri si¬  mili alla moralità. Ciascuno deve proporsi non la propria  felicità, e nemmeno soltanto la propria libertà e indipen¬  denza particolare, ma la libertà universale, la salute spiri¬  tuale di tutti; il culmine della virtù per l’individuo è  darsi in olocausto per la salvezza del mondo, accettando  coraggiosamente l’imperativo ingrato, se si vuole, ma ca¬  tegorico, di lavorare senza riposo e senza ricompensa, a  un fine di cui non vedrà mai l’adempimento completo, al  trionfo infinitamente lontano della ragione , e di lavorarvi  in un ambiente spesso indifferente ed ostile, con penosi sa¬  crifizi , senz’ altro stimolo che il puro amore del dovere ,  senz’ altra gioia che quella di avere colla propria abnega¬  zione contribuito all’ordine universale ! Concezione sublime  questa, che ricorda l’altra affine dello Zend Avesta, la  quale fa dipendere aneli’ essa la salvezza di ciascuno dalla  salvezza di tutti e comanda a ognuno di combattere, se¬  condo i propri mezzi e secondo il posto assegnatogli, il  regno delle tenebre e del male e di lavorare al trionfo  della luce e del bene. E nonostante questa abnegazione di  sè nell’ interesse della ragione universale, l’io individuale  conserva tutta la propria realtà e personalità, nè potrebbe  avere una dignità ma'ggiore , poiché quale dignità può ri¬  tenersi più grande di quella di un essere dalla cui azione  dipende la salvezza di tutti e alla salvezza del quale con¬  corre 1’ universalità degli esseri ragionevoli (’) ? (*)    (*) Tale concezione trovasi eloquentemente illustrata dal Ficlite  anche nella terza delle conferenze da lui tenute a Jena nel 1794  sulla Missione ilei dotto ; ne riportiamo qui, liberamente tradotta, la  bella chiusa che è quasi una lirica: “ Se l’idea liuora svolta si con¬  sidera auche prescindendo da ogni rapporto con noi stessi, siamo por¬  tati a vedere fuori di uoi una collettività in cui nessuno può lavo¬  rare per sè senza lavorare per gli altri, nè lavorare per gli altri  senza lavorare in pari tempo per sè , essendo il progresso dell’ uno  progresso di tutti, la perdita dell’ uno perdita di tutti : spettacolo  questo che ci sodisfa intimamente e solleva alto il nostro spirito con  la visione dell’armonia nella varietà. L’interesse aumenta se, ripor¬  tando lo sguardo sopra noi stessi, ci riconosciamo membri di questa  grande e stretta comunione. Sentiamo rafforzarsi la coscienza della  nostra dignità e della nostra forza, quando diciamo a noi stessi ciò  che ognuno può dire : la mia esistenza non è inutile e senza scopo ;  io sono un anello necessario dell’ infinita catena che, dal momento  in cui 1’ uomo assurse per la prima volta alla piena consapevolezza  del proprio essere, si svolge verso l’eternità; quanti, tra gli uomini,  furono grandi, buoni e saggi, i benefattori dell' umanità i cui nomi  leggo registrati nella storia del inondo, e i tanti i cui meriti riman¬  gono, mentre i nomi sono dimenticati, tutti hanno lavorato per me;  io raccolgo i frutti delle loro fatiche; ricalco sulla via che essi per¬  corsero le loro orme benefiche. Io posso, tosto che lo voglia, ripren¬  dere 1’ ufficio altissimo che essi si erano proposto ; rendere , cioè,  sempre più saggi e più felici i nostri fratelli ; posso continuare a  costruire là dove essi dovettero smettere; posso portare più vicino  al compimento il tempio magnifico che essi dovettero lasciare incom¬  piuto. — u Ma anch’ io dovrò smettere il [mio lavoro come essi „ ,  dirà qualcuno — Oh ! questo è il pensiero più elevato di tutti. Se  assumo quell’ ufficio altissimo, non lo potrò mai portare a termine ;  quanto è certo che è mio dovere l’accettarlo, altrettanto è certo che  Amiamo sperare che la precedente esposizione della  Dol/t'ina morale del Fichte non riesca inutile per chi si  accinga a leggere il volume, se non nella lingua, nello  stile del suo autore. Certo non tutti accetteranno integral¬  mente l’ardita metafisica ivi presupposta — che volentieri  chiameremmo Etilica come quella dello Spinoza e che è  forse, per adoperare una felice espressione del Barzel¬  letti (') , la più eroica presa di possesso che mai mente  umana abbia potuto fare, a un tempo, e del mondo delle  idee e del mondo della realtà — ma tutti*, senza dubbio,  saranno colpiti dalla originalità, profondità e finezza delle  vedute psicologiche ivi proiettate e analizzate con arte  insuperabile, e in particolar modo dalla nobiltà dei senti-    non potrò mai cessare d’operare; quindi non potrò mai cessare d’es¬  sere. Ciò che si suoi chiamare morte non può interrompere 1’ opera  mia; perchè l’opera mia dev’essere compiuta, e non può essere com¬  piuta nel tempo ; perciò la mia esistenza non è limitata nel tempo  ed io sono eterno. Assumendo parte di quell’ufficio sommo, ho fatto  mia l’eternità. Sollevo fieramente il capo verso le rocce minaccioso,  verso le cascate spumeggianti, verso le nuvole velegginoti in un  oceano di fuoco , e dico : io sono eterno e sfido il vostro potere. Ir¬  rompete tutti su di me, e tu, cielo, e tu, terra, precipitate in un sel¬  vaggio tumulto, e voi tutti, o elementi, spumeggiate e rumoreggiato  e stritolate nella lotta selvaggia pur 1’ ultimo atomo del corpo che  io dico mio ; la mia volontà sola, col suo fermo proposito, aleggerà  ardita e fredda sopra le rovine dell’ universo , perchè io ho assunto  la mia missione, e questa è più duratura di voi : è eterna, e, al pari  di essa, sono eterno io „.   (Einige Vorlesungen ilber din Bcstimmung dea Gelehrten, 1794,  Summit. Werke) — V. la traduz. frane, di M. Ni¬  colas , De la destinatimi da savant et de l'liomine de lettres par J. G.  Fichte, Paris, De Ladrauge 1838; e la trad. ital. di E. Roncali, con  prefaz. di G. Vitali, G. A. Fichte, La missione del dotto, Lanciano,  Carabba, 1912.   (') La Storia della Eiloso/ia (estratto dalla Nuova Antologia, 1° gen¬  naio 1908) p. 2.  menti ivi espressi con forza sempre, e spesso con vivezza  di colorito. Del resto non c’è una sola opera del nostro  filosofo che non elevi e non fortifichi l’anima del lettore  perchè i suoi seritti, .emanazione diretta delle più intime  e salde convinzioni, e la sua vii* di pensiero, rientrano  nel ciclo di quella vita d’azione che fa del Fichte una  personalità tipica, un represen latice man, direbbe 1* Emer¬  son. E invero egli appartiene — come già affermammo (’)  — all’eletta schiera di quegli eroi, la cui apparizione  nella storia diventa un possesso eterno per l’umanità, e  la memoria dei quali durerà quanto il mondo lontana. Il  carattere adamantino della sua figura morale, la quale è  un’ unità altrettanto solida quanto ben fusa, grazie alla  più perfetta armonia tra idee pai-ole e opere, risulta scul¬  toreamente espresso in questa solenne dichiarazione, da  lui fatta all’ inizio della sua carriera universitaria : u Io  sono un sacerdote della verità ; la mia esistenza è votela  al suo servizio; sono impegnato a tutto fare, tutto osare,  tutto soffrire per essa. Se per causa sua fossi perseguitato  e odiato, se dovessi anche morire, che farei di straordi¬  nario? nulla più che il mio assoluto dovere „ ( ! ). Parole,  queste, che spiegano bene il poderoso influsso, spiritual-  mente rigeneratore, esercitato dal Fichte sui suoi conna-  ziouali e contemporanei, influsso che , propagandosi nello  spazio e nel tempo, ha suscitato e susciterà sempre su¬  blimi emozioni e risoluzioni virili in mille e mille anime,    (') Cfr. prec. Einiye Vorlesungen iiber die Bestini muny (Ics Gelehrten 1794  (Sdmmtl. Werke, VI, pp. 333-334).  che pur non udirono mai la voce di lui (’). Costante mia- *  sione di questo eminente spirito fu : destare negli uomini  il senso della divinità della propria natura, fissare i loro  pensieri sopra una vita spirituale come l’unica e*vera,  insegnar loro a guardare a qualcos’ altro che la pura ap¬  parenza e irrealtà e guidarli così allo sforzo tenace verso  i più alti ideali di purezza, abnegazione, giustizia, solida¬  rietà e libertà.    (') Questa infinita risonanza di idee, sentimenti e propositi, at¬  traverso le generazioni, nel tempo e nello spazio, questa immensa  simpatia e solidarietà umana — che eccelle tra i principi fondamen¬  tali della dottrina liclitiana — era profondamente sentita dal Fichte  stesso, come può rilevarsi anche dalla seguente bella pagina con cui  si chiude la seconda conferenza sulla Missione del Dotto (1794) :  “ Ognuno può dire : chiunque tu sia, tu che hai sembianze umane ,  sei un membro di questa grande comunità; sia pure infinito il nu¬  mero di quelli che stauuo tra me e te, io so, nondimeno, che il mio  influsso giungerà sino a te , e il tuo sino a me ; chiunque porti sul  viso, per quanto rozzamente espressa, l’impronta della ragione, non  esiste invano per me. Ma io non ti conosco, nè tu conosci me. Oh!  quanto è corto che ambedue siamo chiamati a esser buoni e a dive¬  nire sempre migliori, tanto è certo che verrà il giorno, e sia pure  tra milioni e bilioni d’ anni (che è mai il tempo ?), verrà il giorno,  dico, in cui trascinerò anche te nella mia sfera d’azione, in cui potrò  beneficarti e ricevere benefizi da te, in cui anche il tuo cuore sarà  avvinto al mio coi viucoli, i più belli, di un libero scambio di reci¬  proche azioni! „ (Siimmtl. Werke, (VI, p. 311). Cleto Carbonara. Keywords: l’esperienza e la prattica, esperienza, dull title: “l’empirismo come filosofia dell’esperienza”! – i periti conversazionale – esperienza dell’altro, persona e persone – solipsism, anti-solipsismo – esperienza, sperimento, esperire, perito, perizia, per, fare, fahren, --. altri, altro, l’altro, l’altri, la filosofia pratica, etica e diritto, la filosofia pratica di Giovanni Amedeo Fichte, il pratico e l’aletico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carbonara” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Carbone: l’implicatrua conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mantova). Filosofo italiano. Grice: “I love Carbone; my favourite of his tracts are on the ‘unexpressible’ – a contradictio in terminis – and on ‘the flesh and the voice’ –  but the favourite-favourite are  his tract on ‘il bello’ (‘eidos ed eidolon’) and even more, his “La dialettica”.  Si laurea a Bologna con “Marxismo: i soggetti nella storia". Studia a Padova. Insegna a Milano. Opere: Condannàti alla libertà, adattamento teatrale del romanzo di Sartre L'età della ragione, che è stato messo in scena in quello stesso anno. Fonda a  Pisa  con il sostegno del Leverhulme Trust un Programma  di ricerca sulla filosofia, concentrandolo su alcune delle sue figure più importanti e sulle parole-chiave: l'essere, la vita, il concetto». Dirige la collana f«L'occhio e lo spirito. Estetica, fenomenologia, per Mimesis Edizioni.  Si concentra sulla fenomenologia di Merleau-Ponty, indagandone il duplice ma unitario significato estetico di riflessione filosofica sull'esperienza percettiva e sull'esperienza artistica attraverso l'esame del parallelo interesse manifestato da Merleau-Ponty per Cézanne e Proust. Tale indirizzo di studi si è allargato dapprima a una più vasta considerazione della fenomenologia e poi a quella del pensiero post-strutturalistico sviluppatosi in Francia, pur mantenendosi imperniato sul parallelo interesse per la riflessione filosofica sulla pittura e sulla letteratura moderne. Questo ampliamento ha inoltre condotto gli studi ad affrontare tematiche di carattere gnoseologico e ontologico, spingendolo anche a problematizzare il tradizionale rapporto tra la filosofia e la "non filosofia". Tli orientamenti hanno trovato sbocco in una riflessione sul peculiare statuto delle immagini nella nostra epoca, sulle possibili implicazioni etico-politiche del rapporto con esse e sulla dimensione ontologica dell'"essere in comune" (morire insieme, dividualita, dividuo). che in tali implicazioni troverebbe espressione. Cura Merleau-Ponty (Il visibile e l'invisibile; Linguaggio Storia Natura, La Natura, È possibile oggi la filosofia? Saggi eretici sulla filosofia della storia) e Cassirer -- Eidos ed eidolon, il bello.  Influenzato prevalentemente da Merleau-Ponty, di cui ha sviluppato in maniera teoreticamente personale alcune nozioni. Tra queste, spicca il concetto di "idea sensibile", intesa quale essenza che s'inaugura nel nostro incontro col sensibile e da questo rimane inseparabile, sedimentandosi in una temporalità retroflessa --"tempo mitico". Alla prima di queste nozioni è dedicato il dittico “Ai confini dell'esprimibile” e “Una deformazione senza precedente: la idea sensibile Porta a sintesi le implicazioni filosofiche delle nozioni sopra citate nel concetto di "de-formazione senza precedenti", con cui egli intende caratterizzare il peculiare statuto che a suo avviso la de-formazione assume nell'arte, al fine di staccarsi dal principio imitativo della rappresentazione e dunque dalla concezione del modello inteso quale “forma” preliminarmente data. Alle nozioni sopra menzionate si è andata successivamente collegando quella di "precessione reciproca" tra l’immaginario e il reale che Carbone ha proposto di dar conto del prodursi della peculiare temporalità retroflessa detta "tempo mitico". Cerca di sviluppare le implicazioni etico-politiche della concezione della memoria legata all'idea di "deformazione senza precedenti" nella sua riflessione sue venti di cui ha sottolineato l'irriducibile carattere visivo indagandolo pertanto mediante un approccio anzitutto estetico. Cerca le radici ontologiche di tali implicazioni etico-politiche della filosofia, proponendo le nozioni di "a-individuale" e di "dividuo" per sottolineare l'intrinseco carattere re-lazionale (e dunque il divenire e la divisibilità) di ogni identità.  Altre opere: “Ai confini dell'esprimibile. Merleau-Ponty a partire da Cézanne e da Proust, Milano, Guerini e Associati); Il sensibile e l'eccedente. Mondo estetico, arte, pensiero, Milano, Guerini e Associati); Di alcuni motivi in Marcel Proust, Milano, Libreria Cortina); La carne e la voce. In dialogo tra estetica ed etica, Milano, Mimesis); Essere morti insieme (Torino, Bollati Boringhieri). Sullo schermo dell'estetica. La pittura, il cinema e la filosofia da fare, Milano, Mimesis). Una deformazione senza precedenti. la idea sensibile, Macerata, Quodlibet).  Wikipedia Ricerca Mereologia Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce sull'argomento concetti e principi filosofici è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. In filosofia la mereologia (composizione del grecoμέρος, méros, "parte" e -λογία, -logìa, "discorso", "studio", "teoria"[1]) è uno dei "cosiddetti" «sistemi di Leśniewski»[2], ossia è la teoria, o scienza[2], delle relazioni parti-tutto[3]; presentata da Achille Varzicome teoria «delle relazioni della parte al tutto e da parte a parte con un tutto»[4] (o «teoria delle parti e dell'intero»[5]), da Hilary Putnam come «"il calcolo delle parti e degli interi"»[6] e da Claudio Calosi come la «teoria formale delle parti e delle relazioni di parte»[7]. Per Maurizio Ferraris tale relazione parte-interopuò essere tra oggetti concreti, regioni spazio-temporali, processi (parti temporali), eventi e oggetti astratti.[8]  Storia Modifica Lo studio delle parti affonda le sue radici nelle speculazioni filosofiche dei presocratici, per poi essere portato avanti da Platone, Aristotele e Boezio. Di grande importanza nello sviluppo della mereologia furono anche i contributi di numerosi filosofi medievali, tra i quali Tommaso d'Aquino, Pietro Abelardo ed Guglielmo di Occam. Nel periodo illuminista, anche Kant e Leibniz si interessarono a quest'ambito. Tuttavia, la diffusione della mereologia in età contemporanea si dovette a Franz Brentano e ai suoi studenti, in particolare Husserl, assieme al primo vero tentativo di avviarne un'analisi attraverso strumenti formali.[4]  Stanisław Leśniewski creò il termine mereologia per denominare la teoria (che gli si presentò tramite un ragionamento di Husserl[6]) delle relazioni tra le parti e il tutto a partire dalla differenziazione — il cui principale fine era "evitare" l'antinomia di Russell[2]— tra interpretazione distributiva (un oggetto come elemento di una classe) e interpretazione collettiva (un oggetto come parte di un intero) dei simboli di classe. Leśniewski, parzialmente influenzato da Alfred Whitehead, elaborò poi la teoria in un sistema assiomatico deduttivo entro cui poter esprimere il calcolo proposizionale e il calcolo delle classi[3].  I sistemi di Leśniewski Modifica Anche se cronologicamente è il primo dei sistemi di Leśniewski la mereologia contiene gli altri due:   la prototetica (scienza delle tesi più originarie, fondamentali ..le «prototesi») che è una logica proposizionale con l'equivalenza come unico termine primitivo, la proposizione come categoriafondamentale (ammettente la quantificazione per le proposizioni e i funtori di qualunque categoria), un solo assioma, e delle regole di separazione, sostituzione, definizione, separazione dei quantificatori e di estensionalità. l'ontologia così denominata per la presenza del funtore indicato con ε «preso nel suo senso esistenziale» (non indica l'appartenenza insiemistica), essa è derivante dalla prototetica ed è anche denominata «calcolo dei nomi» poiché gli è aggiunta la categoria dei nomi. Con la mereologia si presenta una differente definizione d'insieme. Esso non è definito distributivamente ma collettivamente(mereologicamente): l'insieme è una concreta totalità di elementi, un aggregato e dunque un oggetto fisico composto di parti, che è solo se, e finché, esse sono (v. dipendenza ontologica[8]). Da ciò risultano varie differenze dalla "normale" teoria degli insiemi tra le quali che in mereologia è "insensato" ammettere l'esistenza di un insieme vuoto; indi insiemi di un solo elemento sono tale elemento e la proprietà, unico termine primitivo della mereologia, di «essere un elemento» è transitiva e antisimmetrica e riflessiva.[2][9]  Assiomi e definizioni Modifica Il fondamento concettuale alla base della mereologia è la nozione di parte. In generale, nelle lingue naturali con «parte» si intende una porzione costitutiva di un oggetto, gruppo o situazione. Si può dire, ad esempio, che «la maniglia è parte della porta», che «il Gin è parte del Martini», che «il cucchiaio è parte dell'argenteria» o che «il calciatore è parte della squadra». Tuttavia, nell'ambito della mereologia si cerca di seguire un impianto nominalista definendo questa nozione in termini puramente logici, prendendo in esame le relazioni tra gli oggetti senza entrare nel merito di eventuali considerazioni ontologicheriguardo questi ultimi. Di conseguenza, la relazione di parte si può applicare anche a concetti più astratti, come ad esempio nelle frasi «la razionalità è parte dell'essere umano» o «la lettera 'c' è parte della parola 'cane'».  Assiomi fondamentali Modifica La nozione mereologica di parte può essere formalizzata mediante il linguaggio della logica del primo ordine come un predicato, solitamente indicato con P. Un'espressione del tipo {\displaystyle Pxy} dunque si legge «x è parte di y». Per convenzione, questo predicato è concepito come una relazione binaria che gode di tre proprietà fondamentali: il principio della riflessivitàdella nozione di parte (Rp), il principio dell'antisimmetria della nozione di parte (aSp) e il principio di transitività della nozione di parte (Tp).  (Rp) ogni cosa è parte di se stessa {\displaystyle (\forall x)(Pxx)}, (aSp) per ogni x e y distinti, se x è parte di y, allora ynon è parte di x {\displaystyle (\forall x)(\forall y)(Pxy\land x\neq y\rightarrow \neg Pyx)}, (Tp) per ogni x, y e z, se x è parte di y e y è parte di z, allora x è parte di z {\displaystyle (\forall x)(\forall y)(\forall z)(Pxy\land Pyz\rightarrow Pxz)}.[9][4] In altri termini, la relazione di parte è un ordine parzialelargo. Nonostante bastino solo questi assiomi per porre le fondamenta della mereologia standard (o sistema M), si possono definire ulteriori concetti a partire dal predicato P. Di seguito sono riportati quelli più frequenti:  Uguaglianza {\displaystyle EQxy:=Pxy\land Pyx} (x e y sono uguali se sono uno parte dell'altro), Parte propria {\displaystyle PPxy:=Pxy\land \neg (x=y)} (x è una parte propria di y se è parte di y ma è distinto da esso), Sovrapposizione {\displaystyle Oxy:=(\exists z)(Pzx\land Pzy)} (x è sovrapposto a yse c'è una parte di x che è anche parte di y), Disgiunzione {\displaystyle Dxy:=\neg Oxy} (x è disgiunto da y se non ha sovrapposizioni con esso). In particolare, la nozione di parte propria descrive un ordine parziale stretto (irriflessivo, asimmetrico e transitivo) a differenza del suo corrispondente primitivo, mentre la sovrapposizione è riflessiva, simmetrica ma non necessariamente transitiva. È anche possibile ridefinire il concetto di parte in termini di parte propria: {\displaystyle Pxy:=PPxy\lor x=y}, ovvero x è parte di y quando è parte propria di y oppure quando è identico a y.  Decomposizione e composizione Modifica Per disporre di una teoria mereologica che sia realmente in grado di rendere conto dell'uso del termine «parte» in maniera adeguata, occorre imporre ulteriori restrizioni sull'ordine parziale P. Nello specifico, vi sono due tipologie di principi aggiuntivi: quelli di decomposizione (che ragionano dall'intero alle parti) e quelli di composizione (che ragionano dalle parti all'intero).  Tra gli assiomi di decomposizione, il principio di supplementazione debole (o WSpp) afferma che nessun intero può avere una singola parte propria. Ciò risponde all'intuizione comune secondo la quale se un intero possiede una parte propria, allora deve averne almeno anche un'altra, che costituisce il rimanente. In simboli si ha che:  (WSpp) {\displaystyle PPxy\rightarrow (\exists z)(Pzy\land \neg Ozx)}, ovvero se x è una parte propria di y, allora esiste (almeno) un zche è parte di y ma non è sovrapposto ad x. Similmente, il principio di supplementazione forte (o SSp) prevede che un se y non è parte di x, allora y ha una parte che non è sovrapposta a x. In simboli:  (SSpp) {\displaystyle \neg Pyx\rightarrow (\exists z)(Pzy\land \neg Ozx)}. Una conseguenza logica del principio di supplementazione forte è l'estensionalità (Exp). Questa importante proprietà afferma che due oggetti non possono essere differenti se hanno le stesse parti proprie, o, in maniera equivalente, se due oggetti hanno le stesse parti proprie, allora sono lo stesso oggetto. In simboli:  (Exp) {\displaystyle x=y\rightarrow (\forall z)(PPzx\leftrightarrow PPzy)}. Un sistema mereologico che accetta, oltre agli assiomi fondametali di M, anche i principi di supplementazione debole, supplementazione forte ed estensionalità è detto mereologia estensionale (o EM).  Considerazioni ulteriori, che però non fanno riferimento al significato della nozione di parte, possono includere l'idea che esista un oggetto privo di parti proprie, ovvero l'atomismo, oppure l'idea che, al contrario, ogni cosa ha parti proprie, o simili, come la proprietà della densità, che nega l'esistenza di parti proprie immediate.  Atomismo {\displaystyle (\forall x)(\exists y)(Pyx\land \neg (\exists z)(PPzy))} Infinitismo {\displaystyle (\forall x)(\exists y)(PPyx)} Densità {\displaystyle (\forall x)(\forall y)(PPxy\rightarrow (\exists z)(PPxz\land PPzy))} Tra gli assiomi di composizione, il principio di somma mereologica o fusione formalizza l'idea esistano degli interi composti esclusivamente ed esattamente da un certo numero di parti. Ad esempio, la Spagna e il Portogallo compongono la Penisola Iberica (o, in maniera equivalente, la Penisola Iberica è la somma mereologica di Spagna e Portogallo). Di contro, la mano destra e la mano sinistra non compongono il corpo umano, poiché quest'ultimo possiede anche altre parti (gli occhi, il naso, i piedi, ecc.). Nei casi che, come in quest'esempio, prevedono solo due parti la somma mereologica può essere definita come segue:  {\displaystyle Szxy:=Pxz\land Pyz\land (\forall w)(Pwz\rightarrow (Owx\lor Owy))}(ovvero z è la somma mereologica di x e y se x e ysono parte di z e ogni parte di z è sovrapposta a x o y) Si tratta di un principio controverso, soprattutto se le parti che compongono la somma sono potenzialmente infinite e non soltanto due. È infatti possibile generalizzare tale definizione per indicare una somma di infinite parti:  {\displaystyle Sz\varphi x:=(\forall x)(\varphi x\rightarrow Pxz)\land (\forall w)(Pwz\rightarrow (\exists x)(\varphi x\land Owx))}, dove φ indica una generica proprietà. Vi sono almeno tre possibili posizioni che si possono assumere nei confronti dell'esistenza somma mereologica:  Nichilismo mereologico Non esistono somme mereologiche, e anche gli oggetti che a prima vista sembrano composti sono in realtà semplici. In altri termini, utilizzando un'immagine già evocata da Peter van Inwagen, non esiste il tavolo, ma esistono solo atomi disposti a forma di tavolo.[10] Per un nichilista mereologico la Spagna e il Portogallo non compongono la Penisola Iberica allo stesso modo di come la mano destra e la mano sinistra non compongono il corpo umano, perché né la Penisola Iberica né il corpo umano esistono (in senso mereologico, perlomeno). Moderatismo Le somme mereologiche esistono soltanto in determinati casi e solo qualora vengano soddisfatte determinate circostanze. Un moderatista potrebbe ammettere che la Spagna e il Portogallo compongano la Penisola Iberica in virtù di qualche proprietà di queste parti, ma negare che la mano destra e quella sinistra compongano qualcosa. Universalismo Le somme mereologiche esistono in tutti i casi, anche qualora non sembri possibile a prima vista. Per un universalista qualsiai insieme di oggetti, ancorché totalmente differenti, compone qualcosa. Non soltanto, dunque, la Spagna e il Portogallo compongono la Penisola Iberica, ma anche la mano destra e quella sinistra compongono una somma, benché non esista un termine per riferirsi ad essa. La nozione di somma mereologica, assieme a quella di prodotto mereologico,[11] costituisce la base della mereologia estensionale classica (o CEM).  Note Modifica ^ -Logia, in Treccani.it – Vocabolario Treccanion line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 2 giugno 2014. ^ a b c d Francesco Coniglione ^ a b Leśniewski, Stanisław, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. ^ a b c d Achille Varzi ^ Achille Varzi, Ontologia e metafisica ( PDF ), in Franca D’Agostini e Nicla Vassallo (a cura di), Storia della Filosofia Analitica, Torino, Einaudi, Putnam ^ Carlo Calosi (2011), p. 24. ^ a b Maurizio Ferraris ^ a b Giuliano Torrengo ^ Peter van Inwagen, Material Beings, New York, Cornell University Press, Ithaca, Varzi (2014) per una definizione di prodotto mereologico. Cotnoir e Achille Varzi, Mereology, Oxford, Oxford University Press, 2021. Giorgio Lando, Mereology: A Philosophical Introduction, Londra, Bloomsbury Publishing, 2017. ( EN ) Achille Varzi, Mereology, in The Stanford Encyclopedia of Philosophy, primavera 2014, Stanford, Edward N. Zalta, Calosi, Mereologia, in APhEx (Analytical and Philosophical Explanation), , Lezione 2 - In difesa della relatività concettuale., in Etica senza ontologia, tr. it. di Eddy Carli, prefazione di Luigi Perissinotto, Milano, Paravia Bruno Mondadori Editori, Coniglione, 2.2.8. I contributi in campo logico, in Nel segno della scienza: la filosofia polacca del Novecento, Milano, FrancoAngeli, Torrengo, 2.6.5. Parte-intero, in Maurizio Ferraris (a cura di), Storia dell'ontologia, Milano, Bompiani, Ferraris, Glossario, in Ontologia, Napoli, Guida, Voci correlate Modifica Logica Ontologia Collegamenti esterni Modifica ( EN ) Achille Varzi, Spatial reasoning and ontology: parts, wholes, and locations ( PDF ), in M. Aiello, I. Pratt-Hartmann, e J. van Benthem (a cura di), Handbook of Spatial Logics, Berlino, Springer-Verlag, Varzi, Ontologia ( PDF ), in SWIF - Edizioni Digitali di Filosofia, Volume Supplementare 2, Roma, Università degli Studi di Bari , 2005, ISSN 1126-4780 (WC · ACNP). URL consultato il 03/06/2014(archiviato dall' url originale  il 31 luglio 2013). Francesca Bosco, La Fundierung nella Terza ricerca logica di Husserl, in Dialegesthai, Roma. Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di filosofia Ultima modifica 18 giorni fa di FrescoBot Quantificatore Rappresentabilità Geometria senza punti Wikipedia Il contenuto èMauro Carbone. Keywords: mereologia, organicismo in Hegel, il tutto e le parti, dialettica, “individuo e dividuo”, divisio, visio, compositio, de-compositio, divisum, indivisum -- eidos, forma, shape, il bello, essere en comune, mit-sein, l’impersonale, l’intrapersonale, l’interpersonale – tutto, parte, tutto-parte, totum-pars, unita, a-tomon, a-tomism, atomismo logico. tomismo logico, il tutto e le parti -- #DialetticaDegl’EntrambiDividui -- -- --. Merleau-Ponty ‘linguaggio’, individuus, dividuus, dividuo -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carbone” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Carboni: l’implicatura conversazionale disegno dal vivo, disgeno del nudo dal vero, disegno dal vero, disegno del nudo dal vero -- disegno dall’antico, desegno dalla natura -- drawn from life -- tratto dalla vita – royal academy –drawn from the antique -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Livorno). Filosofo italiano. Grice: “I love Carboni – my favourite of his tracts is ‘between the image and the ‘parable’” – a semiotics of communication with sections on ‘the tacit response,’ through the looking-glass’, ‘towards the hypertext,’ and quoting extensively from some ‘conversational-implicature’ passages in Aristotle’s metaphysics, ‘To ask ‘why is man man?’ is to ask nothing!” “For some expressions, analogy suffices!” Insegna a Roma, Bari, Viterbo.  Altre opere: L’angelo del fare. Melotti e la ceramica (Skira) e Il colore nell’arte (Jaca).  Cura Dorfles, Brandi, Deleuze, Guattari, Adorno. Tra le recensioni dei suoi saggi si segnalano: Giacomo Marramao, Gianni Vattimo (“L’Espresso”), Gillo Dorfles (“Il Corriere della Sera”), Victor Stoichita (“il manifesto”). Al Festival delle Letterature di Mantova hanno presentato i suoi saggi Sini  e Didi-Huberman. Scrive su  “Nòema” e “Images Re-vues” e sulla “Rivista di Estetica”.   “L’Impossibile Critico. Paradosso della critica d’arte, Kappa); “Cesare Brandi. Teoria e esperienza dell’arte, Editori Riuniti); “Il Sublime è Ora. Saggio sulle estetiche contemporanee, Castelvecchi); “Non vedi niente lì? Sentieri tra arti e filosofie del Novecento, Castelvecchi); “L’ornamentale. Tra arte e decorazione, Jaca); “L’occhio e la pagina. Tra immagine e parola, Jaca); “Lo stato dell’arte. L’esperienza estetica nell’era della tecnica, Laterza); “La mosca di Dreyer. L’opera della contingenza nelle arti, Jaca); “Di più di tutto. Figure dell’eccesso, Castelvecchi); “Analfabeatles. Filosofia di una passione elementare, Castelvecchi); “Il genio è senza opera. Filosofie antiche e arti contemporanee” Jaca); “Malevič. L'ultima icona. Arte, filosofia, teologia, Jaca).  Drawing after the Antique at the British Museum, 1809–1817: “Free” Art Education and the Advent of the Liberal State, Martin Myrone Drawing after the Antique at the British Museum, 1809–1817: “Free” Art Education and the Advent of the Liberal State Martin Myrone Abstract From 1808 the British Museum in London began regularly to open its newly established Townley Gallery so that art students could draw from the ancient sculptures housed there. This article documents and comments on this development in art education, based on an analysis of the 165 individuals recorded in the surviving register of attendance at the Museum, covering the period 1809–17. The register is presented as a photographic record, with a transcription and biographical directory. The accompanying essay situates the opening of the Museum’s sculpture rooms to students within a farreaching set of historical shifts. It argues that this new museum access contributed to the early nineteenth-century emergence of a liberal state. But if the rhetoric surrounding this development emphasized freedom and general public benefit in the spirit of liberalization, the evidence suggests that this new level of access actually served to further entrench the “middleclassification” of art education at this historical juncture. Authors Martin Myrone is an art historian and curator based in London, and is currently convenor of the British Art Network based at the Paul Mellon Centre for Studies in British Art. Acknowledgements The register of students admitted to the Townley Gallery was originally consulted during my term as Paul Mellon Mid-Career Fellow in 2014–15. Thank you to Mark Hallett and Sarah Victoria Turner of the Mellon Centre for their continuing support and guidance, to Baillie Card and Rose Bell for their careful editorial work, Tom Scutt for crafting the digital presentation of my research, the two anonymous readers for their valuable critical input, and to Antony Griffiths, formerly of the British Museum, and Hugo Chapman, Angela Roche, and Sheila O’Connell of the British Museum, for providing access to the register and for their advice. I am especially indebted to Mark Pomeroy, archivist, and his colleagues at the Royal Academy of Arts for the access provided to materials there and for advice and suggestions. I would also like to thank Viccy Coltman, Brad Feltham, Martin Hopkinson, Sarah Monks, Sarah Moulden, Michael Phillips, Jacob Simon, Greg Sullivan, and Alison Wright. Cite as Martin Myrone, "Drawing after the Antique at the British Museum, 1809–1817: “Free” Art Education and the Advent of the Liberal State", British Art Studies, Issue 5, https://dx.doi.org/10.17658/issn.2058-5462/issue-05/mmyrone From the summer of 1808 the British Museum in London began regularly to open its newly established galleries of Graeco-Roman sculpture for art students. The collection, made up almost entirely of pieces previously owned by Charles Townley, had been purchased for the nation in 1805 and installed in a new extension to the Museum’s first home, Montagu House, which was built earlier in 1808. After some protracted discussion with the Royal Academy, detailed below, the collection was made available for its students in time for the royal opening of the Townley Gallery on 3 June 1808. From January 1809, a written record was kept of students admitted to draw from the antique. This volume survives in the library of the Department of Prints and Drawings at the British Museum and identifies one hundred and sixtyfive separate individuals admitted through to 1817. 1 The register forms the focus of this essay and is presented here as a facsimile and transcription, with an accompanying directory of student biographies (see supplementary materials below). This may be taken as a straightforward contribution to the literature on early nineteenth-century art education, and the author hopes it may be useful as such. However, it also situates the opening of the Museum’s sculpture rooms to students within a rather more far-reaching set of historical shifts. Namely, it argues that this new form of museum access was part of the early nineteenth-century emergence of a liberal state that “actively governs through freedom (free ‘individuals’, markets, societies, and so on, which are only ‘free’ because the state makes them so)”. 2 Access to the British Museum was “free” in that there were no charges or fees. Meanwhile, the arrangement offered a degree of freedom to the students themselves; they were expected to be largely self-selecting and self-regulating. When the arrangement was exposed to public scrutiny, as a result of questions asked in parliament in 1821, the freedom of access and the service this did to the public good were emphasized. But, once closely scrutinized, the evidence suggests that this manifestation of the freedoms encouraged by the liberal state had a social disciplinary role (even if disciplinary function can hardly be recognized as such), in serving to further entrench the “middle-classification” of art at this historical juncture. 3 The conjunction of art education and a grandiose notion such as the liberal state may be unexpected, and rests on three key assertions. The first is that art worlds are structured and in their structure have a homological relationship with the larger social environment. 4 The initial part of this statement (that art worlds are structured) may not be especially hard to swallow, given the relatively formalized and hierarchical nature of the London art world during the early nineteenth century, when cultural authority was vested in a small number of institutions, and the practices associated with academic tradition in principle still held sway. However, that the structure of the art world, in its hierarchical dimension, may also be homologically related to the larger field of power, so that social relationships are reproduced within this relatively autonomous sphere, is more clearly contentious, and runs contrary to commonplace beliefs and expectations about talent and luck in determining personal fate in the modern age—artists’ fortunes most especially. In fact, in the period under review here, the artist became an exemplary figure in the new narratives of social mobility: the art world came to serve as a model of how talent or sheer good fortune could override social origins and destinies. 5 The second assertion is that the Royal Academy and British Museum were developing new forms of state institution, underpinned by the conjoined principles of freedom of access and public benefit. Such has been argued importantly by Holger Hoock, and while I depart from his arguments in some key regards, his insights into the status of these institutions and the role of forms of public–private partnership in their formation are crucial. 6 The third assertion (and this marks a departure from Hoock), is that the state is not a stable, centralized entity, or site of power either “up above” or “below” historical actors. Instead, it is taken to be the sum of actions and dispositions ostensibly volunteered by these historical agents in all their multitude and variety. The crucial point of reference here is the sustained body of work on the liberal state by the historian Patrick Joyce, deploying the work of Bruno Latour and Michel Foucault, among others, to yield a more materialistic and decentralized understanding of the emergence and role of state bodies. 7 The state, in this view, is composed of technologies, disciplinary structures, habits of mind, and ways of doing things. The mechanics of art education, insofar as this involves the movement through or exclusion of individuals from identified places, the arrangement of their bodies in relation to one another and to their model, the management of their behaviour within those places, the very motion of their bodies, hands, and eyes under the surveillance of their peers, teachers or other authorities, may be considered as a form of biopolitics; the student who entered his or her name into the British Museum’s register of admission was producing his or her governmentality. 8 The argument here is emphatically historical and states that this arrangement, while it may have precedents and may have been seminal, belongs to an historical moment—the emergence of the liberal state. My case, which can be sketched out only in outline in this context, is that the emergence of the familiar institutional arrangements of the modern art world between the 1770s and the 1830s (in the form of actual institutions and regulatory structures or permissions, including annual exhibitions, centralized art schools supported by the state directly and indirectly, emphasis on quantifiable measures of access and engagement as the test of public value, and so forth) represents in an exemplary way the illusory freedoms promoted by liberalism, and renewed by present-day “neo- liberalism”, as addressed by commentators from the prophetic Karl Polanyi through to the later work of Foucault and Bourdieu on the state, and Luc Boltanski and Eve Chiapello, among others. 9 The early nineteenth-century art world can be proposed as a privileged focus of attention because it was still of a scale which can allow for the kinds of data-based analysis which must underpin any sort of sociological exploration, and because its individual membership can be documented in fine detail in a manner which is simply not possible at an earlier historical date. Paradoxically, despite its announced commitment to non-intervention and personal freedom, the emerging liberal state generated huge amounts of documentation about society and its individual members—tax records, parochial and civil records, the national census from 1801—which digitilization has made more readily available than ever before, allowing this generation of artists to be documented as never previously. 10 The production of artistic identities through these records is not unrelated to changes in artistic identity itself over the same timeframe. One way of realizing this might be to consider the period outlined above—c. 1770–1830s—not as a period from the foundation of the Royal Academy to its removal to Trafalgar Square, or even as the era of Romanticism, as much literary and cultural history-writing would dictate, but as the era from Adam Smith’s Wealth of Nations (1776) to the Reform Act (1832) and the Speenhamland system, a last experiment in patrician social care before the Poor Law Amendment Act (1834), taking in Thomas Malthus and David Ricardo. The challenge is thinking of these two frameworks not in sequential or spatially differentiated ways, but as simultaneous and identical. Within this emerging liberal state the figure of the artist is attributed with a special degree and form of freedom, what has conventionally been alluded to, in generally sociologically imprecise ways, as a feature of “Romanticism”, slumping into “bohemianism” and a generic idea of art student lifestyle. If this was a moment of unprecedented state investment in the arts (from the Royal Academy through to the Schools of Design) and government scrutiny (notably with the Select Committees), it simultaneously saw the emergence of artistic identities expressing the values of personal freedom, freedom from regulation, and even active opposition to the state. I propose that art education, as it took shape in the emerging liberal state, might be explored as a “liberogenic” phenomenon: among those “devices intended to produce freedom which potentially risk producing exactly the opposite.” 11 As such, it may have renewed pertinence for our own time, although this does not entail seeing a “causal” relationship between the past and present, or a linear genetic relationship between then and now. In fact, the purpose of this commentary, and the larger project it arises from, 12 is rather to trouble our relationship with that past. The intention is not, however, to point unequivocally to the era under consideration as here entailing “the making of a modern art world”, with the rise of art education and museums access representing a stage towards democratization, as illuminated in stellar fashion by the great Romantic artists (J. M. W. Turner—famously the son of a lowly London barber—pre-eminently). I would want instead to take seriously Jacques Rancière’s call for “a past that puts a radical requirement at the centre of the present”, eschewing causality and “nostalgia” in favour of “challenging the relationship of the present to that past”. 13 If giving attention to the “freedom” of art education at the advent of the liberal state provides any insight at all, it should do so by troubling rather than affirming our narratives of the genesis of a modern art world. Access to the Townley Gallery The arrival at the Museum of the Townley marbles, together with the development of the prints and drawings collection and its installation in new, secure rooms in the same wing, fundamentally changed the character of the institution. As Neil Chambers has noted, having been primarily a repository of (often celebrated) curiosities of many different forms, quite suddenly “The Museum was now a centre for art and the study of sculpture.” 14 The shift was acknowledged internally at the Museum by the creation in 1807 of a distinct Department of Antiquities, which also had responsibility for the collection of prints and drawings. But while the significance of the opening of the Townley Gallery in the history of the British Museum is clear, the opening of the collection to students has barely been noticed in the art-historical literature. The register has been overlooked almost entirely, and the relevance of this development in student access may not even be immediately obvious. 15 Figure 1. William Chambers, The Sculpture Collection of Charles Townley in the dining room of his house in Park Street, Westminster, 1794, watercolour, 39 x 54 cm. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum Figure 2. Attributed to Joseph Nollekens, The Discobolus, 1791–1805, drawing, 48 x 35 cm. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum Townley’s collection had already famously been on display for many years at his private house in Park Street, London. William Chambers’ (or Chalmers’) drawing of the Park Street display from 1794 includes a well-dressed young woman drawing under the supervision or advice of a man, promoting the idea that the collection was available for sufficiently genteel students of the art more generally (fig. 1). In his recollections of the London art world, J. T. Smith described “those rooms of Mr Townley’s house, in which that gentleman’s liberality employed me when a boy, with many other students in the Royal Academy, to make drawings for his portfolios”. 16 Smith’s former employer, the sculptor Joseph Nollekens, has been identified among the more established artists who were also engaged by Townley to draw from marbles in the collection (fig. 2). As Viccy Coltman has noted, “The townhouse at 7 Park Street, Westminster became an unofficial counterpoint to the English arts establishment that was the Royal Academy: as an academy of ancient sculpture, much as Sir John Soane’s London housemuseum in Lincoln’s Inn Fields would become an academy of architecture in the early 19th century.” 17 Evidently, a number of the students and artists admitted to draw from the Townley marbles once they were at the British Museum knew them formerly at first hand from visiting 7 Park Street; for instance, William Skelton, admitted to draw at the Museum in 1809, had apparently already studied and engraved three busts from the collection for inclusion in the design of Townley’s visiting card (fig. 3). Townley had hoped for a separate gallery to be erected to house the collection, but his executors, his brother Edward Townley Standish and uncle John Townley were unable to agree a plan. 18 The sale of the collection to the Museum was a compromise. With the erection of a new gallery space for the collection underway, the Museum considered how special access might be given to artists. That the question was posed at all should be an indication of how far the realm of cultural consumption and production was being folded in to the emerging liberal state at this juncture. At a meeting of the Trustees on 28 February 1807, a committee was set up to consider how the prints and drawings collections might be used by artists, and to draw up “Regulations... for the Admission of Strangers to view the Gallery of Antiquities either separately from, or together with the rest of the Museum: And also for the Admission of Artists”. 19 Figure 3. William Skelton, Charles Townley's visiting card, 1778–1848, etching, 65 x 96 cm. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum With the Gallery still under construction, the Sub-Committee was not obliged to move quickly, and it proved to be a protracted and unexpectedly fractious affair. 20 It was not until the Museum’s general meeting of 13 February 1808, that the principal librarian, Joseph Planta, reported “his opinion of the best time & mode of admission of Strangers as well as artists, to the Gallery of Antiquities”, with the request that Benjamin West, President of the Royal Academy, be asked to attend a further meeting. 21 After delays, he did so on 10 March, after which the Council drew up a set of regulations. 22 These went back to the Academy with additions and changes, which were accepted by the Council who wrote to the British Museum on the 10 May to that effect, noting that a General Meeting of the Academy was to take place, “to prepare the final arrangement for his Majesty’s approbation”. 23 Accordingly, at the British Museum, the Sub-Committee’s reports and proposals were approved by the Standing Committee, with “Resolutions founded on the above mentioned Reports” read at the General Meeting of 14 May. 24 The resolutions, numbered so as to be inserted in the existing regulations regarding admissions, were confirmed in the meeting of 21 May, over three months after what should have been a straightforward matter was raised (see Appendix, below). 25 Clause number eight, concerning the payment of Academicians charged with the supervision of students, evidently caused some consternation within the Academy, as recorded in the diary of Joseph Farington. 26 The relative authority of the Council and General Assembly had been a contentious matter in previous years, and the lengthy dispute over arrangements with the Museum reflected lingering tensions. On 12 July 1808 the proposals were read, and “After a long conversation it was Resolved to adjourn.” 27 The subject was taken up on re-convening on 21 July, but without resolution. 28 At yet another meeting, on 26 July 1808, the point about the Academy’s provision of superintendents to monitor the students while at the British Museum was referred back to Council. 29 We have to turn to Farington’s diary for a fuller account. He noted that the Academy’s General Assembly had met on 12 July “for the purpose of receiving a Law made by the Council ‘That permission having been granted by the Trustees of the British Museum for Students to study from the Antiques &c at the Museum, certain days are fixed upon for that purpose, & that an Academician shall attend each day at the Museum & to be paid 2 guineas for each day’s attendance’... Much discussion took place.” 30 At a further meeting: “The Correspondence of the Council with the Sub Committee of the British Museum was read from the beginning” and “much discussion” was had about the supervision of the students, Farington making the point that: as the studies of the British Museum shd. be considered those of completion and not to learn the Elements of art the Academy shd. not recommend any student whose abilities & conduct wd. not warrant it, that it should be considered the last stage of study, when those admitted wd. not require constant inspection; therefore daily attendance of a Member of the Academy wd. not be necessary. 31 The point of contest may have concerned the right of the Council to organize things independent of the General Assembly of the Academicians, and a more general question about economy (“Northcote proposed that the Academician who in rotation shall attend at the British Museum, shd. have 3 guineas a day. West thought one guinea sufficient”). 32 But Farington’s point is more revealing in indicating the expectation that the selected students of the Academy were to be largely self-regulating, and self-disciplining; they were to be granted freedom because they had already internalized the discipline required by these institutions. Figure 4. Front cover, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum The matter finally settled, students were admitted to the Townley Gallery from at least the beginning of 1809: the first entries in the register book are dated 14 January 1809 (figs. 4 and 5 to 11). On that date four students were enrolled, although only one of them was at the Royal Academy. That was Henry Monro, the son of Dr Thomas Monro, Physician at Bedlam and an amateur and collector who ran the influential “academy” at his home in Adelphi Terrace. The other students included two of the daughters of Thomas Paytherus, a successful London apothecary, and a Ralph Irvine of Great Howland Street, who seems quite certainly to have been Hugh Irvine, the Scottish landscape painter and a member of the landowning Irvine family of Drum, who gave that address in the exhibition catalogue of the British Institution’s show in 1809. Another five students registered in February and July. This included another recently registered Royal Academy student, Henry Sass, whose name was entered into the Academy’s books in 1805, recommended for study at the British Museum by the architect and RA John Soane, and the artists William Skelton, Adam Buck, Samuel Drummond, and Maria Singleton. The mix of amateur and professional artists, young and old, and indeed the mix of male and female students (discussed below), continued throughout the register. View this illustration online Figure 5. Page 1, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiques, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of British Museum View this illustration online Figure 6. Page 2, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum View this illustration online Figure 7. Page 3, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum View this illustration online Figure 8. Page 4, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum View this illustration online Figure 9. Page 5, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum View this illustration online Figure 10. Page 6, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiques, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum View this illustration online Figure 11. Page 7, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiques, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum Eight of the twelve students registered on 11 November were current Academy students; this proportion of Academy students to others continues throughout the record. But on the same day Planta noted to the standing committee that the Royal Academicians not having availed themselves of the Regulations in favour of their Pupils, & many applications having been made to him for leave to draw in the Gallery of Antiquities, he therefore submitted to the consideration of the Trustees, whether persons duly recommended might not be admitted in the same manner as in the Reading Room. 33 The matter was referred on to the general meeting. 34 On 9 December 1809 the new regulations were confirmed: Students who apply for Admission to the Gallery are to specify their descriptions & places of abode; and every one who applies, if not known to any Trustee or Officer, will produce a recommendation from some person of known & approved Character, particularly, if possible, from one of the Professors in the Royal Academy. 35 On 10 February 1810 it was instructed “That the Regulation respecting the mode of Admission of Students to the Gallery of Sculpture, as made at the last General Meeting be printed & hung up in the Hall, & at the entrance into the Gallery”. 36 The students admitted through 1810 were predominantly students at the Royal Academy, but also included the emigré natural history painter the Chevalier de Barde and Charles Muss, already established as an enamel and glass painter. The same pattern was apparent in subsequent years. Twenty-five students were registered in 1811 and again in 1812, before numbers dropped to twelve in 1813, eight in 1814, picking up with nineteen in 1815, and dropping to nine in 1816. The Museum’s original stipulation that no more than twenty Academy students be admitted each year did not, it appears, create any undue constraints on the flow of admissions. Far from having a monopoly over student admissions, as the Museum’s original regulations had anticipated, the Royal Academy had apparently been distinctly laissez-faire, doing little to try to push students forward to make up the numbers. The galleries the students gained access to comprised a sequence of rooms within the new wing added to accommodate the growing collection of sculptural antiquities, notably the Egyptian material taken from the French at Alexandria in 1801. The Egyptian antiquities dominated the galleries in terms of sheer size, although the visual centrepiece, whether viewed from the Egyptian hall or through the extended enfilade of rooms II–V where the Townley marbles were displayed, was the Discobolus (fig. 12). 37 The intimate scale of the galleries brought benefits, as German architect Karl Friedrich Schinkel noted on his visit of 1826: “Gallery of antiquities in very small rooms, lit from above, very restful and satisfying”. 38 But is also imposed a practical limit on the numbers of students who could attend. This changed when, in 1817, the Elgin marbles were put on display at Montagu House in spacious, if warehouse-like, temporary rooms newly annexed to the Townley Gallery (fig. 13). The spike of interest recorded in the register, with thirty-seven students listed under the heading “1817”, must reflect this new opportunity. The register terminates at this point, although the volume continued to be used to record students and artists admitted to the prints and drawings room (upstairs from the Townley Gallery) from 1815 through to the 1840s. 39 Figure 12. Anonymous, View through the Egyptian Room, in the Townley Gallery at the British Museum, 1820, watercolour, 36.1 x 44.3 cm. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum Figure 13. William Henry Prior, View in the old Elgin room at the British Museum, 1817, watercolour, 38.8 x 48.1 cm. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum Some form of register must have been maintained, but appears not to have survived, and evidence of student attendance after 1817 is largely a matter of anecdotal record. 40 These later records also, incidentally, point to the variety of student practice in the galleries. While the Museum’s original stipulations made the presumption that admitted artists would be drawing (“each student shall provide himself with a Portfolio in which his Name is written, and with Paper as well as Chalk”), students evidently worked in different media as well. James Ward referred explicitly to “modelling” in the Museum in his diary entries of 1817; and George Scharf’s watercolour of the interior of the Townley Gallery from 1827 (fig. 14) shows a student sitting on boxes at work at an easel, with what appears to be a paintbrush in his right hand and a palette in his left. 41 Nonetheless, the Townley marbles had lost much of their allure. Jack Tupper, a rather unsuccessful artist associated with the Pre-Raphaelite Brotherhood, recalled his growing disillusion when studying at the British Museum in the late 1830s: “So the glory of the Townley Gallery faded: the grandeur of ‘Rome’ passed.” 42 Figure 14. George Scharf, View of the Townley Gallery, 1827, watercolour, 30.6 x 22 cm. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum The material record of student activity in the Townley Gallery, in the form of images which seem definitely to derive from this special access to the Museum, is extremely scarce. 43 Whatever was produced in the Gallery was, after all, generally only for the purposes of study, and was unlikely to be retained or valued after the artist’s death. John Wood, a dedicated student at the Royal Academy from 1819, noted: “I am surprised at the comparatively few drawings I made in the Antique School at the Royal Academy, including my probationary one, not exceeding five, with an outline from the group of the Laocoon.—In the British Museum I made a chalk drawing from the statue of Libēra for Mr Sass”, that is, the Townley Venus, apparently drawn by Wood as an exercise for the well-known drawing teacher Henry Sass. 44 Student drawings after the antique must have been numerous, but that does not mean they were preserved. J. M. W. Turner had apparently attended the Plaster Academy over one hundred and thirty times up to the point he became an ARA, in 1799. 45 Yet even with a figure of his stature, whose studio contents were so completely preserved, and whose dedication to academic study was so notable, we have only a handful of drawings which appear certainly to derive from his time at the schools. 46 There are, doubtless, traces of study in the Museum to be uncovered in finished works of the period. Charles Lock Eastlake’s youthful figure of Brutus in his ambitious early work is evidently a direct lift from the marble of Actaeon attacked by his own hounds in the Townley collection; he had been admitted to draw from the antique in 1810 (figs. 15 and 16). But given the dissemination of classical prototypes (in graphic form as well as in plaster) it would be hard to insist that it was only access to the British Museum’s antiquities which made such allusion strictly possible. Figure 15. Charles Lock Eastlake, Brutus Exhorting the Romans to Revenge the Death of Lucretia, 1814, oil on canvas, 116.8 x 152.4 cm. Collection of the Wiliamson Art Gallery & Museum. Digital image courtesy of Wiliamson Art Gallery & Museum Figure 16. Anonymous, Marble figure of Actaeon attacked by his hounds, Roman 2nd Century, marble, 0.99 metres high. Collection of the British Museum (1805,0703.3). Digital image courtesy of Trustees of the British Museum The Register of Students as Social Record Of arguably greater interest than the question of the “influence” of access to the marbles on artistic practice is the evidence the register provides about the social profile of the students. This takes us to the heart of the question about the relationship between art education and the state. This was, in fact, a question raised at the time. The British Museum was in 1821 obliged to draw up a report on student and public attendance of the Museum, prompted by Thomas Barrett Lennard MP, who had entered a motion in the House of Commons seeking reassurance that this publicly funded institution was not “merely an establishment for the gratification of private favour or individual patronage”. 47 Lennard’s questions arose from a growing body of criticism directed against the Museum, which turned on the question of whether, as a publicly funded body, everyone could expect free access, or only a more specialist minority. As one critic jibed in 1822, “If the British Museum is open only to the friends of the librarians, & their friends’ friends, it ceases to be a public institution.” 48 The report elicited by Lennard’s question provided a detailed breakdown of admissions. With regard to providing access to draw from the antique, the Museum indulged the impression that it not only fulfilled but exceeded its commitment to admitting Royal Academy students: providing the figures for the period 1809–17 (based, surely, on the register under consideration here), the Museum’s report elaborated: The Statute for the admission of Students in the Gallery of Sculptures being among those required by the Order of the House of Commons, it may not be irrelevant to add, that the number of students who were admitted to make drawings in the Townley Gallery, from the year 1809 to the year 1817, amounted to an average of something more than twenty. 49 Notably, this summary gives the clear impression that the antiques were being opened to the students of the Royal Academy; such is, quite reasonably, presumed by Derek Cash in his recent, careful commentary on admission procedures at the Museum. 50 The report also pointed to recent changes: In 1818, immediately subsequent to the opening of the Elgin Room, two hundred and twenty-three students were admitted: in 1819, sixty-nine more were admitted, and in 1820, sixty-three. It asserted that, now: Every student sent by the keeper of the Royal Academy, upon the production of his academy ticket, is admitted without further reference to make his drawings: and other persons are occasionally admitted, on simply exhibiting the proofs of their qualification. According to the present practice, each student has leave to exhibit his finished drawing, from any article in the Gallery, for one week after its completion. 51 Thus stated, the Museum appeared to be fulfilling its public duty in providing free access to appropriately qualified students. The bare figures might seem to indicate a steady rise in student interest, which could be taken as a marker of quantitative success. In one of the earliest historical accounts of the Museum, Edward Edwards implied that the statistical record was evidence of how Planta had progressively extended access to the Museum: “From the outset he administered the Reading Room itself with much liberality... As respects the Department of Antiquities, the students admitted to draw were in 1809 less than twenty; in 1818 two hundred and twenty-three were admitted.” 52 At that level of abstraction the information appears beyond dispute. What I test in the remainder of this essay is how these statements stand up to the more individualized account of student activity represented in the biographical record. That record does include the most assiduous students of the Royal Academy of the time, who certainly did not need the kind of “constant inspection” Farington worried about, the kind of student anticipated by the Museum’s regulations. Among these we could count Henry Monro, Samuel F. B. Morse and Charles Robert Leslie, William Brockedon, Henry Perronet Briggs, William Etty and Henry Sass, the last two famously dedicated as students of the Academy. 53 However, the full biographical survey of the register points to a more complicated situation. Of the one hundred and sixty-five individuals named in the register, it has proved possible to establish biographical profiles for the majority: details are most lacking for about twenty-four of the attending students, although in most of those cases we can conjecture at least some biographical context. 54 Slightly less than half the total number of individuals listed were recorded as students at the Academy at a date which makes it reasonably likely that they were actively attending the schools when they were admitted to the British Museum (eighty in all). 55 Around twenty more established male artists attended, and several of these were formerly students at the Royal Academy, including John Samuel Agar, John Flaxman, and James Ward. Whether they were pursuing their private studies or undertaking more specific professional tasks is not always clear. There are, certainly, a few cases where the latter appears to be the case. When William Henry Hunt was admitted it was explicitly for the purpose of preparing drawings for a publication; both William Skelton and John Samuel Agar were probably admitted in connection with his ongoing work engraving from sculptures at the Museum. It seems likely that the “Students to Mr Meyer”, that is, the engraver and print publisher Henry Meyer, were engaged on professional business, as was Thomas Welsh, recommended by the publisher Thomas Woodfall. More striking, though, is the determined presence in the register of artists who did not pursue the art professionally or full-time, including the relatively well-documented Chevalier de Barde, Arthur Champernowne, John Disney, Hugh Irvine (assuming he is the “Ralph Irvine” who appears in the register), Robert Batty, Edward John Burrow, Edward Vernon Utterson, and a number of others designated as “Esq”, so clearly from the polite classes, even if their exact identities remain unclear. There are at least fifteen male individuals who appear to come from backgrounds sufficiently socially elevated or affluent enough to suggest they were taking an amateur interest rather than pursuing serious studies. 56 Enough of these men are known to have practised art to make it quite certain that they were not, at least generally, being admitted to consult the collection without intending to draw, and John Disney was admitted explicitly “to make a sketch of a Mausoleum”. Notable, in this regard, are the large number of women admitted to study, most of whom are or appear to be from polite backgrounds, including the Paytherus sisters, Elizabeth Appleton, Louisa Champernowne, Miss Carmichael, Elizabeth Batty, Miss Home, Lucy Adams, Jane Gurney, Maria Singleton, and Anne Seymour Damer. 57 Some were established artists, or became so; others were pursuing art as a polite accomplishment, or at least we can assume so given their family circumstances; in other cases the situation is by no means clear-cut. All were admitted without special comment or notice despite the issues of propriety around the drawing of even the sculptured nude figure by female artists which crops up in contemporary commentaries. 58 This may be all the more striking given the relative paucity of women admitted as readers at the British Museum library over the same period: only three out of the three hundred and thirty-three admitted between 1770 and 1810, as surveyed by Derek Cash. 59 On this evidence, the field of artistic study was, in the most literal terms, relatively female compared even to the study of literature or history. This points to an under-explored context for the inculcation of the students into life as an artist: the “feminine” sphere of the home, and of siblings (whether brothers or sisters) alongside parents. We have, surely, barely begun to consider the family as the context in which artists are made as much as, if not more than, the studio and academy. Nor is it straightforward to assume that those individuals who had enrolled as Academy students also had expectations about the professional pursuit of the art. Among the Academy students who attended, a large proportion, including a majority of the most assiduous, were from polite social backgrounds, with fathers in the professions, or who were office-holders or from the landowning classes, including Henry Monro, John Penwarne, Richard Cook, William Drury Shaw, Charles Lock Eastlake, Henry Perronet Briggs, Alexander Huey, Thomas Cooley, Samuel F. B. Morse, Andrew Geddes, John Zephaniah Bell, Thomas Christmas, John Owen Tudor, and Samuel Hancock. Others were the sons of elite tradesmen, highly specialized craftsmen or merchants, including William Brockedon, Seymour Kirkup, Charles Robert Leslie, Gideon Manton, and John Zephaniah Bell. These were not, either, predestined to be artists, by simply following in their father’s footsteps, but were opting in to an artistic career, having had, usually, a decent education, and access to material and social support. In many cases their brothers, who shared the same upbringing, became doctors or lawyers, property-owners or merchants. A number of individual students gave up the practice of the art—Thomas Christmas became a landowner in Willisden; Richard Cook was able to retire, wealthy; Seymour Kirkup languished in Rome dabbling in the arts; William Brockedon became more engaged as an inventor and traveller; while others were never really obliged to draw an income from their practice but pursued art as a pastime. It remains the case that there was a high level of occupational inheritance; perhaps thirty-eight of the students (23 percent) had fathers who were architects, engravers or artists in painting or sculpture. Many were the sons of established artists (including Rossi, Bone, Stothard, Ward, Dawe, Wyatt, Bonomi, and the brothers Stephanoff); a few were part of “dynasties” encompassing generations engaged in the arts (Wyatt, Wyon, Hakewill, Landseer). Even then, there is the case of John Morton (noted confusingly as “John Martin” in the register, although the address given provides for a firm identification), who, although the son of an artist and a student at the Royal Academy, exhibited personally as an “Honorary”, suggesting he was not professionally engaged. That his brother became quite prominent as a physician suggests that this was a quite emphatically middle-class family setting. There are several points to derive from this information, even as lightly sketched as it necessarily is here. Firstly, it is noteworthy that while female students were a minority they were a definite presence; in this regard, the British Museum was like other spaces of artistic study, notably the painting school at the British Institution. 60 The observation is upheld by the contemporary records of student attendance at the British Institution or of copyists at Dulwich Picture Gallery, and should serve as a reminder that the Royal Academy was exceptional among the spaces of art education in being so entirely male. 61 Secondly, it is striking how few came from humble backgrounds unconnected with the art world; really, only a handful, which would include John Tannock (son of a shoemaker in Scotland), William Etty (son of a baker in York), John Jackson (son of a village tailor in Yorkshire), and William Henry Hunt (whose father was a London tin-plate worker). The circumstances which led to their gaining access to the London art world are, therefore, noteworthy, as a third and most important point would be to emphasize how emphatically metropolitan, polite, and middle-class was the British Museum as a site of artistic education. The Townley Gallery on student days was a place where working artists, students, amateurs, and patrons mingled. 62 While the Royal Academy is conventionally seen as an engine of professionalization, it is striking that the social affiliations of artists point to strong, arguably increasingly strong, affiliations between amateurs and professionals—to the extent that our terminology around this point needs to be reconsidered. Looking over the biographical survey, the kind of social suffering or precariousness typically associated with artists’ lives, perhaps especially during the era of industrialization, is markedly absent. When it does appear—most strikingly with the grim life-stories of the siblings Jabez and Sarah Newell—they are among the minority of students from backgrounds neither closely connected with the art world, nor comfortably middle-class or genteel. The examples of stellar social ascent and achievement on the basis of talent alone are real; but they are the exceptions rather than representative. The relative weight of personal and Academic connection is exposed in the record of the provision of references for students. Of the forty-three referees recorded between 1809 and 1816, less than half (nineteen) were Academicians. One of those was Henry Fuseli, who as Keeper of the Academy Schools through this period must have provided references as part of his duties, and accordingly provided the second largest number of recommendations (nineteen; all but one students at the RA). The lead in providing references was taken by William Alexander, artist and keeper of prints and drawings (twenty-two; mainly but not exclusively students). Overall, officers and Trustees were most active in admitting students. Most only ever provided a reference for one, or at most a handful, and the jibe about “friends of the librarians, & their friends’ friends” contains some truth. But the same point applies to the artists, most of whom only ever recommended one student, often known personally to them already: David Wilkie recommended his assistant, John Zephaniah Bell; George Dawe provided a reference for his own son; Thomas Lawrence for his pupil William Etty; Thomas Phillips and John Flaxman, the relatives of fellow Academicians; Thomas Stothard, the son of a neighbour (Kempe). Geography, too, seems to have played a role, with referees often coming from the same area as their favoured student: Francis Horner recommended John Henning, whom he had known in their native Scotland; the Scottish George Chalmers recommended James Tannock; Arthur Champernowne put forward William Brockedon, his protégé, whom he had supported in moving from Devon to the metropolis to pursue art; James Northcote recommended two fellow West Countrymen; Benjamin West, notorious for giving special assistance to visiting American students, two such (Leslie and Morse). If the admission procedure could be interpreted as an opportunity for the Academy to assert a corporate, professionalized identity, based purely on merit, we can nonetheless detect underlying patterns of kinship, personal, social, and geographical affiliation. Simply stated, even if study at the Museum was free and freely available, any given student would still need to access a letter of reference and the time to go to the Museum (as well as the material means to acquire the portfolio, paper, and chalks anticipated by the Trustees). The opening hours for students militated against anyone attending who had to use these daylight hours for work, a point which was made quite often with reference to the Reading Room through this period. 63 The most assiduous students needed the time free to study at the British Museum, something that well-off students like Eastlake, Brockedon, Briggs, and Monro had readily available to them. Their peers at the Academy who were obliged to work during the day to make a living, or who were serving apprenticeships, would simply not be able to make the hours available at the Museum. 64 The ambitious painter Thomas Christmas was free to attend the Museum, having dedicated himself to study after working as a clerk, but his brother, Charles George Christmas, who held down a job in the Audit Office, would have struggled; accounting for his studies at the Academy, he had told Farington, “He shd. continue to do the business at the Auditors' Office, Whitehall, which occupies Him from 10 oClock till 3 each day, as it will keep His mind free from anxiety abt. His means of living and leave Him with a feeling of independence.” 65 Given that the students were admitted to the Townley Gallery from noon to 4 o’clock in the afternoon, and that the Trustees continued to prohibit the use of artificial lights in the Museum, there was scarcely any real possibility of Charles George Christmas attending, although he also enjoyed the comforts of a middle-class home background (their father was a Bank of England official). With the ascent of utilitarian criticism, visitor levels were turned to anew as a measure of the institution’s fulfilment or failure to fulfil its “national” purpose. On strictly statistical terms, the Museum seemed to be successful at providing opportunities for art students. Only under the closest scrutiny, with attention to the “micro-history” of individual lives, does that illusion start to be tested. It is, though, at this “micro” level that we can apprehend the characteristic paradox of an emerging cultural modernity, one that is still with us. Yet the point, to follow Rancière, is not to see the past ascent of a present situation, but to force ourselves to feel uneasy with that sense of recognition and its tacit model of history. The evidence is that free access to culture and the (circumscribed) promotion of equality were combined with socially restrictive patterns of preferment. 66 Study at the British Museum may have been free, and freely available to properly qualified students of the Academy, but you needed to be in the right place at the right time, to have the time available, and, indeed, to know or at least be able to access the right people, to get in. This point may seem unduly sociological or even tendentious, but overlooking it involves a denial of the socially invested nature of time, specifically, of the scholastic time (given over to study or contemplation or to creation) mythically removed from the influence of social forces. 67 The acts of nomination which saw certain men and women given special access to the Townley Gallery, acts so seemingly trivial in themselves involving perhaps only an exchange of words and a scribbled note, were microcosmic manifestations of social authority of the most far-reaching kind. 68 When Robert Butt, the principal manager of the bronze and porcelain department at Messrs Howell & James, Regent-street, was examined by the Select Committee on Arts and Manufactures in 1835, he noted: The process by which a knowledge of the arts of painting and sculpture is now acquired is this: a young man receives tuition from a private master; he draws from the antique at the British Museum for a certain time, and when he shows that he has sufficient talent to qualify him for a student of the Royal Academy he is admitted; but the expense of acquiring that preliminary knowledge is considerable, and the young artist must also be maintained by his relatives during the time that he is acquiring it. 69 The following year, in a further parliamentary committee, this time dedicated to testing out the British Museum’s claims to public status, James Crabb, “House Decorator” of Shoe Lane, Fleet Street, was asked, “Did you ever obtain any assistance, by means of casts, from the better specimens of sculpture in the Museum or elsewhere?”, to which he replied, “I should derive assistance from them if I had the opportunity, but I have not time.” 70 Considered sociologically, as the personal experience of these men seems to have obliged them to do, time was certainly of the essence. The prevalence of students with secure middle-class backgrounds at the British Museum might, then, be taken as evidence of an early phase in the “middle-classification” of art practice, the awkward but evocative phrase used recently by Angela McRobbie in her eye-opening observations of careers in the present-day creative industries. 71 Whatever emphasis may be put on equality of access to educational opportunity, however rigorously fairminded and anonymized the tests and measures involved in admission procedures, without forms of positive support to counterbalance or actively adjust social inequalities, those same inequalities will tend to be reproduced, homologically, in the educational field. This is patently not a simple matter of social and material advantage underpinning artistic enterprise in a wholly predictable way; such would be a nonsense, in light of the many students who did not enjoy such advantages. Instead, it is the very flexibility built into the exclusionary processes of the emerging cultural field which is significant—the possibility that talented students could get access, gain reputation, achieve success, without being limited by their social origins. “Freeing” art education allowed for the expression of personal preferences or dispositions at an individual level, which at an aggregate level reproduced larger power relations. Exposing that ultimately exclusionary process, which may be marked only in small differences, in personal dispositions and behaviours, in the personal choices and decisions which are neither truly personal nor really pure as choices, is no small task. This essay, and the biographical survey accompanying it, with its details of a multitude of student lives otherwise scarcely recorded or recognized, is intended as a small contribution to that larger project, with the excess of data presented here perhaps imposing, in itself, new requirements on our understanding of the history of art education. Appendix Regulations for the admission of students of the Royal Academy to the Townley Gallery at the British Museum (May 1808): [7] That the students of the Royal Academy be admitted into the Gallery of Antiquities upon every Friday in the months of April, May, June, & July, & every day in the months of August and September, from the hours of twelve to four, except on Wednesdays and Saturdays the Students, not exceeding twenty at a time, to be admitted by a Ticket from the President and Council of the Royal Academy, signed by their Secretary. [8] The better to maintain decorum among the Students, a person properly qualified shall be nominated by the Royal Academy from their own body, who shall attend during the hours of study; the name of such person to be signified in writing, from time to time, by the Secretary of the Royal Academy to the Principal Librarian of the British Museum. [9] That the members of the Royal Academy have access to the Gallery of Antiquities at all admissible times, upon application to the Principal Librarian or the Senior under Librarian in Residence [10] That on the Fridays in April, May June & July one of the officers of the Department of Antiquities do attend in the Gallery of Antiquities according to Rotation in discharge of his ordinary Duty. [11] That in the months of August & September some one of the several Officers of the Museum, then in Residence, do (according to a Rotation to be agreed upon by themselves & confirmed by the Principal Librarian) attend on the Gallery upon the Days for the admission of Students. [12] That the attendants in the Department of Antiquities be always present in the Gallery during the times when the Students are admitted. 72 Footnotes The original register is held in the Keeper’s Office, Department of Prints and Drawings, British Museum. Patrick Joyce, “Speaking up for the State” (2014), https://www.opendemocracy.net/ourkingdom/ patrick-joyce/ speaking-up-for-state. These points are made in light of a larger research project, which has given rise to the present study: a biographical survey of all the students of paintings, sculpture, and engraving who were active at the Royal Academy schools between its foundation in 1769 and 1830 together with a monograph, provisionally titled The Talent of Success: The Royal Academy Schools in the Age of Turner, Blake and Constable, c. 1770–1840 (forthcoming). This fuller survey indicates several important shifts over these decades, including a fundamantal shift in the proportion of students coming from family backgrounds in the arts and design-oriented trades, in comparison with those coming from professional and genteel backgrounds. It exposes, specifically, a new group whose fathers were engaged as “officers”, in the civil service or bureaucratic roles, who in turn had a disproportionate representation within the developing art establishment (as Academicians, or as officials in other cultural bodies). The term “art world”, as designating a space of co-production, stems from Howard S. Becker, Art Worlds (1984), rev. edn (Berkeley, CA: University of California Press, 2008). As deployed here, it is closer in conception to the sociological “field” as detailed by Pierre Bourdieu across a succession of influential works. Notable among these, for present purposes because of its methodological statement about the homological analysis of the world (field) of art in relation to the field of power, is The Rules of Art, trans. Susan Emanuel (Cambridge: Polity Press, 1996), esp. 214–15. See, notably, the chapter on “Workers in Art” in Samuel Smiles’s Self-Help, first published 1859 with numerous further editions. On the self-motivated artist as the model for all forms of work, see Angela McRobbie, Be Creative: Making a Living in the New Culture Industries (Cambridge: Polity Press, 2016), esp. 70–76. Holger Hoock, The King’s Artists: The Royal Academy of Arts and the Politics of British Culture, 1760–1840 (Oxford: Oxford University Press, 2003) and Hoock, “The British State and the Anglo-French Wars Over Antiquities, 1798–1858”, Historical Journal 50, no. 1 (2007): 49–72. Patrick Joyce, The Rule of Freedom: Liberalism and the Modern City (London: Verso, 2003) and Joyce, The State of Freedom: A Social History of the British State Since 1800 (Cambridge: Cambridge University Press, 2013); also his “What is the Social in Social History?”, Past and Present 206, no. 1 (2010): 213–48. On this Foucauldian framing of art education and creative production within liberalism, see McRobbie, Be Creative, 71–76 and passim. Karl Polanyi, The Great Transformation: The Political and Economic Origins of Our Time (1944; Boston, MA: Beacon Press, 2002); Michel Foucault, The Birth of Biopolitics: Lectures at the Collège de France, 1978–1979, ed. Michel Sennelert, trans. Graham Burchell (Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2008); Luc Boltanski and Eve Chiapello, The New Spirit of Capitalism, trans. Gregory Elliott (London and New York: Verso, 2007); Pierre Bourdieu, On the State: Lectures at the Collège de France, 1989–1992, ed. Patrick Champagne and others, trans. David Fernbach (Cambridge: Polity Press, 2014). See Edward Higgs, Identifying the English: A History of Personal Identification 1500 to the Present (London: Bloomsbury, 2011), 97–119. Higgs’s account is, essentially, positive about the liberties and rights secured by this rising documentation. The position taken here is more determinedly Foucauldian. For the foundational role of statistics in “liberalisation”, and the hidden affinities between the liberal and the totalitarian, see Michael Foucault, “Society Must Be Defended”: Lectures at the Collège de France, 1975–76, ed. Mauro Bertani and Alessandro Fontana, trans. David Macey (London: Penguin, 2004). Foucault, Birth of Biopolitics, 69. A biographical dictionary of Royal Academy students from 1769–1830. See note 3, above. Jacques Rancière, The Method of Equality: Interviews with Laurent Jeanpierre and Dork Zabunyan, trans. Julie Rose (Cambridge: Polity Press, 2016), 108. Neil Chambers, Joseph Banks and the British Museum: The World of Collecting, 1770–1830 (London: Routledge, 2007), 107. The register is mentioned in the notice of Seymour Kirkup in G. E. Bentley, Blake Records, 2nd edn (New Haven, CT, and London: Yale University Press, 2004), 289n. Kirkup was an unusually assiduous student at the Museum, admitted in 1809 and renewing his ticket through to 1812. The reference in Bentley appears to be the only published reference to the register. The admission of the Paytherus sisters to draw at the Museum is noted by James Hamilton in his London Lights: The Minds that Moved the City that Shook the World, 1805–51 (London: John Murray, 2007), 72, although with reference to the early Reading Room register (marked “1795”) in the British Museum Central Archive, rather than the volume in Prints and Drawings. See J. T. Smith, Nollekens and his Times, 2 vols., 2nd edn (London: Henry Colburn, 1829), 1: 242. Viccy Coltman, Classical Sculpture and the Culture of Collecting in Britain since 1760 (Oxford: Oxford University Press, 2009), 242–44. See B. F. Cook, The Townley Marbles (London: British Museum Press, 1985) and Ian Jenkins, Archaeologists and Aesthetes in the Sculpture Galleries of the British Museum, 1800–1939 (London: British Museum Press, 1992). Chambers, Joseph Banks, Derek Cash, “Access to Museum Culture: The British Museum from 1753 to 1836”, British Museum Occasional Papers 133 (2002), 68. http://www.britishmuseum.org/research/publications/research_publications_series/2002/ access_to_museum_culture.aspx. The British Museum, Central Archive, C/1/5/1029–30. Library of the Royal Academy of Arts, London, CM/4/50–52. Library of the Royal Academy of Arts, London, CM/4/59. The British Museum, Central Archive, C/1/5/1034. The British Museum, Central Archive, C/1/5/1043–144. Cf. “Chapter III: Concerning the Admission into the British Museum”, in Acts and Votes of Parliament, Statutes and Rules, and Synopsis of the Contents of the British Museum (London, 1808), 15–16. Joseph Farington, The Diary of Joseph Farington, ed. Kenneth Garlick, Angus Macintyre, and others, 17 vols. (New Haven, CT, and London: Yale University Press, 1978–98), 9: 3284. Library of the Royal Academy of Arts, London, GM/2/366, 370. Library of the Royal Academy of Arts, London, GM/2/371. Library of the Royal Academy of Arts, London, GM/2/372–73. Diary of Joseph Farington, 9: 3313. Diary of Joseph Farington, 9: 3317. Diary of Joseph Farington, 9: 3284. The British Museum, Central Archive, C/3/9/2426. The British Museum, Central Archive, C/3/9/2428. The British Museum, Central Archive, C/1/5/1069. The British Museum, Central Archive, C/1/5/1070. The arrangement of the galleries was first detailed in a written description provided by Westmacott for Prince Hoare’s Academic Annals (London, 1809) and in Taylor Combe’s A Description of the Ancient Marbles in the British Museum, 3 vols. (London, 1812–17). See Cook, Townley Marbles, 59–61. Karl Friedrich Schinkel, “The English Journey”: Journal of a Visit to France and Britain in 1826, ed. David Bindman and Gottfried Riemann (New Haven, CT, and London, 1993), 74. The record of admissions to view prints and drawings must have arisen from the new regulations issued by the Trustees in November 1814; see, Antony Griffiths, “The Department of Prints and Drawings during the First Century of the British Museum”, The Burlington Magazine 136, 1097 (1994): 536. In March 1817 the student artist William Bewick wrote to his brother: “I last Monday set my name down as a student in the British Museum.” See Thomas Landseer, ed., Life and Letters of William Bewick (Artist), 2 vols. (London: Hurst and Blackett, 1871), 1: 37. Edward Nygren, “James Ward, RA (1769–1859): Papers and Patrons”, Walpole Society 75 (2013): 16. Jack Tupper, “Extracts from the Diary of an Artist. No.V”, The Crayon, 12 December 1855, 368. An album of drawings of the Townley Marbles in the British Museum (2010,5006.1877.1–40) appears to have been collected by Townley himself, so dates to before the installation of the marbles at the Museum. The drawings serve as records of the objects rather than student exercises. The drawings by John Samuel Agar in the Getty Research Institute are evidently preparatory for the prints published in Specimens of Antient Sculpture. BL Add MS 37,163 f.106. This and other figures in the Townley collection could also be found as casts in the Royal Academy’s plaster schools, so even if Wood’s drawing, for example, could be traced, it could not definitively be said to be made in the Townley Gallery. See Ann Chumbley and Ian Warrell, Turner and the Human Figure: Studies of Contemporary Life, exh. cat. (London: Tate Gallery, 1989), 12–13. Eric Shanes, Young Mr Turner: The First Forty Years, 1775–1815 (New Haven, CT, and London: Yale University Press, 2016), 33–34. Hansard (House of Commons), 16 February 1821, c.724 (online at http://hansard.millbanksystems.com/commons/ 1821/feb/16/british-museum). See Cash, “Access to Museum Culture”, 197–225 for a full account of public discussions around this date. Quoted in Cash, “Access to Museum Culture”, 208. British Museum: Returns to two Orders of the Honourable House of Commons, dated 16 th February 1821, House of Commons, 23 February 1821, 2. Cash “Access to Museum Culture”, 71. Quoted in The Literary Chronicle, 17 March 1821, 168. Edward Edwards, Lives of the Founders of the British Museum (London: Trübner and Co., 1870), Acts and Votes of Parliament, Statutes and Rules, and Synopsis of the Contents of the British Museum. London, 1808. Becker, Howard S. Art Worlds (1984). Rev. edn. Berkeley, CA: University of California Press, 2008. Bentley, G. E. Blake Records. 2nd edn. New Haven and London: Yale University Press, 2004. Boltanski, Luc, and Eve Chiapello. The New Spirit of Capitalism. Trans. Gregory Elliott. London and New York: Verso, 2007. See Martin Myrone, “Something too Academical: The Problem with Etty”, in William Etty: Art and Controversy, ed. Sarah Burnage, Mark Hallett, and Laura Turner (London: Philip Wilson, 2011), 47–59. The barest and most conjectural biographies include those for William Carr of New Broad Street; W. W. Torrington; Edward Thomson; Richard Moses; and Mr Lewer. Information is most notably lacking for the trio of Miss Cowper, Miss Moula, and Mr Turner of Gower Street; William Hamilton of Stafford Place; William Irving of Montague Street; Thomas Williams of Hatton Garden; Daniel Jones; M. Hatley of Albermarle Street; Miss Edgar; Miss Carmichael of Granville Street; Mr Atwood; Mr Higgins of Norfolk Street; George Pisey of Castle Street; Charles White of George Street; Robert Walter Page of Wigmore Street; Henry A. Matthew; Thomas Welsh; and John Hall. Students were entered as “probationers” for a period of three months (which might be extended), and once registered could attend the Schools for a period of ten years. Ralph Irvine; Arthur Champernowne; the Chevalier de Barde; John Disney; John Campbell; Edward Utterson; John Lambert; Robert Batty; Alexander Huey; Richard Thomson; Charles Toplis; John Frederick Williams; Edward Burrows; William Carr; W. W. Torrington. Jane Landseer; Janet Ross; Georgiana Ross; the two Misses Paytherus; H. Edgar; Maria Singleton; Elizabeth Appleton; Louisa Champernowne; Miss Carmichael; Elizabeth Batty; Frances Edwards; Eliza Kempe; Ann Damer; Miss Cowper; Miss Moula; Miss Trotter; Miss Adams; Sarah Newell; Emma Kendrick; Jane Gurney. Gentleman’s Magazine (1820) and A Trip to Paris in August and September (1815), quoted by William T. Whitley in his Art in England, 1800–1820 (London: Medici Society, 1928), 263, as evidence that “It was still thought improper for women to study from such figures” as the Apollo Belvedere. Cash, “Access to Museum Culture”, 113. As the American Samuel F. B. Morse (a student at the Royal Academy and the British Museum) noted in 1811: “I was surprised on entering the gallery of paintings at the British Institution, at seeing eight or ten ladies as well as gentlemen, with their easels and palettes and oil colours, employed in copying some of the pictures. You can see from this circumstance in what estimation the art is held here, since ladies of distinction, without hesitation or reserve, are willing to draw in public.” See Edward Lind Morse, ed., Samuel F. B. Morse: His Letters and Journals, 2 vols. (Boston, MA: Houghton Mifflin, 1914), 1: 45. Lists of students admitted to copy at the British Institution appear in the Directors’ minutes, NAL RC V 12–14, and in contemporary press reports. Individuals admitted to copy at Dulwich Picture Gallery were routinely listed in the “Bourgeois Book of Regulations” from 1820; photocopies and notes at Dulwich Picture Gallery, C1 and H3. This is expecially clearly expressed in James Ward’s diary notes on his visits in 1817, meeting there the artists William Skelton, Joseph Clover, Henry Fuseli, and William Long, but also the gentlemen collectors and scholars William Lock, Edward Utterson, and Francis Douce (Nygren, “James Ward”). See Cash, “Access to Museum Culture”, 217 and passim. Although the timing of the Academy’s evening classes might seem to be more accommodating, even this may have been challenging. The master of Richard Westall, later a watercolour painter, “permitted him to draw at the Royal Academy, in the evenings; but for that indulgence he worked a corresponding number of hours in the morning”. Gentleman's Magazine, February 1837, 213. Diary of Joseph Farington, 4: 4783. On educational tests as linking “macro” and “micro”, “both sectoral mechanisms or unique situations and societal arrangements”, see Boltanski and Chiapello, New Spirit of Capitalism, 32. See Pierre Bourdieu, Pascalian Meditations, trans. Richard Nice (Stanford, CA: Stanford University Press, 2000). “Acts of nomination, from the most trivial acts of bureaucracy, like the issuing of an identity card, or a sickness or disablement certification, to the most solemn, which consecrate nobilities, lead, in a kind of infinite regress, to the realization of God on earth, the State, which guarantees, in the last resort, the infinite series of acts of authority certifying by delegation the validity of the certificates of legitimate existence”, Bourdieu, Pascalian Meditations, 245. The potentially trivial nature of the acts of nomination involved in gaining access to the British Museum is highlighted in Joseph Planta’s own account of providing recommendations (for the Reading Room) often only on the basis of casual conversations. See Cash, “Access to Museum Culture”, 207. Report of the Select Committee on Arts and Manufactures, House of Commons, 4 September 1835, 40. Report of the Select Committee on the British Museum, quoted in Edward Edwards, Remarks on the “Minutes of Evidence” Taken before the Select Committee on the British Museum, 2nd edn (London [1839]), 14. McRobbie, Be Creative. The British Museum, Central Archive, Bourdieu, Pierre. On the State: Lectures at the Collège de France, 1989–1992. Ed. Patrick Champagne and others. Trans. David Fernbach. Cambridge: Polity Press, 2014. – – –. Pascalian Meditations. Trans. Richard Nice. Stanford, CA: Stanford University Press, 2000. – – –. The Rules of Art. Trans. Susan Emanuel. Cambridge: Polity Press, 1996. 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Plomp and Jonathan Yarker sir john soane’s museum 2015  Drawn from the Antique: Artists & the Classical Ideal An exhibition at Teylers Museum, Haarlem 11 March – 31 May 2015 Sir John Soane’s Museum, London 25 June –26 September 2015 This catalogue has been generously supported by the Tavolozza Foundation and the Wolfgang Ratjen Stiftung, Vaduz This exhibition has been made possible through the support of the Government Indemnity Scheme Sir John Soane’s Museum is a non-departmental body and is funded by the Department for Culture, Media and Sport Published in Great Britain 2015 Sir John Soane’s Museum, 13 Lincoln’s Inn Fields, London, wc2a 3bp Tel: 020 7405 2107 www.soane.org Reg. Charity No. 313609 Text © the listed authors All photographs © as listed on pages 254–56 ISBN (paperback): 978-0-9573398-9-7 ISBN (hardback): 978-0-9932041-0-4 Designed and typeset in Albertina and Requiem by Libanus Press Ltd, Marlborough Printed by Hampton Printing (Bristol) Ltd Frontispiece: Michael Sweerts, A Painter’s Studio (detail), c. 1648–50, cat. 12 (p. 134) Page 10: Hendrick Goltzius, The Apollo Belvedere (detail), 1591, cat. 6 (p. 107) Page 78: William Pether, An Academy (detail), 1772, cat. 24 (p. 189) Contents Preface 6 Abraham Thomas Introduction 7 Adriano Aymonino and Anne Varick Lauder Acknowledgements 9 Ideal Beauty and the Canon in Classical Antiquity 11 Ian Jenkins and Adriano Aymonino ‘Nature Perfected’: The Theory & Practice of 15 Drawing after the Antique Adriano Aymonino  Catalogue Bibliography Photo credits 79 232 254  - authors of catalogue entries AA: Adriano Aymonino: AVL: Anne Varick Lauder: Eloisa Dodero: cats 9, 22 JK-B: Jerzy Kierkuc ́-Bielin ́ski: cat. 29 JY: Jonathan Yarker: cats 24, 25, 26, 27, 28 MP: Michiel C. Plomp: cats 6, 7, 8, 11, 31, 32 RH: Rachel Hapoienu: cats 1, 2, 4, 33. The exhibition ‘Drawn from the antique: artists and the classical ideal” examines the crucial role played by antique sculpture in artistic education and practice, a theme which lies at the heart of the conception of Sir John Soane’s Museum. As a student at the Royal Academy, Soane wins a travelling scholarship to embark on the grand tour. This forms the basis of a classical education which would prove to be an enduring influence on his subsequent career as one of the most important architects of the Regency period. The drawings, paintings and prints selected for the exhibition ‘Drawn from the antique – artists and the classical ideal’ offer a glimpse into an intriguing world of academies, artists’ workshops and private studios, each populated with carefully chosen examples of statuary which provide compelling snapshots of classical antiquity. Similarly, within his house and museum at Lincoln’s Inn Fields, Soane creates his own bespoke arrangements of ancient statuary and architectural fragments, providing educational tools which defined an informal curriculum for both his Royal-Academy students and the apprenticed pupils working within his on-site architectural office. In fact, one could consider much of Soane’s museum as an extended series of studio spaces, intended for academic improvement and personal inspiration. The concept of the exhibition ‘Drawn from the antique – artists and the classical ideal’ evolves from a series of conversations between Timothy Knox, and the collector K. Bellinger, to see if there may be some way to showcase the Bellinger extraordinary and unique collection of art-works *depicting* artists’ studios. We extend a special thanks to K. Bellinger, not only for her generosity in allowing us to exhibit these wonderful pieces but also for all the hard work in securing some stunning loans from other collections. We are grateful for the loans from the Getty Collection, the Rijksmuseum, the Kunsthaus Zürich, the Kunstbibliothek in Berlin. For the UK loans we would like to thank The British Museum, the Victoria and Albert Museum, the Royal Academy of Arts and the Courtauld Gallery. “Drawn From The Antique: Artists and The Classical Ideal” is a collaboration between The Soane Collection and the Teylers Collection, and I am grateful to M. Scharloo for agreeing to host the first leg of this exhibition, and also to Michiel Plomp, for facilitating the exhibition in Haarlem. It feels rather appropriate that the founders of our two institutions, Teyler and Soane, were both collectors with singular visions of how their collections should provide a resource for academic study and creative practice. This exhibition would not have been possible without the fantastic curatorial team that K. Bellinger assembled: A. Aymonino, A. Varick Lauder, and R. Hapoienu. I would like to express my gratitude to them for bringing the project to fruition. I would also like to thank Paul Joannides for his editing work on the catalogue and all of my colleagues at the Soane who worked to make this exhibition a reality, especially S. Palmer, D. Jenkins and J. Kierkuc-Bielinski, as well as S. Wightman at Libanus for designing such a beautiful catalogue. Finally, I would like to extend a special thanks to the Tavolozza Foundation and the Wolfgang Ratjen Stiftung, Vaduz, for their generous support of the exhibition and the catalogue. The exhibition explores one of the central practices of artists for years: drawing after the antique – l’antico. Ancient Graeco-Roman statuary provides artists with a “model” from which he learns how to represent the volume, the pose and the expression of the male nude and which simultaneously offers a perfected example of anatomy and proportion. For an established artist, a piece of antique statuary or a elief offers a repertory of form that serves as inspiration. Because the imitation (mimesis) and representation of nature is the principal aim of the classical artist, education in a workshop or an academy revolves around the study of geometry and perspective – to represent space – and anatomy, the antique but also THE LIVE MODEL – to learn how to deploy and mould the male body convincingly in a piece of statuary. This practical approach to the antique – as a convenient model for depicting or moulding  the naked male form – is accompanied by a more theoretical, aesthetic, and philosophical one. A piece of ancient Graeco-Roman statuary statue is perceived as a bench-mark of perfection and of the Platonic concept of ideal beauty, the physical result of a careful selection of the best parts of nature. Classical Graeco-Roman authors, such as the Italians Vitruvio, Cicerone or Plinio, reveal to the artist and the philosopher that antique statuary is based on a system. There is a Pythagoreian harmonic proportions. This rests on the mathematical relationships between a part of the body and the whole body. A piece of ancient statuary therefore embodies the same rational principle on which the harmony of the cosmos and nature are based. It is the powerful combination of this rational and universal principle that the antique expresses, together with its extreme versatility as a model of forms, that guarantees its ubiquitous success. Students in the early stages of their training are encouraged to ‘assimilate’ fully the idealised beauty of a classical statue through the copying of plaster casts. Only then can he be exposed to an ‘imperfections of nature’ as embodied by the live naked male model (“Drawn From Life”). This is intended to provide the craftsman with a standard of perfection that is then infused into his own statuary. For an artist, it was considered essential to travel to Rome. At Rome, the artists confront the venerated antique ‘original’ – not the copy -- and assembles his own ‘drawn’ collections of models – ‘drawn from the antique’ only, not ‘drawn from life’, for which you don’t need to go to Rome. Drawing (desegno) is considered the only intellectual part of an art – the first sensorial (specifically visual) manifestation of an idea. Drawing from and ‘after’ the Antique (desegno dall’antico) is the union of intellectual medium and intellectual subject. It becomes an integral part of the learning process and the activity of the artist who aims at pleasing the Society gentleman. It proves crucial for legitimising the ambitions of the artist who fashions himself as a practitioner of a liberal and intellectual activity. So widespread is it, that representing the practice itself developed into an artistic genre. Through a selection of pieces exemplifying this fascinating category of images, by artists as diverse as the Italian Zuccaro, Dutch Goltzius and Rubens, French Natoire, Swiss Fuseli and English Turner, we may attempt to analyse this phenomenon. We begin with an image relating to an early Italian academy and with a portrait, in which a piece of ancient statuary is included.We may proceed to an image of an artist as he ‘draws’ after a celebrated statue – the Apollo del Belvedere and the Laoconte, il torso del Belvedere, l’Antino del Belvedere – in the cortile ottogono del casino della villa Belvedere in Monte Vaticano, the Belvedere collection that serves as a model. We next may explore the varied approaches of artists to a piece of ccanonical statuary in Rome and the ways in which the Italian academic curriculum – with the antique (l’antico) as one of the two cornerstones (the other being: ‘natura’) – spreads all over Rome, where each palazzo claims its collection – Farnese, Ludovisi, Albani – and even up to La Tribuna di Firenze.An Italian drawing manual is a powerful vehicle for the uncostested establishment and entrenchment of the classical ideal. Significantly, a manual illustrates the practice of copying after the antique in their frontispieces. Next follow two of the most relevant images embodying the classicist credo of the accademia dell’arte at Rome and academie des beaux arts a Paris. The accademia a Roma codifies a structured syllabus. First-hand experience of the Antique ‘original’ in Rome becomes a must. Fuseli magnificently draws the fragments of the head, right hand, and left foot of the colossal statue of Constantine at the  Campidoglio. Fuseli’s image expresses a ‘romantic’ attitude towards classical statuary, based on the direct emotion and empathy – the eros of Plato, and the catharsis of Aristotle -- rather than a ‘study’ (studio) of an idealised beauty and proportion. Classicism is embraced and an academic syllabus is developed to graduate from the academy – as opposed to the nobility who can still practice amateur and present their statues at the annual exhibitions. The elite, educated in the classics, has a crucial role in disseminating the classical ideal. For less privileged students at Oxford (‘only the poor learn at Oxford’) the Ashmolean starts collecting a plaster cast of this or that original in Rome. Statues serve a decorative purpose in the villa garden fountain --- and the palazzo interior -- a clear sign of the commercialisation and further diffusion of the Antique. But while classical statuary becomes a n attract when doing the calls. Its role within academic curricula remains well-established. The Antique as a canonical model begins to be challenged by the more dynamic and innovative forces of art, a challenge that led to its rapid decline. The last exhibit shows a plaster copy of the celebrated ancient bust of Homer at the Farnese collection in Napoli is placed on equal footing with a bust of a non-classical author, neo-classical statuary, and even with a multicoloured porcelain parrot, reveals how the Antique becomes just one of the many historical references favoured by society, if not by Society. Although focused on images representing the relationship of an artist WITH the Antique, that is, the act or performance of copying or drawing from or after it, this catalogue includes also examples of the product of the practice: sketches actually ‘drawn from the antique’ not by students wanting to pass, but by professionals such as Goltzius, destined to be disseminated through the engraving. We have also included drawings by Rubens and Turner showing the compromising practice of setting a live model in the pose of the antique model – lo spinario, i lottatori in the case of a syntagma or statuary group -- and an early academic study by Turner the student of the torso del Belvedere (Aiace contempla suicidio). An image may portray how the artist HIMSELF in the presence of the Antique. The point of view should always be that of the intended addressee: the noble Epicurean connoisseur. The form and ideas that he enjoys and seeks in the classical model, the diversity of his taste according to his mood, and the kinds of image that are created to show their own relationship with the Antique. The attitudes towards classical statuary of a manic collector or an antiquarian, although touched upon in the essays and in some of the entries, are not discussed at length. We also decided to focus primarily on free-standing in the round male nude statue or syntagma (i lottatori), as opposed to a relief. The free-standing in the round reproduction of the male naked body is what the gentleman enjoys in terms of the proportion, the anatomy and his beauty. A relief rather serves as a compositional model and inspiration for a narrative mythological or historical scene. Drawings after reliefs would be the subject of a different exhibition. The choice of the two venues is entirely appropriate. Haarlem is one of the earliest Northern cities where the Antique is a subject of debate – within the private academy established by Mander, Cornelisz, and Goltzius – whose magnificent series of drawings after canonical classical statues is preserved in the Teylers Collection. The Soane Collection at Lincoln Fields, on the other hand, represents an incarnations of the classicist curriculum. It is an eccentric, kaleidoscopic academy where, in the name of the union of the arts, the study of Vitruvian and Palladian architecture gets integrated with the copying of paintings, classical statuary and plaster casts, to attain that mastery of drawing of the  human forms (uomo vitruviano) advocated by Vitruvius as a crucial element of architecture (to be replaced by Le Corbusier’s functionalist metron!). The idea for this exhibition has evolved. The Bellinger Collection is based on a just one theme: the sculptor at work. Fascinated by the creative process and the mystique surrounding it. The Bellinger Collection includes items in a range of media – drawings, paintings, prints, photographs and sculpture. Rather than stage an obvious ‘greatest hits’ exhibition focusing on celebrity, my idea is to show little-known, rarely exhibited, works and to present aspects of the collection, which had been rather neglected by scholarship in an attempt to open new ground. A preliminary step is made by Knox, who approached K. Bellingerto enquire whether she might showcase works from the collection in the piano nobile of the Palazz Soane. It soon became apparent that the theme of the relationship between the sculptor and antique statuary, which seemed so suitable to the venue of an architect’s palazzo-cum-academy-cum-museum with its rooms filled with antiquities and plaster reproductions, would have resonance with the Few. Accompanying a selection of works from the Bellinger Collection we have attempted to borrow on loan some of the most ‘iconic’ images, and others less well-known, that demonstrate the evolution of this practice of this class of ‘Drawn from the Antique’ over an extended period. Almost half of the works on display have never previously been exhibited and most have not been shown. The resulting display provides the first overview of a phenomenon crucial for the understanding and appreciation of ancient Roman art of the classical Augustean period, which lays stress on the creative processes of the Italophile artist and on the norms and conventions that guides and inspires his art. Presenting a relatively small yet coherent display on a topic that encompasses one of the major themes in the history of Art has been a serious challenge but a most pleasurable one. Our exhibition could not have been accomplished without the unwavering support of K. Bellinger, who generously agreed to part with fourteen choice examples from her little-seen private collection of images of artists at work and who has remained committed to the project since its inception: to Ballinger we owe our deepest gratitude. For the other works on display, we have benefited from the great generosity of colleagues at lending institutions for agreeing to send works in their care – some of them among their most popular and requested – to one or both venues of the exhibition. We owe sincere thanks to H. Chapman at the British Museum, S. Buck at the Courtauld, R. Hibbard and H. Dawson at the Victoria and Albert, C. Saumarez-Smith, H. Valentine and R. Comber at the Royal Academy. Abroad we wish to acknowledge the generosity of L. Hendrix and J. Brooks at Villa Getty, Bernhard von Waldkirch at the Kunsthaus Zürich, T. Dibbits at the Rijksmuseum, Amsterdam and K. Käding at the Kunstbibliothek, Berlin. We are enormously grateful both to the Soane Collection and the Teylers Collection for hosting this two-venue exhibition. Thanks are due to T. Knox and A/ Thomas, for their support for the project, and to S. Palmer, and D. Jenkins, for assisting with the loans. M. Scharloo, of the Teylers and Michiel Plomp, kindly agreed to house the first showing of the exhibition and to lend works from their collection. The catalogue was thoughtfully designed and produced by S. Wightman at Libanus, to whom we owe our warmest thanks, and printed by Hampton Printing in Bristol. R. Hapoienu, oversaw the photography and contributed immeasurably to the catalogue. Other curatorial colleagues have given their time and effort in preparing scholarly entries or essays: E. Dodero, I. Jenkins, J. Kierkuc -Bielinski, M. Plomp and J. Yarker. Special thanks are due to Dodero for sharing an infinite knowledge of antique sources. Finally, we are greatly indebted to P. Joannides for his input. Any and all errors are entirely our own. We wish to acknowledge warmly P. Taylor and Rembrandt Duits for granting us unfettered access to the Photographic Collection of the Warburg and other colleagues and friends who assisted in various ways in bringing this project to fruition: Mattia Biffis, R Blok, Yvonne Tan Bunzl, Wolf Burchard, Elisa Camboni, Martin Clayton, Zeno Colantoni, Paul Crane, Daniela Dölling, Alexander Faber, Cameron Ford, Ketty Gottardo, Martin Grässle, Axel Griesinger, Florian Härb, Eileen Harris, John Harris, Niall Hobhouse, Matthew Hollow, Peter Iaquinandi, Catherine Jenkins, Theda Jürjens, Jill Kraye, David Lachenmann, Alastair Laing, Barbara Lasic, Huigen Leeflang, Cornelia Linde, Anne-Marie Logan, Olivia MacKay, Austeja MacKelaite, Bernard Malhamé, Patrick Matthiesen, Mirco Modolo, Jane Munro, Lorenzo Pericolo, Benjamin Peronnet, Camilla Pietrabissa, Eugene Pooley, Pier Paolo Racioppi, Cristiana Romalli, Gregory Rubinstein, Susan Russell, Nick Savage, Nicolas Schwed, Ilaria Sgarbozza, Kim Sloane, Perrin Stein, MaryAnne Stevens, Marja Stijkel, Michael Sullivan, C. Treves, Michiel Ilja M. Veldman, Anna Villari, Rebecca Wade and Alison Wright. Support for the exhibition and catalogue was provided by the Tavolozza Foundation and the Wolfgang Ratjen Stiftung, Vaduz, to whom we owe our sincere gratitude. Ideal Beauty is the Canon in Classical Antiquity. The practice of drawing from the antique is a time-honoured one – if not antique! But even the Augustean copy makers knew who to imitate --. Since Antino became such an icon, we can say that Adrian finished the practice of ‘drawing from the antique’: He started to ask his slaves to ‘draw from nature’ – the nature of his lover! The philosopher should be reminded of the substantial role that the Antique has played in the education and inspiration of artists for years. Soane famously mixed marble sculpture with plaster reproductions in the learned and decorative interiors of his Lincolnfields villa. A constant theme in ancient philosophy (with which any Oxonian with a Lit. Hum. is more than acquainted with) is that behind the surface chaos of the tangible sensible world, there is a hidden order (kósmos). Harmony occurs when the opposite forces in nature (natura, physis), such as wet and dry, hot and cold, strong and weak, are properly balanced. Well-being depends upon a set of complementary humours. Reason (logos) – but cf. Dodds on the irrational -- is the weapon wielded in a constant struggle against the dark forces of the natural and non-natural artificial conventional realms alike. The concept of ‘number’ plays an especially important role in the Graeco-Roman, or Italic world view. Mathematics was most probably acquired from Babylon and first took root in the cities of Ionia. Pythagora, who had settled in Crotona and Melosponto in southern Italy, discovers the measurable intervals of the musical scale This demonstrates that number holds the key to the mysteries of the harmony of the Universe. Pythagoras was born on the Aegean island of Samos, which was just one of the many city states that participated in the Ionian Enlightenment with its concentration of natural philosophers. Applied mathematics finds a new purpose in the creation of colossal temples in an architectural culture that takes its inspiration from that of East. The technical aspects of this new tectonic art are explained in philosophical treatises. None of them survive but they were known to the Roman philosopher Vitruvio, who uses them extensively for “De Architectura”. His is the only complete treatise on ancient Roman architecture to survive. It is the main channel through which knowledge of ancient Roman architectural principles are handed down. The impact it has on architecture is paramount. Colossal temples are erected and foremost among them is the archaic temple of Diana at Efeso. Its forest of columns, some of them carved pictorially and its painted and gilded mouldings are breath-taking. The Ionian Enlightenment terminates by the catastrophic destruction of Mileto y the Persians. The Persians next set out to punish Athens for her instigation of the revolt. The failure of the Persian invasion in a series of battles on land and sea serve as a catalyst for a great surge of art and thought in the city that was the world’s first democracy. It was in Athens – the ‘Athenian dialectic’ -- that humanity’s sense of self is forged. It is there that mankind acquires a unique and individual soul with personal responsibility for its welfare. In classical antiquity mankind places itself at the centre of the universe and is as Protagoras famously says, ‘the measure of all things’. Protagoras’s contemporary, the philosopher Socrates, leads the way in a moral philosophy aimed at penetrating the dark hinterland of human existence. Humanism prompts a “realism” (de rerum matura) in  product of an ‘ars’ that re-presents the naked male body in a ‘naturalistic’ way. There were those, however, who ha less positive view of human capacity for self-determination. A recurring theme in the philosophy of Socrates’ famous pupil, Plato, is the theory of ‘mimesis’ (‘imitatio’), whereby the product of an ‘ars’  is twice removed from reality by virtue of its being a ‘copy’ of Nature, which is itself a copy of the hidden, intangible reality of the abstract world of the Idea. In Plato’s kósmos, reality is not to be found in Nature. Reality (and ideal beauty) cannot be detected by *sensing*. Rather, reality and beauty is ‘noetic’ and exists beyond nature (trans-naturalia) and can be grasped only through an effort of the ‘intellectual’ (logistikon) part of the tri-partite soul (the other two parts being the thymoeides and the epithymtikon). A man never gets to ‘know’ or grasp this ideal beauty. Man must be governed by the philosopher king, who has the intellectual capacity to achieve true knowledge and understanding of the universal law. The nature that man knows is itself a ‘copy’ (mimesis, imitation – imitative) of this suprasensible realm, so Plato argued and. As an imitation of nature, a product of an ‘ars’ is twice removed from the meta-physical intelligible world. There is no place for the pretensions of artists in the world of true reality. Only the pure and virtuous abstract beauty and goodness (kalloskagathia, bonus et pulchrus) of a ‘form’ (‘forma’) is to be found in the realm of the idea. The clearest and most developed account of Plato’s condemnation of the idols or products of ‘ars’ and his reasons for banning it from his ideal state (polizia, politeia) are to be found in the Socratic dialogue known to modern readers as The Polizia (Politeia). The ‘Polizia’ (Politeia) is beautifully crafted in a series of carefully honed set-piece speeches in which, and the irony is obvious, Plato demonstrates his skills as a philosophical artist – the dialogue aimed at beauty, rather than truth. It is difficult to say to what extent Plato puts words into or takes them out of the mouth of Socrates. The historical Socrates never wrote anything himself. We can at least be sure of Socrates’ insistence upon the imperative to pursue justified true belief (knowledge) as distinct from mere belief or opinion (doxa) and to seek understanding, as distinct from mere creed. These are after all the goals by which Socrates measures the moral integrity of man’s intelligence. When it comes to the standing of the product of an ‘ars’ in Socrates’s moral landscape, we may wonder whether this marble worker who had followed in his father’s ‘ars’ himself shares aristocratic Plato’s anti-thetical view of the ‘artista’. In a dialogue recorded by Xenophon between Socrates and Parrhasio, it is concluded that the product of an ‘ars’ cannot achieve beauty by simply ‘reproducing’ (or imitating, or copying) an individual, particular, single, naked male live model. He who pursues to give a product of an ‘ars’ must instead select the best part of more than one particular, singular male naked live model – this is not Adriano’s portraiture of Antino --  melding (or moulding) those parts (individua) together in such a way as to transcend, by way of a universalium, nature itself (the natural naked male live model) and turn the ‘re-presentation’ of a ‘beautiful’ (kalos) naked male live model into an ‘ideally’ beautiful naked male body. Aristotle. ever practical, ever helpful, opposes Plato in arguing that, instead of being a slave to Nature, man may create (poien) as nature itself created. In his Poetics and Politics he recognises the civic role of the product of an ‘ars’, as he praises the value of the products of the ‘ars’ of Polygnotos. “For Polygnotos re-presents but tweaks a natural male body better than the natural male body is. It’s an improving (perfection) on, rather than an imitation, of ‘imperfect’ nature of this or that particular naked male body – again this is not Antino’s portraiture – To this product of the ‘ars’ Aristotle grants the label of an ideal model – not the live model of imperfect nature. It is futile to try to guess who said what when. Suffice it to say that the statuary-maker is under pressure from various sides to justify the product of his ‘ars’ as a proper exemplar that perfects the imperfection of the natural male live model, reflecting the universal law of the kósmos. The artist has to look at philosophical mathematics. There is a historic change in the re-presentation (improved re-presentation, improvement) in the product of ‘ars’ of the body of a naked live model. Ironically, the abstract concept behind a ‘youth’ or ‘kouros’ [e. g. marble 194.6 cm (h) Met Museum 32.11] with its ‘formulaic’ tendency to convey the naked male form of a live model through a descriptive line and a block-like (rather than waving) form  gives way to contrapositum (contrapposto), and a greater fluidity – if not ‘naturalism’ -- conjuring a three-dimensional volume of live flesh. This ‘naturalistic’ figure type becomes the standard or canon. The ‘canon’ itself (first canon, as we shall see – cf. Lisippo) referred to the Doriforo of Policleto. Policleto obviously moulded and cast in bronze as he was in front of the real ‘doriforo’ (name unknown), the canon (qua model what exemplum) with copyists, notably in the copy of 212 com (h) at Naples – Museo Archeologico Nazionale, Napoli, 1st century bc copy of original of c. 440 bc, -- inv. 6011  The canon was famous in antiquity for its elaborate system of measurements about which Policleto wites a philosophical treatise known as ‘The Canon.’ To judge from what philosophers say about the spear-bearer, it is an explanation of the principle of proportion that Policleto declares to be the key to perfection in the product of the ‘ars’ qua re-presentation of the body of the male live model. The concept of ‘symmetria’ (commensuratio) is used to describe this system of a measured proportion. To the ancient authors, however, it signified a commensurability of parts measured in relation to one another and to the whole. Thus, the length of a finger was calculated in relation to the hand and the hand in relation to the whole arm and so on. Ideal beauty, based on mathematical perfection was, therefore, quantifiable. The preoccupation with numbers in idealised sculpture has strong links to the number-based aesthetics of the Pythagorean school of mathematics, first anticipated in architecture. Another link to the natural philosophy of the Ionian Enlightenment is the deliberate balancing of opposite motifs. There was found a bio-mechanical system of parts that were at once weight-bearing and weight-free, engaged and disengaged, stretched and contracted, tense and relaxed, raised and lowered – an overall balancing principle of contrapposto found in the statue Doryphoros and in many classical statues extremely influential. Polykleitos trains at a workshop (not an academy like Plato’s!) of Ageladas of Argos, along with Mirone. Mirone’s statue [v. Museo Nazionale Romano, Roma, inv. 126371 – 155 cm (h) copy of original of c. 460-450, marble]  is said to have more by way of ‘commensuratio’ about them than any other statues of his generation. As with the Doryphoros so with Myron’s Discobolo, known only through Roman copies, it is pretty difficult to hypothesise the exact system of proportion that he uses. We detect the deployment of balanced opposites in the composition. The creators of the doriforo and the discobolo share a common regard for the live model that transcends the nature of the live model. Although Polykleitos’ Canon and its physical embodiment, the original doriforo, are lost – the most famous Roman copy was excavated ONLY AT THE END OF THE OTTOCENTO – various literary sources handed over to the Renaissance the knowledge of them and the classical principle that the beautiful model is based on proportion, commensurability and mathematical perfection. This is the quest for the beautiful model that is measured and defined within the premises of natural philosophical mathematics. In the minds of commentators, the attribution of the power of creation (poiesis) to the statue-maker likens him to a seer and affords him a unique insight into his subject. It was said of Policleto that while his skill is suitable for representing what Vico (and Carlyle) calls a ‘hero’ (Italian ‘eroe’ – cf. il culto dell’eroe), the imaginative power of Fidia – author of the Parthenon’s sculptures, notably the Elgin marble of MARTE qua simbolo della mascolinita – conjures a ‘deus’ (dio). His positive view of the intuitive process of artistic creation (poiesis) becomes especially important in Rome where copies of the great works of Greek classical sculpture are reproduced in large numbers. ‘Re-produced’, that is, but not ‘re-plicated’ (cf. replicatura). For no two copies are, by definition, ever exactly *the same* (for one, the piece of marble is ‘another’). A Roman copyist, so-called, is, mostly an ethnic [it. ennico] Greek. He probably saw his product as a variation on a theme, or an improvisation (if not improvement) on the ‘original’, not a slavish copy – plus, his Roman Mecenas couldn’t care less – connoisseurship was looked own. A Roman vir has other things in mind, such as battle! It is through this army of Roman copies that Italian artists acquire a fragmentary knowledge of the proto-type (cf. Weber’s ideal type], the vast majority of which, in bronze, as they should – for sculpting marble is different than moulding wax -- are deliberately melted by Christians as blasphemous pagan, heathen, gods and heroes. The spectre of the greatest mind of all antiquity, Plato, and his condemnation of art always hover over the heads of artists and art lovers alike. In the high empire of ancient Rome a neo-Platonist movement challenges Plato’s extreme opinion and argues for the product of an ‘ars’ of being possessed of the intellectually beautiful (even if first perceived through the senses – nihil est in intellectu quod prior non fuerit in sensu. Plotino notes: ‘now it must be noted that the wax [...] brought under a hand to a ‘beautiful’ ‘form’ or ‘shape’ (eidos, idea, morphe) is ‘beautiful’ not ‘he’ or qua wax – for so the crude block would be as ‘pleasant’ or pleasurable or pleasing – but *qua* form, eidos, shape, morphe, or idea. This practical and workable Aristotelian and neo-Platonic rather than the Platonic philosophy of art was that adopted by most Italians (even if they let Ficino dreamed about!). The paradoxical (feigned, ironic, taunting) superiority of the product of an ‘ars’ art to nature – as a selected, ideal, improved, correctio version of it (no ‘warts and all’) – has been a central premise of the “beau ideal” where ‘beau’ can be in the Romance languages both masculine and neuter (‘il bello’ – il bello ideale) in the humanistic theory of art and especially in its neo-classical incarnation. A statue is admired and enjoyed as the embodiment of a moral aesthetic that can be applied also to a plaster cast. It serves both as the paradigm of art training and as source of inspiration for artists for centuries. For an introduction to ancient aesthetics and views on art, see Tatarkiewicz 1970; Pollitt 1974. Selections of primary sources are included in Pollitt 1983; Pollitt 1990. The main source for this famous sentence is Platone, Theaetetus 151e. See also Diogenes Laertius, De Vitis ... philosophorum, 9.51. 3 Platone, Republic, 10, esp. 10.596E–597E. 4 Xenophon, Memorabilia, 3.10.1–5. 5 Aristotele, Poetica, 1448a1; Politica, 1340a33. See also Metafisica, 1.1, 981a. 6 Plinio, Naturalis Historia, 34.57–58. 7 Cicerone, Bruto, esp. 69–70, 296; Plinio, Naturalis Historia, 34.55; Galeno’s treatises, esp. De Placitis Hippocratis et Platonis, 5, and De Temperamentis, 1.9; Quintiliano, Institutio Oratoria, esp. 5.12.21 and 12.10.3–9; Vitruvio’s De Architectura, 3.1. 8 Quintiliano, Institutio Oratoria, 12.10.3–9. 9 Plotino, Enneads, 5.8.1. 14  ‘Nature Plus-Quam-Perfected’: -- the ‘Drawn from the Antique’ at the Royal Academy. ‘Desegno dall’antico’, ‘desegno dalla natura’. In his inaugural lecture as Professor of Painting at The Royal Academy of Arts in London, Opie arranged a few headings, which included a general definition of painting, the imitation of Nature, the idea of general beauty, the idea of general perfect beauty, the idea of perfect beauty the true object of the highest style, as the aim of the highest style, design, drawing, the most important part of painting, the uses of knowledge of anatomy, symmetry and proportion the next in importance. great excellence of the *ancients*, the ancient sculptor in those points; studying antique statuary to advantage, perfection of the Art of painting under Vinci, Buonarroti, and Sanzio. Opie’s outline, with its standardised categories, is a clear example of ‘inglese italianato e un diavolo incarnato’ and a summary of a time-honoured aesthetic tradition which indeed he is drawing from the antique! Opie’s proposal of what constitutes ‘the high style’ is a direct continuation of the humanistic theory of art, formulated in early Renaissance Florence and expanded and modified in the succeeding centuries, mainly in Italy. At the core of this tradition is the thesis that art imitates nature and, in art’s highest manifestation, perfects nature by selecting her best parts, to create (poien, design) a model of ideal beauty – drawn from the antique -- a universal standard to which man aspires. Classical statuary plays a crucial role in this theoretical framework. An antique statues is perceived, and often revered, as works in which the process of this selection of the best parts of nature is accomplished. An antique – and thus a sketch ‘drawn from the antique’ -- offers the ‘antique’ (not natural live) model from which the form, the pose, the gesture and the expression of a naked male is appreciated, in its idealised anatomy and proportion. As the theory evolves from the 16th century onwards, the three leading protagonists of the High Renaissance, Vinci, Buonarroti and Sanzio – not mannerist Bernini, such as Tasso is not in the canon as Ariosto is -- are placed on the same level as the antique, as the first trio of non-antique or non-ancient (i. e. modern) artists – cf. Hymns Ancient & Modern) whose statues equal, if not surpass, the antique (but there was not ‘Drawn from Buonarroti!’). The humanistic theory of art remains for centuries the philosophical aesthetics. It undergoes many developments and was at times challenged. It is primarily through the medium of ‘desegno’, drawing, that one is educated in geometry and perspective – to learn how to re-present space – and in anatomy and the male naked live model – to learn how to deploy the naked male. ‘Drawn from the antique’ represents the essential component of this educational method, initially as a convenient model for the copying the male form, and then progressively as a bench-mark of perfection whose appreciation one is supposed to assimilate before being exposed to ‘fallible Nature’, embodied by the naked male LIVE model with all its imperfections – the profession being underpayed and carried out by Italians! – and this or that unnecessary feature – however necessary this unnecessary feature is for the photographer of Antino, before he photoshops! In its codified and pedantic rigidity, this Vitruvian categorization reveals that, at the same time as they held theoretical sway, by the beginning of the 19th century the tradition that he espoused had become increasingly stifling. At the dawn of the Modern era, a system based on the principle that art is a rational practice that can be taught by precepts resting on a fixed aesthetic is progressively being dismantled by those who advocate subjectivity, individual expression and the conceptual freedom required by inventive genius. Although the normative principle of the humanistic theory of art remains solidly established within the academic programme, the creative forces of art are increasingly to be found ‘outside Plato’s Academy’. With this epochal shift of aesthetic values, classical statuary, unsurprisingly, suffered most. Precisely because of its status as a model and standard of perfection in academic curricula, it inevitably encountered the indifference, if not open hostility, of Marinetti (if not Mussolini) and those avant-garde Italian artists who did not believe in the idealising role of art and, increasingly, not even in its imitative one. The Antique, which sustains and inspires creativity and diversity in art, offering an immense repertory of forms, expressions and aesthetic principles, loses its propulsive drive. To understand the pervasive role  the classical statue or statuary group plays in the education and inspiration of artists in the Early Modern period, that is from the 15th to the early 19th century, we return to the theoretical foundations and the practical concerns that create and sustain the conditions for its immense success and eventual decline. After the Middle Ages, in which the visual arts had been essentially symbolic, aiming to represent the metaphysical and the divine, in the early Renaissance focus shifts to an art that, as in antiquity, aims at a convincing ‘imitation’ of the external world, the world of Nature, with man at its centre. The primary concern of early Renaissance artists and art theorists is to set a rational rule for the faithful (or improved) representation of space and the human figure on a two-dimensional surface, free-standing, in the round. In his “De Pictura”, Alberti establishes the principle of art as an intellectual discipline, focusing on geometry, mathematical perspective and the representation of the naked male. The philosophical conviction that ‘man is the scale and measure of all things’ is applied to space: Alberti’s choice of viewpoint and scale in the perspective diagrams is based on the *height* of a well-formed male and the units into which he is divided. This philosophical position also accepts that the main aim of the art of statue-making is the depiction of a man’s action, emotion and deed, what Alberti called “la storia”. Naturally, the study and drawing of the LIVE model in a work-shop, and later of anatomy and classical statuary in a studio and an academy or club, are essential for this purpose. Although Alberti’s approach, and even the literary structure of De Pictura, is based on classical models and examples, his conception of art is ‘naturalistic’. For Alberti, to become skilled in the visual arts ‘the fundamental principle will be that all steps of learning should be sought from nature’ (“dalla natura”, not “dall’antico”). Earlier, more practical treatises, like Cennino Cennini’s Libro dell’Arte advocates the study of a painting produced by a master, a practice that encourages repetition and which could eventually lead to artistic sterility. Alberti accepts the copying of two-dimensional works by other artists only because ‘they have GREATER STABILITY OF APPEARANCE than the living, live, lively, model’, but he privileges the drawing of a statue because, being life-*like* (cf. ‘natura morta’), it does not impose just ONE viewpoint on its copyist, but infinite – which makes ‘drawn from the antique’ a fascinating reflection on the draughtsman, who seeks, say, for rear views!  Hence, while the practice of the early workshop often involved the copying of three-dimensional models or drawings of such models, it is as a preparation for life-study (“DRAWN FROM LIFE”) rather than an end in itself. This is is not to ignore the impact of antique proto-types on artists, which was enormous. One need only think of Donatello’s Ganimede who was responding to antique models from very early in the Quattrocento. But from a theoretical point of view, for Alberti, the emphasis is on the full mastery of the natural forms (‘DRAWN FROM LIFE’) rather than on the imitation of other works of art, even those from antiquity. The artist’s goal is to achieve an illusionistic translation of the external world onto the flat surface of a drawing (‘DRAWN FROM LIFE’) or into the volumes and masses of sculpture – as in Italian statuary not based on the Antique: Michelangelo’s Bacco, Bernini’s Enea, etc. -- Nevertheless, in Alberti we find the roots of two intertwined concepts, both originating in classical sources, which progressively support and justify the practice of copying as in ‘drawn from the antique’. The ultimate point is to create a ‘beautiful’ naked male by selecting the most ‘excellent parts . . . from the most beautiful naked males. Every effort should be made to perceive, understand and express beauty. To substantiate this principle, Alberti recalls the episode of the celebrated painter of antiquity -- depicted by Vasari in his fresco at his own palazzo in Arezzo, ‘Zeusi compone Elena dalle fanciulle di Crotona’-- the Italian Zeuxis, who, in order to create Elena, the image of female perfection, selects the most beautiful maidens from the city of Crotona and unfairly goes to choose the best part from each. This silly anecdote – sexist, since the male equivalent would be unthinkable --, derives from ancient literary sources, and becomes one of the most recurrent adaggi of the art treatise in the following centuries. Zeuxis embodies and clearly explains the idea of art as a form of ‘perfected nature’. The beautiful (‘il bello’, for Italians hardly use ‘bellezza’, unless you are Sorrentino) is based on a system of a harmonic proportion. For Alberti, in the perfect male the single part – the two hands, the head, the two legs, he torso, the back, etc. – is related numerically to the other parts and to the whole (il totto)  in the principle of commensurability or syn-metron, literally the measurability by a common standard. The overall result is harmonic perfection (‘ Just look in my direction! Ain’t that perfection!’) which Alberti defines as ‘concinnitas’, a theory that Alberti bases on Vitruvio’s De Architectura. Pro-portion, which Alberti covers in depth in his “De Statua” becomes a major subject of philosophical aesthetic speculation. Vinci and Dürer produce in-depth studies, and Vinci’s ‘uomo vitruviano’ is the perfect expression of the theory of the mathematical conception of the naked male [Vinci, Gallerie dell’Academia, Venezia, inv. 228 – Le proporzione dei corpo umano secondo Vitruvio, metal point, pen and brown ink with touches of wash, 344 x 245 mm c 1490] For Alberti, one selects the best from nature and reassembles the selection according to a system of harmonic proportion ultimately resting on the mathematical relation THAT IS rationally inferred from Nature itself. This principle is the cornerstone of aesthetics. Although the central textual foundation for the concept that ‘il bello’ is based on proportion, Policleto’s Canon, had been lost, Renaissance artists and scholars are well aware through Vitruvio and other classical writers that ancient artist base his work on this principle. Therefore, from the 16th century onwards, and especially in the following two centuries, the crucial appeal that an antique statue had for artists rested not only in its aesthetic quality and form, but also on the very fact that it embodied the intellectual principle of proportional perfection. The rationalistic (indeed illuministic) approach of the Canova’s French academy (when moulding the wax of Napoleon in nudita eroica) even provides students with manuals in which the numerical proportion of a statue is carefully laid out. This idea-guided naturalistic attitude of art theory, which had in any case been greatly modified in High Renaissance practice, shifts towards an even more idealistic (hyper-idealistic, not romantic) approach and, simultaneously, a more systematic one, laying the ground plan for the classicist theory. Because most art theoreticians consider their era to be a period of artistic decadence and excess after the great achievements of the High Renaissance, and also because many of them focus on the codifying of a rule that may be imposed in the academy, the model of perfection is increasingly deemed mandatory (Dolce, Lomazzo, Armenini), the antique that they feel inspired and guided the ‘buona maniera’ of Buonarroti and Sanzio (whom the pre-raphaelites hated), became the standard by which a fault (errore) of Nature or this or that affectation (say, the length of necks in Modigliani) is corrected. The ‘drawn from the antique’ takes a decisive lead over the ‘drawn from life’ (DESEGNO DALLA VITA), and the construction of taste – the lure of the antique that had lured the antiques themselves, such as Adriano! Correspondingly, in the classicist tradition that develops in Rome – the headquarters of the French Academy at Villa Medici -- the Antique (l’antico) becomes the essential model for the composition. This, definable as the depiction of episodes based on Roman mythology or Roman history, with a moral value attached, is considered from Alberti the highest form and final aim and receives the place of honour in the academic hierarchy of the genres. Although a naturalistic and anti-classicist tendency remains alive even within the academic system, classicism establishes itself as the predominant aesthetic principle, as Opie’s inaugural lecture as Chair of Painting (but not Chair of Sculpture – since that’s a whole different animal!) at the Royal Academy attests. Its success rests primarily on the fact that it represents an aesthetic approach that is considered to express a universal and a ‘true’ principle. And this, because of its rational nature, can be taught by rule, which suits the systematic attitude of Enlightenment culture. The proliferation of the academy encourages the penetration of this set of values even within contexts and cultures that until then had been only superficially exposed to it. The humanistic theory of art, clothed in a new and codified form, eventually reaches the most remote corners of the world, with the antique army as the herald. At the centre of the education of any artist in the Renaissance was the practice of ‘disegno,’ drawing or design, considered to be one of the essential foundations of art from Cennini onwards. ‘Disegno,’ (dall’antico, dalla vita), endowed with an intellectual role by Vasari  and other theorists, as the manifestation of the idea and invention of the artist, becomes the essential quality of the Roman and Florentine academies. Successively, it assumed a central role in the theory of European academies as the expression of the rational common denominator of the three sister arts: painting, sculpture and architecture. Opie, himself a poor draughtsman – hence his teaching of ‘disegno’ --, still considered ‘Design, or Drawing, the most important part of Painting’. Drawing after the Antique, or Drawing from the Antique, as a union of intellectual medium and intellectual end, becomes integral to the learning process and the activity of artists, along with ‘Drawn from Life’. The academy is depicted, the studio, an artists copying from some original or drawing from a cast, in situ in, usually, Rome or back at home. Whether he is drawing from the antique on paper to learn how to represent outlines and chiaroscuro – the effects of light on three-dimensional forms – or to assemble a repertory of the body’s form, pose and expression, or to assimilate a system of ‘correct’ proportions and anatomy, no would-be member of the academy can avoid confronting the lessons of the Antique, and of adjusting his creative process in relation to it. Apart from the didactic and inspirational functions of drawing from the antique (as opposed as from life), many other reasons justified the practice. As a result of their pervasiveness, a studio ‘drawin from the antique’ (disegnato dall’antico’) – which are innumerable – are difficult to categorise because they are produced for different reasons, serve different purposes and display different conceptions and relations to the antique. Nevertheless, one might attempt a division. There is the didactic ‘drawn from the antique’: a copy produced his education as an a course assignment at the Academy: a drawing produced by a master in a workshop to provide the apprentice with an accessible repertory of classical forms to copy. There is RECORD drawing: a sketch created to serve as inspiration for a form, a pose, am expressios, a composition, a movement, a proportion, etc., for its own artistic purpose. There is translation, a precisely finished drawings intended to be engraved, usually conveying as much information as possible about the statue’s form and pose. There is documentary drawings, produced with the purpose of recording accurately the physical appearance of an antiquities obviously including any damage the statue may have undergone. To this category belong many drawings produced specifically for the antiquarian collector, from the “Codex Coburgensis” to those of the famous ‘Paper Museum’ assembled  by Pozzo. There is the marketable drawing: a finished copy specifically produced to be sold on the market or commissioned by a collector to fill his ‘paper museum’ of classical antiquities. Examples are those by Batoni for Richard Topham, Esq. – The Topham Collection --. There is the promotional drawing, a drawing made with the specific purpose of promoting the acquisition of an item (statue or statuary group), such as those by Jenkins to Townley – The Townley Collection. Naturally, as with any categorisation, these divisions are a simplification and a drawing may overlap two or more classes, such as this or that drawing by Goltzius, intended to be engraved, but which also function as a repertory of an antique forms to be used in the artist’s practice. Whatever their categories, all these drawings followed the technical evolution of the medium, from the predominant metalpoint and pen-and-ink to the black and red chalk. Athough pen-and-ink remains a favoured medium, chalk becomes the choice for FULL-SIZE statuary, as a softer, more pliable medium it allows a more sophisticated rendering of a tonal passage and, therefore, of relief and anatomu. Red chalk especially offers the impossibility of bringing the ANTIQUE (antico) to LIFE (vita), transforming or transubstantiating inorganic matter into ‘warm flesh’. In artists’ workshops one of the most important aspects of an apprentice’s training, aside from mastering the manual procedures of painting, is copying works by the master and other artists. This is intended as a means to shorten the process of learning how to represent the THREE-DIMENSIONS onto two thanks to examples already produced by others. This practice is described by Cennini, although still intended only to train the apprentice to reproduce the master’s style and not yet Nature or Life. An aapprentices could resort to copying model books and sketchbooks already assembled by the master or by others. These were repertories of a drawing of an animal, a plant, decorative details, a male nude at rest, a male nude in action, usually produced as teaching tools, and it is in these collections on paper that we find the earliest surviving drawings derived from classical antiquities. The Antique is included mainly as a source of information on the anatomy, its form, modelling, pose, expression, movementsand the interaction of all t hese elements. Most of the early drawings that represent antique forms are produced by artists active in Rome where the largest number of accessible physical remains from antiquity is concentrated. AN ANCIENT FULL-SIZE STATUE IN THE ROUND may have survived above ground. Among the most famous publicly displayed examples are the ANTONINO, or pseudo-Constantine the Great. outside the Lateran Palace, the Spinario, and the Camillo, both of which are moved from the Lateran to the Campidoglio by Sesto IV; the Quirinal Horse Tamers, I DIOSCURI, and the two Quirinal Recubantes or Rivers. Virtually no ancient painting is known, and its appearance was conjectured from a description (ecphrasis) in a literary sources, notably Pliny’s Naturalis Historia (esp. book XXXV). It was only with the exploration at the end of the 15th century of the buried interiors of the Domus Aurea of Nerone in Rome, known as grotte, that artists access ancient examples, and from this time a wave of grotesque motifs and decorations spread widely. More readily available is a sarcophagus relief or a large imperial relief. A drawing may depict mainly this category of ancient artefacts. They are popular because, with their complex, frieze-like narratives, it inspires the compostion of a “storia” as Alberti notes. Among the most frequently represented are the reliefs of sarcophagi and the imperial reliefs of Trajan’s Column and the Arches of Titus and Constantine. The subjects preferred by late Gothic or early Renaissance artists – Bacchic themes, Amazons, the story of Adone, marine deities or ancient battles – demonstrate an interest in the nude and in the depiction of movement, dynamism and strong expressions. Although it is recorded that Donatello and Brunelleschi copy antiquities during their stay at Rome, no drawings survive by either of them to reveal their approach to the Antique. The earliest surviving drawings of an antique is by artists in the workshops of Fabriano and Pisanello, when they were in Rome working for Martino V in St John in Lateran. The drawings correspond in many ways to the paintings. They show little awareness of the formal principle of classical art, transforming a figure from a Roman sarcophagus relief into a Gothic type. They often re-interpret the pose and, sin! -- proportion of the original, even, as in the case of a sheet of a fantasia in the Louvre, assembling figures from different s arcophagi. This process of extra-polation, isolation and modification is common to many drawings from the Antique. The draughtsman creates a visual repertories of single figures, or isolated groups of figures which are easy to re-use in their own compositions. From a teaching point of view, an isolated figure is probably considered, at least in the model books and sketchbooks, to be more readily assimilable by the apprentice in the workshop than a whole composition. A good example of such an approach is seen in a drawing attributed to the so-called ‘Anonymous of the Ambrosiana’, from a sketchbook made in Rome in The original model is a celebrated sarcophagus relief of the Muses, Minerva and Apollo then in the church of Santa Maria Maggiore. It was copied in drawings by several later growing archaeological awareness, in parallel with the spread of antiquarian studies and rising interest in the classical world and its physical remains. On the other hand, artists display a free handling and more personal approach to the original, as they move away from the restraints of the model book. With the exception of Donatello, from whom he learned much, MANTEGNA is the quattrocento artist who had the most complex and sophisticated relationship to the antique. Mantegna’s approach is evident in the introduction of direct quotations from ancient architecture, reliefs and sculptures in his paintings and frescoes and in his adoption of a precise, highly sculptural painting style. A drawing by MANTEGNA – or a copy after a drawing – executed during his stay in Rome accurately renders a classical proto-type but with a vivacious freedom in style. It represents one of the Trajanic reliefs inserted in the central passage of the Arch of Constantine. MANTEGNA sketches it at an angle from the right side and from below. He precisely records the relief’s damaged condition by showing both the emperor and the helmeted soldier on the right without their right hands. He interprets the composition freely, concentrating on the most prominent actors and on the relief’s formal principle, specifically its treatment of movement and emotion, qualities praised by Alberti as essential for the construction of a “storia”. The flow from left to right is accentuated, Trajan has windswept hair.The horse is shown galloping, less upright and frontal. The mouths are wide open, as are those of the soldiers on the right, expressing the intensity of emotion in the victory over the Dacians. A drawing like this serves a two- fold purpose, as a study of a formal principle and a record of antique costumes, armours, shields and helmets. Its organisational lessons and visual references could then be re-used to demonstrate the artist’s power of inventio and his erudite knowledge of the classical past, as Mantegna indeed does at Mantova in his sequence of canvases of the Triumph of Caesars [Sarcophagus of the Muses, with Apollo and Minerva, front, 2nd c. ad, marble, Kunsthistorisches Museum, Antikensammlung, Vienna, inv. I 171. Andrea Mantegna, or circle of, Drawing after the Relief on the Arch of Constantine, end of the 15th century – beginning of the 16th, black chalk with brown ink, 273 × 189 mm, Albertina, Vienna, inv. 2583r. Workshop of Pisanello, Three Nude Figures from Ancient Roman Sarcophagi, c. 1431–32, silver point, pen and brown ink on vellum, 194 × 273 mm, Louvre, Paris, inv. 2397]. artists, including Lippi and Franco and it was engraved by Raimondi. The Ambrosiana draughtsman reproduces only a few figures, changing their position and disregarding their interrelations and the background, no doubt with the intention of assembling a range of drapery studies that could be re-used in the future. The artist selects primarily figures that offered the greatest variety and movement of cascading robes, leaving the nude Apollo in the bottom right corner unfinished. Two tendencies, apparently opposed but both symptomatic of a more profound understanding of the antique, gains ground in sketchbooks and loose drawings. On one hand there was a [Anonymous of the Ambrosiana, Figures from an ancient Roman Muses Sarcophagus, c. 1460, metal point, pen and brown ink, heightened in white, on pink prepared paper, 310 × 200 mm, Biblioteca Ambrosiana, Milan, inv. F. 214 inf.] A similar evolution is seen in drawings that reproduce FREE-STANDING classical statuary. Not surprisingly, all are after the most famous statues then visible in Rome which, given their size and anatomical detailing, were an invaluable source for the study of the male body. The earliest examples are again a group of drawings by Pisanello. They represent, among other figures, the ANTONINO and one of the two Horse Tamers or Dioscuri on the Quirinal Hill. The latter is especially relevant for our purpose, as the Dioscuri constitute the two most complete free-standing nude in Rome. Both Dioscuri are copied repeatedly, praised by contemporary written sources, and [Trajan overpowering Barbarians, Roman, c. 117 ad, marble, Arch of Constantine, central arch, north façade, Rome remained constant sources of inspiration for artists into the 19th century. In a drawing of one of the Dioscuri, the draughtsman isolates the sculpture from its context, and focuses exclusively on rendering the anatomy. The cloak on the forearm is just outlined. Although it is an impressive achievement and while the male nude is realised much more plausibly than those figures taken from sarcophagus reliefs,  the ELONGATION and SLIMMING of the figure and the inaccurate rendering of the idealised anatomy betrays a Gothic mindset. The same DIOSCURO is copied in a drawing by Gozzoli [ Equestrian Statue of Marcus Aurelius, Roman, 161–180 ad, bronze, 424 cm (h), Capitoline Museums, Rome, inv. MC3247. Workshop of Pisanello, Marcus Aurelius, c. 1431–32, pen, brown ink and wash heightened in white on brown-orange prepared paper, 196 × 156 mm, CASTELLO SFORZESCO, Civico Gabinetto dei Disegni, Milan, inv. B 878 SC. One of the Two Dioscuri or Horse Tamers, Roman copy of the 2nd century ad, after a Greek original of the 5th century bc, marble, 528 cm, Quirinal Square, Rome] Pollaiuolo. Many are modelled on an ancient proto-type, like those being handled and studied by the artists at  Bandinelli’s academy. But ‘DISEGNO DALLA VITA’ from a posed apprentice is also widely practised and becomes increasingly common in the final decades, especially in Florence. Another drawing by Gozzoli’s circle shows the practice of setting a male naked LIVE MODEL in the pose of (apres, after) “l’antico” – a contradiction: DISEGNO DALLA VITA E DALL’ANTICO. In this case the obvious reference is the Spinario, the celebrated bronze antique figure whose complex pose remains one of the most popular for a live model. The use of the model book as a teaching tool disappeared but sketchbooks and the travel book reproducing antiquities became more widespread. Their progressive diffusion is one of the clearest indications of the spread of interest in the antique and goes hand-in-hand with the formation of collections of antiquities and the pursuit of antiquarian studies, such as Biondo’s influential “Roma Instaurata”, a methodical guide to the monuments of Rome. Enthusiasm for classical art and a more attentive study of its forms and principles is reflected in the increased dynamism, pathos and complexity of the compositions that we can see in Italian painting and sculpture in the work of Florentine artists like Pollaiolo, Ghirlandaio and Lippi [Workshop of Benozzo Gozzoli, A Nude Young Man Seated on a Block, His Right Foot Crossed over His Left Leg, c. 1460, metalpoint, over stylus indications, grey-brown wash, heightened with white, on pink-purple prepared paper, 226 × 150 mm, The British Museum, Department of Prints and Drawings, London, inv. Pp, 1.7] probably executed when he was in Rome to assist Fra Angelico in the St Nicholas Chapel in the Vatican Palace]. In this case the drawing is again far from accurate, and the draughtsman combines the Dioscuro with the horse held by his twin. Again the forms are isolated. As in the earlier drawing the supporting cuirass and the strut between the right arm and thigh are omitted as is the cloak on the forearm. The group is set against a neutral backdrop and on the ground rather than on its pedestal. Although the Dioscuro stands firmly, and although his anatomical structure, his surface musculature and their modelling are rendered much more convincingly than in the Pisanello drawing, the idealisation of the male is still not emphasised and we seem to be looking at a real MALE taming his horse rather than at a heroic marble statue. Although it is difficult to draw general conclusions based on such exiguous surviving material, it seems safe to say that formost 15th-century artists, classical free-standing statuary was seen as a model for the nude male, its poses and movements. With notable exceptions, such as Donatello, artists did not try to grasp the anatomical and formal principle of the original nor does he aspire to recreate the process of idealisation innate in so many classical nudes. For this reason, the drawings are often not immediately recognisable as copies after the Antique (‘drawn from the antique’). The Antique could also be copied inside the workshop using SMALL-SCALE three-dimensional models. We have plenty of evidence about collections of antique statues, often fragments, and the ownership of plaster casts by artists. Their presence in the work-shop is also acknowledged in “De Sculptura” by Gaurico, who speaks of artists having cabinets ‘filled with any sort of sculptures’ and ‘chests filled with casts’. Although a cast may OBVIOUSLY BE TAKEN from a male naked live model, as described by Cennini, others are ‘cast from the antique’, such as those mentioned by Ghiberti and Squarcione, the teacher of Mantegna, whose workshop at Padova contained a collection of antiquities. Casts and antiquities are part of the working material of the bottega. They also serve to elevate the status of the workshop to that of a STUDIO or STUDIUM, a place of cultivation of liberal arts, the beginning of that process of the intellectual emancipation of the artist that would be fully developed with the foundation of the academies. A beautiful drawing of feet, part of a sketchbook by Gozzoli eloquently shows the use of casts, in this case most likely taken from antique fragments, as teaching tools in the bottega. We see here one of the earliest visual records of a [Spinario, Roman, 1st century bc, bronze, 73 cm (h), Capitoline Museums, Rome, inv. MC1186. Pisanello, or circle of, One of the Two Dioscuri or Horse Tamers, c. 1431–32, silverpoint, pen and brown ink on vellum, 230 × 360 mm, Biblioteca Ambrosiana, Milan, inv. F. 214 inf.10v. Benozzo Gozzoli (attr.), One of the Two Dioscuri or Horse Tamers, c. 1447–49, metalpoint, grey-black wash, heightened with lead white, on blue prepared paper, 359 × 246 mm, The British Museum, Department of Prints and Drawings, London, inv. Pp, 1.18. Workshop of Benozzo Gozzoli, Studies of Plaster Casts of Feet, c. 1460, silverpoint heightened with white, on green prepared paper, 225 × 155 mm, Museum Boijmans Van Beuningen, Rotterdam, Benozzo Gozzoli Sketchbook, fol. 53] practice, copying from a cast, that would expand exponentially. For the study of the naked male and the three-dimensional form, a pupil could rely also on small models in wax, CLAY, or bronze, provided by such sculptors as Ghiberti or  Sanzio, Buonarroti, and Rome as the Centre of the Study of the Antique. The following generation, that of Buonarroti and Sanzio, sees a seismic shift in the approach to the antique. They now attempted to equal or even surpass the antique by penetrating its principles.The two titans of the High Renaissance had a radically different approach towards the classical naked male form, but they both aime at assimilating the ancient ‘mimetic’ or imitative standard of an idealised naturalism, full mastery of the naked male, its anatomy and proportions, and the convincing rendering of the EMOTION or EX-pression (or affect) of the soul. Vinci expresses a deep interest in the Antique and is directly exposed to it in Florence and in Rome. The classical naked male form is referenced in many of his works, particularly in the unrealised project for an equestrian statue of Francesco Sforza in Milan. But Vinci’s naturalism, based on empirical observation, means that he always checks his ancient sources against the scientific observation of the natural world. He remains a naturalist at heart, famously stating that ‘he who copies a copy is Nature’s grandchild when he may been her son’. On the other hand, from a practical point of view, Vinci also acknowledges the usefulness of copying from a ‘good master’ and sculpture. While for Vinci the Antique remains an interest secondary to Nature, Sanzio’s and Buonarroti’s engagement with the antique is on an unprecedented level. The immense impact that Sanzio and Buonarroti have on their own generation and on Western art in the centuries that followed lies in the very fact that they are perceived and celebrated as the first modern masters who had equalled, if not surpassed, the ancients. Opie, lecturing on painting at the Royal Academy, proclaims the ‘perfection of the Arts under Leonardo da Vinci, Michael Angelo, and Raffaelle’, but their status as modern classics was already acknowledged during their lifetime. Bembo elevates Buonarroti and Sanzio to the same pedestal of the ‘ancient good masters’ and Vasari sustains his uncompromising panegyric of Buonarroti by affirming that his Davide (Galleria dell’Accademia, Florence) surpasses in beauty and measure even the best ancient monumental sculptures of Rome, in particular the various Rivers and the Horse Tamers on the Quirinal. The Mondern, now capable of providing an idealised nude more convincing than the most famous surviving classical ones, outshines the Ancient. Artists of Sanzio’s and Buonarroti’s generation have the advantage of benefiting from more, and more readily available, ancient statuary, including those discovered in excavations and those displayed in relatively accessible settings. However, both Vinci and Buonarroti must already have been exposed to drawings, casts and models after the Antique respectively in the workshops of Verrocchio and Ghirlandaio. Both studied (although Vinci briefly) in the Giardino di San Marco, an informal academy set up by Lorenzo il Magnifico to train artists specifically in drawing and copying after the antique under the supervision of the sculptor Giovanni. Vasari informs us that Buonarroti devoted himself obsessively to the task, and Condivi, Buonarroti’ss biographer, emphatically states that the genius ‘having savoured their beauty [...] never again goes to Ghirlandaio’s workshop or anywhere else, but there he would stay all day, always doing something, as in the best school for such studies’ As a pupil Sanzio probably did not receive a similar training in the workshop of Perugino, who had less interest in the Antique. But some drawings with reference to classical models survive and he certainly participates in the sophisticated antiquarian environment in Florence, where he moves. It is the impact of what Buonarroti and Sanzio see in Rome, where they both moved that has the most far-reaching and radical impact on the evolution of their art and their relationship with the anqique. Under the pontificates of Rovere (Giulio II and Leone X, Rome establishes herself as the centre for the study of the Antique. Many of the most celebrated collections of antiquities – Medici, Farnese, Borghese, Ludovisi, Albani -- are formed or consolidated, such as those of Riario, Maffei, and Della Valle  and later on the Cesi and the Sassi. The collection of antiquities at the Campidoglio is enlarged with the transfer of the statues of the Rivers, the Nile and the Tiber from the Quirinal and the Antonino from the Lateran, the latter a statue so important for the symbolic imagery of Rome that Buonarroti designs a square around it. However, the real centre of attention in the early years of Buonarroti and Sanzio in Rome are the new discoveries emerging from the soil of the city. Within a few years some of the statues that would attract the attention of artists and connoisseurs for centuries to come are discovered, [Anonymous engraver after Maarten van Heemskerck, The Antique Courtyard of the Palazzo Della Valle, 1553, engraving, 289 × 416 mm, Rijksmuseum, inv. RP-P-1996-38] provoking enormous enthusiasm among contemporaries: the Apollo del Belvedere, the Laoconte, the Cleopatra, the Ercole Commodo, and the large rivers Tevere and Nilo. By 1512 all could be admired, with the addition of the Venere Felice in the Cortile Ottogono del casino della Villa del Belvedere nel Monte Vaticano, a purpose-built space commissioned by Giulio II from Bramante, the great interpreter of ancient Roman architecture. The Cortile, displaying some of the most complete and prestigious sculptures from antiquity, soon became the canonical Roman site for making a copy ‘drawn from the antique’. It retains its unparalleled prestige, as the many drawings after its statues eloquently attest. It is invaluable, as the Cortile del Belvedere offers them the opportunity to study different male forms and positions and different sub-types of ideal beauty at the same time: moving from the Apollo, to the strong and pronounced muscular anatomy of Ercole Commodo. Two more statues are added to the Courtyard: the Antino del Belvedere and the Torso del Belvedere. The Antino del Belvedere is to become the canonical model for artists for the perfect proportions of the naked male body. The Torso del Belvedere becomes one of the most copied of all antiquities, a compulsory reference for the body of the muscular male at rest, especially because of Buonarroti’s admiration for it and the popular belief that he gives instructions to leave it unrestored. The master’s praise of the evocative fragment became a leitmotif in artistic treatises and literary sources to the point that it [Fig. 17. Hieronymous Cock after Anonymous Draughtsman, The Capitoline Hill, 1562, etching and engraving, 155 × 212 mm, Metropolitan Museum, New York, inv. 2012.136.358] became known in 18th-century Britain as the ‘School of Michelangelo’. The Cortile del Belvedere, the Campidoglio, and the collections in the various palazzi: Palazzo della Valle and others, remain the privileged centres for copying the Antique in Rome. The increasing number of accessible classical statues makes Rome a pole of attraction, to congregate and to complete one’s education and gather on paper a repertory of classical forms and motifs. This was a phenomenon central to the development of art. It is  evocatively described by Bembo. Under Giulio II and Leone X both Buonarroti and Sanzio are at the centre of the antiquarian debate and, as Bembo puts it, play an essential role in their efforts to emulate and surpass the antique (they fail). Indeed Vasari attributes the rise of the ‘bella maniera’, and the great achievements of Sanzio and Buonarroti, to their familiarity and exposure to the Belvedere statues. Even if Vasari’s words are a retrospective celebration aimed at establishing the primacy of the Florentine and Roman schools, the spirit of classical art permeates much of Buonarroti’s and Sanzio’s Roman production and specific antique proto-types are evoked in many of their works. One need only think of the inspiration Buonarroti derives from the Torso del Belvedere for his Ignudi in the Sistine Chapel. Given their familiarity with classical antiquity, it may seem strange therefore that very few drawings after classical statuary by either Buonarroti or Sanzio survive. Many might have been intentionally destroyed. Vasari recounts Buonarroti’s burning large numbers of drawings, sketches   [Fig. 18. Apollo del Belvedere, Roman copy of the Hadrianic period (117–138 ad) after a Greek original of the 4th century bc, marble, 224 cm (h), Vatican Museums, Rome inv. 1015 Laocoön, possibly a Roman copy of the 1st century ad after a Greek original of the 2nd century bc, marble, 242 cm (h), Vatican Museums, Rome, inv. 1064. Cleopatra, Roman copy of the Hadrianic period (117–138 ad) after a Greek original of the 2nd century bc, marble, 162 (h), Vatican Museums, Rome, inv. 548] and cartoons so that none could see the efforts of his creative process. Nonetheless, in the few surviving drawings which bear direct references to classical models, one sees their tendency towards ‘assimilating’ the spirit of antique forms rather than *slavishly* copying them (as an amanuensis would). This attitude can be shown by comparing a drawing by Aspertini after the Belvedere Cleopatra with one by Sanzio derived from the same statue. Aspertini’s copy, paired on the facing page with one from a relief from the Arch of Constantine, embodies the attitude typically seen in a sketch- book: a more or less faithful rendering of the antique form, in this case rather finished and accurate, that serves as a record. Sanzio’s drawing represents a more evolved phase, when the ancient form takes a new shape: the elegant and difficult pose of the body of the Cleopatra and the play of the drapery over her intertwined [Aspertini, The Sleeping Cleopatra and a Relief from Trajan’s Column, (verso) post 1496, pen and brown ink, over black chalk, on two sheets conjoined, 254 × 423 mm, The British Museum, Department of Prints and Drawings, London, Sanzio, Figure in the Pose of the Sleeping Cleopatra, c. 1509, pen and brown ink, 244 × 217 mm, Albertina, Vienna, inv. 219. Sanzio, The Muse Calliope, detail from the Parnassus, c. 1509–10, fresco, Stanza della Segnatura, Vatican Palace, Rome] legs are used as an inspiration for the muse Calliope in his Vatican Parnassus. Sanzio nevertheless also produces some ‘record’ drawings. Nominated by Leo X as inspector of all the antiquities in and around Rome and embarked on a project to reconstruct the aspect of ancient Roman buildings based on precise architectural surveys of their remains. His method, based on a precise analysis paired with ancient literary sources, remains unmatched. His scholarly attitude towards classical art and his thorough understanding of it are clearly expressed in a famous letter that he wrote to Leo X with the help of the courtier Castiglione in which he appeals against the destruction of classical monuments. At the same time, he provides an outstandingly accurate description of the different styles of ancient sculpture found on the Arch of Constantine. One of the very few surviving exact copies of classical statues in Sanzio’s hand is indicative of his precise, almost  [Hendrik III Van Cleve, Detail from View of Rome from the Belvedere of Innocent VIII, 1550, oil on panel, 55.5 × 101.5 cm, Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique, Brussels, inv. 6904. Pseudo-Antino del Belvedere, Roman copy of the Hadrianic period (117–138 ad) after a Greek original of the 4th century bc, marble, 195 cm (h), Vatican Museums, Rome, inv. 907. Belvedere Torso, Greek or Roman, 1st century bc, marble, 159 cm (h), Vatican Museums, Rome, inv. 1192] archaeological approach to the Antique, and we can assume that he produced similar ones during his period as inspector of Roman antiquities. It is a clear rendering of one of the two horses from the Horse Tamers on the Quirinal, that we encountered in Gozzoli’s study. There could not be a better comparison to demonstrate the progress made in the understanding of classical statuary. Sanzio’s drawing is ‘scientific’. We clearly recognise that the horse is a piece of marble sculpture, with a faithful record of its missing left leg and the joint between the neck and the body. The horse is COPIED, i. e. DRAWN AT EYE LEVEL (Sanzio presumably stood on a platform) and not seen from below, as in most other contemporary views. This allows the proper study of the proportion of the sculpture, in a way similar to an architectural elevation. Outstandingly, even the measurements of the statue are recorded on the drawing, probably by one of his pupils, making this the first surviving measured drawing of a classical statue. Incidentally Sanzio’s drawing also shows the introduction of a new medium – red chalk – which would become one of the preferred tools for drawing after the Antique. It is likely, nevertheless, that Sanzio generally left making such specific records of classical sculptures to the pupils of his large workshop, as several surviving drawings in the hand of Romano and Polidoro da Caravaggio, among others, attest. Some of these were probably intended to be engraved, as it is in Sanzio's circle that we find the first printed images of celebrated statues and reliefs, such as those of Raimondi, Marco [Sanzio The Right Horse of the Horse Tamers on the Quirinal Hill, c. 1513, red chalk and pen and brown ink over indentations with the stylus, 219 × 275 mm, National Gallery of Art, Washington D.C., inv. 1993.51.3.a, Woodner Collection. Buonarroti, Study of an Antique Torso of Venus, c. 1524, black chalk, 256 × 180 mm, The British Museum, Departments of Prints and Drawings, London, inv. 1859,0625.570. Buonarroti, A Youth beckoning; A Right Leg, c. 1504–05, pen and brown ink, black chalk, 375 × 230 mm, The British Museum, Departments of Prints and Drawings, London, inv. 1887,0502.117. Romano (attr.), Apollo del Belvedere, c. 1513–15, pen and brown ink, pencil, 316 × 155 mm, Albertina, Vienna, inv. 22449. Veneziano, Apollo Belvedere, engraving, c. 1518–20, 269 × 169 mm, private collection. Dente and Agostino Veneziano (c. 1490–after 1536; fig. 29). The print medium, which plays a crucial role in disseminating the knowledge of the Antique is to be increasingly used in work-shops and academies for training. One first copies the Antique from a flat image, before turning to the third dimension of a cast or an original. Sanzio’s approach towards the Antique, based on study, measurement, reconstruction and dissemination, cannot be more distant from that of Buonarroti, who constantly confronts the classical models with a challenging spirit. Several anecdotes reported by contemporaries reveal his approach towards antiquity. Boissard informs us that shortly after having seen the Laooconte emerging from the ground of the Esquiline, Buonarroti enthusiastically comments that it is ‘a singular miracle of art in which we should grasp the divine genius of the sculptor rather than trying to make an imitation of it’.This quotation is poignant for understanding the Platonic concept of divine inspiration for Buonarroti. At the same time it shows clearly that his relationship with the antique model was not based on a process of imitation but rather on that of ‘aemulatio,’ a creative rivalry possible only after the assimilation and internalisation of its principle. This approach is reinforced in a celebrated passage from Vasari which became a recurrent leitmotif in subsequent art literature – in which he reports that Buonarroti creates figures of nine, ten or even twelve heads high, searching only for the overall grace in the artistic creation, because in matter of the proportion, ‘it is necessary to have the compass in the eyes and not in the hand, because the hands *work* and the eyes *judge*’. Advocating the principle of grace, consistency of artistic creation, and the artist’s own judgement, Buonarroti therefore disregards the canon of *eight* heads comprising the male figure established by Vitruvio, implicitly expressing a relation with the classical proto-type based on empathy and intimate understanding of its form, rather than on a rational adherence to a rule based on a number– an approach he replicates in his architecture. Buonarroti’s surviving copies after classical statues can be counted on one hand, such as a series of reproducing the torso of an antique Venus, probably made in preparation for one of the female figures in the Medici Chapel. His free relationship with the Antique emerges from many of his drawings, for instance the Beckoning Youth, loosely inspired by the Apollo del Belvedere. Buonarroti evokes the pose and aspect of the celebrated statue, but turns it into something new, where the hint of movement of the original is dramatically accentuated and balance is replaced by unstable dynamism. Sanzio and Buonarroti have been discussed at length because their different attitudes towards classical forms resurface constantly in Art. This polarity may be defined as assimilating the principles of the Antique by sticking to its rules and system of proportions OR assimilating the creative spirit of the Antique by breaking its rules. At the risk of oversimplification we could argue that Reni and Poussin fall within the first sphere and Rubens and Bernini in the second. It is not by chance that the classicist credo that permeates the Italian and French academies for most of their history elects *Sanzio* as their champion, while the eccentric and unruly Buonarroti remains a figure more difficult to celebrate from a didactic point of view. The Antique in Theory plays a Role in the Academic ‘Alphabet of Drawing’. More statues emerge from the soil of Rome and those already discovered are given new life and integrity by partial or full ‘restoration’. A statue is usually unearthed in fragmentary states, as can be seen from the evocative drawings of Roman collections by Heemskerck. Whether philologically correct or not, the practice of restoration allows one to copy the naked male in its entirety rather than in mutilated fragments. Celebrated restorations included those of the Apollo del Belvedere and the Laooconte by MONTORSI on the recommendation of Buonarroti. Among the excavated statues three must be mentioned as they immediately became constant references for artists. The place of honour goes to the Ercole Farnese. It provides an ideal model for the muscular male at rest and copies after it become ubiquitous in artists’ work-shops and academies. The other two statues are discovered together in and immediately entered the collection of the Villa Medici in Rome: I LOTTATORI, representing two males in a  complexly interlocked ‘syntagma’ or group. I LOTTATORI are used often in later academies as a source for posing TWO LIVE MODELS – SYNTAGMA DISEGNATO DALLA VITA  (see cats 16 and 27b); and the Niobe Group whose suffering expressions would be widely referenced as a source for drama and pathos, for instance by Reni, among others. In time, a standard set of ideal types (to use Weber’s term) begins to take shape, thanks to the diffusion of bronze and plaster casts and, especially, of prints. After the loose sheets of Raimondi, Dente and Veneziano, more systematic enterprises are launched. Collections such as SPECVLVM ROMANÆ MAGNIFICENTIÆ by Lafréry  or ANTIQVARVM STATVARVM URBIS ROMAE by Cavalieri, play a crucial role in the wide dissemination of a canonical selection of classical statues, thus attracting more and more artists to Rome to study the originals. This tendency towards codification also affects the relationship of artists and art writers with the Antique, as the imitation of classical statuary is given theoretical underpinning. At the same time the Antique acquires a clear role within the curricula of the emerging academies as a teaching tool, systemising a practice that, as we have seen, is already widely diffused within Renaissance workshops. Art theory in general goes through a process of radical systematization. Many artists and writers feel that rules are required to give ‘ars’ an intellectual frame-work that would lift its status from ‘mechanical’ to ‘liberal’ arts – (as in M. A. Magister in Arts, MA before DPhil Lit Hum) an ambition dating back to the writings of Alberti. Most theoreticians and artists believe that a codified precept is also vital to inculcating the ‘correct’ principle in an age that they considered to be one of artistic corruption. Armenini speaks explicitly of the ‘pain’ that masters like Sanzio and Buonarroti would have felt in seeing the art of his own time. And Armenini, Lomazzo, Zuccaro and others, notwithstanding differences among them, consider that the rule can be inferred from study of the best examples of the great Renaissance masters and those of antiquity. The latter especially, it was thought, would provide with correct proportions and anatomy and inculcate the ideal standard. A foundation of this theoretical effort is provided by the assimilation of Artistotle’s Poetica, the first reliable Latin translation of which circulated widely. Since no comprehensive treatise on painting had [Cavalieri, The Laocoön, engraving plate 4, from Antiquarum statuarum urbis Romae, Rome, 1585] readily found in his work. For him the best ancient sculptures embodied the supreme quality of ‘grazia’, which cannot be attained by study but only by judgement – a concept that remains one of the central tenets of Italian art theory. Vasari’s Lives also proclaims the superiority of the Central Italian School of painting, based on ‘disegno’ to the Venetian one, based on ‘colore’, initiating a debate over the respective merits of the two traditions. Although traditionally the Venetians aim at imitating nature directly on the canvas through colour and therefore are less attached to the laborious practice of drawing after the antique, classical statuary plays a role in the formation of many Venetian painters, and casts are used in their workshops. Tintoretto, for instance, owns a large collection of casts and reductions of ancient and modern sculptures. The importance attached to the study of the Antique by all the Italian schools of painting is shown by the fact that one of the very first consistent formulations of the principle of the ‘imitation’ of classical statuary is to be found in Dolce’s “Dialogo della pittura.” Dolce’s “Dialogo della pittura” contains the strongest defence of the Venetian tradition against the Vasarian point of view. It also contains, if not fully developed, most of the fundamental elements of the artistic theory. Dolce clearly specifies that in the search for the perfect proportion of the naked male, the artist should ‘*partly* imitate nature’ and partly ‘the best marbles and bronzes of the antient [sic] masters’, because through them he can ‘correct’ this or that defects of this or that living form – the live model -- as they are ‘examples of perfect beauty’, an ideal version of Nature. But in Dolce we find also a warning against regarding the copying of ancient sculpture as an end in itself rather than the means by which an artist creates his own ideal artistic forms – something already stressed by Vasari in his Lives. An ancient statue is to be ‘imitated’ with ‘judgement’, to avoid turning a pleasing trait into a formula or, worse, an eccentricity. This warning would be repeated frequently, notably, y Rubens and Bernini and it could lead to open opposition to copying the Antique. Similar advice appears in Armenini’s Veri Precetti della Pittura. Armenini’s “VERI PRECETTI DELLA PITTURA” is quite systematic and offers one of the most articulated approaches towards the role of the Antique in the artist’s education. Many of Armenini’s ideas and much of his advice would becomes standard practice. In the chapter on ‘disegno’, Armenini states that to acquire the ‘bella’ or ‘buona     [The Farnese Hercules, Roman copy of the 3rd century ad of a Greek original of the 4th century bc, marble, 317 cm (h), MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE, Napoli,  inv. 6001. I LOTTATORI. Roman copy of a Greek original of the 3rd century bc, marble, 89 cm (h), Uffizi, Firenze, inv. 216. The Niobe, possibly Roman copy of a Greek original of the 4th century bc, marble, 228 cm (h), Uffizi, Firenze, inv. 294] survived from antiquity, the Poetics, together with Orazio’s Ars Poetica, offer a theoretical structure that could be transferred from the literary disciplines to visual art – justified by Orazio’s celebrated motto ‘ut pictura poesis’, ‘as is painting so is poetry’. More relevant from our perspective, Aristotle’s Poetica provides, in several passages, an authoritative ancient source for the principle that art may ‘perfect’ nature to create an ideal model – a concept implied but never clearly defined by Alberti – and which constituted one of the most solid bases for the classicist doctrine of art. This Aristotelian trend had a counter-balance in a neo-Platonic tendency in which ideal beauty does not derive from Nature but is infused in the mind of the artist by God, two approaches that at times were combined by the same author, such as Lomazzo or Zuccaro. But whether of Aristotelian or Platonic origins, or indeed a combination of both, the principle of imitation of those works of art that had already accomplished idealisation – particularly the antique statue – becomes one of the leitmotifs of Italian art theory (v. Dorfles, “Natura e Artificio”). The most important writer on art of the Renaissance, Vasari, firmly establishes the primacy of disegno, design or drawing, as the intellectual part of art, the ‘parent’ of the three sister arts of architecture, sculpture and painting. In his Lives of the Most Eminent Painters, Sculptors and Architects drawing is described as the physical, sensible manifestation EX-pression of an idea, encompassing ‘all the objects in nature’. Although he does not provide a theoretical case for drawing after the Antique, nonetheless passages referring to the impact that classical statues have on artists are  maniera’ of the great Renaissance masters, the student needs fully to assimilate through drawing those principles of the ancient statues that those Renaissance masters themselves copy, as they embody the best of Nature. Armenini’s importance lies also in the fact that he is the first to list the specific statues and reliefs to copy and to praise the didactic use of plaster casts, of which he saw many collections throughout Italy – testifying to a practice that must already have been quite widespread. The imitation of the Antique also becomes a central tenet of the earliest art academies. Deriving their name from the ancient philosophical Academy (Hekademos) of Plato, an ‘accademia’ is intended as a venue for the cultivation of the practical, but even more, the intellectual aspects of art. Its role is conceived in parallel and not in opposition to the artist’s workshop, where the apprentices is still supposed to learn art’s technical rudiments. One of the first mentions of the word ‘accademia’ in conjunction with art is found in the first object shown in this catalogue, the Accademia del Belvedere run by BANDINELLI eengraved by Veneziano. This depicts an ‘accademia’ centred on disegno set up in the Belvedere, where Leo X gives him quarters. It shows artists learning how to draw the naked male and it is significant that the focus of their attention is a series of statuettes modelled after a classical proto-type. This, and the later view of Bandinelli’s Florentine Academy, are the very first examples of an iconographical genre: the image of an accademia, workshop, studio, often created with a programmatic or didactic purpose, showing pupils learning the different branches of art or going through different stages in their education. Just glancing at the works illustrated in the catalogue shows how the presence of the Antique becomes progressively relevant. The centrality of disegno and the naked male is firmly stressed by the institutional, more organised, ‘accademia’.. The first, and a model for all future academies, was the aptly named ‘Accademia del Disegno,’ – or ‘dei disegnanti’ -- founded in Florence by Cosimo de’ Medici on the initiative of Vasari. Its aim is to emancipate the artist from guild control, and to affirm the intellectual status of the art.The two most significant academies that followed before the are ‘Gl’Incamminati’, or ‘Accademia degl’incamminati, founded in Bologna by the three Carraccis, and the Accademia di San Luca in Rome, relaunched and given a didactic curriculum under Zuccaro. These academies – although there were significant differences among them, and often huge discrepancies between the theory they supported and the everyday teaching they practised – proposes a system that could give a broad education to aspiring artists. This usually included the study of mathematics, geometry and perspective, to teach the student how to represent space rationally; and of anatomy, the antique and the live model, -- DISEGNO DALL’ANTICO, DISEGNO DALLA VITA -- to teach him to master the correct depiction of the naked male. We can see an idealised version of early academic practices in a complex and fascinating drawing by  Stradano, engraved by Cort, where the stress is on anatomy, the Antique and on the three arts of disegno. Similar practices are illustrated in an etching by Alberti showing a structured curriculum of studies involving anatomical dissection, geometry, the Antique and architectural drawing. These studies codify artistic exercises (and give a bad name to ‘academic’) that had been current from the early Renaissance onwards but important new teaching structures were introduced. These include a rotating academic staff, a competition and a prize, and an organised debate on artistic questions and they are supported especially by the regulations of the Accademia di San Luca. Although we do not know to what extent and how effectively these new structures functioned in the first decades of the Roman institution, they soon spread to other academies, becoming the model for the Académie Royale in Paris. All these institutions strongly advocate the copy of the Antique, both in plaster reproduction or in the original. The Accademia del Disegno supervises drawing from the Antique both in the Academy and in the workshops where apprentices were trained. It also owns a ‘libreria’, which includes drawings, models of statues, architectural plans, and ancient sculpture, all used as teaching tools. The Accademia di San Luca lists the copying after the Antique in its first statutes and  receives a donation of casts, while numerous plasters – such as reliefs from Trajan’s Column, the bust and the head of the Laocoonte, one of the Horse Tamers of the Quirinal, the Torso del Belvedere and many other entire or in fragments – appear in its early inventories. The importance accorded by Zuccaro, the founder of the Roman Academy’s curriculum, to the thorough study of Rome’s most famous statues, emerges from his wonderful drawing of his brother, Taddeo sketching the Laocoonte at the Belvedere. The series to which this drawing belongs, produced around the same time as the foundation of the Accademia di San Luca, illustrates the ideal training that am artist should follow: imitation of the Antique and the works of Renaissance masters, such as Sanzio’s Stanze and Loggie, Buonarroti’s Last Judgment and Polidoro’s painted façades. Another sketch, by a Zuccaro follower, depicts Zuccaro himself in the Accademia, surrounded by students sketching after the cast of an ancient torso. The Carracci academy too, although primarily focused on life-drawin (DISEGNO DALLA VITA), advocates study of the Antique and we know that Carracci makes his collection of drawings, medals and casts available for students. Early academies also codified a teaching model, defined as the ‘alphabet of drawing’ or the ‘ABC’ method, which, in a less regulated form, was already established within work-shops and which would have a long-lasting impact. This contributes significantly to giving the Antique a fixed place within teaching curricula. Modelled on the learning of grammar, the ‘alphabet’ is a sequence that encourage students to advance from elementary unity to complex whole and from the simple and similar to the varied and different. The scheme once again originated in Alberti, who advises a painter to follow the method practiced by teachers of writing, from the alphabet to whole words. So the beginner is supposed to learn first ‘the outlines of surfaces, then the way in which surfaces are joined together, and after that the forms of all the members individually; and they should commit to memory all the differences that can exist in those members’. He recommends the same process for the study of the male anatomy: starting from the bones, proceeding to the sinews and muscles, and finally to the flesh and skin. An iincreased stress on the naked male means that pupils often start from the eye, then assembles different parts of the body in ever more intricate combinations, and finally reaches the whole naked male, via the study of ancient sculpture AND the live model. Benvenuto [Workshop of Federico Zuccaro, A Group of Artists Copying a Sculpture, c. 1600, 190 × 264 mm, pen, black and red chalk on prepared paper, Biblioteca Ambrosiana, Milan, inv. F 261 inf. n. 128, p. 125] Cellini reports that starting with the eye is the common practice and advised, like Alberti, a similar process for the study of anatomy. This process is reflected in the various images of early academies or studios, such as Stradanus’ The Practice of the Visual Arts, where one pupil is shown drawing an eye on his sheet, or Alberti’s Painters’ Academy where an artist is presenting a similar drawing to his master. A parallel progression led the student from simplicity to complexity in the depiction of outlines, surfaces, chiaroscuro, poses and expressions: from copying objects in the same medium and in two dimensions, to the imitation of three-dimensional figure. The process usually starts with copying a drawing or print, then paintings, first in grisaille and then in colour, moving onto ancient sculpture [PRELIMINARY to the LIVE MODEL – drawn from life], either originals or casts, and, FINALLY, to the live model. This progression, already outlined by Vinci in his treatise on painting, and advocated also by Vasari, is codified by Armenini, the first to list all its stages while simultaneously assigning a central role to classical statuary in providing a model for ideal forms. Armenini delineates both the progression from the eye to the whole body and from a drawing or print to the live model (via the preliminary of the ‘drawn from the antique’,  and warned the reader not to subvert this order. The earliest academies applied this method and Zuccaro’s statutes of the Accademia di San Luca, which are the most explicit, specifically mentioned the ‘alphabet’ or ‘ABC’ of drawing. It becomes standard practice in academies. The  aim is, as most writers reiterated, to assimilate this repertory of forms through constant study and the exercise of memory, as to finally be able to create a form from imagination – for a mythological heroic figure -- *independent* of any object of imitation (IMITATUM). The ‘alphabet of drawing’ has its physical manifestation in the publication of the drawing-book, conceived in the environment of the Carracci academy, such as Fialetti’s “Il vero modo”. The diffusion of such manuals contributed enormously to spreading the knowledge of the didactic role of the Antique to artists who makes a grand tour to Rome a compulsory part of his education. Odoardo Fialetti, Il vero modo et ordine per dissegnar tutte le parti et membra del corpo humano, Venice, c. 1608, etching, 100 × 140 mm, The Bellinheger Collection]. Rome establishes herself as the preeminent centre for anyone eager to assimilate the principle of Italian art. The first significant artist, and one of the greatest of all to do the tour to the Belvedere with the specific educational intent, is Dürer. Durer spends the years in Rome. The impact of classical statuary is evident in many of his prints and paintings, for example, in his “Adam and Eve”. But the largest number of artists to travel to Rome originates from the Low Countries. Coming from a powerful and influential pictorial tradition that privileged an analytical representation of nature, and having received little or no exposure to classical antiquity in their training, Netherlandish artists seek especially to learn how to master the naked male through the lessons of the Antique and the works of Sanzio and Buonarroti. Rome offers also the opportunity of training in one of its many workshops and the appealing possibility of benefiting from the system of commissions. Indeed the ‘fiamminghi’, as they are called in Rome, gain an increasing number of commissions, eventually, in their turn, influencing the Roman art world. Some of them stayed for long periods or moved permanently, such as Stradanus, Giambologna – il ratto delle sabine, il mcurio di Medici -- or Tetrode. We know about the Roman years of many of these artists mainly thanks to Mander’s “Schilderboeck”, the earliest systematic account of Netherlandish and Northern European painters, based on Vasari’s “Vite”. The approach of these artists towards the Antique could be varied and multi-faceted. Most fill their sketchbooks with drawings that served as a collection of forms to be re-used. Others, like Spranger, according to Van Mander, aim to assimilate the principles of classical art to establish a repertoires of forms and an attitude towards the naked male that could be infused in their own creations, rather than spending too much time in the physical act of drawing. Although ‘Mabuse’ is the first Fleming to pass time in the peninsula, it was only with Scorel that the lesson of antiquity was transmitted, through his work-shop at Utrecht. Of his various pupils, Heemskerck is certainly the most prolific and versatile in copying antique statuary. Two albums from the  years he spent in Rome are preserved in Berlin. They constitute one of the largest surviving collections of copies after the Antique and are filled with exceptional drawings in different media and size, offering an invaluable opportunity to categorise the many different approaches to classical statuary that can be described as record drawings. Many are topographical views of Rome in which Heemskerck indulges in the depiction of architectural ruins and sculptural fragments, and which he later reuses in imaginary landscapes. Some of his views are poetic meditations on the colossal ruins of the city, physical reminders of the passage of time, of human grandeur and fragility, a mood he shared with other artists, such as Herman [Heemskerck, View of the Santacroce Statue Court, 1532–37, pen and brown ink, 136 × 213 mm, Staatliche Museen zu Berlin, Preussischer Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, Heemskerck Album I, fol. 29r] Posthumus. Other drawings are more or less accurate depictions of classical statues in their physical locations, from the Belvedere to the Campidoglio, to Roman private courtyards and gardens (figs 16 and 38), where the antiquities are shown in their still fragmentary state. In numerous detailed drawings focusing on single statues, we see Heemskerck’s different approaches to copying the Antique and, correspondingly, the different media he employs to do so. His drawings range from the precise pen-and-ink study, in which he faithfully records the condition of celebrated statues, isolating the head as a physiognomic type to a drawing where the whole statue is presented FROM DIFFERENT ANGLES, to record the different poses and volumes of the naked male in space. He also makes copies in which he exploits the softness of red chalk to study anatomical details, assembling parts from different statues on the same sheet and focusing on torsos and legs, sometimes even disregarding the face, the drapery or other details. Finally, in yet other red chalk drawings he carefully records decorative details from a statue or a relief. The variety of techniques and handling deployed in these [Fig. 39. (top left) Maarten van Heemskerck, Head of the Laocoön, 1532–36, pen and brown ink, 136 × 211 mm, Staatliche Museen zu Berlin, Preussischer Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, Heemskerck Album I, fol. 39r. Heemskerck, Two Studies of the Head of the Apollo Belvedere, 1532–36, pen and brown ink, 136 × 211 mm, Staatliche Museen zu Berlin, Preussischer Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, Heemskerck Album I, fol. 36v. Heemskerck, Three Studies of a Fragmentary Statue of a Crouching Venus in the Palazzo Madama, 1532–36, pen and brown ink, 135 × 210 mm, Staatliche Museen zu Berlin, Preussischer Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, Heemskerck Album I, fol. 06v. Heemskerck, Studies of Three Torsos and a Leg from Classical Statues in the Casa Sassi, 1532–33, red chalk, 135 × 211 mm, Staatliche Museen zu Berlin, Preussischer Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, Heemskerck Album I, fol. 51v. Heemskerck, The Right Foot of the So-Called ‘Colossal Genius’, 1532–33, red chalk, 135 × 208 mm, Berlin, Staatliche Museen zu Berlin, Preussischer Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, Heemskerck Album I, fol. 65v ] copies allowed him to find appropriate solutions to the variety of problems posed by the style and condition of the works that he copied. The result is a stunning visual repertory that is easy to access and use, and which would inspire him when he returned home. Several Frenchmen also established their residence in Rome. Many of them, such as Beatrizet, Lafréry, or Dupérac, specialise in engraved views of the city and its ancient remains, catering to a market increasingly fascinated by Rome’s ruins and statues. In one engraving attributed to Beatrizet, we find a rare image of an artist in the act of copying from ancient statuary in situ – in this case the famous colossal “Grande Bellezza” Marforio, at that time located in the Forum now in the courtyard of the Palazzo Nuovo of the Campidoglio. The image clearly expresses the sense of awe that one feels in front of the grandeur of the remains of Roman classical statuary. The fragmentary condition of so much monumental sculpture inspired thoughts about the fragility of the human condition and the ultimate insignificance of worldly troubles, which, as the inscription on the print remarks, the old Marforio ‘does not consider worth a single penny’. It is against this backdrop that we must consider Goltzius’ draughtsmanly activity in Rome, where he arrived almost certainly on the recommendation of his friend Mander, who had already been in Italy. Goltzius was then is celebrated as an [Fig. 44. Beatrizet (attr.), An Artist Drawing the ‘Marforio’, 1550, engraving, 370 × 432 mm, published in Antoine Lafréry’s Speculum Romanae Magnificentiae] engraver throughout Europe. With Mander and Haarlem he establishes an academy in Haarlem. Although we know almost nothing about this artistic association, it must have involved discussions about the Antique and its representation among the three friends, who had the advantage of direct access to Heemskerck’s Roman drawings, then owned by Cornelisz. It is therefore significant that while in Rome, Goltzius takes an approach to classical statuary that is very different from Heemskerck’s. Goltzius concentrates from the beginning on *thirty* of the most famous classical statues, of which 43 drawings in total survive. Goltzius’s drawings are highly finished and unprecedentedly detailed, carefully recording the tonal passages on the muscles of the statues. The viewpoint is almost always close and frontal to the statue, or exploits the most dramatic or informative angle. Most importantly, unlike almost all of his predecessors, who fill single pages of their sketchbooks with details from unrelated sculptures, he devotes a full page to *each*, a practice followed by Rubens. Goltzius’s intent from the beginning is clearly to produce a drawing that may be transformed into an engravings capable of surpassing in precision all previously published series, and which, in faithfully reproducing the volume of the naked male, would also demonstrate his renowned virtuosity in handling the burin. His set is intended for a market of connoisseurs and collectors, but it is also likely that Goltzius wishes to provide anyone with correct and detailed images of classical statues that they could copy during their apprenticeships. Goltzius engraves only three plates, one of which, significantly, shows an artist at work copying the celebrated Apollo del Belvedere. A few years after Goltzius’s tour to Rome, Rubens arrives. He spends two prolonged periods in Rome. Rubens constitutes a special case, being the perfect embodiment of the humanistic ideal of the artist-scholar: the son of a wealthy Antwerp family, highly educated in the classics and socially accomplished, Rubens arrives in Rome already equipped with a thorough understanding of the Antique and its literary sources, a passion he cultivates throughout his life with his circle of scholarly friends and patrons. Rubens’s approach towards classical statuary is therefore fascinating, complex and varied. Rubens’ appetite for the most famous ancient statues must have been stimulated already in Antwerp through the engravings by Raimondi and his pupils and through those in the collections published by Lafréry and De Cavalieri. When in Rome Rubens devotes himself completely to copying this or that original with unique thoroughness, both to exercise his draughtsmanship and to create an immense repertory of forms, to which he refers for inspiration throughout his life. His approach towards classical statuary istwofold. One is purely intellectual, focused on understanding the mathematical proportions and volumes of this or that emblematic antique which he divides into different categories according to muscular strength, to capture the very essence of their perfection. The other is more direct: to study the statue exhaustively in order to assimilate its formal principle For Rubens it is not only necessary to ‘understand the antique’, but ‘to be so thoroughly possessed of this knowledge, that it may diffuse itself everywhere’. Unlike Goltzius, Rubens studies a statue over and over again, copying it from many, and often unusual, points of view, devoting a single page to each. No one before Rubens shows such a painstaking interest in understanding the formal logic of a single statue intended as a whole. Rubens’s focus on the naked male – to learn the principles of a perfect naked male  – on specificslly ‘muscular’ masculine male statues, such the Laocoonte, the Torso del Belvedere, and the Ercole Farnese and his choice of the most favourable points of view, may reflect the specific advice and examples given in Lomazzo’s Trattato and in Armenini’s Veri Precetti. But, as Dolce and Armenini had already done before him, Rubens also cautions to focus on the form and not on the matter of the statue, to avoid the ‘smell’ in a drawing or a creation. Rubens is aware of the danger of transferring the characteristics and limits of a three-dimensional medium (is flesh the medium of the live model?) into another – drawing or painting. In a section titled “De Imitatione Statuarum” of a larger theoretical notebook that he compiles over several years, Rubens refers to painters who ‘make no distinction between the form and the matter -- the ‘figura’ and the flesh, with the result that ‘instead of ‘imitating’ living flesh from the life of nature, they only represent marble tinged with various colours’. We can see Rubens’s genius at re-vitalising the ‘inert’ substance of the antique model as if it were a live model to be drawn from life, by applying his principle of inventive and transformative imitation in most of his drawings after the Antique, for which he uses soft chalk on rough paper better to ‘re-translate’ the substance back into the natural living flesh, as if drawn from life. This is particularly evident in muscular figures such as the Torso del Belvedere and the Laocoonte, which he brings back to life, to the life Virgil instilled Laocoonte with, or Aiace had. -- adopting a dramatic angle and a diagonal that completely abandons the static   [Rubens, The Back of the Belvedere Torso, c. 1601–02, red chalk, 395 × 260 mm, Metropolitan Museum of Art, New York, inv. 2002.12b] and the academic frontal point of view of most academic drawings. This attention to the qualities of the naked male skin and flesh, and the dynamism, pathos, and drama that he learns mainly from classically Roman – but POST-classically Greek] statuary is to become the main traits of his own art. In this he is following in the footsteps of Buonarroti, who, not by chance, Rubens copied extensively, focusing especially on the nudes of the Sistine Chapel and on his statues. Rubens adopts a similar approach to the live model, which he often poses in attitudes reminiscent of an antique – such as the Spinario, or the Wrestlers. Unsurprisingly, he frequently cited the Laocoonte and the Torso, but the most recurrent is the Spinario in the Campidoglio – even though the head is not the original one -- for which several drawings of the complex pose made from different angles survive.  The Spinario pose is already chosen by one of the pupils of Gozzoli for this particular purpose of the antique-imitating live model, and it remains one of the most popular, even, easiest, for posing the live model – everyone has a thorn! -- Rubens’s drawings of the Spinario convey the essence of Rubens’s attitude towards the ideal human form, and the Spinario’s attitude towards his own thorn. By posing flesh as imitatiang another substance imitating flresh, Rubens – or the artist who does this -- is able to bypass the dangers of the ‘matter’ to focus only on the complex form and pose of the original statue or statuary group or syntagma (think Lottatori!). Back in Antwerp, Rubens retains until his death his drawings after the Antique, bound together in separate books, as a distinctive part of the collection of his house-museum, which hosted also numerous antiquities. They remain a constant source of inspiration and they may also have been used as teaching tools – as in the best tradition of Renaissance workshop practices – judging by the copies deposited by his pupils in the cantoor, Rubens’s cabinet or studio. The flux of artists coming to Rome did not cease, although most become fascinated by the radical naturalism of Caravaggio and his followers, rather than aiming at recreating the principles of classical art. A group of artists even develops a successful speciality in the depiction of contemporary Roman street life and everyday reality: a rustic tavern, a drinking scenes, brigands, street vendors, charlatans and carnivals. The art of the ‘Bamboccianti’, so named after their leader, Laer, dubbed ‘Bamboccio’, or ‘ugly puppet’, is fiercely criticised as a debased form of art that deliberately chose the ‘worst’ of nature (cf. verismo, and the customs of realistic naturalism) by the supporters of classicism and history painting, such as Albani, Sacchi, and Rosa, as well as by the philosophers of ‘ideal beauty’ such as Bellori. In contrast to the Dutch, among the foreign communities in Rome, it was the French who are to take the lead in the cause of classicism, the defence of Ideal Beauty and the copy and study of the Antique. The contrasting attitudes of artists towards the study of art in Rome is perfectly visualised in a canvas by Goubau, a Flemish painter influenced by the Bamboccianti, who had been in Rome. On the right, judicious [Rubens, Study of the Laocoön Seen from the Back, c. 1606–08, black chalk, 440 × 283 mm, Biblioteca Ambrosiana, Milan, inv. 624, F 249 inf. n. 5, p. 11. Rubens, Study of the Younger Son FIGLIO PIU GIOVANE of the Laocoön Seen from the Back, black chalk, 444 × 265 mm, Biblioteca Ambrosiana, Milan, inv. 623, F 249 inf. n. 5, p. 11] artists under the supervision of a master are busy at work among imaginary Roman ruins, copying and measuring an ancient statue or a relief, among them the ERCOLE FARNESE; on the left the Bamboccianti indulge in the pleasures of wine and music under the pergola of a rustic tavern. Nevertheless, this wittily expressed opposition should not be taken too literally, as the educational and inspirational role of classical statuary had been deeply assimilated by artists of every inclination or aesthetic Many move between genres and artistic currents such as the Flemish genre painter Lint, who produced many drawings after the Antique while in Rome. Even those close to the Bamboccianti clearly treasured the didactic role of classical statuary, as can be seen in the depictions of workshops and artists at work by the Flemish Sweerts. The Antique, and its didactic role in the Italian model of artistic education, also made rapid progress in all of civilised Europe, supported by the publication of Karel van Mander’s Schilderboeck. Knowledge was transmitted mainly through drawings, drawing-books and plaster casts. These are used in the drawing schools or private academies that proliferate, some of which were founded by the same artists who had been exponents of the Bamboccianti in Rome. These drawing schools often had to struggle against regulations by the guilds, which remained the dominant associations for artists, dictating what goes on in a workshop – the notable exception being the academy founded in Antwerp by royal [Goubau, The Study of Art in Rome, 1662, oil on canvas, 132 × 165 cm, Royal Museum of Fine Arts, Antwerp, inv. 185] decree. But despite the heavy hands of the guilds, many thriving workshops, while accepting individual apprentices, adopt *Italian* academic practices, such as conducting classes for groups of students, or implementing a training programme focused on drawing and the mastery of the human form. This often included the ‘alphabet of drawing’, as was the practice of Rembrandt’s studio in Amsterdam, in which many students were taught annually, and of Rubens, who, as court painter, did not have to register his apprentices with the Antwerp guild.142 According to Van Mander, another studio famous for its educational efficacy was that of Abraham Bloemaert in Utrecht (see cat. 11).143 During the second half of the century, other private drawing schools or ‘colleges’ were founded, which cater for a clientele of artists or the dilettanti giving them the chance to draw from casts and the nude live model alongside their studio practice. Among the most famous are those of Sweerts, opened in Brussels and of Bisschop in The Hague. Closely connected with workshops’ and schools’ drawing practices was the proliferation of drawing-books and artists’ manuals. Most of them were based on the example of Odoardo Fialetti’s Il Vero Modo and Giacomo Franco’s De excellentia et nobilitate delineationis (1611) sometimes re- printing parts of them.147 Like their Italian predecessors, Netherlandish drawing-books focused on the human form, on classical statuary, and on the different stages of the academic learning process.148 The increasing importance of  38 39  the Antique in the Netherlands is well expressed by the various Dutch translations of François Perrier’s Segmenta (1638) – the most successful collection of prints after classical statues of the 17th century (fig. 57 and cat. 16, figs 3–6) – and by the equal success of its Dutch counterpart, Jan de Bisschop’s Icones (1668, see cat. 13), explicitly compiled as a teaching tool.149 Antique models were also copied by young Northern artists in three dimensions, thanks to the proliferation of casts, as shown in the frontispiece of Abraham Bloemaert’s Konstryk Tekenboek (c. 1650) – one of the most influential draw- ing-books of the second half of the century (see cat. 11). Many studios and drawing schools owned collections of casts, often of famous prototypes such as the Laocoön or the Apollo Belvedere. Inventories of the studios of Cornelis Cornelisz. van Haarlem, Hendrik van Balen (1575–1632), and Rembrandt, for instance, testify to their presence.150 The diffusion of casts appears explicitly in the numerous paintings depicting young artists at work, which became popular from the middle of the century onwards (figs 49–53, see also cats 12 and 14). These works constitute an individual iconographical genre that probably derives from Fialetti’s striking etching (see cat. 10), which, as we have seen, was well known and reprinted several times in the Netherlands.151 This genre was practised mainly by Jacob Van Oost the Elder (1601–71, fig. 50), Wallerant Vaillant (1623–77, fig. 51), Balthasar Van den Bossche (1681–1715) and Michael Sweerts (fig. 52 and cat. 12), whose canvases tend to represent the ideal training curricu- lum, where the copying of plaster casts after the Antique has the place of honour.152 As ‘low’ genre paintings that celebrate the didactic role of the Antique – traditionally considered to be essential for the lofty genre of history painting rather than for scenes of daily life – they indirectly attest to the ubiquitous penetration of classical models in all 17th-century artistic practices. Incidentally they are also a direct visual source for the most widely diffused typologies of classical statues in the North of Europe in the 17th century: from busts of the Apollo Belvedere (figs 18 and 50), of the Laocoön group, both father and sons (figs 19 and 51), and of the so-called Grimani Vitellius (fig. 52), to reduced copies of the Spinario (figs 15 and 49), the Belvedere Antinous (figs 22 and 51), the Venus de’ Medici (figs 53 and 56), and the Farnese Hercules (see fig. 32 and cat. 14). Also frequently depicted are busts of Niobe (see fig. 34 and cat. 12), reduced copies of the Wrestlers (fig. 33) and the Borghese Gladiator (fig. 54). The Italian and the French Academies in the Seventeenth Century and the Establishment of Classicism The 17th century witnessed dramatic changes of attitude towards the study of the Antique in terms of codification, diffusion and theoretical debate; at the same time it saw the formulation of a style heavily dependent on classical sculp- ture, setting the stage for the final affirmation of classicism as a pan-European phenomenon in the following century. The selection of the most significant antique statues, begun in the 16th century, was further refined, especially in the cos- mopolitan antiquarian environment of Rome. Excavations continued and some of the new discoveries immediately joined the canon of ideal models. Three of them, in particu- lar, were ubiquitously reproduced and copied in studios and academies: the Borghese Gladiator (fig. 54), discovered in 1611, which soon became the preferred model for the anatomy of the muscular man in action; the Dying Gladiator (fig. 55), first mentioned in 1623, whose complex pose could be drawn from different angles and which offered an ideal of heroic pathos expressed in the moment of death; and finally, the Venus de’ Medici (fig. 56), first recorded in 1638 but possibly known in the late 16th century, which rapidly became the most admired embodiment of the graceful female body.153 New collections gradually replaced earlier ones and a few families succeeded in acquiring some of the newly discovered statues that had gained canonical status. The magnificent urban palaces and suburban villas of the Medici, Farnese, Borghese, Ludovisi and Giustiniani attracted an increasing number of visitors and artists, becoming privileged centres for the study of the Antique, and family names became attached to certain statues, as the Farnese Hercules or the Venus de’ Medici testify.154 Some of these, such as the Palazzo Farnese (see cat. 21), and the Casino Borghese retained their status as ‘private museums’ until the end of the 18th century. Prints continued to play a vital role in the dissemination of images of classical statues throughout Europe. They were produced predominantly in Rome, where, as in the 16th century, French printmakers played a prominent role along- side Italian antiquarians and engravers.155 Among others, the publications of François Perrier (1594–1649) and the duo comprising the antiquarian and theoretician Giovanni Pietro Bellori (1613–96) and the engraver Pietro Santi Bartoli (1615– 1700), offered artists and the educated public a choice of Fig. 54. Agasias of Ephesus, Borghese Gladiator, c. 100 bc, marble, 199 cm (h), Louvre, Paris, inv. Ma 527 Fig. 55. Dying Gladiator, Roman copy of a Pergamene original of the 3rd century bc, marble, 93 cm (h), Capitoline Museums, Rome, inv. MC0747 Fig. 49. (top left) Jan ter Borch, The Drawing Lesson, 1634, oil on canvas, 120 × 159 cm, Rijksmuseum, Amsterdam, inv. SK-A-1331 Fig. 50. (top right) Jacob van Oost the Elder, The Painter’s Studio, 1666, oil on canvas, 111.5 × 150.5 cm, Groeningenmuseum, Bruges, inv. 0000.GRO0188.II Fig. 51. (bottom left) Wallerant Vaillant, The Artist’s Pupil, c. 1668, oil on canvas, 119 × 90 cm, Bonnefantenmuseum, Maastricht, inv. 673 Fig. 52. (bottom centre) Michael Sweerts (attr.), Boy Copying a Cast of the Head of Emperor Vitellius, c. 1658–59, oil on canvas, 49.5 × 40.6 cm, The Minneapolis Institute of Arts, inv. 72-65 Fig. 53. (bottom right) Pieter van der Werf, A Girl Drawing and a Boy near a Statue of Venus, 1715, oil on panel, 38.5 × 29 cm, Rijksmuseum, Amsterdam, inv. SK-A-472 40 41  the ‘best’ ancient statues and reliefs; the authority of their selections lasted throughout the 18th century. For full-length statues, crucial was the appearance in 1638 of Perrier’s Segmenta nobilium signorum et statuarum (fig. 57 and cat. 16 figs 3–6), a collection of prints which in many ways fulfils what Goltzius had intended to publish four decades earlier (see cats 6–7).156 Offering good quality reproductions and different points of view– three for the Farnese Hercules and four for the Borghese Gladiator, for instance – Perrier’s images were essential in focusing the attention of artists on a selected number of models considered exemplary in anatomy, proportions, poses and expressions. Reprinted and trans- lated several times, the success of the Segmenta was immense and it was used in studios and academies as a teaching tool for almost two centuries, as we have seen earlier in the Netherlands. As late as 1820 John Flaxman was still recom- mending the use of Perrier to his students at the Royal Academy.157 Such publications were the results of the antiquarian and theoretical interests of a French-Italian classicist milieu that flourished in the first half of the century in Rome.158 Innumerable French artists now spent time in the city, filling sketchbooks with copies after the Antique and Renaissance Fig. 56. Venus de’ Medici, Greek or Roman copy of the 1st century bc of a Greek original of the 4th century bc, marble, 153 cm (h), Uizi, Florence, inv. 224 Fig. 57. François Perrier, Venus de’Medici, plate 81, from Segmenta nobilium signorum et statuarum, Rome, 1638 masters, and devoting increasing space to the study of Raphael.159 Two of the most relevant figures in this context were the great French painter Nicolas Poussin (1594–1665), who resided in Rome between 1624 and 1665 (with a brief sojourn in France in 1640–42), and his friend and biographer Giovanni Pietro Bellori, possibly the most influential art writer of the century, who deserves to be called the pro- tagonist in the theoretical formulation of classicism. Of similar significance was the scholar, antiquarian, collector and patron Cassiano dal Pozzo (1588–1657), a friend of both Poussin and Bellori – and patron of the former – who assem- bled a vast encyclopaedic collection of drawings divided by themes, a ‘Paper Museum’, with sections devoted to classi- cal antiquity commissioned from several contemporary artists.160 Classicism found probably its clearest and most influen- tial formulations in a landmark discourse composed by Bellori and delivered in 1664, the year before Poussin’s death, in the Roman Accademia di San Luca: the ‘Idea of the painter, the sculptor and the architect, selected from the beauties of Nature, superior to Nature’ (see Appendix, no. 11). Bellori’s theoretical statement, published as a prologue to his Vite in 1672, was to become enormously influential in defining and disseminating the central tenets of the classicist ideal (see cat. 15).161 Joining Aristotelian and neo-Platonic premises, Bellori’s Idea advocates in the selection of the best parts of Nature according to the right judgement of the artist in order to create ideal beauty – a concept that we have already encountered many times. According to Bellori, the Idea had been embodied in art at several periods of history and he traced its development according to a scheme of peaks and descents. It took shape first and foremost in the ancient world and was revived in modern times by Raphael, who is accorded nearly divine status. After the decadence and excesses of Mannerism, it was revitalised by the Bolognese Annibale Carracci (1560–1609) and by his pupils and follow- ers, notably Domenichino (1581–1641). Their flame was kept alive in Bellori’s time by Poussin and Carlo Maratti (1625– 1713), a protégé of Bellori, who fashioned himself as the new Raphael and whose Academy of Drawing is the most program- matic representation of the principles of Roman classicism (see cat. 15). Bellori’s classicism, heir of the rich debates of the first half of the century, can be defined as a codification and defence of an idealistic style and of moralising history painting against the radical naturalism introduced by Caravaggio and his followers, whose slavish dependence on Nature and choice of low subjects were seen to undermine the intellectual premises of art. On the other hand, Bellori also confronted the excesses and liberties of the Baroque, whose representatives, according to him, leaned towards artificiality and despised the ‘ancient purity’.162 Classicism in many ways was based on the princi- ples laid down by the art theory of the second half of the 16th century, as it shared with it a fundamental premise: the neces- sity of the defence of what was perceived as the ideal path of art – the ‘bella maniera’ – against contemporary artistic trends which were considered erroneous or even noxious.163 The classicist theoretical approach further reinforced the practice of copying: it reinstated the intellectual value of drawing while providing a selected group of correct models to follow, with the Antique and Raphael on the loftiest pedestal. These premises were embraced by the Italian and French academies, and became the basis of most of the European academies of the following century – Opie’s words to the young pupils of the Royal Academy in 1807 still reiterate their fundamental tenets. Although the debate was at times fierce – as for instance within the Accademia di San Luca in the 1630s – a strict division of 17th-century artists into classicist, naturalist and Baroque categories would be arbitrary and inaccurate, as many of them moved between currents and at times incor- porated elements of each in their own creations. Indeed, artists of all allegiances copied, studied and took inspiration from the Antique. We know from surviving drawings and contemporary written sources that ‘classicist’ artists such as Annibale Carracci, Poussin and Maratti copied antique statues (figs 58–61), yet an equal number of ‘Baroque’ Fig. 58. Annibale Carracci, Head of Pan from the marble group of Pan and Olympos in the Farnese Collection, 1597–98, black chalk heightened with white chalk on grey-blue paper, 381 × 245 mm, Louvre, Paris, inv. 7193  artists, such as Rubens (figs 45–47 and cat. 9), Pietro da Cortona (1596–1669, fig. 62) and Bernini (figs 63–64) spent as much time in absorbing the principles of the Antique.164 Nevertheless their approaches towards the Antique could be very different. Poussin, the intellectual and antiquarian painter par excellence, copied hundreds of details from classical sculpture, especially reliefs and sarcophagi, to give archaeo- logical consistency to his art, so that his paintings would represent classical histories with the maximum of accuracy,  42 43 Fig. 59. Nicolas Poussin, Equestrian Statue of Marcus Aurelius, c. 1630–32, pen and brown ink and brown wash, 244 × 190 mm, Musée Condé, Chantilly, inv. AI 219; NI 264 Fig. 60. Carlo Maratti, The Farnese Flora, c. 1645–70, black chalk, 294 × 159 mm, The Royal Collection, Windsor Castle, inv. 904377 Fig. 61. Carlo Maratti, or Studio of, The Farnese Hercules, c. 1645–70, red chalk, 292 × 165 mm, The Royal Collection, Windsor Castle, inv. 904382 Fig. 62. Pietro da Cortona, The Trophies of Marius, c. 1628–1632, pen, brown ink, brown wash, heightened in white, on blue sky prepared paper, 518 × 346 mm, The Royal Collection, Windsor Castle, inv. RL 8249 integrity and power, an approach in several ways similar to that of Mantegna and Raphael. Bernini, arguably the greatest 17th-century sculptor, spent his youth obsessively copying the ancient statues in the Belvedere (see Appendix, nos 9–10) and in his old age recommended that students of the Académie Royale in Paris begin their studies by copying casts of the most famous classical statues before approaching Nature (see Appendix, nos 9–10). But Bernini’s attitude towards ancient statuary was poles apart from that of Poussin (whom he nevertheless highly admired): he assimilated its principles in order to create his own independent forms, at times deviating radically from the classical model – an atti- tude that we have already seen in Michelangelo and Rubens. To develop their own style and avoid a slavish dependency on the Antique – something already stressed by Dolce, Armenini and Rubens (Appendix, nos 4, 6, 8) – he advised his students to combine and alternate ‘action and contemplation’, that is to alternate their own production with the practice of copy- ing (Appendix, no. 10). A wonderful example that allows us to follow Bernini’s creative process of transforming of the antique model is provided by a study of the torso of the Laocoön, the unbalanced and twisted pose of which he then ingeniously adapted in reverse for the complex attitude of his Daniel (figs 63–66). A recollection of the Laocoön is further- more recognisable in Daniel’s powerful expression (fig. 66).165 A practical outcome of the French and Italian theoretical formulation of a classicist doctrine was the foundation in 1648 of the Académie Royale de Peinture et de Sculpture in Paris, followed in 1666 by that of the Académie de France in Rome – the latter intended to give prize-winning students the opportunity to study the Antique in situ and to provide 44 Louis XIV (r. 1643–1715) with copies of classical and Ren- aissance statues.166 The foundation of the French Académie in Paris is a turning point in the history of the teaching of art, as its codified programme – based on Italian examples, and especially the Roman Accademia di San Luca – would constitute the basis for the academies that spread over the Western world in the 18th and 19th centuries. Founded by several artists, most of whom had spent periods in Rome such as Charles Le Brun (1619–90), the Paris Académie was supported by the monarch and candidates could apply for admission only after they had trained in a workshop. Its regulations aimed at full intellectual develop- ment for its students to prepare them for the creation of the highest genre, history painting, or the grande manière. Although its curriculum was rather loosely organised and, in the first tw  o decades of its history, fairly tolerant in its aesthetic positions, during the 1660s the Académie was drastically reformed by the powerful Minister and Super- intendent of Buildings Jean-Baptiste Colbert (1619–83) and by Le Brun to become an institution in the service of the absolutist policy of Louis XIV, with a codified version of classicism as its official aesthetic. The rationalistic nature of French 17th-century culture meant that the Académie conceived of art as a science that could be taught by rules. This was explicitly stated by Le Brun in 1670,167 and efforts were concentrated in clarifying and applying most of the precepts already devised by the early Italian academies and theoreticians. If a student followed these precepts correctly he – and only he, as the institution was limited to male pupils until the late 19th century – would be able to assimilate the principles of ideal beauty and create grand art.168 The future European success of this regimented version of the humanistic theory of art rested exactly in its rational nature, as a clear system of rules easy to export and replicate, offering at the same time a safe path towards ‘true’ and universal art. Pupils were supposed to follow the ‘alphabet of drawing’, from copying drawings, to casts and statues, to the live model, which remained the most difficult task and one reserved for the most advanced students. Regular lectures on geometry, perspective and anatomy were provided. As in Federico Zuccaro’s statutes for the Accademia di San Luca, professors rotated monthly to supervise the life class, prizes were awarded to students and regular debates were initiated on the principles of art – the celebrated so-called Conférences, regularly held from 1667 onwards on the advice of Colbert, although they faltered by the end of the century to be revived only a few decades later.169 Other aspects of the reforms of the 1660s included the division of the drawing course into lower classes, devoted to copying, and higher classes, for Fig. 63. Gian Lorenzo Bernini, Study of the Torso of the Father in the Laocoön group, c. 1650–55, red chalk heightened with white on grey paper, 369 × 250 mm, Museum der Bildenden Künste, Leipzig, inv. 7903 Fig. 64. Gian Lorenzo Bernini, Two Studies for the Statue of ‘Daniel’, c. 1655, red chalk on grey paper, 375 × 234 mm, Museum der Bildenden Künste, Leipzig, inv. 7890 Fig. 65. Gian Lorenzo Bernini, Daniel in the Lion’s Den, c. 1655, terracotta, 41.6 cm (h), Vatican Museums, Rome, inv. 2424 drawing from the live model. Competitions were further structured to lead towards the highest reward, the famous Grand Prix or Prix de Rome, which allowed the winners to spend between three and five years at the Académie de France in Rome, to complete their education and to assimilate the principles of the greatest ancient and modern art. The official doctrine of the Paris Académie was distilled and diffused by André Félibien (1619–95), the most promi- nent French art theorist of the period, in his preface to the first series of Conférences held in 1667 and published in 1668. Félibien offered a clear structure for the hierarchy of genres that would be associated with academic painting for the next two centuries: at the bottom was still life, followed on an ascending line by landscape, genre painting, portraiture and finally by history painting, for which the study of the Antique, of modern masters and of the live model were considered necessary.170 The first Conférences reveal in their subjects and approach the central tenets of the Parisian Académie: paintings by Raphael, Poussin, Le Brun and the Laocoön were meticulously analysed in their parts according to strict rules: invention, expression, composition, drawing, colour, proportions etc. Some Conférences were devoted to specific parts of painting: one given by Le Brun in 1668, on the ‘passions of the soul’, which was printed posthumously and translated into several languages, constituted the basis for the study of facial expres- sions until well into the 19th century.171 The Antique remained one of the favourite subjects to be dissected by the academicians. After the 1667 Conférence on the Laocoön (see Appendix, no. 12),172 praised as the ideal model for drawing and for the ‘strong expressions of pain’,173 many more followed specifically devoted to the Farnese Hercules, Belvedere Torso, Borghese Gladiator, and Venus de’ Medici, the ultimate selected canon of sculptures.174 Conférences were also given on the study of the Antique in general.175 Sébastien Bourdon’s (1616–71) Conférence sur les proportions de la figure humaine expliquées sur l’Antique, in 1670 advised students to fully absorb the Antique from a very early age, measure precisely its proportions and control ‘compass in hand’ the Fig. 66. Gian Lorenzo Bernini, Daniel in the Lion’s Den, 1655–57, marble, over life-size, Chigi Chapel, Santa Maria del Popolo, Rome  45  live model against classical sculptures, as they are never arbitrary – a method, according to Bourdon, approved by Poussin.176 This extreme rationalistic approach, based on the actual measurement of the Antique, which, as we will see, would generate opposition, was put into practice by Gérard Audran (1640–1703), engraver and ‘conseiller’ of the Académie (Appendix, no. 13). His illustrated treatise of 1682 (figs 72–73) provided students with the carefully measured proportions of the antique statues that they were supposed to follow and became a standard reference work in many languages, continuously republished until 1855. While the Académie de France in Rome must have started accumulating casts after the Antique from early on – the inventory of 1684 lists a vast collection of statues, reliefs, busts, etc.177 – it is not entirely clear how readily the students of the Académie in Paris had access to casts or copies in the first decades of the institution’s history. Bernini, in his 1665 visit, explicitly advised the formation of a cast collection for the Parisian Académie, and some, among them a Farnese Hercules, were ordered or donated in the following years.178 But although students certainly copied casts already in Paris, full immersion in the practice was reserved for the period they spent in Rome.179 ‘Make the painters copy everything beautiful in Rome; and when they have finished, if possible, make them do it again’ Colbert tellingly wrote in 1672 to Charles Errard (c. 1606–9 – 1689), the first Director of the Académie de France in Rome.180 In Rome a similar practice was encouraged in the Accademia di San Luca, which, like its Parisian counterpart, was significantly reformed in the 1660s, perhaps a sign of the increasingly important reversal of influence, from France to Italy. From the beginning of the presidency of Carlo Maratti in 1664, a staged drawing curriculum, competitions and lectures were implemented and new casts were ordered (see cat. 15).181 Some twenty years later the Accademia received the donation of hundreds of casts of antique sculp- tures from the studio of the sculptor and restorer Ercole Ferrata (1610–86).182 Sharing the same values and similar curricula, in 1676 the Accademia di San Luca and the Parisian Académie Royale were formally amalgamated and on occa- sion French painters even became principals of San Luca – Charles Errard in 1672 and 1678, and Charles Le Brun in 1676–77.183 But the Italians could never feel wholly comforta- ble with the extreme rationalisation of art characteristic of so much French theory.184 After the publication of the French Conférences, debates were held in defence of the Vasarian tradi- tion and of the value of grace, judgement and natural talent against the rules and the overly rational analysis of art and the Antique by the French.185 The engraving by Nicolas Dorigny (1658–1746) after Carlo Maratti is the most eloquent 46 visual expression of this intellectual confrontation that con- tinued into the 1680s (cat. 15). Some of the most doctrinal aspects of the Parisian academy also generated an internal counteraction and the supporters of disegno, classicism and Poussin, headed by Le Brun, were challenged by the promot- ers of Venetian colore and Rubens, led by the artist and critic Roger de Piles (1635–1709) and by the painter Charles de la Fosse (1636–1716). The battle between ‘Poussinisme’ and ‘Rubénisme’ – a new incarnation of the debate started more than a century earlier by Giorgio Vasari and Lodovico Dolce – captured the imagination of the French academic world between the end of the 17th and the first decade of the 18th centuries. The victory of the Rubénistes led the way to a freer, anti-classicist and more painterly aesthetic and to the eventual affirmation of the Rococo in French art.186 But the next century would also witness the triumph of the classicist ideal, as its principles spread all over Europe. The Antique Posed, Measured and Dissected Given the rationalistic approach of French artists and theo- rists to the Antique – ‘compass in hand’ – it does not come as a surprise that, during the 17th century, they actually started to measure ancient statues in order to tabulate their pro- portions. And as well as measuring statues they began to merge the study of anatomy with study of the Antique to provide young students with ideal sets of muscles to copy. Such efforts produced a series of extremely influential drawing-books filled with fascinating and disturbing images, in which ancient bodies are covered by nets of numbers or flayed and presented as living écorchés. In a way it was inevitable that the study of human propor- tions applied by Alberti, Leonardo and Dürer to living bodies Fig. 67. Peter Paul Rubens, Study of the Farnese Hercules, c. 1602, pen and brown ink, 196 × 153 mm, The Courtauld Gallery, Samuel Courtauld Trust, London, inv. D.1978.PG.427.v, Fig. 68. Charles Errard, Antinous Belvedere, plate on p. 457 in Giovanni Pietro Bellori, Le vite de’ pittori scultori e architetti moderni, Rome, 1672 would eventually be merged with the study of the ideal bod- ies of ancient statues, to test Vitruvius’ assertion that ancient artists worked according to a fixed canon (Appendix, no. 1). The main problem was that the canonical proportions of 5th-century bc sculpture had been disregarded from the 3rd century bc onwards. Furthermore, as we now know, most of the ‘perfect’ Greek statues were actually modified Roman copies of lost originals. The measuring efforts of 17th- century art theorists were therefore for the most part in vain, as most of the revered marbles did not embody the principles of commensurability and overall harmonic proportion that they believed they did. Although we have seen that Raphael had already initiated the practice of measuring statues (fig. 27), the first to refer explicitly to this exercise is Armenini in his 1587 De veri precetti della pittura, in which a chapter is devoted specifically to the ‘measure of man based on the ancient statues’.187 Rubens also devoted much attention to trying to discover the perfect num- bers and forms of ancient statues, dividing for instance the Farnese Hercules, the strongest type of male body, according to series of cubes, the most solid of the perfect forms (fig. 67).188 Not surprisingly, Poussin’s approach to the Antique in Rome was similar, and we know from Bellori that he and the sculptor François Duquesnoy (1597–1643) ‘embarked on the study of the beauty and proportion of statues, measuring them together, as can be seen in the case of the one of Anti- nous’ – two illustrations of which he published in Poussin’s life in his Vite (fig. 68).189 But the first artist to provide accurate drawings of the most famous statues was the future founding director of the Académie de France in Rome, Charles Errard, who, later, also provided the measured Antinous illustrations for Bellori’s Vite (fig. 68). In collaboration with the theorist Roland Fréart de Chambray (1606–76), and most likely inspired by Poussin, he executed in 1640 a series of intriguing measured red chalk drawings today preserved at the École des Beaux-Arts in Paris (figs 69–71).190 Produced only two years after the publication      Fig. 69. Charles Errard, or collaborator, Measured Drawing of the Belvedere Antinous, 1640, red chalk, pencil, pen and brown ink, 430 × 280 mm, École nationale supérieure des Beaux-Arts, Paris, inv. PC6415, no. 27 Fig. 70. Charles Errard, Measured Drawing of the Laocoön, 1640, red chalk, pen and brown ink, 430 × 280 mm, École nationale supérieure des Beaux-Arts, Paris, inv. PC6415, no. 11 Fig. 71. Charles Errard, Measured Drawing of the Venus de’Medici, 1640, red chalk, pencil, pen and brown ink, 430 × 280 mm, École nationale supérieure des Beaux-Arts, Paris, inv. PC6415, no. 28 47  of Perrier’s successful Segmenta, Errard’s drawings were clearly intended to be published and to present young artists with a set of certain and ideal proportions on which they could base their own figures. A similar search for discipline was undertaken by Fréart de Chambray, and later by other theorists, among the remains of ancient architecture, which involved an even more intense effort to discover their ‘perfect’ proportions. Although a few of Errard’s drawings were published in 1656 by Abraham Bosse – the first professor of perspective of the Parisian Académie Royale – the first successful manuals appeared in the 1680s, as a result of the theoretical debates on the proportions of ancient statues held in the Académie during the previous decade.191 By far the most influential was a manual we have already encountered, Gérard Audran’s Proportions du corps humain mesurées sur les plus belles figures de l’antiquité, published in 1683 (Appendix, no. 13). This provided a fully ‘classicised’ drawing-book, following the ‘alphabet of drawing’ from the measured eye, nose and mouth of the Apollo Belvedere (fig. 72), to whole canonical statues, such as the Laocoön (fig. 73). Audran’s book, republished several times in various languages, became the model for many similar publications that appeared during the 18th and early 19th centuries and espoused a practice embraced by many artists. Examples from different nations include a Dutch manual, where, fascinatingly, the Apollo Belvedere is presented according to Vitruvian principles (fig. 74; see also fig. 2 and Appendix, no. 1); drawings by the sculptor Joseph Nollekens (1737–1823; fig. 75); and measured notes drawn by Antonio Canova over an engraving of the Apollo Belvedere from a didactic series of prints after the Antique (fig. 76).192 In addition to being carefully measured, antique bodies were also dissected. If classical statues displayed perfect anat- omies, then, it was thought, they would offer an ideal starting point for young students to study bones and muscles. Combining the study of the Antique with that of anatomy was intended to reinforce the familiarity of young artists with ancient canonical models, now also analysed from the inside. Students until then had trained mainly on the immensely influential De humani corporis fabrica, published by Andrea Vesalius in 1543, and on the anatomical treatises that were based on it, but from the late 17th century new ‘classicised’ manuals appeared.193 The first, Anatomia per uso et intelligenza del disegno... , based on drawings by Errard, was published in 1691 by Bernardino Genga (1655–1720), professor of anatomy at the Académie de France in Rome.194 Probably conceived much earlier, the set of engravings included fascinating and somewhat morbid images of the skeletons of classical statues (figs 77–78; although these were not eventually included in the book) and several different views of the muscles of the strongest types of ancient prototypes, the Laocoön, the Borghese Gladiator, the Farnese Hercules and the Borghese Faun (figs 79–80).195 Genga and Errard’s Anatomia was a model for several similar books which appeared in the 18th and early 19th centuries to satisfy the needs of the increasingly classicistic curricula of European academies. Not surprisingly, only male antiquities, and usually the most muscular ones, were illustrated, both for reasons of decorum and also because the Fig. 74. Jacob de Wit, Measured ‘Apollo Belvedere’, plate 8 in Teekenboek der proportien van ‘t menschelyk lighaam, Amsterdam, 1747 Fig. 75. Joseph Nollekens, Measured Drawing of the ‘Capitoline Antinous’, 1770, pen and brown ink over traces of black chalk, 431 × 292 mm, Ashmolean Museum, Oxford, inv. DBB 1460 Fig. 76. Giovanni Volpato and Rafaello Morghen, Measured ‘Apollo Belvedere’, engraving (with inscribed measures in pencil, red chalk, pen and brown ink by Antonio Canova), post 1786, plate 35 in Principi del disegno. Tratti dall più eccellenti statue antiche per il giovanni che vogliono incamminarsi nello studio delle belle arti, Rome, 1786, Museo Civico, Bassano del Grappa, inv. B 42.69 Audran, Measured Details of the ‘Apollo Belvedere’, plate 27 in Les Proportions du corps humain mesurées sur les plus belles figures de l’antiquité, Paris, 1683 Fig. 73. Gérard Audran, Measured ‘Laocoön’, plate 1 in Les Proportions du corps humain mesurées sur les plus belles figures de l’antiquité, Paris, 1683 48 49 Fig. 77. (above left) After Charles Errard, The Skeleton of the ‘Laocoön’, c. 1691, engraving, 328 × 198 mm, Bibliothèque des Arts décoratifs, Paris, Album Maciet 2-4 (4) Fig. 78. (above centre) After Charles Errard, The Skeleton of the ‘Borghese Gladiator’, c. 1691, engraving, 334 × 280 mm, Bibliothèque des Arts décoratifs, Paris, Album Maciet 2-4 (1) Fig. 79. (above right) After Charles Errard, Anatomical Figure of the ‘Borghese Gladiator’, c. 1691, plate 51 in Bernardino Genga and Charles Errard, Anatomia per uso et intelligenza del disegno . . . , Rome, 1691 Fig. 80. (left) After Charles Errard, Anatomical Figure of the ‘Laocoön’, c. 1691, plate 43 in Bernardino Genga and Charles Errard, Anatomia per uso et intelligenza del disegno . . . , Rome, 1691  male body was believed to provide more anatomical infor- mation compared to the female one. One of the most dis- turbingly accurate, printed in two colours to distinguish the muscles from the bones, is the Anatomie du Gladiateur combatant ... published in 1812 by the military surgeon Jean- Galbert Salvage (1772–1813). Although this provided a precise anatomical analysis of the head of the Apollo Belvedere (fig. 81), its main focus was on the anatomy of the Borghese Gladiator analysed in all its parts (fig. 82). The accuracy of the manual’s plates made it extremely influential throughout Europe.196 Fig. 81. Nicolaï Ivanovitch Outkine after Jean-Galbert Salvage, Muscles and Bones of the Head of the ‘Apollo Belvedere’, engraving in two colours, plate 1 in Jean Galbert Salvage, Anatomie du Gladiateur combatant ..., Paris, 1812 Fig. 82. Jean Bosq after Jean-Galbert Salvage, Anatomical Figure of the ‘Borghese Gladiator’, engraving in two colours, plate 6 in Jean Galbert Salvage, Anatomie du Gladiateur combatant ..., Paris, 1812 50 The stress on anatomical precision also produced a spectacu- lar three-dimensional écorché of the Borghese Gladiator created by Salvage in 1804 and acquired as a teaching tool in 1811 by the École des Beaux-Arts, where it remains (fig. 83).197 An earlier model, which had served as inspiration for Salvage, was the gruesomely naturalistic écorché posed as the Dying Gladiator (see fig. 55) made by William Hunter (1718– 83), the professor of anatomy at the Royal Academy of Arts in London, in collaboration with the sculptor Agostino Carlini. Casted on the body of an executed smuggler, it was aptly Latinised as Smugglerius.198 The Antique found its way into academic anatomical manuals for students throughout the 19th century, and its pervasiveness was enormous, extending even beyond Western culture. A plate with a flayed Laocoön from the popu- lar Anatomie des formes extérieures du corps humain, published in 1845 by Antoine-Louis-Julien Fau (fig. 85), served as inspira- tion for a popular artists’ manual produced in Japan at the end of the century, resulting in an extraordinary image which fuses the Western canon and the Japanese woodblock print tradition of the Ukiyo-e (fig. 86).199 The osmosis between the Antique and other disciplines of the academic curriculum gained ground also in the study of the live model. We have seen that already in the 15th century it was common practice to pose apprentices in imitation of ancient sculpture (see fig. 14), and great artists like Rubens often returned to this expedient (see cat. 9). But the practice became increasingly diffused within the codified curricula of French and Italian academies during the 17th and 18th centuries (figs 87–89). Recommended by several Fig. 83. Jean-Galbert Salvage, Écorché of the ‘Borghese Gladiator’, 1804, plaster, 157 cm (h), École nationale supérieure des Beaux-Arts, Paris, inv. MU11927 Fig. 84. (top left) William Pink after Agostino Carlini, Smugglerius, c. 1775 (this copy c. 1834), painted plaster, 75.5 × 148.6 cm, Royal Academy of Arts, London, inv. 03/1436     Fig. 85. (middle left) M. Léveillé, Anatomical Figure of the ‘Laocoön’, lithography, plate 24 in Antoine-Louis-Julien Fau, Anatomie des formes extérieures du corps humain, Paris, 1845 Fig. 86. (middle right) Anatomical Figures of the ‘Laocoön’ and of a Small Child, woodblock print, plate in Kawanabe Kyo-sai, Kyosai Gadan, 1887      Fig. 87. (bottom left) Antoine Paillet, Drawing of a Model Posing as the ‘Laocoön’, 1670, black and white chalk on brown paper, 580 × 521 mm, École nationale supérieure des beaux-arts, Paris, inv. EBA 3098 Fig. 88. (bottom centre) Giuseppe Bottani, Drawing of a Model in the Pose of the ‘Lycean Apollo’ Type, c. 1760–70, red and white chalks on red-orange prepared paper, 423 × 270 mm, Philadelphia Museum of Art, inv. 1978-70-197 Fig. 89. (bottom right) Jacques-Luois David, An Academic Model in the Pose of the ‘Dying Gaul’, 1780, oil on canvas, 125 × 170 cm, Musée Thomas Henry, Cherbourg, inv. MTH 835.102 51  academicians, posing the live model with the same tension and flexing of muscles as the ancient statues encouraged students to correct their drawings after fallible Nature against the perfection of the antique examples and to derive universal principles from particular living models (see cats 16 and 27b).200 The Eighteenth Century and the Diffusion of the Classical Ideal The seeds planted by 17th-century classicist theory fully blossomed during the 18th with the affirmation of Neo- classicism in the second half of the century. Supported by and supporting the exponential diffusion of academies – from some nineteen in 1720 to more than 100 in 1800 – the cult of the Antique spread to the four corners of Europe, from St Petersburg to Lisbon and beyond.201 The ‘true style’, as classicism was often called in the 18th century, was inextri- cably linked with many of the values of Enlightenment culture: in an age in search of order and universal principles, the appeal of the rational and ‘eternal’ ideals embodied by classical statuary proved irresistible. At the same time they provided a useful tool for existing political powers and a for- midable one for new authorities in search of legitimisation. The new academies based their curricula mainly on that of Paris and Rome, and the didactic role assigned to the Antique was physically imported through an army of plaster casts – the ‘Apostles of good taste’ – as Denis Diderot called them, which became the most recognisable trademark of the newly founded institutions (fig. 90).202 The progressive method of the ‘alphabet of drawing’ definitively established itself as the basis of the training of European artists well into the 20th century. Not necessarily followed in practice, as students often wanted to rush to the copy of the live model, its didactic value was, in Fig. 90. After Augustin Terwesten, The Life Academy at the Royal Academy of Fine Arts in Berlin, engraved vignette on p. 217 from Lorenz Beger, Thesaurus Brandenburgicus Selectus..., vol. 3, Berlin, 1701 theory, supported by the vast majority of academies.203 The plate illustrating the entry on ‘Drawing’ in Diderot and D’Alembert’s epochal Encyclopédie significantly focuses on the three steps, being followed in different media (fig. 91).204 While the French model was spreading throughout Europe during the first half of the century, ironically the Parisian Académie itself underwent a period of crisis. After the death of Colbert in 1683 and of Le Brun in 1690, the royal institution became decreasingly relevant in determining the direction of the national school of painting. Financial constraints and the waning of royal patronage coincided with the fact that the vital forces of French art were becoming less interested in adhering to the precepts of the Académie. A change in taste under the regency of Philippe d’Orléans (r. 1715–23) favoured the so-called petite manière, a form of painting dealing with light-hearted subjects – ‘bergeries’, ‘fêtes galantes’ – against the grande manière. Partly as a conse- quence, the traditional curriculum of the Académie, centred on the study of the human figure to prepare for history painting, was increasingly neglected.205 But things changed radically in 1745 with the appointment of Charles-François- Paul Le Normant de Tournehem – the uncle of Madame de Pompadour – as Surintendant des Bâtiments du Roi, the official protector of the Académie Royale on behalf of the king. He initiated a reform involving the reinvigoration of royal patronage, the re-establishment of Conférences and, more generally, a series of initiatives aimed at re-establishing the leading role of the Académie and of history painting in the French art world.206 The principles of Le Normant’s reform, supported by the influential antiquarian and theorist Comte de Caylus (1692–1765) and visualised by Charles-Joseph Natoire’s beautiful drawing (cat. 16), paved the way for the final affirmation of the grande manière in the second half of the century, despite the continuing clamour of dissenting voices. If Paris progressively became the centre of the modern art world, Rome retained its status as the ‘academy’ of Europe Fig. 91. Benoît-Louis Prévost after Charles-Nicolas Cochin the younger, A Drawing School, plate 1, illustrating the entry ‘Dessein’ from Denis Diderot and Jean Le Ronde D’Alambert, Encyclopédie ..., Recueil de planches, sur les sciences, les art libéraux, et les arts méchaniques ..., Paris, 1763, vol. 20 where a thriving international community of artists congre- gated to round off their education in the physical and spirit- ual presence of the Antique and the great Renaissance masters.207 The crucial role that Rome occupied in 18th- century culture is evoked in the words of the most famous art critic of the age and the champion of classicism Johann Joachim Winckelmann (1717–68): ‘Rome’ he wrote in his letters ‘is the high school for all the world, and I also have 208 been purified and tried in it’. Of course, artists and travel- lers had visited the city to study its art for at least two centu- ries, but the 18th century represented Rome’s golden age as the traveller’s ultimate destination. The Grand Tour – as the trip to Italy and to Rome was known – became a social and cultural phenomenon that included artists, antiquarians, collectors and, in general, members of European elites.209 It generated an industry of collectibles that travellers could bring back to their homeland, and an army of original ancient statues and modern copies in all media was exported, alongside portraits and paintings of various kinds that would powerfully recall the time spent by their owners in the eternal city. Among the most fascinating and systematic evocations of Rome are a series of celebrated canvases by Giovanni Paolo Panini (1691–1765), where ‘the best of the best’ of Roman sites and antiquities are gathered together in imaginary galleries. In the foreground of fig. 92, (see also cat. 20, fig. 5) artists are busy drawing and measuring with their compasses a selected choice of canonical classical statues – a reminder of one of the most widespread artistic activities in the city.210 The demands of the Grand Tour ‘industry’ also generated a specific category of ‘marketable drawings’ after the Antique destined to fill the ‘paper museums’ of collectors and anti- quarians all over Europe. They were mainly produced for collectors and travellers from Britain, a nation that became increasingly important in the study of the Antique through- out the century. Among the most famous drawings were those produced in the workshop of the entrepreneurial painter Francesco Ferdinandi Imperiali (1679–1740) in the 1720s by various painters and draughtsmen – among them Giovanni Domenico Campiglia (1692–1775; see cats 19–20) and the young Pompeo Batoni (1708–87; fig. 93).211 Created for the extensive collection of the antiquarian Richard Topham    52 53 Fig. 92. Giovanni Paolo Panini, Roma Antica, 1754–57, oil on canvas, 186 × 227 cm, Staatsgalerie Stuttgart, inv. Nr 3315  (1671–1730), Batoni’s red chalk drawings are among the most extraordinary produced in the 18th century. With their preci- sion, attention to detail, fidelity to the originals and frontal viewpoint, they encapsulate many of the typical qualities of this category of drawings. Their manner continues and devel- ops some of the characteristics already seen in the classicist drawings of Carlo Maratti, of whom Batoni was the natural artistic heir (figs 60–61). Growing interest in the classical past was also supported by massive expansion in antiquarian publications, such as the monumental Antiquité expliquée (Paris, 1719–24) by the Abbé Bernard de Montfaucon, an illustrated encyclopaedia of the Antique for the use of the European educated public. Artists could also benefit from an increase in printed collec- tions of classical statues.212 Paolo Alessandro Maffei and Domenico de Rossi’s Raccolta di Statue Antiche e Moderne (1704) set new standards of accuracy, and it was followed by the various sumptuous volumes devoted to the antiquities of the Grand Ducal collection in Florence and of the Capitoline Museum in Rome (see cats 19–20). With its wealth of patrons, artistic competitions, acade- mies and artists’ studios, many displaying collections of casts, Rome also offered an unrivalled opportunity to learn and practice the arts of disegno.213 The classicist direction given to the Accademia di San Luca by Giovanni Pietro Bellori and Carlo Maratti, was sanctioned by the Pope Clement XI (r. 1700–21) who in 1702 established papal- supported competitions, the celebrated Concorsi Clementini, which thrived especially during the second half of the century (see cat. 20).214 Open to all nationalities, the Concorsi Fig. 93. Pompeo Batoni, Drawing of the Ceres of Villa Casali, c. 1730, red chalk, 469 × 350 mm, Eton College Library, Windsor, inv. Bn. 3, no. 45 were divided into three classes of increasing difficulty, the third and lowest class being reserved for copying, usually after the Antique (see cat. 20, fig. 4). This reinforced, as nowhere else in Europe, the study of classical statuary as the cornerstone of the artist’s education, giving to Italian and foreign artists alike the chance to be rewarded publicly in sumptuous ceremonies held in the Capitoline palaces, even in early stages of their careers. The cosmopolitan atmos- phere of the Accademia di San Luca is reflected in the fact that among its Principals were several foreigners, such as the Frenchman Charles-François Poerson (elected 1714) or the Saxon Anton Raphael Mengs (1771–2) and the Austrian Anton von Maron (1784–6). The Accademia was also open to leading women painters such as Rosalba Carriera (1675–1757) or Elisabeth-Louise Vigée Le Brun (1755–1842), although they were not allowed to attend meetings. Crucial for artistic education was the opening of the Capitoline as a public museum in 1734, thanks to the enlight- ened policy of Pope Clement XII (r. 1730–40).215 One of the main reasons behind the papal decision was specifically to support ‘the practice and advancement of young students of the Liberal Arts’ through the copy of the Antique.216 An evocative vignette inserted in the Musei Capitolini – the first sumptuously illustrated catalogue of the collection – reflects the popularity of its cluttered rooms among artists of all nations (see cat. 20). With the opening in the Capitoline of the Accademia del Nudo in 1754 – specifically devoted to the study of the live model and controlled by the Acca- demia di San Luca – the museum became a sort of ideal academy where art students could copy concurrently from the Antique, Old Masters paintings and the live model.217 Apart from the Capitoline and other traditional places, such as the Belvedere Court or the aristocratic palaces where original antiquities could be studied in situ (cat. 21), the other favoured locus for the study of the Antique in the city was the Académie de France in Rome, which owned the largest collection of plaster casts in Europe. Although the Académie, like its Parisian counterpart, had gone through a troubled period in the early decades of the century – the Prix de Rome was cancelled for lack of funds in 1706–8, 1714 and 1718–20 – its role was revamped and its practices drastically reformed under the directorship of Nicholas Vleughels (1668–1737) between 1725 and 1737.218 The casts were redisplayed in Palazzo Mancini, the Académie’s prestigious new location on the Corso, and integrated for didactic purposes with the study of the live model (see cat. 16). The collection of the Académie served as an example for similar institutions throughout Europe, as its arrangement of many copies side- by-side was considered ideal for the assimilation of classical forms. With the advancing neo-classical aesthetic, their flawless white appearance was even preferred for didactic purposes above the originals: young students could concen- trate on their purified forms, without the signs of time shown by real antiquities. No other nation had as many members in Rome as France, both as pensionnaires of the Académie and permanent residents (see cats 17–18, 21).219 The long directorship of Charles-Joseph Natoire, between 1751 and 1775, greatly devel- oped and expanded the copying of antiquities that had been reinstated by Vleughels. But Natoire also encouraged the creation of ‘classical’ landscapes of the Roman campagna, following the principles established by the great 17th-century French landscapists: Poussin, Dughet and Claude.220 Natoire and his most gifted and prolific pupil, Hubert Robert (1733– 1808), who spent more than a decade in Rome between 1754 and 1765, produced a series of drawings in which copy- ing in the city’s museums and palaces is splendidly evoked (figs 94–97 and cat. 17).221 Focused in particular on the Capitoline collection, Robert’s images are among the most fascinating products of a genre – that of the artist drawing in situ surrounded by classical statues – that, as we know, goes back to the 16th century (see cat. 5 and fig. 44). Robert specialised in evocative views of the remains of ancient Rome, with artists and wanderers lost among their crumbling grandeur. In many ways he recaptured the spirit of wonder and meditation on the ruins of the city expressed by 16th-century Northern artists, such as Maarten van Heemskerck, Herman Posthumus, and Nicolas Beatrizet (fig. 44).222 Boosted by the enthusiasm generated by the unearthing of the remains of Herculaneum and Pompeii in 1738 and 1748, in the second half of the century the ‘true style’ of Neo-classicism firmly established itself, spreading from the international community in Rome to the whole of Europe. Significant figures in the formulation of the new taste were the architect and engraver Giovanni Battista Piranesi (1720– 78), whose lyrical etchings and engravings of ancient and modern Rome established – and sometimes created – the image of Rome among a European public, and the art historian Johann Joachim Winckelmann, whose powerful descriptions of classical statues inspired generations of artists and travellers, firmly establishing a new classicist doctrine in European taste.223 More than ever before, artists now aimed not only at assimilating the principles of classical sculpture, but at recreating its formal aspect, as a universal standard of perfection to which any great artist should aspire.   54 55 Fig. 94. Charles-Joseph Natoire, Artists Drawing in the Inner Courtyard of the Capitoline Museum in Rome, 1759, pen and brown ink, brown and grey wash, white highlights over black chalk lines on tinted grey-blue paper, 300 × 450 mm, Louvre, Paris, inv. 3931381 Robert, The Draughtsman at the Capitoline Museum, c. 1763, red chalk, 335 × 450 mm, Musée des Beaux-Arts et d’Archéologie de Valence, inv. D. 80 Fig. 96. Hubert Robert, Antiquities at the Capitoline Museum, c. 1763, red chalk, 345 × 450 mm, Musée des Beaux-Arts et d’Archéologie de Valence, inv. D. 81 Fig. 97. Hubert Robert, The Draughtsman of the Borghese Vase, c. 1765, red chalk, 365 × 290 mm, Musée des Beaux-Arts et d’Archéologie de Valence, inv. D28 As Winckelmann famously stated in his Reflections on the Painting and Sculpture of the Greeks (1755): ‘There is but one way for the moderns to become great, and perhaps unequalled; I mean, by imitating the ancients’ (see Appendix, no. 15). Although in 1775 new regulations for the Académie de France in Rome stressed again the centrality in the curriculum of study of the live model, most pupils now favoured the study of the Antique, an evident sign of the evolution of taste towards a new radical classicism.224 Of all the artists converging on Rome, Jacques-Louis David (1748–1825), was one of the most prolific in making copies after the Antique.225 Leaving Paris in 1775 with the firm resolution of maintaining his independence and avoiding the seductions of the Antique, his arrival in Rome, according to his own words, opened his eyes.226 He started his artistic education again by spending the next five years as a pension- naire obsessively copying from modern masters and classical statues, reliefs and sarcophagi with an attention to detail that recalls Poussin’s approach to antiquity (fig. 98).227 Generally speaking, between the end of the 18th century and the beginning of the 19th, artists copying from the Antique concentrated progressively on the outlines of statues rather than on the modelling or the chiaroscuro, as the neo-classical aesthetic valued the purity of the line over any other pictorial element, accentuating the stress on disegno inaugurated by Vasari more than two centuries before. Fig. 98. Jacques-Louis David, Drawing of a Relief with a Distraught Woman with Her Head Thrown Back, 1775/80, pen and black ink with gray wash over black chalk, 196 × 150 mm, National Gallery of Art, Washington D.C., Patrons’ Permanent Fund1998.105.1.bbb But coinciding with David’s residence in Rome, other interpretations of the Antique started to emerge within a circle of artists that included Tobias Sergel (1740–1814) and Thomas Banks (1735–1805) and which revolved around the Swiss painter Henry Fuseli (1741–1825).228 The approach of this ‘Poetical circle’ was utterly anti-academic and prefigures some of the principles that would be embraced by Romantic artists a few years later. For them ancient sculptures were embodiments of the emotions of the artists who created them, rather than models of ideal beauty and proportional perfection. Fuseli’s extraordinary drawing, The Artist Moved by the Grandeur of Antique Fragments (cat. 22), which he produced immediately after leaving Rome in 1778, perfectly expresses this more empathic and meditative relation with classical antiquity and its lost grandeur. The attitude of Fuseli and his friends represents a turning point in the relation of the artist with ancient statuary, stressing the creative genius of the artist, his or her individuality and, in general, the subjective values of art: all principles that would contribute to the decline of the classical model in the following century. The Antique in Britain: The eighteenth century Of the various nationalities of artists resident in Rome during the 18th century, the British were among the most numerous. Britain had arrived late on the international artistic stage. Until the late 17th century, several factors, including the theological disapproval of pagan and Catholic imagery of large sections of Protestant society, had made Britain, outside the confined patronage of the Court, a virtual backwater in the visual arts. There was no established national school of painting or sculpture and no academy; painters were tied to the craft guild of the Painter Stainers’ Company; it was illegal to import pictures for sale, and there was no proper art market.229 However, by a century later, things had changed radically: following the nation’s dramatic political liberalisa- tion and economic expansion, Britain had one of the most dynamic national art schools in Europe and a Royal Acad- emy, founded in 1768. Several hundred thousand artworks – including a multitude of original antiquities and copies – had been imported to adorn the urban townhouses and country mansions of the upper classes; and London had become the centre of the international art market, displacing Antwerp, Amsterdam and Paris.230 The new ruling class that had emerged from the Glorious Revolution of 1688 embraced classicism, defined as the ‘Rule of Taste’; at the same time artists started gathering to form private academies where they could study together and where beginners could receive at least some training, based, 56 57  of course, on the continental model, with the copy after the Antique as one of its cornerstones.231 Many British artists also travelled to Rome, where they participated in the Concorsi of the Accademia di San Luca or attended the Accademia del Nudo in the Capitoline and several built national and interna- tional reputations thanks to their success in the city.232 In Rome, furthermore, artists encountered British travellers and potential future patrons. Plaster casts must already have been relatively widely available during the first half of the 18th century.233 Drawings after classical sculptures survive by British artists who did not travel to Italy: among them some fascinating, rough, early studies by Joseph Highmore (1692–1780), possibly from casts in the Great Queen Street Academy – which operated under Sir Godfrey Kneller and Sir James Thornhill between 1711 and 1720 – where he enrolled in 1713 (fig. 99).234 But the insular situation of the British art world, where many painters struggled in vain to create a modern and national school and genre of painting, plus an innate distrust of cultural models imported from the Continent, especially France, meant that copying the Antique encountered strong criticism. The most vociferous opponent was William Hogarth, who, as director of the second St Martin’s Lane Academy from 1735, became increasingly hostile to a curriculum based on the French Académie model and to history painting in general, although, paradoxically, he demonstrated great admiration for a few classical statues in his writings (see Appendix, no. 14).235 His war against fashionable imported taste and didactic principles is well Fig. 99. Joseph Highmore, Study of a Cast of the Borghese Gladiator, Seen from Behind, c. 1713, graphite, ink and watercolour on paper, 354 × 230 mm, Tate, London, inv. T04232 expressed by the celebrated first plate in his Analysis of Beauty (1753), where the Antique, anatomy and the study of proportions evocated in the centre of the composition are surrounded by vignettes illustrating Hogarth’s own aesthetic ideas (fig. 100).236 But despite such discontented voices, fascination with the Antique would only intensify, and educational curricula based on French or Italian models would gradually impose themselves. In 1758, a ‘continental’ enterprise was launched by the 3rd Duke of Richmond with the opening of a gallery attached to his house in Whitehall ‘containing a large collec- tion of original plaister casts from the best antique statues and busts which are now at Rome and Florence’.237 With a curriculum based on the ‘alphabet of drawing’ and under the directorship of the Italian painter Giovanni Battista Cipriani (1727–85) and the sculptor Joseph Wilton (1722–1803) – the first Englishman to receive, in 1750, the prestigious first prize of the Accademia di San Luca – the gallery was set up specifically with the didactic purpose of training youths on the basis of the Antique (fig. 101).238 To compensate for the absence of a national Academy, a semi-formal system developed probably inspired by the joint model of the Accademia di San Luca and the Capitoline, where many British artists had worked.239 Students would have started by copying drawings, prints and parts of the body in the private drawing school set up in 1753 by the entrepreneur and drawing master William Shipley (1714– 1803); they would then progress to the Duke of Richmond’s Academy when they were ready to study three-dimensional forms; finally they would proceed to the study of the live model in the second St Martin Lane’s Academy.240 Competi- tions were set up and the Society for the Encouragement of Arts, Manufactures and Commerce, which was founded Fig. 100. William Hogarth, The Analysis of Beauty (Plate 1), 1753, etching and engraving, 387 × 483 mm, private collection, London Fig. 101. John Hamilton Mortimer, Self-portrait with Joseph Wilton, and an Unknown Student Drawing at the Duke of Richmond’s Academy, c. 1760–65, oil on canvas, 76 × 63.5 cm, Royal Academy of Arts, London, inv. 03/970 in 1754, awarded prizes for the best drawings after casts and copies, several of which survive in the institution’s archive (figs 102–03).241 The continental system also reached cities outside London. For example, academies and artists’ societies were set up in Glasgow – in an image of the Foulis Academy of Art and Design founded there in 1752 we see the familiar presence of the Borghese Gladiator (fig. 104) – and in Liverpool (see cat. 24).242 But it was with the foundation of the Royal Academy in London in 1768 that Britain finally had a national institution with a formal curriculum based on continental models (see cats 25–27). Directed by Sir Joshua Reynolds (1723–92) – its first president between 1768 and 1792 – the Academy had a teaching structure that centred on the Antique or ‘Plaister’ Academy and the Life Academy, to which students would progress after having practised for years on plaster casts.243 To advance from one stage to another, they had to supply a presentation drawing showing their skills in depicting antique forms: one by the young Turner (1775–1851), who enrolled in the Academy in 1789 as a boy of fourteen, proba- bly belongs to this category (cat. 27a). Several evocative images testify to the study of the growing collection of plaster casts, both in daylight and at night (fig. 105 and cats 25–27),244 while the Life Academy is evoked in the famous painting by Johan Zoffany (1733–1810) which shows the first academicians in discussion around two male models – one glancing at us in the pose of the Spinario – surrounded by familiar plaster casts of classical and Renaissance sculpture (fig. 106). In the background, on the right, an écorché appears among the other casts, to remind us that anatomy lessons were delivered in the Academy by the physician William Hunter (1718–83). By bringing together plaster casts, anatomy and the study of the live model, Zoffany’s image declared unmistakably the Royal Academy’s affinity with continental academic models of teaching. The two female members, Mary Moser (1744–1819) and Angelica Kauffmann (1741–1807) are evoked through their portraits, as their presence in the Life Academy was considered improper.245 A system of discourses, competitions and exhibitions, complemented and completed the teaching curriculum. The official theoretical line of the Academy, fixed in Reynolds’ celebrated Discourses – which were delivered between 1769 and 1790 – was a distillation of the idealistic theory of the previous centuries and included frequent references to the Antique (see Appendix, no. 17). Reynolds’ highest praise was reserved for the Belvedere Torso, which embodied the Fig. 102. William Peters, Study of a Cast of the ‘Borghese Gladiator’, c. 1760, pencil, black and white chalk on coloured paper, 410 × 450 mm, Royal Society of Arts, London, inv. PR/AR/103/14/621 Fig. 103. William Peters, Study of a Cast of the ‘Callipygian Venus’, c. 1760, pencil, black and white chalk on coloured paper, 525 × 355 mm, Royal Society of Arts, London, inv. PR/AR/103/14/669      58 59    Fig. 104. David Allan, The Foulis Academy of Art and Design in Glasgow, c. 1760, engraving, 134 × 168 mm, Mitchell Library, Glasgow, inv. GC ILL 156 Fig. 105. Anonymous British School, The Antique School of the Royal Academy at New Somerset House, c. 1780–83, oil on canvas, 110.8 x 164.1 cm, Royal Academy of Arts, London, inv. 03/846 Fig. 106. Johan Zofany, The Portraits of the Academicians of the Royal Academy, 1771–72, oil on canvas, 100.1 × 147.5 cm, The Royal Collection, Windsor Castle ‘superlative genius’ of ancient art, and this judgement is reflected in the official iconography of the Royal Academy, as the Torso appeared, significantly below the word ‘Study’, on the silver medals awarded in the Academy’s competitions (see cat. 27a).246 The muscular fragment reappears as well in one of the female allegories of Invention, Composition, Design and Colour, commissioned by the Royal Academy from Angelica Kauffman in 1778 to decorate the ceiling of the Academy’s new Council Chamber and to provide a visual manifesto for Reynolds’ theory of art (fig. 107).247 Showing her wit and erudition, Kauffman’s Design is a significant image, as she took the traditional personification of Disegno, depicted as male (the word is masculine in Italian), and transformed it into a woman copying the ideal male body – thereby asserting the right of women to study the Antique and pursue a traditional artistic career. Although increasingly questioned by anatomists and by a growing number of artists, plaster casts were used in the Academy’s curriculum well into the 19th century and beyond. In London the didactic role of original sculptures and casts was also exploited outside official institutions. This was the case of the antiquities assembled by the influential antiquar- ian and collector Charles Townley (1737–1805) at his house on 7 Park Street, which became a sort of alternative academy where artists, amateurs – and also women – could study the statues he had imported from Italy (cat. 28).248 Another private space set up with the specific intention of training young architects in the study of the Antique was the house- academy established by Sir John Soane (1754–1837) at No. 13 Lincoln’s Inn Fields (cat. 29). In the labyrinthine spaces of Soane’s interiors, which were constantly enlarged to house Fig. 107. Angelica Kaufman, Design, 1778–80, oil on canvas, 130 × 150.3 cm, Royal Academy of Arts, London, inv. 03/1129 his growing collections, he obsessively juxtaposed paintings, architectural fragments, copies of celebrated classical statues, drawings and objects of all sorts.249 Architecture, sculpture and painting were seamlessly integrated to create a whole and to express the qualities of ‘variety and intricacy’, advocated by Reynolds in his 13th Discourse (1786). This variety was intended to stimulate the imagination of Soane’s students – in 1806 he was appointed the Royal Academy’s Professor of Architecture – and to invite would-be architects not to limit themselves but to train in the three sister arts, as recommended by Vitruvius.250 Academic training continued as students gathered to copy the Antique in the newly built galleries of the British Museum,251 but, as the 19th century progressed, its authority faded dramatically as young artists looked increasingly to the modern world for their inspiration. Dissenting Voices and Seeds of Decline The linear evolution of the classical ideal from the early Renaissance to the beginning of the 19th century was in reality punctuated by several opposing voices. But none of them, with rare exceptions, ever questioned the greatness and authority of classical art. What was at times disputed was the didactic value of copying from the Antique or the slavish dependence on its forms demonstrated by some of the most dogmatic devotees of classicism. We have seen that even in the 16th century, art critics like Vasari, Dolce and Armenini had warned against excessive dependence on classical forms and had advocated an independent and creative approach based on the artist’s own judgement. Rubens and Bernini too had warned against the ‘smell of stone’ in painting or psycho- logical dependence on the model. This balanced approach to the Antique would become a leitmotif among later genera- tions of art theorists. Furthermore, artistic traditions outside Central Italy had always demonstrated a good dose of scepticism towards the dependence of the Florentine and Roman schools on the forms and ideals embodied by classical statuary. One of the most intelligent expressions of this attitude is the famous woodcut by Nicolò Boldrini, almost certainly after an original drawing by Titian, in which Laocoön and his sons are transformed into three monkeys and set in a bucolic landscape (fig. 108).252 In this complex image Titian, one of the greatest creative geniuses of the Renaissance, who him- self had a profound and fruitful relationship with the Antique, was presumably issuing an ironic statement against the faithful artistic imitation of the classical models – a behav- iour similar to that of mimicking monkeys. Fig. 108. Nicolò Boldrini after Titian, Caricature of the Laocoön, c. 1540–50, woodcut, 267 × 403 mm, private collection In the 17th century the pernicious effect on painting from too-slavish imitation of sculptural forms would be summa- rised by the Bolognese art theorist Carlo Cesare Malvasia (1616–93) with the specific neologism ‘statuino’ or ‘statue- like’ (see cats 9 and 15).253 But during the 17th and 18th centuries even the most outspoken critics of the perfection of the Antique, such as the champion of colore versus disegno Roger de Piles, or the defender of a modern and independent artistic language like Hogarth, always demonstrated great admiration for classical statues, especially in terms of their proportions (see Appendix, no. 14).254 According to Bellori, the only great master who showed no interest at all in them was the ultra-naturalist Caravaggio. In a famous passage of his Vite, the champion of classicism reported that Caravaggio expressed ‘disdain for the superb marbles of the ancients and the paintings of Raphael’ because he had decided to take ‘nature alone for the object of his brush’. ‘Thus’, Bellori continues, ‘when he was shown the most famous statues of Phidias and Glycon so that he might base his studies on them, his only response was to gesture toward a crowd of people, indicating that nature had provided him with masters enough’.255 But this anecdote must not be taken too literally, as it certainly contains Bellori’s defence of idealism against the dangers of the unselective imitation of Nature, as repre- sented by Caravaggio and his followers. In fact, although it is not immediately obvious, Caravaggio had a profound under- standing of antique forms, and was deeply conscious of High Renaissance prototypes by Michelangelo (his namesake) and by Raphael. Even if Bellori’s account of Caravaggio had been accurate, such a radical attitude would have to be considered an exception in the long period covered here. In the 18th century criticism of the academic curriculum, in particular that of the Parisian Académie, and the art that it produced, increased. But, once again, two of its sternest    60 61  critics, Diderot and David, had an immense admiration for classical statuary and Diderot’s attack was directed at the codified and repetitive nature of academic practices, in particular the drawing lessons, and at the slavish dependence on the Antique at the expense of Nature of most of his contemporaries, not at classical models as such (see Appen- dix, no. 16).256 Significantly David, who played a crucial role in the closure of the Parisian Académie in 1793 during the French Revolution, would become the hero of the refounded École des Beaux-Arts in the 19th century. More significant criticism came from the students forced to copy casts for sessions on end. The great French painter Jean-Siméon Chardin recalled the frustration that many artists must have felt by being forced to follow the oppressive ‘alphabet of drawing’, as powerfully evoked in his recollections (see also cat. 26): We begin to draw eyes, mouths, noses and ears after patterns, then feet and hands. After having crouched over our portfolios for a long time, we’re placed in front of the Hercules or the Torso, and you’ve never seen such tears as those shed over the Satyr, the Gladiator, the Medici Venus, and the Antinous [...]. Then, after having spent entire days and even nights by lamplight, in front of an immobile, inanimate nature, we’re presented with living nature, and suddenly the work of all preceding years seems reduced to nothing.257 But even the painter of still-lifes and domestic genre scenes Chardin recognised the greatness of the original statues. The appeal of the forms and principles of the Antique was still supreme within an aesthetic system – the humanistic theory of art – that placed the representation of mankind and its most noble behaviours at the centre of the artistic mission, and this was true even for painters, like Chardin, who did not abide by the academic hierarchy of genres. The real beginning of the decline of the authority of the Antique started when these premises began to be challenged by artists who felt at odds with a conception of art that they perceived as increasingly inadequate. Romanticism landed a first, but eventually fatal, blow by challenging the rationalistic, idealistic and supposedly ‘universal’ principles of classicism, in the name of subjective emotion and individ- ual genius. The drastic changes imposed by industrialisation and urbanisation accelerated the process. Opie’s outline of what constitutes art, with which this essay began – a pedantic and codified version of Reynolds’ aesthetic – came to be perceived as increasingly irrelevant by students exposed to urban life in London, Paris or any other modern city, as the words of the painter James Northcote (1746–1831) in 1826 clearly express (see Appendix, no. 19). But if various ‘progres- sive’ avant-gardes rejected more decisively the principles of classicism and academic art, one need only remember that artistic education remained almost everywhere based on the traditional curriculum and that casts were used in academies and art schools until a few decades ago. Some of the greatest modern painters, such as Cézanne, Degas, Van Gogh and Picasso, spent portions of their youth copying plaster casts. And, as the last part of this exhibition shows (cats 32, 34–35), with mass-production casts became ever more available to wider audiences, including women and the bourgeoisie, entering the realm of the private home, often in a reduced format. But an assault on the canonical status of many of the most famous sculptures also came from another ‘academic’ direction, as a new archaeological precision recognised them as more or less accurate Roman copies of Greek originals. If art education remained solidly structured around the traditional curriculum, becoming more and more conserva- tive, the creative forces of European art placed themselves firmly outside the academic system, and principles of ideal imitation would become progressively irrelevant. An image that perfectly visualises the dawn of the new aesthetic era, and an ideal conclusion to our journey, is a painting produced by Thomas Couture as a satire against the Realist fashion of the mid-19th century (fig. 109) – a preparatory study for which is in the Katrin Bellinger collection.258 Couture, who ran a successful studio in Paris, described his own painting in his Methodes et Entretiens d’Atelier published in 1867: I am depicting the interior of a studio of our time; it has nothing in common with the studios of earlier periods, in which you could see fragments of the finest antiquities. At one time, you could see the head of the Laocoön, the feet of the Gladiator, the Venus de Milo, and among the prints covering the walls there were Raphael’s Stanze and Poussin’s Sacraments and landscapes. But thanks to artistic progress, I have very little to show [...] because the gods have changed. The Laocoön has been replaced by a cabbage, the feet of the Gladiator by a candle holder covered with tallow or by a shoe [...]. As for the painter [...], he is a studious artist, fervent, a visionary of the new religion. He copies what? It’s quite simple – a pig’s head – and as a base what does he choose? That’s less simple, the head of Olympian Jupiter.259 Couture’s image, wherein a once revered antique frag- ment of the Olympian god, Jupiter, has been relegated to a mere stool and the object of study is now the severed head of a pig, encapsulates the decline of the Antique in the 19th century and the shift of interest from the ‘ideal’ to the ‘real’. Little did Couture kn0w that in a few decades not only the traditional role of imitation would be subverted, but that the principle of imitation itself – formulated by Alberti four hundred years before – would be questioned in favour of expressive or abstract values, leaving even less space for the previously revered Laocoön, Borghese Gladiator and the Venus de Milo. The Antique continued its life in the 20th century in many, often unexpected ways: quoted, subverted and deconstructed by many avant-garde artists; in the official art of totalitarian regimes; in the ironic and playful, but often shallow game of post-modernism; and even, one may say, in much of the aesthetic of fashion advertisement. The relation of the classical model and ideal with modernity is a story that still needs to be written fully and would be a fascinating subject for another exhibition. Fig. 109. Thomas Couture, La Peinture Réaliste, 1865, oil on panel, 56 × 45 cm, National Gallery of Ireland, Dublin, inv. 4220.NOTES 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 Hoare 1809, p. 11. See also Opie 1809, pp. 3–52. The italics are the author’s. On the Renaissance or humanistic theory of art good overviews are: Lee 1967; Schlosser Magnino 1967; Blunt 1978; Williams 1997; Barasch 2000, vol. 1. Anthologies of primary sources in English translation are: Gilbert 1980; Gilmore Holt 1981–82; Harrison, Wood and Gaiger 2000. Alberti 1972. See also M. Kemp’s introduction, in Alberti 1991, pp. 1–29. Although initially circulating only in manuscript form, Alberti’s treatise had an immense impact on artists and successive art theoreticians. The first Latin (Basel, 1540) and Italian (Venice, 1547) editions, and subsequent ones, influenced the earliest academies such as Vasari’s Accademia del Disegno, founded in 1563. The first French translation (Paris 1651) took shape in the environment of the French Académie Royale, founded just three years before (1648). The first English translation (London, 1726) was motivated by the aspirations of English artists towards the foundation of a national academy based on continental standards. Innumerable transla- tions and editions contributed to the diffusion of Albertian principles well into the 19th century. See Alberti 1991, pp. 23–24. Alberti 1972, p. 53 (book 1, chap. 18). Alberti quotes Protagoras, probably through Diogenes Laertius, De Vitis ... philosophorum, 9.51: Alberti 1991, p. 53, note 11. On the sources and structure of De Pictura see especially Spencer 1957 and Wright 1984. Alberti 1972, p. 97 (book 3, chap. 55). Ibid., p. 101 (book 3, chap. 58). Ibid., p. 99 (book 3, chap. 55). Ibid., p. 99 (book 3, chap. 56). Albertis’s sources are Cicero, De inventione, 2.1.1–3 and Pliny, Naturalis Historia, 35.36 (with differences in detail). Alberti 1972, p. 75 (book 2, chap. 36). See also Alberti 1988, p. 156 (book 6, chap. 2) and pp. 301–09 (book 9, chaps 5–6), esp. p. 303. On the theory of proportions see Panofsky 1955; R. Klein’s introduction to ‘De Symmetria’ in Gaurico 1969, pp. 76–91; Gerlach 1990. On Leonardo’s Vitruvian Man see Kemp 2006, pp. 71–136; Salvi 2012, with previous bibliography. Other ancient surviving sources on the Canonical ideal are Cicero, Brutus, esp. 69–70, 296; Pliny, Naturalis Historia, 34.55; Galen’s treatises, esp. De 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 Placitis Hippocratis et Platonis, 5, and De Temperamentis, 1.9; Quintilian, Institutio Oratoria, esp. 5.12.21 and 12.10.3-9; Vitruvius’ De Architectura, 3.1. For Alberti’s concept of historia, see Alberti 1972, pp. 77–83 (chaps 39–42). The clearest definition of history painting according to the academies of the 17th and 18th centuries is provided by Félibien 1668, Preface (not paginated). The Codex Coburgensis is preserved in the Kunstsammlungen der Veste Coburg: see Wrede and Harprath 1986; Davis 1989. Cassiano dal Pozzo’s Paper Museum is divided between several collections but mainly concen- trated in the Royal Collection, Windsor Castle and the British Museum, London: see Herklotz 1999; Claridge and Dodero forthcoming. Macandrew 1978; Connor Bulman 2006; Windsor 2013. London and Rome 1996–97, pp. 257–69; Bignamini and Hornsby 2010. General introductions to drawing techniques in the Renaissance and beyond are Joannides 1983, pp. 11–31; Bambach 1999, esp. pp. 33–80; Ames Lewis 2000a; Petherbridge 2010; London and Florence 2010–11. See Ames-Lewis 2000b, pp. 36–37. Recent general introductions to drawing after the Antique and the training of young artists in the 15th century include Rome 1988a; Ames-Lewis 2000b, pp. 35–60, 109–40; Jestaz 2000–01; Chapman 2010–11, pp. 46–60. More focused on the 16th century is Barkan 1999. Haskell and Penny 1981, pp. 252–55, no. 55 (Marcus Aurelius), 308–10, no. 78 (Spinario), 167–69, no. 16 (Camillus), 136–41, no. 3 (Horse Tamers); Buddensieg 1983; Nesselrath 1988; Rome 1988a, pp. 232–38 (Marcus Aurelius); Paris 2000–01, pp. 200–25 and pp. 417–20, nos 221–24 (Spinario); Bober and Rubinstein 2010, pp. 223–25, no. 176 (Marcus Aurelius), 254–56, no. 203 (Spinario), 192–93, no. 192 (Camillus), 172–75, no. 125 (Horse Tamers). Dacos 1969; Morel 1997; Miller 1999. Alberti calls the relief of a sarcophagus in Rome representing the death of Meleager a historia, specifically praising it as a source for the compositio: see Alberti 1972, pp. 74–75 (chap. 37). Cavallaro 1988b; Cavallaro 1988c; Scalabroni 1988. Cavallaro 1988b; Scalabroni 1988; Bober and Rubinstein 2010, passim. On Brunelleschi and Donatello’s Roman trip see the famous account by Antonio di Giannozzo Manetti: Manetti 1970, pp. 53–57. See also Vasari’s  anecdote of Donatello producing a pen drawing after a sarcophagus that he saw in Cortona on his way back from Rome to Florence: Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 3, pp. 151–52. See also Micheli 1983, p. 93. On the drawings after the Antique produced in the workshops of Gentile of Pisanello see: Degenhart and Schmitt 1960; Cavallaro 1988a; Degenhart and Schmitt 1996, pp. 81–117; Paris, 1996, Appendix IX, ‘Le “Carnet de voyage dessins sur parchemin”’, pp. 465–67; Cavallaro 2005. 26 Rome 1988a, pp. 95–96, no. 24 (A. Cavallaro); Paris 1996, pp. 180–81, no. 100. 27 See Rome 1988a, pp. 158–59, no. 51, see also pp. 155–56, no. 49; Bober and Rubinstein 2010, p. 87, no. 38. 28 Wegner 1966, pp. 88–89, no. 228; Bober and Rubinstein 2010, pp. 86–87, no. 38. 29 Weiss 1969. 30 London and New York 1992, pp. 445–48, no. 145 (D. Ekserdjian); Paris 2008–09b, pp. 378–79, no. 159 (C. Elam); Bober and Rubinstein 2010, p. 207, no. 158iii (158c). 31 Bober and Rubinstein 2010, pp. 207–08, no. 158iii. 32 Alberti 1972, pp. 80–81 (chap. 41). 33 See Lightbown 1986, pp. 140–53, 424–33; Elam 2008–09. 34 For the drawing after the Marcus Aurelius see Rome 1988a, pp. 232–33, no. 80 (A. Nesselrath); Rome 2005, p. 263, fig. II.10.7, pp. 267–68, no. II.10.7 (A. Nesselrath). For the drawing after the Horse Tamers see Rome 1988a, pp. 211–12, no. 61 (A. Nesselrath); Paris 1996, pp. 153–54, no. 84; Rome 2005, p. 334, fig. III.8.1, pp. 338–39, no. III.8.1 (A. Cavallaro). 35 On the fame of their nudity see the contemporary comments by Angelo Decembrio in his De Politia litteraria, written in the central decades of the 15th century: Baxandall 1963, p. 312. For other mentions in contemporary written sources see Nesselrath 1988, pp. 196–97. 36 Nesselrath 1988, p. 197, fig. 61; Cole Ahl 1996, p. 6, pl. 1; Ames-Lewis 2000b, p. 120, fig. 57; Cavallaro 2005, p. 330; London and Florence 2010–11, pp. 118–19, no. 14 (M.M. Rook). On Gozzoli and the Antique see Pasti 1988. 37 For a notable exception see Gozzoli’s faithful drawing of a fragmentary classical Venus: Pasti 1988, p. 137, fig. 38; Ames-Lewis 2000b, p. 121, fig. 59. 38 For a general overview see Weiss 1969, pp. 180–202; Ames-Lewis 2000b, pp. 52–60, 79–85. 39 Gaurico 1969, pp. 62–63; Gaurico 1999, pp. 142–43, providing a less accurate translation. 40 Cennini 1933, vol. 2, pp. 123–31. 41 Fiocco 1958–59; Lightbown 1986, p. 18; Favaretto 1999. On Ghiberti’s col- lection of casts see Ames-Lewis 2000b, p. 81, with previous bibliography. 42 Ames-Lewis 1995. 43 Fusco 1982; Ames-Lewis 2000b, pp. 52–55. 44 Ragghianti and Dalli Regoli 1975; Ames-Lewis 2000a, pp. 91–123; Forlani- Tempesti 1994. 45 Ames-Lewis 1995, pp. 394, 397, fig. 10. For the practice see Schwartz 2000–01. 46 For an overview see Nesselrath 1984–86. Lists of sketchbooks are provided in Nesselrath 1993, pp. 225–48 and Bober and Rubinstein 2010, pp. 473–96. 47 The first printed edition of Biondo’s Roma Instaurata was published in Rome in 1471: Weiss 1969, esp. pp. 59–104. 48 On Michelangelo’s and Raphael’s attitude towards the Antique the bibliogra- phy is vast. For Michelangelo good surveys are Agosti and Farinella 1987 (pp. 12–13, note 3, with the most exhaustive bibliography to date); Florence 1987; Haarlem and London 2005–06, pp. 58–68; Parisi Presicce 2014. On Raphael: Becatti 1968; Jones and Penny 1983, pp. 175–210; Burns 1984 (p. 399, footnote 2, with exhaustive bibliography to date); Nesselrath 1984; Dacos 1986. 49 Clark 1969b; Marani 2003–04; Marani 2007. 50 Leonardo 1956, vol. 1, p. 51, no. 77. 51 Ibid., vol. 1, p. 45, no. 59, p. 64, no. 112. 52 Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 6, p. 21. On other sources on the para- gone between Michelangelo and the ancients see Florence 1987, pp. 107–08. 53 Elam 1992; Florence 1992; Joannides 1993; Baldini 1999–2000; Paolucci 2014. 54 Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 6, pp. 9–12; Condivi 1998, pp. 10–11; Condivi 1999, p. 10. 55 Knab, Mitsch and Oberhuber 1984, pp. 51–54; Ferrino Padgen 2000. 56 See Franzoni 1984–86; Cavallaro 2007; Christians 2010. A list of collec- tions with essential bibliography is providedalso in Bober and Rubinstein 2010, pp. 497–507. 57 For the Nile and the Tiber see Bober and Rubinstein 2010, pp. 112–13, no. 65. 58 The Apollo Belvedere was discovered in 1489, the Laocoön in 1506, the Cleopatra in the first decade of the 16th century, the Hercules Commodus in 1507, the Tiber in 1512 and Nile probably in 1513: see Haskell and Penny 1981, respec- tively pp. 148–51, no. 8, pp. 243–47, no. 52, pp. 184–87, no. 24, pp. 188–89, no. 25, pp. 310–11, no. 79, pp. 272–73, no. 65; Bober and Rubinstein 2010, respectively pp. 76–77, no. 28, pp. 164–68, no. 122, pp. 125–26, no. 79, pp. 180–81, no. 131, pp. 113–14, no. 66, pp. 114–15, no. 67. The discovery date of the Venus Felix is not known, but it was placed in the Belvedere Courtyard in 1509: Haskell and Penny 1981, pp. 323–25, no. 87; Bober and Rubinstein 2010, pp. 66–67, no. 16. For the Belvedere Courtyard see Brummer 1970; Winner, Andreae and Pietrangeli 1998. The first mention of the Belvedere Antinous-Hermes is in 1527 and it was placed in the Belvedere Courtyard by 1545; the Belvedere Torso is recorded from 1432 and by the middle of the 16th century it was displayed in the Courtyard: see Haskell and Penny 1981, respectively pp. 141–43, no. 4 and pp. 311–14, no. 80; Bober and Rubinstein 2010, respectively p. 62, no. 10 and pp. 181–84, no. 132. The first mention of Michelangelo’s praise of the Torso is in Aldrovandi 1556, p. 121. For a selection of other primary sources see Barocchi 1962, vol. 4, pp. 2100–03; Agosti and Farinella 1987, pp. 43–44. For the Torso as ‘School of Michelangelo’ see Haskell and Penny 1981, p. 313. Schwinn 1973, pp. 24–37. Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 6, p. 108. Bober and Rubinstein 2010, p. 126, no. 79. Joannides 1983, p. 192, no. 240r; Knab, Mitsch and Oberhuber 1984, p. 615, no. 375. In this drawing Raphael also references Michelangelo’s Sistine Adam. Golzio 1971, pp. 38–40, 72–73; Nesselrath 1984. The original Italian is in Camesasca 1994, pp. 257–322 (esp. pp. 290–98); Shearman 2003, pp. 500–45. For an English translation, see Holt 1981–86, vol. 1, pp. 289–96. See also Frommel, Ray and Tafuri 1984, p. 437, no. 3.5.1. (H. Burns and H. Nesselrath). Nesselrath 1982, p. 357, fig. 37; Frommel, Ray and Tafuri 1984, p. 422, no. 3.2.10 (A. Nesselrath); Jaffé 1994, p. 187, no. 315 617*. For the few other surviving Raphael drawings after Roman antiquities see Frommel, Ray and Tafuri 1984, p. 438, no. 3.5.3 (A. Nesselrath). Bober and Rubinstein 2010, pp. 172–75, no. 125. This consideration is already in Jones and Penny 1983, p. 205. The practice of measuring classical statues would become widespread from the 17th century onwards: see pp. 46–49 in the present volume. A good selection is in Mantua and Vienna 1999. Check also Bober and Rubinstein 2010, pp. 473–96. Oberhuber 1978; Mantua and Vienna 1999; Viljoen 2001; Pon 2004. Boissard 1597–1602, vol. 1, pp. 12–13, translated by Bober and Rubinstein 2010, p. 165. According to a letter by Francesco da Sangallo of 1567, Michel- angelo and Giuliano da Sangallo were sent by the Pope to witness and comment upon the unearthing of the Laocoön on the Esquiline in 1506: Fea 1790–1836, vol. 1, pp. cccxxix–cccxxxi, letter XVI. Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 6, p. 109. An opinion then appropri- ated by Vasari himself in the introduction to his chapter on Sculpture: Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 1, pp. 84–86. This was repeated later by many authors see for instance Lomazzo 1584, p. 332, reprinted in Lomazzo 1973–74, vol. 2, p. 288. Wilde 1953, pp. 79–80, nos 43–44, pls lxx–lxxi; Agosti and Farinella 1987, pp. 33–36, figs 11–14; Tolnay 1975–80, vol. 2, pp. 51–53, nos 230–34; Florence 2002, pp. 150–51, nos 2–5 (P. Joannides); Haarlem and London 2005–06, pp. 64–66. Wilde 1953, pp. 9–10, no. 4, pl. vi; Tolnay 1975–80, vol. 1, pp. 58–59, no. 48; Haarlem and London 2005–06, pp. 88–89, 285, no. 13. On the restoration of classical statues, see Rossi Pinelli 1984–86; Howard 1990; Pasquier 2000–01a. Specifically on Montorsoli’s restorations: Haskell and Penny 1981, pp. 148, 246; Vetter 1995; Nesselrath 1998b; Winner 1998; Bober and Rubinstein 2010, pp. 77, 165. See Haskell and Penny 1981, pp. 229–32, no. 46; Gasparri 2009–10, vol. 3, pp. 17–20, no. 1. On the Wrestlers see Haskell and Penny 1981, pp. 337–39, no. 94; Cecchi and Gasparri 2009, pp. 62–63, no. 50 (71). For the Niobe Group see Haskell and Penny 1981, pp. 274–79, no. 66; Cecchi and Gasparri 2009, pp. 316–26, nos 596 (1251) (1–14). On Guido Reni using the Niobe Group as a source for the expression of many of his figures see Bellori 1976, p. 529. See Haskell and Penny 1981, pp. 16–22. Haskell and Penny 1981, pp. 16–22. On Lafréry see Chicago 2007–08. On Cavalieri see Pizzimano 2001. See Lee 1967, esp. pp. 3–16; Blunt 1978, esp. pp. 137–59; Barasch 2000, vol. 1, pp. 203–309. Armenini 1587, pp. 136–37 (book 2, chap. 11). Lee 1967, p. 7, note 23. See also Weinberg 1961, pp. 361–423. The first commentary appeared only in 1548 and the first Italian translation in 1549. Horace, Ars Poetica, 361. See Lee 1967, esp. pp. 3–9. Aristotle, Poetics, see esp. 9; 15.11; 25.1–2; 25.26–28. Lomazzo 1590, see esp. chap. XXVI; Zuccaro 1607. On this see Lee 1967, pp. 13–14; Panofsky 1968, esp. pp. 85–99; Blunt 1978, pp. 137–59. Also in Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 1, p. 110. The definition of Disegno was added only to the second edition of the Lives in 1568. On Vasari and the Antique see Barocchi 1958; Cristofani 1985. Puttfarken 1991; Rosand 1997, pp. 10–24. Walters 2014, p. 57. Whitaker 1997. See for instance Vasari’s comments in the lives of Andrea Mantegna and Battista Franco: Bettarini and Barocchi 1966–87, respectively vol. 3, pp. 549–50 and vol 5, pp. 459–61. Armenini 1587, see esp. pp. 59–60 (book I, chap. 8), pp. 86–89 (book II, chap. 3). See also Lomazzo’s treatment of the Antique: Lomazzo 1584, p. 481 (book VI, chap. 64). General surveys about the development of European academies include Pevsner 1940; Goldstein 1996. See also Levy 1984; Olmstead Tonelli 1984; Boschloo 1989. On images of academies see Kutschera-Woborsky 1919; Pevsner 1940, passim; Roman 1984. On the Florentine Accademia del Disegno see Pevsner 1940, pp. 42–55; Goldstein 1975; Dempsey 1980; Wa ́zbin ́ski 1987; Barzman 1989; Barzman 2000. On the Carracci Academy see Dempsey 1980; Goldstein 1988, esp. pp. 49– 88; Dempsey 1989; Feigenbaum 1993; Robertson 2009–10. On the Accademia di San Luca the bibliography is vast. On its early history see Pevsner 1940, pp. 55–66; Pietrangeli 1974; Lukehart 2009. On the teaching in the first decades of the Accademia see Roccasecca 2009. On Alberti’s print see Roccasecca 2009, p. 133. Olmstead Tonelli 1984. Alberti 1604, esp. pp. 2–15. Jack Ward 1972, pp. 17–18; Olmstead Tonelli 1984, pp. 96–97. On the donation of the Salvioni collection of casts in 1598 see Missirini 1823, p. 73. On the inventories see Lukehart 2009, Appendix 7, esp. pp. 368–69, 371–73, 379–80. On the drawing see Bora 1976, p. 125, no. 126. Malvasia 1678, vol. 1, p. 378; Goldstein 1988, esp. pp. 49–50. On this see Meder 1978, vol. 1, pp. 217–95; Amornpichetkul 1984; Bleeke- Byrne 1984; Roman 1984, p. 91; Bolten 1985, p. 243. Alberti 1972, p. 97 (book 3, chap. 55). Alberti 1972, p. 75 (book 2, chap. 36). Cellini 1731, pp. 156–59. Leonardo 1956, vol. 1, p. 45, chaps 59–61, and esp. p. 64, chap. 112; Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 1, p. 112; Armenini 1587, pp. 51–59, esp. p. 57 (book 1, chap. 7); See Bleeke-Byrne 1984. Armenini 1587, see esp. p. 86 (book 2, chap. 3). The necessity of exercising one’s memory recurs in Alberti (Alberti 1972, p. 99, book 3, chap. 55); Leonardo (Leonardo 1956, vol. 1, p. 47, chaps 65–66); Vasari (Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 1, pp. 114–15); Cellini (Cellini 1731, p. 157); and Armenini (Armenini 1587, p. 53, book 1, chap. 7). Gombrich 1960; Rosand 1970; Maugeri 1982; Amornpichetkul 1984; Bolten 1985. On Dürer in Italy see Rome 2007. Dacos 1995; Meijer 1995; Dacos 1997; Dacos 2001. Van Mander 1994-99, vol. 1, pp. 342–45 (fols 271r–v). See Meijer 1995, p. 50, note 18. Dacos 1995, pp. 19–20; Dacos 2001, pp. 23–34. Hülsen and Egger 1913–16; Veldman 1977; Dacos 2001, pp. 35–44; Bartsch 2012; Christian 2012; Veldman 2012. On Beatrizet see Bury 1996; on Lafréry see Chicago 2007–08; on Dupérac see Lurin 2009. For the print attributed to Beatrizet see Paris 2000–01, pp. 378–79, no. 184 (C. Scailliérez). On the Marforio see Haskell and Penny 1981, pp. 258–59, no. 57; Bober and Rubinstein 2010, pp. 110–11, no. 64. ‘I disagi e li affanni tutti del mondo non stima un quattrino’. On the so-called Haarlem Academy see Van Thiel 1999, pp. 59–90. Veldman 2012, p. 21, with previous bibliography. Reznicek 1961, vol. 1, pp. 89–94, pp. 319–46, nos. 200–38, 245–48. 127 128 129 130 131 132 133 134 135 On Rubens in Rome and his approach to the Antique see esp. Stechow 1968; Jaffé 1977, pp. 79–84; Muller 1982; Van der Meulen 1994–95, vol. 1, pp. 41–81; Muller 2004, pp. 18–28; London 2005–06, pp. 88–111. Jaffé 1977, p. 79; Van der Meulen 1994–95, vol. 1, p. 42, note 6. Copies of Lafréry’s Speculum Romanae Magnificentiae and De Cavalieri’s Antiquarum statuarum urbis Romae, are listed in Rubens’ son Albert’s library: Van der Meulen 1994–95, vol. 1, p. 42, note 6. It is most likely that they were originally in Peter Paul’s possession, although we do not know whether he acquired them before, during or after his Italian years. See Van der Meulen 1994–95, vol. 1, pp. 69–74. Armenini 1587, see esp. pp. 59–60 (book I, chap. 8), pp. 86–89 (book II, chap. 3). On the ultimate Aristotelian character of this principle see Muller 1982. See also Cody 2013. On Rubens’ handwritten Notebook, lost in a fire in Paris in 1720, but known through several transcriptions and partial publications see Van der Meulen 1994–95, vol. 1, esp. p. 71, note 11 and pp. 77–78, note 44, with previous bibliography; Jaffé and Bradley 2005–06; Jaffé 2010. On the drawing after the Torso see Van der Meulen 1994–95, vol. 1, pp. 70–71, vol. 2, pp. 56–59, nos 37–39; New York 2005a, pp. 140–44, no. 34. On the Laocoön drawings see: Van der Meulen 1994–95, vol. 2, p. 98, no. 81, vol. 3, fig. 153 (father), vol. 2, pp. 103–04, no. 93, vol. 3, fig. 164 (son); London 2005– 06, pp. 90–91, nos 24 (son), 25 (father); Bora 2013. The question of whether he copied the original Laocoön in Rome, or a cast derived from it, possibly Federico Borromeo’s in Milan, remains open: see Van der Meulen 1994–95, vol. 1, p. 48; London 2005–06, pp. 90–91, no. 25. Muller 2004, p. 22; Edinburgh 2002, pp. 43–46, nos 8–14; Wood 2011, vol. 1, pp. 129–241; Cody 2013. Van der Meulen 1994–95, vol. 1, pp. 80–81. Muller 2004, p. 22. On Rubens’ collection see Antwerp 2004, with previous bibliography. Jaffé 1977, p. 80; Healy 2004. On the Bamboccianti see Briganti, Trezzani and Laureati 1983; Cologne and Utrecht 1991–92; Rome and Paris 2014–15. On the fierce criticism by artists see Malvasia 1678, vol. 2, pp. 267 (Sacchi), 268–69 (Albani); Cesareo 1892, vol. 1, pp. 223–55 (Rosa); Castiglione 2014–15. On Bellori’s condemna- tion see Bellori 1976, p. 16. On Goubau see Briganti, Trezzani and Laureati 1983, pp. 295–99. On the painting see Paris 2000–01, pp. 382–83, no. 188 (J. Foucart); Cappel- letti 2014–15, pp. 48–50. Vlieghe 1979. On other Dutch artists copying the Antique in Rome in the 17th century see Van Gelder and Jost 1985, pp. 35–36. Already at the beginning of the 17th century Karel Van Mander explicitly laments the poor state of the visual arts in the Netherlands, blaming the ‘shameful laws and narrow rules’ by which in nearly all cities save Rome ‘the noble art of painting has been turned into a guild’: Van Mander 1994–99, vol. 1, pp. 264–65 (fol. 251v). See also Bleeke-Byrne 1984. On the Antwerp Academy see Pevsner 1940, pp. 126–29; Van Looij 1989. See Emmens 1968, pp. 154–59; Bleeke-Byrne 1984, pp. 30, 38, notes 76–77. Van Mander 1994–99, vol. 1, pp. 448–49 (fol. 297v); Bolten 1985, p. 248. De Klerk 1989. Bolten 1985, pp. 248–50. For Bisschop’s school see Van Gelder 1972, p. 11. Bolten 1985. Bolten 1985, pp. 119, 131, 133–34, 141, 143, 153, 157, 188–207, 243–56; Walters 2009, vol. 1, p. 79. Bolten 1985, pp. 159–60. Also many Dutch theoretical treatises on the art of painting and drawing insisted on the human form and on the stages of the learning process. For instance William Goeree’s influential Inleydinge tot de al-gemeene Teycken-Konst, Middelburgh, 1668, revised and reprinted many times, lays out the five stages of artistic training: copy of prints, drawings, paintings, plaster casts and the life model (pp. 31–37). See Bleeke- Byrne 1984, p. 34 and note 45; De Klerk 1989, p. 284. On Perrier’s diffusion in the Netherlands see Bolten 1985, pp. 257–58; Van Gelder and Jost 1985, pp. 51–52; Van der Meulen 1994–95, p. 76. For Van Haarlem’s 1639 inventory see Van Thiel 1965, pp. 123, 128; Van Thiel 1999, p. 84, and Appendix II, pp. 254–255, 257, 270–71, 273. For van Balen’s 1635 and 1656 inventories, see Duverger 1984–2009, vol. 4, pp. 200–11. For Rembrandt’s 1656 bankruptcy inventory see Strauss and Van der Meulen 1979, pp. 349–88. For Rembrandt’s use of statues, casts and models, see Gyllenhaal 2008. See also cat. 23 in this catalogue, note 18. For the use of plaster casts in 17th- and 18th-century artists’ studios in Antwerp and Brussels, see Lock 2010. Also collections of original antiquities were formed in the 17th century, especially in the Southern Netherlands and in Antwerp: Van Gelder and Jost 1985, pp. 35–50, esp. p. 35, note 65. 64 65  151 For a copy in reverse, dated 1639, see Bolten 1985, pp. 133–34, and p. 138, fig.a. 152 On Jan ter Boch’s painting (fig. 49) see Paris 2000–01, pp. 401–02, no. 207 (J. Foucart). On Van Oost the Elder’s painting (fig. 50), see Antwerp 2008, p. 77, no. 20 (S. Janssens). On Vaillant’s painting (fig. 51), see MacLaren 1991, vol. 1, p. 440, note 8; Amsterdam 1997, p. 349, fig. 2. On the painting attrib- uted to Sweert (fig. 52) see Waddingham 1976–77; Amsterdam 1997, pp. 348–52, under no. 74; Paris 2000–01, pp. 400–01, no. 206 (J. Foucart); Houston and Ithaca 2005–06, pp. 134–36, no. 40 (J. Clifton), where the painting is attributed to Wallerant Vaillant. On Balthasar Van den Bossche’s paintings of artists’ workshops see Mai 1987–88; Paris 2000–01, pp. 402–03, no. 208 (J.-R. Gaborit and J.-P. Cuzin); Lock 2010. 153 For the Borghese Gladiator see Haskell and Penny 1981, pp. 221–24, no. 43; Paris 2000–01, no. 1, pp. 150–51 (L. Laugier); Pasquier 2000–01c. For the Dying Gladiator see Haskell and Penny 1981, pp. 224–27, no. 44; Mattei 1987; La Rocca and Parisi Presicce 2010, pp. 428–35. For the Venus de’ Medici, see Haskell and Penny 1981, pp. 325–28, no. 88; Cecchi and Gasparri 2009, pp. 74–75, no. 64 (137). 154 See Haskell and Penny 1981 esp. pp. 23–30. On the Medici collection of classical sculptures see Cecchi and Gaspari 2009. On the Farnese’s see Gasparri 2007. On the Borghese’s: Rome 2011–12; on the Ludovisi’s: Rome 1992–93; on the Giustiniani’s Rome 2001–02. 155 Haskell and Penny 1981, pp. 16–22; Coquery 2000; Picozzi 2000. 156 Picozzi 2000; Laveissière 2011; Di Cosmo 2013; Fatticcioni 2013. 157 Haskell and Penny 1981, p. 21; Goldstein 1996, p. 144; Coquery 2000, pp. 43–44. On Perrier’s success in the Netherlands see Bolten 1985, pp. 257–58; Van Gelder and Jost 1985, pp. 51–52; Van der Meulen 1994–95, p. 76. 158 Boyer 2000; Montanari 2000; Rome 2000a; Bonfait 2002; Bayard 2010; Bayard and Fumagalli 2011. 159 Bertolotti 1886; Bousquet 1980; Coquery 2000. 160 Herklotz 1999; see also the ongoing catalogue raisonné of Cassiano dal Pozzo’s Paper Museum: http://warburg.sas.ac.uk/research/projects/ cassiano 161 For the text of Bellori’s Idea see Bellori 1976, pp. 13–25, and for an English translation see Bellori 2005, pp. 55–65. On it see Mahon 1947, esp. pp. 109– 54, pp. 242–43; Panofsky 1968, pp. 103–11; Bellori 1976, esp. XXIX–XL; Barasch 2000, vol. 1, pp. 315–22; Cropper 2000. 162 Bellori 1976, p. 299. 163 See Barasch 2000, vol. 1, pp. 310-72. 164 Bellori mentions many of these artists devoting time and efforts in the copying of celebrated classical statuary, such as the Farnese Hercules, the Belvedere Torso, the Niobe Group, the Borghese Gladiator: Bellori 1976, pp. 75, 90–91 (Annibale Carracci), pp. 529–30 (Guido Reni), p. 625 (Carlo Maratti). For Rubens, Bernini and Cortona see Bellori 1976, p. XXXI. For Annibale Carracci and the Antique see also Weston-Lewis 1992. For his drawing (fig. 58) see Washington D.C. 1999–2000, p. 177, no. 50 (G. Feigenbaum). For Poussin and the Antique the literature is vast: see Bull 1997; Bayard and Fumagalli 2011; Henry 2011, with previous literature. For his drawing (fig. 59) see Rosenberg and Prat 1994, vol. 1, pp. 312–13, no. 161. For Maratti’s drawings (figs 60–61) see Blunt and Cooke 1960, p. 63, nos 378, 380. On Pietro da Cortona and the Antique see Fusconi 1997–98. Some of his drawings after the Antique were commissioned for the Paper Museum of Cassiano dal Pozzo. On the drawing (fig. 62) see Rome 1997–98, p. 71, no. 2.4 (G. Fusconi). 165 Wittkower 1963; Princeton, Cleveland and elsewhere 1981–82, pp. 159–73; New York 2012–13, pp. 234–38, no. 25. 166 Pevsner 1940, pp. 82–114; Goldstein 1996, pp. 40–45. On the Académie Royale de Peinture et de Sculpture in Paris see Vitet 1861; Montaiglon 1875–92; Hargove 1990; Tours and Toulouse 2000; Michel 2012. On the Académie de France in Rome see Montaiglon and Guiffrey 1887–1912; Lapauze 1924; Henry 2010–11; Coquery 2013, pp. 173–219, with previous bibliography. 167 Montaiglon 1875–92, vol. 1, p. 346. 168 Women were admitted to the Académie, then named École des Beaux- Arts, only in 1896 and allowed to enrol for the Prix de Rome in 1903: Goldstein 1996, p. 61. 169 Montaiglon 1875–92, vol. 1, pp. 315–17. 170 Félibien 1668, Preface (not paginated). 171 Le Brun 1698. On it see Montagu 1994. 172 Félibien 1668, pp. 28–40; Lichtenstein and Michel 2006–12, vol. 1.1, pp. 127–35. 173 Félibien 1668, Preface (not paginated). 174 Lichtenstein and Michel 2006–12, see esp. vols 1-2, passim. 175 Lichtenstein and Michel 2006–12, vol. 1.1, pp. 316–22, 374–77; vol. 1.2, pp. 667–71; vol. 2.2, p. 583. 176 Lichtenstein and Michel 2006–12, vol. 1.1, pp. 374–77. See also Goldstein 1996, p. 150. 177 Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, vol. 1, pp. 129–32. 178 Montaiglon 1875–92, vol. 1, p. 293 (for a Venus donated by Chantelou in 1665), pp. 300, 330–31 (for the cast of the Farnese Hercules ordered in 1666 and delivered in 1668), p. 366 (for several casts after ancient reliefs and statues copied for the Académie from the Royal collection on the order of Colbert). 179 See Foster 1998; Schnapper 2000 and Macsotay 2010. 180 Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, vol. 1, p. 36. 181 Goldstein 1978, esp. pp. 2–5. 182 Golzio 1935. 183 Boyer 1950, p. 117; Goldstein 1970; Bousquet 1980, pp. 110–11; Goldstein 1996, pp. 45–46. 184 Mahon 1947, pp. 188–89. 185 Missirini 1823, pp. 145–46 (chap. XCI); Mahon 1947, p. 189; Goldstein 1996, p. 46. 186 Teyssèdre 1965; Puttfarken 1985; Montagu 1996; Arras and Épinal 2004. 187 Armenini 1587, pp. 93–99, esp. p. 96 (book 2, chap. 5). 188 See esp. Van der Meulen 1994–95, vol. 1, pp. 69–75; Muller 2004, esp. pp. 18–21; Jaffé and Bradley 2005–06; Jaffé 2010. For the drawing (fig. 67) see Van der Meulen 1994–95, vol. 1, pp. 71–72, notes 11, 14, 16 with previous literature. Rubens applied this method to several other statues. 189 Bellori 1976, pp. 451, 473–77, ; Bellori 2005, p. 311, and for the plates pp. 334–37. See Rome 2000b, vol. 2, pp. 403–04, no. 9 (V. Krahn); Henry 2011; Coquery 2013, p. 361, nos G. 179–80. 190 The surviving 39 drawings are today preserved in an ‘Album de dessins et mesures de statues romaines...’ at the École nationale supérieure des Beaux-Arts in Paris: Coquery 2000, pp. 48–50; Paris 2000–01, pp. 389–90, no. 195; Coquery 2013, pp. 37–40; Stanic 2013. For the three drawings repro- duced here see Coquery 2013, p. 281, no. D114 (Laocoön), p. 283, no. D130 (Belvedere Antinous), p. 283, no. D131 (Venus de’Medici). 191 Bosse 1656. See the Conférences by Sébastien Bourdon, Charles Le Brun, Henri Testelin, Michel Anguier, etc.: Lichtenstein and Michel 2006–12, vol. 1.1, esp. pp. 161–66 (Charles Le Brun), 316–33 (Charles Le Brun), 332–35 (Michel Anguier), 374–77 (Sébastien Bourdon); vol. 1.2, pp. 636–38 (Michel Anguier), 667–71 (Henry Testelin). 192 On De Wit’s Teekenboek (fig. 74) see Bolten 1985, pp. 82–86. On Nollekens’ drawing (fig. 75) see Blayney Brown 1982, p. 484, no. 1460; Nottingham and London 1991, pp. 58–59, no. 31 (Venus de’ Medici); Lyon 1998–99, pp. 123–24, no. 101. On Volpato’s and Morghen’s print annotated by Canova (fig. 76) see Rome 2008, p. 144, no. 25, with previous bibliography. 193 On the study of anatomy in the Renaissance and the 17th century see Schultz 1985; Ottawa, Vancouver and elsewhere 1996–97; London, Warwick and elsewhere 1997–98; and the excellent essays in Paris 2008– 09a, esp. Carlino 2008–09. On the combination of the study of anatomy and of the Antique between the 17th and 19th centuries see esp. Schwartz 2008–09. 194 Paris 2000–01, pp. 391–92, no. 197; Coquery 2013, pp. 195–200; Paris 2008–09a, pp. 222–23, no. 79. 195 For the skeletons (figs 77–78) and anatomical figures (figs 79–80) of the Laocoön and Borghese Gladiator see Coquery 2013, respectively p. 384, no. G.416, p. 383, no. G.413, p. 381, no. G.400, p. 382, no. G.408. A series of Conférences at the Académie Royale in Paris had been devoted to the Antique and anatomy: see esp. Lichtenstein and Michel 2006–12, vol. 1.2, pp. 581–93 (Pierre Monnier, ‘Sur les muscles du Laocoon’, 2 May 1676). 196 See Paris 2000–01, pp. 393–94, no. 199, with previous bibliography; Paris 2008–09a, pp. 226–27, no. 85. 197 See Paris 2000–01, pp. 392–93, no. 198, with previous bibliography; Paris 2008–09a, pp. 226–27, no. 82. Sauvage also made écorchés of other classical prototypes. 198 The original cast appears to have been destroyed. The écorché preserved at the Royal Academy of Arts is a 19th-century copy by William Pink: see Postle 2004, esp. pp. 58–59, with previous bibliography. 199 See Jordan and Weston 2002, p. 97, fig. 4.7. 200 For the practice see Paris 2000–01, pp. 415–29; Schwartz 2008–09; London 2013–14, pp. 62–69. On Paillett’s drawing (fig. 87) see London 2013–14, p. 21, pl. 1, p. 96, no. 1. For Bottani’s (fig. 88) see Philadelphia 1980– 81, pp. 59–60, no. 47. For David’s painting (fig. 89) see Rome 1981–82, pp. 101–02, no. 25. 201 202 203 204 205 206 207 Pevsner 1940, pp. 140–41. On the diffusion of academies in the 18th century see Boschloo 1989, passim. A good recent overview is Brook 2010–11. Diderot’s remark appeared in an article in the Correspondance littéraire, philos- ophique et critique, no. 13, 1763: ‘Sur Bouchardon et la sculpture’, p. 45. See an English translation in Diderot 2011, p. 19. On the diffusion of casts in the 18th century see Haskell and Penny 1981, esp. pp. 79–91, chap. 11; Rossi Pinelli 1984; Rossi Pinelli 1988; Pucci 2000a; Frederiksen and Marchand 2010. London 2013–14, pp. 36, 46–47. See the explanatory text for the plate: Diderot and D’Alembert 1762–72, vol. 20, entry ‘Dessein’, pp. 1–20, esp. pp. 2–5. See also Michel 1987, pp. 284, 288. Locquin 1912, pp. 5–13; Toledo, Chicago and elsewhere 1975–76; Plax 2000. Locquin 1912, pp. 5–13; Schoneveld-Van Stoltz 1989, pp. 216–28, with previ- ous bibliography. Excellent introductions to the art world of Rome in the 18th century are the essay contained in Philadelphia and Houston 2000 (see esp. Barroero and Susinno 2000) and in Rome 2010–11b. Goethe 2013, vol. 2, p. 373. Overviews on the Grand Tour are Black 1992; London and Rome 1996–97; Chaney 1998; Black 2003. On Panini’s painting see London and Rome 1996–97, pp. 277–78, no. 233; Philadelphia and Houston 2000, p. 425, no. 275, with previous literature. Macandrew 1978; Connor Bulman 2006; Windsor 2013, with previous bibliography. Haskell and Penny 1981, esp. pp. 23–30, 43–52; Paris 2010–11, with previous bibliography. On drawing in Rome in the 18th century see Bowron 1993–94; Percy 2000, with previous bibliography. On collections of casts in private academies see Bordini 1998, p. 387. On the Concorsi see Cipriani and Valeriani 1988–91; Rome, University Park (PA) and elsewhere 1989–90; Cipriani 2010–11. On the early years of the Capitoline as a public museum see Arata 1994; Franceschini and Vernesi 2005; Arata 2008. See Arata 1994, p. 75. On the Accademia del Nudo see Pietrangeli 1959; Pietrangeli 1962; MacDonald 1989; Barroero 1998; Bordini 1998. Haskell and Penny 1981, pp. 62–63; Raspi Serra 1998–99; Macsotay 2010; Henry 2010–11. The main source for Vleughels’ reform, rich in information on the study of the Antique in the Académie under his directorship, is Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, vols 7–9, passim (for description of the collection of casts see vol. 7, pp. 333–37). Boyer 1955; Loire 2005–06, pp. 75–81. Caviglia-Brunel 2012, pp. 115–63. For Natoire’s drawing (fig. 94) see Paris 2000–01, p. 372, no. 177; Caviglia- Brunel 2012, pp. 415–16, no. D.558. On Robert’s drawings (figs 95–96) see Paris 2000–01, pp. 373–74, nos 178–79; Rome 2008, pp. 132–33, nos 12–13; Ottawa and Caen 2011–12, pp. 22–23, nos 1a–1b. For fig. 97 see Paris 2000– 01, p. 384, no. 190. On Robert in Rome see Rome 1990–91. On Piranesi and his influence on artists see Fleming 1962; Wilton Ely 1978; Rome, Dijon and elsewhere 1976; Brunel 1978. On Winckelmann see Potts 1994, with previous bibliography. Henry 2010–11. For David in Rome see Rome 1981–82. For his drawings after the Antique see Sérullaz 1981–82; Rosenberg and Prat 2002, passim, esp. vol. 1, pp. 391– 746, vol. 2, pp. 754–866. Sérullaz 1981–82, p. 42. For David’s drawing (fig. 98) see Rosenberg and Prat 2002, p. 499, no. 642. See Pressly 1979; Valverde 2008; Busch 2013. On all these aspects see Pears 1988, esp. pp. 1–26. As general introductions see Denvir 1983; Solkin 1992; Brewer 1997; Bindman 2008. On the ‘Rule of Taste’ see Lipking 1970; Barrell 1986, esp. 1–68; Pears 1988, pp. 27–50; Ayres 1997. For a recent overview see Aymonino 2014. On academies in Britain before the foundation of the Royal Academy see Bignamini 1988; Bignamini 1990. See MacDonald 1989. An excellent introduction to the use of the Antique in artists’ education in 18th-century Britain is Postle 1997. For casts in Britain in the first half of the 18th century see: Bignamini 1988, p. 59, note 63, p. 65, p. 77, note 9, p. 81, note 65, p. 88, p. 103. Einberg and Egerton 1988, pp. 64–71. Kitson 1966–68, esp. pp. 85–86; Postle 1997, esp. pp. 83–84. See Paulson 1971, vol. 2, pp. 168–71; Nottingham and London 1991, p. 62, no. 37. Coutu 2000, p. 47; Kenworthy-Browne 2009. On Mortimer’s painting see Nottingham and London 1991, p. 45, no. 11, with previous bibliography. MacDonald 1989. Allan 1968, pp. 76–88; Bignamini 1988, p. 108; Postle 1997, pp. 85–87; Coutu 2000, p. 52; Kenworthy-Browne 2009, pp. 43–44. Ibid. On the Glasgow Foulis Academy see Pevsner 1940, p. 156; MacDonald 1989, pp. 84–85; Fairfull-Smith 2001. On the Royal Academy see Hutchison 1986. On its regulations see also Abstract 1797. On the Antique School at the Royal Academy (fig. 105) see Nottingham and London 1991, p. 43, no. 7; Rome 2010–11b, p. 432, no.V.6. On Zoffany’s painting see New Haven and London 2011–12, pp. 218–21, no. 44, with previous bibliography. For the medal see Hutchison 1986, p. 34. On Kauffman’s painting see Rome 2010–11b, pp. 325, 432–33, no. V.7. For Townley see particularly Coltman 2009. On Soane’s collection of plaster casts see Dorey 2010. De Architectura, 1.1, esp. 1.1.13; Watkin 1996. Jenkins 1992, pp. 30–40. Venice 1976, pp. 114–15, no. 49. Malvasia 1678, vol. 1, pp. 359, 365, 484. On the 17th-century neologism ‘statuino’ see Pericolo’s forthcoming article. See De Piles 1677, pp. 253–54; De Piles 1708, esp. pp. 128–38. Bellori 1976, p. 214; Bellori 2005, p. 180. See Pucci 2000a; Bukdahal 2007 Diderot 1995, p. 4. See also Haskell and Penny 1981, p. 91. Boime 1980, pp. 330–35, pl. ix.47. Couture 1867, pp. 155–56. 6609a, pp. 226–27, no. 85. 197 See Paris 2000–01, pp. 392–93, no. 198, with previous bibliography; Paris 2008–09a, pp. 226–27, no. 82. Sauvage also made écorchés of other classical prototypes. 198 The original cast appears to have been destroyed. The écorché preserved at the Royal Academy of Arts is a 19th-century copy by William Pink: see Postle 2004, esp. pp. 58–59, with previous bibliography. 199 See Jordan and Weston 2002, p. 97, fig. 4.7. 200 For the practice see Paris 2000–01, pp. 415–29; Schwartz 2008–09; London 2013–14, pp. 62–69. On Paillett’s drawing (fig. 87) see London 2013–14, p. 21, pl. 1, p. 96, no. 1. For Bottani’s (fig. 88) see Philadelphia 1980– 81, pp. 59–60, no. 47. For David’s painting (fig. 89) see Rome 1981–82, pp. 101–02, no. 25. Pevsner 1940, pp. 140–41. On the diffusion of academies in the 18th century see Boschloo 1989, passim. A good recent overview is Brook 2010–11. Diderot’s remark appeared in an article in the Correspondance littéraire, philos- ophique et critique, no. 13, 1763: ‘Sur Bouchardon et la sculpture’, p. 45. See an English translation in Diderot 2011, p. 19. On the diffusion of casts in the 18th century see Haskell and Penny 1981, esp. pp. 79–91, chap. 11; Rossi Pinelli 1984; Rossi Pinelli 1988; Pucci 2000a; Frederiksen and Marchand 2010. London 2013–14, pp. 36, 46–47. See the explanatory text for the plate: Diderot and D’Alembert 1762–72, vol. 20, entry ‘Dessein’, pp. 1–20, esp. pp. 2–5. See also Michel 1987, pp. 284, 288. Locquin 1912, pp. 5–13; Toledo, Chicago and elsewhere 1975–76; Plax 2000. Locquin 1912, pp. 5–13; Schoneveld-Van Stoltz 1989, pp. 216–28, with previ- ous bibliography. Excellent introductions to the art world of Rome in the 18th century are the essay contained in Philadelphia and Houston 2000 (see esp. Barroero and Susinno 2000) and in Rome 2010–11b. Goethe 2013, vol. 2, p. 373. Overviews on the Grand Tour are Black 1992; London and Rome 1996–97; Chaney 1998; Black 2003. On Panini’s painting see London and Rome 1996–97, pp. 277–78, no. 233; Philadelphia and Houston 2000, p. 425, no. 275, with previous literature. Macandrew 1978; Connor Bulman 2006; Windsor 2013, with previous bibliography. Haskell and Penny 1981, esp. pp. 23–30, 43–52; Paris 2010–11, with previous bibliography. On drawing in Rome in the 18th century see Bowron 1993–94; Percy 2000, with previous bibliography. On collections of casts in private academies see Bordini 1998, p. 387. On the Concorsi see Cipriani and Valeriani 1988–91; Rome, University Park (PA) and elsewhere 1989–90; Cipriani 2010–11. On the early years of the Capitoline as a public museum see Arata 1994; Franceschini and Vernesi 2005; Arata 2008. See Arata 1994, p. 75. On the Accademia del Nudo see Pietrangeli 1959; Pietrangeli 1962; MacDonald 1989; Barroero 1998; Bordini 1998. Haskell and Penny 1981, pp. 62–63; Raspi Serra 1998–99; Macsotay 2010; Henry 2010–11. The main source for Vleughels’ reform, rich in information on the study of the Antique in the Académie under his directorship, is Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, vols 7–9, passim (for description of the collection of casts see vol. 7, pp. 333–37). Boyer 1955; Loire 2005–06, pp. 75–81. Caviglia-Brunel 2012, pp. 115–63. For Natoire’s drawing (fig. 94) see Paris 2000–01, p. 372, no. 177; Caviglia- Brunel 2012, pp. 415–16, no. D.558. On Robert’s drawings (figs 95–96) see Paris 2000–01, pp. 373–74, nos 178–79; Rome 2008, pp. 132–33, nos 12–13; Ottawa and Caen 2011–12, pp. 22–23, nos 1a–1b. For fig. 97 see Paris 2000– 01, p. 384, no. 190. On Robert in Rome see Rome 1990–91. On Piranesi and his influence on artists see Fleming 1962; Wilton Ely 1978; Rome, Dijon and elsewhere 1976; Brunel 1978. On Winckelmann see Potts 1994, with previous bibliography. 224 225 226 227 228 229 230 231 232 233 234 235 236 237 238 239 240 241 242 243 244 245 246 247 248 249 250 251 252 253 254 255 256 257 258 259 Henry 2010–11. For David in Rome see Rome 1981–82. For his drawings after the Antique see Sérullaz 1981–82; Rosenberg and Prat 2002, passim, esp. vol. 1, pp. 391– 746, vol. 2, pp. 754–866. Sérullaz 1981–82, p. 42. For David’s drawing (fig. 98) see Rosenberg and Prat 2002, p. 499, no. 642. See Pressly 1979; Valverde 2008; Busch 2013. On all these aspects see Pears 1988, esp. pp. 1–26. As general introductions see Denvir 1983; Solkin 1992; Brewer 1997; Bindman 2008. On the ‘Rule of Taste’ see Lipking 1970; Barrell 1986, esp. 1–68; Pears 1988, pp. 27–50; Ayres 1997. For a recent overview see Aymonino 2014. On academies in Britain before the foundation of the Royal Academy see Bignamini 1988; Bignamini 1990. See MacDonald 1989. An excellent introduction to the use of the Antique in artists’ education in 18th-century Britain is Postle 1997. For casts in Britain in the first half of the 18th century see: Bignamini 1988, p. 59, note 63, p. 65, p. 77, note 9, p. 81, note 65, p. 88, p. 103. Einberg and Egerton 1988, pp. 64–71. Kitson 1966–68, esp. pp. 85–86; Postle 1997, esp. pp. 83–84. See Paulson 1971, vol. 2, pp. 168–71; Nottingham and London 1991, p. 62, no. 37. Coutu 2000, p. 47; Kenworthy-Browne 2009. On Mortimer’s painting see Nottingham and London 1991, p. 45, no. 11, with previous bibliography. MacDonald 1989. Allan 1968, pp. 76–88; Bignamini 1988, p. 108; Postle 1997, pp. 85–87; Coutu 2000, p. 52; Kenworthy-Browne 2009, pp. 43–44. Ibid. On the Glasgow Foulis Academy see Pevsner 1940, p. 156; MacDonald 1989, pp. 84–85; Fairfull-Smith 2001. On the Royal Academy see Hutchison 1986. On its regulations see also Abstract 1797. On the Antique School at the Royal Academy (fig. 105) see Nottingham and London 1991, p. 43, no. 7; Rome 2010–11b, p. 432, no.V.6. On Zoffany’s painting see New Haven and London 2011–12, pp. 218–21, no. 44, with previous bibliography. For the medal see Hutchison 1986, p. 34. On Kauffman’s painting see Rome 2010–11b, pp. 325, 432–33, no. V.7. For Townley see particularly Coltman 2009. On Soane’s collection of plaster casts see Dorey 2010. De Architectura, 1.1, esp. 1.1.13; Watkin 1996. Jenkins 1992, pp. 30–40. Venice 1976, pp. 114–15, no. 49. Malvasia 1678, vol. 1, pp. 359, 365, 484. On the 17th-century neologism ‘statuino’ see Pericolo’s forthcoming article. See De Piles 1677, pp. 253–54; De Piles 1708, esp. pp. 128–38. Bellori 1976, p. 214; Bellori 2005, p. 180. See Pucci 2000a; Bukdahal 2007 Diderot 1995, p. 4. See also Haskell and Penny 1981, p. 91. Boime 1980, pp. 330–35, pl. ix.47. Couture 1867, pp. 155–56. 66 67. Primary Sources On The Antique. Rome to copy its antiquities as a source of inspiration, a phenomenon that increased over the subsequent four hundred years. Bembo is, in addition, one of the earliest writers to rank Raphael and Michelangelo on the level of artists from antiquity. Excerpt from P. Bembo, Prose . . . della volgar lingua, Venice, 1525, p. XLII r (translation Michael Sullivan). At all times of day [Rome] witnesses the arrival of artists from near and far, intent on reproducing in the small space of their paper or wax the form of those splendid ancient figures of marble, sometimes bronze, that lie scattered all over Rome, or are publicly and privately kept and treasured, as they do with the arches and baths and theatres and the other various sorts of buildings that are in part still standing: and hence, when they mean to produce some new work, they aim at those examples, striving with their art to resemble them, all the more so since they believe their efforts merit praise by the closeness of resemblance of their new works to ancient ones, being well aware that the ancient ones come closer to the perfection of art than any done afterwards. These have succeeded more than others, Messer Giulio [de’ Medici], your Michelangelo of Florence and Raphael of Urbino [...] so outstanding and illustrious that it is easier to say how close they come to the good old masters than decide which of them is the greater and better artist. 4. Ludovico Dolce (1508–68) on the necessity for artists copying from antique statues to learn how to correct the defects of Nature and to aim for perfect beauty. In his treatise Dialogo della pittura . . . (1557), the humanist, writer and art theorist Lodovico Dolce upheld a strong defence of the Venetian school of painting, based on colour, against the Florentine and Roman ones, based on drawing, supported by Giorgio Vasari. At the same time he included one of the earliest theoretical statements on the necessity to study the Antique as a model of idealised nature and perfect beauty – especially in the study of the proportions of the human figure. However, in Dolce, one finds also a warning against the indiscriminate copying of classical sculptures – which should always be imitated with the correct artistic judgement to avoid eccen- tricities – a principle that would become a leitmotif in subsequent art literature, as shown here in excerpts from Rubens (no. 8) or Bernini (no. 10). For Dolce a slavish dependence on the Antique can lead to the excesses of Mannerism. Exerpts from Ludovico Dolce, Dialogo della pittura intitolato l’Aretino . . . , Venice, 1557, pp. 32r–33r. The following translation is from the first English edition: Aretin: A Dialogue on Painting. From the Italian of Ludovico Dolce, London, 1770, pp. 127–32. Whoever would do this [to form a justly proportioned figure] should chuse the most perfect form he can find, and partly imitate nature, as Apelles did, who, when he painted his celebrated Venus emerging from the sea [...] [p. 128] drew her from Phryne, the most famous courtesan of the age; and Praxiteles also formed his statue of the Venus of Gnidus, from the same model. Partly he should imitate the best marbles and bronzes of the [p. 129] antient masters, the admirable perfection [p. 130] of which, whoever can fully taste and posses, may safely correct many defects of Nature herself, and make his pictures universally pleasing and grateful. These contain all the perfection of the art, and may be properly proposed as examples of perfect beauty. [...] [p. 131] Proportion being the principal foundation of design, he who best observes it, must always be the best master in this respect: and it being necessary to the forming of a perfect body, to copy not only nature but the antique, we must be careful that we do this with judgement, lest we should imitate the worst parts, whilst we think we are imitating the best. We have an instance of this, at present, in a painter, who having observed that the [p. 132] antients, for the most part, designed their figures light and slender, by too strict an obedience to this custom, and exceeding the just bounds, has turned this, which is a beauty, into a very striking defect. Others have accustomed themselves in painting heads (especially of women) to make long necks; having observed that the greatest part of the antique pictures of Roman ladies have long necks, and that short ones are generally ungrace- ful; but by giving into too great a liberty, have made that which was in their original pleasing, totally otherwise in the copy. 5. Giorgio Vasari (1511–74) on drawing as the intellectual foundation of all arts; on grace, and on the classical sculptures in the Belvedere Courtyard in the Vatican as the source for the ‘beautiful style’ of High Renaissance masters. Giorgio Vasari’s Lives of the Most Eminent Painters, Sculptors and Architects – published first in 1550 and in an expanded edition in 1568 – is arguably the most influential example of art literature of the Renaissance. Vasari’s biographies of the most famous modern artists set the standard for a progressive conception of the history of art, with the Florentine and Roman schools representing its culmination. At the start of his essay on painting, in a section added to the 1568 edition of the Lives, he provides a definition of disegno, drawing, to give a theoretical underpinning to his defence of the Central Italian schools of painting. Vasari’s conception of drawing as the first physical manifestation of the artist’s idea – the intellectual part of art common to painting, sculpture and architecture – would provide the founda- tion for the centrality of drawing in the curriculum of future acade- mies. In another passage to be found in both editions, Vasari praises the best ancient sculptures, as they embodied the supreme quality of grazia, or grace, which cannot be attained by study but only by the judgement of the artist – a concept that remained one of the central tenets of Italian art theory for the next two centuries. He attributes the rise of the modern manner or ‘bella maniera’, and the great achievements of Raphael and Michelangelo, to their familiarity and exposure to the best examples of classical sculpture in the Belvedere Courtyard in the Vatican. Excerpts from Giorgio Vasari, Le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori et architettori, Florence, 1568, part 1, p. 43. The following translation is from Vasari on Technique, ed. G. Baldwin Brown, trans. L. S. Maclehose, London, 1907, pp. 205–06. 69 SOURCE #1 VITRUVIO (80–70 bc – post c. 15 bc) On harmonic proportions as the principle of ideal beauty. Marcus Vitruvius Pollio’s De Architectura, c. 30–20 bc, is the only complete treatise on classical architecture to have survived from antiquity and its impact on Western architecture from the Renaissance onwards is paramount. Manuscript copies of the treatise circulated widely in the 15th century and were well known to Filippo Brunelleschi, Leon Battista Alberti, Donatello and to subsequent generations of early Renaissance artists and architects. The first printed Latin edition appeared in 1486, followed by a more popular version in 1511 (edited by Fra Giovanni Giocondo). Italian translations appeared in 1521 (by Cesare Cesariano) and in 1556 (edited and translated by Daniele Barbaro with illustrations by Andrea Palladio). The first chapter of book 3, provided architects and artists with an authoritative account of the principle of harmonic proportions based on commensurability which had inspired ancient sculptors and paint- ers in search of ideal beauty. The celebrated passage on the perfect proportions of the human body was visualised by Leonardo in his ‘Vitruvian Man’ (see p. 17, fig. 2). The following translation is from the first integral English edition: The Architecture of M. Vitruvius Pollio. Translated from the Original Latin, by W. Newton Architect, London, 1771, book 3, chapter 1, pp. 45–46: ‘On the Composition and Symmetry of Temples’.1 The composition of temples, is governed by the laws of symmetry; which an architect ought well to understand; this arises from pro- portion, which is called by the Greek, Analogia. Proportion is the correspondence of the measures of all the parts of a work, and of the whole configuration, from which correspondence, symmetry is produced; for a building cannot be well composed without the rules of symmetry and proportions; nor unless the members, as in a well formed human body, have a perfect agreement. For nature as so composed the human body, that the face from the chin to the roots of the hair at the top of the forehead, is the tenth part of the whole height; and the hand, from the joint to the extremity of the middle finger, is the same; the head, from the chin to the crown, is an eight part; [...] the rest of the members have their measures also proportional; this the ancient painters and statuaries strictly observed, and thereby gained universal applause. [...] The central point of the body is the navel: for if a man was laid supine with his arms and legs extended, and a circle was drawn round him, the central foot of the compasses being placed over his navel, the extremities of his fingers and toes would touch the circumferent line; and in the same manner as the body is adapted to [p. 46] the circle, it will also be found to agree with the square; for, if the measure from the bottom of the feet to the top of the head is taken, and applied to the arms extended, it will be found that the breadth is equal to the height, the same as in the area of a square. Since, therefore, nature has so composed the human body, * All sentences in Italics are by the present author throughout. 68 that the members are proportionate and consentaneous to the whole figure, with reason the ancients have determined, that in all perfect works, the several members must be exactly proportional to the whole object. 1 The Latin word ‘symmetria’ of Vitruvius’ text has often been translated in English with ‘symmetry’, while commensurability – the mathematical relation between the part and the whole within a given body or building resulting in overall harmonic proportions – would be a better translation. 2. Cennino d’Andrea Cennini (c. 1370–c. 1440) on drawing as the foundation of art and on the advantage for young artists of copying from other masters. Written around 1390 possibly in Padua, Cennini’s Il Libro dell’Arte is the first art treatise composed in Italian. Although mainly concerned with practical advice to painters, Cennini also devoted some of the chapters to the education of the young artist, ofering the first written evidence of the importance of drawing in the apprenticeship of the aspiring painter, and especially the copying of works by other artists. Later, in early Renaissance workshop practices, this increasingly included antique sculpture. Although not published until 1821, manuscript copies of the Libro circulated widely in the 16th and 17th centuries, evidenced by the fact that references to it and passages from it reappear in subsequent art treatises. Excerpts from Cennino Cennini, Il Libro dell’Arte, ed. F. Brunello, Vicenza, 1971 (translation, present author). [P. 6, chapter 4] The foundations and the principles of art, and of all these manual works, are drawing and colouring. [P. 27, chapter 27] If you want to progress further on the path of this science [...] you must follow this method: [...] take pain and pleasure in constantly copying the best things that you can find done by the hands of the great masters. And if you are in a place where many masters have been, so much better for you. But I will give you some advice: be careful to imitate always the best and the most famous; and progressing every day, it would be against nature that you will not eventually be infused by the master’s style and spirit. 3. Pietro Bembo (1470–1547) on artists going to Rome to copy the Antique, and on Michelangelo and Raphael having equalled the ancient masters. Italian scholar, poet, literary theorist, collector and cardinal, Pietro Bembo was a central figure in the cultivated antiquarian milieu at the court of Pope Leo X (r. 1513–21) and a personal friend of Raphael and Michelangelo. His Prose . . . della volgar lingua, a treatise published in 1525, but composed over the previous two decades, contains one of the earliest and most eloquent reports of artists converging on  Seeing that Design, the parent of our three arts, Architecture, Sculpture and Painting, having its origin in the intellect, draws out from many single things a general judgement, it is like a form or idea of all the objects in nature, most marvellous in what it compasses, for not only in the bodies of men and of animals but also in plants, in buildings, in sculpture and in painting, design is cognizant of the proportions of the whole to the parts and of the parts to each other and to the whole. Seeing too that from this knowledge there arises a certain conception and judgement, so that there is formed in the mind that something which afterwards, when expressed by the hands, is called design, we may conclude that design is not other than a visible expression and declaration of our inner conception and of that which others have imagined and given form to their idea. And from this, perhaps, arose the proverb among the ancients ‘ex ungue leonem’ when a certain clever person, seeing carved in a stone block the claw only of a lion, apprehended in his mind [p. 206] from its size and form all the parts of the animal and then the whole together, just as if he had had it present before his eyes. Excerpts from Giorgio Vasari, Le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori et architettori, Florence, 1568, part 3, vol. 1, pp. 2–3 of the Preface (unpaginated). The following translation is from Lives of the Most Eminent Painters, Sculptors and Architects by Giorgio Vasari, ed. and trans. by G. du C. de Vere, London 1912–14, vol. 4, pp. 81–82. [Fifteenth-century artists] were advancing towards the good, and their figures were thus approved according to the standards of the works of the ancients, as was seen when Andrea Verrocchio restored in marble the legs and arms of the Marsyas in the house of the Medici in Florence. But they lacked a certain finish and finality of perfection in the feet, hands, hair, and beards, although the limbs as a whole are in accordance with the antique and have a certain correct harmony in the proportions. Now if they had had that minuteness of finish which is the perfection and bloom of art, they would also have had a resolute boldness in their works; and from this there would have followed delicacy, refine- ment, and supreme grace, which are the qualities produced by the perfection of art in beautiful figures, whether in relief or painting; but these qualities they did not have, although they give proof of diligent striving. That finish, and that certain something that they lacked, they could not achieve so readily, seeing that study, when it is used in that way to obtain finish, gives dryness to the manner. After them indeed, their successors were enabled to attain to it through seeing excavated out of the earth certain antiquities cited by Pliny as amongst the most famous, such as the Laocoön, the Hercules, the Great Torso of the Belvedere, and likewise the Venus, the Cleopatra, the Apollo, and an endless number of others, which, both with their sweetness and their severity, with their fleshy roundness copied from the great beauties of nature, and with certain attitudes which involve no distortions of the whole figure but only a movement of certain parts, [p. 82] and are revealed with a most perfect grace, brought about the disappearance of a certain dryness, hardness, and sharpness of manner, which had been left to our art by the excessive study [...]. 6. Giovan Battista Armenini (c. 1525–1609) on assimilating the principles of the Antique through constant drawing as a safe guide for artistic creation. Giovan Battista Armenini’s De veri precetti della pittura (1587), consti- tutes one of the most systematic art treatises of the second half of the 16th century. In it we find the clearest formulations of a progressive method of learning, later defined as the ‘alphabet of drawing’ (see no. 7), and of the necessity of assimilating the principles of the Antique through drawing. Armenini is also the first to provide a proper canon of sculptures and reliefs in Rome that students should copy and to praise the didactic use of plaster casts. Excerpts from Giovan Battista Armenini, De veri precetti della pittura, Ravenna, 1587, book 1, ch. 8, pp. 61–63. The following translation is from G. B. Armenini, On the True Precepts of the Art of Painting, ed. and trans. by J. Olszewski, New York, 1977, pp. 130–34. [To obtain a good style] it is the general and universal rule only to draw those things which are the most beautiful, learned and most like the good works of ancient sculptors. Having familiarised him- self with them through continual study, the student must know these things so thoroughly that when the occasion demands he can reproduce one or more of these compositions. He must be so familiar with them that whatever is good in the old works will be marvellously reflected in his rough sketches, as well as in finished drawings, and consequently in large paintings [...]. For the con- tinual drawing and copying of things which are well made ensures that one has a proper guide to follow and executes his own work very well. [...] In order that you may fully know the basis of art, make it the foundation of your own works, and learn how to recognise excellence with certainty, particularly in figures, we shall place before you as principal models some of the most famous ancient sculp- tures which most closely approach the true perfection of art and are still intact in our own days. [p. 131] For it is well known that the ancients who fashioned these statues first chose the best that nature offered in diverse models and then, guided by their excellent judgement, combined the best perfectly into one work. [...] These ancient statues are as follows: the Laocoön, Hercules, Apollo, the great Torso, Cleopatra, Venus, the Nile, and some others also of marble, all of them to be found in the Belvedere in the papal palace in the Vatican. Some others are scattered throughout Rome and among the [p. 132] foremost is the Marcus Aurelius in bronze, now in the square of the Campidoglio. Then there are the Giants of Monte Cavallo, and the Pasquino, and others not as good as these. Also well known because of the histo- ries depicted thereon are those in the arches with very beautiful manner of half and low relief as in the two columns, the Trajan and the Antonine, which still stand, even though time is hostile to human work. [...] And even though this study we have been discussing is not in the power of all students, since as is well known not all can stay in Rome labouring long and at great expense, yet even they have many of these works in their own homes. I am speaking of those copies of the originals fashioned by the masters in plaster or other material. I have seen a wax copy of the Roman Laocoön, not larger than two spans, but one could say that it was the original in small size. Still, if those parts that are modelled in gesso from these works can be obtained, they are better without doubt since every detail is there precisely as in the marble, so that they can be scrutinised and serve the student’s needs excellently. Also, they are very convenient because they are light and easily handled and transported. And, as for price, one can say it is very cheap, that is, in comparison with the originals. Therefore, with such excellent aids available, there is no excuse for anyone who really wishes to learn the good and ancient path. I have seen studios and chambers in Milan, Genoa, Venice, Parma, Mantua, Florence, Bologna, Pesaro, Urbino, Ravenna and other minor cities full of such well formed copies. Looking at these, it seemed to me that they were the very works found in Rome. Nor is any beautiful living model excluded from these, and the closer it is to the aforementioned [p. 133] sculptures, the better it may be considered to be, but this is rarely the case. Now, with so many examples and reasons, such as these, I believe [p. 134] you should have a good idea of all that you must consider and observe carefully. 7. The ‘alphabet of drawing’ and the role of the Antique in the first orders and statutes of the Roman Accademia di San Luca (1593). The first ‘orders and statutes’ of the Roman Accademia di San Luca, laid out by Federico Zuccaro (c. 1541–1609) in 1593 and published by Romano Alberti (active 1585–1604) in 1604, codified a progressive method in learning how to draw the human figure, considered as the central subject of art: from details, like the eye, to the whole body. This ‘alphabet of drawing’, based on Renaissance workshop practices, would become enormously influential in the teaching of art in Europe well into the 20th century. The Antique had a crucial role in it, as it gave students the possibility to learn how to approach the third dimension of the human body through models of idealised beauty, anatomy and proportions, and the role of ancient statuary is clearly specified in another passage of the Accademia’s rules and regulations. Excerpts from Romano Alberti, Origine, et progresso dell’Academia del Dissegno, de’ Pittori, Scultori, et Architetti di Roma, Pavia, 1604, pp. 5–8 (translation, present author). [P. 5] Another hour will be devoted to practice and to teaching drawing to young students, showing them the way and the good path of study, and for this purpose we have appointed twelve Academicians, one for each month of the year, in charge of taking particular care and responsibility in assisting the students in this task. [...]. The Principal will order the young students to produce something by their hand, while he will draw himself, and he will award his resulting drawings to the best students. The first figures – to start from the Alphabet of Drawing (so to speak) – will be the A, B, C: eyes, noses, mouths, ears, heads, hands, feet, arms, legs, torsos, backs and other similar parts of the human body, as well as any other sort of animals and figures, architectural elements, and reliefs in wax, clay and similar exercises. [P. 8] [The Academician in charge] will start instructing the students in what to study, assigning to each of them a different task according to his individual disposition and talent: some will draw from drawings, others from cartoons or from reliefs; others will copy heads, feet, hands; others will go out during the week drawing after the antique or the facades by Polidoro, or land- scapes, buildings, animals and other similar things; other students in convenient times will draw after live models, and they must copy them with grace and judgement. Others will do exercises in architecture and in perspective, following its correct and good rules, and the best students shall always be rewarded [...]. 8. Peter Paul Rubens (1577–1640) on the usefulness and dangers of copying from the Antique. The great Flemish artist Peter Paul Rubens spent two extended periods in Rome, between 1601 and 1602 and from late 1605 to late 1608, with short interruptions. His erudite approach towards the Antique and his desire to assimilate its principles resulted in many extraordinary drawings after classical statues, mostly in black and red chalk. In his theoretical treatise, De Imitatione Statuarum (‘On the Imitation of Statues’), c. 1608–10, he warned against the dangers of slavishly copying the Antique and transferring the characteristics and limits of one medium – marble – into another – drawing or painting. Although Rubens’ manuscript remained unpublished in his lifetime, it was owned by the influential French art theorist Roger de Piles (1635–1709), who first published it in his Cours de peinture par principles, Paris, 1708, pp. 139–47. The following translation is from the first English edition: Roger de Piles, The Principles of Painting, London, 1743, pp. 86–92. To some painters the imitation of the antique statues has been extremely useful, and to others pernicious, even to the ruin of their art. I conclude, however, that in order to attain the highest perfection in painting, it is necessary to understand the antiques, nay, to be so thoroughly possessed of this knowledge, [p. 87] that it may diffuse itself everywhere. Yet it must be judiciously applied, and so that it may not in the least smell of stone. For several ignorant painters, and even some who are skilful, make no distinction between the matter and the form, the stone and the figure, the necessity of using the block, and the art of forming it. It is certain, however, that the finest statues are extremely beneficial, so the bad are not only useless, but even pernicious. For beginners learn from them I know not what, that is crude, liny, stiff, and of harsh anatomy; and while they take themselves to be good proficient, do but disgrace nature; since instead of imitating flesh, they only represent marble tinged with various colours. For there are many things [p. 88] to be taken notice of, and avoided, which happen even in the best statues, without the workman’s fault: especially with regard to the difference of shades [...]. [p. 89] He who has, with discernment, made the proper distinctions in these cases, cannot consider the antique statues too attentively, nor study them too carefully; for we of this erroneous age, are so far degenerate, that we can produce nothing like them. 70 71  9. Gianlorenzo Bernini (1598–1680) described as a young boy devoting his days to copying the statues in the Belvedere Courtyard in the Vatican. In 1713 Gianlorenzo Bernini’s son Domenico (1657–1723) published a biography of his father that constitutes, with Filippo Baldinucci’s Vita del cavaliere . . . Bernino (MS. 1682), one of the most important sources on the life and art of the great Baroque sculptor and architect. A passage describing the impact of the art of Rome on Gianlorenzo, after his arrival from his native Naples, vividly evokes the dedication and devotion of the young sculptor in assimilating day and night the principles of the great classical examples in the Belvedere Courtyard – especially the Antinous Belvedere, the Apollo Belvedere and the Laocoön. Excerpts from Domenico Bernini, Vita del cavalier Gio. Lorenzo Bernino, Rome, 1713, pp. 12-13. The following translation is from Domenico Bernini, The Life of Gian Lorenzo Bernini, ed. and trans. by F. Mormando, University Park (PA), 2011, p. 101. There now opened before him in Rome a marvellous field in which to cultivate his studies through the diligent observation of the precious remains of ancient sculpture. It is not to be believed with what dedication he frequented that school and with what profit he absorbed its teachings. Almost every morning, for the space of three years, he left Santa Maria Maggiore, where Pietro, his father, had built a small comfortable house, and travelled on foot to the Vatican Palace at Saint Peter’s. There he remained until sunset, drawing, one by one, those marvellous statues that antiquity has conveyed to us and that time has preserved for us, as both a benefit and dowry for the art of sculpture. He took no refreshment during all those days, except for a little wine and food, saying that the pleasure alone of the lively instruction supplied by those inanimate statues caused a certain sweetness to pervade his body, and this was sufficient in itself for the maintenance of his strength for days on end. In fact, some days it was frequently the case that Gian Lorenzo would not return home at all. Not seeing the youth for entire days, his father, however, did not even interrogate his son about this behaviour. Pietro was always certain of Gian Lorenzo’s whereabouts, that is, in his studio at Saint Peter’s, where, as the son used to say, his girlfriends (that is, the ancient statues) had their home. The specific object of his studies we must deduce from what he used to say later in life once he began to experience their effect on him. Accordingly, his greatest attention was focussed above all on those two most singular statues, the Antinous and the Apollo, the former miraculous in its design, the latter in its workmanship. Bernini claimed, however, that both of these qualities were even more perfectly embodied in the famous Laocoön of Athen0dorus, Hagesander, and Polydorus of Rhodes, a work of so well-balanced and exquisite a style that tradition has attributed it to three artists, judging it perhaps beyond the ability of just one man alone. Two of these three marvellous statues, the Antinous and the Laocoön, had been discovered during the time of Pope Leo X amid the ruins of Nero’s palace in the gardens near the church of San Pietro in Vincoli and placed by the same pontiff in the Vatican Palace for the public benefit of artists and other students of antiquity. 10. Gianlorenzo Bernini (1598–1680) on the formative role of ancient sculpture in the education of young artists. In 1665 Bernini visited France at the invitation of Louis XIV to discuss designs for the completion of the Palais du Louvre. His five-month stay was recorded by his guide Paul Fréart, Sieur de Chantelou in his lively Journal du voyage du Cavalier Bernin en France. The advice given by Bernini on his visit to the Académie Royale de peinture et de sculpture is among the clearest statements on the formative role assigned to antique statuary in the education of young artists in 17th- century Rome. At the same time it reveals the opinion of the great Baroque sculptor on the dangers of copying from classical models without also involving independent inspiration and artistic creations. The manuscript of the Journal du voyage du cavalier Bernin en France par M. de Chantelou was published for the first time by Ludovic Lalanne in a series of articles in the Gazette des Beaux-Arts in 1877–84 (a new edition by M. Stanic ́ was published in Paris in 2001). The following translation is from Paul Fréart de Chantelou, Diary of the Cavaliere Bernini’s Visit to France, ed. by A. Blunt, trans. by M. Cornbett, Princeton, 1985, pp. 165–67. 5 September: The Cavaliere worked as usual, and in the evening went to the Academy [...] [p. 166]. The Cavaliere glanced at the pictures round the room: they are not by the most talented mem- bers. He also looked at a few bas-reliefs by various sculptors of the Academy. Then, as he was standing in the middle of the hall sur- rounded by members, he gave it as his opinion that the Academy ought to possess casts of all the notable statues, bas-reliefs, and busts of antiquity. They would serve to educate young students; they should be taught to draw after these classical models and in that way form a conception of the beautiful that would serve them all their lives. It was fatal to put them to draw from nature at the beginning of their training, since nature is nearly always feeble and niggardly, for if their imagination has nothing but nature to feed on, they will be unable to put forth anything of strength or beauty; for nature itself is devoid of both strength or beauty, and artists who study it should first be skilled in recognis- ing its faults and correcting them; something that students who lack grounding cannot do [...] [p. 167]. He said that when he was very young he used to draw from the antique a great deal, and, in the first figure he undertook, resorted continually to the Antinous as his oracle. Every day he noticed some further excellence in this statue; certainly he would never have had that experience had he not himself taken up a chisel and started to work. For this reason he always advised his pupils, and others, never to draw and model without at the same time working either at a piece of sculpture or a picture, combining creation with imitation and thought with action, so to speak, and remarkable progress should result. For support of his contention that original work was absolutely essential I cited the case of the late Antoine Carlier, an artist known to most of the members of the Academy. He spent the greater part of his life in Rome modelling after the statues of antiquity, and his copies are incomparable: and they had to agree that, because he had begun to do original work too late, his imagination had dried up, and the slavery of copying had in the end made it impossible for him to produce anything of his own. 11. Giovanni Pietro Bellori (1613–96): his ‘Idea of the painter, the sculptor and the architect, selected from the beauties of Nature, superior to Nature’ as the manifesto of the classicist doctrine. Giovanni Pietro Bellori, a central figure in 17th-century art theory and the champion of classicism, delivered his epochal speech, the ‘Idea’, in front of the Roman Accademia di San Luca in 1664 and later published it as a preface to his influential Vite of 1772. In this he provided one of the clearest and most influential systematisations for the concept of the idealistic mission of art, already formulated by various Renaissance art theorists such as Dolce, Vasari, Armenini and Zuccaro. Joining Aristotelian and neo-Platonic premises, for Bellori God’s perfect Ideas become corrupted in our world because of accidents and the innate imperfection of the ‘matter’. The role of ‘noble’ artists is therefore to aim at recreating the perfection of the original divine ideas in their works by selecting the best parts of nature. Classical statues ofer the best guide and example for the modern artists as they are the result of this process of selection already achieved by ancient artists. In the final paragraph quoted here, Bellori stresses the value of the imitation of the Antique against some contemporary artists and theorists, like the Venetian painter and writer Marco Boschini (1605–81), who criticised the practice. Excerpts from Giovan Pietro Bellori, Le vite de’ pittori scultori e architetti moderni, Rome, 1672, pp. 3–13. The following translation is from G. P. Bellori, The Lives of the Modern Painters, Sculptors and Architects: a New Translation and Critical Edition, ed. by H. Wohl, trans. by A. Sedgwick Wohl, introduction by T. Montanari, Cambridge, 2005, pp. 57–61. [P. 57] The supreme and eternal intellect, the author of nature, looking deeply within himself as he fashioned his marvellous works, established the first forms, called Ideas, in such a way that each species was an expression of that first Idea, thereby forming the wondrous context of created things. But the celestial bodies above the moon, not being subject to change, remained forever beautiful and ordered, so that by their measured spheres and by the splendour of their aspects we come to know them as eternally perfect and most beautiful. The opposite happens with the sublunar bodies, which are subject to change and to ugliness; and even though nature intends always to make its effects excellent, nevertheless, owing to the inequality of matter, forms are altered, and the human beauty in particular is confounded, as we see in the innumerable deformities and disproportions that there are in us. For this reason noble painters and sculptors, imitating that first maker, also form in their minds an example of higher beauty, and by contemplating that, they emend nature without fault of colour or of line. This Idea, or rather the goddess of painting and sculpture [...], reveals itself to us and descends upon marbles and canvases; originating in nature, it transcends its origins and becomes the original of art; measured by the compass of the intellect, it becomes the measure of the hand; and animated by the imagination it gives life to the image. [P. 58] Now Zeuxis, who chose from five virgins to fashion the famous image of Helen that Cicero held up as an example to the orator, teaches both the painter and the sculptor to contemplate the Idea of the best natural forms by choosing them from various bodies, selecting the most elegant.1 For he did not believe that he would be able to find in a single body all those perfections that he sought for the beauty of Helen, since nature does not make any particular thing perfect in all its parts. [...] Now if we wish also to compare the precepts of the sages of antiquity with the best of [p. 59] those laid down by our modern sages, Leon Battista Alberti teaches that one should love in all things not only the likeness, but mainly the beauty, and that one must proceed by choosing from very beautiful bodies their most praised parts.2 [...] Raphael of Urbino, the great master of those who know, writes thus to Castiglione about his Galatea: In order to paint one beauty I would need to see more beauties, but as there is a dearth of beautiful women, I make use of a certain Idea that comes to into my mind.3 [P. 61] It remains for us to say that since the sculptors of antiquity employed the marvellous Idea, as we have indicated, it is therefore necessary to study the most perfect ancient sculptures, in order that they may guide us to the emended beauties of nature; and for the same purpose it is necessary to direct our eye to the contemplation of other most excellent masters; but this matter we shall leave to a treatise of its own on imitation, to meet the objections of those who criticise the study of ancient statues. 1 Cicero, De inventione, II, 1, 1–3. 2 Alberti 1972, p. 99 (book 3, chap. 55). 3 Quoted the first time in Pino 1582, vol. 2, p. 249. 12. A Conférence of the Parisian Académie Royale de peinture et de sculpture on the artistic excellence of the Laocoön, 1667. Among the celebrated seven Conférences given at the Académie in 1667, devoted to the analysis of famous paintings of the Italian and French schools, the third, held by the sculptor Gerard van Opstal (1594–1668), was specifically dedicated to the Laocoön. Opstal’s approach, in which each aspect of the famous statue, from its anatomy, to its proportions, character and expressions, is discussed in detail, clearly expresses the analytical and didactic approach of the Académie to the Antique. Excerpts from André Félibien, Conférences de l’Académie Royale de Peinture et de Sculpture, pendant l’année 1667, Paris, 1668, pp. 28–40. The following translation is from the first English edition: Seven Conferences held in the King of France’s Cabinet of Paintings . . . , London, 1740, pp. 33–42 (pagination is discontinuous). [Gerard van Opstal] examined all the Parts of this Figure in order to shew the Excellence of it: and observed with what Art the Sculptor had given in a large Breast and Shoulders, all the Parts of which are expressed with a great deal of Exactness and Tenderness. He also took Notice of the Height of the Hips, and the Nervousness of the Arms: the Legs neither too thick nor too lean but firm 72 73  and well muscled; and in general he observed that in all the other Members, the Flesh and Nerves were expressed with as much strength and sweetness as in Nature herself, but in Nature well formed. [...] [p. 34]. He did not forget to shew likewise the strong Expressions which appear in this admirable Figure, where Grief is not only diffused over the Face, but also over all the other Parts of the Body, and to the Extremities of the Feet, the Toes of which violently contract themselves. [p. 35] As every thing about this Statue is contrived with surprising Art, every one will own that it ought to be the chief study of Painters and Sculptors: But which they should not consider chiefly as a Model that only serves to design by; they ought to observe exactly all the Beauties, and imprint on their Minds an Image of all that is excellent in it: because it is not the Hand that is to be employed if one desires to make himself perfect in this Art, but Judgement to form these great Ideas and Memory carefully to retain them. But as those strong Expressions cannot teach one to design after a Model, because we cannot put such a Person in a State where all the Passions are in him at once, and it is likewise difficult to copy them in Persons who are really active because of the quick Motion of the Soul: It is therefore of great Importance for Artists to study Causes, and then to try with how great Dignity [p. 30] they can represent their Effects, and we may aver that it is only to these fine Antiques they must have recourse since there they will meet with Expressions which it will be difficult to draw after nature. [P. 31] Every one will agree that it is from this Model [that] we may learn to correct the Faults which are commonly found in Nature; for here all appears in a State of Perfection [...]. 13. Gérard Audran (1640–1703) on the perfect proportions of antique sculptures. Gérard Audran, engraver and conseiller of the Parisian Académie Royale, published the most popular illustrated manual on the measured proportions of selected canonical ancient statues in 1682 (see p. 48, figs 72–73). We find in the Preface one of the clearest expressions of the rationalistic attitude of the Académie: the Antique here represents an infallible standard of perfect proportions, which Audran has made available, ‘compass in hand’, for young artists, providing them with precise references on which to base their own figures. Excerpts from Gérard Audran, Les proportions du corps humain mesurées sur les plus belles figures de l’antiquité, Paris, 1683, pp. 1-4 of the Preface (unpaginated). The following translation is from The Proportions of the Human Body, measured from the most Beautiful Statues by Mons. Audran . . . , London,There will be, I think, but little occasion to enlarge upon the Necessity of a perfect Knowledge of the PROPORTIONS, to every Person conversant in Designing; it being very well known, that without observing them they can make nothing but mon- strous and extravagant Figures. Everyone agrees to this Maxim generally consider’d, but everyone puts it differently in practice; and here lies the Difficulty, to find certain Rules for the Justness and Nobleness of the Proportions; which, since Opinions are divided, may stand as an infallible Guide, upon whose Judgement we may rely with Certainty. This appears at first very easy; for since the Perfection of Art consist in imitating Nature well, it seems as if we need consult no other Master, but only work after the Life; nevertheless, if we examin the Matter farther, we shall find, that very few Men, or perhaps none, have all their Parts in exact Proportion without any Defect. We must therefore chuse what is beautiful in each, taking only what is called the Beautiful Nature. [...] I see nothing but the Antique in which we can place an entire confidence. These Sculptors who have left us those beautiful Figures [...] have in some sort excell’d Nature; for [...] there never was any Man so perfect in all his Parts as some of their Figures. They have imitated the Arms of one, the Legs of another, collecting thus in one Figure all the Beauties which agreed to the Subject they represented; as we see in the Hercules all the Strokes that are Marks of Strength; and in the Venus all the Delicacy and Graces that can form an accomplished Beauty. [...] [p. 2]. I give you nothing of myself; everything is taken from the Antique: but I have drawn nothing upon the Paper till I had first mark’d all the Measures with the Compasses, in order to make the Out-Lines fall just according to the Numbers. 14. William Hogarth (1697–1764) against fashionable taste and the uncritical cult of the Antique. The celebrated painter and engraver William Hogarth played a crucial role in establishing an English school of painting in the 18th century. As director of the second St Martin’s Lane Academy from 1735, he became increasingly hostile to a curriculum based on the French Académie model. In his theoretical treatise The Analysis of Beauty, published in 1753, he attacked the idealistic concept of art – as a selection of the best parts of nature – in favour of a more naturalistic approach. At the same time he disputed the validity of studies on proportion such as those produced by Dürer and Lomazzo in the 16th century. Hogarth retained a bold independent-minded position towards the Antique, criticising the slavish reverential attitude of connoisseurs and men of taste, while recognising the greatness of certain antiquities. Their peculiar elegance, according to Hogarth, is the expression of the ‘serpentine line’, the central principle of his own aesthetic. Excerpts from William Hogarth, The Analysis of Beauty, London, 1753. [P. 66] We have all along had recourse chiefly to the works of the ancients, not because the moderns have not produced some as excellent; but because the works of the former are more generally known: nor would we have it thought, that either of them have ever yet come up to the utmost beauty of nature. Who but a bigot, even to the antiques, will say that he has not seen faces and necks, hands and arms in living women, that even the Grecian Venus doth but coarsely imitate? [p. 67] And what sufficient reason can be given why the same may not be said of the rest of the body? [P. 77, ‘On Proportions’] Notwithstanding the absurdity of the above schemes [of Dürer and Lomazzo], such measures as are to be taken from antique statues, may be of some service to painters and sculptors, especially to young beginners [...] [p. 80]. I firmly believe, that one of our common proficients in the athletic art, would be able to instruct and direct the best sculptor living, (who hath not seen, or is wholly ignorant of this exercise) in what would give the statue of an English-boxer, a much better proportion, as to character, than is to be seen, even in the famous group of antique boxers, (or some call them, Roman wrestlers) so much admired to this day. [P. 91] As some of the ancient statues have been of such singular use to me, I shall beg leave to conclude this chapter with an observation or two on them in general. It is allowed by the most skilful in the imitative arts, that tho’ there are many of the remains of antiquity, that have great excellencies about them; yet there are not, moderately speaking, above twenty that may be justly called capital. There is one reason, nevertheless, besides the blind veneration that generally is paid to antiquity, for holding even many very imperfect pieces in some degree of estimation: I mean that peculiar taste of elegance which so visibly runs through them all, down to the most incorrect of their basso-relievos: [p. 92] which taste, I am persuaded, my reader will now conceive to have been entirely owing to the perfect knowledge the ancients must have had of the use of the precise serpentine-line. But this cause of elegance not having been since sufficiently understood, no wonder such effects should have appeared mysterious, and have drawn mankind into a sort of religious esteem, and even bigotry, to the works of antiquity. 15. Johan Joachim Winckelmann (1717–68) on the Antique. Winckelmann, the greatest art historian of the 18th century, moved to Rome from Dresden in 1755 and soon established himself as one of the leading antiquarians and scholars of Europe. His powerful and intimate descriptions of ancient sculptures, especially those in the Belvedere Courtyard, had a tremendous impact on the European public and contributed decisively to the difusion of the classical ideal and the airmation of the neo-classical aesthetics. His analysis of Greek art provided a stylistic classification of antiquities by period, stressing the importance of contextual conditions such as the climate and political freedom of the ancient Greek city states. This revolutionised the approach to the Antique and contributed to the establishment of a modern art historical method. He recommended to artists the imitation of ancient statuary as the only way to achieve perfection, in both aesthetic and moral terms. Excerpts from Johan Joachim Winckelmann, Gedanken über die Nachahmung der griechischen Werke in der Malerei und Bildhauerkunst, ed. by C. L. von Ulrichs, Stuttgart, 1885, pp. 6–12, 24. The following translation is from the first English edition: J. J. Winckelmann, Reflections on the Painting and Sculpture of the Greeks . . . , trans. by Henry Fuseli, London, 1765. [P. 1] To the Greek climate we owe the production of Taste, and from thence it spread at length over all the politer world. [P. 2] There is but one way for the moderns to become great, and perhaps unequalled; I mean, by imitating the antients. And what we are told of Homer, that whoever understands him well, admires him, we find no less true in matters concerning the antient, especially the Greek arts. But then we must [p. 3] be as familiar with them as with a friend, to find Laocoon as inimitable as Homer. By such intimacy our judgment will be that of Nicomachus: Take these eyes, replied he to some paltry critick, censuring the Helen of Zeuxis, Take my eyes, and she will appear a goddess. With such eyes Michael Angelo, Raphael, and Poussin considered the performances of the antients. They imbibed taste at its source; and Raphael particularly in its native country. We know, that he sent young artists to Greece, to copy there, for his use, the remains of antiquity. [...] Laocoon was the standard of the Roman artists, as well as ours; and the rules of Polycletus became the rules of art. [P. 4] The most beautiful body of ours would perhaps be as much inferior to the most beautiful Greek one, as Iphicles was to his brother Hercules. The forms of the Greeks, prepared to beauty, by the influence of the mildest and purest sky, became perfectly elegant by their early exercises. Take a [p. 5] Spartan youth, sprung from heroes, undistorted by swaddling-cloths; whose bed, from his seventh year, was the earth, familiar with wrestling and swimming from his infancy; and compare him with one of our young Sybarits, and then decide which of the two would be deemed worthy, by an artist, to serve for the model of a Theseus, an Achilles, or even a Bacchus [...] [p. 6]. By these exercises the bodies of the Greeks got the great and manly Contour observed in their statues, without any bloated corpulency. [P. 9] Art claims liberty: in vain would nature produce her noblest offsprings, in a country where rigid laws would choak her progressive growth, as in Egypt, that pretended parent of sciences and arts: but in Greece, where, from their earliest youth, the happy inhabitants were devoted to mirth and pleasure, where narrow- spirited formality never restrained the liberty of manners, the artist enjoyed nature without a veil. [P. 30] The last and most eminent characteristic of the Greek works is a noble simplicity and sedate grandeur in Gesture and Expression. As the bottom of the sea lies peaceful beneath a foaming surface, a great soul lies sedate beneath the strife of passions in Greek figures. ’ Tis in the face of Laocoon this soul shines with full lustre, not confined however to the face, amidst the most violent sufferings. 16. Denis Diderot (1713–84) on the excessive dependence on the Antique at the expense of the study of Nature. Philosopher, polymath and editor of the Encyclopédie, Diderot is one of the central figures of the French Enlightenment. His celebrated art criticism was directed towards the biennial Salons organised by the Académie Royale de peinture et de sculpture in Paris, and covered the period from 1759 to 1781. His review of the 74 75  1765 Salon included a section on sculpture in which he criticised Winckelmann’s semi-religious dependence on the Antique and instead urged artists to return to the study of Nature, as the source of all excellence in art, classical statues included. Diderot’s ‘naturalistic’ and anti-academic approach – already difused into European art theory at least from the 17th century onwards – became predominant in the 19th century. Nevertheless, Diderot had an immense admiration for classical sculpture in itself; for him it represented the best result of that fruitful study of Nature and freedom of artistic creativity that he advocated for contemporary French art. Diderot’s review of the Salon of 1765 was written for Melchior Grimm’s Correspondence littéraire, which circulated in manuscript form. It was printed for the first time in Jacques-André Naigeon, Oeuvres de Denis Diderot publiés sur les manuscrits de l’auteur, 15 vols, Paris, 1798, vol. 13, pp. 314–16. This translation is from Diderot on Art – 1: The Salon of 1765 and Notes on Painting, ed. and trans. by J. Goodman, New Haven and London, 1995, pp. 156–57. I am fond of fanatics [...] [p. 157]. Such one is Winckelmann when he compares the productions of ancient artists with those of modern artists. What doesn’t he see in the stump of a man we call the Torso? The swelling muscles of his chest, they’re nothing less than the undulation of the sea; his broad bent shoulders, they’re a great concave vault that, far from being broken, is strengthened by the burdens it’s made to carry; and as for his nerves, the ropes of ancient catapults that hurled large rocks over immense distances are mere spiderwebs in compari- son. Inquire of this charming enthusiast by what means Glycon, Phidias, and the others managed to produce such beautiful, perfect works and he’ll answer you: by the sentiment of liberty which elevates the soul and inspire great things; by rewards offered by the nation, and public respect; by the constant observation, study and imitation of the beautiful in nature, respect for poster- ity, intoxication at the prospect of immortality, assiduous work, propitious social mores and climate, and genius [...]. There is not a single point of this response one would dare to contradict. But put a second question to him, ask him if it’s better to study the antique or nature, without the knowledge and study of which, without a taste for which ancient artists, even with all the specific advantages they enjoyed, would have left us only medio- cre works: The antique! He’ll reply without skipping a beat; The antique! [...] and in one fell swoop a man whose intelligence, enthusiasm, and taste are without equal betrays all these gifts in the middle of the Toboso. Anyone who scorns nature in favour of the antique risks never producing anything that’s not trivial, weak, and paltry in its drawing, character, drapery, and expression. Anyone who’s neglected nature in favour of the antique will risk being cold, lifeless, devoid of the hidden, secret truths which can only be perceived in nature itself. It seems to me that one must study the antique to learn how to look at nature. 17. Sir Joshua Reynolds (1723–92) on the role of the Royal Academy and on the study of the Antique. Sir Joshua Reynolds, the foremost portrait painter in England in the 18th century, served as first president of the Royal Academy between 1768 and 1792. His fifteen Discourses on Art, delivered to the students and members of the Academy between 1769 and 1790, became widely popular in Britain and abroad. They represent a distillation of the idealistic and academic art theory of the previous centuries in support of the ‘Grand manner’, mixed with his personal views, such as Reynolds’ huge admiration for Michelangelo. The Discourses range from didactic guidelines for the Academy to more theoretical discussions, and references to the Antique can be found throughout, especially in Discourse 10, devoted to sculpture. Excerpts from Discourses of Art. Sir Joshua Reynolds, ed. by R. R. Wark, New Haven and London, 1997. [P. 15] Discourse 1 (1769): The principal advantage of an Academy is, that, besides furnishing able men to direct the student, it will be a repository for the great examples of the Art. These are the materials on which genius is to work, and without which the strongest intellect may be fruitlessly or deviously employed. By studying these authentic models, that idea of excellence which is the result of the accumulated experience of past ages may be at once acquired; and the tardy and obstructed progress of our predecessors may teach us a shorter and easier way. The student receives, at one glance, the principles which many artists have spent their whole lives in ascertaining; and, satisfied with their effect, is spared the painful investigation by which they come to be known and fixed. [P. 106] Discourse 6 (1774): All the inventions and thoughts of the Antients, whether conveyed to us in statues, bas-reliefs, intaglios, cameos, or coins, are to be sought after and carefully studied: The genius that hovers over these venerable reliques may be called the father of modern art. From the remains of the works of the antients the modern arts were revived, and it is by their means that they must be restored a second time. However it may mortify our vanity, we must be forced to allow them our masters; and we may venture to prophecy, that when they shall cease to be studied, arts will no longer flourish, and we shall again relapse into barbarism. [P. 177] Discourse 10 (1780): As a proof of the high value we set on the mere excellence of form, we may produce the greatest part of the works of Michael Angelo, both in painting and sculpture; as well as most of the antique statues, which are justly esteemed in a very high degree [...]. But, as a stronger instance that this excellence alone inspires sentiment, what artist ever looked at the Torso without feeling a warmth of enthusiasm, as from the highest efforts of poetry? From whence does this proceed? What is there in this fragment that produces this effect, but the perfec- tion of this science of abstract form? A MIND elevated to the contemplation of excellence perceives in this [p. 178] defaced and shattered fragment, disjecti membra poetae, the traces of superlative genius, the reliques of a work on which succeeding ages can only gaze with inadequate admiration. 18. The Encyclopédie by Denis Diderot (1713–84) and Jean-Baptiste le Rond d’Alembert (1717–83) on the advantages for artists to go to Rome to experience the Antique and modern works of art. The second edition of Diderot’s and D’Alembert’s epochal Encyclopédie included an entry on the Académie de France in Rome, in which the role and mission of the institution is celebrated in superlative terms. A period in Rome was still considered, even by the anti-academic Diderot, to be essential for young artists to round of their education in the physical and spiritual presence of the Antique and the great Renaissance masters. This apology and defence of the Roman Académie was also perhaps intended to counter the opinion of those, such as the sculptor Etienne-Maurice Falconet (1716–91), who judged the trip to Rome no longer necessary, given the quantity of plaster casts available in France. Excerpt from D. Diderot and J.-B. le Rond D’Alembert, Encyclopédie ou dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des metiers . . . , new ed., Geneva, vol. 1, 1777, pp. 238–39 (translation Barbara Lasic). The French Academy in Rome is a school of painting that King Louis XIV established in 1666, & one of the most beautiful institu- tions of this great monarch for the glory of the kingdom and the progress of the fine arts [...]. It was one of the greatest causes for the perfection of art in France [...]; thus Le Brun thought that young Frenchmen who intended to study the fine arts should go to Rome and spend some time there. This is where the works of Michelangelo, Vignola, Domenichino, Raphael and those of the ancient Greeks give silent lessons far superior to those that our great living masters could give [...]. Italy has the uncontested advantage and glory of having the richest mine of antique models that can serve as guides to the modern artists, and enlighten them in the quest for ideal beauty; of having revived in the world the arts that had been lost; of having produced excellent artists of all types; and finally of having given lessons to other people to whom it had previously given laws [...] [p. 139]. Italy is for artists a true classical land as an Englishman calls it. Everything there entices the eye of the painter, everything instructs him, everything awakens his attention. Aside from modern statues, how many of those antiques, which by their exact proportions and the elegant variety of their forms, served as models to past artists and must serve to those of all centuries, does not the superb Rome contain amid its walls? Although there are in France some very fine statues like the Cincinnatus and a few others, we can state, without fear of being mistaken, that there are none of the first rate, or of those that the Italians call preceptive and that can be put in parallel with the Apollo, the Antinoüs, the Laocoon, the Hercules, the Gladiator, the Faun, the Venus and many more that decorate the Belvedere, the Palazzo Farnese, the Borghese grounds and the gallery of Florence. The gallery Giustiniani alone is perhaps richer in antique statues than the entire French kingdom. 19. James Northcote (1746–1831) on the decline of the Antique as a model and on the thirst for novelty in art. The pungent and lively conversations between the writer and art critic William Hazlitt (1778–1830), and the painter James Northcote, were published in various articles in The New Monthly Magazine in 1826 and then collated in 1830, causing scandal for their frankness among contemporaries. The passage selected is one of the most revealing testimonies on the growing dissatisfaction with the Antique and the widespread demand for new forms of art. Excerpts from William Hazlitt, Conversations of James Northcote, Esq., R.A., London, 1830, pp. 51–53. ‘Did you see Thorwaldsen’s things while you were there? A young artist brought me all his designs the other day, as miracles that I was to wonder at and be delighted with. But I could find nothing in [p. 52] them but repetitions of the Antique, over and over, till I was surfeited.’ ‘He would be pleased at this.’ ‘Why, no! that is not enough: it is easy to imitate the Antique: – if you want to last, you must invent something. The other is only pouring liquors from one vessel into another, that become staler and staler every time. We are tired of the Antique; yet at any rate, it is better than the vapid imitation of it. The world wants something new, and will have it. No matter whether it is better or worse, if there is but an infusion of new life and spirit, it will go down to posterity; otherwise, you are soon forgotten. Canova too, is nothing for the same reason – he is only a feeble copy of the Antique; or a mixture of two things the most incompatible, that and opera-dancing. But there is Bernini; he is full of faults, he has too much of that florid, redundant, fluttering style, that was objected to Rubens; but then he has given an appearance of flesh that was never given before. The Antique always looks like marble, you never for a moment can divest yourself of the idea; but go up to a statue of Bernini’s, and it seems as if it must yield to your touch. This excellence [p. 53] he was the first to give, and therefore it must always remain with him. It is true, it is also in the Elgin marbles; but they were not known in his time; so that he indisputably was a genius. Then there is Michael Angelo; how utterly different from the Antique, and in some things how superior!’ 76 77. CATALOGUE. Notes to the reader support. All drawings and prints are on paper. measurements: Mesurements of all works, both exhibited and reproduced as comparative illustrations, are given height before width, in millimeters for drawings and prints and in centimeters for paintings and sculpture. inscriptions: Recto and verso indications for inscriptions are given only for drawings. For prints it is assumed they are on the recto. Abbreviations: u.l.: upper left; u.c.: upper centre; u.r.: upper right; c.l.: centre left; c.r.: centre right; l.l.: lower left; l.c.: lower centre; l.r.: lower right. The original spelling is always respected. provenance: Provenance is given in chronological sequence, as completely as possible. Collectors’ names are given as listed in Lugt (abbreviated L., L. suppl.) literature/exhibitions: Prints are included in the Exhibition references when the actual impression catalogued here was shown; when another impression was exhibited, it is mentioned under Literature. For exhibition catalogue entries included in the Literature and Exhibition references, the author or authors are given only when their initials are specified at the end of the entry. Otherwise it is assumed that the entry was written by the compilers of the catalogue. If an object has been illustrated in a publication, a figure or plate number is included. If the object has been illustrated without a figure or plate number, ‘repr.’ is used. If nothing is specified, the object was not illustrated. For exhibition catalogues, only the catalogue number is provided, as it is assumed that it was reproduced. Otherwise, ‘not repr.’ is used. #1 Agostino dei Musi, called Agostino Veneziano (Venice c. 1490–after 1536 Rome) After Baccio Bandinelli (Gaiole, near Chianti 1493–1560 Florence) The Academy of Baccio Bandinelli in Rome 1531 Engraving, state II of III 274 × 299 mm (plate), 278 × 302 mm (sheet) Inscribed recto, l.c., on front of table support: ‘ACADEMIA . DI BAC: / CHIO . . MDXXXI. /. A. V.’ selected literature: Heinecken 1778–90, vol. 2, p. 98; Bartsch 1803–21, vol. 14, pp. 314–15, no. 418; Pevsner 1940, pp. 38–42, fig. 5; Ciardi Duprè 1966, p. 161; Wittkower 1969, p. 232, fig. 70; Oberhuber 1978, 314.418, repr.; Florence 1980, p. 264, no. 687; Roman 1984, pp. 81–84, fig. 62; Weil-Garris Brandt 1989, pp. 497–98, fig. 1; Landau and Parshall 1994, p. 286, fig. 304; Barkan 1999, pp. 290–98, fig. 5.12; Fiorentini 1999, pp. 145–46, no. 29; Munich and Cologne 2002, p. 319, no. 110; Thomas 2005, pp. 3–14, figs 1–3; Hegener 2008, pp. 396–403 and 624–25, pl. 228; Antwerp 2013, p. 26, repr.; Florence 2014, pp. 528–29, no. 77.  BRANDIN . provenance: Elizabeth Harvey-Lee, North Aston (Oxfordshire), from whom acquired in 1995. IN . / ROMA . / IN LUOGO . DETTO / . BELVEDERE . /  exhibitions: Not previously exhibited. The Bellinger Collection, inv. no. 1995-047 This renowned print by Agostino Veneziano after a design by Baccio Bandinelli, the Florentine sculptor and draughts- man, depicts Bandinelli’s academy for artists in the Belvedere in Rome, where he was granted the use of rooms by Pope Leo X (r. 1513–21) and Pope Clement VII (r. 1523–34).1 We are informed of this by the prominent inscription below the table, which renders this engraving a particularly appropri- ate work to begin this catalogue, because as well as being the first known representation of artists copying from statuettes modelled after antique prototypes, it is the first recorded use of the word ‘accademia’ in conjunction with art and the training of artists.2 This term had previously been used to describe informal gatherings of men to discuss liberal or intellectual subjects, such as philosophy or literature.3 Though the scene does not depict an art academy in the modern sense – the origins of which are found some thirty years later in Vasari’s Accademia del Disegno4 – Bandinelli made the association between art and intellectual endeavour very clear. His design focuses on the fundamental elements of a young artist’s training, namely, intensive study and copying of the antique sculptures in miniature scattered around the room, replicated on the artists’ tablets. It is there- fore evident that artistic academies were from the beginning conceived of as humanistic educational institutions, reliant, among other things, on ancient statues as sources of inspira- tion. There is a conspicuous absence here of drawing from life, which would later become one of the central elements of Italian and French academic practices.5 The scene also places emphasis on disegno, a word that encompasses much more than its mere translation as ‘drawing’. It comprises the intellectual capacity to create any kind of art, including painting and sculpture, as well as drawing itself.6 In Bandinelli’s own words, his was an ‘Accademia par- ticolare del Disegno’.7 In the print exhibited here, the almost claustrophobic room and closely bunched apprentices imply that study was a collaborative endeavour in Bandinelli’s academy, with discussion among the students encouraged in order that they might better comprehend the objects of their study, and capture them more effectively on paper. Bandinelli himself is seated on the right, wearing a fur-lined collar, holding a statuette of a female nude for his students’ contem- plation. The results of their efforts are drawn on paper placed on drawing boards, using quills and ink pots; what appears to be a blotter rests on the near edge of the table. The noctur- nal setting evokes an atmosphere of mystery and a sense that the central candle, with its forcefully radiating light, has, as well as a physical function, a symbolic one, to illuminate the secrets of art and disegno. The theme of drawing at night recurs throughout this exhibition (cats 2, 23, 24, 34) and reflects a persistent belief that such a setting is essential for stimulating the introspection necessary for artistic success. It also implies diligence and commitment, the ability and will to continue working through day and night, that is required from a master artist.8 For these reasons, a candle or lamp often symbolises ‘Study’, as seen in Federico Zuccaro’s allegorical drawing (see cat. 5, fig. 5). It also reveals a didactic reliance on artificial light as preferable to natural light to emphasise the contours of the sculptures and the contrasts of their planes, thereby facilitating the copying process, an idea earlier espoused by Leonardo da Vinci (with whom the young Bandinelli had personal contact) and later by Benvenuto Cellini (1500–71).9 There is a striking interplay of the shadows cast by the candlelight on the back walls, with the heads of both statues 80 81  and artists overlapping one another. This may refer to a well- known passage from Pliny’s Natural History: ‘The question as to the origin of the art of painting is uncertain [. . .] but all agree that it began with tracing an outline around a man’s shadow’.10 The central figure on the rear shelf casts an improbable shadow, as the hand held perpendicular to the body is reflected on the wall as upright and perpendicular to the ground. This was corrected in a copy after the second state (British Museum, London), which is slightly smaller.11 The design of this copy is more crudely executed than the original, and there are a number of significant changes to the scene that are unique to this plate, which suggests that it was created by someone other than Bandinelli.12 This demonstrates the relative freedom of printmakers to make adjustments to designs, and may help us to infer that this print was especially popular; such changes would have necessitated a new plate, which would imply that demand outstripped the supply, or that the original plate was under especially tight control by a single owner.13 The male and female statues on the table are the focus of the artists’ devotion, and are reminiscent of Apollo and Venus, specifically of the Venus Pudica type.14 They are probably inspired by the famous statues of the Apollo Belvedere (see p. 26, fig. 18 and cat. 5, fig. 1) and Venus Felix (fig. 1), which stood in the Belvedere Court and were constantly used by artists as ideal models.15 They would have been easily acces- sible to Bandinelli while lodging at the Belvedere. The male figures may alternatively be types after Hercules, a figure Fig. 1. Venus Felix and Cupid, c. 200 ad, marble, 214 cm (h), Museo Pio-Clementino, Vatican Museums, Rome, inv. 936 that is prevalent throughout Bandinelli’s work (see cat. 3). In fact, Maria Grazia Ciardi Duprè identified the upper left male figure on the shelf as a bronze statuette of Hercules Pomarius, now at the Victoria and Albert Museum, London, and on that basis suggested the statuette be newly attributed to Bandinelli.16 Many subsequent scholars have accepted this,17 but the differences in the two figures’ poses leaves the present author unconvinced, and it seems more likely that the figures in the print are generic, idealised types. In an almost meta-narrative, the intense focus on antique statuary is echoed even by the central male statuette, as he gazes at a miniature statuette poised on his own outstretched palm, which twists back to face him, returning his gaze (fig. 2). The three statues arrayed on the shelf along the back wall – two male and one female – are all of the same type as those on the table, and may be either copies or casts of them in wax or clay. The statuettes probably represent objects sculpted by Bandinelli himself referencing the Antique; Vasari tells us that while using the rooms at the Belvedere, Bandinelli made ‘many little figures [. . .] as of Hercules, Venus, Apollo, Leda, and other fantasies of his own’.18 One of these survives in bronze, a Hercules Pomarius at the Bargello, in Florence (fig. 3), and it resembles the figures in the engraving.19 The produc- tion of small models in wax, clay or bronze – many modelled on ancient prototypes – for young artists to practice drawing in the workshop, was already common in the 15th century. Several were created, for instance, by Lorenzo Ghiberti (c. 1381–1455) and Antonio Pollaiuolo (c. 1431–98).20 They Fig. 2. Detail of Veneziano’s engraving, statue gazing at an even smaller statuette Fig. 3. Baccio Bandinelli, Hercules Pomarius, c. 1545, bronze, 33.5 cm (h), Museo Nazionale del Bargello, Florence, inv. 281 Bronzi served the purpose of familiarising young artists with the forms and poses of antique models, allowing them to learn how to draw the three-dimensional human figure from different angles on a flat surface. The juxtaposition of the statuettes with several antique-style pots and vessels in the engraving reinforces the connection between Bandinelli’s ‘academy’ and the classical past, as does the fragment of a foot on the book that serves as a plinth for the male figure on the right. The statuettes are positioned so that each faces a slightly different direction, enabling the viewer to observe them from all angles, just as the artists are instructed to do. Our participation is further encouraged by the figure on the far left and by Bandinelli: both gaze outward and seem to acknowledge our presence. The viewer is thus accorded a role as a fellow student among the apprentices learning from Bandinelli in his academy. This link with the academy was less explicit in the original version of Bandinelli’s design. Ben Thomas drew attention to the first state of the print (Ashmolean Museum, Oxford),21 in which the inscription – so prominent below the table in the print exhibited here – was presented only in an abbreviated form on the tablet hanging on the wall at the far right, without the word ‘academia’, and with only Veneziano’s monogram and the date 1530, a year earlier than the present engraving. This tablet, deprived of the inscription in the later states, became an awkwardly superfluous element of the composition. Also missing in the first state are the drawings on the sheets of the artists gathered around the table. In changing these elements in the second state, as represented here,22 Bandinelli deliberately ensured there was no possibil- ity of misinterpreting this as a literary, rather than artistic, endeavour; it also serves as propaganda for the artist himself, as a dissemination of not only his powers of design, but his role as a teacher and an innovator. This makes it all the more surprising that on the current print, his name is inscribed as ‘Bacchio Brandin.’ rather than Bandinelli. He adopted the Bandinelli surname in 1529 to align himself with a noble family from Siena, thereby making himself eligible for the Order of Santiago, which he was awarded by Emperor Charles V in 1530.23 The inscription dates the print to 1531, after his adoption of this new genealogy, and so must reflect an error on the part of the engraver, Veneziano.24 In his self-portrait, seated at the table, Bandinelli also does not wear the insignia of the Order of Santiago, as he does in his other self-portraits (cats 2 and 3), and so the design for this print most likely dates prior to the granting of this award in 1530. Tommaso Mozzati suggested a date earlier than 1527, when the sack of Rome forced both artists to flee the city, Veneziano to Mantua, Bandinelli first to Lucca and then Genoa.25 The inscription itself tells us the design was made in Rome, depicting a room in the Belvedere. If Veneziano engraved the design after the two artists went their separate ways, it could explain how the mistake in nomenclature was allowed to occur.26 Bandinelli’s relentless self-promotion and willingness to rewrite his family tree to achieve noble status can be explained by his upbringing. His father, Michelangelo di Viviano (1459–1528), was a prominent goldsmith in Florence, but the family had lost much of its wealth and prestige by the time his son was born in October 1493.27 As Bandinelli’s three siblings left home or died young, he was essentially the only child, charged with restoring the family’s social standing. His father encouraged his training as an artist from an early age, as an apprentice within his own workshop. Bandinelli also worked with the sculptor Gian Francesco Rustici (1474–1554), learning from him the process of model- ling sculptures in wax and clay for casting into bronze. This association no doubt provided the opportunity to meet Rustici’s collaborator at the time on St John the Baptist Preaching (Florence Cathedral, Baptistry), Leonardo da Vinci (1452– 1519). Bandinelli was a staunch Medici supporter, even throughout the family’s exile, and this cemented his financial success as soon as two Medici popes came to power (Giovanni de’ Medici as Leo X in 1513 and Giulio de’ Medici as Clement VII in 1523). However, it also inspired rabid criticism from many Florentines, who were Republican by nature.    82 83  Our view of him is also coloured by Vasari’s biography, in which Bandinelli is treated as the villain to his heroic rival, Michelangelo.28 Such a bias is perhaps not completely unwar- ranted, as all three prints on display here by Bandinelli reflect his insistence not only on publicising his own image, but in vaunting his abilities as both a teacher of the next generation of artists, as well as having a special and privi- leged relationship to the Antique. This betrays the arrogance 29 that is also evident in his writings, and may well have contributed to the negative opinions of his character that persist to this day. rh 1 Vasari tells us that Bandinelli was given use of the Belvedere (Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 5, pp. 246, 250) but he never mentions an academy (Barkan 1999, p. 290). This engraving and cat. 2, as well as Bandinelli’s own account in his autobiographical Memoriale (which exists in a single manuscript in the Biblioteca Nazionale in Florence, Cod. Pal. Bandinelli 12, and is transcribed in Colasanti 1905 and Barocchi 1971–77, vol. 2, pp. 1359– 1411) are the only evidence we have for the existence of Bandinelli’s academy. 2 A less explicit link between art and the term ‘accademia’ is found on engravings after Leonardo da Vinci’s designs of knot work, which are inscribed ‘Academia Leonardi Vinci’ (see Pevsner 1940, p. 25; Roman 1984, p. 81; and Goldstein 1996, p. 10 and frontispiece). For Bandinelli as the first to use this word in conjunction with art training, see Pevsner 1940, p. 39; Barkan 1999, p. 290; Munich and Cologne 2002, p. 319 under no. 110; Thomas 2005, p. 8; Hegener 2008, pp. 401 and 403. 3 Visual arts were regarded as applied disciplines rather than liberal arts and thus unsuitable for intellectual discussion (Pevsner 1940, pp. 30–31; Goldstein 1996, p. 147; Cologne and Munich 2002, p. 319 under no. 110; Thomas 2005, pp. 8–9). 4 Although Vasari was the instigator and organiser of the Accademia, officially it was opened in 1563 by Cosimo de Medici (Pevsner 1940, p. 42). For more about the Accademia see Goldstein 1975; Waz ́bin ́ski 1987; Barzman 1989; Barzman 2000. 5 Goldstein 1996, chap. 8; Barkan 1999, p. 292; Costamagna 2005. 6 Goldstein 1996, p. 14. 7 Barocchi 1971–77, vol. 2, pp. 1384–85. 8 Roman 1984, p. 83; Munich and Cologne 2002, p. 319; Thomas 2005, pp.6–7. 9 Weil-Garris 1981, pp. 246–47, note 39; Barkan 1999, p. 292; Hegener 2008, p. 401. 10 ‘De picturae initiis incerta [...] quaestio est [...] omnes umbra hominis lineis circumducta, itaque primam talem’: Pliny the Elder, Nat. Hist., 35.5. See Pliny 1999, pp. 270–71. 11 The British Museum print’s inventory number is V,2.136. 12 Some changes are: the removal of Veneziano’s monogram, the underlining of ‘Belvedere’ in the inscription and the figure sketches on the artists’ sheets (Thomas 2005, p. 12). 13 Thomas 2005, p. 12. 14 For other statues of the Venus Pudica type known in the early Renaissance, see Tolomeo Speranza 1988. 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 Hegener 2008, p. 401. For Venus Felix, see Spinola 1996–2004, vol. 1, p. 97, PN 23 and fig. 14 on p. 98. Ciardi Duprè 1966, p. 161. The inventory number of the statuette is A.76-1910. Or they have at least restated Ciardi Duprè’s thesis without contestation. This includes Fiorentini 1999, p. 145; Thomas 2005, p. 11, note 21; and Hegener 2008, p. 403. Paul Joannides disagrees and attributes the statuette in the Victoria and Albert Museum to Michelangelo, saying that it in turn inspired Bandinelli to create his own version of Hercules Pomarius, now in the Bargello, in Florence (fig. 3), which is widely accepted as by Bandinelli (Joannides 1997, pp. 16–20). Volker Krahn also expressed doubt that it is by Bandinelli (Florence 2014, p. 374). ‘Fece molte figurine [...] come Ercoli, Venere, Apollini, Lede, ed altre sue fantasie’ (Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 5, p. 251). See Florence 2014, pp. 372–75, no. 32. Fusco 1982; Ames-Lewis 2000b, pp. 52–55. See also Aymonino’s essay in this catalogue, pp. 22–23. Thomas 2005, p. 11. The print’s inventory number is WA1863.1759. There is also a third state owned by the Davison Arts Center of Wesleyan University, CT, in which the publisher Antonio Salamanca’s name is added at the bottom right (Thomas 2005, p. 12). Bartsch noted only one state (the second), but was also aware of the copy of the second state discussed here (Bartsch 1803–21, pp. 314–15, no. 418). The sheet exhibited here may repre- sent a later impression of the second state, as the underlining of ‘Belvedere’ has become so worn that it is only visible below the first ‘el’ and the ‘r’. There is some debate as to when Bandinelli received this honour. Scholars usually agree on 1529, but in his autobiography, Bandinelli said it occurred in the same year as the emperor’s coronation, which was in February 1530. According to Weil-Garris Brandt, the confusion arose because the Florentine year ended in March (Weil-Garris Brandt 1989, p. 501, note 26). Ben Thomas agrees with her and says the emperor sent news of the honour to Bandinelli from Innsbruck, after departing from Bologna on 22 March 1530 (Thomas 2005, p. 9 and note 12). This is perhaps not the only print to exhibit such a mistake, as Bandinelli, in his Memoriale, bemoaned a similar error that had to be corrected on a print of his Martyrdom of St Lawrence (Barocchi 1971–77, vol. 2, p. 1396). However, this complaint itself is inaccurate, as the inscription of ‘Baccius Brandin. Inven.’ on the St Lawrence print would have been a correct appella- tion at the time of its execution in 1524, well before Bandinelli’s adoption of his new name. Such an anachronism has prompted speculation that the Memoriale is not actually by Bandinelli, but rather a forgery by one of his descendants (Thomas 2005, p. 10); nevertheless, it represents a familial dissatisfaction with the dissemination of Bandinelli’s designs once removed from his control. Minonzio 1990, p. 686 and Florence 2014, p. 528 under no. 77. However, by 1530, the date on the first state of this print, both Veneziano and Bandinelli had returned to Rome (Thomas 2005, p. 11). This does not preclude Veneziano from having engraved the design during their separa- tion. It is unlikely that the design was executed at this later date because of the absence of the insignia of the Order of Santiago; even if the image were retrospective, it seems unlikely that Bandinelli would miss an opportunity for self-aggrandisement. For Bandinelli’s biography, see Bandinelli’s own Memoriale (see note 1), Vasari’s account in Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 5, pp. 239–76, and more concise surveys in Weil-Garris 1981, pp. 224–42 and Waldman 2004, pp. xv–xxviii. Weil-Garris 1981, p. 224. Pevsner 1940, p. 42. 2. Enea Vico ( Parma 1523–1567 Ferrara) After Baccio Bandinelli (Gaiole, near Chianti 1493–1560 Florence) The Academy of Baccio Bandinelli c. 1545/50 Engraving, state II of III 314 × 486 mm (sheet) Inscribed recto, u.r., on left page of open book: ‘Baccius / Bandi: / nellus / invent’; on right page: ‘Enea vi: / go Par: / megiano / sculpsit.’ Inscribed verso, l. c., on additional paper fragment, now attached, in pencil: ‘Eneas Vico ca 1520 – ca 1570 / Nagler XXII/515 bl 49 / Ein Hauptblatt’; and below, in pencil, ‘B. Vol 15 B 305 No. 49’; l.l. in pencil: ‘£ 3013 60’ [the rest illegible] provenance: Venator & Hanstein, Cologne, 3 November 1998, lot 2722, from whom acquired. selected literature: Heinecken 1778–90, vol. 2, pp. 98–99; Bartsch 1803–21, vol. 15, pp. 305–06, no. 49; Passavant 1860–64, vol. 6, p. 122, no. 49; Pevsner 1940, pp. 40–42, fig. 6; Ciardi Duprè 1966, pp. 163–64, fig. 26; Goldstein 1975, p. 147, fig. 1; Weil-Garris 1981, pp. 235–36, fig. 14; Roman 1984, pp. 84–87, fig. 66; Spike 1985, 305.49-I and 305.49-II, repr.; Landau and Parshall 1994, p. 286, fig. 303; Barkan 1999, pp. 290–98, fig. 5.13; Fiorentini 1999, pp. 146–47, no. 30; Houston and Ithaca 2005–06, pp. 86–88, no. 21; Thomas 2005, pp. 12–14, fig. 5; Hegener 2008, pp. 404–12 and 625–26, pl. 232; Compton Verney and Norwich 2009–10, p. 18, fig. 15; Florence 2014, pp. 530–31, no. 78. 84 85 exhibitions: Not previously exhibited. Katrin Bellinger collection, inv. no. 1998-039 This print by Enea Vico after a design by Baccio Bandinelli depicts a scene similar to that in his earlier self-styled acad- emy (cat. 1), but it has been expanded and amplified: the table which occupies all of the space in Agostino Veneziano’s engraving has been moved to the right side of Vico’s print, and the perspective is widened to allow a larger room to come into view. The number of apprentices has grown from six to twelve, the books from one to six and the antique sculptures from five to ten. The style of the print, as well as Vico’s chronology, suggest that it is not the Belvedere acad- emy that is depicted here, but a second academy, established by Bandinelli some twenty years later after his return to Florence in 1540.1 As in the earlier print, the classical figu- rines appear to be generalised interpretations of antique statuary rather than exact copies of specific models, although they have been diversified here by the addition of a horse’s head and a bust of a Roman emperor on the shelf. Added to the fragments strewn about the room are skeletons and skulls, which are now given a status equal to classical sources as inspiration for artists. These refer to the growing tendency to study the anatomy of the human body in Italian work- shops around the mid-16th century, mainly through skele- tons, a practice that was codified by Benvenuto Cellini (1500–71) some twenty years later in his Sopra i Principi e l’ Modo d’Imparare l’Arte del Disegno, in which he advised artists to copy anatomical parts in order to attain skill as draughts- men.2 While Bandinelli’s representation is one of the first to document the spread of anatomical study among young artists, the practice was formalised in the second half of the 16th century in the curricula of the first academies, where sophisticated anatomy lectures were given and dissections were performed.3 Both antique sculptures and skeletons became common elements in subsequent representations of artists’ workshops, studios and academies, as seen in Stradanus’ studio image and Cort’s engraving after it (cat. 4). This is also reflected in an etching by Pierfrancesco Alberti of a painter’s studio or academy (fig. 1), which shows a more structured curriculum of studies involving anatomical dissection, geometry, the Antique and architectural drawing, closely reflecting the disciplines taught in the earliest Italian academies, particularly the Roman Accademia di San Luca.4 The light source is another difference between the two prints after Bandinelli. The single candle in Veneziano’s engraving has become three forcefully radiating fires, with the candle on the table now partially dissolving the face of the student standing to its right. The importance of studying at night, and the diligence and introspection this implies, is again a primary theme. Another engraving after a Bandinelli design, The Combat of Cupid and Apollo,5 also places impor- tance on fire as a source of not only visual illumination, but as a symbol of philosophical and spiritual revelation. The recurrence of this motif has been regarded as indicative of Bandinelli’s neo-Platonic leanings; the flame symbolises divine Reason and its power to defeat the darker, profane vices of the human condition, allowing man to perceive true, celestial beauty, even while bound to the terrestrial realm.6 Indeed, the very concept of an academy is closely inter- twined with Neo-Platonism, as it was widely considered that the first academy founded since the end of classical times was that of Marsilio Ficino (1433–99) in Florence, which was specifically based on the philosophy and teachings espoused by Plato.7  Bandinelli himself is again represented, but he now stands at the far right, instructing the two students who face him. He also now wears the cross of St James, as befits a knight of the Order of Santiago, which he was awarded in 1530, and which is seen in his other self-portrait (cat. 3). The same insignia is placed prominently above the fireplace between the two cupids. Bandinelli’s design therefore takes on a more propagandistic role, and has been described by some scholars as a ‘manifesto’ for his academy.8 The staging here stresses Bandinelli’s nobility, humanism and sophistication, while the importance of copying from antique sculpture is rather downplayed, with the casts relegated to the margins of the scene. None of the artists is now looking at the casts; their focus is instead inward, as best exemplified by the figure who sits at the centre of the composition, with his head in his hand. Only one of the students’ drawings is visible, on the tablet of the standing apprentice at the centre of the scene, and the female nude emerging from his stylus is unrelated to any of the sculptures surrounding him, although clearly referring to a model all’antica. She must therefore be a product of his mind, and so the emphasis here is on the artist’s memory and imagination; the skeletons and antique sculptures were essential for building his graphic vocabulary of the human form, but they have been discarded now that he has successfully internalised them and no longer needs to copy them directly.9 The exercise of memory was one of the central principles of the pedagogical practices of the Italian Renaissance, going back as far as Leon Battista Alberti (1404– 72) and Leonardo (1452–1519).10 Giorgio Vasari (1511–74), in his Vite explicitly recommended that ‘the best thing is to draw men and women from the nude and thus fix in the memory by constant exercise the muscles of the torso, back, legs, arms and knees, with the bones underneath. Then one may be sure that, through much study, attitudes in any position can be drawn by help of the imagination without one having the living forms in the view’.11 The importance of memory was also stressed by Cellini in his treatise.12 There are three states of this print, differentiated by the inscriptions.13 In the first state, the inscription identifying Bandinelli as the designer on the left page of the book on the upper right is included, as is the address of the Roman pub- lisher, Pietro Palumbo, below the sleeping dog in the lower centre (not seen here). In the second state, Enea Vico’s name is added on the right-hand page of the same book, in a differ- ent script. In the final state, the name of Palumbo’s successor as the publisher of this print, Gaspar Alberto, is added below the skulls in the lower centre. Nicole Hegener believed there was an additional state between the first and second, repre- sented by a version at Yale in which Agostino’s Veneziano’s name was inscribed on the right-hand page of the book before it was replaced by Vico’s.14 However, it was noted in 2005 that this was added by hand in pen-and-ink, and was therefore just a modification of the first state of the print.15 The print exhibited here was also believed to be a unique   86 87 Fig. 1. Pierfrancesco Alberti, Painters’ Academy, c. 1603–48, etching, 412 × 522 mm, Rijksmuseum, Amsterdam, RP-P-1952-373  example of a state between the first and second, as both Bandinelli’s and Vico’s names are present on the book, but Palumbo’s is missing.16 However, close examination of the verso reveals extensive abrasion over the area where Palumbo’s address would have been. The inscription was therefore erased from this sheet, and does not reflect any changes to the original plate. It must, therefore, be an example of the second state, which was subsequently altered for an unknown reason. Palumbo’s name on the first state also makes the dating of this print difficult. On stylistic grounds, most scholars date it to c. 1545/50,17 but Palumbo was not active 1731: Cellini 1731, pp. 155–62 (on the study of the bones and muscles, pp. 157–62). See Olmstead Tonelli 1984, esp. p. 101. See also Schultz 1985; Ottawa, Vancouver and elsewhere 1996–97; London, Warwick and elsewhere 1997–98; Carlino 2008–09. Roman 1984, p. 91. See Appendix, no. 7 for the statutes of the Accademia di San Luca. Repr. in Panofsky 1962, fig. 107. Panofsky 1962, pp. 148–51. Goldstein 1996, p. 14. For the neo-Platonic movement during the Renais- sance, see Panofsky 1962, chap. 5. Compton Verney and Norwich 2009–10, p. 18; Florence 2014, p. 520. Thomas 2005, pp. 13–14; Houston and Ithaca 2005–06, p. 87. Alberti 1972, pp. 96–99 (book 3.55); Leonardo 1956, vol. 1, p. 47, chap. 65–66. See also Aymonino’s essay in this catalogue, p. 33. Brown 1907, p. 210; Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 1, pp. 114–15. Cellini 1731, p. 157. Bartsch mistakenly conflated the second and third states and therefore only listed two states (Bartsch 1803–21, vol. 15, pp. 305–06). He was corrected by Passavant (1860–64, vol. 6, p. 122, no. 49) and this is accepted by subsequent scholarship (i.e. Thomas 2005, p. 13). Hegener 2008, p. 405. Houston and Ithaca 2005–06, p. 88, note 1. See also Florence 2014, p. 530. Venator & Hanstein sale, Cologne, 3 November 1998, lot 2722. Pevsner remarks on the characteristic ‘Mid-Cinquecento Mannerism’ of Vico’s print in contrast to Veneziano’s style, which is reminiscent of Raimondi (Pevsner 1940, p. 40). The following agree on the approximate dates c. 1545/50: Weil-Garris 1981, p. 235; Thomas 2005, p. 13; Houston and Ithaca 2005–06, p. 86; Florence 2014, p. 530. Fiorentini suggested c. 1550 because after that date Vico used ‘sculptere’ on his works, rather than ‘sculpsit’ as here (Fiorentini 1999, p. 147). However, the form of Vico’s inscription as ‘Enea Vigo’ on this print is completely unique, as his other extant works are signed either ‘E.V.’, ‘Enea Vico’ or variations on ‘AENEAS VICUS’ (Thomas 2005, p. 13). Therefore we must be very cautious in making any assumptions based on this particular inscription. London 2001–02, p. 230. He continued working until c. 1586. Florence 2014, p. 531. 3. Anonymous, 16th-century Italian Artist After Niccolò della Casa (Lorraine fl. 1543–48) After Baccio Bandinelli (Gaiole, near Chianti 1493–1560 Florence) Self-Portrait of Baccio Bandinelli, Seated 1548 Engraving, 416 × 306 mm Datedl.c.:‘1548’;inscribedl.r:‘A.S.Excudebat.’;inscribedl.c.inpencil:‘No 7.’andbelowtor.inpencil:‘No 7’. With the initials of the publisher, probably Antonio Salamanca (1478–1562). provenance: Léon Millet, Paris (his stamp, not in Lugt, in blue ink on the verso: ‘Léon Millet / 13 rue des Abbesses’ and below, printed in black ink: ‘12 Mars 1897’);1 Bassenge, Berlin, 3 December 2003, lot 5155, from whom acquired. selected literature: Heinecken 1778–90, vol. 2, p. 90; Bartsch 1854–76, vol. 15, pp. 279–80; Nagler 1966, vol. 1, p. 542, under no. 1266; Le Blanc 1854-88, vol. 3, p. 414, nos. 1–2; Steinmann 1913, pp. 96-97, note 8; Florence 1980, pp. 264, 266, no. 690; Los Angeles, Toledo and elsewhere 1988–89, p. 76–77, no. 20; Fiorentini 1999, pp. 153–54, no. 34, fig. 34 (see also pp. 150–53, under no. 33); Fiorentini and Rosenberg 2002, p. 37, fig. 20, pp. 38, 42, 44; Houston and Ithaca 2005–06, pp. 32–34, no. 1 (J. Clifton); Hegener 2008, pp. 391–96, version II, fig. 57, p. 617–18, no. 16 (see also pp. 380–91, under version I); Florence 2014, pp. 526–27, no. 76 (T. Mozzati). before c. 1562 at Sant’ Agostino in Rome, Bandinelli’s death. Tommaso Mozzati speculated that Bandinelli transferred his design to Vico before 1546, when the engraver left Florence for Rome, and that the publication may have been delayed by a deteriorating relationship between the two artists.19 If Vico intentionally withheld the design until after Bandinelli’s death, it might explain how Palumbo became its first publisher more than a decade later. 1 2 Pevsner 1940, pp. 40–41; Houston and Ithaca 2005–06, p. 86. This engrav- ing, cat. 1 and Bandinelli’s own writings in his Memoriale are the only evidence we have for the existence of his academies (see cat. 1, note 1). Weil-Garris 1981, pp. 246–47, note 39. Cellini’s fragmentary treatise was probably written during the last two decades of his life but published only 88 89 which post-dates rh exhibitions: Not previously exhibited. Katrin Bellinger collection, inv. no. 2003-020 This engraving reproduces, in reverse and with variations in detail, an unfinished engraving by Niccolò della Casa, based on a lost drawing by Bandinelli.2 It is unclear why the Della Casa engraving, which is known in only a few impressions, was never finished. The present engraving is smaller than its model, resulting in a few compositional differences. It was attributed to Nicolas Beatrizet (c. 1507/15–1573) by Erna Fiorentini and Raphael Rosenberg and while this was accepted by James Clifton, it was rejected by Nicole Hegener and Tommaso Mozzati.3 Until further information comes to light, it is perhaps safer to attribute it to an unidentified Italian engraver working in Rome in the mid-16th century. Hegener identified a further state with the added inscription at centre right, ‘effigies / Bacci Bandinelli sculp / florentini’ and Karl Heinrich von Heinecken mentioned yet another without inscriptions (untraced).4 If Bandinelli’s self-portrait inserted among his students in his academies (cats 1–2) emphasises his role as teacher and mentor, this image speaks of a solitary and relentless self-promoter.5 By 1548, the engraving’s date, Bandinelli had achieved great success. He had served two Popes, Leo X (Giovanni de’ Medici) and Clement VII (Giulio de’ Medici), for whom he had carried out several important commissions including the classicising Orpheus and Cerberus (Palazzo Medici Riccardi, Florence, c. 1519) modelled after the Apollo Belvedere, the monumental Hercules and Cacus (Piazza della Signoria, Florence, 1523–34) and the papal tombs in Santa Maria sopra Minerva (1536–41).6 He was currently serving the Grand Duke Cosimo I de’ Medici. And yet, it was Baccio’s close alliance with the Medici, coupled with his on- going rivalry with Michelangelo, a staunch anti-Medicean Republican, and others, like Benvenuto Cellini (1500–71) that denied him the full respect and admiration of his Florentine contemporaries. His intense competitiveness and difficult character only exacerbated his contemporaries’ widespread dislike of him.7 Projecting strength, power and authority, this arresting image, clearly intended for circulation, was no doubt Baccio’s attempt to right those perceived wrongs.8 By fusing motifs from his own work with motifs from antique sculpture – absorbed and recast – Bandinelli sought to elevate his status and rank and to assert his position while defending his work by associating it with the art of Greece and Rome.9 The multi-layered and intertexual combination of themes and references that resulted contributes to the engraving’s enigmatic allure and demands careful interpretation. Significantly, it is the first image in the exhibition to demon- strate how Antique imagery could be used by an artist to promote his own art and his own achievements. The engraving shows us a man of great physical presence, seated as though enthroned. His elevation is enhanced by a rich costume – the luxurious fur-lined cloak nonchalantly slides off one shoulder – more typical of an aristocrat than an artist. Emblazoned on his chest is the cross of St James, the emblem of the prestigious 12th-century Spanish military Order of Santiago, conferred on Bandinelli in 1530 by the Holy Roman Emperor Charles V who over- ruled protests that it was unmerited. Bandinelli took great pride in the honour, justifiably, since he was the only artist to be awarded the cross of St James, which he included in other self-portraits (see cat. 2).10 Immediately below the sharp lower point of the cross his prominent codpiece protrudes  through the folds of his tunic, an unsubtle reference to his virility. His ‘progeny’ – a selection of his small models and statu- ettes – are seen throughout. Proprietorially and prominently cradled, and elevated on its own column base, is the figure of Hercules, the son of Zeus, who heroically carried out the Twelve Labours. Hercules played a central role in Bandinelli’s work.11 His near obsession with the demi-god, the embodi- ment of strength in the face of adversity, is demonstrated in Hercules’ constant appearance – in bronze, marble, stucco and drawing – throughout Bandinelli’s career.12 And since Hercules was the mythical founder of Florence and an exemplum much favoured by the Medici, in linking his own image so closely to the hero, Bandinelli was also referencing his association with his native city and its ruling house.13 Hercules was the perfect foil to David, another protector of Florence, and to represent the hero gave Baccio the opportu- nity to display his mastery of the muscular male nude in heroic and often violent action. Bandinelli also holds a rather different figure of Hercules in the della Casa engraving, c. 1544 and in his grand painted self-portrait of c. 1550 (Isabella Stewart Gardner Museum, Boston) he proudly displays a preparatory drawing for the Hercules and Cacus his most spectacular and ambitious sculpture.14 This colossal group, – a pendant to Michelangelo’s David – and a commission that he had taken away from Michelangelo, brought him considerable fame despite the unfavourable reception that it received on its unveiling in 1534.15 In effect, Hercules was Bandinelli’s calling card and his prominence in his self-portraits is unsurprising.16 Small-scale, classicising models made in wax and terra- cotta such as those seen here and in his other prints (cats 1–2), were central to Bandinelli’s work as tools for teaching, and as preparation for large-scale sculpture; many were translated into bronze, as independent statuettes.17 Here, for example, the pose of the male nude seen from behind standing in contrapposto at the right anticipates that of Adam in Baccio’s Adam and Eve group of 1551 (Bargello, Florence).18 Perhaps because Bandinelli was still working out the pose or perhaps to give the figure the aura of a damaged antique, the left arm is missing below the elbow; several of the other figurines in the engraving derive from the Antique but have been, as it were, naturalised into Bandinelli’s own idiom. On equal footing with the statuette of Hercules that he holds are the two standing female nudes on the left, also elevated on a column shaft. They derive from the Cnidian Venus of the 4th century bc, among the most famous works of the Greek sculptor, Praxiteles, which was probably known  Fig. 1. Baccio Bandinelli, A Standing Female Figure, c. 1515, red chalk, 410 × 242 mm, private collection, Switzerland Fig. 2. Giulio Bonasone, Saturn Seated on a Cloud Devouring a Statue, c. 1555–70, etching and engraving, 254 × 154 mm, The British Museum, Department of Prints and Drawings, London, H,5.137 Fig. 3. Anonymous, Ferrarese School, Fortitude, playing card, c. 1465, engraving, 179 × 100 mm, The British Museum, Department of Prints and Drawings, London, 1895,0915.36    90 91   Fig. 4. Amico Aspertini, Lion Attacking a Horse, pen and light brown ink, 107 × 146 mm, Staatliche Museen, Kupferstichtkabinett, Berlin, KdZ 25020 to Bandinelli through a Roman copy.19 Intent on demonstrat- ing his full knowledge of the statue Baccio presents one woman frontally, while the other, headless, is seen from behind.20 Slim and regularly proportioned, the Cnidian Venus was Bandinelli’s preferred female type and examples abound in his sculpted and graphic work.21 A highly finished red chalk drawing (private collection Switzerland, fig. 1) compares well with the engraved nude on the left.22 The foreground is occupied with further statuettes: another Hercules stands on a pedestal on the left and five male torsos are scattered on the ground at his feet. While they loosely evoke the Antique – the two on the lower left, for example, recall the Belvedere Torso (p. 26, fig. 23), they have become generalised.23 Headless and limbless, like antique fragments, they suggest once more that Bandinelli was equating his work with that of the ancients. The lion has been interpreted diversely and Bandinelli may well have intended multi-layered interpretation. It has widely been seen as a heraldic Medici lion (marzocco) and, as such, a reference to Bandinelli’s favoured position with the Medici as well as his loyalty to their regime.24 Interpreted as devour- 25 ing a lower thigh and knee, the lion has also been seen as a symbol of the artist’s prowess in sculpture. A more complex explanation suggests a link with Saturn devouring a boulder, a subject illustrated in a print by Giulio Bonasone (fig. 2), which is accompanied by the motto, ‘in pulverem reverteris’ (‘unto dust shalt thou return’).26 As such, Bandinelli is not merely subjugating a wild animal but also triumphing over Time.27 More simply, the lion may also refer to Bandinelli’s favourite hero, Hercules, who conquered the Nemean lion, or evoke Fortitude whose traditional attributes were a lion and a broken column, here transformed into a plinth (fig. 3).28 Finally, it may be that Bandinelli was again referencing the Antique: the Lion Attacking a Horse – part of a colossal Hellenistic group (Palazzo dei Conservatori, Rome) – in Bandinelli’s day, a limbless fragment on the The fragment was considered ‘of such excellence that Michelangelo judged it to be most marvellous’.31 There has been much speculation about Bandinelli’s pose in the engraving. It might, in fact, refer to the Belvedere Torso,32 as ‘restored’ in an engraving by Giovanni Antonio da Brescia (1485–1525) of c. 1515 (fig. 5).33 The arrangement of his legs is also close, in reverse to that of Laocoön, (p. 26, fig. 19), a direct copy of which, in marble (c. 1520–25, Florence, Uffizi) com- missioned by Leo X, was one of Baccio’s greatest successes.34 His preparatory drawing for the sculpture also in the Uffizi (fig. 6) shows him seated in a comparable pose as seen here.35 Once again, therefore, we see the sculptor referencing and promoting his own work, employing the associative authority of Antique imagery. In sum, Bandinelli presents himself here not only with the strength and fortitude of a modern Hercules who successfully vanquished his adversaries but also as the greatest, most recognisable hero- martyr and father from antiquity, Laocoön, with his sculpted ‘offspring’ triumphant. Weil-Garris 1981, pp. 236–37. For the painting, see O. Tostmann, in Florence 2014, pp. 510–13, no. 69, repr.; Mozzati 2014, pp. 458–63. For a full discussion of the statue, see Vossilla 2014, pp. 156–67, repr.; Florence 2014, p. 573, no. VII. For Herculean imagery in the engraving, see Hegener 2008, pp. 382–86, 389–91, 395–96. Barkan 1999, p. 304; Krahn 2014, pp. 324–31. As first observed by Bruce Davis in Los Angeles, Toledo and elsewhere 1988–89, p. 77. For the sculpture, see D. Heikamp, in Florence 2014, pp. 314–15, no. 22, repr. He also appears, in adapted form, in other works by the sculptor (Fiorentini 1999, p. 152). First noted by B. Davis, in Los Angeles, Toledo and elsewhere 1988–89, p. 77; Barkan 1999, pp. 308–09, fig. 5.19. One half expects to see to a third figure to complete the ‘Three Graces’. On the use of this double-view and his drawings that may relate to these figures, see Fiorentini 1999, pp. 151–52. Barkan 1999, pp. 309–12; V. Krahn, in Florence 2014, pp. 356–59, no. 28. B. Davis in Los Angeles, Toledo and elsewhere 1988–89, p. 77. The drawing was formerly with Yvonne Tan Bunzl (Bunzl 1987, no. 5, repr.; see also V. Krahn, in Florence 2014, p. 356, fig. 1). Other copies by Bandinelli after the same statue, one in red chalk, the other, in pen and ink, are on a double- sided sheet in in the Biblioteca Reale, Turin (Bertini 1958, p. 17, no. 37; Barkan 1999, p. 311, figs. 5.21, 5.22). The same Cnidian Venus type occurs at left in his drawing, Four Female Nudes, in the Art Gallery of Toronto, 2006/432 (repr. in Aldega and Gordon 2003, p. 8, no. 1). A woman very similar to that engraved at left both in pose, body type and hairstyle, appears on a sheet in the Louvre, formerly classed as Bandinelli and now given to Giovanni Bandini (1540–1599), Viatte 2011, pp. 246–47, R2, repr. Houston and Ithaca 2005–06, p. 34. Of course, they could also be a further Herculean reference, as the Torso was in the Renaissance believed to be that of Hercules (Haskell and Penny 1981, p. 313). Fiorentini 1999, p. 150, followed by Hegener 2008, p. 388, considered one of the torsos, the second from the left, to be based on the torso of a satyr now in the Villa Barbarini, Castel Gandolfo, Rome, which was in the Ciampolini collection in the Renaissance (Liverani 1989, pp. 92, no. 34, 94–95, figs. 34.1–4). Given the differences in pose, the present author cannot accept this view. Bandinelli adapted the pose of the Torso Belvedere for his red chalk drawing, A Nude Man, Seated on a Grassy Bank in the Courtauld Gallery, as noted by Ruth Rubinstein (Cambridge 1988, pp. 26–27, no. 8, repr.); see also Barkan 1999, pp. 308–09, fig 5.17. Hegener 2008, p. 383. Houston and Ithaca 2005–06, p. 34. T. Mozzati, in Florence 2014, p. 527, who reports that this view is shared by Mino Gabriele. That author notes (repeating Massari 1983, p. 125) that the concept is paralleled in a passage from Ovid’s Metamorphosis (15.236–38). However, it is also part of a famous passage from Genesis 3:19: ‘In the sweat of thy face shalt thou eat bread, till thou return unto the ground; for out of it wast thou taken: for dust thou art, and unto dust shalt thou return.’ For the print, see Massari 1983, vol. 1, p. 125, no. 223, repr. T. Mozzati, in Florence 2014, p. 527, who also considers that Bandinelli holds a complete statuette, not a fragment like the others in the print, as a modern manifestation of classicism. Zucker 1980, p. 185, no. 53-A (136), repr.; Zucker 2000, p. 47, .036a. See also Ripa’s illustrated edition of 1603 (Buscaroli 1992, pp. 142–44, repr.). Fiorentini 1999, p. 151; Hegener 2008, p. 383. For the statue: Haskell and Penny 1981, pp. 250–51, no. 54, fig. 128; Bober and Rubinstein 2010, pp. 236–37, no. 185. Faietti and Kelescian 1995, pp. 220–21, no. 4; Bober and Rubinstein 2010, p. 237, fig. 185a. Aldrovandi 1556, p. 270, cited and translated by Bober and Rubinstein 2010, p. 236. As proposed by Hegener (2008, pp. 380, 382, 389–90) who considered his arms to be based on those of Christ in Michelangelo’s Last Judgment. Zucker 1980, p. 78, no. 5 (100), repr.; Zucker 1984, pp. 350–51, .028, repr. The pose also anticipates Bandinelli’s God the Father sculpture of the 1550s in S. Croce, Florence (Florence 2014, pp. 595–98, no. XVIII, repr.). Although intended as a gift for François I, it never reached its intended recipient and remained with the next Pope Clement VII, in Florence. Bober and Rubinstein 2010,pp. 165–66, no. 122b. Capecchi (2014, pp. 129–55) provides a thorough account of the project. D. Cordellier, in Paris 2000–01, pp. 237–40, no. 74, repr. 29 Aspertini (1472–1552) (fig.4; Kupferstichtkabinett, Berlin).30 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 avl Rhea Blok has noted (e-mail, 12 August 2014) that the same collector’s mark is found on Henri Mauperché’s etching, L’Ange conseillant Tobie, with A. & D. Martinez (Paris 2003, p. 5, no. 20) and a print by Vincenzo Mazzi (Stage Set from the Caprici Teatrali, Bologna, 1776) in the Metropolitan Museum of Art, New York, 66.500.27. It also appears on the reverse of the drawing by Hubert Clerget, La Maison de Boucher, rue Carnot à la Ferte-Bernard, with C. J. Goodfriend, New York, in 2014. Fiorentini 1999, pp. 150–53, no. 33; Fiorentini and Rosenberg 2002, p. 36, fig. 19; Hegener 2008, pp. 380–91, version I, fig. 221, p. 617, no. 15. J. Clifton in Houston and Ithaca 2005–06, pp. 32–34, no. 1; Hegener 2008, p. 391; Mozzati in Florence 2014, pp. 526–27, no. 76. Erna Fiorentini previously attributed it to Casa with a query (1999, p. 153). Hegener 2008 p. 618, no. 17, fig. 226; Heinecken (1778–90, vol. 2, p. 90). For his portraiture and use of it for self-promotion, see Weil-Garris 1981, pp. 237–38; Weil-Garris Brandt 1989; Mozzati 2014, pp. 452–63. Florence 2014, p. 568, no. III; p. 573, no. VII; pp. 576–81, nos IX.-X. (R. Schallert). The Orpheus and his copy of the Laocoön (ibid., p. 571, no. V) earned his reputation as ‘a great young talent who can export the Belvedere’. (Barkan, 1999, p. 279). His personality is revealed in his letters and the lengthy account in Vasari’s Lives (Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 5, pp. 238–76). See also Weil-Garris 1981, pp. 223–24; Weil-Garris Brandt 1989, p. 497. Along with the date, 1548, the engraving bears the initials and inscription, ‘A.S.Excudebat.’, presumably Antonio Salamanca, the leading publisher of prints in Rome in the mid-16th century (Fiorentini and Rosenberg 2002, p. 38). Many of the prints he published were of Roman antiquities. See London 2001–02, p. 233; Pagani 2000; Witcombe 2008, pp. 67–105. Weil-Garris 1981, p. 231; Weil-Garris Brandt 1989, p. 497. For a fundamental discussion of Bandinelli and the Antique, see Barkan 1999, pp. 271–408. Weil-Garris Brandt 1989, pp. 497, 499–500. Weil-Garris 1981, p. 237. See V. Krahn, in Florence 2014, pp. 372–75, cat no. 32 who further notes the similarity between the Hercules appearing in outline leaning on his club at right in the unfinished print by Niccolò della Casa (Fiorentini and Rosenberg 2002, p. 36, fig. 19), and Bandinelli’s Hercules with the Apple of the Hesperides, c. 1545, in the Bargello in Florence (ibid., pp. 372–75, cat. no. 32, repr.). There are many other engraved representations of Hercules subjects by or based on Bandinelli, who evidently planned a series, as noted by Roger Ward (in Cambridge 1988, p. 74, under cat. no. 42). See also M. Zurla, in Florence 2014, pp. 388–93, cat. nos 37–39. Weil-Garris 1981, p. 237; Houston and Ithaca 2005–06, p. 34. Campidoglio – freely interpreted by artists like Amico   92 93 Fig. 5. Giovanni Antonio da Brescia (fl. 1490–1519), The Belvedere Torso with Legs and Feet, as Hercules, c. 1500–20, engraving, 166 × 103 mm, The British Museum, Department of Prints and Drawings, London, 1845,0825.258 Fig. 6. Baccio Bandinelli, Laocoön, pen and brown ink, 1520s, 417 × 265 mm, Uizi, Florence, inv. 14785 F (recto)  4a. Jan van der Straet, called Johannes Stradanus (Bruges 1523–1605 Florence) The Practice of the Visual Arts 1573 Pen and brown ink with brown wash and white heightening with touches of grey, incised for transfer 436 × 293 mm Inscribed recto, l.c., in pen and brown ink, in reverse sense: ‘io stradensis flandrvs in 1573 cornelie cort excv’ provenance: Sir H. Sloane bequest, 1753. literature: Hind and Popham 1915–32, vol. 5, p. 182, no. 1; Ameisenowa 1963, p. 58; Wolf-Heiddeger and Cetto 1967, p. 171, no. 73, repr. on p. 431; Heikamp 1972, p. 300 and fig. 1 on p. 302; Heidelberg 1982, p. 29, no. 52, pl. 1 on p. 17; Sellink 1992, p. 46; Rotterdam 1994, pp. 195–99 (in Dutch), pp. 200–05 (in English), fig. a on p. 204; Baroni Vannucci 1997, pp. 63–64, 247, no. 313, repr. on p. 246. exhibitions: Florence 1980, p. 213, no. 523, not repr. (G. G. Bertelà); London 1986, no. 144, repr. on p. 193 (N. Turner); Ottawa, Vancouver and elsewhere 1996–97, pp. 148–49, no. 39 (M. Kornell); London, Warwick, and elsewhere 1997–98, pp. 19, 25, 119, no. 142 (D. Petherbridge and L. Jordanova); London 2001–02, p. 21, no. 4 (M. Bury); Bruges 2008–09, pp. 227–28, no. 20 (A. Baroni). The British Museum, Department of Prints and Drawings, London, SL,5214.2 exhibited in london only 4b. Cornelis Cort (Hoorn 1533–before 1578 Rome) After Jan van der Straet, called Johannes Stradanus (Bruges 1523–1605 Florence) The Practice of the Visual Arts 1578 Engraving State I of II1 432 × 295 mm Inscribed recto, l.c., on wooden box: ‘Cornelius Cort fecit. / 1578’; along bottom: ‘Illmo et Exmo Dn ́o Iacobo Boncompagno Arcis Praefecto, ingenior, ac industriae fautori, Artiú nobiliú praxim, á Io, Stradési Belga artifiosè expressá, Laureti’ Vaccarius D.D. Romae Anno 1578.’; u.r.: ‘PICTVRA’; c.l. on table in background: ‘FVSORIA’; u.c. below statue: ‘STATV ARIA’; l.l. on table: ‘ANATOMIA’; below statue of horse: ‘SCVLPTVRA’; c.r. on book on table: ‘ARCHITECTVRA’; r. on paper on table: ‘Typorum eneorum / INCISORIA’; l.c. on stool: ‘Tyrones pi / cture’. provenance: possibly entered Rijksmuseum collection late 19th century (L.2228)2 literature: Hind and Popham 1915–32, vol. 5, p. 182; Bierens de Haan 1948, p. 199, no. 218, fig. 53; Hollstein 1949–2001, vol. 5, p. 58, no. 218, repr.; Ameisenowa 1963, p. 58; Wolf-Heiddeger and Cetto 1967, pp. 171–72, no. 74, repr. on p. 431; Heikamp 1972, p. 300, fig. 2 on p. 302; Strauss 1977, vol. 1, pp. 278–79, repr.; Florence 1980, p. 213; Parker 1983, pp. 76–77, repr. (as state II); Roman 1984, pp. 88–91, fig. 69; Strauss and Shimura 1986, p. 249, 218.199; Liedtke 1989, p. 190, no. 53, repr. on p. 191; Sellink 1992, p. 46, fig. 18 on p. 47; Rotterdam 1994, pp. 195–99 (in Dutch), pp. 200–205 (in English), no. 69; Ottawa, Vancouver and elsewhere 1996–97, pp. 148–51, no. 40; Baroni Vannucci 1997, pp. 63–64, 436, no. 772; Sellink and Leeflang 2000, part 3, pp. 118–19, no. 210; London 2001–02, pp. 18–21, no. 3; Munich and Cologne 2002, pp. 321–22, no. 112; Wiebel and Wiedau 2002, p. 154, repr. on p. 155; Perry Chapman 2005, p. 116, fig. 4.7 on p. 117. exhibitions: Vienna 1987, p. 320, no. VII.25 (M. Boeckl); Amsterdam 2007, no. 5 (C. Smid and A. White); Bruges 2008–09, no. 21 (A. Baroni); Compton Verney and Norwich 2009–10, pp. 18–19, no. 16. their careers in Italy. Jan van der Straet was born in Bruges in 1523, but we know very little of his life before he arrived in Italy around 1545.4 He settled in Florence but worked in both Rome and Naples, and became a close collaborator of Giorgio Vasari (1511–74), assisting him in the decoration of the Palazzo Vecchio and at Poggio a Caiano. Like Vasari, Van der Straet was immensely versatile, working on paintings and portraits, making cartoons for tapestries and creating hundreds of designs for prints. He died in Florence in 1605, and is better known to posterity by the Italianised version of his name, Johannes Stradanus. He nevertheless maintained his Flemish identity by signing his works with variations of ‘FLANDRUS’, as seen in the exhibited drawing; however, it is difficult to decipher, because Stradanus wrote the inscrip- tion in reverse. This is clear evidence that the drawing was intended as a design for a print. All the figures use their left hands, which is further proof, as are the clear indentation lines made to transfer the design to the plate. Stradanus’ inscription is dated 1573, and includes the name of the Dutch- man Cornelis Cort, who would engrave the drawing five years later, in 1578.5 Cort is first documented working in the printing house of Hieronymous Cock (c. 1510–70) in Antwerp, around 1553, before he travelled to Italy in 1565.6 At first he worked in Venice, where he formed a famous partnership with Titian (c. 1488–1576), but he later moved to central Italy. Cort probably met Stradanus in 1569 in Florence, where the Medicis had requested his presence to engrave their family tree.7 In the engraving, Cort moved his own name to the block at the centre foreground, where he also inscribed the date 1578. Stradanus’ inscription was replaced by one from the publisher, Lorenzo Vaccari (active 1575–87), dedicating the work to Giacomo Boncampagni, Prefect of the Castel Sant’Angelo and son of the newly appointed Pope Gregory XIII (r. 1572–85).8 Cort made several further changes to Stradanus’ design, the most obvious of which are the inscriptions added to clarify the various activities being conducted around the room. Thus we can identify the three arts of disegno taking place in one institution, with painting (‘PICTVRA’) on the wall, sculpture (‘STATVARIA’ and ‘SCVLPTVRA’) on the plinths in the centre, and architecture (‘ARCHITECTVRA’), which is given short shrift, repre- sented only by the man seated at the table before the Venus, holding a pair of dividers. The architect is in fact overshad- owed by the unusual addition beside him of a seated engraver, whose burin rests on the corner of the table next to the more prominent inscription ‘Typorum eneorum INCISORIA’. Michael Bury thought this focus on engraving was added at Cort’s urging,9 but Stradanus, as the inventor of more than 560 designs for prints, may himself have decided to place unprecedented emphasis on the graphic arts.10 Of the three genres of painting – landscape, portraiture and history paint- ing – the latter was considered the most admirable, and so it is appropriate that the painting on the wall depicts an ancient battle scene. Sculpture is depicted hierarchically, with prom- inence given to the grand marble sculptures atop the plinth, distinguished from the lesser arts of wax modelling and bronze casting, embodied by the rearing horse below. While the older bearded masters are at work within their individual disciplines, their true purpose is to guide the next generation of artists – the young, clean-shaven students scattered around the room. The foreground is therefore occupied with training exercises, as the pupils learn to draw after the Antique and the human body before attempting the loftier projects of sculpture and painting, exemplified in the upper back registers of the scene. The role of the Antique is actually more prominent in the print than in the drawing, as the statuette of Venus – which, like the statuettes in Bandinelli’s academies (cats 1 and 2), is probably all’antica rather than an antique original – meets the gaze of a young pupil, whose quill is poised to draw her. This same youth in Stradanus’ design has already filled his sheet with repeated sketches of eyes. This reflects a different practice, referred to as the ‘alphabet of drawing’, in which students were encouraged to start with the smallest part of the human body, usually the eyes, gradually building up a repertoire of the individual parts before assembling them into more complex configurations. In the same way, a writer must first learn the alphabet and how to form indi- vidual letters into words before being able to construct sentences. Benvenuto Cellini (1500–71) described this as a common practice: ‘The teachers would put a human eye in front of those poor and most tender youths as their first step in imitating and portraying; this is what happened to me in my childhood, and probably happened to others as well’ . 1 1 His statement is corroborated not only by Stradanus’ drawing, but by a similar youth in Pierfrancesco Alberti’s (1584–1638) etching of a studio (cat. 2, fig. 1) and by a sheet of eyes from Odoardo Fialetti’s (1573–1638) drawing-book (p. 34, fig. 37). Stradanus repeated the youth and his drawing of eyes in another design for a print, which appeared in a series called Nova Reperta, published by Philips Galle (1537– 1612) in the 1590s (fig. 1). This ‘A B C ’ technique of drawing, as well as the important role of the Antique, were codified in Federico Zuccaro’s (c. 1540–1609) first statutes for the Accademia di San Luca, ‘re-founded’ in Rome in 1593.12 The idea of progressing from simple elements to a complex whole originated with Leon Battista Alberti (1404–72), and he recommended a similar method for the study of human anatomy, starting with the bones before adding muscles and Rijksmuseum, Amsterdam, RP-P-BI-6381 exhibited in haarlem only This crowded, idealised vision of a workshop for training artists is the natural successor to the earlier academies depicted by Baccio Bandinelli (cats 1 and 2). The Antique still plays a prominent role, seen in the large marble statues in the centre depicting Rome personified next to the river god Tiber, both based on the well-known sculptures in the Capitoline,3 and by the statuette of a Venus Pudica type with her back to us standing on the table in the foreground. Equal importance, however, is accorded to the study of anatomy, 94 and the young pupils in the foreground focus their attention on the skeleton and cadaver suspended from ropes and pulleys. This reflects the later 16th-century emphasis on the study of anatomy as an integral part of the artist’s education , a tendency that was already evident in the skeletons added to Bandinelli’s second academy print (cat. 2), and which is fully realised in this scene. The drawing and print catalogued here were produced in close collaboration by two Northern artists who both made 95    96 97  finally flesh.13 The students in Stradanus’ drawing are dili- gently following these instructions by examining the bones of a skeleton, while a bespectacled tutor flays the arm of a corpse to grant them a view of the musculature. Regardless of which object they are studying, all the pupils are engaged in drawing, considered to be the essential element in their education. Stradanus’ design is therefore an allegory of the ideal academy, in which all of the arts are improbably combined under one roof to offer the most well-rounded and comprehensive instruction to the next generation of artists. Detlef Heikamp, however, believed it to represent a specific academy, the Accademia di San Luca in Rome, and to be the pendant to another drawing by Stradanus, now in Heidelberg, depicting the Accademia del Disegno in Florence (fig. 2).14 Most other scholars disagree, however, as the Accademia di San Luca was not officially founded until 1593, exactly 20 years after the drawing was made.15 The drawing also predates a Breve issued by Pope Gregory XIII in 1577, urging the foundation of such an academy.16 Heikamp was correct, however, in pointing out the Roman symbolism of this drawing, evident in the grand statue of Rome personified, based iconographically on Minerva, flanked by the river god Tiber and the she-wolf suckling Romulus and Remus. The Heidelberg drawing, by contrast, is decidedly Florentine, showing Brunelleschi’s dome, the river god of the Arno and the Florentine lion, the Marzocco. However, the two drawings are very different Fig. 2. Johannes Stradanus, Allegory of the Florentine Academy of Art, c. 1569–70, pen and brown ink, brown wash and white heightening, 465 × 363 mm, Kurpfälzisches Museum der Stadt Heidelberg, Inv. Nr. Z 5425 in size,17 and the consensus of opinion is that they are not a pair, representing separate allegorical, idealised Roman and Florentine teaching traditions.18 Stradanus himself was a founding member of the Accademia del Disegno, which opened in 1563 in Florence. The study of anatomy was a central precept of the Acca- demia, and, while acting as a consul in the winter of 1563, Stradanus was responsible for organising a dissection for the students.19 His experience guiding and shaping young Florentine artists must have informed his designs. Perhaps Stradanus was compelled to portray such an academy in which the three arts of disegno are exalted and glorified in order to allay growing concerns about the status of art and artists.20 Alessandra Baroni made the radical proposal that Cort was the driving force behind the project, and that it was conceived around 1569 when he and Stradanus were both working in Florence.21 The Medicis commissioned Cort to engrave their family tree, and while he was in Florence he created a series of prints with Florentine and Medici themes, including engravings of tombs in the Medici Chapel. Cort may have undertaken these projects on his own initiative, and the Heidelberg drawing would have made a fitting addition to the series. An engraving of it, however, was never executed, perhaps because a receptive audience could not be found, but in Rome four years later, Cort may have found a more conducive atmosphere and convinced Stradanus to resume the endeavour. Whatever the motiva- tion, the design proved very popular, as evidenced by the existence of two early copies of the engraving, the first of 22 which was published in Venice around 1580. Clearly, Italian audiences were fascinated by the subject of art and the requisite training necessary for its creation, in which the Antique played a pivotal role. The second state was printed 200 years later, when the plate came into the possession of Carlo Losi, who changed the date on it to 1773 (Bruges 2008–09, p. 229). I am grateful to Erik Hinterding, Curator of Prints at the Rijksmuseum, for his correspondence regarding this provenance. Bober and Rubinstein 2010, pp. 89–90, no. 42 and pp. 113–14, no. 66. Janssens 2012, pp. 9–10. Karel van Mander’s biography of Van der Straet is very brief (Van Mander 1994–99, vol. 1, pp. 326–29). A better source is Borghini 1584, pp. 579–89. There is an excellent chronology of his life, including lists of the related archival documents, in Baroni Vannucci 1997, pp. 446–51. The inscription ‘CORNELIS CORT EXCV’ suggests that Cort had intended to publish the print himself. He may have struggled to do so, explaining the five-year gap between the date of the drawing and the pub- lication of the print, and it was published by another man, Lorenzo Vaccari (Bruges 2008–09, pp. 228–29). It may even have been published post- humously, as Cort died in 1578 (Sellink and Leeflang 2000, part 3, p. 119). For Cort’s biography, see Thieme-Becker 1907–50, vol. 12, pp. 475–77. Cock was also the first publisher with whom Stradanus worked, in 1567, and they had a long partnership (Baroni 2012, p. 91). Bruges 2008–09, p. 228. Boncompagni was appointed to this post in 1572, and in April 1573 was promoted to Governor General of the Church. It is strange that the inscrip- tion added to the print in 1578 refers to Boncompagni by the lesser title of Prefect, which Michael Bury took as proof that the print was more likely to have been executed in 1573, the same year as the drawing. He thought it possible that the ‘3’ had simply been changed to an ‘8’ in the date 1578 on the stool; however there are no extant 1573 versions of the print (London 2001–02, pp. 18, 21). London 2001–02, p. 18. Leesberg 2012a, p. 161. Amornpichetkul 1984, p. 117 and Cellini 1731, p. 141. Cellini went on to say he considered this a ‘poor method’ but he agreed on the means of building up the bones of a skeleton in order to draw a successful nude. See also Aymonino’s essay in this catalogue, pp. 33–34. Appendix, no. 7. Alberti 1972, p. 75 (book 2, chap. 36) and p. 97 (book 3, chap. 55). Heikamp 1972, p. 300. It is true that for decades the idea for such an institution had been simmer- ing, especially at the behest of Federico Zuccaro, a founding member of the Accademia del Disegno in Florence. He was unhappy with its tenets and sought reforms, eventually simply founding the Accademia di San Luca instead (Pevsner 1940, pp. 59–60). Heikamp’s theory has been rejected in London 2001–02, p. 21 and Bruges 2008–09, p. 226. The Pope decried the level of decadence in contemporary art and blamed it on defective training of young artists, arguing that if they had been properly instructed in both art and religion, they would not sink to such lows (Pevsner 1940, p. 57). The Heidelberg drawing is much larger and measures 465 × 363 mm. The figures in the Heidelberg drawing also all use their left hands, so it must have been intended for a print; however, no such print has come to light (London 2001–02, p. 21). Ottawa, Vancouver and elsewhere 1996–97, p. 148. Rotterdam 1994, p. 200. Bruges 2008–09, pp. 226–27. Bruges 2008–09, p. 229. For a list of the copies, see Sellink and Leeflang 2000, part 3, p. 119. For the practice of copying after Stradanus’ prints, see Leesberg 2012a.   98 99 Fig. 1. Published by Philips Galle after a design by Johannes Stradanus, Color Olivi, plate 14 in Nova Reperta series, c. 1580–1600, engraving, 201 × 271 mm, private collection  5. Federico Zuccaro (Urbino c. 1541–1609 Rome) Taddeo in the Belvedere Court in the Vatican Drawing the Laocoön c. 1595 Pen and brown ink, brush with brown wash, over black chalk and touches of red chalk, 175 × 425 mm Inscribed recto in brown pen and ink by the artist on the building in the background: ‘le camore di Rafaello’; on the figure’s tunic in capital lettering, ‘THADDEO ZUCCHARO’; numbered u.r. in brown ink: ‘17’. provenance: Gilbert Paignon Dijonval (1708–92); Charles-Gilbert, Vicomte Morel de Vindé (1759–1842), see L. 2520; Samuel Woodburn (1786–1853), 1816; Thomas Dimsdale (1758–1823), see L. 2426; Samuel Woodburn, 1823; Sir Thomas Lawrence (1769–1830), L. 2445; Samuel Woodburn, 1830; Sold Christie’s, London, 4 June 1860, part of lot 1074; bought by Sir Thomas Phillipps (1792–1872); Thomas Fitzroy Fenwick (1856–1938); Dr A. S. W. Rosenbach (1876–1952), 1930; Philip H. and A. S. W. Rosenbach Foundation until 1978; The British Rail Pension Fund, 1978; Their sale, Sotheby’s, New York, 11 January 1990, lot 17; Finacor, Paris; Their sale, Christie’s, London, 28 January 1999, part of lot 35 (no. 17), from whom acquired. selected literature:1 Rossi 1997, p. 64; Acidini Luchinat 1998, vol. 1, pp. 14, 16, 22, fig. 20; vol. 2, p. 225; Paul 2000, pp. 5–6, fig. 1; Paris 2000–01, pp. 379–80, under no. 185 (C. Scailliérez); Silver 2007–08, p. 86; Lukehart 2007–08, p. 105; Cavazzini 2008, p. 50, fig. 26; Tronzo 2009, pp. 49, fig. 6, 52–54; Deswarte-Rosa 2011, pp. 27–28, 31, fig. 4; Pierguidi 2011, pp. 29–30, fig. 3; Luchterhandt 2013–14, pp. 38–39, fig. 11. exhibitions: London 1836, p. 11, no. 17, not repr.; Los Angeles 1999 (no catalogue); Rome 2006–07, pp. 159–60, no. 51 (M. Serlupi Crescenzi); Los Angeles 2007–08, pp. 24, 33–34, no. 17 (see also, pp. 7, 40, 70, 86, 127). Fig. 1. Apollo Belvedere, Roman copy of the Hadrianic period (117–138 ad) from a Greek original of the 4th century bc, marble, 224 cm (h), Vatican Museums, Rome inv. 1015 Fig. 2. Laocoön, possibly a Roman copy of the 1st century ad after a Greek original of the 2nd century bc, marble, 242 cm (h), Vatican Museums, Rome, inv. 1064   The J. Paul Getty Museum, Los Angeles, 99.GA.6.17 exhibited in london only Look here, O Judgment, how he observes the antique and Polidoro’s style as well as Raphael’s work he studies. (Ecco qui, o Giuditio, osservando Va de l’antico, e Polidoro il fare E l’opre insiem di Rafael studiando)2 The series of twenty drawings by Federico Zuccaro of his older brother, Taddeo (1529–66), is a unique treasure of Renaissance drawing.3 With cinematic realism and narrative flair, the drawings tell the story of Taddeo’s travails and even- tual success as a young artist in Rome in the 1540s. It begins with his heart-rending departure at fourteen from the family home in S. Angelo in Vado, a provincial town in the Marches, and his arrival in the Eternal City. There Taddeo sets about following the prescribed course of study typical for any aspir- ing painter of the period. First, he apprentices with a local painter, performing menial tasks – preparing pigments and household chores – and finding time to draw, mostly only at night. After being mistreated by the painter’s wife, he escapes to discover Rome for himself. He assiduously copies statues and reliefs from classical antiquity and the work of contem- porary masters including the frescoes in the Logge and the Stanze of the Vatican by Raphael, the Last Judgment by Michelangelo and façade paintings by Polidoro da Caravaggio. After much focused and disciplined study, he triumphs victoriously with his first major success: the painted façade of Palazzo Mattei (1548). And this is where the story ends (Taddeo would die prematurely of illness at the age of thirty-seven). In this drawing, number seventeen, we enter the story in medias res. Here Taddeo, affectionately identified by name on his tunic, is at Vatican Belvedere Statue Court studying the most iconic antique sculptures of the day: the Apollo Belvedere on the left (fig. 1; see also pp. 25–26), the Nile and Tiber in the centre and the object of his attention, possibly the most famous work in the collection, the Laocoön on the right (fig. 2; see also pp. 25–26).4 With his back turned, we peer voyeuristi- cally over his shoulder as he draws intently. He has settled in for a day of intense study; his meagre sustenance, a small loaf of bread and flask of wine on the ground next to him, has remained untouched. The notion of the artist drawing inces- santly with little to eat or drink anticipates the vivid descrip- tion of the young Gian Lorenzo Bernini (1598–1680) who as a boy spent dawn to dusk at the statue court making copies.5 Significantly, this is the earliest known image of an artist at work at the Belvedere, the most important and certainly the most influential collection of classical antiquities assem- bled in the Renaissance.6 Given its unique accessibility – unlike the collections housed in private aristocratic palaces – it provided a sanctuary for the unencumbered study of antique statuary, which also included recently excavated works. Thus, it served a key role in providing an artistic instruction not just direct but exhilaratingly au courant. It also meant that the sculptures displayed there would become famous as their images were disseminated through prints and drawings. When Taddeo visited the sculpture court in the 1540s, it had undergone a major renovation.7 In 1485, under Pope Innocent VIII (r. 1484–92), a private villa was built on the hill behind the old Vatican place, named the Belvedere (‘fair view’), for its position. In 1503, Pope Julius II (r. 1503–13) commis- sioned the architect, Donato Bramante (1444–1514), to incor- porate the house with the Vatican complex thereby creating an enclosed rectangular garden courtyard, the Cortile del Belvedere, to display his expanding antiquities collection. Wishing it to be accessible to the public, the Pope had Bramante construct a spiral staircase that enabled visitors to arrive at the courtyard directly, without having to enter the palace proper.8 The courtyard was an enchanted world filled with orange trees, fountains, an elegant loggia, and displayed in the centre of the court, the colossal marble statues of the Nile and Tiber mounted as fountains.9 Statues including the celebrated Apollo Belvedere and the Laocoön were displayed in especially created niches.10 Maarten van Heemskerck’s drawing in the British Museum, c. 1532–33 (fig. 3), the earliest known view of the Cortile, gives a sense of the space and the disposition of the sculpture displayed there.11 Immediately evident is that Federico’s al fresco evocation bears little resemblance to Heemskerck’s and to other con- temporary descriptions of the courtyard. The setting is now a sun-drenched rise with a vista, no t an enclosed garden, and the statues are freed from the confines of their niches. And yet in other ways Federico has gone to lengths to convince us of the time period – 1540s – as we will see. In fact, so well-known was this space that Federico needed only to refer to it in short-hand. The statues depicted would have been instantly recognisable to any viewer and Taddeo’s location in the Belvedere understood. Since its discovery in January of 1506 in the ground of a private vineyard on the Esquiline near the remains of the so-called Baths of Titus, the Laocoön group, comprising the ill-fated Trojan priest and his two sons violently struggling to free themselves from two serpents who devour them, was immediately venerated.12 While still in the ground, the architect and antiquarian, Giuliano di Sangallo, sent to inspect it by Pope Julius II, identified it as the famous statue singled out by Pliny the Elder as ‘of all paintings and sculptures the most worthy of admiration’ (Natural History 36.37–38).13 It was installed in the Belvedere in a chapel-like recess.14 The sculpture’s fame was instant and far-reaching. Entranced by it, Michelangelo proclaimed it an inimitable miracle.15 Collectors eagerly sought copies, commissioning Jacopo Sansovino (1486–1570), Baccio Bandinelli (see cat. 3) and others to make replicas of various sizes in bronze, marble, wax, terracotta, even gold.16 For artists, its effect was manifold. It provided an anatomical model for the male nude that was strong, forceful and capable of dynamic movement. The range of ages and emotions conveyed and symbolised – fear, agony, heroism in death – also inspired emulation. Fig. 3. Maarten van Heemskerck (1498–1574), View of the Belvedere Sculpture Court, c. 1532–36/37, pen and brown ink, brush with brown wash, 231 × 360 mm, Department of Print and Drawings, British Museum, London, 1946,0713.639  100 101   102 103  Epitomising human suffering, the statue became a model for portraying martyrs from Christendom, especially in the Counter-Reformation.17 For centuries that followed artists would imitate and infuse this muscular body type and expres- sions in their work (cat. 16). The group’s influence endured well into the 19th century.18 When the Laocoön was first discovered, his right arm and that of his youngest son on the left were missing, as were among other losses the fingers of the eldest son’s right hand. By the 1530s, the missing appendages were restored including a terracotta arm by the sculptor, Giovanni Antonio Montorsoli (1507–63).19 Federico’s drawn version is something of an enigma. In some respects it appears pre-restoration: the fingers of the eldest son on the right are still missing. But he has included part of the previously absent right arm of the son on the left but made him hand-less. Laocoön is shown with his right arm restored but it is out of view so the angle cannot be determined. In any case, it seems that Federico has attempted to represent the sculpture as he thought Taddeo and others of his generation might have first seen it, undoubt- edly to create an air of authenticity. It is possible that he consulted print sources such as Marco Dente da Ravenna’s ( f l . 1515–27) Laocoön of c. 1520–23, which makes a compelling comparison.20 The perfect foil for the Laocoön is the commanding figure of the Apollo Belvedere anchoring the composition on the left.21 So instantly recognisable was he that Federico needed only to indicate his lower half. Discovered at S. Lorenzo in Panisperna in 1489, the statue was acquired by Giuliano della Rovere, Cardinal of S. Pietro in Vincoli, the future Pope Julius II, who displayed it in the garden of his palace next to SS. Apostoli.22 After he became Pope, it was brought to the Vatican in 1508 and installed in a niche in the Belvedere cortile in 1511. Based on a lost Greek bronze original, it became one of the most famous statues to survive from antiquity and was copied by innumerable artists (see cats 6, 25, 26).23 If the Laocoön exemplified the powerful male nude body in action, the Apollo encapsulated the qualities of its counterpart, the perfect male youth: elegant, graceful, confident and restrained; in repose yet poised for action. As the god Apollo he was thought to have just discharged his arrow at the python of Delphi (see cat. 6) or else, to be on the verge of killing the sons of Niobe with his arrows, as punishment for her boasting.24 Praised by Vasari for its instructive importance, every aspiring artist visited the Apollo in the Belvedere.25 The statue retained immense popularity in the centuries that followed.26 Federico’s abbreviated description of the Belvedere Courtyard is a clever device as it allows him to combine several episodes of Taddeo’s self-education in the same 104 drawing and a highly sophisticated continuous narration.27 All show Taddeo studying the Antique in various forms – free- standing statues, narrative reliefs and contemporary works in an all’antica style. So while the most prominent Taddeo is at work copying the Belvedere statues, a second Taddeo is visible in the distance, perched on a window ledge copying Raphael’s celebrated Stanze frescoes in the papal apartments in the Vatican.28 At the far left is Trajan’s Column of 113 ad under which are figures, including an artist sketching the famous reliefs carved on the column shaft, presumably Taddeo again. These monuments were very distant from one other and yet, countering this artificial structure, Federico has striven for local historical accuracy. For example, he shows the column as it would have appeared in Taddeo’s day, omitting the bronze statue of St Peter at the top that was added by Sixtus V in 1588.29 Lightly sketched in the left distance is the dome of the Pantheon and on the far right, what appears to be the Mausoleum of Augustus of 28 bc identifiable by the trees on the summit.30 Another drawing from the series (fig. 4) further demon- strates the importance Federico attributed to copying after the Antique, one of the pillars of artistic education.31 It shows Taddeo studying a relief – perhaps the right-hand front section of a Muse sarcophagus of a type similar to an example now in the Kunsthistorisches Museum, Vienna (p. 20, fig. 5).32 Having already sketched the figures – possibly a Muse holding a mask and Apollo – in black chalk, he is about to go over the contours with pen and ink. Resting on the relief is the armless body of a male youth similar in type to the Torso of Apollon Sauroktonos, the so-called Casa Sassi Torso now in the Museo Archeologico Nazionale in Naples.33 In the back- ground, in another example of continuous narration, Taddeo copies façade paintings by Polidoro da Caravaggio, who, specialising in monochrome frescoes imitating marble or bronze reliefs, represented another type of contemporary all’antica style, one which would exert an enormous influence on Taddeo’s own approach to painting.34 It is significant that Federico executed the Taddeo series in the mid-1590s, around the time that he established a reformed Accademia di San Luca of which he was elected president in 1593. Learning to draw by copying the work of others – the Antique, Michelangelo, Raphael and Polidoro da Caravaggio – was already a key phenomenon of Renaissance workshop practice. Federico codified this practice further by making such a disciplined approach to drawing central to the curricu- lum.35 Successful learning also required virtue and hard work – fatica – both physical and intellectual, and such quali- ties are extolled in Federico’s drawings of Taddeo.36 According to the guidelines Federico wrote for the academy, students were required to ‘go out during the week drawing after the antique’ (see Appendix, no. 7).37 It is significant that in the final image of the series (fig. 5), an allegorical personification of Study – represented by a young man diligently copying an antique male torso with other sculptures – flanks the left side of the Zuccaro family emblem.38 He is joined by Intelligence on the right. Along with training, Federico was also concerned with the welfare of young artists and proposed reforms to the artists’ academy in Florence, the Accademia del Disegno.39 At his death in 1609, he intended the family palace, the Palazzo Zuccari (now the Bibliotheca Hertziana, Max Planck Institute for Art History) to house young, struggling artists in Rome, so that they would not suffer as Taddeo had.40 Appropriate in subject matter, the drawings may well have prepared a complex arrangement of paintings for the walls of the palace’s Sala del Disegno.41 This might account for the present drawing’s unusual dumbbell format.42 Regardless of its intended purpose, the Early Life of Taddeo series, a touching tribute to one brother from another, sends a clear message. Drawing, especially after the Antique in all its various forms, was the cornerstone of artistic education in 16th-century Italy and was to become a canonical activity throughout Europe in the centuries that followed. As one of the first great illustrations of this phenomenon in practice, the present drawing is an ideal visual representation of this exhibition’s theme. avl  Fig. 4. Federico Zuccaro, Taddeo Drawing after the Antique; in the Background Copying a Façade by Polidoro, c. 1595, pen and brown ink, brush with brown wash, over black chalk and touches of red chalk, 423 × 175 mm, The J. Paul Getty Museum, Los Angeles, 99.GA.6.12 Fig. 5. Federico Zuccaro, Allegories of Study and Intelligence Flanking the Zuccaro Emblem, c. 1595, pen and brown ink, brush with brown wash, over black chalk and touches of red chalk, 176 × 425 mm, The J. Paul Getty Museum, Los Angeles, 99.GA.6.20  105  1 Additional bibliography for the drawings in the series up to 1999 is given in the catalogue of the Christie’s sale, London, 28 January 1999, p. 70, lot 35. 2 This poem written by Federico Zuccaro to accompany this drawing appears on the back of another sheet in the series (Los Angeles 2007–08, p. 34, no. 18, 40). Translation by J. Brooks (ibid., pp. 33–34). 3 The Early Life of Taddeo series, acquired by the J. Paul Getty Museum in 1999, was the subject of an exhibition and in-depth catalogue by J. Brooks (Los Angeles 2007–08). 4 For the Tiber and the Nile see Haskell and Penny 1981, pp. 272–73, no. 65 and pp. 310–11, no. 79; Klementa 1993, pp. 9–51, nos A1–A39, pls 1–18; pp. 52–71, nos B1–B15, pls 19–23. 5 See Appendix, no. 9. 6 For essential reading on the Cortile and its history, see Ackerman 1954; Brummer 1970; Coffin 1979, pp. 69–87; Haskell and Penny 1981, pp. 7–11; Nesselrath 1994, pp. 52–55; Nesselrath 1998a, pp. 1–16. 7 See Coffin 1979, pp. 69–87; Haskell and Penny 1981, p. 7. 8 Coffin 1979, p. 82. 9 For the two Rivers, see above, note 4. 10 For statues in their niches, see Haskell and Penny 1981, p. 11, fig. 4, and Bober and Rubinstein 2010, fig. 122c. 11 First published as Heemskerck in Winner and Nesselrath 1987, p. 867; see also M. Serlupi Crescenzi, in Rome 2006–07, pp. 148–49, no. 37. For a sense of the atmosphere, see the painting by Hendrik III van Cleve (1524–89), 1550, in the Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique, Brussels (M. Serlupi Crescenzi, in Rome 2006–07, pp. 146–47, no. 34), see Aymonino’s essay in this catalogue, p. 26, fig. 21. 12 For the group, see Haskell and Penny 1981, pp. 243–47, no. 52; Bober and Rubinstein 2010, pp. 164–68, no. 122, Pasquier 2000–01b and the exhibition catalogue devoted to it, Rome 2006–07. 13 Haskell and Penny 1981, p. 243; M. Buranelli, in Rome 2006–07, pp. 127–28, no. 13. 14 Coffin 1979, p. 82; Haskell and Penny 1981, p. 243. 15 Bober and Rubinstein 2010, p. 165, see also Aymonino’s essay in this catalogue, p. 28. 16 Haskell and Penny 1981, p. 244 and Settis 1998, pp. 129–60. 17 Ettlinger 1961, pp. 121–26; Brummer 1970, pp. 117–18; Bober and Rubinstein 2010, p. 166. 18 For the statue’s critical reception, see Bieber 1967; Brilliant 2000; Décultot 2003 and Rome 2006–07. 19 Haskell and Penny 1981, pp. 246–47; Nesselrath 1998b, pp. 165–74; Bober and Rubinstein 2010, p. 165. Montorsoli’s additions were removed in 1540 when Primaticcio made a mould of the group unrestored to prepare a cast in bronze for Francis I (Rome 2006-07, pp. 150–51, no. 40). The additions were then put back. 20 Oberhuber 1978, p. 50, no. 353 (268); T. Schtrauch, in Rome 2006–07, pp. 152–53, no. 42. 21 For their juxtaposition, see Tronzo 2009, pp. 49–55. 22 According to a document published by Fusco and Corti 2006 (Appendix I, 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 p. 309, doc. 112; see also pp. 52–56). For the statue, see Haskell and Penny 1981, pp. 148–51, no. 8; Bober and Rubinstein 2010, pp. 76–77, no. 28. In 1532–33 Montorsoli replaced the existing right arm and restored the hands (Bober and Rubinstein 2010, p. 77). Federico presents it in its restored state with bow. Haskell and Penny 1981, p. 150. Bober and Rubinstein 2010, p. 76; Vasari’s preface to Part III of the Lives, 1568 ed. (Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 4, p. 7). See Roettgen 1998, pp. 253–74. He employs the same device in other drawings in the series (Los Angeles 2007–08, p. 7). Federico indicates the location on the drawing itself with the inscription, le camore di Rafaello (the rooms of Raphael). Another drawing in the series shows him copying the frescoes in the loggia of the Villa Farnesina, see Los Angeles 2007–08, pp. 20, 32, no. 13. For the column, its reliefs and history, see Bober and Rubinstein 2010, pp. 208–10, no. 159. Francesco Soderini purchased the Mausoleum in 1546 in order to transform the tomb into a garden museum with antique statuary. See Riccomini 1995, especially p. 267, fig. 91 (Etienne Du Pérac’s engraving, 1575) and p. 271, fig. 95 (Alò Giovannoli’s engaving, 1619) and Riccomini 1996. Los Angeles 2007–08, pp. 19, 31–32, no. 12. For essential reading on Taddeo, Federico and the antique and the absorption of it in their work, see Silver 2007–08, pp. 86–91. Wegner 1966, pp. 88–89, no. 228, plates 11–12. Los Angeles 2007–08, p. 31. In Taddeo’s time the torso (CensusID 159347 and Ruesch 1911, p. 158, no. 491) was in the courtyard of the Sassi family palace displayed in a niche as seen in Heemskerck’s famous view reproduced in etching (Paris 2000–01, pp. 360–62, no. 169, entry by C. Scailliérez). For Polidoro and the Zuccari, see Los Angeles 2007–08, pp. 71–77. Armenini had already advised artists to copy Polidoro’s frescoes (1587, p. 58, book 1, chap. 7). Alberti 1604, p. 7. See also Armenini, 1587, pp. 52–59 (book 1, chap. 7). See also Aymonino’s essay in this catalogue, pp. 32–33 Rossi 1997, pp. 66–68. Alberti 1604, p. 8 (‘e chi andarà frà la settimana dissegnando all’antico’), cited and translated in Silver 2007-08, p. 86). Los Angeles 2007–08, pp. 27, 35, no. 20. Ibid., p. 2. Ibid. For previous arguments on the topic and a fascinating hypothetical recon- struction of the Sala del Disegno, see Strunck 2007–08, pp. 113–25. The shape is adapted slightly in a version of the present drawing in the Uffizi, Florence, of similar dimensions (Paris 2000–01, pp. 379–80, no. 185 (entry by C. Scailliérez), believed by Gere to be autograph (1990, under no. 17) but by Brooks as unlikely to be and the present author agrees. See Los Angeles 2007– 08, p. 45, note 48, where two other copies are also noted: Biblioteca Nacional, Madrid 7656 and the other sold Phillips, London, 9 July 2001, lot 148. 6. Hendrick Goltzius (Bracht-am-Niederrhein 1558–1617 Haarlem) a. The Apollo Belvedere 1591 Black and white chalk on blue paper indented for transfer; 388 × 244 mm provenance: Queen Christina of Sweden (1626–89)1; Cardinal Decio Azzolini (1623–89); Marchese Pompeo Azzolini (1654–1706); Don Livio Odescalchi (1658–1713); purchased from the Odescalchi family by the Teylers Foundation, 1790. selected literature: Reznicek 1961, vol. 1, p. 326, no. 208, vol. 2, fig. 170; Van Regteren Altena 1964, fig. 19, pp. 101–02, no. 32; Miedema 1969, pp. 76–77; Brummer 1970, pp. 70–71, repr.; Stolzenburg 2000, pp. 426–27, repr., p. 439, no. 173; Brandt 2001, p. 148; Hamburg 2002, p. 114, repr. under no. 33; Amsterdam, New York and elsewhere 2003–04, p. 269, repr.; Bober and Rubinstein 2010, p. 77, under no. 28; Leesberg 2012b, vol. 2, p. 370 under no. 380; Göttingen 2013–14, pp. 22–23, fig. 6; Nichols 2013a, pp. 56, 84, fig. 54; Veldman 2013–14, p. 105. exhibitions: Münster 1976, p. 138, no. 111, p. 140, repr. Teylers Museum, Haarlem, inv. no. K III 23 exhibited in haarlem only b. Apollo Belvedere 1592 Engraving, 412 × 300 mm State II of II Inscribed on the base of the statue: ‘HG sculp. APOLLO PYTHIUS Cum privil. Sa. Cæ. M.’. With the address of the printer at right ‘Herman Adolfz excud. Haerlemens.’. Inscribed with two lines in the lower margin, at centre: ‘Statua antiqua Romae in palatio Pontificis belle vider / opus posthumum HGoltzij iam primum divulgat. Ano. M.D.C.X.VII.’.2 Two Latin distichs by Theodorus Schrevelius in margin l.l. and l.r.: ‘Vix natus armis Delius Vulcaniis / Donatus infans, sacra Parnassi iuga’ / ‘Petii. draconem matris hostem spiculis / Pythona fixi: nomen inde Pythii. Schrevel’.3 Numbered in l.l. corner: ‘3’. Published by Herman Adolfsz. (fl. 1607) in 1617 provenance: P. & D. Colnaghi Co., London, from whom acquired in 1854. literature: Bartsch 1854–76, vol. 3, p. 45, no. 145; Hirschmann 1921, pp. 60–61, no. 147; Hollstein 1949–2001, vol. 8, p. 33, no. 147.II, repr.; Strauss 1977, vol. 2, pp. 566–67, no. 314, repr.; Leesberg 2012b, vol. 2, p. 370, no. 380, pp. 373–74, repr. exhibitions: Not previously exhibited. The British Museum, Department of Prints and Drawings, London, 1854,0513.106 106 107 It was undoubtedly at the urging of Karel van Mander (1548– 1606), his friend and fellow Haarlem artist, that Hendrick Goltzius left for Rome in 1590 in order to study the remnants of classical antiquity and the works of modern Italian masters.4 He was already thirty-two years old. Northern artists usually went south when they were much younger, sometimes even half that age. The tradition of artists travel- ling from Northern Europe to Italy, eager to learn, had begun almost a century earlier with Jan Gossaert, called Mabuse (c. 1472–1532). Other well-known Dutch artists who had derived inspiration from antique remains in Rome and who had produced drawings after them, were Jan van Scorel (1495–1562) and above all, Maarten van Heemskerck (1498– 1574), also a native of Haarlem.5 Like these artists Goltzius travelled to Rome as a mature draughtsman, eager to deepen his knowledge and see with his own eyes the works of art of which he had heard so much. It was probably family obligations and his flourishing print workshop that had delayed his Italian trip for so long. Finally in 1590–91, hoping for relief from the consumptive state of his health, Goltzius made the long anticipated journey.6 We know from Van Mander that on arriving in Rome, Goltzius concentrated almost exclusively on drawing the most important classical sculptures carefully and industri- ously.7 Goltzius was now a celebrity, for his prints had spread his fame throughout Europe, but he travelled largely incognito. In Rome, for example, he donned rustic garb in order to blend in with pupils and amateurs drawing from the Antique. According to Van Mander, they looked at him pityingly until they saw what he was capable of, whereupon they started asking him for advice.8 Although this story may be a topos – art-loving Italy values a gifted outsider – it is not hard to imagine such an encounter when one considers Goltzius’ Roman drawings.9 Forty-three of Goltzius’ drawings after thirty different classical statues survive, plus one after Michelangelo’s Moses; all are preserved in the Teylers Museum in Haarlem.10 In the short time at Goltzius’ disposal – he was only in Rome for seven months – he managed to copy all the most impor- tant sculptures, in both public and semi-public locations    108 109  such as churches and papal palaces, and in some private collections.11 He must have prepared thoroughly for his drawing expedition and have studied travel books and prints before his departure. Certainly at his disposal would have been Maarten van Heemskerck’s Roman sketchbook, now in the Berlin Kupferstichkabinett, but then owned by his fellow Haarlem artist, Cornelis Cornelisz. van Haarlem (1562–1638) (see p. 35, figs 39–43 and cat. no. 8).12 Strikingly Goltzius’ selection more or less corresponded with the antique statues described in travel literature.13 Evidently, a canon of the most outstanding classical statues in Rome had already been established and disseminated to the North and although this canon would later be expanded, most of the statues drawn by Goltzius in 1591 continued to remain popular models for artists in subsequent centuries (see cat. nos 14–16, 21, 25–27 and 31). Goltzius did not make his drawings merely as an exercise. The artist and printshop owner was well aware of the importance of those statues for their reproductive potential. He must have envisaged a series of engravings from the very outset and that is why he went to such lengths to select the most celebrated and, by then, canonical sculptures. The series he had in mind would have rivalled existing print series of antique sculptures in Rome, such as Antoine Lafréry’s Speculum Romanae Magnificentiae, published between 1545 and 1577 (fig. 1), or Giovanni Battista de’ Cavalieri’s Antiquarum Statuarum Urbis Romae, published between the 1560s and the 1590s.14 Cavalieri’s reproductions were printed on small plates, without backgrounds, and incorporated little information about the sculptures in their locations; the lighting is not consistent and there is a lack of naturalism in the statues’ rendering. While the differences between Lafréry’s reproductions and what Goltzius planned to create are less striking, the burin technique is more refined in Goltzius’ works, his rendering of the statues more realistic and his prints fractionally larger; moreover, he generally represented the statues from closer vantage points, thereby creating more engaging compositions.15 What audience did Goltzius have in mind when he produced his drawings and his prints? While Cavalieri and Lafréry’s publications were mainly intended for antiquaries and art lovers, Goltzius seems to have aimed at a broader audience encompassing artists as well as amateurs. This is supported by his emphasis on anatomical precision and the sculptures’ three-dimensional character, rather than accu- racy of reproduction – he sometimes omitted inscriptions, for example (see cat. 8); the presence of the draughtsman in the print displayed is also significant in this connection. Goltzius’ project was timely for around this period a market seems to have been developing for prints after 110 publication, but found himself overwhelmed with other projects. In most of his drawings after antique sculpture, Goltzius began with a sketch in black and white chalk on bluish-grey paper, like this drawing of Apollo Belvedere. The trial-and- error lines by the figure’s legs and waist suggest that he had difficulty deciding on a vantage point. He would then have used a stylus to indent the contours of that sketch onto a second sheet of paper, on which he subsequently produced an extremely precise drawing of the statue. That second version in red chalk, unfortunately now lost, would have served as the model for the engraver. Teylers Museum has both drawings for the Farnese Hercules Seen from Behind (see cat. 7a and fig. 2) but at some point Goltzius’ second version of the Apollo Belvedere was separated from the group that ended in the Teylers Museum,20 for in the early 18th century it belonged to the famous collector Valerius Röver (1686– 1739) of Delft,21 and was listed in his inventory: ‘The Apollo, with red chalk, transferred to the copper by Goltzius, which print is herewith attached, fl. 3:10’.22 The engraving is in the same direction as the black chalk drawing, and the size of the statue is identical in both.23 The most striking difference between them is the rendering of volume. The statue appears a little flat in the drawing, while in the print it is highly sculptural, with a keenly observed interplay between light and shade across the form lending relief and depth to the engraving. As noted above, Goltzius would have developed these features in the lost red chalk version of the subject. It may be that this lost drawing also incorporated the draughtsman seen in the lower right corner of the print, and the large cast shadow on the left, accessories and details that Goltzius tended to vary from work to work. In any event, these added elements reinforce the sense of depth; the draughtsman also conveys an idea of the scale of the statue (see cat. 7). But perhaps Goltzius added the young draughtsman for yet another reason. His rendering of this figure is so direct, so true to life, that it appears to be a portrait. The two small figures in his reproduction of the Farnese Hercules are also represented in a fashion which suggests that these too are portraits (cat. 7, fig. 4). It seems that in Rome Goltzius asked a local artist, Gaspare Celio (1571–1640), to draw copies of both classical and modern artworks for him and they may have drawn some works together.24 Could this figure be Celio? Pure speculation, of course, for remarkably little is known about this mysterious individual.25 At any rate the figure of the draughtsman is seated exactly as Goltzius must have positioned himself, although at a different angle, employing the same technique (n.b. the porte-crayon), the same format paper and probably the same travel board. And this may point to another reason for Goltzius’ introduction of the young draughtsman: to emphasise the didactic inten- tion of the series and to convey the message that these prints allowed artists to draw the finest Roman sculptures, just like the draughtsman in the image, without having to go to Rome. Whatever the reason for this figure’s inclusion, his presence demonstrates – as does Van Mander’s story of Goltzius amidst younger artists – that during this period the copying of antique sculptures in Rome was very widespread. The Apollo Belvedere is a Roman copy of a Greek original by Leochares from c. 330–320 bc. The copy probably dates from the reign of Hadrian (117–138 bc). In the late 15th cen- tury the Apollo was in the collection of Cardinal Giuliano della Rovere, who, as Pope Julius II, placed it in the Belvedere, where it was displayed in the small Cortile delle Statue (see p. 26, fig. 21 and cat. 5). The Apollo Belvedere soon became one of the most famous sculptures in the collection and was drawn by many artists. Prints of the sculpture by Agostino Veneziano (c. 1518–20, see p. 28, fig. 29), Marcantonio Raimondi (c. 1530) and Goltzius himself (c. 1617), among others, ensured that its fame spread throughout Europe. However, the Apollo’s prestige began to fade in the 19th century and nowadays the sculpture, while well-known to art historians is less appreciated by the general public.26  Fig. 1. Anonymous engraver after Marcantonio Raimondi, published by Antoine Lafréry, Apollo Belvedere, 1552, engraving, 323 × 228 mm, Rijksmuseum, Amsterdam, RP-P-H-232 antique statues for artists to employ as models. Between 1599 and 1616 Goltzius’ stepson Jacob Matham published the first known printed sketchbook after the Antique, Verscheijden Cierage,16 intended, according to its title page, for an interna- tional public of artists and amateurs.17 And it seems likely that Goltzius envisaged the same international audience for his projected series, perhaps particularly young students in Northern Europe – and no doubt his own pupils – who were not able to undertake the trip to Rome but could use his engravings as models.18 It was probably in 1592, soon after his return from Italy, that Goltzius embarked on the print series, engraving after his own drawings three of the statues: the Farnese Hercules Seen from Behind (cat. 7), Hercules and Telephus and this Apollo Belvedere. It is unlikely that Goltzius was disappointed with the results but he progressed no further with the project and never officially printed the plates which were published posthumously in 1617, bearing the address of the Haarlem publisher Herman Adolfsz.19 We do not know why Goltzius did not publish these prints in his lifetime but it may have been the result of excessive ambition. He probably hoped to market a much longer series of prints in a single 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 mp I. M. Veldman revealed the Rudolf II provenance for Goltzius’ Roman portfolio to be a myth. A more logical provenance might be, as Veldman suggests, through Jacob Matham (1571–1631), Theodor Matham (1605/06– 76), Joachim von Sandrart (1606–88) and/or Pieter Spiering (1594/97–1652): Veldman 2013–14, pp. 109–13. ‘An antique statue in Rome, in the Pope’s Belvedere Palace; a work by H. Goltzius that is now being published posthumously for the first time, in the year 1617’. ‘Barely born, I, Apollo of the island of Delos, received arms from Vulcan; I sought the sacred heights of Parnassus; with my arrows I pierced the dragon Python, my mother Leto’s enemy; thus it is that I bear the name “Pythian”’. I wish to thank Professor Ilja Veldman, who generously put at my disposal her Goltzius entries for the forthcoming catalogue of the 16th-century Netherlandish drawings in the Teylers Museum, which she is preparing with Yvonne Bleyerveld. For the early tradition of Northern European artists going to Rome (includ- ing Gossaert, Van Scorel and Van Heemskerck), see Brussels and Rome 1995. Van Mander 1994–99, vol. 1, pp. 388–89 (fol. 282 verso). Ibid., pp. 390–91 (fol. 283 recto). Ibid. Luijten 2003–04, p. 123. Reznicek 1961, vol. 1, pp. 89–94, pp. 319–46, nos 200–38; 245–48. From the 1689–90 inventory of Goltzius drawings owned by Queen Christina of Sweden it is known that Goltzius also produced (now lost) drawings of two famous antique figures, the Spinario (now in the Capitoline Museums, Rome, see p. 23, fig. 15) and the Farnese Bull (now in the Museo Archeologico Nazionale, Naples); see Stolzenburg 2000, p. 437, nos. 140–41, p. 440, no. 180 and Veldman 2013–14, p. 101. Veldman 2012, pp. 11–23. Reznicek 1961, p. 90; Brandt 2001, p. 136. Haskell and Penny 1981, p. 18; Brandt 2001, p. 136. Brandt 2001, pp. 143–46. Fuhring 1992, pp. 57–84. 111  17 Ibid., pp. 64–65, p. 76, pl. 1. 18 It is tempting at this point to think of the ‘Haarlem Academy’, of which Goltzius was a member before his departure for Italy as a true academy, where artists could draw from life and presumably also after sculptures. However, in all probability this ‘academy’ comprised no more than three artists: Karel van Mander, Cornelis Cornelisz. and Goltzius. See also cat. 8. 19 Leesberg 2012b, vol. 2, pp. 368–75, nos 378–80; Luijten 2003–04, pp. 119–20. 20 For the provenance of the drawings see Stolzenburg 2000 and Veldman 2013–14. 21 Van Regteren Altena 1964, pp. 101–02, under no. 32. 22 ‘De Apollo, met rootaarde, door Goltzius int koper gebragt, welke print hierbij gevoegt is, f 3:10.’ See the manuscript catalogue by Valerius Röver in the Amsterdam University Library, inv.no. II A 18: Catalogus van boeken, schilderijen, teekeningen, printen, beelden, rariteiten [1730], portefeuille 2, no. 3. 23 In view of the incomplete right hand and the missing left hand it seems likely that the sheet has been trimmed on the right and left, and possibly at the top as well. 24 Baglione 1642, p. 377. 25 26 All we really know is that Celio must have drawn a copy of Raphael’s fresco, The prophet Isaiah in the San Agostino in Rome for Goltzius (see Luijten 2003, p. 118). Goltzius used this copy for his engraving; see Leesberg 2012b, vol. 2, pp. 292–93, no. 333, repr. For a recently published drawing by Celio in the Uffizi Gallery in Florence, with a parade carriage of his own design incorporating pyrotechnic features, see Stemerding 2012, pp. 13–17. For the history and the fortuna critica of the Apollo Belvedere: Haskell and Penny 1981, pp. 148–51, no. 8; Bober and Rubinstein 2010, pp. 76–77, no. 28. Regarding the sculpture’s reputation today, which some describe as bordering on total neglect, Kenneth Clark observed in 1969: ‘. . . for four hundred years after it was discovered the Apollo was the most admired piece of sculpture in the world. It was Napoleon’s greatest boast to have looted it from the Vatican. Now it is completely forgotten except by the guides of coach parties, who have become the only surviving transmitters of traditional culture.’ Clark 1969a, p. 2. 7. Hendrick Goltzius (Bracht-am-Niederrhein 1558–1617 Haarlem) a. The Farnese Hercules Seen from Behind 1591 Red chalk, indented for transfer, 390 × 215 mm. Verso: Design lightly traced in black chalk from recto. The upper corners cut. literature: Scholten 1904, p. 40, cat. N 19; Hirschmann 1921, p. 59; Reznicek 1961, vol. 1, p. 337, cat. K 227, vol. 2, fig. 179; Miedema 1969, pp. 76–77, repr. (recto and verso); Schapelhouman 1979, p. 67, note 3; Amsterdam 1993–94, pp. 361–62, under no. 24 (B. Cornelis); Stolzenburg 2000, p. 439, no. 164; Brandt 2001, pp. 139, 144, fig. 132, p. 148; Hamburg 2002, p. 116, under no. 34 (A. Stolzenburg) ; Leeflang 2012, pp. 24–25, fig. 5; Leesberg 2012b, vol. 2, pp. 368–69, under no. 378; Göttingen 2013–14, p. 210; Veldman 2013–14, pp. 102–05. exhibitions: New York 1988, pp. 58–60, no. 12; Brussels and Rome 1995, p. 204, no. 101; Luijten 2003–04, pp. 132–36, no. 42.2. Teylers Museum, Haarlem, inv. N 19 exhibited in haarlem only b. The Farnese Hercules, 1592 (published 1617) Engraving Only state 416 × 300 mm Lettered on the base of the statue: ‘HERCULES VICTOR’. Lettered in l.l. corner: ‘HGoltzius sculpt. Cum privilig. / Sa. Cæ. M.’ and ‘Herman Adolfz / excud. Haerlemen’. Inscribed with two lines in the lower margin, at centre: ‘Statua antiqua Romae in palatio Cardinalis Fernesij / opus posthumum H Goltzij iam primum divulgata Ano M.D.CXVII.2 Two Latin distichs by Theodorus Schrevelius in margin l.l. and l.r.: ‘Domito triformi rege Lusitaniae / Raptisque malis, quae Hesperi sub cardine / Servarat hortis aureis vigil draco, / Fessus quievi terror orbis Hercules.’3 Numbered in l.l. corner: ‘1’. provenance: Bequest of Carel Godfried Voorhelm Schneevoogt (1802–77), Haarlem. literature: Bartsch 1803–21, vol. 3, pp. 44–45, no. 143; Hirschmann 1921, pp. 58–59, no. 145; Hollstein 1949–2001, vol. 8, p. 33, no. 145, repr.; Strauss 1977, vol. 2, pp. 562–63, no. 312, repr., p. 569; Leesberg 2012b, vol. 2, pp. 368–69, no. 378, repr. 112 113 1 Odescalchi (1658–1713); purchased from the Odescalchi family by the Teylers Foundation, 1790. provenance: Queen Christina of Sweden (1626–89); Cardinal Decio Azzolini (1623–89); Marchese Pompeo Azzolini (1654–1706); Don Livio exhibitions: Not previously exhibited. Teylers Museum, Haarlem, inv. KG 02263 The Farnese Hercules, which bears a Greek inscription naming ‘Glykon of Athens’, a sculptor unknown in classical litera- ture, was one of the most famous statues in Rome from the time of its discovery until the end of the 19th century (fig. 1).4 The first certain mention of it dates from 1556, when it stood in Palazzo Farnese.5 The fragments, unearthed at different times, must have been reassembled shortly before. The head was found in a well in Trastevere, probably around 1540. The torso was discovered six years later in the Baths of Caracalla, followed by the legs.6 However, the legs emerged too late to be incorporated in the statue because it had already been ‘restored’ and given new ones by Guglielmo della Porta (1500/10–1577). Oddly enough, Michelangelo allegedly appealed to the Farnese family to leave the new legs in place and not replace them with the originals, ‘in order to show that works of modern sculpture can stand in compari- son with those of the ancients’.7 The statue recovered its original legs only in the 18th century. In addition to the Palazzo Farnese, Goltzius drew studies on the Capitol, the Quirinal and in the Belvedere statue court (see cats 6, 8). He had an ambitious plan for his drawings: they were to prepare a series of high-quality and accurate engravings of the most important classical statues, on a scale not previ- ously attempted.8 The importance he attached to the project is evident from the care he lavished on many of his drawings. In preparation for this one, which is in red chalk, he first made an equally large, slightly freer and more loosely drawn black chalk version on blue paper (fig. 2; see cat. 6a). He then indented the contours through onto the white sheet on which he made the present drawing. The contours are conse- quently razor-sharp. He then exercised phenomenal skill in depicting the statue’s volume and the smooth texture of the marble with a subtle interplay of light and shade. He achieved this by leaving reserves of white paper, by alternating pressure on the chalk and by stumping it here and there so that individual strokes are no longer visible.9    114 115      Fig. 1. The Farnese Hercules, back view, Roman copy of the 3rd century ad of a Greek original of the 4th century bc, 317 cm (h), Museo Archeologico Nazionale, Naples, inv. 6001 Fig. 2. Hendrick Goltzius, The Farnese Hercules seen from Behind, 1591, black and white chalk on blue paper indented for transfer, 360 × 210 mm, Teylers Museum, Haarlem, inv. K III 30 Fig. 3. Hendrick Goltzius, The Farnese Hercules, black and white chalk on blue paper, indented for transfer, 382 × 189 mm, Teylers Museum, Haarlem, inv. N 20 Fig. 4. Hendrick Goltzius, Two Male Heads: Jan Matthijsz Ban and Philips van Winghen (?), metalpoint on an ivory-coloured prepared tablet, 92 × 117 mm, Amsterdam Museum, inv. A 10180 demonstrate that he had seen the sculpture in the round, making this clear by depicting the figure’s ‘alien’ back as well as its usual front. His choice was probably inspired by a combination of these factors. The Amsterdam Museum houses Goltzius’ preparatory drawing (fig. 4) of the two men whose admiring, upturned gazes provide such a fine connection between the front and back of the Farnese Hercules.16 In the engraving they are repre- sented in mirror image and have been exchanged for each other. They have portrait-like features and their identities have been a subject for speculation. The most serious suggestion made so far, dating from the end of the 19th century, is that they were Goltzius’ temporary travelling companions: Jan Matthijsz Ban on the left and Philips van Winghen (d. 1592) on the right; they may even have witnessed him drawing this statue.17 It is difficult to verify this sugges- tion, but it is certainly interesting and plausible. Goltzius had produced, albeit on a larger scale, several portraits of his circle of acquaintances in Rome and elsewhere such as Giambologna (1529–1608), Dirck de Vries ( fl. 1590–92) and Jan van der Straet, also called Stradanus (1523–1605; see cat. 4).18 Most of his sitters, like Ban and Van Winghen, were northern artists active in Italy. Ban was a silversmith, and Van Winghen is described by Karel van Mander as ‘a learned young nobleman from Brussels [ . . . ] who was a great archaeologist’.19 According to Van Mander the three of them made an excursion from Rome to Naples in the spring of 1591.20 Van Winghen died unexpectedly in 1592,21 and it was maybe as a tribute to his friend that Goltzius included him in the plate that he cut that same year. mp 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 See footnote 1 in cat. 6. ‘An antique statue in Rome, in the palace of Cardinal Farnese; a work by H. Goltzius that is now being published posthumously for the first time, in the year 1617’. ‘Now that I have vanquished the King of Spain with his three bodies [Geryon] and have stolen the apples that were guarded by a vigilant dragon under the western heaven in the golden garden, I, Hercules, the terror of the world, rest from my labours’. I wish to thank Professor Ilja Veldman, who generously put at my disposal her Goltzius entries for the forthcoming catalogue of the sixteenth- century Netherlandish drawings in the Teylers Museum, which she is preparing with Yvonne Bleyerveld. U. Aldrovandi, ‘Delle statue antiche, che per tutta Roma ... si veggono’, in Mauro 1556, pp. 157–58. The Hercules, today in the Museo Archeologico Nazionale in Naples, is regarded as an enlarged copy of the 3rd century ad after an original by Lysippos or someone from his school of the 4th century bc. For its history and fortuna critica see Haskell and Penny 1981, pp. 229–32, no. 46; Gasparri 2009–10, vol. 3, pp. 17–20, no. 1. Haskell and Penny 1981, p. 229. Baglione 1642 (facsimile edition, Rome 1935), p. 151: ‘. . . per mostrare con quel rifarcimento si degno al mondo, che le opere della scultura moderna potevano stare al paragone de’lavori antichi’. Reznicek 1961, vol. 2, pp. 89–94; Brandt 2001, passim; Luijten 2003–04, pp. 117–25. For both drawings see Luijten 2003–04, pp. 132–36. Göttingen 2013–14, pp. 210–11. For the prints by Bos and Ghisi see Göttingen 2013–14, pp. 205–07, no. II. 18 (Ghisi) and pp. 285–86, no. IV.09 (Bos). Brandt 2001, pp. 143–46. It has been suggested that Goltzius was prompted to make his unorthodox choice by a description in Pliny of a painting by Apelles of Hercules with Face Averted, whose features could nevertheless be guessed. Goltzius may have known the related engraving by G. J. Caraglio after Rosso Fiorentino: see Luijten 2003–04, p. 134 (with previous literature). For the dating of the three prints see Reznicek 1961, p. 419; Boston and St. Louis 1981–82, p. 12, under no. 6. See the painting Rest by Nicolaes Berchem the Elder (1620–83) dated 1644 in the Metropolitan Museum of Art in New York and the painting The Return from the Hunt, also by Berchem, from c. 1670 in The J. Paul Getty Museum, Los Angeles, both of which include a male figure whose attitude is clearly based on that of the Farnese Hercules (Amsterdam and Washington D.C. 1981–82, p. 67, fig. 2; Haarlem, Zurich and elsewhere 2006–07, p. 85, cat. 45, repr.). A drawing by Berchem, Standing Herdsman from the Back in the Rijksmuseum, prepares the figure of the standing herdsman in the New York painting (see Amsterdam and Washington D.C., 1981–82, p. 67, fig. 1). Schapelhouman 1979, p. 67 (with earlier literature); Luijten 2003–04, pp. 135–36. Hymans 1884–85, p. 187, note 1. Schapelhouman (1979, p. 67) does not believe this, while Luijten (2003–04, pp. 135–36) considers it plausible. It is curious that Goltzius altered the preparatory drawing of the two men’s heads in the engraving (fig. 3): in addition to representing them in mirror image and swopping them over, he depicted them in the same scale as well. Ban (if it is indeed Ban) is now somewhat taller than Van Winghen, which would reflect reality for Van Mander reports that Ban was a sizeable man (Van Mander 1994–99, vol. 1, pp. 392–93, fol. 283v). Schapelhouman 2003–04, pp. 147–58. Van Mander 1994–99, vol. 1, pp. 392–93 (fol. 283v). Ibid. Between 1592 and 1597 Jacob Matham engraved a portrait of Philips van Winghen after another (unknown) drawing by Goltzius; see Widerkehr and Leeflang 2007, vol. 2, p. 256, no. 263. However beautiful the two drawings in black and red chalk may be, it is only in Goltzius’ engraving that we really see what he intended. The backlit effect of the Farnese Hercules is seen to best advantage in the print, in which the added clouds have a functional role by creating a sense of depth and atmosphere. It is enhanced by the two observers, also only introduced in the print stage, who help to convey the statue’s scale. As we view Hercules from behind, the two admirers are gazing upon the sunlit front. The resulting interaction between front and back, between seeing and imagining, gives the print an agreeable tension that is missing in the drawings.10 Goltzius was probably familiar with the Farnese Hercules even before he went to Italy from descriptions in travel guides to Rome, through prints of 1562 and around 1575 by Jacobus Bos (c. 1520–c. 1580) and Giorgio Ghisi (1520–82)11 and possibly also from the larger print series by Giovanni Battista de’ Cavalieri (1570–84) and Antoine Lafréry (c. 1575).12 All showed the Hercules from the front, but Goltzius drew it from both sides (fig. 3). He seems to have been the first artist to appreciate its beauty from the back, or, at least, the first to record it on paper. He must have been very pleased with the 116 unorthodox view13 because he chose this viewpoint in 1592 when he issued the engraving, one of the only three that he engraved from his series of drawings (see also cat. 6b).14 It was thanks to Goltzius’ engraving that the back view of the statue became as popular as the front (see cats 16 and 21). Something of this popularity is revealed by the fact that by the mid-17th century the Hercules Farnese seen from the rear, bending slightly forwards with his arm on his back, had permeated Dutch genre painting.15 The question arises: why did Goltzius choose to adopt this angle? Could it be that he had a didactic purpose in mind when he produced the first rendering in a print series of the back of a muscular male body at rest? With Goltzius’ magnificent print in hand, young artists could now study the anatomy of a ‘hero’s’ back and use this in their own work. Goltzius’ print of the Apollo Belvedere (cat. 6b) offered a similar aid with the anatomy of an elegant youth. Goltzius also drew other figures, such as the Belvedere Torso (cat. 8), from several angles, but in these he was probably experi- menting with different points of view rather than having a didactic aim in mind. Goltzius might also have chosen to represent both sides of the Farnese Hercules expressly to 117  8. Hendrick Goltzius (Bracht-am-Niederrhein 1558–1617 Haarlem) The Belvedere Torso 1591 Red chalk, 255 × 166 mm provenance: Queen Christina of Sweden (1626–89)1; Cardinal Decio Azzolini (1623–89); Marchese Pompeo Azzolini (1654–1706); Don Livio Odescalchi (1658–1713); purchased from the Odescalchi family by the Teylers Foundation, 1790. literature: Scholten 1904, p. 42, no. N 31; Reznicek, 1961, vol. 2, pp. 321–22, no. 201, vol. 2, fig. 156; Miedema 1969, pp. 76–77; Brummer 1970, pp. 146, note 27, 148, repr.; Van Gelder and Jost 1985, vol. 1, p. 109; Stolzenburg 2000, p. 437, no. 143; Brandt 2001, p. 148; Goddard 2001–02, p. 39 (erroneously as a drawing in black chalk); Florence 2008, p. 62, under no. 33 (M. Schapelhouman); Bober and Rubinstein 2010, p. 183, under no. 132; Nichols 2013a, pp. 56, 146, under no. A-37, fig. 31. exhibitions: Recklinghausen 1964, no. 87 [unpaginated]; Munich and Rome 1998–99, pp. 44, fig. 43, 160, no. 49; Luijten 2003–04, pp. 130–31, no. 41.1. Teylers Museum, Haarlem, inv. no. N 31  From the High Renaissance onwards the Belvedere Torso was one of the most celebrated of ancient statues, despite its fragmentary state.2 In the past it was identified as the torso of Hercules because of the anatomy and the lion’s skin on which it is seated. However, in the late 19th century doubts were raised as to whether the skin really was that of a lion, making the Hercules identification uncertain.3 Although the Torso is comprehensively signed ‘Apollonius, son of Nestor, of Athens’, his name is not found in classical literature. It is assumed that he lived in the 1st century bc and that the Torso is a repetition or paraphrase of an earlier model. Although the statue was known from the 1430s, it was only when it was in the collection of the sculptor Andrea Bregno in the later 15th century that it began to arouse interest; in the early 16th century the sculpture entered the papal collections and was placed in the Belvedere (see p. 26, fig. 23). Direct correspondences with many of Michelangelo’s painted and drawn nude figures demonstrate the importance of the Belvedere Torso for the great Italian artist and shortly after Michelangelo’s death a number of stories emerged connecting him with the Torso.4 According to such one tale, he had been surprised by a cardinal kneeling before the statue (though only in order to examine it as closely as possible).5 In 1590 Giovanni Paggi wrote from Florence to his brother Girolamo: ‘Michelangelo called himself a pupil of the Belvedere Torso, which he said he had studied greatly, and indeed that he speaks the truth of this is to be seen in his works.’6 Describing the statue as ‘the school of Michelangelo’ took this association a step further.7 And yet the Renaissance artist appears to have spoken only once about the Torso, albeit in highly positive language: Ulisse Aldrovandi (1522– 1605) noted, in 1556 when the artist was still alive, that the Torso was ‘singularmente lodato da Michel’Angelo’.8 Not surprisingly the statue acquired great status both north and south of the Alps. This status probably preserved it from the restoration suffered by many antique sculptures in later centuries. Goltzius also seems to have felt the mysterious beauty of the Torso, for he drew it no less than four times. All four drawings were together in the collection of Queen Christina of Sweden (1626–89).9 But while two are now in the Teylers Museum (fig. 1) the other two have been lost. Goltzius undoubtedly knew the Torso even before he arrived in Italy, for reduced copies after the sculpture circulated throughout Europe in the 16th century; thus Goltzius’ friend and fellow Haarlem artist, Cornelis Cornelisz. van Haarlem (1562–1638), had used the Torso as the model for a nude figure in a painting Fig. 1. Hendrick Goltzius, The Belvedere Torso, c. 1591, black chalk, 253 × 175 mm, Teylers Museum, Haarlem, inv. no. K I 30  118 119  of the late 1580s.10 It is reasonable to suppose that the Torso would have been discussed at meetings of the ‘Haarlem Academy’,11 which Karel van Mander, Cornelis Cornelisz. van Haarlem and Goltzius had set up in the mid-1580s. One of the purposes of their ‘academy’ was to allow them to ‘study from life’ (om nae ‘t leven te studeeren), which meant they drew from nude models and probably from sculpture, plaster casts or other three-dimensional specimens as well.12 We may assume that during these drawing sessions they discussed human anatomy and the exemplary way classical artists had depicted it. All three were able to quote directly from the antique with the aid of Maarten van Heemskerck’s Roman sketchbook (now Kupferstichkabinett, Berlin), which was then owned by Cornelis Cornelisz. van Haarlem13 and which contained two views of the Torso.14 It is noteworthy that Goltzius, who was generally meticulously faithful in his depiction of classical sculptures, was not always so precise in his treatment of the inscrip- tions on their pedestals.15 In his red chalk drawing of the Belvedere Torso from the front he has omitted the signature, which would have been clearly visible on the base. Even more curious is the fact that he completely ignored the wear suffered by the statue, the result of decades spent outdoors. Instead his drawings give the sculpture a freshness that makes it seem alive. This emphasis on the statue’s lifelikeness and beauty can probably be explained by Goltzius’ intention that these drawings should serve as preparations for prints with an educational purpose: the study of anatomy based on ideal models. The muscles of Goltzius’ Torso appear to be tensed, the skin lifelike and infused with warmth. The muscles’ extreme exaggeration and restless tension clearly display a Mannerist emphasis.16 Once in Rome, surrounded by the clear, classic, ideal vocabulary of ancient statuary, Goltzius would reject Mannerist exaggeration so the fact that he did not decide to do so here may indicate that these two studies after the Torso were among the first drawings he produced after his arrival in Rome. It is interesting to note that Goltzius clearly used the Belvedere Torso in his fine Back of an Athletic Man, now in the Uffizi Gallery in Florence (fig. 2).17 This drawing is one of his Federkunststücke, or virtuoso drawings in pen, whose linear execution often imitates engravings, with lines that swell and taper. Curiously, the backbone in this drawing curves slightly to the left, while that of the sculpture curves to the right. Is this a conscious change by Goltzius or did he recall the statue in mirror image? The suggestion has sometimes been made that Goltzius produced this great drawing in Italy to display his virtuosity with the pen;18 however, we know that Goltzius travelled incognito to avoid admirers (see cat. 6), 120 9. Peter Paul Rubens (Siegen 1577–1640 Antwerp) Two Studies of a Boy Model Posed as the ‘Spinario’ c. 1600–02 Red chalk with touches of white chalk, 201 × 362 mm Inscribed recto, l.r., in pen and brown ink by a late 17th- or early 18th-century hand: ‘Rubens’ provenance: Gabriel Huquier (1695–1772); William Fawkener; his bequest to Museum, 1769. literature: Hind and Popham 1915–32, vol. 2, p. 22, no. 52; Burchard and D’Hulst 1963, vol. 1, pp. 34–35, no. 16 and vol. 2, pl. 16; Stechow 1968, pp. 53–55, fig. 43; Held 1986, p. 82, no. 39, pl. 23 on p. 172; New York 1988, p. 77, under no. 18, fig. 18-I; Van der Meulen 1994–95, vol. 1, p. 80; Paris 2000–01, p. 419, under no. 222, fig. 222a. exhibitions: London 1977, pp. 28–29, no. 14 (J. Rowlands); London 2009–10 (no catalogue). Department of Prints and Drawings, The British Museum, London, inv. T,14.1  Fig. 2. Hendrick Goltzius, Back of an Athletic Man, pen and brown ink, 150 × 165 mm, Uizi, Florence, inv. no. 2365 F so he is unlikely to have felt a need to demonstrate his virtuoso skills. Perhaps Goltzius created this virtuoso draw- ing after his Italian trip, or even before he went to Italy as he was already producing pen work of this quality in the 1580s.19 The son of a wealthy Antwerp family, Rubens was born in the German city of Siegen in 1577 but in 1589 returned with his family to Antwerp where he received a humanistic education at the Latin School run by Rumoldus Verdonck (1541–1620) and an artistic one with the painters Tobias Verhaeght (1561–1631), Adam van Noort (1561–1641) and Otto van Veen (c. 1556–1629). After entering the Guild of St Luke as an established painter in 1598, Rubens set out for Italy in May 1600. This fundamental step in Rubens’ training had been carefully prepared not only by the study of engravings of classical statues and Renaissance masters by Marcantonio Raimondi (c. 1480–1527/34) and his pupils assembled by van Veen in his workshop, but also by eager reading of Roman texts such as Suetonius, Tacitus and Pliny the Elder.1 The impact of classical antiquity on Rubens’ art and theory of art was immense. Before arriving in Rome in 1601, Rubens spent time in Venice, then Mantua, in the service of the Duke Vincenzo I Gonzaga (r. 1587–1612) as a painter and a curator of his collections, and also in Florence. Although based in Mantua, Rubens spent two extended periods in Rome, first from July 1601 until April 1602 and again from late 1605 (or early 1606) until October 1608.2 During this second period he shared a house with his scholarly elder brother Philip (1574–1611), a pupil of the Flemish philologist and humanist Justus Lipsius (1547–1606). In Rome Philip Rubens worked on the Electorum Libri duo published in Antwerp in 1608, an influential study of the customs, morals and dress of the ancients. Peter Paul assisted Philip in making drawings from ancient monuments in prepara- tion for the plates, and he also contributed to their explanatory notes. Rubens’ commitment to the systematic study of classical antiquities, and in particular of sculpture in the round, is testified to by the large number of sketches and drawings he made during his Italian period, but also by those he executed after his return to Antwerp in 1608.3 In Rome Rubens visited the Belvedere Courtyard and some of the most important private aristocratic collections, such as the Borghese, the Medici, the Farnese, the Mattei and the Giustiniani. His drawings after the Antique are among the most extraordi- nary ever produced, most of them in red or black chalk; they show Rubens’ great virtuosity in handling the medium and, at the same time, his deep understanding of the formal principles of the antique statues. He obsessively sketched some of the most ‘muscular’ masterpieces of classical statuary, such as the Laocoön (see p. 26, fig. 19) and the Farnese Hercules (see p. 30, fig. 32), from all sides, many angles and in great detail, in order to assimilate thoroughly the anatomical structure and the mathematical proportions of the human body as part of his search for the rules of perfection achieved by ancient artists.4 Returning to Antwerp in 1608, Rubens established his own studio in an Italianate villa in the centre of the city – today the Rubenshuis. His drawings after the Antique, bound in several books, remained in his studio and continued to serve not only as an important reference and source of inspiration for Rubens himself, but probably also as teaching tools for his pupils. The purchase in 1618 by Rubens of the collection of ancient sculptures owned by the English diplomat and collector Sir Dudley Carleton (1573–1632) represented the first step towards the formation of one of the most important – but short-lived – collections of antiqui- ties in Northern Europe, which Rubens sold on to the 1st Duke of Buckingham in 1626.5 The pre-eminent figure of the Flemish Baroque, a universal genius, Rubens also had an active diplomatic career which in the 1620s led him to travel between the courts of Spain and England. His last decade, the 1630s, was mostly spent in Antwerp, where he devoted himself entirely to painting. Rubens’ theory on both the usefulness and dangers of copying after the Antique are effectively expressed in his essay De Imitatione Statuarum, a short treatise on the imitation of sculpture that remained in manuscript in Rubens’ lifetime 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 mp See footnote 1 in cat. 6. Haskell and Penny 1981, pp. 311–14, no. 80, fig. 165; Munich and Rome 1998–99; Bober and Rubinstein 2010, pp. 181–84, no. 132. Wünsche 1998–99, p. 67. Michelangelo did indeed use the Torso directly as a model; see Wünsche 1998–99, pp. 31–37; Haarlem and London 2005–06, pp. 116–17. Haskell and Penny 1981, p. 312. Guhl 1880, vol. 2, p. 42; Schwinn 1973, pp. 36–37. Wright 1730, vol. 1, p. 268; Haskell and Penny 1981, pp. 312–13; Schwinn 1973, p. 172; Montreal 1992, pp. 76–77. ‘... un torso grande di Hercole ignudo, assiso sopra un tronco del medisimo marmo: non ha testa, ne braccia, ne gambe. È stato questo busto singularmente lodato da Michel’Angelo’. U. Aldrovandi, ‘Delle statue antiche, che per tutta Roma ... si veggono’, in Mauro 1556, p. 115. For Aldrovandi’s complete text ‘nel giardino di Belvedere, sopra il Palagio del Papa’, see Brummer 1970, pp. 268–69. Stolzenburg 2000, pp. 437, nos 142–44, 439, no. 161. Van Thiel 1999, pp. 79, 294, no. 7, pl. 34. According to an anonymous biographer, shortly after arriving in Haarlem, around 1583, Karel van Mander entered into a collaboration with Goltzius and Cornelis Cornelisz. van Haarlem, described as follows: ‘the three of them maintained and made an Academy, for studying from life’, see Van Mander 1994–1999, vol. 1, pp. 26–27 (fol. S2 recto), vol. 2, pp. 70–72; Van Thiel 1999, pp. 59–90. It should be stressed that this academy was in no way an institution for advanced professional training: such institutions came into being only in the 18th century (see Van Mander 1994–99, vol. 2, p. 70). It is unclear how and for what length of time this ‘Haarlem Academy’ exactly functioned (see also Leeflang 2003–04a, p. 16; Leeflang 2003–04b, p. 252. Veldman 2012, pp. 11–23. Hülsen and Egger 1913–16, vol. 1, p. 34 (fol. 63), p. 40 (fol. 73). See also Brummer 1970, pp. 144–45, figs 125–26. Brandt 2001, p. 143. Reznicek 1961, vol. 1, pp. 321–22, no. K 201; Luijten 2003–04, p. 131. Reznicek 1961, vol 1, p. 452, no. 431, vol. 2, fig. 132; Florence 2008, pp. 61–62, no. 33 (M. Schapelhouman). Reznicek 1961, vol. 1, p. 452. Schapelhouman (in Florence 2008, p. 62) has previously questioned the Italian dating for Back of an Athletic Man; for pen works by Goltzius from the 1580s see: Amsterdam, New York and elsewhere 2003–04, pp. 238–39, figs 93–94, 242–46, nos 84–85. 121  but was published by the art theorist Roger de Piles in his Cours de peinture par principles of 1708 (see Appendix, no. 8).6 While emphasising the importance for an artist of becoming deeply familiar with the perfection embodied in ancient models, Rubens warned that ‘[the imitation of antique statues] must be judiciously applied, and so that it may not in the least smell of stone’.7 The warning against the risk of hardening one’s style by copying ancient sculptures, thus creating paintings that looked ‘dry’ and eccentric, had already been pointed out by several 16th-century artists and theore- ticians, such as Giorgio Vasari (1511–74), Ludovico Dolce (1508–68) and Giovanni Battista Armenini (1530–1609).8 Later in the 17th century the pernicious effect on painting of too-slavish imitation of antique statuary would be summa- rised by the Bolognese art theorist Carlo Cesare Malvasia (1616–93) with the specific neologism ‘statuino’ or ‘statue- like’.9 As stressed by Rubens in the De Imitatione, young artists needed to learn how to transform marble into flesh instead of depicting figures as ‘coloured marble’. The two studies on one sheet presented here perfectly express Rubens’ views: they are in fact an example of a practice – setting live models in the poses of famous ancient statues – already diffused from the Early Renaissance (see p. 23, fig. 14) and common practice within the curricula of the French and Italian academies.10 Through this exercise Rubens could concentrate on the classical pose and disre- gard the ‘matter’, something that he repeated in modified form several times, in studies of live models in poses remi- niscent of the Belvedere Torso, the Laocoön and other canonical statues.11 In the present drawing, the young model is seen from his left side in the pose of one of the most celebrated bronzes in Rome, the Spinario (‘Thorn-puller’), recorded in the city as early as the 12th century among the antiquities at the Lateran Palace and donated by Pope Sixtus IV (r. 1471– 84) to the Palazzo dei Conservatori in 1471 (fig. 1, see also p. 23, fig. 15).12 Interpreted in the Renaissance as the personifi- cation of the month of March or a shepherd, the Spinario has been recently recognised as the young Ascanius, the son of Aeneas and founder of the gens Iulia.13 The right-hand drawing faithfully imitates the pose of the statue, with the head looking down towards the gesture of extracting a thorn from the foot; the left-hand drawing, in contrast, modifies the original by turning the head towards the spectator and altering the action so that the youth no longer withdraws a thorn from his foot, but dries it with a towel. Two similar studies, presumably after the same young model, are preserved in the Musée des Beaux-Arts, Dijon (fig. 2) and in London (private collection): the former, in red chalk, shows the model from his back and his right;14 the latter, in black chalk, from his left.15 The three drawings were probably done in the same session and they have been dated to one of Rubens’ two Roman periods, probably the first one (1600–02).16 As long ago noted by Wolfgang Stechow,17 the pose of    122 123 Fig. 1. (left) Spinario (Thorn-Puller), 1st century bc, bronze, 73 cm (h), Capitoline Museums, Sala dei Trionfi, Rome, inv. 1186 Fig. 2. (above) Peter Paul Rubens, Two Studies of a Young Model Posing as the Spinario, red chalk with touches of black chalk, 246 × 382 mm, Musée des Beaux-Arts, Dijon, inv. sup. 49D  the Spinario was employed by Rubens for a young man drying his feet in the Baptism of Christ, painted for the Jesuit church of Santa Trinità in Mantua in 1605 and now in the Royal Museum of Fine Arts in Antwerp, a preparatory drawing for which is in the Louvre,18 as well as for Susanna in Susanna and the Elders, a painting executed in Rome about 1606–08, 19 ed 1 For Rubens’ early years see Muller 2004, pp. 13–15. 2 On Rubens in Rome and his approach to the Antique see esp. Stechow 1968; Jaffé 1977, pp. 79–84; Muller 1982; Van der Meulen 1994–95, vol. 1, pp. 41–81; Muller 2004, pp. 18–28. 3 On Rubens’ drawings after the Antique see the fundamental catalogue in Van der Meulen 1994–95, vol. 2. 4 See Ayomonino’s essay in this catalogue, pp. 46–52. 5 See Muller 1989, passim; Muller 2004, pp. 35–56. On the collection of antiquities see in particular Muller 1989, pp. 82–87; Antwerp 2004, pp. 260–63 (F. Healy). On the sale to the 1st Duke of Buckingham see Muller 2004, pp. 62–63. 6 On the De Imitatione see Muller 1982; Van der Meulen 1994–95, vol. 1, esp. note 11, pp. 77–78, note 44; Antwerp 2004, pp. 298–99; Jaffé and Bradley 2005–06; Jaffé 2010. Transcribed in Appendix, no. 8, from De Piles 1743, pp. 87–88. For Vasari see Bettarini Barocchi 1966–87, for instance vol. 3, pp. 549–50 and vol. 5, pp. 495–61. For Dolce see Appendix, no. 4. See Armenini 1587, esp. pp. 59–60 (book I, chap. 8), pp. 86–89 (book II, chap. 3). The concept was repeated later also by Bernini during his visit to Paris in 1665: see Appendix, no. 9. See also Van der Meulen 1994–95, vol. 1, pp. 77–78. Malvasia 1678, vol. 1, pp. 359, 365, 484. On the 17th-century neologism ‘statuino’ see Pericolo, forthcoming. See Aymonino’s essay in this volume, pp. 50–52. Van der Meulen 1994–95, vol. 1, pp. 80–81. The statue is traditionally considered to be an eclectic work of the 1st century bc: see Stuart Jones 1926, pp. 43–47, no. 2; Haskell and Penny 1981, pp. 308–10, no. 78; Bober and Rubinstein 2010, p. 254, no. 203. Recent analysis has proved that the classicistic head, dating to the 5th century bc, was added to the Hellenistic body and given a Roman subject presumably in the 1st century bc, see Rome forthcoming. Rome forthcoming. Held 1986, p. 82; Paris 2000–01, pp. 417–18, no. 222. Held 1986, p. 82; Paris 2000–01, p. 418, fig. 222b. Held 1986, p. 82. Stechow 1968, pp. 54–55. See also Van der Meulen 1994–95, vol. 1, pp. 80–81. Lugt 1949, pp. 12–13, no. 1009, pl. XIV; Antwerp 1977, p. 129, no. 121. Coliva 1994, p. 170, no. 88. 10. Odoardo Fialetti (Bologna 1573–c. 1638 Venice) Artist’s Studio c. 1608 Etching in Odoardo Fialetti, Il vero modo et ordine per dissegnar tutte le parti et membra del corpo humano, Venice, Justus Sadeler, 1608 110 × 152 mm (plate); 194 × 238 mm (sheet) Inscribed l.l. with Fialetti’s monogram and ‘A 2’ and ‘No 208’. provenance: Elmar Seibel, Boston, from whom acquired. literature: Rosand 1970, pp. 12–22, fig. 10; Buffa 1983, pp. 315–37, nos 198 (295) – 243 (301), repr. (for the Artist’s Studio, p. 321, no. 210 (298), repr.); Amornpichetkul 1984, pp. 108–09, fig. 83; Bolten 1985, pp. 240–43, 245 and 248; Boston, Cleveland and elsewhere 1989, pp. 248–49, no. 130 (D. P. Becker); London 2001–02, pp. 198–200, no. 143; Houston and Ithaca 2005–06, pp. 94–96, no. 24 ( J. Clifford); Walters 2009, vol. 1, pp. 68–79, vol. 2, pp. 254–76, figs. 3.9–3.53; Walters 2014, pp. 62–63, fig. 59; Whistler 2015 (forthcoming). and now in the Borghese Gallery. 124 125 exhibitions: Not previously exhibited. Katrin Bellinger collection, London, 2002–013 A prolific artist whose large and diverse body of work comprises some fifty-five paintings and about 450 prints, Fialetti was born in Bologna in 1573 but moved to Venice where he was apprenticed to Jacopo Tintoretto (1519–94) and where he later collaborated with Palma Giovane (c. 1548– 1628).1 By 1596 he was listed as a printmaker and, from 1604 to 1612, a member of the Venetian painters’ guild, the Arte dei Pittori; he joined the Scuola Grande di San Teodoro between 1620 and 1622.2 His wide-ranging graphic oeuvre comprises religious, mythological, and literary subjects as well as landscapes, portraits, depictions of sport (fencing and hunt- ing), ornamental motifs and anatomical studies, and appears in different formats and genres, from single or series of prints to complete illustrations for books.3 His etchings remained influential for decades after his death not only in Venice and northern Italy, but even in France and England.4 Without doubt Fialetti’s most admired and influential works were his two volumes of etchings: Il vero modo et ordine per dissegnar tutte le parte et membra del corpo humano (‘The true means and method to draw all the parts of the human body’) and Tutte le parti del corpo humano diviso in piu pezzi . . . (‘all the parts of the human body divided into multiple pieces’). The first was published in Venice in 1608 by Justus Sadeler (Flanders 1583–1620), and the second, which is undated, presumably appeared in Venice shortly thereafter. The two books are varied in their plates and paginations and exist in different compilations, sometimes confusingly, combining elements of both as in the example shown here.5 The first of their kind to be published in Italy, these books served as portable instruction manuals in drawing for beginners and amateurs. They provided techniques for the correct construction of the human face and body and they also illustrate the crucial role of copying plaster casts in work- shop practice at the end of the 16th and beginning of the 17th centuries. The Bellinger volume includes a frontispiece dedication to Cesare d’Este, the Duke of Modena and Reggio (1561–1628), a leaf with a further dedication to Giovanni Grimani (the Venetian patrician and collector of antiquities, 1506–93), six pages with step-by-step instructions on draw- ing eyes, ears and faces, another title page, Tutte le parti . . . and thirty leaves of further faces, various parts of the body – arms, legs, torsos – grotesque heads and portraits.6 The volume concludes with two religious etchings by Palma Giovane.7 Unusual for manuals of the period is the scene depicted on the first plate following the dedications: a lively and infor- mal artists’ workshop, sometimes thought to be Tintoretto’s.8 In the foreground, young students seated on low wooden benches draw diligently before models and assorted plaster casts of body parts arranged on and below a table, while two older artists are painting at large easels in the background.9 At the far left, an apprentice grinds pigments. Scattered on the ground are various artists’ tools including compasses, an inkwell and feather quill pen. Boy draughtsmen representing three different ages – roughly from six to sixteen – diligently record a cast of the young Marcus Aurelius, similar in type to the marble of 161– 180 ad now in the Capitoline Museum in Rome (fig. 1).10 Behind them, two slightly older boys enthusiastically discuss a completed copy. The torso next to the bust, although reminiscent of the Belvedere Torso, (p. 26, fig. 23), appears to be based on a different antique sculpture, which seems to be the subject of a drawing of seven male torsos in various positions in a sketchbook by an unidentified Northern artist working in Rome in the mid- to late 16th century (Trinity College Library, Cambridge, fig. 2).11 The torso seen in Fialetti’s etching is comparable to the one with the upraised right arm placed at the lower centre of the Trinity page;12 it was evidently a favourite of Fialetti’s as it reappears later in his book (fig. 3).  The cast of the armless female torso on the floor on the right in the etching also derives from an antique prototype. She is probably based on a now-lost version of Venus Tying her Sandal, a Hellenistic type well known in the Renaissance and one that inspired many adaptations,13 such as that in an anonymous Italian drawing in the Fitzwilliam Museum, Cambridge (fig. 4). The male torso depicted in that drawing is also very similar to that in the etching. Fialetti would have had ample opportunity to study Antique statuary first-hand during a trip to Rome, made before he settled in Venice, though plaster casts were an integral part of Venetian workshop practice from the 16th century onwards.14 They were in wide use in Tintoretto’s studio where Fialetti trained. According to his biographer, Carlo Ridolfi, Tintoretto collected plaster casts of ancient and Renaissance marbles avidly and at great expense: ‘Nor did he cease his continuous study of whatever hand or torso he had collected’.15 From the chalk drawings he produced, ‘thus did he learn the forms requisite for his art’.16 The casts remained in the Tintoretto family workshop when Domenico (1560–1635), his son, took it over and are Fig. 1. Portrait of Marcus Aurelius as a Boy, 161–180 ad, marble, 74 cm (h), Capitoline Museums, Palazzo Nuovo, Albani Collection, Rome, MC 279 Fig. 2. Anonymous artist working in Rome, Studies of Male Torsos, mid to late 16th c., pen and brown ink, 280 × 450 mm, folio 47v from the Cambridge Sketchbook, Trinity College Library, Cambridge, R. 17.3 recorded in his will of 1630.17 The younger Tintoretto for a period considered bequeathing to painters his house and studio with its contents – reliefs, drawings and models – so that an academy could be established to train future generations of Venetian artists, although nothing came of this scheme.18 Whether the Artist’s Studio seen here is actually Tintoretto’s or simply a generalised venue, Fialetti asserted the centrality of drawing, especially for young artists.19 This also recorded his own experience: when as a boy, he asked what he should do in order to make progress, he was advised by Tintoretto that he ‘must draw and again draw’.20 By the early 17th century, repeated and systematic study from studio drawings, plaster casts, sculpture, as well as anatomy and the live model was deemed essential preparation for the accurate portrayal of the human figure.21 But in order to depict the body as a whole, students first had to master its individual parts, a tenet of Central Italian working practice that was perpetuated throughout the 16th century by artists and writers like Giovan Battista Armenini (1525–1609) and Federico Zuccaro (c. 1541–1609), who instructed pupils to draw parts of the body, an ‘alphabet of drawing’.22 Similar principles were espoused by the Carracci Academy in Bologna, of which Fialetti was no doubt aware.23 While precedents for instructional drawing books are found in 15th-century model and pattern books containing motifs that artists could copy into their compositions (p. 20, figs 3–4),24 Fialetti’s were the first aimed at students and amateurs as well as art lovers and collectors.25 They also seem to be the first of their kind to be printed in Venice.26 Other publications modelled after them soon followed in the Veneto and elsewhere in Italy, notably De excellentia et nobilitate delineationis libri duo, published    126 127  by Giacomo Franco (1573–1652) in 1611 based on designs by Palma Giovane and prints by Battista Franco (c. 1510–1561) as well as Gasparo Colombina’s Paduan publication of 1623.27 Like Fialetti’s compendia, Giacomo Franco’s treatise featured several plates incorporating antique motifs: busts of the Laocoön (p. 26, fig. 19), the Emperors Vitellius (p. 40, fig. 52) and Galba were inserted among the etched portraits on plates 18 and 20 while plates 14 and 25 showed torsos of a female Venus Tying her Sandal type much like that seen in Fialetti’s etching.28 In the decades that followed, the Antique would assume a greater role in drawing manuals.29 Several published at the end of the 17th century, like Gérard Audran’s Les Proportions du corps humain mesurées sur les plus belles figures de l’antiquité,1683 (p. 48, figs 72–73) and Jan de Bisschop’s Icones, 1668/69 (see cat. 13) and into the 18th century, such as Giovanni Volpato and Raffaello Morghen’s Principi del disegno, 1786 (p. 49, fig. 76), would focus on antiquities exclusively. The influence of Fialetti’s books was far-reaching and persisted long after his death. Plates from them were copied and adapted for publications appearing both in Italy and elsewhere:30 for example Johannes Gellee copied the Artist’s Studio and other etchings in his Tyrocinia artis pictoriae caelatoriae published in Amsterdam in 1639.31 Fialetti’s vol- umes also influenced a great many other books published in the Netherlands, paving the way for Abraham Bloemaert’s Tekenboek of 1740 (cat. no. 11).32 Furthermore, Fialetti’s manuals catered to a new demo- graphic – the connoisseur, gentleman scholar and mature artist – and would inspire similar books printed in England.33 With the growing market for Venetian art in England during the first decades of the 17th century and accelerated interest in drawing, Fialetti’s work was esteemed not just by Venetians but by aristocratic collectors visiting Venice like Sir Henry Fig. 3. Odoardo Fialetti, Two Male Torsos Seen from Behind, c. 1608, etching, 103 × 142 mm, plate 30 from Il vero modo...1608, Katrin Bellinger collection Fig. 4. Anonymous, Roman School, Studies after Antique Statuary (Fragments), c. 1550, pen and brown ink and brown wash, black chalk, heightened with white on blue-green paper, 294 × 212 mm, Fitzwilliam Museum, Cambridge, inv. 2978. © The Fitzwilliam Museum, Cambridge Wotton (1568–1639) and Thomas Howard, the 2nd Earl of Arundel (1585–1646), among others, who undoubtedly admired his facile draughtsmanship.34 Interestingly, Fialetti’s biographer, Malvasia, who praised his versatility, mentioned that as well as giving drawing lessons to Venetians, he also instructed Alethea Talbot, the Earl of Arundel’s wife, whose grandson owned one of Fialetti’s books.35 Through connections like these, Fialetti attracted the attention of English-based artists and architects including Edward Norgate (c. 1580–1650), Inigo Jones (1573–1652) and Anthony Van Dyck (1599–1641).36 Copied and emulated, Fialetti’s plates would play a key role in the development of the drawing book in England.37 Treatises by Norgate (1627–28, 1st ed.; 1648–49, 2nd ed.), Isaac Fuller (1654), Alexander Brown (1660), and others helped to further the principles set forth in Fialetti’s books, which were copied well into the 19th century.38 avl 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 For a full appraisal of his life and work on which this biographical account is based, see Walters 2009 and Walters 2014, pp. 57–67. Walters 2009, vol. 1, pp. 6–7; Walters 2014, p. 58. Walters 2014, p. 57. Walters 2009, vol. 1, p. vi. Beginning with Bartsch, there has been considerable confusion over the size and content of the two editions. See Walters 2009, vol. 1, pp. 68–70, particularly note 40 and Walters 2014, pp. 66–67, note 23; Greist 2014, pp. 14–15. Alexandra Greist (ibid., pp. 12–18) published a little-known instruc- tional text by Fialetti dictating how he wished the manual to be used, printed on the versi of nine prints bound together with early editions of both books (Rijksmuseum, Amsterdam, C/RM0024.ASC/552*1, Shelfmark 325G6). Among the plates not included in the present volume is the painter’s studio showing artists measuring human proportions: Buffa 1983, p. 321, no. 211 (298). The Holy Family and Christ Preaching. Boston, Cleveland and elsewhere 1989, p. 248; Nichols 2013b, pp. 195, 236, note 134. The standing painter in profile is believed by some scholars to be Tintoretto (Ilchman and Saywell 2007, p. 392; Nichols 2013b, p. 236, note 134). Nichols points to the similarity with the painter as seen in Francesco Pianta the Younger’s wood-carving, Tintoretto as ‘Painting’, in the Scuola Grande di San Rocco, Venice (Nichols 1999, p. 238, fig. 212). His elongated body, unlike the others in the etching, and his energetic pose and outstretched right arm, recall Tintoretto’s studies of single figures. Alternatively, Catherine Whistler (2015, forthcoming) has suggested that the studio may evoke Palma Giovane ‘given that there is something of his panache in the figure of the painter at work and in the costume of the seated artist’. She further noted their similarities to his self-portrait in the Brera (Mason Rinaldi 1984, pp. 92–93, 213, fig. 117). Fittschen and Zanker 1985, vol. 1, pp. 67–68, no. 61, vol. 2, pls 69, 70, 72. CensusID: 46328. Michaelis 1892, p. 99, no. 60v; Dhanens 1963, p. 185, no. 52v, fig. 30; Fileri 1985, pp. 39–40, no. 48, repr. Given in the 19th c. to a Flemish artist working in Rome around 1583 (Michaelis 1892), more recently the sketchbook has been associated with the sculptor, Giambologna (1529– 1608), and his Roman trip of 1550 (Dhanens 1963 and Fileri 1985). As pointed out by Eloisa Dodero (personal communication). Künzl 1970; Bober and Rubinstein. 2010, p. 69, no. 20; CensusID: 58121. Walters 2014, p. 57. Ridolfi 1984, p. 16. Ridolfi 1914, vol. 2, p. 14; Whitaker 1997. Ridolfi 1914, vol. 2, p. 14; Ridolfi 1984, p. 16. 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 Tozzi 1933, p. 316. Ridolfi 1914, vol. 2, pp. 262–63. Rosand 1970; Walters 2009, vol. 1, p. 73. Because ‘drawing was what gave to painting its grace and perfection’, Ridolfi added (Ridolfi 1914, vol. 2, p. 65; Ridolfi 1984, p. 16). Muller 1984; Bolten 1985; Walters 2009, vol. 1, p. 73. Armenini 1587, pp. 52–59 (book 1, chap. 7); Alberti 1604, p. 5 (quoting Federico Zuccaro); Amornpichetkul 1984; Bleeke-Byrne 1984; Roman 1984, p. 91; Greist 2014, p. 15. Gombrich 1960, p. 161–62; Rosand 1970, pp. 7, 14–15; Bolten 1985, p. 245; Boston, Cleveland and elsewhere 1989, p. 248 (D. P. Becker); Houston and Ithaca 2005–06, p. 95 (J. Clifford); Walters 2009, vol. 1, p. 74; Walters 2014, pp. 62, 66, note 6. On the Carracci’s influence on model books, see Amornpichetkul 1984, pp. 113–16. For model books, see Gombrich 1960, pp. 156–72; Rosand 1970, p. 5; Ames- Lewis 2000a, pp. 63–69; Nottingham and London 1983, pp. 94–101; Amornpichetkul 1984, p. 109. D. P. Becker, in Boston, Cleveland and elsewhere 1989, p. 248; J. Clifford, in Houston and Ithaca 2005–06, p. 95. Catherine Whistler has argued persua- sively that the book was aimed at a growing market of virtuosi, art lovers and collectors, who placed a social value on the knowledge of drawings (Whistler 2015, forthcoming). Walters 2009, vol. 1, p. 69; Walters 2014, p. 62. For the growing interest in publishing prints at this time in Venice, see Van der Sman 2000, pp. 235–47. Rosand 1970, p. 17–19; Amornpichetkul 1984, p. 110–12; Walters 2009, vol. 1,p.74. Rosand 1970, pp. 15, 27. Amornpichetkul 1984, p. 115. Ibid., p. 112; D. P. Becker in Boston, Cleveland and elsewhere 1989, p. 248 (D. P. Becker); Walters 2009, vol. 1, p. 75–79. Bolten 1985, pp. 132–39. Ibid., pp. 119, 131, 133–34, 141, 143, 153, 157, 188–207, 243–56; Walters 2009, vol. 1, p. 79. Whistler 2015 (forthcoming). For a fundamental discussion of Fialetti and his impact in England, see Walters 2009, vol. 1, Chapter 5, pp. 152–197. See also Walters 2014, pp. 64–65. Malvasia 1678, vol. 2, p. 312; Greist 2014, p. 12. Walters 2009, vol. 1, p. 152; Walters 2014, pp. 64–65 Amornpichetkul 1984, p. 112; Walters 2009, vol. 1, pp. 78, 152. Walters 2009, vol. 1, pp. 78, 180–97; Greist 2014, p. 14.   128 129  11. Frederick Bloemaert (Utrecht c. 1616–90 Utrecht) after Abraham Bloemaert (Gorinchem 1566–1651 Utrecht) A Student Draughtsman, Drawing Plaster Casts 1740 Engraving and chiaroscuro woodcut with two-tone blocks (brown and sepia), titlepage from Het Tekenboek (‘The Drawing Book’), Amsterdam, Reinier and Josua Ottens, 1740 303 × 222 mm (image); 378 × 286 mm (sheet) provenance: Elmar Seibel, Boston, from whom acquired. literature: Strauss 1973, p. 348, no. 1 64, repr.; Lehmann-Haupt 1977, pp. 155–57, fig. 125; Amsterdam and Washington D.C. 1981–82, pp. 16–17; Bolten 1985, p. 49, repr., pp. 57–67; Roethlisberger and Bok 1993, vol. 1, p. 395, vol. 2, fig. T1a; Bolten 2007, vol. 1, pp. 362, 366, under no. 1150.  exhibitions: Not previously exhibited. Katrin Bellinger collection, inv. no. 1995-071 Abraham Bloemaert, a prolific artist by whose hand over two hundred paintings and sixteen hundred drawings are known, was born in Gorinchem in 1566.1 From the age of 15 or 16, he spent three years in Paris from 1581–83, studying for six weeks with the otherwise unknown Jehan Bassot and then for two and a half years with the similarly obscure ‘Maistre Herry’. His third teacher in Paris was his fellow countryman Hieronymus Francken I (1540–1610).2 In 1611, along with Paulus Moreelse (1571–1638) and several colleagues, Bloemaert founded the new painters’ guild in Utrecht, the Guild of St Luke, and became its deacon in 1618.3 Shortly after the guild’s foundation, around 1612, some form of drawing academy must have been established in Utrecht, again with Bloemaert’s involvement. We learn about this from a letter to the Utrecht antiquarian Arnout van Buchell (1565–1641) and in Van ’t Light der Teken en Schilder konst (‘About the Light of the Art of Drawing and Painting’) of 1643–44, by Crispijn de Passe the Younger (c. 1597– c. 1670).4 In the introduction to his book De Passe recalls how he learned his art together with the son of Paulus Moreelse ‘in a famous drawing school which was, at that time organized by the most eminent masters’.5 The well-known print Modeltekenen (‘Model Drawing’) from De Passe’s book is thought to repre- sent this school (fig. 1) and it has even been suggested that one of the two tutors looking over the students’ work is Abraham Bloemaert himself.6 We do not know how long this ‘Academy’ existed. Bloemaert had a large studio of his own with many pupils, including his four sons and many well-known Dutch artists, such as the Italianate painters Cornelis van Poelenburgh (1594/95–1667), Jan Both (c. 1618–52) and Jan Baptist Weenix (1621–60/61), as well as the Caravaggists Gerrit van Honthorst (1590–1656) and Hendrick ter Brugghen (1588–1629).7 A development can be traced in Bloemaert’s work from a robust Mannerism, influenced by artists such as Joachim van Wtewael (c. 1566–1638), towards a more classicist style which he presumably derived from Hendrick Goltzius (1558–1617) and his Haarlem colleagues. Caravaggism made a brief appearance in Bloemaert’s work during the early 1620s, when his first pupils returned from Italy – which, inciden- tally, he never visited himself. At the end of Bloemaert’s life his style grew smoother and more even. In teaching, Bloemaert undoubtedly used his own drawings as examples for his many pupils to copy.8 He found this approach so productive – and perhaps commercially attractive – that towards the end of his life he joined forces with his son Frederick (c. 1616–90) in the publication of the Tekenboek or ‘Drawing Book’, a compilation of specimen drawings.9 The prints in the Tekenboek, which were cut by Frederick after drawings by his father, were published in instalments from c. 1650.10 Abraham’s reversed preparatory drawings, which he probably began around 1645 and some of which reproduce earlier work, are preserved en groupe in the Fitzwilliam Museum in Cambridge,11 including that for Fig. 1. Crispijn de Passe, Model Drawing, from: Van ’t Light der Teken en Schilder konst (‘About the Light of the Art of Drawing and Painting’), 1643, engraving, 330 × 390 mm, Rijksmuseum Research Library, Amsterdam, inv. no. 330B13  130 131  Fig. 2. Abraham Bloemaert, A Student Draughtsman, Drawing Plaster Casts, pen and brown ink, 397 × 301, Fitzwilliam Museum, Cambridge, Inv. PD 166–1963.5. © The Fitzwilliam Museum, Cambridge the title page displayed here (fig. 2).12 The title page of Bloemaert’s Tekenboek, catalogued here in the most popular 18th-century edition (1740), shows an artist seated on the floor of an imaginary studio, drawing 13 artist has again created the suggestion of antique pieces. Images of artists drawing in a studio combined with assem- blages of plaster casts are highly appropriate subjects for drawing books. In earlier Italian and Netherlandish examples we encounter similar images, such as Modeltekenen (‘Model Drawing’) by De Passe from 1643 (fig. 1), by Petrus Feddes (1586–c. 1634) from around 1615, and especially by Odoardo Fialetti (1573–c. 1638), in his highly influential Il vero modo et ordine per dissegnar tutte le parte et membra del corpo humano (‘The true means and method to draw all the parts of the human body’) and Tutte le parti del corpo humano diviso in piu pezzi . . . (‘all the parts of the human body divided into multiple pieces’) of c. 1608 (also featured here as cat. 10).18  For apprentices the copying of two-dimensional works, such as prints and drawings – and also paintings – was followed by drawing from plaster casts, a crucial activity in the work- shop practice. Ideal examples were employed to prepare the student for drawing from life, from the real world and especially from clothed and nude models.14 Such plaster casts invariably included copies of well-known classical statues, plus copies of more modern works and casts of limbs and body parts taken from live models, such as those seen here hanging on the wall behind the draughtsman. In this image the casts do not include any firmly identifiable antique statues, although a number are clearly intended to suggest them, such as the female head at lower right with the short, rounded hairstyle and the male torso beside it, which resembles the Belvedere Torso (p. 26, fig. 23); the pose of the reclining man is reminiscent of an antique River God. In this image Bloemaert made clear his allegiance to classical tradition, and the importance of antique works as the Bloemaert’s Tekenboek, which only contains specimens Fig. 3. Frederick Bloemaert after Abraham Bloemaert, A Draughtsman Sitting at a Table, Drawing after Plaster Casts, engraving, 280 × 165 mm, Katrin Bellinger collection, London from the plaster figure of an elderly, reclining man. foundation for the learning of art.15 Midway through the Tekenboek, Bloemaert reiterates this 132 133 sentiment regarding the importance of antique works by incorporating a similar title page, A Draughtsman Sitting at a Table, Drawing after Plaster Casts (fig. 3), in the section on ‘Mannelijke en Vrouwelijke Academie Figuren’ (‘Male and Female Academy Figures’).16 This features the same or a similar draughtsman, now seated at a table in a more realistic setting and drawing from a plaster model of a nude male torso. Around him lie other casts: a male head, a foot and a further torso seen from the back. As in the first title page, no recognisable antique sculptures can be seen, although the 17 of heads, faces, body parts and figures, is a product of direct studio practice. It is thus different in approach from the other important mid-17th century Netherlandish drawing book, mentioned above, Van ’t Light der Teken en Schilder konst (‘About the Light of the Art of Drawing and Painting’; 1643), by De Passe the Younger. De Passe primarily focuses on the structure, proportion and anatomy of the human body;19 examples of models and ways to learn to draw them are of secondary importance. Bloemaert’s Tekenboek is actually closer in character in its approach and images to the two volumes of etchings produced by Fialetti, which were probably known to the Bloemaerts in one of the Dutch editions.20 The Bloemaerts’ publication might well be described as the Northern counterpart to Fialetti’s books.21 And as in those the emphasis in the Tekenboek is on providing many practical examples of heads, faces and limbs to draw. Like Fialetti’s works it may be regarded as a portable instruction manual for drawing. Bloemaert’s Tekenboek was exceptionally popular from the time of its publication around 1650 to the end of the 18th century.22 Many editions followed the first (very rare) editio princeps, which probably contained 100 plates arranged in five parts.23 After his father’s death in 1651, Frederick must have published one or more sub-editions with 120 plates in six parts and around 1685 Nicolaes II Visscher (1649–1702) another with 160 plates. Several decades later, in 1723, an edition by Louis Renard (dates unknown) appeared (of which only one copy is known), with 166 plates in eight parts arranged by Bernard Picart (1673–1733).24 The same arrangement was retained in the best-known edition of Bloemaert’s work, published by Reinier and Josua Ottens, the magnificent 1740 volume displayed here. At that time the title was changed to Oorspronkelyk en vermaard konstryk tekenboek van Abraham Bloemaert (‘Original and famous artful drawing book of Abraham Bloemaert’). Bloemaert’s popula- rity was certainly not restricted to the Dutch Republic: artists such as François Boucher (1703–70) and Balthasar Denner (1685–1749) also took the Utrecht master as a model for their own work.Teekenschool/die op dien tijt van de voornaamste meesters wiert gehouden heb gedaan’. Schatborn suggests that this drawing school might have been in France where Van de Passe spent a long period, 1617–30 (see Amsterdam and Washington D.C. 1981–82, p. 21). Veldman emphasises that De Passe’s book is a tribute to the city of Utrecht, thanking the city for spiritual nourishment including the Utrecht Drawing School (Veldman 2001, pp. 337–38). Suggestion by Bok in Roethlisberger and Bok 1993, vol. 1, p. 571. Roethlisberger and Bok 1993, vol. 1, pp. 645–51. Such a group of drawings (mixed with prints) occurs for example in the estate of the painter Gaspar Netscher (1639–84): ‘In the brown portfolio [ ] are 327 both prints and drawings [ ] serving for disciples to copy’; see Amsterdam and Washington D. C. 1981–82, p. 17; Plomp 2001, p. 37. For artists’ practical education in the Netherlands and Italy in the 16th and 17th centuries see Bleeke-Byrne 1984, pp. 28–39. Bloemaert’s Tekenboek was published with the Latin title: Artis Apellae, liber hic, studiosa juventus, / Aptata ingenio fert rudimenta tuo ... (This book, studious youths, brings to your minds the appropriate rudiments of the art of Apelles ...); see Bolten 1985, p. 51; Roethlisberger and Bok 1993, vol. 1, p. 395 [translation]). It is possible that Abraham Bloemaert conceived the idea of producing such a Tekenboek much earlier in his career: the Giroux album, containing many figure studies, may well constitute Bloemaert’s initial selection for such a didactic project; see Bolten 1993, p. 9, note 6; Bolten 2007, vol. 1, pp. 350–61. For the publication in instalments see: Bolten 2007, vol. 1, p. 362. Bolten 1985, p. 66; Bolten 2007, vol. 1, pp. 362–97, nos. 1150–1311. For doubts regarding Bloemaert’s authorship of the drawings in Cambridge see Bolten 1985, p. 48 (‘A. or F. Bloemaert’); Roethlisberger 1992, p. 30, note 41; Roethlisberger and Bok 1993, vol. 1, p. 391; Bolten 1993, pp. 6–8. Bolten 2007, vol. 1, p. 363, no. 1150, vol. 2, fig. 1150. The scene was engraved, then supplemented with a chiaroscuro woodcut with two-tone blocks (brown and sepia). This technique and the dimen- sions (303 × 222 mm [image]) are the same in the editio princeps from c. 1650 and the 1740 edition displayed here (see Roethlisberger and Bok 1993, vol. 1, p. 395). See Aymonino’s essay in the present volume, pp. 15–77. According to Roethlisberger and Bok (1993, vol. 1, p. 395), there is little or no discernible influence of ancient sculpture in his own work. The engraving, A Draughtsman Sitting at a Table, Drawing after Plaster Casts (fig. 3), does not appear in the editio princeps from circa 1650, but does feature in the 1685 edition and later ones (Bolten 2007, vol. 1, p. 392, under no. 1290). The original drawing for this engraving is also in the Fitzwilliam Museum, Cambridge: Bolten 2007, vol. 1, p. 392, no. 1290, vol. 2, fig. 1290. For Feddes, see Bolten 1985, p. 18, repr.; Roethlisberger and Bok 1993, vol. 1, p. 395. For De Passe’s Tekenboek see: Amsterdam and Washington D.C. 1981–82, pp. 15–17, 21, repr. For Dutch editions of Fialetti and for Dutch publications based or partially reprinting Fialetti see Bolten 1985, pp. 119, 131, 133–34, 141, 143, 153, 157, 188–207, 243–56. According to Strauss (1973, p. 348) Bloemaert’s title page was ‘patterned partly on the frontispiece of Odoardo Fialetti’s Vero modo et ordine per dessignar Tutte le parti et membra del corpo humano, Venice (Sadeler), 1608’. See also Lehmann-Haupt 1977, p. 157. For Bloemaert’s fortuna critica see: Roethlisberger and Bok 1993, vol. 1, pp. 47–50. Regarding the Tekenboek Roethlisberger surmises that the 1740 edition was intended for print and book collectors, rather than artists: ibid., vol. 1, p. 394. For the various reprints of Bloemaert’s Tekenboek cited in this paragraph see Bolten 2007, vol. 1, p. 362. There were also various editions of sets of prints copied after Frederick’s engravings [consequently printed in reverse] during the second half of the 17th century and in the 18th century (see ibid., p. 362, note 22). The only known copy of the 1723 edition is in the Centraal Museum in Utrecht (see Bolten 2007, vol. 1, p. 362). Slatkin, 1976; Gerson 1983, pp. 109–10 (Boucher and Fragonard), p. 189 (Piazzetta).  1 2 3 4 5 mp For Bloemaert’s life on which this biographical account is based, see Roethlisberger and Bok, 1993, vol. 1, pp. 551–87; Bolten 2007, vol. 1, pp. 3–5. For ‘new’ Bloemaert paintings, see Roethlisberger, 2014, pp. 79–92. Van Mander 1994–99, vol. 1, pp. 448–49 (fol. 297v). Roethlisberger and Bok 1993, vol. 1, p. 570. Ibid., vol. 1, p. 571. Verbeek and Veldman 1974, p. 146, no. 191; De Passe 1643–44, unpaginated introduction, Aen de Teekunst-lievende en-gunstige lezers, to the first part, met de zoon van Paulus Moreelse en anderen) in een vermaarde  12. Michael Sweerts (Brussels 1618–1664 Goa, India) A Painter’s Studio c. 1648–50 Oil on canvas, 71 × 74 cm provenance: Private collection, Moscow; acquired by Dr Abraham Bredius (1855–1946); purchased by the Rijksmuseum in 1901 for f. 400. selected literature: Martin 1905, pp. 127, 131, pl. II [a]; Martin 1907, pp. 139, 149, no. 10; Horster 1974, pp. 145, 147, fig. 2; Van Thiel 1976, p. 532, A 1957, repr.; Döring 1994, pp. 55–58, fig. 2, 60–62; Kultzen 1996, pp. 88–89, no. 6, repr., with previous bibliography. exhibitions: Milan 1951, no. 166, pl. 117; London 1955, pp. 90–92, no. 77 (D. Sutton), not repr.; Rome 1958–59, pp. 32–34, no. 4 (R. Kultzen); Rotterdam 1958, pp. 36–37, no. 4; Toyko 1968–69, no. 63; Cologne and Utrecht 1991–92, pp. 270–72, no. 33.1 (R. Kultzen); Hannover 1999, pp. 18–20, fig. 9; Amsterdam, San Francisco and elsewhere 2002, pp. 97–99, no. VII (G. Jansen); Antwerp 2004–07 (no catalogue); Brussels 2007–08 (no catalogue); Doha 2011 (no catalogue).  Amsterdam, Rijksmuseum, SK-A-1957 We have entered the shadowy inner sanctum of a painter’s studio in mid-17th-century Rome. A young draughtsman perched on a wooden stool to the left studies a life-size model of a flayed nude écorché, assuming a balletic pose at centre right. Behind it, another boy draughtsman, younger still, sketches a classical female bust resting on a table, which is shared on the right by the studio assistant who grinds red-hued pigments. Working at an easel in the left back- ground is a painter, perhaps the master of the studio, capturing the likeness of a male nude posed in the corner. Partly obscured in the shadows on the far left are two gentle- men visitors in Dutch dress. One glances in our direction while the other gestures to our right, perhaps towards the painter or the écorché. The main attraction, however, is the abundant array of plaster casts, mostly antique, piled up in the foreground – heads, torsos, limbs and a relief – all bathed in warm, golden light. Though widely admired in his lifetime, Sweerts remains a somewhat enigmatic figure about whom relatively little is known.1 He was born in Brussels in 1618, but is first docu- mented from 1646 to 1651 as residing on the Via Margutta in the parish of S. Maria del Popolo in Rome, an area favoured by Dutch and Flemish expatriates.2 Already twenty-eight when he arrived in the city, he would have had at least some artistic training before then, probably in the North, though his early teachers have not been identified. Neither signed nor dated, this canvas was probably executed by Sweerts c. 1648–50 in Rome, where he remained until 1652 or later.3 In travelling south, Sweerts was following a long-standing educational tradition, one succinctly articulated by Dutch painter and art theorist Karel van Mander (1548–1606) who stated: ‘Rome is the city where before all other places the Painter’s journey is apt to lead him, since it is the capital of Pictura’s Schools’.4 It is evident from the Painter’s Studio and other depictions of the same or similar theme of the artist at work, a subject that clearly fascinated him, that Sweerts was well aware of artistic theory of the day, particularly the importance placed on learning through drawing.5 Karel van Mander recom- mends beginning artists to ‘seek a good master’, one who has decent works of art in his workshop, that is, an ample supply of study materials such as books, prints, drawings and plaster casts. The pupil must learn to draw ‘first with charcoal, then with the chalk or pen’.6 After making copies of prints and drawings by various masters, the student should progress to plaster casts, an important step. On equal footing with the copying of casts was the study of anatomy. However, given the difficulty of procuring corpses, artists at this time copied anatomical figures in plaster or ‘flayed plaster casts’.7 This was followed by study of the living figure before the student finally proceeded to painting. Written at the beginning of the 17th century, Van Mander’s book thus made available for Northern artists those principles of artistic education, the ‘alphabet of drawing’ that had been codified in Italy during the 15th and 16th centuries.8 By clearly setting out the stages of study established by Van Mander and others, first drawing from casts and anatomical figures in plaster, then the live model, Sweerts’ composition is a visual lesson in the main principles of studio practice required to become a successful painter.9 The goal is manifested in Sweerts’ completed Wrestling Match canvas of c. 1648–50 displayed on the wall in the back- ground, which features figures based on classical models.10 His didactic intent to illustrate the step-by-step approach to learning recalls Odoardo Fialetti’s Artist’s Studio, c. 1608, from Il vero modo, the instructional manual on drawing published in Venice about forty years earlier (cat. 10), no doubt known to Sweerts through one of the Dutch publica- tions that reproduced plates from it.11 Plaster casts and models were in constant use in Northern workshops from the late 16th century onwards.12 Though he never travelled to Italy, Van Mander’s friend, Cornelis Cornelisz. van Haarlem (1562–1638), had a collec- tion of ninety-nine casts after antique and anatomical 134 135  models.13 Van Mander praised his colleague (with whom he started, along with Hendrick Goltzius, an informal academy in Haarlem in 1583) for selecting for his work ‘from the best and most beautiful living and breathing antique sculptures’.1 4 Sumptuously displayed in a large pile in the foreground, a veritable feast for the eyes, casts play a starring role in Sweerts’ painting (detail, fig. 1). While light enters both from the window and the open door, which reveals an urban view, that light that illuminates the sculptures so brilliantly and mysteriously emanates from an unseen source, over the viewer’s shoulder. The casts are presented with clarity and in sharp focus, in marked contrast to the more generalised treatment of most of the other elements in the composi- tion.15 While the human expressions seem almost blank, those of the casts are animated and alive: the comment often made about Sweerts, that ‘his people often look like sculptures and his plaster casts seem almost human’, rings very true here.16 Several sources for the antique casts can be identified, beginning with the head of a woman on the table, the subject of study for the young boy sketching in the middle distance. As noted previously,17 she is a much reduced copy of the colossal so-called Juno Ludovisi (considered now to be a portrait of Antonia Augusta, daughter of Octavia Minor and Mark Antony), which, from 1622, was in the Ludovisi collection in Rome and is now in the Palazzo Altemps in Rome.18 The most prominent among the jumble of casts in the foreground on the right is the head of a woman, usually identified as Niobe from the famous group in the Uffizi (fig. 2, see also p. 30, fig. 34), but equally, the head could be that of one of her daughters from the same group.19 They were discovered together with the Wrestlers (p. 30, fig. 33) on a vineyard outside Rome.20 Immediately to the left of the Niobe, is a cast of a limbless Apollo based on a model by François Duquesnoy (1597–1643).21 The head of an old woman in profile at the back of the pile to the left is inspired by the Roman copy of a Hellenistic original donated in 1566 by Pius V to the Con-servatori Palace and today in the Capitoline Museum (fig. 3).22 She contrasts with the youthful beauty to her right, the head of the celebrated Venus de’ Medici (Florence, Uffizi, see p. 42, fig. 56). Behind the old woman is a head of the Laocoön, ‘bronzed’ in effect, while the rest of his body, seen from behind, rests on the top of the pile of casts (p. 26, fig. 19).23 The relief propped up against the table at the back is a cast of a Roman terracotta plaque, Winter and Hercules, from the Campana collection and acquired by the Louvre in 1861 Fig. 2. Niobe, from the Niobe Group, possibly a Roman copy of a Greek original of the 4th century bc, marble, 228 cm (h), Uizi, Florence, inv. 294 Fig. 3. Statue of an Old Woman, Roman copy of a Hellenistic original, marble, 145 cm (h), Capitoline Museums, Rome, inv. Scu 640     Fig. 1. Michael Sweerts, A Painter’s Studio (detail) 136 (fig. 4).24 It was admired by artists like Giovanni da Udine (1487–1564) in the 16th century when it was recorded in the collection of Gabriele de’ Rossi (1517),25 and into the 17th by others such as Pietro da Cortona (1596–1669) and Pietro Testa (1612–50), whose copies after it are preserved respec- tively in the Uffizi, Florence, and in the Royal Collection at Windsor Castle.26 That this collection of casts was an important part of Sweerts’ working practice is suggested by their regular appearance in other compositions. Some familiar faces – the head of the old woman, the Juno Ludovisi, the Niobe and others – return in Sweerts’ later Artist’s Studio, signed and dated 1652, in the Detroit Institute of Arts (fig. 5). They are seen among examples, including a cupid and torso by François Duquesnoy; this is being scrutinised by an elegant young man, probably in Rome on the Grand Tour, while the painter appears to be explaining how Duquesnoy’s Fig. 4. Winter and Hercules, Roman, 1st century ad, terracotta, 60 × 52 cm, Louvre, Paris, inv. Cp 4169 figures once formed part of a group.27 Closer to the present composition in conception, is the Artist’s Studio with a Woman Sewing in the Collection Rau Foundation UNICEF, Cologne (fig. 6).28 Though almost certainly a workshop picture, it evidently documents Sweerts’ original design and intention. There is a similar haphazard arrangement of casts, with many of the same specimens reappearing, including the bronzed head of Laocoön and his torso, placed beside modern works, including the copy after a marble relief of François Duquesnoy, Children Playing with a Goat.29 Many other celebrated compositions by Sweerts feature antique casts (see p. 40, fig. 52). It is not known why he chose to display them with such prominence and so frequently, but he may well have been catering to a new class of patron, the Dutch Grand Tourist.30 Among Sweerts’ most important benefactors in Rome in the 1640s were Dutch tourists, especially merchants.31 Thus three of five brothers from the Deutz textile merchant family were in Italy between 1646 and 1650, and that is when they probably acquired the many paintings by Sweerts listed in their inventories, including an Artist’s Studio owned by Joseph Deutz.32 Significantly, the documents also suggest that Sweerts acted as the Deutz’s agent for purchasing antique sculpture as well as modern pictures, as so many other painters were to do in the next century.33 Another important patron in Rome, Prince Camillo Pamphilj, the nephew of Pope Innocent X (r. 1644–55), may have involved Sweerts in teaching. He painted a range of works for the Prince, who, interestingly, possessed a version in porphyry of the ever-present Head of the Old Woman; he 137    also owned the Duquesnoy relief that occurs in Sweerts’ Artist’s Studio now in Cologne (fig. 6).34 An intriguing pay- ment recorded in the Pamphilj account book to Sweerts on 21 March of 1652 for ‘various amounts of oil used since 17th February in His Excellency’s academy’, suggests Sweerts’ direct involvement with an academy in Rome.35 By the summer of 1655, Sweerts had returned to Brussels where he founded ‘an academy of life drawing’, primarily to educate tapestry and carpet designers.36 Something of its original appearance might be gleaned from Sweerts’ Drawing School in the Frans Hals Museum in Haarlem (c. 1655–60), where students of various ages draw from a live male nude.37 In this painting, conspicuously absent are plaster casts; the animation is now provided by the more than twenty young students assuming various attitudes, some concentrating on the task at hand, others less focused. However, there was probably another version by Sweerts of this painting, now known only in a copy, where the live nude has been substi- tuted by a cast of a classical female sculpture.38 Evidently plaster models were never far from his mind. aa & avl 1 For his life and work, see Kultzen 1996 and Amsterdam, San Francisco and elsewhere 2002, with previous literature. 2 Sutton 2002, p. 12; Bikker 2002, pp. 25–26. 3 Sutton 2002, p. 21. 4 In his ‘Foundation of the Painter’s Art’ (Grondt der Schilder-Const), published together with his ‘Lives’ and his two other theoretical treatises in the Schilder-Boeck (1604). See Van Mander 1604, fol. 6v, chap. 1, no. 66; Van Mander 1973, vol. 1, pp. 92–93, chap. 1, no. 66; Stechow 1966, pp. 57–58. Van Mander further noted, ‘From Rome bring home skill in drawing, the ability to paint from Venice, which I had to bypass for the lack of time.’: Stechow 1966, p. 58; Sutton 2002, pp. 12–13. 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 Sutton 2002, pp. 11, 17. In the preface to his book on painters: Van Mander 1604, fol. 9r, chap. 2, no. 9; Van Mander 1973, pp. 102–03, chap. 2, no. 9; Martin 1905, p. 126. Martin 1905, p. 127. See Aymonino’s essay in this catalogue, pp. 33–34. Martin 1905, p. 127. Staatliche Kunsthalle Karlsruhe; Amsterdam, San Francisco and elsewhere 2002, pp. 94–96, no. VI (G. Jansen). For example, Johannes Gellee’s Tyrocinia artis pictoriae caelatoriae published in Amsterdam in 1639 where copied versions of the Artist’s Studio and other etchings appear: see Bolten 1985, pp. 132–39 and for other publications based or reprinting parts of Fialetti’s treatise see Bolten 1985, pp. 119, 131, 133–34, 141, 143, 153, 157, 188–207, 243–56. For the use of plaster casts in 17th- and 18th-century artists’ studios in Antwerp and Brussels, see Lock 2010. Rembrandt’s bankruptcy inventory of 1656 lists numerous plaster casts, from life as well as from the Antique, which were doubtless an essential part of his workshop practice (Strauss and Van der Meulen 1979, pp. 349–88; Gyllenhaal 2008). See also cat. 23, note 18. Van Thiel 1965, pp. 123, 128; Van Thiel 1999, p. 84, and Appendix II, pp. 254–55, 257, 270–71, 273; Sutton 2002, p. 18. Van Mander 1604, fol. 292v; Van Mander 1973, pp. 428–29. Sutton 2002, p. 18. This also may be due, in part, to the compromised condition of the canvas. Sutton 2002, p. 20. Martin 1905, p. 127; Horster 1974, p. 145. Haskell and Penny 1981, p. 100; Palma and de Lachenal 1983, pp. 133–37, no. 58 (de Lachenal). Horster 1974, pp. 145; Döring 1994, p. 60; Amsterdam, San Francisco and elsewhere 2002, p. 97. For the group, see Haskell and Penny 1981, pp. 274–79, no. 66, figs 143–47, and for the daughter that it resembles the most, fig. 145; Cecchi and Gasparri 2009, pp. 318–19, no. 596.1. Haskell and Penny 1981, p. 274; Cecchi and Gasparri 2009, pp. 62–63, no. 50. Noted by Döring 1994, pp. 60–61. For the Duquesnoy sculpture, see Amsterdam, San Francisco and elsewhere 2002, p. 122, no. XV-2. On Duquesnoy’s fame as a ‘classical’ sculptor during the 17th century and later see Boudon-Mauchel 2005, pp. 175–210. As first observed by Döring 1994, p. 62. For the statue see Stuart Jones 1912, pp. 288–89, no. 22. Döring 1994, p. 63. The subject was noted by Denys Sutton (London 1955, p. 91) and Marita 138 139 Fig. 5, Michael Sweerts, An Artist’s Studio, 1652, oil on canvas, 73.5 × 58.8 cm, The Detroit Institute of Arts, inv. 30.297 Fig. 6, After Michael Sweerts, Artist’s Studio with a Woman Sewing, c. 1650, oil on canvas, 82.5 × 106.7 cm, Collection RAU-Fondation UNICEF, Cologne, inv. GR 1.874 25 26 27 28 29 Horster (1974, p. 145) who both identified the motif from a sketchbook by Francisco de Hollanda. Sutton and Guido Jansen (Amsterdam, San Francisco and elsewhere 2002, p. 97) believed the plaster relief to combine scenes from two separate ones: the Winter and Hercules and the Cretan Bull. However, as Eloisa Dodero has noted (personal communication), it is based on the single terracotta relief in the Louvre, see Christian 2002, pp. 181–84 no. II.15, fig. 25; De Romanis 2007, pp. 235–238, fig. 1. For the acquisition by the Louvre, see Sarti 2001, p. 121. Dacos 1986, p. 222; Christian 2002, pp. 181–86. For the Cortona drawing: Briganti 1982, fig. 286.27; for the Testa sheet at Windsor: Christian 2002, pp. 181–82, fig. 26. See Amsterdam, San Francisco and elsewhere 2002, pp. 120–23, no. XV, where the painting is discussed at length. Amsterdam, San Francisco and elsewhere 2002, p. 110, fig. xii–i (as by or after Sweerts). Many copies are known suggesting it was a much-admired composition. Bikker 2002, p. 29, fig. 27. 30 31 32 33 34 35 36 37 38 Ibid., p. 27. Ibid., p. 27. Sutton 2002, pp. 15–16; Bikker 2002, pp. 27–28. Described in documents in general terms as ‘Ein Schildersacademetje’, it is not known which of the surviving studio pictures it was. According to the collections database, Detroit Institute of Arts website, it was theirs (fig. 5). Bikker 2002, pp. 27–28. Ibid., pp. 28–31, figs 25, 27. Ibid., p. 29. This was probably a private academy and not the Accademia di San Luca, of which Sweerts was possibly a member. He was responsible for collecting membership dues from his compatriots: see Bikker 2002, pp. 25–26. Lock 2010, p. 251; Bikker 2002, p. 31. Amsterdam, San Francisco and elsewhere 2002, pp. 133–35, no. xix (G. Jansen). Present whereabouts unknown; see Amsterdam, San Francisco and elsewhere 2002, p. 133, fig. xix–i.  13. Jan de Bisschop (Amsterdam 1628–1671 The Hague) Two Artists Drawing an Antique Bust (recto); A Reclining Man seen from Behind (verso) c. 1660s Pen and brown ink, brushed with brown wash, 91 × 135 mm Inscribed recto l.r. in pencil: J. Bisschop. watermark: part of the crowned coat of arms of Amsterdam.1 provenance: Private collection, Germany; Sotheby’s, London, 13 April 1992, lot 260, from whom acquired. literature: London 1992 (unpaginated), repr.; Broos and Schapelhouman 1993, p. 51, under no. 34, fig. b. exhibitions: Not previously exhibited.  Katrin Bellinger collection, inv. no. 1992-012 Born in Amsterdam in 1628, Jan de Bisschop was among a group of talented amateur artists, including his immediate contemporaries and friends Constantijn Huygens the Younger (1628–1697) and Jacob van der Ulft (1627–1689) who all worked in Netherlands around the mid-17th century.2 De Bisschop was classically educated and trained as a lawyer; he became an advocate at the judicial court of The Hague. But he also distinguished himself as a writer, theoretician, literary scholar, and as a connoisseur of the Antique. And although without formal artistic training, he was an accomplished draughtsman and etcher who, through his publications reproducing ancient sculpture and Old Master drawings, disseminated in the Netherlands an anti- quarian culture and an aesthetic based on the works of classical antiquity. He also helped introduce the practice of drawing after both antique sculpture and live models in the Hague.3 His large corpus of drawings, numbering in the upper hundreds, consists of sun-infused, Italianate land- scapes, lively figure and genre studies, portraits, and many copies after antique sculpture and paintings by Old Masters, Fig. 1. Bust of the so-called Lysimachus, Roman copy of the Augustan period from a Greek original of the 2nd c. bc, marble, 49 cm (h), Museo Archeologico Nazionale di Napoli, inv. 6141 usually executed in pen and brush and wash with a distinc- tive warm, golden-brown ink, referred to from the late 17th century as bisschops-inkt (Bisschop’s ink).4 As in the examples illustrated here, he often effectively combined dense washes with reserves of untouched paper to create a light-drenched, fresh out-of-doors effect. In this lively and rapid sketch, probably made on the spot, two seated draughtsmen, seen from the back, draw after an antique bust of a man. On the reverse one of them is sketched again, casually reclining. The object of their gaze is a bust nowadays identified as of Lysimachus, the Greek successor to Alexander the Great, who from c. 306 to 281 bc reigned as King of Thrace, Asia Minor and Macedonia.5 Discovered c. 1576, it was acquired by Cardinal Odoardo Farnese from the Giorgio Cesarini collection, and is preserved today in the Museo Archeologico Nazionale di Napoli (fig. 1). Doubt- less known to de Bisschop through one of the plaster casts which circulated in Northern Europe at the time, the bust was in the 17th century thought to represent a philosopher; from the 18th century he was identified more specifically – but wrongly – as the Athenian legislator, Solon. It was copied profusely from the 17th century onwards, and was included, for example, in a portrait painted by Isaac Fuller (1606–72) in c. 1670 (Yale Center for British Art, New Haven) of the architect and sculptor, Edward Pierce (c. 1635–95), who rests one hand on the bust while gesturing to it with the other.6 Admiration for the sculpture continued in the 18th century, in France, where a red chalk copy of it was made by the sculptor, Edmé Bouchardon (1698–1762) or a member of his circle,7 and particularly in England, where, catering to a n emerging neo-classical aesthetic, a blemish-free replica of the Lysimachus was carved in 1758 by Joseph Wilton (1722– 1803); this was acquired by Charles Watson-Wentworth, the second Marquess of Rockingham, for his country house in Wentworth and is now in the The J. Paul Getty Museum, Los Angeles.8 Another copy of the bust, made by the sculptor and restorer of ancient statues, Bartolomeo Cavaceppi (see   140 141  cat. 18), was mentioned in a letter, dated 6 June 1775, from the dealer and agent, Thomas Jenkins, to his client, Charles Townley, as a possible acquisition. His scheme involved fusing Cavaceppi’s bust with the body of a statue of Achilles; mercifully, this was abandoned when the original head of Achilles was recovered.9 Its diminutive size and spontaneous style of execution would suggest the present sheet came from a sketchbook, probably one like that held by the artist on the right. The draughtsmen have not been securely identified but they are no doubt to be found among de Bisschop’s friends and associ- ates; one may be Huygens the Younger, with whom he made sketching excursions in and around The Hague and Leiden. In fact, drawings by de Bisschop are often mistaken for works by Huygens, to whom this sheet was previously assigned.10 A treatment of a similar theme, of two draughtsmen from the front seated in a landscape but without an antique model to study, is found in de Bisschop’s drawing in the Amsterdam Museum (fig. 2).11 Executed with the same loose pen work and spontaneous handling of the brush, characteristic of de Bisschop after 1660, it shows one artist on the left gazing downwards to – or reading from – a loose sheet held in both hands, while the other appears to be sketching in a small book. A third rendering of two artists sketching out of doors, one, with hat removed, holding a drawing board, is among the sheets by Huygens the Younger in the Municipal Archives of The Hague (fig. 3).12 As with the present study, the figures are seen from behind in a sunlit setting but on a bench, near the entrance to the country house, Zorgvliet, near The Hague, and the subject of their attention is out of view. De Bisschop’s drawings were admired by collectors and connoisseurs from John Barnard (1709–84) to Horace Walpole (1717–97), but his main contribution to scholarship was the publication of two influential books. The first was the Signorum veterum icones issued in two volumes in 1668–69; Fig. 2. Jan de Bisschop, Two Draughtsmen Seated Outdoors, pen and brown ink with the brush and brown wash, grey ink, 97 × 149 mm, Amsterdam Museum, inv. nr. A 18179 142 Fig. 4. Jan de Bisschop, Allegory of Sculpture, title page to the Signorum veterum icones, part 1, Amsterdam (?), 1668, etching, 245 × 114 mm, Warburg Institute Library, London also consulted prints by François Perrier (1590–1650), who had published a selection of antique statuary in Paris and Rome in 1638 (Segmenta nobilium signorum et statuarum . . .).18 An album of 140 drawings by de Bisschop suggests that he intended to publish a third volume of Icones on antique Roman reliefs, based largely on another publication by Perrier of 1645 (Icones et segmenta . . .).19 However, de Bisschop’s death from tuberculosis at forty-three meant that the third volume was never realised. In addition to his writings on art, de Bisschop contrib- uted in other ways to furthering artistic education in the Netherlands. He participated in local confraternities of artists and co-founded a private drawing academy with his friends, including Huygens the Younger; they met several times a week in the evenings, often drawing after a live model.20 In 1682, eleven years after de Bisschop’s death, the first drawing academy in the Northern Netherlands – includ- ing in its curriculum the study of plaster casts after the Antique – was established in The Hague.21 De Bisschop’s influence may have extended further, perhaps as a direct consequence of the Icones. Of significance is a letter dated 1688 from the artist Romeyn de Hooghe (1645–1708) to the burgermasters of Haarlem, asking their assistance in setting up an academy for students to study ‘the best ancient statues, such as Venus, Apollo, Laocoön, in order to familiarise themselves with the idea of classical beauty’.22 Although that request was turned down, a Haarlem Drawing Academy was founded in 1772 and although it was closed in 1795, in the following year, the Haarlem Drawing College was established, with the study of the Antique remaining a vital part of the curriculum (see cat. 31).23   Fig. 3. Constantijn Huygens, the Younger, Two Draughtsmen near Zorgvliet, detail, pen and brown ink and wash with the brush over traces of graphite, 243 × 373 mm, Municipal Archives of The Hague, Gr. A 110 the first volume was dedicated to his friend, Huygens the Younger and the second, to Johannes Wtenbogaard, the Receiver-General of Holland and a neighbour of his parents. In 1671, de Bisschop published the Paradigmata graphices variorum artificum, which he dedicated to the collector Jan Six; this comprised forty-seven etchings based on Italian Old Master drawings and ten antique busts.13 The two volumes of the Icones were republished together with the Paradigmata, in later editions.14 Of particular relevance to us is de Bisschop’s Icones, featuring one-hundred etched plates after antique sculpture (fig. 4). Its purpose was didactic: to provide a compilation of the best-known works and to establish norms of classical beauty for artists, amateurs and collectors. In de Bisschop’s words, they were ‘sculptures and reliefs of the greatest perfection in art and the best sources for students’.15 The book proved to be an enormously useful resource especially as it featured, in some cases, the same sculpture seen from different angles; in essence, in the round. For instance, de Bisschop’s presented five views of the celebrated Wrestlers sculpture in the Uffizi (see p. 30, fig. 33, and cats 16 and 27), two of which are shown here (figs 5–6).16 In the Icones, the unusual left profile view of the Farnese Hercules, in reverse was probably known to Jan Claudius de Cock (1667–1735) and Wallerant Vaillant (1623–77), who reproduced it from the same viewpoint (see cat. 14, fig. 4). In fact, Cock took inspiration from several of the Icones plates for his Allegory of the Arts series (cat. 14). As de Bisschop probably never travelled to Italy, many of his prints relied on antique sculptures in Dutch collections, or on casts, and especially on drawings by artists who had travelled south to visit collections in Florence and Rome, such as Willelm Doudijns (1630–97), Pieter Donker (1635– 68), Adriaen Backer (1635/35–84) and others.17 De Bisschop avl 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 See Churchill 1967, pl. 8, no. 9, date: 1665 or pl. 9, no. 11, date: 1670. For this life and work, see Van Gelder 1972. Van Gelder 1972, p. 27. Goeree 1697, p. 91. Gasparri 2009–10, vol. 2, pp. 55–57, no. 32 (F. Coraggio), and pp. 188–89, pl. XXXII, figs 1–4. Charlton-Jones 1991, pp. 100–01, pl. 89. The subject of the Louvre drawing (Guiffrey and Marcel 1907–75, vol. 1, no. 1353) was identified by Rausa 2007a, p. 172, no. 165.1. Fusco 1997, p. 56. Coltman 2009, p. 87. Sold as Huygens at Sotheby’s, London, 13 April 1992, lot 260. Broos and Schapelhouman 1993, p. 51, no. 34 (B. Broos). Amsterdam 1992, p. 37, no. 22 (R. E. Jellema and M. Plomp). Van Gelder 1972, pp. 1–2. Both books are published in their entirety with commentary by Van Gelder and Jost 1985, 2 vols. See also Bolten 1985, pp. 257–58 and Plomp 2010, pp. 39–47. Bolten 1985, p. 71. Van Gelder 1972, p. 19. Van Gelder and Jost 1985, vol. 1, pp. 106–08, nos 18–22, vol. 2, pls 18–22. Further plates are after other artists as well as drawings by Jacob de Gheyn III (1596–1641), who is not known to have travelled to Italy but visited collections in England (Van Gelder and Jost 1985, vol. 1, pp. 15–16, 155). Van Gelder 1972, pp. 19–20. The album of classical statues, reliefs, Roman architecture and contempo- rary Dutch figures and scenes is at the Victoria and Albert Museum, London, inv. D.1212:1 to 141-1989. On it see Van Gelder 1972, pp. 8–9 and especially Turner and White 2014, vol. 1, pp. 25–67, no. 23. Van Gelder 1972, p. 11. Van Gelder 1972, p. 27. Van der Willigen 1866, p. 137; Washington D.C. 1977, under no. 69 (F. W. Robinson). Haarlem 1990, pp. 16–17, 34–38. Fig. 5. Jan de Bisschop, The Wrestlers, from the Signorum veterum icones, part 1, Amsterdam (?), 1668, pl. 18, etching, 164 × 215 mm, Warburg Institute Library, London Fig. 6. Jan de Bisschop, The Wrestlers, from the Signorum veterum icones, part 1, Amsterdam (?), 1668, pl. 21, etching, 199 × 133 mm, Warburg Institute Library, London    143  14. Attributed to Jan Claudius de Cock (Brussels 1667–1735 Antwerp) An Allegory of Painting c. 1706 Etching, 141 × 100 mm watermark: possibly part of a coat of arms. provenance: Bassenge, Berlin, 6 December 2001, lot 5452 (as Anonymous, Southern German, c. 1700), from whom acquired. literature:None. exhibitions: Not previously exhibited. Katrin Bellinger collection, inv. no. 2001-037  In the corner of a painter’s workshop, students draw after plaster casts, selected according to their age and level of study. The youngest, wearing a Roman-style toga and stand- ing at a pedestal, which supports his open sketchbook, records the likeness of the head of a boy similar to him in age. He may be copying the bust itself, or more likely, the drawing after the bust, propped up next to it. At the left, another pupil, a pre-teen representing a higher level of study, thoughtfully examines a reduced model, in reverse, of a rather unfit Farnese Hercules (see p. 30, fig. 32 and cats 7, 16, 21) elevated on a plinth, and shown in a similar pose as illustrated by Jan de Bisschop’s Icones (fig. 1). The student and Fig. 1. Jan de Bisschop, The Farnese Harcules, from the Signorum veterum icones, part 1, Amsterdam (?), 1668, pl. 8, etch- ing, 221 × 105 mm, Warburg Institute Library, London the statuette are so posed that they appear to exchange glances. In the background, partially obscured by the sculp- ture’s base, is a third boy, probably midway in age between the others, who bows his head in concentration. Displayed on the shelf and walls above are workshop props – a globe, hourglass, books, compass and additional fragments of plaster casts, included a female torso and a male one which may be based on the Belvedere Torso (p. 26, fig. 28). Presiding over the scene is a voluptuously dressed female figure with an elaborate hairstyle and bared breasts, who holds a palette with brushes in one hand, and gestures to the statue of Hercules with the other. She is leaning on a richly carved wooden table bearing bottles of spirit, compasses and completed figural drawings. She is an Allegory of Painting, as described by Cesare Ripa in his Iconologia, the widely consulted emblematic handbook first published in 1593 – and probably known to de Cock through the Dutch editions of 1698 or 1699: a beautiful woman with twisted, unruly hair, holding the tools of the painter.1 She represents the goal; once pupils had completed their prescribed course of study, mastering the succession of stages dictated by the established norms of 16th-century studio practice – first, drawing the individual parts of the body through drawings of others, prints, fragments and casts, and finally, the entire figure, a statue or live model – only then, may they progress to painting (see also cat. 10).2 The attainment of the goal is encapsulated in the prominently displayed picture on the wall above Hercules, probably a Mars and Venus. Though acquired as by an anonymous southern German artist, c. 1700, the etching shares similarities with the work of the Flemish painter, sculptor, etcher and writer, Jan Claudius de Cock.3 It is particularly close in style and execution to his drawing of the Allegory of Sculpture drawing, signed and dated 1706 (Metropolitan Museum of Art, New York, fig. 2), which is carried out with the same meticulous handling and degree of finish.4 Direct references to antique sculpture abound in the New York sheet with plaster casts freely modelled after the Pan and Apollo from the Cesi collection (Museo Nazionale  144 145  Fig. 2. Jan Claudius de Cock, Allegory of Sculpture, 1706, pen and brown ink, 317 × 195 mm, The Metropolitan Museum of Art, New York, 2010.533 Romano, Rome) at right and, at the left, the Wrestlers, acquired by the Medici in 1583 (Uffizi, Florence; see p. 30, fig. 33).5 Antique-inspired motifs – busts, putti, fragments and a strigilated krater – are also visible throughout. As with the etching, there is a female personification – in this case, of sculpture – her hand resting on one bust and pointing to a second with the other, just as Painting does here in the etching. At her feet are the tools of her trade: scalpels, mallet and a drill. Other drawings of similar subject matter, format and date suggest de Cock planned a series on the Allegories of the Arts, perhaps intending them to appear as etchings in a book. His drawing of a female sculptor modelling a recumbent Venus (fig. 3), another Allegory of Sculpture, is also signed, and dated (1706) and is numbered like the New York drawing.6 Further studies by de Cock no doubt relate to the same series.7 However, while the drawings are roughly the same size, the present etching is considerably smaller. The colossal Farnese Hercules became enormously popular immediately after its discovery in the 16th century, and 146 Fig. 3. Jan Claudius de Cock, An Allegory of Sculpture, 1706, pen and brown ink, black chalk, 321 × 192 mm, Christie’s, London, 19 April 1988, lot 140 numerous copies after it were produced, often reduced to life-size or the scale seen here, to make it more manageable and portable.8 A model strikingly similar to that in the etching occurs in a mezzotint of a boy drawing in a studio, c. 1660–75, by the Dutch painter and engraver, Wallerant Vaillant (1623–77), where it is perched on a table at a nearly identical angle (fig. 4).9 Both prints suggest that by the early 18th century, plaster models of the Hercules were commonplace in Flemish and Netherlandish workshops.10 Several of the antiquities in both the etching, here attrib- uted to de Cock, and his two related drawings discussed above, argue knowledge of Jan de Bisschop’s Icones (1668–69), by then the standard reference for antique sculptures in the Netherlands (see cat. 13). For example, the rather unusual left-profile view of the Farnese Hercules in the etching and the pose of the Wrestlers in the New York drawing (fig. 2), both shown reversed in respect to the antique originals, find their counterparts in the Icones (fig. 1 and cat. 13, fig. 5).11 And the pensive Muse, possibly Clio, at the upper right of the Fig. 4. Wallerant Vaillant, A Boy Drawing in a Studio, c. 1660–75, mezzotint, 324 × 300 mm, Rijksmuseum, Amsterdam, RP-P-1889-A-14489 second Allegory of Sculpture drawing (fig. 3), is a literal quotation from a plate in the second volume of Bisschop’s 12 Born in Brussels, de Cock was apprenticed in the workshop of Peeter Verbrugghen the Elder (c. 1609–86) in Antwerp. After Verbruggen’s death, he established himself in that city, although he later moved to Breda, where King William III Stadholder of the Netherlands commissioned him to work on sculpture for a courtyard in the town.14 However, by 1697 or 1698, de Cock had returned to Antwerp and devoted himself more to teaching, establishing a large workshop with many pupils, some learning drawing, others, goldsmithing.15 In 1720, he wrote a didactic poetical treatise for his students, Eenighe voornaemste en noodighe regels van de beeldhouwerije om metter tijdt en goet meester te woorden (‘Some 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 avl For Pittura from Ripa’s first illustrated edition (1603), see Buscaroli 1992, p. 357 and in the Dutch edition of 1698, reprinted in 1699, see Hoorn 1698, II, p. 515 [c]. Armenini 1587, pp. 52–59 (book 1, chap. 7); Alberti 1604, p. 5 (quoting Federico Zuccaro); Roman 1984, p. 91. Nagler (1966, vol. 3, no. 2100) and Wurzbach (1906–11, vol. 1, pp. 304–05) only briefly mention his etchings and this subject does not occur. Acquired Christie’s, London, 7 July 2010, lot 328. It is signed at lower left: ‘Joannes Claud: de Cock invenit delineavit Anno= MDCCVI’ and numbered below, ‘4’. A further inscription by the artist on the verso, “Sculptura Pace, et Abondante=”/[. . .], may refer to another drawing in the series, perhaps an Allegory of Peace and Abundance or a Concordia. Haskell and Penny 1981, pp. 286–88, no. 70; pp. 337–39, no. 94. Christie’s, London, 19 April 1988, lot 140. According to the catalogue, it is signed and dated, ‘Joan Claudius de Cock/invenit delineavit/AoMDCCVI’ and numbered ‘3’ below. They include another signed Allegory of Sculpture close to the New York drawing in composition, with differences and executed in pencil, 326 × 194 mm (Christie’s, Amsterdam, 15 November 1993, lot 115) and a signed Allegory of Architecture, pen and brown-grey ink and wash, 328 × 234 mm (Christie’s, Amsterdam, 21 November 1989, lot 52). Haskell and Penny 1981, p. 232; Gasparri 2009–10, vol. 3, pp. 17–20, no. 1, repr. on pp. 207–13. Hollstein 1949–2001, vol. 31, p. 119, no. 96. The 1635 studio inventory of the painter, Hendrik van Balen (1575–1632) mentions a cast of the Hercules among other antique works (Duverger 1984–2009, vol. 4, p. 208). The torso of a draped male statue on the shelf at upper right in the drawing probably derives from a further etching by Bisschop, based on copies by Willelm Doudijns (1630–97), reproducing a marble in the Pighini collection and now in the Vatican (Van Gelder and Jost 1985, vol. 1, pp. 110–11, no. 26, vol. 2, pl. 26; Helbig 1963–72, vol. 1, p. 194, no. 250). Van Gelder and Jost 1985, vol. 1, pp. 184–85, no. 98, vol. 2, pl. 98. In that drawing, the male torso seen from the back on the shelf at right recalls de Bisschop’s etching of the Belvedere Torso (Van Gelder and Jost 1985, vol. 1, pp. 108–10, no. 24, vol. 2, pl. 24). Van Gelder and Jost 1985, vol. 1, pp. 184–85; Haynes 1975, pl. 18. De Gheyn was in London in the summer of 1618 and his drawing (untraced), was in the collection of J. A. Wtenbogaert in Amsterdam (Van Gelder and Jost 1985, vol. 1, pp. 16, 155, 185). For his life and work, see C. Lawrence, “Cock, Jan Claudius de”. Grove Art Online. Oxford Art Online, accessed December 10, 2014, http://www.oxford- artonline.com/subscriber/article/grove/art/T018366. Pauwels 1977, p. 37. Published in Brussels by Mertens 1865; Lawrence 1986, p. 283. Mertens 1865; Lawrence 1986, p. 283. The original marble from the Earl of Arundel’s collection, known to de Bisschop through a drawing after it by Jacques de Gheyn III, is now in the Ashmolean Museum, Oxford.13 publication. chief and notable rules from the sculptor in order to become a good master in due course’) although it remained unpublished until the 19th century.16 It is entirely possible that he intended the Allegory of Arts series to illustrate this treatise, in which he expressed his great admiration for classical sculpture, namely the Laocoön, the Medici Venus – and, most importantly – the Farnese Hercules.17    147  15. Nicolas Dorigny (Paris 1658–1746 Paris), after Carlo Maratti (Camerano 1625–1713 Rome) The Academy of Drawing c. 1702–03 Etching and engraving, 470 × 321 mm (plate); 503 × 331 mm (sheet) State I of II (second state dated 1728 with the address of Jacob Frey). Inscribed on the plate, l.l. on the ground: ‘TANTO CHE BASTI’, same inscription repeated l.r. on the perspective drawing on the easel, and c.l. on the pedestal of the anatomical model. Inscribed u.c. above the statue of Apollo: ‘NON / MAI ABASTANZA’; u.r. above the Three Graces: ‘SENZA DI NOI OGNI FATICA E VANA’. Inscribed l.c. with the title, ‘A Giovani studiosi del Disegno’, followed by ten lines explaining the scene: ‘La Scuola del Disegno, che s’espone delineata con le presenti Figure dal Sig.r Cavalier Carlo Maratti, può molto contribuire al’disinganno di coloro che credono di potere con la cognizione, e studio di molte Arti divenir perfet.ti nell’Arte del dipingere senza procurare in primo luogo d’esser perfettissimi nel Disegno, e senza il dono naturale, et un particolare istinto di saper con grazia, e facilità animare, e disporre vagamente le parti di quell’Opera, che prenderanno a delineare, e và figurando questo suo nobil pensiero con il mezzo dell’azzioni, che qui si additano. Vedonsi alcuni studiosi delle mathematiche in quella parte, che spetta alla Geometria, et Ottica, che conferiscono alla Prospettiva: dall’altro lato, altri applicati all’osservazione d’un Corpo anatomico, dà cui si apprende la giusta proporzione delle membra, e sito de’muscoli, e nervi, che compongono una figura, dimostrato eruditame-te dà Leonardo da Vinci espresso co- la propria effige, con il motto . Tanto che basti . per dimostrare, che di tali professioni basta, che quello, che attenderà al Disegno sia mediocrem.te erudito, per ridurre ad un’perfetto fine qualunque Idea. Mà per coloro, che si esprimono attenti allo studio delle statue antiche, non serve una leggiera applicazione alle mede, essendo lor d’uopo di farvi sopra una lunga, et esatta riflessione, e studio per apprendere le belle forme; e si pone l’esemplare delle statue antiche, come le più perfette, nelle quali quei grandi Huomini espressero ì Corpi nel più perfetto grado, che possano dalla natura istessa crearsi, e perciò vi si pone il motto . Non mai abastanza . Tutto però riuscirebbe vano di conseguire senza l’assistenza delle Grazie, che intende, come accennammo, per quel natural gusto di disporre, et atteggiare con grazia, e delicatezza le positure, et ì movimenti delle Figure, dalle quali poi risulta quella vaghezza, e leggiadria, che destano meraviglia, e piacere in chiunque le mira, ponendosi queste a tal oggetto in alto, e sù le nuvole per significare, che questo dono non viene che dal Cielo, con il motto . Senza di noi ogni fatica e vana . Vivete felici.’1 Inscribed l.l. margin: ‘Eques Carolus Maratti inven. et delin. Cum privil Summi Pont. et Regis Christ.mi’, and l.r.: ‘N. Dorigny sculp.’. watermark: Possibly a four-legged animal inscribed in a double circle. provenance: Possibly Hugh Howard (1675–1737); Charles Francis Arnold Howard, 5th Earl of Wicklow (1839–81), from whom acquired in 1874. literature: Le Blanc 1854–88, II, p. 140, no. 51; Mariette 1996–2003, vol. 3, p. 511, no. 76, fig. 189; Kutschera-Woborsky 1919, pp. 9–28, fig. 5; Goldstein 1978, p. 1, fig. 1; Rudolph 1978, Appendix, p. 203, n. 38; Philadelphia 1980–81, pp. 114–16, no. 101 A (A. E. Golahny); Johns 1988, pp. 17–21, fig. 5; Goldstein 1989, p.156, fig. 1; Winner 1992, fig. 1; Jaffé 1994, p. 128, under no. 251 646; Mertens 1994, pp. 222–24, fig. 94; Goldstein 1996, p. 47, fig. 14; Rome 2000b, vol. 2, pp. 483–84, no. 2 (S. Rudolph); Pierguidi 2014. exhibitions: Not previously exhibited. The British Museum, Department of Prints and Drawings, London, 1874,0808.1713  This intriguing and complex image has a central role in this catalogue, as it represents the most eloquent visual expres- sion of the classicistic credo of the Roman Accademia di San Luca in the final decades of the 17th century. More generally, it is a strong defence of the Florentine and Roman academic traditions, with their stress on drawing, their celebration of Raphael and, above all, on the study, copy and reverence of the Antique. As we shall see, the original drawing from which the print is derived was most likely conceived in 1681–82, at a time when the aesthetic belief supported by the Accademia di San Luca was being challenged by other pedagogical methods and criticised from other theoretical viepoints, hence its programmatic nature and didactic aim. Carlo Maratti was the most authoritative painter in Rome during the final decades of the 17th century and the beginning of the 18th and the champion of classicism.2 As a boy of twelve he had entered the large workshop of Andrea Sacchi (1599–1661), where he remained until the master’s death in 1661. His training followed the usual curriculum of 148 Roman studios, centred on drawing, and on the copy of the Antique, and of Renaissance and early 17th-century masters.3 His lifelong friend, mentor and biographer, the great art theorist and antiquarian, Giovanni Pietro Bellori (1613–96), tells us that he concentrated especially on copying Raphael’s frescoes.4 He pursued this commitment throughout his life, incorporating the essential qualities of the great Renaissance champion of classicism into his own painting, to the point that he became known as the Raphael of his time.5 In 1664 Maratti became ‘principe’, or president, of the Accademia di San Luca, where, in the same year, Bellori’s discourse, the ‘Idea of the painter, the sculptor and the archi- tect, selected from the beauties of Nature, superior to Nature’, was publicly delivered (see Appendix, no. 11).6 Bellori’s theoretical statement, then published as a prologue to his Vite in 1672, was to become enormously influential in defin- ing and diffusing the central tenets of the classical ideal, preparing the ground for the eventual affirmation of classi- cism in the 18th century.7 Maratti remained an influential 149  figure within the Accademia for almost fifty years – while Bellori held the position of secretary several times – playing a vital role in reorganising its curriculum according to a comprehensive pedagogical programme, based on the exer- cise of drawing from drawings, from casts after the Antique and from the live model, and on students’ competitions and regular lectures.8 The print, which embodies this theoretical and didactic approach, is based on a drawing now preserved at Chatsworth (fig. 1), commissioned from Maratti by one of his most faithful patrons, Gaspar Méndez de Haro y Guzmán, 7th Marquis of Carpio, (1629–87), Spanish ambassador in Rome between 1677 and 1682.9 A sketchier version, in the same direction as the print but with differences in detail, is at the Wadsworth Atheneum (fig. 2).10 Art lover, collector and patron, Carpio commissioned from contemporary Roman artists a large series of drawings with the practice, theory, and nature of painting as their subject.11 The result was a sophisticated collection of allegories of art, of which Maratti’s drawing is by far the most celebrated, largely due to Dorigny’s print.12 Another drawing with the Allegory of Ignorance Ensnaring Painting and Massacring the Fine Arts, now in the Louvre, was probably produced by Maratti for Carpio as a pendant to the Academy of Drawing, and as such was later engraved by Dorigny with a similar explanatory inscription devoted to the ‘Lovers of the Fine Arts’ (fig. 3).13 Possibly intended from the beginning to be printed, Maratti’s drawing for the Academy of Drawing was later engraved by the Parisian printmaker, Nicolas Dorigny, Fig. 1. Carlo Maratti, The Academy of Drawing, c. 1681–82, pen and brown ink with brown wash, heightened with white gouache, over black chalk, 402 × 310 mm, Chatsworth, The Duke of Devonshire and the Chatsworth Settlement Trustees, inv. 646 Fig. 2. Carlo Maratti, The Academy of Drawing, c. 1681–82, pen and brown ink and red chalk, 505 × 355 mm, Wadsworth Atheneum Museum of Art, Hartford, CT, inv. 1967.309a who spent the years 1687–1711 in Rome. The rare first state, exhibited here, was probably published around 1702–03 under the supervision of Maratti, who owned the copper- plates and who, no doubt, was the author of the explanatory inscriptions below this print and its pendant.14 The reason why it took twenty years for the original drawing and its pendant to be engraved, may be due to the fact that Carpio left Rome in 1683 to become Viceroy of Naples and his move might have brought the original publication project to a halt. After Maratti’s death in 1713, the plates were purchased by Jacob Frey (1681–1752) who published a second state in 1728.15 The image is a very condensed and crowded composi- tion, in line with similar examples by Stradanus (cat. 4), Pierfrancesco Alberti (cat. 2, fig. 1), and others, which would certainly have been known to Maratti.16 The Academy of Drawing is presented as an antique academy devoted to intellectual pursuits, clearly reminiscent of Raphael’s School of Athens in the Vatican Stanze, and in general subtle refer- ences to Raphael’s works are ubiquitous throughout.17 We are invited to follow the different disciplines and principles essential for the education of the young artists, distributed visually and symbolically in an ascent: from the technical and mathematical rudiments for the representation of space in the foreground, to the ideal models for the depiction of the human figure in the upper left part of the composition, and finally to the divinely inspired grace and artistic talent on the upper left background, without which all the previous learning would be useless. Bellori, in his biography Fig. 3. Nicolas Dorigny after Carlo Maratti, Allegory of Ignorance ensnaring Painting and mas- sacring the Fine Arts, 1704–10, etching and engraving, 468 × 319 mm, The British Museum, Department of Prints and Draw- ings, London, inv. 1874,0808.1714 that. We know from another passage in Bellori that Maratti, although he ‘always considered [...] perspective and anat- omy necessary to the painter’, abhorred some ‘masters, or rather modern censors who, having learned a line or two of perspective or anatomy, the minute they look at a picture look for the vanishing point and the muscles, and [...] scold, correct, accuse and criticise the most eminent masters’.23 Maratti’s attitude was, in fact, very much in line with the Italian art theory of the second half of the 16th century.24 Most writers agreed that, although the knowledge of mathematical sciences was vital, the artist’s judgement and his eye must be the ultimate criteria in the artistic process. Giorgio Vasari (1511–74) clearly formulated this concept, paraphrasing Michelangelo’s famous saying that ‘it was necessary to have the compasses in the eyes and not in the hand, because the hands work and the eyes judge’.25 This opinion was rephrased by Giovanni Paolo Lomazzo (1538– 1600) who wrote precisely that ‘all the reasoning of geome- try and arithmetic, and all the proofs of perspective were of no use to a man without the eye’, and shared also by Federico Zuccaro (c. 1540–1609) the founder and first principal of the reformed Accademia di San Luca in 1593 (see cat. 5).26 A similar approach was reserved for the study of anatomy, the excess of which, as represented by Michelangelo – who is not alluded to in the print – was explicitly condemned by Giovan Battista Armenini (c. 1525–1609) and others, an opinion supported by Bellori and Maratti.27 The ‘Young Students of Drawing’, to which the print is dedicated, need instead to focus their attention on, and constantly draw from, ancient statues, here represented by Fig. 4. Raphael, Apollo, detail, School of Athens, 1509–11, fresco, Stanza della Segnatura, Apostolic Palace, Vatican City  of Maratti, left unfinished at his death in 1696, provides a description of one of Maratti’s original drawings (figs 1–2) and this, plus the explanatory inscription on the print, constitute the best guide to interpret the composition.18 At the centre a ‘master of perspective’ indicates to a young disciple the visual pyramid and various geometrical figures traced on a canvas placed on an easel, at the bottom of which we read: ‘TANTO CHE BASTI’, ‘Enough to suffice’.19 The same inscription recurs on the ground on the left, in front of another pupil intent at drafting geometrical figures on the abacus with his compass, a gesture evoking that of Archimedes in Raphael’s School of Athens. As Bellori explains, this is to signify that ‘once the young have learned the rules necessary to their studies’ – geometry and perspec- tive – ‘they should pass on without stopping’.20 On the right, below the easel, we see a stool supporting the physical tools of the art of painting: another compass and a palette with various brushes. Behind them a ruler leans diagonally against the canvas. The same warning ‘TANTO CHE BASTI’ reappears on the left on the pedestal supporting a life-size anatomical écorché, in a pose reminiscent of the Borghese Gladiator (see p. 41, fig. 54 and cat. 23, fig. 1). Several students draw its muscles, directed by Leonardo, whose anatomical studies were very well known, especially after the first publication of his treatise on painting in 1651.21 ‘Anatomy and the drawing of lines’ continues Bellori, ‘do indeed fall under definite rules and can be learned perfectly by anyone, just as geometry used formerly to be learned in school from childhood’.22 They therefore constitute those sciences that can be taught by rational precepts. But if the young students want to become great artists they need much more than    150 151  the gigantic Farnese Hercules (see p. 30, fig. 32 and cat. 7, fig. 1), by a Venus Pudica reminiscent of the Venus de’Medici (see p. 42, fig. 56) and by an Apollo, the latter clearly derived from the statue presiding over the philosophers in the School of Athens (fig. 4).28 Apollo, as patron of the arts, combining together a reference to the Antique and to Raphael, conveniently substitutes for the Belvedere Antinous (see p. 26, fig. 22 and cat. 19) seen on the earlier sketch (fig. 2).29 The study of classi- cal sculptures, as the inscription on the wall behind the Apollo instructs us, is ‘NON MAI ABASTANZA’, ‘Never enough’, as they contain ‘the example and the perfection of painting [...] together with good imitation selected from nature’ as Bellori tells us.30 In other words, they materialise Bellori’s concept of the ‘Idea’, intended as the selection of the best parts of Nature according to the right judgement of the artist in order to create ideal beauty (see Appendix, no. 11). If a young artist assimilates their principles, he will have a secure guide towards artistic perfection. On the left, sitting on clouds, the Three Graces – again referring to the similar figures painted by Raphael in the Villa Farnesina in Rome – are there to remind us: ‘SENZA DI NOI OGNI FATICA E VANA’, ‘Without us, all labour is in vain’. Without natural talent and divine inspiration, all the efforts and studies depicted below would be ultimately useless. The concept of grace was one of the crucial features in Vasari’s theory of art, intended as a certain sweetness and facility of execution, dependent on natural talents – namely judgement and the eye – as opposed to beauty which is based on the rules of proportions and mathematics.31 But the great artist must cultivate this natural gift through constant study and, for Bellori, constant imitation of the Antique and of the great masters, especially Raphael, the excellence and grace of whom he exalted in several of his publications.32 Therefore our print reminds us in its subject of the necessary union of natural talent and study. At the same time it provides in its very forms an ideal example of inventive imitation, namely Maratti’s assimilation of the Antique and Raphael. The need to insist on these very points reflects the particular moment in which our image was created. In 1676 the Accademia di San Luca and the Parisian Académie Royale were formally amalgamated and at times French painters became principals of San Luca – Charles Errard (1606/09– 89) in 1672 and 1678, and Charles Le Brun (1619–90) in 1676–77.33 While sharing the same values and attitudes, the Italian could never feel comfortable with the extreme ration- alisation of art characteristic of so much French theory and academic approach.34 The methodical and precise dissection of painting into its main components, as expressed for instance in the Académie’s Conférences, is in fact probably 152 alluded to in the speaker seen below the Graces in our image, who uses his fingers to enumerate the main points of his arguments – referring to Socrates in the School of Athens. The early Académie’s Conférences were published by André Félibien (1619–95) in 1668, and their official presentation at San Luca in 1681 generated a discussion that was most likely at the origin of Maratti’s Academy of Drawing, as reported by Melchior Missirini (1773–1849) in his history of the Accademia di San Luca.35 After the reading of the last two Conférences, devoted to the analysis of the drawing, colour, composition, proportions and expressions of Poussin’s paintings, one of San Luca’s members, Giovanni Maria Morandi (1622–1717), raised the objection that the French had left out art’s most important and beautiful element: grace, that sublime and delicate quality of the ‘imitative practice’, which appeals to the heart rather than the mind.36 The elderly Bellori, present in the audience, interrupted the speech remarking that grace was indeed Apelle’s and Raphael’s best quality, ‘and it is well known’, continues Missirini, ‘that Maratti, who also devoted every effort to obtain this quality, induced by these words painted his three graces with the motto ‘Without you, everything is worthless’.37 No doubt conceived as a response to this intellectual debate, as a defence of the Florentine and Roman attitude and tradition versus its French counterpart, Maratti’s Accademia must be understood also as a celebration of classicism against those painters and theorists who were at that time criticising its values and outcomes. In particular the Venetian Marco Boschini (1515–80) and the Bolognese Cesare Malvasia (1613–93) in their treatises published in the 1770s had attacked the pictorial tradition based on disegno and imitation of the Antique, supporting instead colore and naturalism.38 They, as Bellori remarks right before his discus- sion of Maratti’s drawing, taught ‘in their schools and in their books that Raphael is dry and hard, that his style is statue- like’.39 This dispute had its counterpart in France where the Querelle du coloris had been fiercely debated in the 1770s.40 The theoretical battle escalated further with the publication in 1681 of the Notizie de’ professori del disegno by the Florentine Filippo Baldinucci (1625–97), who strongly defended Vasari and the Central Italian tradition, at the same time directly attacking Malvasia.41 The early 1680s were therefore a moment of intense debate within and between the Italian and French artistic schools and theoretical traditions, of which this image is one of the most telling documents. In the following decades Maratti became the leading artistic authority in Rome. His devotion to Raphael was rewarded in 1693 when he was appointed Keeper of the Vatican Stanze, which he then restored in 1702–03, having already worked on the restoration of Raphael’s frescoes in the Farnesina from 1693.42 In 1699 he was re-elected principal of San Luca, a position he held until his death in 1713. Pope Clement XI (r. 1700–21) nominated Maratti Director of the Antiquities in Rome in 1702, and officially sanctioned support for his classicism by establishing papal-sponsored competitions, the Concorsi Clementini, at the Academy.43 It is probably in celebration of the final affirmation of this classicist aesthetic that Maratti decided to finally print in 1702, or soon after, the complex drawing celebrating above all the study of Antique that he had produced twenty years 44 ‘The School of Drawing, a figurative drawing by Cavalier Carlo Maratti, can contribute much to the disenchantment of those who believe that through knowledge and study of many arts they can become most accomplished in the art of painting without first acquiring the highest skill in drawing and without the natural gift and innate capacity to give, with grace and ease, life and shapeliness to the parts of a work they set out to depict. In addition, he [Maratti] gives form to his fine thought through the activities pointed out here. To one side there are some students of the mathematics of Geometry and Optics that feed into Perspective: elsewhere there are others intent on the observation of an anatomical model, from which can be learned the just proportions of the limbs, the placement of the muscles and sinews that compose a figure, as set out with precision by Leonardo da Vinci, a likeness of whom is given, with the motto ‘Enough to suffice’, to evince that, of these professional skills, he who pursues drawing must be competent enough to bring any idea to a perfect outcome. But for those shown engaged in the study of classical statues, slight attention to the same is of no use since the point is to make a long and detailed study so as learn the forms of the beautiful; and classical statues are given as the most perfect for this since those great sculptors gave shape to bodies in the most perfect state that Nature herself can create, which explains the presence of the motto: ‘Never enough’. Everything, however, would be futile without the assistance of the Graces, understood, as mentioned, as a natural bent for composing and arranging with grace and delicacy those postures and movement of figures from which derive the beauty and allure that stir wonder and pleasure in the spectator, wherefore they are set for that purpose up above on the clouds as indication that this gift comes only from heaven, and are given the motto: ‘Without us all labour is in vain’. Live happily’ (translation by Michael Sullivan). For a biographical summary see Rudolph 2000. Schaar and Sutherland Harris 1967. See Bellori 1976, pp. 625, 636, 639. See Baldinucci 1975, p. 307. On Maratti’s cult for and imitation of Raphael see also Mena Marqués 1990. Goldstein 1978, p. 3. For the text of Bellori’s Idea see Bellori 1976, pp. 13–25, and for an English translation see Bellori 2005, pp. 55–65. On it see Mahon 1947, esp. pp. 109– 54, 242–43; Panofsky 1968, pp. 103–11; Bellori 1976, esp. xxix–xl; Barasch 2000, vol. 1, pp. 315–22; Cropper 2000. On Maratti’s role within the Accademia see Goldstein 1978, esp. pp. 2–5. On Bellori’s see Cipriani 2000. Jaffé 1994, p. 128, no. 251 646. It is not fully clear whether Dorigny used the Chatsworth drawing or a lost copy of it, as he arrived in Rome in 1687, five years after Del Carpio had left the city to become Viceroy of Naples: see Rome 2000b, vol. 2, p. 483, no. 1 (S. Rudolph). Philadelphia 1980–81, p. 116, note 3 and 4; Winner 1992, p. 512, fig. 5. Bellori 1976, pp. 629–31. On Del Carpio’s commission see Haskell 1980, pp. 190–92; Pierguidi 2008; Frutos Sastre 2009, pp. 369–71. For other drawings of the series, see Winner 1992. For the drawing (Louvre, Paris, inv. 17950) see Rome 2000b, vol. 2, p. 484, no. 3 (S. Rudolph). For the print see Philadelphia 1980–81, pp. 114–16, no. 101 B (A. E. Golahny); Rome 2000b, vol. 2, pp. 484–85, no. 4 (S. Rudolph). For the transcription of the print’s inscription see Winner 1992, pp. 517–18, note 7. See Philadelphia 1980–81, pp. 114–16, no. 101 A and B (A. E. Golahny); Rome 2000b, vol. 2, p. 483, no. 2 (S. Rudolph). This second state contains the address of Frey. Rudolph (Rome 2000b, vol. 2, p. 483, no. 2), supposes that the long explanatory inscription was added only to this second state, while the impression exhibited here proves that it was inserted in the first state as well. The inscription is mentioned also in a chronological list of Maratti’s prints produced in 1711: see Rudolph 1978, Appendix, p. 203, no 38. Kutschera-Woborsky 1919; Winner 1992, especially pp. 521–22, 531. Although some will be discussed here, the references to Raphael are too many to be covered comprehensively. For a fuller discussion see Winner 1992. Bellori 1976, pp. 629–31. For an English translation, see Bellori 2005, pp. 422–23. Bellori’s unfinished biography of Maratti was first published with modifications in 1731 and independently in 1732. See Bellori 1976, p. 571, note 1; Bellori 2005, p. 435, note 4. For modern critical editions of the text, see Bellori 1976, pp. 569–654; Bellori 2005, pp. 395–440. Winner (1992, p. 524) suggests that the ‘master of perspective’ could be Vitruvius, as the geometrical figures on the canvas are similar to those illustrated by Andrea Palladio in Daniele Barbaro’s edition of Vitruvius’ De architectura (1556). On the other hand the visual pyramid clearly refers to Albertian perspective, as it had been recently republished and illustrated in Dufresne 1651, see especially pp. 17–18. Bellori 1976, p. 630; Bellori 2005, p. 423. Dufresne 1651: see esp. the ‘Vita di Lionardo da Vinci descritta da Rafaelle du Fresne’, at the beginning of the volume (not paginated) and p. 5, ch. XXII, p. 12, ch. LVII. Bellori 1976, p. 631; Bellori 2005, p. 423. Bellori 1976, p. 629; Bellori 2005, p. 422. On Bellori’s sources in general see esp. Barocchi 2000; Perini 2000a. Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 6, p. 109. See also Vasari’s introduction to his chapter on Sculpture: Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 1, pp. 84–86. Lomazzo 1584, p. 262 (book V, chap. 7). Zuccaro 1607, vol. 2, pp. 29–30 (book II, chap. 6). See Armenini 1587, pp. 63–67 (book I, chap. 8); Bellori 1976, p. 630; Bellori 2005, p. 423. On this see also Pierguidi 2014. Bellori had specifically praised the Farnese Hercules and the Venus de’Medici in his Idea: Bellori 1976, p. 18; Bellori 2005, p. 59. On this see also Winner 1992, p. 532. On the Farnese Hercules see Haskell and Penny 1981, pp. 229–32, no. 46; Gasparri 2009–10, vol. 3, pp. 17–20, no. 1. On the Venus de’ Medici see Haskell and Penny 1981, pp. 325–28, no. 88; Cecchi and Gasparri 2009, pp. 74–75, no. 64 (137). On the Belvedere Antinous see Haskell and Penny 1981, pp. 141–43, no. 4; Bober and Rubinstein 2010, p. 62, no. 10. Bellori 1976, p. 630; Bellori 2005, p. 423. Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 3, p. 399, vol. 4, pp. 5–6. See also Blunt 1978, pp. 93–99. Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 3, p. 399; Bellori 1976, pp. 625–26; Bellori 2005, p. 421. Also for Armenini ‘una bella e dotta maniera’ could be acquired only if the artist has a natural gift cultivated by study (Armenini 1587, see esp. p. 6 of the Proemio and pp. 51–69, book I, chs 7 and 8). Bellori’s essays on Raphael, written at various dates, were published in Bellori 1695. On Raphael and grace in Bellori see Maffei 2009. On the cult of Raphael in the 17th century see Perini 2000b. Boyer 1950, p. 117; Goldstein 1970, pp. 227–41; Bousquet 1980, pp. 110–11; Goldstein 1996, pp. 45–46. Mahon 1947, pp. 188–89. Missirini 1823, pp. 145–46 (ch. XCI); Mahon 1947, p. 189; Goldstein 1996, p. 46. Missirini 1823, p. 145. Ibid., p. 146. Boschini 1674; Malvasia 1678. Bellori 1976, p. 627; Bellori 2005, p. 421. On the ‘statuelike’ concept, or ‘statuino’ see esp. Malvasia 1678, vol. 1, pp. 359, 365, 484. See also Pericolo’s forthcoming article. I wish to thank Dr Lorenzo Pericolo for generously putting this study at my disposal. See Teyssèdre 1965; Puttfarken 1985; Arras and Épinal 2004 with previous bibliography. Baldinucci 1681, see esp. his ‘Apologia’ at pp. 8–29. On the controversy between Malvasia and central Italian art theorists see Perini 1988; Rudolph 1988–89; Emiliani 2000. See Zanardi 2007. See Johns 1988. The second state of both prints, published by Jacob Frey in 1728 was explic- itly issued in parallel to the reward ceremony of the 1728 Concorso Clementino: see Rome 2000b, vol. 2, pp. 484–85, no. 4. earlier, with the Allegory of Ignorance as its pendant (fig. 3). aa 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 1 153  16. Charles-Joseph Natoire (Nîmes 1700–1777 Castel Gandolfo) The Life Class at the Royal Academy of Painting and Sculpture 1746 Pen, black and brown ink, grey wash and watercolour and traces of graphite over black chalk 453 × 322 mm Signed and dated by the artist on recto, on the box at l.c., in pen and dark grey ink: ‘C. NATOIRE f. 1746’. provenance: Possibly sold at the artist’s posthumous sale, Alexandre-Joseph Paillet, Paris, 14 December 1778, lot 100;1 purchased Aubert for 120 livres; Gilbert Paignon-Dijonval (1708–92); Bruzard, Paris, 23–26 April 1839, part of lot 208; Walker Gallery, acquired Sir Robert Witt (1872–1952) (L. suppl. 2228b); Sir Robert Witt Bequest, 1952. selected literature: Bérnard 1810, p. 142, no. 3348; Mirimonde 1958, p. 282, fig. 3; Princeton 1977, pp. 22–23, fig. 3; Troyes, Nîmes and elsewhere 1977, p. 80, under no. 42; Roland Michel 1987, pp. 58–59, fig. 45; Foster 1998, pp. 55–56, fig. 13; Amsterdam and Paris 2002–03, pp. 85–88, under no. 25; Paris 2009–10, p. 40, fig. 13; Petherbridge 2010, p. 222, pl. 152; Caviglia-Brunel 2012, p. 122, repr., p. 336, no. D. 370, repr.; Rowell 2012, pp. 179–80, fig. 9; London 2013–14, p. 8, repr., p. 69, fig. 24. selected exhibitions: London 1950, p. 18, no. 54; London, York and elsewhere 1953, pp. 27–28, no. 79, not repr.; London 1953, pp. 91–92, no. 391, not repr. (K. T. Parker and J. Byam Shaw); Los Angeles 1961, pp. 51, 58, no. 25; London 1962, pp. 9–10, no. 37, not repr.; Swansea 1962, unpaginated, no. 38; London 1968a, p. 101, no. 490 (D. Sutton); King’s Lynn 1985, p. vi, no. 33, not repr.; London 1991, p. 80, no. 35 (G. Kennedy); Paris 2000–01, pp. 405–06, no. 210 (J.-P. Cuzin); London and New York 2012–13, pp. 161–65, no. 33 (K. Scott).  The Courtauld Gallery, Samuel Courtauld Trust, London, D. 1952.RW.397 exhibited in london only Painter, draughtsman and educator, Natoire was a contem- porary of François Boucher (1703–70) and like him, executed both cabinet pictures and decorative schemes, as well as history paintings.2 Trained in the studio of François Lemoyne (1688–1737), Natoire started his career with a series of successes: having won in 1721 the Prix de Rome of the Académie Royale, he spent the years 1723–28 in Rome where in 1727 he received the most prestigious reward for a young painter, the first prize of the Accademia di San Luca. Back in Paris in 1730, he was received (reçu) as a full member of the Académie in 1734 and spent the following two decades executing decorative ensembles in Royal Palaces and various hôtels and châteaux of the aristocracy, such as the celebrated Hôtel de Soubise (now the Archives Nationales) in Paris. In 1751 he was appointed Director of the Académie de France in Rome and spent the rest of his life there, dying at Castel Gandolfo in the Alban Hills in 1777. Natoire’s large and beautifully preserved drawing – of which there is another version, dated 1745, almost identical but less finished, in the Musée Atger in Montpellier – offers a rare glimpse of the École du modèle of the Académie royale de peinture et de sculpture in Paris, where young students spent hours copying the live model.3 But rather than a faithful view of the École du modèle, which was a similar but rather different space,4 it is an idealised representation of how Natoire thought it ought to be. In essence, it is a visual manifesto for the Académie’s reform at a time, as we shall see, when many of its original practices had been abandoned or neglected. Trying, in a programmatic image, to convey as much infor- mation as possible, Natoire ingeniously reconfigures the 154 space for his purpose: a very high ceiling and an angular point of view allow maximum concentration and display of objects. Crammed together, one on top of the other, we see drawings, bas-reliefs, paintings of different format and size and, most importantly, plaster casts after the Antique. Our attention is immediately drawn to the seated figure at the lower left-hand corner wearing a bright red cloak, no doubt Natoire himself: he had been appointed assistant pro- fessor at the Académie royale in 1735, professor in 1737 and from 1736 was instructor in the life class for the month of February.5 Comfortably seated in an armchair, his tricorne hat resting on the box in the centre, he carefully corrects the black chalk drawings after the two live models presented by his pupils. At the centre of the composition, the attention of all students is directed to the two models posed together, a monthly event at the Académie that had been introduced in the mid-1660s.6 The teacher was responsible for placing the models ‘in an attitude’ for afternoon classes lasting two hours, using sunlight during the summer and artificial light during the winter months.7 The sunlight filtering in from the left is therefore imaginary, as in February, when Natoire was in charge of the École du modèle, illumination would have been from lamps. Only male models were allowed, despite repeated requests for female models from the students, all of whom were also male since women were not allowed to join the Académie until the end of the 19th century.8 The same pose was retained for three days in a row for a total of six hours and students were supposed to produce two study drawings of the figures each week.9 As in this case, a curtain was usually placed behind the model or models, to enhance 155  the contours and isolate the figure from the background. The plinth supporting the model had hooks at the corner to allow the professor to move it according to the fall of the light. In addition to posing the model, the ‘duty teacher’ from 1664 onwards was supposed to make his own drawing to serve as an example for the students and to devote part of each session to correcting students’ works, as we see represented in this drawing.10 Natoire’s own drawing of the two models may be in the portfolio leaning against the box in the centre; indeed an identical red chalk composition survives – although reversed – proving that this pose was actually used during one of his sessions (fig. 1).11 The models’ attitude in the middle follows the well- established practice within the Académie of adopting and adapting poses to recall ancient statuary.12 In this case they evoke the dynamic, interlocking bodies of the Wrestlers (see p. 30, fig. 33), of which the Académie possessed a plaster cast, or possibly the pose of the so-called Pasquino.13 The main purpose of the practice was to pose the live model with the same tension and flexing of muscles as the ancient statues, so that students could then correct their drawings from ‘fallible Nature’ against the perfection of the antique exam- ple. The practice was diffused already in the 17th century and explicitly recommended by Sébastien Bourdon (1616–71), in his famous Conférence Sur les proportions de la figure humaine expliquées sur l’Antique delivered at the Académie in 1670.14 We Fig. 1. Charles-Joseph Natoire, Two Models, c. 1745, red chalk, 490 × 420 mm, sold Sotheby’s, Paris, 18 June 2008, lot 101 know from the influential Abrégé de la vie des plus fameux peintres, published by the art writer Antoine-Joseph Dezallier d’Argenville (1680–1765) in 1745, that the great painter Philippe de Champaigne (1602–74) devoted ‘his evenings [...] to drawing at the Académie and, on his return, he would correct from the Antique what he had done from the model’.15 Natoire was exposed to a similar exercise during the years he spent at the Académie de France in Rome during the 1720s and he must often have returned to this practice during his sessions at the Académie in Paris.16 Distributed in a semi-circle around the models are students of different ages, busy drawing the figures. Most of them are using chalk in porte-crayons, drawing on large sheets of paper. The exceptions are the two more mature students on the right who are modelling bas-reliefs in clay with their fingers and wooden sticks; the one on the right holds a sponge in his hand to clean the clay with water as seen in the drawing by Cochin engraved for the Encyclopédie (p. 52, fig. 91).17 The process is clearly described in the Istruzione elementare per gli studiosi della scultura, the famous manual for students of sculpture published by Francesco Carradori (1747–1824) in 1802, and illustrated with a strikingly similar image (fig. 2).18 A third student, in the lower right corner, is wetting rags in a bucket to keep the clay damp and avoid cracks, as Carradori advised. On his left a dog – could it be Natoire’s? – stares at us from its sheltered position. The Fig. 2. Francesco Carradori, Istruzione elementare per gli studiosi della scultura . . . , Florence, 1802, detail of plate 5 disposition of the students reflects the admission conditions and entrance hierarchy of the École du modèle: two-thirds were painters and one-third sculptors, placed in the back rows.19 Behind the semi-circle of students we see life-size plaster casts of four of the most canonical classical sculptures: from left to right the Farnese Hercules (see p. 30, fig. 32; cat. 7), the Laocoön (see p. 26, fig. 19; cat. 5), the Venus de’ Medici (see p. 42, fig. 56) and the Borghese Gladiator (see p. 41, fig. 54; cat. 23).20 The Hercules and the Venus are looking away from the viewer, as if to signal that the study of the Antique constitutes a different – though inextricably connected – practice from the study of the live model. The four statues provided the students with idealised models of human proportions, anatomy, beauty and emotion: the muscular strength of the heroic male body at rest, embodied by the Hercules, the complex pose and the pathos and drama of the Laocoön, the grace and beauty of the female body ideally incarnated by the Venus and, finally, the active anatomy of the muscular man in motion as expressed by the Gladiator. They repre- sented a sort of ‘canon within the canon’ of classical sculptures for artists, and their choice here is not accidental. These four statues – plus the Belvedere Torso and an antique Bacchus at Versailles – had been specifically selected as subjects of the Conférences devoted to the Antique held at the Académie Royale during the 1660s and 1670s; the text describing them was constantly being re-read by academi- cians since then.21 At the time this drawing was made, the Académie owned casts of all four statues – among many others – but Natoire ingeniously concentrates here what was actually distributed over various rooms.22 Significantly, all the statues in the drawing are in reverse as Natoire did not copy them from the casts but from prints in François Perrier’s celebrated Segmenta nobilium signorum et statuarum of 1638 (figs 3–6).23 Perrier’s collection of engravings after ancient statues had been for more than a century the standard work of reference for students beginning their study of the Antique, providing them with images in two dimensions that they could master before approaching the three-dimensional casts. This course was firmly recommended at the time of the foundation of the Académie in 1648 by Abraham Bosse (1602–76), its first professor of perspective.24 References to the glorious past of the Académie continue on the walls, where we are invited to ascend from drawings and bas-reliefs to paintings. On the lower tier are the designs and reliefs after the model that teachers had to produce from 1664 onwards (although this requirement was eventually abolished in 1715).25 Above these are displayed a series of canvases representing some of the greatest triumphs of modern French painting: the largest and most prominent, on the left, is Charles Le Brun’s Alexander at the Tent of Darius (1661); to its right, Jean Jouvenet’s Deposition (1697) and below it, barely discernible, Eustache Le Sueur’s Solomon and the Queen of Sheba (1650). Above, in the upper register, is hung another Le Sueur, the circular Alexander and His Doctor (1648– 49). On the right is François Lemoyne’s Annunciation (1725); and finally, below it Sébastien Bourdon’s Holy Family (1660– 70).26 The two square paintings on the upper left, probably a reclining Nymph or Venus and a Cupid and Psyche, have not been identified; it would be tempting to think that they might be Natoire’s own creations, but they do not correspond to any of his known works.27 None of the paintings were displayed at that time in the Académie and all are reversed, meaning that Natoire deliberately assembled them in this crowded space from prints.28 All were revered examples of history paintings by famous past academicians, ranging from Le Brun, Le Sueur and Bourdon, who had been among the twelve original founding members of the Académie in 1648, to Lemoyne, Natoire’s own teacher. Showing different kinds of history painting – Biblical subjects, Mythology and secular history – they here provide the young students with models both to imitate and aspire to. On the central pier, presiding over all the artistic activity below, is Bernini’s 1665 bust of Louis XIV, of which the Académie then displayed a plaster cast,29 reminding us of the glories of the institution under the reign of the Sun King. Such a deliberately programmatic image, which assem- bles so many references from different places and times, must be understood as a visual manifesto in favour of a retour à l’ordre within the Académie. At the time Natoire conceived it, many of the original academic practices and credos had long been neglected. After the late 17th century almost no new Conférences were held, and teachers simply re-read the old ones and the biographies of past academicians.30 Nor does it seem that the study of the Antique was much promoted and certainly the collection of casts was not integrated with the École du modèle.31 Finally, and most impor- tantly, during the first half of the 18th century, history painting had lost its place of pre-eminence within the Académie, a process foreshadowed by the success of Jean- Antoine Watteau (1684–1721) and his acceptance into the Académie in 1717 as a painter of fêtes galantes, a new category that encouraged the development of the ‘lesser genres’ of painting.32 At the same time, because of the popularity of ‘the Rococo interior’, history painters were often obliged to adapt their canvases for decorative schemes, to the point that Natoire complained in 1747 that his painting was regarded as mere furniture.33 Significantly, a completely different model was in place in Rome during the years spent by Natoire in the city as a young   156 157    Fig. 3. (top left) François Perrier, Farnese Hercules, plate 4, from Segmenta nobilium signorum et statuarum, Rome, 1638 Fig. 4. (top right) François Perrier, Laocoön, plate 1, from Segmenta nobilium signorum et statuarum, Rome, 1638 Fig. 5. (bottom left) François Perrier, Venus de’Medici, plate 83, from Segmenta nobilium signorum et statuarum, Rome, 1638 Fig. 6. (bottom right) François Perrier, Borghese Gladiator, plate 28, from Segmenta nobilium signorum et statuarum, Rome, 1638 years implemented a series of radical changes – such as the re-establishment of the Conférences, the acquisition of new casts, and making the history paintings of the Royal Collection accessible to students – which paved the way to the triumph of the highest genre in the second half of the century.36 It is at this moment that Natoire’s drawing was conceived, probably as a statement in support of Tournehem’s reforms. These, in essence, involved a return to the original credo and mission of the Académie as devised by Louis XIV’s Minister Jean-Baptiste Colbert (1619–83) and his Premier Peintre Charles Le Brun (1619–90): a royal institu- tion intended to support and cultivate History Painting through the practice of drawing and the study of the live model and the Antique. Natoire would apply many of the principles proclaimed in his drawing during his tenure as director of the Académie de France in Rome after 1751. The fact that everything in the Courtauld drawing – statues, paintings and even models – appears in reverse would suggest that it was intended to be engraved.37 How- ever, the students hold the porte-crayons in their right hands, which would seem to contradict this theory. In any case, it is highly likely that this complex image was conceived to be diffused for promotional purposes, possibly on the example of Dorigny’s engraving after Maratti (cat. 15), which Natoire would certainly have known.38 It would have been a persuasive way to promote the study of the live model together with the study of the Antique, a training that would effectively prepare young artists to revive those noble forms of painting that had been the glory of the Grand Siècle. London 2013–14, p. 33. See the 11th article of the 1664 reformed statutes of the Académie: Montaiglon 1875–92, vol. 1, p. 253. See also London 2013–14, pp. 33–34. The fact that the drawing is in reverese seems to suggest that it is a counter- proof. For the drawing see Caviglia-Brunel 2012, p. 481, no. D.794, repr. in colour at p. 128. The drawing was sold at Sotheby’s, Paris, 18 June 2008, no. 101. Some of Natoire’s drawings after the live model were published in 1745: Huquier 1745. Paris 2000–01, pp. 415–29; London 2013–14, pp. 62–69. Guérin 1715, p. 148, no. 49; London 2013–14, p. 94, note 62. On the pose of the two models see also Foster 1998, pp. 56–57. On the Pasquino see Haskell and Penny 1981, pp. 291–96, no. 72; Bober and Rubinstein 2010, p. 202, no. 155 Lichtenstein and Michel 2006-12, vol. 1.1, pp. 374–77. See also Goldstein 1996, p. 150. Dezailler d’Argenville 1745–52, vol. 2, p. 182. Macsotay 2010, pp. 189–90. As noted by Gillian Kennedy in London 1991, p. 80, no. 35. I wish to thank Camilla Pietrabissa for a fruitful discussion on the subject. Carradori 1802, esp. pp. 3–4, article 2, and plate 5; Carradori 2002, pp. 23–24, and pp. 60–61, plate 5. London 2013–14, p. 34. On the Farnese Hercules see Haskell and Penny 1981, pp. 229–32, no. 46; Gasparri 2009–10, vol. 3, pp. 17–20, no. 1. On the Laocoön see Haskell and Penny 1981, pp. 243–47, no. 52; Bober and Rubinstein 2010, pp. 164–68, no. 122. On the Venus de’ Medici see Haskell and Penny 1981, pp. 325–28, no. 88. On the Borghese Gladiator see Haskell and Penny 1981, pp. 221–24, no. 43; Paris 2000–01, no. 1, pp. 150–51 (L. Laugier); Pasquier 2000–01c. Lichtenstein and Michel 2006–12, see esp. vols 1–2, passim. See also Aymonino’s essay in this catalogue, pp. 45–46. Guérin 1715, p. 62, no. 35, pp. 105–06, nos 1–2, p. 185, no. 41; London and New York 2012–13, p. 162; London 2013–14, p. 94, note 62. On Perrier’s Segmenta see Picozzi 2000; Laveissière 2011; Di Cosmo 2013; Fatticcioni 2013. Bosse 1649, p. 98. On the success of the Segmenta see Haskell and Penny 1981, p. 21; Goldstein 1996, p. 144; Coquery 2000, pp. 43–44. See also Aymonino’s essay in this catalogue, p. 42. London 2013–14, p. 53. On a similar display in the real École du modèle see Guérin 1715, p. 258 London 1991, p. 80, no. 35; Caviglia-Brunel 2012, p. 334, no. D.362; London and New York 2012–13, p. 161. The Montpellier version also shows Poussin’s circular Time defending Truth against the Attacks of Envy and Discord on the ceiling: see Caviglia-Brunel 2012, p. 334, no. D.362. I would like to thank Alastair Laing for discussing these two paintings with me. London 1991, p. 80, no. 35. It was previously thought that the print from Lemoyne’s Annunciation was not in reverse but this has been disproven by Rowell 2012, see p. 178, fig. 7 and p. 180, note 27. Guérin 1715, p. 165, no. 1. See Lichtenstein and Michel 2006–12, passim. Guérin 1715, pp. 257–60. See also Foster 1998, pp. 56–57; Schnapper 2000; Macsotay 2010. Locquin 1912, pp. 5–13; Plax 2000. Jouin 1889; London 1991, p. 80, no. 35. On the Concorsi Clementini see Cipriani and Valeriani 1988–91 and Aymonino’s essay in this catalogue, p. 54. See also cat. 15. Macsotay 2010; Henry 2010–11. Locquin 1912, pp. 5–13; Schoneveld-Van Stoltz 1989, pp. 216–28; Caviglia- Brunel 2012, pp. 86–87. As already noted in Troyes, Nîmes and elsewhere 1977, p. 80, no. 42. Dorigny’s print was reissued in 1728, in parallel to the award ceremony of the Concorsi Clementini, when Natoire was still in Rome (see cat. 15).   student. The Accademia di San Luca officially supported the copying of the Antique and the production of history painting through the system of the Concorsi Clementini, established in 1702, of which, as we know, Natoire obtained the first prize.34 At the same time the Académie de France in Rome saw a complete reorganisation under the directorship of Nicholas Vleughels (1668-1737) between 1725 and 1737. Its enormous collection of casts was redisplayed and integrated with the Ecole du modèle and its students, like Natoire, were strongly encouraged to compare the ideal of casts from the Antique against nature in the form of the live model, as we see promulgated in our drawing.35 These principles began to be re-introduced in Paris after the election in 1745 of Charles- François-Paul Le Normant de Tournehem – the uncle of Madame de Pompadour – as director of the Bâtiments du Roi, the official protector of the Académie Royale on behalf of the king. Tournehem initiated a reform aimed at the rehabilitation of history painting, and in the following 158 159 1 2 3 4 5 6 7 8 aa Lot 100 is probably this drawing but it could also refer to the very similar version of this sheet now preserved at the Musée Atger, Montpellier, inv. MA1, album M43 fol. 26: see Troyes, Nîmes and elsewhere 1977, p. 80, no. 42; London 1991, p. 80, no. 35; Caviglia-Brunel 2012, p. 334, no. D.362 and p. 336, no. D. 370, where the lot description is transcribed in full. On Natoire see Troyes, Nîmes and elsewhere 1977; Caviglia-Brunel 2012. For the Monpellier drawing see above note 1. Guérin 1715, pp. 257–60, plate between pp. 256–57; Caviglia-Brunel 2012, p. 334, no. D.362; London and New York 2012–13, pp. 161–62, fig. 68. Montaiglon 1875–92, vol. 5, pp. 171, 193; London 1991, p. 80, no. 35; Caviglia-Brunel 2012, p. 334, no. D.362. Guérin 1715, p. 259; London 1991, p. 80, no. 35; London 2013–14, pp. 46, 62. See the 4th article of the 1648 statutes of the Académie: Montaiglon 1875–92, vol. 1, p. 8. See also Guérin 1715, p. 258. London 2013–14, p. 40. Women were admitted to the Académie, then named École des Beaux-Arts, only in 1896 and allowed to enrol for the Prix de Rome in 1903: Goldstein 1996, p. 61.  17. Hubert Robert (Paris 1733–1808 Paris) The Artist Seated at a Table, Drawing a Bust of a Woman c. 1763–65 Red chalk, 333 × 441 mm provenance: Poulet, whence acquired by Pierre Decourcelle (1856–1926), Paris in October 1912 for 300 francs;1 by descent; Decourcelle sale, Christie’s, Paris, 21 March 2002, lot 317, from whom acquired. literature: Paris 1933, p. 124, under no. 197; Rome 1990–91, p. 191, under no. 135; Ottawa, Washington D.C., and elsewhere 2003–04, p. 308, under no. 92, fig. 142.  exhibitions: Paris 1922, p. 16, no. 85, not repr. Katrin Bellinger collection, inv. no. 2002–012 Hubert Robert received a classical education at the Collège de Navarre before studying drawing in the studio of the sculptor, Michel-Ange Slodtz (1705–64). Even during this early period, he showed an interest in ‘architecture in ruins’.2 Although not eligible for a place at the Académie de Rome – he had not attended the requisite École Royale des élèves protégés – family connections allowed him to bypass this regulation and on 4 November 1754 Robert arrived in Rome in the retinue of the new French ambassa- dor, Étienne-François, comte de Stainville (1719–85), later duc de Choiseul. The diplomat sponsored Robert for the first three years of his stay before he was granted pensionnaire status at the Academy in 1759, under the directorship of Joseph-Charles Natoire (see cat. 16).3 Robert remained in Rome – with intermittent study trips to Naples, Florence and elsewhere in Italy – for eleven years, responding to the fertile archaeological climate, sparked by recent excavations at Pompeii and Herculaneum as well as the newly opened Capitoline Museum, and indulging his fascination for classical ruins. Natoire encouraged Robert and the other students to sketch antiquities outdoors in situ, in the Roman campagna and beyond. Robert also took inspiration from the work of other mentors including the celebrated vedu- tista, Giovanni Paolo Panini (c. 1692–1765), and the printmaker and draughtsman, Giovanni Battista Piranesi (1720–78). With his friend and compatriot, Jean-Honoré Fragonard (1732–1806), Robert enthusiastically sketched classical monuments and antiquities in and around Rome, later fusing real and imagined elements to create highly original compositions – often punctuated by ancient ruins or dilapidated architectural fragments – that would become a trademark of his work. The vast repository of motifs amassed by him during this productive Roman period, coupled to his facile draughtsmanship, would serve him well for years to come. He became a star pupil of the Academy and his drawings in particular would be eagerly sought after before he returned to France in 1765, where he entered the Académie Royale and successfully exhibited at the Salons.4 160 Undoubtedly one of his finest red chalk drawings, the present study shows the artist in a rare moment of casual repose, seated at a table and drawing, legs casually extended and crossed, stockinged feet resting carelessly on a large portfolio of drawings lying open on the floor.5 His relaxed, almost dishevelled appearance and level of undress – the fallen left knee-sock slumped around his ankle, the unbut- toned breeches and the disregarded, rumpled, coat, strewn on a chair opposite alongside his hat and the long shadows cast – all suggest that it is the end of a long day and he is at home, resuming a favourite activity: drawing. The focus of Robert’s gaze is the bust of an attractive young woman in right profile placed on the table. With his chalk-filled porte-crayon in hand, he stares intently at her, poised to sketch. Her head titled downwards, she returns his steady gaze; there is a palpable tension between them. However, the presence of a third figure threatens to interrupt their private moment. With a side-glance, a bearded man drawn on a sheet pinned up on the wall between them also watches the young woman, thereby completing an amusing love triangle of Robert’s invention. The object of the men’s attention is the Roman Empress, Faustina the Younger (c. ad 125/30–175), daughter of Emperor Antonius Pius and Faustina the Elder (fig. 1). She married Emperor Marcus Aurelius, perhaps the bearded rival in the drawing on the wall.6 Her marble bust was discovered in Hadrian’s Villa at Tivoli and in 1748 presented by Benedict XIV to the Capitoline Museum where Robert would have seen it.7 Bartolomeo Cavaceppi, the Roman sculptor and antiquities restorer, who worked on the original for a year after its discovery and made several copies after it, was an acquaintance of Robert’s who occasionally visited his studio (cat. 18).8 In fact, his red chalk drawing in the Château Borély in Marseilles (cat. 18, fig. 6) records an antiquities restorer, quite possibly Cavaceppi himself, working on a female bust.9 The present composition is repeated in a small signed painting in the Museum Boijmans Van Beuningen in 161  room’s generous proportions, the beamed ceiling and for- mal window, the elegant Louis XV-style table– are consistent with those found in Robert’s detailed sanguine of Breteuil’s grand Salone.13 Thus, it is highly likely that the composition was conceived during his stay at the Ambassador’s residence, 1763–65, and that it is Breteuil’s guest room that is shown. Perhaps the drawing, more a ricordo than a preliminary study for the painting, was intended as a gift to the host, as a gesture of gratitude and friendship. A highly regarded collector and patron of the arts, Breteuil was an ardent admirer of Robert’s work.14 At the outset of his posting in Rome, Natoire praised the diplomat as an informed collector who already owned ‘quelque chose’ by Robert.15 Breteuil would later procure many of Robert’s drawings as well as paintings.16 A close friendship between patron and artist followed, evidently based on a shared love of art and antiquity in all its forms.17 Together they translated texts by Virgil and took sightseeing trips in Rome, and at least one to Florence.18 The Ambassador asked Robert to accompany him to Sicily ‘pour visiter et dessiner les beaux morceaux antiques qui sont dans ses cantons-là’, but, it seems, the trip never took place.19 Representations of artists in the act of drawing antique sculpture and other works of art are recurrent in Robert’s oeuvre along with representations of classical architecture in ruin. Detailed studies made on the spot such as The Draughts- man at the Capitoline, c. 1763 (p. 56, fig. 95) convey something of the wonder and excitement that he must have felt at 20 encountering these celebrated sights for the first time. He often represented himself or his associates in grandiose, stage-like settings or as art tourists, of the sort that he would frequently have encountered. But as an intimate scene of private contemplation, the present drawing stands apart Fig. 2. Hubert Robert, The Artist in his Studio, c. 1763–65, oil on canvas, 37 × 48 cm, Museum Boijmans van Beuningen, Rotterdam, 2586 (OK) Fig. 3. Hubert Robert, Young Artists in the Studio, red chalk, with framing lines in pen and brown ink, 352 × 412 mm, Metropolitan Museum of Art, New York, 1972.118.23 from these. It bears a close resemblance to a composition in the Metropolitan Museum of Art (fig. 3) showing the same room but on another day with visitors: a bare-footed servant and two artists – one drawing, the other inspecting the portfolio.21 A little-known red chalk study formerly in the Camille Groult collection in Paris (fig. 4) probably preceded 22 the present drawing. It shows the same relaxed figure alone – Robert – in identical attire but fully dressed and outdoors, lying on the ground and sketching, presumably after his favourite subject: the Antique. Fig. 4. Hubert Robert, Le Dessinateur, red chalk, 300 × 400 mm, present whereabouts unknown    Fig. 1. Bust of Empress Faustina the Younger, 147–48 ad, marble, 60 cm (h), Musei Capitolini, Rome, inv. MC449 Rotterdam (fig. 2).10 It is of similar dimensions to the drawing but a few modifications were made: Robert no longer has a full head of hair and the open portfolio used as a foot rest is now safely closed, while another leans against his chair. The view of the room is wider and includes a high, beamed ceiling, a generously sized window and a table on the right, on which rest tools and utensils. A further nod to antiquity is a lively copy after the celebrated Roman sculpture, Germanicus (cat. 33, fig. 4) on a pedestal on the left. While it was found in Rome, in Robert’s time the statue was already in Versailles.11 But its fame endured in Italy and a plaster cast was available for study at the French Academy in Rome. Further playful details were introduced: a framed picture and precariously hung drawings (including a possible por- trait of Faustina); a charming dog that takes a keen interest in Robert’s casually flung slippers. While the intimate nature of the scene, bordering on genre, suggests this is indeed Robert’s private space, its spacious grandeur is not that of his student lodging at the Academy. When his official term as pensionnaire ended in October 1763, his stay was extended by the largesse of the French Ambassador of the Order of Malta to the Holy See, the Bailli de Breteuil (1723–85), who housed him at his palace on the Via dei Condotti until he returned to Paris in July 1 2 3 4 5 6 7 8 avl According to N. Schwed (e-mail, 30 July 2014), this information was provided to Christie’s at the time of the Decourcelle sale in 2002. Taillasson 1808, p. 473. Letters exchanged between the influential Marquis de Marigny, Director General of King Louis XV’s buildings (and brother of his mistress, Madame de Pompadour), and Charles-Joseph Natoire, Director of the French Academy in Rome published by A. de Montaiglon and J. Guiffrey between 1887–1912 provide essential details about Robert and his stay in Italy. For Robert and Choiseul, see ibid., vol. 11, p. 262, no. 5331. Collector and connoisseur, Pierre-Jean Mariette preferred Robert’s draw- ings to his paintings: ‘ses tableaux est fort inferieur à ses desseins [sic], dans lesquels il met beaucoup d’esprit’ (Mariette 1850–60, vol. 4, p. 414). Letters between Marigny and Natoire mention requests from Mariette for drawings: Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, vol. 11, p. 365, no. 5477; p. 367, no. 5483; p. 388, no. 5521; p. 428, no. 5589. The traditional view that the drawing is a self-portrait (Paris 1922, p. 16, no. 85; Paris 1933, p. 124, under no. 197), upheld in the recent literature, need not be questioned. The figure resembles Augustin Pajou’s marble bust of Robert (1780) in the École Nationale Supérieure des Beaux-Arts and Elisabeth Vigée-Lebrun’s 1788 portrait of him in the Louvre. He has all the characteristics of an emperor from the Antonine period. It could well be a reference to the bust of Marcus Aurelius in the Capitoline Museum. See Fittschen and Zanker 1985, vol. 1, pp. 76–77, no. 69, vol. 2, pls 79, 81–82. A copy by Cavaceppi in terracotta is preserved in the Museo del Palazzo di Venezia, see Rome 1994, p. 104, no. 19, repr. For the bust, see Fittschen and Zanker 1983, vol. 1, pp.20–21, no. 19, vol. 2, pls 24–26. For its restoration, see London 1983, pp. 66–67. Cavaceppi’s posthumous inventory of 1802 mentions two marble Faustinas and one plaster cast 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 (Gasparri and Ghiandoni 1994, p. 264, no. 310, p. 270, no. 624 and p. 286, no. 109). For surviving copies by Cavaceppi, predominantly acquired by English collectors, see Howard 1970, p. 123, figs 8 and 9, p. 128; Howard 1982, p. 240, no. 6, p. 313, fig. 133, pp. 83, 251, nos. 25–26, p. 326, fig. 211, p. 264, no. 14, p. 268, no. 15, p. 419; I. Bignamini, in London and Rome 1996–97, pp. 211–12, no. 159; D. Walker, in Philadelphia and Houston 2000, p. 242, no. 120. This is not, however, Faustina, as Marianne Roland Michel proposed (Marseille 2001, p. 96, no. 109). For the painting, see J. Ebeling, in Ottawa, Washington D.C. and elsewhere 2003–04, pp. 308–09, no. 92, 372, with select previous literature listed. See Haskell and Penny 1981, pp. 119–20, no. 42, fig. 114. Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, vol. 12, p. 86, no. 5856. Paris, Louvre. Méjanès 2006, p. 77, no. 33 and Ottawa and Caen 2011–12, pp. 140–41, no. 53. The connection was first noted by J. de Cayeux in Rome 1990–91, p. 191, under cat. no. 135. On Breteuil, see Yavchitz-Koehler 1987, pp. 369–78, Depasquale 2001, and Ottawa and Caen 2011–12, pp. 13–17 and 140–41, no. 53. Letter from Natoire to Marigny, 25 April 1759 (Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, vol. 11, pp. 272–73, no. 5346). For the drawings, see letter from Natoire to Marigny, 5 January 1763, Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, vol. 11, p. 455, no. 5636. Compositions by Robert are among the copies made in 1770 by Jean-Robert Ango (active 1759 – after 1773) after works in Breteuil’s collection (Choisel 1986, nos 23–26, 44, 80). Their close rapport was recorded by Robert’s friend, the painter Elisabeth Vigée-Lebrun (Gabillot 1895, pp. 80–81). Breteuil owned antique works as well as copies after the antique by contemporary artists. Some are recorded in drawings by Ango (Choisel 1986, nos. 29, 45, 47, 51, 54–57, 71–72, 74–75, 83 and 125) including a small bronze Venus Pudica, no. 56, and a copy by Laurent Guiard (1723–88) after the Venus Calllypige from the Farnese collec- tion (no. 75). Additional antique works and copies are listed in Breteuil’s posthumous sale in Paris of 16 January 1786, including a copy of the Gladiator by Luc-François Breton (1731–1800), no. 135, and a copy of the bust of Germanicus in the Capitoline, no. 143. Although no bust of Faustina is listed, he may have owned the copy that Robert draws in the present drawing. Gabillot 1895, pp. 61, 81–82. Letter from Natoire to Marigny, 5 January 1763 and another from Marigny to Natoire, 20 February 1763. Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, vol. 11, p. 455, no. 5636 and p. 462, no. 5649. J.-P. Cuzin, in Paris 2000–01, p. 373, no. 178. Michel 1998–2000, pp. 60, 62, fig. 13. Sold Galerie Charpentier, Paris, 21 March 1952, lot 52. Present whereabouts unknown. 163  of 1765. 162 12 Certain decorative features in the painting – the  18. Hubert Robert (Paris 1733–1808 Paris) The Roman Studio of Bartolomeo Cavaceppi c. 1764–65 Black chalk, 339 × 443 mm Inscribed verso l.r. in pencil: ‘Salon de 1783 / No. 61 Intérieur d’un atelier à Rome / dans lequel on restaure des statues / antiques / Cet atelier est pratiqué et construit / dans les debris d’un ancien temple / 5 pieds de large sur 3 pieds 9 pounces de haut’ watermark: A coat of arms, possibly containing a star, three hills and the initials ‘CB’ below, surmounted by a Cardinal’s hat with tassels on each side (see Heawood 1950, nos 791–99). provenance: Charles Albert de Burlet (1882–1956), Berlin, around 1910; Sold Galerie Fischer, Lucerne, 13 November 2006, lot 1944; Private collection, Switzerland, in 2006; Le Claire Kunst, Hamburg, in 2011; Sold Villa Grisebach, Berlin, 28 November 2013, lot 307R, from whom acquired. literature: Le Claire Kunst 2011, no. 13 (unpaginated), repr.; Yarker and Hornsby 2012-13, pp. 65–66, fig. 37; Körner 2013, lot 307R, repr. exhibitions: Not previously exhibited. Katrin Bellinger collection, inv. no. 2013-030  A visit to the studio of Bartolomeo Cavaceppi (1716–99) the sculptor, dealer, antiquarian, collector and especially, restorer of ancient sculpture was essential for any serious art tourist or collector in Rome on the Grand Tour.1 Known as the ‘Museo Cavaceppi’, by the 1770s it was listed in guide- books as among the top sights of the Eternal City.2 Johann Wolfgang von Goethe (1749–1832), who lived nearby, and visited it in 1788 noted that one could experience in the studio ancient sculpture from close proximity in all its gran- deur and beauty.3 The painters, Henry Fuseli (1741–1825) and Giovanni Casanova (1728/30–1795) and the sculptor, Antonio Canova (1757–1822), also came to see the collection.4 The ‘Museo’ was an international meeting place, frequented by many artists including the English sculptor, Joseph Nollekens, who worked for Cavaceppi as an assistant in the 1760s, and the English painter, Charles Grignoin, who resided with him in 1787.5 Strategically located between the Spanish Steps and the Piazza del Popolo and thus in the social hub of Rome, the sprawling workshop was graced by European royalty – Catherine the Great, Maria Christina, Duchess of Teschen, Princess Sophia Albertina of Sweden, her brother, King Gustav III – and a steady stream of English Grand Tourists like Charles Townley (see cat. 28), many of whom became important clients.6 From a modest background, Cavaceppi trained as a sculp- tor before enrolling in the Accademia di San Luca in 1732. Two years later, Cardinal Alessandro Albani (1692–1779), the nephew of Pope Clement XI and then the most respected private collector of antiquities in Rome, appointed Cavaceppi as his personal restorer. The association brought him many profitable commissions from foreign tourists for whom he found antique statues, restored them, or made copies, in marble or plaster. He also created original works, rarely signed, that were often confused with authentic antique originals. Through his friend, the art historian and archaeol- 164 ogist, Johann Joachim Winckelman (1717–68), who, in 1764, published The History of Art in Antiquity (Geschichte der Kunst des Alterthums), Cavaceppi secured many English clients, taken with the current mania for classical antiquity. He later served as chief restorer to the Pope at the Museo Clementino and was made Knight of the Golden Spur in 1770. In 1768 Cavaceppi published the first volume of his Raccolta d’antiche statue, busti, teste cognite ed altre sculture antiche con- taining sixty plates of antique statues that had been repaired in his studio, often ‘corrected’ with missing or broken parts filled in. Over half of these had been acquired by English collectors.7 A year later, he published the second volume, essentially a promotional catalogue with works available for purchase, followed by a third in 1772. Illustrating a total of 196 works, these influential volumes, the first of their kind, helped to satisfy the seemingly insatiable demand for unblemished antique sculpture – free of fragmentary vestiges or other perceived flaws – and to encourage an emerging neo-classical aesthetic. For modern scholars they serve as an indispensible tool for identifying works he restored. By 1756 Cavaceppi established his vast studio on the Via del Babbuino, a workshop and showroom. Cavaceppi employed a range of skilled and unskilled workers with different roles and specialisations, fifteen of whom have been identified by name, with Giuseppe Angelini and Carlo Albacini being the most accomplished.8 The frontispiece to the first volume of Cavaceppi’s Raccolta provides a fascinating look at his active studio with assistants exercising different techniques of restoration and antiques in various stages of completion (fig. 1). It offers a glimpse at what must have been a sprawling complex of rooms with distinctive architectural details – high ceilings, lattice windows and an enfilade of vaulted archways connecting each room, one leading to an open garden courtyard at the back.9 165       Fig. 1. View of Cavaceppi’s Roman Studio, engraving, in Raccolta d’antiche statue, vol. 1, frontispiece, Rome, 1768. Photo: Warburg Institute, London Hubert Robert certainly encountered Cavaceppi during his Roman sojourn, 1754–65 (see cat. 17), and visited his studio on occasion, as this drawing testifies. Executed in soft black chalk, it offers a view of one of the many rooms in the Cavaceppi workshop. As in the engraving, there is a high ceiling with lattice windows, statues and blocks of stone are scattered about, and affixed to the wall on the left, is the same type of wooden structure and lead point suspended on a cord used for measuring sculpture.10 With a chisel in one hand and a mallet in the other, a restorer dressed in formal attire, perhaps Cavaceppi himself, is busy worker-cutting on the cascading drapery of an enormous statue of an armless woman. We can identify this as Cavaceppi’s studio with virtual certainty as two works in the drawing were illustrated in perhaps Cavaceppi himself, working on a female bust (fig. 6). Captivated by the theme of the artist at work, Robert would return to the subject of the restorer’s studio. In 1783 he successfully showed the impressive, rather generically entitled, The Studio of an Antiquities Restorer in Rome at the Salon (Toledo Museum of Art), which, though clearly an idealised vision featuring some of the most famous antique works of the day (including the River Nile, Cupid and Psyche, etc.), is also a wistful reminiscence of the artist’s own Roman years and passionate study of antique statuary: a diminutive figure of an artist sketching is visible in the foreground.18 In another little-known privately owned picture attributed to Robert, well-clad visitors admire antique statues in a sculptor’s studio while the ubiquitous artist is seen drawing (fig. 7). Though certain features suggest the small painting may also represent Cavaceppi’s studio, as with the Toledo canvas, topographical exactitude is tempered with a more generalised, romantic – and highly saleable view – of remnants from Rome’s ancient. For his life and work, see especially Howard 1970, Howard 1982, London 1983, Howard 1991, Gasparri and Ghiandoni 1994, Rome 1994, Piva 2000, Barr 2008, Weiss and Dostert 2000, Bignamini and Hornsby 2010, pp. 252–55; Piva 2010–11, C. Piva in Rome 2010–11, pp. 418–19, no. IV.1 and Meyer and Piva 2011, pp. 149–55 (for essential bibliography). Howard 1988, p. 479; Piva 2000, p. 5; Barr 2008, p. 86. Goethe 1827–42, p. 540, cited in C. Piva in Rome 2010–11b, pp. 418–19, no. IV.1. Piva 2000, pp. 6, 17, note 4; Honour and Mariuz 2007, pp. 26, 60–63. For Nollekens, see Howard 1964, pp. 177–89; Coltman 2003, pp. 371–96. For Grignoin, see Ingamells 1997, pp. 433–34. Howard 1988, p. 479. For Cavaceppi’s works from British collections, see London 1983. Haskell and Penny 1981, p. 68. Barr 2008, p. 104 and p. 184, Appendix B. Some of the same topographical details are discernible in a little-known floor plan of the building (Piva 2000, p. 10, fig. 7). For more on this device and an engraving demonstrating its use (published by D. Diderot and J. le Rond d’Alembert in the Encyclopédie in 1765), see Myssok 2010, pp. 272–73, fig. 13.2. As first noted by Stefan Körner (Körner 2013, under lot 307R). Ibid., under lot lot 307R; U. Müller-Kaspar, in Hüneke 2009, p. 416, no. 270. Körner 2013, under lot lot 307R; U. Müller-Kaspar, in Hüneke 2009, p. 430, no. 283. Müller-Kaspar 2009, p. 395. D. Kreikenbom, in Hüneke 2009, pp. 578–79, no. 357. According to Winckelmann, many statues (including Kalliope and possibly also Lucilla) were acquired by Bianconi in 1766 from the sale of Cavaliere Pietro Natali’s collection in Rome. Conceivably, they were brought to Cavaceppi’s studio while they were still in Natali’s possession (Müller- Kaspar 2009, p. 395; U. Müller-Kaspar, in Hüneke 2009, pp. 416, 430). Marseille 2001, p. 96, no. 109. Guiffrey 1869–72, vol. 32, p.25, no. 61: ‘L’intérieur d’un Attelier à Rome, dans lequel on restaure des statues antiques. Cet Attelier est pratiqué & construit dans les debris d’un ancien Temple’. Fig. 2. Lucilla Sotto sembianza d’Urania, anch’essa or esistente in Germania, engraving in Raccolta d’antiche statue, vol. 1, Rome, 1768, pl. 58. Photo: Warburg Institute, London Fig. 3. Kore as Urania, body, Antonine, c. 150 ad after a Greek model, 4th century bc; head, 160–170 ad; marble, 270 cm (h), Berlin, SMBPK, Antikensammlung, Sk 379 in the drawing, to the right, the muse Kalliope, lost in Berlin during World War II, was also restored by Cavaceppi (figs 4–5).13 Both were acquired in 1766 by the Bolognese doctor and antiquarian, Giovanni Ludovico Bianconi, another friend of Winkelmann’s, for King Frederick William II of Prussia and assigned to Cavaceppi for restoration before being sent to the Sansssouci Palace in Potsdam in 1767.14 The child’s sarcophagus visible in the drawing on the left wall is also similar to that preserved today in Charlottenhof Palace in Potsdam though it does not appear in the Raccolta.15 The dating of Robert’s drawing is problematic as in 1766, the year Lucilla and Kalliope were acquired by Bianconi, the Fig. 4. Kalliope, engraving in Raccolta d’antiche statue, vol. 1, Rome, 1768, pl. 45. Photo: Warburg Institute, London Fig. 5. Kalliope, Roman, marble, 98 cm, formerly Berlin, SMBPK, Antikensammlung, Sk 600, lost c. 1945 Fig. 6. Hubert Robert, L’Atelier du restaurateur de sculptures antiques, black chalk, 368 × 323 mm, Château Borély, Marseilles, Inv. 68-194 painter was already back in Paris, having left Rome in July 1765. However, it seems highly likely that the works were lodged in Cavaceppi’s studio before their acquisition and, indeed, they are drawn in their pre-restoration state.16 During the same period Robert probably made the black chalk drawing now in Marseille showing an antiquities restorer, 17 Fig. 7. Hubert Robert, Studio of a Sculpture Restorer, oil on panel, 13 × 10 cm, private collection. Photo: Witt Library   his Raccolta. 166 11 One of them, the monumental female statue in the centre, re-appears in the publication, with arms added and an entirely different head (fig. 2). Cavaceppi identified her as Lucilla, daughter of Marcus Aurelius, with the attrib- utes of Urania, the muse of Astronomy (‘Lucilla Sotto sembian- za d’Urania, anch’essa or esistente in Germania’). A staggering 220-cm in height she is preserved today, with further restorations, in Berlin (fig. 3).12 The seated figure behind her past. avl 167  19. Georg Martin Preissler (Nürnberg 1700–54 Nürnberg) after Giovanni Domenico Campiglia (Lucca 1692–1775 Rome) Self-Portrait of Campiglia Drawing 1739 Engraving, first state (before the lettering) 226 × 167 mm (image); 315 × 223 mm (sheet) Inscribed l.l. below image in pencil: ‘Campiglia se ipse del.’; l.r.: in pencil: ‘G. M. Preisler.Sc.Nor.; and l.c. in pencil: ‘Joh. Dominicus Campiglia, / Pictor Florent. Delineator / Musei Fiorentini.’ provenance: Trinity Fine Art, London, 1999, from whom acquired. literature: Le Blanc 1854–88, vol. 3, p. 244, no. 6, ‘Campiglia (Giov. – Dom.). 1739. In – fol. -1er état : avant le lettere.’ exhibitions: London 1999b, p. 8, no. 16, not repr. Katrin Bellinger collection, inv. no. 1999–054  A prolific and accomplished draughtsman, painter and reproductive engraver, Campiglia was a central figure in promoting and disseminating images of the Antique during the middle decades of the 18th century and therefore, is a key figure in the present exhibition.1 His formative years were spent training with his uncle and local painters in Lucca, Bologna and Florence where he studied drawing, as well as anatomy and perspective and made copies after the Old Masters. By 1716, he was residing in Rome studying the most important collections of antique sculpture. That year he received a first prize for painting and for drawings to illustrate a booklet for the Accademia di San Luca. He was already respected for his wide culture and his work was admired by English collectors like Richard Topham, who esteemed his refined and highly finished chalk studies of antique sculpture, as well as his portraits.2 His close involve- ment in two lavishly illustrated and highly successful and influential publications largely devoted to antique sculpture – the Museum Florentinum and the Museo Capitolino (cat. 20) – brought him lasting fame and consolidated the taste for classical antiquity that continued through the rest of the 18th century and beyond.3 In the early 1730s the Florentine antiquarian, Anton Francesco Gori (1691–1757), began to assemble a set of vol- umes that aimed to provide a visual record of the art collec- tions of Florence, mainly those of the Medici, the ruling dynasty. He commissioned Campiglia, already in the city in 1726, and others to make drawings of the works selected to be engraved. The Museum Florentinum was published between 1731 and 1766. It comprised twelve large volumes divided into four parts: Gemmae antiquae ex Thesauro Mediceo et privatorum dactyliothecis florentiae..., devoted to engraved gems (1731–32); Statuae antiquae deorum et virorum illustrium, on antique statues and monuments (1734), Antiqua numismata aurea et argentea, dedicated to ancient coins (1740–42) and, lastly, Serie di ritratti degli eccellenti pittori, illustrating 320 portraits of prominent artists, published in 1752–66. This last volume, based on art- ists’ self-portraits in the Uffizi’s collection, is of particular relevance here, as we shall see later. This rare engraving by Preissler, hitherto unpublished and known only in a single impression of the first state, is probably based on a now untraced self-portrait of Campiglia.4 Without explanation, Le Blanc dates the print to 1739 – when the artist was 47.5 Wearing an ermine collar with a crisp, white, open-necked shirt and directly engaging the viewer, he presents himself as straightforward, successful and brim- ming with confidence. Assuming that Le Blanc’s date is cor- rect, the print appeared at time when Campiglia was enjoying considerable success. The first two parts of the Museum Florentinum had already been published, he had begun work on the Capitolino in 1735 (see cat. 20) and, precisely in 1739, he had been appointed Superintendent of the Calcografia Camerale, the papal printing press. These successes culmi- nated in his nomination for membership of the Accademia di San Luca in November of that same year.6 Resting a sheet of paper against a drawings portfolio held in his left hand, with his right hand he is drawing with a porte-crayon a model of the Belvedere Antinous standing on the table before him (fig. 1). At the statue’s feet is a figurine of a herm with the head of a youth, perhaps Mercury, and two medals, one showing a man holding a lyre, who may be Homer.7 It is not surprising that Campiglia, whose reputation was established through skilfully reproducing artefacts from the ancient world, should present himself with the Belvedere Antinous, one of the most celebrated statues to survive from antiquity. Renowned since its discovery in the 16th century and for its placement in the Belvedere court, it soon ranked among the most famous statues of Rome.8 Casts of the statue of the handsome youth, the lover of the Roman emperor, Hadrian, who drowned himself in the Nile and was deified by 168same year.6 Resting a sheet of paper against a drawings portfolio held in his left hand, with his right hand he is drawing with a porte-crayon a model of the Belvedere Antinous standing on the table before him (fig. 1). At the statue’s feet is a figurine of a herm with the head of a youth, perhaps Mercury, and two medals, one showing a man holding a lyre, who may be Homer.7 It is not surprising that Campiglia, whose reputation was established through skilfully reproducing artefacts from the ancient world, should present himself with the Belvedere Antinous, one of the most celebrated statues to survive from antiquity. Renowned since its discovery in the 16th century and for its placement in the Belvedere court, it soon ranked among the most famous statues of Rome.8 Casts of the statue of the handsome youth, the lover of the Roman emperor, Hadrian, who drowned himself in the Nile and was deified by 168 169  adopts the same pose in the print as he did for his person- ification of painting in the little-known Il Genio della Pittura of around 1739–40 in the Accademia Nazionale di San Luca (fig. 2).13 The chalk holder becomes a paint brush and the drawings portfolio a canvas. Not coincidentally, Campiglia seems to have donated this painting as his entry work to the Academy c. 1740, about contemporary with the present engraving.14 He cleverly fuses iconographic elements in an amusing black chalk study of c. 1737–38 in the British Museum (fig. 3) acquired by Charles Frederick (1709–85) while in Rome on the Grand Tour, where he depicts himself drawing in the company of a seated monkey who playfully holds up a paint brush, a clear allegorical reference to art imitating nature or ‘art as the ape of nature’ as Aristotle describes it in the Poetics.15 Characterised as ‘a very well-bred communica- tive man’, Campiglia and his portraits were enormously popular with English collectors.16 Campiglia made several other self-portraits throughout his career.17 Of particular relevance is the painting made around 1766 for his pupil and collaborator, Pietro Antonio Pazzi (c. 1706–after 1766) and now in the Uffizi.18 It shows the artist at ease, his hands casually resting on his ever-present portfolio. The picture appears, like so many of the Uffizi self-portraits, as an engraving by the same Pazzi in the final volume of the Museum Florentinum (fig. 4).19 In Pazzi’s engraving the format and central image dimensions are nearly identical to our print of Campiglia by Georg Martin Preissler, who, not coincidentally, engraved other portrait plates in the Museum Florentinum. Furthermore, the pencil lettering, Joh. Dominicus Campiglia, / Pictor Florent. Delineator, beneath the image in our engraving is similar in style and format to the engraved inscriptions accompanying the other portraits in the book. Also telling is the final pencil inscription, Delineator Musei Fiorentini, under his name in the print. All this evidence strongly suggests that Campiglia intended to use the present image for the Museum Florentinum – and had it engraved by Preissler for that purpose – but he decided not to use it. Perhaps it served as a kind of test-print for the engraved self-portraits in the volume. Although the portrait series was not published until 1752–66, by 1739, Gori and Campiglia would already have started to plan the format of the later sections. Interestingly, Charles Le Blanc similarly describes Preissler’s engravings of Dürer, Eglon van der Neer, Rubens and Raphael, all destined for the Museum Florentinum, as first states ‘before the lettering’.20 But whatever our print’s true purpose, by the time the portrait volumes appeared, Campiglia, then well into his sixties and in the twilight of his career opted to present a more recent and relaxed version of himself. avl Fig. 2. Giovanni Domenico Campiglia, Genius of Painting, c. 1739–40, oil on canvas, 48 × 63.3 cm, Accademia Nazionale di San Luca, Rome, Inv. 0075 Fig. 3. Giovanni Domenico Campiglia, Self-Portrait of Campiglia Drawing, with a Monkey Seated on the Table at Left, c. 1737–38, black chalk, 417 × 258 mm, Department of Prints and Drawings, British Museum, London, 1865,0114.820 Fig. 4. Pietro Antonio Pazzi after Giovanni Domenico Campiglia, Self-Portrait of Campiglia, engraving in Museum Florentinum, Florence, vol. 12, 1766, plate XXII, 274 × 176 mm (plate), Sir John Soane’s Museum Library, London, 2848     Fig. 1. Belvedere Antinous, Roman copy of the Hadrianic period (117–138 ad) from a Greek original of the 4th century bc, marble, 195 cm (h), Vatican Museums, Rome, inv. 907 the grief-stricken emperor, were produced almost immedi- ately after its discovery and copies in marble and bronze were made through the 17th century.9 Considered to embody perfection, according to Bellori the statue was the subject of studies in ideal proportion by François Duquesnoy (1597– 1643) and Nicolas Poussin (1594–1665) (p. 47, fig. 68). The figure had wide-reaching appeal to collectors and connois- seurs, and enticed a range of artists, who, from the 16th century included it in portraits.10 During the 18th century small-scale models in bronze or marble, like that seen in the engraving, were produced in large numbers with ‘restored’ arms, as seen here. Archaeologist and art historian, Winckelmann, no doubt contributed to the statue’s elevated status even more with his claim, ‘our Nature will not easily create a body as perfect as that of the Antinous admir- andus’.11 The widely held belief that the statue was the embodiment of ideal beauty would be upheld into the 19th century: even the usually acerbic William Hogarth admitted its proportions were ‘the most perfect . . . of any of the antique statues’.12 Campiglia was not shy and his other self-portraits make a compelling comparison with this one. Interestingly, he 1 2 3 4 5 6 7 For essential biography, see Prosperi Valenti 1974, pp. 539–41; Quieto 1984a; Quieto 1984b. Through his agent, Francesco Ferdinano Imperiali, Topham commis- sioned Campiglia and others, including the young Pompeo Batoni, to make dozens, if not hundreds of drawings with the aim of systematically illus- trating Roman collections of antiquities. Many of these drawings are now preserved at Eton College. See Connor Bulman 2002, pp. 343–57 and Windsor 2013, pp. 11, 14–15. The corpus of his drawings for the Museum Florentinum are in the Uffizi in Florence (Quieto 1984b, p. 10) and for the Museo Capitolino, in the Istituto Nazionale per la Grafica in Rome (Quieto 1984b, pp. 10, 17–26, 29–36; I. Sgarbozza in Rome 2010–11b, p. 402, no. II.15a-b). It is listed by C. Le Blanc (1854–88, vol. 3, p. 244, no. 6) among the prints by G. M. Preissler: ‘Campiglia (Giov. – Dom.). 1739. In – fol. -1er état : avant le lettere. Frauenholz, 4 flor.’ To the knowledge of the present writer, no impression of the second state exists nor, for that matter, has either state previously been published or discussed. The name and price Le Blanc men- tions – Frauenholz, 4 florins – refer to the Nuremberg-based print dealer and publisher, Johann Friedrich Frauenholz (1758–1822), who may have owned the catalogued impression and who sold (or acquired) it for the price of 4 florins. While it is possible that the present impression is the one described, none of Frauenholz’s collector’s marks or inscriptions (L. 951, L. 994, L. 1044 and L. 1458) appear on it. Campiglia’s relatively youthful appearance suggests the drawn or painted original may have been executed a decade or so earlier. He was proposed by Sebastiano Conca on 15 November 1739 and his mem- bership confirmed, 3 January 1740 (Quieto 1983, p. 3). As noted by Eloisa Dodero (personal communication), the herm is similar to the one seen in the background of Campiglia and Pazzi’s engraving, Students Copying Antiquities at the Capitoline Museum (see following entry, cat. no. 20). 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 Haskell and Penny (1981, pp. 139–42, no. 4) give a full account of the sculp- ture’s history and reception. See also Krahn 1996. See V. Krahn in Rome 2000b, vol. 2, pp. 403–04, no. 9. Haskell and Penny 1981, p. 142 and Krahn 1996. Haskell and Penny 1981, p. 142; and Winckelmann 1968, p. 153. Hogarth 1753, pp. 81–83. Faldi 1977, pp. 504, 508, fig. 8. Quieto 1983, p. 5; Rome 1968, p. 22, no. 5. Liverpool 1994-95, p. 72, no. 19. Ibid., p. 72. Gentleman’s Magazine 1853, vol. 40, p. 237, as quoted by H. Macandrew 1978, p. 138. Painted self-portraits are in the Palazzo Altieri, Viterbo (formerly Faldi collection, Rome; Quieto 1983, pp. 5–6, 8, fig. 3, c. 1726–28), the Lemme collection, Rome (ibid., 1983, pp. 5, 7–8, fig. 4, 1732–34). See also the two mentioned in note 18, below. Drawn self-portraits of a later date have appeared on the London art market: Chaucer Fine Arts, 2003 (London 2003a, no. 12), Christie’s, December 6, 2012, lot 56 and Christie’s, April 21 1998, lot 126. See Quieto 1983, pp. 4–5, fig. 2 and Quieto 2007, pp. 93–94, fig. 27. As that author noted, it reprises the composition of an earlier work painted for the Accademia di San Luca (1983, p. 5, cover). Although in 1766 the painting was not yet in the Uffizi – it was not left by Pazzi to the Grand Ducal collection until 1768 (Quieto 1983, p. 5) – it is likely that at that date he had already planned to bequeath it, given the self- portraits in the Museum Florentinum are based on the Uffizi’s collection. Le Blanc 1854–88, vol. 3, p. 244, nos. 8, 23, 28, 30. Interestingly, Le Blanc indicates that the Dürer and Raphael were also once owned by Frauenholz. It seems that all these early first states were in a folio together. 170 171  20. Pietro Antonio Pazzi (Florence c. 1706 – after 1766 Florence) after Giovanni Domenico Campiglia (Lucca 1692–1775 Rome) Students Copying Antiquities at the Capitoline Museum 1755 Engraving in Giovanni Gaetano Bottari, Musei Capitolini, vol. 3, Rome, 1755, p. 1 99 × 186 mm (plate), 444 × 287 mm (sheet) Inscribed l.l.: ‘Gio. Dom. Campiglia inv. e disegn.’; and l. r.: ‘P. Ant. Pazzi incis.’ provenance: Robert Adam (1728–92); his sale, Christie’s, London, 20–21 May 1818; purchased by Sir John Soane (1753–1837), not listed in the Christie’s sale catalogue (according to hand list, Sir John Soane’s Museum, Priv. Corr. XVI.E.3.12: ‘Books purchased at Mr Adam’s sale’). literature: Haskell and Penny 1981, p. 84, fig. 46; Lyon 1998–99, pp. 109–10, under no. 89, not repr. (A. Themelly); Paris 2000–01, p. 370, fig. 2; Macsotay 2010, p. 194, fig. 9.3.  exhibitions: Not previously exhibited. Sir John Soane’s Museum Library, London, 4033 exhibited in london only Few images capture the process of learning to draw after the Antique in 18th-century Rome as vividly as Campiglia and Pazzi’s densely populated engraving. More readily accessible than the Belvedere Courtyard in the Vatican (cats 5 and 6) and the private aristocratic collections, such as the Borghese and Farnese (cats 6 and 21), the Capitoline Museum was the ideal venue for students to draw in situ from some of the most celebrated antiquities preserved in Rome. Founded in 1471 with Pope Sixtus IV’s (r. 1471–84) dona- tion of several important ancient bronzes – the She Wolf, the colossal bronze head and hand of Constantine, the Spinario and the Camillus – all preserved until then in the Lateran Palace, the Capitoline grew in time to become one of the largest and most prestigious collections of classical antiqui- ties ever assembled in Rome.1 In 1734, in conjunction with the recent acquisition of the celebrated collection of Cardinal Alessandro Albani, and thanks to the enlightened policy of Pope Clement XII (r. 1730–40), the Capitoline opened as a public museum.2 Established with the two-fold civic and educational purpose of preserving and making accessible to the public the city’s antiquities and to cultivate ‘the practice and advancement of young students of the Liberal Arts’, the museum soon became a lure for Italian and foreign antiquar- ians and artists alike.3 The didactic function of the museum was emphasised further by Pope Benedict XIV (r. 1740–58) with the opening of the Pinacoteca Capitolina in 1748, the first public collection of painting in Rome, and, in 1754, the establishment of the Accademia del Nudo.4 The Capitoline thus became the first public museum in Europe in the modern sense of the word and an ideal academy where art students could copy concurrently from the Antique, Old Master paintings and the live model. The museum’s educational mission was sanctioned by its growing associa- tion with the Accademia di San Luca. Academy members 172 presided over the life classes at the Accademia del Nudo (Campiglia directed classes there in April 1757 and November 1760)5 and prizes for the student competitions at the Accademia di San Luca, the Concorsi, were awarded in sump- tuous ceremonies in the rooms of the Capitoline palaces.6 This image is the engraved vignette that introduces the volume devoted to ancient statues of the Musei Capitolini, an ambitious publication produced with the pedagogical intent of spreading knowledge of the museum and its collection of antiquities.7 Conceived by Cardinal Neri Maria Corsini, the nephew of Pope Clement XII, it consisted of large engraved plates (fig. 1), all based on designs by Campiglia, accompa- nied by a substantial commentary by the antiquarian Giovanni Gaetano Bottari (1689–1775); both artist and writer had worked together previously on the monumental Museum Florentinum (cat. 19). First published in Italian as Del Museo Capitolino (4 vols, Rome, 1741–82) and then translated into Latin as Musei Capitolini (4 vols, Rome, 1750–82) in order to reach a wider foreign audience, the large volumes can be Fig. 1. Carlo Gregori after Giovanni Domenico Campiglia, The Dying Gladiator, engraving, 202 × 300 mm, plate 68 from Giovanni Gaetano Bottari, Musei Capitolini, vol. 3, Rome, 1755  173  considered the first systematic catalogue of a public museum.8 The prestige of the publication, the clarity and neatness of the illustrations – produced by many of the engravers who, like Pietro Antonio Pazzi, had participated in the Museum Florentinum – soon made it a celebrated and indispensible reference work that greatly contributed to the diffusion of the classical taste in Europe. It was a familiar presence in the libraries of connoisseurs and artists as this copy, owned by Sir John Soane (1753–1837) and before him by Robert Adam (1728–92), testifies. The engraving is a celebration of the new educational role of the museum and its association with the Academy of San Luca, of which Campiglia had been a member since 1740 (see cat. 19). In a crowded space, a group of students is seen sketching and modelling in clay after two of the most famous statues that had been recently acquired for the museum: the so-called Dying Gladiator (fig. 2) and the Capitoline Antinous (fig. 3), now believed to represent respectively a Gaul and Hermes. The former, discovered around 1623, and already famous in the 17th century when it was in the Ludovisi collection, had been acquired in 1737 by Clement XII for the 9 Capitoline. Placed at the centre of the composition, with Fig. 2. The Dying Gladiator, Roman copy of a Pergamene original of the 3rd century bc, marble, 93 cm (h), Capitoline Museums, Rome, inv. MC0747 Fig. 3. The Capitoline Antinous, Roman copy of the 2nd century ad of a Greek original of the 4th century bc, marble, 180 cm (h), Capitoline Museums, Rome, inv. MC0741 the young artists assembled in a semi-circle around it as if in a life class, the Gladiator invited analysis and study of the male anatomy in a complex pose, as well as offering an example of a noble and heroic death. The Capitoline Antinous, recorded in Cardinal Albani’s possession from 1733, had been acquired with the rest of the Cardinal’s collection in the same year and was displayed in the museum a few years later.10 Quickly eclipsing the Belvedere Antinous (see p. 26, fig. 22 and cat. 19, fig. 1), it represented a perfect image of the male body in its youth. It is not by chance that the young students are focusing on these two statues among the many towering over them in the room, for the Dying Gladiator and the Capitoline Antinous were the chosen subjects for the third class of the Concorso Clementino – reserved for the copy – either drawing or modelling – usually after the Antique, organised by the Accademia di San Luca for the year 1754 (fig. 4).11 But if the engraving alludes to a contemporary event, the establishment of the museum as a ‘Scuola del Disegno’,12 it is also a capriccio, as it gathers together sculptures that were in fact displayed elsewhere in various rooms and collections, much as Hubert Robert would do in his beautiful red chalk drawing of almost ten years later (p. 56, fig. 96). The Dying Gladiator, the Capitoline Antinous and the two stand- ing statues behind him, the Antinous Osiris and the Wounded Amazon, could all be admired and studied in the privileged space of the Salone of the Palazzo Nuovo, which housed some of the best masterpieces of the collection.13 The so- called Albani Crater, half visible on the far left, and the seated Agrippina behind the Antinous, were however, displayed elsewhere in the Palazzo Nuovo, respectively in the Stanza del Vaso and in the Stanza dell’Ercole.14 Moreover, Campiglia did not confine himself to depicting only works from the Capitoline collections: even more out of place are the two figures on the right, who turn their backs to Fig. 4. Giovanni Casanova, Drawing of the Capitoline Antinous (third award for the third class in painting of the Concorso Clementino), 1754, red chalk on brown prepared paper, 510 × 290 mm, Accademia Nazionale di San Luca, Rome, inv. A.380 Fig. 5. Giovanni Paolo Panini, View of Ancient Rome or Roma Antica, detail, c.1755, oil on canvas, 169.5 × 227 cm, Staatsgalerie Stuttgart inv. Nr. 3315 us as if to signify that they belong elsewhere. These are the much revered Antinous Belvedere and the Venus de’ Medici – dis- played at that time respectively in the Vatican and in the Tribuna of the Uffizi.15 Their presence here probably served to sanction and affirm the canonical status of their Capitoline companions, all recently excavated or acquired. What we see is therefore a symbolic space, where reality and fantasy are combined to legitimise and promote the relatively new collection of the museum. The volumes of the Musei Capitolini served as a reference tool for many artists and no doubt inspired the scene showing young students drawing the Dying Gladiator in the foreground of Giovanni Paolo Panini’s renowned View of Ancient Rome (fig. 5, and p. 53, fig. 92), the first version of which, not coincidentally, was painted at about the same Fig. 6. Carlo Gregori after Giovanni Domenico Campiglia, Young Artists Copying the ‘Arrotino’, engraving, 118 × 151 mm, page 225 in Anton Francesco Gori, Museum Florentinum . . . , vol. 8, Florence, 1754 time as the publication of this particular volume. Campiglia devised similar graceful allegorical vignettes for the contemporary volumes of the Museum Florentinum.16 One in particular, engraved by Carlo Gregori (1719–59), seems to be the Florentine counterpart of the Roman image, showing students sketching the Arrotino, surrounded by the symbols of the arts and books on anatomy and geometry (fig. 6).17 Although in the second half of the 18th century access to the museum sometimes proved difficult due to lack of personnel, and while artists had to go through the bureau- cratic process of applying to the papal camerlengo or to the director of the museum for licence to make copies, the Capitoline remained one of the most popular sites among artists and travellers, as the many views of its interiors testify (pp. 55–56, figs 94–96).For recent and brief introductions on the history of the Capitoline collec- tions, with previous bibliography, see Parisi Presicce 2010; Paul 2012. On the early years of the Capitoline as a public museum see Arata 1994; Franceschini and Vernesi 2005; Arata 2008. Document dated 5 December 1733 quoted in Arata 1994, p. 75. On the Pinacoteca see Marinetti and Levi 2014. On the Accademia del Nudo see Pietrangeli 1959; Pietrangeli 1962; MacDonald 1989; Barroero 1998. On Campiglia’s supervision of life classes at the Accademia del Nudo see Pirrotta 1969. On the Concorsi see Cipriani and Valeriani 1988–91; Rome, University Park (PA) and elsewhere 1989–90; Cipriani 2010–11. See Quieto 1984b; Kieven 1998; Philadelphia and Houston 2000, pp. 484– 86, no. 329 (S. Prosperi Valenti Rodinò); Rome 2004, pp. 96–108, nos 1–7 (A. Gallottini); Rome 2010–11b, p. 401, no. II.14 (I. Sgarbozza). Campiglia started working on his designs for the plates in 1735: see Franceschini and Vernesi 2005, pp. 59–60. See Haskell and Penny 1981, pp. 224–27, no. 44; Mattei 1987; La Rocca and Parisi Presicce 2010, pp. 428–35. See Haskell and Penny 1981, pp. 143–44, no. 5; La Rocca and Parisi Presicce 2010, pp. 500–01. The statue was exhibited in the museum from 1739 or 1742. Cipriani and Valeriani 1988-91, vol. 2, pp. 219–20, 228. While the 1754 prize drawings depicting the Antinous survive in the archives of the Accademia, the terracottas representing the Dying Gladiator are lost. The Dying Gladiator was also chosen as the subject for the third class in painting in 1758 and the Capitoline Antinous for the third class in sculpture in 1779, and in painting in 1783: ibid., vol. 3, pp. 9–22, 120, 129–30, 141–46. It was referred to as such in the award ceremony for the Concorso: see Belle Arti 1754, p. 36. On the Antinous-Osiris, donated to the museum by Benedict XIV in 1742 and from 1838 in the Vatican Museum, see Paris, Ottawa and elsewhere 1994– 95, pp. 78–79, no. 24 (M. Pantazzi). On the Wounded Amazon, acquired in 1733 as part of Albani collection, see Weber 1976, pp. 46–56. On the Albani Crater and its base, both previously in the Albani collection, see Grassinger 1991, pp. 189–90, no. 32. On the so-called Agrippina, already recorded in the Capitoline collections in 1566, see Haskell and Penny 1981, pp. 133–34, no. 1; Rome 2011, pp. 324–25, no. 5.9 (A. Avagliano). On their display at that time, see Venuti 1750, pp. 23, 30, 33–34; Arata 1994. For the Antinous Belvedere and the Venus de’ Medici see above p. 26, fig. 22 and p. 42, fig. 56. Many are found in volumes 8 to 12. On the so-called Arrotino or Knife Grinder, once in the Villa Medici in Rome and from 1680 in the Tribuna of the Uffizi see Haskell and Penny 1981, pp. 154–56, no. 11; Bober and Rubinstein 2010, pp. 83–84, no. 33. On access to the Capitoline Museum in the 18th century see Sgarbozza 2010–11.     174 175  21. Louis Chays (Aubagne c.1740–1811 Paris) The Courtyard of the Farnese Palace in Rome with the Hercules Farnese 1775 Pen and brown ink, brown wash, pencil and white gouache, 434 × 534 mm Inscribed recto, l.l., in pen and black ink: ‘chaÿs f. a rome 1775.’; and l.c., in pencil, possibly by different hand: ‘Cour du Palais Farnése’. provenance: Hippolyte Destailleur (1822–93) collection (no. 110). literature: Berckenhagen 1970, p. 394, no. 3027, repr.; Giuliano 1979, p. 100, fig. 13; Michel 1981b, p. 584, fig. 8; De Seta 1992, p. 240, repr.; Gasparri 2007, p. 53, fig. 45 and p. 178, no. 273.4; Macsotay 2010, p. 194; Göttingen 2013–14, p. 208, fig. 53.  exhibitions: Not previously exhibited. Kunstbibliothek, Berlin, Hdz 3027 exhibited in london only Private aristocratic collections of antiquities in Rome contin- ued to attract large numbers of artists and visitors during the 18th century. The Farnese Palace, with its group of canon- ical ancient sculptures – the Farnese Hercules (see p. 30, fig. 32) the Farnese Bull and the Farnese Flora among others – and its Gallery with the Loves of the Gods, the widely admired fresco cycle by Annibale Carracci (1560–1609), offered the ideal opportunity to copy the Antique and a tour de force of early 17th-century mythological decoration at the same time.1 Drawings after the famous Farnese statues by Maarten van Heemskerck (1498–1574), Hendrick Goltzius (1558–1617) (see cat. 7), Annibale Carracci (see p. 43, fig. 58), Peter Paul Rubens (1577–1640; see p. 46, fig. 67), Nicolas Poussin (1594–1665), Anthony van Dyck (1599–1641), Carlo Maratti (1625–1713; see p. 43, figs 60–61), Hubert Robert (1733–1808), Jacques Louis David (1748–1825) and Jean-Auguste-Dominique Ingres (1780– 1867), to name just a few, testify to the enduring fame of the palace and its legendary collection of antiquities among European artists residing in Rome.2 In the 18th century the palace went through changes of ownership, passing in 1731 from the Farnese to the Bourbon, but it remained a lively envi- ronment, with many artists and others residing in its rooms, and was readily accessible for those who wished to draw or model.3 Between 1786 and 1800 all the ancient statues of the collection were removed by the Bourbon King Ferdinand IV to Naples – where they can be seen today in the National Archaeological Museum – a decision that marked the end of the palace as a privileged place for studying the Antique.4 Louis Chays is one of the lesser-known figures among the French artists who gravitated towards the Académie de France in Rome in the 1770s. He studied at the Academy in Marseille under Jacques-Antoine Beaufort (1721–84), before moving to Rome thanks to the patronage of Louis-Joseph Borély, a wealthy Marseille merchant.5 His five years in Rome, between 1771 and 1776, were probably spent in the company of such pensionnaires of the Academy as Joseph-Benoît Suvée (1743–1807), Jean-Simon Berthélemy (1743–1811), Pierre- Adrien Pâris (1745–1819) and François-André Vincent (1746–1816). These young artists were of the same generation, they all arrived in Rome in 1771 and stayed there for a similar span of years. They seem to have travelled around the city and the Roman campagna as a group, sketching sites, ruins and landscapes, and they naturally shared a similar style and repertoire.6 The result of Chays’ artistic wanderings consists mainly of evocative drawings in the manner of Hubert Robert and Jean-Honoré Fragonard (1732–1806) though Chays’ drawings lack their characteristic vivacity. The corpus of his drawings is preserved in the Kunstbibliothek in Berlin.7 This study, with its companion, The Colonnade of St Peter’s Square, stands apart in Chays’ known graphic production in being a large-scale and highly finished pen-and-wash draw- ing.8 The lively view is the only known representation of groups of students, rather than just individuals, at work in the courtyard of the Palazzo Farnese; nor does the present writer know of any similar record of study in other private collections of antiquities in Rome. It is also an important historical document, being one of the last images to show the statues in their original location before their removal to Naples, from 1786 onwards. Chays cleverly chose a low view- point and an angle that allows for maximum drama: the receding pillars of the portico frame the focus of our atten- tion, the massive statue of the Farnese Hercules. We are standing in the shadowy passage leading to the gardens of the palace and we see the Hercules from behind, by then a view as successful as the front (see cats 7 and 16). Other images of the Hercules from the back in the Farnese courtyard had been produced decades earlier by Giovanni Paolo Panini (1691–1765) (fig. 1), Giacomo Quarenghi (1744–1817) (fig. 2) and Frédéric Cronstedt (1744–1829), and one wonders whether Chays had seen any of them.9 In any case, to animate his composition Chays certainly took inspiration from the many capricci by Panini where the Hercules towers over groups of wanderers and also from such drawings showing artists at 176 177    Fig. 1. Giovanni Paolo Panini, View of the Courtyard of the Palazzo Farnese with the ‘Hercules’ seen from Behind, c. 1730, pen and black and grey ink and wash, and coloured wash, heightened with white, 419 × 417 mm, private collection work in Rome produced by Charles-Joseph Natoire (see p. 55, fig. 94) or Hubert Robert (see p. 56, figs 95–97). We see here the usual cast of characters familiar from Robert’s drawings: a combination of artists, beggars, dogs, young children, and bystanders, some of them dressed in the current fashion, like the elegant aristocratic couple in the centre, no doubt accompanied by a tour guide or cicerone. Others are presented in all’antica dress, such as the beggar and muscular male student on the right, both of whom wear Roman togas and gaze intently at the sculpture from behind. But among the many visitors to the courtyard, the true protagonists are the students, busy at work, sketching on large sheets resting on drawing boards or modelling in clay, as in Campiglia’s and Pazzi’s engraving (cat. 20). Some focus on the Hercules, while others, seated on chairs or on the ground in the middle of the courtyard, turn towards the other star of the collection, the Farnese Flora, visible to the right of the Hercules.10 The entire palace seems to have been turned into an academy, with animated conversations taking place throughout: particularly intriguing is the lively discus- sion taking place around a large drawing in the central bay of the first floor loggia. In the distance, through the entrance vestibule on the lower right, we have a glimpse of the Piazza Farnese and the external world. While the technique in this drawing is precise and although the details are lively, the rendering of the architec- ture, which was evidently drawn first and before the figures were superimposed, is less successful. It is notable that the Fig. 2. Giacomo Quarenghi, View of the ‘Farnese Hercules’ in the Portico of the Courtyard of the Farnese Palace, c. 1775–79, pen and black ink and wash and coloured wash, 304 × 233 mm, private collection scale of the two sides of the courtyard visible behind the por- tico does not quite correspond. In fact, Chays’ real forte was landscape rather than accurate architectural views, although reasonably faithful depictions of the Villa Madama and other Roman buildings survive.11 Although this view is largely imaginary, it seems to evoke the spirit of the courtyard as it appeared to pupils of the Accademia di San Luca and pensionnairesof the Académie de France in Rome who frequented the palace regularly. Visits to grandiose palaces such as this must have left a lasting impression on these young students. The Accademia di San Luca sent its students around Rome to copy the Antique, especially on the occasion of academic competitions, the Concorsi.12 In the 18th century the Hercules and the Flora were chosen several times as subjects for the third class of the Concorso Clementino – reserved for the copy, a drawing or a model, usually after the Antique – and the students’ gather- ings in those occasions must have offered a scene as animated as that we see in Chays’ drawing.13 Most of the artists depicted here are sketching on large sheets of paper, generally reserved in the 18th century for academic drawings after the Antique, as seen also in Campiglia’s and Pazzi’s engraving (cat. 20).14 The Académie de France in Rome had been founded in 1666 with the specific intent of shaping the taste and manner of young artists ‘sur les originaux et les modèles des plus grands maîtres de l’Antiquité et des siècles derniers’ and of furnishing the royal gardens at Versailles with copies of the most famous antiquities from Rome.15 Although the direct copy from antique statuary had been neglected for certain periods since the Académie’s founding, it had once again gained a central place in the official curriculum of the pensionnaires during the direc- torates of Nicolas Vleughels (1725–37) and Charles-Joseph Natoire (1751–75) (see cat. 16). Although no surviving drawings after the Antique by Chays are known, he probably produced them as he spent considerable time in Rome copying Old Master paintings, such as those by Raphael, Titian and Guido Reni.16 He returned to Marseilles in 1776 and spent the following years decorating the château of his patron, today the Musée Borély, where he put into practice the lessons and skills he had acquired in Rome.17 After becoming one of the professors of the Académie in Marseilles, Chays participated in the Revolution and as sergeant-major took part in 1790 in the occupation of the fort of Notre-Dame de la Garde by the Garde National.18 He later published a collection of etchings some of which he based on the views that he had assembled in his Roman years.19 Among the last mentions we have of him are his Paris Salon entries of 1802 and 1804: perspective drawings of the antiquities collection of the Louvre. SeeMéjanès1976;WashingtonD.C.1978–79,pp.148–155. Berckenhagen1970,pp.393–96,nos3026–3074and3673–3674. Ibid.,p.394,no.3026. For Panini’s drawing see Arisi 1961, p. 245, no. 80, fig. 359; Sotheby’s New York, 29–30 January 2013, lot 113. Two paintings attributed to Panini (wrongly, in the opinion of the present writer) in a French private collec- tion show similar views: see Munich and Cologne 2002, pp. 408–10, nos 187 a/b. For Quarenghi’s drawing see Sotheby’s New York, 27 January 2010, lot 90. Another, almost identical version is in the Hermitage, St Petersburg (inv. 25819): Bergamo 1994, pp. 185–86, no. 234. For Cronstedt’s drawing, executed in 1772, now in the National Museum, Stockholm see Palais Farnèse 1980–94, vol. 2, p. 131, fig. b. Before the 18th century the same viewpoint had been represented in a drawing by an anonymous Dutch draughtsman of c. 1540–60, now in the Herzog Anton Ulrich-Museum, Braunschweig (inv. Z 320r): see Gasparri 2007, p. 17, fig. 4 and p. 178, no. 273.1. The Flora is here shown with its Renaissance restorations by Guglielmo Della Porta and Giovanni Battista de Bianchi and before Carlo Albacini’s new restorations undertaken after 1787: see Gasparri 2009–10, vol. 3, esp. pp. 38–40. See for instance, Berckenhagen 1970, p. 395, no. 3030. On the Concorsi see cat. 20, note 6. Both were chosen for the third class in sculpture in 1703: Cipriani and Valeriani 1988-91, vol. 2, pp. 26–27. The Hercules was chosen for the third class in both painting and sculpture in 1728 and later on in sculpture in 1783 and in 1789 (this time from a plaster since the statue had been transported to Naples in 1787): ibid., vol. 2, p. 182, vol. 3, pp. 130, 153. The Flora was chosen for the third class in painting in 1750: ibid., vol. 2, pp. 209–10. See the size of the drawings for the third class of the Concorsi Clementini of the Accademia di San Luca in Cipriani and Valeriani 1988–91, vols 2–3. See also Macsotay 2010, pp. 193–94. ‘On the originals and the examples of the greatest Antique masters and those of preceding centuries’: letter from Jean-Baptiste Colbert to Nicolas Poussin, 1664, mentioned in Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, vol. 1, p. 1 and in Lapauze 1924, vol. 1, p. 2. See Aymonino’s essay in this catalogue, pp. 44–46. These copies now survive in the Musée des Beaux-Arts and in the Musée Borély in Marseille: Paris 1989, pp. 268–69, no. 113 (J.-F. Méjanès). Benoît 1964. Vialla 1910, p. 484. ‘Ouvrage de 36 feuilles tirées des Porte-feuilles du C[itoye]n S. [sic] Chays...’. See Thieme-Becker 1907–50, vol. 6, p. 445. See also Le Blanc 1854–88, vol. 1, p. 625. ‘Dessins perspectives de différens points de vue, qui donnent le développe- ment de toutes les figures antiques du Musée [du Louvre], ainsi qu’une juste idée du local et de la décoration du palais’: Sanchez and Seydoux 1999– 2006, vol. 1, p. 46, no. 58 (1802), p. 76, no. 105 (1804). See also Paris 1989, pp. 268–69, no. 113 (J.-F. Méjanès). 178 179 1 2 3 4 5 aa On the Farnese Hercules see above p. 30 and cat. 7. On the Farnese Flora see Haskell and Penny 1981, pp. 217–19, no. 41; Gasparri 2009–10, vol. 3, pp. 37–42, no. 8, pl. VI, 1–5 (C. Capaldi). On the Farnese Bull see Haskell and Penny 1981, pp. 165–67, no. 15; Gasparri 2009–10, vol. 3, pp. 20–25 no. 2, pl. II, 1–16 (F. Rausa). See Gasparri 2007, p. 11 and pp. 157–78. See Michel 1981b and La Malfa 2010–11. In 1775, the year of this drawing, the palace had 180 inhabitants. See the list in Michel 1981a, p. 565. For a list of artists residing in the palace see Michel 1981b, table between pp. 610–11. Rausa 2007b, pp. 57–60. On Chays (often spelled differently, Chaÿs, Chais, Chaix) see: Thieme- Becker 1907–50, vol. 6, p. 445; Benoît 1964; Toronto, Ottawa and elsewhere 1972–73, pp. 143–44, no. 23; Paris 1989, pp. 268–69, no. 113 (J.-F. Méjanès); Raspi Serra 1997.  22. Henry Fuseli (Zürich 1741–1825 London) The Artist Moved by the Grandeur of Antique Fragments; The Right Hand and Left Foot of the Colossus of Constantine c. 1778–79 Pen and sepia ink and wash, red chalk, 420 × 352 mm Inscribed recto on the pedestal of the foot: ‘S.P.Q.R’, followed by illegible characters and l.r. in pencil: ‘85 W. Blake’ (false signature, perhaps 19th century) watermark: ‘ZP’ and the coat of arms of the city of Zurich1 provenance: Susan Coutts, Countess of Guildford (1771–1837) (her stamp on the verso2); Paul Hürlimann, from whom acquired in 1940. selected literature: Irwin 1966, p. 47, pl. 32; Schiff 1973, vol. 1, pp. 115, 478–79, no. 665, vol. 2, p. 145, fig. 665; Tomory 1972, pp. 49, 90, fig. 4; Füssli 1973, pp. 60–61, repr.; Schiff and Viotto 1980, pl. viii, no. D35 on p. 112; Klemm 1986, no. 4; Lindsay 1986, pp. 483–84, fig. 1; Taylor 1987, p. 125, repr.; Noch- lin 1994, pp. 7–8, fig. 1; Rossi Pinelli 1997, pp. 15, 18, repr.; Bartels 2000, p. 23, note 2; Patz 2004, p. 271, fig. 3; Bungarten 2005, cover; Pacini 2008, pp. 55–56, fig. 4; Valverde 2008, pp. 163–64, fig. 5; Trumble 2010, pp. 6–7, repr.; Barroero 2011, no. 22, repr.; Mongi-Vollmer 2013, p. 294, fig. 127. selected exhibitions: Zurich 1941, no. 251; New York 1954, no. 31; Zurich 1969, no. 165; Copenhagen 1973, p. 55, no. 21, not repr. (B. Jørnæs); Hamburg 1974–75, p. 129, no. 45 (G. Schiff); London 1975, pp. 54–55, no. 10 (G. Schiff ); Paris 1975, unpag., no. 10 (G. Schiff ); Milan 1977–78, pp. 19–20, no. 6 (L. Vitali); Geneva 1978, p. 8, no. 3; Munich 1979–80, pp. 279–80, no. 154 (J. Gage); Tokyo 1983, pp. 62–63, no. 7 (G. Schiff ); Zurich 1984, pp. 49, 179, no. 25; Stockholm 1990, p. 33, no. 3 (G. Cavalli-Björkman and R. von Holten); Stuttgart 1997–98, pp. 5–7, no. 10 (C. Becker); Zurich 2005, p. 256, no. 1, frontispiece 2; Paris 2008, p. 120, no. 36 (B. von Waldkirch).  The Kunsthaus, Graphische Sammlung, Zürich, inv. no. 1940/144 exhibited in london only This celebrated drawing is one of the most powerful images ever produced on the relationship of the artist with the Antique. It presents a very different response to classical antiquity from the many didactic compositions shown in this catalogue, expressing the extremism and the Sturm und Drang that imbued early Romanticism. The artist here confronts the Antique not as a source of information or inspiration but on a deeper level: he meditates on the grandeur of a lost past both as a philosopher, considering the fragility of the human condition and, more powerfully still, as a creator in despair at his own inability to match the achievements of classical antiquity. Fuseli’s evocative image effectively summarises the dramatic change in the approach to the Antique which took place in Rome in the late 18th century within a circle of anti-academic and largely self-taught artists, such as Alexander Runciman (1736–85), John Brown (1749–87), Tobias Sergel (1740–1814) and Thomas Banks (1735–1805), among whom Fuseli was the most influential.3 For them the ancient sculptures were alive, a tangible expression of the emotions and individuality of their creators, rather than models of ideal beauty and proportional perfection. Born Johann Heinrich Füssli in 1741 in Zurich into a fam- ily of artists, his father, Caspar (1706–82), a painter and histo- rian, was one of the Swiss correspondents of Anton Raphael Mengs (1728–79) and Johann Joachim Winckelmann (1717– 68).4 Fuseli’s early education benefited from the teaching of Johann Jakob Bodmer (1698–1783) and Johann Jakob Breitinger (1701–76), forerunners of the literary and artistic movement Sturm und Drang, who introduced the young artist to the study of Homer, Dante, Shakespeare, Milton and the Niebelungenlied, decisively contributing to the eclecticism of his imaginative sources. Fuseli moved to London in 1764 and soon became well acquainted with the city’s lively cultural milieu and quickly acquired fame as a painter. In 1770, on the advice of Sir Joshua Reynolds (1723–92), Fuseli travelled to Rome. He stayed there for eight years, with very few inter- ruptions, leaving in 1778. After spending a few months in Zurich, he returned to London where he was destined to spend the rest of his life. Elected academician at the Royal Academy of Art in 1790 and Professor of Painting in 1799, Fuseli became one of the most acclaimed artists of his generation; he died in the residence of the Countess of Guilford, one of his patrons and previous owner of the pre- sent drawing, in Putney Hill in south-west London, in 1825. The eight years Fuseli spent in Rome were of great impor- tance for the development of his artistic language and theory of art. Fascinated by the majestic relics of imperial Rome, but even more impressed by Michelangelo’s masterpieces, Fuseli soon distanced himself from the idealised and harmonious view of the Antique espoused in the theoretical works of Gotthold Ephraim Lessing (1729–81) and of Winckelmann, who had been murdered in Trieste two years before Fuseli arrived in Rome. This death was symbolic for, although ini- tially a great enthusiast for Winckelmann’s writings, some of which he translated into English, Fuseli became one of his most radical detractors by asserting the importance of appreciating the emotions and conflicts that ran through 180 181  ancient works of art.5 As Fuseli stated many years later in the introduction to his Lectures on Painting presented at the Royal Academy, German critics had taught the artist ‘to substitute the means for the end, and, by a hopeless chase after what they call beauty, to lose what alone can make beauty interest- ing – expression and mind’.6 ‘Expression animates, convulses, or absorbs form. The Apollo is animated; the warrior of Agasias is agitated; the Laocoon is convulsed; the Niobe is absorbed’. This is one of the Aphorisms on Art compiled by Fuseli in the late 1780s, although it was first published only in 1831 by John Knowles in his The Life and Writing of Henry Fuseli.7 These famous masterpieces of ancient sculpture, the Apollo Belvedere, the Borghese Gladiator, the Laocoön and the Niobe Medici, are not seen by Fuseli simply as the embodiment of a canon of perfection, models to imitate, or points of reference in the academic education of a young artist; they are treated as animated forms of the subjectivity of the artists who created them and, ultimately, of their ways of expressing feeling and emotion.8 Fuseli’s many studies after the Antique are never an end in themselves, they are rather means of expression and, because of that, ancient statues can be adapted, distorted, even desecrated by him.9 A homosexual scene depicted on an ancient Greek red-figured vase can become the model for a Shakespearean composition showing the King of Denmark poisoned by his brother in his sleep.10 Likewise, one of the Horse Tamers on the Quirinal Hill (see p. 22, fig. 10), reproduced and adapted many times by Fuseli, can be turned into Odin receiving the Prophecy of Balder’s Death.11 If Winckelmann praised the Laocoön for his dignified grandeur,12 in two of his late sketches Fuseli transformed the Trojan priest into the object of a courtesan’s sexual desire.13 Even the famous Nightmare (1781),14 one of the most disquieting compositions ever created by Fuseli, still retains memories of the Antique, from the devilish head of the horse peeping out of the curtain, so like those of the Quirinal horses, to the reclining figure in which one can recognise a transposition of the celebrated Cleopatra in the Belvedere Court (see p. 26, fig. 20).15 The Artist Moved by the Grandeur of Antique Fragments per- fectly embodies the artist’s revolutionary approach to the Antique. Although no doubt based on sketches made on the spot, and using a technique, sepia ink and wash, often used by Fuseli in Rome, the watermark with the coat of arms of the city of Zurich suggests that the drawing was made during or soon after his brief stay in his home town after he left Rome in 1778.16 The drawing shows a scantily clad figure seated on a block dwarfed by two adjacent marble fragments, the left foot and the right hand of a gigantic statue set on plinths before a wall composed of majestic, square blocks.17 The pose of the artist, loosely inspired by Michelangelo’s Ancestors of Christ on the Sistine Ceiling, is deeply expressive; he cradles his head in deep grief and anguish, and his mood, with his legs casually and unguardedly crossed, is one of total surrender; the forlornness is enhanced by the wild weed that audaciously pushes its way up against the colossal marble hand. The antique fragments are easily recognisable as the left foot and the right hand of a colossal statue of the emperor Constantine the Great (r. 306–37 ad; figs 1–2) which were found in the west apse of the Basilica of Maxentius in 1486 under the papacy of Innocent VIII (r. 1481–92) along with other fragments including the head (fig. 3) and the right foot. By Fuseli’s time they could be admired in the courtyard of the Palazzo dei Conservatori on the Capitoline hill, where they are still preserved today.18 The monumental scale of these fragments fascinated generations of artists from the Renaissance onwards, but they became increasingly a focus of attention in the 17th and Fig. 1. Colossal Statue of Constantine the Great: Right Hand, 313–24 ad, Luna marble, 166 cm (h), Capitoline Museums, Courtyard of the Palazzo dei Conservatori, Rome, inv. MC0786 Fig. 2. Colossal Statue of Constantine the Great: Left Foot, 313–324 ad, Parian marble, 120 cm (h), Capitoline Museums, Courtyard of the Palazzo dei Conservatori, Rome, inv. MC0798 Fig. 3. Colossal Statue of Constantine the Great: Head, 313–24 ad, marble, 260 cm (h), Capitoline Museums, Courtyard of the Palazzo dei Conservatori, Rome, inv. MC0757 in the drawing (‘S.P.Q.R.’) can actually be found on the pedestal supporting the right foot and not the left one, as Fuseli represents it here. The detail, however, is not irrelevant, since it is part of the inscription, commemorating a restoration of the fragments promoted by Pope Urban VIII (r. 1623–44) in 1635 and 1636, so that one can read a clear reference to the awe inspired by the greatness of the ‘Res Romana’.22 Awe of the Antique is expressed in the drawing by the contrast between the muscular fragments of the colossus and the diminutive, frail and almost abstract figure, who can be interpreted both as a personification of a modern man in general and as a symbolic self-portrait of the artist – ‘Füssli’ in German means ‘little foot’, thus suggesting a visual word- play.23 However, the title of the drawing given by Gert Schiff, The Artist Moved by the Grandeur of Antique Fragments, captures only one aspect of the composition, that is, the feeling of artistic and intellectual inadequacy before the sublime Past.24 Possibly, even the inconsistent perspective of the pedestal of the foot was consciously introduced to express the artistic inferiority of the moderns compared to the ancients. But the pose, which recurs many times in Fuseli’s works, can convey at the same time other meanings.25 It could cause a deep Fig. 5. Hubert Robert, Ancient Sculptures of the Capitoline, red chalk, 442 × 330 mm, Staatliche Museen, Kunstbibliothek, Berlin, Inv. Hdz 3076  18th centuries: two wanderers are shown among the colossal ruins in a drawing by Stefano della Bella (1610–64; fig. 4),19 while the foot and hand appear in an evocative capriccio by Hubert Robert (1733–1808; fig. 5).20 As in their studies, Fuseli’s drawing shows the base sustaining the colossal upward pointing right hand on the pedestal supporting the left foot; only in the early 19th century was the hand moved to its present location along the wall of the courtyard. Fuseli, however, modifies the disposition of the fragments in order to create a perfect triangle, whose apex coincides with the index finger of the hand, pointing authoritatively upward. The fact that the drawing was made when Fuseli had already left Rome may account for a few inconsistencies, such as swapping the right foot – flat on the ground – and the left foot – with the heel slightly raised and set on a support.21 Moreover, the first line of the inscription roughly transcribed Fig. 4. Stefano della Bella, Courtyard of the Palazzo dei Conservatori, after 1659, pen and grey ink and grey wash, 152 × 194 mm, Istituto Nazionale per la Grafica, Rome, inv. FC 126001     182 183  sense of loss before the dismembered statue as well as a melancholic frustration at the impossibility of achieving a whole, satisfactory knowledge of the ancient world. Finally this evocative image is clearly a grim meditation on human Vanitas, on the cruelty of time and its inevitability, capable of destroying even the most impressive human creations.26 In his vision of antiquity Fuseli was following in the footsteps of Giovanni Battista Piranesi (1720–78), the great engraver of ancient Rome, who populated his images with similar figures dwarfed and seemingly lost among the colossal remains of Rome’s decaying statues and buildings. Piranesi’s ancient ruins, the gigantic stones of which fill his modern onlookers with wonder, are evoked by Fuseli in the massive blocks of the background wall, which are not part of the courtyard of the Palazzo dei Conservatori. Piranesi died in 1778, the year that Fuseli left Rome for Zurich where he created this harrowing memory of the city he had just left behind him. Could the present drawing be a posthumous homage to the great Italian artist, with whom Fuseli shared the same inventive, original and imaginative vision of the Antique? aa & ed 1 Schiff 1973, p. 479. 2 Ibid., p. 479. 3 See Pressly 1979; Valverde 2008; Busch 2013. 4 For Fuseli’s biography see Tomory 1972, pp. 9–46; Schiff 1973, vol. 1; Zurich 2005, pp. 13–31. 5 See Pucci 2000b and Busch 2009. During his London years between 1764 and 1770, Fuseli translated into English Winckelmann’s Beschreibung des Torso del Belvedere Zu Rom (1764, translated as Description of the Torso Belvedere in Rome in 1765) and the Gedanken über die Nachahmung der griechischen Werke in der Malerei Und Bildhauerkunst (1755, translated as Reflections on the Painting and the Sculpture of the Greeks in 1765). 6 See Wornum 1848, p. 345. On Fuseli’s Lectures see in particular Bungarten 2005. 7 Knowles 1831, vol. 3, p. 90, aphorism no. 88. 8 For these statues see respectively p. 26, fig. 18; p. 41, fig. 54; p. 26, fig. 19; p. 30, fig. 34. 9 For a checklist of Fuseli’s drawings of ancient sculptures see Schiff 1973, vol. 1, pp. 475–79, nos 634–65. 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 Schiff 1973, vol. 1, p. 450, no. 445 (dated 1771); the ancient scene is taken from D’Hancarville 1766–67, vol. 2, pl. 32. Schiff 1973, pp. 456–57, nos 485 and 487 (c. 1776). See in particular Winckelmann 2002, pp. 674, 676 (original pagination pp. 347–49). See also Appendix, no. 15. Schiff 1973, vol. 1, p. 547, nos 1072 and 1072a (1801–05). Schiff 1973, vol. 1, p. 496, no. 757. See Powell 1973, pp. 67–75. See in particular Waldkirch 2005, pp. 63–78. For a drawing showing a figure in a similar attire see Schiff 1973, vol. 1, p. 476, no. 561 (1777–79); and for one with similar blocks in the background ibid., vol. 1, p. 447, no. 425. For the right hand and the left foot see Stuart Jones 1926, p. 11, no. 13, pl. 5 (hand), pp. 13–14, no. 21, pl. 5 (foot). For a discussion on the original colos- sal statue see Fittschen and Zanker 1985, pp. 147–52, pls 151–52; Deckers 2005; Parisi Presicce 2007 (in particular for the history of the display); Bardill 2012, pp. 203–17. The provenance of the colossus from the Basilica is testified to by a caption on a drawing by Francesco di Giorgio Martini (1439–1501) (Morgan Library & Museum, New York, Codex Mellon, fol. 54r), see Buddensieg 1962; http://census.bbaw.de/easydb/censusID= 233951. See Paris 2000–01, p. 371 no. 176 (J.-P. Cuzin); Rome 2004, p. 346, no. 46 (V. Di Piazza); another similar drawing is in the Louvre, see Viatte 1974, p. 63 no. 46, p. 65, fig. 46. See Berckenhagen 1970, p. 332; Paris 2000–01, p. 374, no. 180 (J.-P. Cuzin). These details are clearly rendered on the drawings by Della Bella and Robert. Bartels 2000, p. 23 no. 1.7: ‘S(enatus) P(opulus) Q(ue) R(omanus)/ APOLLINIS COLOSSUM A M(arco) LUCULLO/ COLLOCATUM IN CAPITOLIO/DEIN TEMPORE AC VI SUBLATUM EX OCULIS/ TU TIBI UT ANIMO REPRAESENTES PEDEM VIDE/ET ROMANAE REI MAGNITUDINEM METIRE’. (‘The Senate and the People of Rome; that you may bring before your mind’s eye the colossal statue of Apollo set by Marcus Lucullus on the Capitol Hill, later removed from sight by the violence of time; look at this foot and be aware of the greatness of Rome’: translation Eloisa Dodero). Lindsay 1986, p. 483. Schiff 1973, vol. 1, pp. 115, 478–79, no. 665, vol. 2, p. 145, fig. 665. The pose finds parallels in other works by Fuseli chiefly illustrating mourn- ful scenes, such as the painting showing Milton Dreaming of His Dead Wife Catherine (1799–1800): Schiff 1973, vol. 1, pp. 523–24, no. 920; Zurich 2005, p. 223, no. 184. Remarkable is the closeness of Fuseli’s figure with the famous Democritus by Salvator Rosa (Statens Museum, Copehangen; see Scott 1995, p. 97, fig. 101; the composition was known also through a number of etchings, see for instance Naples 2008, p. 281, no. 8). The philosopher in Rosa’s composition is shown deep in thought and surrounded by several symbols of mortality including antiquities; the caption on the etchings describes the scene as ‘Democritus omnium derisor/in omnium fine defigitur’ (‘Democritus, who used to laugh about everything, here meditates on the end of every- thing’). 23. Philippe Joseph Tassaert (Antwerp 1732–1803 London) A Drawing Academy 1764 Pen and black ink, grey and black wash drawn with the brush over black chalk, 331 × 309 mm provenance: Private collection, Vienna; Gallery Kekko, Lucerne, 2004, from whom acquired. literature:None. exhibitions: Brussels 2004, pp. 75–76, repr.; London 2007–08, no. 59, not repr. Katrin Bellinger collection, inv. no. 2004-004 Although Tassaert was born in Flanders, he moved at a young age to London where he trained with the expatriate Flemish drapery painter, Joseph van Aken (c. 1699–1749), and where he established his career; aside from occasional trips to the continent, Tassaert remained in London until his death.1 Van Aken had a large practice executing draperies for most of the major British portrait painters active during the 1730s and 1740s, and after his death, Tassaert seems to have followed his example, assisting especially the portrait painter, Thomas Hudson (1701–79). In 1769, Tassaert joined the Society of Artists of Great Britain and served as its presi- dent from 1775–77; he exhibited with the Society until 1785.2 Also active as a dealer and picture restorer, Tassaert worked as an agent for the auctioneer, James Christie (1730–1803), valuing paintings in French and English collections, includ- ing that of Sir Robert Walpole at Houghton Hall, for sale to Catherine the Great in 1779.3 He later moved for a period to Italy, residing in Rome between 1785 and 1790.4 As a mezzotinter, Tassaert reproduced many composi- tions after earlier painters, especially those by Peter Paul Rubens (1577–1640). The present drawing – a relatively rare survival compared with his production of prints – shows young students, dressed in the costumes of Rubens’ era, sketching a reduced model of the Borghese Gladiator (fig. 1), illuminated by candlelight from above.5 Two instructors, including the imposing figure of Rubens him-self in the doorway on the right, inspect drawings made by two pupils who await their verdict. Casts of busts and statuettes are placed on the shelf above the lamp, as seen in artists’ work- shops from the Renaissance onwards (see cats 2, 10, 14).6 The present drawing is closely related to another, rather larger and more loosely executed, representation of an academy by Tassaert now in the British Museum (fig. 2), that is observed from a closer viewpoint and is horizontal rather than vertical in format.7 Rendered in warm brown instead of grey ink, the British Museum drawing focuses on the group clustered around the sculpture on the left. The master, in the doorway in our drawing, now leans against a chair gesturing towards the sculpture and the copy of it made by one of the pupils. But that student, seen in left profile studying the Gladiator intently, remains essentially unchanged in both sheets. The British Museum drawing is signed and dated, ‘Tassaert. del Bruxelles. 1764’, and the Bellinger drawing was no doubt made at the same time. Both were probably made in preparation for a painting, now lost, but described in a 1774 review of the Society of Artists’ exhibition at the Strand in London: ‘Mr. TASSAERT, Director, F.S.A. [ . . .] 285. An academy with youth’s [sic] at study. -Yellow shaded with black, has a starved effect’, a description which suggests that it may have been monochrome. 8 A keen admirer and copyist of Rubens’ work, Tassaert clearly intended to evoke the atmosphere of the master’s studio. A drawing by Tassaert, ‘Rubens instructing his pupils’ Fig. 1. Agasias of Ephesus, Borghese Gladiator, c. 100 bc, marble, 199 cm (h), Louvre, Paris, inv. Ma 527  184 185    Fig. 2. Philippe Joseph Tassaert, A Drawing Academy, 1764, pen and brown ink and brown wash over black chalk, 330 × 406 mm, The British Museum, Department of Prints and Drawings, London, 2003,1129.1 which was sold in London in 1785 was probably one of the two drawings under consideration.9 The master in both is physiognomically identical, and wears the wide-brimmed hat and voluminous cloak seen in Rubens’ mature self-portraits, such as that of 1623 in the Royal collection, Windsor Castle, an image widely disseminated through engravings.10 Another self-portrait,showingtheartistatsixty,intheKunsthistorisches Museum, Vienna (1633–35), may also have been known to Tassaert through prints.11 No doubt Tassaert’s drawings and the lost painting for which they presumably prepared, were intended to commemorate the fact that Rubens’ studio in Antwerp, founded on his return from Italy in 1608, was one of the first in Northern Europe to be organised on the ‘academic’ Italian model. Ruben’s studio – much more than a workshop – encouraged the intellectual as well as practical ambitions of young artists, who vied with each other to become his pupils. The purpose of Tassaert’s lost painting is not certain, but one possibility is that he intended to present it to the recently revamped Brussels art school. It may be significant that Tassaert, who hailed from Antwerp (where he became a member of the Guild of St Luke in 1756), signed the British Museum drawing ‘Tassaert. del Bruxelles’, and dated it, 1764, the year the Brussels school began to flourish under new stewardship.12 Reportedly discovered in Nettuno in 1611, the Borghese Gladiator, signed by Agasias of Ephesus, is thought to copy a statue of the school of Lysippus.13 It was acquired by Cardinal Scipione Borghese (1576–1633), and between 1650 and 1807, was displayed in a room bearing its name on the ground floor of the Casino Borghese before it was sold to Napoleon.14 The statue was keenly admired by artists from the mid-17th century onwards as it embodied the male nude in an active, heroic and resolute pose. François Perrier (1590–1650) ranked it among the finest statues in Rome and published four views of it in his influential collection of etching after antique sculpture (Segmenta nobilium signorum et statuarum . . . , Paris, 1638, pls. 26–29), more than he devoted to any other figure. Casts of it were made for Philip IV of Spain and for the Académie Royale in Paris (see cat. 16) and the Académie de France in Rome.15 It became a standard presence in artists’ manuals from the 17th century onwards, as the perfection of its anatomy and proportions made it an ideal model for young pupils to copy. Its fame endured well into the 18th century as many of the objects in this catalogue make clear (cats 16, 24, 26).16 Rubens, who was thirty-four when the statue was found, revered it greatly. Although his two Roman sojourns (1601– 02 and 1600–08) pre-date its discovery in 1611, he certainly knew the statue through copies and probably owned a cast of it.17 That plaster casts came to be widely used in Northern workshops of the period is shown in the 1635 and 1656 studio inventories of Rubens’ contemporary, Hendrik van Balen (1575–1632) and of Rembrandt (1606–69) and by the many paintings that depict artists making copies of them (see p. 40, figs 49–53 and cat. 14).18 Rubens’ deep interest in antique sculpture, which he collected enthusiastically, is well-documented.19 In one of his theoretical notebooks, De Imitatione Statuarum (‘On the Imitation of Ancient Statues’), recording his observations from 1600 to 1610 on the proportions of the human form, symmetry, perspective, anatomy and architecture, he defined canonical male body types of the first rank: the strongest and most robust, the Farnese Hercules (see cats 7, 14, 16, 21); the less muscular and fleshy, Commodus in the Guise of Hercules and the River Nile (see cat. 5) and the third, lean and slender, with prominent bones and a longer face, the Borghese Gladiator, which he analysed in a diagram.20 Finally, there was the slim and handsome type, less strong, among which statues of Apollo and Mercury were classed.21 Rubens referred to the Gladiator again in another of his notebooks and he adapted it in some of his paintings, such as the Mercury and Argus of 1636–37 (Prado, Madrid) where Mercury in a pose strongly reminiscent of the Gladiator, is about to behead the multi-eyed giant.22 Although Tassaert would not have known Rubens’ manuscript, parts of it were published in 1708 by Roger de Piles in his Cours de peinture par principles, translated into English in 1743 as The Principles of Painting (see Appendix, no. 8).23 Within twenty years of its discovery, casts of the Borghese Gladiator were commissioned by Charles I and other English patrons and it soon became one of the most celebrated 186 187  antique sculptures in the British Isles.24 By the 18th century, copies of it had becoming a mainstay of country house collections.25 Joseph Wright of Derby (1734–1797) depicted a reduced model of the Gladiator studied by candlelight (private collection; see cat. 24, fig. 2), exhibiting it at the Society of Artists in 1765, just a year after Tassaert’s drawings and William Pether made a mezzotint after Wright’s painting in 1769.26 When Tassaert showed his painting of a similar subject, probably based on his earlier studies, at the same venue in 1774 he may have been responding to the challenge of his English colleagues, particularly the fellow mezzotinter, Pether.27 Indeed, it is tempting to suppose that Tassaert, by exhibiting the finished painting, was asserting the suprem- acy of Flemish academies over the English ones by establish- ing that the sculpture was well-known and used as a teaching tool already in Rubens’ time. As will be seen later (see cats 24–26), study after plaster casts increasingly became an indispensible part of artistic training in the English Academies as the 18th century progressed. It is especially significant in the present context that the catalogue of the posthumous sale of the effects of Tassaert’s master, Joseph Van Aken, in 1751 in London, lists no fewer than sixty models in terracotta and plaster after the Antique, among them, the Laocoön, the Farnese Hercules, heads of Antinous and, significantly, two Gladiators.28 It is well known that antique models were widely diffused in England in the first half of the 18th century, well before the foundation of the Royal Academy in 1768 (see cat. 25), but Van Aken’s collection and Tassaert’s preoccupations suggest that interest in the Antique had a particularly Flemish dimension. Of course, such models served a vital role for artists in helping to achieve an idealised representation of the anatomy, poses and expressions of the human body, but also, as in the case of Van Aken, they could act as lay-figures for the arrangement of drapery.29 avl 1 For brief accounts of Tassaert’s life and work, see Edwards 1808, who, on pp. 282–83, asserts that Tassaert was ‘the scholar’ of van Aken; Redgrave 1874, vol. 2, p. 402; Wurzbach 1906–11, vol. 2, pp. 689–90; Thieme-Becker 1907–50, vol, 32, p. 456; Bénézit 2006, vol. 13, pp. 708–09; Wallens 2010, p. 328. Edwards (1808, p. 282) reports his association with van Aken though the latter had already moved to London in 1720, before Tassaert was born. They probably met there though he was only about seventeen when van Aken died. According to Bénézit (2006, p. 708), Tassaert was the brother of the sculptor, Jean Pierre Antoine Tassaert (1727–1788). 2 For his involvement with the Society (and disagreements with), see Hargraves 2005, pp. 141–43, 152–53, 158–72. His paintings were shown also at the Royal Academy. 3 He is listed frequently as buyer/seller in Christie’s sale catalogues of c. 1779– 82 (see Kerslake 1977, vol. 1, p. 337). For Tassaert at Houghton, see Twist 2008, p. 106–07. 4 Wallens. For his engravings, see Le Blanc 1854–88, vol. 4, p. 9; Wurzbach 1906–11, vol. 2, pp. 689–90; Smith 1878–83, vol. 3, pp. 1354–56. A further drawing by Tassaert of an artist’s studio, but with figures in contemporary dress, is in Tate Britain, from the Oppé collection, black chalk on blue paper, 490 × 317 mm, inv. no. T09847. They may also be seen lightly sketched at upper right in Tassaert’s drawing of an artist’s studio in the Tate (see note 5 above). Lock 2010, p. 255, fig. 12.4; Phillips 2013, p. 127, fig. 5. ‘Conclusion of the Account of the Pictures now exhibiting at the Artist’s [sic] great Room near Exeter Exchange, Strand’, published in The Middlesex Journal, 30 April – 3 May 1774, p. 2 (as noted by Elizabeth Barker, under inv. no. 2003,1129.1, British Museum collection database). The same subject painted by Tassaert, probably more than once, is listed in several Christie’s sales in London between 1805–12: 1805 (1–2 March, lot 69, seller: John Mayhew; unsold; 14–15 June, lot 40, seller: John Mayhew; unsold); 1806 (7–8 March, lot 33, seller: John Mayhew; unsold); 1808 (11–12 March, lot 18, seller: Adam Callander; unsold; 14 May, lot 33, seller: Rev. Philip Duval; bought by Daubuz); 1809 (17–18 November, lot 65, seller: Adam Callander; bought by J. F. Tuffen) and 1812 (22 May, lot 44, seller: John Mayhew; unsold; 18–19 December, lot 80, seller: John Mayhew; bought by J. F. Tuffen). Source: Getty Provenance Index. Jean-Baptiste-Guillaume de Gevigney, his sale, Greenwood, London, 14–15 April 1785, lot 44. Presumably the same drawing was sold two years later: ‘An academy by Tassaert, washed in bisque, fine’, Greenwood, London, 14–15 March 1787, lot 29 to John Thomas Smith for £1.0. Jaffé 1989, p. 281, no. 764. Ibid., p. 371, no. 1379. Between 1764 and 1768, the school was revitalized under Count Charles Cobenzl (Phillips 2013, pp. 127–28). Paris 2000–01, no. 1, pp. 150–51 (L. Laugier); Pasquier 2000-01b. Haskell and Penny 1981, p. 221; Laugier 2000–01. See also Aymonino’s essay in this catalogue, p. 41. Haskell and Penny 1981, p. 221. Ibid., pp. 221–24, no. 43, fig. 115. For Rubens’ study of sculpture in Roman collections, see Van der Meulen 1994-95, vol. 1, pp. 41–68. For van Balen’s inventory, see Duverger 1984–2009, vol. 4, pp. 200–11. Among the casts listed are the Laocoön, Hercules, Apollo, Athena and Mercury (ibid., p. 208). Rembrandt’s 1656 bankruptcy inventory (Strauss and Van der Meulen 1979, pp. 349–88) mentions several plaster casts from life, including hands, heads and arms (ibid., pp. 365, 383), and after the antique (‘A plaster cast of a Greek antique’ (Een pleijster gietsel van een Griecks anticq), p. 383, no. 323). Also mentioned are antique statues of unspecified medium, including a Faustina, Galba, Laocoön, Vitellius (ibid., pp. 365, nos 166, 168; 385, nos 329, 331) and several others. For Rembrandt’s use of statues, casts and models, see Gyllenhaal 2008. For his collection, see Muller 1989, Appendix C, pp. 82–87 and Muller 2004, especially, pp. 18–23. The Johnson manuscript (manuscript transcript of the Rubens Pocketbook), mid-18th century, Courtauld Gallery, London, MS.1978.PG.1, fols 4v-5r, cited in Muller 2004, p. 19. See also Muller 1982, pp. 235–36 and Van der Meulen 1994–95, vol. 1, pp. 72–73. Van der Meulen 1994–95, vol. 1, p. 73. Ms de Ganay (formerly Paris, Marquis de Ganay), fols 22r–23r, transcribed and translated in Van der Meulen 1994–95, vol. 1, pp. 254–58. In addition to the Madrid painting (Georgievska-Shine and Silver 2014, p. 136, fig. 5.3), the pose of the sculpture was utilised in other drawn and painted composi- tions by the artist (Van der Meulen 1994–95, vol. 1, p. 239, note 9). De Piles 1708, pp. 139–48; De Piles 1743, pp. 86–92. . Haskell and Penny 1981, p. 221. However, due to the demand for casts the Borghese tried to stop moulds from being made (Haskell and Penny 1981, p. 221). Liverpool 2007, p. 132, no. 10; Clayton 1990, p. 236, no. 154, P3. Tassaert and Pether, both members of the Society of Artists, had a disagree- ment over the latter’s proposed exhibition fee for fellows (Hargraves 2005, pp. 141–42). Landford’s, London, 11–25 February 1751, among lots 1–77. It has been suggested that Rembrandt worked from draped plaster casts, especially during his Leiden years (Gyllenhaal 2008, p. 51). 24. William Pether (Carlisle 1731–1821 Bristol) after Joseph Wright of Derby (Derby 1734–1797 Derby) An Academy 1772 Mezzotint, 579 × 458 mm Inscribed l.l.: ‘Iosh., Wright, Pinxt.’; and l.r.: ‘W. Pether, Fecit.’; on the boy’s portfolio in the centre: ‘An / Academy / Published by W Pether, / Feby, 25th / 1772’; td and l.c., at the foot of the seated artist: ‘Done from a Picture in / the Collection of the R . Hon. / L . Melburne.’ provenance: The Hon. Christopher Lennox-Boyd (1941–2012), from whom acquired by the British Museum in 2010. literature: Chaloner Smith 1883, vol. 2, p. 46, not repr.; Clayton 1990, p. 240, no. 159, P9, this impression listed under II, not repr.; Liverpool 2007, pp. 159–62, no. 33. exhibitions: Not previously exhibited. The British Museum, Department of Prints and Drawings, London, 2010,7081.2228 In 1769 Joseph Wright of Derby exhibited An Academy by Lamplight (private collection) at the Society of Artists in London.1 The painting depicted six young boys drawing from casts of antique sculpture in a vaulted space lit only by a concealed lamp. Wright repeated the composition the following year for his patron, Peniston Lamb, 1st Viscount Melbourne (Yale Center for British Art, fig. 1) and it was from this second version that William Pether took the present mezzotint, renamed simply An Academy, published in its first state in February 1772.2 The subject-matter is related to Wright’s earlier painting, Three Persons Viewing the Gladiator by Candlelight (private collection, fig. 2),3 but, by showing a group of students at work, addresses more directly the theme of education by studying casts of antique sculpture by candlelight. Artistic education was of paramount importance to Wright. In December of 1769, the year he settled in Liverpool, twenty-two men in the burgeoning city formed a Society of Artists that gathered at a member’s house to make drawings from a substantial collection of prints and, more signifi- cantly, thirty-five plaster casts.4 These casts had been pur- chased from John Flaxman senior, a plaster-cast salesman in Covent Garden, for £8.8.3, and were intended specifically for furnishing an academy.5 While Wright is not listed as a member of the Society of Artists, his friend, the engraver Peter Perez Burdett (c. 1735–93), was its first President and Wright’s landlord in Liverpool, Richard Tate (1736–87), was an amateur painter who showed works at the Society’s first public exhibition in 1774, so he was certainly aware of the group’s aspirations. Wright seems also to have had at least one student in Liverpool, Richard Tate’s brother, William, who was described by Wright in a letter in 1773 as ‘a pupil of mine’.6 Artistic education would therefore have been a pressing concern when he was conceiving An Academy by Lamplight. Wright no doubt encouraged William Tate to take the same route that he had followed as a pupil of Thomas Hudson (1701–79): first copying drawings by accomplished masters (which for Tate would have included works by Wright him- self) as well as prints, before moving to the study of plaster casts and, ultimately, the life model.7 In 1774 Tate exhibited ‘Venus with a Shell, a drawing in black chalk’ at the first Fig. 1. Joseph Wright of Derby, An Academy by Lamplight, 1770, oil on canvas, 127 × 101 cm, Yale Center for British Art, Paul Mellon Collection, New Haven, inv. B1973.1.66 Fig. 2. Joseph Wright of Derby, Three Persons Viewing the Gladiator by Candlelight, 1765, oil on canvas, 101.6 × 121.9 cm, private collection   188 189  Liverpool Society of Artists exhibition, and a sheet in the Derby Museum and Art Gallery of this subject has been recently been identified as Tate’s drawing.8 This title of that drawing is highly suggestive as it is pre- cisely the so-called Nymph with a Shell that the students are shown drawing in Wright’s painting and Pether’s mezzotint. Housed in the Borghese collection during the 18th century, the sculpture is now in the Louvre (fig. 3).9 While a cast of this statue is not listed among those purchased by the Liverpool Society of Artists, one was probably owned by Wright himself. The other statue shown in the background on the right is the familiar Borghese Gladiator (see p. 41, fig. 54 and cat. 23) – the sculpture being studied in Wright’s earlier Three Persons Viewing the Gladiator by Candlelight (fig. 2). Wright’s composition depicts young students in different attitudes, some at work drawing the Nymph, which is illumi- nated by a hanging lamp, from varying angles, while others merely admire her. Wright has created an ideal representation of an academy of young men, precisely the environment which his contemporaries were attempting to create in Liverpool. The students’ visible drawings are in black chalk similar to Wright’s own and those of his ‘pupil’, Tate. The varying ages of the students, from young boys to young men, also suggests an ideal academic establishment. The date of the work has further resonance: 1769 was the year after the foundation of the Royal Academy in London, where a precise programme of artistic education, which included drawing from antique sculpture, was being formulated (see cat. 25). The composition continues a theme Wright addressed in Three Persons Viewing the Gladiator by Candlelight (fig. 2), the first painting he exhibited in London, showing it at the Society of Artists in 1765. Such was its popularity that Pether produced a mezzotint of it in 1769 and we can suppose that our Fig. 3. Nymph with the Shell, Roman copy of the 1st century ad after a Hellenistic type of the 2nd century bc, marble, 60 cm (h), Louvre, Paris, inv. MR 309-N 247 (Ma 18) mezzotint, published three years later, was conceived as a pendant.10 Wright’s Three Persons Viewing the Gladiator by Candlelight depicts three men – traditionally identified as Wright himself, Peter Perez Burdett (c. 1735–93) and John Wilton – comparing a reduced model of the Borghese Gladiator with a drawn copy of it in black chalk. We know Wright made drawings of the sculpture; and a study in pen and brown ink on brown paper by him is preserved at Derby.11 Dating from before his journey to Italy, it seems likely to have been made from a reduced model. Whilst there is no evidence that Wright owned a model of the Gladiator, it seems likely that he did: reduced models of it appear in numerous artists’ sales during the 18th century and they were also readily available in Derby at the time.12 Viewing and drawing sculpture by candle-light was a feature of many European academies as for example those of Bandinelli and Tassaert (see cats 1 and 23).13 This was intended to emphasise the contrast of the sculpture’s anatomy and facilitate its copy. There were many perceived artistic benefits in owning models. William Hogarth noted in his Apology for Painters: ‘the little casts of the gladiator the Laocoon or the venus etc. if true copies – are still better than the large as the parts are exactly the same [–] the eye [can] comprehend them with most ease and they are more handy to place and turn about’.14 It therefore seems likely that Wright’s picture depicts an evening viewing of his own cast. Burdett was an amateur draughtsman and printmaker, and the comparison between Wright’s own drawing and the model is the probable topic of their conversation. This was the theme that Wright developed more fully in An Academy. Liverpool 2007, p. 159, no. 31. For Yale version of the painting ibid., p. 159, no. 32. Nicolson 1968, vol. 1, p. 234, no. 188; London 1990, pp. 61–63, no. 22; Liverpool 2007, p. 132, no. 10. For a discussion of the foundation of the Society of Artists and a list of the casts it acquired see Mayer 1876, pp. 67–69. Ibid., p. 5. Joseph Wright to William Thompson, Derby 25 March, 1773, in Barker 2009, p. 72. Wright’s work in Hudson’s studio is remarkably well documented in an archive of his drawings as a student preserved in Derby Museum and Art Gallery: see Derby 1997, pp. 49–65. Liverpool 2007, p. 162, no. 34. For the relationship between Tate, Wright and the Liverpool Society of Artists see Barker 2003, pp. 265–74. For the Nymph with the Shell see Haskell and Penny 1981, pp. 281–82, no. 67; Rome 2000b, vol. 2, p. 335, no. 10 (F. Rausa); Gaborit and Martinez 2000–01; Paris 2000–01, pp. 327–28, no. 147 (J.-L. Martinez); Rome 2011–12, pp. 402–05 (I. Petrucci, M.-L. Fabréga-Dubert, J.-L. Martinez). Clayton 1990, p. 236, no. 154, P3. Derby 1997, p. 88, no. 152. An Italian plaster-modeller based in Oxford, ‘Mr Campione’ is recorded selling: ‘a large and curious collection of statues, modelled from the Antiques of Italy ... in fine plaister paris work’ in the Red Lion in Derby. See Barker 2003, p. 25. On this see Roman 1984, p. 83. See also cat. 1, p. 80, note 8. Kitson 1966–68, p. 86.  190 191  25. Edward Francis Burney (Worcester 1760–1848 London) The Antique Academy at Old Somerset House 1779 Pen and grey ink with watercolour wash, 335 × 485 mm Signed recto, on the portfolio depicted in the drawing at l.c., in pen and black ink: ‘E.F.B. 1779’; and inscribed verso, in pen and black ink, with a key identifying the casts and objects shown on recto, numbered 1–43: ‘View of the Plaister Room in the Royal Academy old Somerset House / 1. Cincinnatus / 2. Apollo Belvedere / 3. Meleager / 4. Biting Boy / 5. Foot of the Laocoon / 6. Arm of M. Angelo’s Moses / 7. Paris / 8. Faun / 9 Anatomy of a Horse / 10. Head of Antinous / 11. A young Orator by M. Angelo / 12. Antoninus Pius / 13. Bacchus / 14. Pompey / 15. Alexander / 16. Model of a Cow / 17. Agrippa / 18. Nero / 19. Augustus / 20. Cicero / 21 Other Roman Emperors / 22. Door of Mr Mosers little Room / 23. Heads. Casts from Trajans pillar / 24. Table for Drawing Hands Heads etc. on / 25. Screens to prevent Double Lights / 26. Modelers stands / 27. Large chalk Drawing of the Virgin etc. by Leon: da Vinci / 28. Homer / 29. Laocoon / 30. Esculapius / 31. Proserpine / 32. Carracalla / 33. Mithridates / 34. Bacchus / 35. Antinous / 36. River Gods from M. Angelo / 37. Boys by Fiamingo / 38. Dying Gladiator / 39. Lamps for lighting the figures in Winter / 40. Antique Bass Relieves / 41. Laughing Boys / 42. Head of a Wolf / 43. Legs cast from nature etc. etc. etc.’ provenance: From an album of drawings in the possession of the Burney family; P. & D. Colnaghi, London, from whom acquired 5 July 1960. literature: Byam Shaw 1962, pp. 212–15, figs 54–55; Hutchison 1986, p. 192, fig. 27; Wilton 1987, p. 26, fig. 25; Rossi Pinelli 1988, p. 255, fig. 4; Nottingham and London 1991, p. 63, under no. 39, fig. 3; Fenton 2006, pp. 98–99, 100–01, repr.; Kenworthy-Browne 2009, pp. 45–46, pl. 16; Wickham 2010, pp. 300–01, fig. 14; Brook 2010–11, p. 158, fig. 5. exhibitions: London 1963, p. 34, no. 87, not repr.; London 1968b, pp. 211–12, no. 651, not repr.; London 1971, p. 18, no. 71, not repr.; London 1972, p. 316, no. 521, not repr. (R. Liscombe); York 1973, p. 40, no. 98, not repr.; London 2001, p. 46, no. 85.  Royal Academy of Arts, London, 03/7485 With its companion The Antique Academy at New Somerset House (fig. 1), this drawing constitutes one of the best and most evocative visual records of the Antique or ‘Plaister’ Academy at the Royal Academy of Arts in London.1 The Academy was founded in 1768 and initially occupied rooms in Pall Mall before moving to Somerset House in 1771. The rather chaotic early records of the Academy means that Burney’s detailed drawings are fundamental in establishing precisely which antiquities were available to the first generation of students at the Academy. Although copying after casts had been a practice fol- lowed in previous British academies and schools of art – such as the Duke of Richmond’s Academy – it was only with the foundation of the Royal Academy that it became part of an extended curriculum modelled on the Roman and Parisian Academies.2 The first Academicians draughted surprisingly few rules governing the education of students, other than the requirement that a student have a ‘Drawing or Model from some Plaister Cast’ approved for admission to the Antique Academy, and again to progress into the Life Academy.3 For at least the first fifty years of its existence there was no stipulation about the length of time students should spend in either School. The timetable itself was fairly minimal, follow- ing the traditional model in which the purpose of an Academy was to provide instruction in draughtsmanship and theory whilst the student learned his chosen art of painting, sculpture or architecture with a master. The Antique or Plaister Academy was open from 9 to 3 pm with a two-hour session in the evening, while the Life Academy consisted of only a two- hour class each night. Until 1860, both were attended by male students only. The collection of casts was under the control of the Keeper, while a Visitor attended monthly to examine and correct the students’ drawings and to ‘endeavour to form their taste’.4 Following the theoretical model of continental academies, the main didactic purpose of drawing from plaster casts was to teach young students to become acquainted with and to internalise ideal beauty before being exposed to Nature in the Life Academy. As Benjamin West (1738–1820), president of the Royal Academy for almost thirty years from 1792, put it, pro- ficiency was ‘not to be gained by rushing impatiently to the school of the living model, correctness of form and taste was first to be sought by an attentive study of the Grecian figures’.5 Edward Francis Burney studied at the Royal Academy Schools from 1777 and left in the 1780s to become a suc- Fig. 1. Edward Francis Burney, The Antique Academy at New Somerset House, c. 1780, pen and grey ink with watercolour wash, 335 × 485 mm, Royal Academy of Arts, London, cessful book illustrator.6 As a young pupil of the Antique Academy, he recorded in the present drawing of 1779 and its companion the rebuilding of Somerset House begun in 1776 by Sir William Chambers (1723–96). This drawing shows the Academy before Chambers’ intervention in a room that was probably designed by John Webb (1611–72) in 1661–64, on the south side of the building facing the Thames. These rooms had windows exposed to direct sunlight and therefore may have required the ‘Screens to prevent Double Lights’, visible in the upper left corner of the drawing and annotated on the verso. The drawing depicts four students at work, the one on the right in the middle distance being guided by George Michael Moser (1706–83), the first Keeper of the Royal Academy Schools, including the Antique Academy.7 In the room everything was moveable. Boxes could be used as seats or as supports for drawing boards, as one is by the student in the foreground on the left, while rails were used for holding the individual students’ candles (see cat. 26). Even the pedestal of the casts could be moved on castors, so that the Keeper could change their position weekly. The collection of plaster casts was one of the largest assembled in Britain in the 18th century.8 Many came from the second St Martin’s Lane Academy, brought by Moser who had been one of its directors.9 The collection was then expanded considerably thanks to donations from aristocratic collectors and acquisitions on the London market.10 Among the most easily identifiable casts are those ubiqui- tous in European workshops and academies from the 17th century onwards, all listed in the long inscription on the verso of the drawing: the Apollo Belvedere (p. 26, fig. 18) at left centre, behind, in the background, the Faun with Kid, and on the far right, the Dying Gladiator (p. 41, fig. 55), which a student is copying, as innumerable other students had done before him (see cat. 20).11 In addition, a series of peculiarly ‘English’ casts are on display, some donated, others copied from origi- nals recently brought to England from Rome. Partly obscured in shadow on the left is a cast of Cincinnatus – which still survives in the collection of the Royal Academy (fig. 2) – close Fig. 6. Relief from an Honourary Monument to Marcus Aurelius: Triumph, 176–180 ad, marble, 324 × 214 cm, Capitoline Museums, Rome, inv. MC0808 Fig. 7. Relief with Warriors, Roman, 1st or 2nd century ad, marble, 93 × 82 cm, San Nilo Abbey, Grottaferrata, inv. 1155 Academy’s collection (figs 8–9). Finally, between the shelves and the door on the right, it is possible to discern Leonardo’s cartoon of The Virgin and Child with St Anne and St John the Baptist, today one of the most celebrated works in the National Gallery in London – the present drawing is the earliest to document its presence in the collection of the Royal Academy.16 The cast collection was of paramount importance to the Royal Academy during its first decades, but the ad hoc nature of its accumulation and the inclusion of casts of ‘Grand Tour’ souvenirs – such as Lord Shelburne’s Cincinnatus – left it open to criticism. In 1798 the Academy’s Professor of Painting, James Barry (1741–1806), launched a stinging public attack complaining that the Academy was ‘too ill supplied with materials for observations’ lamenting ‘the miserable beggarly state of its library and collection of antique vestiges’.17 As a direct result, the sculptors John Flaxman (1755–1826) and John Bacon the Younger (1777–1859) were charged with purchasing new casts from the sale of George Romney’s (1734–1802) collection.18 Flaxman spent much of the rest of his career attempting to improve the Academy’s cast collection; after 1815, he finally convinced the Prince Regent to sponsor the Fig. 8. Plaster Cast of Head of a Roman Soldier in Helmet, from Trajan’s Column, 15.7 × 15.4 × 4.4 cm, Royal Academy of Arts, London, inv. 10/3267 Fig. 9. Plaster Cast of the Head of Trajan, from Trajan’s Column, 15.5 × 15.4 × 4.6 cm, Royal Academy of Arts, London, iaa&jy FortheearlyhistoryoftheRoyalAcademysee Hutchison1986,pp.23–54. For drawing after casts in Britain before the foundation of the Royal Academy see esp. Postle 1997; Coutu 2000; Kenworthy-Browne 2009. Hutchison 1986, pp. 29–31. For the full admission process see London, Royal Academy of Arts, PC/1/1, Council minutes, vol. 1, p. 4, 27 Dec. 1768; Abstract 1797, pp. 18–19. Hutchison1986,p.27.Forthe‘RulesandOrders,forthePlaisterAcademy’, see London, Royal Academy of Arts, PC/1/1 Council minutes, vol. 1, p. 6, 27 Dec. 1768, and p. 17, 17 March 1769; Abstract 1797, pp. 22–23. For the role of the visitors see ibid., p. 8. Hoare1805,p.3. SeeRogers2013. The identification of the teacher with Moser is confirmed by other like- nesses: see Edgcumbe 2009. The only other collection that could compete in numbers of casts was the Duke of Richmond’s Gallery: see Coutu 2000; Kenworthy-Browne 2009. On the Royal Academy collection of casts see Baretti [1781], esp. pp. 18–30. See Thomson 1771, pp. 42–43; Strange 1775, p. 74. We would like to thank Nick Savage for pointing out these two sources to us. OnplastershopsandtradersinBritaininthesecondhalfofthe18thcentury see Clifford 1992. Among private donors, Thomas Jenkins, the Rome based dealer, sent a cast of the so-called Barberini Venus shortly after the Royal Academy’s foundation: London, Royal Academy of Arts, PC/1/1, Council minutes, vol. 1, p. 38, 9 Aug. 1769. Jenkins in turn encouraged many of his clients in London to donate casts, including John Frederick Sackville, Duke of Dorset who sent in 1771 ‘a Bust of Antinous in his collection’ and ‘a cast of Pythagoras’: ibid., p. 111, 25 Oct. 1771, and p. 118, 18 Dec. 1771. Other early donors were Sir William Hamilton, the Rome-based dealer Colin Morrison and the Anglo-Florentine painter Thomas Patch. FortheFaunwithKidseeHaskellandPenny1981,pp.211–12,no.37. The Council Minutes record on 11 June 1774: ‘Resolved that casts be made from three statues in the possession of Lord Shelburne, viz the Meleager, the Gladiator putting on his sandals, & the Paris, leave having been already obtained from his lordship’, London, Royal Academy of Arts, PC/1/1, Council minutes, vol. 1, p. 179. The three sculptures had recently been sup- plied by Gavin Hamilton (1723–98) from Rome and were largely recently excavated pieces: the Meleager had been found at Tor Columbaro; the Paris and the so-called Cincinatus had both come from an excavation at Hadrian’s Villa near Tivoli, called Pantanello. See Bignamini and Hornsby 2010, vol. 1, pp. 321–22 for Shelburne; for the excavation and purchase of the Cincinnatus and Paris see vol. 1, pp. 162–64, nos 1 and 12; for the excavation and purchase of the Meleager see vol. 1, pp. 180–81, no. 7. London, Royal Academy of Arts, PC/1/1, Council minutes, vol. 1, p. 38, 9 Aug. 1769 ‘Charles Townly Esq. having presented the Academy with a cast of the Lacedemorian Boy ... ordered that letters of thanks should be wrote.’ On the original relief see Boudon-Mauchel 2005, pp. 251–52, no. 43 and on Duquesnoy’s fame as a ‘classical’ sculptor ibid., pp. 175–210. The cast of the relief had been sent by Sir William Hamilton, then British ambassador to the court of Naples, in 1770 together with a cast of ‘Apollo’: see Ingamells and Edgcumbe 2000 p. 32, no. 25, 17 June 1770; see also London, Royal Academy of Arts, PC/1/1, Council minutes, vol. 1, p. 72, 17 March 1770. For the Marcus Aurelius relief see Haskell and Penny 1981, pp. 255–56, no. 56; Rome 1986–87. For the relief with warriors see Musso 1989–90, pp. 9–22. The relief was illustrated in Winckelmann 1767, pl. 136. The same cast appears in Zoffany’s celebrated Portrait of the Academicians of the Royal Academy, 1771–72, in the Royal Collections. See Webster 2011, pp. 252–61; New Haven and London 2011–12, pp. 218–21, no. 44 (M. A. Stevens). For Leonardo’s cartoon see London 2011–12, pp. 289–91, no. 86 (L. Syson). Barry 1798, p. 7. London, Royal Academy of Arts, PC/1/3, Council minutes, vol. 3, pp. 99–100, 22 May 1801. They purchased 16 casts in total for £68.10.3. WindsorLiscombe1987. Fig. 2. Plaster Casts of the So-Called Lansdowne ‘Cincinnatus’, 1774, 162 cm (h), Royal Academy of Arts, London, inv. 03/1488 Fig. 3. Lansdowne Paris, Roman copy of the Hadrianic Period (117–138 ad) from a Greek original of the 4th century bc, marble, 165 cm (h), Louvre, Paris, inv. MNE 946 (n° usuel Ma 4708) Fig. 4. Lansdowne Hermes/Meleager, Roman copy of the Hadrianic Period (117–138 ad) of a Greek original of the 4th century bc, marble, 219 cm (h), Santa Barbara Museum of Art, Gift of Wright S. Ludington, inv. 1984.34.1 to the Faun with Kid is a Paris (fig. 3), and behind Moser the so-called Lansdowne Meleager (fig. 4). All of these were cast in 1774 from the originals in the collection of William Petty, 2nd Earl of Shelburne (1737–1805), recently returned from his Grand Tour.12 Behind the Cincinnatus is partly discernible a cast of the Knucklebone Players given by Charles Townley in 1769, the antique original of which could be admired in his London town-house at 7 Park Street (cat. 28, fig. 1).13 As was customary, the Academy’s collection included also casts of busts and statuettes distributed on shelves and of ‘dismembered’ body parts – arms, legs and feet – hung on the wall, so that students could learn how to draw anatomical details before approaching the whole human figure. Pupils were also required to draw from reliefs, to become acquainted with the composition of historie, or narrative scenes, based on classical models. Above the chimneypiece is a large cast of a relief with music-making angels by François Duquesnoy (1597–1643) – the Boys by Fiamingo identified on the reverse of the drawing – whose most classicising works had, by the end of the 17th century, acquired the same status of antique statuary (fig. 5).14 Above was displayed a reduced version of one of the Marcus Aurelius reliefs in the Capitoline Museum (fig. 6), and a comparatively obscure relief with warriors, which had clearly gained fame because of its inclusion in Winckelmann’s Monumenti Antichi Inediti, published in 1767 (fig. 7).15 Further identifiable casts included a series of heads from Trajan’s Column, which we can see hanging from the shelves on the end wall, many of which remain in the Fig. 5. François Duquesnoy, Relief with Music-Making Angels, 1640–42, marble, 80 × 200 cm. Filomarino Altar, Church of Santi Apostoli, Naples commissioning of a series of new casts from Antonio Canova (1757–1822) in Rome.19 Burney’s image illustrates both the Royal Academy’s aspiration to offer an ‘academic’ education in line with great Continental examples, but also its differ- ences from them, as a private organisation sponsored by the monarch rather than a state-run academy.    194 195  26. Anonymous British School, 18th century A View of the Antique Academy in the Royal Academy c. 1790s Pen and brown ink and grey wash, with watercolour, over graphite, 294 × 223 mm Stamped recto, l.l., in brown ink: ‘J.R’; on separate piece of paper now attached to the reverse of the mount, in pen and black ink: ‘Henry Fuseli R A / 1741–1825. / Bought at Sir J. Charles Robinson’s sale 1902 / E.M.’ provenance: Charles Heathcote Robinson; Sir John Charles Robinson (1824–1913) (not listed in his sales: Christie’s 12–14 May 1902; or Christie’s 17–18 April 1902); Sir Edward Marsh (1872–1953); his bequest through The Art Fund (then called National Art Collection Fund), 1953.  literature:None. exhibitions: London 1969, no.1 (unpaginated), not repr. The British Museum, Department of Prints and Drawings, London, 1953,0509.3 This satirical drawing, probably made by a distracted student who ought to have been studying diligently from one of the casts, shows an imposing, heavy-set man towering physi- cally and psychologically over three young seated pupils drawing in the Antique Academy. While traditionally he has been identified as the painter Henry Fuseli (1741–1825), Keeper of the Royal Academy Schools from 1803 to 1825, given the style of the drawing and the subject’s dress he is more likely to be either Agostino Carlini (c. 1718–90), Keeper between 1783 and 1790, or Joseph Wilton (1722–1803) who held the position between 1790 and 1803.1 The view shows one of the end walls of the Antique, or ‘Plaister’ Academy, housed from 1780 in a purpose-built room in Somerset House.2 The same wall, with a similar arrangement of casts, appears in the evocative candlelight view of the room by an anonymous British artist (see p. 60, fig. 105). The young students are busy at work, copying from casts of the Belvedere Torso (p. 26, fig. 23), the Apollo Belvedere (p. 26, fig. 18) and the Borghese Gladiator (p. 41, fig. 54), models of different ideal types of beauty, masculinity and anatomy, repeatedly praised by Sir Joshua Reynolds in his third Discourse of 1770. It is likely that the three moveable casts were often set side by side by the Keepers to reflect Reynolds’ conception of ideal beauty and of the ‘highest perfection of the human figure’, which ‘partakes equally of the activity of the Gladiator, of the delicacy of the Apollo, and of the muscular strength of the Hercules’, as expressed in his third Discourse.3 On the wall behind the casts, are two cupboards possibly containing students’ drawings, which support smaller casts and busts. Whilst the Antique Academy was a serious, professional space, it was naturally the focus of humour from the students, who ranged in ages from fourteen to thirty-four. Several other caricatures exist testifying to the lighter side of academic life, including an earlier study by Thomas Rowlandson (1756–1827) showing a bench of students at work in the Life Academy in 1776 and including mocking depictions of Rowlandson’s fellow students (fig. 1).4 In terms of its public image the cast collection was an important symbol of the Academy’s prestige but this view does not seem to have been shared by some of the students, many of whom must have considered the long hours spent copying after the Antique as a constraining and repetitive exercise. Joseph Wilton was a crucial figure within the acad- emy in promoting a rigid curriculum based on the classical ideal. He never abandoned his firm belief in the didactic value of plaster casts, established while he was director of the Duke of Richmond’s Gallery in the late 1750s.5 His strict teaching methods must have generated discontent and considerable derision, brilliantly visualised in a satirical print by Isaac Cruikshank (1756–1811) (fig. 2) which shows Wilton – trans- formed into Bottom with the head of an ass – inspecting the drawing of an irritated student in the Antique Academy.6 Wilton’s exacting standards, as the lines below the cartoon make clear, would prevent him from seeing the genius of a modern day Raphael and it is clear that some students of the Academy saw him as a ‘formal old fool’. Unlike the Life Academy, where the Visitor presided, setting the model and frequently drawing from it himself, the Antique Academy was presided over by the Keeper of the Schools. Each week the Keeper would set out specific casts and direct and comment on the students’ work. According to Fig. 1. Thomas Rowlandson, A Bench of Artists, 1776, pen and grey and black ink over pencil, 272 × 548 mm, Tate Gallery, London, inv. T08142  196 197  Fig. 2. Isaac Cruikshank, Bless The Bottom, bless Thee-Thou art translated – Shakespere, 1794, hand-coloured etching, 295 × 212 mm, G. J. Saville the rules, students did not choose which casts to draw and they were not allowed to move them without permission.7 But depictions of the Antique Academy suggest that the situation was probably more flexible and may have allowed for individually tailored study. Several anecdotes point to the unruly life of the Academy and its students, who were allowed to choose their own seats, with utter chaos resulting. Joseph Farington (1747–1821) noted in 1794, that they behaved like ‘a mob’: Hamilton says the life Academy requires regulation: but the Plaister Academy much more. The Students act like a mob, in endeavouring to get places. The figures also are not turned so as to present different views to the 8 The reason for the commotion was that once a student had a seat, he was expected to retain it for the week. The atmos- phere seems to have been generally boisterous and there are numerous reports in the Council Minutes of the Academy of misbehaviour, high spirits and students throwing at each. It would be productive of much good to the Students to deprive them of the use of bread; as they would be induced to pay more attention to their outlines; and would learn to draw more correct, when they had not the perpetual resource of rubbing out.11 aa&jy For the traditional attribution of the sitter see the entry on the collection online database of the British Museum. The identification of the sitter with Joseph Wilton has been proposed already by Andrew Wilton in London 1969, no. 1. For a list of Keepers of the Royal Academy see Hutchison 1986, pp. 266–67. Both Carlini and Wilton presented similar physical character- istics as the man in the drawing. For a list of their likenesses see respectively Trusted 2006 and Coutu 2008. See Baretti [1781], pp. 18–30. See Reynolds 1997, p. 47. London 1997, pp. 170–71, no. 67. See Coutu 2000; Kenworthy-Browne 2009. George 1870–1954, vol. 7 (1793–1800), p. 118, no. 8519. See ‘Rules of the Antique Academy’: Royal Academy of Arts PC/1/1, Council Minutes, vol. 1, pp. 4–6, 27 Dec. 1768, quoted in Hutchison 1986, p. 31. Farington 1978–98, vol. 1, p. 281. Pressly 1984, p. 87. Farington 1978–98, vol. 2, pp. 461–62. Ibid., vol. 2, p. 462. These two drawings by Turner epitomise the two principal stages of education provided by the Royal Academy Schools during the late 18th century: the Antique, or Plaister, Academy and the Life Academy. Turner enrolled as a student in the Schools in December 1789 as a boy of fourteen, spent more than two years in the Antique Academy, and then progressed to the Life Academy in June 1792, presumably after presenting a drawing for inspection by the Visitor.1 Although there is no record of the drawing Turner submitted, it may well have been this finished study of the Belvedere Torso (see p. 26, fig. 23) a sculpture of enduring popu- larity among artists as demonstrated by Goltzius’ drawing made almost exactly two hundred years earlier (cat. 8). Turner copied the same cast of the Torso shown in the satiri- cal view of the Academy (cat. 26). He is recorded as having visited the Antique Academy on 137 separate occasions during his studentship but only some twenty of his drawings after the Antique survive (figs 1–4) – many from the casts seen in Burney’s drawing (cat. 25) – and none as highly ren- dered as the present study.2 Turner’s signature at the lower right also suggests it was esteemed by the artist himself and prepared for some formal purpose. Whilst the surviving Academy Council Minutes do not record in detail the process of progression from the Antique Academy to the Life Academy, contemporary accounts offer some insight. Turner’s contemporary, Stephen Rigaud noted: I was admitted as a Student in the Life Academy by Mr Wilton the Keeper, and Mr Opie, the Visitor for the time being, on the presentation of a drawing from the Antique group of the Boxers, in which I had copied the strong effect of light and shade in the whole group coming out by strong lights on one side, and reflected lights on the other, with which Mr Opie expressed himself much pleased.3 The study of the Torso has all the characteristics of a presenta- tion drawing. It is on better, more regularly cut paper than Turner’s other drawings after the Antique and the figure is highly worked and boldly modelled with hatching and cross- hatching in chalk to convey the ‘strong effects of light and shade’ mentioned by Rigaud. This is in keeping with the established tradition of copying casts by candlelight to enhance contrast, so that the students could learn how to render planes and anatomical details. Unlike Goltzius’ Torso, being copied in daylight after the original in the Belvedere Courtyard in Rome, Turner’s cast is strongly lit from above by an oil lamp and set against a neutral screen to provide a uniform background – as clearly visible in the view of the Antique Academy (p. 60, fig. 105). Furthermore, this is the only drawing from the Antique where Turner employed trois crayons, adding red to black and white chalk, a technique he usually reserved for studies from life. Might it be that Turner was attempting to turn marble into flesh, the practice 198 199 students. other the lumps of bread they were given to erase their draw- ings. Stephen Francis Rigaud (1777–1862), son of the Royal Academician, John Francis Rigaud (1742–1810) and a student in the early 1790s, wrote that the Schools were also the forum for political agitation: The peaceable students in the Antique Academy being continually interrupted in their studies by others of an opposite character, who used to stand up and spout forth torrents of indecent abuse against the King [. . .] One evening [. . .] I rose and protested that if they continued to use such abominable language in a Royal Academy I would denounce every one of them to the Council and procure their expulsion [. . .] this threat checked them a little; but they shewed their spite by pelting me well with [. . .] pieces of bread.9 This incident reached the ears of the Academy Council from which the Keeper was excluded. Wilton told Joseph Farington in 1795: The Students in the Plaister Academy continue to behave very rudely; and that they have a practise of throwing the bread, allowed them by the Academy for rubbing out, at each other, so as to waste so much that the Bill for bread sometimes amounts to Sixteen Shillings a week.10 The Council took the decision to stop the allowance of bread altogether, as the President, Benjamin West, noted: 27. Joseph Mallord William Turner (London 1775–1851 London) a. Study of a Plaster Cast of the Belvedere Torso c. 1792 Black, red and white chalk, on brown paper, 331 × 235 mm Signed recto, l.r., in pen and black ink: ‘Wm Turner.’ literature: Postle 1997, pp. 91–93, repr.; Owens 2013, pp. 102–03, pl. 76. exhibitions: Nottingham and London 1991, p. 51, no. 18 (M. Postle); Munich and Rome 1998–99, p. 49, fig. 50, p. 164, no. 62 (M. Ewel and I. von zur Mühlen); Munich and Cologne 2002, p. 414, no. 192 (J. Rees); London 2011 (no catalogue). Victoria and Albert Museum, Prints & Drawings Study Room, London, 9261 b. The Wrestlers c. 1793 Black, red and white chalks, on brown paper, 504 x 384 mm Signed recto, l.r., in pen and black ink: ‘Wm Turner.’ literature: Wilton 2007, p. 16, repr. exhibitions: Not previously exhibited. Victoria and Albert Museum, Prints & Drawings Study Room, London, 9262 provenance: Both drawings purchased by the Museum in 1884 from R. Jackson with four other academic drawings by different artists (Victoria and Albert Museum Register of Drawings 1880–1884, pp. 171, 174).    200 201  prescribed by Rubens (see Appendix, no. 8), something he may have thought would demonstrate that he was ready to progress to the Life Academy? The Torso would have been a clever choice for a presentation drawing, since the antique fragment held a position of great prominence in the mission and the iconography of the Royal Academy. According to Reynolds the Torso was the greatest exemplar of classical art. ‘What artist’, he asked in his 10th Discourse of 1780, ‘ever looked at the Torso without feeling a warmth of enthusiasm, as from the highest efforts of poetry?’ For him only ‘a MIND elevated to the contemplation of excel- lence perceives in this defaced and shattered fragment [...] the traces of superlative genius, the reliques of a work on which succeeding ages can only gaze with inadequate admi- ration’ (see Appendix, no. 17).4 The muscular figure featured prominently under the words ‘STUDY’ on the obverse of several medals annually distributed as premiums to the students and in Angelica Kauffman’s Design for the ceiling of the Council Chamber, which served also as a second room of the Antique Academy (see p. 60, fig. 107).5 In Turner’s time as a student, the Academy possessed two casts of the Torso, one of which we know was presented by the dealer Colin Morrison in 1770, and significantly Turner himself donated a further cast in 1842.6 The second drawing exhibited here was made from posed models in the Life Academy. The model would be set by the Visitors and Turner studied under a number of them, including Henry Fuseli, James Barry and Thomas Stothard (1755–1834). This drawing possibly dates from 1793 and may represent an unusually elaborate pose set by the sculptor John Bacon (1740–99). Stephen Francis Rigaud, who entered the Life Academy a year after Turner, noted: I remember Mr Bacon once setting a well composed group of two men, one in the act of slaying the other; or a representation of the history of Cain and Abel, which was continued for double the time allowed for a single figure, and which gave general satisfaction to the students.7 This precisely accords with the present group, which shows specific models engaged in combat. Although designed to represent a biblical subject, the pose of the two figures was reminiscent of antique groups, especially the Wrestlers (see p. 30, fig. 33) which had already served as inspiration for posing the live models in the Italian and French academies – as seen for instance in Natoire’s imaginary view of the Académie Royale (cat. 16). Turner continued to attend the Schools throughout the 1790s until he was awarded Associateship of the Academy in 1799; he would continue to visit the Life Academy intermit- tently for the rest of his life.8 He was made inspector of the cast collection of the Royal Academy in 1820, 1829 and 1838 and served as Visitor in the Life Academy for a total of eight years between 1812 and 1838.9 In the latter role he became famous for setting the live model in postures reminiscent of classical sculpture, clearly recalling what he had learned during his time as a student. Lauding this practice and lamenting its decline, the artists and essayists Richard (1804–   Fig. 1. Joseph Mallord William Turner, Study of a Plaster Cast of the Apollo Belvedere, c. 1791, black and white chalks on brown laid wrapping paper, 419 × 269 mm, Tate Gallery, London, inv. D00057 (Turner Bequest V D) Fig. 2. Joseph Mallord William Turner, Study of a Plaster Casts of Marquess of Shelbourne’s Cincinnatus, c. 1791, pencil with black and white chalks and stump on laid buf paper, 425 × 267 mm, Tate Gallery, London, inv. D00055 (Turner Bequest V B) Fig. 4. Joseph Mallord William Turner, Study of a Plaster Cast of a Helmeted Head from the Trajan Column, with Other Studies, c. 1791, black, red and white chalks and stump on dark buf paper, 337 × 269 mm, Tate Gallery, London, inv. D40220 (Turner Bequest V R, verso) 88) and Samuel (1802–76) Redgrave noted: When a visitor in the life school he introduced a capital practice, which it is to be regretted has not been contin- ued: he chose for study a model as nearly as possible corresponding in form and character with some fine antique figure, which he placed by the side of the model posed in the same action; thus, the Discobulus (sic) of Myron contrasted with one of our best trained soldier; the Lizard Killer with a youth in the roundest beauty of adoles- cence; the Venus de’ Medici beside a female in the first period of youthful womanhood. The idea was original and very instructive: it showed at once how much the antique sculptors had refined nature; which, if in parts more beautiful than the selected form which is called ideal, as a whole looked common and vulgar by its side.10 aa & jy For Turner’s attendance at the Academy see Hutchison 1960–62, p. 130. Finberg 1909, vol. 1, pp. 6–8. See also Wilton 2012. Pressly 1984, p. 90. Reynolds 1997, pp. 177–78. On the medals see Hutchison 1986, p. 34; Baretti [1781], p. 28; see also London, Royal Academy of Arts, PC/1/1, Council minutes, vol. 1, p. 24, 20 May 1769. For the Council Chamber see Baretti [1781], pp. 25–26. On the two copies of the Torso in the Royal Academy see Baretti [1781], pp. 9, 28. On Colin Morrison’s donation of a cast of the Torso, together with ‘Cast of a Bust of Alexander’ in 1770 see London, Royal Academy of Arts, PC/1/1, Council minutes, vol. 1, p. 70, 17 March 1770; on Turner’s donation see Gage 1987, p. 33. Pressly 1984, p. 90. Hutchison 1960–62, p. 130. See Gage 1987, pp. 32–33. Redgrave and Redgrave 1890, p. 234, quoted in Gage 1987, p. 33.   202 203 Fig. 3. Joseph Mallord William Turner, Study of a Plaster Casts of the Borghese Gladiator, c. 1791–92, black and some white chalk on buf wove paper, 580 × 457 mm, Tate Gallery, London, inv. D00071 (Turner Bequest V S) 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10  28. William Chambers ( fl.1794) The Townley Marbles in the Dining Room of 7 Park Street, Westminster 1795 Pen and grey ink with watercolour and touches of gouache, indication in graphite, heightened with gum Arabic, 390 × 540 mm provenance: Charles Townley (1737–1805); by descent to Lord O’Hagan (b. 1945); Sotheby’s, London, 22 July 1985, lot 559; Frederick R. Koch; Sotheby’s, London, 12 April 1995, lot 90, from whom acquired by the British Museum. literature: Cook 1977, pp. 8–9, fig.1; Cook 1985, pp. 44–45, fig. 41; Walker 1986, pp. 320–22, pl. A; Cruickshank 1992, pp. 60–61, fig. 5; Morley 1993, pp. 228, 285, pl. LVII; Webster 2011, p. 425, fig. 321. exhibitions: Essen 1992, pp. 432–36, no. 360a (C. Fox and I. Jenkins); London 1995 (no catalogue); London and Rome 1996–97, pp. 258–60, no. 214 (I. Jenkins); London 2000, pp. 229–30, no. 167; London 2001, p. 42, no. 72; London 2003b, p. 143, fig. 117.  The British Museum, Department of Prints and Drawings, London, 1995,0506.8 Charles Townley (1737–1805) was the most influential collec- tor of antique sculpture in Britain during the second half of the 18th century.1 From 1777 Townley’s considerable collection was arranged in his London residence, 7 Park Street (now 14 Queen Anne’s Gate), a proto-house-museum praised both for the strength of its collections and their display. It was to become one of the principal tourist sites in London. Writing about the house, James Dallaway claimed that ‘the interior of a Roman villa might be inspected in our own metropolis’.2 Park Street was also a centre of antiquari- anism and Townley – particularly after 1798, when wars with France curtailed travel to the Continent – was a hugely Fig. 1. Johann Zofany, Charles Townley and Friends in His Library at Park Street, Westminster, 1781–90 and 1798, oil on canvas, 127 × 99.1 cm, Towneley Hall Art Gallery & Museum important figure in promoting the study and interpretation of classical sculpture in Britain initiating numerous publica- tions, including the Society of Dilettanti’s Specimens of Antient Sculpture (1809). Townley also formed a famous library and an immense archive of drawings – in effect a ‘paper museum’ – recording antiquities in both British and European collections. To complete this ‘paper museum’ and to prepare publications such as the Specimens, Townley employed numerous young artists to record his own collection. It is clear from the surviving portions of his diary and other records that 7 Park Street became, in effect, an alternative academy in London. Writing in 1829, the then Keeper of Prints and Drawings at the British Museum, J. T. Smith, published a description of 7 Park Street and its contents, observing: I shall now endeavour to anticipate the wish of the reader, by giving a brief description of those rooms of Mr Townlye’s house, in which that gentleman’s liberality employed me when a boy, with many other students in the Royal Academy, to make drawings for his portfolios.3 Townley’s surviving drawings, housed, along with his sculp- ture collection, in the British Museum, testify to the range of artists he employed and demonstrate the popularity of Park Street as a venue for artists both to meet and to draw. Records show that William Chambers – not to be confused with the architect of the same name – was one of the draughtsmen employed by Townley to prepare drawings for his ‘portfo- lios’. A payment of £5.5.0 to Chambers is recorded on 21 October 1795 for the pendant to this drawing, a view of sculp- ture in the hall at 7 Park Street, also in the British Museum.4 Townley’s diary records the comings and goings of painters, particularly his friend, Johann Zoffany (1733–1810) who painted the iconic, largely imaginary view of Townley’s library filled with his sculpture collection and with the owner in conversation with his unofficial curator, the Baron d’Hancarville, and two other friends (fig. 1).5  204 205  The dining room was one of the principal public spaces of the house and contained some of the largest sculptures in the collection. These included the Townley Venus, the Discobolus (fig. 2), the Townley Caryatid, the Townley Vase, and the Drunken Faun, which Chambers places in the foreground. The modish decoration reflected both advanced neo-classical thinking and Townley’s own passions; the walls were articulated by simulated porphyry columns surmounted by capitals whose design came from Terracina; as d’Hancarville explained: ‘the ove is covered with three masks representing the three kinds of ancient drama, the comic, tragic and satyric [...] the choice and disposition of these ornaments leave no doubt that this capital was intended to characterise a building con- secrated to Bacchus and Ceres’.6 Visitors are shown admiring the collection while a woman seated in the foreground is drawing from the Drunken Faun. A drawing attributed to Chambers of the same sculpture, taken from the same angle, made for Townely’s portfolios, is also in the British Museum (fig. 3). Townley’s wide circle of acquaintances included a number of amateur and professional female artists, includ- ing Maria Cosway (1760–1838), whom Townley first met in Florence in 1774. His interest in encouraging young artists led to the publication by Conrad Metz of a drawing manual based on studies of the sculpture in Park Street: Studies for Drawing, chiefly from the Antique. 30 plates (1785). Townley’s support of artists resulted in his taking an active role in the Royal Academy of Arts from its foundation. He donated casts of his own sculpture and solicited dona- tions from friends. The Academy’s Council Minutes record his first donation in August 1769 of a ‘cast of the Lacedemonian Boy’ the so-called Knucklebone Players which appears in Edward Burney’s view of the RA’s Antique Academy on the far left, behind the Cincinnatus (cat. 25).7 One of the artists who appears regularly in Townley’s diary was the sculptor Joseph Nollekens (1737–1823) who is recorded donating to the Academy a ‘cast in plaister of the head of Diomede’ belonging to Townley in 1792.8 Townley also donated casts of sculptures in other collections, among them, in 1794 one ‘of the celebrated Bas relief in the Capitol, of Perseus & Andromeda’, a cast still in the collection of the Academy.9 Townley’s solicitude for the Royal Academy and the educa- tion of young artists continued throughout his life; in 1797 the painter and diarist Joseph Farington noted: ‘Townley [...] thinks the Academy should have additional rooms for Statues &c’.10 29. Joseph Michael Gandy (London 1771–1843 Plympton) View of the Dome Area by Lamplight looking South-East 1811 Pen and black ink, watercolour, 1190 × 880 mm selected literature: Lukacher 2006, pp. 132–33, fig.150 exhibitions: London 1999a, p. 160, no. 68 (H. Dorey); Munich 2013–14, p. 43; London 2014, (unpaginated). Sir John Soane’s Museum, London, For Townley see particularly Coltman 2009. Dallaway 1816, pp. 319, 328. Smith 1829, vol. 1, p. 251. In February that year he had also paid Chambers £2.2.0. for some unspeci- fied drawings, and in August £1.1.0. for ‘drawing gems’: see London 2000, p. 229. Townley’s diary records Chambers returned in May 1798 when he began to make a record of an altar of Lucius Verus Helius which Townley had recently acquired from the Duke of St Albans; he finished the study on Sunday 7 July: London, British Museum, Townley Archive, TY/1/10. For William Chambers’ pendant to this drawing see London 2001, p. 42, no. 71 (with previous bibliography). Webster 2011, pp. 419–43. London and Rome 1996–97, pp. 258–60. London, Royal Academy of Arts, PC/1/1, Council minutes, vol. 1, p. 38, 9 Aug. 1769. It arrived with a cast of a Venus donated by Townley’s principal antiquities dealer in Rome, Thomas Jenkins. The original Knucklebone Players is in the British Museum, Department of Greek & Roman Antiquities, inv. 1805,0703.7. London, Royal Academy of Arts, PC/1/2, Council minutes, vol. 2, pp. 173–4, 3 Nov. 1792. The original marble bust is in the British Museum, Department of Greek & Roman Antiquities, inv. 1805,0703.86, now called the Head of a follower of Ulysses. London, Royal Academy of Arts, PC/1/2, Council minutes, vol. 2, p. 201, 7 Feb. 1794. The cast is in the Royal Academy, inv. 03/2018. The original is in the Capitoline Museums, Rome, inv. 501: see Helbig 1963–72, vol. 2, pp. 156–57, no. 1330. Farington 1978-98, vol. 3, p. 840. Fig. 2. The Townley Discobolus, Roman copy of the 2nd century ad after a Greek original of the 5th century bc by Myron, marble, 170 cm (h), British Museum, Department of Greek & Roman Antiquities, London, inv. 1805,0703.43 Fig. 3 Attributed to William Chambers, Drawing of a Statue of an Intoxicated Satyr, 1794–1805, black chalk and grey wash, 280 × 193 mm, British Museum, Department of Greek & Roman Antiquities, London, inv. 2010,5006.87 The Royal Academy School of Architecture was central to the formation of the professional career and teaching of Sir John Soane (1754–1837), who is chiefly remembered today as architect to the Bank of England, of Dulwich Picture Gallery and of his incomparable house-museum at No. 13 Lincoln’s Inn Fields, London. The unique installations of antiquities and casts after the Antique in the Museum, which he built at the back of the house, and which J. M. Gandy so atmospherically evokes in this drawing, also attest to the influence of the Academy on Soane’s pattern of collecting and his own role as a teacher. Soane entered the Academy in 1771 at the age of eighteen; he was the 141st pupil since the Academy’s foundation in 1768 and amongst the first students of the School of Architecture, the earliest institution in Britain to teach architecture in a formalised way. The School was modelled by Sir William Chambers (1723–96) on his own experience of studying architecture in Jean-François Blondel’s École des Arts in Paris, in 1749–50, when the status of the architect and teaching methods in Britain were then very different from those in France. The Académie Royale d’Architecture, of which Chambers became a member in 1762, had been founded in 1671 and was followed, in 1743, by Blondel’s more progressive École. The École’s curriculum was rigorous; it was open for study from Monday to Saturday and from eight in the morning until nine in the evening. The students’ day began with formal discussion of various topics, followed by lectures on set matters relating to drawing such as mathe- matics, geometry, perspective, or to building types such as military architecture, or to practical issues such as drainage and water supply. In the spring, students would undertake site visits to notable buildings in Paris and its environs.1 In Britain, by contrast, the professional status of architect was ill-defined, and was not always distinguished from that of the builder or mason. The ambiguous status of architecture was not entirely clarified by the time Soane entered the architecture school. It was the smallest of the departments at the Royal Academy and Soane was one of only nine pupils admitted in 1771. And although inspired by Blondel’s École, the programme of the architecture school was nothing like so rigourous. Students of architecture were required to attend only six lectures per year.2 The reason for this very limited formal teaching was that most students were attached to a professional archi- tect’s office during the day; when Soane enrolled at the Royal Academy he was working for George Dance the Younger (1741–1825).3 Nor were the teaching collections available to students at all extensive. The collections of plaster casts after the Antique (and antiquities) were dominated by the requirements of painters and sculptors; in the 1810 inventory of 385 casts, only nineteen can be identified as being architec- tural.4 It is against this backdrop that we must understand Soane’s own founding of an ‘academy of architecture’ in his house-museum. The history of Soane’s collections of casts and the manner in which they were installed, deinstalled and reinstalled over a period of time and over three different properties belonging to Soane (two at Lincoln’s Inn Fields and one in Ealing, London) is not straightforward. From the 1790s, Soane started collecting and displaying casts for the use of the young pupils and assistants working in his first office in No. 12 Lincoln’s Inn Fields.5 However, as his collection grew and as his career as an architect developed, the function of the collection of antiquities and of casts after the Antique changed. Gandy’s drawing shows the Dome Area of Soane’s Museum as it appeared in 1811 (a year after the 1810 Royal Academy inventory of casts was com- piled).6 In this view, atmospherically lit from below by an undisclosed light source, we can readily identify a number of casts of antique sculpture and of architectural fragments. The largest casts are the Corinthian capital shown on the south wall, and a fragment of entablature, shown on the east wall, both taken from the Temple of Castor and Pollux in Rome, which Soane had purchased in 1801 from the sale of the architect Willey ‘the Athenian’ Reveley.7 Below the capital, and forming part of the parapet of the Dome we see a cast of one of the panels, decorated with a festoon, from the portico of the Pantheon, purchased from the sale of the architect James Playfair.8 Sculpture is also represented in the casts, and a number of well-known antiquities can be   206 207  described. Just visible through the arch in the lower right- hand corner, is an arrangement of four casts taken from the base of one of the so-called Barberini Candelabra, among the most prized antiquities in the Museo Pio-Clementino, Rome, which shows the gods Minerva, Jupiter (twice), and Mercury in low relief.9 On the east wall, below the entablature of the Temple of Castor and Pollux, is a cast of a relief of two of the ‘Corybantes’, taken from the marble original in the Vatican Museums and also purchased from the Playfair sale.10 Although Soane would rearrange these casts and antiquities as his ‘Museum’ expanded, most are still to be found at No. 13 Lincoln’s Inn Fields and the general impression of a dense, ‘romantic’ arrangement remains. If, originally, Soane’s collection of casts and antiquities was intended to provide exemplars for the architects training and working in his office, by the time Gandy drew the arrangements as they appeared in 1811 a shift in their purpose had occurred. In 1806, Soane became Professor of Architecture at the Royal Academy and, as a former student, he was well aware of the relatively meagre resources allocated to the School. He comments on this in his 6th lecture, given to his students at the RA.11 The arrangement of casts shown by Gandy was installed between 1806 and 1809, when Soane was preparing his Royal Academy lectures, of which he gave the first in 1809.12 It has been argued that they are a three-dimensional analogue of the lectures and their drawn illustrations.13 Indeed, Soane saw the casts as being central to his teaching: ... I propose in future that the various drawings and models, shall, on the day before, and if necessary, the day after the public reading of each lecture, be open at my house for the inspection of the students in architecture, where at the same time, they will likewise have an oppor- tunity of consulting the plaster casts and architectural fragments.14 Shortly after Gandy completed this view of the Dome Area, the European Magazine and London Review described Soane’s house-museum as an ‘... Academy of Architecture’.15 At the same time as he was responding to the lack of architectural casts and fragments in the collections of the Royal Academy, Soane’s ‘academy’ should also be seen as Soane’s reflection on the ways in which he himself had come to experience Roman architecture. Unlike the Royal Academy lectures, which Soane arranged programmatically, the ‘Piranesian’ displays of antiquities, casts and architectural 16 to recreate the experience of visiting Rome and to recall the excitement of viewing there the disorganised remains of antiquity.17 However, another reason why Soane rejected a rational academic approach to the arrangements of antiquities in his house-museum might lie in the way that Soane used the collections to form his own identity as an architect. In our drawing Gandy includes a portrait of Soane who is illuminated from the same undisclosed light source as his casts, gesturing in, by 1811, the slightly archaic manner of an interlocutor. He is at once teacher, architect and collector.18 The arrangements of casts and antiquities are not just for the use of his students and pupils but also, as he put it, ‘... studies for my own mind’.19 They reflect one individual’s view of art and architecture through the idiosyncratic juxtapositions that he created. However, there is yet another level of self-identification in Soane’s collection and display of antiquities and architec- tural fragments. In Gandy’s drawing, far above Soane on a shelf, can be seen a row of Roman antique cineraria and cinerary vases. That at the far left, decorated with Ammon masks, came from the ‘Museum’ of the great Italian architect and etcher, Piranesi, as did the cinerary vase decorated with griffins seen on top of the cinerarium in the middle, and the cinerarium decorated with genii on the far right. Though it is not seen in this view, in 1811, a full-size cast of the Apollo Belvedere would join the collections of the ‘academy’. Dating to 1717, it had formerly been owned by Lord Burlington and displayed in his villa at Chiswick. In 1818, further antiquities – this time from the sale of the effects of Robert and James Adam – would enhance the installations. The names of these prominent antiquaries and architects are significant: they create an intellectual genealogy for Soane, who was born the son of a bricklayer. Sir John Soane’s Museum is a very rare survival of an early 19th-century private ‘academy’ in which his collections of casts and of antiquities can be experienced much in the same manner as his own pupils and his Royal Academy students experienced them. It also demonstrates how Soane drew upon the Antique to create his intellectual persona.  fragments are set out idiosyncratically and imaginatively. Why did Soane reject a more conventional arrangement of casts and antiquities in his ‘academy’? Perhaps he wished 208 1 2 3 4 j k-b See Bingham 1993, p.5. ‘In regard to the students in architecture, it is exacted from them only that they attend the library and lectures, more particularly those on Architecture and Perspective...’. Reprinted, La Ruffinière du Prey 1977, p. 47. Soane subsequently entered the office of Henry Holland in 1772. Bingham 1993, p. 7. The lack of collections of casts or of architectural fragments in public collections in Britain, until Sir John Soane formed his collection, was also commented upon by John Britton in the preface to his 1827 ‘guide’ to Soane’s house-museum, Britton 1827, p.viii. 209  5 Soane had originally started collecting and displaying casts for the use of the architects working in his first office in No.12 Lincoln’s Inn Fields in the 1790s. He also hoped to inspire his eldest son – John Soane Junior – to become an architect and arranged antiquities and casts at his country villa, Pitzhanger Manor in Ealing, acquired in 1800 and rebuilt by Soane, to act as an ‘academy’ for John. For a full description of Soane’s acquisition and installation of casts in his house-museum and his use of them see: Dorey 2010. 6 This part of the house was in fact behind No. 13 Lincoln’s Inn Fields. 7 Reveley had collected these casts in Italy and Soane purchased every cast from this sale. Dorey 2010, p. 600. 8 Dorey 2010, p.600. 9 These were found in the remains of Hadrian’s Villa at Tivoli in 1730 and were heavily restored by Bartolomeo Cavaceppi. The British antiquary Thomas Jenkins acted as agent for the Pope when negotiating their acquisition. 10 This had been found in 1788 near Palestrina. The subject of the relief is also sometimes identified as the Pyrrhic Dance. 11 ‘...I have often lamented that in the Royal Academy the students in architecture have only a few imperfect casts from ancient remains, and a very limited collection of works on architecture to refer to.’ Reprinted in Watkin 1996, p. 579. 12 As Soane explained in his 6th Royal Academy lecture: ‘On my appoint- ment to the Professorship I began to arrange the books, casts, and models, 13 14 15 16 17 18 19 in order that the students might have the benefit of easy access to them.’ Reprinted in Watkin 1996, p. 579. See: Dorey 2010, p. 606. Watkin 1996, p.579. Observations 1812, p. 382. In fact, Soane does seem to have entertained the idea of creating a more ‘rational’ Museum where casts, antiquities and fragments would be arranged according to academic taxonomies. A drawing by George Bailey, also dating to 1811 and showing the Dome Area (SM 14/6/3), includes a plan relating to a scheme of c. 1809–11 whereby both Nos 12 and 13 Lincoln’s Inn Fields would be used by Soane. In this proposed scheme, the whole of No. 13 would become the Museum with the collections displayed according to type. As Soane explained in a rejected draft of his sixth Royal Academy lecture, No. 13 would incorporate: ‘... a gallery exceeding one hundred feet in length for the reception of architectural drawings and prints, another room of the same extent over it, to receive models and parts of buildings ancient and modern’. Reprinted in Watkin 1996, p. 356. Soane even used plain yellow glass in the skylights that illuminated the Dome Area, perhaps to evoke the light of the Mediterranean world rather than that of London. Soane explores the use of architecture as a type of ‘self-portrait’ in notes he made when preparing his Royal Academy lectures. See: Soane. J., Extracts, Hints, Etc. for Lectures, 1813–18, SM Soane Case 170, f.135. Soane, Gijsbertus Johannus Van den Berg (Rotterdam 1769–1817 Rotterdam) The Drawing Lesson c. 1790s Black and red chalk, 483 × 375 mm. Framing lines in black chalk. Signed recto l.r. in black chalk: GVD Berg. fecit provenance: Paris, Drouot, 26 March 1924, part of lot 55, La Leçon de Dessin (sold as a pair with another drawing, La Marchande de frivolités); Private collection, France; Private collection, England; Florian Härb, London, from whom acquired. literature:None. exhibitions: Not previously exhibited. Katrin Bellinger collection, inv. no. 2011-013 Born in Rotterdam, Van den Berg was a pupil of Johannes Zaccarias Simon Prey (1749–1822), a leading portrait and decorative painter in that city.1 In the 1780s, he studied for three years in Antwerp where he received special recogni- tion for his drawings after live models and casts; he also resided for a time in Düsseldorf and Mannheim.2 In 1790, he returned to Rotterdam where he established himself as a portrait painter and miniaturist. The same year he was appointed ‘Corrector’, a judge and arranger of poses for live models, of the Rotterdam Drawings Society, whose motto was Hierdoor tot Hooger (‘From Hereby to Higher’).3 For the remainder of his career, he devoted himself to teaching. His pupils included his son, Jacobus-Everardus-Josephus (1802–61), who also became a professional painter and from 1844, director of the Teeken-Akademie in the Hague.4 One of Van den Berg’s biographers makes special mention of the finished portrait studies in black and red chalk that he made after his return to Rotterdam; the present drawing is certainly one of them.5 Berg preferred studying female models, usually posing two together: here, two elegantly dressed women in a panelled interior focus their attention on an idealised head, probably a variant of the head of an antique Venus.6 The seated draughtswoman holds up her chalk-filled porte-crayon above an angled drawing-board, intently appraising her subject. She engages with it much in the same way as Hubert Robert did some thirty years earlier in his self-portrait with the Faustina bust (cat. 17). The second woman appears to be commenting on the work in progress. A portfolio leans against a table leg on the floor below. Comparably attired women – possibly the same ones – are shown reading a letter in a sheet by Van den Berg in a private collection.7 The present composition is similar in style and format to several other chalk studies by the artist of the 1790s. It is especially close to his drawing of a female artist seated at a table in the Rijksmuseum, Amsterdam (fig. 1). But instead of holding a porte-crayon, this young woman operates a zograscope, an optical device invented in the mid-18th century that included a magnifying lens to enhance an image’s depth and relief; the subject of her scrutiny remains out of view.8 Another comparable drawing, signed and dated 1791 (Royal Collection, Windsor Castle; fig. 2), shows an elderly man, perhaps a drawing instructor, inspecting a portrait study from a portfolio.9 He is seated at a table which is nearly identical to that in the Bellinger example, but Berg shows him in a less formal attitude, holding a long clay pipe and resting his feet on a portable stove, in a manner reminis- cent of Dutch 17th-century genre subjects. This drawing, plus a number of other figure drawings by Van den Berg preserved at Windsor, were probably obtained as a group by Fig. 1. Gijsbertus Johannus Van den Berg, Study of a Woman Seated at a Table, with an Optical Mirror, black and red chalk, 396 × 303 mm, Rijksmuseum, Amsterdam RP-T-1997-10  210 211     Fig. 2. Gijsbertus Johannus Van den Berg, A Connoisseur Examining Drawings, 1791, black and red chalk, 407 × 284 mm, Royal Collection, RL 12865 King George III around 1810.10 Most are probably studies after live models set in poses determined in advance in classes at the Rotterdam Drawings Society.11 Draped plaster casts were used when models were unavailable.12 As with the Bellinger drawing, their style, with their sensitive employment of black chalk and red accents for the skin, is strongly reminiscent of portrait drawings by the English artist Richard Cosway (1742–1821) and no doubt register the prevailing taste for English art in Rotterdam at the time.13 It is possible that Van den Berg intended his figure studies to be engraved, perhaps for a series on the art of drawing.14 Women artists did not begin to acquire the same privileges and educational advantages as men until the end of the 19th century; as a general rule they were denied membership of academies and were not permitted to draw after nude or anatomical models.15 They were largely confined to producing art in private studios and especially in aristocratic houses, where drawing tutors were sometimes hired to supplement the education of young women.16 For the most part, they were restricted to producing non-histor- ical, non-mythological and non-biblical subjects, such as portraits and still-lifes, as their exclusion from study of the live model and anatomy was thought to – and generally did Fig. 3. Georg Melchior Kraus, Corona Schröter Drawing a Cast of the ‘Eros of Centocelle’, 1785, watercolour, 380 × 315 mm, Klassik Stiftung Weimar, KHz/01632 – prevent them from acquiring full mastery of the human form.17 Instead, they studied sculptural models and espe- cially antique casts, often ones deemed thematically appro- priate for their gender, such as the ideal head featured in the Van den Berg drawing catalogued here. A comparable situa- tion is depicted in a watercolour close in date by Georg Melchior Kraus (1737–1806), then director of the Weimar drawing school, in which a beautiful and smartly dressed young lady, Corona Schröter, draws after a cast of the girlish son of Venus, the Eros of Centocelle (1785; Klassik Stiftung Weimar; fig. 3), a statue known through Roman copies – namely, the example discovered by Gavin Hamilton in 1772 in the outskirts of Rome and now in the Vatican – after a lost bronze original by Praxiteles.18 The tradition of women drawing from antique plaster casts in Holland, which began in the 17th century,19 was well advanced by the first quarter of the 18th century, evidenced in Pieter Van der Werff’s portrayal of a girl draw- ing after the Venus de’ Medici (1715; Rijksmuseum, Amsterdam; p. 40, fig. 53). Van den Berg’s drawing, and others like it, confirm that the practice developed further during the latter part of the century, and became still more widespread in the 19th. The importance of plaster casts in artistic training in 212 213  Holland at this time is indicated by the activities of the Rotterdam Drawing School, but also by Van den Berg’s own self-portrait of 1794, where a reduced model of the Dying Gladiator and others are given prominence of place on the shelf directly behind the artist (Museum Rotterdam).20 avl 1 For his life and work, see Van der Aa 1852–78, vol. 2, pp. 368–69; Thieme- Becker 1907–50, vol. 3, p. 387; Scheen 1981, p. 35. 2 Van der Aa 1852–78, vol. 2, pp. 368–69. 3 Ibid., vol. 2, p. 369; For the society and his involvement therein, see Amsterdam 1994, pp. 2–3 [unpaginated]. 4 Ibid. 5 Ibid.; Amsterdam 1994, p. 3 [unpaginated]. 6 Amsterdam 1994, p. 3 [unpaginated]; Berg also oversaw private classes where students drew after nude female models. 7 Ibid., pp. 3–4 [unpaginated], no. 9. 8 Bulletin van het Rijksmuseum, 45, no. 3, 1997, p. 239, fig. 9. For an in-depth study of this device, known in the 18th century as an ‘optical machine’, see Koenderink 2013, pp. 192–206. 9 Puyvelde 1944, p. 20, no. 81, pl. 142; Amsterdam 1994, p. 2 [unpaginated]. 10 Puyvelde 1944, pp. 20–21, nos. 75–83. See also on-line collections database: http://www.royalcollection.org.uk 11 For the society’s use of posed models, see Amsterdam 1994, p. 2 [unpagi- nated]. 12 On the role of casts, see Amsterdam 1994, p. 2 [unpaginated]. An intrigu- ing view of the society’s drawing room, on the upper floor of the Delftse Poort in Rotterdam, was published in Plomp 1982, pp. 11–12 (drawn by an anonymous artist, 1780, whereabouts unknown). Casts of the Laocoön, the Apollo Belvedere, and L’Ecorché (Figure of a Flayed Man), 1767 by Jean-Antoine Houdon (1741–1828) are clearly visible. For the latter, see Washington D.C., Los Angeles and elsewhere 2003–04, pp. 62–66, no. 1 (A. L. Poulet). It has also been suggested that the finished quality of Van den Berg’s drawings are reminiscent of engravings by George Morland (Amsterdam 1994, p. 3 [unpaginated]; Bulletin van het Rijksmuseum, 45, no. 3, 1997, p. 239). As proposed by Florian Härb, unpublished fact sheet on the Bellinger drawing, c. 2011. For essential reading on the subject of women artists from the Renaissance to the mid-20th century, see Los Angeles, Austin and elsewhere 1976–77 and especially the authors’ introductory essay, pp. 12–67. See also Goldstein 1996, pp. 61–66. A very small number of women artists managed to get elected to the French academy including Adélaïd Labille-Guiard (1749– 1803) and Elisabeth Vigée Lebrun (1755–1842) in 1783. But from 1663 to the dissolution of the Academy in 1793, only fourteen in total were accepted (Montfort 2005, pp. 3, 16, note 8). The French Salon in Paris was not open to non-Academy members until 1791, when women were permitted to exhibit their work. Goldstein 1996, pp. 62–64. See Los Angeles, Austin and elsewhere 1976–77, especially pp. 13–58; Goldstein 1996, pp. 62–63. Söderlind 1999, p. 23. For the statue, see Spinola 1996–2004, vol. 2, p. 61, fig. 11, p. 63, no. 85; Piva 2007, pp. 48–49, fig. 7. See for example, A Young Woman Seated Drawing, 1655–60, by Gabriel Metsu (1629–67) in the National Gallery, London (NG 5225; Waiboer 2012, pp. 205–06, A-62) and A Lady Drawing, c. 1665, by Eglon van der Neer (1635/36– 1703) in the Wallace Collection, London (inv. no. P243; Schavemaker 2010, p. 462, no. 29). Dordrecht 2012–13, no. 64A (F. Meijer). 31. Wybrand Hendriks (Amsterdam 1744–1831 Haarlem) The Haarlem Drawing College 1799 Oil on canvas, 63 × 81 cm Signed and dated lower left: ‘W. Hendriks Pinxit 1799’ provenance: Wybrand Hendriks (1744–1831); his sale, R.W.P. de Vries & C.F. Roos, Amsterdam, 27–29 February 1832, lot 30; private collection, Paris; Adolph Staring (1890–1980), Vorden; given to the Teylers Museum in 1987 by Mrs. J.H.M. Staring-de Mol van Otterloo. literature: Knoef 1938, repr.; Knoef 1947a, pp. 11–13; Staring 1956, p. 174, fig. LIV; Van Regteren Altena 1970, pp. 312, 316; Praz 1971, p. 37; Van Tuyll 1988, pp. 17–18, fig. 21; Haarlem 1990, pp. 35–36. exhibitions: Rotterdam 1946, p. 8, no. 13; London 1947, p. 4, no. 2; Amsterdam 1947–48, p. 8, no. 10; Haarlem 1972, pp. 25–26, no. 29, fig. 44; Munich and Haarlem 1986, pp. 96–97, no. 13. 214 215 Teylers Museum, Haarlem, KS 1987 002 exhibited in haarlem only In this painting we have been admitted to a gathering at the Haarlem Drawing College. In the 18th and early 19th century every self-respecting Dutch town had its own drawing ‘college’ or ‘academy’. It was where artists and wealthy amateurs met, drew together from the nude or draped model, and where they looked at drawings together during so-called art viewings or ‘kunstbeschouwingen’. In 1799, the year this picture was painted, the Haarlem Drawing College had twenty-six working (as opposed to honorary) members, and this is very probably a group portrait of them and their committee (leaving aside the boy playing marbles on the left, who may be the son of one of the members). The setting is a house that the Haarlem artists rented in Klein Heiligland. The question that immediately arises is: ‘who’s who?’ Although the label listing the sitters that was still with the painting at the sale of Hendriks’s estate in 1832 is no longer preserved, many of the figures can nevertheless be identified with a fair degree of certainty. The two in the middle are very probably the secretary, Jan Willem Berg who gestures to the viewer’s left, and the balding treasurer, Pieter S. Crommelin. On the far right, beneath the bas-relief on the wall, is Hendriks himself.1 The man in the left background, pointing at one of the plaster casts on the mantelpiece, has been recognised as Adriaan van der Willigen (1766–1841), author and art historian avant la lettre.2 Prominently displayed against the chimneybreast are various plaster casts. The large head of the famous Apollo Belvedere in the middle is the most eye-catching (see p. 26, fig. 18). To the right of it is the classical Callipygian Venus and to the left, the crouching Nymph Washing Her Foot after Adriaen de Vries (1556–1626).3 Of the two male casts seen frontally, that on the right is after the classical Farnese Hercules (see p. 30, fig. 32), while that on the left is probably after a Mercury by François Duquesnoy (1597–1643).4 Hanging on the wall above Hendriks’s head is Vulcan’s Forge, also after Adriaen de Vries, and in the corner on the left is the life-sized cast of another classical statue: the Venus de’ Medici (see p. 42, fig. 56).5 The casts displayed, therefore, reproduce as a whole or in part, statues from classical antiquity and from 16th- and 17th-century Netherlandish sculpture, which in turn reference the Antique. The casts depicted belonged to the Haarlem Drawing Academy, the forerunner of the College. Hendriks had bought them and the rest of the inventory in 1795 to help pay off the academy’s debts, and he donated everything to the Drawing College when it was founded the following year. The prime mover behind the gift was probably the Teylers Foundation, a Haarlem body that had been set up in 1778 to stimulate the arts and sciences. The foundation subsidised art education in Haarlem for decades, and Hendriks was the curator of its art collection, which was housed in the Teylers Museum.6 The fact that these plaster casts were transferred immediately to the Drawing College indicates how impor- tant they were for a society that promoted drawing, and this is confirmed by the prominence they are accorded in this group portrait. On the other hand, it should be appreciated that the supremacy of classical art and the rules of classicism, which in fact had never been applied very strictly in the Dutch Republic, were no longer so sacred in the Netherlands by 1800. Members of some drawing academies often argued that genres like landscape and scenes from everyday life in which nature was imitated literally and not idealised, should be valued as highly as history paintings, which were generally inspired by classical or neo-classical principles. The idea that Adriaan van der Willigen is the man point- ing at the casts is intriguing. He was a learned amateur and the best-versed person in the gathering when it came to the history of the arts. He was very well aware how much they owed to the example of ancient Greece and Rome. A few  years after this painting was executed he wrote an essay in the Verhandelingen uitgegeven door Teyler’s Tweede Genootschap (Discourses published by Teylers Second Society) discussing ‘the cause of the lack of superior history painters in the Netherlands, and the means suitable for their training’. He praised his countrymen for their colouring, chiaroscuro, fidelity to nature and brushwork, yet accused them of impre- cise drawing, inelegant compositions and bad taste. What, Van der Willigen asked, could be done to overcome these defects? To draw from the ‘purest casts in plaster of the finest classical statues, busts and bas-reliefs’! And he then gave a list of the well-known canon of classical sculpture, which included the Apollo Belvedere, the Laocoön, the Venus de’ Medici and the Belvedere Torso.7 In short, he was utterly convinced of the importance of classical sculpture and its formative nature. For him, it was clearly still of paramount importance. mp 1 2 3 4 5 6 7 For the various identifications see Haarlem 1972, p. 25 and Haarlem 1990, pp. 35–36. The Van der Willigen identification was made by A. Staring (1956, p. 174) and has been adopted by other authors (see above, note 1). According to Staring, some of the portraits were added later, when the composition had already been determined, including that of Van der Willigen, who was not yet living in Haarlem in 1799. Van der Willigen is best known today for writing a comprehensive collection of biographies of artists living in the Netherlands from 1750 onwards, together with Roeland van Eynden: Van Eynden and Van der Willigen 1816–40. For the Callipygian Venus see Haskell and Penny 1981, pp. 316–18, no. 83; Gasparri 2009–10, vol. 1, pp. 73–76, no. 31 and repr. on pp. 267–69. For the Nymph Washing Her Foot after Adriaen de Vries: Amsterdam, Stockholm and elsewhere 1998, pp. 131–33, no. 10. For Duquesnoy’s Mercury, of which there are several versions, some of them slightly different, see Boudon-Mauchel 2005, pp. 264–70. For the Farnese Hercules see Haskell and Penny 1981, pp. 229–32, no. 46; Gasparri 2009–10, vol. 3, pp. 17–20, no. 1, pp. 208–13. For the Venus de’ Medici see Haskell and Penny 1981, pp. 325–28, no. 88, and for De Vries’ Vulcan’s Forge see Amsterdam, Stockholm and elsewhere 1998, pp. 187–89, no. 27. The plaster casts stood in the top front room of the house in Klein Heiligland. For a description of the house and of Hendriks’ involvement with the casts, see Sliggers 1990, no. 26, pp. 16–17. Van der Willigen 1809, p. 282 (colouring etc.), p. 298 (plaster casts).  216 217  32. Woutherus Mol (Haarlem 1785–1857 Haarlem) The Young Draughtsman c. 1820 Oil on canvas 52.3 × 42.6 cm provenance: A. Pluym; his sale, R.W.P. de Vries, A. Brondgeest, C.F. Roos, Amsterdam, 24 November 1846, p. 7, no. 22; sold to Gerrit Jan Michaëlis (1775–1856) for the Teylers Foundation (f 400,-) literature: Van Eynden and Van der Willigen 1816–40, vol. 4, p. 244; Huebner 1942, p. 69, fig. 63; Knoef 1947b, pp. 8–10, repr.; Van Holthe tot Echten 1984, pp. 60–63, fig. 4; Jonkman 2010, p. 35; Geudeker 2010, p. 60, p. 78, fig. 74. exhibitions: Amsterdam 1822, no. 222; Moscow and Haarlem 2013–14, p. 50 (not numbered). Teylers Museum, Haarlem, KS 015 exhibited in haarlem only  A young draughtsman sitting by an open window is engrossed in his work. He seems to be copying the object leaning against the wall in front of him, but whether it is a drawing or a bas-relief is not entirely clear. The tree visible through the window and the building beyond it stand in a garden or by a narrow canal-side street. The colourful flowers in a vase on the windowsill bring a touch of that outside world indoors. The leaded windows, ceiling beams, whitewashed walls and above all the ornately carved cup- board show that this is an old Dutch interior. Standing on the cupboard are imposing plaster casts of famous classical statues: the Dancing Faun, the Venus de’ Medici (p. 42, fig. 56) Fig. 1. Woutherus Mol, Painter and Draughtsman in a Studio, c. 1820, oil on canvas, 43.5 × 37 cm, present whereabouts unknown and an unidentified statue of the Apollo Citharoedus type.1 It is difficult to make out whether the other objects also record classical prototypes: a bas-relief, a baby’s head, a couching lion and a vase with prominent handles. The interior is bathed in a serene calm, so much so that the song of the little bird in the cage high up on the wall is almost audible. One scholar recently put forward a fascinat- ing argument that the picture is a commentary on the Classicist view of art.2 If the tree and the bouquet of flowers are interpreted as ‘nature’, and the plaster casts as ‘classical antiquity’, then the young draughtsman is occupying a special position, mid-way between them. According to that view of art, nature had to be idealised with the aid of beautiful examples, and such examples were available in abundance in classical antiquity. Statues like the Venus de’ Medici, the Apollo Belvedere and the Dancing Faun had been for centuries part of the canon of the most treasured sculptures. At the same time, however, Mol is remaining true to his Dutch origins, for he has very clearly set The Young Draughtsman in a traditional Dutch interior. A similar painting by him, Painter and Draughtsman in a Studio (fig. 1), is again set in a typical 17th-century Dutch space, with a wooden cross window, ‘Kussenkast’ cupboard, and a massive table with ball feet. It too contains a prominent display of classical sculpture.3 The apprentice draughtsman is copying a plaster cast of the Dancing Faun, and on the cupboard are casts of the same Apollo Citharoedus that we see in our picture, a reproduction of the so-called Priestess in the Capitoline Museum, and another of the Farnese Hercules (see p. 30, fig. 32 and cat. 7, fig. 3). Standing beside the cupboard there is even a copy after a classical vase, probably the famous Borghese Vase.4 Deliberately or not, the combination of classical art and a 17th-century Dutch setting relates Mol’s two studio scenes directly to the debate about the ‘national taste’ being con- ducted in the Netherlands around 1800 and for some decades  218 219  thereafter. It was felt that Dutch painting was in a deplorable state: essays were written about how standards could be raised and competitions were held to encourage improve- ments. Classical sculpture was regularly invoked: it was only logical that Dutch painters were lagging behind, it was said, given the absence of classical statues in Holland, and drawing academies should therefore acquire copies after antique statues (see cat. 31), and so on.5 Reading between the lines, though, one sees that the same writers were often great admirers of 17th-century Dutch painting. The painters of that Golden Age had paid little heed to Classicist art theory; they imitated nature and did not idealise it. Mol’s two studio scenes contain elements that can be associated with both artistic theories. He was very much at home in both worlds. Born in Haarlem, he had received an old- fashioned Dutch training with the landscapist Hermanus van Brussel (1763–1815). In 1806, however, he went to Paris, where he worked for several years, partly as an élève in the framework of the new arts policy of King Louis Napoleon of Holland (1778–1846), apprenticed to none other than Jacques Louis David (1748–1825). In other words, classicist views about art were well-known to him. 33. Anonymous, Danish School, 19th century Two Artists and a Guard in the Antique Room at Charlottenborg Palace c. 1835 Oil on canvas, 38.6 × 33.9 cm provenance: Private collection, Denmark; Thomas Le Claire Kunsthandel, Hamburg with Daxer & Marschall, Munich in 2003 (as Knud Andreassen Baade), from whom acquired. literature: Zahle 2003, p. 271, fig. 117 (as Julius Friedlænder (?)); Copenhagen 2004, pp. 110–11, no. 8, fig. 16 (as unknown artist); Fuchs and Salling 2004, vol. 3, pp. 194–95, repr. (as unknown artist). 1 2 3 4 5 mp Haskell and Penny 1981, respectively pp. 205–08, no. 34 (Dancing Faun), pp. 325–28, no. 88 (Venus de’ Medici). T. van Druten, in Moscow and Haarlem 2013–14, p. 50. Mak van Waay sale, Amsterdam, 26 May 1964, lot 366. Haskell and Penny 1981, pp. 205–08, no. 34 (Dancing Faun), pp. 229–32, no. 46 (Farnese Hercules), pp. 314–15, no. 81 (Borghese Vase). For the Priestess in the Capitoline Museum see Stuart Jones 1912, p. 345, no. 6, pl. 86; Helbig 1963–72, vol. 2, no. 1227. Koolhaas-Grosfeld and De Vries 1992, pp. 119, 128. exhibitions: Not previously exhibited. Katrin Bellinger collection, inv. no. 2003-028 The Antique Room of the Copenhagen Academy of Fine Arts, housed in Charlottenborg Palace, was a popular choice of subject for 19th-century Scandinavian art students, such as H. D. C. Martens (1795–1864), Martinus Rørbye (1803–48) and Christian Købke (1810–48). The Academy was founded in 1754 by King Frederik V, but an informal art school had been established in 1740 by his predecessor, Christian VI, so that there was already a small collection of casts for the students to study, including one of the Laocöon, but with the older son missing.1 The Academy’s programme was modelled on those of others across Europe, especially that in Paris, in which plaster copies after antique models served as the basis for the instruction of artists; in some cases casts were even valued above the originals because they made details more readily accessible to copyists. The expansion of the collection was primarily due to the efforts of three mem- bers of the Academy: a professor of sculpture, Christoph Petzholdt (1708–62), who contributed twenty-five casts and restored many others that had suffered from being moved too often;2 the sculptor and Academy Fellow Johannes Wiedewelt (1731–1802), who in 1758 sent three large chests of casts back to Denmark from Rome;3 and the painter and sculptor Nicolai Abildgaard (1743–1809), who was appointed Director in 1789 and purchased several casts, including Germanicus and the Belvedere Torso, and the missing son of the Laocoön.4 The cast collection focused mainly on Roman copies, and it was not until the first decades of the 19th century that casts of Greek originals were added.5 This was characteristic of academies across Europe, which began to recognise the value of the Greek originals over their Roman derivations, thus diverging from Italian academic tradition. In the painting on display, an artist in his work-robe holds up a plumb-line to check the vertical axis of the cast that he is sketching. He draws his copy on a sheet attached to a drawing-board that rests on his lap, and his portfolio crammed with other drawings leans against a stool in front of him, along with his discarded top hat and cravat. A fellow artist considers his handiwork, but they are about to be interrupted by a museum guard bearing a scroll. When it was acquired in 2003, this canvas was attributed to the Norwegian artist, Knud Andreassen Baade (1808–79), whose painting of the same room now belongs to the National Museum of Art, Architecture and Design in Oslo (fig. 1), and also features a draughtsman at work, holding up a stylus to check the horizontal reference line of his subject. The depic- tion of the room in the Oslo painting, which is dated 1828, just precedes its renovation later that year when, under the direction of the architect C. F. Hansen (1756–1845), the walls were plastered smooth, as seen in the painting on display here.6 A comparison of the two canvases shows the way the room was modified to accommodate the growing collection, as casts were shifted around according to aesthetic, thematic or chronological principles. In the Oslo painting, the Borghese Gladiator (see p. 41, fig. 54 and cats 16, 23–24) is placed in the extreme left foreground, creating a diagonal perspective. The same technique is used in the present painting, though it is now a statue of Perseus that anchors the work, with his outstretched hand grasping a missing Medusa’s head. The Perseus was created in 1801 by Antonio Canova (1757–1822), Fig. 1. Knud Andreassen Baade, Scene from the Academy in Copenhagen, 1828, oil on canvas, 32.4 × 23.8 cm, The National Museum of Art, Architecture and Design, Oslo, inv. no. NG.M.01589  220 221    Fig. 2. Relief of an Eagle with a Wreath, 2nd century ad, marble, church of Santi Apostoli, Rome who donated a cast of it to the Academy in 1804, thereby becoming a member. Another modern sculpture hangs on the upper wall at left, which is a roundel with an allegory of Justice, in which Nemesis reads a list of the guilty to Jupiter, who sits in judgment. This was the work of Bertel Thorvaldsen (1770–1844), the leading sculptor in Europe after Canova’s death, who had been trained in the Academy.7 Also modern is the bust of Frederik V at the end of the room by the sculptor J. F. J. Saly (1717–76).8 The remaining casts in the room are of antique statues and reliefs, and extant inventory lists attest to the dates of their acquisition.9 The relief of the eagle in a wreath, after the original in the church of Santi Apostoli in Rome (fig. 2), is displayed on the wall above a reduced copy of a frieze, taken from the Parthenon, both of which were transferred to this southern wall as part of the 1828 reconstruction.10 Facing the viewer and leaning on a column is a reproduction of the Marble Faun (fig. 3). This was a relatively overlooked sculp- ture, more valued for its conjectural attribution to Praxiteles Fig. 3. Marble Faun, Roman copy, c. 2nd century ad, after a Greek original of the 4th century bc, marble, 170.5 cm (h), Capitoline Museums, Rome, inv. no. S.739 Fig. 4. Germanicus, Roman, c. 20 ad, after a Greek original of the 5th century bc, marble, 180 cm (h), Louvre, Paris, inv. no. MA1207 than for its aesthetic significance. It did not achieve world- renown until the publication of The Marble Faun by Nathaniel Hawthorne in 1860, after which it became one of the highlights of the Capitoline Museum.11 Behind the Faun stands a cast of Germanicus (fig. 4), which, in contrast to the Faun, was one of the most revered antiquities almost from its discovery in the mid-17th century.12 Casts of it were commissioned for collections across Europe, including Florence, Mannheim, Madrid and the Duke of Devonshire’s collection at Chatsworth in Derbyshire. The identity of this figure is uncertain, and it has been thought by different scholars to represent Augustus, Brutus, Mercury or an anonymous Roman general; however, its identification as Germanicus, nephew of Tiberius, has persisted since 1664.13 Between Perseus and the Faun is the seated figure of Mercury, cast after the bronze original discovered in Herculan- eum in 1758 (fig. 5). It was one of the most celebrated archaeo- logical discoveries of the 18th century, and its presence is critical to the dating of the Bellinger painting because the cast was only acquired by the Academy in 1834, thus provid- ing a terminus post quem and supporting for it a date of c. 1835.14 This precludes the authorship of Baade, who left Copenhagen in 1829 and spent the early 1830s travelling in his native Norway. In 1836 he followed his mentor, the landscapist J. C. C. Dahl (1788–1857), to Germany, where he lived until his death in 1879.15 Jan Zahle tentatively proposed that the painter was Julius Friedlænder (1810–61),16 who is also thought to be the artist of another painting of the Antique Room in Charlottenborg, dated 1832 (current whereabouts unknown).17 To commemorate the 250th anniversary of the   222 223  Fig. 5. Seated Mercury, Roman copy, 1st century ad, after a Greek original of the late 4th century or early 3rd century bc, bronze, 105 cm (h), Museo Archeologico Nazionale, Naples, inv. NM 5625 Academy in 2004, the Bellinger painting was presented in the accompanying exhibition catalogue as by an unknown artist,18 and until further evidence comes to light, it is prudent to maintain its anonymity. While the Academy continues to function, the cast collection was relocated and dispersed several times; first in 1883, due to lack of space, to a new building. The pieces by Thorvaldsen were transferred to his eponymous museum, founded during his lifetime in 1839 and opened to the public in 1848. In 1895 the rest of the collection was absorbed into the newly created Royal Cast Collection, which shared a building with the newly founded National Gallery of Art, in Copenhagen.19 These casts were neglected over the subse- quent years, as interest in plaster copies waned in favour of original and unique works of art. When the museum under- went renovations from 1966 to 1970, the majority of the casts were packed away and allowed to deteriorate. Only in 1984, due to the combined efforts of concerned art historians, classical archaeologists and artists, were thousands of casts rescued and restorations begun. They were rehoused in the West India Company Warehouse, Fig. 6. Antique Room in Charlottenborg Palace recreated in 2004, curated by Pontus Kjerrman and Jan Zahle, with sculptor Bjørn Nørgaard originally a storehouse for products of the slave trade, and approximately 2,000 casts can be seen on display there. The Faun and Germanicus both belong to this collection, while Canova’s Perseus was transferred to the Ny Carlsberg Glyptotek. However, in 2004, as part of the anniversary exhibition, replicas of these casts were reunited in the Antique Room of the Palace, just as seen in numerous 19th-century paintings, such as this one. A visitor in 2004, therefore, could stand in the very same spot as our anony- mous painter, and witness a nearly identical scene (fig. 6). literature:None. exhibitions: Not previously exhibited. Katrin Bellinger collection, inv. no. 1997-020 In this striking candlelight view of a 19th-century bourgeois interior by the little-known artist, Desflaches,1 a man examines a work of art displayed on an easel but hidden from our view. In one hand he holds an oil lamp or candle, illuminating the corner of the room in soft, golden light and casting strong and dramatic shadows. It is exactly 10:30, according to the clock on the mantle, and the visitor, proba- bly a connoisseur, has called on the artist at home, presum- ably to inspect his latest work. He has removed his hat and cloak, placed on the chair on the left, and with a pipe in hand, assumes a relaxed yet concentrated stance. Viewing and producing art by candlelight is a tradition that hearkens back to the Renaissance when artist-theorists, Leon Battista Alberti (1404–72), Leonardo da Vinci (1452– 1519), Benvenuto Cellini (1500–71) and others, advised students to draw sculpture by artificial light, to enhance the effects of relief, three-dimensionality and shadow.2 Baccio Bandinelli put this concept into practice, and drawing by candlelight was central to artistic training at his academy (see cats 1–2). Others followed suit including Jacopo Tintoretto and his followers who used an oil lamp when making studies after casts of Michelangelo’s Medici tomb figures and other models ‘so that he could compose in a powerful and solidly modelled manner by means of those strong shadows cast by the lamp’.3 The practice of drawing after models, especially casts, at night continued in the 17th century, as seen in Rembrandt’s small etching, Man Drawing from a Cast, (c. 1641).4 Nocturnal viewings became common in the late 18th century; white casts were popularly studied by flickering torchlight because it made them appear animated.5 Indeed, the spectators’ delight is clearly evident in William Pether’s mezzotints, Three Persons Viewing the Gladiator by Candlelight (1769) 6 and An Academy (1772; cat. 24), both after Joseph Wright of Derby. The female model in the Bellinger painting is a reduced plaster cast of the Crouching Venus – a Hellenistic original of which several antique variations are known (fig. 1).7 The figure was enormously popular, especially in the 17th and 18th centuries when many artists produced imitations of her, the most celebrated being the marble completed in 1686 by the French sculptor, Antoine Coysevox (1640–1720), also reproduced in bronze.8 She is generally believed to represent Venus in, or emerging from, the bath, her head turned sharply to the right and her arms sensuously and protec- tively crossing her body, suggesting that her ablutions have been interrupted. In Desflaches’ canvas the Crouching Venus has been brightly lit and given primacy of place, suggesting she may be the subject of the canvas displayed on the easel; her animation is enhanced by the direct gaze with which she engages the viewer. While the cast in our painting probably ultimately derives from the antique marble in the Uffizi, it seems to have been idealised and modified, to reflect a dis- tinctively Coysevesque sensibility, evidenced in the refined and delicate features of her face.9 Other identifiable works in the Desflaches composition include a second plaster cast – a male portrait bust – partly visible on the covered table in the background, to the visitor’s right. He probably derives from the marble head of a young man in the Museo Pio-Clementino in the Vatican (Roman, 1st Fig. 1. Crouching Venus, Roman copy, 1st c. ad after Hellenistic original, marble, 78 cm (h), Uizi, Florence, inv. no. 188  Zahle 2003, p. 272. For the history of the Copenhagen Academy see Meldahl and Johansen 1904. Saabye 1980, p. 6 and Zahle 2003, p. 272 Zahle 2003, p. 272. Jørnæs 1970, p. 52. Zahle 2003, p. 275. Jørnæs 1970, p. 58. Helsted 1972, p. lxxxvi. Copenhagen 2004, p. 201 (S85). An inventory from 1809 is especially extensive (Fortegnelse over Marmor-og Gibs-Figurerne, samt Receptions-Stykkerne og flere Konstsager i Den Kongelige Maler-, Billedhugger- og Bygnings-Academie paa Charlottenborg, partially transcribed in Zahle 2003, p. 269) and records were kept for several years by the art historian Julius Lange (see, for example, Lange 1866). Copenhagen 2004, p. 198 (S51) and p. 199 (S61). Haskell and Penny 1981, p. 210; La Rocca and Parisi Presicce 2010, pp. 446–51, no. 5. Haskell and Penny 1981, p. 219. Ibid., p. 220. Copenhagen 2004, p. 200 (S72). Thieme-Becker 1907–50, vol. 2, p. 297. Zahle 2003, p. 271. Copenhagen 2004, p. 110, no. 7. Ibid., p. 110, no. 8. Zahle 2003, p. 278. 34. Desflaches (Christian name unknown; probably Belgian, fl. 19th century) The Connoisseur c. 1850 Oil on canvas, 60 × 50 cm Signed recto lower right, Desflaches provenance: Galerie Fischer-Kiener, Paris; property of a European Foundation; their sale, Sotheby’s, New York, 26 October 1990, lot 144; Didier Aaron Inc., New York; Harry Bailey, New York; Didier Aaron Inc., New York; Their sale, Christie’s, New York, 22 May 1997, lot 116, from whom acquired.    224 225    Fig. 2. Head of Lucius or Gaius Caesar, or the Young Octavian (Augustus), 52 cm (h), marble, possibly end of the 1st c. ad or later, Museo Pio-Clementino, Vatican Museums, Rome, inv. 714 Fig. 3. Godfried Schalcken (1643–1706), An Artist and a Young Woman by Candlelight, oil on canvas, 44 × 35 cm, private collection, New York  century ad; fig. 2).10 This bust, believed to be either one of the brothers, Lucius or Gaius Caesar, or a rare depiction of the young Octavian before he became Emperor Augustus in 27 bc,11 enjoyed considerable popularity and was copied by many artists, particularly in the 19th century. Its authen- ticity has occasionally been doubted – at one point it was even attributed to the neo-classical sculptor, Antonio Canova (1757–1822) – but the confirmation of its discovery by Robert Fagan in the ruins of Tor Boacciana (Ostia) in 1800–02, supports its antique origin despite it being consid- erably reworked.12 In addition to works deriving from antique sources are others that directly reference Dutch art of the 17th century. Immediately behind the Crouching Venus is what appears to be a pencil drawing after Rembrandt’s celebrated etching, Self Portrait Leaning on a Stone Sill (1639).13 It is in the same direction as the etching though the line is faint and the lower half of the figure, with the distinctively posed left arm, has been omitted altogether, suggesting the source was either a later impression of the print or a further, reduced copy of the original. To the right of the Rembrandt, is a moonlit landscape strongly reminiscent of the work of Aert van der Neer (1603/4–77). On the opposite wall is a portrait of a man, possibly by, or at least in the manner of, the portraitist and genre painter, Frans Hals (1582/83–1666). Partly obscured in shadow below appears to be a drawing, possibly by Jan van Goyen (1596–1656), or one of his contemporaries. As the distinctive trappings would suggest, the artist may well be Dutch, and this is supported further by a com- parison with a painting by Godfried Schalcken (1643–1706) in a private collection, New York (fig. 3), which may have been known to Desflaches. A pupil of Gerrit Dou (1613–75), Schalcken specialised in night scenes; here a man, drawing in hand, presumably the artist, with his female pupil, points suggestively to a small but lively model of the Crouching Venus, animatedly illuminated by an oil lamp; clearly there is more 226 than just a drawing lesson at play here. An antique head lies dormant, face-up on the table below. By the 19th century, the Antique was readily available, even to amateur artists, via plaster casts, as Desflaches’ composition suggests. Ancient sculpture could now readily be combined with art of different types and in diverse settings, both on the continent – seen, for instance, in the work of Woutherus Mol (cat. 32), which also features Dutch and antique motifs – and in England (cat. 35). As the canon became more diffuse, the standing of the Antique also declined, as other styles, historical and modern, became increasingly more dominant as the century progressed. The painting bears that name at lower right. In the Christie’s catalogue, New York, 22 May 1997, lot 116, the initial of the first name is given as ‘P’, without explanation, and the nationality, French/Belgian. A painting attributed to the artist, Still Life with Brass Oil Lamp, Skeleton Key and Pitcher, oil on canvas, 33 × 29.2 cm, was sold New Orleans Auction Galleries, 20 July 2002, lot 324 (as P. Desflaches). Weil-Garris 1981, pp. 246–47, note 39; Roman 1984, p. 83; Hegener 2008, p. 401. Ridolfi 1914, vol. 2, p. 14; Ridolfi 1984, p. 16. White and Boon 1969, vol. 1, p. 68, no. B130, vol. 2, p. 119, repr. Borbein 2000, p. 31 (see also note 23 listing further bibliography on night- time viewing of casts). Clayton 1990, p. 236, no. 154, P3. Haskell and Penny 1981, pp. 321–23, no. 86, fig. 171. The authors catalogue the example in the Uffizi, Florence, but discuss the other extant versions as well. See Lullie 1954, pp. 10–17 and Havelock 1995, pp. 80–83. Haskell and Penny 1981, pp. 40, fig. 22, 323. The marble version is in the Louvre and the bronze, at Versailles (Souchal 1977–93, vol. 1, pp. 191–92). The cast in the painting bears a striking resemblance to one preserved in the Salzburg Museum, Austria, another idealisation of the original in the Uffizi, see http://www.salzburgmuseum.at/972.0.html It was in the collection of the painter, Anton Raphael Mengs (1728–79). In 1782, the Court of Saxony acquired it, among other casts from his estate, for the Dresden Academy of Art. Spinola 1996–2004, vol. 2, pp. 131, fig. 22, 137–38, no. 123 with previous bibliography. Spinola 1996–2004, vol. 2, p. 137. Ibid. White and Boon 1969, vol. 1, pp. 9–10, no. B21, vol. 2, p. 10, repr. 227  35. William Daniels (Liverpool 1813–1880 Liverpool) Self-Portrait with Casts: The Image Seller c. 1850 Oil on canvas, feigned circle, 43.3 × 43.3 cm provenance: Richard S. Timewell, Tangier, by descent; Timewell family sale, Brissonneau & Daguerre, Paris, 15 June 2005, lot 56; W. M. Brady & Co., New York, 2005, from whom acquired. literature: Bowyer 2013, pp. 49–50, fig. 36. exhibitions: New York 2005b, no. 13, repr.; Compton Verney and Norwich 2009–10, pp. 12–16, fig. 9, p. 98.  Katrin Bellinger collection, inv. no. 2005-016 Born into a modest working-class family in Liverpool, Daniels was apprenticed to his father, a brick maker, loading and arranging new stock; in his spare time, he drew faces on the bricks and carved and modelled small figures in wood and clay.1 His artistic talents were recognised by Alexander Mosses (1793–1837), a local painter, who encouraged him to take evening classes in drawing at the Royal Institution in Liverpool. The young Daniels was awarded first prize for a large study ‘in black and white’ of the Dying Gladiator ‘drawn from the round’ which, allegedly, Mosses ‘begged ... off the lad and had ... framed’.2 Daniels later became apprenticed to the painter but was confined to menial tasks, and could only paint at night, slyly returning the cleaned brushes in the morning.3 The resulting night scenes or ‘candlelight pic- tures’, primarily portraits and genre subjects, would become his trademark and he achieved considerable local success, exhibiting at the Liverpool Academy, Post Office Place and the Liverpool Society of Fine Arts, and then in London at the Royal Academy in 1840, 1841 and 1846.4 He became known as the ‘Liverpool Rembrandt’ or the ‘English Rembrandt’, according to one source reputedly quoting John Ruskin.5 Daniels also shared with the Dutch master a life-long pre- occupation with his own image; ‘many of his finest painting were portraits of himself’, as noted in one of his obituaries.6 And like the youthful Rembrandt he was particularly fond of depicting those on the fringes of society with whom he seemed to share a certain affinity, often representing himself in the guise of the urban poor – beggars, gypsies, brigands and others.7 Described by one biographer as ‘of fine, manly form, very handsome’ with ‘a profusion of jet black curly hair’ and a swarthy complexion, it was sometimes said of him that there was ‘gypsy blood in his veins’ and that wear- ing earrings only enhanced his ‘resemblance to the wander- ing tribe.’8 In the striking example seen here, Daniels has fashioned himself as an Italian travelling salesman of plaster casts, a popular subject for Victorian artists.9 With the increasing demand for images in museums, schools and academies but also as adornments in ordinary homes, celebrated 228 sculptures from antiquity, together with portraits of modern worthies, were mass-produced in plaster, generally in reduced form.10 The technique was simple and inexpensive: a mixture of marl and clay was poured into a slip mould of plaster of Paris that absorbed the water, leaving a thin layer of clay inside the mould that could be easily removed, lightly fired, producing a brittle but light-weight and easily portable cast.11 Favourite antique and contempo- rary subjects – including the Farnese Hercules and the Apollo Belvedere as well as busts of Byron, Milton, Napoleon and Queen Victoria – were now displayed and offered for sale together.12 While English firms had been manufacturing casts since the 18th century, the market became increasingly dominated by Italian makers, particularly from around Lucca who organised large groups to sell their wares on the streets of London and beyond.13 Having considerable reach through their travels, these vendors played a seminal role in disseminating knowledge of the iconic works of antiquity through all classes of society.14 The British public regarded the image-makers and sellers, men and boys from forty to fifteen with curiosity and with some suspicion.15 One of the earliest images of them is an amusing caricature by Thomas Rowlandson (1757–1827) in the Victoria and Albert Museum, London (c. 1799, fig. 1). Appearing dishevelled with unbuttoned shirt and jacket, the salesman peddles his wares to an enthusiastic family while a woman watches a peep show in the background. A slightly later example, accompanied by the title, Very Fine. Very Cheap, was etched by John Thomas Smith (1766–1833), known as ‘Antiquity Smith’, the writer, poet and Keeper of Prints and Drawings at the British Museum from 1816 to 1833 (fig. 2).16 On the seller’s board, a reduced cast of the Farnese Hercules (see p. 30, fig. 32) has been relegated to the background, obscured by a cast of a Roman vase. With a slightly sinister glint in his eyes, this figure was included in Smith’s Etchings of Remarkable Beggars, Itinerant Traders and other Persons, published in London, 1815. William James Muller (1812–45) produced a more sympathetic, even romantic portrayal of the itinerant cast seller in 1843 (fig. 3). More closely allied to the Daniels’ 229  Copyright: © Christie’s Images Limited (2012) painting than the others, this hawker is less an object of derision than one of wonder, even admiration.17 In the present example, Daniels, dressed in modest work- man’s attire and silhouetted against a dark backdrop, bal- ances on his head a board fully loaded with a casts of every shape and size, securing it with one hand. Many were based on examples in his own collection, probably used in his studio to prepare accessories in his portrait commissions. Immediately recognisable in the centre right is the bust of Shakespeare, whom Daniels particularly admired. He was said to have a deep familiarity with the poet’s work and could identify the exact source for every quotation, ‘without a moment’s hesitation’.18 In fact, busts of the bard are listed in Daniel’s posthumous sale of 1880, one of which is likely to be the example seen here.19 With the other arm, he cradles a bust of Homer, the blind epic poet of the Iliad and the Odyssey, another favourite of Daniel’s as noted by his biographer.20 The source for this cast was a Roman marble of the Antonine period (138-93 ad, after a lost Hellenistic original of c. 300 bc), probably the version preserved in the Museo Archeo- logico Nazionale di Napoli (fig. 4).21 Known in several variants after the same lost Greek original, this is arguably the most celebrated image of Homer from antiquity and was used by many artists; arguably the most famous example is Rembrandt’s Aristotle with a Bust of Homer which passed through various English private collections in the 19th century (now Metropolitan Museum of Art, New York), and 230 which Daniels was probably referencing, reinforcing his association with both poet and artist.22 The other casts on the tray in the painting appear to reproduce a mixture of English and French works of the mid- to late 18th and 19th century. They include the brightly coloured parrot, probably based on a Staffordshire porcelain example, c. 1850, after a Meissen original of the 18th century, and the hooded figure on the front left, possibly an adapta- tion of ‘La Nourrice’ (Nurse and Child) modelled by Joseph Willems at Chelsea (c. 1752–58), after a French terracotta original of the 17th century.23 Popular images of the three Fig. 4. Bust of Homer, marble, 72 cm (h), Roman Antonine period after a lost Hellenistic original of c. 300 bc, Museo Archeologico Nazionale di Napoli, inv. 6023 theological virtues, Faith, Hope and Charity, made by the Wood family at Burslem in Staffordshire, 1800–10, appear to be the inspiration behind some of the other figures on the tray: Hope at the far right, seen in profile with hands clasped; Faith, directly behind the parrot; and Charity, seen from the back, behind the Nurse and Child.24 It has also been suggested that the bust of a boy seen from the back, directly above Daniels’ right hand, might be Alexandre Brongniart (1777) by Jean-Antoine Houdon (1741–1828), known in examples in marble, terracotta, bronze, plaster and biscuit porcelain.25 Daniels appears to be between thirty-five and forty years old in this painting, slightly older than his self-portrait at the easel of c. 1845 in the Walker Art Gallery, Liverpool (fig. 5); a completion date of around 1850 therefore seems likely.26 The theme of the cast vendor clearly intrigued Daniels for he would return to it again about twenty years later. In An Italian Image Seller (1870; Walker Art Gallery, Liverpool; fig. 6), the protagonist (probably Daniels again) rests on the wall of an 27 English country lane. The tray is no longer present but on the ground to his right are two casts, one, a Mercury, the other, the nymph, Clytie (sometimes identified as Antonia, daughter of Mark Antony and mother of the Emperor Claudius). The marble original of the nymph, acquired in Naples by the Grand Tour collector, Charles Townley (1737– 1805) and reportedly his favourite, is now in the British Museum.28 Copies of the popular statue were made in porce- lain by the firm Copeland from 1855 and it has been suggested that Daniels based his depiction on one of them.29 Daniels certainly owned a copy of the Clytie and other busts after the Antique including a Jupiter, Apollo, Diana and Laocoön, ‘which he treated with almost reverential admiration’.30 As Daniels’ Image Seller shows, by the mid-19th century iconic antique statues, once rarefied models of ideal beauty, were now commercialised and readily available on the open Fig. 5. William Daniels, Self-Portrait, c. 1845, oil on canvas, 91.5 × 71.7 cm, Walker Art Gallery, Liverpool, WAG 1724 Fig. 6. William Daniels, An Italian Image Seller, 1870, oil on canvas, 80 × 63.5 cm, Walker Art Gallery, Liverpool, WAG 3114 market through mass-produced casts. While the Antique continued to be central to the education of artists both in the studio and in the academy, it became an ubiquitous presence in the home, especially in middle-class interiors where reductions of famous statues were displayed alongside works from other periods, sometimes even assuming a secondary role to them. The amalgamation of styles and influences, in which Ancient, Byzantine, Gothic, Renaissance and Modern were placed on equal footing, was, by the mid-19th century, the result of an historicist aesthetic in which the Antique had become just one of the possible artistic references, thus losing its canonical status and aesthetic primacy. Rowlandson, An Image Seller, c. 1799, watercolour, 326 × 264 mm, Victoria and Albert Museum, London, no. 1820-1900 Fig. 2. John Thomas Smith, Very Fine. Very Cheap, c. 1815, etching, 192 × 114 mm (plate); 267 × 185 mm (sheet), from Etchings of Remarkable Beggars, Itinerant Traders and other Persons, published in London, 31 December 1815, National Portrait Gallery, London, Reference collection D40098 Fig. 3. William James Muller, The Plaster Figure Seller, oil on canvas, 82.5 × 52.1 cm, sold Christie’s, London, 6 November 2012, lot 333. avl An extensive tribute to Daniels was published anonymously in serial form in the Liverpool Lantern (1880), by his friend, K. C. Spier, editor of the paper. It may be consulted at: http://art-science.com/WDaniels/LLessay.html where the artist’s obituaries and private letters and notes also are transcribed, some of which are referred to in Spier’s essay (cited here as Spier 1880). For other accounts of his life and work, see Tirebuck 1879; The Magazine of Art, 5, June 1882, pp. 341–43; Marillier 1904, pp. 95–98; Thieme- Becker 1907–50, vol. 8, pp. 362–63; Fastnege 1951; Bennett 1978, vol. 1, p. 79. Spier 1880, chapter 4. The drawing, presumably after a cast of the famous sculpture in the Capitoline Museum, Rome (see cat. 20, fig. 2) remains untraced. Spier 1880, chapter 4. Marillier 1904, pp. 96–97; Fastnege 1951, p. 80; Bennett 1978, vol. 1, p. 79. Obituary, Liverpool Journal, 16 October 1880; Liverpool Mercury 15 April 1884; Daily Post Liverpool, June 1908. Liverpool Journal, 16 October 1880. Representations of the urban poor in British art was an increasingly popu- lar genre from around the mid-18th century onwards. See Hansen 2010. Spier 1880, chapter 5. Lambourne 1982; Compton Verney and Norwich 2009–10, p. 13. For the history and use of casts, see Borbein 2000. For a translation in English by Bernard Fischer, see http://www.digitalsculpture.org/casts/ borbein/index.html For British cast makers and/or sellers in the 18th to early 19th c., see Clifford 1992 and for the 19th c., Haskell and Penny 1981, pp. 117–24; Lambourne 1982; and Simon 2011. Lambourne 1982, p. 119. Ibid. Clifford 1992; Simon 2011. Lambourne 1982, p. 121. Simon 2011 [unpaginated]. Ibid., fig. 3. For other images of the subject, see Lambourne 1982, pp. 118–23, figs 1–10. Spier 1880, chapter 2; New York 2005b, under no. 13. Walker & Ackerley, Liverpool, 6 December 1880, discussed in in Spier 1880, chapter 24. The present writer has not been able to locate a copy of this catalogue. Spier 1880, chapter 2. Richter 1965, vol. 1, p. 50, no. IV, no. 7, figs 70–72; Gasparri 2009–10, vol. 2, pp. 15–16, no. 2 (M. Caso), pl. II, 1–4. Liedtke 2007, vol. 2, pp. 629–54, no. 151. Kindly pointed out by Paul Crane (personal communication), who notes the following example: Melbourne 1984–85, no. 56. As noted further by Paul Crane, who points out their similarity to examples sold at Sotheby’s, New York, 15 April 1996, lot 73 (personal communication). According to George Shackelford (personal communication). See Washington D.C., Los Angeles and elsewhere 2003-04, pp. 127–32, no. 15 (G. Scherf). Bennett 1978, vol. 1, p. 80, no. 1724, vol. 2, p. 129; New York 2005b, under no. 13. Bennett 1978, vol. 1, p. 83, no. 3114, vol. 2, p. 134. Cook 1976, p. 181, fig. 144; Dodero 2013. Bennett 1978, vol. 1, p. 83. Spier 1880, chapter 17.    231  abbreviations L. — F. Lugt, Les marques de collections de dessins & d’estampes . . . , Amsterdam, 1921 L. suppl. — F. Lugt, Les marques de collections de dessins & d’estampes . . . Supplément, The Hague, 1956 ODNB — Oxford Dictionary of National Biography, http://www.oxforddnb. com/, published online since 2004. Abstract 1797 — Abstract of the Instrument of Institution and Laws of the Royal Academy of Arts in London: Established December 10, 1768, London, 1797. Acidini Luchinat 1998 — C. Acidini Luchinat, Taddeo e Federico Zuccari: fratelli pittori del Cinquecento, 2 vols, Milan, 1998. Ackerman 1954 — J. S. Ackerman, The Cortile del Belvedere, Vatican City, 1954. Agosti and Farinella 1987 — G. Agosti and V. Farinella, Michelangelo. 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Doha 2011 — The Golden Age of Dutch Painting: Masterpieces from the Rijksmuseum Amsterdam, Museum of Islamic Art, Doha, 2011 (no catalogue). Dordrecht 2012–13 — Portret in portret in de Nederlandse kunst 1550–2012, Dordrechts Museum (S. Craft-Giepmans and A. de Vries), 2012–13. Edinburgh 2002 — Rubens Drawing on Italy, National Gallery of Scotland, Edinburgh (J. Wood), 2002. Essen 1992 — London World-City, 1800–1840, Villa Hügel, Essen (ed. C. Fox), 1992. Florence 1980 — Il primato del Disegno, Palazzo Strozzi, Florence (ed. L. Berti), vol. 4 of the exhibition Firenze e la Toscana dei Medici nell’Europa del Cinquecento, 4 vols, 1980. Florence 1987 — Michelangelo e l’arte classica, Casa Buonarroti, Florence (eds G. Agosti and V. Farinella), 1987. Florence 1992 — Il Giardino di San Marco. Maestri e compagni del giovane Michelangelo, Casa Buonarroti, Florence (ed. P. Barocchi), 1992. Florence 1999-2000 — Giovinezza di Michelangelo, Palazzo Vecchio and Casa Buonarroti, Florence (eds K. Weil-Garris Brandt et al.), 1999–2000. Florence 2002 — Venere e amore: Michelangelo e la nuova bellezza ideale, Gallerie dell’Accademia, Florence (eds F. Falletti and J. Katz Nelson), 2002. Florence 2008 — Fiamminghi e Olandesi a Firenze. Disegni dalle collezioni degli Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, Florence (eds W. Kloek and B. W. Meijer), 2008. Florence 2014 — Baccio Bandinelli: scultore maestro (1493–1560), Museo Nazionale del Bargello, Florence (eds D. Heikamp and B. P. Strozzi), 2014. Geneva 1978 — Johann Heinrich Füssli, Musée d’Art et d’Histoire, Musée Rath Genève, Geneva, 1978. Göttingen 2012–13 — Abgekupfert. Roms Antiken in den Reproduktionsmedien der Frühen Neuzeit, Kunstsammlung und Sammlung der Gipsabgüsse, Universität Göttingen (eds M. Luchterhandt et al.), 2012–13. Göttingen 2013–14 — Roms Antiken in den Reproduktionsmedien der frühen Neuzeit, Kunstsammlung und Sammlung der Gipsabgüsse, University of Göttingen (eds M. Luchterhandt et al.), 2013–14. Haarlem 1972 — Wybrand Hendriks 1744–1831. Keuze uit zijn schilderijen en tekeningen, Teylers Museum, Haarlem (I. Q. van Regteren Altena, J. H. van Borssum Buisman and C. J. de Bruyn Kops), 1972. Haarlem 1990 — Augustijn Claterbos 1750–1828. Opleiding en werk van een Haarlems kunstenaar, Teylers Museum, Haarlem (B. Sliggers), 1990. Haarlem and London 2005–06 — Michelangelo Drawings: Closer to the Master, Teylers Museum, Haarlem; British Museum, London (ed. H. Chapman), 2005–06. Haarlem, Zurich and elsewhere 2006–07 — Nicolaes Berchem. Im Licht Italiens, The Frans Hals Museum, Haarlem; The Kunsthaus, Zürich; The Staatliches Museum Schwerin (P. Biesboer et al.), 2006–07. Hamburg 1974–75 — Johann Heinrich Füssli. 1741–1825, Hamburger Kunshalle, Hamburg (ed. W. Hofmann), Munich, 1974–75. Hamburg 2002 — Die Masken der Schönheit. Hendrick Goltzius und das Kunstideal um 1600, Hamburger Kunsthalle, Hamburg (eds J. Müller et al.), 2002. Hannover 1999 — Künstler, Händler, Sammler: zum Kunstbetrieb in den Niederlanden im 17. Jahrhundert, Niedersächsischen Landesmuseum, Hanover (U. Wegener), 1999. Harvard and Evanston 2011–12 — Prints and the Pursuit of Knowledge in Early Modern Europe, Harvard Art Museums, Cambridge (MA); Mary and Leigh Block Museum of Art, Evanston (IL) (ed. S. Dackerman), 2011–12. Heidelberg 1982 — 100 unbekannte Zeichnungen und Aquarelle des 16.-18. Jahrhunderts, Kurpfälzisches Museum, Heidelberg (S. Wechssler), 1982. Houston and Ithaca 2005–06 — A Portrait of the Artist 1525–1825. Prints from the Collection of the Sarah Campbell Blaffer Foundation, Museum of Fine Arts, Houston; Herbert F. Johnson Museum of Art, Cornell University, Ithaca (NY) (ed. J. Clifton), 2005–06. King’s Lynn 1985 — French Drawings of the 17th and 18th Century, Fermoy Gallery, Guildhall of St George, King’s Lynn (ed. G. Agnew), 1985. Liverpool 1994–95 — Face to Face: Three Centuries of Artists’ Self-Portraiture, Walker Art Gallery, Liverpool (X. Brooke), 1994–95. Liverpool 2007 — Joseph Wright of Derby in Liverpool, Walker Art Gallery, Liverpool (eds E. E. Barker and A. Kidson), 2007. London 1836 — The Lawrence Gallery, One Hundred Original Drawings by Zucchero, Andrea del Sarto, Polidore da Caravaggio and Fra Bartolomeo Collected by Sir Thomas Lawrence, Late President of the Royal Academy, London, 1836. London 1947 — Dutch Conversation Pieces of the 18th & 19th Centuries, The Allied Circle, London, 1947. London 1950 — French Master Drawings of the 18th Century, Matthiesen Gallery, London, 1950. London 1953 — Drawings by Old Masters, Royal Academy of Arts, London (K. T. Parker and J. Byam Shaw), 1953. London 1955 — A Loan Exhibition: Artists in 17th century Rome: to Save Gosfield Hall for the Nation as a Residential Nursing Home . . . , Wildenstein & Co., London (D. Mahon and D. Sutton), 1955. London 1962 — A Selection of Drawings from the Witt Collection: French Drawings, c. 1600–c. 1800, Courtauld Institute Galleries, London, 1962. London 1963 — Treasures of the Royal Academy, Royal Academy of Arts, London, 1963. London 1968a — France in the Eighteenth Century, Royal Academy of Arts, London (ed. P. Sutton), 1968. London 1968b — Royal Academy of Arts Bicentenary Exhibition, Royal Academy of Arts, London, 1968. London 1969 — Royal Academy Draughtsmen, 1769–1969, Royal Academy of Arts, London (A. Wilton), 1969. London 1971 — Art into Art: Works of Art as a Source of Inspiration, Sotheby’s, London (ed. K. Roberts), 1971. London 1972 — The Age of Neo-Classicism, The Royal Academy of Arts and The Victoria and Albert Museum, London, 1972. London 1975 — Henry Fuseli. 1741–1825, Tate Gallery, London, 1975. London 1977 — Rubens. Drawings and Sketches, British Museum, London (ed. J. Rowlands), 1977. London 1983 — Bartolomeo Cavaceppi: Eighteenth-century Restorations of Ancient Marble Sculpture from English Private Collections, The Clarendon Gallery Ltd., London (C. A. Picón), 1983. London 1986 — Florentine Drawings of the Sixteenth Century, British Museum, London (N. Turner), 1986. London 1990 — Wright of Derby, Tate Gallery, London (ed. J. Egerton), 1990. London 1991 — French drawings, XVI–XIX centuries, Courtauld Institute Galleries, London (eds G. Kennedy and A. Thackray), 1991. London 1992 — Drawings Related to Sculpture, 1520–1620, Katrin Bellinger at Harari & Johns, London, 1992. London 1995 — Prints and Drawings, Recent acquisitions 1991–1995, British Museum, London, 1995 (no catalogue). London 1997 — British Watercolours from the Oppé Collection, Tate Gallery, London (A. Lyles and R. Hamlyn), 1997. London 1999a — John Soane Architect. Master of Space and Light, Royal Academy, London (eds M. Richardson and M. Stevens), 1999. London 1999b — Portraits of Artists and Related Subjects, Trinity Fine Art, London, 1999. London 2000 — A Noble Art: Amateur Artists and Drawing Masters c. 1600–1800, British Museum, London (K. Sloan), 2000. London 2001 — Marble Mania. Sculpture Galleries in England, 1640–1840, Sir John Soane’s Museum, London (R. Guilding), 2001. London 2001–02 — The Print in Italy 1550–1620, British Museum, London (M. Bury), 2001–02. London 2003a — Artists by Artists, Chaucer Fine Arts Inc., London, 2003. London 2003b — The Museum of the Mind. Art and Memory in World Cultures, British Museum, London (J. Mack), 2003. London 2005–06 — Rubens: A Master in the Making, National Gallery, London (eds D. Jaffé and E. McGrath), 2005–06. London 2007–08 — The Artist in Art, Colnaghi in association with Emanuel von Baeyer, London, 2007–08. London 2009–10 — Rubens Drawings, British Museum, Department of Prints and Drawings, London, 2009–10 (no catalogue). London 2011 — Art School Drawings from the 19th Century, Victoria and Albert Museum, London, 2011 (no catalogue). London 2011–12 — Leonardo da Vinci. Painter at the Court of Milan, National Gallery, London (ed. L. Syson with L. Keith), 2011–12. London 2013–14 — The Male Nude. Eighteenth-Century Drawings from the Paris Academy, Wallace Collection, London (eds E. Brugerolles et al.), 2013–14. London 2014 — Diverse Maniere: Piranesi, Fantasy and Excess, Sir John Soane’s Museum, London (ed. A. Lowe), 2014. London and Florence 2010–11 — Fra Angelico to Leonardo. Italian Renaissance Drawings, British Museum, London; Galleria degli Uffizi, Florence (eds H. Chapman and M. Faietti), 2010–11. London and New York 1992 — Andrea Mantegna, Royal Academy of Arts, London; Metropolitan Museum of Art, New York (ed. J. Martineau), 1992. London and New York 2012–13 — Master Drawings from the Courtauld Galleries, The Courtauld Gallery, London; The Frick Collection, New York (eds C. B. Bailey and S. 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Los Angeles 2000 — Making a Prince’s Museum: Drawings for the Late-Eighteenth-century Redecoration of the Villa Borghese, Getty Research Institute, Los Angeles (C. Paul), 2000. Los Angeles 2007–08 — Taddeo and Federico Zuccaro. Artist-Brothers in Renaissance Rome, J. Paul Getty Museum, Los Angeles (ed. J. Brooks), 2007–08. Los Angeles, Austin and elsewhere 1976–77 — Women Artists, 1550–1950, Los Angeles County Museum of Art; University Art Museum, The University of Texas at Austin; Museum of Art, Carnegie Institute, Pittsburgh; The Brooklyn Museum (A. Sutherland Harris and L. Nochlin), 1976–77. Los Angeles, Philadelphia and elsewhere 1993–94 — Visions of Antiquity. Neoclassical Figure Drawings, Los Angeles County Museum of Art; Philadelphia Museum of Art; Minneapolis Institute of Arts (ed. R. J. Campbell), 1993–94. Los Angeles, Toledo and elsewhere 1988–89 — Mannerist Prints: International Style in the Sixteenth Century, The Los Angeles County Museum of Art; The Toledo Museum of Art; John and Mable Ringling Museum of Art, Sarasota; Arthur M. Huntington Art Gallery, University of Texas at Austin; The Baltimore Museum of Art (B. Davis), 1988–89. Lyon 1998–99 — La fascination de l’antique: 1700-1770. Rome découverte, Rome inventée, Musée de la civilisation gallo-romaine, Lyon (eds F. De Polignac and J. Raspi Serra), 1998–99. Mantua and Vienna 1999 — Roma e lo stile classico di Raffaello, 1515–1527, Palazzo Te, Mantua; Graphische Sammlung Albertina, Vienna (eds A. Oberhuber and A. Gnann), 1999. Marseille 2001 — Maurice et Pauline Feuillet de Borsat collectionneurs. Dessins français et étrangers du XVIIe au XIXe siècle, Château Borély, Marseille (M. Roland Michel), 2001. 250 251  Melbourne 1984 — Flowers and Fables. A Survey of Chelsea Porcelain 1745–69, National Gallery of Victoria, Melbourne (M. 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Munich 2013–14 — In the Temple of the Self. The Artist’s Residence as a Total Work of Art, Villa Stuck, Munich (eds M. Brandhuber and M. Buhrs), 2013–14. Munich and Cologne 2002 — Wettstreit der Künste: Malerei und Skulptur von Dürer bis Daumier, Haus der Kunst, Munich; Wallraf-Richartz-Museum-Fondation Corboud, Cologne (eds E. Mai and K. Wettengl), 2002. Munich and Haarlem 1986 — Op zoek naar de Gouden Eeuw: Nederlandse schilderkunst 1800–1850, Neue Pinakothek, Munich; Frans Hals Museum, Haarlem (L. van Tilborgh and G. Jansen), 1986. Munich and Rome 1998–99 — Der Torso. Ruhm und Rätsel / Il Torso del Belvedere. Da Aiace a Rodin, Glyptothek, Munich; Musei Vaticani, Rome (ed. R. Wünsche), 1998–99. Münster 1976 — Bilder nach Bilder. Druckgrafik und die Vermittlung von Kunst, Westfälisches Landesmuseum für Kunst und Kulturgeschichte Münster, Münster (G. Langemeyer and R. Schleier), 1976. Naples 2008 — Salvator Rosa: tra mito e magia, Museo di Capodimonte, Naples (eds A. 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Nottingham and London 1983 — Drawing in the Italian Renaissance Workshop, University Art Gallery, Nottingham; Victoria and Albert Museum, London (F. Ames-Lewis and J. Wright), 1983. Nottingham and London 1991 — The Artist’s Model: Its Role in British Art from Lely to Etty, University Art Gallery, Nottingham; The Iveagh Bequest, Kenwood, London (I. Bignamini and M. Postle), 1991. Ottawa and Caen 2011–12 — Drawn to Art. French Artists and Art Lovers in 18th-century Rome, National Gallery of Canada, Ottawa; Musée des beaux-arts de Caen (ed. S. Couturier), 2011–12. Ottawa, Vancouver and elsewhere 1996–97 — The Ingenious Machine of Nature: Four Centuries of Art and Anatomy, National Gallery of Canada, Ottawa; Vancouver Art Gallery; The Philadelphia Museum of Art; The Israel Museum, Jerusalem (M. Cazort, M. Kornell and K. B. Roberts), 1996–97. Ottawa, Washington D.C. and elsewhere 2003–04 — The Age of Watteau, Chardin, and Fragonard: Masterpieces of French Genre Painting, National Gallery of Canada, Ottawa; National Gallery of Art, Washington, D.C.; Staatliche Museen zu Berlin, Gemäldegalerie (ed. C. Bailey), 2003–04. Oxford and New Haven 2012–13 — The English Prize. The Capture of the Westmoreland. An Episode of the Grand Tour, The Ashmolean Museum, Oxford; Yale Center for British Art, New Haven (eds M. D. Sánchez-Jáuregui and S. Wilcox), 2012–13. Paris 1922 — Exposition Hubert Robert et Louis Moreau: au bénénfice du foyer des Infirmières de la Croix-Rouge et des infirmières visiteuses, Galeries Jean Charpentier, Paris, 1922. Paris 1933 — Exposition Hubert Robert A l’occasion du Deuxième Centenaire de sa Naissance, Musée de l’Orangerie, Paris (L. Hautecoeur et al.), 1933. Paris 1975 — Füssli, Musée du Petit Palais, Paris, 1975. 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Paris 2009–10 — L’Académie mise à nu: l’école du modèle à l’Académie royale de peinture et de sculpture, École nationale supérieure des beaux-arts, Paris (ed. E. Brugerolles), 2009–10. Paris 2010–11 — Musées de papier: l’antiquité en livres, 1600-1800, Musée du Louvre, Paris (eds É. Décultot, G. Bickendorf and V. Kockel), 2010–11. Paris, Ottawa and elsewhere 1994–95 — Egyptomania: l’Egypte dans l’Art occidental, 1730–1930, Musée du Louvre, Paris; National Gallery of Canada, Ottawa; Kunsthistorisches Museum, Vienna (eds J. M. Humbert, M. Pantazzi and C. Ziegler), 1994–95. Philadelphia 1980–81 — A Scholar Collects: Selections from the Anthony Morris Clark Bequest, Philadelphia Museum of Art (eds U. W. Hiesinger and A. Percy), 1980–81. Philadelphia and Houston 2000 — Art in Rome in the Eighteenth Century, Philadelphia Museum of Art; Museum of Fine Arts, Houston (eds E. P. Bowron and J. J. Rishel), 2000. 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Rome 1986–87 — Rilievi storici Capitolini: il restauro dei pannelli di Adriano e di Marco Aurelio nel Palazzo dei Conservatori, Musei Capitolini, Rome (ed. E. La Rocca), 1986–87. Rome 1988a — Da Pisanello alla nascita dei Musei Capitolini. L’Antico a Roma all vigilia del Rinascimento, Musei Capitolini, Rome (eds A. Cavallaro and E. Parlato), 1988. Rome 1988b — La Colonna Traiana e gli artisti francesi da Luigi XIV a Napoleone I, Accademia di Francia a Roma (ed. P. Morel), 1988. Rome 1990–91 — J. H. Fragonard e H. Robert a Roma, Villa Medici, Rome (eds C. Boulot et al.), 1990–91. Rome 1992–93 — La Collezione Boncompagni Ludovisi: Algardi, Bernini e la fortuna dell’antico, Palazzo Ruspoli, Rome (ed. A. Giuliano), 1992–93. Rome 1994 — Bartolomeo Cavaceppi scultore romano (1717–1799), Museo del Palazzo di Venezia, Rome, (M. G. Barberini and C. Gasparri), 1994. Rome 1997–98 — Pietro da Cortona e il disegno, Istituto nazionale per la grafica, Accademia nazionale di San Luca, Rome (ed. S. Prosperi Valenti Rodino), 1997–98. Rome 2000a — Intorno a Poussin. Ideale classico e epopea barocca tra Parigi e Roma, Accademia di Francia, Rome (eds O. Bonfait and J.-C. Boyer), 2000. Rome 2000b — L’idea del bello: viaggio per Roma nel Seicento con Giovan Pietro Bellori, Palazzo delle Esposizioni, Rome (eds E. Borea and C. Gasparri), 2 vols, 2000. Rome 2000c — Raffaello da Firenze a Roma, Galleria Borghese, Rome (ed. A. Coliva), 2000. Rome 2001–02 — I Giustiniani e l’antico, Palazzo Fontana di Trevi, Rome (G. Fusconi), 2001–02. Rome 2004 — La Collezione del Principe. Da Leonardo a Goya. Disegni e stampe della raccolta Corsini, Istituto Nazionale per la Grafica, Rome (eds E. Antetomaso and G. Mariani), 2004. Rome 2005 — La Roma di Leon Battista Alberti. Umanisti, architetti e artisti alla scoperta dell’antico nella città del Quattrocento, Musei Capitolini, Rome (ed. F. P. Fiore), 2005. Rome 2005–06 — Il Settecento a Roma, Palazzo Venezia, Rome (eds A. Lo Bianco and A. Negro), 2005–06. Rome 2006–07 — Laocoonte: Alle origini dei Musei Vaticani, Musei Vaticani, Vatican, Rome (eds F. Buranelli et al.), 2006–07. Rome 2007 — Dürer e l’Italia, Scuderie del Quirinale, Rome (ed. K. Hermann Fiore), 2007. Rome 2008 — Ricordi dell’antico: sculture, porcellane e arredi del Grand Tour, Musei Capitolini, Rome (eds A. D’Agliano and L. Melegati), 2008. Rome 2010–11a — Palazzo Farnèse. Dalle collezioni rinascimentali ad Ambasciata di Francia, Palazzo Farnese, Rome (ed. F. Buranelli), 2010–11. Rome 2010–11b — Roma e l’Antico. Realtà e visione nel ‘700, Fondazione Roma Museo, Rome (eds C. Brook and V. Curzi), 2010–11. Rome 2011 — Ritratti: le tante faccie del potere, Musei Capitolini, Rome (eds E. La Rocca, C. Parisi Presicce and A. Lo Monaco), 2011. Rome 2011–12 — I Borghese e l’Antico, Galleria Borghese, Rome (eds A. Coliva et al.), 2011–12. Rome 2014a — 1564/2014 Michelangelo. Incontrare un artista universale, Musei Capitolini, Rome (ed. C. Acidini), 2014. Rome 2014b — Hogarth, Reynolds, Turner: British Painting and the Rise of Modernity, Fondazione Roma Museo, Rome (eds C. Brook and V. Curzi), 2014. Rome forthcoming — Spinario. Storia e fortuna, Musei Capitolini, Rome (ed. C. Parisi Presicce), forthcoming. Rome, Dijon and elsewhere 1976 — Piranese et les francais, 1740–1790, Villa Medici, Rome; Palais des Etats de Bourgogne, Dijon; Hotel de Sully, Paris, 1976. Rome and Paris 2014–15 — I bassifondi del Barocco. La Roma del vizio e della miseria, Accademia di Francia a Roma – Villa Medici, Rome; Petit Palais – Musée des Beaux-Arts de la Ville de Paris, Paris (eds F. Cappelletti and A. Lemoine), 2014–15. Rome, University Park (PA) and elsewhere 1989–90 — Prize winning drawings from the Roman Academy, 1682–1754, Accademia Nazionale di San Luca, Rome; Palmer Museum of Art, Pennsylvania State University; and National Academy of Design, New York (eds A. Cipriani and G. Casale), 1989–90. Rotterdam 1946 — Cornelis Troost en zijn tijd, Museum Boijmans Van Beuningen, Rotterdam, 1946. Rotterdam 1958 — Michael Sweerts en Tijdgenoten, Museum Boijmans Van Beuningen, Rotterdam (E. Lavagino), 1958. Rotterdam 1994 — Cornelis Cort ‘constich plaedt-snijder van Horne in Holland’ – Cornelis Cort accomplished plate-cutter from Hoorn in Holland, Museum Boijmans Van Beuningen, Rotterdam (M. Sellink), 1994. Stockholm 1990 — Füssli, Uddevalla, Stockholm (ed. G. Cavalli- Björkman), 1990. Stuttgart 1997–98 — Johann Heinrich Füssli. Das Verlorene Paradies, Staatsgalerie Stuttgart (ed. C. Becker and C. Hattendorrf), 1997–98. Swansea 1962 — Exhibition of French Master Drawings, Glynn Vivian Art Gallery, Swansea, 1962. Toledo, Chicago and elsewhere 1975–76 — The Age of Louis XV: French Painting, 1710–1774, The Toledo Museum of Art, Ohio; Art Institute of Chicago; National Gallery of Canada, Ottawa (ed. P. Rosenberg), 1975–76. Tokyo 1968–69 — The Age of Rembrandt: Dutch Paintings and Drawings of the 17th century, The National Museum of Western Art, Toyko, and Kyoto Municipal Museum (D. A. van Karnebeek), 1968–69. Tokyo 1983 — Henry Fuseli, National Museum of Western Art and City Art Museum Kitakyushu, Tokyo (ed. G. Schiff), 1983. Toronto, Ottawa and elsewhere 1972–73 — Dessins français du 17e et 18e siècles des collections americaines. French Master Drawings of the 17th and 18th Centuries of the North American Collections, Art Gallery of Ontario, Toronto; National Gallery of Canada, Ottawa; California Palace of the Legion of Honor, San Francisco; New York Cultural Center (eds C. Johnston and P. Rosenberg), 1972–73. Tours and Toulouse 2000 — Les peintres du roi 1648–1793, Musée des Beaux-Arts de Tours; Musée des Augustins à Toulouse (eds P. Rosenberg et al.), Paris, 2000. Troyes, Nîmes and elsewhere 1977 — Charles-Joseph Natoire (Nîmes, 1700 – Castel Gandolfo, 1777): peintures, dessins, estampes et tapisseries des collections publiques françaises, Musée des Beaux-Arts, Troyes; Musée des Beaux- Arts, Nîmes; Villa Medici, Rome, 1977. Venice 1976 — Tiziano e la silografia veneziana del Cinquecento, Fondazione Giorgio Cini, Venice (eds M. Muraro and D. Rosand), Venice, 1976. 252 253  Vienna 1987 — Zauber der Medusa. Europäische Manierismen, Wiener Künstlerhaus, Vienna (ed. W. Hofmann), 1987. Washington D.C. 1977 — Seventeenth Century Dutch Drawings from American Collections: A Loan Exhibition, organized and circulated by the International Exhibitions Foundation, National Gallery of Art, Washington, D.C. (F. W. Robinson), 1977. Washington D.C. 1978–79 — Hubert Robert: Drawings & Watercolors, National Gallery of Art, Washington, D.C. (V. Carlson), 1978–79. Washington D.C. 1999–2000 — The Drawings of Annibale Carracci, National Gallery of Art, Washington, D.C. (eds D. Benati et al.), 1999–2000. Washington D.C., Los Angeles and elsewhere 2003–04 — Jean-Antoine Houdon: Sculptor of the Enlightenment, National Gallery of Art, Washington, D.C.; The J. Paul Getty Museum, Los Angeles; Musée et Domaine National du Château de Versailles (A. L. Poulet et al.), 2003–04. Williamstown, Madison and elsewhere 2001–02 — Goltzius and the Third Dimension, Sterling and Francine Clark Institute, Williamstown (MA); Elvehjem Museum of Art, Madison (WI); Spencer Museum of Art, Lawrence (KS) (eds S. H. Goddard and J. A. Ganz), 2001–02. Windsor 2013 — Paper palaces: The Topham Collection as a Source for British Neo-Classicism, The Verey Gallery, Eton College, Windsor (A. Aymonino et al.), 2013. York 1973 — A Candidate for Praise. William Manson 1725–97, Precentor of York, York Art Gallery and York Minster Library (eds B. Barr and J. Ingamells), 1973. Zurich 1941 — Johann Heinrich Füssli (1741–1825): Zur Zweihundertjahrfeier und Gedächtnisausstellung 1951, Kunsthaus Zürich, Zurich (ed. W. Wartmann and M. Fischer), 1941. Zurich 1969 — Johann Heinrich Füssli, 1741–1825, Kunsthaus Zürich, Zurich, 1969. Zurich 1984 — Meisterwerke aus der Graphischen eichnungen, Aquarelli, Pastelle, Collagen aus fünf Jahrhunderten, Kunsthaus Zürich, Zurich, 1984. Zurich 2005 — Füssli. The Wild Swiss, Kunsthaus Zürich, Zurich (ed. F. Lentzsch), 2005. Fig. 61. Royal Collection Trust/© Her Majesty Queen Elizabeth II 2015 Fig. 62. Royal Collection Trust/© Her Majesty Queen Elizabeth II 2015 Fig. 63. © bpk, Berlin / Museum der bildenden Künste, Leipzig Fig. 64. © bpk, Berlin / Museum der bildenden Künste, Leipzig Fig. 65. The Warburg Institute, Photographic Collection Fig. 66. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 67. The Samuel Courtauld Trust, The Courtauld Gallery, London Fig. 68. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 69. © bpk, Berlin / École nationale supérieure des Beaux-Arts de Paris, Dist. RMN – Grand Palais Fig. 70. © bpk, Berlin / École nationale supérieure des Beaux-Arts de Paris, Dist. RMN – Grand Palais Fig. 71. © bpk, Berlin / École nationale supérieure des Beaux-Arts de Paris, Dist. RMN – Grand Palais Fig. 72. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 73. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 74. Rijksmuseum, Amsterdam Fig. 75. © Ashmolean Museum, University of Oxford Fig. 76. Su gentile concessione del Museo Biblioteca Archivio di Bassano del Grappa Fig. 77. Photo Les Arts décoratifs Fig. 78. Photo Les Arts décoratifs Fig. 79. National Library of Medicine (NLM) Fig. 80. National Library of Medicine (NLM) Fig. 81. The Metropolitan Museum of Art, Gift of Lincoln Kirstein, 1952, www.metmuseum.org Fig. 82. © Royal Academy of Arts, London Fig. 83. © bpk, Berlin / École nationale supérieure des Beaux-Arts de Paris, Dist. RMN – Grand Palais Fig. 84. © Royal Academy of Arts, London Fig. 85. © Royal Academy of Arts, London Fig. 86. Private collection Fig. 87. © bpk, Berlin / École nationale supérieure des Beaux-Arts de Paris, Dist. RMN – Grand Palais Fig. 88. Philadelphia Museum of Art Fig. 89. Cherbourg-Octeville, musée d’art Thomas-Henry © D.Sohier Fig. 90. Heidelberg University Library Fig. 91. © The Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 92. Staatsgalerie Stuttgart © Foto: Staatsgalerie Stuttgart Fig. 93. Reproduced by permission of the Provost and Fellows of Eton College Fig. 94. © bpk, Berlin / Musée du Louvre, Dist. RMN – Grand Palais / Susanne Nagy Fig. 95. © Musée de Valence, photo Philippe Petiot Fig. 96. © Musée de Valence, photo Philippe Petiot Fig. 97. © Musée de Valence, photo Philippe Petiot Fig. 98. Courtesy National Gallery of Art, Washington Fig. 99. © Tate, London 2014 Fig. 100. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 101. © Royal Academy of Arts, London; Photographer: John Hammond Fig. 102. RSA, London Fig. 103. RSA, London Fig. 104. © CSG CIC Glasgow Museums and Libraries Collection: The Mitchell Library, Special Collections Fig. 105. © Royal Academy of Arts, London; Photographer: Prudence Cuming Associates Limited Fig. 106. Royal Collection Trust/© Her Majesty Queen Elizabeth II 2015 Fig. 107. © Royal Academy of Arts, London Fig. 108. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 109. Photograph courtesy of the National Gallery of Ireland Cat. 1 Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 2. © Matthew Hollow Fig. 3. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Cat. 2 Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1. Rijksmuseum, Amsterdam Cat. 3 Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1. Courtesy Yvonne Tan Bunzl Fig. 2. © The Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 3. © The Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 4. © bpk, Berlin / Kupferstichkabinett, SMB / Volker-H. Schneider Fig. 5. © The Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 6. S.S.P.S.A.E e per il Polo Museale della città di Firenze – Gabinetto Fotografico Cat. 4 Exhibit a. © The Trustees of the British Museum. All rights reserved Exhibit b. Rijksmuseum, Amsterdam Fig. 1. Private collection Fig. 2. © Kurpfälzisches Museum der Stadt Heidelberg Cat. 5 Exhibit. Digital image courtesy of the Getty’s Open Content Program Fig. 1. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 2. Vatican Museums and Galleries, Vatican City/ Bridgeman Images Fig. 3. © The Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 4. Digital image courtesy of the Getty’s Open Content Program Fig. 5. Digital image courtesy of the Getty’s Open Content Program Cat. 6 Exhibit a. Teylers Museum, Haarlem Exhibit b. © The Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 1. Rijksmuseum, Amsterdam Cat. 7 Exhibit a. Teylers Museum, Haarlem Exhibit b. Teylers Museum, Haarlem Fig. 1. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 2. Teylers Museum, Haarlem Fig. 3. Teylers Museum, Haarlem Fig. 4. Courtesy Amsterdam Museum Cat. 8 Exhibit. Teylers Museum, Haarlem Fig. 1. Teylers Museum, Haarlem Fig. 2. S.S.P.S.A.E e per il Polo Museale della città di Firenze – Gabinetto Fotografico Cat. 9 Exhibit. © The Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 1. Archivio Fotografico dei Musei Capitolini. Photo Zeno Colantoni Fig. 2. © Musée des Beaux-Arts de Dijon. Photo François Jay Cat. 10 Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1. Archivio Fotografico dei Musei Capitolini. Photo Zeno Colantoni Fig. 2. Courtesy of the Master and Fellows of Trinity College Cambridge Fig. 3. © Matthew Hollow Fig. 4. © The Fitzwilliam Museum, Cambridge Cat. 11 Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1. Rijksmuseum, Amsterdam Fig. 2. © The Fitzwilliam Museum, Cambridge Fig. 3. © Matthew Hollow Cat. 12 Exhibit. Rijksmuseum, Amsterdam Fig. 1. Rijksmuseum, Amsterdam Fig. 2. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 3. Archivio Fotografico dei Musei Capitolini. Photo Zeno Colantoni Fig. 4. The Warburg Institute, Photographic Collection Fig. 5. Detroit Institute of Arts, USA, City of Detroit Purchase/Bridgeman Images Fig. 6. Collection Rau for UNICEF / Gruppe Köln, Hans G. Scheib Cat. 13 Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 2. Courtesy Amsterdam Museum Fig. 3. Courtesy Municipal Archives of The Hague Fig. 4. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 5. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 6. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Cat. 14 Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 2. © 2015 The Metropolitan Museum of Art/ Art Resource/Scala, Florence Fig. 3. © Christie’s Images Limited (1988) Fig. 4. Rijksmuseum, Amsterdam Photographic Credits Every effort has been made to trace copyright holders and to obtain their permission for the use of copyright material. The publisher apologises for any errors or omissions in the below list and would be grateful if notified of any corrections that should be incorporated in future reprints or editions of this book. Ideal Beauty and the Canon in Classical Antiquity Fig. 1. © 2015 The Metropolitan Museum of Art/Art Resource/Scala, Florence Fig. 2. The Warburg Institute, Photographic Collection Fig. 3. The Warburg Institute, Photographic Collection ‘Nature Perfected’: The Theory & Practice of Drawing after the Antique Fig. 1. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 2. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 3. © bpk, Berlin / Musée du Louvre, Dist. RMN – Grand Palais / Gérard Blot Fig. 4. © Veneranda Biblioteca Ambrosiana – Milano / De Agostini Picture Library Fig. 5. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 6. Albertina, Vienna Fig. 7. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 8. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 9. Copyright Comune di Milano – tutti i diritti riservati Fig. 10. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 11. © Veneranda Biblioteca Ambrosiana – Milano / De Agostini Picture Library Fig. 12. © The Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 13. Museum Boijmans Van Beuningen, Rotterdam. Loan Museum Boijmans Van Beuningen Foundation (collection Koenigs) / photographer: Studio Tromp, Rotterdam Fig. 14. © The Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 15. Archivio Fotografico dei Musei Capitolini. Photo Zeno Colantoni Fig. 16. Rijksmuseum, Amseterdam 254 Fig. 17. The Metropolitan Museum of Art, Bequest of Phyllis Massar, 2011, www.metmuseum.org Fig. 18. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 19. Vatican Museums and Galleries, Vatican City/Bridgeman Images Fig. 20. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 21. © Royal Museums of Fine Arts of Belgium, Brussels / photo: J. Geleyns / Ro scan Fig. 22. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 23. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 24. © The Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 25. Graphische Sammlung Albertina, Vienna, Austria / Bridgeman Images Fig. 26. Vatican Museums and Galleries, Vatican City / Bridgeman Images Fig. 27. Courtesy National Gallery of Art, Washington Fig. 28. Albertina, Vienna Fig. 29. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 30. © The Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 31. © The Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 32. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 33. Galleria degli Uffizi, Florence, Italy / Bridgeman Images Fig. 34. S.S.P.S.A.E e per il Polo Museale della città di Firenze – Gabinetto Fotografico Fig. 35. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 36. © Veneranda Biblioteca Ambrosiana – Milano / De Agostini Picture Library Fig. 37. Katrin Bellinger collection Fig. 38. © bpk, Berlin / Kupferstichkabinett / Jörg P. Anders Fig. 39. © bpk, Berlin / Kupferstichkabinett / Jörg P. Anders Fig. 40. © bpk, Berlin / Kupferstichkabinett / Volker-H. Schneider Fig. 41. © bpk, Berlin / Kupferstichkabinett / Volker-H. Schneider Fig. 42. © bpk, Berlin / Kupferstichkabinett / Volker-H. Schneider Fig. 43. © bpk, Berlin / Kupferstichkabinett / Volker-H. Schneider Fig. 44. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 45. © 2015 The Metropolitan Museum of Art/ Art Resource/Scala, Florence Fig. 46. © Veneranda Biblioteca Ambrosiana – Milano / De Agostini Picture Library Fig. 47. © Veneranda Biblioteca Ambrosiana – Milano / De Agostini Picture Library Fig. 48. Royal Museum for Fine Arts Antwerp © Lukas-Art in Flanders vzw, photo Hugo Maertens Fig. 49. Rijksmuseum, Amsterdam Fig. 50. Musea Brugge © Lukas-Art in Flanders vzw, photo Hugo Maertens Fig. 51. ©Peter Cox/Bonnefantenmuseum Maastricht Fig. 52. Minneapolis Institute of Arts, MN, USA, The Walter H. and Valborg P. Ude Memorial Fund/ Bridgeman Images Fig. 53. Rijksmuseum, Amsterdam Fig. 54. Louvre, Paris, France/Bridgeman Images Fig. 55. Archivio Fotografico dei Musei Capitolini. Photo Zeno Colantoni Fig. 56. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 57. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 58. © bpk, Berlin / Musée du Louvre, Dist. RMN – Grand Palais / Richard Lambert Fig. 59. © bpk, Berlin / Musée Condé, Chantilly, Dist. RMN – Grand Palais / René-Gabriel Ojéda Fig. 60. Royal Collection Trust/© Her Majesty Queen Elizabeth II 2015 255  Cat. 15 Exhibit. © The Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 1. © Devonshire Collection, Chatsworth / Reproduced by permission of Chatsworth Settlement Trustees / Bridgeman Images Fig. 2. Wadsworth Atheneum Museum of Art, Hartford, CT Fig. 3. © The Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 4. Vatican Museums and Galleries, Vatican City / Bridgeman Images Cat. 16 Exhibit. The Samuel Courtauld Trust, The Courtauld Gallery, London Fig. 1. Image courtesy of Sotheby’s Fig. 2. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 3. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 4. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 5. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 6. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Cat. 17 Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1. Archivio Fotografico dei Musei Capitolini. Photo Zeno Colantoni Fig. 2. Museum Boijmans Van Beuningen, Rotterdam / photographer: Studio Tromp, Rotterdam Fig. 3. The Metropolitan Museum of Art, Bequest of Walter C. Baker, 1971, www.metmuseum.org Fig. 4. Witt Library, The Courtauld Institute of Art, London Cat. 18 Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 2. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 3. © bpk, Berlin / Antikensammlung, SMB Fig. 4. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 5. © bpk, Berlin / Antikensammlung, SMB / Johannes Laurentius Fig. 6. © photo Musées de Marseille Fig. 7. Photographic Survey, The Courtauld Institute of Art, London. Private collection Cat. 19 Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 2. © Accademia Nazionale di San Luca. Tutti i diritti riservati Fig. 3. © The Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 4. By courtesy of the Trustees of Sir John Soane’s Museum Cat. 20 Exhibit. By courtesy of the Trustees of Sir John Soane’s Museum Fig. 1. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 2. Archivio Fotografico dei Musei Capitolini. Photo Zeno Colantoni Fig. 3. Archivio Fotografico dei Musei Capitolini. Photo Zeno Colantoni Fig. 4. The Warburg Institute, Photographic Collection Fig. 5. Staatsgalerie Stuttgart © Foto: Staatsgalerie Stuttgart Fig. 6. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Cat. 21 Exhibit. © bpk / Kunstbibliothek, Staatliche Museen zu Berlin Fig. 1. Image courtesy of Sotheby’s Fig. 2. Image courtesy of Sotheby’s Cat. 22 Exhibit. © 2014 Kunsthaus Zürich. All rights reserved. Fig. 1. Archivio Fotografico dei Musei Capitolini. Photo Paulo Cipollina Fig. 2. Archivio Fotografico dei Musei Capitolini. Photo Lorenzo De Masi Fig. 3. Archivio Fotografico dei Musei Capitolini. Photo Lorenzo De Masi Fig. 4. Istituto Centrale per la Grafica Canoni fotografici (MIBACT) Fig. 5. © bpk, Berlin / Kunstbibliothek, SMB / Dietmar Katz Cat. 23 Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1. Louvre, Paris, France/Bridgeman Images Fig. 2. © The Trustees of the British Museum. All rights reserved Cat. 24 Exhibit. © The Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 1. Yale Center for British Art, Paul Mellon Collection Fig. 2. Private collection Fig. 3. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Cat. 25 Exhibit. © Royal Academy of Arts, London Fig. 1. © Royal Academy of Arts, London Fig. 2. © Royal Academy of Arts, London Fig. 3. © bpk, Berlin / RMN – Grand Palais / Stéphane Maréchalle Fig. 4. Santa Barbara Museum of Art, Gift of Wright S. Ludington Fig. 5. Conway Library, The Courtauld Institute of Art, London Fig. 6. Archivio Fotografico dei Musei Capitolini. Photo Zeno Colantoni Fig. 7. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 8. © Royal Academy of Arts, London; Photographer: Paul Highnam Fig. 9. © Royal Academy of Arts, London; Photographer: Paul Highnam Cat. 26 Exhibit. © The Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 1. © Tate, London 2014 Fig. 2. Courtesy of www.gjsaville-caricatures.co.uk Cat. 27 Exhibit a. © Victoria and Albert Museum, London Exhibit b. © Victoria and Albert Museum, London Fig. 1. © Tate, London 2014 Fig. 2. © Tate, London 2014 Fig. 3. © Tate, London 2014 Fig. 4. © Tate, London 2014 Cat. 28 Exhibit. © The Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 1. © Towneley Hall Art Gallery and Museum, Burnley, Lancashire/Bridgeman Images Fig. 2. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 3. © The Trustees of the British Museum. All rights reserved Cat. 29 Exhibit. By courtesy of the Trustees of Sir John Soane’s Museum Cat. 30 Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1. Photo Collection RKD, The Hague Fig. 2. Royal Collection Trust/© Her Majesty Queen Elizabeth II 2015 Fig. 3. Klassik Stiftung Weimar, Bestand Museen. Photo Sigrid Geske Cat. 31 Exhibit. Teylers Museum, Haarlem Cat. 32 Exhibit. Teylers Museum, Haarlem Fig. 1. Photo Collection RKD, The Hague Cat. 33 Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1. The National Museum of Art, Architecture and Design, Oslo, photographer Jacques Lathion Fig. 2. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 3. Archivio Fotografico dei Musei Capitolini. Photo Zeno Colantoni Fig. 4. Louvre, Paris, France / Bridgeman Images Fig. 5. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 6. Courtesy of Pontus Kjerrman Cat. 34 Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 2. Courtesy of Olga Liubimova Fig. 3. © Tomas Abad Cat. 35 Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1. © Victoria and Albert Museum, London Fig. 2. © National Portrait Gallery, London Fig. 3. © Christie’s Images Limited (2012) Fig. 4. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 5. © National Museums Liverpool, Walker Art Gallery Fig. 6. [© National Museums Liverpool, Walker Art Gallery Sammlung. ZMassimo Carboni. Keywords: tratto dalla vita, estetica, arte, icona, parola, immagine, filosofia antica, il concetto dell’antico, l’antico – l’antico e il moderno – drawing from the antique – antico – filosofia antica, arte antica, statuaria antica, the lure of the antique – il gusto e l’antico --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carboni” – The Swimming-Pool Library.

 

levi: filosofo italiano - Italian philosopher of Jewish descent. Author of “Storia della filosofia romana.”

 

giornale critico della filosofia italiana.

 

Giovanni d. “Positivismo italiano.”

 

Grice e Cassio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano. Gaio Cassio Longino. Gaio Cassio Longino Tribuno della plebe della Repubblica romana Gaio Cassio Longino (a destra), Marco Giunio Bruto (col volto girato) e gli altri congiurati pugnalano Giulio Cesare alle Idi di Marzo; particolare del dipinto di Vincenzo Camuccini, Morte di Giulio Cesare. Nome originale. Gaius Cassius Longinus Nascita: Roma Morte: Filippi Coniuge: Tertulla Figli: Gaio Cassio Longino Gens: Cassia Tribuno militare sotto Marco Licinio Crasso Questura. Tribunato della plebe. Gaio Cassio Longino (in latino: Gaius Cassius Longinus, pronuncia classica o restituta: [ˈɡaːɪ.ʊs ˈkassɪ.ʊs ˈlɔŋɡɪnʊs]; Roma, 87/86 a.C. – Filippi, 3 ottobre 42 a.C.) è stato un politico romano, tra i promotori della congiura che causò l'uccisione di Gaio Giulio Cesare. Appartenne alla gens Cassia, una famiglia patrizia riuscita ad accedere al consolato. Nel sesto decennio a.C. Cassio, dopo il matrimonio con Tertulla, figlia di Servilia, sembra avvicinarsi al partito degl’optimates guidato da Catone Uticense.   Moneta coniata da Longino Prese parte alla guerra contro i Parti, al fianco di Marco Licinio Crasso, salvandosi dal disastro di Carre del 53 a.C., e riuscendo a respingere una loro successiva invasione che si era spinta fin sotto le mura di Antiochia.[1] Nominato tribuno della plebe nel 49 a.C., allo scoppio della guerra civile si schierò dalla parte di Pompeo, che gli affidò il controllo di parte della sua flotta nelle acque del Mediterraneo. Dopo la battaglia di Farsalo e la morte di Pompeo in Egitto, egli decise di beneficiare della clemenza di Cesare: lo raggiunse dunque in Cilicia, vicino Tarso, da dove il dittatore stava pianificando l'attacco a Farnace. Nonostante il suo rapporto con Cesare si fosse consolidato, Cassio decise, nel 44 a.C., di allontanarsi dalla corrente politica di Cesare per essere uno degli organizzatori del complotto che portò costui alla morte.  Dopo l'assassinio del dittatore, Cassio insieme a Bruto, figlio di Servilia, fuggì da Roma, timoroso delle rappresaglie messe in atto da Marco Antonio (luogotenente di Cesare) e dal giovane ed emergente Ottaviano (futuro primo imperatore di Roma con il nome di Augusto). Come si apprende da un'epistola scritta a Cicerone poco prima della battaglia di Modena, Cassio ottenne brillanti successi in Oriente. Recatosi ad Apamea, dove era assediata dai cesariani una legione pompeiana al comando di Quinto Cecilio Basso, riuscì a convincere i capi cesariani sul posto, Lucio Staio Murco e Quinto Marcio Crispo, a defezionare con le loro sei legioni e passare dalla sua parte. Poco dopo giunse dall'Egitto Aulo Allieno con altre quattro legioni, che a sua volta si unì a Cassio[2][3]. Secondo alcune fonti Marcio Crispo tuttavia rifiutò di servirlo[4]. Cassio disponeva ora di numerose legioni e si mosse per affrontare il cesariano Publio Cornelio Dolabella, che in precedenza aveva vinto e ucciso il cesaricida Gaio Trebonio.  Tuttavia i due cospiratori non riuscirono a farla franca. Nel frattempo era stata emanata la lex Pedia, che condannava all'esilio i cesaricidi.  Cassio e Bruto vennero affrontati nella battaglia di Filippi il 3 ottobre del 42 a.C. da Marco Antonio e Ottaviano. Cassio fu sconfitto da Marco Antonio; pensando che anche Bruto fosse stato sconfitto diede ordine ad un suo schiavo, Pindarus, di ucciderlo, usando la stessa daga con cui aveva pugnalato Cesare; Bruto, nonostante la parziale vittoria ottenuta su Ottaviano, fu successivamente raggiunto ed accerchiato dagli uomini di Marco Antonio. Il 23 ottobre del 42 a.C. Bruto, vedendosi sconfitto, si suicidò.  Plutarco riferisce che Cassio era seguace di Epicuro.  Cassio viene definito da più fonti come Ultimus Romanorum, l'ultimo dei romani a incarnare i valori e lo spirito romano: il riferimento è in Tacito, che cita a sua volta lo storico Cremuzio Cordo: «Sotto il consolato di Cornelio Cosso e Asinio Agrippa fu sottoposto a giudizio Cremuzio Cordo per un reato di nuovo genere, noto allora per la prima volta: negli annali da lui scritti, dopo aver elogiato M. Bruto, aveva chiamato Cassio l'ultimo dei romani"[5].  Letteratura Dante lo pone nell'ultimo girone dell'Inferno (Inferno, XXXIV, 64-67), la Giudecca, ove si puniscono i traditori dei benefattori. Assieme a Giuda Iscariota ed a Marco Giunio Bruto, è costantemente maciullato dalle fauci di Lucifero.  Cassio è uno dei protagonisti della tragedia Giulio Cesare di William Shakespeare.  Note ^ Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, XL, 28-29. ^ R. Syme, La rivoluzione romana, p. 191. ^ Cassio, epistola a Cicerone ex castris Taricheis, in Charles Chaulmer, Les Epitres familières de Ciceron en latin et en françois., edd. Antoine e Horace Molin, 1689 ^ Broughton, T. Robert S., The Magistrates of the Roman Republic, vol.III, 1986 ^ Annales, IV, 34, 1 Bibliografia Vittorio Sermonti, Inferno, Rizzoli 2001. Umberto Bosco e Giovanni Reggio, La Divina Commedia - Inferno, Le Monnier 1988. Voci correlate Gaio Giulio Cesare Marco Giunio Bruto Battaglia di Filippi Marco Antonio Augusto Ultimus Romanorum Altri progetti Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010. Modifica su Wikidata Càssio Longino, Gàio (uomo politico e questore), su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata (EN) Gaius Cassius / Gaius Cassius Longinus, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Gaio Cassio Longino / Gaio Cassio Longino (altra versione), su Goodreads. Modifica su Wikidata V · D · M Guerra civile romana (49-45 a.C.) V · D · M Guerra civile romana (44-31 a.C.) V · D · M Cesaricidi Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Età augustea Categorie: Politici romani del I secolo a.C.Morti nel 42 a.C.Morti il 3 ottobreNati a RomaCassiiGovernatori romani della SiriaMorti per suicidioPersonaggi citati nella Divina Commedia (Inferno)EpicureiCesaricidi[altre] Cassio, one of those who assassinated Giulio Cesare, was a follower of the philosophy of The Garden. He converted to the sect after an earlier interest in the Porch, and defended his new philosophy in correspondence with his friend Cicerone.

 

cassiodoro: noble Italian philosopher. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Cassiodoro," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia

 

casalegno, paolo. Italian philosopher author of “H. P. Grice” in “Filosofia del linguaggio.”

 

cattaneo: essential Italian philosopher. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Cattaneo," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Grice e Carace – Roma – filosofia italiana – Claudio Carace – Charax – Much admired by Antonino.

 

Grice e Carchia: l’implicatura conversazionale dell’ars amandi – signi d’amore – erotico del bello – comunicazione degl’amanti primitive -- filosofia romana – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Torino). Filosofo Italiano. Grice: “I once joked that if I’m introduce dto Mr. Poodle as ‘our man in eighteenth century aesthetics, the implictum is that he ain’t good at it! Not with Carchia: because (a) Carchia is a serious philosopher (b) he conceives aesthetics alla Baumagarten, having to do with communication  (“nome e immagine”, “interpretazione ed emancipazione”) and with not just the aesthetis qua sensus – but its truth value (“immagine e verita,” “l’intelligible estetico”) – a genius! On topc, my favourite piece of his philosophising is on the torso del belvedere as representing the ‘rhetoric of the sublime’!” Si laurea a Torino sotto Vattimo con la dissertazione “Il Linguaggio”. Insegna a Viterbo e Roma. Studioso di filosofia antica, traduttore. Opere: Orfismo e tragedia; Estetica ed erotica; Dall'apparenza al mistero; La legittimazione dell'arte; Arte e bellezza; L'estetica antica, ecc.  Si è anche occupato, di arte e comunicazione dei popoli 'primitivi' e di artisti contemporanei quali Savinio, Sbarluzzi e Lanzardo. La casa editrice Quodlibet raccoglie le sue opere postume. Rusce ad immaginare la filosofla, a porla in immagini -- nel solco della filosofia italiana dall'Umanesimo a Vico. Minima immoralia. Aforismi tralasciati nell'edizione italiana (Einaudi, 1954), Milano: L'erba voglio); Comunità e comunicazione (Torino: Rosemberg & Sellier); prefazione e cura di Henry Corbin, L'imâm nascosto, Milano: Celuc, 1979; Milano: SE); Orfismo e tragedia. Il mito trasfigurato, Milano: Celuc); Estetica e antropologia. Arte e comunicazione dei primitivi, Torino: Rosemberg & Sellier); Erotica. Saggio sull'immaginazione, Milano: Celuc) L'intelligibile (Napoli: Guida); Dall'apparenza al mistero. La nascita del romanzo, Milano: Celuc); Il mito in pittura. La tradizione come critica, Milano: Celuc); cura di Arnold Gehlen, Quadri d'epoca. Sociologia e estetica della pittura moderna, Napoli: Guida) Retorica del sublime, Roma-Bari: Laterza); Il bello (Bologna: Il Mulino); Interpretazione ed emancipazione. Torino: Dipartimento di ermeneutica); introduzione a Karl Löwith, Scritti sul Giappone, Soveria Mannelli: Rubbettino); “La favola dell'essere. Commento al Sofista” (Macerata: Quodlibet); Estetica, Roma-Bari: Laterza);  L'estetica antica, Roma-Bari: Laterza); L'amore del pensiero, Macerata: Quodlibet); Nome e immagine (Benjamin, Roma: Bulzoni); Immagine e verità. Studi sulla tradizione classica, Monica Ferrando, prefazione di Sergio Givone, Roma: Edizioni di storia e letteratura, Kant e la verità dell'apparenza, Gianluca Garelli, Torino: Ananke, 2006  88-7325-151-X introduzione a Walter Friedrich Otto, Il poeta e gli antichi dèi, Rovereto: Zandonai. L’immaginazione come orizzonte nomade della conoscenza. Produttività e trascendentalità dell’immaginazione nella critica del giudizio. L’immaginazione senza immagini. La notte delle immagini, il ricordo, la memoria. L’immaginazione come autotrasparire dell’apparenza rappresentativa. Naturalismo simbolico e simbolica naturale. Angelologia. Alighieri: spiritus phantasticus e alta fantasia. Gemellarità dell’immaginazione gnostica. L’immaginazione speculativa. Simbolismo e imagismo. Il fantastico come ideologia. Il romantico. L’immaginazione come dimora del padre. Demone e allegoria. La forza del nome. Icona e coscienza sofianica. Mistica. Mimesi e metessi. La nuova accademia: l’estetico. Paradigma, schema, immagine.  1 Ovidio. Arte amatoria. Chi peregrin nell’amorosa scuola  Entra , me legga, se vuol esser dotto.  Non usansi senz’arte e vele e remi;   Non senz’arte guidar si puote il cocchio;  Non senz' arte si può reggere Amore.   Ben sapeva condurre Automedonte (i)   Co’ focosi, destrieri il caiiro , e Tifi r  Sedea maestro \sair emonia poppa.   Ne’ mister} d’ Àmot me fece esjperto  V enere bella , e ben dirmi poss’ io  D’Aniore un altro Tifi e Automedonte.  Ch^ ei sia crude!, noi niego » e spesse volte  Contro me stesso si rivolta ; pure  Egli è fiinciullo , e l’immatuTa' etàde  Atta si rende al fren. Docile e mite  Rese Chiron l’ impetuoso^ Achilie (2)    (i) Automédonte , figlio di Dioreo,fu il Cocchierò  d*lAchille , Tifi condusse gli Argonauti in Coleo sul-  la nave Argo , che qui dicesi emonia , perchè era su  <mella Giasone figlio del Re di Tessaglia , e perchè la  Tessaglia si chiamala Emonia dal monte Emo.   (a) Chirone figliuol di Fillira fu il Precettore d’A’^  chille^il qual nen chiamato ^acides fia Eaep suo Avo,    Digitized by Google      Col dolde suon della canora cetra^   Ed ei, che fu il terrore e lo spavento  De^suoi compagni spessore de’nemici.  Dicesi che temesse il vecchio annoso;   E quelle mani , che dovean un giorno  Gettare a terra il forte Ettor , porgea, ( 3 )  Quando Chirone le chiedea,alla sferza.   Ei fu d’ Achille, io son d’ Amor maestro;  L’uno e 1^ altro è fanoiul feroce, e traggo  L’ un e r altro da Diva i suoi natali • (4)  Come r aratro il toro, e come il freno  Doma il cavai focoso ; io cosi Amore  Render placido voglio ancor che il petto  Con r arco mi ferisca , e con la face  Tutte ro’ abbruci le midolle e T ossa.  Quanto più Amore hammi ferito ed arso.  Tanto più voglio vendicarmi . Apollo,   Non io, ché mentirei , dirò che appresi <  Da tl» quest’ arte, o che fui reso dotto  Dal canto degli .augelli • A me non Clio,  Né le Sorelle sue , come al Pastore  Della valle d’ Ascrea , compatver mai ; (5)  Me un lung’ uso feMstrutto ; e fè pròstate  Air esperto Poeta . <Ió cose vere  Canto : Madre d* Amor.^, siimi propizia.  Gite lungi j o Vestali., e voi Matrone,   Che i piè celaté sotto lunga veste.    J3Ì Achilie uccise Ettore al assedio di Troja*   ^ (4) Achille nacque dalla Dea Tetide , Amore dalla  Dea Venere,   a Mentre Esiodo , cugino e quasi contemporaneo  nero , pascolava in Elicona le pecore di suo pa*  dre ^ fu dalle Muse condotto al fonte Ippocrene , e Col  hefer 4i quell* acqua divenne Poeta,    Come seguir sensa periglio Amore  Si possa, eA i concessi furti io canto;  Nullo i miei carmi chiuderan delitto.   Tu, che novel nell’ amorosa schiera  Entri soldato, le tue cure volgi  Prima a trovar de’ voti tuoi 1’ oggetto.  Indi a farlo per te amoroso, e infine  Onde lunga stagìon 1’ amor si serbi.   È questo 11 modo, è questo il campo, in cui  Scorrere il nostro cocchio debbo ; è questa  Del corso nostro la prescritta meta.   Or che il tempo è propizio , or che si puote  Andare a briglia sciolta , una ne scegli,  Cui dir tu possa ; a me tu sola piaci.  Questa dal Ciel non già pensar che scenda.  Ma qui trovar la dei con gli occhi tuoi.  Onde tender le reti al cervo debba.   Sa bene il caccìator , e non ignora  La valle , ove il cignal s’asconde : i rami  L’ UGcellator conosce, onde si gettano  61 ’incauti augelli, e al pescator son note  L’acque, che maggior copia hanno di pesci.  Tu , che d^on lungo amor cerchi materia.  Impara i luoghi, ove frequenti veggonsi  Le vezzose donzelle . Io non ti dico,   Che dar le vele ti fia duopo al vento.   Né córrer lunga e faticosa strada.   Perseo dall’Indie ne condusse Andromeda,  E .Paride rapì di Grecia Eléna. .   Ma in Roma , in Roma ritrovar potrai  Fanciulle, che in beltà portino il vanto  Più che del Mondo in altra parte . Come (6}  Gargaro, Castello sul monte Ida era celebre   V abbondanza delle sue biade , e Metinna , Città nek»   V Isola di Lesbo , per V abbondanza d^ suoi vini.    Digitized by Google     6   La gargara contrada abbonda in biade»   In uve la metinnia » in pesci U mare»   In augei il bosco s e còme nell* Olimpo  Splendono stelle; così in Roma ammiransi  Amabili Fanciulle : qui sua sede  Pose del grand’ Enea la bella Madre.   Se a nascente beltà ti porta il genio»  Tenera donzelletta eccoti innante;   Se già formata giovine desideri»   Mille ti piaceranno » e fian costretti  A rimaner sospesi i voti tuoi;   Che se a te figlia più matura e saggia  Piaccia » ne avrai, mel credi, un folto stuolo.  De’ portici pompeii all’ ombra i lenti (7)  Pàssi rivolgi, allor che Febo i campi  Dall’erculeo Leon saetta ed arde,   O a quel che adorno de’ più scelti marmi  Da lontani paesi a noi venuti,   LaMadre aggiunseindonoa’don delFigHo.(8)  Nè quello lascerai » ohe tragge il nome  Da Livia, ornato delle pinte tele (9)   De’Pittori più celebri ed antichi;   (7) Uno de'piU dtliziosi Portici di Roma ora cer^  tornente ^uet di Pompeo . Giaceva questo in vicinanza  dtl suo Veatro , « i Romani lo frequentavano moltis'^  simo in tempo d* estate,   ( 8 ) Augusto sotto il nome d* Ottavia fabbricò un  portico in vicinanza del Teatro da lui dedicato a Mar^  cello figlio della medesirrsa ^ e però dice il Poeta , che  la Madre , cioè Ottavia , a^iunse il dono del portico  al don d^figlio , cioè al Teatro a lui innalzato da  Augusto,   ( 9 ) R questo il portico che Livia moglie d* Augusto  fabbricò nella Via sacra ; ne fa menzione Svetonio , e  vien riputato da Strabono uno d^più be* monumenti  di Roma,    Digitized by Google     Visiterai pnr anco i Inoghi, dove (io)   In atto di far strage de’ Consorti  Effigiate son P empie Danàidi;   E il lor Padre crudel, che nudo tiene  L’acciajo micidial nell’ empia destra;   Nè il Tempio oblia, u’ Venere la morte  Plora del caro Adon , nò il giorno Sabbato  Sacro al culto giudeo • Sarà tua cura  A’xneiifitìcì templi esser presente (ii)  Della liniger’ Iside ; seconda  I voti questa Dea delle fanciulle»   Che desian donne diventar, coni’ essa  Lo fu di Giove ^ Fra i clamori alterni  Del Foro strepitoso ( e chi mai fede  Prestar ci puote ? ) Amor rivolta trova  Atto alle fiamme sue pascolo ed esca.   In quella parte ove s’innalza al cielo (la)  L’ onda d’Appio » che giace appiè del Tempio  Di ricchi marmi adorno , a Vener sacro^  Prigioniero d’ Amore è 1 ’ Avvocato,   (10) Il portico d*Apollo palatino fabbricato da Au^  gusto in una parte della sua casa era adornato di fiin^   ts immagini rappresentanti la strage^ che de*pro-  prj Mariti fecero le Danaidi per comando di Danna  loro padre.   (11) Si adorala Iside figlinola d*Inaco in Menfi  Città d^Egitto, donde furono trasportati in Roma i  suoi sacrificj . Fu questa amata impudicamente da  Giove, il quale la cangiò per timor di Giunone in una  Giovenca j e poi la restitm agli Egiziani nella sua pri^  stina forma . B^la e i suoi sacerdoti andavano coperti  di lino e però si chiamava linigera.   (la) Appio Censore condusse V acqua nel Foro di  Cesare; e d* architettura d* Archelao fu ivi innalzato  a Venere un Tempio , che per somma fretta poi rimase  imperfetto.    Digitized by Google     8   Che attento alla difesa altrui, se stesso  Guardar non sa • Oh quante volte, oh quante  In quel loco gli manca la favella,   E deir amor che V agita ripieno,   Non della caiìsa altrui, ma della propria  S’occupa solo ! Dal propinquo Tempio  Ride la Dea di Pafo, e il difensore  Trasformato veder gode in cliente.   Ma più che. altrove ne'curvi Teatri  Troverai da far paghi i voti tuoi:   Ivi mille bellezze lusinghiere  Si oifrìranno al tuo sguardo, e tal potrai  Per stabile passion scegliere, e tale  Onde Tore passare in gioco e in festa.  Come frequente la formica in schiera  Vanne al granajo a far preda di cibo;   E come Papi in olezzante suolo  Volan sul timo e sopra i fior ; le culte  Donne in tal modo in folto stuolo assistono  Agli scenici ludi * È cosi grande  11 numero di questo, cho sospeso  Mille volte rimase il mio giudizio.   Non a’ Teatri per mirar, soltanto,   Come per far di lor superila mosffa  Vanno non senza del pudor periglio.   Tu questi giochi strepitosi il primo,  Romolo , instituisti; allor che il ratto (i 3 )    (iS) NeW anno del mondo 3a3i. fabbricò Romolo  nei monte Palatino una Città o sia Fortezza , che dal  suo nome chiamò Roma. Per accrescere il numero dei  Cittadini ^ aprì un asilo fra il Palatino e il Campi*  doglio , in cui si ricevevano i Servi fuggitivi^, i De*  hitori y i Malefici . Siccome i Popoli confinanti , e per  conseguenza i Sabini nor^ volevano con tal gente col*    Digitized by Google      Segui delle Sabine • Ancor non marmi^   E non tappeti ornavano i Teatri,   Nè il palco vago era per piote tele;   Ivi semplicemente allor far posti   I virgulti eie foglie, che recava   II bosco palatino, e non si vide  Decorata la scena allor con V arte*   Sopra i sedili di cespugli infesti  Assistea il popol folto , uhe all’irsuta  Chioma di fronde sol cingea corona*   Col cupid’occhio ognuno intanto nota  Quella, che far desia sua preda, e molti  Pensieri nel suo cor tacito volge.   Mentre d’agreste flauto il suono muove  Grottesca danza, ed il confuso plauso  Ferisce il ciel, ecco che il Re dà segno  Onde alla preda sua ciascun sì volga.  Rapido il proprio loco ognuno lascia,  Fanne co’ gridi il suo desio palese,   E le cupide mani addosso slancia  Sulle Vergin d’insidie ignare , come  Fogge la timidissima Colomba  Dall’ Aquila , e de’ Lupi il fiero aspetto  Agna novella ; di spavento piene  Volean cosi le misere Sabine  De’ rapitori lor schivar gli amplessi;*   Ma da Ogni patte senza legge inondano^  Ninna serba il color , che aveva innante;  ' ' a z    lòcar U lor Donne , Romito gli ' inoitò insieme con Ì 0  sorelle ,'7e moglie e le figlie a unof spettacolo, che fe^ce*  ìebrare in onore del Dio Conso , ossia di Nettuno^ €  comandò d* suoi Romani che cigscun ri rapiste fr0  quelle femmine una Consòrte.    Digitized by Google     IO   Tutte assale il timore ^ e in Tarj modi:  Questa il petto peroote^ il crin si straccia;  Quella riman priva di sensi ; alcuna  Non {>er il duol fa proferir parola;   Altra la cara madre appella invano;   Chi quale statua immobile rimane;   Chi fugge, e chi di grida il cielo assorda.  Ma le rapite Oiovani condotte  Son via, qual preda geniale e cara.   Dì pudico rossoj tinsero molte  Le delicate guance, e vìe più piacquero.  Se troppa ripugnanza alcuna mostra,   £ seguir nega il suo compagno, questi  La porta fra le sue cupide braccia,   E si le dice : a che d’amaro pianto  Da begli occhj tu versi un fiume? teco  Sarò come alla Madre è il Genitore.  Romolo, fu il primiero a’tuoi soldati  Vera recar felicità sapesti;   Se tal sorte goder potessi anch’io, >   Io pur non sdegnerei esser soldato.   Però da quell’esempio anco a’dì nostri  Trovan le Belle ne’Teatri insidie..   D’esser presente ognor cerca e procura ^  Alle corse de’rapidi destrieri.   Di gran popol capace il ;Circo augusto  Molti a te rechei!à comodi ; d’ uopo ^   Onde spiegare i tuoi pensieri arcani  Non avrai delle dita ; nè co* cenni  Intendere dovrai. Franco t’assidi,^   Che ninno il vieta, alla* tua donna accanto.  Quanto più puòi t’accosta al di lei fiaheo\  lE procura che il loco a.nzi ti sforzi  A toccarla, quand’eUa ancor non ! voglia.    Digitized by Google     Onde seco parlar cerca materia,   E da’ discorsi pubblici incomincia.   Quando i cavalli appariranno, tosto  Di chi sieno richiedi, e quello, a cui  Dirige i voti suoi, tu favorisci;   Macon frequente pompaallor che giungono  Le statue degli Dei, fa plauso a Venere (14)  Quale a tua Diva tutelar. Se mai  Della tua bella sulla veste cada  Polve, la scoti con la mano , e fingi *  Scoterla quando pur netta si serbi;   E sollecito ognor prandi motivo  Da leggiere cagion d’esserle grato.   Se la sua veste strascinasse , pronto  Sii tosto a tòrla dalP immonda terra;   Per cosi tenui cure avrai in mercede,   Ch^ ella poi soffrirà, che le sue gambe  Tu possa riguardar. Sia tuo pensiero,   Che quei , che sono assisì al vostro tergo,  ^ ginocchi al di lei dosso,  Non le rechin molestia. I lievi ufBcj  L^alme fiscili adescano : fu a molti  Util Fa ver con destra man composto  Il coscino, agitar con piccol foglio  Il volubile vento, e saper porre  Sotto tenero piè concavo scanno.   Farà la strada al nuovo amore il Circo,    (14) Solevano i Romani portar per ih Circo le Sta¬  tue degli Dei e degli Uomini sommi , quando ivi da¬  vano lo spettacolo della corsa de^ Cavalli 0 d^ altri  giochi'. V* era fra aueste Statue ancor quella di Ver»  nere , cui vuole il Poeta che si faccia un gran plauso*  Si veda la seconda Elegia del Libro III, degli amori  scritti dgl modesimo Autore^     E la sparsa nel foro infausta arena*   Ivi pugnò spesso il Fanciul di Venere,   £ chi andò per mirar altri piagato,   Ferito pur rimase. Ah quante volte  Mentre un la lingua a ragionar discioglie^  HoWà. la mano , tiene il libro, e cerca  II; vincitore del proposto premio.   Il .volatile strai senti nel seno,   Gemè piagato , e accrebbe pregio al gioco!   fu bello il mirar quando con pompa  Solenne Cesare introdissse il primo (i 5 )  Non avvezze a pugnar in finta guerra  E le persiche navi e le cecropie!   Da questo e da quel mar vennero allora  Giovani vaghi, amabili donzelle,   E la Città racchiuse immenso mondo.   Fra tanta turba di leggiadri oggetti  Chi non tigvò da far paghi i suoi voti?  Oh quanti e quanti a forestiero laccio  Porsero il piè! Ma Cesar s’apparecchia (i6)   (15) Cesare Augusto fece presso il Tevere rappre^  sentore una battaglia navale detta Ncumachia. Intro^  dusse in questa a combattere le flotte che Marc* An-^  ionio aveva raccolte contro di lui nell* Oriente ^e le  navi ateniesi denominate Cecropie da Gecrope primo  Re d* Atene y che seguirono il partito di M. Antonio^  Furono queste armate navali vinte tutte da Azio , e  servirono nella Neumachia d* un brillante spettacelo  a futta Roma.   (16) Augusto destinò una spedi^àon per V Oriente   contro Frante, e vi mandò il suo Nipote Cajo nato  da Agrippa e da Giulia. Marco Crasso e Publio suo  figlio avidi delle ricchezze de* Parti intrapresero con¬  tro i medesimi una guerra, in cui furono poi essi  miseramente trucidati con undici Legioni . Per far a  Cesare un encomio, dice ora il Poeta , che deve Cajo  riportar vittoria di que* popoli , e riacquistar la  ^ne romane da loro tolte Crassi* ^    Digitized by Google     i5   Già il restò a sog^ogar del Mondo inter#^  E già Taltiino Oriente è nostro ancora.   La pena avrai dovuta , o Parto audace,   £ voi godete, ombre deaerassi estinti,   E con voi godan le romane insegne  Di barbarica destra a ragion schive.   Ecco il vindice vostro , ognun racclama  Invitto Duce nelle schiere prime;   Giovin sostiene perigliose guerre  Quasi invecchiato fra le stragi e Parmi.  Deh non vogliate, o timidi, il valore  Dagli anni loro argomentar de’Numi;   E la virtù ne’Cesari preepee.   Degli anni Suoi più assai rapido sorge  Celeste ingegno, e mal tollera Ponte  D’una pigra dimora. Era bambino (17)  Ercole allor che ì due serpenti oppresse.  Ed èra in fasce pur degno di Giove.   O Bacco^otu che ancor fanciullo sei, (18)   Essendosi Giove innamorato perdutamente d^Alc^  mena , si presentò a lei vestito delle sembianze d*An^  fitrione suo maritoy quando questi trovavasi alla guer¬  ra di Tehe.Da Giove e da Alcména nacque Ercole, che  fu allevato in Tirinta Città in Marea vicina ad Ar¬  go , e però fu detto Tirinzto . Intenta per ciò la ge¬  losa Giunone a vendicarsi delP infedeltà di Giove,  suscitò contro d* Ercole due serpenti ; ma egli li uc¬  cise valorosamente, benché fosse di tenera età,   (18) Bacco armato, d^ una lung^ asta , e seguito da  Ufi esercito d* Uomini e di Donne , corse intrepido nel*  VOriente,e soggiogò quVpaesi che allor tutti,si com¬  prendevano sotto il nome d* India . Essendo quelV asta  così acuta, che imitava la conica figurai del Pino, fu  detta dagli antichi Poeti il Tirso , giacché Thirza ià  lingua ebraica nuW altro significa, se non se un ramo  di Pino^ •Intrecciavano le Baccanti sul tirso V uve e  i pampini cotk P edera p perché Bacco insegnò affli    Digitized by Google     i4 ,   Qoanto fosti mai grande allor che i tuoi  Tirsi dovè temer l’India domata!'   E tu prode Garzon sotto gli auspiej (ly)  Del Padre , Tarmi tratterai vincendo.  Sotto un nome sì chiaro aver tu dei  I primi erudì menti, e come il Prence (ao)   uomini la maniera di coltivar la vite . Alcuni Eruditi  poi fChe ricercan la moralità nelle favole ^ pretendono  che dipìngasi sempre giovine questo divino coltivator  della vigna ^perche gli uomini si rendon col vino in  lor vecchiezza amorosi e lascivi , come lo furono in  gioventù ,. Mons„ de Lavaur con molti altri , i quali  hanno^ attentamente 'considerato le imprese di Bacco  e l* etimologia stessa del Tirso, porta verisimilmente  opinione y che sia questa favola tratta in origine da  que^libri della sacra Scrittura, che parlano di Mosè.  e di JVoè,   (19) Si rivolge il Poeta a Cajo,che fu adottatò   figlio da Cesare Augusto.   Romolo dalle tre Tribù, nelle quali aveva di^   stribaito il popolo romano y raccolse per ciascheduna  cento uomini, che fer nascita , per ricchezze, e per  altri pregi ^^^no i più riguardevoli. Furono questi  chiamati Cavalieri y perchè trascélse quésoli , che fes¬  ser meritevoli d* un Cavallo , su cui dovean combat¬  tere in difesa di lui ; e si distribuirono in tre Ceti*  turie, che conservando il nome delle Tribù, dov*erano  sfate raccolte, si chiamavano é/e^Rammensi da Romo¬  lo , dei Tasienzi da Tazio Re dé Sabini, e dei Lace¬  ri Lucomone JRe d'Etruria , che fu , come dicono.,  il fondatore della Città di Lueca . Da Tarquinio  Prisco, e da Servio Tullio vennero in seguito accre--  sciati di numero y senza mutar però il nome di Cen*  iurte ; esercitarono poi varie luminose incombenze ; e  JU'denominato il loro ordine Senatus Seminarium,  perchè in esso scieglievansi i Senatori • i 5 . Lu*   Jglio facevano i Cavalieri ogni anno splendidamente  in lor rassegna, mentre dal Tempio dell’Onore, che  era situato fuori della città , andavano al campìdo*   coronati d* ulivo , cinti d^ una purpurea veste det-      Or de’Giorani sei, sarai col tempo  L’oroamento miglior do'rccchj Padri.  Vendica ofFesi i tuoi fratelli, e i dritti (ai)  Del Genitor sostieni : della Patria  £ Padre 6 Dlfensor Parcne ti cìnse;   Ed or che l’inimico i regni invola,   Cruccioso alla vendetta egli t’invita.  Scellerati di lor saran gli strali.   Pietà e Giustizia i tuoi vessilli, e Parrni  Della causa miglior sostenitrici.   ' ta trabea, t assisi sopra i loro cavalli . 0 §ni cinque  anni poi appena giunti al Campidoglio , scendevano  da Cavallo , e presolo per mano lo guidavano avanti  al Censore ivi assiso sopra una sedia curale ; ed egli  comandava di ritenere il Cavallo , se bene aveva il  Cavaliero adempiuto a* suoi doveri ^e di venderlo , se  aveva malamente eseguito le sue incombenze. Leg^  geva il Censore in tale occasione il catalogo de^ Ca¬  valieri yC si chiamava il Principe de* Giovani o della  Gioventù quello che era da lui nominato il primo ; e  ciò non perchè fossero attualmente tutti gióvani , ma  perchè lo fàrono nella prima istituzione^ e perchè Veta  giovanile si estendeva pressò i Romani fino a qua¬  rantacinque anni.   Principe de’Senatori o del Senato ne*primi tempi del¬  la Repubblica si chiamava quello che il primo tra*Sena-  tori viventi era stdto Censorey poi quel che dal Censore  fosse stato nominato ili primo nel leggere il catalogo  d^ Senatori y e nell\ anno dalla fondazione di   Roma quel , che dal Censore era riputato degnissimo.   (al) Pompeo y domato il Re Tigrane y costrinse gli  Armeni a ricevere da* Romani in segno di servitù i  Rettori. Si liberarono essi da un tal giogo y ma Cajo  li obbligò nuovamente a soffrirlo , e vendicò in tal  guisa i dritti d*Augusto y che dal Senato e dal Po^  polo romano fu per mezzo di Valerio onorato del lu¬  minoso titolo di Padre della pAt<‘ia, ^   (^a) I Parti tentavano di farsi padroni delV Ar-  mersia*    Digitized by Google      i6   Ora il mio Duce alle latine aggiunga  L*eoe ricchezze. E voi j Cesare e Marte,  Entrambe Padri soccorrete il Figlio,   Che in difesa di Roma espon sua vita;  Come già Marte^or tu, Cesar, sei nunie* (a 3 )  Ecco raugurio mio; tu vìncerai;   Sciorrò co’ carmi allora il voto ; degno*   Tu allor fatto sarai d’alto poema.   Porrai le squadre in ordinanza, e all’ armi  Co’ versi miei 1 ’ esorterai : tenaci  Di me nel tuo pensiero i detti imprimi.  11 petto forte de’ Romani, il tergo (24)   Io canterò de’ Parti , e l’inimico  Telo, che vibran dal cavallo in fuga.  Mentre tu fuggi, o Parto , e cosa al vinto,  Oude sia vincitor, tu lasci ? Il tuo  .Marte recò finora infausto augurio.  Dunque quel dì verrà, Cesare, in cui  Tu di natura la piò amabìl opra  Di lucìd’ oro adorno andrai tirato  Da quattro^ candidissimi cavalli ?   Or mal sicuri nella fuga i Regi  Partici andranno innanzi , il collo carco  Dì pesante catena • Insiem confusi  Giovani lieti e tenere Donzelle,   D* un’insòlita gioja il cor ripieno,   Mireran lo spettacolo gradito. "   Se una di quelle a te richiegga i nomi  Di que’ Re, di que’ monti, di que’ fiumi,    (a3) Fu Cesare Augusto ascritto in aita fra i Dei ,  $d ebbe perciò onori diHni. ’   (a4) Avevano i Parti in ' costume di guerreggiar  fuggendo , ed anzi si rendevano formidàbili , mentre  ^ibravan le lor saette^ da wjt cavalle rivoltp in fuga.    Digitized by Google     ^7    Di que* paesi 9 a tatto ciò' rispóndi;   £ non richiesto ancora il; tutto narra,   E le cose puf anco a te mal note.   Cinto di canna il crin l’Eufrate è questo, (aS)  11 Tigri è quel colla cerulea chioma.   Ecco gli Armeni^, e Perside che tragge (a6)  Da Perseo il nome suo ; nell’ achemenie  Valli questa Città si giacque . Il nome  Dirai di questi e di que’Re, se il sai,   O almen 1 ’ adatta . L’imbandite mense  Facile danno ed i conviti accesso,   Ove da far contenti i tuoi desiri  V’ è cosa anc’ oltre i vini : ivi sovente  Calcò di Bacco l’orgogliose corna  Con le tenere mani il bel Cupido,   Di cui se intrise sien 1 ’ ali nel vino  Più non puote fuggir : grave s^ asside;   Tu umide penne , è ver, veloce Scote.   Ma non vola per questo, anzi novelli  Desta incendj nelP alme, che dal vino  Sono disposte e rese atte al calore.   Ogni atra cura e molce e fuga il vino;  Allora il riso ha loco ; allor l’abietta  Mendica gente pure il capo innalza;  Fuggon le cure, il duci ; le crespe fronti  Vengono liete ; e la si rara in questi  Tempi semplicitade i più secreti  Pensier dell’alma svela, che il Dio Bacco   (a 5 ) UEufrate ed il Tigri, avendo , secondo Vo^  pinione d*alcuni, la lor sorgente nei Monti armenii  si prendono qui dal poeta per li principali fiumi del»  V Armenia,   (a6) Persìde è una famosa città , che vuoisi fab.-»  bracata da Perseo figlio di Danae nelle valli persiar  ne, dette achemtiiie dal Re Achemene*    Digitized by Google      id   Ogni mistero svela e l’arte infrange • (27)  De’ Giovanetti il cor ivi ben spesso  Rapiron le Fanciulle ; Amor nel vino  Fu foco a foco unito • Ma non troppo  A lucerna ti fida ingannatrice;   Mal nella notte , e fra i bicchier ricolmi  Della beltade si può far giudizio.   Allo splendor del giorno, a cielo aperto  Paride rimirò le Dive allora  Che alla Madre d* Amor disse : tu vinci  L’ una e 1 ’ altra in beltà , Venere bella.   S’ asconde nella notte ogni difetto;   Ad ogni vizio si perdona , e allora  Ogni donna sembrare alPuom può bella;  Consulta il di guai gemme e quali lane,  Tinte di tìria porpora, sien atte  A fsLjp bella la faccia e il corpo ^ Come  Io delle Donne numerare il ceto  Di non ardua conquista ? E assai maggiore  Dell’ arene del mar . Come di veli (28)   Di Baja. i lidi narrerò coperti.   E per calido zolfo acque fumanti?  Riportando talun ferito il petto  Da queir.onde, non son , ( come racconta  La fama ) dice , salutari ognora.   Ecco di Cinzia suburbana il tempio    Ì ayl Alludesi al pros^erhio latino in vino veritas.  Baja in Campania , o com'oggi dicesi in ter-^  ra di Lavoro i era un amenissimo Castello^ che con-  teneva entro di se degli ottimi bagni caldi, e alcuni  laghi in cui rrnvigavan gli antichi con diverse barche  variamente dipinte, sulle quali facevano ancora de^  gli allegri conviti.   Questa Dea, che si chiama Lucina in Cielo,  Eeate neW inferno, e Diana in terra , ha ancor fra      Silvestre» ed ecco ì conquistati Regni.  Perchè vergifte ella è » perchè ella in odio  Ave d’Amor gli 8tijali,.al popol diede»   £ mai sempre darà mille ferUè. ^   Fin qui Talia sopra ineguali rote( 3 o)  Come tu debba scer T amato oggetto»   E dove tender t’insegnò le reti.   Della tua Bella onde adescare il cére  Preparo or io delF arte opra speciale.  Uomini» voi chiunque » e donde siate,  Porgete al mio parlar docili menti»   E le promesse mie ptopizj udite.   Tosto nell’ alma tua scenda la speme  Di conquistarle» e vincitor sarai;   gli altri nomi quello di Cinzia » perchè essa ed Apoi*  lo nacquer nelVIsola di Deio » ov^ è il Monte Cinto.  I popoli del Chersoneso » o com* ora chiamansi » della  Crimea » le immolavano gli ospiti ivi spinti dalle  tempeste, he femmine romane » dopo Vavere ottérsuto  ciò che htamavun co" voti, andavano a* d*Agosto   con le. faci ardenti in mano, e la corona eul capo\  al Tempio suhurbano di questa Dea situato in Arì^  eia. Quivi frequentemente i Sacerdoti succedevano gli  uni agli altri » mentre , non godevano di questa di*  gnità solamente gV ingenui, ma se la contrastavano  anche i servi e i fuggitivi in una guerra particola*  re » in cui chi riportava la vittoria , otteneva a un  tempo stesso il Sacerdozio » che apprezzavano come  un Kegno. Una tal Dea peraltro y quantunque sten*  desse dal cielo per godere del suo Pastorèllo Endi--  mione » fu sommamente gelosa della propria pudici*  zia, giacché trasformò in Cervo Atteone \ perchè osò  di guardarla quando era nuda in un bagno.   (3o) Talia è quella Musa » che presiede principale  mente a* Canti piacevoli e amorosi. Dice Ovidio ^ che  dia insegnò sopra inegnali rote ec. alludendo al diè  stico latino » il di cui Esametro ha » com* è noto ^ sA  piedi, e cinque il Pentametro^   Ma intanto tender dei T insidie : prima  Gli augelli taceran di primavera,   Le cicale in estate , e il can d^Arcadia  Incontro a lepre prenderà la fuga,   Che dolcemente Femmina tentata  A Giovine resista ; e quella ancora  Tu vincerai, che ti parrà ritrosa.   Come il piacer furtivo è grato alF Uomo,  £ grato alla Donzella . Asconde questa  Le brame sue, T nomo le cela invano;   Ma se tu possa* vincerla una volta,  Preverrà con le sue le tue preghiere.   Ne’ molli prati al suo Torello accanto  La giovenca muggisce ; e la Cavalla  Col suo nitrir fa lusinghiero invito  Al cornipede maschio . In noi pkt forti^  Ma non però cosi furiosi, sono  Gli stimoli d’ amor i lodevol fine  Ha la fiamma delP Uomo. A che di Biblì ( 3 i)  Ricorderò, che d’ un vietato amore  Arse pel suo Fratello , e pon un laccio  Vendicò da se stessa il suo misfatto?   Non, come Figlia dee,Mirra amò il Padre,( 3 a^    (3i) BiUi nata da Mileto e dalla Ninfa. Gianczf ,  amò perdutamente Canno suo fratello. Siccome non  Ve riuscì di renderlo à sitò riguardo amoroso ^ si die  in preda a un pianto così dirotto ( se si presti je e  al libro IX. delle Metamorfosi ) che fu convertita  VI un fonte yo( se si crede al libro presente ) si prò--  curò ella etessa con un laccio la morte.   (3a) Avendo Mirra concepito un immenso amore per  Cinìra suo padre , gli fu posta in letto da  me nutrice in luogo della consorte. Accortosi Cinira  del fallo , tentò di uccìderla } ma essa fuggì  bay ove fu cangiata in albero , e diede alla luce il  bellissimo Adone , che fU V ‘unico frutto d un st fu  nesto incestuoso accoppiamento.    Digitized by Google    ai   E oppressa ora si cela in chiasa scorza:  Delle lagrime poi, che dal suo tronco  Odoroso essa elice ^ ungiam le membra.   Che s^ban quteste stille il primo nome,  Del frondos’Ida nelVombròse valli. (33).  Era forse la gloria e la delizia  Deir armento un Torel candido , solo  Negro segnale avea fra corno e corno:   Una sol f^u la maccbìa, e latteo il resto.  Questo bramaron sostener sul tergo  Le giovenche ginosie e di Canea.   Oodea di farsi adultera Pasifae (34)   Del Toro., e'nel ano ooj geloso sdegno  Nutria contro le amabili giovenche:   Io cose note canto; e ciò non punte  Creta negar, quantunque siai*iqendace.  Creta, cui son cpnto Città soggette.   Con r inesperta man ; Pasifae ali Totro  Dicesi recideste or verdi frondey S 1  Or r erbe tenerissime de’ prati.2  Erra compagna dèli’st>nentOì,;e invano-  Del maiitoy pensier T arresta j vinto.   Era Minos da-un hove ^ A rche* tu vesti, .  Donna , preziose spoglie ? Il tuo Diletto  Mà è un mont 0 ^ Creta ; nè deéù qui còn^  fondere cpl Monta, Ida^ pqiaao , ope seguii la famgsa  lite fra Venere y Pallade e Óit^none.   (34) Sdegnata Venere contro il Sole y perchè Vavea  fatta sorprèndete da^*Numi det letto con Marte ffe*  à che Pasifae figlia del .medesimo , e moglie di Mi-»  nos Re di Creta, ^ innamorasse ardentemente d* un  Toro. Essendosi questa racchiusa in una Giovenca di  legno coitmtta da Dedìdà y si congiunse col Toro  diletto, e diede al Sole, in nipote il celebre Minotaio-  To , che fu ucciso da Teseo nel famoso làbcrkito»   Di tai ricchezze non conósce il pregio.  Mentre vai di montano armento io traccia,  A che giova lo specchio , a che le chiome.  Lassa, adornar si spesso ? Ah I presta fede  Pare allo specchio 4 che bovina forma  Ti nega ; invan veder sulla tua fronte  Desideri le cornac Se ti piace  ' Minos, a che un adultero ricerchi P  E se brami ingannarlo , a ché noi fai  Con un Uomo? Per boschi e per foreste  Oià la Regina , il talamo lasciato, ^  Vanne quasi fiaccante , a cui furore  Spiri P aonio Dio . Oh quante volte  La giovènca «rivai con volto iniquo  Mirò, e fra se, perchè tu piaci, disse,  Al mio Signor ? Ve^com^* in facciala lai*  Scherza sull’erbe tenere , ed esulta,,   E tài fóIlié/-non dubito non credai ^   Per lei decenti : mentre in suo pensiero:  Volge tai còse , ordina che sia tolta* ^ •   Dal gregge immenso , è immeritevol venga  Al curvo giogo strascinata, o vuole  Di snperstizion sacrai * fra-l’are • •   Vittima cada;!e nella fi^ta dtwtr^ , •   Gode tener .le.:.viscero fumanti — - -   Dell’uccisa rivai. AHI quante voke ?  Gon le uccise rivaV placando i NUìiii, ^  Disse, tenendo'visceri\-'piacete '   Al mio Dilettov e quante volte ancora  Chiese in Europa èsserconversa e in Io, (35)    (35) Europa figlia di Agenorg Re di Fenicia , ^  éorella di Cadmo , era dotata di^ sorprendente^ bellez¬  za. Aree Giòvo per Ui. di un amore così violento,  aS   Che questa è una Giovenca, e quella ìMotso'  Premè d’ un Bovo . Fè le strane voglie  Paghe Pasifae ascosa in lignea vacca,   Onde il parto alla luce uscì biforme.   Se sapeva piacere ad un sol uomo^ (36)   E foggia di Tieste il turpe amore  D’ Atreo la Sposa, non avrebbe Febo  Il cammino sospeso in mezzo al corso,   E rivoltato il carro, i suoi destrieri  Mossi incontroairAurora. Anco la Figlia,( 37 )  Che i purpurei capelli involò a Niso,  Coprì del corpo suo le parti estreme  Con la sembianza de’ rabbiosi cani.    thè trasformatosi in Toro, la portò sul suo dorso in  quella parte di Mondo , che dal nome della medesu  ma si chiama Europa.   Io y o Iside fu , come Si è detto al numerò ii.  epnoertita dallo stesso Giove in una Giovenca.   (36) Erope moglie d* Atreo giacque con Tieste fra^  tello del medesimo, e nacquer da essi due figlj, che  avendo Atreo dati a mangiare al lor padre medesimo  in un convito, il Sole per celare un tanto misfattò  tornò indietro , e corse incontro aWAurora.   ( 87 ) Scilla, figlia di Niso Re di Megara s^ inva^  ghì di Minos Re di Creta , che le assediava la pa^*  trìa, e a lui recò il purpureo capello del padre,  dal qual dipendevano i fati di quella Città. Essa fu  jj^i disprezzata harharamente dalV ingrato Minos , e  fu , secondo le metamorfosi, cangiata in uccello. Vi  fu però un^altra Scilla figlia di Eorci , la quale ,  avendo bevuto un^acqua per lei avvelenata da Circe ,  venne subito trasformata in un mostro, la di ciS  parte inferire era simile a quella di un Cane. Con-^  eepì la medesima tanto orror di sé stessa , che si get>»  tò in un golfo del mar di Sicilia , che ha preso da  ^ella il suo nome» Ovidio ha qui confuso fseste due*^    Digitized by Google      a4   Il Figli uolo d^Atieo, che in terra e in mare (SU)  Di Marte e di Nettuno evitò V ira.   Cadde vìttima poi della Consorte.   Chi di Creusa sull’inìqua hamma (Sq)  Non sparse il pianto, e sulla Strage orrenda  Che fe* de’proprj figli un* empia Madre ?  Frivo degli occhi pur pianse Fenicio, (4o)  E voi, oarallì spaventati, il vostro ( 4 i)    (38) Agamennone è veramente figlio di Filistene ,  ma da Ornerò^ e da tutti gli antichi poeti gli vien dato  per padre Aireo suo aco come un personaggio più  celebre» Fu dichiarato Agamennone per le sue mira^  bili imprese il Re deTle di Grecia, e per tradimento  di Clìtennestra sua moglie ucciso da Egisto , dal  quale era ella amata impudicamente,   ( 39 ) Giasone j abbandonata Medea, sposò Creusa  figlia di Creonte Re di Corinto, Medea per vendicarsi  di tafe infedeltà , f^ strage di due teneri fanciulli  nati da lei 4 da Giasone, e ridusse con fuoco ariifi-  doso in cenere ì* infelice Creusa e tutta la famiglia  e la Reggia di Cleonte,   (40) Furono tratti gli occhi a Fenicio figliuol d^A^  mintore, perchè una concubina del padre Vaccusò  falsamente d'acerle tolto Vonore, Ricuperò egli la vi¬  sta per i farmaci a lui apprestati da Chirone , il qual  gli die poi in custodia il giovine Achille, con cui  andò aWassedio d,i Troja,   (41) Ippolito figlio di Teseo disprezzo Vamorosa  corrispondenza che gli esibì Fedra sua matrigna, Sde¬  gnata ella fieramene di ciò , disse al padre , che le  aveva il medesima insidiato V onestà ^ e Teseo lo ab¬  bandonò al furor di Nettuno, Essendo per ciò com¬  parso un orribil mostro marino^ mentre Ippolito se ne  andava sul suo, carro lungo la spiaggia del mare , i  cavalli per lo spavento preser la fuga, marciarono  il legno in pezzi ^ e trucidarono miseramente il lor  Cgxìdottii^o, >   Condottier tracidaste.E perchè» o Pinco, (42)  Gli occhi tu togli agPinnpcenti figlj ?   Ah che la atessa ^eaa. il tuo delitto  Un dì vendicherà. Tali infortunj  ^ Da uno sfrenato aq^or trasse sorgente  Delle lubriche donpe . Ornai t’ affretta,   £ non temer di ritrovar contrasto  Nelle Donzelle ; appena, una fra molte  * Ne incontreraiepe. a te neghi vittoria.  E r indulgènti e, le ritrose pure  lì Goì^qu esser pregata; pna ripulsa  I Non ti spaventi ^ è questa ingannatrice.  iMa perchè ingannatrice Y ognor pip grata  INuova per esse voluttà riesce.   |E l’alma loro adescan facilmente  |l novelli amatori ..'Il vici^ campp  Ci sembra più .ijber^^so ,^0 il gregge altrui     ^-,*• /• -   Vedi che a parte sia della Padroni    I    )    Ov, Arte (Tarn. b    (4a) Fineo figlimi Agenore Re Arcadia yO co¬  me ad altri piaqe, di Tracia , o di Paflagonia y spo¬  sò Cleopafi^a figlia di Bqrea, e‘. n*ehbe due figli.  O sia che questa morissero che fosse da lui ripudia¬  ta y prese il medesimo in moglie Arpài ice , e cornane  dò , che fossero ioltìr gli occhi a* due figlj della sua  prima eoniorte, perché temè che aiiesjser avuto un il¬  lecito commercio con Ija novella sua sposa. Fu da  Borea vendicata V innocenza do* nipoti con Vacciecof-  mento di Fineo , e Giunone e Nettuno gli mandaro¬  no sulle mense le Arpie y che a lui macchiavano tur¬  pemente quelle ‘ vivandé y che non mangiavano essa  stesse* •    Digitized by Google       26   De’ nascosti consiglj, e de’ piaceri  Suoi più segreti. Con promesse e prieghi  Corrompi la sua fi; tutto otterrai,   Quand’ ella voglia, e non ti sia contraria,  Dalla facil. tua Bella • Il tèmpo scelga.  Come i Medici sogliono , propìzio.   Onde il tuo amor nel dodi cor le infonda.  Ella il tuo amor le infonderà nel core,  Quando per lieti eventi andrà giuliva  Come lussureggiare in pìngue campo '  Suole la biada. Quando r alma è scarca  Dalle pallide cure , e lieta esulta.   Si spande allora , e dà facile accesso  ÀH’arti lusinghevoli d’amore.   Mentre fra i neri affanni involta visse "  Troja , con V armi si difese ; e lieta (43)   Il cavai di soldati e insìdie pieno  Àccolèe entro le mòra. Ancor si tenti,   £ non rimanga inyendicata , quando  Si dorrà , chè riceve ingiuria e scorno  Dall* impudica Amante del Marito.   La punga a sdegno la fedele Ancella,  Quando col pettin mattutin compone  Gl* indocili capelli, ed alle vele.   L’ ajuto aggiùnga anco de’ remi, e dica,  Sospir seco tràehdo, in bassa vocè:   Tu noli potrai, cred’io » come si merta.  Rendergli la pariglia. Allor le parli  Di te con detti insinuanti , e.giuri  Che tu brugi per lei d’immenso amore.  Mentre il tempo è propizio , ella s’ affretti   ( 43 ) Alludesi al cavallo di Ugno ^cht il perfido  Sinone introdusse pien di soldati in Troja , quando  tra assediata da* Greci» Virgilio Endde IÀh»lÌ»v»    Digitized by Google      Che non cadan le vele, e cessi il vento.  Come sì scioglie il gel, V ira , indugiando^  Si dilegua così. Forse mi chiedi.   Se la servente innamorar ti giovi ?   Tai cose ammesse, il rischio é manifesto^  Una rende V amor più diligente,   L’ altra più tarda e meno attenta : questa  Alla Padrona sua ti serba in dono,   Quella a se stessa • esito dipende  Dalla fortuna, che quantunque arrichì  Agli audaci ^ a te do fedel consiglio.   Che d’ un’ impresa tal lasci il pensiero.  Non per scoscese perigliose strade  Andrò, nè, duce me, verrà ingannato  Alcun Giovine amante * Ma se poi,  Mentre riceve e assiduamente porta  L’innamorate cifrerà te non solo  Per la sua fedeltà piaccia, com’ anco  Per la beltà del corpo ; allor procura  Della Padrona in pria il possesso, e ch’indi  Questa la segua: l’amoroso gaudio  Non dall’ Ancella incominciar tu dei*   Se all’arte mia si crede, e i detti miei  Non portano pel mar rapaci i venti,  Questo consìglio mìo nell’alma imprimi:  Non mai tentar 9 se non compisci l’opra»  Se a parte ella verrà del tuo delitto.   Non la temere accusatrìce • Invano  Invischiato l’angel tenta la fuga.   Nè riesce già uscir dalle allentate  Reti al cinghiale • Il pesce all’ amo colto  Si scota invano ; tu la premi e assedia.   Nè la lasciar , se vincitor non sei.   Se a una colpa comune ella soggiace,    Digitized by Google     a 8   Non temer tradimenti ; a te saranno  Note della Padrona opre e parole.   Se cauto celerai 1’ accusatrice.   Sempre, contezza avrai della tua Amica.  Folle è colui che in suo pensier si crede  òhe sol debban del cielo osservar gli astri  Della terra il cultore ed i nocchieri.   Non a’ campi fallaci ognor sì debbe  Cerere abbandonar, nè alle tranquille*^  Cerulee onde del mar la curva prora.   Ah 1 che non sempre assicurar ti puoi  Il cor di vincer delle Belle; spesso  Ciò s’otterrà, se il tempo sìa propìzio.   Se deir Amica il natalizio giorno (44)   (44) Era presso gli Antichi in gran venerazione il  giorno natalizio : e gli Amanti celebravano ‘ con feste  e con doni quello^ in cui eran nate le Donne che ama^  vano . Si dee preferir certamente questa lieta costui  manza a quella che hanno adottato i Messicani e i  Cinesi, i quali riguardano un tal giorno come infausto  e doloroso . Alcuni di essi invece di ricevere con ac¬  clamazioni di gioja la nascita d^ un figlio , gli rispon¬  dono ai suoi primi singulti , mio figlio tu sei venuto  al mondo per soffrire \ soffri ^ e t’acquieta . Si fab-  hrican altri di buon^ ora la tomba, e vanno ogni  giorno a renderle omaggio come al termine consola¬  tor é d^.lor giorni . Non poco influisce, a dir vero, un  tal uso a fomentare il barbaro costume d^ uccidere i  proprp figli in un popola ^ il guala non gli Ottimi suoi  libri classici illustrati dall* immortai Confueio e con  le savissime leggi, su cui ha stabilito il suo pacifico  Impero, cerca di rendersi virtuoso ed illuminato.   Èra presso i Romani nel suo pieno vigore P uso  delle visite e de* doni nel principio dell* anno, il qua-  le incominciava anticamente col mese di Marzo , le  di cui Colende eran consacrate al Dio Marte . Cele-  hravand in Roma nel primo giorno d*un tal mese  alcune feste dette matronali in memoria della pace    Digitized by Google      SLg    Ricorra , o le Calende che seguito  Abbiaa quelle di Marte, a Vener piace,   O sia che il Circo sì rimiri adorno, (45)  Non come in altre età, di statue lievi.   Ma per le spoglie ivi de i Re deposte,   L’ opra differirai : sovrasta allora  Con le piovose Plejadi P inverno;   Allor nella marina onda s’immerge  Il Capro tenerello ; allora giova  Deporre ogni pensier . Chi al mar s’afSda  Del lacero naviglio appena puote  1 miseri campar naufraghi avanzi.   Tu se in quel dì incominci , in cui si vide    che le Sabine avevano appunto in tal di stabilita fra  i loro SpoH , ed i loro Padri , i quali volevano con  V armi vendicare il ratto delle medesime . Le persone  maritate avevano solamente diritto a queste feste /  ed OraT^io nell* Ode ottava del Libro III. si scusa,  perchè vi prende parte anch? egli , essendo celibe.   Siccome il mese d* Aprile è sacro a Venere , e suc^  cede a quello di Marzo dedicato a Marte , dice il  Poeta che Venere gode che abhian le sv^e Calende  seguito quelle di Marte per alludere alVamorosa cor^  rispondenza che ella aveva coi Dio della guerra . Le  Ihnne e le Matrone romane facevan nelle Calende  d*Aprile gran festa a questa lor Pea tutelare ; e gH  Amanti contribuivano alle medesime con le donazioni.   (45) Non vuole il Poeta, che si studino i Giovani  per adescar le Donne nel lor giorno natalizio , nel  principio dell* anno , e in occasione de^trionfi celebrati  nel Circo , perchè essendo le medesime allora occupate  in adornarsi , incontrerebbono qiiP gravi pericoli , che  sono qui espressi con l* allegoria dell* Inverno , e con  quella delle Plejadi e del Capro , le quali stelle sorgon  sull* orizzonte nel mese d* Ottobre , che è un tempo  pieno di pioggia e di tempeste , e perciò non propizia  a* Naviganti.. Scorrer sanguigno umor la flébìl Allia (4($)  Per le piaghe latine, o in quello in cui  Torna la festa settima, che è sacra  Al Palestin siriaco, e in cui s’ astiene  Ognun dalla fatica, avrai mai sempre  Culto superstizioso al di natale  Delia tua Bella ; pur funesto giorno  Sia quello , in cui tu offrir dono le debba;  Ma a te lo rapirà , se tu gliel nieghi,  Che a Femina mancar non puote 1’ arte  Per carpir le ricchezze a Giovin caldo.  Del Mercante il Garzon verrà discinto  Alla vogliosa ed avida Padrona,   E porrà le sue metti in vaga mostra,  Mentre tu giungi, e al fianco suo t’assidi.  Essa ti pregherà, che tu le osservi  Per additarne il prezzo ^ e liberale  Ti sarà di preghiere e ancor di baci,  Perchè le compri , e giurerà contenta  D’ esserne per molt’ anni , e che non puoi  Comprarle cosa che le sia più accetta.   Se poi ti scusi che non hai denaro,   Ti chiederà il tuo nome , e turpe fia  Per scusa addur , che tu firmar noi sai.  Rinasce poi, quando le fa bisogno,   (46) A ih. Agosto ebbero i Romani una sconfitta  da* Galli sul fiume Allia non lontano da Roma , onde  come infausto e di pessimo nome fu condannato un  tal giorno . Crede il Poeta , che debbano i Giovani  onorare il dì natalizio delle lor Belle , e vuole che  intraprendano V amorose loro conquiste 0 in que* ma--  linconici tempi qui figurati sotto il giorno alliense,  CUI aman le Donne d* esser rallegrate, o in que^giorni  festivi simili a* sabbati giudaici , ne* quali non è alle  medesime permesso 4 * occuparsi in alcun lavoro. Che dell* offerte natalizie il giorno  Rìeda y e di pianto sa bagnare il volto  Per la supposta perdita di pietra.   Che le ornava 1’ orecchio . D* altre cose  L’ uso ti chiedrà , che date poi  Renderle nega ; tu le perdi , e invano  Speri per ciò che grata ti si mostri.   No , quando avessi dieci lìngue e dieci  Bocche , io già non potrei dell’ impudiche  Donne n^^rare le sacrìleghe arti,  li guado tenti un ben vergato foglio;   E della mente tua la prima volta  Sia nunzio ; le carezze, e le parole,   Che imitino il linguaggio d’ un Aliante  Rechi , e fervide aggiungi anco preghiere.  Donò da’prieghi mosso a PriamoAchille (4?)  Di Ettor l’esangue spoglia; e Iddio sdegnato  A voci supplichevoli si piega. .   Prometti pur , che nuocer già non ponno  Mai le prorjaesse ; ognun può farai ricco  Con semplici parole. La speraD 2 $a  Data una volta , lungo tempo dura:   C' inganna , è ver , ma Diva utile è a noi.  Se liberal con lei fosti di doni,   Avrà ragion d* abbandonarti ; quello,   Che già le desti, è suo , nò può timore  Di perdita nutrir . Ognor tu devi    (47) Achille dc^ aper ttraseinato tre volte intorno  alle mura di Troja il corpo d* Ettore da lui ucciso  alV assedio di quella Città y lo rese finalmente y 0 a dir  meglio , lo vendè\ a- ^Priamo Padre del, medesimOy che  prostrato a* suoi pièdi > lo pregava di ciò caldamente^  Exanimumaue amo oorpns vendebat Achillea.   1 Virgil,    Digitized by Google     82   Finger di dar quel che non desti; spesso  Fu deluso così di steril campo  II credulo Padron • Così, perdendo  A perder segue il giocator, nè lascia  Per questo il gioco ; e il lusinghiero dado  Nelle cupide mani agita ognora.   Questa è Tiinpresa, e qui il Valore è posto;  Ascolta ; senza doni il suo cor tenta  La prima-volta, ancor che ì doni apprezzi;  Se lor liberal ti sia, 8«^rallo Ognora.   Vada dunque il tuo foglio , ma vergato  Con detti lusinghieri ; della Bella  La mente esplori ,*e primo il caihmin tenti.  Cidippe ingannò un pomo, in bui rincue(48)  Note leggendo, fu di queste preda.   O Giovani romani , io vel consiglio.   Deh coltivate le bell’ arti ; solo  Non utili Saran per la difesa '   De^ paurosi Rei ; ma dalla forza  Del facondo parlar, vinta la mano  A voi daran col Giudice severo.   Con lo scelto Senato , e ilPopol folto  Ancor le culte amabili Donzelle.    (48) Da Zea una delle Isole Clclàdì andò Acanzio  in Deio per assistere a* sacrifici di- Diana , che là si  celebravano splendidamente. Ivi ei concepì uìà^ immenso  amore per Cidippe, ma non ardiva di chiederla in is-  posa . Stette molto tempo dubbioso nello scegliere lin  mezzo per appagare la sua passione ^ ma in lui ces^  sarono i dubbj quando intese che vigeva in Deio una  legge , per cui restava concluso tutto ciò che si diceva  nel tempio di Diana ; è però gettò a* jùedi della sita  Bella un pomo y in cui erano scritti i versi seguenti*  Juro tibi sane per mystica sacra Dianae  He Ubi venturam comitem sponsamque futuram: Ascosa V arte resti, e da principio  Non sii eloquente. Da’vergati, foglj  Vadan lungi parole aspre e ricerche.   Chi mai, se non. di senno affatto privo»   In tuono volgerà declamatorio . < ;   Alla tenera Amica il suo discorso?   Oh quante volte fu giusta cagione  Di grave sdegno un foglio ! 1 detti tuoi  Meritin fede , e adopra usati accenti»   Ma sempre, lusinghieri » onde l,e sembri^   D’udirti ragionare . Se ricusa, •.   Di ricevere il foglio , e sena’ averlo , .   Letto a te lo rimandi » |a speranza  Però non t’abbandoni » e ,il mio consiglio ,  Serba in memoria , II. collo al giogo piega  Il Giovenco difficile col tempo»   E a soffrir s’ammaestra il lento freno  Col tempo anco il Cavallo. Un ferjreo anello  Dal cootinao nso si consuma » e il vomere*  Dal continuo rivolgere la terra  Che del sasso è più duro? e che più molle '  Avvi dell’ onda ? eppure il duco sasso  Dall’ onda molle vieu scavato . Ancora»   Se sii costante» vincerai col tempo  Penelope med^sma : » A vero» ,,   Caddero al suolo le trojatie.^muri^»   Ma pur caddero alfin 1 ìtiglj tuoi ,   Leggerà anch’ oasa » e non darà risposta»   Cui tu non debbi violentarla : solo  Fa che ognor legga lusinghieri accenti»   £ di risposta alba sarà cortese  A ciò che l^sse ; a gradi e con misura  Succedefansi questi ufficj ; Forse /   Verrà da. prima A tc foglio dolente»,   à a    Digitized by “Google     34   Con cui ti pregherà, che r amoroso  Linguaggio cessi ; nia desia il contrario  Entro il suo core, e vuol che tu prosegua.  Continua danque;e alfin resi contenti  Saranno ì voti tuoi . Quando supina  Vien trasportata sulle molli piume.  Fingendo indifferenza, ti presenta  Della Padrona alla lettiga ; e canto,   E in cifre ambigue quanto puoi favella.  Onde qualchfe importuno udir non possa  Il vostro ragionar 7 Sé’ volge il piede  Negli spaziosi portici , tu quivi  Trattienti fin eh* ella^ vi fa dimora.   Or la precedi ed or la segui a tergo:   Or lento movi il passo , ed or t* affretta.  Nè d^ inoltrarti iU ntezzb alle colonne  Abbi rossor, nè di sederle al fianco.   Non ne’ Teatri senza te si trovi,   E segnai póVti al teigo , onde la vegga.  Giacch* ivi il puoi, contemplala , e le dici  Quanto brami co’segni è con lo sguardo.  Alla saltante applaudisci l e sii  Favoirevole a quei che rappresenta  Personaggio amoroso . S* ella sorge,   Sorgi ; e ti assidi pur, s’ ella s’assida;   £ a suo ^piacere il tèmpo tuo consuma.   Ma non volere innanelìare il crine  Coiì’càldo ferro, e con lUordacè pomice '  Stropicciarti le gambe ; il che tu lascia  A’molli Sacerdoti di Cibale. ( 49 )    ( 49 ) Oj9e , o Vesta , che ancor dicevi Rea yC la Dea  Buona, è Madre degli Dei, e si chiama Cibale ; per^  che nel monte Gibele dU Frigia U furono la prima    Digitized by Google      33    Beltà negletta agli uomini conviene:   Vinse Teseo; Afianna » e la rapio  Disa.doroo le<t;onipie , il cria scompQsto;( So)  Arse pe}*:FiglÌQ:Fe.drtt., ed era incolto;  Cura e deli^^ia. della Dea ;d’. Amore .   Fu Adon ,:che fra le selve i di traeva.  S’ann^grin pur le membra al marzio Campo,  Ma si^o monde, e monda sia la ve8te.(Si)  Aspra non sia la lingua, e netti sieno.i  Dalla lug^e i denti; il mobil».piede . >  Non nuoti ih larga pollo ;^*ed ìne6perta    i>olta kelel^ati i sacrificj » T suoi Sacerdòti" éràtio ew.-  nuchi , e ogni giorno ,ger comparir moftdi , si raschia^  van membra, t   ( 5 o) Ari^nay figlia del Re Minos , s* innamorò per¬  dutamente di Teseo , che fu da* Greci mandato con al-  tri giovani in Creta per esser divorato dal Ii/Iinotauro~,  Etsa gV insegnò la maniera d*'uscir dal làbérinto quàn^  do avesse ucciso quel mostroe in compagnia di  dra sua sorella s*.iifcamminò con. VAmante^ che dpmato  il Minofauro y tornava in Grecia vittorioso . Teseo chi  nel viaggio orasi gik invaghito di Fedra ^ lasciò bar-'  Caramente in Nasso Arianna , .e andò con la sorella  Ì2i Atene sua patria . Ivi questa dioonne , come si è  detto, amante d*Ippplito nato da Tesele da Ippoli¬  ta Regina duello Amaz%oni.   Venere amò ardehtemente Adone ^figlio di Cinirq,  e di Mirra , quantunque vivesse continuamente né^ bos¬  chi intento a caccksre le fiere. Pianse ella amaramert’^  te perchè questo giovinetto fu ucciso da un cinghiale^  e nony avrebbe mai reso a Proserpina , se Giove non  comandava', che per otto mesi avesse Venere il posses¬  so d* Adone , e per gli altri quattro sei godesse Pro¬  serpina .   '( 5 i) Nel Campo martió d facevano in Roma al¬  cuni giochi, pe*quali i giocatori si snudavano intera¬  mente , « si dngevan le membra con degli unguenti,  che rendeano a* medesimi nera la pelle.    Digitized by Google    •36   Forbice non ti renda il crin deforme t  Ma da maestra iuan^ ti sia recisa  E la chioma e la barba i $enza macchie  Sian r unghie, nè soverchinoi le dita;   Nelle concave nari non si scorga ^ ^   Alcun pelo; nè esali nn tris^to fiato* - '  La bocca; e il naso non rimanga olfeilO  „ Da che il fetido becco ognora sape^ '   A lasciva Fanciulla il resto lascia,   £ alla bardassa . Ma già Bacco òhiama  Il vate suo : soccorre ei pur gli amanti;   E, la fiamma che learde ei favorisce. „  Furente errava la creten.^ Ppnna (Sa)   Pcjr di Nasso ignota arena, .   Che flagellano ognor T onde dei mare»   Ella coperta con discinta veste  Come nel sonno , nudo il pjede e sciolte  Le crocee chiome, al sordo mar si volge;.  E bagnando di lagrime le gote,   Teseo chiamava in alto suòli : gridava,   E in un piangea la mìsera, ma in lei  Era tutto decente ; nè men bella  Fu di lagrime aspersa « di dolore.   Mentre di nuovo con le man fa ingiuria  Al delicato petto, a che fuggisti t  É cosa fia.di me, perfido? dice^   Di me che fia, ripete ; e intanto il lido  De* cìtnbali e de’timpani p^cossi'   Da un* attonita mano il suono assorda.   ( 5 2) Quando Arianna si vide aèhandonata nell*  sola di Dfasso^si diede in preda all* ultima dispera^  sùone . Bacco ivi accorso con le Baeeànti e Cón Sileno ,  sfio pedagogo, la prpse in sposa y e collocò la. di hi  chioma in Cieìp prenQ ad 4 rtur ^t \ v.t    Digitized by Google      Ca<l’ ella al suolo 4a timor sorpresa;   Le mbucaa le iparole ; e piik pon scorro  Per le;geliAe} oppresse membra il sangue.  S’ appreesan ile ^eoauti^ U<cfia disciulto^  Ed opQO;i liéyl 3iltiri soiio  Previa turbo del DiOi*;£coo sul dorso  D* uo< pasciuto asinel V ebrio Sileno  Carico d’ anoi.y^^che :si reggo appena,   E profiumo aspirare>i )brevi crini.   Meiìftr eglit seguei'le! Saeeanti, e queste  Lo cfaiadianp /oggende ; l’inesperto .  Cavaliere il qjUadrtipedo, suo si^za.   Deir aaiào orecchiuto al capo scorre,   E a terra cade : i Satiri griderò;   Sorgi V deh sorgi y o Padre . Intanto giunge  11 Dio ^ che d’ uva al carro adorno accoppia  Le tigri, a ouircoh le dorate briglie  11 freno regge, • Partì : Teseo , e insieme  D’ Arianna, fa voce ed il dolore.   Tentò tre volte di fuggir , ma invanoy  Chè il timor la trattenne, e inorridita  Tremò qUal steril spiga al vento,e com#  Leggiera canna in umida palude;   Allora il Dio le disse : * ogni timore,  Cretease 'Donna , dal tuo cer disgombra;  In me tu* vedi un più fedele amante;   Di Baceo anzi sarai la dolce sposa.   Tu spazierai nel ciel ; la tua corona  Lucida stella in ciel sarà di scorta  Air incerto Nocchiero in suo cammino.  Di^se , e dal carro scese, onde non debba  Seatir paura delle tigri, e il piede  Sulla docil arena impresse Torme.   Eapilla poscia, e se la strinse al seno>     Chè tentato avria id van forgi! contralto^  Mentre fonile a un Dio tutto si rende.   De’suoi segnacr imen cantd una parte,  L’altra ripetè in alto snon gli evviva.  Cosi al letto nuziale il 0io 4 la Sposa '  Furon guidati^ e s’annoSdaro insieme.  Quando tu sederai con donna a mensa,   E di Bacco a te offerti i doiii siedo, >   Tu a Bacco,èa‘*NunJi che^han fa cena in euri  Porgerai voti, onde (dal Vrn non venga  Offeso il capo ’ tuo ; Quivi* tu puoi ‘ ‘   Con ambigue parole a lèi far iloti’ " ;  I segreti del cor, ma per6^in modo '  Che ben s’ accorga esser a lei dirette.  Potrai tu ancor con gocmole di vino  Teneri accenti esporre, onde conosca,   Ch’ ella assolnto ha nel tuo core impero.  Co’ tuoi s’incontrin jgli oocbi suoi ,<ed il fòco  Che t’arde il sené , a lei foccian palese;  Parla talora col silenzio il volto.   Procura il primo di rapir la tazza.   In cni bevv’ ella , e dove i labbri impresse.  Bevi tn pur : qualunque il cibo sia  Bichieder dei, che tocco avrà col dito; *   E mentre il chiedi, a lei strìngi la mano.  Volgi i tuoi voti pure, onde tu piaccia  Della Bella, al Marito . Assai ti puoto *   Util recar, se a te sia fatto amìcoi  Se dai la legge al bere, a lui la mano (53)   i   ( 53 ) Solevano i Rfìmarù appena posti a mensa eleg^,  gere il maestro della cena y che da Orazio {lib. i.od^  9. ) li chiama il Taliarco\ Prescriveva il medesimo  U leggi del convito e la manieM di^ becere y'e ordi^   Ce^i, e riponi dal tuo capo tolta  La corona sul suo. Sia a te inferiore,  Egual sia pur, si serva in tutto il primo;  E seconda parlando il suo linguaggio.   Col Telo d’amistà tessere inganno  È vìa sicura e frequentata , pure  Non è senza delitto. 11 Talìarco  Ancor che troppo generoso appresti  I moltiplici vini e le vivande;   £ benché creda di dover più assai  Veder di quel che fu ordinato, certa  Avrai nel ber da noi legge e misura.  Onde la mente e il piè si serbin atti  A’ loro ufficj : d’ evitar procura  Gli alterni detti e gV ingiuriosi accenti,   £ vìe più ancor se sien dal vin prodotti;  E troppo faeil non indur la mano    napa alle Polte Commensali che ognuno , bevuto il  suo bicchiere di pino, proponesse qualche amena que^  stione . Auguravansi spesso tanti anni quanti bicchieri  di vino bevevano, e spesso ne bevean tanti quante e-  ran le lettere che formapano il nome della Beliamo  deW Uomo insigne , a cui facevano un tale onore . Se  molti erano gli anrd augurati , o se molte erari le leU  tere componenti il nome della persona in onore di cui  heveano ; mescepano allora il vino in una tazza assai  grande , e compensavan così i molti bicchieri che apreb’^  ber doputo puotare . Era poi in uso al termine della  mensa il vibrare in aria con le due prime dita i semi  d* una mela fresca : si credepano fortunati in amore  quando toccapan con quelli il soffitto della camera  ov*era apparecchiata la tavola^ e si riputavano infe*  ìici quegli amanti , che non li facean sorgere a queU  V altezza, De^moÙi altri giochi ^ che i Romani usa^  vano in queste circostanze, non ne è a noi perve^  nuta che un* oscura notizia.    Digitized by Google      4o   A perigliosa rissa. Al suol trafitto (54)  Euritone cadéo, perchè soverchio  Bebbe i vini apprestati. A* dolci scherzi  Atta è la mensa e il vìu: 8*hai bella voce^  Non ricusa cantar ; salta s’ hai molli  E pieghevoli braccia ; e finalmeute  S’hai doti onde piacer, piaci. La vera  Ebrietà nuoce ^ può giovar la finta.  Balbetti in tronco suon l’astuta lingua^  Onde di ciò che tu ragioni, o fai  Oltra ’l dovere , il vino sol s'incolpu  Augura alla Padrona ed al Marito  Una notte felice ; ma per questo  Fa tacito nel core opposto voto^   Tolta la mensa, allor che i Convitati  Saranno per partir, tra lor ti mischia ;   ( La turba e il loco ti daran T accesso )   A lei che fogge t’ avvicina, e il fianco  Le premi dolcemente , e il piè col piede •.  Abbia ora il conversar libero campo,   E tu lungi , o pudor rustico, vanne.   Che la fortuna e Venere propizj  Sono agli audaci. De’ precetti nostri  Or r eloquenza tua non abbisogna;  Principia pur che ben sarai facondo.  Imitare il linguaggio dell’ amante  Debbi , e mostrar d’ aver ferito il core;   E onde ti presti fede ogni arte adopra..  Ardua impresa non è 1’esser creduto.    {Sii^ ElurUone è quel Centauro^ che reso caldo dab  vino y tentò nelle nozze dì Piritoo di rapire Ippoda»^  mia : Teseo lo percosse perciò così fortemente , che fw  costretto y.come dice Ovidio nelle Metamorfosi, cu vo^  nàtar V anima e il vino    Digitized by Google      4i   Mentre Donna non v’ha, che sè non stìmi^  Sia, quanto imn^agìhar ài può, deforme.  Atta a piacer ; e aémprè inver non epiace.  Quante vòlte in^amor chi sol fingendo  Incominciò , d’ un vera amòr fu preda!  Siate indulgenti pur, vezzose Donne,   «Con questi menzogner, se voi bramate  Che in sincerò si cambi un falso amore.  Con accorte lusinghe ora si tenti  Di guadagnar le Belle, come Tacque  Sa penetrar la sottoposta riva.   Deh non t’incresca ora lodar la faccia,  Ora i capelli, i lunghi è ì rotondetti  Diti, ed il breve piè. Le più ritrose  E le più caste godono alle lodi  Della loro bellezza ; e son pur grate  ^T innocenti Vergini i anzi il primo  È la beltà d* ogni lor cura oggetto.   Percliè tuttora di rossor la faccia  Tingon Palla c Giunca volgendo iti mente  Le frigie selve ed il fatai giudìzio f (551  L’augel sacro a Gìunon le penne ostenta (56;  Se tu le lodi ; e le nasconde allora  Che tacito le miri» Anco il destriero.  Quando contrasta il rapido cammino.    (55) Péllade e Giunone ^vergognandosi d^essere stc^  te da Paride giudicate .met^ belle di Venere , tentare  Tono di ripagare una tate infamia col ^ procurare n  questa Dea vincitrice del Pomo tutti que*danni , eh%  sono resi ormai cèlebri' da' Virgilio e da Omero z   .... Manet i^ha Bueat# repo^tuiu'   Judicium Faridis spretaeqtte ipjuria fbrmae.   . i^rgiL Eneid.   (56) I Paooni ^(hrisi ^li at^elH di Giunone, pospr  che solcpano'essLHinàfe ibìqarroidi fonta Dea*,    Digitized by Google      4»   Gode vedersi il crine adorno , e il collo  Accarezzato. Franco pur prometti,   E tutti chiama in testimonio i Numi,  Che alle promesse pedon facilmente  Le tenere Donzelle. Su dal Paltò  D*un spergiuro amator Giove si ride,   £ comanda che sien per l’aria spersi  I giuramenti dagli eolii venti.   Solea per l’onda stigia a Giuno il falso  Giove giurar ; utile è un tale esempio.  Giova de^ Numi resistenza e giova  Che noi pur la crediamo ; incenso e vino  Lor su gli antichi focolari offriamo:   No, non è ver che una secura quiete!   A letargo simil gli occupi; i Numi  Veggon r opere nostre. Innocua vita  Si tragga adunque ; ad altri il suo si renda;  Sii religioso in consesrYar la fede,   Stia la frode lontana, ed abbi ognora  Vacua la dostra* dalle stragi. Solo  È permesso ingannar, se siete saggi,   Le donne impunemente. Abbi rossore  D’ogni altra frode pur , ma non di questa.  Le ingannatrici inganninsi, che sono  La maggior parte di profana stirpe;   Cadan ne* lacci , cbt^ da lor far tesi,  l^àrrasi che restasse un di l’Egitto ^  DelFacqua a* campi salntevol privo  Per ben nov*anni ; allor che al Re Busiri  Trasio si fece innante , e mostrò come  Possa Pira placar di Giove il sangue  D^un ospite; la vittima tù il primo  Sarai di Giove, a lui disse Busiri,   Ed ospite darai Pacqua all’ Egitto. Falarìde cosi nell’ infocato  Toro arder fè le membra di Perillo, ( 87 )   E T infelice autore il primo empiéo  L’opera sua. Fu 1’uno e l’altro giusto^   Nè vi puote esser mai legge più equa  Di quella y che a morir l’autor condanna  Del tormento inventato. La tradita  Donna si dolga che col proprio esempio  Spergiurando s’ingannan lé spergiuro  Meritamente. Utili a te saranno  Le lagrime; con queste anco il diamante  Ti ha dato ammollir. Fa , se lo puoi^   Che di pianto bagnate ella rimiri  Le guancie tue; se il pianto a te non scende,  Che non si versa sempre a grado nostro^  Tu con la mano inumidisci il cìglio.   Chi mai alle dolci parolette i baci  Saggio non mischierà ? S’ ella ricusa  Darli, tu li rapisci,In prima forse  Combatterà ; di scellerato il nome  Avrai da lei; ma pur ella desia  Pugnando che la vinca. Sìa tua cura,   Che da' rapiti baci i tenerelli  Labbri non sian offesi, o non si dolga  Che furon duri. Quei che i baci tolse.   Se il resto non procura, è degno invero  Di perder ciò che a lui fu dato. Quanto    (87) Perillo fabbricò un Toro di bronzo , e lo dor  nò a Falaride crudelissimo Tiranno de'Grigeati in  Si cilia , perchè collocandolo pieno di rei sopra il fuo*  co ) potesse intendere d^ lamenti simili a' muggiti  de'booì. Falaride accettò il dono y e volle che subito  w entrasse Perillo per incominciar da lui il proposto  esperimento»  Mancò a far paghi dopo i baci i voti!   Ciò non pador, rusticità s’appella.   Benché si chiami forza, è questa grata  Alle donzelle ) che amano sovente  Esser forzate a dar quello che giova.   1 piaceri d’amor, se sian rapiti,   Gode la Donna, e la franchezza ha il premio.  Ma quella che poteva esser forzata.   Ed intatta rimase, ancor che in volto  Mostri allegrezza, ha mesto in seno il core.  Soffrir violenza Febe e la sorella, (58)   Ma fu grato ad entrambe il rapitore.   La donzella di Sciro ìnsiem congiunta ( 59 )  Con l’emonio Guerrier, favola è invero  Nota , ma degna pur d’esser narrata.   Dopo la lite della valle Idea  Per la lodata sua bellezza il premio  Già la Diva avea dato. A Priamo giunta  Dall’ opposta regio Deaera la nuova,   E già viveva nell’ iliache mura  Come un’argiva sposa. I Greci”tutti    ( 58 ) Castore e Pollice rapirono le due sorelle Fe-  be e ilavra, che Leucippo padre delle medesime aoea  date in spose a Ida e Linceo,   (59) Venere per premio del Pomo da lei ottenuto,  promise a Paride Èlena moglie di Menelao ^ e Pa^  rìde la rapì , e la condusse in Troja sua Patria. Sia-  come i TVojani ricusarono di render Piena Greci ^  che la richiescr più volte, questi intrapresero contro  quelli un formidabU assedio. Tetide adendo inteso ,  che il suo figlio Achille sarebbe morto se andava al*  la guerra di Troja, per assicurargli la vita lo man¬  dò in abiti femminili a Licomede Re di Sciro. Ivi   s* innamorò perdutamente di Deidamia Princi*  possa reale, ed ebbe dalla medesima in figlio il ce*  Icóre Pirro.    Digitized by Google      45    Deir offeso marito avean giurato  Di vendicar V oltraggio, e fero allora  D^'un sol uomo il dolor causa comune.  Se noi forzava^ le materne preci.   Eterna infamia coprirebbe Achille,  Perchè con lunga veste ascose Tuomo.   , Che fai, nipote d^Eaco ? Non sono  Atte a filar le mani tue la lana.   Con arte ben diversa ora tu dei  Volger la mente alla palladia gloria.   A che questi cestelli ? Il braccio tuo  Deve portar lo scudo; e in quella destra.  Per cui un giorno cadrà Ettore, io veggo  Or la conocchia ? Del filato stame  I fusi carchi getta , e Pasta impugna.   Un letto sol la Vergine reale  E Achille accolse ; ed ivi ella conobbe  Che di femmina avea solo la gonna.   Con la forza fa vìnta ; almen sì crede;  Soggiacere alla forza a lei fu dolce.  Quando soverchio s’affrettava Achille,  Che altr’armi avea che la deposta rocca.  Spesso gli disse : per pietà t’ arresta.  Qual valore or dov’è ? Perchè trattieni  Con lusinghiera supplichevol voce  Li’autore,o Deidamia,di tua sconfitta?  Di pudico rossor copre la gota.   Se dee la donna far la prima offerta,  lilla Tè grato il soffrirs*altri incomincia.  Ah I nella sua beltà troppo si fida  Quel giovine, che aspetta che primiera  Ella lo preghi. Deve sempre 1* uomo  Essere il primo ad accostarsi a lei;   Ju uom le sue preci esponga, e le sue r    Digitized by Google     46   Riceverà cortesemente. Fréga   Che ti voglia accordare il suo possesso;   Ella ha piacer d’ esser di ciò pregata.   Fa lor palese il tuo desio, che Giove  Supplichevol si fece ognora innanzi  AlF antiche Eroine, e non fanciulla  Offrì preghiere , benché grande , a Giove.  Ma se t’ accorgi che alle tue preghiere  Si fa vie più superba, allora l'opra  Abbandona, ed il piè rivolgi altrove.  Molte amano chi fugge ^ ed odian quello  Che troppo le frequenta; impara dunque  A non tediarle. Nè chi prega sempre  Dee del delitto palesar la speme,   Ma sotto il manto d’ amistà velato   insinui Amor. Con questo mezzo vidi  Deluse rimaner ritrose e fiere  Donzelle, e divenir T amico amante.   Non dee il nocchier, che le marine spume  Solca soggetto alla solare sferza,   Candido avere il volto , e pur disdice  Al cultore de* campi, chfe rivolge  Col vomer curvo , e con pesanti rastri  Le dure zolle , e per te turpe fia  Candide aver le membra , che il tuo crine  Cerchi adornare del palladio ulivo.   Sia pallido ogni amante ; è questo il suo  Proprio color ; tinto di questo il volto  Sarai creduto infermo. Fra le selve  Pallido errò per Lirice Orione (6o),   (6o) Giops, Mercurio , e Nettuno furono henisd*  mo accolti in casa d* Iréo uomo assai povero* Aven¬  do questi domandato medesimi un figlio , che non  dovesse ad alcuna donna la nascita, i tre Ospiti di-    Digitized by Google      E per ritrosa Najado fu Dafni (6i)   Pallido L^almà discopra il volto  Estenuato ; nè a schifo; avrai di pórre  Sulla nitida ^chioma un pìcòiol manto ( 6 a).  Le cure ^ il duolo ^ le vegliate notti.   Che origin traggon dà nn Violento amore,  I Giovanetti estenuai! ; non tf incresca  Comparire infelice , se tu brami  Di far paghi-ì tuoi voti,'onde ognun dica  Che ti rimirà : è (Questi unWeto amante.  Mi dorrò fbrsè , 0 pur' ti farò dk>ttò  A usar rarti pt^rmessé e le vietate?   Ah che amicizia è fè^^on^nòmf vani i  Lodar quella , che adori, al tuo ^compagno,  E perigliosa imprésa , ché se crede  Alle tue Iodi , gli verrà vaghezza  D'entrar nél posto tuo. L'atto rea prole (63)  Non cercò profanai* d-Achillé 11 letto,   ■ “ n !"*- 7—ri — -——   vini hagnàti^no della ptopHa ofina la pelle del Toro  da lui ucciso per Viàrio loro in cidoy é assicurarono  che da mtella nascerebbe un fanciullo: JVé nacque  infatti Orione ^ che fu un ottime Cacciatore. Non si  sa chi sia Lirico da lui : amata Vedansi le note faU  te a questo libro dal Ckier Néiruio.^   (6i) Dafni figlmel di Merèurio rtacque in Sicilia,  ed k VAutore de^virsi buìieeliei. Amando egli una'  Ninfa , da cui era ^matà egualmente, ottenne dal  Cielo, che divenisse cieco chi di loro oiolasse il primo  la fede giùtata,Immemore Dafni del voto fatto,  j* mnémo rò d^ uha ritrosa Nomade , e divenne cieco.   (6a) Q uando i Romard soffrivano qualche incorno^  do di sai ute , si coprivano il capo con un piccol maa-  to da loro iifè/to Piu li alani.   ( 63 ) Patroclo nipote d^Attore € figlio di Mentàpo  fu amicissimo Achille. Non cercò Fedr^ di sedar T amico (64) .  Di Teseo Piritoo ;aè in altra guisai [  Pilade la consorto af«(ò à' Oreste , ( 6 S) 3  Che come Fcho Palla ^ od il tuo  O Tindaro ,gemeUo amò ia suora^ ( 66 )   Ma non sperato rionofvatì spesson J (o r )  Sìmili esempi, se non spe^ri ancora ;  Veder spuntar dal tramarisco i pomi,   E in mezzo al huine ritroTare ,il mele. . >  Quello che è turpe :giova > e ognun ricerca  Il piacer proprio > che divien più grato.   Se altrui costa dolor . Do^e, 8 !:intese  Scelleraggin piA grande ? Pel nemico  Non debhi .amante: paventar .soltanto,   Ma fuggir dei, se vuoi viver, sicuro,; .  Quei che credi fedeli, e siimi amici. <   Il Fratello, il Cognato ,, ed il diletto ;  Compagno temi ; questa tufba tutta; , ;   Vera ti recherà cagion d^ angoscia.   Già toccavo la meta ; ma diversi.   Sono cosi delle Fanciulle^ \i i ^ ^ ’u   Che varj mezzi ancora usar si 4enno,   (64) Piritoo e Teseo concepirono V uno per Poltro   una stima si f^rànde, ohe giurarono di non àhhan^\  donarsi giammai , o itifMi si prestarono vicendevole  mente soccorso in tutte U occtìrrettoo^ Pirotop ^ querie  tunque frequentasse taaasa di Teseo, limita sèmpre  la sua beneoolenaa per Fedra a* sentimenti d* amìci"\  aia e di stima. : • .. > > ; 0 i . .   (65) Pilade figliuolo di. Strofa ^ ehbé per Oreste   un*amicizia con sincera^ ^le.nonjo abbandonò nel-  le più pericolose circostanze a rischio di perder anche  la vita. ’   (66) Castore e Polluce figli di Tindaro amaron la  lor sorella Elena con quell* amore, con cui debbono  i fratelli amare le sorelle.    Digitized by Google     49    Per adescarle. Non la stessa terra  Ogni cosa produce ; atta alle viti  £ questa ; quella vuol gli olivi ; e in altra  Lussureggian le biade. I nostri affetti  Varian come nel mondo le figure.   Piegar si sa chi ha senno ad ogni umore;  E come Proteo , si farà nell’ onde ( 67 )  Sottile ; ed or sarà leone, ed ora  Àlbero 9 ed or cinghiale irsuto. I pesci  Altri si piglieran col dardo, ed altri  Con r amo ^ e alcuni ancor saranno tratti  Àir ampie reti con la corda tesa.   Nè giova ad ogni età lo stesso modo;   La vecchia cerva scorgerà da lungi  Le insidie . Se s’accorge l’ignorante  Che tu sii dotto, e ardito una modesta,   Si porranno in difesa, onde avvien spesso  Che quella che di darsi a un uom d’ onore  Ebbe temenza , fra gli amplessi vili  Giaccia d’ un servo . Parte avanza ancora.  Parte ebbe fin dell’ opra intrapresa ;  Fermo qui tenga l’ancora il naviglio.    Arte ^am. c    (67) Proteo figliuol di Nettuno era un Dio mari-^  no , che si solwa cangiare in ^alsivoglia forma y e  di qui ha origine il proverbio : Proteo mutabilior.   I3ite e ridite lodi al delio Nome:   La desiata preda è alfin caduta  In queste reti. A’versi miei ramante  Lieto conceda rigogliosa palma;   Al Vale ascreo ed al meonio Omero (i)  Son Dreferito. Tal di Priamo il figlio (a)  Con la rapita^ a Menelao consorte  Trionfante spiegò le bianche vele  Dair armifera Amìcla, e tal pur era   (i) Il Vate ascreò è Esiodo ^ e ph si è veduto al»  V annotazione 5 del Lib, /. perchè gli venga dato uts  tal nome. Critei de , ad onta della custodia che ne ave¬  va Vargivo Creonte^ senza divenir moglie d*alcuno^  divenne madre d^un figlio, che chiamò Meletigene  dal jwmt Me]e«^ in vicinanza del quale parton. Si  sa , che essendo Melesigene accieeato , fu sopranno¬  minato Omero, perchè i Cumani chiamavan con tal  nome tutti i ciechi ; ma non si sa se questo inimita»  ìfil Poeta dicasi meonio perchè Meone fosse suo pa»  dre , o perchè da Meone Re de^Lidj fu poscia adot»  tato in suo figlio.   (a) Paride figlio di Priamo rapì Elena moglie di  Menelao nella Città d*Amicla, donde la condusse  trionfante in T^oja sua patria,^    Digitized by Google      5a .   Pelope allox che te vinta traeva (J)   Sul carro peregrino, o Ippodamia:   Perchè, o giovin t’afFretti ? in mezzo alPonde  Naviga il tuo naviglio, e lungi è,il poxto  Più dt quello ché bramo* A te non’basta  Che tratta t’abbia la fanciulla innanzi  Io tuo poeta: presa fu con l’arte;   Con l’arte ancora conservar si debbe.   Non vi bisogna già niìnor virtude  Perchè non fu^gan^ritroVatè : è quella  Opra del caso , e questa sol delParte.  Siimi propizio , o Amore , e Citerea;   E tu , Er^tp pur V qhe* il ncfme pqrti ' :  D’Àmor , m’assisti» pra a cantar m’accipgo    (3) Enomao Re Elìde e^ di Pisa senti  coloy, ohe sarebbe eglt-uodid nel ygiorno^  da avesse presoi in isposa la sua figlia Ippodan^a^  Per allontanare dalla medesima à molti giovani , che  ambivano d'acquistarsi una 5 I belici fttnóiulia in con^  sorte , gV invitò tutti un giorno a far ^secè il gioco  d'una corsa , col patto che. sarebbe^ irpmancabilmente  trucidato chi fosse rimasto vinto da lui , e che do-^  vesse > chi aveva la fortuna di vincerlo^ sposare Ip->  podamia. Pelope fu vincitore con Vajnto di bfirtilo ,  a cui promise , che. nella prima notte de^ suoi spon¬  sali gli avrebbe in ricompensa accordato }L dolce pos¬  sesso 4dla sposa novella. Immernorè egli però della  data parola, e del segnalato servigio a lui reso ^ con^  dusse sul carro vincitore in trionfo la bellissima Ip-  podamia , e quando Mirtilo gli richiese Vadempirnento  delle sue lusinghiere promesse , lo gettò barbaramente  in .mare. . .   . (4) Da EpMT« , che in greco idioma significa Amo-,  re , ha preso il suo nome la Musa Erato. Fu essa,  madre di Tamita ^ che cantò il primo di tutti i versi^  amorosi , ed a lei si attribuisce da alcuni greci ùom-^  mentatòri V invenzion della Éiusica c del BaUf^    Digitized by Google     53   Cose stupende : con qual arte Amore  Tener si possa io vi dirò, bench’ abbia  In Vasto mondo ei di vagar diletto.   Egli è leggiero , © doppio p^rta al tergo *  OrdÌB‘'*di'jpènbo , Onde' riniporgli legge  È difiScfr impresa. Àvea'aMa fuga  DelP ospito Mibos ckiusa Ogni via, (5)   Ma ntì'àmdace sentier trovò con Tali.  Poiché Dedalo chiuse il Minotauro,  Giustissimo Minos, disse, abbia £ne  Ora'il’mio esilio , ed il paterno suolo  11 ceder mio riceva. Io non potei.  Perseguitato ogUór da iniqui fati,   Vivore in patria, almen morir vi possa.   Se a me ricusi un tal favor , che sono  Carico d*anni ^ lo concedi al figlio,   E se al figlio .noL vuoi ^ lo dona al padre.  Queste e molt^ altre ancor cose dicea, •   Ma a lui Minos hón permettea il ritorno.  Di sua eVentura cèrto», a se medesmo  Allor Dedalo disse, hai tu materia  Onde mostrar Pingegno; e terra e mare  È in poter di Minos : e mare e terra  Or ci vieta la foga ; a me rimane  Il cammino del ciel ; questo si tenti*   — l^tdato , come già si è accennato , fabbricò irs  Creta il celebre Labirinto, in cui fu racchiuso il  Sfinoiaiiro. A^endògli' Minos vietato d* uscir da quel^   ' io' f non trovò altro mezzo per ritornare alla patria y  se non se di fabbricar dell* ali congiungendo insieme  varie penne d* aòcelii , ed accingersi in tal guisa a  ' 'Volar per il cielo in compagnia d'Icaro suo figlio.  Questi per altro innalzò troppo il suo volo, e preci^  pkò miseramente in quel mare , che prese da lui ii  nome Icario.    Digitized by Google      54   Sommo Giove *, perdona ^ questa impresa:  DelP Empireo stellato non aspiro  Già le sedi a toccar ; sol questa strada  Onde fuggir dal mio Signor mi resta*   Se Io stìgio sentiero a me si mostri,   10 r onde stigie varcherò • Debh’ ora  I dritti rinnovar di mia natura.   I mali aguzzan 1* intelletto. E quando  Si avrebbe dato fà che un uom potesse  Premer le vie del cielo.? In ordìn vario  Dispon le penne , che per V aria sono   11 remo degli augelli ; e unisce insieme  Con del ritorto Un 1’ opera lieve.   Con cera al foco sciolta insieme accoppia  Le parti estreme ; e già della nuov’ arte  Era venuta la fatica a fine;   Ma intanto che trattava e penne e cera.  Rideva il figlio , ignaro che quell* armi  Sarian la sua difesa al tergo unite.   Con tal naviglio, a lai diceva il Padre,   Si può alla Patria far ritorno ; in questa  Guisa fuggir Minos, che ogni altra chiude  Fuor che T aerea via « Tq che lo pupi,  Con questa ch’io inventai arte novella^  Fendi gli aerei spazj ; ma la vista  Della Vergin tegea, e del compagno (6)   (6) Calisto i Licaone Ra d* Arcadia ^ è   soprannominata Tegea, da una Città di tal nome  soggetta alV impero del padre della medesima. DaU  V illecito commercio , che ebbe essa con Giope , diede  alla luce un figlio chiamato Arcade , e fu da Giu¬  none per ciò tra^ormata in Orsa ad oggetto di ven*  dicarst deW infedele suo sposo ^ il quale la collocò in  oielo fra le stelle col nome , che ancor oggi conserta,  d’Orsa Maggiore. Di Boote Orion cinto di spada --—   Tu dei fuggir • Con V apprestate penne  Mi segui ; io ti precedo, e sia tua cara  Batter^ V isteasa via ; da rae guidato  Incolume sarai, li’aeree strade  Se calcherem troppo vicini al Sole,   Al suo caler si scioglierà la oera;   Se al mar propinqui batterem le pennei  Da’ vapori del mar saran bagnate.   Spiega il tuo voi fra ^1 Sole e il mare; i venti  Pur anco temi, o figlio ; e all’ aure in preda  Dà le tue vele allor che sian propizie.  Mentre in tal modo V istruisce ^ ài figlio  Il lavoro dispone, e mostra come  Muover lo debba : in guisa tal la madre  La pennuta ammaestra inferma prole.  L’àJe poi di sua man per se costrutte  Accomoda al suo tergo, e nel novello  Cammin timido libra, in aria il - corpo..  Allor che al volo si accingeva, al figlfo  Diò molti baci, e le paterne gnauce  Furon di calde lagrime bagnate.   Sorgea sul piano un colle assai minore  Del monte, e quivi V uno e l’altro corpo  Si diede in preda a perigliosa fuga.  Mentre le penne sne Dedalo move.   Quelle osserva del figlio, e ognor sostiene  In aria il corso • Icaro si diletta  Del novello sentiero, e ornai deposto    Orione figlio Ireo ( annot, 6o del Lib, I. ) Untò  di dare un disonesto assalto alla casta Diana ; ma  essa lo fece uccìdere da uno scorpione , e poi mossa a  pietà lo trasmutò presso a Boote in una costellazione  fatta a guisa di spada^    Digitized by Google      56 I   Ogni timor ^ con arte audace vola  Più ibrtemente. Un che insidiava a’ pesci  Con la tremula canna, alzato il guardo,   Li vide in ariane abbandonò P impresa.   Già da sinistra avean passato Samo,   E Nasso e Paro e Delio al clario Dio  Sommamente gradita ^ ed alla destra  Si lasciar dietro Labioto, e Calìnna  Per selve ombrosa, e Stampaglia di guadi  Feraci in pesci cinta, allor che il figlio  Temerario con troppo incauto ardire  Spiegò senza ìL suo duce in alto il volo*   S’allentano i legami ; al Sol vicina  Liquefassi la cera , e i .tenui venti  Male sostengon le commosse braccia.   Dal sommo cielo spaventato il guardo  Rivolse al mare, e dal timor già sorta  Si offro al suo sguardo tenebrosa notte.   Si liquefò la cera, e i nudi braco!   Dibatte ; trema ; e ìnvan ricerca il modo  Di sostenersi *« Cadde , e o padre , o padre  Gridò cadendo, via son tratto , e T onda  Cerulea chiuse al suo parlare il varco.   Ma Pinfeiice Padre.(ah non più padre!)  Icaro , grida , Icaro , dove sei?   Sotto qual asse voli ? Icaro grida,   £ nuotanti sul mar mira le penne*   Copre P ossa la terra , è prende il mare  Il nome suo • Minos già non poteo  D’ un uoni frenarle penne ,ed io m’accingo  Un Nume alato a trattener? S* inganna  Cfii fa ricorso all’ arti emonie, e appresta  Dalla tenera fronte del cavallo    Digitized by Google     '^7 -   Lo svelto a forzalppomane. Non Verbe ( 7 )  Pon di Medéa far viv*?re l’amore;   Non 1 Tharsfejj^ncàntesmi . Se potesse  Una tal'arte ptolàligàrto , avria '   Medea Giasbn', Cfrcfe teénto Ulisse . ( 8 ^   Nè i pallidi apprestati* éill%*dónzelle  F'iTtri* Valséro { aU’alrne Son nòcivi, ( 9 )   Ed inspirai) farot .'Ogni delitto  Vada put lungi ; se attti essere amato,  Amabile ti- ttióstraf I a: ciò^ nTort giova *   Solo’ le^ menibtk àlve'r’by^^ e là-faècia. ^  Sii pur Nireó tfaro^ ^11’ aiitibd^ Omero ; ( io)   ' ^. t L ; >( 7 ) Q^^àevano gli an tichi , e fra questi ancora Pii-   nio ea Aristotile , che si potesse còncìliar l*amore per  mezzo éAl^lppòinsLne, cioè di qtàel pézzetté rotondo  di carrie .nera ^ che han\ sulla , fronte iì cavalli nati  di fres^qp, Jfa Mars^ figlio^^efia/venefica Circe^^ t^aj-  ser l a lo ro orig ine i M ar si. Abitarono questi popoli m  lidlia non fontani ,àa Uòma ^e Jfùrorio~reputati , èc-  celleràPneWarte dellc^ ' niagìq: “ * '   (8) ,iÌÌe«/èa \e Circe fdronp dii^ ihsiAni Ma^he ^ je  insieme due a^passioriaté 'mài. cohisposte dmànii\  poicHè 'fiorì pótérono có'loro magici incanti trattenere  Ùiasoné\d Utisse i che amavano tèneramente, ‘ ’   (^) t Filtri preparati dalle Maghe , eran composti  di fichi salvatici ^ éP uòva e di penne di civetta, di  * sangue e di. pòlfnone di ranocchie , e d*os5Ì di cani e  'di serpenti'Sventrati. Lèggasi ài Libro quinto V Ode  'd*Orazio cprìlró Canidia. * ^   (io) Nireo], nafo dd Aglajd e dal Re Cecrope,  andò alt*assedio di Trojq ; e vien da Omero nel Li-*  hro secondo dell*Iliade lodato per la sua sorprenden^  te bellezza. Ercole amò sommamente Ila figliuol di  ‘Teodamahte , c lo condusse con se, quando navigò  alla volta di Coléo. MetltP era iri viaggio lo mandò  un giórno ad attinger Vacq.ua dal fiume Ascanio nel’»  la Misià ma essendo ivi disgraziatarkente caduto^  han finto i poeti , che fosse rapito dalle Nufadi Dea  de*fiumu 1    Digitized by Google      58   O il tenerello un giorno Ila rapito  Dalle callide Najadì : se brami  Conservarti Y amor della toA donna,   E non vederti abbandonato , aggiogni  Deir alma i preg) alla beltà del corpo.   È la beltade un ben caduco e frale,   Che con gli anni decresce, e a un fisso tempo  Fugge mai seiupre • Le violette^ e i gigij  Non fioriscono ognor;Ia spina , ^ cui  Colta la rosa sìa , rigida viena*,^ ^ '  Vago garzon , i tuoi capelli un giorno  Verranno bianchi, e il corpo tuo le rughe  Ti solcheranno . Formati ed aggiungi  Alla beltade un animo che ^uri:   Sol ei riman fino agli estremi roghi*   Ni sia rultima ina cura con Farti  Ingenuo Padornarlo ^ e di due lingua  Renderlo dotto . Non fu bello Dlisso,(ii)   (il) Colisse t figlia , come credono alcuni, delVO*  etano e dì TeHde, accolse cortesemente il naufrago  Ulisse nell* ìsola Ogigia , ov* essa regnala. Dimorò  questi per sette anni con la Ninfa suddetta , da cui  ebbe varj figli , e poi fu costretto a dividersi da lei  per comando de*Numi , quantunque non lasciasse elìa  alcun mezzo intentato per ritenerlo sempre appresso  di se. Reso Re dei Traci detto odrisio perchè cornane  dava alla Traqia nazione degli Odrini, e sitonio^  perchè anticamente la Tracia ^si chiamava Sithon ,  fu ucciso da Ulisse e da Diomede, mentre andava  con un esercito in soccorso di Troja. D* ordine de*suoi  Troiani si portò Dolone ad osservar gli andamenti  dell*armata de* Greci ; ma incontratosi con Diomede  td Ulisse , che pure osservavano la condotta del cam^  po Trojano , svelò a*meiesimi , dopo d*aver preso Vim^  punita y tutte le più segrete determinazioni de* suoi  concittadini. Volendo egli poi per premio i cavalli  emonj d*Achille , fu ba^aramente trucidato da Ulio^  se e Diomede uccisori di Reso.    Digitized by Google      59   Ma facondo ; c per lui ferito H petto  Portar* r equoree Dive. Oh quante volte  Di sua partenza si lagnò Calisso^   E dicea che non atte erano a* remi  L’onde del mar! Oh quante volte udire  Bramò di Troja i casi , ed ei sovente  Narrò lo stesso con diversi modi I  Stavan sul lido insiem , quando la bella  Calisso ehiese la dolente istoria  Del Duce odrisio; ed ei con tenue verga  ( Mentre a caso la verga in man teqea )  Finge Popra richiesta in sull’arena.  Questa» le^disse, è Troja (e fe’sul lido  I muri) . È questo il Simoe,e queste fingi  Che« sieno le mie tende . Il campo osserva  (E intanto lo disegna) che col sangue  Sì sparse di Dolon, quando gli emonj  Cavalli scaltro d’ involar procura.   Fur del sìtenio Reso ivi le tende;   In questa uotte da i deitrier rapiti ^  Fui strascinato . Dipingea più cose,   Ma improvvisa del mar onda furiosa  Via trasse Troja , e col suo Duce ancora .  Le trinciere di Reso. Allor la Diva,   Vedi quai nomi s’inghiottiron Ponde^   £ vuoi che al tuo cammiò sieno propizie?  Ardirai dunque di fissar tua speme  In fallace fij^ura? e più del corpo  Altro tu non avrai solido e degno?  L’accorta compiacenza a noi concilia  Gl’ animi, ma l’asprezza e le severe  Parole contro noi muovon lo sdegno.   Si ha in edio lo sparvier , perchè tra V armi  Traggo sua jriU, e i lupi che assalire   \    Digitized by Google     6o ^   Hanno in costume il timoroso gregge.   Mite è la rondinella , e innocua vive  Dall’insidie dell’uomo ; e l’alte torri  Abita là colomba a lei gradite.   Vadali lungi le liti e i detti amari;   Con soavi parole amor si nutre.   Stia la discordia tra marito e moglie;   Si faggan questi, e credano a vicenda  Di difender lor dritti • Ciò conviene  Alle tnògli/che ognor funesta dote  Recan di lìti . Il dolce suono ascolti  Degli • accenti bramati ognor V amica;  Legge non havvi per gli amanti ; in loro^  Ìj amore è legge • Parolette grate  Reca , e dolce lusinga à lei 1’ orecchio.  Onde alla vista tua lieta si faccia.   Non io d^ Amor maestro a’ ricohì parlo.  Che chi pnote donar > dell’ arte mia  Non abbisogna • Chi quando a lui piace,  Prendi j può dir, non manca mai d’ingegno.  Cedere a Ini dobbiam, che più gradito  Sarà dell’opra nostra. Il vate io sono  J>e’ poveri, dhe ognor povero amai.   Dar doni non poteva, e diei parole.   Cauto ognor sìa povero amante , e tenga  La lìngua a freno, e soffra quel che un ricco  Non soifrirebbe . l^el ponsier mìo torna,  Che irato aia di delia mia Bella feci  Al crine oltraggio . Un tale sdegno ah quanti  Giorni mi fe’ passar pallidi e tristi I  Noi credo, e noi compresi , che la vesta  Io le stracciassi allor, ma lo diss’ ella,   £ comprarne altra a me fu d’ uopo. O voij  Che avete ingegno, del Maestro vostro    Digitized by Google     6i   Fuggite il fallo, e né temete i danni.   J8ia la guerra co’ Parti , e ognor la pace  Con l’Amica diletta'. Usa gli scherzi,   E tutto quel che favorisce Amore.   Se a te che l’ami, docil non si mostra  Qual vorresti e cortese, il suo rigore  So^ri costante , e diverrà benigna.   La forza usando, il curvo ramo frangi,  Che con dolcezza addirizzar potevi.  Varcasi 1’ acqua cón pazienza, e malo  Vìnconsi i fiumi, se pigliar tu tenti  Contrarie Tonde rapitrici k nuoto.'   I numidi leon , le fiere tigri  Pan le lusinghe mansuete e miti;   Ed al rustico aratro la cervice /   A poco a poco sottopone iJ toro.  Dell'arcade Atalanta e chi più fiera.(ia)  Mostrossi mài? Eppur quella crudele  Soggiacque anch’essa al mèrito d* un uomo,  Narra la fama , Melamon piangesse, (i3)  Sotto un arbor giacente all’ombra, spesso  Suoi tristi casi e la crudel Fanciulla.  Spesso* portò le ingannatrici reti  Sul vinto collo, e con spietato ferro    (la) L’arcade Atalanta, figlia di Jasio o d’Aban^  te , fu un.’eccellente cacciatrice ,e si fe* compagna di  Diana per consertare illibato il candore della sun  verginità, Finta essa p<ù dalla fedele e lunga servitù  prestatale da Meleagro o da Melanione , si abbando^  nò finalmente in braccio ni medesimo , ed ebbe in fi^  glio il celebre Partenopeo,   ' (i3) Sono tra loro cod diverse le memorie .a- noi  lasciate dagli antichi scrittori riguardo a Melanione  0 aid Atalanta , che è impossibile il dar de’ medesimi  «Hit distìnta notizia*    Digitized by Google     6 a   Uccise spesso i barbari cinghiali.   L’arco teso d’Ileo soffri piagato,   Ma conoscea più ancor 1’ arco d’ Amore.  Non vo’che armato le menalie selve  Tu salga, e che le reti al collo porti;   Hò già t’impongo il petto alle vibrate  Saette espor • Dolci più assai saranno,   Se udir mi vuoi, dell’ arte mia le leggi.   A lei che è ripugnante , ognora cedi;   E vincitore partirai cedendo.   Eseguisci fedel ciò eh’ ella impone:   Biasma Quello che biasima, ed approva  Quel che le piace , e il suo parlar seconda.  Di rider ti ricordo al riso suo.   Di piangere al suo pianto , e i moti ancora  A suo piacer del vento tuo componi.   Se giocale nella man P eburneo dado ( 14 )  Agita , tu ancor l’agita, e lo getta    (14) Oltre il gioco de* dadi era presso i Romani in  uso quello dclVAlìosso detto da loro Talut, che con^  sistema in piccoli quadrati d*osso j ne* quattro lati de*  quali erano notati separatamente i numeri uno, tre,  quattro, sette. Doleva pagar senza lucr^o una mone^  ta chi avesse gettato l* uno, che chiamatasi Ganis o  Òanicula. Guadagnata sei monete e ciò che ateta  perduto nel gettare il Cane chi scoprita la parte op*  posta all* uno ^ cioè il sette che ateta il nome di  * Yenns o Gons,* ne guadagnata tre chi gettata il  Seniofper cui intendetasi il tre, e quattro chi ates^  se rappresentato U Ghio, che esprimeva il numero  quattro. Si rileva da**latini Scrittori che fu VAliosso  giocato anche ditersamente ; ma basta per la chiara  intelligenza di questi versi U sapere che erano i Cani  dannosi ^ mentre esprimevano l* ano ^per cui si dote^  va senza lucro pagare una moneta. Il Gioco , ohe  rasfvmbra a guerra , è , come facilmente ri QQtnprew*  dp ^ qugllo degli Scacchi,    Digitized by Google     In modo cV«lIa vinca. L’Àliosso  Se trae, farai in maniera cbe la pena  Non soffra d’ ^sser vinta, e tuoi saranno  Sempre i dannosi cani ; e s’ ella' pone  Opera a gioco « che rassembri a guerra,   Fa cbo perisca dal nemico vinto  Il tno soldato. Sulle verghe steso  Tieni r ombrello , e, nella densa folla  Per dove idee passare , il varco l’apri;  Vicino al letto non t’incresca porre  Lo scanno, e fai piede dilioato togli  E riponi la scarpa .iDei sovente.   Benché ti prenda orror , della Padrona  L’algente,mano riscaldare al seno.   Non creder turpe, henchè a te rassembri.  Con destra ingenna sostener lo specchio,   Se a lei ciò piacerà. Chi ’l fiero sdegna (i5)  Otaneb.della matrigna in domar mostri.  Che ora è nel Ciel , ohe primo egli sostenne.  Si crede , tra Ife joniche Fanciulle  Che tenesse il cestello, e che filasse  Rnstiche lane . Si l’Eroe tirinzio  Servi all’impero d'una Bella ; or dnnqne   Dubiti di soffrir ciò eh’ei sofferse?   Se ti comanda esser presente al Foro  -Previeni 1’ ora del comando , e sempre   ^eoU ' mnst valorosamente ( Annoi. 17. del  Lib. I. ) tutu s mostriyche contro di lui suscitò la  tua rnatngna Giunone, e sostenne sulle sue spai-   ad Atlante affa-  incarico. Innamoratosi egli poi dH)n-  '‘iff reale della Lidia, vestì abiti femi-   mh, e m qualità d’ancella iella medesima filò vil¬  mente l»inne con quella man valorosa, con cui per  le rmrabilt sue gesta s’ era colmato di gloria. ^    Digitized by Google     Ne partirai più tardi • Se ^t* impoiàfe  Di gire in altro loco’, ogni altra cura  Lascia da parte , corri ^ uè la turba ''  LMutrapreso cammìti trattenga , e còma ‘  Servo, sé vuol, tu Taccompagna a Casa^-  Tolte le mense , e^già sorta^ la liOtte; > *   Se fosse in villa,*e tf dicesse: vr<eni> ^ ^  Col piè premi la via , se manca il eocebiò,  Che Amor odia gl’inerti . Il btiitasoosò  Tempo nè la Canicola assetàtai ^ ' n /  Nè per scaduta nòve il sentìev biénco - ^  p’ ostacolò ti aien ^ Simile a gòfei/ra * ^  E r amore , da cui vadano lungi ' ‘ ^ '•   I codardi . Nò , sotéo tali itìsegné*   II timid’ uòmo guerreggiar tiòu' debbe*   La notte, il verno, disastrose strade, ' ’  Dolor cocenti, e ogni altr’aspra fatica  Racchiudono que’mòlli ttccampaihetttli*   Di pioggik dalle untole tìiscioitu'^ * ‘ ‘ *   Ben spesso intrisa avrai la -veste,-è‘Spesso  Gelato giacerai sul nudo suolo." ^   Dicesi che dì Cinto il'Nume' nu giorno (i 6)  Pascesse le ierée vacche d’ Admeto,   £ s’ascondesse in umil capanna.'   A chi non converrà ciò che coriTenné ‘  Apollo, che dicesi i/-Nuine- 4 ì'Cinto fper^hè  ( Ànrvot. 1^9. del Lib, /. ) nacqueove giace  4 in tal monte y sentì il pin, intenso, dolere ^ quanda  Giove fulminò Esculapio di , lui figlio , perchè faceva  rivivere i morti con V ajuto della -Medicina. Per veti^  dicenrA pertanto in qualche maniera d* una tale ingiur-  ria , egli uccise i. Ciclopi y che fabbricavano le saette  a quel Nume supremo , il quale lo spogliò per ques to  della divinità, e lo costrinse a pascolar le vacithe  4 * Admeto Re de* Ferei in te staglia^    A Febo ? O ta, che in lungo amor ^impegni,  Il fasto lascia • Se un cammiii seeuro  £ facil ti si nega, e se alla porta  Ritrovi impedimento, allor t’insinua  Dal precipizio d’ùn aperto tetto,   O da ascoso sentier d’ alta finestra.   Lieta ne fia, quando del tuo periglio  Intenda la cagion ; di certo amore  Sarà per la tua Bella un grato pegno.  Spesso potevi dalla tua Diletta  Star lontanerò Leandro, ma varcavi ( 17 )  L’ onda del roar, perchè le fosse noto  L’ amante core • Guadagnar l’ancelle  Non abbi a vile, e in special modo quella.  Che sarà favorita , e ancora i servi.   Non temer d’ avvilirti : ognun saluta  Col proprio nome, e alle lor destre umili,  Ambizioso , d'unir cerca la tua;   Ma al servo che ti prega ( è lieve spesa)  Porgi piccoli doni, ed in quel giorno  Pure air ancella, in cui restò ingannata ( 18 )   (17) Leandro amò Con tal forza Ero Sacerdotessa  di venere , che spesse volte varcò VEllesponto per visi^  tarla. Essa accendeva Una fiaccola sopra una torre,  affinchè potesse il suo Amante camminar piu sicura^  mente , e quando intese , che era il medesimo misera^  mente annegato , si diede in preda aW ultima dispe-*  razione , e slanciossi intrepida nel mare,   {ìÒ) Ai q di Luglio celebravasi in Roma splendi--^  damente una festa, a cui concorrevano le Servé‘ ve^  stile a Matrone romane , in memoria delV util servii  gio che avevano esse in tal giorno prestato alla Pu^  tria. Ecco ciò che ne dice il Macrohio, Post Urbe in  captam , cum aedatus esset gallicus motus, res vero  publica esset ad tenue reducta, Finìtimi opportuni-    Digitized by Google      66   Da veste maritai gallica truppa,   E che pagò d’ un folle ardire il fio.   Ti fida a me ; fa tua la plebe, e sempre  Sia fra (juesta V ascierò , e quel che giace  Sulla porta del Talamo . Io non voglio  Che ricchi doni appresti alla Padrona;  Piccioli sian, ma convenienti e accorti.  Mentre è ferace il campo , e mentre i rami  Piegan pel peso di mature frutta.   Porti fanciullo in un cestel gli agresti  Doni , e dir ben potrai che da una villa  Suburbana ti vengano, quantunque    tatem invadendi romani nominis aucupati praeferant  sibi Postlmmium Livium, Fideoatiam Dictatorem ,  qui, mandatis ad Senatum misis, postalayit , nt si  yelleut reliquias suae ciyitatis manere , matres fa*  Hiilias sibi et yirgines dederentur . Cumque Patres  esseat in ancipiti deliberatione suspensi, ancilla no¬  mine Phìlotib teu/ Tutela , poilicita est se cum cae-  teris ancillis sub nomine Dominarum ad hostes ita-  ram : habituqae matrnm familiat et yirginum sumpto,  hostibas cum prosequeatium lacrjmis ad iidem do¬  lorii iogestae sunt. Quae cum a Livio in castris di-  stributae faissent, viros plurimo vino proyocarunt ,  diem fbstum apud se esse simulantes. Quibus sopo-  ratis , ex arbore caprifico, quae castris erat proxima,  signum Romania dederunt, qni oum repentina incur¬  sione snperassent ; memor beneficii Senatus, omnet  ancillas manu jùssit emitti, dotemque eis ex publico  fecit, et ornatum quo tunc erant usae, gestare cou-  cesfit, diemque ìpsum Nonas Gaprotinas nuncupa-  yit ab illa Caprifico , ex qua signum yictoriae coe-  perunt, sacrificiumque statuit annua solemnitate ce<-  lebrandum, cui lac, quod ex Caprifico manat, propter  memoriam facti praecedentis adhibetur. Questa è la  fedele esposizione del fatto, d cui non pare che si  uniformi il Poeta»    Digitized by Google      Tu gli abbi compri nella laera via. ( 19 )  Rechi pur Tu ve » e le aastagne care  Un giorno ad Amafilli, e che ora a vile  Parehè dono legger avrebbe anch* esso,  Co’t^rdi pure e con ghirlanda mostra  Che memor vivi della tna padrona.   Si compra turpemente con tai mezzi  D’orbo vecchio l’affetto, e la speranza  Di godere i suoi beni. Ahìperan qnelli  Che Così vii disegno a donar move.   E che ! t’insegnerò teneri versi  Io diluviar Fa me lo credi, i carmi  Non ton molto graditi ; e benché Iodi  Ottengano talor, maggior lusinga  Han gli splendidi doni : Un ricco piace  Ancor che nato in barbara contrada.   Questa è per vero dir l’età dell’oro^  Giacché con Voto compransi gli onori,  Criacchè con V oro piegatisi le Belle.   Se tu medesmo con le Mute, Omero,  Venga privo di doni, ab ! tu seaeciato  Sarai di casa. Di fanciulle dotte ^   Havvi turba rarissima , ed un’altra.   Che sé reputa tal benché ignorante,   L’une e l’altre s’encomino co’versi^   Che ottengan dal lettor lodo pel suono  Facile e lusinghiero \ a queste e a quelle  Tenue e da aVersi a vii sembrerà dono  In loro onore vigilato carme. ^   Usa in maniera ché V amica ognora    (19) VendéQasim Ronia ogni torta di frutti e d*al^  tri generi nella Via sacra, che acquistotti un tal nó¬  me , perchè furono ivi conclusi con gran^ sagrifizf i  patti fra Romolo e Tazior     68   A far ti preghi quel che util ti sembra,   E che far già volevi. Se promessa  Abbi ad alcun de’ Cuoi' la li ber Cade, (ao)  Fa pur elisegli la chiegga alla padrona.   Se ta rimetti al servo il suo delitto,^   Se le catene sue dure disciogU, ;   Te ne sia debitrice. ^ A lei la •gloria>   A tediatile venga. Sul:tuo eore  Mostra ohe elFabbia un prepotènte impèro^  Ma illesi serba ognora i dritti tuoi.   Tu che nutrì desio della tua cara ' ^ ^   Consfetvarti V amor , fà oh’ ella pensi  Che tu getonito sei di sua Heltade.*   Se le sue menàbra in vtiria veste avvolga,  Le sii largo (U lodi, e se le doe ' .  Cinge, dirai che accrescono i suoi Veazi.  Se poi s* adorna con aurata veste, *   Dille che più splendente èli’è dell’ oro.   Se prende la pelUcela , e tu T approva; *  Se la tomita lieve , allora, esclama '   Che, desta incendj, e con ièmmes^a voce  Pregala che schivar proeuii il. freddo.   Sia il orine in duo diviso, oppur da oaldo  Ferro ritorta, tu dirai : mi piace.   Di lèi, se.danai, ammirerai le,braccia,   Di lei, ^ canta, 1* armoniosa voce,. •   ' E a lei dimostra con dolèntii note^   Perchè fpresto diè fine, il tuo scontento.  Loda gli abbmcciamenti ,:e in suon piètoso  E querulo ie mostra con KJUéiI foraa ..   (ao) Presso i Homani eruno cortamente i servi in  una condizione sì miserache (^iputavansi fortuna^-  a , quando i padroni per un effetto di^somma cUmon^n  accordavano loro la liberty, ^ -,    Digitized by Google    6p   D’insolita jilaowrfe: il. cor t’inonda.   Gon questi- un4incoc che-|}iù. violenta  Foss’ ella di Medusa ^ e indite: e giusta (ai)  Dìvetrài.co», l’ ansante,* Sia .tua cura -  Di non sembrane -iagantiatore ; e il volto  Kon distrugga i tnoi> detti. Ascosa Térte  Giova j e svelata la vergogna apporta,   E Ii^ tfe. 00» ragiOp j toglie per. sempre.  Spesso Sotba l’ÌAu)tjnA0tì,( iiti quella bella  Parte dall’sanitOf,-^ cui vosaeggia Priva  Del purpureo, lioór ; rieolnta » quando  Il freddo,«cura la?f»reiuej ed era il «aldo  La soioglie,). Pìncostante. aere d cagione  Di languore, alle-metubra,* Elhi^pur viva  Sana, masO'.inat giaceja-in, letto in ferma.  Soffrendo. ..drd tmaligqogciol V Infinstoi  La tua pìetade:;ecP AQt^ctW> palese  Sia alloca .alla fanqiullaj^ fi getta il aenae  Di ciO .cbe mieter, debbi, a larga falce.'  Nè del liingaauo mal poja',ti, prenda^ ,   E faccia» le tue man cid che permette.  Te rimiri piangente, ed i .tuoi baci :   Non r.inore«qa;S<^l-Ìr,;'flon arse labbia ,  Beva il tàO ;piantp,. 4 Ì» .ciel voti farai.   Ma ognor,.palesi,,e di narmr: ti .piaccia  Be» spesso,fausti' sogni..:Àn| sua'magione  Guida la-ivacohiarella , che con ?ìolfo iaa)   (ai) ]ffedasa figlia di Forci^'ed ufl'a delle tre Gor-  goni, incontrò-lo tdogn» di Minerva , perché à prestò  all’ impudiche iooglie, di Nettuno • nel Tempio della  medesima* Questa Dea le trasformò^ pertanto i capelli  in serpenti, e fece si che fosse convertito in -sasso  chiunque ardiva di riguardarla.   (ìa) ponducivàn gli antichi le vecchiarelle nello  àuse d^gV frifermi , affinché con le lor preghiere di^    Digitized by Google       Purifichi la stanza e insieme il letto,   E con tremola man T ova le rechi.   Di tua premura avrà cosi 1* amica  Kon dubbj segni, e con tai mezzi molti  Far dalle Belle istituiti eredi.   Ma deir inferma per soverchia cura  Deh non volerti procacciar lo/sdegno;  Àbbian tuoi dolci uffioj il lor confinej  Non le vietare il cibo ; il tuo rivale, •   E non la destra tua* pòrga la tazaa  Colma de* succhi amari. Or che n^ll* alto ^  Del mar solca la nave, usar non dei  Lo stesso vento, con cui già dal lido  Le vele hai sciolto. Mentre Amor va errando  Novello ancor, con Taso forza acquisti;  Stabil verrà, se lo saprai ' nutrire.   Ebbe vitel le tue carezze il toro,   Che or è de'tuoi timori oggetto, e Talbore,  Sotto cui posi , un di fu tenue ^etga.  Nasce povero d'acque il fittnré , e forza  Acquista nel suo corso, e dà Ogni parte  Gli vien tributo di novello umore.  S’accostumi con te, che nulla puote  Più di tal cosuetudiue giovarti.   Mentre l’adeschi, a te grave* non sia  Di soffrire ogni tedio • Abbia te sempre  Dinanzi al guardò ; ognor tuoi détti ascólti;  La notte e il di le pinga il volto tuo*   Ma quando poi sicura avrai fiducia  Di poter esser ricercato, allora   Scacciassero Sa quelle, gli spettri. Epicuro deve soffrire  i rimproveri degli Stoici, e VOratore Eschino quei di  Demostene , perchè avevano le lor madri Ulk   simile impiego che riputavasi vile*    Digitized by Google    7 ^    Vanne pur lungi, che la cura sua  Sarai benché lontan . Prendi riposo;   Ciò che s’afBda al campo riposato  Bende ei ben generoso e l’arsa terra  Bey e l’acqua del ciel. Finché pxesente (a 3 )  Fa a Filli Demofonte, il di lei seno  Senti mediocre amor , ma in vasto incendio  Arse allor che le vele ci diede^’ venti.  Mentre vivea lontan l’astuto UÌìsse (a 4 )  Penelope soffriva cura mordaeCr  Tu ti dolesti pur, Laodamla, (aS)   Lontan Protesilao. Brieve tardanza  £ mai sempre sicara. Allevia il tempo  11 dolor dell’assenza ^ e dal pensiero   > e dà loco a nuovo amor 1’ assente*  Mentre tu , Menelao, stavi lontano (26),   (a 3 ) Fillidt, figlia di lÀcurgo He di 'Tracia , rice*  Vè cortesemente nella Reggia e nel letto il naufrago  Demofoonte figlw di Teseo. Quandi egli partì per %  Città d* Atene ., colera chiamato dalla cupidigia di  regnare , le diede parola di ritornarsene a lei dentro  un mese . Aspettò Fillide lungo tempo il suo caro  sposo, e poi afflitta e disperata per la tardanza di  lui , si tolse da se stessa crudelmente la vita.   È noto il verace affetto che aoea Penelope pet  Ulisse suo spesole però si può facilmente compren¬  dere quanto fosse vivo il suo dolore per la lunga di¬  mora che fece fi medesimo alV assedio di Troja.   ^uS^ Laodamia amo sì ardentemente Protesilao detto  in latino Phyllacides daFilaco.4uo avo, che fu sem¬  pre occupata dal più vivo dolore mentre era esso al-  V assedio di Troja , e fece far del medesimo dopo la  sua morte , una statua di cera , che ogni notte pone-  vasi nel letto quando vi andava a dormire.   Menelao trovavasi in Vreta , ove .l* aveano ri¬  chiamato i suoi affari , quando Paride di lui confi-  mcpte gli rapì la bellissima E.lena pia consorte.    Digitized by Google    7 ^   Sulle piume giacer sole non volle  Siena, e nella notte al caldo seno  l)eir ospite fu striata. E chi mai puote  Di ciò nutriremo Menelao, stupore?   Solo partivi, e nel medesmo tetto  Era la moglie e T ospite. In custodia  T,ii folle le colombe al. falco fidi,   Ed al montano lupo il pieno ovile?   Siena non ha colpa, e non commise  L’adultero delitto ; ei fece quello  Che tu faresti, e che farebbe ognuno.   Ad esserti iiifedel la donna sfórzi^.j   Se il tempo e il loco a lei concedi. Quale   Oonsiglio ella usò mai se non il tuo?   Che dovea far ? Il suo marito è lungi,   Ed un amabil ospite presente,   E giacer sola teme in vacuo letto.   Ciò a Menelao era noto. Io dal delitto  Siena assolvo ; usar volle di quella  Libertà, che il marito a lei concesse  Cortese c umano. Non così feroce  Flavo cinghiai si mostra in mezzo all’ira  Contro i rabidi cani, allorché il dente  Fulmineo rota , nè così lionessa  Che a’cari figli suoi porga le mamme,   Nè da piè ignaro vipera calcata ;   Coni’ àrde e mostra 1 ’ agitata mente  Donna che la rivai trovi nel letto  Del suo consorte : e corre , e dà di piglio  Al ferrò e al foco, e ogni decor deposto,  Rassembrà una Baccante. La spietata (27)  Medea nel sangue vendicò de’figlj  ^-   fay) Vedaii V annotaz. 89 del Lib, /.    Digitized by Google      73    Del marito il misfatto ^ ed i violati  Dritti di sposa. Àltr^empia genitrice, (28)  Mirala in rondinella trasformata.   Or di sangue macchiato il petto porta.  Tali delitti sciolgono V amore  Meglio composto e più costante ; e cauto  Gli dee r uomo fuggir, gli dee temere.   Nè ad una sola donna io ti condanno;  Portin migliore augurio i sommi Dei !   Così rigida legge appena puote  Seguir sposa novella. Abbiano pure  Loco gli scherzi, ma celar ti piaccia  Sotto furto modesto il fallo tuo.   Da cui già non voler cercar la gloria.  Altra non mai conosca i doni tuoi;   Nè prefigger tu dei 1 * ora medesma  Agli amori furtivi, e in un sol loco  Condur le belle, onde non le sorprenda  La donna tua ne’ noti nascohdiglj ;   E quante volte scrìvi , i fogli osserva;  Che molte leggeran più assai di quello  Che tu loro scrivesti. Amante offesa  Move bene a ragion Tarmi, e sovente  Come a lei desti, a te di duol dà causa.  Mentre il figlio d'Atréo fu d’ una sola (29)  Ov. Arte d^am. d    (a 3 ) Progne figlia di Pandìone, e moglie di Teseo ^  fu dagli Dei cangiata in Rondine, perchè vendicane  dosi deW ingiuria recata da Teseo a Filomena di lei  sorella , uccise Iti suo figlio ^e lo apprestò al Padre  barbaramente per cibo,   (39) Agamennone rapì Criseide figlia di Crise  cerdote d*Apollo , il quale in abiti sacerdotali si portò  inutilmente dal medesimo per ricuperarla j tolse Bri*  seide ai Achille ; e condusse poi in Grecia Cassandra    Digitized by Google     74   Contentò e pago, quella visse casta.   Ma per i vìej del marito poi  Divenne infame. Inteso avèa che Crise,  Le fasce in capo e il lauro in man portando,  Ottener non potè 1* amata figlia.   Inteso avea il tuo ratto, il tuo rossore,   O Briseide, e per quai turpi dimore  Fosse la guerra prolungata. Queste  Cose la fama a lei narrava. Vide  Con gli occhi prhprj poi la figlia stessa  Di Priamo : vincitor fosti ad un tempo  E preda, o Agamennon , della tua preda.  Nel cor , nel letto ricevè ella poscia  Il figlio di Tieste, e vendicossi  Così de’falli del marito infido.   Gli amori tuoi tener cerca nascosti.   Ma se fian noti e manifesti, sempre  Però li nega , nè ti mostra allora  Nè più sommesso o più giocondo : reo  Ti fa ria ciò scoprir. Novelle prove  Le dà deir amor tuo. Queste il sostegno  Son della pace. La tua prima amante  Fa che di ciò non abbia unqua contezza.  Havvi chi la nociva erba consiglia  Santoreggia di prender; ma ciò stimò  Atro veleno. Mischian altri il pepe  Nel seme dell’ortica , e nell’ annoso  Vino tritano il callido pilatro. ,   figlia di Priamo , la qual fu a luì concassa nella di*  Vision della preda. Clitennestra sua moglie, e figlia  di Tindaro non potè reggere a tanta infedeltà , e /?«-  rò accolse nel letto Egisto figlio^ di Tieste , da cui '  { Annotaz. 88 del I*) uccidere il suo   marito.    Digitized by Google      7S   La Dea che sul ombroso Érice monte ( 3 o)  Ave il suo tempio, no , soffrir non puote  Che siau forzati i suoi piacer. Si prenda  Pure il candido Bulbo che a noi manda  La Città di Megara, e la salace  Erba che cresce ne’giardini. L’ova,   L’imetto mel, del pin le acute noci  Si prendan pur. Perchè alla medie’ arte,  Erato , or tu ti volgi f II cocchio nostro  Debbe più da vicin toccar la meta.   Tu che celavi per consiglio mio  Poc* anzi i tuoi delitti , or altra strada  Batti, e per mio consiglio i furti scopri.  Nè di volubil già merto la taccia:   Non col medesmo vento i passeggieri  Porta la curva nave ; ora si corre  Col tracioBorea, ed or con Euro, e spesso( 31 )  Dal Zeffiro si fan goiihe le vele,   Talor da Noto. Osserva come in cocchio  L’auriga ora le brìglie allenta , ed ora  Frena con l’arte i rapidi cavalli.  Compiacenza servii le rende ingrate,   E amor senza rivale illanguidisce.   Se la fortuna sia propizia, Talme  Divengono lascive , e faci! cosa    ( 3 o) Venere aveva un magnifico Tempio in Sicilia  sul monte Erice , donde fu detta firicina. ,   Sotto il nome di Bulbo iniendonsi tutte^ le radici  rotonde come agl) e cipolle , che i Romani facevan  venire dalla Città di Megara fabbricata da Alcatoo  figlio di Pelope.   {jòi) Il vento Borea f spirando a Settentrione , vien  qià dette treicio perchè la Tracia è più settentrional  della Grecia y e dell* Italia, Euro spira da Levante  [ Zeffiro da ponente, e Noto da Mezzogiorno,    Non è serbare in mezzo allieti eventi  IL cor tranquillo. Come lieve foco,   Che perduto abbia a gradi il suo vigore,  Ascpndesi , e nell’ ultime faville  La cenere biancheggiale se v’unisci  Zolfo , Testinta fiamma manifesta,   E a splender torna il consueto lume;   Così ove pigra e torpida si giaccia  L’alma, destar cop forti e lusinghieri  Stimoli è d’uopo in essa allor Tamore.   Fa che di te paventi : ognor riscalda  L’intiepidito core, e impallidisca  Al, solo udir che tu infedel le sia.   Oh quattro volte e quante io non so dire  Felice quei, di cui si lagna offesa  La sua fanciulla, e che giugnendo annunzio  D’un tal delitto alle sue triste orecchie  Cade, e il color le manca e la favellai  Ah foss’io quello, a cui furente straccia  Il crine ! ah foss’ io quello a cui con l’unghie  Sgraffia le gote, che or piangente mira  Or con bieco ciglio, e senza cui  Vorria , ma non può vivere ! Se chièdi  Il tempo , onde di te la lasci offesa  Lagnarsi, io ti dirò : sia questo breve.  Perchè lo sdegno suo forza maggiore  Con dimora soverchia non acquisti.   Con le tue braccia il bianco collo cingi^  E piangente nel tuo seno l’accogli;  Asciuga co* tuoi baci il . pianto suo,   E i piaceri di Venere concedi  A lei che piange. Già la pace è fatta;  Con questo mezzo sol cessa lo sdegne.   Se feroce divenga, e a te rassembri    Digitized by Google     77    Veramente nemica » allor le chiedi  Un dolce amplesso , e la vedrai placata.   Ivi déposte Varmi è la concordia^   £d in qael loco » a me lo credi , nacque  La tenera amistade. Le colombe.   Che già fecero guerra , i rostri insieme  Dolcemente congiungono ; di quelle  11 mormorio son voci, e son carezze.   Fu il mondo in prima una confusa mole;  Non ordine regnò, non vi fu legge ;   £ stelle e terra e mar solo una faccia  Mostravan ; sulla terra il ciel fu posto  E fu dal mar la terra circondata,   £ diviso cessò l’inane caos.   Presero ad abitar le fiere allora  Entro le selve ; a star gli augelli la aria;  £ s’ascosero i pesci entro dell* onde.  L’uomo errò allor ne^aoUtarj campi.   Ma rozao 9 inerte corpo, e senza genio*   T'u il bosco la sua casa ; il cibo l* erba;  Lie frondi il letto ; e già per lungo tempo  Visser fra loro sconosciuti. Dicesi,   Che le feroci loro alme piegasse  La dolce voluttà. Lo steiso loco  Abitarono insiem Tuoibo e la donna;   Non da maestro furon fatti dotti  Di ciò che dovean far ; Venere loia  La dolce opra compì senz’arte alcuna.  Trova da amar Paugel dolce compagna,   E in mezzo all’acqae pur con chi s’accoppj  Non manca al pesce. Il maschio ainato segue  La cerva, ed il serpente a’dolci inviti.  Della femmina cede. Insiem congiunta  La cagna al can s’annoda. Il suo montone    Digitized by Google     78   Soffre lieta Tagnella; la giovenca  Gialiva è col torello, e la stizzosa  Capra 1* immondo becco non disdegna.  Parenti le cavalle i maschj segnono  Per lungo spazio , e varcan fino i fiumi  Che li tengon divisi. A che più tardi ?  T’affretta dunque , e alla sdegnata porgi  Il bramato sollievo ; questo calma  L’ atroce suo dolore, e questo vince  I succhi d* Esculapio • Il fallo tuo  Dei con ciò cancellar , tornarle in grazia.  Mentr’ io cantava queste cose, Apollo  apparve » e mosse dell’ aurata lira  Col pollice le corde • In man tenea  L’ alloro, di cui cinta avea la chioma;  ^Queir ammirando vate allor mi disse:   O de’ lascivi amor maestro , guida   1 tuoi scolari alfine al tempio mio; (3a)  Ivi sta incisa la famosa legge,   Che conoscer se stesso a ognuno impone.  Amar solo potrà prudentemente  Quegli che se medesmo appien conosce,   E alle sne forze sa adattar Tìmprese.  Procuri che la Bella ognor Io guardi  Quel cui Natura diè leggiadra faccia.   Si mostri spesso con le spalle ìgnude  Chi candide ha le membra ; parli pure  Quei che lo fa soavemente, e canti,   E beva quel che a bevere e a cantare  Con arte apprese, ma non mai interrompa      (3a) Alludtd al Tempia consacrato in Delfo ad  Apollo ove era scritta a caratteri à* oro qaest^ aurea  legge: nosco te ipiam.    Digitized by Google     . ^9   L’altrui discorw P eloquente, e in mezzo    Al ragionar non reciti importuno  I suoi carmi il Poeta . In questa guisa  Febo i^egnomnii, e. voi di Febo adesso  Seguit^e i precetti. Ah no ! non ponno  Mancar di fe gli oracoli d’ Apollo.   Or son chiamato a più'vicini oggetti.   Chi sagace amerà ; chi la nostr’ arte  In uso saprà porre f avrà vittoria.   Non sempre i campì rendon con usura  Le biade seminate, e a dubbia n^ve ,   Non sempre fausto è il vento. Ah! sono brevi   I piaceri d’ amor , lunghe le pene.   Onde Amante a soffrire il cor disponga:  Quante in Ato son lepri , e quante in Ibla  Pascolan api, quante olive accoglie   II verd' arbor di Palla, • quante il lido  Del mat conchiglie ; tanti son gli affanni  Che soffrenti in amor , tanti gli strali  Jlal felo intrisi che ci passan V alma.   A te diran che usci fuora di casa  Quando con gli occhi tuoi forse la vedi.  Ma creder dei che uscì, che vedi il faUo.  Mella notte promessa a te la porta  Forse chiusa sarà ; soffri, e le membra  Riposa e adagia sull’immonda terra.  Mendace ancella forse in tuon superbo  Dirà; perchè le nostre porte assedjf  Cortese e supplichevole stropiccia  Il limitar della crudel Fanciulla, ^   E al capo tolte ivi le rose appendi.  Quando vorrà, t'appressa, e quando il vieta  Tu vanne lungi. Uomo non dee sincero  Di sua presenza far soffrir la noja.    Digitized by Google     8o   Non sempre con ragion ti potrà Jirer  A me fuggir costui non è permesso*   Non creder turpe di soffrir ingiurie,   Nè d* esser dalla tua Bella battuto,   Nè sul tenero piè d’imprimer baci.   Ma a che mi fermo nelle tenui cosef  Or subietto maggior m’agita l’alma.   Io canterò prodigj ; il volgo attonito  Ascolti i detti miei, mi sia propizio.   A difficile impresa ora m’accingo.   Che nel difficil sol glòria si merca.   Dall’arte una si chiede ardua fatica.   Soffri il rivai pazientemente ; teco  Starà vittoria , e n’otterrai trionfo.   Non già un mortai, male pelasghe querce(33)  Ti dieron tai precetti . Ah i iio, non puote  Dir r artè mia di ciò cosa maggiore.   Farà un cenno amoroso al tuo rivale,   E tu lo soffri ; sctiverà , e t’ astieni  Dal toccar le sue carte ; e venga e tomi  Senza le tue doglianze ove le piace*   Con legittima moglie usi il marito  Quest’indulgenza pure, alior che notte  Le tenebre distende, e il sonno regna.  Non io, Io debbo confessar, non sono  In quest’arte perfetto. E che far deggiof  Io de’ precetti miei minor mi trovo.   Io soffrirò che, me presente, un segno  Si faccia alla mia Bella, e il freno all’ira  Io potrò por ? Ah mi ricordo ancora   ^3) Fabbricarono i Pelasgi un Tempio dedicalo  a Giovò , in vicinanza del quale era situato un bosco  di querce , da cui davano le colomba risposta umana*    Digitized by Google      Bi   Che il suo marito nn di le diede un bacio,  Ed io del bacio a lei feci querela;   Abbonda il nostro amor di crudeltade.   Non una volta sol mi fu nocivo  Un vizio tal ; piti dotto invero è quello  Per cui, lieto il marito, in casa ingresso  Hanno altri amanti. Ma saria più grato  L’esser di questo ignari. Ah lascia dunque  D’amore i furti ascosi , onde non fugga  Dal vinto labro, confessando i fallì,   Lungi il pudor. Deh risparmiate, o amanti.  Di sorprender colpevoli le amate.   Schetzino pur , ma almeno a se medesme  Perauadan che il fer’ solo in parole.  Sorprese, in esse pel rivai maggiore  Si fa r affetto ; e dove egual la sorte  Fa di due, 1* uno e Paltro son costanti  La causa in sostener del danno loro.  Favola iu tutto il elei nota si narra:  Venere e Marte dagP inganni presi  Pur di Vulcan. Ferito il petto avea  Marte per Vener da un apaore insano,   E divenuto di guerriero amante.   Nè rustica o difficile mostroàsi   (Non v’è di questa Diva altra jpiù molle)   Venere al suppliéhevole Gradivo (34).   Oh quante voltè la lasciva risé ^   da    (34) Marte si Marna Gradivo da apa/vav, ehe si^  grufiea in greco linguaggio vtbraziorfe d'AVta. Aven^  do Giooo preeijntaio Vulcano in Lenno 'per 1 la defar-^  mità del suo corpo, si tuppè questo misero Diojin  tal caduta una gamba ^ e così divenendo zoppo ^ di^  canne ancorst mSgiortncnU deforme.    Digitized by Google     Sa ^   Di Valcano pei piedi e per le mani  Nere e incallite pel lavoro e il foco.  Contraffaceva pur di Marte in faccia  Sempre piena dì grazie il suo marito^   Ma solean ben celare i primi amplessi,   E coprian col pudore il fallo loro;   Ma il Sol che tutto vede ( e chi ingannare  11 Sol può maif ) fece a Vulcan palesi  L’ opre della Consorte • Ah quai ne porgi  Funesti e perigliosi, o Sole, esetuplit  Perchè del tuo tacere a lei non chiedi  Un dono , eh* avrebb* ella il tuo silenzio  Potuto compensare in mille modi.   Vulcan sopra e d’intorno adatta al letto  Un* invisìbil rete , e finge a Lenno  Di far viaggio : a’ noti abbracciamenti  Tornan gli amanti, e nudi entrambe sono  Ne^ lacci avvinti. Quegli i sonimi Dei  Convoca, e fanno L prìgiohier di loro  Vago spettacol. Potè appena il pianto  Venere allora trattener sul ciglio;   Non alla loro nudità potere   Oppor la mano, e non coprir la faccia*   Uno de’ numi allor ridendo disse :   O fortissimo Marte, in me que’ lacci  Deh trasferisci pur^ se ti son gravi.  Nettuno , appena per le tue preghiere  Ebbero i prigionier le membra sciolte.  Chela Dea in Pafo, e Marte andonne in tracia.  £cco,o Vulcano, il tuo profitto: in prima  Celavano il Ipr fallo ; or senza freno  Lo commetton, fuggito ogni pudore.  Sovente, o stolto , confessar dovrai  Che tu dj^rasd da pazzo, e già ( la fama    Digitized by Google     83    Karra.) dell’ira tua ti aei pentito*   Quest’ io vietai. La 6glìa dionea (35)   Or vieta a voi di tender quelP insidie  Ch’ ella stessa soffrì. Nè voi cercate  Por ne’ lacci il rivai, nò legger quello  Che vergato ha^la bella in cifre arcane.  Faccian questo (se lor piace) i mariti  Che legittimi rese e T onda e il foco. (36)  Io'di nuovo, raffermo: in queste carte  Nulla vietato dalle leggi chiudo»   Nè a pudica Matrona i nostri scherzi  Recano ingiuria. Chi a’profani i riti  Osò di Cerere svelare, e i sacri ( 87 )   Misteri nati nella tracia Sanio f  Non nel' silenzio per coprir gli arcani  Gran; virtude abbisogna è colpa grave  Però dir'qnfello che (tacer si dehbe^ t  Ben a. ragion da Tantalo «loquace (38)  Venere , sepondo alcuni , eifbe in madre Dio^  ne 9 e però si chiama la Figlia dionea.   (36) Solevano i Romani nelle nozze solenni offerii   re alla Sposa V acqua ed il foco \ 'perchè pensavano  che si genesUts^ il tutto dall* umore -e dal icàhre ^ ed  anzi lavatiri^ Inacqua f stessa i piei^ Sposa  ed alla Sposo^ ' , I   (87) I Sagrifiz) di Cerere t)ea delle biade, ehe  furono , secondò Dtodoro , ' inventati Heltà' Samotrd»  eia , si celelfravanà dagli aw^ìd con tal \ segretezza g  che acqmdurono il nome di mister   (38) Tqntalo , figlio della Ninfa Piote , palesò agli  uomini le' supreme, determinazioni, che si manìfesta^^  reno scambievolmente gli Dei in un Convito, cui  fu ammesso e^i*pare.da^Giolve.,peTiitaleiempH-^  tà joacpiatO riell^ infermo , iOfl^ à cofitidftaeqMate ,cfudar^  io da una barbara fape, e^   chè è ,eireondatò dàìVacqua e da diversi ' phmi, ékà  fuggono àgnor shp'suòl Idìlli i^qmndo *viol*pré*a'^  arsene*    Digitized by Google     64 .   Fuggono i pomi; o all*assetato labfo  L'acqua mai sempre. Citerea comanda  In special modo di tener celate  Le sacre cerimonie. Io v’ammonisco  Che alcun garrulo'a quelle non s’accosti*  Se sepolti non restano fra’cesti  I mister] di Venere, se i bronzi  Per furiose percosse non risuonano,   Usi abbiam noi pih moderati, e in mòdo*  Che si voglion però tenére ascosi. /  Quando le vesti Venere depone,   La nudità con la sinistra copre.   Nella pubblica via spesso 1 * ugnella.   Si unisce al suo compagno, e la fanciulla^  Da tal oggetto altrove il guardo volgew  Atto è il talamo chiuso a’furti nostri  E a non mirar ciò che la veste > ascóndo* i  Non le tenebre noi, ma nube opacUi ì;  Cerchiamo, e i luoghi ove 1’ aperta luce -  Minor risplenda. Fin d’allor ché il tetto  Non difendea dal Sol, non dalla pioggia,  £ dava il cibo e in un la quercia albergò.  Gli uomini non gustar’ palesemente.   I piaceri di' Venfet ma negli antri ^ ' •   f i ne^bosqhi; cosi dell’onestade *   i preudea cura quella ro^sza gente** \  Ora gli atti si celebraa notturni, ,   £ nulla più si compra a caro prezzo  Che di poter’ parlar: or le donzellò  Ovniique cercherai solo onde dica , ' , /   Qiinsla ancora fo. nostra, ed onde .posniA ^  Mòsttktla ò' dito , e &r ohe sia deb vol^ , '  Dc^^b li pòssèsso^tuòVfev;òIa ^   r.«r. poco «iwiihe ^ini «dolSP* aU>Ì ,   Òose che nègherebbono accadute*   £ di favori vantatisi non veri ;   E se invàn di toccar, cercare il corpo.  Cercano àlmen d’offenderne P onore,   Che le accusi la fama ancor che caste.  Chiudi, o custode rigido , le porte ;   Guarda la tua fanciulla, e cento spranghe  A’durissimi stipiti ora opponi.   Cosa havvi di sicuro in faccia a questi  Adulteri di nome, che creduti  Esser desian ciò che tentare invano ?  Parchi in parlar noi siam de’veri ainori^  E fedelmente ognor tenghìam celati  Col velo deP mistero 1 furti nostri.   Deh non voler rimproverar giammai  Di nati^ra i difetti alle donzelle.   Che fù dissinìularli utile à molti. ^   Perseo che al piè portò le gemìn’ ali (3g) ,  Tlon del color d* Andromedà lagnossi.  Comparve a tutti Andromaca maggiore  D’ uim giusta statura , ed Ettor solo   (3g) iXèrcurió adatfò *U idi Ud ambedue i piedi di  J^érseo^ iluo amiiéo y e fi^ió di Danae e di Giope,  de qu§$iix AndrovaeduslegaiOKyad uno scoglio per  ra'deillcNeTcìdi,^e,\c]^pe, che dovea^esser dioorata da  Ceto mastro marin^, ,perchè Cassìope, madre della  medesima ebèè la vanagloria di dire ^ che la sua fi-*  glia vinceva > ir^ bellezza le stesse Nereidi, Mosso  Perseo a pietà, della' sventurata donzella , uccise il  mostro col jmrgli. davanti agli cicchi la testa di Me^  dusa f è dopo d^aveHa in tal guisa saLveta da un  tanto pericolo y V ottenne in isposa , he mai le riìf  fàpciÒ[ suo fosco colori, essendo ella nata in Etiopia,   " Andromaca è figlia di Elione . Re di Tebe e mo*  glià di Ettore j il qual chiamava medìo^e la sua  statura quantunque fosse veramente sproporziqnatq.    Digitized by Google     86   Mediocre la dicea. Quel che or ti lembra  Darò a soffrir, deh soffri; e verrà uà giorno  Che lieve impresa ti sarà il soffrire^  Mentre ogni pena raddolcisce il tempo.  Nuoyo arboscel che in verde scorza cresce^  Cade, se vento placido lo scote ;   Ma indorato dal tempo arbor diviene.  Resiste a* fieri Noti ^ e alfin s’ adorna ,  Degl* innestati fratti. Un giorno spio  Paò la bruttezza cancellar del corpo,^ ,   £ sempre il tempo fa sembrar minore  Ogni difetto. L* inesperte nari  Mal da principio pon soffrir 1* odore  Della pelle del toro, ma dalTuso  Dome non più risentono mólestia. ^   I vizj ricoprir con dolci nomi  Fa di mestier : bruna chiamar si debbo  Quella che piùehe pece ha negro il sangue»  Se ha gli occhi loschi, a Vener l!as 8 omiglia^^  E se bianchi, a Minerva. Sia 9 Ì scarna ( 40 ) ,  Che appena in piedi sostener si possa.  Gracile la dirai. Nana rassembri,   E tu svelta la chiama, e piena quellf .,.  Che è turgida oltremodo g, e asconder tenta.  Col bene non lontano il vizio ognora.   Gli anni mai non cercar , nè sotto quale \  Consol sia nata : al rigido Censore .   Tai cure lascierai. Maggior riguardo .   Usa per quelle che passate il fiore  Hanno di giovinezze » e i più bei giorni,   (4.0) Non si sa paacepire corno Ooidio chiami loschi  gli occhi di Venere , quando essa fu lodata da Pari^  de. Dubitano alcuni pertanto y che nelF originale la^,   ' ripe si 4tiba leggere leu invece di peU»    Digitized by Google     E cui incomincia a incanutir la chioma*  .Utile è questa o più matura etade,   0 giovani ; e aarà ferace in biade  Questo campo » ed arar però si debbe.  Mentre gli anni il permettono e le forze,  Soffrire la fatica. Ah già la curva  Vecchiezza con piè tacito s’accosta!   O il mar co’ remi solchisi, o la terra  Col vomere, o s^impugnin Tarmi fiere,   O si usi il fianco, T opra , e la forza  Con le fanciulle^è questa una milizia,   E con ciò pur s’ accumulan ricchezze.   S’ artoge a ciò che la prudenza in loro  Maggior sempre delT opere risiede,   E l’esperienza sol può far maestro.   San compensare dell’ etade i danni  Con la mondezza, e in opra e studio ed arto  Pongon per ricoprir la tarda etade.   Come più brami accarezzarti sanno  In mille guise ; in più diversi modi  Pittor non puote colorir le tele.   Non irritata voluttà per loro   Si gode , e danno e gustano il piacere;   10 se non è scambievole Tho in odio,   E però fuggo de’garzon P amore.   Odio il furor di quella che il concede.  Perchè a darlo è forzata, e pensa solo  All’ ntil proprio. A me non è gradito   11 piacer che mi dan sol per dovere;   Da questo io violentier le donne assolvo.  Godo ascoltar le voci che il diletto  Mi palesin di loro, e di frenarmi  Mi preghino ora, ed or perchè mi affretti.  Godo di rimirai languidi gU dicchi .    Digitized by Google     8 $   Della mìa bella , che mi dica : è assai.  Questi favor natura non concede  Air inesperta gìoventCì ; si godono  Quando il settimo lustro ornai si compie.  Chi soffre sete, il nuovo mosto beva;   Di vecchio vin ricolmo a me s’ appresti  Vaso che sotto i Consoli vetusti  Sia fabbricato. Al sol resiste vecchio  Il platano, ed offesi i nudi piedi  Sono da’nuovi prati; e chi potria  Ad Elena preporre Ermione? Altea (Era forse miglior della sua madre ?   Se tu t’ accosti a una noi^, giovin bella,   £ sii costante, avrai degna mercede.   Già riceve i dae.amanti il conscio lètto;  Fuof delle chiuse porte ora rimanti,   O Musa ; senaa te sapran ben essi  Trovar di che occuparsi, chè lor porge  Amore i mezzi. Il valoroso Ettorre (4a)   Di cui fu il brando a Troja util cotanto,  Giacque pur con Andromaca, ed Achille  Con la lirnessia giovine rapita,   Allorché dal nemico affaticato  Prese ristoro sulle molli piume.   Da quelle man di frigio sangue tinte  Ricevevi , o‘Brhcide , le carezze,   E perciò forse à te più assai gradito  Fu alla vittfice destra unir tue meuibra.    (4 A Ermione è figlia della famosa Elena moglie  di Menelao,   (4a) Achille # aseedìafa la Città di Lirnesso , uc¬  cise barbaramente Minete marito della bella Briseide^  che si prese egli stesso in isposa, e che dal noma  4 M(k iiMk Pàtria soprannominata iÀtuwia*    Di Venéfe i piaceri » a me lo credi ,   Non SI deniio affrettar; ma a lunghi torsi  Berli. La donnà , se vedrai diletto  Che abbia d’èsser toccata , a te non freni  Pudore allora inopportuno. Gli occhi  Suoi scintillar d*'un tremulo splendore  Mirerai , come dalle liquìd’ onde ^  Riflette il Sole i suoi splendidi raggia. ^  Udrai nn lamento e uh dolce mormorio^  Gemiti grati , ed amòtose note.   Quando thtte le Vele avrai spiegate,   Tu abbandonar non dei la tua diletta.   Nè preceder ti debbe ella nel corso.  Correte insieme alla prescritta meta.   Che il piacer vostro diverrà perfetto.   Se giacerete a un tempo stesso vinti.  Queste leggi seguir dovete quando  A voi concessi siano 02 ] tranquilli,   Nè ad iin furtivo oprar timor v* astringa.  Quando Tindugio è mal sicuro, allora  Tutti forzar si denno i remi, e il fianco  Premere del cavai d’acuto sprone.   L’opra è condotta al fin. Giovani grati,  A me la palma concedete , e il crine  Odoroso cìngetemi di mirto.   Non presso i Greci Podalirio tanto  Fu per la medie’ arte in pregio , Achille  Per il valore, e Nestor per pi'udenza;  Non fu Calcante così esperto e grande  Nel conoscer le viscere, nè Ajaco  Nel maneggio dell’armi , e Automedonte  Nel condur cocchj ; compio sono espCito  E grande nell’amor. Me celebrate,  Uomini tutti ; a me si dian le lodi;    Nel mondo intero il nome mio ti canti.  L* armi io vi porsi come già Vulcano  Le diede a Achille. Or con tal doni voi  Vincete pur, com’egli vinse un giorno;  Ma chi col brando mio potò le fiere  Amazzoni atterrar, sopra le vinte  Spoglie scriva: Nason ci fa Maestro.  Le tenere fanciulle a m^ le preci  Ecco che porgono, onde lor cortese  Sia de’ precetti miei. Ah t sì, sarete  Cura primiera de* futuri carmi.     DELL’ARTE AMATORIA  DI   P. OVIDIO nasone   SULMONESE  porsi contro lo guerriere donne   A’ Greci 1’ armi ; or dare a te le deggìo^  Pentesilea, e alle Amazzoni seguaci.(i)   Ite alla guerra uguali, e vincan quelle  Cui son propizi Venere e il Fanciullo,  Che in tutto il mondo ha di volar diletto.  Giusto non era il combatter nude  Contro gli armati ; e vincerle per voi.  Uomini , turpe mi sembrava. Alcuno  Dirà fra molti : perchè aggiunger cerchi   11 veleno alle serpi ? e perchè in preda  Lasci alle lupe rabide 1’ ovile?   Di poche il fallo non vogliate in tutte  Diffonder ; pe’ suoi merti ogni Donzella  Considerar si dee . Se Menelao  Ha di dolersi d’ Elena cagione^ (a)   (i) Pentesilea Regina delle Amazzoni andò contro  i Greci in soccorso d^ Trojani ,e fu dopo varie glo^  riose azioni uccisa da Achille. Sotto il nome di Greci  P intendono però- dal Poeta quegli uomini , che ^  cingono a conquistare le donne qui figurate sotto il  nome di Amazzoni.   (n) Vedasi V Annotaz, 5 q del Lib. I. e l*Annotaz,  ueuSdelldb.If.   Ved. Vannot. 38 del Lib. /. eVannot. ao del Lib. II.    Digitized by Google     9 ^   £ se di Clitennestra i rei costami  SoQ gravi ad Agamennon ; se d’Ecleo (3)   Il figlio scese co* cavalli vivi.   Dalla spietata Enfile^ tradito,   Vivo egli stesso a Stige^havvi pur anco  Penelope che pia serbossi e fida (4)   Al suo marito, benché senza lei  Due lustri errasse , e per due lustri ancora  Passasse i giorni suoi sempre alla guerra.  Protesilao rimira e la consorte, (5)   Che , come narran , pria degli anni suoi  Vide Testremo fatele scese a Dite  Ombra indivisa del marito . Mira  La Sposa pegasea dall*empia sorte (6)   (S) Anfiarao figlio di EcUo ed eccellente indovino  ^ ascose in un luogo segreto per non esser costretto  a portarsi alla guerra di Tebe, in cui sapeva di do-*  ver certamente morire* Eri file sua moglie allettata da  un aureo monile promessole, da Polinice, insegnò a  questo ov'egli sfava, celato* 4 n 4 à pertanto Anfiarao  forzatamente alla guerra^ ma appena giunse in Te¬  be , gli si spalancò sotto i piedi la terra , e rimase  in quella sepolto.   (4) Penelope è V esempio deWamor con fugale* Si  conservò essa sempre fedele al suo sposo Ulisse , ben*  che vivesse egli lontano da lei per lunghissimo spa*  zio di tempo , e benché fosse ella continuamente as¬  sediata da mille fervidi amanti.   (5) Protesilao andò aneW egli all*assedio di Troja,  e fu il primo tra* Greci , che vi perdesse la vitapoi*  che Ettore lo ferì mortalmente , nientre scendeva dal*  la sua nave. Desolata Laodàmia sua moglie da una  tale sventura , ottenne con le sue lagrime da* Numi  di poter veder V ombra del suo amato consorte , e  neWabbracciarla morì*   (6) Soffriva Admeto una malattia coà grave , che  secondo la risposta dell* oracolo ^ era necessario per  salvargli la vita^ che un uomo o una donmft^ morisse    Digitized by Google     9 ^   Admeto liberare , onde famoso  Rese il suo nome . Evadne a Capaneo ( 7 )  Disse : m* accogli ; il cener nostro insieme  Si confonda ; e slanciossi in mezzo al rogo;  È la Virtude d’abito e di nome ( 8 )   Femina, nè stupore è, se propizia  Si mostra e favorisce al sesso suo.   La nostr’arte però queste non chiede  Alme sublimi 9 e con minori vele  Naviga il legno mio • Per me soltanto  S’imparano a trattar amor lascivi.   Io insegnerò in qual modo amar si debba  La donna, che non face ed arco scote  Sempre crudeli ; agli uomini quest’armi  Nuoccìon più parcamente 9 io ben lo vedo:  Gli uomini più spesso ingannano di quello^  Che ingannin noi le tenere fanciulle;   E poche troverai , se cerchi , xee  Di perfido delitto. Il traditore (9)   Giason Medea lasciò già madre 9 e in braccio  Gittossi ad altra sposa. Oh quante volte  Per te 9 Teseo 9 Arianna abbandonata (io)    per lui4 Alceste sua moglie^ che dicesi sposa pagasea  dalla città di Pagasa in Tessaglia , volle essa stessa  liberar gen^osamente il caro suo spoeo, ed incontrò  con intrepidezza la morte. Quando Eoadne intese che era stato ucciso a/«  la guerra di Tebe il caro suo sposo Capaneo ^ conce»  pi nell*animo un dolor sì fiero ^ che corse valorosor  mente a morire sul rogo dell* estinto consorte.   (8) Adoravano i Romani la Dea Virtù vestita in  abiti femminili.   ^9) Annotaz. 89 del Lih. /•   (io) Arianna fu da Teseo abbandamata {Annoi.  So. del lÀb» I. ) nell*isola di Nasso j e però avrà te»  muto gli Augelli marini provenienti da quella pcffte di  mare, in cui viaggiava il suo perfido amante^    Digitized by Google     94   la solitaria t sconosciuta riva  Temè gli auge! marini ! E perchè Filli (ii)  Calcò per nove volte il sentier stesso.  Cerca, e perchè, la chioma lor deposta,  Piansero Filli le dolenti selve.   L’Ospite, che concetto ha di pietoso.  Porse la cauta e il ferro alla tua morte, ( 12 )  Misera Elisa. E che I narrar vi deggio  Delle vostre sventure io la sorgente?   Voi non sapeste amar ; mancò in voi l’arte,  Mentre con l’arte solo amor si eterna.  Sariano ignare ancor, ma Cìterea  Vuol che per versi miei sien fatte dotte.  Mentr’ella stessa innanzi al mio cospetto  Si fermò, e disse: di qual fallo mai  Si fecer ree le misere fanciulle.   Che inermi si abbandonano agli armati?  Tu con gemini libri bai resi questi  Nell’arte esperti ; or co’ precetti tuoi  Tu devi ancora ammaestrar le donne.  SteSicoro ohe in pria cantò i delitti (i3) Impaziente FUlide per la lontananza del suo  Demofoonte eorse per nooe volte al lido , dà cui do^  vetfa egli passare nel ritorno ; e alfine disperata cd  afflitta per la tardanza di lui ( Annoi, a 3 del Lib,  li.) si tolse da se stessa crudelmente la vita. Le  fabbricarono i suoi parenti un sepolcro , in vicinanza  di cui nacquer degli alberi , che in un certo tempo ,  secondo quello che han scritto i poeti , deposte le lor  foglie , piangevano la morte della medesima.   (la) Enea , che vien soprannominato il Pio, di^  sprezzando Vamore , che è il nome proprio di   Didone, fu causa cVella si precipitasse sulle fiamme  ohe ardevano la eittà e la reggia di Cartagine.   (i 3 ) Stesicoro siciliano è un poeta lirico ^ che doto-'  Sto ne* suoi versi Elena detta tersnoea dal castello ìa    Digitized by Google      D* Elena, poi con più felice lira  Disse le lodi sue. Se V indol bene  Io tua conobbi, no ^ non sei capace  offender Tamorose e culle donne.   Per fin che vivi a te tal grazia chieggo.  Disse, e di mirto (poiché avea le chiome  Di mirto ornate quando a me comparve )  A me una foglia diede e poche bacche.  Ricevuti i suoi doni, io mi sentii  Invaso dal suo nume, e Paer più puro  Splendermi intorno , e facile l’impresa  Comparirmi al pensier. Mentre l’ingegno  E desto , a me i precetti richiedete,   Che a voi, donne, ascoltarli ora è permesso  Dal pudor, dalle leggi e da ogni dritto.  Siate memori ognor della ventura  Vecchiezza, e per voi il tempo ozioso mai  Non passerà. Scherzate ora che lice,   Nè si consumi invano il fior degli anni,  Che come 1 onde fuggono veloci.   Tornar non puote alla sorgente il fiume.  Tornar non puote la passata etade.   Cadete dunque, che trascorre il tempo  Con frettoloso piè, nè lieto mai  Come il primiero siede. Or bianco miri  Questo stelo , su cui già in prima vidi  Io rosseggiar le viole, e questa spina  Grata al c^pe mi porse un di corona.  Stagion verrà che tu , che "fchivi adesso  L’amante , fredda e abbandonata in letto   cui, nacque y perche^ da essa ebbe erigine la rovina di  Troja. Ma i fratelli della medesima , Castore e Polluce  Vacciecarono crudelmente ; ed ei per ricuperare la  sta , fu costretto a comporre un poema in sua lode»    Digitized by Google     Giàf&ttsi vecchia giacerai. Notturna  Rifsa non fia che la tua porta atterri,   Nè sul mattino troverai di rose  II limitar della tua casa asperso.   Misero me ! come corrotti presto  VeggoDsi i corpi dalle rughe , e, come ^  Langue ih nitido volto il color primo!  Quei che sul capo tuo bianchi capelli  Si miran* or,che fin da’di più acerbi  Giuri che furon tali ; ah che ben tosto  Si spargeran per tutto il capo. Méntre (i 4)  La sua spoglia sottile il serpe lascia.  Ringiovanisce ; e rinnovando i cervi  Le corna, non rassembrano^ mai vecchi.  Fuggon senza speranza i nostri beni;  Cogliete il fior, che se non colto vegna,  Cadrà miseramente. A questo aggi ungi  Che fan più breve giovinezza i parti;  Invecchia il campo per continua messe.  Non di vergogna a te , Cinzia , fu causa (i5)  Il latmio Endimion , nè già doveo  Per il rapito Cefalo arrossire (i6)   I Serpenti si spogliane ogni anno della luto  scorza* I Cervi cangiano ogni anno le qorna ; ma ne *  rimangono privi se sian castrati mentre le hanno de~  poste , e più non le varifino, se soffrano una tale ope*  razione phma di deporle. Impiegano i medesimi cin^  que o sei anni nel crescere, e però tioono’ solamente  circa trentacinque o quarànta anni , ttd ortta di tutte *  le fuoole, che gli antichi hanno scritte sulla lunga  ìor vita. Buffon nella sua Storia naturale.   (15) Cinzia ( Annoi, del Lih, I. ) scendeva dal  cielo per godersi Endimione, che qui dicesi latmio per^  chè s^ascondeva ifi Latmo spelonca del monte, di Caria.   (16) S* innamorò la rosea Aurora di Cefalo figlio  di Mercurio, e però lo rapì « Prgcri sua moglie* ,    Digitized by Google    , i/ fc   La rosea Diva. Adori si lasci a parte,  Tuttor di pianto a Vetieré^ cagione,  Com’ebb’olla Antonia, cotii* ébbe Enea ? (r 7 )  Seguite" tiiir P esémpid delle Dive,   O bellezze tóót^aK , é a^ desiosi '   UomìAì noilitìegate il favor vostro.:   Siano essi ingannatori ; e che perdete?  Mille vi godan pur<;‘tutto rimane  Nello stato pritòiér. Gon Fuso il ferro*   Si consuma e la‘ pietra ; in Vói non pudte  Cosa alcuna peirir , ricever danno.   Chi ^vieterà cW dal vicino lùme*^   Il lume non si prenda ? e chi nel vasto  Seno del mar V onde serbar procura?   Tu mi dirai che non convien che a un uomo  Si dia la donna in preda ; ma che perdi  Altro che l’acqua che ricever puoi?   Non vogliono i mìei carmi o la mia vocb»  Al libero dell* uom commercio esporvi^   Ma vietanvi temer le cose inani;   Non posson soffrir danno i doni vostri.   Me un’aura lieve , mentre siamo in porto»  Spìnga, che ,al soffio dì più forte vento  Sono per cominciar maggior viaggio.   Dalla cnltura io do princìpio. Il vino  Ceneroso dan sol le calte vigne,   £ sol né’campiVcoltìvatì miri  Lussureggiar le biade. £ la bellezza  Dono del cielo , e come ah vien superba  OQ.Arteà'am. e    (17) La Dea Venere éhhe à(jL Arichise il figlio Enea ,  e da Marte la figlia Anmónia, Bastano . tàli esemp)  per provare che ella permise a molti di possederla .    Digitized by Google     pJbeU^z<i ogui danpa 1 1Ja «ran parte  Di voi prirs rù^.A quf»to 4ouo. .  Con U coltura la beiti ai 4CqWti   Cile si perdo nfgfct^ ^ apci^r cjio eguale  A gueili fosse dpU'idalia Diy*. (i8) ,   Se Io prische fasullo, il corpo Joì;a  Non coti custodirò ^ se gli autieri  Uomini incolti vissero , se cinse ;    Pesante gonna.AndroiMCjayìo non yeggo>(f 9 )  Bagjon 4i,,ayiglia^I es^SA d’un rezzo ,  Guerrier fu^^mpgli^. Fprsé a Ajace incontro  Adorna andap dpvea la sua consorte, (ao)  Se a Ini la^ pflle .poi di sette bovi  Servia di veste ? Ne^ primieri tempi  Rozza regnò semplìcitade, e immense  Ricchezze Roma del soggetto mondo  Ora possiede. Osserva quale adesso (ai) ^ \  Sia,il OampidogUo, e gual no’giorni andati^  E dovrai dir c]lie ,fa d'un altro Giove.  Ventre dicesi idalia dal monte Idale in Cif^ro  a lei consagrato,   (19) Andromaca fa moglie A*Ettore Capitano deU  VArmata Uroijana, Annótàz, 89 del Lih, li.   (ao) AJaae figli^di Telamone è oelebràto daOm'e^'  ro nella sua Iliade come uno piu valorosi Prine^  che andarono all*assedio di Trofa. Sposò egU an*an^  cella nominata Teemessa; e però dice Or ozio  Movit Ajacem Telamone natura ’   Fórina captiTflB Dominuin Teemessa.   La Curia fu anticamente , secóndo F’arrone,  distribuita in due parti, in una delle quali custodi^  vano i Sacerdoti le cose diwine , ’e neWaltra tratta^  vano i Senatori le cose umane. TaaUr fu un Re de*  Sabini così accorto 9 che seppe ottener da Rpmelaiina  parte del Regno dopo d*aver perduto un'atroce bai»  taglia. ’    Digitized by Google      La Curia, che di tanto ora' rasaembra  Concìlio degna, fu di Tazio a’tempi  Di rozza paglia intesta. Qoe'palagi-  Ch# ora risplendon sacri a Febo e a’Ooci;  Che furon maì^ se non pascolo un giorno  Agli aratori buoi f Piacciano ad altri  Le cose antiche ; io meco stesso godo  D* essere in questa età nato conrorme  A’ miei costumi, non perchè si tragga  Dalle vìscere cieche della terra  11 dutil oro, o perchè venga a noi  Scelta conchiglia da diverso lido;   Nè perchè i monti facciansi minori  Per i marmi scavati ^ o perchè altere *  Sorgano moli ove giaceva il mare;   Ma perchè regna or la cultura , e a’nostri  Tempi rusticitade agli avi antichi  Cara non giunse. non fate carchi  1 vostri orecchi di preziose pietre,   Che in mar lo scolorilo Indìan raccoglie;  Nè comparite già gravi per Toro  Tessuto sulle vesti, onde ben spesso  Le ricchezze cercate e le rapite.   Dalla mondezza noi sìam vinti. Il crine  Si disponga con legge; un pettin dotto  R dona e toglie a suo piacer bellezza.  Non r ornamento stesso a tutte giova;  Quello scelga ciascuna , in cui più splende^  E si consigli col fedel suo specchio.  Chiede una lunga faccia che sul capo (za)   {2.2) Augusto fabbricò nel suo palazzo un Tempio  consacrato ad Apollo Palatino. 1 Duci ^ a* quali ^ dim  cesi sacro il palazzo medesimo, sono Augusto e Tim  bario, mentre quegli vi nacque , e questi vi abitò»    Digitized by Google     loe   Siati ben divisi non velati i crini;   Così avea Laodàmia le chiome adorne*  Voglion le piene e ritondette guance^   Che della &onte sul confin vi lasci  Piccol nodo onde veggansi, gli orecchi,   D’an*altra il orin flagelli ambe* le spalle,^  Quale al canoro Apollo allor che in mano  Piglia la lira. Come Pagi! Diana  Altra gli .abbia legati, alLor che al bosco  Peiseguita le fiere pau^ròse.   Convien che questa abbia i capelli gonfj;  £ strettamente quella il crine implichi*  Altra s’adorni in guisa tal la ehioma,^   Che alla cilleuia cetera assomigli (aS);  Questa V increspi in modo ohe rassembri  Onda marina. Numerar non puoi  Quante sulla ramosa elea sian ghiande.  Quante in Ibla sian api, e quante fiere  S’ascondano nell’alpi, io pur non posso  A te narrare le diverse fogge  Di dar la legge al crin , mentre ogni giorno  Ne sorgono novelle. A molte giova  Che sia negletto : crederai che il capo  Quelle jerì s^ornasser , che con nuova  Cura testé si pettinar’la chioma.   Studia con l’arte d’imitar Natura.   Era Jole così, quando la vide ( 24 )   ^ (a 3 ) Mercurio inventò la Lira fatta a gedsa di te»  staggine , e questa dicesi cillenia ^ perchè egli nacque  nel monte Cillene in Arcadia, Se Ooìdio tornasse a  vigere in questo secolo , dorrebbe certamente veder con  Rubilo che le nostre Dame seguono con la massima  esattezza i suoi proietti nell* adornarsi i capelli.   * (a 4 ) Amò Èrcole ardentemente Jole figlia di Eu»  riio, il qual rìcue/ò di dargliela in isposa, quoMtun»  Ercole ; presa la cittade » e disse :  lo ramo; e tal Pabbandonata ; donna  Quando sai carro sosteneala Bacco»   E i Satiri gridare : evviva » evviva.   Quanto in favor della bellezza vostra  Fu Natura indulgente» o donne I Voi  In mille modi ricoprir potete  Z vostri danni. Invan noi ci asix^ndiamò;  Cadono per 1* etade i capei nostri  Come le foglie allor ebe Borea soffia.   Con le germanicb’ erbe asconder pnote (aS)  La donna la canizie » e può con Parte  Miglior del vero altro cercar colore.  Vanne la donna con la chioma folta    f 'glUVaotsu solennemente proméssa, frritmto  gli pertanto da una tal negativa, debellò la Città  d^Occatia » 09 e questi regnava » e gli rapì la sua di¬  letta denteila.   :(a&) si sa veramente auali si fossero quell^er-  he germaniche ^ del di egù amore eUrattivo compone-  vano gli antichi un medicamento » col quale i capel¬  li bianchi si riducevan neri o biondi. Si Sono però,  trovate a’ nostri tempi molte ricette, ohe compensano  largamente una tal mancanza. Cosi se i capelli sìan  bianchi, si posson ridut neri col far uso d*una po¬  mata, a cui siasi aggiunto una piccola porzione di  nero d*aoorio ben macinato » oooero di sughero bru-  glato unito all* azzurro di Berlino. Resta pm assai  difficile di ridurli biondi » se non si vogUono adope¬  rar polveri d^amido leggiermente torrefatte. La mi¬  glior ricetta che si può per quest* effetto accennare »  é la seguente : si faccia una forte liscioìa di cenere di  sarmenti ; vi si unisca una piccola quantità di ra¬  dice di brionia e di celidonia; si faccia il tutto bol¬  lire; ed in fine vi Raggiunga altra più piccola pdtr-  zione di zafferano dell* Indie , di fiorì di stecaae e  di ginestra. Si coli per tela, e si laoino con una tal  acqua piu volte i capélli.      fOft   Per i compri capelli , e col denaro  In mancanza de* saoi porta gK altrou  Nò il coidprar ciò palesemente teca  Ve^ogna i noi vediam che son venduti  D* Ercole in faccia e del virgineo coro. (a6)  Che dirò della veste f Oro ed argento   10 non ricerco ^ o che rosseggi tinta  La lana in tiria porpora. Se mille  A prezzo più leggier vi son colori,   ,, É qual è dì follia segno piò espresso  Che di portar sul corpo i propr} censìf  Ecco il color delFaria allor che searca  Si rimira di nubi, e il tepid*au8tro  Non apporta la pioggia : eccone un altro  Simile a te che sostenesti nn giorno  Come si narra, e Frisse ed Elle quando (27)  Fuggir* le frodi d* Inoe. Imita questo   11 cernleA mare ^ da ciò traggo   Il proprio nome, e di tal veste 10 credo  Si coprisser le Ninfe. Altro è simile (28)   Si rUeva di qui, che in faccia mi Tempia  fMrtcata in onore d'Èrcole e delie Muse , avevano  i Romani una bottega 9 in cui vendei ansi i capelli.   ' (a^) Frisso ed Elle figli dì Adamante Re di Tebe  fuggir dalle frodi d* Inoe loro matrigna, salirò*  no' sopra il montone ornato del Vello d^oro^ che  Mercurio diè in dono a Nefale madre d^ medesimi.  Frisso fu da quello felicemente portato in Coleo , ma  Elle'precipitò in quel mare , che prese da lei il nome  d^ Ellesponto. Con ^esta favola vuol però dire il Poe*  ta 9 che era presso i Romani in uso ( e lo è pure cd  di nostri ) il colore che si assomiglia a quello dell* oro^  - (aQ) Essendo il giovinetto Croco impaziente di poe*  cedere Snùlaoe sua dUetta amante 9 fu trasformato in  un fiore che dicesi volgarmente ZefBivano , o che da lui  Ica preso il nome di Croco.   £t Grocam ia parros yersam cum Smilace flore».   Ovid, Metam.    Digitized by Google      TOS   AI Croco, e qàaiido accoppia i Ittraihbsi  Destrier, con cròcea reste pur' si rela  La rugiadosa Dea. Di'Pafo a’mirti '  Questo assomiglia , e quello alle purpuree  Amariste , alle rose biancheggianti (29)  Uno‘^ ed tin altro aÈa'straniera grue.   Le ghiande tuè ti sod pure, o Ainarilli,  Nè ri tnancanr le mandorle, e il suo nome  Diede alle lane per la eera. Quanti  Fiori produce la norella terra ~   Allor che fugge iUpìgro rCrnò, e stilla  Gemme la rite ^ tanti beo la lana  Color dirersi, e quello scei tu dei>   Che col tuo rolto Si confà. Ogni reste  Non conriene a ciascuna. I neri ammanti-  Fan risplender le bianche. Assai più. bella  firiseide, allor che fu rapita, apparre,  Perchè le membra accolse in negra reste*.  Odora alle brune donne il color bianco:   E tu piaceri, o di Oefeo, ( 5 o)   In bianca resta allor che di Serifo  Passeggiar! le rie* Io diei consiglio  Che del capro il fetor sotto V ascelle  Non passi, e che non sian per duri peli  Aspre le gambe,. Ma non io già deggio  Delle caucasee rupi le £snciulle  Far dotte, o quelle che di Caico misio {ìi}   (29 ÀmaUsta è una gemma , il di. oui colore è-  quasi simile a quel della porpora.   (So) La figlia di Cefeo à Andromaca: avrà essa  probabilmente passeggiai per le vie di Serifo > perchè  è questa una piccola Isola del mare egeo , nella quàU  fu edueato Perseo suo liberatore.   ( 3 r) Gli abitatori del monte Caucaso furore antica--  menteiCome lo sono tuttora, ferocissitni. FI Caico-è unfiu^  me della Frigia e della Lidia ^ che proviene dalla JS/Lsia.  Bevano all*onde. Che non siano i denti  V*ammonirò per hidblenza foschi,   E che si lavin sul mattin 1 ^ guanoe  Con man dell’onda aspersa. Voi sapete  Pjocacciarvi il candor con distemprata  Cera; e con Parte divien rossa quella.  Cui non colora il sangue suo la. faccia:  Voi con Parte il confin nudo del ciglio  Fate ripieno, e voi con tenue pelle  Ricoprite talor |e vere gote.   Stropicciar gli occhi poi non è vergogna  Con la cenere tepida „ o col crocb  Che nasce presso te , lucido . Cinno. (3a)  Tengo un libretto picciolo, ma grande ^  Opra per il pensiero , in cui i rimedj - '   Qià v’insegnai per la bellezza vòstra»    ( 3 d) Con felice successo adoperarono le Dame Ro^  mane la cera distemprata per far fianca la peUe ; e  con faUe^ ti Adopera ancora in questi tempi   dalle nostre Dame . Ecco il modo di prepararla : ad  una parte di cera bianca di Venezia si uniscono otto  parti d* acqua , a cui si aggiunge una piccola porzione  d*alcali vegetale y e si di^cioglie il tutto finché non si  abbia una sostanza consimile al latte* he Dame ro^  mane solevano ancora adornare co* colori , e riempire  co*peli ben disposti quello spazio ài pelle nuda che é  fra il ciglio e il sopracciglio, s ! •   Il le •apercìlium magaa faligine tinctum  « Obliqua producit acu.   Giovenale.   Dalla Cilicia che è irrigata dal fasme Ciano fa»  cevano esse venire il zaffarono ed altre céneri atte a  purgar gli occhi dagli umori soverchp; e a renderli  per cònseguenza maggiormente^vivaci. Ha scritto Opì-  dio un piccolo libro de medicamiue faciei quale   inségna alle Donne tutti i rimedj, che possono contri»  buire a far bella la lor faccia e le loro membra. Quindi riparo alla figura offesa  Cercate, che non è per gli usi Vostri  Inefficace Farte mia. L’apiaìite  Non miri apertamente i vasi esposti.   Che Tarte ascosa giova alla beltade.   A chi non spiaceria mirar sul volto  Stendere quella feccia , e lentamente'  Cader pel peso suo nel caldo seno?   Quàl dall* immonda lana dell* agnella ( 33 )   €2    ( 33 ) Fahhricavasi in Atene con In lana sudicia e  molle un medicamento che i Greci chiamavano Etipo.  Le Donne facevano uso di questo per mollificare le  ulceri di qualche delicata lor parte. Vedasi Diosco*  ride y Plinio il Mattioli nel suo erbario ; che ne  parlano a lungo , ed insegnano la maniera di fabbri^  cario,   ' Non d può accennare qui il modo , con cui prepa^  radano gli antichi i midolli della Cerva yper averne  un composto atto a far bianchi i denti, era i molti  medicamenti che hanno per quesV effetto inventati i  nostri Chinùci , ci piace di riportar qui la polvere ,  V oppiata i e le spunghe ; di^ cui dà Mons, Beaumé la  ricetta nella sua Farmacia,   Ad un*oncia di pomice, di terra sigillata^ e di  corallo rosso s*aggiunga mexz*oncia di sangue di Dra^  go, un* oncia e mezza di cremar di tartaro^ se ne fac^  da una polvere sottilissima , e vi si unisca una pie-  cola porzione di garofani e di cannella.   Per compor quindi V oppiata > si prenda un* oncia  della polvere suddetta, due once di lacca rossa da  Pittori, quattro di mele di Narhonne, due di siroppo  di more ; a queste ù uniscano due gócce d* dio essen--  ziale di garofani, e si avràr un* oppiata , che S4^à op¬  portuna , come la polvere , a ripulire , imbianchire , e  preservare i denti da molti incomodi.   Una stessa virtà hanno le spunghe preparate , e  intrise in una tintura fatta con lìfibre quattro a^ua,  in cui abbina hoUUo quattVonce di legno del Bras^*  Daraiìne ing^rato odòrè- il 'sugo estratta^  Benché da Atene a noi si mandi t Inverò^  Lodar non so cl^ alla presenza altrui  Della cerva i midolli insìem mischiati  Piglinsi, e che palesemente i denti  Si faccian netti* Utili alla beltade  Sono. tai cose , ma deformi troppa  Agli occhi nostri* Molte cose fatte  Piacciono, e turpi son mentre si fanno»  Le statue di Mirone opre famose, ( 34 )  Furono inerte peso e dura massa,   Per farsi anello , Toro in pria si frange,   E quelle vestì, onde vi fate adorne,,  Furon. sordide lane* Era aspro marmo,.  Mentre erano a scolpirla intenti, quella  Statua nobile in cui Venere nuda  Trae fuor dall* onde gli umidi capelli. (35)*  Fa che pensar possìam che dormi allora  Che tu Vadornì, Io lusingl>ieTa forma  Sarai mirata se alla tua cultura   le, tre dramme di cocciniglia soppesta , e quattri) di  alume di rocca . Quando queste spunghe si sono, im¬  bevute d* una sufficiente quantità d* una tal tintura,  si fanno asciugare, si pongono per alcune ore nello-  spirito di vino, a cui siasi aggiunte una porzione di-  olio di cannella y di garofani,.e di spigo ec.; quindi  si spremono, e sì conservano per valersene al bisogno,  ih vaso di Oetre ben ehiuso.   (34J Mirone discepolo d^ Ageladé seppe formare in  bronzo còsi perfettamente le statue , che Petronio dite  aver egli compreso nel bronzo V anima degli uomini  e delle bestie,   ^ ( 35 ) Alludesi alla famosa statua di PrassiteU , che   rappresenta Venere nuda neW atto d^ uscir dal mora.  Fu questa collocata in Roma nel Tempio di Bruto  Callaico insieme col Colosso di Marte pvesso - il Circ¬  eo ffaminio»  Diligente darai T ultima mano.   Del talamo le porte ben raccbiudi.   Perchè vuoi far^ palese un’opra rozaaf  Molte COEC' ignorar gli uomini danno.   Di. cui gli ofiendón molte, se non copri  Ciò , che & d’uopor di tener , celato.   Vedi quelle che pendono^ da un culto>  Teatro aurate statue, a osserva bene  Qual lieve foglia il legno lor ricopra..   Ma come quelle al popolo* non lice  Veder ae non sien poste in vaga mostra^  Così se non elea gli uomini lontani,   Non si procuri d’acquistar bellezza.   Non vieteiò cbe al pettine abbandoni  Palesemente 1 tuoi capelli, quando  Scender potran per tutto il tergo aspersi.  Di non esser procura allor molesta, •  Ne aciorre spesso le mal calte chiome.  Sicura sìat quella che il crin t’adorna;  Odio colei che le ferisce il volto  Con l’un ghie liCi con rapito ago le punge  1 ( braccia Allor d’ancella là detesta.   Le tocca il capo, e sull’odiate trecce*   Col piaotn suo scende mischiato il sangue*  Quella che il capo.ha.quaai calvo ,ipoDga^  Sulla porta il oustode , o della Dea  Gibele al ten^pio ad adornar si vada. ( 56 )    ^ ( 36 )’ CibéU aveva in Roma un Tempio, in cui non  potevano aver gli uomM V accesso :   4 Sacra Bona maribas non adeunda Des.   Tibullo,   Insinua pmttauio Ovidio con questa frase Me Donne  di non pettinarsi alla pretenza^ degli uomini^ se non  so» Mli i ìorq capelli fui annunziato airimprovviso un giorno   A una -donzalla; e torbida i non suoi  Velò capelli. Uo tal ro 88 or > ricopra  La faccia alle nettiicbe, e questa^ infamia  Fra le particele Nuore abbia soggiorno.  Turpe è Tarmento senza corna, e turpe  Senza gramigna è il campo, Tarboscello  Senza le foglie, e senza i crini il ^apb»  Non-vennero ad udire i miei precetti  Semele, Leda ^ o la sidonia donna (37)  Che via portò pel tnar fallace Toro,   O la tua sposalo Menelao, cW chiedi  Bene a ragione, e che a ragion si tiene   11 Rapitor Trojano^Ecco una turba*'   Di belle donne e dì deformi a un tempo  ( Ahi sèmpre il ben dal male è snperato ! )  Che chiède i miei precetti, ma non tanto  Cercan questi le belle , e men dell^rfe  Procurano rajoto. Han quelle in dota  Beltade senza Parte assai possente.   Quando tranquillo è il mar, sicuro bessa^  Il nocchier dal lavoro, e mentre è gonfio  Si asside, e in opra pone ogni socConk).  Rara è beltà che senza macchie Sia; ^   Le cela , e i vizj del tuo jcorpo ascondi   {37) Semeie figlia di Cadmo He di TeÒe e.madre^  di Bacco , Leda figlia di Tindaro, e sorella di Ca-  stare e Pollice, Buropa figlia di Agenore He di Fe¬  nicia ove giace la città di Sidone , da cui élla vieti  detta Sidonia, furono dotate d*una tal bellezza , che  innamorarono vivamente lo stesso Giove, il quale non^  ebbe à vile di prender per esse le più strane sem^  hianze. Queste con Elena mogUè 'di Menelaosi pro» ^  pongono qui dal Poeta , come eiélnpi troppe rari dì:  perfetta bellezza. Quanta più puoi'« Se di statura breve  Tu sei, t’assidi, onde seder non sembri  Allor che in piedi stai. Se oltre misura  Però lo fo^si^ allor ti porca , e ascondi  Con le vesti su’piedi un tal difetto.  Quelle che sono gracili e minute  Debbon di grossi drappi ornarsi, i quali  Sciolti cader si lascin dalle spallo.   Tocchi il suo corpo con purpurea verga ( 38 ^  Chi è pallida ; e chi è nera abbia ricorso  Al fario, pesce. Un piò lungo e deforme  Sottu candida alunda pgnor si celi, ($9)  Nè secche gambe .sciolgansi da* lacci.    (38) È certo , gU onticfd aoéoano de* medica^  menti , co* quali ti coloravan la faccia ^, benché non d  sappia di qual natura^ quelli si fossero . Il belletto >  che si usa pretentemente è composto di rosso e di  biancone sarà forse pià efficace di quel che adopra*  vano le Daàte romane. Si è per qualche, tempo im-^  piegata Cernita il magistero di Bismuto^ detto  altrimenti bianco di spanna com« quello, che avendo  un leggiero color d* incarnato, era pià analogo aHa  pelle ; ma sì l* una che l* altro anneriscono e guasta¬  no la carnagione, mentre tutte le calci metallici^ ri¬  prèndono una parte del loro flogisto , e, si ripristinano*  Si è pertanto sostituita alla cerussa ed al bismuto  la pomata di spermàceti^e l* olio di mandorle dolci,  unendovi una porziànè di falco'biancò finissimo. Col  talco bianco ùmilmente barico ,della parte coloranto  de* fiori di Cqrt^mfi j a, ,cui si aggiungono poche goc¬  ce di olio di Beri, per renderlo pastoso è molle, si  compone il roiso y che ancor chiamasi-rosso di porto-  gallo o roSso'vegetale. ‘   Il /arto pesce é il Coccodrillo y degl* interiori e della  sterco del quote sh servivano i Homani e(f i Greci per  fare un composto atto a render bianca e splendida,  lo pellé.   (39) X’Alauda b una pelle moUissiuia,  Tenue eoscm conviene ad alte spalici  E se il petto sìk turgida, il circondi  Fascia, e lo stringa. Se le dità pin^ui^   E scabre T ùnghie avrai, allor di rado  Accompagna congesti i detti tuoi.   Chi grave dalla bocca esala oddte ' •  Digiuna mai non parli ^ e dalla bocca  Deir uom stia lungi. Negri, e troppo grandi  Se i denti siéno, o in non belFordin natii  Massimo il «iso allora apporta danno.   Chi ^1 crederiaMiC donne apprendon pure  Le. maniere del ti80 ,'e in qùesta parte  Nuovo per lor procacciano òtnatoeùto.  Non troppo-larga apri la bocca , e brievi  Sian le pozzette in ambedne le. gote,   E le radiche ognor copra de’denti  L’estremità de’labbri , e non bisogna.  Affaticar con smoderato riso .   Il fianco, mentre deve ancor nel riso. -  Dar proprio, delle donne urf dolce sùono'.  V’ è pur chi in mille guise il volto-  Con male acconce risa*, ed altra credi  Piangere allor che tutta allegra ride$  Quella tramanda un, rauco suono ; e stride  Cosi inamabilmente, che ^assembra ;  Asìnella che ragli, allor che intorue s 5  Alla macina gira.^E'do Ve l’arte ^   Non giugno ? Coù decòro itnpajfan )   A lacrimare, e come, e qhandò sembra, ^  Loro opportune. E che dirò di quelle.   Che niegano agli accenti intera forma,   E fan con studio balbettar la linguaf ^  Credon che sia lìa grazia ancor nel viziò^.  E pronunciano mal varie paròle^ •    Digitized by Google     rrii   E con arte studiata altre ne lasciano.   A tutto ciò, che ben giovar vi puote^  Ponete cura, e con femineo passo  Imparate a portare il corpo vostro^   Havvi nel portamento anco il decoro.   Con cui si fan fuggir , con cui si allettano^  Gii uomini ignoti. Muove questa il fianco  Con arte , ed ondeggiar lascia le gopne  Air aure in preda, e stesi i piedi porta  Con maniera superba. Altra cammina  Qual deir umbro marito la consorte (4o).  Rubiconda, e con piede in dentro volto  rapassi move smisurati •y in q^uesto  Serbisi, e in altro pur giusta misura»  Rustici ha questa i moti, e troppo quella^  E molli e ricercatk LMraa* parte  Della spalla, e r estrema ancor del braccio  Di nuda, onde chi posto è al manco lato  Veder la possa. -Hi special modo a voi  Gioverà che qual neve avete bianca  Ina pelle. Quando questa io mira, sem-pr^  Sulla spalla scoperta i bacci imprimo.   Col dolce suon della canora voce  Fermàr le navi più spedite al corso  Le Sirene* del mare iniqui mostri. (41)    {40) Condanna Ovidio a ragione come rozze le mo¬  gli degli Ultori popoli forti e a un tempo stesso /«-  voci f che abitarono in Italia sul monte Appennino,  (41) I>c Sìrerse sono tre barbari mostri che dimora¬  rono nel mar di Sicilia, Col suon lusinghiero deWar¬  moniosa lor voce'allettavano queste in tal maniera i  naviganti , che si lasciavano essi predar facilmente.  Ulisse per evitare un tanto pericolo , chiuse con la cera  ^^^cchie suoi compagni^ e si legò strettamente'^  M albero della na^e ^da cui si disciolse dopo    jia   Udite qneste, se medesmo sciolse  DalParbor della nave, e con la cera  Chiuse Ulisse accompagni ambe le orecchie.  È lusinghiero il canto . Le fanciulle  Apprèndano a cantar ; la voce a molte  Senza bellezza conciliò gli affetti.   Cantino quel che udirò ne’ marmorei  Teatri f ed or versi costrutti in metro (42)  Niliaco; e culta femina tenere  Sappia per mio giudizio or nella destra  11 plettro , ed or con l’altra man la cetra.  Il tracio Orfeo con la sua lira mosse ( 43 )  Le fiere, i sassi, le paludi stigie,   Ed il triforme Cane . O della madre  Giusto vendicatore al canto tuo  Cortesi i sassi fabbricar’ le nlura.   Benché sia muto, il pesce ( è nota al mondo  Favola) al suon del arionia lira( 44 )   sentito il dolce cànto di quelle . Le donne imparino  dunque a cantare ,se ooglionsi conciliare, come dice  Otfidio , P qmore degli uomini,   ( 4 ^) E!ran famigliari a* Romani le canzonette ame^  rose , e spesso lascile , ahe si cantavano in Egitto , ove  scorre il celebre fiume Nilo,   (43) Orfeo nato in Tracia da Apollo e da Calilo •  pe col suono armonioso della sua Lira fece sì che gli  corressero dietro per ascoltarlo , gli alberi , i sassi , i  fiumi , e le beloe feroci : Quand* egli intese la morte  d* Euridice sua moglie , scese con la lira all* Infernot  e con quella intenerì talmente gli Dei infernali, che  a lui la restituirono , purché non ardisse di riguar--  darla prima d* uscir dall* Inferno, Non p9té l* amo^  toso consorte obbedire a tal legge , e però ella dovè  involarsi a* suoi sguardi subito ch^ ei la mirò   ( 44 ) Anfione figlio di Giove e d*Antiope indusse le  pietre col suon della Lira a fabbricar le mura della  città 4i Tebe. Picesi vendicator della madre, perchè.  Si fe* pietoso . Anco a toccare impara  Con Tana e l’altra man le dolci corde  Del Salterio ; son atte a* cari scherzi*   Di Callimaco a te smn noti i carmi.   Quelli del eoo Poeta , e quei del tejo (45)  Vinoso Vecchio. A te Saffo sia nota  (Son più degli altri i carmi suoi lascivi)   E quel per cui viene ingannato il padre (46)  Del servo Oeta con la callid’ arte.   Del tenero Properzio i versi leggi,   O quei di Gallo, o quei del buon Tibullo,  O i velli insigni per le bionde fila (47)   insieme fratello Leto la vendicò dall* ingiurie ,  che recatale Ideo di lei marito y col trucidarlo nel  letto y ove lo sorprese con Dirce sua concubina y a cui  pure tolse la vita.   Atwne nacque in Metinna , e fu im eccellente Po&^  ta lirico , e nel tempo medesimo un ricco mercante.  Ufosid alcuni suoi comùttadini dal desiderio di godere  delle sue ricchezze fissarono di gettarlo in mare, men*^  tre egli se ne tornala alla patria. Accortosi di ciò  Arione cantò intrepidamente una canzonetta , ed un-'  Delfino , allettato da una sì dólce melodià , Vaccai^  se sulle sue spalle y e lo portò in Tanaro promontorio  della Laconia,   (45) Accenna ora Òoidio i Poeti che piacevano ai  suoi tempi , e per lo stile e per le materie galanti ,  come a* dì nostri piacciono Ariosto , Passo , Guaritù ,  è Metastasio ec.   Fiteta fiorì a* tempi d*Alessandro Magno per li suoi'  versi elio^afici , e dicesi eoo Poeta y perche Coo /if ia  sua patria. Anacreonte nacque in TeJo , e scrisse mol^  te canzoni veramente leggiadre in onore del buon vi¬  no , delle donne y e del giovinetto Batillo.   (46) Terenùo compose una commedia, in cui il  padrone , ed il fratello sono ingannati da Geta asti^^  to lor servitore.   .'(47) ^^^^one Àttacino cantò ne* suoi versi la spe^  dizione in Coleo degU Argonauti. Il vello d* oro , che    jbyGoo'gle      ii 4   Che far fanesti, ó Prisso ^ alla tua aaara  Cantati da Varrone, q il pio Trojano  Di coi non y’ha nel Lazio opra più chiara.  Ma forse un dì con 'questi andrà conginnto  H nome nostro, nè i miei scritti in Leta  Saran dispersi/Dirà aldino : leggi ,   I culti versi del maestro nostro^   Con cui poteo far dotti uomini c donne.^  Fra’suoi tre libri che hanno infronte scritto   II titolo d* amor 9 scegli que^ verai ( 4 j 3 )t  Che legger tu potrai con docil bocca  Più mollemente ; oppur con ferma voco ,  Canta P Eroìdi , ignota opera agli altri  Ch’egli compieo. Ahi cosi piaccia aFebo^  Pel corno a Bacco insigne/ ed allò Muse,  Numi che son propizj a noi Poeti.   Chi dubitar potrà ch^ìo la fanciulla  Non voglia al ballo istrutta, onde poi toltq  Il vino dalla mensa » ella le braccia  Volga in composte ed ordinato moto?  Amansi i danzator che della scena  Sonò spettacol, perchè san con arte :   V Saltare y e con decoro. Io mi vergogno  Di doverla ammonir di tenui cose, _   questi ivi andarono a conquistare , fu funesto ai Elle  sorella di Frisso y perchè ella , come si è accennato y  cadde miseramente in mare , mentre il Montone ador^  no d* un tal vello la portava insiem col fratello ih  Coleo,, Tl pio Trojsno h, come è noto y Enea, sulle  aùoni del quale ha scritto Virgilio quell* aureo Poe»  ma che porta il nome d* £aeidb.   {èfi) Ovidio fra l*altre sue opere annovera ancora  ire libri d* Elegie intitolati gli Amori, ed un libro  - intitolato V ^roidi , perchè comprende ventuno lettere  amorose y che fa scrioère scambievolmente dagli Eroi  all’Eroine^ e dalfEroioe agli £roi.  P’istruirla a gettare or l’aliosso,   £ a conoscer de’ dadi anco il valore.   Or tre numeri getti, ed ora accorta (49)  Pensi qual parte segua acconciamente  E qual richieda. Canta in finta guerra (5o)  Muova i soldati, che da duo assalito  Nemici uno perisce. Il Re sorpreso  Senza la sua compagna ^ si difenda  Da se medesmo , e f’emulo ritorni  Per lo stesso seotier.' La tasca è aperta^   E ornai son sparse le pulite palle; (5 i)  Quella che prendi sol muover tn dei.  Ravvi un: gioco diviso in tante parti (Sai  Quanti numera mesi il luhric^anno.   Breve tabella prende da ogni parte (S3)-  Tre tenni pietre, e il vincere consiste  Nel disjpor queste in una dritta  Mille giochi vi SOI» che turpe fia  A una donzella d* ignorar ; col gioco  Si può l’amore conciliar. Leggiera  Fatica è appreodero a giocar ; maggiore  Opra é il compmrre allora i suoi costumi.    C49) Non sappum Diramente per qual ragione si~  éovesse procurare tempi, in cui vivcóa Ovidio di  gettar tre numeri nel gioco d^ Dadi.   ^ 5 “^ •S£r»/erÌjco»o questi versi al gioco degli Scacchi.   (Si) questo un gioco, di cui non possiam dare  tucuna notula.   Sembraci f che sia questo il gioco, che r pure  * *** dell» Dama.   ( 53 ) Alludeu (d gioco del Filetto, che . or gioeano'  nule campagne i ragazzi. Così b decaduto un gioco -  0^ formava la delizia delle Dame romane, e coi»  aecaderanno ancor quelli che si hanno in pregio a‘ dk  nostri, ® '    Digitized by Google    Mentre s’applica al gioco, incanti siamo,   E i reconditi sensi alloc dell’ alma  Facoiam palesi. Ci deforma il volto ^ j   Il cieco sdegno, e sono ognot col gioco  Il desio del guadagno , le .pontese, »   11 sollecito duol, le stolte tìsse.^ j   Rinfaccìansi i delitti ; di clamori *   V aere risuona, e in sno favor s’invocano  Gl’ irati Dei. Non v’ è fede nel gioco  Il qual co’ voti non divìen secondo;   Vidi le gote ognor molli di pianto:   Da voi che amate di piacere all’uomo,  Giove tenga lontan questo delitto.   Diè la pigra natura allo fanciulle   Silaili giochi ; ad altri pii sublimi   S* applica l’ uom : per lui sono il paleo» ( 64 )   I dardi, 1 ’ armi , le veloci palle;   E il cavallo costretto a gire i^^no.   Voi non acosf^il’-campo.o'ra gelata ( 55 )  Vergin , nè voi sulle sue placid’ onde j  Porta il toscano fiume* Ah ! voi potete  Gire all’ ombre pompeje, anzi vi giova ( 56 ) 1  Quando i destrier del Sole ardono il capo    (5 4 ) H Paleo i urto strumento fatta a guisa Jt  trottola, eoi quale giocaoano i fanciulli romani fa-  tendalo con una sferza girare intorno.   ( 55 ) Nel Campo Marzio si esercitavano »  romani in tutti que’giuochi cU potevano «P***^"'^*   • renderli valorosi guerrien. Era ivi   ta Vergine dalla fanciulla che ne scopri la sorgente,   ed in quella si lavavano i giratori le   di polvere e di sudore. Il Tevere e qui detto fannie   tascsno, perchè dall’Appennino   la Toscana nel f<u-t il siSo corso alla wta di tioma.   ( 56 ) Annoi, q. del fàh. I, ^    Digitized by Google     Alla vergin celeste. I sacri a Febo (5^)  i’alagi visitate ; egli sommerse  In alto mar le paretonie navi.   I monumenti ancor» che fur costrutti»  Dovete frequentar, da Ottavia e Livia ( 58 )  Una suora del Ehjce, altra consòrte,   E quelli pur del valoroso Agrippa,   Che ha cinto il capo di navale onore.  Della menfitica Iside agli altari (69)   Siate frequenti , ov^ ardesi P incenso,   E ne’luoghi cospicui a’tie teatri.   Di caldo sangue le macchiate arene  Ite a mirare, e la prescritta meta.   Rapido intorno a coi si volge il cocchia.  Quel che si cela ò ignoto , e ciò che è ignoto  Nessun desio risveglia ; è lungi il frutto  Se manca il testimone a un bel sembiante.  Benché nel canto superi Tamira (60)   ( 5 ?) Dicé con Ovidio ancora Virgilio, che Apollo  nella guerra Azziaca prestò il suo soccorso ad Augu^  sto y il quale aveoagli innalzato un ternpio nel pro^  prio palazzo . Apollo in conseguenr^a , ^Hcondo questi  poeti , sommerse le navi egiziane deste paretonie da  Paretonio città marittima d*Egitto , che Pompeo avem  va armate contro d*Augusto.   ( 58 ) Ved^i l*annot, 8 e g del Libro /. Augusto  decorò A grippa suo generò della Corona navale dopo  d^aver debellato Pompeo ^ ed innalzò al medesimo un  portico y che fu chiamato il Portico d’A^rippa.   (59) Annoi, li del Lib, /. Dice Sirabone che gia¬  cevano tre superbi Teatri in vicinanza del Campa  Marzio.   (60) Fu Tamira un poeta tragico che ardì con la  sua lira di provocare le stesse Muse ^ credendosi a  quelle superiore nella dolcezza del cantoma\dalle  medesime fu vinto , ed in pena della' sua arrogwiza  gli furono tolti gli occhi.    Digitized by Google      ii8   Ed Àmebeo , sarà priva d’ onor«   L’ ignota cetra» Se di Coo il Pittore  Vener ritratta non avesse^ immersa  Sare^bbe ancor nelle mailne spume.   £ che ricercan maggiormente i sac^i  Poeti che la fama ? E questo il fine  Cui tendon tutte le fatiche nostre.   Fur de’Numi e de'Re delizia un giorno.  1 Poeti , ed immensi ottener premj  I cori antichi* Venerando allora,   £ d’ una santa maestà ripieno  Fu questo nome, ed ebbero sovente  Larghe ricchezze. Ennio che il suo natale  Trasse ne’monti calabresi , degno  Si fé’ d’esser unito al gran Scipione. (6i)  Or giaccion senza onor Federe, e il nome  Ha d’inerte colui, che i sacri studj  Cari alle Muse a coltivar s’accinge»   Giova cercar la fama, e chi d'Omero  Contezza avrebbe , se in obblió sepolta   Ateneo^ Plutarco ed altri parlano con somma lo^  de d*Amebeo ateniese , perchè sonava eccellentemen-  te la cetra, Apelle nativo di Coo dipinse Venere nel-  ratto di uscire dalVonde marine \ ed Augusto coliocè  una tal pittura nel Tempio dì Cesare suo Padre,   (6i) ÉrUiio è tra i Latini un poeta che si può da-  gV Italiani paragonare a Dante.   Ennius ingenio maximus , arte xudis.   Owd. Trist, Ub. IL EL I,   Fu egli, nativo di Rudia in Calabria , e visse som¬  mamente caro a Scipione Affricano il vecchio , ed a  molti altri insigni Cavalieri romani. Morì in età di  anni settanta , e dicevi che fu collocata la sua sta¬  tua di marmo nel sepolcro degli Scipioni. Cicerone  ^ro Archia Peata , così parla di ciò : Garas fuit Af-  iiricano superiori ngster Ennius ; itaque in tepulcro  ScipioQum putatur is esse constitutus e marmore.   L'Iliade o^ra imxnortal foase rimasa? ^  Chi Danae conosoiata avr^a , se ascosa (6a)  Posse étata mai sempre^ e «e già vecchia'  Si fo8a''ella lacchiusa eptro la torre?  Utile è a voi , bèllé e vezzose donne,   Di porre oltre le soglie il vago piede<   La lupa a molte agnello insidie tende  Per predarne una, e sopra molti augelli  Vola 1 Augel dj Giove. Il volto mostri  Sposa_ leggiadra ^1 P®poI<>> o fra molti  Un solo appéna rimai^rà sua preda.   In ogni loco ove si tro^ , attenda  Sempre a piacere; ed abi>ia special cura  Di sua bellezza. Puote in ogni incontro  Sempre molto la sorte. Getta l’amo,   Chè in quel gor^o, ovemen lo pensi, il pé^co  t alor SI trova . Erran sovente indarno  Per boschi montuosi i cani , e il cervo  Cade fra’ lacci, mentre uinn l’insegne.   D Andromeda l^ata a un duro scoglio ( 65 )   Il niT*** *Pf far, che a un uom piacesse   Il pianto sue ? ài cerca spesso un uomo  Ne funerali del marito ; i crini  Sciolti portar conviene, e sian la gote   Di lagrime bagnate . Ma fuggite   Gl, uomini che d’aver le ^mbra adorne   hi fanno un pregio ; della lor beltade   Vanno superbi, e portano le chiome  Con ricercata simmetria, disposte.   Ciò che dicono a vói, dissèro a m{llé;   D’ uno in un altro àmot Tàgando vanno ,  Senza restarsi in dmha "parte mai.   Che d’un tal uomo effemi,nato., a cui  Forse molti non mancano amatori.   Dee fer la donna ? 11 crederete appena.   Ma credetelo'pur , Troja' àncor ferma ( 64 )  Starebbé,se di Priamo avesse ih uso\ ‘  Posto gl* insegnamenti . H'a^yi di quelli  Che sotto il mantó di fallate amore ^   ■V* assalgono , e tiòèrcan coh‘ tai mezzi  Vergognosi guadagni . Ntìn la chioma  Per il liquido nardo nitidissima ^  V'inganni, o breve fascia con cui stringa  Le pieghe della veste ; nè v’ illuda  Toga che sia di tenue,fil tèssuta;^   O anel con cui s’adorni uno o più. dita.  Chi fra questi è più colto, è forse un ladro,  E d’ amore arde per la ricca veste.  Gridano spesso le spogliate Donne;   Il mio a me rendi, e il suon per tutto il foro  Rimbomba, e s’ode ; a me deh rendi il mio.  Tu da tuoi templi d’oro adorni miri  Con le femmine d’ Appia indifferente, ( 65 )  Venere, queste lìti , Ancor vi sono  Pessimi nomi'pei^'non dubbia, fama-.    ( 64 ) Priamo iruinuava «’ tuoi Trojatti di rtrtdtr   ^( 65 ) àoeva nella via appia   tomo al quale abitarono molte donne   sacrifici che queste rendevano a quella lor   lare , consistevano in prestar liberante tl lor corpo   alle voglie sfrtnatt desìi uomm Iwrnnio  E molte che rimasero ingjinnatp  Da molti amanti, or d’ un egual delitto  Si trovan .ree. Dalle quetele altrui;  Imparate a; temer le^ vostre ; chiusa,   Sia mai sempre la porta ad uom fi^lace.  Donne ateniesi, uon prestate fade (j66)‘   A Teseo ancor, che giuri • In testimonio»  Come invocolli nn giorno, i Numi invoca.  Tu del delitto, oJDemofonte , erede.   Di Teseo più non meriti credenza, (67)  Perchè ingannasti Fillide . Se molto  A te pròmetteran, loro prometti j *  Con eguali parale . So di doni,   Ti siano liberali, lor concedi   I promessi piacer, ma se gli nìeghi   II dono ricevuto, ancor potrai.   La fiamma estinguer deUa vìgil Vesta, (68)  Rapir da’templi dTside gli arredi,   E air uom porger T. aconito mischiato  Con la trita cicuta«tll mio desire ,   Mi spinge ora a ;fcenarmi, e: tu ritieni.  Musa , le brìglie : nè le mosse rote  * Ti dian.terror» Tentino in prima il guado  Ov..Arte d-am.    (66) Teseo abbandoni Arianna in Nassa,   (67) Demofe^nte non serbò a Fillide la premesti^  di ritornarsene a lei dentro due mesi,   (68) Con questi versi vuol significare il poeta che  è capace di commettere ogni sceUeratezza quella don~  na , che nega il favor suo a quegli uomini da* quali  ha ricevuto de^ doni, Riputavasi in fatti da* Romani  un enorme delitto il rapire il fuoco custodito dalle  Vestali, o i .sacri arredi del tempio d* Iside; e da  ogni nazione si è creduto sempre colpevole colui che  porge alVuQmo /^aconito con la cicuta , cioè il vet^no. Xrli scritti fogli, e T inviate cifre  Riceva accorta ancella . Apprendi e vedi  Dalle stesse parole che tu leggi,   Se finga, o par se son sinceri i prieghi.  Dopo breve dimora ognor rispondi^   Mentre , se è bre;i^e, è stimolo agli amanti.  Deh non prometti al giovin che ti prega  D’ esser docile mai, ma in duri accenti  Non.gli negar ciò che dimanda . Tema  E speri a un tempo^ e ognor che tu il licenzi  Sia minore il timor, maggior la speme.  Scrivi culto parole e consuete,   Che un famigliare stil più eh’ altro piace.  Ah quante volte arse per dólci note  II cor di dubbio amante , e fu nociva  Una barbara lingua a bella Donna!   Benché voi siate nell* ònor perdute.   Tutte le cure vostre or son dirette  A ingannate i Mariti . Idonea mano  D’esperto giovin, di fidata ancella  Rechi le dolci lettere , e tai pegni  Non sian fidati ad un novello amante.  Vidi ben spesso impallidir le donno  Per tal timore , e vìvere i lor giorni  Miseramente in sehìavitudin dura.   Perfido è quei ohe tali doni serba.   Che qual fulmine etnèo sono in sua mano.  Si può tener, se al vero io non m’appongo,  Lungi la frode con la frode ognora;  Contro gli armati impugnar 1 ’ armi, logge  Nissuna vieta . A imprimer sulla carta  S’accostumi la man diverse cifre.   Ah ! peran quelli contro cui vi deggio  Avvertir di tal cose. In foglio mondo    Digitized by Google     123   La risposta si scriva , onde non sembri  Da due mani vergato . Al suo diletto  Scriva la donna, .come un uòmo amante  Scrive air amata » ed usi V uom V opposto.  Ma da lieve materia innalzar V alma  Ora a me piace a più sublimi cose,   E le vele spiegar gonfie dal vento.   Opra è del volto i rabidi trasporti  Saper frenar : candida pace all* nonio  Convien come alle belve ira crudele.   Si fan per Tira tumide le guancie;  Vengpn nere le vene, e inocchio splende  Più truòemente del gorgòueo ‘fòco. (69)  Vanne lungi da 'metromba importuna^  Disse’Pallade ^ allór che il volto suo (*^0)  Mirò )iel fiume . Se voi iii mezzo all’ ira  Riguardate lo specchio ^ alcuna appena ^  liistinguére pbtm W figura. '   Nè dannosa a Voi supérbr^^ facòià j  TurgidJ il voltò ; có^ be^nigiii sguardi  Deèsi a^es9ar 1 ’ amóre ‘J Odiahio ( e voi  Già 1 fó^cre((efé che. ìie siete esperte) ‘   I fasti inambderatl^e spesso chiude  Deir odio 1 sómi taciturna faccia. /   Guard^ ^uel che ii mira , e ùi olle mente  Sorrmi 'a^ueì cjhe rid^ e se à te un cenno   §ia .   Gorgoni étart t^e mostri \^enimente orribili  per ìaHesta ^circonddia di serpi , e per Vocchio spaven^  tegole che ateoanò in: mezzo alla fronte . Chi fissava  occhi in faccia*'alle medesime , rimaneva di sasso,  (70) Pallàde / sécorido^alcuni y gettò via la tromba,  perdhè ^s’accorse chè ih sonarla si faceva troppo gòHf^  la faccia. ‘ ' Con tai preludj il favcitilletlo Amor»   Pose i rozzi da parte, e diè di piglio  A! dardi acuti della sua faretra.   Vadan lungi da noi le donne meste;   Ajace ami Tecmessa t noi sol puote  Tener ne’lacci suoi lemina allegra. (71)  Non fa giammai che a voi porgessi preci,  O Andromaca o Teome^sa , onde a me foste  O r una o Valtra amiche. Appéna posso  Creder che in letto maritar giaceste,  Quando, a crederlo astretto io son da^iiglL  Fprse ad Ajace la dolente sposa ‘  Avrà detto : mia luce, e gli altri accenti,  Cari agli uomin|^ tanto f £ chi mai Vieta,  Applicar gravi esempli a tenni cose,   E di guerrier non paventare il npmef  Cento soldati a questo^ il Duce esperto (72]^  Diè a regger cop la vite ,|è a quello cento  Cavalieri, e lasciò'T altro in custodia ^  Delle l^andiere A; qual vedete impresa  Atti noi siamo ; e^nel suo posto'o^gntipo ^  Venga locato. Un ricco a voi dia doni^ '  Vi sia propizi o, il Giudice , e ; il facondo ‘  Difenda i dritti vostri .'|loi poeti ,   Donp possiam far solo di carmi.   3a più degli altri amare il coro nostro;   (71} Andròniaca dopo ìa rnòrté ^&toré amato sud  sposo , r dopo V incendio di-Trofa-fpssssò for i rn i s uns nm  ti alle nozze di Pirro ^ e però vìsse con ^uosto/s^ssai  malinconicà. Teemessa , moglie di Ajace, er^ una  schiava y e però, secondo Ovidio y. doveva aver sempre  Vanirne occupato da una grave, tristezza*   (711) Da/ Comandante solevansi affidile^cento sol-  dati al Centurione il quale aveva per sua insegna U 9  ramo di vite. Uua grata beltà cott ampie lodi  Sappiamo celebirare , e va fainoso  Dì Nemesi per noi, di Cinzia il nome. (78)  E dove nasce, e dove muore il Sole  Conobbero Licori., e chieggon molti  Chi sia Corinna nostra. Aggiungi a questo  Che son T insidie ignote a" sacri Vati,   Che giova V arte nostra a^ lor costumi.  Kpa ambiziosa voglia, e non desio  D’aver ci punge . Noi sprezziamo il fòro  E son graditi a noi V ombra ed il letto.  Facili amiamo ognor con certa fede,   £ in vasto incendio, il nostro core abbrucia.  Con placid’arte docile T ingegno  Facciamo , e ben s* adattano co* nostri  Studj i postumi. A* Vati aonj, o donne.  Siate indulgènti, che gl^inspira un Nume,.  E lor son fauste le pierie uive. (74)   Ci agita un Dio.; abbiam col Cièl commercio;.  Ci vien lo spirto dall* eteree sedi. *  Chiedere il pre^o è scelléra^in grande  Ad ottimo Poeta . Oh me infelice.   Che scelle raggio tal piti non si teme  Dalle jauciulle • ALmen dissimulate,   Nè vi fate veder tosto rapaci.   No , non cadrà nella prevista rete  Un novèllo amatore . Il Cav^aliero    (y3) Nemesi fu amata a celebrata da Tibullo, Cia*  zìa da Properzio , tdcori da Gallo , a Ovidio ha^da^  to ne^ suoi versi alla propria amante il nome, di  Corinna.   (74) Le Muse si chiamavano le Dive pierie , 0 per^  chi abitarono nel monte Pierio in Tessaglia , o per--  che vinsero e trasformarono in gazze le figlie di Pierio.Non reggerà T indomito cavallo  Al par di quello che già al freno è avvezzo*  Nè lo stesso sentier batter tu dei  Per adescar la verde gìoventude,   E le menti già stabili per gli anni*   QuelP inesperto, che la prima volta  Sotto si pone all* amorose insegne.   Che preda nuova nel tuo letto giacque.  Te sol conobbe, e a te sia unito ognora;  Si cìnga d’ alte siepi una tal messe.  Schiva d’aver rìvjaì;ta vincerai,   S* ei r amor suo con altra non divide;   1 regni e amor non vogliono compagni.  Quel che invecchiò nell’ amoroso agone.  Con prudenza amerà, saprà soffrire  Ciò che invan soffrirla guerrier novello.  Non frangerà le porte, e non furente  Fiamma v’ applicherà. Non dell’ amata  Farà con 1’ unghie ingiuria al delicato  Volto ; e non straccerà della Fanciulla  Le vesti, e non le proprie ; e per dolore  Non svellerassi i crini • Questi eccessi  Convengon solo a’ Giovanetti acerbi  Caldi per poca età, per troppo amore.  Tranquillo ei soffrirà la cruda piaga;   Qual face inumidita a foco lento  Abbrucìerassì, o quale in giogo alpestre  Fresco ramo reciso : è quest* amore  Più certo , è quel più breve e più fecondo.  Con sollecita man cogliete i pomi  Che fuggon. Tutto ormai s* insegni; schiuse  Son le porte al nemico ; e siate fide  Mentre ingannate altrui. Facil Donzella  Puote mal conservare un lungo amore.  Sla la ripulsa rara » e venga sempre  Da lieti scherzi accompagnata • Giaccia  Alla porta nrosteso , alto gridi:   Porta crudele ; e molte cose umile  Faccia 9 e molt^ altre minaccioso. Il dolce  Noi mal soffriam ; ci sana il succo amaro;  Pere spesso la nave » e fausto ha il vento.  Ecco perchè non amansi le mogli;   Seco stanno i mariti a grado loro.   Chiudi la porta 9 e in aspro suon TuBciero  Gli dica f entrar non puoi ; escluso, in seno  Di lui per te si desterà l’amore.   Deh riponete i rintuzzati brandi;   Con gli acuti si pugni, ch^ io con l’armi  Mie già non temo d’ essere assalito.  Mentre ne^ lacci un amator novello  Cade, gli fa sperar xhe del tuo letto  Solo godrà ; poscia il rivai conosca  E i divisi piacer ; senza quest’ arte  Amor illanguidisce • Il generoso  Destrier,se venga dal suo career schiuso.  Corre velocemente , se il preceda  Altri nel corso, o se lo segua . Estinto  Ancor che sembri l’amoroso foco  Con nuova ingiuria si riaccende, ed io,  Lo deggio confessar, soltanto offeso  Nutro r amor . Non troppo manifesta  Sia la causa del duolo ; e ansioso creda '  L’ amante che maggior fia ancor l’offesa  Di quello che gli è noto ; ed or l’inciti  L’aspra custodia di fallace servo,  n geloso rigore or del marito;   E men grato il piacer senza contrasto*    Digitized by Google     I2S   Èeiichè tu sii di Taide più. }asciya,(75)  Fingi timpri ; e ancor che per la porta  Meglio il possa introdar , fa eh’egli venga  Dalla finestra, e nel tuo volto i segni  Mostra di Donna da timor sorpresa»   Venga l’ancella frettolosa, e dica:   Ah siam perduti 111 trepido Garzone  Allora ascondi; col timor si debbe  Mischiar piacer sicuro, onde 1’apprezzi»  Come il marito accorto e il vigli servo  Si possano ingannare i’avea taciuto*   Tema una Sposa il suo Consorte^ e viva  Certa che altri la guarda ; è ciò decente;  Vuol ciò il padoi:, la legge, e F equitade.  Chi soffrirà che custodita sii  Tu , che or la verga del Prétor redense? (76)  Odiose vuoi ingann^kT, miei sacri carmi»  T’ osservio puro occhi miglior di quei (77)  Ch’ebbe il guardiano d’io , sii risoluta,   £ tesserai l’inganno • E puote invero  Chi t’ ha in custodia a te vietar che scriva  Se non si vieta a te di gire al bagno?   E se potrà, de’tuoi segreti a parte,    (75) Terenzio ha dato il nome di Taide ad una  donna lasciva, che forma la parte principale della  sua Commedia intitolata /^Eunuco.   (76) Parla qui il poeta delle donne schiave y che  divenivano libere quando il Pretore aveva toccato al»  le medesime il capo con una vèrga detta yindiqta ,  e che occupavano nelle case delle Matrone Romane  unposto corrispondente a quello delle nostre Cameriere.   C77) (Giunone diede, cento occhi ad A^go custode  d'io, perchè potesse soddisfare esattamente al suo  incarico, ma il Dio Mercurio Pàìsdpì col suono del*  la lira , e gli recise la testa.    Digitized by Google     129   Recar V ancella i foglj ricoperti  Nel caldo seno da una larga fascia^   O nasconderli avvinti infra le gambe,   O sotto i piedi f Se a tè ciò il custode  Vieti , P ancella porgerà le spalle  Di carta invece, e porterà su queste  li^amorose tue cifre impresse. Un foglio  Con fresco latte scrìtto inganna 1’ occhio^  Con la polve l’aspergi del carbone, *   £ legger lo potrai • Del paro inganna  Lettera pura in cui sia stato scritto  Con la punta del lino inumidito,   E le note ‘segrete incise porta . (jB)  Intento Acrisie a custodir la Figlia, (*^ 9 )  In opra pose ogni più esatta cura:   Eppur col suo delitto il fece eli’ avo.   E che farà il Custode, se cotanti  Sono in Roma Teatri, e se a suo grado    (^8) Non mancano a^dì nostri degli inchiostri sìrw^  patiei y che superano ne^loro effetti la virtù degli  antichi. Con un^ oncia di Ut or girlo y e cinque d^ace»  to stillato si fa un composto , che chiamasi aceto di  Satarno. Con questo si scrioe sulla carta bianca , e  quando è asciutta non si scorgono in alcun modo i  caratteri. Si sparge quindi sopra la carta una picco^  la porzione d* un liquore fatto con un* oncia d* or pig¬  mento e due once di calce viva sciolta nell* acqua ;  éd allora compariscono i caratteri d*un coloraperfet’-  tamente nero.   Il calore e la luce coloriscono altresì i caratteri  scritti con alcune soluzioni metalliche allungate con  Vacqua , cioè con quella dell* oro , dell* argento , e  principalmenie del bismuto. La tintura di galla è  pure ì^n inchiostro simpatico , purché si faccia passar  sopra di essa una qualunque marziale dissoluzione,   ( 79 } Annota (a del lÀb. presente.    Digitized by Google     i3o   Può rimirar le corse de* destrieri f  Quando nel tempio d’Isi assister puote (8c)  Al concerto de* sistri, e p^pte in altri  Lochi ella gire » ove l’ingresso poi  È vietato a’ compagni ? Se da’ templi  Della Dea Buona può fuggir gli sguardi (8i)  D’ogni uom fuor di quel eh’ ella desia f  lyientre il Custode fuor del bagno serba  Gli abbigliamenti della sua Padrona,   Se può mrtivo nel; sicuro bagno  Celar 1* Aàotante ? Se ove 1’ uopo il chiegga  Per finto morbo giacerà 1’amica, ,   O se per vero , a lei cederà il letto? .  Quando la chiave adultera col suo  Medesmo nome cosa far c’insegna^   Nè sol la porta dà il bramato ingresso?   S’inganna pur con molto vin la cura  Di vigile Custode , ancor che colte  Vengan l’uve nell’aspro ispano giogo. (8a)  Vi sono ancora i farmaci che al sonno  Aggravan le pupille quasi vinte  Dalla notte letea • Nè mal trattiene  La non ignara ancella l’importuno  Con le tarde delìzie, end’ ella possa  Star col suo vago quanto più le piace.  Che far tante parole, e cosi lievi  .Gli uomini non potevano interpénire nel Tenu»  pio d'Iside , quando le donne celebravano le sue fo»  ste col serbarsi , almeno apparentemente, easte per  molti giorni,   (81) Era agli uomini vietato V ingresso nel Tem»  pio della Dea Buona o sia di Cibele.   (8fl) Denota il Poeta il vin poco generoso, che i  Romani facevano venire dalia Laleiania in  gna provincia di Spagna*    Porger precetti , se con picciol dono  Si corrompe il Custode ? A me lo credi.  Gli Uomini e i Dei guadagnansi co’doni,  £ i doni placan pur lo stesso Giove.   Che farà il saggio , se de’ doni ancora  Gode lo stolto ? Ricevuti i doni,   Si farà muto anco il marito istesso.   Per tutto Panno guadagnar si debbo  Una volta il Custode , e quelle mani  Che un di vi diede, vi darà sovente.   Feci querela , e l’ho ferma in pensiero  Che temer si dovessero i compagni;   Nè diretta soltanto all’ uomo è questa.   Se credula sarai, carpirann’altre  1 tuoi piaceri, e avrai cacciato il lepre  Per esse. Quella, che t’appresta il letto,   E che officiósa a te concede il loco.  Giacque più. volte , a me lo credi, meco.  Nè troppo bella sia l’ancella tua;   Sovente meco fe’della padrona  Ella le veci. Ah ! dove ora mi lascio  Io stolto trasportar ? Perchè contrasto  Col petto inerme contro il mio nemico,   Ed io da me medesmo mi tradiscof  Come pigliar si debba al cacciatore  L’auge! non mostra y ed a’ nocivi cani  Come inseguirla non la cerva insegna.   L’ utll vostro mi piace : io fedelmente  Vi spiegherò i precetti , ed alle donne Di Lenno io porgerò contro il mio fato   Lè Donne di Lenno in una notte, uccimo i  loro mariti , e però Ovidio sotto il nome di  tende quelle che con gli uomini sono troppo severe»    Digitized by Google      iSà   Da me stesso il coltello. Ahi fate in modo  ( Ardua non è V impresa ) che crediamo  D’ esser amati , mentre ogutìno crede  Farcii ciò che desia. La donna miri  Con infocato sguardo il fido amante,  Tragga dal sen sospir profondo, e chiegga  Perchè sì tardi venne. Aggiunga il pianto,  E finga gelosia della rivale,   £ gli percota con le mani il volto.   Tosto vivrà sicuro, e nel suo petto  Facile nutrirà per te pietade,   E dirà fra se stesso : ah si consuma  Questa per me d*amore i e specialmente  Se lo specchio consulta, e colto sia, ^   D’innamorar ei penserà le Dee.   Ma a te chiunque sii, grave disturbo  Non arrechin le ingiurie, e sbigottita  Non ti mostrar, della rivale il nome  Allor che ascolti, e facile credenza  Non presta aMetti altrui. Ah quanto nuoccia  Il creder facilmente, a te lo dica  Quello che adesso narrerò di Proori. ( 84 )  Scorre vicino del fiorito Imetto ^   A’ be’ purpurei colli un sacro fonte.   Di cui le sponde ognor fan grate e molli  Verdi cespnglj . Ivi non alta selva   (84) Procri figlia d* Eretteo Re Atene per sos-  petto di gelosia si portò segretamente nelle selve e  né* boschi ad osservar Cefalo figlio di Mercurio , sua  Sposo , ed ottimo cacciatore . Mentre egli prendeva ri-  .poso in un ombroso colletto , essa celandosi dietro alle  siepi , mosse disgraziatamente le foghe degli alberi»  Credè Cefalo che s* ascondesse fra quelle una fiera y e  però vi scagliò una saetta che gli uccise la lua dì*  letta consorte. Un l^co forma; gli arboscelli l'erba  Ricoprono, e un soave odore esalano  II rosmarin, l’alloro, il negro mirto.  Non il tenne citiso, il colto pino,   E il fragil tamarisco ivi già manca^   E non folto di foglie il busso. Scosse  Da dolci aeffiretti « e da salubre  Aura treman le foglie mnltiformi,   £ le cime dell^ erbe. Ama la quiete  Cefalo. Abbandonati i servi e i cani.   Ivi stanco il Garaon spesso s’adagia;  Solea cantar : mobil auretta , vieni  Onde t’accolga nel mio seno, e allevj  Il cocente càlor. Le intese voci  Da un malaccorto far recate intere  Alle timide orecchie della moglie.   Tosto che Procri il nome adì dell’aura,  Qnal fosse uua rivale, a terra cadde;  Ammutolissi pel dolor ; nel volto  Impallidid^ come le tarde foglie.   Se colte sieno dalle viti l’uve.   Sogliono impallidir dal verno offese,   O i maturi cotogni, i di cui rami  Piegansi, o le corniole ancor non atte  A* cibi nostri. Tosto che; rinvenne.  Straccia dal petto suo le tenui vesti.   Con V unghie impiaga le innocenti guance.  Jndugie non conosce, e qual Baccante  Mossa dal J'irso , furibonda vola  Per le pubbliche vie, sparsa i capelli.   Ma già vicina, in una valle lascia  I suoi seguaci ; intrepida e furtiva  Nel bosco con piè tacito s’innoltra.  QuaPera il tuo consiglio, allor che stolta.    Digitized by Google      i34   O Procri, t’ascondeyi ; e quale ardore  NelPattonito séno allor ti corset  Già tu pensavi di sorprender l’aura  Qualunque fosse, e di mirar co’proprj  Occhj P infedeltà del tuo Consorte.   Quivi d’esser venuta ora Rincresce;   Or la rivale di mirar ti piace,   Ed or ti penti ^ opposti affetti in seno  Destan tumulto. A creder la costringe  ( Che quel che tenie ognor crede l’amante )  L’accusatore, il loco , il nome. Quando  SulP erbe vide impresse Torme umane,  Balzolle il cor nel pauroso petto.   Già T ombre brevi aVea il meriggio strette,  E in spazio egual giaceva l’Occaso e l’Orto,  Allor che di Mercurio il figlio Cefalo  Dalle selve ritorna, e T innainmate  Guance delTacque di quel fonte asperge.  O Procri, tu t’ascondi ansiosa ; ei giace  Sull’ erbe consuete, e vieni disse,   ZefHro fucile, o molle curetta vieni.  Quando conobbe il dolce error del nome,  AlT infelice il cor tornò nel seno,   E il primiero color sul volto suo.   S’alza, movendo il corpo e move ancora  Le frondi circostanti ; e fra le braccia  Va per gittarsi del marito • Mosso  Credendo quel rumor da qualche belva,  Imprudente la man slancia sull’arco.   Ed ave i dardi già nella sua destra.  Infelice che fai? non è una fiera,  rw Deponi ì dardi.... Oimè la tua consorte  Dalle saette tue giace trafitta.   Oh me infelice i eéclamà ; in petto amico   Vibri il tuo dardOi o sposo. Ah che fa sempre  Da te questo trafitto! Io pria del tempo  La morte trovo « noa offesa almeno  Da un rivale .^h farà ciò la terra,   Ov* io riposi, a nae cara e leggiera.   Fra quest’aure ^ che odiai sol per un nome.  Già spazierà il mipspirto.. oh Dio!•• vacillo...  Mi chiuda i lumi quella destra amata.   Le membra moribonde egli sostiene  Nel mèsto seno, e la crudel ferita  Con le lagrime asperge^ Ella già spira,   E la bocca del misero marito  Lo spirto accoglie che dal petto incauto  Deir infelice, Porcri alfine eeala.   Ma sul sentier si torni. lo debbo adesso  Agir palesemente , onde il naviglio  Indebolito tocchi i porti suoi.   Ch* io ti scorga a conviti aspetti forse,   E ch^ io ti guidi in questo pure attendi ?  Non t’affrettar; vien tardi, e già sia posta  La lacerna i e decente i passi volgi.   Grato è a Vener Findugio, e molto giova.  Benché bratta tu sii, sembrerai bella,   Che coprirà la notte i tuoi difetti.   .Prendi co’ diti il cibo ; havvi pur Parte  Nel modo di cibarsi ; con l’immonda  Mano cerca n on ungerti la faccia;   Nò mangiar prima in casa, ma t’astieni  Dal farlo allor che avrai mangiato meno  Di quel che il ventre tuo capè, e tu brami.  Paride, se veduto avesse Elena  Cibarsi avidamente, avria per lei  Nutrito sdegno , e detto fra se stesso:   Ah fui ben stolto nel rapir costei!    Digitized by Google     i36   Meno disdice a donna il ber , che Bacco  £ di Venere il figlio uniti vanno.   Sì beva pur fin che il permetta il capo,  E Talma e ì piè siaxi atti a* loro nfficj ,  Nè raddoppiati sembrinti gli oggetti.  Donna che giaccia per soverchio vino,   £ turpe, e di soffrir merta ogni assalto.  Sparecchiata la mensa, è gran periglio  Cadervi per il sonno; in mezzo a quésto  Molte si soglìon far cose impudiche.   Io di stender più innanzi i^niiei precetti  Sento rossor. La figlia dionea  Mi disse : utile è a noi quelPòpra ìstessa  Che in se desta vergogna. A voi si sveli.  Donne, ogni fatto. I varj atteggiamenti  Noti vi sien , che a tutte non conviene  La medesma figura. Tu che sei  Pel volto insigne, giacerai supina»   Quella che ha bello il tergo, il tergo mostri.  Recava Melanion sulle sue spalle  Le gambe d’Atalanta ; se sian belle.   Si dee imitare allora un tale esempio.  Porti il cavai pìccola donna ; avéa  Statura immensa la tebana sposa; (85)  Suirettoreo cavai però non giacque.  Quella che può mostrare un lungo fianco^  Prema con le ginocchia il letto, e alquante  Ritorca la cervice. Chi le membra  Ha giovanili, e senza macchie il seno^  Mentre Puomo sta in piedi , ella corcata  Giaccia obliqua sul letto. Nè già turpe  Credete scioglier qual Baccante il crine.    (OS) XeSpoifk tsUoa ^ 4fl4rQmcé mQglk    E ondeggiando i capei, piegate il collo.  Tu pure, a cui la pronuba Lucana  :  Macchiò il ventre di rughe , imita il Parte  Quando combatte sul cavai fugace, ,   Ben mille son di Venere le foggie,.   Ma la piò facil, di minor fatica  È quella, in cui semisupina giace  Sul destro fianco, I Tripodi febei,,   O il cornigero Ammon cosa piò vera ( 87 )  Non conteran di quel che or la mia Musa-  Se Parte , che ci costa un lungo studio,  Merita fè, credete^, ancor che i carmi  Nostri eccedano forse ogni credens^à»  Venere abbrugi le ' midolle e V ossa  Delle donne, e sia caro ad ambedue  Lo scambievol piacer. Un mormorio  Dolce, e parole lunsin^hiere e grate  Non manchino, nè tacita si stia  In mezzo ascari scherzi unqua la donna.,  Tu , cui d’amor negò Natura il gaudio,  Finger lo devi con mendace suono;    Lucina è un nome di Giunone , la quale pre^  siede a^ matrìmon) ed apparti,  I Greci dopo d^ a^er ointo i Persiani nella  battaglia di Platea, levarono una decima suUe spo^  glie per fare un Tripode d^ oro eonsagrato ad Apollo,  Ateneo lo chiama il Tripode della verità , perchè si  ritrovavano verissimi gli oracoli di questo Dio,   Ammone è un soprannome di Giove, Quinto Curzio fa menzione del magnifico Tempio che gli fu edi¬  ficato nella Libia , La sua statua avea la figura d*a-  liete , e però si chiama cornigero Ammone. Dava essa  de* certi oracoli a chi la consultava , ed era a guisa  d* un automa, che crollava la testa per additare a*Sa^  cerdoti la strada, che dovean fare quando la porta^  vano in processione. Ben infelice e miseranda donna  È quella, che a sa stessa ìnntil tragga^  Inutile pèr Tuomo i giorni suoi.   Mentre e#ò fingerai, che non ti scofira  Cerca, é "col moto , fin con gli occhi stessi  Procura d’ingannar. Faccian palese  Un frequente respiro e dolci accenti  Quello , che giova. Termini novelli  Sa la donna inventare in quegristanti»  Quella, che chiede dopo il gaudio i doni,  Non sia molesta almen con le preghiere.  Nè il pieno giorno introdurrai nel talamo,  Chè giova a voi tener del corpo vostro  Molte cose celate. Ha fine il gioco;   È tempo ornai di scendere da’Oigni,   Che sul collo guidaro il nostro cocchio;   E come fero i giovanetti un giorno.   Così la turba delle donne scrìva  Sulle spoglie ; Nason ci fu maestro. Gianni Carchia. Keywords: ars amandi, erotica, il bello, la comunicazione dei primitivi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carchia” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Cardano: l’implicatura conversazionale del valore civico di Melanippo -- Caritone -- the tasteful Milanese maschi – prospero -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pavia). Filosofo italiano. Grice: “I’m sure Cardano does not mean chance by aleae! It’s a Roman notion, not an Arabic one!” Grice: “Cardano is a fascinating philosopher, but then so is I [sic]!” Grice: “My faavourite philosophical topic by Cardano is what he calls, well, his Italian translators call – recall that Italian philosophy is written in the ‘learned’! – ‘gioco d’azzardo’, ludo alaea – which is what conversation is – what is conversation is not a game of azzardo? But Cardano also refutes all that Malcolm says about ‘dreaming,’ never mind Freud – Italians are obsessed with a male sleeping: Rinaldo, Tasso, Botticelli (“sleeping Mars”), not to mention the search for the Etruscan equivalent to ‘oneiron,’ the god – one of my most precious souvenirs is a little medal of Cardano: not so much for his very Roman nose (charming as it is) but for the backside, which represents Oneiron, indeed, aong the ladies!” Poliedrica figura del Rinascimento. Riconosciuto come il fondatore della probabilità, coefficiente binomiale e teorema binomial. A lui si deve anche la parziale invenzione dell’ implicatura e della serratura, della sospensione cardanicache permette il moto libero, ad esempio, delle bussole nautiche ed è alla base del funzionamento del giroscopioe della riscoperta del giunto cardanico. Animos scio esse immortales, modum nescio. So che l'anima è immortale, ma non ho capito come funzioni la cosa. Figlio del nobile Fazio, un giurista esperto nella matematica tanto da essere consultato da da Vinci su alcuni problemi di geometria.  Fazio conobbe a Milano la vedova, madre di tre figli, Chiara Micheri (o de Micheriis) di cui s'innamora iniziando con questa, che vive con la famiglia del defunto marito, una relazione clandestina che porta al concepimento di un quarto figlio. Per non essere coinvolto nello scandalo prega un suo amico di Pavia, il patrizio Isidoro Resta, affinché assumesse Chiara come governante nella sua casa. Prima che lei partorisse, i suoi tre figli morirono quasi contemporaneamente di peste e lei tenta allora di abortire, senza riuscirci, del nascituro che ebbe il nome di Gerolamo e che lasciò scritto nella sua autobiografia. Dopo che mia madre tenta senza risultato dei preparati per abortire, vengo alla luce a Pavia. Come morto, infatti, sono nato, anzi sono stato strappato al suo grembo, con i capelli neri e ricciuti. Il bambino contrasse la peste dalla sua balia, che ne morì, e fu allevato da altre nutrici. E trasferito a Milano dal padre che anda ad abitare con lui solo quando ha solo sette anni, età in cui prese ad accompagnare il padre nei suoi viaggi d'affari. Essendo delicato di salute, si ammala gravemente. Solo dopo una lunga convalescenza poté riprendere a viaggiare con il padre dedicandosi nel frattempo agli studi di filosofia, nei quali ha modo di eccedere per le sue doti quando puo iscriversi a Pavia e Mantova per studiare filosofia, contrariamente ai desideri del padre che avrebbe preferito avviarlo agli studi giuridici.  Lasciata Milano in preda alla peste e sconvolta dalla guerra francese, si trasfere a Padova e si laurea a Venezia. E oggetto dell'astio che molti tutori hanno nei confronti di quello tutee geniale ma dal carattere scontroso e talora offensive. Sono poco rispettoso e non ho peli sulla lingua, soprattutto mi lascio trascinare dall'ira, al punto che poi mi dispiace e me ne vergogno. Riconosco che tra i miei vizi ce n'è uno molto grande e tutto particolare: quello di non riuscire a trattenermianzi ne gododal dire a chi mi ascolta ciò che gli risulta sgradevole udire. Persevero in questo difetto coscientemente e volontariamente, pur sapendo quanti nemici da solo mi abbia procurator. Nel frattempo a Milano e morto il padre che ha regolarizzato la sua convivenza sposando la madre del filosofo.  Non potendo tornare a Milano per l'epidemia e la guerra, prese dimora a Piove di Sacco. Esercita la sua professione a Gallarate.  Ottenne la cattedra per l'insegnamento della filosofia presso le scuole Piattine di Milano, dove aveva insegnato anche il padre. La sua fama di esperto dottore si accrebbe per aver risanato alcuni membri della famiglia Borromeo. Dovette rifiutare alcuni incarichi di prestigio perché non retribuiti fino a quando e ammesso nel Collegio dei medici di Milano. Accetta di ricoprire la cattedra di filosofia a Pavia, rifiutando le offerte che gli venivano reiterate dal papa Paolo III. Cura, con esiti positivi, l'arcivescovo di Edimburgo John Hamilton, malato d'asma. Intuì probabilmente la natura allergica della malattia proibendo a Hamilton di usare cuscini e materassi di piume. Per aumentare la sua fama volle fare l'oroscopo all'arcivescovo e al re, e lesse nelle stelle un futuro radioso per entrambi. Hamilton fu impiccato quasi subito dai riformatori. Il re muore di tubercolosi. Rifiuta le prestigiose e ben retribuite offerte del re di Francia e della regina di Scozia.  Colpito da un doloroso avvenimento riguardante il figlio Giovanni Battista, medico anche lui, che, nonostante gli avvertimenti del padre, aveva voluto sposare una donna povera e di cattivi costume. Per necessità economiche il figlio coabita dai parenti della moglie avviando una convivenza caratterizzata dalla nascita successiva di tre figli e da continui litigi dovuti anche alle infedeltà della moglie che egli decise di uccidere, con la complicità di una serva, facendole mangiare una focaccia avvelenata con l'arsenico. Arrestato subito per uxoricidio, il figlio confessa il delitto e dopo un veloce processo, nonostante la difesa con tutti i mezzi messa in atto dal padre, fu condannato alla decapitazione. Gerolamo, convinto che la durezza della condanna fosse dovuta all'invidia dei suoi colleghi, per sfuggire alle malevole voci che lo accusavano di intrattenere rapporti illeciti con i suoi tutee, si trasfere a Bologna. Venne ulteriormente amareggiato dalla condotta scapestrata del figlio Aldo che lo diffama per tutta la città e che arriva a derubarlo così che il padre dovette denunciarlo alle autorità che espulsero il figlio dal territorio bolognese. A questa disgrazia si aggiunse inaspettata la notizia che si stava preparando contro di lui un'accusa di eresia tanto che il cardinale Giovanni Morone gli consigliò di lasciare il pubblico insegnamento della filosofia. Questa misura prudenziale non valse però a salvare Gerolamo che fu arrestato per eresia assieme al suo tutee Rodolfo Silvestri che non volle abbandonare il tutore. Non si conoscono le accuse che gli erano rivolte dall'Inquisizione. Tuttavia si era distinto per una certa imprudenza nei confronti della Chiesa, governata dal severo Papa Pio V, per aver compilato un oroscopo di Gesù, la cui vita così sarebbe stata decisa dalle stelle, scritto l'encomio di Nerone, persecutore dei cristiani, e soprattutto per i suoi confidenziali rapporti con i circoli protestanti frequentati dal suo tuteei, dal genero e dall'editore e tipografo dei suoi libri. Nonostante le testimonianze a suo favore di quasi tutti i suoi tutee, Cardano fu messo in carcere e poi agli arresti domiciliari sino a quando la Sacra Congregazione tramite l'inquisitore di Bologna gli impose la professione dell'abiura prima in forma grave (de vehementi) coram populo e successivamente in forma meno infamante (coram congregationem).  Si sottopose docilmente alla abiura promettendo in una lettera a papa Pio V di non insegnare più pubblicamente filosofia (la cattedra all'università gli era stata intanto tolta) e di non pubblicare altre opere.  Lasciata Bologna Cardano si trasfere, sotto la diretta protezione di Pio V, a Roma dove fu ben accolto ma gli fu negata una pensione che gli fu invece assegnata da Gregorio XIII che era stato suo tutee a Bologna..E ammesso al Collegio romano. Si dedica alla composizione della sua autobiografia De vita propria. Il punto focale della sua filosofia è il concetto rinascimentale di “uomo universale" che dà alla sua ricerca della verità un contenuto enciclopedico. Scrive più di duecento opere che solo in parte furono pubblicate nel XVI secolo e che, altrettanto parzialmente, confluirono nei dieci volumi della monumentale “Opera omnia” dove si trattano temi di metafisica, omosessualita, mascolinita, il machio, il maschile, la medicina, scienze naturali, matematica, astronomia, scienze occulte, tecnologia. Egli, che si occupa anche della interpretazione dei sogni, della chiromanzia, della numerologia, del paranormale rende difficile distinguere nella sua filosofia il contenuti moderno del sapere dalle tradizioni metafisiche e magiche del passato. Vuole arrivare a una sistemazione unitaria della molteplicità dei saperi così che la nostra incerta conoscenza eviterebbe la confusione se potesse discendere dall'uno ai molti. Ma questo obiettivo, di origine neo-platonica, sfugge però all'uomo il quale allora è preferibile che occupi il suo intelletto in quei campi dove riesce, quasi come un dio creatore o ‘genitore’ – o ingegnero, a fare le cose. Questo avviene nell’aritmetica che si incarna nell'esperienza in un rapporto astratto-concreto la cui definizione ancora non è in grado di elaborare  Dopo aver analizzato nel “De subtilitate” i molteplici principi delle cose naturali e artificiali, si rivolge allo studio di tutto l'universo e delle sue parti (De rerum varietate), che concepisce come legate da sim-patia (attrazione) e anti-patia (repulsione) fra gli astri e l'uomo) e connessioni che consentono al filosofo, che conosce il linguaggio della natura e gli effetti degli influssi astrali sulla vita sessuale umana, di compiere quei "miracoli naturali" che sono le magie, di elaborare previsioni astrologiche e di stendere gli oroscopi delle religioni come quello dedicato a Cristo.  Il contributo in matematica  Noto soprattutto per i suoi contributi all'aritmetica, pubblica le soluzioni dell'equazione cubica e dell'equazione quartica nella sua “Ars magna”. Parte della soluzione dell'equazione cubica gli era stata comunicata da Tartaglia. Successivamente questi sostenne che Cardano aveva giurato di non renderla pubblica e di rispettarla come di sua origine. Si avvia così una disputa che dura un decennio. Cardano sostenne di averne pubblicato il testo solo quando era venuto a sapere che il Tartaglia avrebbe appreso la soluzione dalla voce dal bolognese Scipione del Ferro. La soluzione di Tartaglia, pur essendo successiva a quella di Scipione Dal Ferro (comunque mai pubblicata), risulta essere indipendente da questa. La soluzione della equazione cubica è detta comunque di Cardano-Tartaglia. L'equazione quartica venne invece risolta da Lodovico Ferrari, un tutee di Cardano. Nella prefazione dell'“Ars Magna” vengono accreditati sia Tartaglia che Ferrari. Nei suoi sviluppi delle soluzioni occasionalmente si serve del concetto di numero complesso, ma senza riconoscerne l'importanza come invece saprà fare Bombelli. Nell'ambito della scienza medica, l'esempio di Vesalio, che negli stessi anni aveva contestato l'anatomia galenica, spinse Cardano a definire Galeno un cattivo interprete di Ippocrate. Le sue critiche a Galeno erano comunque presentate come parte integrante di un tentativo di recuperare una tradizione ancora più antica e, si presumeva, più autentica. Fu il primo a descrivere la febbre tifoide. Venne invitato in Scozia a curare l'Arcivescovo di Sant'Andrea che soffe di asma probabilmente d'origine allergica. Seguendo i precetti di Maimonide riusce a guarirlo utilizzando delle cure modernissime per l'epoca: eliminare piume e polvere e mantenere una dieta controllata. Al ritorno dalla Scozia si ferma a Londra, dove incontrò il re d'Inghilterra per il quale redasse un oroscopo secondo il quale prospetta Edoardo VI una lunga vita seppure turbata da alcune malattie. La sua fama di si diffuse in Inghilterra tanto da interessare Shakespeare che nella "Tempesta" rappresenta un personaggio molto simile a Cardano ed inoltre una prova della sua perdurante popolarità può essere vista nel fatto che un’edizione del suo ‘De Consolatione’ è proprio il libro che Amleto tiene in mano quando recita il suo celeberrimo monologo ‘Essere o non essere’. De subtilitate e il libro che Amleto tiene in mano all'inizio del secondo atto, quando Polonio gli domanda cosa stia leggendo e lui risponde: "parole, parole, parole". Progetta inoltre svariati meccanismi tra i quali:  la serratura a combinazione; la sospensione cardanica, consistente in tre anelli concentrici collegati da snodi, in grado di ospitare una bussola o un giroscopio, garantendo la libertà di movimento dello strumento; il giunto cardanico, dispositivo che consente di trasmettere un moto rotatorio da un asse a un altro di diverso orientamento e viene tuttora usato in milioni di veicoli. Ma pare fosse già conosciuto, anche se porta il suo nome perché appare nella sua opera De Rerum Varietate  in una illustrazione navale. L'invenzione di questo tipo di giunto in realtà risale almeno al III secolo a.C., ad opera di scienziati greci come Filone di Bisanzio, che nella sua opera Belopoiika lo descrive chiaramente. Egli dette svariati contributi anche all'idrodinamica. Sostene l'impossibilità del moto perpetuo, con l'eccezione dei corpi celesti. Pubblica anche due opere enciclopediche di scienze naturali che contengono un'ampia varietà di invenzioni, fatti ed enunciati afferenti all'occultismo e alla superstizione: il De Subtilitate e successivamente il De Varietate. Introdusse la griglia cardanica, un procedimento crittografico.A Cardano è attribuito anche il gioco rompicapo descritto nel De subtilitate, ma probabilmente risalente a un periodo più antico, chiamato Gli anelli di Cardano. Altre opere: Della sua vita avventurosa e molto travagliata, rimane testimonianza nella sua autobiografia. Ebbe spesso problemi di denaro e per cavarsela si dedicò ai giochi d'azzardo per i quali ha una vera passione di cui si pente. Così ho dilapidato contemporaneamente la mia reputazione, il mio tempo e il mio denaro. (zeugma – segnato da ‘dilapidare’ – denaro, dilapidare il suo tempo, dilapidare la sua reputazione. Pubblica un saggio sulle probabilità nel gioco, “De ludo aleae” che contiene la prima trattazione sistematica della probabilità, insieme a una sezione dedicata a metodi per barare efficacemente. Oltre alla produzione dialettica, di carattere più strettamente filosofico sono invece il De subtilitate e il De rerum varietate, ampie raccolte delle sue osservazioni empiriche e delle sue speculazioni occultistiche.  Della sua produzione filosofica sterminata possono considerarsi come le opere più importanti:  De malo recentiorum medicorum usu libellus, Venezia (medicina). Practica arithmetice et mensurandi singularis, Milano. Artis magnae sive de regulis algebraicis liber unus (conosciuta anche come Ars magna), Nuremberg. De immortalitate. Opus novum de proportionibus. Contradicentium medicorum. De subtilitate rerum, Norimberga, editore Johann Petreius (fenomeni naturali). De libris propriis, De restitutione temporum et motuum coelestium; De duodecim geniturarum -- commento astrologico a dodici nascite illustri. De rerum varietate, Basilea, editore Heinrich Petri. Fenomeni naturali. De signo. De causis, signis, ac locis Morborum. Bologna. Opus novum de proportionibus numerorum, motuum, ponderum, sonorum, aliarumque rerum mensurandarum. Item de aliza regula, Basilea (matematica). De vita propria. Proxeneta  (politica).  Metoscopia libris tredecim, et octingentis faciei humanae eiconibus complexa, Liber de ludo aleae, postumo (probabilità). Le sue opere vennero raccolte e pubblicate a Lione  in 10 volumi. L’Encomio di Nerone. A lui è dedicato il cratere lunare Cardano e un asteroide. È intitolato a lui l'Istituto  "G. Cardano" della sua città natale, nel cui cortile interno è posta una scultura che rappresenta il giunto cardanico, nonché infine l'omonimo collegio universitario pavese.  La blockchain "Cardano" (ADA) prende il suo nome, in quanto basata su un approccio scientifico e matematico. Della mia vita. Somniorum synesiorum omnis generis insomnia explicantes (Basilea). tti del Convegno, Castello Visconti di San Vito, Somma Lombardo, Varese ed. Cardano); Università Bocconi. Equazione di terzo grado"  Il Rinascimento. Omeopatia e allergie, Tecniche Nuove); Cardano, Edizioni Cardano, Il Prospero della "Tempesta”  somiglia tanto a Cardano in Corriere. La tecnologia scientifica, in La rivoluzione dimenticata: il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Feltrinelli Editore); Il libro della mia vita, Cerebro editore); Della mia vita, Alfonso Ingegno, Serra e Riva editori, Milano). La formula segreta. Il duello matematico che infiammò l'Italia del Rinascimento. ileae, per Ludouicum Lucium); “De propria vita” (Milano, Sonzogno). Lugduni, sumptibus Ioannis Antonii Huguetan & Marci Antonii Ravaud. Aforismi (Milano, Xenia). Palingenesi. Dizionario biografico degli italiani. Il filosofo quantistico. L’avventure di Cardano, filosofo e giocatore d'azzardo (Bollati Boringhieri, Torino Edizione); “La mia vita” (Milano, Luni). Che sfortuna essere un genio. Indice delle Opera omnia Volume 1  Frontespizio  Lettera dedicatoria  Praefatio  Vita Cardani per Gabrielem Naudaeum  Testimonia  Elenchus generalis  Index librorum tomi primi  Previlege du roy 1De vita propria. De libris propriis. De Socratis studio. Oratio ad I. Alciatum Cardinalem sive Tricipitis Geryonis aut Cerberi canis. Actio in Thessalicum medicum. Neronis encomium. Podagrae encomium. Mnemosynon. De orthographia De ludo aleae  De uno Hyperchen. Dialectica Contradictiones logicae Norma vitae consarcinata, sacra vocata Proxeneta De praeceptis ad filios De optimo vitae genere De sapientia De summo bono De consolatione Dialogus Hieronymi Cardani et Facii Cardani ipsius patris Dialogus Antigorgias seu de recta vivendi ratione Dialogus Tetim seu de humanis consiliis Dialogus Guglielmus seu de morte De minimis et propinquis Hymnus seu canticum ad Deum De utilitate ex adversis capienda De natura Theonoston seu de tranquilitate Theonoston seu de vita producenda Theonoston seu de animi immortalitate Theonoston seu de contemplatione Theonoston seu hyperboraeorum historia De immortalitate animorum De secretis De gemmis et coloribus De aqua De vitali aqua seu de aethere De aceti natura Problemata Se la qualità può trapassare di subbietto in subbietto Discorso del vacuo  De fulgure De rerum varietate De subtilitate In calumniatorem librorum de subtilitate (Archivio)  Indice rerum De numerorum proprietatibus Practica arithmeticae Libellus qui dicitur, Computus minor Ars magna Ars magna arithmeticae  De aliza regula Sermo de plus et minus Geometriae encomium Exaereton mathematicorum De proportionibus Operatione della linea Della natura de principii et regole musicali De restitutione temporum et motuum coelestium De providentia ex anni constitutione Aphorismorum astronomicorum segmenta septem In Cl. Ptolemaei de astrorum iudiciis De septem erraticarum stellarum qualitatibus atque viribus (Archivio) 5.6De iudiciis geniturarum De exemplis centum geniturarum Geniturarum exempla  De interrogationibus De revolutionibus De supplemento almanach Somniorum synesiorum Astrologiae encomium Medicinae encomium De sanitate tuenda Contradicentium medicorum De usu ciborum De causis, signis ac locis morborum De urinis Ars curandi parva De methodo medendi (Archivio) 7.6De cina radice De sarza parilia Disputationes per epistolas liber unus (Archivio) De venenis In librum Hippocratis de alimento commentaria In librum Hippocratis de aere, aquis et locis commentaria (Archivio) In septem aphorismorum Hippocratis commentaria In Hippocratis coi prognostica commentaria In librum Hippocratis de septimestri partu commentaria 2Examen XXII. aegrorum Hippocratis Consilia De dentibus De rationali curandi ratione De facultatibus medicamentorum De morbo regio De morbis articularibus  (Archivio) Floridorum libri sive commentarii in Principem Hasen (Avicenna)  Vita Ludovici Ferrarii Vita Andreae Alciati De arcanis aeternitatis  (Archivio) 10.2Politices seu Moralium liber unus Elementa Graeca inventione De naturalibus viribus De musica Artis arithmeticae tractatus de integris (Archivio) 10.8Expositio Anatomiae Mundini In libros Hippocratis de victu in acutis commentariaIn libros epidemiorum Hippocratis commentaria De epilepsia De apoplexia De humanis civilibus successionibus (Paralipomena)  De humana perfectione (Paralipomena) Peri thaumason seu de admirandis (Paralipomena) De dubiis naturalibus (Paralipomena) De rebus factis raris et artificiis  humana compositione naturalium De mirabilibus morbis et symptomatibus (Paralipomena) De astrorum et temporum ratione et divisionibus (Paralipomena) De mathematicis quaesitis (Paralipomena) Historiae lapidum, metallicorum et metallorum (Paralipomena) Historiae animalium Historiae plantarum De anima De dubiis ex historiis (Paralipomena) De clarorum virorum vita et libris (Paralipomena) De hominum antiquorum illustrium iudicio. De usu hominum et dignotione eorum, tum cura et errore. De sapiente (Paralipomena.  De vita propria. De libris propriis. De Socratis studio. Oratio ad I. Alciatum Cardinalem sive Tricipitis Geryonis aut Cerberi canis. Actio in Thessalicum medicum. Neronis encomium. Podagrae encomium. Mnemosynon. De orthographia. De ludo aleae. De uno. Hyperchen. Dialectica. Contradictiones logicae. Norma vitae consarcinata, sacra vocata. Proxeneta. De praeceptis ad filios. De optimo vitae genere. De sapientia. De summo bono. De consolatione. Dialogus Hieronymi Cardani et Facii Cardani ipsius patris. Dialogus Antigorgias seu de recta vivendi ratione. Dialogus Tetim seu de humanis consiliis. Dialogus Guglielmus seu de morte. De minimis et propinquis. Hymnus seu canticum ad Deum. De utilitate ex adversis capienda. De natura. Theonoston seu de tranquilitate. Theonoston seu de vita producenda. Theonoston seu de animi immortalitate. Theonoston seu de contemplatione. Theonoston seu hyperboraeorum historia. De immortalitate animorum. De secretis. De gemmis et coloribus. De aqua. De vitali aqua seu de aethere. De aceti natura. Problemata. Se la qualità può trapassare di subbietto in subbietto. Del vacuo. De fulgure. De rerum varietate. De subtilitate. In calumniatorem librorum de subtilitate. De numerorum proprietatibus. Practica arithmeticae. Libellus qui dicitur, Computus minor. Ars magna. Ars magna arithmeticae. De aliza regula. Sermo de plus et minus. Geometriae encomium. Exaereton mathematicorum. De proportionibus. Operatione della linea. Della natura de principii et regole musicali. De restitutione temporum et motuum coelestium. De providentia ex anni constitutione. Aphorismorum astronomicorum segmenta septem. In Cl. Ptolemaei de astrorum iudiciis. De septem erraticarum stellarum qualitatibus atque viribus. De iudiciis geniturarum. De exemplis centum geniturarum. Geniturarum exempla. De interrogationibus. De revolutionibus. De supplemento almanach. Somniorum synesiorum. Astrologiae encomium. Medicinae encomium. De sanitate tuenda. Contradicentium medicorum. De usu ciborum. De causis, signis ac locis morborum. De urinis. Ars curandi parva. De methodo medendi. De cina radice. De sarza parilia. Disputationes per epistolas. De venenis. In librum Hippocratis de alimento commentaria. In librum Hippocratis de aere, aquis et locis commentaria. In septem aphorismorum Hippocratis commentaria. In Hippocratis coi prognostica commentaria. In librum Hippocratis de septimestri partu commentaria. Examen XXII. aegrorum Hippocratis. Consilia. De dentibus. De rationali curandi ratione. De facultatibus medicamentorum. De morbo regio. De morbis articularibus. Floridorum libri sive commentarii in Principem Hasen (Avicenna). Vita Ludovici Ferrarii. Vita Andreae Alciati. De arcanis aeternitatis. Politices seu Moralium. Elementa Graeca. De inventione. De naturalibus viribus. De musica. Artis arithmeticae tractatus de integris. Expositio Anatomiae Mundini. In libros Hippocratis de victu in acutis commentaria. In libros epidemiorum Hippocratis commentaria. De epilepsia. De apoplexia. Paralipomena. De humanis civilibus successionibus. De humana perfectione. Peri thaumason seu de admirandis. De dubiis naturalibus. De rebus factis raris et artificiis. De humana compositione naturalium. De mirabilibus morbis et symptomatibus. De astrorum et temporum ratione et divisionibus. De mathematicis quaesitis. Historiae lapidum, metallicorum et metallorum. Historiae animalium. Historiae plantarum. De anima. De dubiis ex historiis. De clarorum virorum vita et libris. De hominum antiquorum illustrium iudicio. De usu hominum et dignotione eorum, tum cura et errore. De sapiente.  Melanippus and Chariton (6th century BC) Italy Greek athletes  Lovers separator " ... Hieronymus the peripatetic says that the loves of youths used to be much encouraged, for this reason, that the vigor of the young and their close agreement in comradeship have led to the overthrow of many a tyranny. For in the presence of his favorite a lover would rather endure anything than earn the name of coward; a thing which was proved in practice by the Sacred Band, established at Thebes under Epaminondas; as well as by the death of the Pisistratid, which was brought about by Harmodius and Aristogeiton. "And at Agrigentum in Sicily the same was shown by the mutual love of Chariton and Melanippus - of whom Melanippus was the younger beloved, as Heraclides of Pontus tells in his Treatise on Love. For these two having been accused of plotting against Phalaris, and being put to torture in order to force them to betray their accomplices, not only did not tell, but even compelled Phalaris to such pity of their tortures that he released them with many words of praise.  "Whereupon Apollo, pleased at his conduct, granted to Phalaris a respite from death; and declared the same to the men who inquired of the Pythian priestess how they might best attack him. He also gave an oracular saying concerning Chariton - 'Blessed indeed was Chariton and Melanippus, Pioneers of Godhead, and of mortals the one most beloved'."  M/M: Chariton and Melanippus, Blessed Pair: Athenaeus, Deipnosophistae XIII.78  Like the Athenian couple Harmodius and Aristogeiton, the couple Melanippus and Chariton are also seen as symbols of political freedom.    Felix & Chariton & Melanippus erat,   mortalium genti auctores coelestis amoris.    εὐδαίμων Χαρίτων καὶ Μελάνιππος ἔφυ,  θείας ἁγητῆρες ἐφαμερίοις φιλότατος. Athenaeus, Deipnosophistae XIII.78; Translated in to Latin by Iohannes Schweighaeuser Chariton & Melanippus were blessed;  Pinnacle of holy love on earth.  ATHENAEUS  MAP:  Name:  Athenaeus  Date:  2nd c. CE  Works:  Deipnosophists     REGION  4  Region 1: Peninsular Italy; Region 2: Western Europe; Region 3: Western Coast of Africa; Region 4: Egypt and Eastern Mediterranean; Region 5: Greece and the Balkans    BIO:  Timeline:   Athenaeus was a scholar who lived in Naucratis (modern Egypt) during the reign of the Antonines. His fifteen volume work, the Deipnosophists, are invaluable for the amount of quotations they preserve of otherwise lost authors, including the poetry of Sappho.    ROMAN GREEK LITERATURE  ARCHAIC: (through 6th c. BCE); GOLDEN AGE: (5th - 4th c. BCE); HELLENISTIC: (4th c. BCE - 1st c. BCE); ROMAN: (1st c. BCE - 4th c. CE); POST CONSTANTINOPLE: (4th c. CE - 8th c. CE); BYZANTINE: (post 8th c CE)      Kris Masters at  11:51 AM  No comments: Share Saturday, September 25, 2021 M/M: Melanippus and Chariton, Two Lovers of Freedom Athenaeus, Deip. XIII.78 Like the Athenian couple Harmodius and Aristogeiton, the couple Melanippus and Chariton are also seen as symbols of political freedom.  ...ut ait Heraclides Ponticus in libro De Amatoriis. Hi [Melanippus & Chariton] igitur deprehensi insidias struxisse Phalaridi, & tormentis subiecti quo coniuratos denunciare cogerentur, non modo non denuntiarunt, sed etiam Phalarin ipsum ad misericordiam tormentorum commoverunt, ut plurimum collaudatos dimitteret.   ὥς φησιν Ἡρακλείδης ὁ Ποντικὸς ἐν τῷ περὶ Ἐρωτικῶν, οὗτοι φανέντες ἐπιβουλεύοντες Φαλάριδι καὶ βασανιζόμεναι ἀναγκαζόμενοί τε λέγειν τοὺς συνειδότας οὐ μόνον οὐ κατεῖπον, ἀλλὰ καὶ τὸν Φάλαριν αὐτὸν εἰς ἔλεον τῶν βασάνων ἤγαγον, ὡς ἀπολῦσαι αὐτοὺς πολλὰ ἐπαινέσαντα.   --Athenaeus, Deipnosophistae XIII.78; Translated in to Latin by Iohannes Schweighaeuser (1805)  According to The Lovers by Heraclides of Pontus, [Melanippus and Chariton] were caught plotting against Phalaris. Even when they were tortured to provide the names of their accomplices, they refused. Moreover, their plight moved Phalaris’ sympathy to such an extent that he praised them and released them.     ATHENAEUS  MAP:  Name:  Athenaeus  Date:  2nd c. CE  Works:  Deipnosophists     REGION  4  Region 1: Peninsular Italy; Region 2: Western Europe; Region 3: Western Coast of Africa; Region 4: Egypt and Eastern Mediterranean; Region 5: Greece and the Balkans    BIO:  Timeline:   Athenaeus was a scholar who lived in Naucratis (modern Egypt) during the reign of the Antonines. His fifteen volume work, the Deipnosophists, are invaluable for the amount of quotations they preserve of otherwise lost authors, including the poetry of Sappho.  ROMAN GREEK LITERATURE  ARCHAIC: (through 6th c. BCE); GOLDEN AGE: (5th - 4th c. BCE); HELLENISTIC: (4th c. BCE - 1st c. BCE); ROMAN: (1st c. BCE - 4th c. CE); POST CONSTANTINOPLE: (4th c. CE - 8th c. CE); BYZANTINE: (post 8th c CE)    KrisArmodio, che viene riparato dal braccio sinistro del compagno più adulto. Quel gesto inavvertito o solo genericamente descritto dalle letture critiche, tese più che altro alla considerazione dei principali contenuti politico-encomiastici del gruppo si fa segno leggibile invece di una categoria interiore trasversale a tutte le epoche e alle geografie e tanto presente nello spirito antico quanto nel nostro: l'omoaffettività. Un uomo della fine del VI secolo a.C., chiamato Aristogitone, che aveva affrontato un rivale, oggi potrebbe chiamarsi Marco, Francesco o Giovanni, e compiere un medesimo atto, allungando poi un braccio come uno scudo su altri Armodio, dai nomi di Mario, Alessandro e Franco, per la reciprocità, l'attaccamento, il calore e il mutuo soccorso che il sentimento di essere in due sempre realizza. Quel gesto del braccio, inventato da Nesiotes e Kritios, fissa dentro un modello di valore civico per la retorica libertaria il segno di un amore.  Armodio e Aristogitone tirannicidi ateniesi Lingua Segui Modifica Armodio e Aristogitone (in greco antico: Ἁρμόδιος, Harmódios e Ἀριστογείτων, Aristoghéitōn) furono gli ateniesi tirannicidi che cercarono di porre termine al potere personale della famiglia di Pisistrato.   Statua di Armodio e Aristogitone, Napoli. Copia romana di originale greco perduto Sono noti come "i tirannicidi" per antonomasia, che assassinarono il tiranno di Atene Ipparco, ma vennero a loro volta uccisi dal fratello di costui, Ippia.  AntefattoModifica Pisistrato riuscì nel 534 a.C., dopo vari tentativi (meno riusciti) negli anni precedenti, approfittando delle tensioni che laceravano la città di Atene, ad assumere su di essa un potere personale. Pisistrato fu un tiranno,[1] prese il potere con la forza, ma, a giudizio unanime degli storici, fra i quali Erodoto, Tucidide e Aristotele, non ne abusò per modificare le istituzioni di cui la città disponeva e governò più da cittadino che da tiranno.  Quando morì nel 527 a.C.-528 a.C., i suoi figli Ippia e Ipparco gli succedettero. Ippia, il figlio maggiore, tese a continuare nella politica paterna, mentre Ipparcoebbe un ruolo minore nella tirannide, ma l'atteggiamento del regime mutò profondamente in seguito alla fallita cospirazione.  I fatti si svolsero nel 514 a.C.-513 a.C., a quattordici anni dalla morte di Pisistrato. Tucidide racconta che a far scattare la messa in atto della congiura vi furono motivi personali di tipo sentimentale. Ipparco s'invaghisce del giovane Armodio che, secondo quanto racconta lo storico Tucidide, "era allora nel fiore della bellezza giovanile", dal che si deduce che doveva avere 15 anni. Armodio era l'eromenos(giovane amante) di Aristogitone, descritto da Tucidide come "un cittadino di mezza età" - probabilmente aveva 35 anni - e appartenente ad una delle vecchie famiglie aristocratiche.  Le relazioni sessuali fra un uomo più anziano (l'erastès) e un giovane non erano di costume sanzionate ad Atene ed altre città greche, sebbene tali rapporti non fossero omosessuali nel moderno senso della parola, ma pederastici. Certe relazioni erano governate da severe convenzioni, e le azioni di Ipparco per cercare di rubare l'eromenos di Aristogitone erano un deciso affronto alle regole (Tucidide dice aspramente che Aristogitone "era il suo amante e lo possedeva").  Armodio rifiutò Ipparco e raccontò ad Aristogitone cos'era successo. Ipparco, rifiutato, si vendicò ottenendo che la giovane sorella di Armodio fosse esclusa dalla cerimonia di offerta alle feste Panateneeaccusandola di non essere sufficientemente nobile. Questa offesa fu così grande per la famiglia di Armodio che egli decise di assassinare, con la complicità di Aristogitone, sia Ippia che Ipparco e rovesciare la tirannia.  L'uccisione di IpparcoModifica Il piano - che doveva essere portato a termine con pugnali nascosti nelle corone di mirto cerimoniali - coinvolgeva anche un certo numero di cospiratori, ma vedendo uno di questi salutare amichevolmente Ippia il giorno fissato, i Tirannicidi pensarono di essere stati traditi ed entrarono subito in azione, senza rispettare l'ordine che si erano dati. Riuscirono così ad uccidere Ipparco, pugnalandolo a morte mentre stava organizzando le processioni delle Panatenee ai piedi dell'Acropoli, ma perirono per mano delle guardie del tiranno senza scatenare ribellioni.  Aristotele, nella Costituzione degli Ateniesi, tramanda una tradizione che vede la morte di Aristogitone avere luogo solo dopo una tortura volta alla speranza che questi indicasse il nome degli altri cospiratori. Durante la sua agonia, personalmente sovrintesa da Ippia, questi finse benevolenza affinché egli tradisse i suoi cospiratori, sostenendo che la sola stretta di mano del tiranno sarebbe bastata per garantirgli la salvezza. Nel ricevere la mano di Ippia si dice che Aristogitone l'abbia criticato per aver stretto la mano dell'assassino di suo fratello, al che il tiranno cambiò immediatamente idea e lo uccise sul posto.  Allo stesso modo, una tradizione dice che Aristogitone fosse innamorato di una etera dal nome di Leaena(leonessa) che era ugualmente tenuta in tortura da Ippia - in un vano tentativo di costringerla a divulgare i nomi degli altri cospiratori - finché questa morì. Si diceva che era in suo onore che le statue ateniesi di Afrodite furono da allora accompagnate da leonesse [secondo Pausania].  L'assassinio del fratello portò Ippia a stabilire una dittatura ancora più severa che fu molto impopolare e che venne rovesciata, con l'aiuto di un esercito proveniente da Sparta, nel 510 a.C. Questi eventi furono seguiti dalle riforme di Clistene, che stabilì in città la democrazia.  La fama successivaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Gruppo dei Tirannicidi. La mitologia successiva venne così ad identificare le figure romantiche di Armodio e Aristogitone come martiri della causa della libertà ateniese, e divennero noti come i Liberatori (eleutherioi) e Tirannicidi (tyrannophonoi). Secondo scrittori successivi, ai discendenti di Armodio e Aristogitone furono concessi privilegi ereditari come la sitesis (il diritto di mangiare a spese pubbliche al palazzo del governo cittadino), l'ateleia (esenzione da certi doveri religiosi), e la proedria (posti in prima fila a teatro). Visto che non si sa se Armodio abbia avuto discendenti (è inverosimile che li abbia avuti anche Aristogitone), questa potrebbe essere un'invenzione seguente, ma illustra la loro fama postuma.  La storia di Armodio e Aristogitone, e come venne trattata dai successivi scrittori greci, è dimostrativa dell'attitudine nei confronti dell'omosessualità al tempo. Sia Tucidide che Erodoto dicono che i due erano amanti senza commentare il fatto presumendo la familiarità dei loro lettori con tale pratica sessuale istituzionalizzata senza trovarvi stranezze.  Nel 346 a.C., per esempio, il politico Timarco fu perseguito (per ragioni politiche) per il fatto che si era prostituito. L'oratore che lo difendeva, Demostene, citò Armodio e Aristogitone, così come Achille e Patroclo, come esempi degli effetti benefici delle relazioni omosessuali.  NoteModifica ^ Con la celebre spiegazione di Cornelio Nepote, nel mondo greco veniva chiamato tiranno chi era signore di una città precedentemente libera Voci correlateModifica Omosessualità militare nella Grecia antica Omosessualità nell'Antica Grecia Pederastia greca TirannideAristogitone e Armodio, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Armodio e Aristogitone, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.La storia di Armodio e Aristogitone. Da: Projet Androphile.  Portale Antica Grecia Portale Biografie Portale LGBT PAGINE CORRELATE Ipparco (tiranno) tiranno di Atene, figlio di Pisistrato  Ippia (tiranno) tiranno di Atene, figlio di Pisistrato  Leena di Atene etera ateniese --se Sive Oeconomia omnium Operum Hieronymi Cardam, forum.  Signum  t prifixum, ea  denotat, qui modo in Iuccm prodeunt. PHILOLOGICA, Logica, Moralia.Vita propria, Libet. Ephemerus, de Libris proprii». SPe|[)K  De  Libris propriis,  eoruaaquevfu.exeditRovilliji   IV.  ltMriijs'  De  Libris propriis et eorum usu, ex  edit. Henricpetr. V Aeca De Socratis (ludio. Oratio ad Cardinalem Alciatum,  (ive  Tricipitis  Geryonis , aut Canis Cerberi. In Theffalum  Medicum, Attio secunda. Encomium  Neronis. Encomium  Podagri.  Mneroofynon. De Orthographia. De  Ludo  alel. DIALETTICA. Contradictiones logici. De  Vno. Hyperchen. Norma viti confarcinata.facra  vocata.  Proxeneta,  feude Prudentia  ciuili. De  Priceptis  ad  filios. De Optimovitx genere, De Sapientia. De Summo bono. De Consolatione. Dialogus Hieton. Cardani, et Facij Cardam patri».  Dialogus Antigorgias, feu De retta vivendi ratione. Diaiogus Tetim, feu De humanis confiltii. Dialogus De morte, feo Guglielmus. De Minimis & propinquis. Hymnus, feu Canticum ad Deum, Moralia quidam, Physica. Vtilitate ex adversis capienda. De Natura, Thconofton de Tranquillitate. Dialogus  de  Vita  producenda, feu Thconofton Thconofton. dc  Animi  immortalitate.  Thconofton feu de Contemplatione.  MTheonofton  seu  Hyperboreorum.  De Immortalitate  animorum. De Secretis. De  Gemmis,  & coloribus.   De Aqua. Dc Vitali aqua, seu  aethere. De Aceti natura. Problematum  fc&ionesfcptcm. Discorso del Vacua. Se la qualita puo trapaliare di subbietto in subbietto. Dc fulgure. Physica. De subtilitate. Aftio prima in Calumniatorem librorum dc Subtilitate. DcKcrum varietate. Arithmetica, Geometrica,  Mufua. t 1 A E Numerorum  proprietatibus, Pradtira  Arithmetica. Computus  minor. Artis magnx, sive de Regulis Algebraicis. Liber Artis  magnx, five  quadraginta  capitulorum, Si quadraginta quxftionum. De Aliza regula. Sermo de plus  fcminus. Exxreton mathematicorum. Encomium Geometnx. Operatione della linea, De Proportionibus numerorum, motuum, ponderum, f onorurm, Delia natura deprincipij, e regolo  Muficali. AJlronomica, AJlrologica, Onirocritica, DE Reftitutione temporum & motuum cacleftium. De Prouidentia ex anni conftitutionei Aphorifmotum Aftronomicorum fegmenta feptem. Commemarij in Ptolcmxum, de  Aftrorum  judiciis. De  feptem  Erraticarum  ftellarum  viribus. De  Interrogationibus. De ludiciis geniturarum. De Exemplis cdhtum geniturarum. Liber duodecim  gen^urarum. De Revolutionibus. De fupplemento Alraanach. Somniorum Synefiorum libri. Medicinalium  primus. Ncomiutn Medicini, De Sanitate tuenda. Contradicentium  Medicorum Ubii duo, olim' impreffi, nunc audtiores. Contradicentium  Medicorum  Libri  o&opofteriores,  nunc  primum in lucem emergentes. Medicinalium fecundus.  LVfu ciborum. De Causis, Signis, ac locis morborum. De Vrinis. Ars curandi parva. De Methodo medendi, fettiones tres priores.dempta quarta que Confilia quidam  continebat, fuo loco redituta.  De  Radice  Cina- De  Cyna  radice, seu de Decodis magnis. De Sarza parilia.  De Oxyinelicis usu in plcuritide. De Venenis Commentarij  in  librum  Hippoc.  de  Alimento. Medicinalium  tertius. Commentarij in librum Hippocr. De Aere, aquis, et locis. Commcntarij in Aphorismos  Hippocratis. Conclufiones  de  Lapidibus  Galeni  in  explicatione Aphorifmoru. Apologia ad Andream Camutium.  Commcncarij  in  lib. Prognofticorum  Hippocrati. Medicinalium  quartus  & poliremus. Commentarij  in  lib. Hippocr. De Septiroeftri partui   Examen  agrorum  Hippocr. in Epidem. Lonliha varia partim  edita,  partimhaidenusanecdota. Opufcula  Medica  lenii  ia, (eu  de  dentibus   De  Dentibus, liber cjuintus, seu de morbis articularibus. Floridorum  sive Comtnent.in  Principem Hazen.Vita Ludovici Ferranj, & Alciaci. Mtfcellanea, ex  Fragmentis, & Paralipomenis: L fragmenta.  EArcanis xternitatis, tractatus. Politica, seu Moralium, Laber vnus. Elemehta lingua: Grscx. De Inventione.V.  t De Naturalibus viribus, traftatus. De Musica. De Integris, traftatus Arithmeticus. Expositio Anatomix Mundini-Commentarij in libros Hippocr.de Viftu in acutis. Commentarij in duos libros priores Epidem.Hippocr. De Epilcplia, traftatus. De Apoplexia. PARALlFOMENON Itbri. De humanis ciuilibus fucceffiombus. De humana perfectione. HI. tn«o', feude Admirandis.De dubiis naturalibus, De rebus  faftis  raris  ,&  artificits.M.S.  De  humana  compolitione naturalium. De mirabilibus  morbis  Stfymptomatibus. Deaftrorum& temporum  ratione et divisionibus. De mathematicis  quxlitis. Historix lapidum, metallicorum et metallorum. Hiftorix  animalium. Hiftorix  plantarum. De anima. De dubiis ex hiftoris. De  clarorum  virorum  vita  Selibris. De  hominum  antiquorum  illuftrium  judicio. De vfu  hominum, & dignotione eorum, tum cura Sc errore. De sapiente. Hieronymus Cardanus. Hieronimo Cardano. Gerolamo Cardano. Keywords: masculinity, machio – maschile, Prospero, De signo, De signis, de Casis, signis, ac locis Morborum, ten volumes of “Opera omnia” analytic index – he wrote about almost everything – including logic, dialettica, metafisica, psicologia, anima, fisionomia, same-sex, he criticised Galenus for not realizing the distinction that at 14, a puer becomes an adolescent – his oeuvre is being examined in masculinity studies – masculinity Italian, Bolognese masculinity. He claimed that Bolognese males were ‘tasteful’ and underrated compared to Milaenese or Florentine males – he lived all over the place – he had many tutees, whose names survive – he was possibly paranoid – Silvestri was his best known tutee –analytic index of “Opera Omnia” --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardano” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Cardano: l’implicatura conversazionale del Pietro della Lombardia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Lumellogno). Filosofo italiano. lombardia -- Grice: “If William was called Ockham, I should be called Harborne, and Petrus Lombardia!” --  Pietro Lombardo rappresentato in una miniatura a decorazione di una littera notabilior di un manoscritto Pietro Lombardo o Pier Lombardo (Lumellogno di Novara, 1100Parigi, 1160 circa) teologo e vescovo italiano. Nacque a Novara o nei dintorni (a Lumellogno esiste una lapide su di una casa che risorda il luogo della nascita), all'inizio del XII secolo. Ricevette la sua prima formazione teologica a Bologna, dove acquisì una perfetta conoscenza del Decretum Gratiani. Dopo il 1136 si recò a Reims e poi a Parigi, dove fino alla sua elevazione alla sede vescovile di questa città (1159) insegnò teologia. Almeno una volta in questo periodo, tra il 1145 e il 1153, si recò alla corte pontificia, dove venne a conoscenza della traduzione del De fide orthodoxa di Giovanni Damasceno, compiuta da Burgundio Pisano per incarico di Eugenio III. Quasi certamente nel 1147 fu uno dei teologi che nel sinodo parigino presero posizione contro Gilberto Porretano.  Dopo un breve episcopato (1159-1160) morì il 21 o 22 luglio del 1160 (non del 1164). Il suo epitaffio si conservò nella chiesa di Saint Marcel fino alla Rivoluzione francese. Dante lo nomina in Paradiso, X, 106-108.  Oltre ai commenti all'opera di Paolo di Tarso e ai Salmi, la sua opera maggiore rimane il Liber Sententiarum (Libro delle Sentenze), scritta fra il 1150 ed il 1152 e per la quale ottenne l'appellativo di Magister Sententiarum. Sebbene il testo rientri in un genere letterario tipico della teologia medievale, ossia l'esposizione delle sentenze delle autorità di fede (i padri della chiesa ed i riferimenti biblici) l'opera del Lombardo, per l'ampiezza delle fonti e la sua originalità, diverrà il testo di riferimento per la didattica nelle facoltà di teologia e l'elaborazione letteraria nello stesso campo fino alla fine del XVI secolo. Egli infatti attinge ad una vasta letteratura in merito, adottando anche testi che normalmente non erano contemplati in queste composizioni, come Il De fide ortodoxa di Giovanni Damasceno.  Con la sua opera il Lombardo tenta di sistematizzare e armonizzare la disparità e le divergenze che la pluralità delle auctoritates aveva generato, dando luogo ad un certo scompiglio ermeneutico e dottrinale. Riprendendo la classica distinzione agostiniana tra signa e res, Lombardo afferma che il motivo delle divergenze non appartiene alla natura delle cose trattate, bensì alla metodologia esegetica.  Il testo si divide in quattro parti:  la prima tratta di Dio, della sua natura e dei suoi attributi; la seconda delle creazione degli angeli, del mondo e dell'uomo sino al peccato originale; la terza dell'incarnazione cristica e della promessa della Grazia; la quarta dei sacramenti. Anche lo sviluppo del testo mantiene la distinzione tra res (le prime tre parti) e signa (l'ultima) Lo stile del Lombardo snoda l'esposizione delle sentenze coll'eleganza dialettica di tipo anselmiano mantenendosi aderente al rispetto delle varie auctoritates anche riguardo o stile letterario col quale egli opera una volontaria mimesi.  Il testo venne criticato sin dalla sua prima uscita per via del cosiddetto nichilismo cristologico. Lombardo descrive infatti l'incarnazione nei termini di assumptus homo, ossia la persona divina del Cristo avrebbe assunto una natura umana (accessoriamente). Ciò contrastava con la determinazione di origine boeziana per la quale la natura cristologica traeva la sua forma da un sinolo unico di divino ed umano. Note  Per approfondimenti vedere: Nicola Abbagnano, Storia della filosofia,  II, pag.30 e seg. Novara, Istituto Geografico de Agostini, 2006 per Gruppo Editoriale l'Espresso, Roma (I contenuti di questo volume sono tratti da: Nicola Abbagnano, Storia della filosofia  I, II, III, quarta edizione, Torino, Pomba, 1993 e Nicola Abbagnano, Dizionario di Filosofia, terza edizione aggiornata ed ampliata da Giovanni Fornero, Torino, Pomba 1998)  Nicola Abbagnano, Storia della filosofia,  II, pag. 37 e seg. Novara, Istituto Geografico de Agostini, 2006 per Gruppo Editoriale l'Espresso, Roma (I contenuti di questo volume sono tratti da: Nicola Abbagnano, Storia della filosofia  I, II, III, quarta edizione, Torino, Pomba, 1993 e Nicola Abbagnano, Dizionario di Filosofia, terza edizione aggiornata ed ampliata da Giovanni Fornero, Torino, Pomba 1998)  Marcia L. Colish, Peter Lombard, Leiden, Brill, 1994 (due volumi). Pietro Lombardo. Atti del XLIII Convegno storico internazionale: Todi, 8-10 ottobre 2006, Spoleto, Fondazione Centro italiano di studi sull'alto Medioevo, 2007.  Minuscule 714il manoscritto del Nuovo Testamento e di "Sententiae". Libri Quattuor Sententiarum Scolastica (filosofia) Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Pietro Lombardo Collabora a Wikiquote Citazionio su Pietro Lombardo Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Pietro Lombardo  Pietro Lombardo, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Francesco Pelster, Pietro Lombardo, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Pietro Lombardo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.  Francesco Siri, Pietro Lombardo, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Pietro Lombardo / Pietro Lombardo (altra versione) / Pietro Lombardo (altra versione) / Pietro Lombardo (altra versione) / Pietro Lombardo (altra versione) / Pietro Lombardo (altra versione) / Pietro Lombardo (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Pietro Lombardo,. su Pietro Lombardo, su Les Archives de littérature du Moyen Âge. Pietro Lombardo, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company.  Sofia Vanni Rovighi, Pietro Lombardo, in Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1970. Petrus Lombardus, Opera Omnia dal Migne Patrologia Latina con indici analitici.Chisholm, Peter Lombard, in Enciclopedia Britannica, XI, Cambridge University Press.  Illustrare 'k iSlosofia di Pier Lomb'airdo finora casi tra-  scurata -dagli' storici della filosofia è im lavoro del tutto  nuovo spedialmente per lltalia.   Il Protois (1) affe!rim»a decisamente che Pier Lomb'airdo  non fu un filosofo, THaureau (2) ch'egli fu il principe degli  indifferenti in materia fìTosoflca, ma entrambe le asserzioni  sono affrettate.   Solo in Germania il Lombardo venne studiato con mag-  gior serietà e con particolare attenzione!. Nel 1897 Giulio  Kógel (3) pubblicò a Lipsia una monognalia su Pier Lom-  bardo : questa però parve confusa ed inesatta al dr. loh.  Nep. Espenberger (4) che nel 1901 intraprese un studio a-  curatissimo della Filosofia di Pier Lombardo e della po-  sizione sua nel secolo decimosecondo, nel terzo volume,  parte quinta, dei Beitràge zur Geschichte der Philosophie  des Mittelalter8 diretti da G. BàumJcer e G. Freih. Von  Herttìng. Di tale pubblicazione mi servii in special modo Ifotre auteur ne fui donc pas un phUosophe.   De la philosophie scolastique — Paris, Cesi lui qua notes reconnaissons corame le chef des indiffèrents en ma-  tière de philosophie.   (3) Petrus Lombardus in s. SteUung z. - Phil. d. Mittelal - Lei-  pzig 1897.   (4) Die philosophie des Petrus Lombardus und ihre Stellung im  vwblften Jahrhundert. Aschendorffschen Milnster 190X, per questi miei «appunti sulla filosofìa del Lombardo seb-  bene mi «pervenisse al momento di stenderli e troppo lardi  per farne Fesaane minuto che essa si merita. Poiché è ve-  ramente questo il primo lavoro che si occupa con severa  e profonda indagine oritioa del pensie<ro filosofico del Mae-  stro delle Sentenze. L'autore dimostra una profonda co-  noscenza delle opere patristiche e delle scritture sacre  colle quali esercita opportuni raffronti. Egli non si è poi  solo limitato all'esame del Libro delle Sentenze, ma ha  giustamente esteso le sue indagini alle altre opere meno  conosciute del Lombardo e pure ricche di impvortanti di-  gressioni filosofiche, quali il Commentano o Gloessa dei  Salmi detto anche Salterio, ed i Commentarli alle Epistole di S. Paolo. Solo non ha tenuto conto dei Sermoni  che sottio tra le cose più interessanti se non più belle del  Sentenz.iario, «pur nel severo giudizio di Hanreau e Bour-  gain (1), di cui il Protois ha tratto dai mss. degli utili  estratti mentre se ne trova l'intero testo con poche varianti  nelle Opere Omnia del vescovo Ildeberto-. Essi sono utili  per completare la figura intellettuale di Pier Lombardo.   Del quale a questo punto ripeleremo le parole: sed  terrei immensitas laboris. In verità quantunque grande  sia la nostra buona volontà non ci dissimuliamo la vastità  del lavoro intrapreso : onde lo restringeremo entro i limiti  a noi concessi, raffigurandoci un poco a quello spigolatore  che move fidente sulle orme dei più abili mietitori pago di  fare un piccolo fascio delle spighe dimenticate.  HAUREàU Not. et Extr. t. Ili p. 49.  BouBGAiN — La chaire firancaisc au XII siede Paris,  cfr. FjsBitT (La faculiè de Theol, L 81). I Padri della Chiesa iniziarono la tìiosofia oristiana,  ma in forma espositiva, avendo ripugnanza a sottopome ^  troppo minute dimostrazioni le verità rivelale. Era secon-  do il pensiero di S. Gregorio una profanazione Fassogget-  tare il Verbo divino alle regole di Donato. Ma quando nel  secolo XII, prima chei si diffondessero per tutta Europa le  traduzioni arabe di Aristotile, si attese a studiare con a-  more i libri delYOrganum tradotti da Boezio, si accese quella tendenza già iniziata nei secoli aotecedeiiti a  fortificare il dogma' col sillogismo e l'autorità della ragione.   Da questo connubio della teologia colla dialettica ari-  stotelica nacque la scolastica la quale se ha i suoi precursoiri  nei primi secoli del cristianesimo non riconosce i suoi veri  fondatori che nel secolo di Abelardo e di Pier Lombardo.  Essa nasceva per una necessità di rendere più conformei la  fede al sapere più progredito. E se da una parte non ces-  sava di fiorire la .scuola dei mistici con S. Bernardo e gli    Ai tempi di Abelardo e di Pier Lombardo non si possedeva  altro d'Aristotile che la logica, cioè ciò che si chiama l'Organum e  comprendeva: le Categorie coll'introduzione di Porfirio, l'Ermeneu-  tica, gli Analitici, i Topici, la Sofistica nella traduzione di Boezio,  (Cousm — Fragments philosophiques Paris)  abati Ugo e Riccardo di S. Vittore, da un'altra il mal  compresso bisogno di libertà di pensiero apriva la via ad  interminabili dispute quali giungevano talvolta ad intacca-  re il dogma, come accadde per Abelardo. Pier Lombardo  apparve come moderatore tra le due opposte tendenze: la  mistica e la speculativa, e valendosi dello stesso metodo  dialettico usato dagli avversarti eerli si propose di dimo-  strare come le apparenti contraddizioni che si rileivano  nelle Scritture sacre e patristiche rischi'arate dalla ra-  gione riconducono a rinvigorire maggiormente te verità  della fede.   Egli però nel Prologo delle Sentenze si scaglia contro  coloro qui non rationi voluntatem suhiiciunt, che la ra-  gion sommettono al talento, tradurrebbe Dante, e vogliono  fare credere per verità, i sogni di lor mente inferma :  « Qui non irationi voluntatem subiiciunt, nec dodri-  nae studium impendunt, sed his quae somniarunt sa-  pientiae verba coaptare nituntiu", non veri sed placiti etiam  sectantes... ».   Pier Lombardo era dunque tenuto dallo stesso compito  che egli si era pronosto, cioè di dimostrare cHte nelle  scritture sacre non v'ha vera sconcordanza e che ogni ra-  gionamento umano si riduce in ultima analisi a dimo-  strarne la veracità assoluta, a non imporra egli stesso  nuove e diverse dottrine le auala lo avrebbero condotto  fuori della sua seo-ena imparzialità. Se ciò si possa chia-  mare indifferentismo io non so, poiché il Maestro dèlie  Sentenze non sdegna di entrare e di approfondirsi nelle  più minute distinzioni e controversite fìlosiofìche, cosi care  ai suoi tempi, sforzandosi con nassione di ricavarne le  verità da lui srià piresupposte. Nella sua umiltà che diventò  poi lefir-srendaria esrli pr*eferisce lasciar la parola affli altri,  a S. Gerolamo, a S. Ambrogio, e specialmente a S. Ago-  stino che è il stio autore preferito come quello che suipera  tutti srli altri padri per profondità di vedute e co-pia di ar-  gomenti nelle questioni fondamentali del dogma. Ma non  è vero che il Maestro rimanga empire nascosto e non ap-  Questi ultimi conobbero oltre Aristotile anche Platone a cui  sembrano dare la preferenza e non furono del tutto stranieri alle  vedute dei neoplatonici. Vedi R. Bòbba La dottrina dell* intelletto in  Aristotile e nei 8140Ì pie illustri commentatori pag. 235 sgg. paia di tratto in tratto a mostrarci la via da seguire, per  non perderci nel djedalo inestricabile delle questioni.   JJei «resto i più che hanno parlato di Pier Lombardo  si sono aoconlentati di scorrere i libri delle Sentenze: non  hanno letto i suoi lunghi e «lucidi Commentarii alle Epistole  di S. Paolo, e neppure quelli ai Salmi che egli riunì sotto  il titolo sintetico di Pscdterium, nom^ i sjuoì ispirati Sermoni  che si trovano manoscritti alla Biblioteca Nazionale di  Parigi, e stampati tra quelli del vescovo Ildeberlo. In tutte  queste opere il Lombairao non è solo un puro e disadorno  espositore di dottrine. Certamente il Maestro va conside-  rato precipuamente mei suo libro delle Sentenze, il quale  lormò testo nelle scuole e fu letto e commentato più della  Bibbia per lunghi secoli, mentre le altre opere vennero più  presto dimenticate. Ma anche qui se egli non espose dot-  trine nuove, ebbe però il merito grande e riconosciuto da  tutti gli storici della filosofia di distribuirle con metodo  razionale, cosi che esse ricevevano lume le une dalle altre.  Metodo già sperimentato con altro intento da Abelardo, ma  dal Nostro condotto a singolare perfezione (1).   Egli slesso suH'autorità di Sant'Agostino, espone Tor-  dine col quale si deve disputare in materia teologica e sper  cialmente della Trinità che è il punto fondamentale della  dottrina dogmatica (Sent.): Gaeterum, ut in primo libro de Trinitate Augustinus  docet, primo secundum auctoritates Sanctarum Scriptura-  nim utrum fides ita ee habeat demonstrandum est. Deinde  adversus gamilos ratiocinatores elaliores magis quam  capaciores, rationibus catholicis et similitudinibus congniis  ad defensdonem et assertioneim fidei utendum est; ut eorum  inquisitionibus satisf<icientes, mansuetos plenius instrua-  mus et illi si nequiverunt invenire quod quaerunt, de suis  menlibus polius quam de ipsa veritate vel de nostra as-  sertione conquerantur ». Il Deniflb in Carivi, Univer. Paris IntrodttcHo Methodus Abaelardi in IHo etiam opere quod in schoh's Theologiae  per aliquot saecula adhibebatur usurpata est, dicimus Sententias  Magistri P. Lombardi.   (2) Per queste come per le altre numerose citazioni delle opere  di Pier Lombardo ci serviamo dei volumi 191-192 della Patrologia  del Migne Petri Lombardi Opera Omnia^ Paris  Fu in apecia»! modo ai metodo da mi usato che si  deve J'eaiorme diffusione del libro delle Sentenze nelle  scuole (1). Esso nel mentre veniva a soddisfare la naturiate  curiosità del conoscere ed a dare la spiegazione di molte  credenze poneva dei limiti alla libertà del raziocinio. Ma  veniva sempre lasciato un cantuccio alle discussioni inter-  mmabili sulle questioni minori, dalla risoluzione deUe  quali in un senso o in un altro poco aveva a soffrirne l'or-  todossia. yui si esercitavano le intelligenze, inquisitionibus  satisfacientes, smaniose di sottilizzare e di sillogizzare, con  tanta maggior sicurezza, quanto minore era il pericolo di  intaccare la fede (2). Lo stesso Pier Lombardo nel suo  Libro non si trattiene dal diffondersi nell'esame di queh  stioni che a noi sembrano del tutto .futili e vane come queUe  ad esempio che riguardano la natura degli angeli (3. E  non è raro anche il caso che le lasci insolute. Cosi nel  libro primo, laddove domanda perchè mentre amare è lo  stesso che essere, si dice che il Padre ed il Figliuolo non  sono in essenza costituiti deiramore col quale si amaaio  scambievolmente, confessa miodestamente che la questione  gli sembra troppo difficile e che egli si propone più di ri-  portare le dottrine» dei Padri che di accrescerle: (seait. 1.  dist. XXXI1,9) « Diffìcile mihi fateor hanc quaesti onem,  praecipue cum ex praedictis oriatur quaei siniilem videntur  habere rationem'; quod meaei intelligentiae attendens infir-  mitas turbatur, cupiens magis ea dictis sanctorum referre     (1) Il De Vulf — Hist, de la phil. medievale {Louvain 1900) come  il Dknefle (loc. cit.) da un troppo reciso apprezzamento: (pag. 209)  Ces sinthèses thèologiquea, dont la premiere idee semble appartenir  à Abelardo ètaient appellées a un succès immense. Il faut en cher-  cher le secret dans le besoins de la classification et d' orgànisation  qu^on eprouvait devant la masse des materiaux rassemblès,b]en plus  que dans T originante de ceux qui ont appose leur signature a ce  travail de mise en oeuvre.   (2) Cosicché il libro fatto per conciliare ogni controversia sembrò  sortire l'effetto contrario. Erasmits in Mattaei I, iP (cit. daFabricius,  Bib. m. aevi) e Siquidem apparet illum hoc egisse ut semel coUectis  quae ad rem pertinpbant, questiones omnes excluderet. Sed ea res  in diversum exiit. Videmus enim ex eo opere nunquam fìnìendarum  quaestionum non exanima sed maria prorupisse.   (3) Flettrt — Hist eccl. Paris, 1119 Tom. XII Liv. LXX Gap.  XXXV.     ri   quam uff erre >k E limsce col coaicmiDa^e : « Eam tameu  quaestionjeon leolorum ddligentiae plenius dijudicandam at-  que absolvendam ireiiinquimus ad hoc minus sufficientes ».   Perciò l'opera del Sentenziario ha un intento assai  modesto, né presume di sciogliere ogni dubbio e di di-  rimere ogni questione. Qui il Maestro risentei della scuola  di Abelardo il quale (nel trattato Sic et non riconosceva  ai pastori il diritto di emendare le opere dei dottori della  Chaesa.   (Migne 178 p. 1346 D.) « Hoc et ipsi eccleisiastici  dactores attendentes et nonnulla in suis operibus corri-  genda esse credentes posteris suis emendaindi vel non se-  quendi licentiam concesserunt ».   E il nostro Lombardo così dice di sé :   (Sent. in prol.) « In hoc aulem tractatu, non solum  pium leolorem, sed etiam correctionem desidero, maxime  ubi prolunda versatur veritatis quaestio, quae utinam tot  haberet inventores quot habet contradictores ! »   Il libro delle Sentenze doveva così riuscire «più accetto  giacché il giogo del dogma era imposto alla libera rifles-  sione del pensiero con assai più illuminata larghezza che  non fosse abitudine del passato. Tanto che parve a più  d'uno dei suoi contemporanei la sua dottrina pericolosa e  Giovanni di Goimovaglia potè chiamarlo uno dei quattro  labirinti della teologia ponendolo allo stesso livello di Gi-  jDerto Porretano, Pietro di Podtiers, Abelardo.   Scopo di Pier Lombardo era di fare un trattato che  risparmiasse al lettore tempo e fatica, Fu per rispetto ai  suoi tempi un volgarizzatore della scienza teologica di-  spersa ne^ libri canonici e negli scritti malagevoli dei Padri  e incompiutamente contenuta nei libri di Abelardo, PuUeyn,  Ugo di S. Vittore. Egli compilò una specie di Enciclopedia  teologica ove il lettore avesse a trovare senza sforzo tutto  quanto gli facesse al ciaso. Però avverte nel Prologo :   « JNon igitur debet hic labor cuiquam pigro vel multum  docto videri superfluus, cum multis impigris multisque  indoctìs, inter quos etiam et mihi, sàt necessarius: brevi  volumine complicans Patrum sentias, appositis eonim te-  stimoniis ut non sit necesse quaerenti librorum numero-  sitatem evolvere, cui brevitas quod quaeiritur oBert sine  labore».   E cosi nel distribuire la materia egli seguì un nuovo  ordine sistematico e compiuto non seguito né da Ugo di S. Vittore, né da Roberto PuUeyn, né da Abelardo {Am quali  pure trasse assai dalle sue doltrine) e pose a ciascun ca-  pitolo un titolo per facilitare le ricerche.   (Sani, in prol.) Ut autem quod quaeritur facilius oc-  currat, titulos quibus singnlarum capitula dislingumitur  praemisimus.     Relijiiooe e scieoza.     Giovanni Scoto Erigena afferma che la teologia e la  filosofia sono una sola e una medesima scienza (1). Ma  giustamente si poa&ono fare a questo punto delle riserve  perché la scuola e la chiesa si accodano nel dire che  l'ordine della ifede non é Tordine della jnagione e che sia  pei filosofi come per i teologi vi sono dei limita al proprio  dominio. Con lutto ciò la ragione e la fede non riusdroTio  mai a vivere completamente separate. Ed a torto credano  alcuni che si cominciò propriamente dalla scolastica a coffiy  ciliare colla scienza la religione. Anche ai primi Padri  della Chiesa piacque di giovarsi di entrambe e Clemente  Dragone, S. Agostino, sono nello stesso tempo filosofi e  teologi. L'opposizione alla filosofìa come indegna di essere  applicata ai veri divini, non fu più propria e peculiare  dell'età patristica che della scolastica, le quali non sono  già in opposizione, ma Funa é naturale svolgimento del-  l'altra. Questo sforzo di comporre il dissidio ira Taulo-  rità e la speculazione filosofica si continuò per tutta i se^  coli fino al nostro Rosmini che parlando dell età dei Padri  e dei Dottotti scriveva :   « L'uomo allora sentiva altamente che la teologia non  era divisa da luii, e che, sebbene ella travalicasse, per  l'origine e la sostanza, i limiti della natura, passava dal  ragionevole al rivelato, quasi ascendendo da un palco in*   (1) De praedestinatione (Collection de Mangin 1. 1 p. 103^, Coni-  icitur inde veram esse philosophiam veram religionem, conversim-  que veram religionem esse veram philosophiam, cit. in Coasin Cours  de la phU, I p. 344. feriare ad un altro superiore dello slesso palagio delia  mente, con un solo disegno da Dio fabbricatogli.   La teologia cristiana in quell'età era senza contrasto  la conduttrice e la custode di tutte le altre scienze, la si-  gnora delle opinioni. Chi avrebbe allora pensato che sa-  rebbe venuto un altro tempo in cui alcuni pensassero do-  versd la teologia dividere interamente dalla filosofia? » Vediamo ora in quale rapporto si tirovassero le verità  teosofiche colle verità filosofiche nel pensiero di Pier  bombardo.   11 Maestro si attiene in massima alle parole di S. A-  gostino (sup. Joan 27). <( Credimus ut cognoscamus, non  cognoscimus ut credamus». E nella distinzione XXII del  libro terzo, là dove esaminia si Christus in morte fuit homo  e risponde che benché Pietro morì come uomo, tuttavia  era in morte Dio ed uomo, non mortale e non immortale,  e tuttavia vero uomo, dice a coloro che vogliooio troppo  sotìsticare sulla ragione di ciò : « Illae enim et Jiujusmodi  argutiae in creaturis locum habent sed fidei sacramentum  a philosophicis est liber. linde Ambrosius (De. fide I. 13,  84): Aufer argiimenta, ubi fides guaeritur. In ipsis gym-  nasìis suis dam dialectica taceat, piscatoribus creditur, non  diaileoticis ».   Ma questa fede da pescatori però, il Lombardo ag-  giuge più oltre, non è cosa a noi lutto affatto estranea,  peirchè essa non può essere di ciò che l'animo ignora. E qui  egli sente rinllusso del misticismo del suo- protettore. S.  Bernardo e dei Vittorini che primi lo accolsero a Parigi.   (Sent. Ili dist. XXIV, 3) « Cum fides sit ex auditu  non modo exteriori sed etiam interiori, non potest esse  de eo quod animo ignoratur ».   Ancora è necessario fare con S. Agostino una distin-  lone: alcune cose non sono intese se prima non si cre-  dono, ma è pure vero che alcune cose non si possono cre-  deiPe se prima non sono intese (come la fede in Dio che     (1) Opere edite ed inedite di A. Rosmini Introd. alla Filosofia Casale Tip. Casuccio p« 48 sgg. Per maggiori notizie sul tei-  smo degli scolastici vedi : P. D'Ercole — Il teismo filosofico cristiano Torino  — Pbantl - Geschicte  d. Logik viene dalla predicazione) e queste pai per la fede si m-  tendono di più.   Uoc. cil.) Ex his apparet... quaedam intelligi ali-  quando, etiam antequam credanlur... al nunc eliam per  tldem... ampiius intelligìintur... linde colligdtur... quae-  dam non credi nisi prius intelligantur et ipsa per fidem  ampiius inleJlegi.   Quanto poi alle cose che mima sono credute che  comprese esse non sd ignorano ael lutto perchè anche si  amano.   (Seni. Ili d. XIII, 3) « Nec ea quae prius creduntur...  penitus ignorantur tamen ex parte, quia non sciumtur.  Greditur ergo quod ignoratur non penitus sdcut etiam  ama tur, quod ignoratur ».   Pensiero ripetuto in S. Tommaso ed in Dante.   In conclusione Pier Lombardo si libra Ira un misti-  cismo ed un razionalismo temperato non sfuggendo alla  contraddizione, ma affronlaaidola. Il suo concetto è quello  che informa in gran parte la filosofìa cristiana. La fede  non distrugge la ragione ma al contrario le da ali più  potenli per sollevarsi. Ed è in questo senso che bisogna  mtendere le parole di S. Agostino: Intellectum ualde cana,  e quelle di S. Anselmo: Fides quaerens intellectum. Principia rerum inquirenda sunt prius ut earum  notitia plenior haberì possi t. (Prol. in Collectanea),     Teoria debili Uoivrrsali Delle arti e delle scienza del trivio e del quadrivio,  secondo la celebre classificazione data da Marciano Ca,-  pella e riprodoUa da Cassiodoro e da Isidoro di Sivi-  glia (1), la dialettica ovverosia la logica che da principio  parve una scienza preparatoria avente per ogge'tio più !e  parole che le cose, acquistò nelle scuole medioevali un  tale sviluppo che fini col proporsà i più alti problemi me-  tafisici e diventare la prima delle scienze. Tra questi pro-  blemi, il più importante, anzi il fondamentale che sembra  raggruppare sotto di sé tutti gli altri, ed agitò potente-  mente l'età di cui parliamo, è il problema degir universali,  quale la filosofia si è posto innanzi in tutti i tempi.   11 Protois (2) scrive che la questione degli universali  ebbe a suo autore Roiscelino : ma ciò è per lo meno detto  male. Già Aristotele si era posto innanzi il problema nelle  Categorie ed in molti altri suoi libri; e nella prefazione  della Isagoge di Porfirio tradotta da Boezio, esso è pure     (1) Haurbaux — De la philosophie scoi. Paris e]iuiK:iato, ma non risolto, parendo esso al commeintatore  di Aristotele di troppo grave importanza. Ecco le parole  Ui Porlirio:   M Cosi tralascierò di dire se i generi é le specie sus-  sistono o sono soltanto e puramente nei pensieii, se come  bUSbisleaiti sono corporei od incorpoi'ei, se sono fuori oppu-  re entro le cose seìusibili e con esse coeistenti : essendo trop-  po grave una tale impresa e rictiiedendo maggiori ri-  cerctxe ».   Porlirio divise cosi il problema nelle sue tre questioni  fondamentali e iu in tal modo che esso fu segnalato ai  primi scolastici.   I generi e le specie sussistono per sé o consistono sem-  plicemente in puri pensieri ? Come sussistenti sono essi  corporei od mcorporei ? Ed infine sono essi separati dagli  oggetti sensibili o sono contenuti negli oggetti stessi for-  mando con essi qualche cosa di coesistente?   A ragione Porfirio reputava queste questioni di som-  ma difficoltà. Perchè comunque vi si risponda si è con-  dotti nell'alto mare della speculazione, ed ognuna di esse  sembra pod risolversi nelle suprema questione della quaile  tutte dipendono : Che cosa è Tessere ?   JNuUa di più naturale che gli scolastici inoltrandosi a  disputare di un tale argomento con molto ardire ed acu-  tezza d mgegno, ma non con pari preparazione filosofica  sollevassero infinite e tempestose discussioni che molto  spesso non approdavano ad alcun risxiltato.   Tre furono le scuole principaU che si avviarono ad  una diversa soluzione del problema: quella dei realisti,  dei nominalisti, dei concettualisti.   11 nome di realisti fu dato nel secolo XII a coloro che  affermavano che i geiìeri e le specie, gli universali insom-  ma sono una realtà sostanziale, una vera entità distinta  dalie altre; nominalisti furono detti coloro che negavano  la realtà di questi universali, e li ritenevano come sem-  plici concezioni astratte del soggetto ricondotte ad una  idea comime per mezzo della comparazione; ma poiché  questa conclusione, dovendo ammettere che tutto ciò che  v'ha di comune non è ohe im suono, un nome vuoto di si-  gnificato, flatus vocis, portava alla negazione di ogni  scienza, sorsero i concettualisti i quali aggiungevano che  un tale suono, im tal nome rappresenta un pensiero, uq  concetto il quale proviene dalla somiglianza visibile delle  cose diverse : il che non è sostanziale ma è percepito dalla     intelligenza umana come inerente alle nature individual-  mente deiterminate.   Dopo ehe Giovanni Scoto aveva portato agli estremi  il inealismo, venne Roscelino che parve dirigere la dottrina  del nominalismo contro la stessa teologia dogmatica sol-  levando un grave scalpore nelle scuole.   Poiché se nulla esiste che «non sia individuale il dog-  ma della divinità una in tre pers;one veniva dalla ra^one  5icalzato nelle sue basi. Era bensì un errore l'uso stesso di  armi dialettiche prò e contro i misteri della fede, perchè  l'ordine della fede non è cruello della ragione, ma d'altra  ip-arte era un errore rimìediabile. Ed a difesa della realtà u-  nivereale si levò S. Anselmo prima abate di Bec in Nor-  mandia poi arcivescovo di Cantorberv e nella prima meta  deJ secolo deoimosecondo Guglielmo di Chamoeaux, il fiero  avversario di Abelardo. E fu quella del primo propria-  meoite un realismo mistico, quello del secondo un realismo  scientifico.   Abelardo poi fu il capo riconosciuto, a volte vincitore,  a volle vinto, del concettualismo, col anale si possono tro-  vare molti riscontri nella filosofìa moderna.   Quale doveva essere l'opinione dei Dottori della  Chiesa in tanto contrasto di idee? Evidentemente nessuna  delle suesposte- se e quando lo notevano. I realisti con-  fondevano le cose con la generalità delle idee, i concet-  tualisti negavano il reale fondamento delle idee universali,  'i nominalisti le idee stesse: i dottori non potevano ap-  partenere a nessuna di queste dottrine pericolose. Essi do-  vevano essere tratti a trovare un criterio conciliativo, né  ciò era diffìcile, secondo l'avviso dellHaureau. E quale  era questo criterio? La specie non è solamente un con-  cetto, essa è altresì una cosa, non una cosa in sé, a parte  degli oggetti sensibili, ma nna cosa facente parte con essi,  formante con essi qualche cosa di coesistente.   Tale a un dipresso la posizione dei dottori tra le  scuole che dividevano i logici disputanti dell'evo medio,  corrispondenti sotto altro nome alla scuola dell'idealismo  critico ed alla scuola deiridealismo trascendentale.   Tra questi dottori concilianti che l'Haureau non pro-  priamente chiama indifferenti si trova il nostro Maestro  delle sentenze : il quale pero non si occupa espressamente  della questione, ma solo ne tratta per incidenza^ ragio-  nando della Trinità nel 1. libro delle Sentenze. Per lui l'universale non è come per Guglielmo di Champeaux un  solo essere dappertutto identico (1) e però difficile a com-  prendere, ma al contrario colla moltiplicazione numerica  dell'individuo diventa anche in essenza tante volle accre-  sciuto. Se Tanimale è il genere, dice il Maestro, e il ca-  vallo è la specie si avranno tre cavalli ed anche tre ammali.   {sent. I d. XIX, 8) « ... cum sit animai genus et equus  species, appellantur tres equi iidemque animalia ».   Perciò quando la specie può dirsi triplice devono  anche essere tre gli individui. Tutto dunque si raccoglie  nell'individuo.   Ma egli poi aggiunge : Abramo, Isacco, Giacobbe sono  tre individui, ma nello stesso tempo anche tre uomini p  tre animali. Specie e genere non sono quindi forme sog-  gettive, ma un oggetto che è nelle cose poste al difuori di  noi (2). Ma non si dirà che l'essenza divina è una specie  e le persone individui, come è specie Tuomo e sono in-  dividui Àbramo, Isacco e Giacobbe. Poiché se Tessenza  divina fosse una specie come Tuomo, come non si direbbe  che Abramo, Isacco e Giacobbe sono un sol uomo cosi  non si direbbe una essenza essere tre persone.   (sent. I. d. XIX, 9-: « Sicut enim dicuntur Abraham,  Isaac, lacob, tria individ'ua ita tres homdnes et tria ani-  malia... 10: Nec speoies est essentia divina et persona  individua, sicut homo tepecies est, individua autem A-  braham, Isaac et lacob. Si enim essentia specìes est ut  homo sicut non dicitur unus homo esse Abraham, Isaac  et lacob. ita non dicitur una essentia esse tres personas ».   Il Maestro quindi, a mio parere, non nega alle idee  universali un* fondamento reale in quanto però vanno unite  agli oggetti sensibili: ma distingue nettamente le cose  temporali dalle cose divine alle quali non convengono i  nomi di universale e di partìcdare e le distinzioni della  logica.     (1) Abael hist. cai.: « Erat antem in ea sententia de communi-  tate nnlversaliam, nt eandem essenti ali ter rem totam simtil singulis  suis inesse astrueret individuis. cfr. Espenberg — Die phil. d Pet.  Lomb. EsPENBEROER — op. cit. p. 22 « Art nnd Gattung sind dem-  nach nicht subjektive Gebilde, sondern objektiv in der una mnge-  benden Auszenwelt begrìindet »,  Teoria della coi>osc^i>za.     i\el Gommenlario delle Epistole di S. Paolo Pier  Lombardo -venendo a parlare delle visioni le distingue 'n  tre generi: corporali, spirituali, intellettuali. E le ultime  sono le. più perfette j)erchè vedono non cogli occhi corpo-  rali ó colla immaginazione, ma per sé stesse. Qui il Mae-  stro viene a toccare sebbene in modo indiretto della co-  noscenza che noi abbiamo coi sensi corporali, ei di quella  che acquistiamo colla memoria, la quale ci ripresenta im-  magini vere quali abbiamo già apprese coi sensi o finte  quali rimmagin azione forma secondo il suo potere.   (Collectanea in epist. ad Cor. II, 12) « In bis tribus  géneribus (scil. visionis) illud primum manifestum est om-  nibus quo vid'etur coelum et omnia oculis conspicua. Nec  illud alterum quo absentia oorporalia cogitantur, insi-  nuare difficile. Coelum enim et terram et quae in eis vi-  dere possumus, etiam in eis constituti cogitamus^. Et ali-  quaiido nihil videntes oculis corporis* animo tamen cor-  porales imagines intuemur vel veras sicut ipsa corpora  vidimus et memoria retinemus vel fictas sicut cogitatio  formare potuerit. Aliter cogitamur quae novimus, aliter  quae non «novimus w.   Altrove nel Commentario dei Salmi paragona la me-  moria al ventre che riceve i cibi : (Comm. m ps. XXX,  13) « Sicut enim venter escasi recipit ita memoria rerum  tenet notitiam ».   Nel libro III delle Scinlenze il Lombardo pariando della  fede dice che essa si riferisce soltanto alle cose che non  ci appaiono è sostanza di cose sperate come disse S. Paolo  e ripetè poi Dante (1), che conobbe il Maestro forse più dì  S. l'ommaso. E qui contrappone la fede alla conoscenza  che si ha delle cose evidenti, tra te qiiali pone anche l'anima  deiruomo che sebbene non veduta, è da lui intuita cogi-  tando. Concetto raccolto poi e svilupipato da Cartesio, il  quale prenderà la coscienza umana come il punto di par-   (l) S. Paolo (Ep. ad Eb. XI\* « Est fides sperandanim snbstan-  tia rerum, argumentum non apparentinm . » — Dante (Par.):  Fede è siLStanzìa di cose sperate - ed argomento dene non parventi.  ieaia dì ogni indagiiie filosofica ed argomenterà che IV  sistenza ci è data dal pensiero: cogito ergo sum. Sent.  Ili, d. XXIll, 7). c( Non sicul corpora quae videmus oculis  corporeis, et per ipsorum imagines quas memoria tene-  mus, etiam absentia cogitamus; nec sicut ea quae non vi-  demas et ex his quae videmus cogitalionem utromque  formamus, et memoriae commendamus, nec sicut homi-  nem, cuius animam^ etsi non videmus, ex nosbna coniici-  mus et ex motibus corporis hominem sicut videndo didi-  cimur, intuemur etiam cogitando : non sic vìdetur fides in  corde in quo est, .ab eo cuius est, sed eam tenel oerliseima  scientia ».   CosH nel capitolo già citato delle CoUectanea, il Mae^  stro tocca della conoscenza che noi abbiamo del nostro  intelletto intellicfendo . E' insomma nella ragione stessa la  spiegazione della nostra ragione.   (In epist. ad Cor. II, 12) «... hac visione quae didtur  intellectualis ea cemuntur, quae nec cemuntur corporea,  nec ullas gerunt formas similes corponim, velui ipsa mens   et omuis animae affectio bona. Quo enim alio modo nisi  intellisrendo intellectus consoicitur? Nullo. ».   Pier Lombardo paragona rintellieenza ad una luce  interiore che illumina res<=ere intelligente:   (im epist. ad Eph. cap. 4) « Omnis qui inteiligit  quadam luce interi ore illusfrRtiir». Ripete in sostanza il  concetto già espresso da S. Agostino:   (in ps. 41 n. 2 Mierne 36 p. 465) « omnis qui inteiligit  luce quadam non corporali, non carnali, non exteriore sed  interiore illustratur ».   Chiarito il modo di conoscere, resta a parlare dell'og-  getto della conoscenza.   Che cosa è il vero ?   Tutto che è è vero, secondo il concetto della filosofia  patristica, come, e questo Io si vedrà in appresso, tutto  ciò che è è pure buono. Il falso va inteso in un sen®o del  tutto privativo, cioè non è sostanza di qualche cosa, non  è ciò che è, ma è ciò che non è.   (In ps. V, 6) « Veritas enim est de eo quod est. Men-  dacium vero non est subslantia vel natura ìd est, non est  de eo, quod est natuiraliter, sed de eo, quod non est ».   Ed in altro luogo dice il Maestro : la verità è ciò che  è come vien detto : (in ps. XIV, 7) « Veritas est cum res  ita est cum dicitur ».   Quia ip9e diodi ei faeta suut   S. Paolo     Sostanza e^ accM^ote.     S. Agostino concepiva la sostanza come il concetto di  assenza o di naliu-a preso in senso generale da subsistere^  peirchè ogni cosa sussiste a sé slessa : omn«is enim res ad  se ipsam subsistil. Ma in senso più particolare, s'intende  di ciò che è soggetto d'altre cose come del colore, delle  forane corporee, ecc.   J\on attrimenti Pier Lombardo: (sent. II, d. XXXVII,  4 in ps. LXVIII, 2), « Substanlia intelligitur illud ouod  sumus: homo, pecus, terra, sol; omnia ista substantiae  snnt : eo ipso quo sunt naturae, ipsae substantiae dicun-  tur. Nana et quod nulla est substantia, nihil omnino est.  Substantia enim est cdiquid esse ».   Ma in quest'ultima significazione, il detto .^oncetto non  appropriasi a Dio perchè Dio è semplice.   (Sent. I, VIII, 8) « Res ei^o anutabiles. . . proprie di-  cuntur substantiae, deus autem, si subsistit, ut substantia  proprie dici possit, inest in eo aliquid in subiecto et non  est simplex ».   E' quindi a torto che parlando di Dio si dice che è  una sostanza, perchè non vi è nulla in lui che non ©ia  Dio, e la parola sostanza non si dice propriamente che  delle creature. Parlando di Dio è meglio servirsi della  parola essenza»     88   Riguardo all'accidente il maestro delle Sentenze è  dello stesso avviso di Boezio che lo definisce : (in Porph.  ed. Basii, p. 92) Accidens est quod adest et abest praeter  subiecli corruptionem. (Sent.) a non sicut ac-  cidentia in subiéctis quaé possunt abesse vel adesse ».   S. Agostino e Boezio sono i due filosofi ai quali iì  nostro Lombardo attinge con eguale misura. Nel IV delle  Sentenze parla degli accidenti, cioè delle apparenze che  gli sembrano piuttosto esistere senza soggetto che essere  nel soggetto, quali il sapore ed il peso (accidenti) nel sa-  cramento della Eucaristia, che sono senza soggetto, poi-  ché quivi non è altra sostanza che quella del sangue e del  corpo del Signore, che non soggiaciono a quelli accidenti.  Perciò son quegli accidenti per sé sussistenti.   (Sent. IV d. XII, 1; in epist. ad Cor. I) « Si autem  quaeritur de acciflentibus quae remanent i. e. de speciebus  et sapore et pondere, in quo subiecto fundentur, potius  mihi videtur fatendnm existere sine subiecto quam esse  in subiecto, quia ibi non est substantia nisi corporis et  sangumis dominici, quae non affìcitur illis accidentibus...  remanent ergo illa accidentia per se subsistentia ad my-  slerium riti ». « Natura multiplex nomen est. Nam et philosophi et e-  thici et theologi usu plurimo ponunt hoc nomen». Cosi  Gilberto Porrelano (in Boet. ed. Basii, p. 1223). Ma se  molli sono i nuovi significati presso i filosofi del secolo  XII, vediamo in quale senso più propriamente l'adopera  il nostro Pier Lombardo. Per lui natura è ciò che é con-  creata colla sostanza.   (Sent. II, d. XXXVII, 2) « Substantiae nomine atque  naturae dicunt signifìcari substantias ipsas et ea quae  naturali ter habent scilioet quae concreata sunt eis sicut ani-  ma naturaliter habet intellectum et imaginem et volnnta-  tem et huiusmodi». Le €086 che awemgano per causa seminale, si dice che  aweaigono secondo natura, quelle invece fuori natura av-  vengano soltanto per volontà divina. Ne viene che ogni  creatura obbedisce a leggi naturali.   (Sent. II, d. XVIII, 7) « Et illa quae secund'um cau-  sam seminalem fìunt, dicuntur naturaliter fieri, quia ita  cursus naturae hominibus innotuit. Alia vero praeter natu-  ram, quorum causae tantum suni in deo... omnis creaturae  cursus habet naturales leges » (1).   yuale sarà dunque la legge naturale ? Quella che eb-  bero anche i pagani (2), che indica all'uomo ciò che è  bene e ciò che è male e che si riassume nel non fare  agli altri ciò che non si vuole sia fatto a noi.   (in epist. ad Rom. cap. 2) « Etsi non habeat (s'cil.  gentilis homo) scriptam legem, habet tamen naturalem,  qua intellexil et sibi conscius est, quid sit bonum quidve  malum; lex enim naturalis iniuriam nemini inferre, nihil  alienum praecipere, a fraude et penuria abstinere, alieno  coniugio non insidiari et caelera alia et ut breviter dicatur  nolle aliis facere auod tibi non vis fieri ».   Quanto poi alla persona, il Lombardo, parte dal con-  cetto ^ià enunciato da Boezio che la persona è la sostanza  individuale d'una natura ragionevole: (ed. R. Peiper p.  193, 4) « Persona est naturae rationalis individua substan-  tia ». Ovunque noi troviamo una sostanza individuale nella  specie umana, ivi è una persona. Ma l'anima che è so-  stanza razionale, è dunque una persona? Pier Lombardo  risponde negativamente ricorrendo all'airtificio di parole  ^à adoperato da Boezio nel sfuo libro de duabus naturìs  (ed. Peiper p. 193, 10). Cioè Tanima è sostanza razionale,  ma non tuttavia persona, perchè non è per se sormns^ cioè  è congiunta ad altra cosa.     (1) Dio solo può agire contro natura: (Sent. loc cit) super hunc  naturalem cursum Creator habet apud se posse de omnibus facere  aliud, quam eorum naturalis ratio habet; ut. scilicet, vir^a arida re-  pente fioreat, et fructum ^^at. et in juventute sterilis femina, in  senectute pariat, ut asina loquatur et huiusinodi.   ,2) V. Ciò. - De leg. XV. 45; Atque, si natura confirmatura ius   non erit, virtutes omnes toUentur Nam haec nascuntur ex eo,   quia natura propensi sumus ad diligendos homines, quod fundamen-  tum iuris e3t.  (S©nt. Ili, disi. X, 2) « Nam et modo anima est sub-  stantia rationalis, non tamen persona, quia non est per se  sonans, imo alii rei comiuncta ».   Tuttavia l'anima è persona quando per se est: onde  quando è sciolta dal corpo è persona come è Fangelo.   (Sent. Ili, dist. V, 5; disi. X, 1) « Anima, non est  persona, quando alii rei unita est personaliter. . . absoluta  enim a corpore persona est siculi angelus ».     frateria e forila*     U^ià S. Agostino parla di una materia informe dalla  quale sarebbero derivate tulle lè cose che sono distinte e  formate.   (de genes. contra Manich. I, 5, 9 Migne 39 p. 178)  « Primo ergo materia facta est confusa et informis unde  omnia fìerenl quae distincta atqua formata sunt, quod  credo a graecis caos appellari). Così pure Boezio (edit  Basii p. 1138) parla di una materia informe e siemplice  come la ale e di una materia formata e non semplice come  i corpi. Anche per Pietro Lombardo le cose create furono  formate da una materia informe.   ,(I'n ps. XXXII, 9) « Quoniam ipse dixit, idest voluit  et facta sunt (scil. coelum et terra) id est formata de in-  formi materia ». E cosi pure nel secondo libro delle Sen-  tenze : (dist. XII, 2, 3) « Alii vero hoc magis probaverunt  et asseruerunt, ut prima materia rudis atque informis...  creata sii Postmodum vero. . . ex illa materia rerum corpo-  ralium genera sunt formata secundum species propria®.   Da S. Agostino il Lombardo deriva pure il suo con-  cetto della forma.   (Sent. II, d. XVIII, 16) « Dicit Au^ustinus causas  primordiales omnium rerum in deo esse mducens simili-  ludinem artifìcis in cuius dispositione est qualis futura sii  arca ».  Il Maestro ripete a questo punto appoggiandosi intie-  ramente a S. Agostino quanto Abelardo e Gilberto P^r-  retano dicono con compiuto linguaggio scientifico quando chiamaiio le idee forme esemplari della mente divina. Non  così chiara come in questi elementi platonici è l'idea della  forma presso i sentenziarii ai tempi aristotelici. Causalità.     Qui il Maestro dà questa definizione della idea d;  causa : Tutto ciò che in sé permanendo genera od opera  qualche cosa, è il principio, ossia la causa di ciò che ge-  nera od opera.   (Sent. I, d. XXIX, 2) « Si autem quicquid in se manet  et gignit vel operatur aliquid, principium est eius rei  quam gignit vel edus quam operatur... ».   Dio però si dice eh© fa ed opera qualche cosa, per-  chè è la causa delle cose scientemente esistenti.   (Sent. II, d. I., 2) « Deus ergo aliquid agere vel fa-  cere dicitur, quia causa est rerum noviter existentium ». Con ciò vien presupposto che tutto ciò che avviene,  avviene per una causa necessaria e che nulla nasce che  non sia preceduto da una legittima cagione. Pier Lom-  baixlo in seguito si domanda se nulla possa sfuggire o  questa legge di causalità e possa awemare per caso. Ma  egli risponde : se qualche cosa avviene nel mondo per  caso, non tutto il mondo è regolato dalla divina pìnovvi-  denza. Se non tutto il mondo è regolato dalla divina  provvidenza, v'è qualche natura o sostanza che non ap-  partiene all'opera della ]>rowidenza. Ma tutto ciò che è, è  buono per la partecipazione di quel bene che noi chiamia-  mo divina provvidenza. Nulla dunque può avvenire per  caso. Inutile è il notare che questo argomento si trova  già in S. Agostino, Ugo di S. Vittore, Abelairdo.   (Sent.) « Si ergo casu aliqua fiunt in  mundo, non providentia universus mundus administratur.  Si non providentia universus mundus administratur, ali-     (1) Vedi EspuNBKBOBB — Op. dt. p, 58, 59. qua natura vel substanlia est quod ad opus providentiae  non pertinel. Omne autem quod est... boni illius parteci-  patione... bonum est, quod divinum bonum provideoliam  vocamus. JNihil ergo casu flit in mundo ».     $pazio ^ trnypo.     Le nozioni di spazio e di misura, ci vengono date da  Pier Lombardo, laddove parla di Dio che è immensurabile  ed iniCBteso.   (Sent. I, XXXVII, 9, 10) Neque dime(nsionem habet  (sdì. deus) sicut corpus cui secundimi locum assigmatur  principium, medium et finis et ante et retro, dextera et  smistra, sursum et deorsum quod sui interpositione facit  distantiam et circumstantiam... dicitur in Scriptura ali-  quid locale sive circumscriplibile et e converso, sci!, quia  diimensionem (bapierus longiltudinis et latitudinis distaai-  liam lacit in loco ut corpus...   Più avanti definisce il luogo nello spazio ciò che è  occupato in lunghezza, altezza e larghezza da un corpo.   (Sent. I, XXXVII, 4) « Locais in spatio est quod lop-  giludine et altitudine et latitudine corporis oocupatur)).   Come Dio neppure gli spiriti creati possono essere  circonscritti nello spazio. Essi però possono in certo modo  essere locali perchè quando si trovano in un luogo (non  si trovano in un altro : però non hanno dimensioni e per  quanto siano numerosi, non possono riempirlo.   (Sent.) « Spiritus vero creatus quo-  dammodo est localis, quodammodo non e®t localis. Localis  quidem dicitur, quia definitione loci terminatur, quoniam  cum alicubi praesens sit totus, alibi non invenitur. Non  autem ita localòs est ut dimensionem capiens distantiam in  loco faciat ».   Il Lombardo infine conclude che Dio non si muove  né nello spazio, né nel tempo, che Tanima si muove nel  tempo, ed il corpo nelo spazio e nel tempo. Di qui le loro  diverse natuire.     93   (ibid.) « Ecce hic aperte oistendilur, quodi nec locis  aec temporibus mutatur vel movetur Deus, spiritualis au-  tem natura per tempus unovetur, corporalis vero etiam  per tempus et locmnn.   Che cosa è il tempo ?   Ad una tale domanda cosi risponde S. Agostino nelle  Confessioni (1) : Se nessuno me lo chiede lo so; se voglio  spiegarlo a chi me lo chieda non lo so: con piena fede  dico tuttavia di sapere che se nulla passasse, non vi sa-  rebbe un tempo passato e se nulla dovesse avvenire^ non  vi sarebbe un tempo futuro, e se nulla fosse non vi sareb-  be un teimpo presente.   Pier Lombairdo definisce il tempo, la variazione delle  qualità che sono nella stessa cosa che si muta.   (Seni. I, XXXVII, 10) <( Mutari autem per tempus  est variari secundum qualitates quae sunt in ipsa re quae  mutatur... Haec enim mutatio qua fìt secundum tempus,  vanatio est qualitalum . . . et ideo vocatur tempus».   L'eternità fa antilesi al tempo. Il Lombardo come A-  belardo ripete qui le parole di Boezio: Stabilisque ma-  nens das cuncta momri quando dice: (In ps(. LVI) «Et  video, id est sciam, quoniam tu es proprie qui stabiEs ma-  nens das cuncta moveri ».   Garattei'a appunto dell'eternità è la stabilità, del tem-  po la mutabilità (in epist. ad Hebr. I) « In aeternitate  enim stabilitas est, in tempoire autem varietas ; m ae-  ternitate omnia stamit, in tamporei alia aocedunt, alia suc-  fcedHint ».     Cosrpolosia.  Il problema cosmologico si presenta al Maestro nel  libro II delle Sentenze alla prima distinzione. Egli dimostra  sulla fede delle Sacre Scritture, che non vi è che un prin-  MiGNB 32 p. 816 ( Espenberger op. cit. p. 73) :  Quid est tempus? Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti expli-  care velim nescio: fidenter tamen dico sci re me, quod si nihil prae-  teriret, non esset praeteritum tempus ; etsinihil adveniret, non esset  fUtunim tempus, ei si nihil esset, non esset praesens tempus.     , cipio solo di tulle le cose. Alcuni (ilosoli, come Platone ed  Anstolile, avevano pensalo che il mondo avesse molti  principii, che la materia che lo comipone fosse increata  ed eterna, che Dio non ne fosse punto il Greatore, ma sem.-  plicamente l' oa^ganizzatore. Ma la dottrina cattolica al  contrario ci insegna che Dio solo, principio di tutte le cose,  ha tutto crealo dal nulla, le cose visibili e le invisibili, il  cielo e la terra.   (Sent. H I, 1) (( Creationem rerum insinuans Scrip-  tura deum esse creatorem initiumque temporis atque om-  nium visibilium ved invisibilium creaturarum in primordio  suo ostendìft dicens :   (g:en. I, 1) In principio creavit deus caelum et terram.  His enim verbis Moyses... in uno principio a deo creatore  mundum factum refert elidens errorem quorundam plura  sine principio fuisse opinantium. Plato namque tria inilia  existimavit deum scilicet exemplar et matenam et ipsam  mcreatam sine principio et deum quasi artificem non  creatorem ».   E altrove conferma che il mondo non è coetemo a  Dio e senza alcun principio, ma creato da Dio come in-  segna la scrittura.   (in ps. CXLVIII, 5) « Quia ipse dixit et faota sunt —  hoc dicit contra illos qui dicunt mundum deo coateoiimn ».   Dio creò ogni cosa dal nulla : creare è propriamente  ricavare qualche cosa dal nulla : onde a Dio solo compete  il nome di creatore.   (Sent. II, I, 2) « Creator enim est, qui de nihilo ali-  quid facit. Et creare proprie est de nihilo aliquid facere....  hoc nomen (scilicet creator) soli deo proprie congruit...  Ipse est ergo creator et opifex et factor ».   11 Lombardo passa poi ad esamina-re la creazione del  mondo e specialmente .l'opera dei sei giorni commentando  il racconto della Genesi. Le spiegazioni ch'egli offre, sono  tolte ai padri antichi tra i quali S. Ambrogio, S. Agostino,  S. Gregorio, il venerabile Beda e S. Giovanni Grisostomo.  Insieme con vedute geniali e profonde, si trovano in quella  parte dei suoi libri ove si paria della creazione, alcune  teorie che le scienze naturali hanno poi definitivamente  condannate. Basta ricordare la teoria dei quattro elementi  di cui si compone il cosmo, e quella che considera il fir-  mamento come una immensa volta solida alla quale sono  attaccati gli astri, e Topinione che i piccoli insetti nascano     &6  dalla corruzione dei carpi organici. Ma il Lombardo espone  la scienza dal secolo decimosecondo : d'altronde egli di tali  cose sembra parlare in forma dubitativa e come è suo  costume non fa che esprimere le opinioni che ai suoi tempi  correvano.     dell'uorpo o^il'unlv^rso*     Là dove parla della creazione, il Maestro pada anche  del fine per il quale l'uomo e l'angelo furono creati. La  somma bontà divina ha voluto far parte della sua felicità  etema a due delle sue creature, all'angelo ed all'uomo :  perciò li creè ragionevoli affinchè conoscessero il sommo  bene, l'amassero, ed amandolo lo jK>ssedesseiro e posse-  dendolo fossero felici. L'angelo di natura incorporea e  l'uomo composto di anima e di corpo furono creati per  lodare e per servire Iddio; non già perchè questi abbia bi-  sogno dei servigi umani, ma affinchè l'uomo godesse nel  servirlo, poiché in questo si giova chi serve e non colui  al quale si serve.   (Seoit. II, I, 7) « Factus ergo... homo projter deum  dicitur esse, non quia creator deus et summe beatus alte-  rutrius indiguerit officio... sed ut servirei ei ac fruirelur.'..  in hoc ergo proficit serviens... non ille cui servi tur.   Pensiero che vien perfezionato da S. Tommaso (Sum.  contra gentes II, 46) e dall'Afighieri (Farad. XXIX):   Non per avere a sé di bene acquisto  Ch'esser non può, ma perchè suo splendore  Potesse risplendendo, dir: Subsisto.   In seguito aggiunge che come l'uomo è stato fatto per  Dio, così il mondo per l'uomo, il quale si trova in un  mezzo tra ciò che a lui serve e ciò a cui egli stesso deve  servire.   (Sent. II, I, 8) « Et sicut factus est homo propter  deum i. e. ut ei serviret, ita mundus factus est propter     é6   hominem, scil. ut ei servirei. Positus est ergo homo 'n  medio ut et ei servirelur et ipse serviret; ut acciperet u-  trumque et reflueret totum ad bonum hominis et quod ac-  cepit obsequium et quod impeffidit... ».   L uomo infine si distingue da tutti gli altri animali  per la sua aspirazione alle cose superne, ed è perciò  che egli ha il corpo eretto e quasi rivolto al cielo.   (Seni. II, XVI, 5) « Ecce osl^isum est, secundum  quid sit homo similis dei... Sed in corpore quaaidam pro-  prieitatem habet quae haec indicat, quia §st erecta statura  secundum quam corpus ajiimae rationali congruit, quia a  caelum erectum est ».   E' lo stesso concetto di Cicerone (De legibus I, 9, 26):   « Nam quum caeteras animantes abiecisset ad pa-  stum, solum hominem erexit ad caelique quasi cognationis  domiciliique pristini conspectum excitavit ».   E non di Cicerone soltanto (1).     (1) Tra i gentili cf. Ovidio Metamorf. I, 84-86 Sallustio Catil.  Tra i filosofi cristiani Agostino (de gen. centra Manich. I, XVII),  Cassiodoro (de anima cap. IX) Beda (in hexaem I) Abelardo (in  hexaem).  Tantum enim, ut tradit auctoritas, cognoscit  ibi quiHque quantum diligit. (Sent. II, IX, 4)     Foteoze d^ll'anirpa.     11 problema psicologico veniva proposto da Ugo di  S. Vittore in queisti termini: (de sacram. I ps. 5, e. 3)  yuaerunlur autem quiam plurima de origine animae,  quando creata fuit et tolde creala fuit et qualis creata  fuit. (cfr. August. de quant. animae I, 1).  August. de quant. animae I, 1).   Era questione tra i filosofi secondo Giovanni di Sa-  lisbury (Mei. IV, 9) se fosse una sola potenza la quale  ora sentisse, ora ricoondasse, ora immaginasse o se pur  rimanendo l'anima semplice, essa fosse dotata di molte  potenze (1).     (1) MieNB 199 p. 922 A: < Recolo enim fuisse philosophos, qui-  bus placuit, sicut incorpoream simplicem et individuam esse substan-  tiam animae, ita et unam esse potentiam, quam multipliciter prò  rerum diversitate exercet. Eorum ergo opinio est, quod eadem po-  tentia, nunc sentiat, nunc memoretur, nunc immaginetur; nunc di-  scemat investigando nunc investigata assequendo intelligat. Sed  plures sunt e contrario sentientes animam quidem quantitatem simpli-  cem, sed qualitatibus compositam et sicut multis obnoxiam passio-  nibus, sic multis potentiis utentem ». V. Espenberger op. cit p. 88.  Pier Luiinbardo si attiene in ciò a S. Agostino e defi-  nisce quei^le potenze come naturali proprietà dell'anima,  yueste sono una sola sostanza ed esistono nell'animo so-  stanzialmente; e noiii accidentalmente : poiché sebbene rela-  tive tra di loro ciascuna è sostanzialmente nella sostanza  oell animo.   (Sent. 1, 111, 12) « Hic attendendum est ex quo sensu  accipiendum sit quod supra dixit, illa tria, scilicet memo-  riam, intelligentiam, voluntatem esse unum, imam mentem,  unani essentiam, quod utique non videtur esse venim  juxta »pix>piietatem sermonis... Illa vero tria, naturales  proprietales seu vii-es sunt ipsius mentis... (14) Sed jam  videndum est quoniodo liaec tria dicantur una substantia.  Ideo quia sciJicet in ipsa anima vel mente substantialiter  existunt, non sicut accideiitia in subiectis, quae possunt  adesse vel abesse uiide Aug'ustinus in lib. IX de Trm. cap.  5 alt : Admonemur, si utcumque videre possumus, haec in  animo existere substantialiter, non tanquam in subiecto,  ut color in corpore; quia etsi relative dicuntur ad invincem,  singula tamen substantialiter sunt in substantia sua ».   Spiegata cosi coli autorità altrui la natura delle po-  tenze dell anima, il Lombardo distingue nella ragione due  parti : la parte superiore che si volge alle ragioni eteme  delle cose, la inferiore che si piega a osservare le cose  temporali!   (11, XXIV, 6) « Ratio vero vis animae est superior, quae,  ut ita dicamus, duas habet partes vel differentias, superio-  rem et inferiorem. Secundum superio«rem, supemis con-  spiciendis vel consulendis intendit; secundum inferiorem,  ad temporalium dispositionem conspicit ».   Da ciò deriva la distinzione ch'egli fa della sapienza  e della scienza. La definizione che diedero gli antichi della  sapienza, cioè : Sapientia est rerum divinarum humana-  rumque scientia, va divisa cosi che sapienza si dica pro-  priamente della conoscenza delle cose divine, scienza della  conoscenza delle cose umane.   (S. Ili d, XXXV, 1) «... illa definitio dividenda est, ut  rerum divinarum oognitio sapientia proprie nuncupetur,  hùmanarum vero rerum cognitio proprie scientiae nomen  obtineat ».   L'influsso mistico di S. Bernardo suo protettore e dei  suoi primi maestri di S. Vittore, si fa sentire in Pier Lom-  bairdo là dove afferma che la maggiore o minore quantità  di sapere deriva dalla quantità di amore: (Sent. II, IX,  4) « Sed qui magis diligit plus coginioscit ». Abelardo definisce Tanima come una certa essenza  spirituale e semplice: (introd. ad theol. Ili, 6) « Anima  quippe spiritualis quaedam et simplex essentia est ». Non  diversamente la definisce il nostro Lombardo là dove dice  (sent. I, IH, 12) « Mens enim i. e., spiritus rationalis es-  sentia est spiritualis et incorporea ».   Così Abelardo come Pier Lombardo, si riconnettono a   5. Agostino che in più luoghi dei libri tratta deU anima -n  quanto spirituale ed incorporea.   L'anima si dice semplice perchè non si diffonde in e-  stensione, ma in qualunque corpo in tutto o in qualsivoglia  paorte di essa è intiera. Cosi quando avviene qualche cosa  nella più piccola parte del corpo, che sia avvertita dall'a-  nima benché non avvenga in tutto il corpo, tutta Tanima  sente perchè non tutta si tien nascosta.   (Sent. I, VII, 5) « (Simplex dicitur anima) quia mole  non diffunditur per spatium loci sed in unoquoque corpore  et in toto tota est et in qualibet eius parte tota est. Et  ideo cum fit aliquid in quavis exigua particula corporis  quod sentiat anima, quamvis non fiat in toto corpore, illa  tamen tota sentit quia totam non latet ».   In ciò segue il Lombardo la dottrina professata da A-  gostino e da Plotino, il primo nel libro di trinitate (VI,   6, 8), de quantitate animae (cap. 33, 70) de immut, animae  (I, 16, 25) il secondo in enn. (IV, 33 edit Volkmanm).   Ma se Tanima è semplice, dice il Lombardo nel luogo  citato, in confronto del corpo, per sé stessa non è semplice  ma molteplice. Poiché altro è essere operoso, altro Inerte,  altro acuto, altro memore, altro è desiderio, altro è ti-  more, altro è letizia, altro è tristizia, e queste cose ed altre  dello stesso genere si possono trovare nella natura delVa-  nima ed alcune senza le altre ed alcune più ed altre meno,  onde è manifesto che la natura dell'anima non é semplice,   ma molteplice « unde manifestum est animae non sim-   plicem sed multiplicem esse naturam ».   In conclusione la natura deiranima offre due lati: è  semplice da un lato se si paragona colla natura del corpo  molteplice se si paragona colle sue potenze  Ma ranima è altresì immortale. L'uomo è fatto a  somiglianza di Dio e la somiglianza nella essenza perchè  essa è immortale ed indivisibile.   (Seni. Il, XVI, 4) «Factus est homo... ad similitu-  dinem dei... similitudo in essentia quia et immortalis eit in-  divisibilis est. linde Augustinus, de quant, anim. I, 2-3:  « Anima facta est similiter deo, quia immortalem et indis-  solubilem fecit eam deus ».   Ma la filosofia scolastica fedele al precetto: distingue  prequenier^ come limita e divide il concetto della semplicità  deiranima cosi na limita e divìde quello della immoortalilà,  distinguendo il coooeilto della morte intesa in senso asso-  luto di annientamento da quello della stessa intesa in senso  relativo di mutazione : ed in quest'ultimo senso Tanima non  è del tutto immortale.   (Seni. I, Vili, 3 ) « In omni mutabili natura nonnulla  mors est ipsa mutatio quia fecit aliquid in ea non esse quod  erat, unde et anima humana quae ideo dicitur immortalis  quia secundum modum suum nunquam desinit vivere^ ha-  bet tamen quandam mortem suam ».     Orijioe d^U'aoirpa.     Riguardo airorigine delFanima si agitavano ai tempi  del Lombardo due diverse opinioni, Tuna del traduzioni-  smo (1) che pretendeva che Tanima venisse generata come  il corpo, l'altra del creazionismo che pretendeva al con-  trario che fosse creala da Dio direttamente.   A quest ultima si attiene naturalmente il Lombairdo  con Abelardo, Roberto PuUus, Ugo di S. Vittore. Dio creò  ranima dal nulla dice il Maestro: (Sent. II, XVII) «Flatus  factus est a deo, non de deo, non dealiqua materia sed de  Odo di Cambra!: (de pen. orig. II) « Sunt autem multi qui  volunt animam ex traduce fieri sicut corpus et cum corporis semine  vim etiam animae procedere » Vedi Espen. o. e. p. 96,     I 101   nihilo ». Quindi cornhatte; ropinione di coloro che affer-  maaio con Origene che le anime sono state tutte create  al principio del mondo, e quella di coloro che con i Lu^ci-  feriani e Cirillo ed alcuna dei Latini pensano che Tanima si  comunichi ai figli per generazione e nello stesso modo  che il corpo. Mentre Tanima non è infusa nel corpo che  quando esso è tonnato ed adatto a riceverla.   (Sent. II, XVII, 3) Sed quicquìd de anima primi ho-  minis aestimeoitur, de alias certissime sentiendum est, quod  in corpore creentur; creando emim infundit eas deus et in-  fundendo creat ». E più avanti : (Sent. II, XVII, 8) e( Unde  Augustiiniis in ecclesiast, dogm. animas hominum di<rit non  esse ab initio inter creaturas intellectuales natuT^as nec  simili creatas sicut Origenes fìngit necque in corporibtis  per coitum seminum sìcuT Luciferani et Cyrillns et quidam  LatiinoiTum praesuanptoìres affìrmant, sed dicimus corpus  tantum per coniugii oopulam seminari, creationem vero  animae solum cneiatoirem nosse eiusque iudicio... formato  iam corpore animam creavi atque infimdi ».   E nel libro IV spiega ancor meglio quest'ultimo pen-  siero ricorrendo all'esempio della casa e del suo abitatore  che vi entra soltaoito quando è ben costruita :   (Sent. IV, XXXI, 5) « Sed iam formato corpori anima  datur, non ini conceptu corporis nascitur cum semine de-  rivata. Nam SI cum semina et anima existit de anima, tunc  et multae animae quotidie pereunt cum semen fluxu non  proficit Ti'ativitati. Primum oportet domum compaginari et  sic habitatorem induci».   E qui è opportu/no ricordare che questa teoria dell'a-  nima si trova pure con poche varianti nel canto XXV del  Purgatorio laddove il Poeta discorre della nascita dell'uo-  mo e spiega come (Tanimal divenga fante.     Relazione tra Fanirpa ed il corpo.   . Seguendo il concetto aristotelico dell'età di mezzo, il  Lombardo ritiene Tanima come forma del corpo.   (Sent. IV, XXXI, 5) « Formatum vero intelligitur cor-  pus propria anima animatum et informe quod nondum  Habet animam. Un tal concetto va intimamente collegato con un passo  della Bibbia: (Exod. 21, 22, 33) « Si quis percusserit  mulierem praegnantem et aborlivum fecerit, sì adhuc in-  formalum fuerit, multabitur pecunia; quod si formatmn  fuerit, reddel animam prò anima »,   Il Lombardo deride le favole di coloro che immagi-  nano che le anime siano rinchiuse nel coq>o, come in un  carcere, per i peccati commessi in cielo.   (Sent. I, XLI, 4) « Multi... in fabulas, vanitatis abie-  runt dicenls, quod animae sursum in caelo pecoant, et se-  cundum peccata sua ad corponia prò meritis diriguntur, et  dignis sibi guasi carceribus includuntur. lerunt hi tales  post cogilationes suas et... versi sunt in profundum, di-  centes animas in caelo ante conversatas et ibi aliquid vel  mali egisse et prò meritis ad corpora terrena detrusas esse.  Hoc autem respuit catholica fides ».   Ma invece Dio diede senso alla natura coirpoTea perchè  Tuomo capisse che se potè unire due cose cosi diverse,  quali l'anima è il corpo in una tale unità, non è impossi-  bile ch'egli possa partecipare per quanto umile alla sua  gloria.   (Sent. II, I, 10) « Lufeamque materiam fecit ad vitae  sensum vegetare, ut sciret homo, quia si potuit deus tam  disparem naturam corporis et animae in federationem u-  nam et in amicitiam tantam coniungere, nequaquam ei  impossibile futurum rationalis creaturae humilitatem.... ad  sua Rloriae partecipationem sublimare ».   Pier Lombardo non crede che il corpo sia carcere  dell'anima nel senso che sopra si è detto, perchè f)er es-  sere opera di Dio è un bene: ma è pure un carcere nel  senso che il corpo a corrompe e corrompendosi aggrava  Fanima.   (in ps. CXLI, 10) «Vel potius corpus est career non  utique secundum id, quod deus fecit ipsum bonum est, sed  secundum id, quod comimpitur et aggravat animam i. e.  oorruptio eius quae venit ex peccali, career est».   Altrove chiama il corpo quasi strumento e servo del-  Tanima : (in epist. ad Rom.) « Si corpus, quo inferiore  tamquam famulo vel instrumento utitur anima... ». E cosi  pure si legge in un suo sermone : (2P De codem die : — In passione Domini seu in annuntiatione :  — vedi Protois op, cit. pag. 144) « Domi-  nus est spiritus noster, anima tamquam domina, corpus  tanquam servus. Hi tres ini domo una cooperantur et si  oonveniunt in bono, vdr bonus intelligilur ». Che cosa è infatti Tuoino se non un'aniina fornita  di corpo? si domanda Ugo di S. Vittore (1). Però a que-  sto riguardo il Lombardo usa di una certa moderazione;  ed il suo modo di pensare intomo alla persona deiruomo  ci fa credere che egli dà un posto importante anche alla  vita (2).   Il Maestro delle Sentenze sul finire del suo libro  principe, cioè alla distinzione XLIII del libro IV, entra  poi a discorreire della morte e della risurrezione del corpo.  E fu il padre Michele da Carbonara il primo a far notare  la conformità che vi è tra le dottrine svolte da Pier Lom-  bardo e i luoghi della Divina Commedia che parlano della  risurrezione, quantuncfue la ragione fondamentale di essa  data dal Maestro diversifichi in sostanza da quella data dal  Poeta.   Nella risurrezione ciascuna anima separata riprenderà  il coqx),   ripigtierà sua carne e sua figura (Inf. VI, 98)   quale era nel fiore della età: e sarà mage^iore allora la  sua beatitudine e la sua cognizione : « amplior erit eorum  cognitio ». Ciò è diffìcile a spiegarsi, dice il Maestro. Ma  è certo che nell'anima è un vivo desiderio di ripigliare il  corpo; riunita al corpo Tanima ha perfectum naturae suae  modum ed ha ampliorem cognitionem.   Altri che verranno poi, si spingeranno più addentro  nella questione come farà S. Tommaso. Ma, dice il Car-  bonara, il Maestro sta come colui che tira le linee più  larghe d'un quadro, in suU'indeterm inalo; e si legga at-     (1) Sent. I, XV Migm 176: « Quid enim est homo nisi anima  habens corpus ? »   (2) Nel sermone 11 (in die Cineris ad poenitentes — .Ms. lat. 18170  in Protois p. 138): «vita praesens messi comparatur et aestati, quia  nunc inter ardores tentationum colligenda sunt futurorum merita  praemiorum. »   (3) P. Michele da Carbonara — Dante e Pier Lombardo (Sent  lib. IV dist. 43-49) con prefazione e per cura di Rocco Murari 2 ^  ediz. Città di Castello Collezione di Opuscoli Danteschi inediti o rari diretti da  M. A. Passerini.     104   tentamente questo tratto « ^f mmor sU healitudo sanctorum  post iudicium; sì leig'gta attentamente e si vedrà che se vi  è trailo che specchi il canto XIV del Paradiso, questo tratto  è desso. La slessa queslfone, gli stessi punti determinali;  ma Insieme rindeterminatezza, il vago, che neirinsieme  domina il Maestro, si risente nel Poeta :   Come la carne gloriosa e santa  Pia rivestita, la nostra persona  Più grata fia, per esser tutta quanta :   (cperfeobum natuirae suae modum habebit anima».Omne qaod est, in quantum est, bonum est.     Tutta TEtica scolastica è necessariamente compene-  trala della dogmatica teologica. Quella di Pier Lombardo  non diversa in sostanza da quella dei suoi maestri^ si riat-  taeca alle discussioni teologiche intorno alla morale che  ai suoi tempi si dibattevano.     Ubero arbitrio.     La prima questione che ci conviene esaminare, è  quella che riguarda il libero esercizio della volontà.   La libertà, pensa egli con Ugo di S. Vittore (Sent.  Ili, 9), di cui sente più volle l'influsso, chiede di poier  compiere non solo il male, ma anche il bene.   (Sent. II, XXV, 13) « Verum nobis magis placet ut  ipsa libertas arbitrii sit et illa, qua magi® liber est malum,  et alia qua quis liber est ad bonum faciendum. Ex causis  enim variis sortitur diversa vocabula».   Il Lombardie si chiede in appresso quali fattori deter-  minano la libertà umana e ne distingue due, cioè la ra-  gione e la volontà.     106   La prima disceme tra il bene ed il male, la seconda  si muove con desiderio spontaneo ad effettuarlo. Ecco la  definizione e la spiegazione del libero arbitrio secondo  Pier Lombardo.   (Seni. II XXIV, 5) « Liberum verum arbitrium est  facultas rationis et voluntatis, qua bonum eligitur gratia  assistente, vel malum ea desistente. Et dicitur liberum,  duantum ad voluntatem quae ad utrumlibet flecti potest.  Arbitrium vero, quantum ad rationem, cuius est facultas  et potentia illa, cuius etiam est discemere inter bonum et  malum et aliquando quidem discrelionem habens boni et  mali, quod malum est eligit, aliquando vero quod bonum  est...,.» e più avanti:   (Sent. II, XXV, 1) « Liberum ergo dicitur arbitrium  quantum ad voluntatem, quia voluntaTie moveri et sponta-  neo appetitu ferri potest ad ea quae bona vel mala indicet  vel indicare potest ».   Il Lombardo si affretta poi a spiegare un passo di  S. Agostino, ove questi afferma che l'uomo perde il libero  arbitrio dopo il peccato, onde si legge nei Vangeli: (2  Pel. 2) A quo erdm devictus est, huic servus est (Vedi  August. enchirid. 30, 9 Migrie 40).   TIon ciò non si vuol dire che l'uomo perde intiera-  mente la libertà, ma solo quella che ci trattiene dalla mi-  seria e dal peccato (Seni. II, XXV, 8) <( Ecce liberum  arbitrium dicit (scil. Augustinus) hominem amisisse; non  quia post peccatum non habuerit liberum arbitrium, sed  quia libertatem arbitrii perdidit non quidem a necessitate,  sed libertatem a miseria et peccati. Est namque lib^rtas triplex, scilicet a necessitate,  a peccato, a miseria. A necessitate et ante peccatum et  post aeque liberum est arbitrium. Sicut enim lune cogi  non poterai, ila nec modo. Ideoque voluntas merito apud  deum indicalur, quae semper a necessitate libera est *i  iiiunquam cogi potest. Ubi necessitas, ibi non est libertas;  ubi non est libertas, nec volunlas et ideo nec merilum.  Haec libertas in omnibus est tam in malis quam in bonis..».   Il Sentenziario perciò nel suo Commentario nei Salmi  (rimprovera coloro che attribuiscono alle stelle ed al fato,  la colpa dei loro peccati facendone in certo modo respon-  sabile Iddio, che è Tautoire del creato : (in ps. XXXI, 6)  « Ila clamel aeger ad medicum, et dicat : Cum libero ar-  bitrio creavi! me Deus: ideoque si peccavi, ego peccavi  non fatum, non fortuna, non diabolus, me coegit : sed' ego  persuadenti consensi ».     io:   In conclusione, il maestro delle Sentenze^ come già  si è veduto, definisce il libero arbitrio un& facoltà della  ragione' e della vodontà colla quale si sceglie il bene col  soccorso della grazia od il male se la grazia ci manca.  Ma questa definizione, aggiunge l'autore, non conviene a  Dio né ai santi che par essere incapaci di peccare, hanno  un libero arbitrio più perfetto. 11 libero arbitrio di Dio è  la sua volontà ònnisapiente ed onnipotente, che fa senza  necessità e liberamente tutto ciò che le piace. Quella degli  angeh e dei santi non può più portarsi verso il male,  perchè essi sono coiiifermati neha beatitudine e neilla  grazia. L'uomo dopo il peccato ha pure conservato il  suo, ma perchè egli voglia il bene gli è necessaria la  grazia del Redentore.   La teoria del libero arbitrio, che il Maestro professa,  intesa a conciliaire il dogma coi dettami della ragione, non  sfugge, come è ben naturale, a gravi difficoltà. Cosi egli  è costretto per quaiinto si sforzi di provare il contrario,  a mettere l'uomo in una posizione non del tutto giusta,  rispetto alla sua libertà, poiché se egli fa il male, ne è  tutta sua colpa (ideoque si peccavi ego peccavi — in ps.  loc. cit.) quantunqua non possa andare ^nte dal peccalo,  mentre se fa il bene, il merito è tutto di Dio.   (Sent. II, XXVII, 7) « Non tamen sine libero arbitrio  proveoiiunt merita nostra, scilicet boni effectus eo-rumque  progressus atque bona opera quae Deus remunerat in no-  Das et haec ipsa sunt Dei dona. Unde Augustinus (12) ad  Sixtum presbyterum: Cum coronat Deus merita nostra  nihil aliud coronai quasn munera sua ».   Quamto poi alla obbiezione che se Dio sa tutte le cose  che debbono avvenire, noi non possiamo fare in altro modo  di quello che a lui è noto, dal che ne verrebbe la nega-  zione di ogni libertà umana, egli non oppone nulla in que-  sto punto dove espone la teorica del libero arbitrio. Ma noi  possiamo conoscere il suo parere in proposito, purché  noi ci riportiamo a quel punto del libro P, ove parla della  prescienza di Dio, allora assai dibattuta dalle sette sco-  lastiche, come quella che sembrava condurre a riconoscere  il fatalismo. Il Maestro delle Sentenze per rispondere a  questo argomento, fa uso della distinzione così nota agli  scolastici del senso composto e del senso diviso, ovvero  del senso congiuntivo e del disgiuntivo; cioè che non si  può dare che Dio abbia preveduto una cosa e ch'essa non  avvenga, ma è possibile che essa non avvenga, e allora     J06   Dio non Tavrebbe preveduta. Sottigliezze a cui la scuola  dogmatica è costretta a ricorrere ogni qualvolta vien mes-  sa ale strette. Ondie il Pomponnazzi nel suo libro: De  Fato, libero (mbitrio et providentia Dei (V lib. Bàie 1525)  ove si sforza egli pure si conciliare il destino la provvi-  denza e la libertà deiruomo, finisce col non saper dare  altre soluzioni che quelle poste innanzi dalla scolastica,  confessando però che esse sono piuttosto delle illusioni che  delle vere risposte: Videntur potius esse illusiones islae  quam respomiones (lib. III).     Felicità.     Fine a cui tendiamo tutti é la felicità : (sent. V, XLIX,  2) « Beatos autem esse velie, omnium hominum esl ». Il  Lombardo ricorda le parole di Cicerona: Beati certe  omnes esse volufnus, ed è lontano dal contraddirvi, ma  anzi ne deduce che poiché tutti desiderano la felicità, tutti  ne hanno dentro di sé la conoscenza: «... sequitiu' ut  omnes beatam vitam sciant » (1).   Vediamo ora come procede il Lombardo neiranalisi  della felicità. Sul principio del primo libro egli comincia  dal distinguere la differenza che v*è tra usare di una cosa  e fruirne. Usare d'una cosa è adoperarla a compiere la  nostra volontà, fruirne è usarne con gioia, è aderirvi per  amore e ciò non avviene in questa vita.   (Sent. I, I, 3) « Uti est assumere ali<juid! in f acultateni  voluntatìs. Frui autem est, uti cum gaudio, non adhuc spei  sed jam rei... et ita in hac vita non videmur frui sed tan-  tum uti, ubi gaudeamus in spe, cum supra dictum sit, frui  esse amore dnhaerere alieni rei propter se : qualiter etiam  hic multi adhaerant Deo».     (1) Dantb — Purgatorio XVII 127-9:   Ciascun confusamente un bene apprende  Nel qual si queti T animo, e desira:  Perchè di giugner lui ciascun contende.     l09   E poiché questo sembra far iidsceire eontraddiàoni,  egli la rivolse così chiarendo il suo concetto. Tanto qui  come nel futuro si può in certo modo fruire della beati-  tudine eterna, ma mentre in cielo noi la godremo in modo  perfetto perchè, come dice S. Agostino, l'avremo vicina  qui in terra, non la godiamo che per riflesso ed è ciò che  ci fa sopportare i travagli della vita.   (Sent. I, I, 4) « Haec ergo quae sibi contradicere vi-  demtur, sic determinamus, dioente», nos et hic et in futuro  frui : sed ibi proprie et perfecle et piene ubi per speciem vi-  debimus quo fruemur, hic autem, dum in spe ambulamus  fruimur quidem sed non adfeo piene... Idem (scil. Augu-  stinus) in Uh. de Doc. christ. ail (lib. I, cap. 30) : Angeli  ilio fruentas jam beati sunt quo et nos frui desideramus;  et quaai'timi in hac vita iam fruimur, vel per speculum,  vel din aenigmate, tanto nostram peregrinationem et lolera-  bilius sustioemus et ardentius fruire cupimus ». In questa  teorioa il Lombardo si liem stretto a S. Agostino ed esprime  41 medesimo comcetto che più tardi sarà svolto da S. Tom-  maso col fine mediato ed iumiediato.   guanto alla questione, se si possa gioire della virtù  per sé stessa o solo come mezzo di acquistare la vera fe-  licità, egli si prova come è suo metodo di conciliare la  prima opinio*ne, che sembra confortata da un passo di  S. Ambrogio, con la seconda professata da S. Agostino,  affermando che la virtù può essere amata per sé slessa,  ma che non dobbiamo fermarci lì, ma bisogna tendere ad  un fine più elevato e riferire la virtù a Dio come fine ul-  timo.     Amoralità d^Ue aztooi urpaoe*     Quali sono le azio^ni umane che si debbono chiamare  buone secondo il Lombardo e quali cattive ? Egli risponde  suirautorità di S. Ambrogio e di S. Agostino, che ciò che  fa buona o cattiva una azione è Tintenzione. Ed in ciò non  discorda da Abelardo che afferma appunto nelFEtica (cap.  XI) : « Unde ab eodem homine cum in diversis temporibus     Ilo   idem fiat, prò divemsitate tametn inlentionis eius operatio  modo bona modo mala dicitm* ». Infatti il Maestro nel libro  secondo d^e Sentenze (dist. XI, 1) dice quasi allo slesso  modo : « Nam simpliciter ac vere sunt boni illi actus, qui  bonam causam et intentionem id est qui voluntatem bonam  comitantur et ad bonum finem tendunt: mali vero sim-  pliciter dici debent qui perversam habent causam et inten-  tionem ». E cita a questo proposito le parole di S. Ago-  stino : (enarr. in ps. XXXI, 4) « Bonum eriim opus intentio  facitìK   In conseguenza è un'azióne buona confortare i po-  veri se si fa per compassione e misericordia : ma la stessa  azione diventa cattiva se la si fa per ambizione. Vi sono  tuttavia delle azioni le quali sono cattive per sé stesse e  che la intenzione non può rettificare: tali sono la men-  zogna e la bestemmia.   Ksse poi sono cattive in quanto sono privazioni dell'es-  sere, perchè ogni cosa, in quanto è, è buona : Omne quod  est in quantum est bonum.     L.a le^^e fT)orale«     Stabilito cosi guali sono le azioni buone o cattive, &  seconda dell'intenzione, restava a determinare quale è il  caratieire morale che deve contraddistinguere le nostre a-  zioni e qual norma si deve necessariamente seguire per  muovere al bene : dione insomma dove deve dirigersi- la buo-  na intenzione. In coerenza colle dottrine da lui professate,  •il Maestro pone la regola delle azioni umane nella legge  divina : perciò il peccato consiste in una infrazione alla  legge divina (1).   (Sent. II, XXXV, 1) « Peocatum est omne dictum vel  factum vel concupitum quae fit contra legem Dei, . . Quid est  ipeccatum nisi legis divanae praevaricatio? ».     (1) n Lombardo ammette altresì una legge naturale, lex natu^  raliSj la quale ebbero anche i Gentili, ma questa non basta a con-  durre a salvamento.     Ili   Nofli è qui il luogo di indicare il difetto originale d una  tale dottrina che nel porre fuori di noi la legge del nostro  operare, si condanna alla, contraddizione. Mi basterà ri-  coirdare che essa si presenta assai più sviluppata in S. Tom-  maso, il quale pone innanzi iJ concetto aristotelico della  ragione umana, la quale è la natura dell'uomo in quanto  è uomo: ondfe poiché ogni cosa è buona quando è con-  forme alla sua propria natura, ogni cosa sarà buona ri-  spetto airuomo quando sarà conforme alla ragione. Ma  questa stessa ragione e natura umana ripete il suo potere  regolativo dalla natura divina : « quod autem ratio umana  sit regula voluntatis humanae, ex qua eius bonitas mensu-  retur, habet ex lege aeterrm quae est divina ». (Sum  theol. II. 2.).   In conclusione la filosofia patristica e scolastica, si  accorda nel porre il principio normativo dell'operare u-  mano fuori aeiruomo stesso, cioè nella sapienza divina  identica essenzialmente col suo volere.     Bei}e ^ n)ale.     Abbiaino veduto come Pier Lombardo affermi che  tutto ciò che è, in quanto è, è bene : « Omne quod est, in  quantum est, est bonum » (Sent. II, XXXVI, 37). E poi-  ché l3io é d'autor© di tutto ciò che esiste Dio é rautore di  ogni bene.   (Seoit. I, XLVI, 12) (Deus) omnium quae sunt auctor  est, quae in quantum siuiif bona sunt.   Ma non viieme di conseguenza che Dio sia l'autore an-  che del male, giacché il Lombardo come tutti gli Sco-  lastici, concepisce il male come gualche cosa di propria-  mente negativo, cioè come la privazione o la corruzione  del bene.   (Sent. II, XXXIV, 4) « Malum enim est comiptio yel  privatio boni... Quid enim aliud quod malum dicitur nisi  privatio boni?».   Anche S. Agostino nel libro De civitate Dei (XII,  7 Migne 41 p. 355) parla di causa deficiente e non efficiente  del cattivo operare « Nemo igilul* quaeral ellkientem cau-  sani malae volunfalis: non enim efficiens est, sed defl-  ciens, quia nec illa effectio est sed defeclio ».   E di qui trae buon argomento il Maestro a confutare  l'obbiezione di eoJoro che insinuano che Dio essendo au-  tore di tutto ciò che esiste, deve essere altresì autore del  peccato.   (Sent. I, XLVI, 12) « Quocirca mali auctor non ^t  (scil. deus) et ideo ipse summum bonum est, a quo ^n  nullo delicere bonum est, et malum est deflcere. Non est  ergo causa deficiendi id' est tendendi ad jion esse, qui,  ut ita dicam, essendi causa est, quia omnTum quae suoit,  auctor est, quae in quantum sunt, bona sunt... Ecce aperte  habes quod deficere a deo... malum est ».  L.oiT7bardo nel cielo del 5oIe.     Entrato €on Beatrice nella sfera del sole Dante, ap-  preoide diairanima di S. Tommaso chi essa sia e chi siano  i fulgor vivi e vincenti Sella sua ghirlanda.   Se si di tutti gli altri esser vuoi certo,  Di retro al mio parlar ten vien col viso  * Girando su per lo beato serto,   QuelValtro fiammeggiare esce dal riso  Di Graziano, che Vano e l'altro foro  Alutò si che piace in Paradiso.   L'altro ch'appresso adorna il nostro coro  Quel Pietro fu che con la poverella  Offerse a Santa Chiesa suo tesoro   {Par, X, 100, 108;.   Qui Francesco Buti commenta :  con la poverella offerse fece la sua offerta della sua fa-  cilità, come la po-verella della quale dice rEvangelio di  Santo loanni, che offerse poco, perchè «poco aveva, ma  con buon cuore e peirò Iddio accettò più la sua offerta che  quella del ricco, che, benché offerisse molto, non offerse  con si buono animo. Commento di Francesco Buti sopra la Divina Commedia per  cura di C. Giannini Pisa I più dei oammentatapi ricordano le prime parole del  prologo del Liber Sententiarum :   « Cupientas aJiquid de penuria a-c temiitate nostra  cum paupercula in gazophilacium Domini miUere ardua  scandere et opus supra vires nostras praesumpsimus».   Le parole di Pier Lombardo chiaramente fidludono al  noto episodio della poverella, riportato da San Luca (XXI,  1, 4) e da S. Marco (XII, 41, 44) e nooi da San Giovanni  come erroneamente riferisce il Buli.   Dice San Luca:   « Respiciens autem vidit eos, qui mittebant munera  sua in gazophilacium diviles. Vidit autem et quamdam vi-  duam pauperculam mittenlem aera minuta duo. Et dixit:  Vero dico vobis, quia vidua haec pauper, plus quam  omnes misit. Nam omnes hi ex abundantia siti miserunt  in munera Dei : haec autem et ex eo, quod deest illi, omoiem  victum suum quem habuit misit ».   Così ad un dispreeso racconta San Marco con leggere  vananti : solo è da notarsi che egli chiama la donna uidua  una pauper e vidua hxiec pauper e non mai col diminu-  tivo tanto affettuoso di paupercula che per essera stJ^lo  scelto da Pier Lombardo fa pensare ch'egli si sia riferito  in special modo al passo di San Luca della Volgata.   Ma ciò poco importa : importa invece assai il notare  come l'umiltà della vidua paupercula avesse toccato «pro-  fondamente il cuore di Pier Lombardo il quale nel vergare  quelle parole doveva forse ricordarsi con teneirezzìa di  un'altra vedova poverella di un lontano paese di Lombar-  dia : e come Dante che nei veirsi che dedicava ai persooiaggi  della sua^ Commedia soleva «per lo più introduirre Tele-  mento soggettivo dei ricordi ed affetti personali non senza  ragione ricordò quel punto e quello solo dell'opera di  Pier Lombardo.   L'influenza che il ma^fister Petrus esercitò sul pen-  siero del Divino Poeta non è stata ancora tutta quanta  spiegata e compresa nella sua giusta entità. 11 tkeologus  . Dantes nullius dogmatis expers dà a S<a«n Tommaso il  posto d'onore che gli conviene, ma a San Tommaso com-  mentatore di Pier Lombardo. Se Dante e San Tommaso  non si possono ancor dire contemporaiiiei sono vissuti a  poca distanza di tempo e sono entrambi commentatori e  perfezionatori dell'opera ancora rozza si ma feconda di  Pier Lombardo : l'uno raggiunge finalmente colla sua ma-     115   unifica somima quel connubium fidei ac rationis che il  Magister aveva solo tentato, Taltro ina canta il trionfo  glo-rioso.   Che Dante avesse letto il Rbro delle Sentenze con  mollo amore ci è provato non solo dai versi succitati, ma  da numeirosi passi del Paradiso ove come diremo tosto  rimitaziione risulta evidente : ed io sarei anche propenso a  credere che rAlighieri non si fosse Termato alla lettura di  quel libro solo ed a tutti noto di Pier Lombardo.   Qui sono tratto ad accennare fuggevolmente alla  famosa questione del viaggio di Dante a Parigi : questione  ove troppo, eletti ingegni si cimentarono perchè io presu-  ma di recare qualche nuovo raggio di luce.     Dante zill'Uoiversiià di Parigi.     Giovanni di Serra valle comme«ntatore del secolo XV  racconta :   « Anagogico dilexit Theojogiam sacram, in qua diu  studuit tam in Oxoniis in regno Angliae quam Parisius  in regno Franciae : et fuit Bachalarius in Universitate Pa-  risiensi in qua legit Senlentias prò forma magisterii : legit  Biblia : respondit omnibus doctoribus, ut moris est, et  fecit omines actus qui fieri debent per doctorandum in  Sacra Theologia ».   Egli continua poi a dire che Dante non potè ottenere  la laurea perchè gli mancò il denaro per la licenza (deerat  pecunia). Onde tornò in Firenze per acquistarlo, optimus  artista, perfectus Theologus e quivi fatto «priore si diede ai  pubblici uffici e più non si curò della Università diPa-  rigi (1). ,^   Il (racconto di Giovainni di Serravalle fu accolto dairO-  zanam e dairArriviabene con maggior serietà che mm me-     (1) G. TiBABOSOBi — storia della leti. Hai. Modena 1789 Tom. V.  p. 490 - Fratria F. de Serravalle Translatio et comentum totius libri  Dantis Aldighieri cum textu italico Fratria Da Colle, nunc primum  edito — Prati 1891 - (Jiachetti in fol. ritasse. Secondo un tale» racconto Dante sarebbe andato a  Parigi nella sua giovinezza contro raffestazione del Vil-  lani, del Boccaccio, di Benvenuto da Imola che fanno il  viaggio degli ultimi anni. Ed il chiaro professor Cipolla  osserva che è appena credibile che Dante fossei in cpiel  tempo cosi spirovviiyto di credito da non potere ottenere  la somma che gli era necessaria : onde giudica il racconto  di poca probabilità. Ma TinverosimigHanza di lutto il rac-  conto appare manifesta quando un poco si pensi al modo  come era organizzata la facoltà teologica di Parigi ai tempi  di Dante.   Il buon vescovo di Fermo volendo mostrarsi molto ap-  profondito nella conoscenza dei gjradi accademici com-  mette degli errori grossolani : et fuit Bacchalarius in Uni-  versitate Parisiensi in qua legit Senlentias prò forma Ma-  gisterii: legit Biblia ».   Ma si è veduto nella parte storica del lavoro che  Tanno in cui il baccelliere éiventsiV aSententiarius cioè  commentava in pubblico il libro delle Sentenze non pre-  cedeva, ma seguiva la spiegazione della Sacra scrittura:  dopo quell'anno il baccelliere si chiamava baccalaureus  forrnatus che risponderebbe mutatis mutandis al nostro  laureando. Perciò Giovanni di Serravalle per essere esatto  come vuol parerlo, avrebbe dovuto invertire l'ordine delle  parole. Ma non vogliaino essere molto esigenti su ciò:  c'è ben altro.   Gli omnes aclus qui fieri dehent per doctorandum  in sacra Theologia (1) erano e forse Giovanni di Serra-  valle lo ignorava, i sermoni (sermones) e le conferenze  (controversia^) che si dovevano tenere nei .tre o quattro  anni che precedevano la licenza ed infine le tre dispute  pubbliche di cui la più solenne veniva chiamata Sorbonica:  ma la licenzia (licentia) che veniva dopo tali prove accor-  data e che il Serravallei chiama con termini vaghi inceptio,  conventus^ non esigeva alcuna pecunia di sorta.     (1) Il SerravaUe e tutti i Commentatori si riferivano aU' accenno  Dantesco;   si come il baccelUer s'arma e non paria,  fin che il maestro la question propone,  per approvaria e non per terminarla.   Par. XXIV 46 - i8, Infatti già il concilio Lateranense del 1179 aveva  proclamato due punti fondamentali : la necessità e la gra-  tuità della licenza ed un tale decreto trovò po'sto nelle De-  finire di Gregorio' IX. Solo per eccezione fu eoncess^o sul  finire del Xll a Pietro Comestore, cancellario di Nótre  Dameij per i suoi pregi personali, da Alessandro III, di pre-  levare uoiia piccola rimunerazione per la concessione della  licenza.   Ed ancora il Regolamento di Roberto di Courcon del  1215 insisteva sulla concessione gratuita ed ìncondiziomita  della licenza : ed una tale disposizione veniva conifermata  nelle reigole aggiunte dal papa Gregorio II di cui cono-  sciamo il benefico intervento nei dissensi tra rUniversità  ed di Re di Francia. Nella famosa bolla Parens scientia-  rum (1231) viene prescritto formalmente « che il cancel-  liere non potrà esigere da coloro ai quali conferirà la li-  cenza né giunamento, né obbedienza, né denaro, né cau-  zione, né promessa ».   Ora è noto a tutti che lo statuto di Roberto di Courcon  confermato e completato dalla bolla di Gregorio IX, la  quale fu pure rinnovata senza modificazione da Urbano IV  nel 1261, continuò ad essere per tutto il secolo XIII 'a  legge fondamentale deirUniversità e pertanto della facoltà  teologica di Parigi.   Per il che sembra a me che il fondo storico del rac-  conto di Giovanni di Serravalle venga a mancare sempre  più di consistenza.   Carlo Cipolla nel suo dotto ìavaro Sigieri nella Divi-  na Commedia, dopo avere ossei-vato che il Sigieri ricor-  dato tra i beati del canto X deve ritenersi come Sigieri di  Brabante, e non va identificato col Sigieri de Conrtrai {Le  Clero) visisuto in epoca diversa, e neppure con quello di  cui si iparla nel sonetto del Fiore (Castets) avverso a San  Tommaso, crede probabile, che Dante fn a Parigi negli  ultimi anni di sua vita ed airincirca negli anni 1316-1318  e non vi ascoltò le lezioni di Sigieri di Brabante perché  questi era morto avanti il 1300 (1).   L'abate Feret tornando su questa questione nel volu-  me II deiropera cit. (cap. Les Sorbonnistes) crede errat-ì  così, l'opinione del Le Clerc che del Castets, combatte ^e     (1) Giornale storico den« Lett. It. Voi. Vili — Torino LoescUer  1886 p. 54 - 139,     118   asserzioni di Gaston Paris, ed airiimesso che il Sigieri di  Dante è il Sigieri di Brabante che quitla cette vie en repu-  tation d'une orthodoxie parfaite, non si discosta mollo  dalle oonclusdoni del professor Cipolla che mostra di mion  conoscere (1).   Questo sembrerebbe coaidurci assai fuori del nostro ar-  gomento se una buòna osservazione del prof. Cipolla a  questo proposito della partecipazione dell'Alighieri alle  lezioni dd Sigieri non mi facesse tosto ritornarvi.   Egli afferma che « per ciò che riguarda Sigieri, altro  è ammettere nel luogo Dantesco vm ricordo personale, ed  altro è credere che questo ricordo personale sia tale dav-  vero da comprenderà poS la partecipazione dell'Alighieri  alla scuola di quel filosofo. Alle scuole di Parigi i libri  del Sigieri eratno rimasti auasi come lesti agli scolari,  tanta Sama le sue lezioni vi avevano lasciato ».   Cosi per ciò che riguarda Pier Lombardo, io ag-  giungerò che oer spiegare la profonda conoscenza che  Dante ebbe del Libro delle sentenze, non è necessario di  credere col Serravalle che Damle abbia commentato le sen-  tenze nella scuola di Teologia perchè lo studio che in quei  tempi se ne faceva in Parigi, la fama che vi godeva e che  già aveva provocato i lamenti di Ruggero Bacone, certo  potevano non poco contribuire a farglielo conoscer© più  in là del frontìsipizio e del prologo.   Per fama egli conobbe a Parigi Sigieri, per fama vi  conobbe Pier Lombardo ed entrambi egli ricordò con par-  ticolar cura nei suoi versi ove palpita un affetto personale.     Influen2nL di Pier Lorpb^rdo  nell'Operai di Dante*   Ma se poca o nessuna influenza ebbe la filosofìa di Sigieri  neiropera di Dante, molta invece ne ebbe in quella di  Pier Lombardo.  Un esempio:   Speme dissHo, è un attender certo  Della gloria futura, il qual produce  Grazia divina e precedente merlo.   {Par, VI 67, 69)   (1) P. Fkrkt La f acuite de Tkeol, de Paris - Ricarcl 1898 Tom,  II. Parte II.     119   Pietro di Dante, TOttimo, la Chiosa Cassanese, ricor-  dano la definizione di Pier Lombardo: «est spes certa  exjeiotatio futurae beatitudinis veniens ex Dei gralia et  mentis praecedentibus ». (Lib. Seni. IH. dist. 26).   Iacopo della Lama, rÀnonimo rioooimno assai meno  opportunamente a San Toit^màso: spes est motus appe-  Wiiae virtutis consequens apprehensione boni fulnri ad-  nui possibilis adiptsci ».   Ho citato, per ppoporre un esempio, uno dei tanti  luoghi ove il Lombardo viene dal poeta preferito all'Aqui-  nale, o meglio dire ove cosi San Tommaso come Dante  attingono -alla medesima fonte: Pier Lombardo. Qui si  ha una traduzione letterale delle parole del Maestro che  appaiono anche in San Tommaso sotto una veste più fi-  losofica. Ma non è questo il solo punto ove un tale raf-  fronto è possibile.   Fu uno dei più assidui, il Senatore Carlo Neg'-;ni,  a far notare la ^ainde importanza che ebbe il libro del  Maestro nel pensiero di Dante.   JNella prefa/jine al volume. .V. della Bibbia volaare  ri884), accennando a Pier Lombardo della cui opera si  giova Tespositore dei salmi di quella Bibbia, promise di  occuparsene : « In un altro mio scritto dove avrò Taiuto di  un teologo profondo, e mio buon amico, farò il confronto  tra le «proposizioni teologiche della Divina Commedia e  quelle dei libri delle Sentenze: ed il lettore vedrà che le  prime non sono altro che Tespressione poetica delle secon-  de, fedelissima e latta con invidiabile precisione ». Di-  sgraziatamente il Negroni occupato in altri lavori, non  potè adempiere .alla sua promessa, ma dando esempio dì  larghezza d'animo, consigliò ed aiutò Tamico suo C. Car-  bone, (P. Michele da Carbonara), poi prefetto Apostolico  deirÉritrea, nell'opera a cui egH non poteva attendere, e  ne promosse la pubblicazione. Nel 1890 Frate Michele da  Carbonara pubblicò infatti Slcuni Studi Danteschi (1) e   (1) Tortona Tip. A. Rossi 1890 — Stttdi Danteschi Voi I. Dante  e S. Francesco ~ Voi II. Dante e San Bonaventura.   Nella Biblioteca Negroni si trovano nel carteggio privato le lettere  che il Carbone indirizzava a Carlo Negroni piene d'erudizione e di  affetto per l'illustre amico. Trov.ansi pure tra i copiosi ms. due fa-  scicoli; n. 26: Pier L. nel Paradiso; n. 27: Appunti Danteschi. Essi  contengono citazioni, note erudite che il Negroni veniva man mano  scrivendo. La malattia e la morte tolsero il modesto studioso e gene-  roso filantropo aUa tranquilla ed utile sua operositét letterarii^.     120   nel volume I. dedicato al Neuroni, prese in esame» il I\'  Libro delle Sentenze collo studio: Dante e Pier Lombardo.  Questo appunto- che è il migliore ed il più originale, entrò  poco dopo inella collezione di opuscoli inediti e rari diretta  da G. L. Passerini (N. 44-45) per cura di Rocco Murari. In  esso il Carbone che si limita «all'esame delle distinzioni  43-49 del IV. delle Sentenze, conclude che il seme che è  nel libro delle Sentenze di Pier Lombardo mostra i suoi  fiori ed i suoi frutti ini Dante.   Nella tornata del 19 Aprile 1891 airAccademia Ponta-  niana, il socio residente Alberto Agresti le^e una memo-  ria dal titolo: Eva in Dante ed in Pier Lombardo (1) ed  anch'egli ricordò a proposito di questi studi, Tamico Ne-  groni e lo studio di frate Michele da Carbonara.   Ponendo a raffronto i passi danteschi ove vien citala  Eva (tacendo di tre che non danno alcun ^udizio della  sua colpa : (Purg. e. Vili v. 99 - C. XXIV, v. 116 - C. XXX  V. 52) uno comune con Adamo (Purg. 6. XXVIII, v. 142);  gli altri (Purg. e. XII, v. 70; Par. e. XIII, v. 37; Purg.  e. XXIX, V. 23; Purg. ò. XXXII, v. '2), ove si dà un giu-  dizio sfavorevole di Eva ed il passo del De-Viilgari Eloquio  ove Dante chiama Eva praesumptuosissimam), cerca da  quali letture Dante ricavò il severo giudizio. Combatte To-  •pinione di V. Imbriani, (Studi danteschi. Firenze, Sansoni  p. 42) che coIFesempio del Boccaccio vuol dimostrare 'i&  scarsa erudizione teologica di Dante. Nella testimonianza  di San Tommaso {Summa, P. II, 29-153) Isidoro {Sentent,  l^ib. II. e. XVII), Sant'Anselmo {De pec-orig. e. 9), Ugo  da S. Vittore, San Bonaventura non trova la ragione delli  eccessiva severità deirAlighieri, bemsì in Pier Lombardo  (Lib. II. dist. 22) che così si esprime:   « Adamo non istimò vero ciò che il diavolo aveva sug-  gerito; stimò di peccare in maniera da esserne perdonato.  Forse come vide che la donna, gustato il frutto, non era  peranco morta, prevaricò e volle ainch^'egli fare esperimen-  to del legno proibito. Più però Ta donna, perchè volle  usurpare l'eguaglianza della divinità e levata in superbia  nimia vraesumptione^ credette così doversi avverare.   Adamo non volle contristare la donna, ma certo non  vinto da carnale concupiscenza, non sentila peranco in     (1) Napoli, Tip. della R. Università 1891, lui, ma per una certa amichevole heoievotenza per la quale  il più delle volte avviene che si offende Dio per non of-  fender l'amico. In un certo modo Adamo fu anch'egli de-  ceptus ! Nella donn<a /fu majoris tumoris praesumptio :  ella peccò in sé, nel prossimo , in Dio : l'uomo solo ui  sé ed in Dio ».   E l'Agresti finisce insomma col concludere che « stu-  diare la D. Commedia al lume dei libri delle Sentenze è  tutto un lavoro nuovo che manca alla letteratura dante-  ca ». A me non resta che augurarmi che un tale 1'  si compia e che una feconda curiosità subentri alla sterile  dilRdenza nelFaprire il libro di P. L. che Dante non certo  per cura della rima chiamava il suo tesoro.     AGGIUNTA NECESSARIA:     I ìinyiìì dell'erudizione. Ristrettezza di tempo mi ha impedito di dare, com'era  mio desiderio, maggior svolgimento a questi insufficienti  cenni sull'influenza esercitata dal maestro delle Sentenze  sull'opera di Dante e non sulla Divina Commedia soltan-  to. Dell'utilità di una maggiore e più profonda conoscenza  di tali rapporti, è prov:a quanto si è venuto in questi anni  scrivendo dagli studiosii di Dante coll'intento in verità non  sempre raggiunto di recar "maggiore luce airinterpreta-  zione' del poema dantesco.   Ancora in un recente fascicolo del Bollettino della  Società Dantesca Italiana (Settembre 1912) E. G. Par«odi  m una dotta recensione consacrata ad un apprezzato studio  del prof. Surra su La conoscenza del futuro e del pre-  sente nei dannati danteschi (Novara, Tip. Guaglio, 1911),  si vale del confronto colla dottrina del Maestro delle Sen-  tenze per meglio chiarire i dubbi che le parole di Farinata  non sciolgono sul modo di conosceniza dei dannati. Contro  la tesi del Surra, che fortificandosi del concetto delFìrra-  zionale nell'arte, ampiaonente illustrato da G. Fracoaroli, vuol chiudere il passo ^ai diritti 3eireru3ìzioaie, il Pa^rodi  dimostra, citando la 50* Distinzione del IV delle Sentenze :  Ve animabus damnatorum si qua habent notitican eorum  quae hic fiunt, come Tesposizione di Farinata cresce d'im-  portanza venendo a combaciare colla dotlrin<a professata  dal Maestro. Ed è certo che se la contraddizione non può  essere evitata dal pensiero umano, specie cpiando s'aderge  sulle ali della poesia, tanto in Dante come in Pier Lom-  bardo, scola5?tóci entrambi, v'è Tidentioa «preoccupazioaiei di  sfug^rle colla cura più scrupolosa.   Non si può riconoscere tuttavia all'erudizione il dirit-  to di andar troppo oltre, specie nelle sue conclusioni,  perchè Terudizioflie è alla poesia come la ragione è alla  fede, che il sapere medioevale riconosceva potene illumi-  nare senza spiegarla interamente.   Se anche col raffronto più minuto dei passi danteschi  ooiropera del Lombardo (non limitato alle Semtenze) noi  potremo trovare nuove e curiose rispondenze che ci dimo-  streranno le fonti di sapere e d'inspirazione del Poeta divino, dovremo limitarci a riconoscere nulla più che la  materia preziosa, ma informe trasportata e nobilitata dal-  Fopera (in che è il fatto nuovo) dello statuario.   E\ per limitarmi ad un solo esempio, notevole il modo  onde mei Sermoni vengono disposti gli argomenti morali  che il Lombardo distilla da un qualunque versetto biblico:  sono quasi sempre tre i sensi che se ne ricadano ed il nu-  mero 3 entra con una particolare predilezione ìiell armo-  nica e spesso sin troppo misurata distribuzione delle parti  nei suoi discorsi (1). Queste ed altre minuzie di logica ar-     Tres igitur tortae pani8 tres sunt modi dìvinam paginam in-  telligendi Triplex igitar pani8 eat intellectus: tropologicus, scilicet  moralis vel historicus; mysticus, idest allegoricus et anagogeticum  Moralis mores componit, exhauriens malos et confovens bonos; al-  legorìcufl mentis acuit oculos ut mysterioram abdita penetrare  valeant; anagogeticus mentes super se effundit ut in voce exulta-  tionis et confessionis, constituto die, e condensis usque ad domum  Dei rapiatur; nam sicut allegoria alitar intellectus, ita anagoge su-  perior sermo vel sursum tendens interpretatur. Moralis, idest tropo-  logicus, est dulcior, historicus facilior, mysticus auctior. Historicus  insipientibus, moralis proficientibus, mxsticus perfìcientibus congruit.- Sermone: Convertimini fili revertentes . .  fine inedita riportata da Haureau op. cit* chitettura oasi caire a Pier Loonbardo, come si avverte  nello slesso Prologo delle Sentenze', do ve vaino esercitare il  loro influsso nel poeta della Vita Nuova e del Paradiso.   Ma non dal solo Pier Lombardo, bensì da tutta 'a  scienza teologica, Dante raccolse mei grande specchio  ustorio della sua mente, la luce che brilla nel suo divino  Poema. Né possiamo comprendere come uno studiotso  deìlla coltura del prof. Amaduocd, possa restringere nel-  rarido opuscolo XXXII di San Pier Damiano, quasi l'unica  tonte del poema dantesco, lo schema dottrinale a cui Damte  avrebbe informato, con perfetta fusione della lettera col-  l'allegoria^ la Commedia, e annunciare seriamente che di-  stinguendo i 100 canti nelle 42 marcie e fermate {num-  sioni} deirallegorico viaggio degli Ebrei contemplato dalla  modesta fantasia di San Pier Damiano, verrà sostituito  nell'esame del poema ai fondamenti ipotetici, il fondamento  scientifico, gli enigmi di sei secoli, troveranno fàcile spie-  gazione e sarà aperta la via ad una nuova valutazione  artistica (1).   Ma tale via non Tha aperta Dante stesso coU'opera  sua?     (1) Z/' opuscolo XXXII di S, Pier Damiano fonte diretta della  Divina Commedia? in Grùymaìe Dantesco dir, da G. L. Passerini  voi. XXI - Firenze, Dischi. cfr. E. G. Parodi La fonte diretta della divina Commedia —  in Marzocco, Firenze. A questa trattazione epero far seguire prosslntamefite un   canltolo, su PIER LOMBARDO E LA SCUOLA MEDIEVALE  Ohe per l'economia dei presente iavoro non potè essere inoluoo. Le origini oscure. La nascita a Lumellogno. L'ambiente nativo. Dipendenza di Lmnel-  il^gno dal Capitolo Novarese — Stato delle scuole  novaresi. Pier Lombardo fu allo studio Bolog^nese?   Gap. il — Nell'ombra del cammino . . pag. 25  Alla scuola di Leutaldo novarese a Reims. « ParisiUiSi » — La « universitas scholarium. San Vittore. Santa Genoveffa. Nella luce della fam^i. La scuoia di Nòtre Dame. L'episcopato. La morte. La  tomba di S. Marcello. Le onoranze. L'opera e la fortuna di Pier Lombardo. Le Sentenze. I Sentenziarii. I detrattori. Il « tesoro ». Opere edite ed inedite. I Seamoni.  LA DOTTRINA FILOSOFICA. Posizione di Pier Lombardo nella filosofia.  Metodo. Religione e sciens&a.   Problema metafisico e conoscitivo pag. 8Ì  Teoria degli universali. Teoria ctella oonoscenza. Problema ontologico e cosmologico. Sostanza ed accidente. Natura e persona. Materia e forma. Causalità. Spazio e tempo. CosmoJKJgia — Posizione dell'uomo neirunàverso.   Cap. Problema psicologico. Potenzie dell' aiiim.. Natura dell'ajiima. Origine dell'anima. Relazione tra l'anima e il corpo.  Problema morale. Libero arbitrio. Felicità. Moralità delle azioni  umane — La legge morale — Bene e mailie.   Gap. vi. — Lm dottrina scolastica in Pier Lombardo  e Dante Pier Lo!ml>ardo nel cielo del Sole. Dante adl'Università di Parigi. Influenza di Pier Loonbardo  sull'opera di Dante. Aggiunta necesaaria. I limiti  dell'erudizione.  Ritratto di Pier Lombardo dall'incisione del Thevet « Les vrais portraàts ecc. »  Paris. Portico della Canonica di Novara da un'incisione delle « Monografìe Novanesi »  MigUo Vene de la VUle de Paris du coté de Vlsle   N. Dame   (antica incisione).   A. N ótre Dame de Paris, (antdca incisione).  Con Agostino si opera, per la prima volta e in maniera esplicita, una completa saldatura fra la teoria del segno e quella del linguaggio. Per trovare una altrettanto rigorosa presa di posizione teorica bisogna aspettare il Corso di lin­ guistica generale di Saussure, scritto quindici secoli dopo. La grande importanza che la tematica semiolinguistica ha in Agostino deriva in gran parte dal suo assorbimento della lezione stoica, come del resto testimonia il trattato giovanile De dialectica (387 d.C.): in esso sono riassunti molti dei principali temi stoici in materia semiotica, tra cui il princi­ pio che la conoscenza è, in linea generale, conoscenza attra­ verso segni (Simone 1969: 95). Ma vari elementi differenziano l'impostazione agostinia­ na da quella stoica. In primo luogo, infatti, gli stoici, racco­ gliendo e formalizzando una lunga tradizione di origine so­ prattutto medica e mantica, consideravano propriamente segni (smeia) solo i segni non verbali, come il fumo che svela il fuoco e la cicatrice che rinvia a una precedente feri­ ta. Agostino, invece, per primo nell'antichità, include nella categoria dei signa non solo i segni non verbali come i gesti, le insegne militari, le fanfare, la pantomima ecc., ma anche le espressioni del linguaggio parlato (''Noi diciamo in gene­ rale segno tutto ciò che significa qualche cosa, e fra questi abbiamo anche le parole", De Magistro, 4.9).  In secondo luogo, gli stoici avevano individuato nell'e­ nunciato il punto di congiunzione tra il significante (semaf­ non) e il significato (semain6menon), elemento che comun­ que non coincideva con il segno (semefon). Agostino, inve­ ce, individua nella singola espressione linguistica, cioè nel verbum (''parola"), l'elemento in cui significante e signifi­ cato si fondono, e considera questa fusione un segno di qualcos'altro ("Quindi, dopo aver sufficientemente assoda­ to che le parole [verba] non sono nient'altro che segni [si­ gna] e che non può essere segno ciò che non significhi [si­ gniflcet] qualcosa, tu hai proposto un verso di cui io mi sforzassi di mostrare che cosa significhino le singole paro­ le", De Mag., 7.19). In terzo luogo, gli stoici avevano elaborato una teoria del linguaggio che aveva le due caratteristiche di essere formale (il lekt6n non coincideva con alcuna sostanza) e centrata sulla significazione. Agostino, invece, elabora una teoria del segno linguistico che ha un carattere psicologistico (i si­ gnificati si trovano nell'animo) e comunicazionale (passano nell'animo dell'ascoltatore) (Todorov 1977: 35; Markus 1957: 72). 10.1 n triangolo semiotico e la stratificazione ter­ minologie& È del resto con l'analisi della nozione stessa di parola (verbum simplex) che si apre il De dia/ectica ed è con questa nozione che si inaugura una serie interessante di distinzioni terminologiche. Al capitolo V, Agostino elabora una triplice distinzione che possiamo mettere in corrispondenza con i moderni con­ cetti di significato, significante e referente. Infatti individua in primo luogo la vox articu/ata (o il sonus) della parola, cioè quello che è percepito dali'orecchio quando la parola viene pronunciata. In secondo luogo individua il dicibi/e1 (corrispondente, anche dal punto di vista della trasposizio­ ne linguistica, al /ekt6n stoico), definito come ciò che viene avvertito dall'animo e che è in esso contenuto. In terzo luogo, infine, distingue la res, che viene definita come un og­ getto qualsiasi, percepibile con i sensi, o con l'intelletto, op­ pure che sfugge alla percezione (De dialect.). È così possibile ricostruire il triangolo semiotico nei se­ guenti termini: dicibile  vox articulata (o sonus) res Ma Agostino guarda ai segni anche dal punto di vista del loro potere di designazione, oltre che da quello della signifi­ cazione. Questo lo spinge a elaborare un'ulteriore suddivi­ sione terminologica in corrispondenza dei due aspetti che può assumere il referente di una parola: (i) può infatti avve­ nire che la parola rimandi a se stessa come proprio referente (fatto che si verifica nel caso della citazione, ovvero della designazione metalinguistica), e allora prende il nome di verbum;2 (ii) oppure può avvenire che la parola, intesa co­ me combinazione del significante e del significato, abbia come referente una cosa diversa da se stessa (come avviene con l'uso denotativo del linguaggio), nel qual caso prende il nome di dictio.3 È precisamente la nozione di dictio che, come ha osserva­ to Baratin ( 198 1 ), costituisce l'elemento di congiunzione tra la teoria del linguaggio e quella del segno. E ciò in virtù di uno sfasamento semantico che la nozione stoica di léxis (si­ gnificante articolato, ma senza essere necessariamente por­ tatore di significato) ha subìto nel corso degli studi lingui­ stici antichi.  Dictio è traduzione di léxis; ma non ha lo stesso significa­ to che le attribuivano gli stoici, bensì quello che le davano i grammatici alessandrini, in particolare Dionisio Trace, che definiva la léxis come "la più piccola parte dell'enunciato costruito" (Grammatici graeci, l , l , 22, 4), a metà strada tra le lettere e le sillabe, da una parte, e l'enunciato, dall'al­ tra. Questa sua particolare posizione fa sì che la léxis venga considerata come portatrice di un significato (in contrappo­ sizione alle lettere e alle sillabe che non lo posseggono), ma incompleto (in opposizione all'enunciato che porta un sen­ so completo). Lo spostamento di fuoco dalla centralità stoica dell'e­ nunciato alla centralità alessandrina della singola parola, fa sì che quest'ultima assuma al(\une delle funzioni prima spet­ tanti solo all'enunciato. In particolare, quella di essere un segno.4 Agostino definisce decisamente la parola come un segno al cap. V del De dialectica: "La parola è, per ciascuna cosa, un segno che, enunciato dal locutore, può essere compreso dall'ascoltatore". E, del resto, il segno viene definito come "ciò che presentandosi in quanto tale alla percezione sensi­ bile, presenta anche qualche cosa alla percezione intellet­ tuale (animus)" (ibidem). 10.2 Relazione di equivalenza e relazione di im­ plicazione Ponendo l'accento sulla parola, anziché sull'enunciato, Agostino ritrova l'opposizione platonica tra parole e cose. Incontro non casuale, in quanto Platone è l'unico, prima di Agostino, ad avere una concezione semiotica del linguag­ gio; per Platone, infatti, il nome era d/Oma, svelamento di qualcosa che non è direttamente percepibile, ovvero dell'es­ senza della cosa. Ma mentre nel Crati/o platonico si discute se il rapporto tra nome e cosa sia un rapporto iconico (pe­ raltro con la soluzione che conosciamo, cfr. cap. 4), in Agostino tale rapporto - configura subito come una rela­ zione di significazione: il nomt "significa" una cosa (nozione equivalente a quella di "essere segno di" una cosa). Nel momento in cui Agostino propone la sua concezione della parola come segno, si producono alcune modificazio­ ni teoriche, conseguenti allo spostamento di prospettiva. In effetti nelle teorie linguistiche precedenti a quella di Agosti­ no il rapporto tra le espressioni linguistiche e i loro conte­ nuti era stato concepito come una relazione di equivalenza. La ragione, come noto, era di carattere epistemologico e ri­ guardava la possibilità di lavorare direttamente sul linguag­ gio, in sostituzione degli oggetti della realtà, dato che il lin­ guaggio veniva concepito come un sistema di rappresenta­ zione del reale (per quanto mediato dall'anima). Al contrario, il rapporto tra un segno e ciò a cui esso rin­ via era stato concepito come una relazione di implicazione, per cui il primo termine permetteva, per lo stesso fatto di esistere, di arrivare alla conoscenza del secondo. Eco (1984: 33) ha suggerito che, nell'enunciato stoico, i rapporti tra la relazione segnica e quella linguistica possono essere illustra­ ti da uno schema in cui il livello implicazionale si regge su quello equazionale:  onIE=>c m_E:! c dove E indica "espressione", C "contenuto", ::J "implica" e == "è equivalente a". In Agostino l'unificazione tra le due prospettive avviene a livello della singola parola e senza chiamare in causa rapporti di equivalenza. Caso mai la dic­ tio, che è rappresentabile con il livello i, è costituita dali'u­ nione, o prodotto logico, di una vox (significante) e di un dicibile (significato), unità che diviene segno di qualcos'al­ tro (livello ii). Conseguenze dell'unificazione delle prospet­ tive La prima conseguenza dell'unificazione agostiniana, co­ me sottolinea Eco, è che la lingua comincia a tro­ varsi a disagio all'interno del quadro implicativo. Essa in­ fatti costituisce un sistema troppo forte e troppo strutturato per sottomettersi a una teoria dei segni nata per descrivere rapporti così elusivi e generici, come quelli che si ritrovano, a esempio, nelle classificazioni della retorica greca e roma­ na. Infatti l'implicazione semiotica era aperta alla possibili­ tà di percorrere l'intero continuum dei rapporti di necessità e di debolezza. Inoltre la lingua, come del resto Agostino mette in risalto nel De Magistro, possiede un carattere peculiare rispetto agli altri sistemi di segni, corrispondente al fatto di essere un "sistema modellizzante primario",5 cioè tale che qualun­ que altro sistema semiotico può essere tradotto in esso. La forza e l'importanza della lingua fanno sì che i rapporti con gli altri sistemi di segni si rovescino, e che essa, da specie, divenga genere: a poco a poco, il modello del segno lingui­ stico finirà per essere senz'altro il modello semiotico per ec­ cellenza. Ma quando il processo evolutivo arriva a Saussure, che ne rappresenta il punto culminante, si è ormai venuto a per­ dere il carattere implicativo, e il segno linguistico si è cri­ stallizzato nella forma degradata del modello dizionariale, in cui il rapporto tra la parola e il suo contenuto è concepito come situazione sinonimica o definizione essenziale. La seconda importante conseguenza dell'innovazione agostiniana riguarda il problema della fondazione della dia­ lettica e della scienza (Baratin). Fintanto­ ché il rapporto tra linguaggio e oggetto del reale era conce­ pito nei termini dell'equivalenza, il primo non appariva di­ rettamente responsabile della conoscenza del secondo. Ma nel momento in cui si attribuisce un carattere di segno alle espressioni linguistiche, la conoscenza delle parole sembra implicare, di per se stessa, e a priori, la conoscenza delle co­ se di cui esse sono segno. Tutta la grande tradizione semiotica, del resto, convergeva nel considerare il segno come il punto di accesso, senza ulteriori mediazioni, alla conoscen­ za dell'oggetto di riferimento. Il problema che si pone ad Agostino è allora quello di prendere una posizione rispetto alla questione se il linguag­ gio fornisca o meno , di per se stesso , informazioni sulle co­ se che significa. Agostino affronta la questione del carattere informativo dei segni linguistici nel De Magistro (389 d.C.). L'opera, in forma di dialogo tra Agostino e il figlio Adeodato, inizia stabilendo due fondamentali funzioni del linguaggio: (i) in· segnare (docere) e (ii) richiamare alla memoria (commemo­ rare), sia propria sia degli altri. Si tratta di funzioni con­ temporaneamente informative e comunicative, in quanto coinvolgono in maniera centrale la presenza del destinatario nel momento in cui forniscono informazione. La prima parte del dialogo è tesa a dimostrare che queste funzioni, principalmente quella informativa, sono svolte dal linguaggio in quanto sistema di segni. Sono le parole, infatti, che, in qualità di segni, danno informazione sulle cose, senza che nient'altro possa assolvere alla medesima funzione. Nella seconda parte del dialogo, però, Agostino ritorna sull'argomento e cambia completamente la sua prospettiva. Fondandosi ancora una volta sul fatto che la lingua è un in­ sieme di segni, egli mostra che si possono presentare due ca­ si: (i) il primo caso è quello in cui il locutore produce un se­ gno che si riferisce a una cosa sconosciuta al destinatario; in tale situazione il segno non è in grado, di per se stesso, di fornire informazione, come dimostra l'esempio, riportato da Agostino, dell'espressione saraballae, la quale, se non precedentemente nota, non permetterà di comprendere il ri­ ferimento ai "copricapr', che essa effettua; (ii) il secondo caso è quello in cui il locutore produce un segno che si rife­ risce a qualcosa che è già noto al destinatario; e nemmeno in questa evenienza si potrà parlare di un vero e proprio processo di conoscenza (De Mag.). Alla fine Agostino conclude invertendo il rapporto cono­ scitivo tra segno e oggetto, e stabilendo che è necessario co­ noscere preliminarmente l'oggetto di riferimento per poter dire che una parola ne è un segno. È la conoscenza della co­ sa che informa sulla presenza del segno e non viceversa. La soluzione ha una ascendenza chiaramente platonica, e a es­ sa si collega anche la presa di posizione, di marca ugual­ mente platonica, che la conoscenza delle cose deve essere pregiata maggiormente della conoscenza dei segni, perché "qualunque cosa sta per un'altra, è necessario che valga meno di quella per cui essa sta" (De Mag., 9.25). Ma se per le cose sensibili (sensibilia) sono gli oggetti esterni che ci permettono di arrivare alla conoscenza, non altrettanto avviene nel caso delle cose puramente intelligibi­ li (intelligibilia). Per queste ultime Agostino individua una soluzione "teologica": la loro conoscenza deriva dalla rive­ lazione che viene fatta dal Maestro interiore, il quale è ga­ ranzia tanto deli'informazione quanto della verità (De Mag.). Ma anche con questa soluzione "teologica" del problema linguistico, al linguaggio è lasciato uno spazio, che in parte coincide con la funzione del segno rammemorativo, ma in parte la supera: quando conosciamo già l'oggetto di riferi­ mento, le parole ci ricordano l'informazione; quando non lo conosciamo , ci spingono a cercare (De Mag.) . In Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia per uscire da un'impasse teorica. Al contrario, essa mette capo a nuove problematiche. È nel De Trinitate (415) che viene affrontato il tema dell'espressione del verbo interiore, una volta che sia stato concepito nella profondità dell'ani­ mo. In effetti, per poter comunicare con gli altri, gli uomini si servono della parola o di un segno sensibile, per poter  234 10. AGOSTINO provocare nell'anima dell'interlocutore un verbo simile a quello che si trova nel loro animo mentre parlano (De Trin., IX, VII, 12). D'altra parte Agostino sottolinea la natura prelinguistica del verbo interiore, il quale non appartiene a nessuna delle lingue naturali, ma deve essere codificato in un segno quan­ do ha bisogno di essere espresso e portato alla comprensio­ ne dei destinatari. Il verbo interiore ha, del resto, una duplice origine: da una parte esso costituisce una conoscenza immanente, la cui sorgente è Dio stesso; dall'altra esso è determinato dalle im­ pronte lasciate neli'anima dagli oggetti di conoscenza. Ma anche in questo secondo caso esso è riconducibile a Dio, in quanto il mondo è il linguaggio attraverso il quale Dio si esprime. Si trovano qui gli embrioni del simbolismo univer­ sale, che tanta parte avrà nella cultura del Medioevo. Quello che comunque emerge con sempre maggiore chia­ rezza è il carattere comunicativo della semiologia agostinia­ na, che è individuabile anche nello schema riassuntivo pro­ posto da Todorov (1977: 42): oggetti di conoscenza potenza !Immanente verbo verbo verbo divina interiore - esteriore - esteriore pensato proferito sa pere. È comunque innegabile che se la semiologia agostiniana presenta un aspet­ to "teologico", connesso al problema del verbo divino, tut­ tavia possiede anche un ben individuato e autonomo aspet­ to laico, che prende in considerazione i caratteri che il segno ha di per se stesso. Fanno parte di quest'ultimo aspetto le varie classificazioni dei segni, alle quali Agostino si dedica soprattutto nel trattato De doctrina Christiana secondo il modo di trasmissione: vista/udito secondo l'origine e l'uso: segni naturali/segni intenzio­ nali secondo lo statuto sociale: segni naturali/segni conven­ zionali secondo la natura del rapporto simbolico: proprio/tra­ slato secondo la natura del designato: segno/cosa con aggiunte più tarde), ma che ritorna anche in varie altre opere . Todorov (1977: 43 e sgg.) individua e analizza cinque tipi di classificazione a cui Agostino sottopone la nozione di se­ gno : Todorov lamenta il fatto che Agostino giustappone quel­ lo che in realtà avrebbe potuto articolare, in quanto gene­ ralmente queste opposizioni sono tra di loro irrelate. Questo non è però del tutto vero, perché (soprattutto nel De Magistro) c'è un tentativo di dare una classificazione combinata di alcuni aspetti del segno. A questo proposito è possibile ricostruire tale classifica­ zione ordinandola secondo uno schema arboriforme (Ber­nardelli), secondo il modello dell'albero di Porfirio (Eco); cfr. p. 236. La classificazione di Agostino non è totalmente a inclu­ sione, come tende a essere quella porfiriana; e si può osser­ vare che se venissero sviluppati i rami collaterali, si vedreb­ bero comparire, una seconda volta, alcune categorie elenca­ te sotto il ramo principale. Tuttavia è Agostino stesso a metterei sulla strada di una classificazione inclusiva da ge­ nere a specie quando definisce la relazione tra nome e paro­ la come "la stessa che c'è tra cavallo e animale" e includen­ do la categoria delle parole in quella più ampia dei segni (DeMag., 4.9).  genen· e specie AES SEGNO PAROLA NOME ------ segno udibile di cose (funzione denotativa) res sensibili (Romulus, Roma, fluvius) differenze significanti qualcosa verbale (voce articolata) differenze  (significabilis, non significanti     nome in senso particolare non verbale (gesti. insegne, lettere, tromba militare ecc.) altra parte del discorso (si, ve/, ex, nsmque, neve, ergo, quonism ecc.) segno udibile di segni udibili (funzione metalinguistìca) res intelligibili ( virtus)   SIGNIFICANTE delle .. AES" La prima relazione interessante è quella tra res e signa. Per quanto il mondo sostanziahnente venga diviso in cose e segni, tuttavia, Agostino non concepisce tale distinzione co­ me ontologica, bensì come funzionale e relativa. Infatti anche i segni sono delle res e l'uomo è libero di as­ sumere come segno una res che fino a quel momento era sprovvista di quella dignità. Anzi, la stessa nozione di res viene definita in termini rigorosamente semiologici (Simone 1969: 105): "In senso proprio ho chiamato cose (res) quegli oggetti che non sono impiegati per essere segni di qualche cosa: per esempio i legno, la pietra, il bestiame" (De doctr. Christ. , I, Il, 2). Ma, immediatamente dopo, cosciente del­ la pervasività dei processi di semiosi, aggiunge: "Ma non quel legno che, leggiamo, Mosè gettò nelle acque amare per dissipare la loro amarezza (Esodo, XV, 25); né quella pietra sulla quale Giacobbe riposò la sua testa, né quella pecora che Abramo immolò al posto di suo figlio. L'articolazione che esiste tra segni e cose è analoga a quella dei due processi essenziali: usare (ut1) e godere (jrul) (De doctr. Christ.). Le cose di cui si usa sono tran­ sitive, come i segni, che sono strumenti per giungere a qual­ cos'altro; le cose di cui si gode sono intransitive, cioè sono prese in considerazione per se stesse. Nel De Magistro Agostino propone anche un nome per le cose che non sono usate come segni, ma sono signifi­ cate attraverso segni: significabilia. Niente toglie che in un secondo momento anche quest'ultime possano essere assun­ te con funzione significante. Dopo aver così articolato i rapporti tra segni e cose, Ago­ stino propone questa definizione di segno nel De doctrina Christiana: "Il segno è una cosa (res) che, al di là dell'impressione che produce sui sensi, di per se stessa, fa venire in mente (in cogitationem) qualcos'altro". Nel nostro albero porfiriano abbiamo deciso di ricostrui­ re la principale suddivisione agostiniana dei segni secondo la dicotomia verbale/non verbale, anche se altre opzioni, ugualmente esplicite nei testi di Agostino, erano disponibili. Questa decisione è autorizzata da un passo del De doctrina Christiana in cui, a conclusione di un'analisi dei vari tipi di segni, Agostino sostiene: "Infatti di tutti quei se­ gni, di cui ho brevemente abbozzato la tipologia, ho potuto parlare attraverso le parole; ma le parole in nessun modo avrei potuto enunciarle attraverso quei segni". Viene esplicitamente fatto riferimento al carattere, tipico del linguaggio verbale, di essere un sistema modellizzante primario, e tale carattere viene assunto come criterio della divisione fondamentale dei segni. I0.6.3 Segni classificati in base al canale di perce­ zione Una classificazione incrociata rispetto alla precedente è quella effettuata in base al canale di percezione. Agostino infatti sostiene che "tra i segni di cui gli uomini si servono per comunicare tra di loro ciò che provano, certi dipendono dalla vista, la maggior parte dali'udito, pochissimi dagli al­ tri sensi" (De doctr. Christ., Il, III, 4). Tra i segni che vengono percepiti con l'udito ci sono quel­ li, fondamentalmente estetici, emessi dagli strumenti musi­ cali, come il flauto e la cetra, o anche quelli essenzialmente comunicativi emessi dalla tromba militare. Naturalmente, ritroviamo tra i segni percepìbili con l'udito, in una posizio­ ne dominante, anche le parole: "Le parole, in effetti, hanno ottenuto tra gli uomini il primissimo posto per l'espressione dei pensieri di ogni genere, che ciascuno di essi vuole ester­ nare" (Dedoctr. Christ., II, III, 4). Tra i segni percepibili con la vista Agostino elenca i cenni della testa, i gesti, i movimenti corporei degli attori, le ban­ diere e le insegne militari, le lettere. Infine vengono presi in considerazione i segni che riguar­ dano altri sensi, come l'odorato (l'odore dell'unguento sparso sui piedi di Cristo), il gusto (il sacramento dell'euca­ ristia), il tatto (il gesto della donna che toccò la veste di Cri­ sto e fu guarita). 10.6.4 "Signa naturalia" e "signa data" Sicuramente fondamentale, anche se non direttamente integrabile al nostro albero inclusivo, risulta lo schema di classificazione che oppone i signa naturalia ai signa data. I primi sono "quelli che senza intenzione, né desiderio di si­ gnificare, fanno conoscere qualcos'altro, oltre a se stessi, come il fumo significa il fuoco" (De doctr. Christ. , II, I, 2). Ne sono esempi anche le tracce lasciate da un animale e le espressioni facciali che rivelano, inintenzionalmente, irrita­ zione o gioia . Dopo averli definiti , Agostino dichiara di non volerli trattare ulteriormente. È invece maggiormente interessato ai signa data, in quan­ to a questa categoria appartengono anche i segni della Sa­ cra Scrittura. Essi vengono definiti come "quelli che tutti gli esseri viventi si fanno, gli uni agli altri, per mostrare, per quanto possono, i movimenti della loro anima, cioè tutto ciò che essi sentono e pensano" (De doctr. Christ. , II, II, 3). Gli esempi sono soprattutto i segni linguistici umani (le pa­ role) . Ma Agostino, curiosamente, include in questa classe an­ che i segni emessi dagli animali, come quelli che si hanno quando il gallo segnala alla gallina di aver trovato il cibo (ibidem). Questo crea una marcata differenza rispetto ad Aristotele, che include i gridi degli animali tra i segni natu­ rali (De int., 16 a). Ma Aristotele opponeva "naturale" a "convenzionale", mentre i signa data non sono i "segni convenzionali", come Markus (1957: 75) aveva suggerito (e come del resto era sta­ to proposto dalla traduzione francese di G. Combès e J. Farges). I signa data sono i "segni intenzionali" (Engels 1962: 367; Darrel Jackson 1969: 14), e corrispondono a 1:1na  AGOSTINO ben precisa intenzione comunicativa (De doctr. Christ. , Il , III, 4). È del resto il carattere intenzionale che permette ad Agostino di includere tra i signa data quelli emessi dagli animali, anche se egli non si pronuncia sulla natura di que­ sta intenzionalità animale (Eco 1987: 78). Del resto, come nota Todorov, porre l'accento sull'idea di intenzione corrisponde al progetto semiologico generale di Agostino, orientato verso la comunicazione. I segni intenzionali, o meglio, creati espressamente in vista della comunicazione, possono essere messi in corrisponden­ za del syrnbolon di Aristotele e della combinazione stoica di un significante con un significato; quelli naturali, ovvero già esistenti come cose, corrispondono invece ai smeia, sia aristotelici che stoici Uno dei punti fondamentali della semiologia agostiniana è costituito dalla ricerca dei modi in cui si può stabi­ lire il significato dei segni. Tale indagine è condotta soprat­ tutto nel De Magistro, dove si può rintracciare una conce­ zione semantica che si avvicina al tipo della "semiosi illimi­ tata" di Peirce. Come ha rilevato anche Markus (1957: 66), il significato di un segno, per Agostino, può essere stabilito o espresso mediante altri segni, per esempio: fornendo dei sinonimi; attraverso l'indicazione con il dito puntato; per mezzo di gesti; tramite astensione (De Mag. , III e VII). Questa concezione del significato si rende possibile sol­ tanto nel momento in cui viene abbandonato lo schema equazionale del simbolo, per adottare, come fa Agostino, quello implicazionale del segno. La teoria semiologica ago­ stiniana si apre così, come ha messo in evidenza Eco, verso un modello "istruzionale" della descrizione semantica. Se ne può cogliere un esempio neIl'analisi che Agostino conduce insieme ad Adeodato del verso virgiliano "si nihil ex tanta superis placet urbe relinqui" (De Mag.). Esso viene definito come composto di otto segni, dei quali, appunto si cerca il significato. L'indagine comincia da l si l , di cui si riconosce che espri­ me un significato di "dubbio", dopo aver tuttavia sottoli­ neato che non si è trovato un altro termine da sostituire al primo per illustrare lo stesso concetto. Si passa, poi, a lni­ hi/1 , il cui significato viene individuato come !'"affezione dell'animo" che si verifica quando, non vedendo una cosa, se ne riconosce l'assenza. In seguito Agostino chiede ad Adeodato il significato di lexl ed esso propone una definizione sinonimica: lexl sa­ rebbe equivalente a l de l . Agostino non è soddisfatto di questa soluzione e argomenta che il secondo termine è certo un'interpretazione del primo, ma ha bisogno di essere a sua volta interpretato. La solu2ione finale è che l ex l significa "una separazione" da un oggetto. A questa conclusione, pe­ rò, viene aggiunta anche una successiva istruzione per la sua decodifica contestuale: il termine può esprimere separa­ zione rispetto a qualcosa che non esiste più, come nel caso della città di Troia a cui si allude nel verso virgiliano; oppu­ re il termine può esprimere separazione da qualcosa che è ancora esistente, come quando diciamo che in Africa ci so­ no alcuni negozianti provenienti da Roma. Il significato di un termine, allora, "è un blocco (una se­ rie, un sistema) di istruzioni per le sue possibili inserzioni contestuali, e per i suoi diversi esiti semantici in contesti di­ versi (ma tutti ugualmente registrabili in termini di codice).” La struttura implicativa permette regole del tipo "Se A appare nei contesti x, y, allora significa B; ma se B, allora C; ecc.", regole che sono comuni tanto al modello istruzio­ nale quanto alla semiosi illimitata. In definitiva, è proprio grazie ali'assunzione generalizza­ ta del modello implicazionale che la semiologia agostiniana riesce a porsi sia come sintesi delle acquisizioni semiolingui­ stiche del mondo antico (teoria della parola come segno), sia come potente anticipazione di alcune delle più recenti tendenze della ricerca attuale in campo semantico (modello istruzionale) . 1 In altre opere, al posto di dicibile troviamo l'espressione significatio; a esempio in De Magistro, 10.34. 2 Si deve notare che Agostino adopera l'espressione verbum in due sen­ si: (i) uno tecnico e specifico, che è quello dell'uso metalinguistico della pa­ rola; (ii) uno generale, che corrisponde alla nozione ampia di "parola", co­ me "segno di ciascuna cosa che, proferito dal parlante, possa essere inteso dalJ'ascoltatore" (cap. V). 1 La natura della nozione di dictio, come composizione di significante e significato, è messa chiaramente in risalto dalla definizione del cap. V da De dialectica. Quel che ho detto dictio è una parola, ma una parola che significhi ormaj le due unità precedenti conten1poraneamente, la parola (verbum) stessa e ciò che è prodotto nell'animo per mezzo della parola [di­ cibile]". La dictio, inoltre, "non procede per se stessa, ma per significare qualcosa d'altro" (ibidem). 4 Si ricorderà che dagli stoici un segno era concepito, in termini propo­ sizionali, come un antecedente che rimandava a un conseguente; cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VliI, 245. s Per questa nozione, cfr. Lotman-Uspenskij (1975). Refs.: Luigi Speranza, “Philosophical psychology in the commentaries of Pietro Lombardo and Grice,” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Lombardia Grice: “It is strange that he was called Piero da Lombardia; it would be like ‘a lad from shropshire.’ ‘Lombardia,’ unlike Ockham, ain’t a townbut a full regionIt’s different with ‘veneto,’ which is toponymic and metonymic for Venice. But if Milano was the main ever settlement in Lombardia this would be “Peter, the one from Milan.” Lombardo Pietro Lombardo Lumellogno Cardano – Grice: “It’s only natural that he was Pietro Cardano – after the city in Lombardy, Cardano – Plus, the implicature that he went by “Peter of Lombardy” having been born in Piemonte, means that the locals never saw him as one of their own!” --  Pietro Cardano – la stirpe Cardano 1600 --. Familia patrizia di Novara.  Pietro Cardano. Keywords: Cardano, implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardano” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Cardia: l’implicatura conversazionale del culto del laico – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “Cardia is what I would call the Italian Hart – with a tweak – Italy and religion is Cardia’s forte – recall that the bishop of Rome has the roots in the ‘pontifex’ of old Rome, so he knows what he’s talking about!” – Grice: “Like me, Cardia has philosophised, as what the Italians call a professore di filosofia del diritto, on the ethical versus legal implicatures of the very idea of a ‘right’ (diritto). We don’t have that economy of vocabulary in Engish – calling Hart the professor of right would be unnacepptable at Oxford!”. Si laurea a Roma. Clifton has chapel services and a focus on Christianity. This is the Chapel: here, my son, Your father thought the thoughts of youth, And heard the words that one by one The touch of Life has turn'd to truth. Here in a day that is not far, You too may speak with noble ghosts Of manhood and the vows of war You made before the Lord of Hosts. The magnificent Chapel sits at the heart of Clifton both spiritually and physically and has played an important part of life. Topped by a striking copper-clad lantern and built from soft red and honey-coloured stone, the Chapel provides Christian calm, and forms a powerful link between past and present. It is a place where the community come to mark milestones and celebrate successes, and for quiet contemplation or spiritual guidance.  Brass plates placed on the back of the staff stalls mark the names of all those who have carved out a reputation. High on the walls are memorials of pupils of another age who died by accident or disease serving the Empire. One bears the moving epitaph ‘A good life hath but few days but a good name endureth forever.’  The Chapel was built to a design by C. Hansom. It is a narrow aisleless building. It is the gift of the widow of W. J. Guthrie. Hansom is given permission to quarry sufficient stone from the grounds of Clifton for the purposes of the Chapel building". The Chapel building is licensed by the Bishop of Gloucester and Bristol.  Stato, Chiese e pluralismo confessionale Rivista telematica (www.statoechiese.it) settembre 2007 ISSN 1971- 8543 Nicola Colaianni (ordinario di Diritto ecclesiastico nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bari) Quale laicità * Con questo libro Carlo Cardia si affaccia sul versante polemistico della letteratura giuridica con la maestria affinata attraverso una copiosa produzione saggistica e con la non comune versatilità che negli ultimi anni lo ha portato ad occuparsi dei problemi di tutela non solo delle confessioni religiose ma anche dei diritti umani. I bersagli della polemica sono indicati nel sottotitolo: etica, multiculturalismo, islam, non in sé naturalmente ma in quanto declinati in maniera rispettivamente relativistica, separatistica, fondamentalistica. Capaci cioè di esaltare le identità oltre ogni limite e di attentare, quindi, a quello “stato laico sociale” che, dopo secoli di storia travagliata e i totalitarismi del secolo breve, a cavallo del nuovo millennio ha trionfato un po’ dovunque in Europa e in tutto l’occidente. Questo carattere ben si coglie secondo l’autore nella “rivincita dei concordati”. Un fenomeno effettivamente impressionante, tanto più perché si inserisce in un trend favorevole alle relazioni con le confessioni, da cui non prendono le distanze neanche l’Unione europea, in base ad una dichiarazione allegata al trattato di Amsterdam, e la Francia della Loi de séparation, secondo le proposte della commissione governativa Machelon1. Da esso Cardia deduce che lo stato è ormai amico delle religioni, che contribuisce attivamente a sottrarre all’irrilevanza degli affari privati e a reimmettere nel circuito pubblico, relegando l’ostilità del laicismo ottocentesco nel museo della memoria.  * Recensione a C. CARDIA, Le sfide della laicità. Etica, multiculturalismo, islam, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2007, pp. 202, destinata alla pubblicazione sulla rivista “Laicità”, Torino, n. 3 del 2007. 1  Cfr. F. MARGIOTTA BROGLIO, su Reset Stato, Chiese e pluralismo confessionale Rivista telematica Dal quale non varranno a riesumarla le “guerricciole”, rinfocolate dal “micro-massimalismo” di chi spera di “rivivere un po’ dell’epopea del passato” e non si accorge che ormai lo stato italiano gli accordi li fa anche con confessioni non cattoliche e, peraltro, non è l’unico ad integrare le scuole private e confessionali nel sistema scolastico, ad assicurare l’insegnamento religioso confessionale nelle scuole pubbliche, a finanziare lautamente la chiesa cattolica ma anche le altre confessioni. L’agile sintesi storico-politica, condotta nella prima metà del libro, consente a Cardia di avallare questa laicità realistica, che ad altri2 è sembrata più propriamente “praticistica”. A quella stregua l’autore tratta con sufficienza i rinnovati contrasti tra stato e chiesa (che pure sono al centro delle preoccupazioni di altri libri coevi3 ) tanto quanto con drammaticità le sfide suindicate. A cominciare dal multiculturalismo, che in effetti nella versione spinta si presenta sotto la forma di un comunitarismo senza coesione. Il “fascino discreto” che in molti differenzialisti suscitano gli statuti personali, di medioevale o ottomana memoria, è giustamente visto come una relativizzazione della laicità: a vantaggio, in particolare, dell’islam. Ovviamente Cardia è severo con la “partita giocata su due tavoli”: non si può invocare la laicità contro i “simboli e la memoria del cristianesimo” e a favore di quelli dell’islam, per cui “verrebbero estromessi i crocifissi, ma sarebbero ammessi il velo e la preghiera degli islamici”. Ma i termini del paragone sono omogenei solo apparentemente: il crocifisso fa problema per la laicità non se portato addosso al corpo, se fa parte del libero abbigliamento dei cittadini (come il velo o altri segni religiosi), ma in quanto esposto autoritativamente, cioè imposto, negli spazi pubblici, scolastici, giudiziari. In effetti, è tutta la seconda parte del libro a risentire di questa drammatizzazione impressa ai vari scenari. Islam versus cristianesimo. Di là un sistema chiuso ad ogni interpretazione evolutiva, un’identità fissa e immutabile, di qua una religione tollerante, aperta all’interpretazione storico-critica dei testi sacri e alla laicità, la quale in essa sarebbe addirittura “germinata”. La schematizzazione diventa  2  Per esempio a P. BELLINI nel libro coevo Il diritto d’essere se stessi. Discorrendo dell’idea di laicità. 3  Come quelli di ZAGREBELSKY, Lo stato e la chiesa, o di E. BIANCHI, La differenza cristiana, o di G.E. RUSCONI, Non abusare di Dio.  Stato, Chiese e pluralismo confessionale Rivista telematica inevitabile. In realtà, l’involuzione della seconda metà del XX secolo, a parte i fanatismi e i terrorismi, non è riuscita a spegnere le numerose voci laiche dell’islam moderno4  né, a livello istituzionale, ad annullare, pur frenandola, l’applicazione negli stati islamici di una legge non religiosa, il kanun, “nel senso laico di ‘legge di stato’ (…) in contrapposizione alla sharī ‘a” 5. D’altro canto, bisogna riconoscere che abbiamo tutti sovracaricato il detto evangelico “Quae sunt Caesaris Caesari, quae sunt Dei Deo” di un significato improprio e anacronistico, in termini appunto di laicità, che nessun biblista ha mai potuto avallare (vorrei ricordare qui almeno Giuseppe Barbaglio, che ci ha lasciato pochi mesi fa: nel suo La laicità del credente non cita mai il versetto di Matteo). Storicamente poi, anche a voler retrodatare – seguendo Ernst-Wolfgang Böckenförde6 - alla lotta delle investiture l’inizio del processo di secolarizzazione, non v’è dubbio che per secoli la chiesa ha sostenuto la supremazia del potere spirituale ratione peccati o salutis anche nella sfera mondana. E al giorno d’oggi la più netta distinzione degli ordini formulata dal Concilio non sta impedendo il tentativo di informare la legislazione italiana al magistero ecclesiastico: è la chiesa dei no alla procreazione medica assistita (divieto dell’eterologa, della diagnosi preimpianto dell’embrione), al testamento biologico, visto come anticamera di pratiche eutanasiche, al riconoscimento pubblico di unioni civili in qualsiasi forma (pacs, dico, cus, ecc.), emblematicamente (a luglio alla Camera) al richiamo del principio di laicità come fondamento di una legge sulla libertà di religione (che pur non tocca la chiesa cattolica). Neanche Cardia indulge su questi punti. Il suo no è altrettanto netto. In nome della laicità e contro il relativismo etico. Ma poiché su quei punti, con varie sfumature, il pensiero laico (di non credenti e agnostici ma anche di credenti) è per il sì, è evidente che ci si trova davanti ad una diversa concezione della laicità. Tanto rispettabile nei suoi riferimenti eteronomi, divini o naturali e perciò antichi o “ancestrali”, quanto incapace di far capire - per dirla con Jürgen Habermas7  - “quale ruolo e significato i fondamenti giuridici secolarizzati della costituzione possono avere per una società  4  Cfr. l’antologia di P. BRANCA e quelle più recenti di V. COLOMBO. 5  Così ne Il linguaggio politico dell’Islam B. LEWIS, studioso fra i più citati nel libro. 6  Cfr. BÖCKENFÖRDE, Diritto e secolarizzazione. HABERMAS, Il futuro della natura umana. Stato, Chiese e pluralismo confessionale Rivista telematica (www.statoechiese.it) settembre 2007 ISSN 1971- 8543 4 postsecolare”, come la nostra. In una democrazia necessariamente relativistica (se, al contrario, fosse assolutistica non sarebbe democrazia, insegna Kelsen) la laicità alimenta norme non di supremazia ma di compatibilità, espressive di una vocazione non paternalistica, ma responsabilizzante, nei rapporti tra stato e cittadini: visti non come meri educandi, da guidare nelle scelte etiche in base a valori esterni, ma come persone responsabili delle loro scelte nella propria autonomia e capaci di mediarle alla ricerca di quella “giusta”8. Una laicità pluralistica e perciò non espressiva di una sola cultura ma interculturale (come dovrebbe porsi ormai tutto il diritto secondo Otfried Höffe9 ). Le cui sfide, e il libro di Cardia stimola ad intraprendere questo percorso di riflessione, non vengono da una parte sola.  8  In questo senso rilegge il da mi factum, dabo tibi ius RODOTÀ, La vita e le regole. 9  Cfr. O. HÖFFE, Globalizzazione e diritto penale. LA LAICITA’ IN ITALIA (Carlo Cardia) (Convegno Giuristi cattolici, 9 dicembre 2006) Sommario. Premessa. 1. La laicità in Italia tra conflitto e moderazione. 2. Laicismo, intransigenza cattolica, isolamento culturale. 3. Dai Patti Lateranensi al modello costituzionale di respiro europeo. 4. La crisi della laicità. Laicità ed etica. 5. Cultura laica e questione islamica. 6. Laicità e multiculturalismo. Ambiguità e prospettive. Premessa. E’ mia intenzione soffermarmi sulle problematiche attuali della laicità in Italia, anche perché sono diverse e complesse. Però, penso sia necessario dare spazio a qualche riflessione storica che ci aiuti a comprendere meglio le questioni che abbiamo di fronte nel tempo presente. Si tratta, più che di una analisi organica, di spunti ricostruttivi utili a cogliere alcune costanti della nostra tradizione. Ho avvertito questa esigenza perché l’esperienza italiana ha un tratto caratteristico che non si rinviene altrove, avendo dato vita nello spazio di poco più di un secolo a tre tipologie diverse di relazioni ecclesiastiche: una laico-separatista, una di tipo concordatario neo-confessionista, e quella costituzionale che poi si è evoluta nel quadro di una Europa che ha finito per seguire il nostro modello. Infine, l’Italia sta vivendo una vera crisi della laicità, in rapporto alla questione etica, e al multiculturalismo, ed è entrata in quella globalizzazione dei rapporti tra religione e società che riguarda l’Occidente nel suo complesso. Quindi, l’esperienza italiana non è comprensibile all’interno di un solo orizzonte storico-culturale, mentre l’analisi deve mantenere un respiro più ampio e saper individuare delle linee trasversali di riflessione, dei fili conduttori che chiariscano il percorso storico complessivo che si è compiuto. 1. La laicità in Italia tra conflitto e moderazione Il primo filo conduttore che voglio privilegiare è il rapporto che si è determinato tra conflitto e moderazione, tra correnti estreme del pensiero laico, e di quello cattolico, e soluzioni storico- 2 normative che sono state adottate. La storiografia più accreditata ci ha abituati a interpretare questo rapporto a tutto favore della conflittualità e a discapito della moderazione. Ancora oggi il conflitto tra Stato e Chiesa è considerato un tratto eminente della storia italiana, il punto focale che illumina tutto il resto. Il processo di unificazione nazionale viene letto alla luce del contrasto tra laici e cattolici, della fine del potere temporale, della prevalenza della modernizzazione sul conservatorismo cattolico. Anche l’epoca autoritaria che dà vita ai Patti Lateranensi è vista in chiave di rivincita cattolica e di sconfitta laica, come un rovesciamento di fronte rispetto all’epoca liberale. Questa interpretazione resta valida perché permette di capire tante pagine della nostra storia nazionale, ma può essere integrata con un’altra chiave di lettura che aiuti a vedere anche i chiaro-scuri, i toni più morbidi, della storia italiana. Questa chiave di lettura è quella della moderazione e dell’equilibrio che, pur nelle vicende aspre che conosciamo, ha segnato la storia italiana. L’Italia è stata moderata ed equilibrata nel separatismo, in parte nel sistema concordatario del 1929, in modo speciale nella elaborazione della Costituzione. Quando parlo di moderazione non intendo esaltare il carattere per così dire compromissorio generalmente riconosciuto alla genti italiche. Mi riferisco ad un dato realmente presente nelle nostre leggi, in ampi settori della cultura laica e di quella cattolica, che ci aiuta a meglio comprendere la storia e l’evoluzione della laicità in Italia. La moderazione del periodo separatista si manifesta in tanti modi, ma nell’insieme consente all’Italia di operare un sottile, solido compromesso con l’anima cattolica del paese su punti essenziali, ed evita l’affermazione di tendenze francesizzanti che pure esistono in esponenti della classe dirigente liberale. In Italia non si afferma mai l’idea della reformatio ecclesiae come obiettivo proprio dello Stato. L’aspirazione ad una evoluzione della Chiesa è parte integrante del pensiero laico e dei riformatori cattolici dell’Ottocento, ma da noi non si trovano tracce significative di quel disegno (tipicamente transalpino) che mira alla costituzione civile del clero, a stravolgere le strutture ecclesiastiche, a creare una chiesa nazionale quieta e obbediente al potere civile. La struttura della Chiesa, gli enti ecclesiastici mantenuti, l’educazione e la disciplina del clero, non subiscono ingerenze o stravolgimenti diretti a modificarne la natura. Nel dibattito sulle Facoltà di teologia è il ministro Correnti che respinge le tentazioni giurisdizionaliste e afferma che lo Stato non ha “né interesse, né volontà, né facoltà di creare teologi”, che l’evoluzione della religione è compito della Chiesa, e la “Chiesa troverà in sé stessa, e solo in se stessa può trovare, la volontà e la forza di ravvicinarsi” alla modernità. L’unico intervento chirurgico è quello che sopprime le corporazioni e le congregazioni religiose. Ma anche in questo intervento, che storicamente si giustifica con la necessità di ridistribuire la grande proprietà ecclesiastica, non mancano i segni di moderazione, se vogliamo della dissimulazione. Come quando le comunità religiose si ricostituiscono progressivamente al riparo delle c.d. frodi pie, che consentono l’utilizzazioni di proprietà immobiliari messe a disposizione da veri prestanome. Comunque, a nessuno in Italia è mai venuto in mente di adottare leggi draconiane come quelle transalpine, la prima che vieta alle congregazioni religiose non riconosciute l’insegnamento, la seconda che prevede multa e carcere per chi apra una scuola nella quale insegni anche un solo religioso. Ho sfioato il problema della scuola, perché su questo terreno si opera il più grande compromesso italiano, sul quale storici e giuristi si soffermano poco. Alla laicizzazione della scuola italiana, con la Legge Casati , non segue la cancellazione della presenza cattolica nel corpo scolastico pubblico. Se l’insegnamento religioso viene escluso nelle scuole superiori, rimane però in quelle elementari. La Legge Coppino non dice nulla al riguardo, e questo silenzio, con l’aiuto del Consiglio di Stato, consente di mantenere l’insegnamento religioso che, ci dice Francesco Scaduto, viene attivato da quasi tutti i Consigli comunali e seguito dalla totalità delle famiglie italiane. Neanche si può dire che la questione passi sotto silenzio, perché un Regolamento conferma l’insegnamento religioso, e la Camera respinge nello stesso anno una mozione di Bissolati che chiede di vietare ogni presenza religiosa nelle scuole. Molto chiaramente Minghetti compara gli inconvenienti di una scuola che preveda l’insegnamento religioso a quelli di una scuola che lo esclude, e afferma che “i primi saranno sempre minori di quelli di una scuola che dovrebbe essere popolare, ma che senza Dio ripugna alla coscienza popolare e addiviene atta a soddisfare soltanto una piccola minoranza”. Si può dire che è poco, invece è moltissimo, perché la scuola elementare è l’unica vera scuola di massa dell’epoca. Per questa ragione l’Italia separatista ha operato le grandi riforme della modernità ma ha saputo mantenere un raccordo di fondo tra il sentire comune della popolazione e una legislazione non aggressiva e non punitiva. E’ l’Italia laica e separatista che affida ai maestri e alle maestrine della letteratura dell’Ottocento l’onere di trasmettere elementari ma importanti valori religiosi e morali nelle nuove generazioni. L’elogio della moderazione non deve fare aggio sull’altro fattore endemico dell’esperienza italiana, su quella arretratezza che, in modo diverso, caratterizza alcuni settori della cultura laica, e della cultura cattolica, e che provoca per lungo tempo un isolamento rispetto ad altre più avanzate esperienze europee e alla cultura anglosassone, cioè rispetto al resto del mondo. Mi riferisco alle correnti laiciste che animano la cultura politica, danno vita al pensiero più autenticamente anticlericale, rendono la laicità ostile alla religione. Ma anche all’arroccarsi di quell’intransigenza che frena la capacità di iniziativa dei cattolici, li estranea a lungo dalla vita politica del Paese. Nel conflitto, e nel corto circuito, tra intransigenza cattolica e correnti laiciste sta la radice di una chiusura provinciale che in Italia condiziona a lungo le relazioni ecclesiastiche. Il radicarsi di queste tendenze immette nella cultura italiana semi che tornano a fiorire di tanto in tanto. Il laicismo estremo produce cultura, mentalità, costume, e fa sì che anche da noi come in Francia e in Spagna, laicità voglia dire tante cose negative: estraniazione della religione dalla società e dalla dimensione pubblica, ostilità alla scuola privata nonostante il liberalismo sia altrove il difensore del pluralismo scolastico, riduzione della Chiesa ad un ambito puramente cultuale. In Italia, come oltr’Alpe, il termine laico è contrapposto a cattolico, e questa antitesi, sconosciuta nei paesi anglosassoni, diviene da noi categoria del pensiero e del linguaggio. Quando faccio riferimento alle tendenze laiciste mi riferisco sia all’anticlericalismo di matrice ottocentesca che alle correnti culturali di grande dignità che da Spaventa a Bissolati rivivono poi in Gaetano Salvemini e in Ernesto Rossi, e che di più aspirano ad una Chiesa riformata, apparentemente tutta spirituale ma muta sul piano civile e sociale. Queste correnti si ravvivano quando l’accordo tra Chiesa e fascismo di fatto umilia la laicità, provocando una frattura seria tra la cultura laica ed un cattolicesimo al quale viene restituito un ruolo di primo piano, ma con il sacrificio di altre idealità e di altri ruoli. Anche l’intransigenza cattolica riaffiora più volte nella storia italiana, impedisce a tratti di cogliere le trasformazioni della società, di discernere gli aspetti positivi dalle spinte disgreganti, porta all’arroccamento su posizioni che potrebbero essere evitate. La critica più autentica a questo corto circuito non è diretta alle singole posizioni radicali che produce, quanto al fatto che da lì è derivato un certo isolamento rispetto alla cultura anglosassone, rispetto ad altre esperienze europee, come quelle dell’Olanda, del Belgio e della Germania, dove già nell’Ottocento maturano equilibri più stabili tra religione e società. Una conferma di questo provincialismo sta nell’incomunicabilità tra esperienza italiana ed esperienza statunitense, alla quale pure molti laici si richiamano, senza mai averla capita e forse conosciuta. Lo stesso Salvemini, che pure conosceva la società americana, di quell’esperienza evoca sempre e soltanto la parola separatismo, non i suoi contenuti, né la sua anima pregna di rispetto e di amicizia verso la religione. Possiamo verificare questa lontananza della cultura laica rispetto alle correnti del pensiero anglosassone su un particolare problema, quello della scuola privata, nel quale il liberalismo italiano si è discostato dai canoni del liberalismo classico per seguire un indirizzo statalistico destinato a dominare a lungo. C’un dibattito di metà Ottocento (oggi dimenticato ma molto importante all’epoca) nel quale Domenico Berti critica quei liberali che per paura di monopolio combattono la libertà di insegnamento, e afferma che questa trae il suo diritto dall’individuo medesimo, dalla sua libertà, ed è da annoverarsi tra “gli altri diritti naturali”. E’ Bertando Spaventa che si oppone a Berti ed esplicita la vera ragione della contrarietà alla scuola privata. La ragione sta nel fatto che “i paladini” del libero insegnamento finiscono per portare acqua al mulino della “libertà del papa”, perché in Italia dare via libera alle scuole private vuol dire favorire la scuola cattolica. Quindi, con grande trasparenza si riconosce che il vero liberalismo postula la libertà della scuola, ma in Italia questo liberalismo non è praticabile perché se ne avvarrebbero i cattolici. Insomma, al liberalismo si ricorre quando fa comodo, altrimenti lo si mette da parte. 3. Dai Patti Lateranensi al modello costituzionale di respiro europeo In Italia, però, si ritrova un altro elemento equilibratore che consente di attenuare le asperità e finisce col favorire le soluzioni strategiche adottate in sede di Costituente. Parlo di quella questione romana che nessun altro Paese conosce, e che tocca all’Italia affrontare e risolvere in modo autonomo. Anche su questo problema vorrei offrire uno spunto ricostruttivo diverso rispetto alla storiografia prevalente. E’ vero che la questione romana ha costituito il punto di maggiore attrito tra Stato e Chiesa, ed ha agito come coagulo dell’intransigenza cattolica e come bersaglio dell’anticlericalismo. Tuttavia, pur nei termini del conflitto che conosciamo, essa ha rappresentato anche un elemento equilibratore nel periodo separatista, con la stipulazione dei Patti Lateranensi, soprattutto all’atto della elaborazione della Costituzione democratica. Quando parlo di elemento equilibratore intendo dire che la presenza della Santa Sede ha fatto uscire il meglio di sé dalla classe dirigente liberale nell’Ottocento, ha attenuato gli effetti che i Patti Lateranensi hanno avuto sulla società italiana, ha favorito notevolmente il lavoro che ha portato alla formulazione del disegno costituzionale complessivo dei rapporti tra Stato e Chiesa. Già nell’Ottocento, la classe dirigente liberale conferma la propria lungimiranza con quella Legge delle Guarentigie che, pur temporaneamente, risolve la più grande questione storica europea, e, dovendo misurarsi con un evento che interessa i cattolici di tutto il mondo, si rivela capace di ad attenuare, smussare, equilibrare le asperità del separatismo. Anche quando il Concordato ferisce duramente la laicità e la cultura laica italiana, la soluzione definitiva del questione romana stempera il valore politico del patto con il fascismo. Non a caso il giudizio delle forze politiche antifasciste sui Patti Lateranensi si presenta come scisso in due: severo e aspro, anche da parte cattolica, nei confronti dell’accordo politico tra Chiesa e fascismo e del Concordato, ma positivo e accogliente nei confronti del Trattato del Laterano. Sin dall’inizio Benedetto Croce approva la soluzione della questione romana, riservando le sue critiche al Concordato. Ma anche Gaetano Salvemini, durissimo con il Concordato, riconosce che la questione romana è ben risolta, anzi afferma che ciò che è stato fatto avrebbero dovuto farlo i liberali. Infine, i programmi elaborati dai leader dell’antifascismo durante la guerra in vista della ricostruzione del Paese, concordano nel non voler rimettere in discussione i risultati del Trattato del Laterano. Credo si possa dire che, senza una questione romana risolta, forse non avremmo avuto quel tipo di rapporti con la Chiesa che l’Italia ha elaborato e che ha saputo anticipare un modello oggi utilizzato in un numero considerevole di Paesi europei. Nell’incontro tra le correnti del cattolicesimo democratico e la maggioranza della cultura laica, l’Italia trova il modo di abbandonare un certo provincialismo e riesce a parlare un linguaggio europeo, supera quel corto circuito che l’aveva appesantita a lungo. Le scelte del costituente non sono riconducibili al solo articolo, quanto alla maturazione di una laicità che è destinata a fare scuola, a prefigurare un modello di Stato laico sociale che diverrà prevalente nell’Europa che si unisce e conosce la fine dei totalitarismi. Si tratta di una laicità complessa dove converge il meglio della tradizione separatista (in materia di libertà religiosa), e dove il laicismo è superato dal riconoscimento pieno della presenza e del ruolo sociale della religione. Si abbatte il muro della incomunicabilità tra religione e società, si conferma e si estende il metodo della contrattazione e dell’incontro, tra Stato e Chiese; si supera l’ultimo tabù dell’Ottocento, per il quale nessun culto dovrebbe essere finanziato dallo Stato perché lo impedirebbero le differenti opinioni religiose dei cittadini. Sul finire del Novecento questo Stato laico sociale trionfa un po’ dovunque. Non si contano più i concordati tra Santa Sede e Stati in Europa, che sono oltre 20, come non si contano più intese, accordi, convenzioni tra Stato e confessioni religiose, protestanti, ebraica, islamica, e altro ancora. Ma è nel merito delle relazioni ecclesiastiche che il modello italiano fa scuola in Europa. Dall’Atlantico alla Russia, ovunque troviamo una laicità fondata su principi comuni: libertà religiosa, tutelata nel quadro dei diritti umani, riconoscimento delle Chiese come entità impegnate in molteplici attività, sostegno pubblico alle confessioni. Insomma, un mixer tra la tradizione nordamericana di amicizia verso la religione, e la tradizione europea di contrattazione e reciproca integrazione. Tanto solido è questo nuovo orizzonte di laicità sociale che ormai in Europa si discute di riforma dei rapporti tra Stato e Chiesa soltanto in Inghilterra e nei Paesi protestanti del nord, dove ancora esistono Chiese ufficiali sottomesse e apparentate alle dinastie regnanti. La laicità torna di attualità e vive una crisi di cui non siamo ancora pienamente consapevoli, su terreni nuovi e in editi, come quelli dell’etica e del multiculturalismo. Si tratta di fenomeni molto diversi, perché nel primo caso siamo di fronte ad un uso indebito, quasi una strumentalizzazione, del concetto di laicità, nel secondo assistiamo ad un pericoloso arretramento dei valori più intimi dello Stato laico. Non entro nel merito del rapporto tra etica e diritto. Non è oggetto della mia relazione, non è possibile neanche sfiorarlo nella sua complessità. La mia attenzione è più ristretta, riguarda il rapporto che esisterebbe tra laicità ed etica nel momento in cui un ordinamento è chiamato a pronunciarsi su questioni decisive per la collettività, come la famiglia, l’ingegneria genetica, l’eutanasia, e via di seguito. Alcune elaborazione teoriche danno per scontato che il pluralismo etico non è che un altro aspetto del pluralismo religioso, e “come oggi ammettiamo e rispettiamo le varie confessioni religiose, così dobbiamo riconoscere le varie moralità che affiancano o sostituiscono la fede religiosa”. D’altra parte, si aggiunge, come nella religione non si dà verità oggettiva, ma solo opinioni, così in campo etico lo Stato deve accettare tutte le convinzioni e le scelte che si contendono il campo. Questa similitudine tra religione ed etica è accattivante, ma nasconde un’insidia dialettica. In primo luogo perché la neutralità dello Stato riguarda le convinzioni religiose, la sfera più intima della spiritualità e della coscienza, non i comportamenti delle persone, tanto meno quelli che coinvolgono gli altri. In questa materia la legge non pretende mai di definire qual è la verità, ma sceglie sulla base di valori che hanno una loro validità nel tempo, nella struttura sociale nella quale si incarnano, e che possono dar vita a equilibri diversi tra etica e diritto. In secondo luogo, si trascura il fatto che una neutralità dello Stato estesa a tutte le scelte etiche porterebbe alla paralisi del legislatore e allo svuotamento della funzione della legge. L’ordinamento non si interesserebbe più della procreazione, dei doveri verso i figli, non potrebbe più disciplinare il matrimonio, dovrebbe consentire tutto in materia di bioetica. Uno Stato eticamente neutrale dovrebbe disporre il “rompete le righe” e preoccuparsi solo di regolare il traffico delle attività sociali. C’è, poi, un corollario di questa impostazione che viene utilizzato frequentemente. Si tratta di quel ritornello che in Italia viene ripetuto spesso, secondo il quale in queste materie lo Stato deve permettere, non proibire. Infatti, se permette non obbliga nessuno, ma se proibisce impedisce a qualcuno di realizzarsi. Lo Stato che liberalizza l’eutanasia non obbliga nessuno a praticarla, ma consente a chi vuole di scegliere un’altra opzione. Se permette la fecondazione eterologa, non la impone, ma se la nega erode spazi all’autonomia individuale. Io credo che ci troviamo di fronte ad un uso improprio della laicità, e ad un vero sillogismo. Se applicata coerentemente, questa logica porterebbe a risultati che ben pochi si sentirebbero di sostenere. Si legittimerebbe la pratica della clonazione umana, perché una legge che la liberalizzasse non costringerebbe nessuno a clonare cellule e individui, mentre un divieto impedirebbe ad alcuni di seguire i propri convincimenti. Dovrebbe essere permesso di intervenire sul genoma per determinare alcune caratteristiche del nascituro, come il sesso, o il colore della pelle o degli occhi, perché in ogni caso non si obbligherebbe nessuno a queste operazioni, mentre vietandole si diminuirebbe l’autonomia individuale. Questa impostazione dovrebbe indurre l’Authority inglese a rispondere positivamente al recente quesito del Kings College, se sia lecito produrre ibridi di umanità e animalità. Infatti, consentendo questa pratica non si impone a nessun ricercatore di creare la chimera, ma proibendola si violerebbe la libertà di quanti non hanno remore nel procedere su questa strada. Molti sostenitori del relativismo si dichiarano contrari alla clonazione, alla chimera e ad altre scelte estreme, ma spesso non sanno dire il perché. E non sanno dirlo perché dovrebbero riconoscere che clonazione e chimera possono essere escluse soltanto se si fa leva su valori antropologici primari, meritevoli di trovare spazio nel mondo del diritto. Si dovrebbe allora riconoscere che la laicità dello Stato non c’entra nulla quando la discussione riguarda questi valori. E che nel gioco democratico della discussione, del convincimento, si determineranno gli equilibri essenziali, modificabili nel tempo, sui confini del diritto, sul rapporto tra autonomia e solidarietà. In questa discussione vi è spazio per tutti, per le convinzioni religiose e per quelle filosofiche, per l’apporto delle scienze e la mediazione della politica. Ma se il confronto viene by-passato ricorrendo alla laicità per sbarrare la strada a determinate scelte, vuol dire allora che c’è insicurezza in alcune posizioni relativistiche, le quali non riescono ad elaborare valori convincenti, e utilizzano impropriamente la laicità per dare alle proprie tesi una forza che probabilmente non hanno. 5. Cultura laica e questione islamica L’analisi si fa più complessa se affrontiamo il tema del multiculturalismo, perché questo fenomeno costituisce una grande opportunità ma anche un grande rischio. Una opportunità per la laicità, che può far risaltare il suo volto accogliente e il suo carattere universale di fronte al mischiarsi delle popolazioni, delle pagine della storia, e della geografia. Ma anche un rischio se con il multiculturalismo si vogliono reintrodurre nelle nostre società antiche intolleranze, o costumi e tradizioni che evocano un lontano passato. Le prime risposte a questo evento sono deludenti, alcune preoccupanti, ma tutte riflettono un disorientamento generale. Vi sono a volte reazioni di tipo islamofobico che fanno d’ogni erba un fascio, alimentano paure e diffidenze, che vogliono negare all’islam ciò che la laicità deve garantire a tutti. Mi sembra, però, che siano prevalenti le reazioni opposte, perché la cultura laica sta rispondendo con uno spaesamento che tradisce incertezza e insicurezza. Il multiculturalismo sta facendo emergere una insicurezza dei valori della laicità, della loro validità e tendenziale universalità. Anche quell’orgoglio che ha dato forza allo Stato laico, che ha prodotto diritto e storia, sembra vacillare di fronte a chi appare più estraneo ai principi di libertà ed eguaglianza. Potrei citare una pluralità di fatti, ed eventi, che sembrano slegati tra di loro ma sono uniti da un robusto filo conduttore. Ne indico alcuni per far riflettere sul loro significato complessivo. Pochi si accorgono che si sta creando un divario crescente tra l’atteggiamento nei confronti delle Chiese tradizionali e quello che si manifesta di fronte a clamorose lesioni della laicità per motivi di multiculturalismo. Le prime riflettono un’antica suscettibilità, quasi la memoria del conflitto, le altre sono fatte di stupore e di silenzi. Se una Chiesa lucra ancora oggi qualche favore giuridico, si reagisce con veemenza perché la laicità dello Stato sarebbe in pericolo. Ma se vengono lanciate fatwe di morte contro letterati, giornalisti o registi, per offese all’Islam, si tratta di episodi che non riguardano lo Stato laico, non costituiscono istigazione all’omicidio. Se una fatwa viene eseguita, l’omicidio è di competenza della cronaca nera.  8 Se in un paese europeo si discute su temi etici, le prese di posizione delle Chiese cristiane sono viste come espressioni di un nuovo temporalismo. Ma se, in Europa o ai suoi confini, avvengono omicidi di donne che rifiutano regole tribali, di derivazione islamica o meno, oppure se il diritto di cambiare religione conduce ancora alla morte o all’emarginazione sociale, si considerano questi eventi come frutto di arretratezza, anziché un salto indietro nella storia della laicità. Nessun grido, nessun manifesto, nessun convegno è dedicato loro. Uno strabismo particolare colpisce la cultura laica quando è in gioco la questione femminile. Mentre gli ordinamenti europei adottano raffinati strumenti per rendere effettiva la parità tra uomini e donne, normativa e pratiche aliene che discriminano le donne, o le umiliano, non suscitano ribellione o ripulsa. Un tempo la cultura laica reagiva con forza, definendole oscurantiste e censorie, alle richieste di non eccedere nella liberalizzazione dei costumi, e di frenare la licenziosità con cui veniva usata la figura femminile. Oggi tace, quasi si nasconde, quando le donne vengono chiuse nel burqa, o si chiedono classi separate nelle scuole, spiagge differenziate, reparti ospedalieri distinti, o gli uomini rifiutano di essere subordinati sul lavoro a dirigenti donne, e via di seguito. In diversi paesi occidentali, dall’Inghilterra al Canada, dalla Germania al Belgio ai paesi del Nord Europa si moltiplicano le proposte di introdurre la scharì’a, o suoi segmenti, senza che suscitino scandalo per la ferita che porterebbero ai diritti umani fondamentali. Soltanto il 24 ottobre corso, con grande ritardo, il Parlamento europeo, ha approvato una risoluzione (peraltro molto positiva) sulla condizione delle donne, sulla illegalità della poligamia, sulla lesione dei diritti fondamentali. Le reazioni islamiche al discorso di Benedetto XVI a Ratisbona sono ormai note, e non mi ci devo soffermare. Ma nessuno ha notato un fatto che, in tema di laicità, ha sovrastato tutti gli altri. Il silenzio che i più rigorosi laicisti hanno mantenuto nel difendere la libertà di parola e di espressione contro minacce, violenze, ricatti. Eppure, per decenni questi gruppi hanno ripetuto sino alla nausea il pensiero di Voltaire per il quale, anche se non si condividono le idee di un altro, si è però pronti a spendere la propria vita perché l’altro possa esprimere quelle idee. Ma dopo Ratisbona, non si è spesa neanche una parola per difendere il diritto del Papa, come di chiunque altro, ad esprimere le proprie valutazione sul rapporto tra fede e violenza. A questi silenzi si aggiunge un fenomeno culturale meno appariscente e più sotterraneo. Il cattolicesimo, e il cristianesimo, sono stati per due secoli letteralmente vivisezionati per criticare e sradicare tutto ciò che sapesse di temporalismo, di anti-modernità, per spezzare la loro alleanza con il potere politico. Sull’intreccio tra altre religioni e sistemi politici dittatoriali, oggi prevale l’afasia nella cultura liberale, in quella marxista o anti-istituzionale. Sembra quasi che la critica illuministica e storicistica che, pur con asprezze a faziosità, ha saputo fustigare, in certa misura ha contribuito a rinnovare, le Chiese delle nostre società, scelga il silenzio di fronte a ben più pesanti congiunzioni tra religione, violenza, dispotismi più o meno teocratici. Tutto ciò apre degli interrogativi sul futuro della laicità in Italia e in Europa; e li apre non su un punto o su un altro, ma sulla spinta propulsiva che la laicità ha esercitato nel realizzare lo Stato moderno. Da questi, e altri episodi, sta scaturendo una sorta di assuefazione rassegnata di fronte alla mutazione genetica della laicità come la conosciamo in Occidente, che può portare ad un esito paradossale: ad una laicità occhiuta e diffidente verso le religioni tradizionali e ad un multiculturalismo disarmato e senza valori verso altre religioni e tradizioni. Sarebbe la fine della neutralità dello Stato. Laicità e multiculturalismo in Italia. Ambiguità e prospettive Per meglio capire i rischi di questa frattura tra laicità e multiculturalismo torniamo per un attimo all’esperienza italiana. L’Italia, ancora una volta, si è dimostrata più di altri Paesi equilibrata e accogliente, non condizionata da pregiudizi etnici o religiosi. L’Italia non ha fatto la guerra al velo, e a nessun simbolo religioso, forse perché di simboli confessionali ne conosce tanti da tanto tempo, dalle cattedrali alle chiese, dai conventi ai battisteri, alle fogge vestiarie di religiosi e religiose d’ogni genere. Quindi non avvertiamo disagio per un modesto velo che peraltro può appellarsi alla libertà di abbigliamento. L’Italia ha predisposto una vasta rete di accoglienza e sostegno sociale per l’immigrazione; sta cercando in tanti modi di soddisfare le esigenze di culto dei soggetti dell’immigrazione; prevede nei contratti di lavoro spazi per pratiche religiose, diversità alimentari, tradizioni come quello del ramadan. Ma questo che può essere considerato legittimamente un nostro vanto, si sta trasformando lentamente in qualcosa d’altro. Si sta trasformando nell’oscuramento di principi e valori essenziali, e nella accettazione di una cultura della separatezza che può colpire la laicità. Parlo della tendenza a rimuovere il crocifisso dalle aule scolastiche, e più in genere, tutta una simbologia e una tradizione di memorie del cristianesimo, riprendendo concezioni laiciste superate. E’ di questi giorni la notizia che nelle scuole, negli alberghi, in luoghi pubblici e privati diminuiscono i presepi e gli alberi di natale per non urtare suscettibilità di persone aderenti ad altri culti. Si realizza così quella che da tempo definisco una partita giocata su due tavoli: quello della laicità che limita o cancella simboli e presenze cristiane, e quello del multiculturalismo che legittima altri simboli o presenze religiose. Sempre in Italia si manifestano i primi sintomi di un cedimento multiculturale che mette a rischio i diritti fondamentali dei cittadini, in primo luogo delle donne. Si accetta qua e là la presenza del burqa, aumentano le voci favorevoli alla poligamia, si introducono in qualche parte forme separate di vita collettiva, nelle scuole, nei luoghi pubblici, si consente l’apertura di scuole islamiche fuori dei canoni previsti dalle nostre leggi. Si tratta di primi sintomi, ma sono parecchi e di significato univoco, e ci dicono che neanche noi siamo immuni dal rischio della perdita di senso della laicità e dei suoi valori. Altra cosa sarebbe se della laicità si offrisse il volto più maturo e accogliente, quello che sa distinguere tra quanto di autenticamente religioso emerge da una tradizione, e quanto appartiene ad arretratezza storica e culturale. Che sa rispettare e tutelare il patrimonio spirituale di ciascuna religione ed etnia, ma sa criticare e respingere ciò che collide con il sistema universale dei diritti umani, con la libertà religiosa, con l’eguaglianza tra uomo e donna. Che sa, cioè, promuovere il meglio della nostra e delle altrui tradizioni, ma si impegna a far arretrare il resto. Sarebbe un’altra cosa, un’altra storia, e potremmo dedicarvi un altro convegno.  Trovare l’uomo capace, e l’investirlo de’ simboli della capacità (culto, o com’altro sì chiami) così ch’egli possa avere agio a governare secondo la propria facoltà, è l’officio di ogni procedura sociale.   A questo punto il Carlyle riscrive ‘worship’ WORTH-ship, per accentuarne l’etimologia da ‘worth,’ valore, compincendosi che la ragione etimologica venga quasi ad attestare la nocessità del fatto che gli sta tanto a cuore.   Per mantenere questa relazione logica Loubatières muta ‘worship’ nell’*équivalent adequat* di *élection* da prima, e poi di *élite*.   ‘Carlyle,’ soggiunge Loubatières, de son pergant et rapide regard, dénude la racine des mots et des choses.’ Carlyle non è punto tenero degli studi etimologici.   Le parole gli si dischiudono ad un tratto come si fendono le roccie allo sguardo diabolico del suo jötun Hymir.  Ci fa ripensare a quello che dice Daudet:   ‘Il y a dans cortains mots que nous employons ordinairement un ressort cachè qui tout à coup les ouvre jusqu’au fond, nous les explique dans leur intimité exceptionelle.’  ‘Puis le mot se replie, reprend sa forme banale et roule insignifiant, usé par l’habitude et le machinal.’Carlo Cardia. Keywords: il laico, filosofia vs. teologia, italia anti-papista, il filosofo italiano deve essere neutro in questione di religione. Verdi – il papa – stati papali – repubblica italiana – liberta di culto – giurisprudenza – religione dell’antica roma – il pontifice nella religione romana antica – credenza religiosa – credenza naturale – credenza super-naturale – il sovra-naturale – il naturale – l’idea di religione nella antica Roma – il mito romano – la mitologia romana antica – il sacro – il pagano – la filosofia della roma antica pagana – la critica dei antichi romani al cristianesimo, il culto del laico, worship of the hero, il culto dell’eroe -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardia” – The Swimming-Pool Library.  

 

Grice e Cardone: l’implicatura conversazionale -- La nudita eroica di Napoleone -- Clark Kent; ovvero, sul sovrumano – trasumanar – l’eroe di Vico – hero-worship -- Annunzio e il fascismo -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Palmi). Filosofo italiano. Grice: “Cardone plays with a coinage, sobraumnao, in Dionigio e Luciano – it triggers implicata: what’s wrong with ‘human’? One is reminded of Pico (‘dignita dell’uomo’) and D’Annunzio – it is a problem of linguistic botanising for Italian phiosophers, ‘altreuomo’ being rendered as a translation of Emersen’s ‘plus man’ – and cf. Carlyle – D’Annunzio, who should have known better, prefers ‘suPer,’ when we know that in the ‘volgare,’ the ‘p’ becomes ‘v’, so Cardone has it just right!” Si laurea a Roma. Membro de Partito Socialista Unitario. Fonda "Ebe" e la rivista "Rivista". Fonda “Ricerche filosofiche”. Fonda la Società Filosofica Calabrese. Aattività deontologica per la realizzazione di un'etica sociale della Cultura, in difesa e promozione della civiltà, onde onorarlo per le sue incessanti iniziative anche in favore della fratellanza umana. Altre opere: Saggi di storia, filosofia e diritto; Il relativismo gnoseologico” (Palmi, A.Genovesi & figli ed); Reazione collettiva (Torino, Paravia & C); I filosofi calabresi nella storia della filosofia, con appendice sui sociologi e gli psicologi, Palmi, A.Genovesi & Figli ed., “La filosofia dello Stato” (Città di Castello, Casa Editrice Il Solco); Filosofia della vita, Città di Castello, Casa Editrice Il Solco); Umanismo (Messina); Cristianesimo, liberalismo e comunismo, Palmi, G. Palermo ed); Il Divenire e l'Uomo, Palmi, Ricerche filosofiche, “Civiltà, Palmi, G. Palermo ed); Vita di Gesù secondo il Vangelo incompiuto, Modena-Roma, Guanda Editore); La filosofia di Gesù, Milano, Bocca ed); L'uomo nel cosmo. Storia e prospettive, Palmi, Ricerche filosofiche ed); Bio critica, a cura della sezione bibliografica della Società Filosofica Calabrese, Bologna, Mareggiani ed); Seguito alla Bio critica, a cura della sezione bibliografica della Società Filosofica Calabrese, Cosenza, MIT); La vita come esperienza inutile, Cosenza, Pellegrini); L'ozio la contemplazione il gioco la tecnica l'anarchismo, Roma, Ricerche). Ricerche filosofiche, Torino, Edizioni di Filosofia). Il Divenire” (Padova, Rebellato Editore). Si vis pacem para pacem, Montepulciano, Editori Del Grifo,  Ludi. Bologna, Soc. Tip. Mareggiani ed); I confini dell'anima, Palmi, Ed. Del Fondaco di Cultura); La banca della carità” (Milano, M. Gastaldi ed., 1962 Terapia del tramonto (Milano, M. Gastaldi); Il figlio del dittatore” (Milano, M. Gastaldi); Canti del Sant'Elia, Poggibonsi, Lalli); L'assenza e la mancanza: meditazioni quasi poetiche, Cosenza, MIT). Dialogo sulla solitudine. divenir e vita. Filosofo-poeta. Un inattuale nella sua attualita. i Napoleone non mi sembra per nulla così grande come  il Cromwell. Le sue enormi vittorie, che s’ estesero A    _1 «Napoleone fu l'idolo della comune degli   " 3 i gli nomini, perchè  a le qualità e le facoltà degli Cn OI k Ni  Chi co: i 0 fesso moderno; auche quand'è all'apice della fortuna;  “gli aleggia dentro lo stesso spirito che troviamo nei giornali del tempo.    da 7    si limitò alla piccola Inghilte  che gli alti trampoli ti  la statura dell'uomo per essi  lui sincerità parl  d'una specie molto inferiore: NOn quel suo  silenzioso. Per 1  L'universo; NOn il « cammino co  lo chiamava;   ‘pensiero, il valore, che S1 co   latenti, © 8° accendono poi quasi amm® Napoleone viveva in un’ epoca che non avera più    | este: ;  fede in Dio; che considerav® non-entità jl significato ; a    ‘d’ogni silenzio, d'ogni qualità latente: non PIù sulla |. È  Bibbia puritan& aveva egli & fondarsi, ì  scettiche Enciclopedie. Eppure, ® tanto ei giunse- ed  meritorio L essere arrivato così lontano. Tl suo carattere :  compatto, pronto ed articolato, in ogni Senso, è in sè -  stesso piccolo; forse, a paragone i quello del nostro i  grande Cromwell, caotico ed inarticolato. Non è « muto  profeta che si sforza di parlare.; > ha piuttosto in sè  un portentoso miscuglio di ciarlataneria ! Il concetto  dell’ Hume, d'una fanatica ipocrisia, Con quanto è in esso  di vero, potrà applicarsi molto meglio Napoleone che  non s’ applicasse al Cromwell, ® Maometto od ai loro  simili, per 1 quali realmente, preso & tutto rigore, conte-  neva a mala pena alcuna stilla di verità. Sin da prim-  cipio, appare in quest’ uomo un elemento di riprovevole  ambizione, che alla fine lo vince, @ trascina lui e l’opera  sua in ruma.  a SE vi be divenne motto prover=  era necessario di Ei a Se ARen  alto il coraggio de’ DARE bisognava tenere  aggio de’ suol uomini e così  plesso, non ci son ; via. Fio  Non è un santo, mon è un cappuccino, per Usare la    nemmeno un eroe, nell'alto signi  \ x guificato d  al capo VI: Napoleone o l' uomo di pagata pa    tutta 1 Europa, mentre il e: o di &  da  espressione sua; È ;  » (Emerson, op. cita È    dedi  $ A.  prrura SEST è  i eglio, ® lungo    e stato ID o  resse Ind  so, se non at i  oleone ste55° ;  atti, ba alcun proposito che sì  ; :orno; ch'è destinato  e KI x .  ‘no vantaggio può mal ve-    anl a  dolo one? Le menzogne SI sco-  ul a ruinos@ La prossima  agi ‘ near   È e prestar fe al bugiardo; quand an  +1 della più alta impor prono, © se  nessuno VOST  Da uand' anche s1a    che dica il vero» È ;l vecchio grido: < Al   tei venga creduto. A  cr È Una bugia è nulla; al nulla, nom Potere  lupo ‘> a farete, e © avrete    vare qualch - alla fine, null    er giunta rimess Y x  È Dare verain Napoleone una certa sincerità ; anche  è)    nella insincerità, bisogna distinguere quanto è super:  ficiale da quanto è fondamentale. A traverso & que  ste sue macchinazioni esteriori, & queste ciarlatanerie,  ch''erano molte e riprovevolissime, vediamo pure nel-   Jla realtà, istintivo e impossi-    l'uomo un certo senso de )  bile a sradicare; vediamo ch' el Sl fondò sul fatto.... SI  n lui l'istinto di na-    tanto ch’ ebbe alcun fondamento. I  tura è superiore alla cultura. Il Bourrienne ' racconta  che i suoi savants, in quel viaggio d’ Egitto, s' affanna=  vano una sera a dimostrare che non ci può essere Dio.  Erano riusciti a provarlo, a loro grande soddisfazione,  con ogni maniera di logica. Napoleone, guardando su,  alle stelle, risponde : «La dimostrazione è molto inge-   gnosa, messieurs ; ma chi ha fatto tutto ciò? » La dot-   trina atea gli passa sopra come un’ ondata ed egli   rimane al cospetto del grande fatto: « Chi f ti   ci09 > Similm Ì | fece utto  ente nella pratica: come 0   possa essere grande e trionfare i gni.u9Maro   onfare in questo mondo, egli 1 Mémoires de Mi de Rourri. i  Villemarest, Paris, chez Tadrocat. 1620-1861, lui-meme, rédigéa par Mi de    Fauyol  Fauvolot do Bonrrionna (1769-1894), amico d'infanzia e segretario    timo di Napoleone, — colui  MA i, colui cho formulò, d'accordo co  diem nl DE Oi orrori contenuti ola COLI REA  to I ‘ourrienne et nen erreura volontaires dI RT  fontraverso ® tuttii viluppi, il nocciolo pra    vede, ® de direttamente.!  tione; ed a quello ten 9 2 bj pei  driscalco del suo palazzo delle Tuileries gli    e tappezzerie, dimostrandogli ‘con    me fossero magnifiche, e DEF giunta @ He,  mercato; Napoleone, Per tutta risposta, hiese Sa  Ni forbici, mozzò una napPInA dl oro dele o  finestra, se la messe in tasca, e tirò via. Qualche Hai :  dopo, la cavò fuori al momento buono, gran È SE  rore del suo fornitore: non era Oro, ma. orpello! ; no-  tevole come anche a Sant' Elena, sempre; sino & #  ultimi giorni, egli insista sul pratico, sul reale: < A che  parlare e lamentare? & che, sopra tutto, leticare? Non  ‘gi viene con ciò ad alcun risultato; @ nulla si riesce,  a far nulla. E se nulla potete fare; tacete! > Parla  ‘spesso così a’ suoi poveri seguaci malcontenti ; è come  una forza silenziosa tramezzo alle loro morbose querele. A  E per conseguenza, non possiamo dire che fosse in n   lui pure una fede genuina, Der quant’ era possibile? Ve- i  deva in questa nuova enorme democrazia, che s’ affer- n  mava nella rivoluzione francese, un fatto che non sì può -  sopprimere, un fatto che il mondo intero, con tutte le  sue vecchie forze e le instituzioni, non può metter da  parte: di ciò egli aveva il vero intuito, e quell’ intuito  trascinava seco la sua coscienza ed il suo entusiasmo :  era la sua fede. Forse che non ne interpetrò bene  l’oscura portata ? La carriòre ouverte auv talents — gli  strumenti & chi sa maneggiarli: quest’ è effettivamente  la verità, tutta la verità anzi, e comprende tutto il si- :  bo dell riluzione fece 0 i a  ix Ò n ‘ »  al ieri i dda  DE nidi pae CE cedono innanzi a quest'uomo Dire ecm  vr i rat dp  degli soci dl diplomati e vugle cha ogni ir  facoltà di RIGA RARI HRolnio: egoista, prudente, psn se :  ale parvenza altrùi, uè da e sntisinne. 1a Siocniae da alcuna @  re, da nessuna fretta. » (Emerson, loco cit, sì VI meg SaIoaaai Si ù Napoleone nel suo primo periodo sie to  “vero democratico ; nondimeno, Per sua natura, QI  ati ita mili sapeva che Ja democrazia,    in quanto mai fosse verità, non poteva essere: RIO  ed odiava cordialmente P'anarchia. T1 20 giugno 5  seduto col Bourrienne in un caflè, mentre la folla Diso,  schiamazzando, Napoleone esprime il più DIOCr, a 3 i-  sprezzo per le antorità che non reprimono que! dio  dine. Il 10 agosto sì meraviglia che nessuno prenda 1  o di que’ poveri Svizzeri : vincerebbero Se uves:  dante. Tanta fede nella democrazia, eP7    316    comand    sero un coman I I  pure tant! odio dell’ anarchia sostengono apoleone IM  illanti campagne    grande Opera. Nelle br IO]  d'Italia, via via sino alla pace di Léoben,' 81 direbbe  che il suo ideale sia questo: fatta trionfare la rivolu-  zione francese; affermarla contro questi simulacri aus  striaci che 0Sano dirla, un simulacro! — Nondimeno,  egli sente pure; ed ha diritto di sentire, quanto neces?  siria sia una forte autorità; e come senz) essa l’opera  della rivoluzione non possa prosperare nè durare. Fre-  nare quella granda rivoluzione devastatrice, che divorava  sè stessa ; domarla così, che, raggiunto il suo intrinseco  scopo, essa possa divenire organica, capace di vivere tra  gli altri organismi, tra le altre cose formate, e non sol-  tanto quale opera di devastazione, di distruzione : non  mirava egliin parte a questo come alla vera mèta della  sua vita? non s'ingegnò, anzi, effettivamente, di far  IA A traverso Wagram ed Austerlitz, a traverso  Re.  SOT aan Hg per osare ed operare, € s'inalzò  ica IRE re. Tutti gli uomini videro  sione Cad Ro ioni soldati solevano dire  ai dala avvocati di Parigi, tutti  ‘Bisogna che mettiamo là il Pan Diga  ‘andarono, e lo messe ni nostro Petit Caporal!> E  S ro là; essi, e tutta la Trancia in    tutta la sua  DAI  massa E poi il consolato; 1° impero; la vittoria su tutta  pEurop® {.. È abbastanza naturale che il povero luogo-    ” n 9  tenente del reggimento La Fère, potesse apparire ai pro-  i ‘n erande fra quanti nomini fossero da 56    sto punto; quel fatale elem nto di ciarla-  0. Rinnegando la sua vel   chia fede nei fatti, cOn jò a credere nelle parvenze,  brigò per imparentarsì con le dinastie austriache, col  papati, con le vecchie false feudalità, che pure un tempo  gli apparivano chiaramente false; pensò & fondare una  e così via — come se la enorme   mirasse che @    dinastia Sua  rivoluzione francese non    era dunque € dannato ®  zogna;> è terribile, m®    il vero dal falso quando v  ventosa ammenda, questa, che 1 uomo paghi per avere    ceduto alla infedeltà del cuore. La falsa ambizione ego  stica era divenuta ora il suo dio: un® volta scesi sino  all’inganno di sè stessi, tutti gli altri inganni seguono  naturalmente, € si cade sempre più e più basso. In quale  gretta e rappezzata miseria, in quale mascherata tea-  trale di manti di carta e d'orpello, aveva ravvolta que-  st'uomO la propria grande realtà, immaginando cor ciò  di farla più reale! E quel vacuo Concordato col papa;  che pretende ristabilire il cattolicismo mentr' egli stesso  1 riconosce ch è il metodo di estirparlo, la vaccine  religioni e quelle cerimonie d’incoronazione, quelle con-  È sacrazioni nella chiesa di Notre-Dame per mezzo della  Ai. vecchia chimera italiana — « cui nulla mancava, > come  disse l’Augereau,' ca completarne la pompa, Se non'quel  mezzo milione d’uomini, morti per far finire tutto ciò!...> +  | RIA Ae di Cromwell fu con la spada e con la —  ja, e dobbiamo dirla genuinamente vera. La spada    \aneria prese  Da or Francesco Auger at   Drama EETUIGIO), ANA onu, duca di Castiglione, maresciallo e pari di |  ‘che fu governatore a Berlino nel 1818, è difese Tione nel 1814    18 fruttidoro (LT9T); © ne ESTA. i  ETTURA SES  ; lui senz alcuna chi-  blemi del purttatni  Aveva usato en-  ; I  a et pretendev® ora difenderle!  bagliò credette troppo  vide nell'uomo    di -]*   i ta facilità...  della fame © di questa 12  Siglo ta (Lor che edificasse sulle nubi, e:  SAR ina, e di arve dal mondo?    i ni Sì  ‘gua casa IN confusa rund; | i DO  art in ciascuno di noi, esiste quest SE.  e potrebbe svilupparsi ove la tenti    ciarlataneria, ;  fosse forte abbastanza. € on    Ma il suo sviluppo; invero; |  come ingrediente riconoscibil e  ie DE: Sa a di Napoleone, &  stessa piccina. Che fu dunque 1 opere SI  i lpore? Uno sprazzo come di po   malgrado di tanto sca p 3 Re  vere da fucile largamente sparsa; Una fiamma t)   di eriche secche. Per un'ora, | universo intero sembra  avvolto dal fumo e dalle fiamme; ma per un' ora sol-  tanto. Poi svanisce, ed ecco riapparire Vl umiverso CON  le sue vecchie montagne ed i vecchi fiumi, con le stelle  nell'alto e giù sotto il benefico suolo.   Il duca di Weimar diceva sempre agli amici di farsi  animo, chè questo Napoleonismo era ingiusto, era men-  zogna, e non poteva durare. La teoria è vera. Più questo  Napoleone calpestava il mondo, tenendolo tirannicamente   + oppresso, più fiera sarebbe un giorno la reazione del  mondo contro di lui. L' ingiustizia si ripaga da sè, e con  uno spaventevole interesse composto. Non so davvero       a in dina pro alt OG  Dio si ha risersata jar lui Ladino Boo oi SA TmaSoni ne  PESI Lira si, Sraianol: cho vuol gio del HIFEMENE   la la mila cl 1 ila son fumi tie  tnio parere non durabile perchè LARA RE LIE ICINLI  cod’ artiglieria 0 veder affogare il suo reg-    jelior pal 7 ; cite  rimento migliore, anzichè fucilare quel povero libraio  {edesco palm!? Fu un'aperta ingiustizia, una, tirannia,    un assassinio, che nessun uomo, la dipinga pure con uno  strato di colore alto un dito, potrà mai far apparire  altrimenti. Questa ed altre simili ingiustizie s' impres?  sero profonde nei cuori; un fuoco represso balenava  dagli occhi degli uomini quando vi ripensavano.... aspet-  tando il giorno! Ed il giorno venne: € la Germania gli  si sollevò d’ intorno. — L'opera di Napoleone sl ridurrà   a lungo andare & quanto egli compì giustamente, 2 quanto  la natura sancirà con le sue leggi, a quanto di realtà  era in lui; ® tanto, e nulla più. Il resto fu tutto fumo  e sciupio. La carrière ouverte Aux talents: questo grande  messaggio di verità, che ha ancora da articolarsi e da  adempiersi dappertutto, ei lo lasciò in uno stato affatto  inarticolato. Egli fu un grande schema, un abbozzo, non  mai completato: ed invero, forse che il grand’ uomo è  mai altro? Ma egli, ahimè, rimase in uno stato tr0ppo  rudimentale |...   È quasi tragico il riflettere alle sue opinioni sul  mondo, quali le esprime là, a Sant'Elena. Sembra pro-  vare la più sincera meraviglia che tutto sia andato &  quel modo: ch’ egli sia stato gettato là, sulla rupe, e  "che il mondo ruoti ancora sul suo asse. La Francia. è   ‘grande, anzi è sola grande; ed in fondo Napoleone è la  Francia. La stessa Inghilterra, egli dice, non è per na-  ura che un'appendice della Francia; < è per la Francia  n'altra isola d’Oleron. >» Così era per natura, per l ‘Non può comprendere, non sa concepire che la realtà  «ela confederazione del Reno veniva formandosi, la polizia scoperse al Sci librai furono arrestati )  ono per avervi avuto parte e Napol   Sa commissiono militare. Quattro degli Roca LARE   oro provincie: due, Schiderer e Palm, condannati a    mi % 4  to Napoloone fece grazia, una il libraio Palm di Norimberga vi atura di Napoleone. Guardate, infatti : ECCOMI QUI da    i  1 Nel 1806, mentre l’ esercito francese occupava ancora la Germania,    cuni documenti, che rivelavano i piani d'un comitato segreto d'insurre- e  LEmTURÀ de mma; che la Francia   TR da ci c  jeposto al suo P o, Ji non S1a la Francia.  3 ‘n a credere ciù    andezza, © dI DI ipbia i  nesta “iano, COSÌ compatta, così   ana, ì  g'è involuta; s'è quasi    sua N° 0  ante un temp: e a di fanfaronnadi    da tmosfer:  torbida n'ai osto & lasciarsi calpe:  LS contastare come pla  si tà alla Francia ed a sè;  0A   it A mire! Napoleone 7 1 costene  Ma, ahimè, OF he giov Le,  ui ; e natura, anch’ ess% si dia  Essendosi UNA volta staccato 1) st e)   scamp nel vuoto; è Vv ebbe per  o di rado tocco ad un uomo sorte tanto desolata:  e dovette morire; povero Napoleone !..    mento troppo presto sciupato, sino &  "& ecco il nostro ultimo eroe!   A si  er * *  Sa Tiltimo in un doppio significato, poichè debbono con    ‘]ui terminare queste nostre peregrinazioni a traverso  ‘tempi e luoghi così diversi, cercando, studiando gli eroi.  UR ME ne rinoresce: era un piacere per me in quest’ occu:  | pazione, sebbene misto a molta pena. È un grande s0g=  5 molto grave, molto vasto, questo che io, appunto  darmi tropp'aria di gravità, ho chiamato cult@  Esso penetra profondo nelle secrete vie del-  ‘e ne’ più vitali interessi di questo mondo;  tei ge bro ben degno di svolgimento. In sei  Invece che sei giorni, avremmo potuto far meglio.  lo: chi sa se nemmeno vi sono riu-  per penetrarvi un poco, dovetti  Dn DIRE Tronno spesso, con bru-  uttate là isolate, senza commento, ho ‘cortese benevolenza, non voglio ora parlare.  per saviezza e leggiadria, ha ascoltato pazient  pozze parole. Sentitamente, cordialmente, vi rendo    zie, ed a tutti dico: Dio sia con voil  Precisely a century and a year after this of Puritanism had  got itself hushed-up into decent composure, and its results made  smooth, in 1688, there broke-out a far deeper explosion, much  more difficult to hush-up, known to all mortals, and like to be  long known, by the name of French Revolution. It is properly  the third and final act of Protestantism ; the explosive confused  return of mankind to Reality and Fact, now that they were  perishing of Semblance and Sham. We call our English Puri-  tanism the second act : “Well then, the Bible is true ; let ils  go by the Bible 1 ” “ In Church,” said Luther ; “ In Church   and State,” said Cromwell, “let us go by what actually God’s  Truth.” Men have to return to reality ; they cannot live on  semblance. The French Revolution, or third act, we may well  call the final one ; for lower than that savage Sansculottism men  cannot go. They stand there on the nakedest haggard Fact,  undeniable in all seasons and circumstances ; and may and  must begin again confidently to build-up from that. The French  explosion, like the English one, got its King, — who had no  Notary parchment to show for himself. We have still to glance  for a moment at Napoleon, our second modern King.   Napoleon does by no means seem to me so great a man as  Cromwell. His enormous victories which reached over all  Europe, while Cromwell abode mainly in our little England,  are but as the high stilts on which the man is seen standing ;  the stature of the man is not altered thereby. I find in him  no such sincerity as in Cromwell ; only a far inferior sort. No  silent walking, through long years, with the Awful Unnamable  of this Universe; ‘walking with God," as he called it; and  faith and strength in that alone : latent thought and valour,  content to lie latent, then burst out as in blaze of Heaven’s  /lightning 1 Napoleon lived in an age when God was no longer  believed ; the meaning of all Silence, Latency, was thought to  'be Nonentity : he had to begin not out of the Puritan Bible,  but out of poor Sceptical EncyclopMies, This was the length  the man carried it. Meritorious to get so far. His compact,  prompt, everyway articulate character is in itself perhaps small,  compared with our great chaotic /^articulate Cromwell’s. In-  stead of 'dumb Prophet struggling to speak,' we have a por-  tentous mixture of the Quack withal I Hume’s notion of the Fanatic-Hypocrite, with such truth as it has, will apply much  better to Napoleon than it did to Cromwell, to Mahomet or the  like, — where indeed taken strictly it has hardly any truth at  all. An element of blamable ambition shows itself, from the  first, in this man ; gets the victory over him at last, and in-  volves him and his work in ruin.   * False as a bulletin’ became a proverb in Napoleon’s time.  He makes what excuse he could for it : that it was necessary  to mislead the enemy, to keep-up his own men’s courage, and  so forth. On the whole, there are no excuses. A man in no  case has liberty to tell lies. It had been, in the long-run, better  for Napoleon too if he had not told any. In fact, if a man  have any purpose reaching beyond the hour and day, meant to  be found extant next day, what good can it ever be to promul-  gate lies ? The lies are found-out ; ruinous penalty is exacted  for them. No man will believe the liar next time even when  he speaks truth, when it is of the last importance that he be  believed. The old cry of wolf 1 — K Lie is nMhing ; you can-  not of nothing make something ; you make nothing at last, and  lose your labour into the bargain.   Yet Napoleon had a sincerity; we are to distinguish be-  tween what is superficial and what is fundamental in insin-  cerity. Across these outer manceuverings and quackeries of  his, which were many and most bian>able, let us discern withal  that the man had a certain instinctive ineradicable feeling for  reality ; and did base himself upon fact, so long as he had any  basis. He has an instinct of Nature better than his culture  was. His savans, Bourrienne tells us, in that voyage to Egypt  were one evening busily occupied arguing that there could be  no God. They had proved it, to their satisfaction, by all man-  ner of logic. Napoleon looking up into the stars, answers,  “Very ingenious. Messieurs ; but who made all that?” The  Atheistic logic runs-off from him like water ; the great Fact  stares him in the face : “ Who made all that ?” So too in  Practice : he, as every man that can be great, or have victory  in this world, sees, through all entanglements, the practical  heart of the matter ; drives straight towards that. “N^en the  steward of his Tuileries Palace was exhibiting the new uphol-  stery, with praises, and demonstration how glorious it was, and how cheap withal, Napoleon, making little answer, asked for a  pair of scissors, dipt one of the gold tassels from a window-  curtain, put it in his pocket, and walked on. Some days after-  wards, he produced it at the right moment, to the horror of his  upholstery functionary ; it was not gold but tinsel I In Saint  Helena, it is notable how he still, to his last days, insists on the  practical, the real. Why talk and complain ; above all, why  quarrel with one another ? There is no result in it ; it comes  to nothing that one can do. Say nothing, if one can do no-  thing I” He speaks often so, to his poor discontented follow-  ers ; he is like a piece of silent strength in the middle of their  morbid querulousness there.   And accordingly was there not what we can call a faith in  him, genuine so far as it went ? That this new enormous De-  mocracy asserting itself here in the French Revolution is an  insuppressible Fact, which the whole world, with its old forces  and institutions, cannot put down ; this was a true insight of  his, and took his conscience and enthusiasm along with it, — a  faith. And did he not interpret the dim purport of it well ?   * La carriers ouverte aux ialens^ The implements to him who  “ran handle them ;* this actually is the truth, and even the whole  truth ; it includes whatever the French Revolution, or any Re-  volution, could mean. Napoleon, in his first period, was a true  Democrat. And yet by the nature of him, fostered too by his  military trade, he knew that Democracy, if it were a true thing  at all, could not be an anarchy : the man had a heart-hatred  for anarchy. On that Twentieth of June (1792), Bourrienne  and he sat in a coffee-house, as the mob rolled by : Napoleon  expresses the deepest contempt for persons in authority that  they do not restrain this rabble. On the Tenth of August he  wonders why there is no man to command these poor Swiss ;  they would conquer if there were. Such a faith in Democracy,  yet hatred of anarchy, it is that carries Napoleon through  all his great work. Through his brilliant Italian Campaigns,  onwards to the Peace of Leoben, one would say, his inspir-  ation is ; ‘ Triumph to the French Revolution ; assertion of   * it against these Austrian Simulacra that pretend to call it  ‘ a Simulacrum 1’ Withal, however, he feels, and has a right  to feel, how necessary a strong Authority is ; how the Revolution cannot prosper or last without such. To bridleMn that  great devouring, self-devouring French Revolution ; to tameit,  so that its intrinsic purpose can be made good, that it may be-  come organic, and be able to live among other organisms and  formed things, not as a wasting destruction alone : is not this  still what he partly aimed at, as the true purport of his life ;  nay what he actually managed to do ? Through Wagrams,  Austerlitzes ; triumph after triumph, — he triumphed so far.  There was an eye to see in this man, a soul to dare and do.  He rose naturally to be the King. All men saw that he was  such. The common soldiers used to say on the march : “ These  babbling Avocats, up at Paris ; all talk and no work ! What  wonder it runs all wrong ? We shall have to go and put our  Petit Caporal there I” They went, and put him there ; they  and France at large. Chief-consulship, Emperorship, victory  over Europe ; — till the poor Lieutenant of La Fire, not unna-  turally, might seem to himself the greatest of all men that had  been in the world for some ages.   But at this point, I think, the fatal charlatan-element got  the upper hand. He apostatised from his old faith in Facts,  took to believing in Semblances ; strove to connect himself  with Austrian Dynasties, Popedoms, with the old false Feud-  alities which he once saw clearly to be false ; — considered that  he would found “ his Dynasty” and so forth ; that the enormous  French Revolution meant only that ! The man was ‘given-up ^  to strong delusion, that he should believe a lie a fearful but j  most sure thing. did not knowJrue from false no\y.wheiLj  he looked at them, — the fearfulest penalty a man pays for yielding .  to untruth of heart. Self and false ambition had now become ^  his god : j^^deception once yielded to, all other deceptions  follow naturally more and more. What a paltry patchwork of  theatrical paper-mantles, tinsel and mummery, had this man  wrapt his own great reality in, thinking to make it more real  thereby ! His hollow ^-Concordat, pretending to be a re-  establishment of Catholicism, felt by himself to be the method  of extirpating it, ^fa vaccine de la religion his ceremonial  Coronations, consecrations by the old Italian Chimera in Notre-  Dame, — “wanting nothing to complete the pomp of it,” as  Augereau said, “nothing but the half-million of men who had died to put an end to all that” ! Cromwell’s Inauguration was  by the Sword and Bible ; what we must call a genuinely  one. Sword and Bible were borne before him, without any chi-  mera : were not these the’’ r^a/ emblems of Puritanism ; its true  decoration and insignia ? It had used them both in a very  real manner, and pretended to stand by them now 1 But this  poor Napoleon mistook : he believed too much in the Dup^~  ability of men ; saw no fact deeper in man than Hunger and  this 1 He was mistaken. Like a man that should build upon  cloud ; his house and he fall down in confused wreck, and de-  part out of the world.   Alas, in all of us this charlatan-element exists ; and might  be developed, were the temptation strong enough. ‘ Lead us  not into temptation’ I But it is fatal, I say, that it be developed.  The thing into which it enters as a cognisable ingredient is  doomed to be altogether transitory; and, however huge it may  look, is in itself small. Napoleon’s working, accordingly, what  was it with all the noise it made ? A flash as of gunpowder  wide-spread ; a blazing-up as of dry heath. For an hour the  whole Universe seems wrapt in smoke and flame ; but only  ^for an hour. It goes out : the Universe with its old mountains  and streams, its stars above and kind soil beneath, is still there.   The Duke of Weimar told his friends always, To be of  courage ; this Napoleonism was unjust^ a falsehood, and could  not last. It is true dqctrine. The heavier this Napoleon tram-  pled on the world, holding it tyrannously down, the fiercer would  the world’s recoil against him be, one day. Injustice pays jt-  self with frightful compound-interest. I am not sure but he  had better have lost his best park of artillery, or had his best  regiment drowned in the sea, than shot that poor German  Bookseller, Palm I It was a palpable tyrannous murderous  injustice, which no man, let him paint an inch thick, could  make-out to be other. It burnt deep into the hearts of men,  it and the like of it ; suppressed fire flashed in the eyes of  men, as they thought of it, — ^waiting their day 1 Which day  came : Germany rose round him. — ^What Napoleon did will in  the long-run amount to what he did justly j what Nature with  her laws will sanction. To what of reality was in him; to that  and nothing more. The rest was all smoke and waste. La  carri^re ouverte aux talens : that great true Message, which  has yet to articulate and fulfil itself everywhere, he left in a  most inarticulate state. He was a great Sbatiche, a rude-  draught never completed ; as indeed what great man is other ?  Left in too rude a state, alas 1   His notions of the world, as he expresses them there at St.  Helena, are almost tragical to consider. He seems to feel the  most unaffected surprise that it has all gone so ; that he is  flung-out on the rock here, and the World is still moving on  its axis. France is great, and all-great ; and at bottom, he is  France. England itself, he says, is by Nature only an ap-  pendage of France ; “another Isle of Oleron to France.” So  it was by Nature, by Napoleon-Nature ; and yet look how in  fact — Here am I I He cannot understand it : inconceivable  that the reality has not corresponded to his program of it ;  that France was not all-great, that he was not France. ‘Strong  delusion,’ that he should believe the thing to be which is not I  The compact, clear- seeing, decisive Italian nature of him,  strong, genuine, which he once had, has enveloped itself, half-  dissolved itself, in a turbid atmosphere of French fanfaronade.  The world was not disposed to be trodden-down underfoot ; to  be bound into masses, and built together, as he liked, for a  pedestal to France and him : the world had quite other pur-  poses in view! Napoleon's astonishment is extreme. But alas,  what help now ? He had gone that way of his ; and Nature  also had gone her way. Having once parted with Reality, he  tumbles helpless in Vacuity; no rescue for him. He had to  sink there, mournfully as man seldom did ; and break his great  heart, and die, — this poor Napoleon ; a great implement too  soon wasted, till it was useless : our last Great Man I   Our last, in a double sense. For here finally these wide  roamings of ours through so many times and places, in search  and study of Heroes, are to terminate. I am sorry for it: there  was pleasure for me in this business, if also much pain. It is  a great subject, and a most grave and wide one, this which,  not to be too grave about it, I have named He?'o-worship. It  enters deeply, as I think, into the secret of Mankind’s ways and  vitalest interests in this world, and is well worth explaining at present. With six months, instead of six days, we might have  done better. I promised to break-ground on it ; I know not  whether I have even managed to do that. I have had to tear  it up in the rudest manner in order to get into it at all.  Often enough, with these abrupt utterances thrown-out iso-  lated, unexplained, has your tolerance been put to the trial.  Tolerance, patient candour, all-hoping favour and kindness,  which I will not speak of at present. The accomplished and  distinguished, the beautiful, the wise, something of what is best  in England, have listened patiently to my rude words. With  many feelings, I heartily thank you all ; and say, Good be with  you all ! Domenico Cardone. Domenico Antonio Cardone. Keywords: Clark Kent; ovvero, sul sovrumano, “Ricerche filosofiche”; futilitarianism, inutilitarianism, Grice, “The philosophy of life,” Grice, “Philosophy of life”, essere e divenire – il sovraumano, Nietzsche, Bergson, D’Annunzio, sobra-uomo, super-uomo. Jesus as a philosopher! Tommaso Carlyle, Il culto degl’eroi – culto, worth-ship, valore, Napoleone, natura italiana -- -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardone” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Carifi: l’implicatura conversazionale dell’ablativi relativi – Roman implicata -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pistoia). Filosofo italiano. Grice: “I would call Carifi a poet rather than a philosopher! He did indeed philosophise ‘in difesa della filosofia,’ but that  should read of ‘his’ ‘filosofia,’ which he sees as an elaboration on death! My favourite are his ‘lezioni’ di filosofia and his ‘ablativo assoluto,’ something English lacks, but ‘deo volente’ doesn’t!” --  Studia sotto Bigongiari, tra i maggiori esponenti dell'ermetismo fiorentino,  profondamente influenzato dalle voci liriche di Rilke e Trakl, su cui si è esercitato anche come traduttore, oltre a essere poeta, svolge l'attività di critico letterario e filosofico. Autore de “Il segreto”. Al fianco degli studi filosofici, vi sono quelli di psicoanalisi a Milano. Mentre nelle liriche si risente la dizione rilkiana e emerge il debito verso Heidegger, nei componimenti successivi questi motivi vengono amalgamati a nuove istanze della sensibilità. In particolare dopo la dura prova della malattia, l'incidente, come lui chiama l'ictus da cui è stato colpito, i suoi versi abbracciano una nuova forma di rarefazione dissolvente in cui l'essere, attraversato dal dolore, cerca una via estrema di comunicazione per ricongiungersi al mondo.  Luoghi e figure dell'anima. Due sono i temi che incardinano la sua poetica: la madre e il legame con la città natale, Pistoia, che di quel rapporto affettivo è l'emanazione, entrambi raccolti filosoficamente nel rimando all'infanzia, epoca originaria dei sensi, periodo d'elezione per l'anima ma anche ingrato, di cui si fatica a cogliere l'essenza se non a patto di una discesa spossante. Ora è l'attimo che attende, è l'istante che prepara i tempi a un altro istante dove si deve attendere l'infanzia, quella bastarda che era là, tragico volto dei bambini. La madre, dolorosa musa, abbandonata dal marito quando il bambino aveva appena tre anni, ha lungamente accompagnato e sorretto la voce del figlio. La sua scomparsa è una perdita incolmabile nella vita e nel suo immaginario. La città rappresenta un caldo grembo, dove tutto rimanda a quel legame dissolto ma anche alle tante amicizie e perfino a quegli spiriti gentili di artisti e letterati che continuano ad aggirarsi, figure di sogno, nelle strette strade del centro. Bigongiari era di Pistoia. Era figlio del capostazione e abitava in Via del Vento, accanto a Manzini. Nei miei viaggi onirici li vedo tutti e due, Bigongiari e Manzini, camminare tra Via del Vento e Via Verdi, in silenzio perché parlano una lingua muta, una lingua del deserto che solo i poeti e i mistici capiscono. Nei suoi versi rivive di continuo la devozione spirituale per il luogo, la cui essenza poetica sta nell'intreccio di memorie che lo abitano, un passato con cui si misura in uno stato di incerta beatitudine tra sogno e veglia. Nasco filosofo con una grande tensione verso la poesia. Una tensione, la mia, che si è poi sviluppata fino a rendermi filosofo, ma soprattutto poeta. La filosofia arriva fino ad un certo punto, da quel punto in poi c’è la poesia. La poesia parla del cielo, delle foreste degli uomini, fa un salto verso la verità. Abbandona il linguaggio su cui, bene o male, la filosofia regge e sceglie un linguaggio pre-sentativo'', il linguaggio della presenza.  La sua ricerca è la risposta alle varie vicende dell’uomo. L’uomo colma e coglie sé stesso attraverso il percorso del lume, l’apertura alla conoscenza. L’uomo mite che miete la luce, capace di cuore della verità, che non rinuncia al pensiero della responsabilità e della parola, è l’uomo Carifi. Non bisogna accostarsi a lui con il timore di leggere un incomprensibile tomo di filosofia analitica alla teoria dell’implicatura di Grice, sia pur condividendo con lui che non esistono concetti semplici, né concetti già pronti, perché la filosofia analitica di Grice è, Grice morto, in divenire, è in movimento. Un sottile ma preciso filo conduttore che caratterizza la raccolta delle sue lunghe e silenziose riflessioni è la pratica dell’intensità, destini che si rivelano fino in fondo. Esercita il bello della profondità portandola, a tutti, sul piano conoscitivo della conversazione. Le sue opere sono cammini culturali e spirituali dove l’uomo ed il valore sono all’unisono un giro concentrico di piaceri.  La conversazione è un abisso che, in un’intima solidarietà, unisce il moto interiore all’estetica dell’espressione, e la conversazione diviene il veicolo principale dove il silenzio meditativo e contemplativo si colora di una dimensione inter-oggettiva. La conoscenza dell'altro.L'uomo del pensiero: Roberto Edizione Polistampa, Firenze. Poesia e filosofia convivono e si alternano nella sua vasta produzione, tra i maggiori autori contemporanei. E conosciuto per i testi filosofici e per l’intensa attività poetica, influenzata, a partire dagli anni Ottanta, dall’amicizia con Bigongiari; ma anche per le traduzioni in italiano di Hesse, Rousseau, Racine, Bataille, Trakl e Weil. La poesia è una stretta di mano su «Naturart», rivista di cultura, Giorgio Tesi Editrice»  Scopre il dolore con la perdita della madre che diventa la sua ossessione poetica, descritta come un pozzo in cui scendere. Le sue due antologie poetiche (Infanzia; Nel ferro dei balocchi), pur seguendo percorsi diversi, si ergono entrambe su due abissi: l'infanzia personale, ma al contempo quella di intere generazioni europee, segnate da un legame indissolubile. Archivio Festival Letteratura, Palazzo Ducale, Mantova. È una poesia in cui la forte componente autobiografica trasfigura il vissuto, in quanto ciò che si racconta assume valore paradigmatico: situazioni ed episodi emblematici in cui l’uomo incontra l’assoluto. Incontro su «VIinforma», rivista culturale della Banca di credito coooperativo di S. Pietro in Vincio»  «La raccolta Madre, proprio perché torna su un tema già fortemente praticato, consente di guardare al complessivo percorso poetico di Carifi potendo distinguere in esso un momento di passaggio e di mutamento, determinato prima dall’avvicinamento al buddismo, poi dalla malattia. Giuseppe Grattacaso, Supplica alla madre su «Succedeoggi» Cultura nell’informazione quotidiana»  Opere Raccolte poetiche Simulacri (Forum/Quinta Generazione, Forlì); Infanzia (Società di Poesia, Milano, rist. Raffaelli, Rimini ); L'obbedienza (Crocetti, Milano); Occidente (Crocetti, Milano); Amore e destino (Crocetti, Milano); Poesie (I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme); Casa nell'ombra (Almanacco Mondadori, Milano); Il Figlio (Jaca Book, Milano); Amore d'autunno (Guanda, Parma-Milano); Europa (Jaca Book, Milano); Il gelo e la luce (Le Lettere, Firenze); La pietà e la memoria (Edizioni ETS, Pisa); D'improvviso e altre poesie scelte (Via del Vento edizioni); Nel ferro dei balocchi (Crocetti, Milano 2008); Tibet (Le Lettere, Firenze ); Madre (Le Lettere, Firenze); Il Segreto (Le Lettere, Firenze ); Racconti Victor e la bestia (Via del Vento edizioni, Pistoia); Lettera sugli angeli e altri racconti (Via del Vento edizioni, Pistoia); Destini (Libreria dell'Orso editrice, Pistoia); Saggi Il gesto di Callicle (Società di Poesia, Milano); Il segreto e il dono (EGEA, Milano); Le parole del pensiero (Le Lettere, Firenze); Il male e la luce (I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme); L'essere e l'abbandono (Il Ramo d'Oro, Firenze); Nomi del Novecento (Le Lettere, Firenze); Nome di donna (Raffaelli, Rimini ). Note  Rainer Maria Rilke, L'angelo e altre poesie, Via del Vento edizioni, 2008; Georg Trakl, La notte e altre poesie, traduzione di Massimo Baldi e Roberto Carifi, Postfazione di Roberto Carifi, Via del Vento edizioni. Tiene la rubrica mensile "Per competenza" sulla rivista «Poesia». Per ulteriori notizie si veda la sezione dedicata ai cenni biografici del poeta nel volume Roberto Carifi, D'improvviso e altre poesie scelte, Via del Vento edizioni, Da Roberto Carifi, Tibet, Le Lettere,.  Da Pistoia in parole. Passeggiate con gli scrittori in città e dintorni, Alba Andreini, introduzione di Roberto Carifi, Edizioni ETS,.  M. Baudino, Nel mitico mondo di Carifi, «Gazzetta del Popolo»; C. Viviani, Il mito e il nuovo inquilino, «Il Giorno», F. Ermini, Il mito per relazionarsi al reale, «Il quotidiano dei lavoratori», G. Giudici, Il gesto di Callicle, «L'Espresso»; A. Porta, Il gesto di Callicle, «Alfabeta», M. Spinella, La microfisica del significante poetico, «Rinascita», nQui sento odor di buoni versi, «Il Messaggero»; Infanzia, «Il piccolo Hans», Al fuoco di un altro amore, Jaca Book, L'anima e la forma nel verso. «Avvenire»; P.F.Iacuzzi, Il paradosso della poesia italiana. «Paradigma»; Utopisti e menestrelli, «L'indice», R. Nostalgia del tragico, «Corriere del Ticino»; I Quaderni del Battello Ebbro. Basso continuo del rumore bellico per litanie epiche sull'occidente, «Il Manifesto». Il filo del tramonto e del rimpianto, «Il Giornale», La poesia, il luogo del ritorno a casa, «La Nazione», La lingua continua a battere dove la carità duole, «Il Mattino»,   Il buio mondo che ci avvolge, «Il Sole 24 ore», Il lato oscuro delle cose, «La Repubblica»;  Sul vuoto appesi alla parola, «La Nazione», Amore senza tempo, «Il Sole 24 ore»,; E per musa ispiratrice la nostalgia, «Avvenire»,  Classici pensosi versi, «Gazzetta di Parma», Amore per una donna e per il nulla, «Il Giorno», Gli amori di Carifi, «La Nazione»; B. Manetti, Carifi il poeta errante, «La Repubblica»; D. Attanasio, Amore e morte trascendenti segreti, «Il Manifesto», R. Copioli, Carifi: il desiderio è mitico, «Avvenire», 14 maggio 1994; E. Grasso, L'amore quando il lume si spegne, «L'Unità»; A. Donati, Intervista a Roberto Carifi, «Il Giorno», Doni al confine del tempo, «Il Sole 24 ore»; L'angelo poetico della solitudine, «Il Giorno», R. Figli innamorati del proprio destino, «Avvenire»; Il male come provocazione estetica – estetica del male -- Chiaroscuro con lampada e scialle, «Il Sole 24 ore»; Chi son? Sono un poeta, «Il Giornale»; Il dolore nelle sillabe, «La Gazzetta di Parma»; Un angelo in esilio, «Avvenimenti»; U. Piersanti, Il figlio, «Tutto Libri»; Bigongiari, Carifi: parole e voce di Figlio, «La Nazione»; Quel contratto da verificare, «Il Sole 24 ore», Angeli sospesi tra essere e abbandono, «Avvenire», Un neoromantico invoca il cuore, i sogni, l'addio, «Tutto Libri»,  Amore d'autunno, «L'Espresso», Morte di madre. Quando la poesia "riversa la vita", «Il Giornale», L’elegia di uno stile semplice, «Avvenire»; Quei legami vitali tra figlio e madre, «La Nazione»; Tra infelicità e silenzio, «Il Sole 24 ore»; Un dolcissimo amore d'autunno, «Il Giornale», L'estetica dell'amore, «Il Tirreno», Dalla parte del cuore, «Gazzetta di Parma»; E. Coco, Rivista de Literatura. Un dialogo a distanza sull'alterità del figlio, introduzione a R. Carifi e U. Buscioni, Figure dell'abbandono, maschiettoemusolino, Siena; Il pathos del sublime: la poesia di Carifi, «Atelier», D. Fiesoli, Europa, «Il Tirreno», B. Garavelli, Addio alla madre, «Avvenire», G. Colotti, Europa, «Il Manifesto»;  La religiosa tragicità di Carifi, «Poesia»; F. A. Scorrano, La conoscenza dell'altro. L'uomo del pensiero. Edizione Polistampa, Firenze, S. Ramat, Roberto Carifi nel nome della madre, «Il Giornale»,  Per la sezione bibliografica questa voce trae informazioni dalla  inglese.   Piero Bigongiari Gianna Manzini Pistoia Via del Vento edizioni //poesia.blog.rainews//09/blog Poesia Rai News L'UOMO DEL PENSIERO. Saggio sulla poesia di Carifi Tre poesie su «Sagarana», su sagarana.net. Una recensione di Infanzia, su margininversi.blogspot. Roberto Carifi. Il sisma silenzioso del cuore articolo di Andrea Galgano su «Clandestino». Grice: “One impotant thing to consider is the passive voice of the future perfect – TEMPVS PLVSQVAMPERFECTVS PRAETERITVM – there was a specific form, ‘dedidi’ i. e. an inflected form, only in the passive voice. However, no record was found of the passive voice, except by use of what I call an ‘auxiliary’ verb – ‘have’ – cf. my notes on ‘do’ – ‘do’ and ‘have’ as auxiliary. However, the Romans found a way: the ablativo assoluto – the house given, she proceeded to furnish it. Money having been given to the merchant, the buyer left – Admirably, as Aelfric noted, in Latin, the pluperfect, strictly tempus praeterium plusquamperfectum, is formed without an auxiliary verb . MODUS INDICATIVUS/SUBJUNCTIVUS. Pecuniam mercatori DEDERAT. Pecunimam mercatori DEDISSET – Ha had given money to the merchart. He should have given money to the merchant. The Roman even had a choice of the ablative absolute hrase, consisting of the noun and the perfect participle in the ablative case. Pecuniis mercatori datis cessit emptor , Money having been given to the merchant, the buyer left. pecuniis mercatori non datis non cessit emptor. Money not having been given to the merchant, the merchant killed one of the buyer’s slaves. The difference is merely implicatural. In the verbal form (dederat, dedisset) is is explicated that it was the buyer who paid. In the absolute-ablative case, it is merely implicated. For all the utterer cares, it could have been the buyer’s slave. Cicero refers to an use of the RELATIVE ablative which is even ‘more slippery’ and thus optimal for cross examination. Money  Carifi. Keywords: ablativi relative, filosofia e poesia – l’implicatura del poeta – l’implicatura di Blake – l’implicatura di Guglielmo Blake – rhyme or reason – the invention of rhyme – l’invenzione della rima – empedocle: ragione senza rima -- Heidegger, conversation, language, silence, being, inter-subjectivity. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carifi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Carle – le radici del diritto romano – la legge romana – la natura romana -- filosofia italiana – Luigi Speranza -- (Chiusa di Pesio). Filosofo italiano. Grice: “I like Carle – he is like Hart, only better – his Latin tract on ‘exceptio’ is eaxactly what Hart means by defeasibility, only that Carle can found it on Roman law – Like me, he likes the use of ‘principio,’ as when he speaks of a ‘principle of responsibility,’ and his essays on what he calls ‘social philosophy’ is pretty akin to my concerns on cooperation as the epitome of joint behaviour.” Insegna a Torino. Linceo. Esponente del positivismo.  La dottrina giuridica del fallimento nel diritto privato internazionale, Napoli, Stamperia della Regia Università); Prospetto d'un insegnamento di filosofia del diritto. Parte generale, Torino, F.lli Bocca); “La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale. Studio comparativo di filosofia giuridica” (Torino, F.lli Bocca); “Le origini del diritto romano: ricostruzione storica dei concetti che stanno a base del diritto pubblico e privato di Roma” (Torino, F.lli Bocca); La filosofia del diritto nello stato moderno, Torino, Unione Tipografico-Editrice); Lezioni di filosofia del diritto” (Torino). Dizionario biografico degli italiani.  Positivismo: ius – fatto – non valore – l’implicatura di Romolo e Remo. Naturalism – giusnaturalismo – forza – autorita – ius – “LE ORIGNI DEL DIRITTO ROMANO” -- RICOSTRUZIONE STORICA DEI CONCETTI CHE STANNO A BASE DEL DIRITTO PUBBLICO E PRIVATO DI ROMA. Fuit haec sapientia quondam Publica privatis secernere, sacra profanis. HOR., poet Ars. LABOR NOR TORINO FRATELLI BOCCA EDITORI LIBRAI DI S. M. IL RE D'ITALIA SUOQURSALI ROMA FIRENZE Via del Corso. Via Cerretapi. DEPOSITI PALERMO NAPOLI CATANIA Università, 12 Piazza Plebiscito, 2 S. Maria al Ros.°, 23 (N. Carosio ) (N. Carosio )TORINO BONA. La nobile Università di Bologna, commemorando in questi giorni l'ottavo centenario dalla sua fondazione, ci rammenta anche l'epoca, in cui essa iniziando gli studi sul diritto romano si rese benemerita di tutto il mondo civile. Agli omaggi, che in questa occasione solenne convengono costi d'ogni paese, mi sia consentito di aggiungere quello di un'opera ispirata al desiderio di mantenere viva nella gioventù studiosa italiana la tradizione civile e politica di Roma. Di Lei Rettore Magnifico bord Torino, Devot.mo ed obblimo. Ritornato di proposito allo studio del diritto romano, in seguito all'incarico affidatomi di insegnarne la storia nella R.Università di Torino, parvemi di rileggere uno di quei libri, la cui meditazione può riempiere tutta una vita, perché ad ogni lettura e ad ogni età offrono campo ad osservazioni, che prima sono sfuggite. Quegli studii di giurisprudenza comparata, che in questi ultimi anni si vennero facendo sulle istituzioni primitive di quel periodo gentilizio, nel quale debbono essere cercate le fondamenta, sovra cui furono poscia edificate le città, mi parvero irradiare di nuova luce l'antichissimo diritto di Roma, e aprire nuove vie per spiegare il processo, con cui ebbe ad essere iniziata la formazione del medesimo. È strano infatti che, mentre il diritto romano, fra le grandi elaborazioni del genere umano, è certamente quella, che ebbe ad essere maggiormente studiata nei frammenti che a noi ne pervennero e nei suoi ultimi risultati, continui pur sempre ad essere un grande mistero il processo, con cui i romani giunsero ad elevare un cosi grande edifizio, e il motivo per cui essi e non altri riuscirono ad innalzarlo. La causa tuttavia di questa singolarità deve essere riposta in ciò, che per risolvere il problema delle origini del diritto romano non può bastare lo studio staccato dei frammenti, nė l'esegesi applicata ai testi, ma conviene ricomporre le epoche, raccogliere i rottami che ci pervennero di esse, colmarne le la cune, riportarsi col pensiero alle condizioni economiche e sociali del primitivo popolo romano, sforzarsi di rivivere in quel tempo e di pensare in certo modo alla romana, tener conto delle particolari attitudini dell'ingegno romano, far procedere di pari passo la formazione della città e lo svolgimento delle sue istituzioni pubbliche e private. Conviene insomma ricostruire la vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale di Roma, e cercare cosi di decifrare la pagina più splendida della vita del diritto nella storia dell'umanità. Certo era naturale cosa, che uno studioso della vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale mal sapesse resistere alle attrattive di un simile argomento, credendo con ciò, non di venir meno,madi perseverare in quel l'ordine di studii, a cui si è dedicato con tutte le forze. Miproposi pertanto di ricostruire il processo logico e storico, che governa la formazione deldiritto romano, sopratutto nei suoi esordii, non coll'intento di sostituirmi ai dottissimi nella materia, ma con quello più modesto di valermi dei materiali che furono raccolti con tanta diligenza, sopratutto in Germania. Mi accinsi poi all'arduo compito con un entusiasmo, che forse più non conviene alla mia età, ma che ebbe il vantaggio di rendermi aggradevole la lunga fatica, e che vorrei trasfondere nella gioventù studiosa, unitamente alla convinzione profonda, che le grandi elaborazioni dell'ingegno umano, mentre cambiarono in maestri dell'umanità coloro, che giunsero a crearle, hanno anche il pregio di confortare ed elevare il pensiero di coloro, che si travagliano per comprendere il processo natu rale, che ne governd la formazione. Debbo tuttavia una confessione al lettore benevolo: ed è che il presente saggio, cominciato forse coll’idea, non preconcetta, ma latente, che il diritto pubblico e privato di Roma fosse il frutto di una evoluzione determinata dalle condizioni esteriori, in cui si trova il popolo romano, riusci invece a conclusioni alquanto diverse. I romani, cosi nel formare la propria città, come nell’elaborare le proprie istituzioni pubbliche e private, seguirono un processo, che chiamo di selezione. Anziché essere dominati dai fatti esteriori, cercarono invece di dominarli, e di sottometterli alla logica inesorabile del proprio diritto. Come le mura della loro città sono costruite coi massi più solidi delle costruzioni gentilizie, cosi i concetti, che stanno a base del loro diritto pubblico e privato, sono trascelti nel seno stesso della organizzazione gentilizia. Ma trapiantati nella città ed isolati cosi dall'ambiente, in cui si erano formati, si cambiarono in altrettante concezioni logiche, che si vennero poi svolgendo ed accomodando alle esigenze della vita civile e politica. Anche questo e un processo naturale. Ma non è più il processo, che governa la formazione degli strati geologici, che si sovrappongono gli uni agli altri e serbano l'impronta dei bassi fondi sovra cui si vengono precipitando, bensi il processo, che governa la formazione dei cristalli, per cui gli elementi affini, depurati da ogni scoria, si vengono, per dir cosi, ricercando ed attraendo e si dispongono costantemente secondo quelle forme tipiche, che ne governano la formazione. Di quiconseguita, che il diritto romano non èu na produzione determinata esclusivamente dall'ambiente e dalle condizioni esteriori. Ma è già l'opera in parte consapevole dello spirito vivo ed operoso di un popolo, il quale, valendosi di attitudini naturali, che in questa parte si possono chiamare veramente meravigliose, riusci a secernere e ad isolare l'essenza giuridica dei fatti sociali ed umani, a modellarla in concetti tipici, a svolgere i medesimi in tutte le conseguenze, di cui po tevano essere capaci, e a trasmettere cosi alle nazioni moderne un capolavoro di arte giuridica. Questo è il risultato ultimo, a cui sono pervenuto. Per la prova del medesimo invito gli imparziali amici del vero a leggere il saggio, nel quale, malgrado la varietà immensa dei particolari, cerca di riprodurre quella coerenza organica, che è la caratteristica dello svolgimento storico delle istituzioni pubbliche e private di Roma. Le tradizioni e le leggende da cui appare circondata la fondazione di Roma presentano a primo aspetto un carattere singolare di contraddizione. Da una parte, Roma ha infanzia. E fondata di pianta da un avventuriero di origine latina e di stirpe regia, condottiero di una banda armata, il quale, dopo aver circondata la città di mura, avrebbe aperto un asilo agl’esuli e ai rifugiati dalle dalle comunanze vicine. E il fondatore stesso che da a Roma le sue istituzioni pubbliche e private. Il suo successore le da  l'organizzazione del culto, finchè da ultimo Roma già ingrandita, mediante l'incorporazione di popoli e di genti diverse, avrebbe ricevuto una nuova organizzazione civile, politica e militare per opera di Servio Tullio, che si sarebbe così meritato il nome di secondo fondatore della città. Per tal modo, la forza dapprima, poi la religione -- e da ultimo la sapienza civile hanno posto, le fondamenta della città, e le sue istituzioni civili e politiche appariscono come una creazione personale dei re, fra i quali la tradizione avrebbe perfino distribuito il compito. Il suo fondatore è latino, mentre invece è sabino l'organizzatore del culto, e da ultimo è probabilmente di origine etrusca quegli, che ne ha riformato compiutamente l'organizzazione civile e politica e ha stabilito quelle istituzioni, che riceveranno poi il proprio svolgimento durante l'epoca repubblicana. Da un altro lato, invece, la stessa tradizione circonda la fondazione di Roma di cerimonie religiose, di carattere tradizionale, che supponneno una religione già compiutamente formata, e fa apparire Roma nella storia con un nucleo di istituzioni pubbliche e private, che dove poi svolgersi con un rigore pressochè geometrico, ma che intanto suppongono una lunga elaborazione anteriore. Di fronte a questa apparente contraddizione, il maggior problema, che si presenta al filosofo e quello di sostituire alla storia leggendaria delle origini di Roma una storia viva ed organica di essa, ricercando le origini delle istituzioni primitive con cui essa appare nella storia. In questa ricostruzione, la filosofia dapprima si scosto per modo dalle tradizioni a noi pervenute da scorgere in queste poco più di una serie di leggende. Ma dovette poi riaccostarsi alle medesime, e finisce per giungere a questo risultato, che le istituzioni con cui Roma compare nella storia non possono esser ritenute come l'opera esclusivamente personale dei re. Debbono essere riguardate come il frutto di una lunga e lenta elaborazione già compiutasi in un periodo anteriore di organizzazione sociale, che sarebbe il periodo dell'organizzazione gentilizia o patriarcale. Roma secondo i risultati della filosofia, avvalorati anche dagli studii comparativi fatti sui popoli primitivi sopratutto di origine ariana, continua quell'opera di formazione della convivenza civile e politica, iniziata gia dalle altre popolazioni italiche, le cui memorie risalgono ad epoca anteriore a quella che è fissata per la fondazione di Roma. Quindi è presso le genti latine ed italiche, che debbono essere cercate le origini delle primitive istituzioni di Roma. Secondo il computo più universalmente adottato, Roma è stata fondata nell'anno – ANNO I – ed e comparsa fra popolazioni diverse, delle quali alcune in parte già erano uscite dall'organizzazione gentilizia, e stano avviandosi ad una vera e propria organizzazione civile e politica. Senza entrare nella questione dei rapporti, che possono correre fra [Per un riassunto esatto delle tradizioni intorno alla storia primitiva di Roma accompagnato da una critica finissima per separare il nucleo primitivo della tradizione dalle aggiunte che si fecero più tardi, è da vedersi BONGHI, “Storia di Roma”. Per lo studio delle istituzioni poli tiche importa sopratutto la parte che si occupa appunto della costituzione politica di Roma, secondo CICERONE, Livio, Dionisio] le stirpi italiche e le stirpi elleniche e in quella della loro provenienza dall'Oriente (1), questo è certo che fra le stirpi italiche già erano pervenute ad un certo svolgimento di civiltà e di potenza le stirpi umbro-sabellica, latina ed etrusca. Scavi dimostrano che il sito occupato da Roma dove già essere popolato da un'epoca assai remota e del tutto pre-istorica. E scoperta sull'Esquilino una vasta necropoli, la cui esistenza dimostra che una città etrusca di grande estensione ed importanza (Rasena) esiste anche prima del periodo reale leggendario, e costituisce una prova molto importante contro quella teoria che, attribuendo a Roma un'origine esclusivamente latina e sabina, tende ad escludere o quanto meno ad attenuare l'influenza dell'elemento etrusco. Tale provenienza delle stirpi italiche dalle razze ariane e la conseguente loro, parentela colle elleniche, colle germaniche, celtiche e slave, è oggidì universalmente ammessa, salvo che si mantiene ancora sempre una grande oscurità circa l'origine della razza etrusca. Tra gli autori recenti ha recato un contributo alla dimostrazione di tale provenienza Leist, “Graeco-italische Rechtsgeschichte” (Jena), sopratutto nella parte in cui dimostra l'identità di certi concetti primitivi comuni agl’arii dell'India e alle genti italiche ed elleniche. È da vedersi la parte, che si riferisce alle instituzioni sacrali, in cui discorre dei concetti di rita, themis e ratio. Quest'origine comune è pure ammessa dal BERNHÖFT, “Staat und Recht der Römischen Königszeit” (Stuttgart). Per quello poi che riguarda il vario svolgimento, che le istituzioni elaboratesi nell'oriente dagl’arii primitivi ebbero a ricevere presso gli’arii dell'India, della Persia, e poscia nell'occidente presso i greci, gli’italici ed i germani, mi rimetto a quanto ho scritto in “La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale” (Torino), i cui primi due libri sono appunto dedicati a tale svolgimento. Sono a vedersi in proposito le notizie sugli scavi, che si pubblicano dall'Accademia dei Lincei. Come riassunto degli studii topografici fatti intorno a Roma fino a questi ultimi tempi mi sono valso dell'opera di MIDDLETON, “Ancient Rome” (Edinburgh). Middleton parla di questi scavi e dei resti dell'antichissima Rom. Fra gli autori che tendono a scemare l'influenza del l'elemento etrusco sopra Roma primitiva, abbiamo il MOMMSEN, il LANGE, e il Pelham nella sua storia di Roma antica pubblicata nell’Encyclopedia Britannica, ninth edition, Edinburgh, -- voce: Rome. Combatte questa opinione il Taddei nel suo l”Roma e i suoi Municipii” (Firenze). Senza pretendere di risolvere la questione, è lecito osservare che mal si può sostenere la niuna influenza su Roma primitiva di un popolo come l'etrusco che ha già delle città in siti vicini, che conosceva quei riti con cui Roma fu fondata, e che diede a Roma i tre ultimi re, quelli cioè, che rinnovarono più profondamente non solo l'aspetto esteriore della città, ma anche la costituzione politica della medesima. 4 Queste varie stirpi, che abitavano il suolo italico, per quanto ora si ritengano tutte uscite dalla stirpe aria, hanno però dimenticata la provenienza comune ed apparivano distinte fra di loro di origine, di costumi e non hanno fra di loro comunanza di matrimonii. Solo sono ravvicinate da feste religiose e da certi luoghi di mercato, ove taceno i conflitti e si praticao gli scambi ed i commerci. Quanto alla loro organizzazione sociale, esse, secondo l'opinione di Mommsen, del Leist, del Lange, si trovano nel periodo di transizione dall'organizzazione gentilizia di carattere patriarcale all'organizzazione politica della città e del municipio. Però anche a questo riguardo si presentano in stadii e gradazioni diverse. La stirpi umbro-sabellica apparisce con un carattere pro fondamente religioso. Sono dedite ancora più alla pastorizia che al l'agricoltura. Preferiscono per formarvi le proprie sedi i luoghi montani e conservano ancora quel carattere di fiera indipendenza, che è proprio degli abitanti della montagna. Esse non abitano ancora in vere e proprie città, ma in villaggi aperti, che costituiscono al trettante comunanze rurali, e serbano le traccie di una potente organizzazione gentilizia, di cui puo trovarsi un notevole esempio nella gens “Claudia”. Queste stirpi anche più tardi dimostrarono poca attitudine alla formazione di un vero e proprio stato, come lo provano le sorti dei bellicosi sanniti, che sono appunto derivati dal ceppo umbro-sabellico. Trovansi invece già in condizione più progredita, per quel che riguarda l'organizzazione sociale, la stirpe latina. Il Lazio infatti appare diviso in altrettante comunanze di villaggio aperte, che sono costituite da una aggregazione di famiglie e di genti, le quali discendono da un antenato comune, di cui portano il nome e professano il culto gentilizio. Tali aggregazioni di genti, che chiamansi tribù, abitano nei vici e nei pagi. Ma, riconoscendo la loro origine comune, anzichè avere una esistenza del tutto separata ed indipendente, sono già a far parte di un'aggregazione più vasta, che costi [In ciò sono d'accordo Mommsen, Histoire Romaine. Trad. De Guerle. Paris, ed anche il Lange, Histoire intérieure de Rome. Trad. Berthelot et Didier. Paris. Lange attribuisce alle genti sabine un carattere più conservatore che non alle Latine [-tuisce poi il “populus” e la “civitas”. Questa aggregazione più vasta non solo ha comune la lingua, il costume e la religione, ma eziandio la legge, l'amministrazione della giustizia e la difesa contro gl’attacchi e l’aggressioni esterne. Essa quindi abbisognava di un centro comune, a cui potessero metter capo le diverse comunanze di villaggio, il quale centro comune era l'”urbs”, così chiamata dall'*orbita* sacra che la circonda, nel cui recinto trovavasi l'arx o fortezza, a cui riparare nei momenti di pericolo, il tempio del divino patrono – “dius,” “dius-piter” -- dell'intiera comunanza, il luogo ove si amministra giustizia, il sito per il mercato e per le pubbliche riunioni. Questi stabilimenti pertanto, più che vere e proprie città quali noile intendiamo, sono piuttosto inizii di città future, in quanto che esse contenevano sopratutto quegl’edifizii, che hanno pubblica destinazione. L'urbs era in certo modo il centro della vita pubblica per le diverse comunanze di villaggio, come lo dimostrano anche le varie porte esistenti nel muro di cinta, le quali porgevano modo di accedervi agl’abitanti dei diversi villaggi. Si aggiunge che le varie città latine, le quali, secondo la tradizione, sarebbero state in numero di XXX, erano anche confederate fra di loro e mettevano capo ad una capitale: Alba Longa. Cid dimostra come le popolazioni latine già fossero abbastanza progredite nella loro organizzazione sociale, poichè, pur continuando ancora a vivere nelle comunanze di villaggio, sono pero già pervenute a concepire e in parte ad attuare quella vita pubblica comune, che dove poi svolgersi nella città e nel municipio. Vengono infine la stirpe etrusca, la cui civiltà è ancora oggidi celata nel mistero, perchè le traccie di essa furono in certo modo cancellate ed assorbite da Roma. Non può tuttavia esser dubbio, che esse già erano in condizione di maggior progresso eco nomico e civile delle altre popolazioni italiche, in quanto che posse devano vere e popolose città, conoscevano le arti e la moneta, e per essere dedite al commercio si trovano in comunicazione maggiore cogli altri popoli e sopratutto coi Greci. Anche presso di queste era largamente svolto l'elemento religioso, come lo dimostra la sapienza loro attribuita nell'arte augurale e nella consultazione degli auspizii, come pure la tradizione, che presso di essi esistessero libri, (1) MOMMSEN, FUSTEL DE COULANGES, La cité antique (Paris) - che determinano i riti con cui le città dovevano essere fondate, e davano le regole secondo cui la loro popolazione dove essere ripartita in tribù ed in curie. Del resto anche l'antica costituzione della città etrusca, secondo Mommsen, si accosta nei suoi tratti generali a quella della città latina, salvo che in essa il passaggio dall’organizzazione patriarcale all'organizzazione muicipale già erasi spinto più oltre, in quanto che la stirpe etrusca, per essere sopratutto dedite alla navigazione ed al commercio, erano state naturalmente condotte a svolgere di preferenza le comunanze urbane, che non le comunanze di carattere esclusivamente rurale. I capi etruschi avevano il nome di Lucumoni. La popolazione delle loro citt dividevasi in nobili ed in plebei, come pure in tribù ed in curie, e se al disopra delle singole città apparivano eziandio delle confederazioni, i vincoli pero che stringevano insieme le varie città, che entravano a costituirle, non sono cosi intimi e stretti come quelli che esisteno fra le città della confederazione latina. Esse infine pure presentano le traccie dell'organizzazione gentilizia, ma queste sono già alquanto più alterate per il maggior svolgimento a cui è pervenuta la comunanza civile e politica. È a questo punto dello svolgimento dell'organizzazione sociale e della convivenza civile, che Roma compare nella storia. Per quanto possano esservi dei dubbi sull'influenza, che su di essa abbiano esercitato più tardi l'elemento latino e l'elemento etrusco, questo è certo che il primo nucleo di essa ebbe ad essere costituito da un gruppo di uomini armati di origine latina. Sono i Ramnenses -- guidati da Romolo -- e usciti come colonia o per secessio da Alba Longa, che hanno fondato quella Roma palatina, che, per la forma quadrangolare delle sue mura, di cui sussistono ancora gli avanzi, suole essere indicata col nome di “Roma quadrata”. Festo, v° Rituales: “Rituales nominantur etruscorum libri, in quibus prae scriptum est quo ritu condantur urbes, arae, aedes sacrentur; qua sanctitate muri, quo iure portae, quomodo tribus, curiae, centuriae distribuantur, exercitus consti. tuentur, ordinentur, caeteraque eius modi ad bellum ac pacem pertinentia ». MOMMSEN. LANGE cerca di distinguere il popolo dei “Rasennae”, che sarebbero secondo lui i veri Etruschi, che egli ritiene di origine aria ma di provenienza settentrionale, dagli abitanti del “vicus tuscus”, che apparterrebbero invece ai Tursci, da lui ritenuti di origine umbra. È questa la Roma, il cui pomoerium è stato descritto da TACITO. Nulla vi ha di ripugnante nella tradizione, che questa mano di guerrieri, stabilitasi colla forza in un sito chiuso e fortificato, siasi dapprima trovata in lotta aperta colle altre comunanze, che erano stabilite in prossimità del Palatino. Essa però ben presto esercita una attrazione potente sulle popolazioni vicine, e si trasforma in un centro per la vita pubblica di una confederazione di varie comunanze di villaggio, che sono disperse in quell'antico septimontium, che ci è descritto dal giureconsulto M. Antistio Labeone, il quale avrebbe compreso il Palatino, il Fagutale, la Subura, il Cermalo, l'Oppio, il Celio e il Cespio. Cosi pure dovette presto entrare nella federazione anche una comunanza di origine sabina, che era stabilita sul Quirinale. Di qui la conseguenza, che le tradizioni antiche ed anche gli studi recenti, fatti sulla topografia di Roma, condurrebbero a conchiudere che Roma primitiva avrebbe attraversato nel periodo, che suole essere assegnato al regno del suo fondatore, due stadii ben distinti nella propria formazione. Nel suo primo comparire infatti Roma non è ancora che lo stabilimento romuleo, il quale, malgrado la denominazione che già assume di vera e propria città, consiste nella sede fortificata di una tribù di origine latina, che è quella dei Ramnenses, ancorchè intorno ad essa già si trovi in via di formazione una plebe, il cui numero sarebbesi accresciuto, secondo la tradizione, mediante l'asilo aperto ai rifugiati ed agli esuli delle comunanze vicine. Più tardi invece questo nucleo agreste di guerrieri di origine latina entra dapprima in ostilità e poscia viene in alleanza con comunanze già prima stabilite sui colli vicini. Allora Roma diviene centro e capo di tale federazione, e mutasi in una vera urbs, secondo il con È pur nota la questione relativa al pomoerium, che alcuni vorrebbero collocare entro le mura fondandosi su Livio, I, 44, mentre altri sostengono che fosse al di là delle mura, come lo indicherebbe la stessa parola post-moerium. La questione fu di recente trattata con grande corredo di erudizione da CARLOWA (“Romische Rechtsgeschichte” Leipzig). Carlowa sembra propendere per l'opinione, che il pomoerium serve di confine fra il territorio dell' “urbs” e l' “ager” circostante. Cf. MIDDLETON Il testo di LABEONE è riportato da HUSCHKE, “Iurisprudentiae anti-Iustinianeae quae supersunt”, Lipsiae. Un accenno a questo concetto trovasi in Lange, “Histoire intérieure de Rome”. Tuttavia non pare che il medesimo consideri lo stabilimento romuleo come una semplice tribù.] cetto latino, ossia nella sede della vita pubblica di queste varie comunanze. Questi due stadii nella formazione di Roma primitiva, di cui non si tiene sempre sufficiente conto, sono accennati da diversi autori e fra gli altri anche dal giureconsulto Pomponio, secondo il quale Romolo non procede alla divisione della città in curie subito dopo la fondazione di essa. Ma vi sarebbe invece addivenuto soltanto “aucta ad aliquem modum civitate” -- cioè quando altre comunanze già eransi incorporate o meglio federate con essa nel l'intento di partecipare ad una vita pubblica comune. Gli elementi primitivi, che secondo la tradizione sonno entrati a far parte della comunanza romana in questo suo primo periodo di ingrandimento, sono dalla stessa tradizione ridotti a TRE tribù, cioè alla tribù dei TRIBU I -- Ramnenses, che era quella dei fondatori, a quella TRIBU II -- dei Titienses, di origine Sabina, stabiliti sul Quirinale, i quali sarebbero entrati nella comunanza mediante un foedus aequum, come lo dimostra il fatto che i capi delle due tribù avrebbero regnato insieme e poscia i loro successori si sarebbero alternati nel comando, e a quella infine TRIBU III -- dei Luceres, coi quali sembra in vece sia seguito un foedus non aequum. L'origine di questo ultimo elemento è incerta, ma dovette probabilmente essere etrusca, quando si consideri, unitamente alla loro denominazione, l'esistenza di un antichissimo Vicus Tuscus, la serie degli ultimi re che furono di origine etrusca, e si tenga conto del fatto che le recenti scoperte dimostrano come le genti etrusche già avessero da epoca ante riore fondato delle vere e proprie città in prossimità del sito, ove Roma e edificata, Cosi intesa la formazione di Roma primitiva, si dovrebbe venire alla conclusione, che la incorporazione delle tre tribù nella comunanza romana avrebbe dovuto operarsi fin dal periodo assegnato dalla tradizione al regno di Romolo -- il che però non toglie, ed [POMPONIUS, L. 2 Dig. Credo doversi accogliere questa opinione nell' intricatissima questione, perchè non si comprenderebbe la divisione tripartita della città, che viene attribuita a Romolo, quando il concorso delle tre tribù non si fosse effettuato durante il suo regno. Vero è, che nella storia primitiva di Roma havvi un momento storico, in cui per l'aggiunzione di nuovi elementi si raddoppia il numero dei membri dei collegi sacerdotali e quello delle centurie dei cavalieri, ma il raddoppiamento si fa sempre sulla [ 9 anzi spiega anche meglio come Roma, risultando di elementi diversi fin dalla propria origine, ha poi accolte nella comunanza nuove genti di origine latina, come di origine sabina e di origine etrusca, ed abbia in certo modo esercitata una specie di attrazione sopra queste varie stirpi italiche, come lo dimostrano le tradizioni relative alla cooptazione delle genti albane, quelle relative a Celes Vi benna e alla venuta di Tarquinio a Roma colla sua gente, ed all'in corporazione, avvenuta negli inizii del periodo repubblicano, della gente Claudia di origine sabina. Intanto però il fatto, che Roma avrebbe preso le mosse da uno stabilimento romuleo di origine latina, fondato in guisa analoga a quella con cui si fondavano anche più tardi le colonie e con una analoga ripartizione dal territorio occupato, spiega il carattere che Roma ha poi sempre a ritenere di città eminentemente latina, in quanto che gli elementi, che si vennero aggiungendo al nucleo primitivo, dovettero entrare nei quadri propri dello stabilimento latino. Ciò accadde per mezzo di successive federazioni, una delle quali, quella coi Luceres, sarebbe stata un foedus non aequum, in quanto che il nuovo elemento sarebbe entrato nella comunanza in una condizione inferiore (1 ). Conviene quindi conchiudere, che Roma primitiva, oltre all'essere di origine latina, fu anche foggiata sul modello delle città latine, e che quindi, al pari dell'urbs delle popolazioni del Lazio, diventa fin dapprincipio una città federale, che può essere considerata come il centro della vita pubblica di varie comunanze di villaggio. È però naturale, che questa trasformazione, per cui Roma cessa di essere esclusivamente la sede fortificata di una tribù per diventare centro e capo di una confederazione, abbia fatto sentire la necessità di fortificare anche il Capitolino, e di munire di un vallum od agger l'Aventino, costruzioni queste, che, secondo Dionisio, si sarebbero compiute dallo stesso Romolo, ma di cui non rimasero più gli avanzi, che sono base di tre, il che indica che già anteriormente dovevano esservi tre tribù, che con correvano alla formazione di Roma. Cfr. Bloch, “Les origines du Sénat Romain” (Paris) e per l'opinione contraria Bouché-LECLERCQ, “Manuel des institutions romaines” (Paris). Il principio “prior in tempore, potior in iure” è dai Romani applicato non solo in tema di diritto privato, ma anche in tema di diritto pubblico. Questo concetto è ancora espressansente enunciato nella legge 74, § 1, Cod. Theod. 12, 1. “Anteriore tempore adscitos ipsa aequum est antiquitate defendi” [- invece notevoli quanto alla primitiva Roma quadrata. Vero è che questa narrazione di Dionisio e posta in dubbio dalla critica contemporanea. Ma Dionisio è certo che in se stessa non ha nulla di improbabile, in quanto che era ben naturale, essendosi estesa la comunanza colla federazione di altre popolazioni vicine, che anche il caput ed il centro di Roma fosse trasportato in un sito, a cui fosse più facile l'accesso dalle varie comunanze, e che non fosse la dimora pressochè esclusiva di una delle tribù confederate, come era della città palatina. Si comprende pertanto come, sotto lo stesso Romolo o sotto i sei re che lo seguirono, la fortezza della città e il tempio del divino patrone comune – “dius”, “dius-piter” -- siansi fondati sul Capitolino e come a poco a poco gl’edifizii pubblici di Roma antica siansi venuti concentrando fra il Palatino ed il Capitolino, in quel sito appunto in cui ancora oggidi si ammirano le grandi reliquie degli edifizii pubblici di Roma antica -- edifizii che al tempo d’Ottaviano già sono considerati come una specie di museo, e come tali erano divenuti oggetto di venerazione e di culto, ed erano custoditi qual memoria di una vita politica, che ormai ha cessato di esistere. A questo periodo però, che può dirsi di semplice confederazione, ne succedette un altro, in cui comincia ad effettuarsi una vera e propria incorporazione delle varie comunanze di villaggio in una città, la quale, fortificata e chiusa in se stessa, apparisse paurosa e potente alle popolazioni vicine. Due cose si richiedevano per una simile trasformazione. Convenne anzitutto che alla distinzione delle tre tribù primitive, che ricorda ancor sempre la loro origine diversa, si facessero sottentrare altre distinzioni, le quali sostituissero al vincolo genealogico il vincolo territoriale, e che gl’elementi diversi, che sono entrati a far parte della stessa comunanza politica e militare, fossero anche stretti insieme, mediante la coabitazione entro le medesime mura. Fu allora, che, secondo la vigorosa espressione di Floro, comincia a mescolarsi insieme il sangue di elementi originariamente diversi, i quali finirono col tempo per costituire un unico corpo ed un organismo coerente in tutte le sue parti. Dion. Cfr. MIDDLETON, Ancient Rome. -- FLORUS, III, 18. “Quippe cum populus romanus etruscos, latinos, sabinosque miscuerit et unum ex omnibus sanguinem ducat, corpus fecit ex membris et ex omnibus unus est. Questi sono i divisamenti, che, incominciando da Tarquinio Prisco, già cominciano a delinearsi nella mente dei re. È noto infatti che Tarquinio Prisco già avrebbe tentato, secondo la tradizione, di aggiungere nuove tribù alle tre primitive e di rompere così il modello primitivo, sovra cui Roma erasi venuta formando. Il suo tentativo però trova opposizione nell'augure sabino Atto Navio, che qui evidentemente si fa interprete dello spirito conservatore del patriziato romano, e quindi l'opera di Tarquinio Prisco dovette limitarsi a fare entrare gl’elementi sopraggiunti nei quadri delle tribù primitive. Gli è perciò, che gli viene attribuito di aver raddoppiato il numero delle vestali, di aver duplicato il numero delle centurie degl’equites, aggiungendo alle tre centurie dei Ramnenses, Titienses, Luceres primi le tre dei Ramnenses SECUNDI, Titienses SECUNDI, Luceres SECUNDI, e di avere infine anche raddoppiato o quanto meno portato a CCC il numero dei senatori con aggiungere ai “patres MAIORUM gentium” quelli “patres MINORUM gentium” Così pure è ormai dimostrato che i re anteriori a Servio Tullio già iniziano dei lavori di cinta e di fortificazione, che poi furono com presi nella cinta Serviana, e che la grande opera di questa nuova cerchia di Roma già e incominciata sotto Tarquinio Prisco. L'una e l'altra opera fu poi continuata da Servio Tullio, che forte dell'appoggio della plebe e di parte anche del popolo, sembra aver fatto a meno anche dell'approvazione dei padri. Egli infatti, senza distruggere la primitiva organizzazione di Roma, fondata ancora sulla discendenza, riusci a creare, accanto alla medesima, una nuova organizzazione militare, politica e tributaria, per cui la popolazione romana ricevette una nuova ripartizione in V CLASSI ed in centurie, e il suo territorio venne ad essere diviso in tribù locali. Così pure riusci a compiere quell'opera gigantesca della cinta, che fu dal nome di lui chiamata Serviana, i cui avanzi formano ancora oggi la meraviglia degli investigatori dell'antichità e dimostrano da soli la grandiosità e l'unità del concepimento, malgrado che parecchi re avessero partecipato alla costruzione di quelle mura e di quell'agger, che poi furono chiamati Serviani; costruzione, che sarebbe pressochè incomprensibile se non fosse stata compiuta col concorso di quelle “plebs”, ormai già fatta numerosa, che con Servio [Cic. de Rep., LANGE -- Tullio sarebbe entrata a far parte del Populus Romanus Quiritium. È da questo momento che Roma appare chiusa e fortificata nelle proprie mura, già splendida di edifizii, ricca eziandio di una popolazione urbana, che può ancora essere accresciuta senza che occorra di estenderne il pomoerium. È da quest'epoca parimenti, che Roma, forte del rigore del proprio diritto e della propria disciplina domestica e militare, si mette in lotta aperta con tutte le tribù o genti, che non siano disposte ad accettarne la superiorità o l'alleanza. Noi ci troviamo così di fronte alla Roma storica, conquistatrice e legislatrice prima dell'Italia e poscia dell'universo, degna di essere studiata nelle sue lotte intestine e nella sua unità compatta di fronte alle altre genti.Tuttavia, anche dopo Servio Tullio, Roma non giunge mai a chiudere nelle proprie mura tutta la sua popolazione, ma soltanto le quattro tribù urbane, mentre è ben maggiore il numero delle tribù rustiche. e lo spazio dalle medesime occupato. Per tal modo essa continua ancor sempre ad essere il centro della vita pubblica, a cui mettono capo le popolazioni sparse nelle comunanze di villaggio o pagi, che la circondano, ed è la sua persistenza in questo processo già seguito in Roma primitiva e non mai abbandonato anche più tardi, che spiega come Roma abbia potuto cambiarsi in una città, i cui cittadini erano sparsi dapprima in tutto il Lazio, poi per tutta l'Italia, e da ultimo per tutto il territorio dell'impero. Se insisto alquanto lungamente sopra questo concetto, gli è per dimostrare come non possa accettarsi l'opinione che sull'autorità di Mommsen e di altri fu pressochè universalmente accolta e che a mio avviso rende del tutto incomprensibile la storia primitiva di Roma, secondo cui questa sarebbe stata fin da principio l'unione, la fusione, l'incorporazione di varie tribù e genti e dei territorii dalle medesime occupati. Ciò è smentito dal processo seguito nella formazione delle città latine, quale è descritto dallo stesso Mommsen, ed è in contraddizione con tutta la storia primitiva di Roma. Roma nei proprii inizii e modellata sull'urbs dei popoli latini, e come tale non e che la capitale di una federazione e il centro della sua vita pubblica, mentre lascia che le genti e le famiglie con [V. in proposito BARATTIERI, “Sulle fortificazioni di Roma all'epoca dei re”, Nuova Antologia] -- tinuassero la propria vita domestica e patriarcale nelle comunanze di villaggio, alle quali continud a lasciare i proprii territorii gentilizii. La sua formazione pertanto non è dovuta ad un processo di aggregazione, ma ad un processo di *selezione*, cosa che sarà più largamente dimostrata a suo tempo. Qui basta il notare che questo modo di spiegare la formazione di Roma primitiva conduce a conseguenze molto diverse da quelle, ch e furono pressochè universalmente adottate. Partendo infatti dall'idea di una semplice aggregazione si giunge a trasportare le gentes fra le ripartizioni delle città, come ha fatto Niebhur; a sostenere con Mommsen che la primitiva proprietà di Roma e una proprietà collettiva come quella delle gentes, ciò che è smentito assolutamente dal diritto primitivo di Roma, a dare collo stesso autore un carattere assolutamente patriarcale alla primitiva costituzione di Roma, e ad una quantità di altre illazioni, che rendono del tutto inesplicabile e contradditoria la storia primitiva di quel popolo, che ha usato una maggior logica nello svolgimento delle proprie istituzioni. Con questo sistema si dove necessariamente giungere a considerare la storia primitiva di Roma come una serie di leggende, che sarebbero state inventate da un popolo, che in tutto il resto si è dimostrato invece ben poco fantastico, nell'intento di combinare l'umiltà delle proprie origini colla grandiosità dello svolgimento, che ebbe a ricevere dappoi. Pare strano che nella mia pochezza venga a combattere opinioni, le quali appariscono suffragate da un così gran cumulo di erudizione e di studii. Nè io l'avrei fatto quando si trattasse di questo o di quel documento storico, ma dal momento che trattasi di ricostruire in base alle induzioni più probabili il processo, che Roma segue nella propria formazione, mi parve di doverlo fare, poichè sono appunto le opinioni inesatte dei grandi filosofi, che pongono gli altri sopra una falsa via. È incredibile la quantità di induzioni errate, che produsse nella storia di Roma la confusione fatta da Niebuur dell'organizzazione gentilizia coll'organizzazione politica allorchè volle scorgere nelle dekódeS di Dionisio le gentes, e sostenne così che queste fossero una divisione politica della città. Tutta la critica storica tedesca si pose in questa via e tutti vollero scorgere nella città un'aggregazione di gentes, il che rese del tutto inesplicabile la storia primitiva di Roma. Mi basterà citare fra gli altri; MOMMSEN che dice che le genti erano incorporate tali e quali nello stato con tutti i loro territorii e con tutte le famiglie, che contenevano e che il gruppo della famiglia e della gens continuava a sussistere nello Stato. LANGE, con uno sforzo mirabile, ma sfortunato, di sottigliezza, vuol trovare ad ogni costo i caratteri della famiglia nello Stato romano. Parmi invece un processo assai più logico e che può condurre a risultati assai più verosimili quello, che ha già ad esser iniziato da Bonghi, di prendere Roma, quale essa si presenta nelle tradizioni esaminate col sussidio della critica. Dal momento che Roma si è veramente staccata da una popolazione latina, è naturale che essa sia stata dapprima foggiata sul modello delle città latine, e che abbia continuata tenacemente l'opera già da queste incominciata di organiz zare, accanto alla vita patriarcale e gentilizia, quella vita pubblica, che dispiegasi appunto nell'urbs e nella civitas. Roma si presenta nella storia memore di tutte le tradizioni, che già si erano formate nel periodo anteriore dell'organizzazione gentilizia, ed è con queste tradizioni, che si accinge ad organizzare un nuovo aspetto di vita sociale, che è quello della vita pubblica e municipale. Essa quindi non assorbe di un tratto nè le tribù nè le gentes, ma lascia che esse continuino ad essere campo alla vita domestica e patriarcale. Solo richiama a se lentamente e gradatamente tutti quegli ufficii di carattere pubblico, che prima si compievano nel seno dell'organizzazione gentilizia, ed è in tale intento che essa intraprende l'elaborazione del proprio diritto. Una volta poi che quest'opera è iniziata, Roma, con quella tenacità di proposito, che è sopratutto propria del popolo romano, non si arresta nell'opera sua sinchè non sia pervenuta non solo ad organizzare nel proprio seno una vita pubblica e municipale, ma a cambiare il mondo allora conosciuto in un complesso di città, di colonie, di provincie organizzate tutte a somiglianza di se medesima, e gli abitanti dell'impero in cittadini di un'unica città. La qual opera e compiuta da Roma seguendo sempre quel medesimo processo, a cui erasi attenuta nella sua primitiva formazione.  È per questo motivo, che era impossibile comprendere le origini delle istituzioni di Roma senza tener dietro alla sua formazione esteriore, quale può ricavarsi dagli studii topogra e il Sumner Main [E, “L'ancien droit,” trad. Courcelle Seneuil,dove, dopo aver detto che la gens era una aggregazione di famiglie, e la tribù un ' aggregazione di gentes, finisce per dire che la città non è essa stessa che “un'aggregazione di tribù e la repubblica una collezione di persone legate per discendenza comune all'autore di una famiglia primitive” -- il che certamente non può ammettersi. Del resto la gravissima questione sarà trattata più a lungo  quando si discorre della costituzione primitiva di Roma. [fici recentemente fatti intorno all'antica Roma. Si potrebbe poi fa cilmente dimostrare, che questa formazione progressiva, che risulta dall'estendersi della cerchia stessa di Roma, viene anche ad essere provata dal formarsi progressivo della sua religione, del suo senato, dell'ordine dei cavalieri, del suo esercito, dei suoi collegi sacerdotali, ma cid risulta anche più chiaramente dalla formazione delle sue istituzioni, poichè ciascun popolo imprime sopratutto il proprio carattere in quella parte dell'opera sua, in cui giunse senz'alcun dubbio a maggiore grandezza. A ciò si aggiunge la considerazione già stata fatta da un autore assai benemerito della ricostruzione della storia primitiva di Roma, che è Rubino, secondo il quale le tradizioni, che a noi pervennero circa i primi tempi di Roma, debbono distinguersi in due specie. Vi hanno quelle relative alla costituzione primitiva di Roma ed agli istituti religiosi e giuridici, che sono collegati con essa, e queste fino a prova contraria debbono essere ritenute per vere. Perchè trattasi [Vi ha questo di particolare nella storia di Roma, che lo svolgimento di essa, sotto qualsiasi aspetto sia considerato, presentasi organico e coerente in tutte le sue parti. Ne deriva che tanto le investigazioni pazienti e minute quanto le ricostruzioni ardite, che si vennero succedendo, finirono per sussidiarsi a vicenda per l'intelligenza di Roma primitiva. Vi conferirono gli studiosi della topografia di Roma antica, della sua arte militare, della sua letteratura, della sua filosofia, dei suoi monumenti, della sua costituzione politica e delle sue istituzioni giuridiche. Che anzi la coerenza del suo svolgimento appare così meravigliosa, che vi sono autori che, seguendo soltanto il formarsi della sua religione e dei suoi collegi sacerdotali, cercano di inferirne gli stadii della sua formazione progressiva, come tenta di fare Bouché-LECLERCQ (“Les Pontifes de l'ancienne Rome”, Paris, e “Manuel des institutions romaines”, Paris). Altri, che tentarono di venire allo stesso risultato, seguendo lo svolgimento di un istituto particolare, come sarebbe quello del senato, come WILLEMS, “Le sénat de la république romaine” (Paris), come pure Blocu (“Les origines du sénat romain,” Paris), od anche quello dell'ordine dei cavalieri, come tenta di fare Belot (“Histoire des chevaliers romains,” Paris). Non può però esservi dubbio che penetrarono più profondamente nella vita primitiva di Roma quelli sopratutto, che, come Vico e Niebuur, ne ricercano la storia nelle lotte degl’ordini, che entrano a costituirla e nello svolgimento delle istituzioni giuridiche e politiche. Il diritto è la grande occupazione di Roma, e quindi è quello che conserva meglio le vestigia di un'epoca pre-romana. Il diritto forma la filosofia costante non solo dei sacerdoti, dei patrizi, e dei giureconsulti, ma ancora dei poeti, per modo che fuvvi un autore, il quale raccogliendo, come egli dice, “disiecti membra poetae” potè giungere a ricostruire in parte l'edifizio giuridico di Roma, anche nei particolari minuti della sua procedura. Henriot, “Maurs juridiques et judiciaires de l'ancienne Rome” Paris] d'un argomento che ha un carattere pressochè sacro per il popolo romano, e in cui concentra tutta la propria vita, per guisa che esso continua sempre a svolgere con pertinacia e con co stanza quei concetti e quelle istituzioni, che furono posti durante lo stesso periodo regio. Hanvi invece le tradizioni, che si riferiscono a racconti di guerre e ad incidenti, che le avrebbero accompagnate, a vicende di uomini illustri, a quei particolari insomma che danno vita ed attrattiva alla storia romana, e queste rimasero per lungo tempo affidate alla leggenda popolare e poterono cosi essere alterate sia dalla vanità nazionale che dalla vanità delle grandi famiglie di Roma. Bene è vero, come osserva Bonghi, che anche nella prima parte possono essersi introdotte dell’alterazioni, che sono causate dal partito diverso, a cui appartengono gli scrittori, ma siccome trattasi di istituzioni, che hanno un processo storico non mai interrotto, cosi egli è ben più facile di ristabilire la verità, che non quando trattasi di semplici incidenti della storia di Roma, che, non collegandosi così strettamente col resto, potevano dare argomento ad altrettante leggende, che si arricchivano di nuovi particolari, a misura che si veniva ripetendone la narrazione. Dopo aver cosi seguita la formazione progressiva della comunanza romana vediamo ora gli elementi, che si trovano in lotta nell'in terno della medesima. È da vedersi al riguardo Bonghi, “La fede degli storici superstiti di Roma antica”, che anche ora non è pubblicato, malgrado il desiderio che l'illustre autore e gl’italiani tutti hanno di vedere pubblicata un'opera, che egli solo è in condizione di compiere. Rivista storica italiana. IUna delle circostanze più accertate della condizione di Roma primitiva si è, che nella popolazione della medesima comincia fin dai primordii a manifestarsi un dualismo potente, quello cioè fra il patrizii – descendenti dei ‘patres patriae’ -- e la plebe. La tradizione cerca di spiegare questo dualismo dicendo, che Romolo apre un asilo, ove si potessero rifugiare coloro che per qualunque ragione avessero dovuto abbandonare la propria città. Ciò farebbe credere che la distinzione fra i “patres” della “patria” (e suoi descendenti) e la plebe e in certo modo nata con Roma, quando non e certo, che cotale distinzione già esiste in altre città, e non vi fossero formole antiche, che accennassero al doppio elemento coi vocaboli di populus et plebes. Sembra anzi che le stesse tribù primitive, che entrarono nella costituzione della più antica comunanza romana, già avessero con sè una propria plebe, indipendentemente da quella che si sarebbe rifugiata nell'asilo aperto da Romolo, in quanto che, secondo il racconto di Dionisio, uno dei primi provvedimenti di Romolo e quello di affidare al plebeio la coltura dei campi, l'allevamento del bestiame e l'esercizio delle arti manuali, e di collocarle sotto la clientela del padre, il che sarebbe anche confermato da Cicerone come pure da un luogo di Festo, secondo cui il senatore e chiamato “pater”, in quanto che e incaricato di fare distribuzione di terre ad un ordine inferiore di persone (tenuioribus). La distinzione fra il populus e la plebes trovasi ancora in un documento importantissimo, cioè nella lex latina tabulae Bantinae, ove è ripetuta più volte la frase “quisque eorunt sciet hanc legem populum plebemve iousisse” --  formola che ha certo grande importanza quando si consideri che era tradizione romana quella di conservare le formole arcaiche nel tenore della propria legge. Quella formola dimostra che populus e plebes dovevano dapprima essere distinti e che, quando i due elementi si fusero insieme nella comunanza, per qualche tempo ancora i due vocaboli serbarono rispettivamente la primitiva loro significazione. V. la lex latina tabulae Bantinae nel Bruns, Fontes, Friburgi. Quanto al testo di Dionisio, esso è riportato nella traduzione latina nel Bruns, Fontes. Quanto a quello di Festo, vº Patres, è bene di CARLE, “Le origini del diritto di Roma”. Questo è certo che il pater e il plebeio, anche quando giungono a considerarsi come parti della medesima comunanza e a far parte dello stesso popolo, il che è accaduto molto tempo dopo l'epoca della fondazione, continuano sempre a costituire due ordini e pressochè due caste compiutamente distinte, fra le quali non esiste ne identità di istituzioni, nè comunanza di tradizioni, nè il diritto di connubio. Mentre il pater si presenta colla tradizione di un passato, le cui origini si perdono nel l'oscurità dei tempi e deve forse essere cercate nello stesso Oriente, e con una organizzazione potente, le cui traccie si mantengono ancora durante il periodo storico. Il plebeio, invece presentasi dapprima come una massa mobile, composta di elementi eterogenei e di origine probabilmente diversa. Il plebeio ha pochissima importanza negl’inizio di Roma, ma viene sempre più crescendo in numero e in potenza, anche perchè, a differenza del pater, può continuamente accogliere nel proprio seno nuovi elementi. Durante il periodo regio, il plebeio non sembra ancora essere in condizione di affrontare la lotta col “pater”, ma cominciando dalla repubblica i conflitti si fanno pressoché quotidiani, cosi in materia di diritto e dalle discussioni, che seguono fra I due ordini, si può raccogliere che le differenze essenziali, che servivano a distinguerli, erano essenzialmente le seguenti. Il pater anzitutto e e si ritene il fondatore della urbs e il solo membro della civitas. Il plebeio e un elemento, che trovasi in condizione inferiore e che per la maggior parte e sopravvenuto più tardi, nè puo quindi, secondo le idee del “pater”, pretendere ad un pareggiamento completo. Il “pater” ha un'organizzazione potente, che era quella per gentes, la cui forza venne ancora ad accrescersi mediante l'istituto della qui riportarlo. “A patres senatores ideo appellati sunt, quia agrorum partes attri buerant tenuioribus, ac si liberis propriis.” V. Bruns. Questi passi unita mente a quello di CICERONE, De rep. “Romulus habuit plebem in clientelas principum descriptam” -- rispondono abbastanza all'opinione di coloro, che come LANGE (“Histoire intérieure de Rome”) e Padelletti (“Storia del diritto romano”) ostengono, che l'origine della plebe sia posteriore alla fondazione della città, ed abbia solo avuto origine «coll'ammissione di persone libere nella cittadinanza e nel territorio dello stato, avvenuta per atto pubblico e accompagnata dalla concessione in proprietà di terreni da coltivare. Cfr. MUIRHEAD, Hist. Introd., clientele. Il “pater” quindi puo indicare la serie dei proprii antenati e dimostrare che i medesimi sono sempre stati ingenui e che niuno di essi erasi trovato in condizione servile. Il plebeio, invece, se si deve credere alle ragioni poste innanzi molto più tardi dagl’oratori patrizii, allorchè trattavasi di Roma di respingere la legge Canuleia diretta a togliere il divieto dei connubii fra i due ordini, non conosce ancora la famiglia organizzata in base al potere del padre ed al culto degli antenati, per cui una unione plebea non e dal “pater” considerata come “iusta nuptia”, nè santificate dalla partecipazione al medesimo culto. E un semplice “matrimonium”, in cui il vincolo di parentela e determinato piuttosto dalla cognazione *maternal*, che dall'agnazione paterna. Di qui la conseguenza, che ancora dopo la legge di Le XII Tavole il pater non puo comprendere una comunanza di connubio – iusta nuptia – fra un pater (say, Charles III) e una plebea (say, Diana), come lo dimostrano le parole di Livio relative al plebiscito Canuleio. “Rogationem promulgavit, qua contaminari sanguinem suum patres confundique iura gentium rebantur.” Da ultimo, una differenza importantissima consiste anche in questo, che solo il pater possede un “auspicium”, cosicchè tutti gl’atti, che lo riguardavano, assumevano un carattere solenne e religioso. Il plebeo, pur avendo una religione e feste [(1) Gellio, Noc. Att., 10, 20 chiama la plebe quella parte della popolazione romana, nella quale “gentes patriciae non insunt.” È poi noto che, secondo Livio, nelle discussioni fra pater e plebeo gl’oratori di questa attribuivano ai primi di vantarsi di esser soli ad avere le gentes con parole, che riassumono i titoli di superiorità del pater. “Semper ista audita sunt eadem: penes vos solos au spicia esse, vos solos gentes habere, vos solos iustum imperium et auspicium domi militiaeque ecc.” Pare tuttavia che non possa affatto escludersi l'esistenza di gentes plebeiae, le quali però costituivano una eccezione. La causa di questo fatto può essere duplice. O queste gentes potevano derivare dalle popolazioni delle città latine, che già avevano un'organizzazione simile a quella delle genti patrizie, sebbene non fossero più state ammesse nel patriziato, – o la formazione di queste gentes accade più tardi, quando una parte della plebe, entrata a far parte della nobiltà, cerca essa pure di imitare l'organizzazione gentilizia, il che comincia ad es sere possibile dopo la legge Licinia Sestia, colle quali il plebeo e ammesso al console. Così Cicerone ci attesta, che la famiglia dei Marcelli erasi staccata dall'antica gente patrizia dei Claudii (De Orat.). Così pure Cicerone ci parla di una “gens” Minucia, che sarebbe stata *plebea* (In Verr., I, 45 ). Fra i filosofi sull'argomento sono da vedersi il Voigt, “XII Tafeln”, Leipzig, e il KARLOWA, Röm., R. G., -- Liv., – “popolari, non possedeva gli auspicia, nè aveva un proprio culto gentilizio -- “sacrum gentilicium” --. Queste differenze sono tali, che sebbene le circostanze conducessero col tempo i due ordini a far parte della stessa comunanza, e pero naturale, che essi non potessero entrarvi alle stesse condizioni. Dalle differenze sovra enumerate questo intanto si può inferire, che in Roma primitiva la superiorità, che si attribuiva il pater sul plebeo, trova sopratutto la propria causa in ciò, che esso era già era più progredito nell'organizzazione sociale, ed era prima uscito dallo stato di confusione, di privata violenza e di promiscuità primitive, che esso riteneva in parte essere ancora proprie della plebe. Il pater sa indicare i proprii antenati, ha conservato gelosamente le proprie tradizioni, ed e già pervenuto al l'organizzazione di un culto gentilizio. Di più e la “gens”, che aggruppandosi insieme avevano dato origine alla tribù, come pure erano le tribù, che, confederandosi insieme in conformità di certi riti e dopo aver assunto solennemente gli auspicii, erano pervenute a fondare la città, in cui provvedevano ai comuni interessi ed obbedeno ad una legge, espressione della volontà comune. Bene è vero che, per accrescere la forza della loro città del loro esercito, e spediente di incorporare in essi anche le plebes cioè le moltitudini, che naturalmente si venivano raccogliendo ove era fondata e fortificata un'aggregazione di genti patrizie. Ma chi tenga conto della umana natura, che in questa parte non sembra ancora essersi modificata, non può certo meravigliarsi se le genti patrizie abbiano applicato colla plebe la massima – “prior in tempore, potior in iure” -- , e si siano cosi prevalse del vantaggio, che loro somministra una più antica esperienza delle cose civili ed umane, per conservare a lungo una posizione privilegiata nella comunanza civile. Piuttosto è da ammirarsi la tenacità e perseveranza del plebeo, il quale, composta [Quinto all'origine ed al carattere del patriziato primitivo di Roma, contiene delle buone ed acute osservazioni l'articolo di  FREEMAN nell'Encyclopedia Britannica, vº Nobility, ove il pater romano è posto a paragone cogli Eupatridi di Grecia, colla nobiltà feudale, coi Pari Inghilterra ecc. È pure a vedersi il Duruy, “Histoire des Romains,” Paris, chi parla del “pater” come di un'istituzione propria della società primitiva e nota le analogie e le differenze fra il pater di Roma e i bramano dell'India. Cfr. Muirhead] dapprima di elementi eterogenei e priva di qualsiasi organizzazione sociale, seppe col tempo in tutto e per tutto imitare l'organizzazione propria dei pater, creare genti plebee accanto alle genti patrizie, contrapporre le tribù alle curie, i tribuni ai veri magistrati, e che, appena potè ottenere il riconoscimento di un diritto, di quello cioè della proprietà quiritaria, riusci a valersi del medesimo come di strumento e di mezzo per ottenere a poco l'uguaglianza giuridica e politica, e perfino l'ammissione a quegli auspicia, a quei sacerdotia, e a quella scienza del diritto, che solo molto tardi vennero ad essere comunicati al plebeo. Questo intanto può aversi per certo, che la formazione del pater e del plebeo costituisce in certo modo la questione fondamentale della storia politica e giuridica di Roma. Vero è che accanto ai plebei trovansi pur anche i servi ed i clienti, ma questi due elementi non hanno certo l'importanza della plebe, che dove poi avere tanta parte nella storia di Roma, in quanto che un servo entra a far parte della famiglia ed il cliente ri-entra anch'essi nell'organizzazione gentilizia. Di più tanto il servo come il cliente, al lorchè riescono a svincolarsi dal “pater”, entrano a far parte della plebe, che è quella veramente, che sostiene e vince la lotta per il pareggiamento giuridico e politico col “pater”. Quindi è che nè il servo, né il cliente come tali riescono ad avere una piena personalità giuridica e civile. Il cliente scomparisce a poco a poco o si trasforma in semplice salutator. Il servo si mantenne bensì, ma non giungono mai, durante il predominio di Roma, ad essere riconosciuti come capaci di diritto. La questione limitasi pertanto al pater ed al plebeo ed è quindi l'origine di questi due elementi, che è il maggior problema, che offra la storia primitiva di Roma. Cio non ostante, sinchè non siansi esaminate l'organizzazione dei patres e la composizione della plebe, non pud certo affrontarsi il problema della origine delle due classi. Basterà unicamente, per l'intelligenza di ciò che verrà dopo, di osservare che le differenze, che esisteno fra di esse negli inizii. Queste lotte per il pareggiamento sono largamente esposte da LANGE, “Histoire intérieure de Rome”. I risultati poi della lotta sono riassunti nel dotto lavoro del GENTILE, “Le elezioni e il broglio nella repubblica romana” (Milano) e sopratutto in “Le assemblee elettorali”] di Roma, la superiorità pressochè incontestata del “pater” e l'ossequio pressochè servile del plebeo nei primi tempi della città dimostrano abbastanza, che la loro distinzione non potè certamente essere opera della legge, nè delle circostanze storiche speciali, in cui Roma ha a trovarsi. Dovette essere il frutto di una lunga evoluzione storica, la cui preparazione deve essere cercata in un periodo anteriore di organizzazione sociale. Non può esservi dubbio, che l'origine di una distinzione, così altamente radicata nel costume e nelle abitudini delle due classi, deve essere cercata in quei cataclismi, che dovettero avverarsi nell'urtarsi e nel sovrapporsi delle stirpi italiche, di origine aria, sovra altre stirpi, che già abitavano il suolo, sovra cui esse si arrestarono nelle proprie migrazioni. Essa è una distinzione, che deve certamente rannodarsi ad una divisione ben più antica, e le cui traccie si mantengono sempre nella storia dell'umanità, che è quella fra la classe dei conquistatori, dei vincitori, dei primi pervenuti a stabilirsi in un determinato suolo, e quella dei soggiogati, dei vinti, e dei sopraggiunti più tardi a porre la propria sede in un suolo, che altri hanno prima occupato e sovra cui i medesimi già si erano stabiliti e fortificati. Egli è certo, che nel sopraggiungere delle stirpi italiche migranti dall'Oriente dovette certamente avverarsi un periodo di privata violenza non dissimile da quello, che accadde più tardi allorchè le popolazioni germaniche invasero il principato. Anche allora dovettero esservii vincitori ed i vinti, e frammezzo a quella promiscuità di genti e a quella prevalenza della forza, che ci ricordano ancora gli filosofi latini quando ci parlano di “connubia more foerarum” e di “viri duro ex robore nati”, dovette sentirsi urgentissimo il bisogno di una protezione giuridica e di una forte organizzazione sociale. Dovettero [Sono sopratutto i filosofi latini, come interpreti delle primitive tradizioni e leggende, che alludono frequentemente a questo stato primitivo, in cui si trovano le genti italiche, ora descrivendo una età dell'oro, che assegnano al regno di Saturno, che sembra corrispondere al Savitar degli Arii, ed ora accennando eziandio a un periodo, in cui avrebbe imperato la forza e la violenza. È veramente preziosa in proposito e riflette mirabilmente la coscienza primitiva delle genti italiche la raccolta, che l'Henriot ha a fare dei testi dei filosofi latini, che possono avere qualche attinenza col diritto, nella sua opera col titolo: “Mæurs juridiques et judiciaires de l'ancienne Rome d'après les poètes latins” (Paris) sull’età dell'oro e sull'imperio della forza. È poi notabile come tutti i filosofi accennino al concetto di un “diritto” della “natura”, preesistente alla formazione del civile consorzio, e tutti esprimano con grande efficacia l'altissima importanza, che dovette avere per l'umanità l'origine della legge] allora succedere fra le popolazioni italiche dei cataclisminon minori di quelli, che si attribuiscono al nostro suolo, e furono questi cataclismi, che condussero necessariamente alla formazione di un aristocrazia – il pater del patriarcato -- territoriale, militare e patriarcale ad un tempo, che era il solo ed unico mezzo per uscire da uno stato di promiscuità e di violenza. Fu questa patriarcato – ottimati -- che comprende il padre nella famiglia, il patre nella gente e il pater nella tribù, ed abbraccia cosi tutte quelle genti, le quali, memori forse di istituzioni che eransi altrove elaborate, trapiantarono frammezzo al disordine ed alla lotta la potente organizzazione gentilizia, che una volta formata si chiuse in certo modo in se stessa e riguardo come di origine inferiore tutti coloro che non appartenevano alla medesima. Fu questa aristocrazia del ‘pater’ potentemente organizzata per gentes, che costituì la classe privilegiata e che merita dapprima anche di essere considerata come tale. Ma accanto alla medesima dovette naturalmente formarsi una classe subordinata, i cui gradi corrispondono precisamente ai varii stadii dell'organizzazione gentilizia, in quanto che comprende il servo nella famiglia, il cliente nella gente, ed il plebeo, che cominciano a comparire colla tribù. Per tal modo nelle popolazioni, che si vengono così organizzando, si disegnano per spontanea e naturale formazione, due strati, che si corrispondono fra di loro, e mentre in una lunga e lenta evoluzione, di cui non sopravisse alcun ricordo, salvo nella lingua e negli oggetti trovati nelle tombe, il ‘pater’ della famiglia si cambiano in ‘pater’ nella gente e quindi in ‘pater’ nella tribù, anche i servi mano messi dal ‘pater’ mutansi in clienti del ‘pater’ ed il cliente rimasnne senza ‘pater’] formano il primo nucleo della plebe. Il pater – qua Padri, patrone e patrizio – e, in sedimenti successive, la classe alta dei vincitori, dei proprietari delle terre, dei primi organizzatori di una vita sociale. Il servo, il cliente ed il plebeo rappresentano i varii stadii, per cui passa la classe inferiore dei vinti, e di quelli che, per avere una prot zione, si accalcano intorno allo stabilimento di una casata patrizia. Il primo puo indicare suoi proprii antenati ed escludere qualsiasi origine servile. Il plebeo, se giunsero col tempo ed essere indipendenti dal patriziato, appartennero probabilmente alla classe del servo e del cliente, e non ha dapprima quelle giuste nozze, che accertano la discendenza per la linea maschile. È in questo modo che il patriziato venne formandosi l'alto concetto della propria superiorità e che giunse fino a dire, se non a credere, che discende dal divino (il che del resto non era intieramente falso dal momento [ - che ha elevato a divinio il proprio antenato). Mentre la plebe, memore forse della servitù antica, trovasi dapprima in una abbiezione pressochè servile, da cui non venne a liberarsi che quando ebbe ad essere rigenerata da un nucleo potente di famiglie latine, che appartenevano alle città conquistate da Roma. Intanto pero fra le due classi vi ha questa differenza. La prima tende a tircoscriversi, anche per la difficoltà di far entrare nuovi elementi in una organizzazione così gerarchica, come era l'organizzazione gentilizia, la quale non poteva accogliere degli individui ma soltanto delle altre gente. La plebe, appena viene ad affermare la propria esistenza, tende invece ad incorporarsi nuovi elementi, senza vagliarne l'origine, per modo che essa puo accogliere i vinti che non siano ridotti in ischiavitù, gl’emigranti che non siano ricevuti come cliente. Non solo può aggregare nel proprio seno delle famiglie, ma anche individui, che essendosi disgiunti dal gruppo, a cui erano uniti, abbisognino di protezione e di tutela. Intanto pero fra l'uno e l'altro ordine, la grande differenza è questa, che nelle origini, solo il pater ha una vera posizione di diritto. Il plebeo non ha dapprima che una posizione di fatto. Il pater e il popolo da esso costituito è un ordine. La plebe non è che una moltitudine, una folla non ancora organizzata. Il pater ha tradizioni militari, religiose, giuridiche. Il plebeo non ha dapprima che quelle costumanze e quegli usi, che possono formarsi in una folla di provenienza diversa e di formazione del tutto recente. Il pater ha una religione gentilizia, formatasi nel suo seno mediante il culto degli antenati. Il plebeo non ha che un complesso di credenze popolari, che ancora abbisognano di ricevere una forma religiosa. Ben si comprende quindi, che la distanza e grande e che dove essere assai malagevole di raccogliere i due elementi nella stessa comunanza, elaborando un diritto, che potesse essere comune ad entrambi. Fermi cosi i caratteri generali dei due ordini, importa di ricercare più particolarmente l'organizzazione già formata del pater, e quella ancora in via di formazione, che dovrà poi comprendere il plebeo – Livio: “En unquam fando audistis patricios primo esse factos, non de caelo demissos, sed qui patrem ciere possunt, id est nihil ultra quam ingenuos.” Non può esservi dubbio, che a costituire il patriziato primitivo di Roma concorsero elementi diversi, usciti per la maggior parte da quelle tre stirpi di popoli, che secondo la tradizione entrarono a for mare la comunanza romana. Sonvi quindi genti di origine latina, e fra queste sonovi quelle che figurano come più antiche, genti di origine sabina, ed altre, in numero forse minore, di origine etrusca. L'origine diversa poi facilmente persuade, che le loro istituzioni tradizionali dovevano anche essere dissimili, e che quindi quella completa analogia di istituzioni, che in esse apparisce più tardi, do vette essere l'effetto di una lenta assimilazione, che vennesi operando gradatamente mediante la loro partecipazione ad una stessa comunanza civile e politica. Tuttavia, malgrado le differenze che potevano esservi nelle sue tradizioni, il pater romano, comunque fosse originariamente composto, presenta fin dalle origini della città le traccie di un'organizzazione potente di carattere patriarcale, che è l'organizzazione gentilizia. Non è qui il caso di cercare, se questa organizzazione per genti sia stata una necessità storica per uscire da quello stato di conflitto e di privata violenza, che dovette avverarsi all'epoca delle migrazioni, e se sia stata invece una istituzione, che le stirpi migranti già avevano elaborata altrove e che loro servi per sovrap porsi alle popolazioni indigene, il che sembra essere più probabile. L'enumerazione delle primitive genti patrizie col riassunto delle opinioni di. verse intorno alla loro origine e alle molteplici dirainazioni, che partirono da cia scuna di esse, può trovarsi in Bonghi, “Storia di Roma”, Cfr. MUIRHEAD, Hist. Introd., in princ. Ivi l'autore cerca perfino di determinare la parte, che nel diritto si attribuisce alle varie stirpi] questo in ogni caso deve aversi per certo, che è in virtù di questa organizzazione, che le primitive genti patrizie, per quanto potessero essere diverse di numero e di potenza, appariscono pero foggiate sul medesimo modello. Tale organizzazione tuttavia nel periodo storico già trovasi in via di dissoluzione; ed anche quello che ne rimane già presentasi alquanto alterato nelle sue primitive fattezze per essersi confuso coll'elemento civile e politico, dal quale è assai difficile sceverarlo. Ciò non ostante dalle vestigia, che ne rimangono e che sono dovute sopratutto allo spirito eminentemente conservatore del popolo romano, si può dedurre che l'organizzazione gentilizia dovette nel patriziato romano presentarsi in gradazioni diverse, tutte strettamente connesse fra di loro. Esse sono: la famiglia fondata sull'agnazione, la gente accresciuta ed afforzata dalla clientela, e da ultimo la tribú, in cui già compare nei proprii inizii la distinzione fra il patriziato e la plebe. Sarebbe certo cosa di grande interesse il ricercare qui se nelle prime origini l'organizzazione gentilizia ha prese le mosse dalla famiglia, o dalla gente, o dalla tribù. Ma ciò ci recherebbe a quel l'epoca e a quel sito, in cui le stirpi arie ponevano le prime basi dell'organizzazione patriarcale, cominciando probabilmente dal più piccolo e più naturale dei gruppi, che era la famiglia. Qui pero non e inopportuno il mettere innanzi, almeno a titolo di congettura, che dei varii gradi dell'organizzazione gentilizia quello, che probabilmente servi per la migrazione delle varie stirpi dall'Oriente all'Occidente, dovette essere il gruppo della “gens”. Ciò è dimo [Questa stessa gradazione è accolta dal SUMNER MAINE, Ancien droit, ma non è invece quella seguita da Leist, Graeco- Italische R. G., il quale parmi non distingua sempre abbastanza due cose affatto diverse fra loro, che sono l'organizzazione gentilizia e l'organizzazione politica, considerando come altrettante divisioni del populus, non solo le tribus e le curiae, ma anche le gentes. Senza voler quientrare in una questione, chemi trarrebbe troppo per le lunghe, non posso però tralasciare di notare, che la così detta famiglia patriarcale non deve ritenersi come la famiglia veramente primitiva, poichè essa è già una famiglia, le cui fattezze vengono ad essere trasformate a causa del suo entrare a far parte della organizzazione gentilizia. È nota in proposito la discussione, anche oggi non definita, fra il Sumner MAINE, “Early law and custom” (London) da una parte, e MORGAN e Mac-Lennan dall'altra, come pure la cri tica fatta, alla teoria patriarcale del SUMNER Maine, dallo SPENCER, Principes de sociologie, strato dal fatto, che è dalla gente che il patrizio romano deriva quel nome, che esso ha ricevuto dall'antenato comune e che deve trasmettere poi ai proprii discendenti, e che, anche nei tempi storici di Roma, allorchè accade qualche nuova incorporazione nel patriziato mediante la cooptatio, questa non si effettua nè per famiglie, nè per tribù, ma per genti. Mentre la famiglia è il gruppo più ristretto ed unificato in tutte le sue parti e la tribù è già una vera e propria comunanza di villaggio, in cui si preparano gli elementi costitutivi della città, la gente invece è il gruppo intermedio, che da giustamente il suo nome e la propria impronta all'organizzazione gentilizia, perchè di sua natura è un gruppo più elastico e pieghevole di tutti gl’altri, e che può meglio accomodarsi a qualsiasi evenienza in un periodo di migrazione. La “gens” infatti è più forte e numerosa della famiglia, perchè continua a stringere insieme le famiglie, che per discendere da un comune antenato sono anche unite tra di loro da un medesimo culto, e intanto è più compatta della tribus, la quale essendo già l'aggregazione di più genti, che o sono di origine diversa o hanno già dimenticata l'origine comune, può già fornire argomento a dissidii fra i capi delle varie genti, che entrano a costituirla. La gente poi è per sua natura tale, che ora può cambiarsi in una carovana in migrazione, ora attendarsi e stabilirsi in un determinato sito, ed ora anche raccogliersi a guisa di un ma nipolo di soldati, e tutto ciò senza che possa mai sorgere questione di preminenza, perchè è la consuetudine, che designa chi debba esserne il capo e perchè il vincolo della comune discendenza fa sì che tutti i suoi membri ne subiscano volenterosi il comando. In tanto è nella gente, che si vengono formando e distinguendo le famiglie, come pure sono le genti che, aggregandosi intorno ad una preminente fra le altre, danno origine alla tribù, la quale è già più atta ad arrestarsi in un determinato sito e ad essere così di avviamento alla convivenza civile e politica. I tre gruppi tuttavia sono sedimenti di una spontanea e naturale formazione, che si vengono sovrapponendo l'uno all'altro per modo, che appariscono tutti foggiati sul medesimo modello, che è quello del gruppo patriarcale, e si vengono reciprocamente influenzando per guisa, che tutti appariscono come strati diversi di un'unica organizzazione. Di qui la [Cfr. Willems, “Le droit public romain,” Paris] conseguenza, che tutti questi gruppi, dal momento che difetta an cora una vera convivenza civile e politica, compiono l'uffizio ad un tempo di convivenza domestica e di convivenza civile, colla differenza tuttavia, che nella famiglia prevale ancor sempre il vincolo del SANGUE, e nella tribù già si fa strada il vincolo civile e politico, mentre la gente è quella, che ha il carattere più schiettamente patriarcale. Cio premesso quanto ai caratteri generali della organizzazione gentilizia, cerchiamo di ricostruirne le principali fattezze, desumendole dalle traccie che ancora ne rimangono nella storia primitiva di Roma, nella quale vi ha questo di particolare che, anche quando un'istituzione si dissolve, si sanno mantenere le forme esteriori della medesima. In cio sarà bene incominciare dalla famiglia, come quella che ha ad esser meglio conservata e intanto costituisce il gruppo più ristretto dell'organizzazione gentilizia. Per quanto sia vero che la famiglia, quale presentasi più tardi nel diritto quiritario, sia una istituzione comune così al patriziato che alla plebe, sonvi tuttavia forti argomenti per credere che la sua primitiva organizzazione fosse di origine patrizia. Fra gli altr’argomenti l'importantissimo è questo, che una moltitudine come la plebe, che era di provenienza diversa e di formazione ancora del tutto recente, non poteva possedere fin dai suoi inizii una organizzazione famigliare, che presuppone una lunga serie di antenati e perciò una lunga elaborazione anteriore. Ciò del resto è anche dimostrato da che nelle origini il vocabolo di “patres” indica sopratutto i capi delle *famiglie* patrizie, e perfino gli stessi senatori, che certo usci [Quanto ai caratteri comuni al gruppo patriarcale degl’arii, alla “gens” romana ed al gévos dei greci ed alla letteratura copiosissima sull'argomento, mi rimetto alla mia opera: “La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale” (Torino), ed all'opuscolo, “Genesi e svolgimento delle varie forme di convivenza civile e politica” (Torino). Recarono un nuovo contributo allo studio comparativo delle istituzioni primitive presso le genti di origine aria, oltre le opere già citate del Sumner Maine, il BERNHÖFT, Staat und Recht der röm. Königszeit, Stuttgart, e Leist] vano dal patriziato, al modo stesso che il vocabolo di “patricii” indica “figlio del pater.” Lo stesso provano eziandio le nozze confarreate, certamente proprie del patriziato, che nella leggi attribuita a Romolo ed a Numa sembrano essere il solo modo con cui si puo contrarre le giuste nozze. Si aggiunge infine il carattere agnatizio della famiglia primitiva di Roma, il quale non è e non può essere un carattere originario, ma è una conseguenza della stessa organizzazione gentilizia, di cui la famiglia entra a far parte. Dal momento infatti, che in questo periodo non esiste ancora una vera comunanza civile e politica, diveniva inevitabile che l'organizzazione gentilizia ne assumesse le funzioni e le veci, e che perciò anche la famiglia, in quanto ne fa parte, venisse a ricevere un'organizzazione piuttosto fondata sul potere del PADRE, che non sul vincolo del SANGE. È questa la causa per cui la famiglia primitiva Romana sembra, almeno in apparenza, soffocare i naturali affetti del SANGUE, per guadagnare in forza ed in potenza, unificandosi sotto la potestà del proprio capo. Una volta poi che il fondamento della unione domestica si riponeva nella potestà del PADRE, er una conseguenza logicamente inevitabile, che come il PADRE prevaleva nella costituzione e nel governo della famiglia, cosi l'agnazione, ossia la DISCENDENZA dal padre, per la linea MASCHILE, dove prevalere nella composizione diessa. È in questo senso, che la famiglia primitiva Romana viene a costituire un organismo potente, che può essere considerato come il primo anello e come il nucleo più ristretto dell'organizzazione gentilizia. Essa infatti ha una costituzione eminentemente monarchica, perchè tanto le persone, che la costituiscono, quanto le cose, che ne formano il PATRI-MONIO, dipendono esclusivamente dalla potestà del padre. La famiglia patrizia poi è un vero e proprio organismo, che può considerarsi in due momenti diversi. Finchè infatti vive il PADRE, nel cui potere essa trovasi unificata, la famiglia è un vero corpo vivente, che può andar soggetto a continui mutamenti, in quanto che vi hanno persone che possono uscirne ed altre che pos sono entrarvi. Quando poi il padre muore, quelli che un tempo erano soggetti alla sua potestà possono ancora continuare a tenere [Dion., 2, 25 e 2, 63, testo è riportato da Bruns, Fontes “Leges Regiae”] indiviso il patrimonio comune, assecondando un antico costume romano, che si esprimeva colle parole conservateci da Gellio “ercto non cito” -- le quali significano in sostanza che non si dovesse procedere alla divisione immediata del patrimonio. In tal caso si mantiene fra gli agnati un di soggetti alla patria potestà una specie di società universale di tutti i beni, per cui sembra in certo modo che si perpetui ancora l'esistenza della famiglia, e si ha così quella famiglia in largo senso, di cui ci parlano ancora i giureconsulti, che la chiamano “familia omnium agnatorum.” Questa indivi sione dove certamente essere frequente nei tempi primitivi e fu questa la causa per cui, oltre la famiglia nel vero senso della parola, che comprende tutti quelli che sono soggetti alla “patria potestà”, venne delineandosi una famiglia più vasta, che è quella degli agnati, la quale sebbene abbia cessato di essere unificata dalla potestà del padre, continua tuttavia ancora ad essere unita insieme e a costituire un tutto – “consortium” -- stante l'indivisione del patrimonio. Ciò però non toglie che il concetto della famiglia agnatizia siasi poscia cambiato e che si siano compresi col nome di agnati tutti coloro, che [Mi fo lecito di mettere innanzi questa interpretazione delle parole arcaiche “ercto non cito” e ciò in base a quello che ci attesta Servio, il quale interpretando questa espressione, dice appunto, che essa significa “patrimonio vel hereditate non divisa” -- Serv., in Aen., VIII, 642 (Bruns, Fontes). Queste parole furono poi applicate per indicare in genere la « societas omnium bonorum » in virtù della quale, secondo l'attestazione di Gellio. “Comnes simul in cohortem recepti erant, quod quisque familiae, pecuniae habebat in medium dabat, et coibatur societas in separabilis, tamquam illud fuit antiquum consortium, quod iure atque verbo romano appellatur cercto non cito.” Che poi queste parole siano in certo modo un'antica clausola testamentaria, con cui il padre proibiva la divisione immediata appare da ciò, che “ercto” deriva certamente da “ercisco” e “cito” è un avverbio che deriva da cieo e significa « prontamente ». Vedi BRÉAL e Bailly, Dictionnaire étymologique latin, Paris,  pº Ercisco e Cieo. Che poi veramente presso gli antichi romani fosse consuetudine di mantenere, per quanto fosse possibile, l'indivisione, appare dal seguente testo, che trovo citato da KARLOWA, Röm. R. G., ricavato dalle PETRI, Excep. legum romanarum, lib. I, cap. 19, De vendenda hereditate. Consuetudo antiquorum esse solebat, ut frater de rebus suis immobilibus non venderet nisi fratri, propinquus propinquo, nec consors nisi consorti, si emere vellent. È questo forse il motivo, per cui presso i romani un heredium potera conservarsi integro nella stessa famiglia per parecchie generazioni, e un vicus poteva essere costituito per intiero di famiglie appartenenti alla stessa gens, senza mescolanza di elementi estranei. Cid sarà meglio dimostrato ove trattasi appunto prietà nel periodo gentilizio >. della pro -- - - 31 erano stati sotto la patria potestà della stessa persona, come quelli che avevano formato parte di una medesima casa ed erano usciti dalla medesima gente. Tuttavia, per ben comprendere il carattere della famiglia patrizia primitiva, vuolsi sempre aver presente, che essa non è già un organismo isolato, ma è parte di un organismo maggiore di cui costituisce il nucleo più ristretto. Diqui la conseguenza che quel potere del padre, che giuridicamente considerato sembra essere senza confini, trovasi nella realtà limitato sia dal tribunale domestico, che circonda il capo di famiglia, sia dal consiglio dei padri, che trovasi nella gente e nella tribù, per guisa che i temperamenti, che non vi sarebbero nella natura del potere paterno, si incontrano invece nel costume e nell'organizzazione gerarchica, di cui la famiglia entra a far parte. È per questo motivo, che tutti gli atti, che toccano in qualche modo l'organizzazione gentilizia, quali sarebbero l'adrogatio, che serve a perpetuarla quando manca una prole diretta, il testamento, che modifica le regole con suetudinarie relative alla successione, ed anche il matrimonio per confarreatio di uno dei membri della famiglia, devono essere fatti coll' intervento, colla testimonianza e perfino coll'approvazione dei capi di famiglia, che entrano a formare la gente e la tribù; il che ancora appare dalle formalità, che accompagnarono questi atti nei primitempi di Roma. Intanto è incontrastabile, che anche la successione legittima e la tutela assumono un carattere del tutto gentilizio, in quanto che l'una e l'altra, sebbene non stabiliscano delle differenze per causa del sesso o per causa di primogenitura, mirano però fino all' evidenza a conservare il patrimonio e l'amministrazione di essa nella [Leg. 195, $ 2 e 196, Dig., De verb. signif. (50, 16 ): Communi iure, scrive Ulpiano, familiam dicimus omnium agnatorum, nam, etsi patre familias mortuo, sin guli singulas familias habent, tamen omnes, qui sub unius potestate fuerunt, recte eiusdem familiae appellabantur, quia ex eadem domo et gente proditi sunt. Qui viene ad essere evidente, che la giurisprudenza classica, che non poteva più favorire quella indivisione che era tanto accetta agli antichi romani, conserva però sempre il concetto della famiglia degli agnati, non più desumendolo dalla indivisione del patrimonio famigliare, ma dalla circostanza che gli agnati erano un tempo dimorati nella stessa casa ed erano stati sotto la patria potestà del medesimo capo. È da vedersi sull'agnazione l'articolo di SEMERARO, “Enciclopedia giuridica italiana”, vº “agnazione”, vol. I, parte 2*, pag. 720. 32] linea agnatizia. Il che può scorgersi ancora nella legislazione decemvirale, la quale, come si vedrà a suo tempo, in questa parte riusci a far prevalere pressochè intieramente il sistema di successione e di tutela, che dovevano essere in vigore presso il patriziato durante il periodo gentilizio. Quanto al testamento, esso era certamente conosciuto in questo periodo, ma collo spirito che prevale nell'organizzazione gentilizia si può affermare con certezza, che esso, dovendo essere fatto coll'approvazione del consiglio degli anziani e nelle riunioni gentilizie della tribù, anzichè servire qual mezzo per sottrarre l'eredità alla gente, dovette invece servire per ritardare od impedire la soverchia divisione dei patrimoni. Intanto è pure da notarsi il carattere speciale, che assumeva la famiglia primitiva nel periodo gentilizio, in quanto essa comprende eziandio nella propria cerchia un numero più o meno grande di servi, che in antico sono anche detti “famuli”, dal vocabolo “famel”, che in lingua osca significa appunto “servo”; dal quale, secondo Festo, sarebbe anche derivato l'antico vocabolo “famuletium”, che avrebbe significato servitium. È infatti per mezzo dei servi, a cui era [Si può ricavare l'importantissima conseguenza, che a suo tempo servirà a spiegare molte istituzioni del diritto romano primitivo, che il concetto di comproprietà, in virtù del quale i figli durante la vita del padre sono comproprietarii dell'heredium, e dopo la morte di esso in certa guisa eredi di se stessi (“heredes sui”), come pure quello, in virtù di cui è dal novero degli agnati, che si debbono ricavare i tutori delle femmine, degli impuberi e dei furiosi, sono tutti concetti, la cui origine rimonta ed è anzi un effetto della stessa organizzazione gentilizia, di cui la famiglia entra a far parte. Quanto al testamento fra le genti patrizie non dove certo essere applicazione del principio: a uti paterfamilias super familia tutelave suae rei legassit, ita ius esto », ma doveva mirare sopratutto all'”ercto non cito”. Il testamento esiste, ma nell'intento di serbare il patrimonio indiviso e di trasmetterlo tale di generazione in generazione. L'importante concetto di questa comproprietà famigliare già trovasi nettamente espresso in uno degli ultimi lavori di Dubois, alla cui memoria mando qui un riverente saluto, nel suo ultimo diligentissimo lavoro col titolo: “La saisine héréditaire en droit ro main” (Paris) pubblicato nella “Nouvelle revue historique de droit français et étranger”, ove, combattendo iMaynz ed altri autori, dimostra che gli eredi suoi erano immediatamente investiti dell'eredità, senza che occorresse accettazione della medesima e ciò appunto in base a questa comproprietà famigliare. Al concetto del DuBois è solo da aggiungersi, che cið era un effetto dell'organizzazione gentilizia prima esistente, idea, che egli già aveva in germe, come lo dimostrano le parole con cui egli conchiude il suo lavoro, ma che non ebbe più campo di svolgere. (2) V. Festo, vº Famuli (Bruns, Fontes, pag. 338 ). 33 affidato il servizio rustico od urbano (familia rustica, familia urbana) che la famiglia primitiva veniva ad essere organizzata per modo da bastare a qualsiasi bisogno ed emergenza. Cio diede un carattere speciale alla vita economica dell'antichità e coopera a dare alla famiglia antica il carattere di un tutto organico e coerente in tutte le sue parti. La servitù ebbe per effetto, come ben nota Padelletti, di fare in guisa che i prodotti non venissero a cambiare di possessore in tutto il corso del loro processo produttivo, perchè il servo e impiegato non soltanto nella produzione, ma benanche nella trasformazione e nel trasporto dei prodotti. Per tal modo ogni famiglia tende a supplire a tutti i suoi bisogni, e intanto ogni capo di famiglia poteva apparire come possessore difondi, essere ricco di greggi ed armenti, che costituivano in certo modo il primo capitale, e intanto attendere eziandio al commercio dei proprii prodotti Puo tuttavia affermarsi con certezza, che durante il periodo gentilizio le genti patrizie fossero sopratutto ricche di greggi ed armenti, come lo dimostra l'uso frequentissimo di vocaboli anche di carattere giuridico de rivanti dall'industria pastorale (quae ex pecoribus pendent), il che, secondo Festo e Varrone, deriva appunto da cid, che presso imaggiori le ricchezze ed i patrimoni si componevano sopratutto di greggi e di armenti (2 ). e (1) PADELLETTI, Storia del dir. rom., pag. 15. Sull'importanza della servitù nella famiglia primitiva è da vedersi PERNICE, M. Antistius Labeo, Halle, ove parla dei rapporti degli schiavi colla casa di cui fanno parte, sopratutto MARQUARDT, Das Privatleben der Römer, Leipzig. Fra questi vocaboli basti citare quello, che ebbe poi tanta parte nel vocabolario giuridico, di “agree”, che, secondo BRÉAL, nel suo significato primitivo suo nava « spingere, stimolare », e si applica sopratutto al gregge; quello di grex talvolta applicato al popolo; quello di ovilia adoperato per significare i recinti (septa ) ove il popolo era distribuito per dare il voto nei comizii; i vocaboli di abgregare, adgregare, congregare citati appunto da Festo come vocaboli di origine pastorale (Bruns, Fontes, pag. 331); quelli di pecunia, di peculium, di peculatus, di ager compascuus, e molti altri i quali spiegano come VARRONE (Bruns, Fontes, p. 388 ) finisca per esclamare. Romanorum populum a pastoribus esse ortum, quis non dicit? Mulcta etiam nunc, ex vetere instituto, bubus et ovibus dicitur, et aes anti quissimum, quod est flatum, pecore est notatum. Si vedrà invece a suo tempo che mentre la ricchezza del patriziato primitivo consisteva di preferenza in greggi, in mandre ed armenti, che pascolavano nei compascua della tribù, e poscia nell'ager pubblicus della città, la plebe invece fin dagli inizii diede sopratutto opera all'agri coltura, concentrandosi nella coltura del proprio heredium o mancipium. Questo G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. Del resto quello, che qui importa, e sopratutto di mettere in evidenza il carattere gentilizio della famiglia; poichè essa, fra le istituzioni anteriori alla comunanza, è certamente quella che conserva più lungamente il suo carattere primitivo. Quindi anche nel periodo storico si troveranno nel patriziato romano quelle stesse formalità solenni e quelle cerimonie religiose, che dovevano accompagnare gli atti relativi alla famiglia durante il periodo gentilizio. La sola differenza consiste in questo, che all'approvazione dei padri del gruppo gentilizio nella comunanza civile e politica sottentrerå - o la testimonianza dei dieci Quiriti che rappresentano le curie in cui divi devasi la tribù e l'intervento dei Pontefici, siccome accade nelle confarreatio, - o l'approvazione delle curie, coll'intervento pure dei Pontefici, siccome accade nella adrogatio e nel testamento, che per il patriziato verranno a compiersi davanti all'assemblea delle curie, cioè in calatis comitiis (curiatis). Credo ad ogni modo, che anche questa breve esposizione dei caratteri della famiglia del patriziato romano dimostri abbastanza che essa non deve essere riguardata come una istituzione del tutto primitiva, come alcuni vorrebbero considerarla, in quanto che la medesima già erasi scostata in parte dalle sue primitive e naturali fattezze, a causa della influenza, che ebbe ad esercitare su di essa l'organizzazione gentilizia, di cui e entrata a far parte. Essa in sommanon è più la famiglia, quale dovette uscire dagli istinti e dalle tendenze naturali del genere umano; ma è già una famiglia che in parte ha soffocato i naturali affetti onde fortificarsi per la lotta per l'esistenza e per entrare in un'organizzazione, che funge da associa zione domestica, religiosa,militare e politica ad un tempo. Ed è anche questa la ragione, che la renderebbe a noi pressochè incomprensibile, se non fosse riportata nell'ambiente in cui ebbe a formarsi. svolgimento storico pertanto conferinerebbe il risultato, a cui giunsero SPENCER ed altri sociologi, secondo il quale sarebbe stato sopratutto il periodo della vita pastorale, che avrebbe determinato la formazione e l'afforzamento di quell'organizzazione gentilizia, che trovasi così profondamente radicata presso il primitivo patriziato romano (V. SPENCER, Principes de sociologie, Paris). Tale è ad esempio l'opinione del Sumner Maine, che in questa parte fu com battuto dallo SPENCER. La gens e la sua importanza per il patriziato di Roma. 28. Se la famiglia, quale comparisce più tardi nel diritto Quiri tario, riproduce pur sempre i caratteri dell'antica famiglia patrizia, altrettanto invece non può dirsi della gens, la quale perciò è assai più difficile a ricostruirsi nelle sue primitive fattezze. Sebbene in fatti la gens mantengasi ancora lungamente durante la comunanza civile e politica, viene tuttavia fin dalle origini della convivenza civile e politica, ad essere sottoposta ad un processo di dissoluzione, in quanto che una parte delle sue funzioni di un tempo, quelle cioè che avevano un carattere politico o militare o legisla tivo, finiscono per essere a poco a poco assorbite dalla città. A cid si aggiunge, che in questa parte la grande autorità di Niebhur, sulla fede di un testo di Dionisio, a cui diede una interpretazione che non può essere ammessa, pose gli investigatori della storia primitiva di Roma in un indirizzo erroneo, in quanto che condusse a cre dere per lungo tempo, che la gens non fosse che una ripartizione politica della città. Per tal modo l'organizzazione politica della [NIEBHUR, Histoire romaine, trad. Golbery, Paris, ove parla: des maisons patriciennes et des curies e specialmente a pag. 19. Ivi l'illustre storico, avendo trovato che Dionisio divideva in dekádec le curie, pensò che queste decurie non potessero essere che le gentes e trasportò così l'organizzazione gentilizia nella città, concetto, che d'allora in poi ha dominato le ricerche contempo ranee intorno a Roma primitiva, per guisa che occorre pressochè universalmente di trovare che la città di Roma si divideva in tribù, queste in curie e queste ul time in gentes. Così, ad esempio, anche gli autori più recenti, pur avendo modifi cato il concetto della gens con ritenerlo un ampliamento naturale della famiglia, continuano pur sempre in questa distinzione. Citerò fra gli altri KARLOWA, Röm. R. G., il quale continua ad essere intitolato: “Das Volk und seine Gliederungen (tribus, curiae, gentes)”, quasi che il popolo romano sia stato mairipartito in gentes; ed iLeist, Graeco- Italische R.G. che segue pure la stessa distinzione. Così pure il WILLEMS (“Le droit public romain,” Paris)che continua ancor esso a dire, che le curie si suddividono in gentes. Questa distin zione non fu mai accennata dagli antichi scrittori, i quali soltanto ebbero a dire con Gellio, che i comiziä сuriati si raccoglievano ex generibus hominum, il che significa solamente, che nella composizione delle curie si teneva conto della discen denza, mentre invece nei comizii centuriati si badava al censo e nei tributi alle lo calità. Il populus insomma è ricavato dalle gentes,ma non fu mai diviso in gentes.] città venne ad essere confusa con quella patriarcale della gente e i due elementi gentilizio e politico si confusero per modo che per qualche tempo fu impossibile riuscire a sceverarli, ed anche oggi si scorgono evidenti, anche in dottissimi scrittori, le conseguenze di tale confusione. Allora soltanto le indagini furono rimesse in una via, che poteva condurre a qualche risultato, allorchè gli studii, che si vennero facendo sul gruppo patriarcale nell'Oriente, dimostrarono che anteriormente alla città era lungamente durato un altro pe riodo di organizzazione sociale, che riceveva appunto il suo carat tere fondamentale dalla gens, la quale, formatasi nell'Oriente, era poi stata trasportata nell'Occidente tanto dalle stirpi Elleniche, quanto dalle stirpi Italiche (1). Fu quindi collo studiare il gruppo patriar cale nell'Oriente, ove per circostanze storiche speciali erasi mante nuto stazionario ed immobile nelle sue principali fattezze, che si cominciò a comprendere e a ricostruire nel suo carattere primitivo quella gente, che in Grecia ed in Roma era stata in parte trasfor mata colla creazione dell'urbs e della civitas. Questo lavoro di ricostruzione poté per le genti italiche essere agevolato da ciò, che Quanto alle dekádes di Dionisio, il MUELLER ebbe a dimostrare che esse sono invece una divisione delle centurie degli equites, al modo stesso, che esse erano pure una divisione del senato -- MUELLER, Philologus. Si può infatti comprendere che i senatori, che erano cento prima e trecento dappoi, si dividessero in decurie, e che così pure si facesse delle tre centurie primitive degli equites, ma non si può veramente capire come le curie, divisione dei Quiriti, che erano uomini di arme, potessero suddividersi in gentes, le quali, essendo un ampliamento della fa miglia, comprendevano maschi e femmine,maggiori e minori di età e così di seguito. (1) Il merito di aver richiamato l'attenzione sul gruppo patriarcale presso le stirpi Arie, è da attribuirsi sopratutto al Sumner MAINE, L'ancien droit, chap. V. La société primitive et l'ancien droit, pag. 107 a 163. Tuttavia mi pare giustizia il far notare, che il primo che abbia, se non provata, almeno intuita questa organizzazione patriarcale delle genti primitive fu sopratutto il nostro Vico, il quale per compro varla ebbe a citare quegli stessi versi di Omero, in cui parlasi delle istituzioni pri mitive dei Ciclopi (V. 22, Scienza nuova, ediz. Ferrari, Milano, ove parla dell'economia poetica e dice che i Polifemi furono i primi padri di famiglia del mondo), dai quali prende appunto le mosse il SUMNER Maine (pag. 118 ); versi del resto, che già erano stati citati da Platone nel dia logo delle Leggi, quando voleva appunto dimostrare che il patriarcato era stata l'organizzazione sociale primitiva non solo presso i Greci, ma anche presso i Barbari. Plato, Leges, III, Ed. Didot, Paris, 1848. Del resto che l'organizzazione gentilizia sia stata comune a tutti gli Arii e quindi anche ai Greci e agli Italici è cosa, che oggidì non forma più argomento di discussione. (Per maggiori particolari vedi Carle, La vita del diritto, lib. I e II, e sopratutto a pag. 90 e seg.) i 37 esse più di tutte le altre stirpi hanno saputo attribuire al gruppo gentilizio quei contorni precisi e determinati, che solo si rinvengono presso quelle popolazioni, che svolgono le proprie istituzioni sotto un aspetto essenzialmente giuridico. Di qui la conseguenza, che, a parer mio, i veri caratteri dell'organizzazione per gentes possono più facilmente essere trovati nelle poche reliquie delle primitive genti del Lazio, che non nella stessa India, ove l'elemento religioso preponderante fini per assorbire e soffocare ogni altro aspetto della vita primitiva. 29. Intanto questo ormai si può affermare con certezza, che la gente, anzichè essere una divisione artificiale della città, deve invece es sere considerata come il perno, intorno a cui si esplica l'organizza zione gentilizia. Essa è un naturale ampliamento della famiglia pa triarcale, in quanto che non comprende più soltanto coloro, che dipendono dalla stessa patria potestà, maabbraccia tutte le famiglie, che, memori dell'antenato comune, da cui sono discese, non solo ne portano il nome, ma ne professano e perpetuano il culto. Però oltre questo carattere, che la gens latina ha comune colle genti Arie, essa ha eziandio un carattere suo peculiare, ancorchè comune forse alle genti elleniche, il quale consiste in ciò che le gentes sono considerate come proprie di quelle aggregazioni domestiche, che oltre all'avere uno stipite comune, sono riuscite a mantenersi perennemente ingenue, immuni cioè da qualsiasi rapporto di servitù e di clientela. Delle gradazioni del gruppo patriarcale, la “gens” è quella che possiede elasticità maggiore, perchè talvolta può avere le proporzioni soltanto di una famiglia, col qual vocabolo infatti è talora indicata la stessa gens. E talvolta invece può avere già dato origine a tante pro [Il vocabolo ad esempio di familia è adoperato per significare la “gens” nel seguente passo di Festo. “Familia antea in liberis hominibus dicebatur, quorum dux et princeps generis vocabatur pater et materfamilias; unde familia nobilium Pompiliorum, Valeriorum, Corneliorum (Bruxs, Fontes). Si possono vederne molti altri esempi nel Voigt (“Die XII Tafeln”, Leipzig). In ciò si ha una nuova prova che la familia e la gens fanno parte della stessa organizzazione, per guisa che i due vocaboli si scambiano fra di loro. Mentre è difficile trovare negli antichi scrittori il vocabolo di familia per indicare il populus, loro pare invece di essere più esatti, paragonandolo ad un grez e dividendolo al pari di questo in altrettanti capita. Del resto sono abbastanza noti i significati molteplici, che ha il vocabolo familia nel diritto primitivo di Roma, ove significa ora un complesso di persone o 38 paggini diverse da prendere quasi le proporzioni di una grande e numerosa tribù, come la tradizione ci narra essere accaduto della gens Claudia, da cui sarebbe originata la tribù dei Claudienses, e della gens Fabia, le cui proporzioni pervennero a tale che essa poté colle sole sue forze affrontare, secondo la tradizione o leggenda che voglia chiamarsi, una impresa militare, che in tristi circostanze appariva ardua alla intiera città. Non è dubbio tuttavia, che le popolazioni italiche e sopratutto quelle del Lazio dovettero avere un criterio per scindere la gens propriamente detta dalla familia in stretto senso e se fosse lecita una congettura avvalorata da una quantità notevole di indizii, la stregua dovette essere la seguente. Non vi ha dubbio che i caratteri distintivi della famiglia primitiva erano due, cioè la patria potestà del suo capo e l'esistenza di un patrimonio, probabilmente chiamato here dium, che apparteneva esclusivamente alla famiglia nella persona del proprio capo. Di qui la conseguenza, che tutti i discendenti nella linea maschile (comprese anche le femmine non ancora uscite dal gruppo per matrimonio e quelle entrate in esso per la stessa causa ) che dipendevano da un solo capo costituivano la famiglia in stretto senso; ma questa poi continuava ancora a mantenersi e a considerarsi tale, anche dopo la morte del padre, finchè il pa trimonio indiviso di essa perpetuava in certo modo l'unità fami gliare. Che se invece i fratelli, dipendenti un tempo dall'autorità di un solo padre, venivano a dividersi il patrimonio famigliare e a rompere così anche quanto ai beni l'unità primitiva, in allora venivano ad esservi altrettante famiglie, di cui ciascuna aveva un proprio capo, ma che tutte facevano parte di una medesima gens, perchè continuavano ad avere il medesimo nome e il culto comune per il proprio antenato. La “gens” comincia pertanto quando cessa l'unità indivisa della famiglia, e quindi nel periodo gentilizio quelli che erano agnati e che come tali costituivano ancora la famiglia omnium agnatorum, finchè il loro patrimonio era indiviso, costituivano già il primo grado della gentilità, allorchè questa divisione era seguita. È di qui che provenne la difficoltà, ancora non superata, per distin di cose, ora un complesso di persone, ora soltanto un complesso di cose (fa milia pecuniaque) – ed ora infine il complesso dei servi (familia rustica ed urbana).] guere gli agnati dai gentiles, perchè colla divisione del patrimonio gli uni si potevano convertire negli altri e fu solo posteriormente allorchè diventò più rara questa indivisione, che si chiamarono agnati tutti coloro, che un tempo si erano trovati sotto la patria potestà della stessa persona, ai quali si aggiunsero poi anche quelli, che lo sarebbero stati se il comune capo non fosse premorto. Non è quindi il caso di dover supporre col Muirhead, che l'ordine degli agnati, cosi nella successione che nella tutela legittima, sia stata una creazione artificiale della legislazione decemvirale per provvedere alla successione e alla tutela dei plebei, che mancavano di genti. Gl’artificii nelle epoche primitive sono meno frequenti che non si creda, e non si possono supporre che quando ve ne siano prove dirette, quale è quella, ad esempio, che abbiamo quanto alla fin zione di postliminio ed altre analoghe. Per contro il gruppo degli agnati può benissimo essere attribuito ad una formazione spontanea durante il periodo gentilizio, poichè era cosa naturale, come notd più tardi il giureconsulto, che l'essere stati un tempo sotto la patria potestà della stessa persona e l'aver partecipato al godimento dello stesso patrimonio dovesse distinguere il gruppo degli agnati da quello più remoto dei semplici gentiles, che solo avevano comune la discen denza da uno stesso antenato, ma che non avevano mai dimorato nella stessa casa, nè avevano mai formato parte della stessa famiglia. D'altronde sarebbe veramente strano ed incomprensibile, che la le gislazione decemvirale avesse dovuto essa creare il concetto degli agnati, mentre è appunto quest'agnazione, che sta a base delle or ganizzazioni domestica e gentilizia, le quali certo già esistevano pre cedentemente. C [Che l'ordine degl’agnati sia stata una creazione della legislazione decemvi. rale, è uno dei concetti veramente nuovi enunciati dall'illustre autore dell' “Historical Introduction”. Egli quindi insiste più volte sul medesimo e dopo averlo accennato a pag. 43 nel testo e nelle note 2 e 3 vi ritorna sopra a pag. 121 e 172 e note relative. Il solo suo argomento però consiste nei due testi di Ulpiano da lui citati, ove il giureconsulto mentre dice che: lege duodecim tabularum testamentariae hereditates confirmantur », usa invece, quanto alla successione legittima, l'espressione che « legitimae hereditatis ius ex lege duodecim tabularum descendit », espressione che pure adopera altrove quanto alla tutela legittima. È però evidente, che qui il giureconsulto non parla solo della successione degli agnati, ma di tutta la succes sione legittima, e quindi anche degli heredes sui, e dei gentiles, per guisa che, se stesse il ragionamento del MUIRHEAD, converrebbe dire, che secondo il giureconsulto tutto il sistema della successione legittima discende dalle XII tavole. E questo ve [La gente intanto, dopo essere partita dal gruppo degli agnati, che avevano diviso il patrimonio paterno, poteva poi prendere uno svol gimento grandissimo, in quanto che essa poteva abbracciare tutte le diramazioni per la linea maschile, che si staccavano da ciascuno di questi agnati e non cessava mai di costituire una sola aggregazione gentilizia, finchè tutte le famiglie continuassero ad avere lo stesso nome e a professare il culto del medesimo antenato. Potevano perd darsi dei casi, in cui la gente cosi pervenuta ad un numero stragrande di persone venisse a ripartirsi essa stessa in diramazioni diverse; tuttavia anche allora il nome primitivo della gens è sempre conservato, ma ciascuna delle diramazioni prende un proprio agnomen o cognomen, che ne costituisce in certo modo la caratteri stica, ed è seguendo la serie dei cognomina, che si possono seguire le propaggini tutte della stessa pianta. Cosi accadde, ad esempio, della “gens” Claudia, la quale già numerosissima conserva ancora una sola denominazione, ma che più tardi venne assumendo una quantità di cognomina diversi, che indicano in certo modo il punto, in cui sopra un unico ceppo cominciarono ad apparire diramazioni diverse. Lo stesso è a dirsi della “gens” Cornelia e di molte altre, il che serve, anche a spiegare come nel tempo in cui anche quella parte della plebe, che già era pervenuta alla nobiltà cerca di imitare l'organizzazione gentilizia, si veggano delle gentes plebeiae staccarsi da un fusto patrizio. Ciò infatti deve probabilmente indicare un antico vincolo di clientela, che stringe l'antenato, da cui parti la formazione della gente plebea, a gente patrizia. Bastano queste considerazioni per spiegare l'energia vitale, che ramente fu quello, che volle dire il giureconsulto; poichè furono appunto le XII tavole, che, nell'intento di appoggiare l'organizzazione gentilizia, trasportarono di peso la successione legittima esistente nelle tradizioni patrizie anche alla plebe, nel che può vedersi uno dei motivi, per cui il cittadino romano, per sottrarsi ad un sistema di successione, che era disadatto alla città e conduceva all'esclusione di per sone care, credevasi quasi dimorire disonorato, se moriva senza testamento. Fu quindi tutta la successione legittima e non soltanto l'ordine degli agnati, che fu creazione dei decemviri, i quali la tolsero dipeso dell'organizzazione gentilizia; in cui già eranvi le distinzioni di heredes sui, di agnati e di gentiles, come appare dal fatto, che tutta l'organizzazione gentilizia è fondata sull'agnazione, il che è pure ammesso dal MUIRHEAD. Ciò del resto sarà meglio comprovato quando si tornerà sul gravissimo argomento, discorrendo della successione legittima in base alle XII tavole. Quanto all'agnazione e ai caratteri di essa è pure da vedersi il Voigt (“Die XII Tafeln”) - poteva avere un gruppo, che, ad una compattezza pressochè uguale a quella della famiglia, accoppiava talvolta il numero e la forza della tribù, sopratutto allorchè essa era capitanata da uomini di energia tenace e di propositi costanti, come furono per parecchie genera zioni quelli, che guidavano la gens Claudia o la gens Valeria, e come in essa potessero anche perpetuarsi tradizioni diverse, ostili o favorevoli alla plebe dapprima e poi al partito popolare. È questo carattere della gens, che spiega la perennità di un numero origi nariamente piccolo di genti patrizie, malgrado una quantità di influenze, che tendevano a dissolverle e a circoscriverne l'azione. Così pure deve spiegarsi il fatto che, mentre le tribù primitive, di fronte alla potenza assorbente della città, finirono per scompa rire fin dal periodo regio con Servio Tullio, le genti invece per. durarono per parecchi secoli, sostennero in poche una lotta lunga e pertinace con una plebe, il cui numero veniva facendosi sempre maggiore, ed anche vinte continuarono sempre a dare un contri buto larghissimo a quegli onori e a quelle magistrature, che per secoli erano stati loro privilegio esclusivo, finchè da ultimo anche l'impero fini per consolidarsi per un certo tempo nei discendenti di antiche genti patrizie, che si erano imparentate fra di loro. Del resto questa potenza del gruppo gentilizio fu anche sentita da quella parte della plebe, che mediante l'ammessione agli onori fini per costituire una nuova nobiltà, come lo dimostra il fatto, che essa per afforzarsi non trovò mezzo più efficace di quello di ricorrere al ius imaginum e di imitare cosi una organizzazione, che ormai trovavasi in decadenza. Intanto i due caratteri fondamentali della gens, quali si pos sono raccogliere dalle vestigia che ci rimangono delle antiche genti italiche,malgrado le divergenze, che possono esistere nella descrizione dei particolari minuti, si riducono essenzialmente ai seguenti, cioè, primo, alla discendenza da un antenato comune, la quale rivelasi nel nome, nel culto, e nel sepolcro comune; secondo, ed alla ingenuità perenne dei membri, che entrano a costituirla, per modo che essa deve essersi ser bata immune da qualsiasi mescolanza con persone di origine servile. Il primo di questi caratteri è quello che costituisce la forza, la compattezza e la perennità dell'organizzazione gentilizia, ed il se condo, che il pontefice Q. Muzio SCEVOLA volle si aggiungesse alla deffinizione dei gentiles serbataci da Cicerone, è quello che spiega la superiorità delle genti patrizie di fronte alla plebe. Esse avevano attraversato un lungo periodo di lotta e di privata violenza vincitrici sempre e non vinte mai, e quindi la loro gentilitas era indizio, che esse appartenevano alla classe dei vincitori, il cui sangue non erasi mai mescolato con quello dei vinti, dei servi e dei clienti, donde la conseguenza eziandio, che il vocabolo patricii in sostanza non significava che gli ingenui, il quale ultimo vocabolo allude ap punto alla niuna mescolanza del loro sangue con quello servile. Questi due caratteri sono dimostrati anzitutto dalle varie diffinizioni della gens stateci trasmesse da Varrone, da Festo, da Isidoro e da altri, le quali accennano tutte alla discendenza dei gentili da un antenato comune, e da quella anche di Cicerone, il quale, parlando di un nome comune – “qui inter se codem nomine sunt” -- non esclude certamente, ma conferma il carattere della comune discendenza e in tanto vi aggiunge quello della ingenuità non interrotta dei gentiles. Questa del resto è pur confermata da ciò, che la plebe stessa nelle sue discussioni coi patrizii se non ammetteva la loro discendenza dal divino riconosce però, che il vocabolo “Patrizio” nelle sue origini significa “ingenuo”. Di qui intanto si comprende come dapprima il patrizio e poscia tutti i cittadini romani avessero *tre* appellazioni. La prima – “prae-nomen” -- indicava l'individuo. L’altra e il vero nome – “nomen” --  designa la gente, a cui egli appartene in quanto la gente e in certo modo il gruppo che contene le diverse famiglie. La terza infine – “cognomen” – designa la famiglia, in quanto questa era una particolare diramazione, della gente. A queste appellazioni si potevano poi anche aggiungere (1) Festus, vo Gentilis: « Gentilis dicitur ex eodem genere natus, et is qui simili nomine appellatur ». Bruns, Fontes; VARRO, De lingua Latina. “Ut in hominibus quaedam sunt agnationes ac gentilitates, sic in verbis; ut enim ab Aemilio homines horti Aemilii ac gentiles, sic ab Aemilio nomine declinatae gen tilitates nominales.” Bruns, Fontes, Isidoro. “Gens est multitudo ab uno principio orta, appellata propter generationes familiarum, id est a gi gnendo uti natio a nascendo.” Bruns; CICERO, Top. “Gentiles sunt qui inter se eodem nomine sunt.” “Qui ab ingenuis oriundi sunt.” “Quorum maiorum nemo servitutem servivit.” “Qui capite non sunt deminuti.” V. anche Livio. Per ciò che si riferisce ai nomi romani è da vedersi il MICHEL, “Du droit de cité romaine” (Paris), e sopratutto la trattazione veramente magistrale del MarQUARDT, “Das Privatleben der Römer,” che nota come vi fossero gruppi, che non avevano cognomen, come gli Antonië, i Duilii, i Flaminii ecc. Quanto agl’esempi citati nel testo a pag.40, è pare a vedersi Bonghi, “Storia di Roma”, “Appendice sulle primitive genti patrizie”, nella parte, che si riferisce alla gens Claudia e Cornelia] uno o più soprannomi – “agnomina” -- che servivano a contraddistinguere l'individuo stesso o per essere egli stato adottato da altra famiglia, o per impresa da lui compiuta, o per indicare le suddistinzioni operatesi nella stessa famiglia. Può darsi che in antico potesse esservi anche qualche indicazione della località abitata dalla gente, a cui apparteneva l'individuo, come lo dimostrano i soprannomi di “Regillensis”, “Collatinus,” e simili. Di questo si ha un indizio nel fatto, che allora quando il territorio di Roma e veramente distribuito in tribù locali, anche la indicazione della tribù comparve a completare le denominazioni del cittadino romano, e precedette anzi il soprannome suo particolare. Del resto, questi caratteri particolari della “gens” sono anche comprovati dalla radice “gen,” comune alla “gens” latina e al “genos” dei greci, che significa “generare” e produrre; come pure da ciò, che i nomi gentilizii sono nomi di persona piuttostochè di luoghi, e che i diritti gentilizii, come il ius hereditatis, il ius curae, il ius sepulchri sono di carattere eminentemente privato. Così è pure dei sacra gentilicia, i quali da Festo sono annoverati fra i sacra privata, che sono a spese delle singole genti, e contrapposti ai sacra pubblica, che si compiono invece a pubbliche spese. Solo sembra far eccezione il ius decretorum. Ma oltrecchè questo diritto sembra nel periodo storico esercitarsi di preferenza in cose d'ordine privato, il medesimo puo facilmente essere spiegato quando si consideri, che la genteha compiuto un tempo funzioni politiche, che non puo scomparire di un tratto anche colla formazione di Roma. Tali sono le appellazioni di Publius Cornelius Scipio Aemilianus, di Lucius Cornelius Scipio Asiaticus, di Publius Cornelius Lentulus Spinther, ecc. V. Mar QUARDT. VARRO, De ling. lat. “In hoc ipso analogia non est, quod alii no mina habent ab oppidis, alii aut non habent, aut non, ut debent, habent.” BRUNS. FESTUS, p Publica: “Publica sacra, quae publico sumptu pro populo fiunt, quaeque pro montibus, pagis, curiis, sacellis, et privata, quae pro singulis hominibus, familiis, gentibus fiun.” Bruns. I casi ricordati dalla storia, in cui le gentes si sarebbero valse del ius decretorum, sarebbero i seguenti. La gens Fabia vieta ai suoi membri il celibato e la esposizione degl’infanti (Dionisio). La gens Manlia proscrive il prenome di Marcus (Livio). Affine, la gens Claudia proscrive il prenome di Lucius (Svet., Lib. I), che ri chiamavano per esse tristi ricordi. Più tardi però e il Senato, che prende simili provvedimenti, vietando il prenome di Marcus agl’Antonië (Plut., Cic., 19), e quello [È invece assai più difficile l'argomentare quale potesse essere l'organizzazione interna della gens da quelle poche traccie, che ne rimangono nel periodo storico. Non si può anzitutto accertare, se la gens ha sempre e costantemente un proprio capo – “princeps gentis” --, o se il medesimo invece fosse eletto dal consiglio dei padri o indicato dall'anzianità di nascita, solo allorchè trattavasi di qualche impresa da compiere, come quando, ad esempio, Atto Clauso abbandona Regillo per recarsi a Roma. Questo però è certo, che la gente dove avere un consiglio di anziani o di padri, che raccoglieva in sè la somma dei poteri, e conserva e trasmetteva le tradizioni della gente. Era nel suo seno, che si sceglievano gli arbitri e gli amichevoli compositori delle controversie, che potevano sorgere fra i varii capi di famiglia, che appartenevano alla medesima gente. Era questo consiglio parimenti, che sull’ “ager gentilicius” fa degli assegni di terre ai clienti, ed attribuie gl’ “Heredia” alle nuove famiglie che si formavano nel seno della gente. E il medesimo ancora, che poteva richiedere il servizio militare non solo dei suoi membri – “gentiles” -- ma anche dei dipendenti da essa – “gentilicii”. Cosi pure era questo consiglio, che sovra intende alla condotta dei singoli capi di famiglia, prevenne e reprime l’abuso dell'autorità domestica, ed impede eziandio che i capi di famiglia, contro il buon costume della gente, disperdessero quei beni – “bona paterna avitaque” -- di cui in certo modo erano custodi nel l'interesse proprio e della famiglia e che, potendo, dovevano trasmettere ai proprii eredi. E la gente infine che, in mancanza di prossimi agnati, e chiamata a succedere al capo di famiglia morto senza eredi suoi, e che dove perciò anche provvedere alla tutela perpetua delle femmine e a quella dei figli, che fossero rimasti or di Cnaeus ai Calpurnii Pisones (Tacito). Parteno eziandio dalla gens i provvedimenti, che riguardavano la sepoltura. È da vedersi in proposito l'opera di Henri DANIEL LACOMBE, “Le droit funéraire à Rome” (Paris), dove dice che la gens conserva il suo sepolcro gentilizio, finchè si mantenne la sua organizzazione e l'unione stretta fra i suoi membri, cioè fin sotto il principato. E allora che incominciano i sepolcri di famiglia od ereditarii. Secondo quest'autore, mentre i liberti partecipavano ai sacra gentilicia, e quindi probabilmente anche al sepulchrum gentilicium, essi invece erano esclusi del sepolcro della famiglia, al quale hanno diritto soltanto gl’agnati. In proposito del princeps gentis o magister gentis è da vedersi Voigt, “Die XII Tafeln,” ove parla dei poteri al medesimo spettanti.] fani prima di essere pervenuti alla pubertà, come pure doveva essere essa, che facevasi vindice delle offese, che fossero recate ad alcuno dei membri che entravano a costituirla. Da ultimo, fra i membri della gente esiste l'obbligo della reciproca assistenza, per cui dovevano essere alimentati se indigenti, riscattati se prigionieri, sostenuti nelle loro controversie, e vendicati se fossero stati uccisi od ingiuriati. Se a tutto ciò si aggiunga il vincolo del nome, quello del culto, e quello del sepolcro, e facile il comprendere come un gruppo così intimamente connesso, unito nel passato e nell'avvenire, in vita e dopo la morte, nelle cose divine ed umane non potesse essere facilmente distrutto dalle influenze contrarie che si vennero svolgendo nella città. Esso continua, durante il periodo storico, ad avere una quantità di istituzioni tutte sue proprie, come lo dimostrano i vocaboli di “gentilis” e di “gentilicius”, l'esistenza anche nel periodo storico di un “ager gentilicius”, quelli dei “sacra gentilicia”, del “sepulchrum gentilicium”, per modo che, anche prima del formarsi di Roma, dove svolgersi tutto un “ius gentilicium”, che governa appunto i rapporti fra le varie persone, che entravano a costituire il gruppo gentilizio. Esso quindi non deve confondersi col “ius gentilitatis”, che indica il complesso dei diritti spettanti ai gentiles, al modo stesso che il “ius civitatis” indica i diritti spettanti al civis. Così pure non può esservi dubbio, che il vocabolo di “iura gentium”, che poscia ebbe a prendere un così largo svolgimento, dove nascere già in questo periodo per indicare appunto i rapporti, che intercedevano fra le varie genti e i capi delle medesime. Quanto ai poteri della gens, tanto sui gentiles quanto sui gentilicii, è a vedersi Voigt, “Die XII Tafeln”. La bibliografia copiosissima intorno alla gens può vedersi nel BOUCHÉ-LECLERCQ, “Institutions romaines”, come pure nel WILLEMS, “Le droit public romain”. Fra gli autori che tentarono la “ri-costruzione” del “ius gentilicium”, sono a vedersi sopratutto KARLOWA, Römische R. G., MUIRHEAD, Histor. Introd. Parmi tuttavia importante il distinguere il “ius gentilicium”, che comprende anche i rapporti fra la classe superiore dei gentiles e quella dei dipendenti da essi o gentilici, il “ius gentilitatis” che significa il complesso dei diritti spettanti ai membri di una stessa gente (gentiles), e i “iura gentium”, che governano i rapporti fra le varie gentes. Fra gl’istituti di questo “ius gentilicium”, quello che più merita di essere preso in considerazione è certo quello della clientela, essendo essa una delle cause del numero e dell'importanza, a cui giunsero i gruppi gentilizii. I clienti, durante il periodo storico, costituiscono una classe inferiore di persone, che appare vincolata al patriziato da certe obbligazioni di carattere ereditario, in contraccambio della protezione e difesa che esso gli accorda. Le due persone, fra cui intercede questo vincolo ereditario, sono indicate coi vocaboli di patrono e di cliente, il quale ultimo vocabolo, secondo l'opinione ora generalmente adottata, deriva da “cluere”, che significa audire nel senso di essere obbediente. Come tali, i clienti entrano a far parte della gente, a cui appartiene il loro patrono, ma non assumono perciò la quantità di gentiles. Ma quella soltanto di gentilicii e costituiscono cosi nel gruppo gentilizio una classe di uomini, di condizione inferiore, che in una posizione già alquanto migliorata corrisponde all'ordine dei servi e dei famuli in seno dell'organizzazione domestica. Il servo e il famulo non partecipano al ius gentilitatis, ma sono sotto la tutela del ius gentilicium. È Dionisio quegli, che ci ha conservato l'enumerzione più particolareggiata delle obbligazioni e dei diritti, che intercedono fra il patrono ed il cliente, attribuendo l'istituto della clien [Willems, “Le droit public romain” -- Non potrei però convenire in ciò, che Willems considera i clienti come una classe speciale di cittadini di diritto inferiore, perchè la clientela in ogni tempo e sempre considerata come un rapporto di diritto privato e non mai come un rapporto di diritto pubblico, che basta ad attribuire da solo la qualità di cittadino. I clienti poterono poi avere tale qualità quando hanno degli assegni in terre dal proprio patrono, mediante cui poterono figurare nel censo, ma non si capisce come potessero essere considerati come cittadini e avere il diritto di suffragio persone, le quali non potevano nep far valere direttamente le proprie ragioni in giudizio, ma abbisognano perciò del patrono. Questa è ancora sempre una conseguenza della confusione fra l'organizzazione gentilizia e l'organizzazione politica. BRÉAL, Dict. étym. lat., vo Clueo. Cfr. MUIRHEAD, Encyclopedia Britannica, vº Patron and client] -- tela allo stesso Romolo. Ma egli è evidente, che anche la sua descrizione già altera alquanto le fattezze della clientela, stante lo sforzo fatto per trasportare nella convivenza civile e politica un'istituzione, che ee ata e si era svolta nell'organizzazione gentilizia. Secondo Dionisio, il cliente ha delle obbligazioni, nelle quali si può scorgere un carattere, che noi chiameremmo semi-feudale. Il cliente infatti deve al patrono riverenza e rispetto; deve accompagnarlo alla guerra; soccorrerlo pecuniariamente in certe occasioni, come nel caso di matrimonio delle proprie figlie, e di riscatto di sè e dei figli se siano prigionieri, come pure deve concorrere con lui a sostenere le spese di giustizia, ed anche quelle dei sacra gentilicia. Ciò tutto fa credere, che i clienti ottenessero dai loro patroni delle terre a titolo di precario, dalla cui coltura potevano ricavare dei proventi che loro appartenevano, e che le terre loro assegnate facevano parte dell' “ager gentilicius”, proprietà collettiva della gente; il che non rende esatta, ma spiega l'etimologia as segnata al vocabolo di clientes, che si dicevano così chiamati “quasi colentes”, perché avrebbero coltivate le terre dei padri. Infine, Dionisio parla perfino dell'obbligazione del cliente di non poter votare contro il patrono, la quale dimostrerebbe come la clientela, adatta al gruppo gentilizio, venne ad essere un'istituzione ripugnante al carattere di una comunanza civile e politica. Alla sua volta poi il patrono dove al cliente protezione e difesa, e quindi e tenuto a provvederlo diciò, che fosse necessario per il sostentamento di lui e della sua famiglia, il che facevasi mediante concessione di terre, che il cliente coltiva per suo conto. Esso dove di più assisterlo nelle sue transazioni con altre persone, rappresentarlo in giudizio, apprendergli il diritto – “clienti promere iura” -- , ottenergli risarcimento per le ingiurie patite, averlo in certo [È Servius, In Aeneidem, 6, 609, che vuol derivare il vocabolo di “clients” da “quasi colentes”. “Si enim clientes quasi colentes sunt, patroni quasi patres, tantundem est clientem quantum filium fallere.” (Bruns). Parmi tuttavia che, tenendo conto del contesto della frase di Servio, qui il vocabolo quasi colentes non accenni tanto al coltivare le terre, quanto piuttosto all'osservanza ed alla riverenza del cliente verso il patrono, per guisa che anche l'etimologia di Servio confermerebbe quella oggidì adottata. Questo passo di Dionisio, in cui egli riporta le obligazioni rispettive del patrono e del cliente, attribuendo in certo modo l'origine della clientela a Romolo, è riportato dal Bruns, Fontes] modo in considerazione di membro della gente, ancorchè in condizione inferiore, in quanto che nella gerarchia gentilizia il cliente venne bensì dopo gl’agnati, ma era prima dei cognati e degli affini, i quali appartenevano ad un altro gruppo. Questi obblighi poi scambievoli, in mancanza di sanzione giuridica, sono collocati sotto la protezione del “fas” come lo dimostra la legislazione posteriore di Le XII Tavole, la quale, sanzionando un obbligazione certo preesistente, ebbe a stabilire – “si patronus clienti fraudem fecerit, sacer esto” -- ed al pari di tutti gli altri rapporti gentilizii hanno un carattere ereditario. Infine, siccome patrono e cliente appartengono entrambi allo stesso gruppo gentilizio, ancorchè in posizione diversa, cosi Dionisio va fino a dire, che essi non possono proseguirsi reciprocamente in giudizio, condizione anche questa, che, consentanea al carattere dell'organizzazione gentilizia, ripugna invece a quello della convivenza civile e politica, ove ognuno deve avere il mezzo di poter far valere le proprie ragioni davanti ad un'autorità, che accorda a tutti la propria protezione. Basta questa esposizione per dimostrare, come la clientela e un istituto nato e svolto nell'organizzazione gentilizia prima esistente, che continua ancora per qualche tempo a produrre i proprii effetti a Roma, ove tuttavia si trova compiutamente disadatto, perchè ripugna a quell'uguaglianza di posizione giuridica, che deve esservi fra coloro, che partecipano alla medesima cittadinanza. Essa quindi era destinata necessariamente a scomparire o quanto meno a trasformarsi, in quanto che nella città le persone, che trovansi in condizione inferiore, possono essere aggruppate nella plebe e fare a meno della protezione del patrono, essendovi un'altra autorità che li tutela. Di qui la conseguenza, che la clientela potè ancora mantenersi finchè i due ordini in lotta fra di loro si [MASURIUS SABINUS – “In officiis apud maiores ita observatum est.” “Primum tutelae, deinde hospiti, deinde clienti, tum cognato, postea adfini.” HUSCHKE, Jurisp. ante-iust. quae sup. -- Aulo Gellio invece accenna ad un'altra opinione, che dà la preferenza al cliente sull'ospite. Noct. Att., V, 13. Che poi il cliente entri in certo modo a far parte della famiglia è affermato da Festus, vº Patronus. « Patronus a patre cur ab antiquis dictus sit, manifestum; ut quia ut liberi, sic etiam clientes numerari inter domesticos quodammodo possunt >; Bruns, pag. 351. Cfr. Karlowa, Römische R. G., attenneno ancora strettamente alla propria organizzazione e rappresentano in certo modo due elementi fra di loro contrapposti nella medesima Roma. Ma dopo il pareggiamento invece dei due ordini, la clientela riusce solo più a mantenersi di nome, anzichè di fatto. Senza più importare quegli obblighi di carattere religioso ed ereditario, che ne conseguivano un tempo. I clientes si scambiarono cosi in semplici aderenti, che accompagnavano il patrizio od anche l' “homo novus” nella piazza e nel foro e ne costituivano in certo modo il corteo, e diventarono anche semplici salutatores; il che tuttavia non tolse, che il vocabolo “cliente” sopravvive alla istituzione da esso indicata, e rimanesse ad indicare il rapporto di colui che si affida al patrocinio legale di un'altra persona, ricordando così uno dei primitivi uffici, che il patrono ha certamente avuto verso il proprio cliente. Tuttavia, anche dopo il pareggiamento dei due ordini, allorchè la vera clientela già scompare nei rapporti fra i cittadini romani. Noi la vediamo sopravvivere nei rapporti dei cittadini romani colle altre genti, in quanto che trovansi le traccie di un ius applicationis, la cui origine rimonta alle tradizioni gentilizie, col quale un individuo, un municipio, un re od un popolo straniero ricorrevano al patronato di un cittadino romano per far valere o avanti al Senato o davanti ai magistrati di Roma ragioni e diritti che essi non sarebbero stati in caso di far riconoscere. Così pure nell'interno di Roma, la clientela, ancorchè scomparsa come istituzione giuridica, continua pur sempre ad esercitare una grandissima influenza sopratutto nel periodo dell’elezione -- nel quale tutte le aderenze si mettono in movimento e quindi anche quelle che ricordano uno stato di cose ormai scomparso. Accenna al ius applicationis CICERONE, De orat. ma sembra che già ai suoi tempi fosse assai oscuro il carattere di questa istituzione. Sonvi però autori, che, come MISPOULET, vorrebbero scorgere nelmedesimo la forma contrattuale della clientela. “Les institutions politiques de Rome” (Paris). In ogni caso converrebbe pur sempre dire, che il ius applicationis poteva essere la forma, che riveste il rapporto della clientela nell'epoca romana, ma non si potrebbe affer mare altrettanto dell'epoca gentilizia. Le formole epigrafiche, da Mispoulet citate in nota, si riferiscono alla così detta pubblica clientela, che era già stata creata a somiglianza di quella prima esistente. Del resto punto non ripugna, che anche la clientela potesse assumere un carattere contrattuale e che la formola di essa puo anche essere analoga a quella ricostrutta da Voigt. “Te mihi patronum capio. At ego suscipio poichè noi troviamo qualcosa di analogo anche nella deditio”. G. CARLE, “Le origini del diritto di Roma”. Quanto alla clientela, e sopratutto disputata ed ha veramente grande importanza la questione intorno alla origine di essa. Si è sostenuto in proposito che i clienti fossero i primi plebei stati ripartiti da Romolo sotto il patronato dei patrizii; che essi fossero i primi abitanti del Lazio ridotti a vassalli; che fossero gl’immigranti in Roma in seguito all'asilo aperto da Romolo; che essi infine fossero antichi servi manomessi, la quale opinione, posta innanzi da Mommsen, si appoggerebbe sull'analogia, che corre fra gl’obblighi primitivi del cliente verso il patrono e quelli che ancora si mantengono durante il periodo storico a carico dei *liberti* verso il patrono. Di queste varie opinioni, quella che andrebbe a sorprendere la clientela nella sua prima formazione e che sembra essere più con sentanea al carattere dell'organizzazione gentilizia è l'opinione soste nuta da Mommsen, per cui i primi clienti della gente sarebbero stati i servi, i quali, manomessi dopo un lungo e fedele servizio nel seno della famiglia, sarebbero diventati clienti nel seno della gente, a cui appartene il proprio patrono. Ciò e non solo naturale, ma indispensabile nell'organizzazione gentilizia in quanto che, se cosi non e stato, i servi manomessi si sarebbero trovati abbandonati a se stessi e staccati da quel gruppo, al di fuori del quale non poteva esservi protezione giuridica, finchè non fu costituita una vera autorità civile e politica. Si aggiunge che l'organizzazione gentilizia è una formazione naturale e spontanea, che cerca in ogni suo stadio di bastare a se stessa, e tende così a ricavare dal proprio seno tutti i suoi successivi sviluppi. Viene quindi ad essere naturale e serve anche a dare una certa elasticità ai varii gruppi gentilizii e a permettere il passaggio da uno ad un altro la costumanza per cui coloro, che erano stati famuli o servi nella famiglia, potessero essere accolti come clienti o gentilicii nella gente. La clientela in tal modo venne a costituire una condizione relativamente più elevata a cui poteva aspirare il servo, e si comprende eziandio come la sua co-abitazione in una famiglia potesse da una parte disporre la gente a renderlo partecipe del culto e del sepolcro gentilizio, mentre dall'altra la sua fedeltà ed obbedienza nella qualità di servo e preparazione all'ossequio ed alla riverenza del cliente, L'esposizione più particolareggiata delle varie opinioni, colla indicazione degli autori, che ebbero a professarle, occorre nel.WILLEMS, “Le droit public Romain”, e nel Borché-LECLERC, “Instit. Rom.” È in questo senso che il concetto del Mommsen può essere accettato. Ma il medesimo vuol essere reso compiuto col ritenere che qui dovette verificarsi un processo, che è comune a tutte le istituzioni, per cui, una volta creata la configurazione giuridica della clientela per mezzo di elementi usciti dal seno stesso dell'organizzazione gentilizia, si poterono poi fare entrare in essa tutti coloro, che essendosi per qualsiasi causa staccati da un gruppo abbisognavano di collegarsi ad un altro e di mettersi sotto la protezione o difesa di esso. Come quindi e naturale, che il servo affrancato dal capo di famiglia divenne cliente della gente a cui esso appartene, così dovette pure essere naturale, che una volta creato il rapporto religioso, giuridico ed ereditario della clientela e compresi nella medesima anche gli immigranti, che si rifugiano presso la gente, vincolandosi mediante il ius applicationis ad uno dei membri di essa, che ne diventava il patrono. Quelli, che per un diritto di guerra universalmente riconosciuto fra le varie genti, essendo posti nella condizione di dediticii, venivano ad esser privi di religione, di territorio, e di mezzi di sussistenza. Quelli, che erano soggiogati e vinti da una gente o tribù, che sopravveniva e si imponeva nel sito da essi occupato. Quelli che, fermata la propria sede accanto ad uno stabilimento di casate patrizie, ne ottenevano concessioni di terra e riconoscevano così il patronato delle medesime. Tutti quelli insomma, che in un'epoca di lotta e di violenza cercano protezione e difesa presso la gente, e che questa, per affinità di stirpe o per altro motivo, riteneva di poter accogliere nella comunanza gentilizia, assegnando pero ai medesimi una posizione subordinate. Cio intanto dimostra come la clientela e una istituzione indispensabile in questo periodo di organizzazione sociale. Serve ad incorporare nel gruppo gentilizio persone, che altrimenti si sarebbero trovate nell'isolamento e percio prive di diritto, e quindi, mentre da una parte accresce il numero e la forza delle genti, dall'altra procura al cliente una protezione giuridica, di cui e stato altrimenti privato. In questo senso non è certamente [Questa più larga estensione data all'origine della clientela, che, senza escludere l'opinione di Mommsen, la comprende, sembra essere giustificata dal seguente passo di Gellio: “Clientes, qui in fidem patrociniumque nostrum sese dediderunt”] destituita di fondamento la potente intuizione del nostro Vico. Vico ritenne che la clientela o come egli la chiama il “famulato” e un mezzo indispensabile per giungere al governo civile, in quanto che essa e il primo mezzo,mediante il quale individui e famiglie di origine diversa poterono, coll'accettare una posizione dipendente e subordinata, essere aggregate ad un gruppo, a cui non apparteneno per nascita, senza tuttavia essere assorbiti intieramente nel gruppo stesso nella qualità di famuli e di servi.  Non può quindi essere accolta l'opinione di coloro, che vorrebbero collocare il cliente in una posizione intermedia fra il servo ed il plebeo, poichè sebbene sia vero che l'uno poteva trasformarsi nel l'altro, tuttavia la clientela e la plebe sono istituti, che compariscono in stadii diversi dell'organizzazione sociale. Mentre la clientela appartiene ancora totalmente all'organizzazione gentilizia, il comparire invece della plebe segna già l'iniziarsi della vita civile e politica in seno della tribù, donde la conseguenza che la città formandosi soffoca la clientela, mentre verrà invece a somministrare il terreno, sovra cui la plebe potrà dispiegare la propria attività ed energia. Al disopra della gens compare infine nella organizzazione delle genti italiche un'aggregazione più vasta, che è quella della TRIBU, come lo dimostra il fatto, che, secondo la tradizione, sarebbe dal confederarsi delle tribù dei Ramnenses, dei Titienses e dei Luceres, che sarebbe uscita Roma, allorchè essa cesso di essere il primitivo stabilimento romuleo. La tribù tuttavia, delle istituzioni anteriori a Roma, è certo la più difficile a ricostruirsi nelle sue primitive fattezze. Siccome infatti essa, per le funzioni esercitate, e tra le varie aggregazioni quella, che più si accosta Roma, così è anche quella, che per la prima e assorbita dalla medesima, per modo che il nome stesso delle tre tribù primitive di Roma sarebbesi forse perduto, se non l'avesse [Vico, Scienza nuova, Lib. II. – “Della famiglia dei famoli innanzi delle città, senza la quale non potevano affatto nascere le città” – Milano] conservato la curiosità investigatrice di qualche antiquario, e non ne fossero rimaste le vestigia nelle VI centurie degli equites -- VI suffragia -- composte dei Ramnenses, Titienses e Luceres primi et secondi. Gli è perciò che come e assai difficile il discernere la gente dall'aggregazione più ristretta dalla famiglia, cosi non è meno difficile il constatare in qual modo alle genti venga a sovrapporsi la tribù e come, riunendosi le prime, venga ad apparire la seconda. Di questo pero possiamo essere certi, che le tribù primitive di Roma risultavano composte da una aggregazione di genti, le quali si venivano raggruppando intorno al capo di una gente prevalente fra tutte le altre, da cui desumevano il loro nome complessivo, il quale percio e ricavato dalla persona che guida la tribù, più che dal luogo, ove questa era stabilita. Così, per arrestarsi alle due tribù primitive, la cui origine è meglio accertata, si può essere certi, che la tribù dei “Ramnenses” rica il proprio nome complessivo da “Romolo” *e* da “Remo”, che sono a capo di essa, secondo la tradizione. Il che è pure di quella dei “Titienses”, il cui nome deriva da Tito Tazio, capo della tribù sabina, stabilita sul Quirinale. Nel che è anche a notarsi, che il nome della tribù viene ad essere composto in guisa diversa da quello della gens, per guisa che mentre parlasi di una gens “Romilia”, “Titia” è “Claudia”, le tribù invece vengono ad essere dei Ramnes o Ramnenses, dei Tities o Titienses, e dei Claudienses. Di qui pud indursi, che la [Non mancano negli autori delle trattazioni anche relativamente alla tribù; ma di regola essa suol essere considerata come una ripartizione della città, nè cer casi di ricostruire la tribù primitiva, che sola può porgere il mezzo di comprendere la formazione della città. Tutti però concordano in riconoscere, che altre sono le tribù primitive, fondate sul vincolo genealogico, ed altre quelle posteriori introdotte da Servio Tallio, desunte invece dalle località, ove erano stabilite. Cfr. CARLOWA, “Römische Rechtsgeschichte”. Non può certamente essere accettata l'etimologia di VARRONE, De ling. lat. (Bruns), il quale vorrebbe in certa guisa far derivare il nome delle tre tribù dalle tre parti dell'agro, che sarebbe stato fra esse distribuito. “Ager romanus, primum divisus in partes *tres*, a quo tribus appellatae Titiensium, Ramnium, Lucerum.” Infatti l'opinione di Varrone in questa parte è contraddetta da Livio, da Servio, da Dionisio, che fanno invece derivare il nome delle tre tribù non dalle località, ma dal nome dei loro capi. È quindi evidente, che qui VARRONE confuse in certo modo le tribù primitive con quelle di Servio Tullio, come lo dimostra il [tribù comincia a delinearsi, allorchè viene ad avverarsi un'aggregazione di gentes, le quali, non essendo più strette dal vincolo della comune discendenza, si raggruppano intorno al capo della stirpe prevalente fra di esse e mentre conservano in particolare i proprii nomi gentilizii, assumono in comune un nome, che desumono dal proprio capo. Questa formazione novella viene poi ad essere determinata ogni qualvolta un'impresa o spedizione qualsiasi può porgere occasione a questo aggregarsi delle gentes. Di qui la conseguenza che la tribú - o può assumere un carattere pressochè militare, come accadde della tribù dei Ramnenses, che sarebbesi formata fra le genti albane in occasione di una spedizione di carattere militare, o può invece avere il carattere di una propria comunanza di villaggio, come era di quella dei Titienses già stabilita sul Quirinale. Tanto nell'uno quanto nell'altro caso la tribu assume immedia tamente un carattere religioso, ponendosi sotto la protezione del divino domune patrono – “dius”, “dius-piter” --  perchè fra le genti non si puo comprendere un'aggregazione qualsiasi senza un vincolo religioso che la stringa insieme. Qui intanto l'unificazione del gruppo divenne indispensabile, anche per l'intento che la tribù si propone di conseguire, e quindi viene ad accentuarsi assai più che nella gente la figura di un capo, che prende il nome di “praetor” o di dic. fatto, che egli dopo continua con dire. “Ab hoc agro quatuor quoque partes urbis tribus dictae ab locis, Suburana, Palatina, Esquilina, Collina, etc.” Del resto non pud neppure ammettersi, che occorresse una divisione dell'agro fra le TRE TRIBU, dal momento che ciascuna continua ad avere il proprio terrritorio, salvo che si tratta, non di una ripartizione di territorio, ma di una divisione meramente amministrativa, come dovette appunto essere. Secondo Bouché-LECLERCQ, la cui competenza è incontrastabile nella parte, che si riferisce alla religione di Roma per i suoi studii sui pontefici e sull'arte della divinazione, il culto delle tribù de' Ramnenses sarebbe stato quello di Marte e QUIRINO quello della tribù dei Titienses sarebbe stato quello di QUIRINO e di Giano. Quello infine della tribù de' Luceres sarebbe stato quello di Giove, sebbene queste varie divinità sembrino talvolta confondersi fra di loro, il che accade quanto a Marte e a Quirino, come pure di Giove e di Giano. Si può aggiungere, che del triplice divino rimasero ancora le traccie nei tre flaminimaggiori, che sono quelli di Marte, di QUIRINO e di Giove (Gaius I, 112). Di qui LECLERCQ ricava indizi dei diversi stadii, che Roma ha a percorrere nella sua formazione progressiva. “Institutions Romaines”] tator, se la tribù si trova avviata ad una spedizione; di iudex in tempo di pace; di magister pagi, se trattisi di una comunanza di villaggio già ferma in un determinato sito; dimeddix, come accadeva presso gl’osci, ed infine anche di rex, sebbene questo vocabolo, sembri comparire di preferenza quando trattisi del capo di una città propriamente detta. Tuttavia questo capo suol essere nella tribù ancora designato di preferenza dalla nascita, che non dall'elezione; come lo dimostra il fatto, che i due duci della tribù dei Ramnenses sono entrambi di stirpe regia e per essere *gemelli* debbono conoscere mediante gli auspicii quale di essi sia chiamato a fondare la città, o meglio il primo stabilimento romuleo sul Palatino. Quando invece da capo della tribù dei Ramnenses, Romolo dove già trasformarsi in reggitore della “civitas”, formatasi mediante la confederazione di varie tribù, in allora, secondo Dionisio, e già necessaria l'approvazione dei padri e la creazione del Popolo. Però accanto al capo si mantiene ancor sempre un consiglio, che può continuarsi a chiamare dei patres, perchè è effettivamente composto dei capi delle singole genti, e a cui probabilmente già viene data la denominazione di “senatus”. Infine, nella tribù già può avverarsi la riunione – “comitium” – degl’uomini, che colle armi – “iuniores” -- o col consiglio – “seniors” -- possono provvedere alla comune difesa od al comune in teresse; donde la conseguenza, che già nella stessa tribù può venirsi iniziando il concetto eminentemente concreto ed organico del “populus”, salvo che gl’elementi per costituirlo si ricano ancora direttamente dalle varie genti – “ex generibus hominum” -- cosicchè la sua classificazione continua ancora sempre ad avere un carattere prettamente gentilizio.  Questa naturale formazione della tribù dimostra, come la medesima corrisponda fra le genti italiche a ciò che per l'Oriente suol essere indicato col vocabolo di “vîc” o comunanza di villaggio, e fra I greci col vocabolo di dñuos. Essa costituisce in certo modo [Dion., HAUSSOULIER, “La vie municipale en Attique”. Devo però far no tare che, secondo l'autore, il demos dei Greci sarebbe già una vera associazione civile e politica e corrisponderebbe alla “curia” e più soventi al “pagus”, sebbene a mio avviso la curia ed il pagus siano due cose compiutamente diverse. La “curia”, infatti, è una divisione politica di Roma. Il “pagus” e la località, in cui dimora la tribus. Crederei quindi più esatto che il demos corrisponda a quest'ultima.] il più largo sviluppo, a cui pervenne l'organizzazione patriarcale, perchè mentre il suo elemento costitutivo e il modello, a cui si in forma, è pur sempre il gruppo gentilizio, da essa pero già si vengono elaborando quegl’elementi, che, trasportati nella comunanza civile e politica, finiranno per dare origine ad un rapporto del tutto nuovo, che è quello della “civitas”, il quale più non dispiegasi nel “pagus” come la “tribù”, ma bensi nell' “urbs”. Ben si potrebbe osservare contro questo tentativo di “ri-costruzione” concettuale, che la tribù mal puo essere l'ultimo stadio dell'organizzazione patriarcale, mentre essa ricompare poi come la prima ripartizione della città; ma anche ciò può essere facilmente spiegato quando si consideri, che era dalla tribus, che si sono ricavati i primi elementi, in base a cui si costituie Roma, come lo dimostrano anche i vocaboli di “tri-bunus”, “tri-butum”, “tri-bunal”, i quali tutti richiamano la “tribù”, e quindi era conforme al processo costantemente seguito nelle formazioni italiche, che l'edifizio novello di Roma si ripartisse nell'interno sul modello degli elementi primitivi, che con correvano a costituirlo. D'altronde è noto, che le tribù di Servio Tullio hanno un carattere di preferenza locale e non già genealogico come le tribù primitive. Intanto, senza volere per ora trattare a fondo dell'origine della plebe, non sarà inopportuno indicare, che è certamente colla formazione delle tribù, il cui nucleo è ancor sempre composto di genti patrizie, che può essersi iniziata la formazione della plebs, essendo naturale che attorno ad uno stabilimento di genti patrizie, che già riconoscono un capo, si venne formando una comunanza plebea, che provede al proprio sostentamento, o coltivando terre concesse dalle genti o dal capo di esse, o esercitando i mestieri e le professioni diverse. Il bisogno di questo nuovo elemento puo essere sentito dalle stesse genti, per quanto esse coi loro servi e coi loro client sono organizzate in guisa da poter bastare da sole a tutte le loro esigenze. Ciò è comprovato eziandio da quelle Quanto al diverso svolgimento di questi varii elementi in Roma, vedi Carle, “La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale”] come pure: Genesi e sviluppo delle varie forme di convivenza civile e politica, colle opere ivi citate. La distinzione è fatta nettamente da Dionisio, il quale chiama la tribù primitiva “qulai revikai” e quelle di Servio Tullo “qulai totikaí”. - 57 antiche formole, in cui parlasi di populus et plebes, dualismo il quale fa credere che dovette esservi un tempo, in cui si chiamo populus l'assemblea politica e militare ricavata dal seno delle genti, secondo il rito e l'ordine prescritto dalle consuetudini e dalle tradizioni, mentre invece si chiama plebes dapprima e poscia plebs (da “pleo”, riempire) quella moltitudine ragunaticcia, che dopo essersi cominciata a formare con clienti rimasti senza patrono e che come tali venivano ad essere esclusi dal gruppo gentilizio, potè poi una volta formata accrescersi in guise varie e molteplici. Questo infatti risulta dalla storia delle istituzioni sociali, che il compito più difficile nella grande povertà delle idee primitive è la formazione di un nuovo gruppo. Ma quando esso è formato e corrisponde alle esigenze dei tempi, viene ad essere un potente richiamo per tutti gl’elementi, che per questo o quel motivo si vengono staccando dall'organizzazione prima esistente, e che abbandonati a se cercano un nucleo novello a cui possano aderire. Riassumendo questa lenta e faticosa ricostruzione dell'organizzazione sociale delle genti Italiche anteriore a Roma, credo che la medesima abbia abbastanza dimostrato, come l'organizzazione stessa siasi venuta svolgendo mediante un processo di naturale e spontanea formazione, costituita in certo modo da altrettanti sedimenti, che si vennero sovrapponendo l'uno all'altro, in modo pero che gli elementi, che formansi in ciascuno di essi, subiscono delle trasformazioni allorchè passano in quelli che vengono dopo. Infatti, anche lasciando in disparte la grave questione della provenienza delle genti Italiche, è molto probabile, che esse già recassero con sè l'organizzazione gentilizia, quantunque la medesima non avesse forse assunto quelle determinazioni precise, che acquisto più tardi. Furono i conflitti delle genti colle stirpi già stabilite sullo stesso suolo, le lotte fra vincitori e vinti, e quelle eziandio fra le stesse genti migranti, che presto dimenticarono la discendenza comune, che produssero un irrigidirsi dei varii gradi dell'organizzazione gentilizia e condussero alla formazione di una potente aristocrazia territoriale, militare e religiosa ad un tempo, che attrasse anche i vinti nei quadri del proprio ordinamento, collocandoli però in una posizione subordinata a quella dei vincitori. Ne consegui che la famiglia, per rendersi atta a sostenere i conflitti cogli altri gruppi, si venne concentrando e raggruppando sotto il potere del proprio capo, il quale sembra quasi perdere l'aureola di padre per assumere quella di sacerdote, di giudice, di uomo di guerra e di fondatore di una schiatta destinata a perpetuarsi. Intanto le persone, cheda lui dipendono, si dividono in liberi o figli e in servi o famuli, due vocaboli che si contrappongono fra di loro ed indicano due classi di uomini, che rimarranno distinte per contrassegnare in certo modo la discendenza dei vincitori e quella dei vinti. Di qui quel carattere eminentemente monarchico della costituzione della famiglia gentilizia, che tenacemente conservato nella famiglia quiritaria fini per attribuire alla medesima quella speciale impronta, che i giureconsulti romani più non ravvisavano nelle istituzioni famigliari degl’altri popoli. La gente invece continua sempre a ritenere alquanto dell'elasticità primitiva, nè giunge ad una concentrazione uguale a quella della famiglia. Ma intanto, memore del culto del proprio antenato, custode gelosa delle proprie tradizioni, riunita e resa compatta dai comuni pericoli, accresciuta dai clienti, si cambia anch'essa in una specie di corporazione potente, che continua ad essere il perno del l'organizzazione gentilizia, e mentre da una parte tiene unite le famiglie, dall'altra, aggruppandosi con altre genti, dà origine alla tribù. Intanto però anche in essa continua quel dualismo, che già erasi rivelato nella famiglia, salvo che i rapporti fra quelli, che un di furono i vincitori e quelli che furono i vinti, rimettono al quanto della propria rigidezza, e vengono cosi a trovarsi di fronte i gentiles ed i gentilicii, i cui rapporti. prendono un carattere pressochè giuridico nel patronato e nella clientela. Così pure nella gente, accanto all'elemento monarchico della famiglia, già viene a svolgersi un elemento, che potrebbe chiamarsi aristocratico, il quale costituisce un consiglio degl’anziani, che concentra in sè medesimo le principali funzioni, che appartengono alla gente. Da ultimo, nella tribu havvi pur sempre un'aggregazione di genti, ma intanto fra le medesime già distinguesi una gente, che predomina su tutte le altre e viene così ad essere ritenuta come di stirpe regia. Di qui la conseguenza, che in essa compare la figura di un capo, che è il principe della gente, che predomina su tutte le altre, conservasi il consiglio degl’anziani, che già mutasi in senato, perchè è già composto dei capi di genti diverse, ma intanto aggiungesi l'elemento democratico o popolare, che componesi di tutti gl’uomini, che, ricavati dalle varie genti, possono valere come uomini di armi o come uomini di consiglio. Cio però non toglie, che continui sempre il dualismo, che già esi steva negli altri gruppi in quanto che accanto al popolo formasi la plebe, la quale trovasi dapprima al di fuori della comunanza gentilizia e ha percio più un'esistenza di fatto, che non un'esistenza di diritto. Essa è dapprima riguardata con disprezzo dal patriziato, perchè esce dai quadri consacrati dalla religione e dal diritto delle genti. Ma cio non toglie, che passandosi dall'organizzazione gentilizia a Roma essa sia l'unico elemento, che possa sostenere la lotta coll'antico ordine di cose. Per tal modo si ha nel periodo gentilizio una vera formazione naturale delle varie condizioni di persone e dei varii elementi, che entrarono più tardi a costituire la comunanza civile e politica. Che anzi, mentre dura ancora il periodo gentilizio, già si vengono lentamente e gradatamente elaborando quei concetti, che serviranno poi di base a Roma. “Tantae molis erat romanam condere gentem.” Non è già che questo processo di naturale formazione sia proprio soltanto delle genti italiche, in quanto che le traccie di essa appariscono evidenti presso tutte le stirpi di origine aria. Nessuna però giunse a racchiudere i varii stadii di questa formazione in forme più determinate e precise delle stirpi italiche, e sono esse parimenti che, gettando nel crogiuolo i materiali tutti elaborati e conservati nel periodo gentilizio, seppero ricavarne le basi e il fondamento di Roma. Ciò è stato provato largamente dal SUMNER MAINE, “L'ancien droit.” È poi interessantissima a questo proposito la comparazione, che fa Revillout fra l'organizzazione domestica dei romani e quella che vigeva presso gli Egiziani nella sua opera col titolo, “Cours de droit égiptien” (Paris) della quale può considerarsi come un compimento, per ciò che si riferisce alle forme di celebrazione del matrimonio, il lavoro del suo allievo PATURET, “La condition juridique de la femme dans l'ancien Egipte” (Paris). Fra i problemi, che presenta la storia delle istituzioni primitive di Roma, uno fra i più difficili per comune accordo degli autori è certo quello, che si riferisce all'origine di quella forma di “proprietà”, che suol essere indicata col nome di proprietà quiritaria, la quale in certo modo venne ad essere il modello, sovra cui si foggia la proprietà presso la maggior parte dei popoli civili. A questo proposito le tradizioni a noi pervenute sembrano presentare alcune contraddizioni a prima giunta inesplicabili. Da una parte infatti, anche dopo la formazione di Roma, si rinvengono ancora le traccie di una proprietà collettiva, conosciuta sotto il nome di “ager gentilicius” e di “ager compascuus”, mentre dall'altra la proprietà quiritaria si presenta fin dai proprii inizi con un carattere cosi assoluto ed esclusivo, che sembra perfino escludere la possibilità dell'esistenza anteriore di una proprietà collettiva. A cio si aggiunge, che mentre da una parte la storia primitiva di Roma ci dipinge il patriziato fin dai più antichi tempi in condizioni tali da concentrare nelle sue mani tutto il capitale – “pecunia” --  allora esistente, e come il proprietario pressochè esclusivo di una gran parte del territorio, dall'altra la tradizione parla di una ri-partizione fatta da Romolo del territorio di Roma e di un assegno da esso fatto di soli due iugeri – “bina iugera” --  ai capi di famiglia, che lo segueno, il quale assegno avrebbe co stituito il primo patrimonio – “heredium” -- del più antico patriziato, che era quello della tribù dei Ramnenses. Ecco i principali passi di filosofi che si riferiscono all'argomento. VARRONE:: “Bina iugera, quod a Romulo primum divisa viritim, quae heredem sequerentur, heredium appellarunt”. PLINIO: “Bina tunciugera populo romano satis erant, nullique maiorem modum attribuit (Romulus).” Lo stesso Plinio: “M. Curii nota dictio est, perniciosum intel legi civem, cui septem iugera non essent satis. Haec autem mensura plebi post ex ictos reges adsignata esto.” (Brons, Fontes). Se ne ricaverebbe pertanto - Non è quindi meraviglia se le congetture a questo proposito siansi avviate in direzioni compiutamente diverse. Alcuni ritenneno che la proprietà privata in Roma sia stata una creazione dello stato. Contro questa opinione si è osservato che l'idea di una sovranità territoriale e affatto ignota ai romani, per guisa che un'imposta fondiaria qualsiasi sarebbe loro parsa un segno di soggezione odioso tanto, che fino al principato, Roma e l'Italia ne furono escluse. In senso contrario, si fa pero notare, che non può ammettersi che la proprietà in Roma siasi potuta sottrarre a quella evoluzione storica, che sarebbesi avverata presso tutti i popoli, in quanto che Roma avrebbe esordito con un concetto della proprietà, che presso gli altr’popoli non si rinviene che quando essi sono pervenuti al termine della loro evoluzione. Ne deriva che, lasciando in disparte le gradazioni diverse delle opinioni intermedie, le teorie estreme si potrebbero ridurre essenzialmente alle seguenti. Vi ha l'opinione di Niebhur, di Mommsen, seguita anche da molti altri, fra cui noto De Ruggero, secondo cui la proprietà in Roma, come presso gl’altri popoli, sarebbe prima esistita sotto forma collettiva e non sarebbesi cambiata in proprietà esclusivamente privata ed individuale, che colla ammessione della plebe alla cittadinanza e cogli assegni di terre fatti dallo stato ai che ai primi fondatori dello stabilimento romuleo l'assegno non fu che di due iugeri, mentre poi più non parlasi di altri assegni fatti anche al patriziato. Per contro gli assegni posteriori, incominciando da Numa, appariscono fatti ai plebei ed anzi ai più poveri della plebe. Solo fa eccezione Cicerone, il quale dice che Numa divide fra i cittadini l'agro pubblico conquistato sotto Romolo – “agros divisit viritim viribus” (De rep.). Ma in ciò è contraddetto da Dionisio, il quale parla di una distribuzione da Numa fatta ai più poveri, Quanto agl'assegni attribuiti ai re, che vennero dopo, sono tutti fatti alla plebe, ed è dopo le leggi Licinie Sestie, che i medesimi furono portati a sette iugeri. Ciò è attestato fra gl’altri da Columella, De re rustica. “Post reges exactos Liciniana illa VII iugera, quae plebi tribunus viritim diviserat, maiores quaestus antiquis retulere, quam nunc nobis praebent amplissima vetereta.” Ho citato questi varii testi per provare, che il solo assegno fatto ai primi padri o capi di famiglia fu quello di II iugeri attribuito a Romolo, mentre gli altri sono fatti alla plebe; il che dimostra che i padri dovettero continuare ad avere i loro agri gentilizii. PADELLETTI, Storia del diritto Romano, con annotazioni di Cogliolo, Firenze, si sforza, e a parer mio, inutilmente, a dimostrare che il piccolo “heredium” di II iugeri puo bastare ai bisogni della famiglia, stante la coltura intensiva applicata al medesimo.] singoli cittadini; e vi ha quella invece, sostenuta con ardore dal nostro Padelletti, secondo cui sarebbe affatto esclusa questa origine collettiva dalla proprietà, in quanto che l'istituto della medesima, quale si è svolto fin dai più antichi tempi di Roma, per usare le sue stesse parole, avrebbe assunto un carattere spiccatamente privato ed avrebbe segnato il grado più perfetto, a cui sia pervenuto il regime della proprietà. È poi degno di nota che siccome oggidi la ricerca intorno all'origine delle proprietà assunse le proporzioni di una questione economica e sociale, in quanto che ad essa si rannodano teorie diverse intorno all'ordinamento delle proprietà, così la ricerca delle sue origini presso un popolo, le cui istituzioni esercitarono tanta influenza sopra tutti gl’altri, ha assunto eziandio il carattere di un problema economico e sociale. Sonvi infatti coloro che, come Laveleye ed altri autori più o meno apertamente favorevoli ad un ordinamento collettivo della proprietà, vogliono trovare, anche presso [L'autore, che primo approfondì i concetti dell' “ager publicus” e dell’ “ager privatus”, è certamente Niedhur, “Histoire romaine.” Niedhur però sembra partire dal preconcetto, che anteriormente a Roma non esiste proprietà privata, e che questa e costituita mediante gli assegni stati fatti alla plebe. La sua opinione e seguita da Puchta, “Corso delle Istituzioni”. Trad. Turchiarulo, da MOMMSEN (“Histoire romaine”). Segue pare questa opinione De-RUGGERO nei suoi dotti articoli sull’ “ager publicus”, “ager privatus”, e sulle “lex agrariae”, inserti nell'”Enciclopedia giuridica italiana”, come pure nel suo precedente lavoro, “La gens in Roma avanti la formazione del comune” (Napoli). PADELLETTI. La questione dell'origine collettiva della proprietà comincia dall'essere posta in campo dal Sumner Maine (“L'ancien droit, -- Histoire de la propriété primitive”). Essa poi fu allargata da Laveleye nel “La propriété et ses formes primitives”, dove si oc cupa della proprietà presso i romani. Di recente poi la discussione -surse di nuovo, a proposito della proprietà primitiva presso i germani, in occasione di una dissertazione letta da FUSTEL DE COULANGES all'Accademia di Scienze morali e politiche di Parigi, in cui sostiene che anche i primitivi germani conosceno la proprietà famigliare e privata. Alla discussione presero parte GEFFROY, Glasson, Aucoc e Ravaisson, e ne usce una specie di studio comparativo fra la proprietà e la famiglia romana e la proprietà e la famiglia dei primitivi germani. Compte rendu de l'Académie des sciences morales et politiques. L'opinione del Fustel DE COULANGES, quanto alla proprietà privata già conosciuta dai germani, e stata già sostenuta in modo anche più esclusivo da Ross, “The early of Land-holding among the Germans” (Boston)] i Romani, le traccie di una proprietà collettiva, mentre altri, sostenitori invece della proprietà privata ed individuale, cercano di avere per sè l'autorità di un grande popolo per giustificare la forma di proprietà che è loro prediletta. Il vero si è che tanto l'una come l'altra teoria solleva dei grandi dubbi. Da una parte infatti, quando si riconosca presso i romani solo una proprietà originariamente collettiva, viene ad essere inesplicabile come un popolo, che suole procedere così gradatamente nella trasformazione delle proprie istituzioni giuridiche, abbia potuto senza altro operare una rivoluzione così radicale nel concetto della proprietà. Dall'altra, se si sostiene che la proprietà romana e senz'altro una proprietà assoluta ed esclusiva, non è men vero che il popolo romano sembre rebbe appartarsi da tutta l'evoluzione della proprietà, quale almeno sarebbe stata formolata da coloro, che si occuparono delle forme primitive dalla medesima assunte. In questa condizione di cose non puo negarsi la gravità e la importanza del problema, e questo è certo che il medesimo non potrà mai essere risolto, finché non si ricerchino le condizioni della proprietà presso le genti del Lazio, per mettersi cosi in caso di apprezzare le trasformazioni, che esse ebbero a subire nel passaggio dal periodo gentilizio alla comunanza civile e politica. Tuttavia, prima di inoltrarsi nella ricerca, non e inopportuno di premunirsi contro alcune idee, che, sopratutto in questi ultimi tempi, si vennero introducendo intorno alla legge di evoluzione storica, che governa la proprietà. Laveleye cerca di stabilire sopra una grande quantità di fatti una legge storica, secondo cui la proprietà comincia dall'esistere sotto forma collettiva e poi sarebbe venuta assumendo un carattere sempre più individuale, lasciando così sottintendere, che l'unico rimedio di ovviare a questa individualizzazione soverchia della proprietà sarebbe quello di richiamare l'istituzione ai propri inizii. L'opera del LAVELEYE è quella già citata col titolo, “La propriété et ses formes primitives” (Paris), e la legge storica ricordata nel testo è da lui formolata nello stesso primo capitolo, il che giustifica alquanto la censura fattagli dal PADELLETTI di essersi sforzato a dimostrare una tesi. Del resto le idee del LAVELEYE trovano molti seguaci e possono anche essere accettate in certi confini, con che non si voglia cambiare in una legge storica generale un fenomeno, che ebbe solo a verificarsi in un periodo dell'umanità stessa, cioè nel periodo gentilizio. Di più si potrebbe [Senza entrare ora nella discussione di questa legge, devesi però notare, che ricerche di altri investigatori imparziali, fra i quali  Spencer, hanno già dimostrato, che una legge di questa natura non puo essere ammessa, in quanto che presso popoli del tutto primitivi già si trovano le traccie di una proprietà privata ed individuale. Quindi è che l'unica legge storica, relativa all'evoluzione della proprietà, che allo stato attuale degli studi possa formolarsi, e che la proprietà, essendo una istituzione eminentemente sociale, ha in tutti i tempi ad assumere tante forme, quanti sono gli stadii per corsi dall'organizzazione sociale. Sopratutto poi la storia delle istituzioni giuridiche presso i varii popoli dimostra, che le sorti della proprietà si presentano strettamente connesse con quelle della famiglia, cosa del resto che può essere facilmente compresa quando si consideri, che il primo bisogno della famiglia e certamente quello di assicurare il proprio sostentamento. Siccome pero la famiglia nel periodo, che suole essere chiamato patriarcale, entra essa stessa a far parte di un organizzazione maggiore, che è l'organizzazione gentilizia, cosi anche la proprietà finisce per assumere tante con figurazioni diverse, quanti sono i gradi di questa organizzazione sociale. Ciò può scorgersi anche presso quei popoli, i quali sono recati come esempio da quelli, che sostengono che nelle origini e prevalso il regime collettivo della proprietà, quali e le antiche comunanze dell'Oriente e anche dell'Occidente, il cui ter sempre notare a LAVELEYE e con esso al SUMNER MAINE che, finchè non sia provato che l'organizzazione patriarcale è l'organizzazione primitiva, non si puo neppure sostenere che la forma di proprietà, che trovasi durante l'organizzazione gentilizia, sia la forma primitiva. Quanto alla letteratura copiosa sull'argomento, può vedersi il dotto lavoro di VioLLET (“Précis de l'histoire du droit français”, Paris). L'autore ritiene, che la proprietà privata e la collettiva possano essere ugualmente antiche, ma che nella origine ha prevalenza la proprietà collettiva, mentre la proprietà individuale sarebbe stata ristretta a qualche cosa mobile di uso esclusivamente personale. Questa proprietà collettiva si e poi venuta frazionando ed avrebbe assunto un carattere sempre più individuale, in quanto che la proprietà famigliare e privata ha prevalso su quella più estesa della tribù. L'autore però non spiega, come ciò abbia potuto accadere, mentre il passaggio può invece essere seguìto presso i romani. SPENCER, Principes de sociologie, Paris, ove egli parla “de la fausseté de la croyance mise en avant par certains auteurs, à savoir que la propriété individuelle était inconnue aux hommes primitifs.”] ritorio, secondo consuetudini antichissime, suole essere ripartito in varie parti, di cui una viene ad essere assegnata alle singole fa miglie. L'altra è lasciata a prato ed a pascolo, ove i singoli capi di famiglia possono pascolare un numero determinato di capi di bestiame; e l'altra infine è considerata come proprietà della intera comunanza, ancorchè sovra di essa continuino ancora ad esercitare certi diritti i singoli comunisti. Or bene se la legge dell'evoluzione storica della proprietà è contenuta in questi, che sono i suoi veri confini, credo di poter affermare in base ai fatti, che la storia della proprietà a Roma non solo non costituisce un'eccezione alla medesima, ma è quella invece, che conserva le traccie più evidenti di tale evoluzione. Non è dubbio anzitutto, che presso i romani le sorti della proprietà e quelle della famiglia procedettero strettamente connesse fra di loro. Basterebbe a dimostrarlo il fatto, che il quirite entra nella comunanza civile e politica nella sua doppia qualità di capo di famiglia e di proprietario sopratutto del suolo, e che nel diritto primitivo di Roma i poteri del capo di famiglia sopra le persone e le cose si presentano così strettamente uniti fra di loro, che un solo vocabolo, quello appunto di familia, comprende le une e le altre. A ciò si aggiunge che è un principio, costantemente applicato dai romani, quello per cui non può esi stere nè alcuno stadio di organizzazione sociale, nè alcuna corporazione anche di carattere sacerdotale senza che le debba essere assegnato un patrimonio, il quale, indicato col vocabolo generico di “ager”, [LAVELEYE, come pure il SUMNER Maine, Village Communities. London, Early history of institutions. London, Early law and custom. London. Questa è la significazione che il vocabolo “familia” riceve nell'antico diritto, come lo dimostrano le espressioni familia habere, emere, mancipio dare e simili. Che anzi essa talvolta significa direttamente la proprietà, come può vedersi nella Lex latina tabulae Bantinae. Le varie significazioni del vocabolo “familia”, coi testi che loro servono di appoggio, possono vedersi in Roby, Introduction to Justinian's Digest. Cambridge, Notae ad Tit. « de usufructu », vº Familiae. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma] può essere chiamato, secondo i casi, ager privatus, gentilicius, compascuus, publicus, communis, peregrinus e simili. Ciò prova fino all'evidenza, che il romano primitivo, allorchè si presenta nella storia, ha già il concetto profondamente radicato, che non possa quasi esservi la famiglia senza una proprietà, che le serva di sede e le fornisca i mezzi di sostentamento, e che questo concetto e da esso applicato a tutte le altre corporazioni, le quali tutte furono primitivamente modellate sulla famiglia. Non è quindi possibile il sostenere, che la proprietà privata o meglio famigliare possa, presso i romani, considerarsi come una creazione dello stato, ma conviene necessariamente ammettere che e conosciuta già prima, se appena fondato lo stato, il primo atto che esso compie, secondo la tradizione, è quello di assegnare una proprietà ai singoli capi di famiglia. È questo il motivo per cui anche qui, per comprendere l'istituto della proprietà quale comparisce in Roma, conviene cercarne l'origine presso le genti, fra cui Roma si è formata. Vero è che sono pochissime le vestigia veramente genuine, che ci riman gano dello stato di cose, che esiste anteriormente a Roma. Ma tuttavia anche con pochi frammenti non è impossibile la ricostruzione di questa condizione anteriore, quando si tenga conto del processo costantemente seguito dai romani, anche nel periodo storico, che è quello di trasportare nel periodo seguente i concetti e le istituzioni, che hanno ad elaborarsi nel periodo anteriore.  Intanto un primo sussidio può aversi in questo carattere del l'organizzazione gentilizia, per cui essa, a misura che giunge a produrre un nuovo gruppo, che si sovrappone e si intreccia al precedente, viene ad essere naturalmente condotta a creare una sede esteriore, in cui il gruppo stesso possa trovare il proprio svolgimento. Come più tardi la sede esteriore della “civitas” è stata l' “urbs”, così le sedi esteriori dei varii gruppi gentilizii sembrano, presso le antiche genti italiche, essere state indicate coi vocaboli certo antichissimi di domus, di vicus e di pagus. De-RUGGERO, Enciclopedia giuridica italiana, vº Ager publicus-privatus. Ciò può vedersi nel Pictet, Origines Indo Européennes; Paris, come pure nel BRÉAL, Dict. étym. lat. ai vocaboli indicati. Non vi è dubbio, che tutti questi vocaboli già esistevano anteriormente alla [Domus è la sede del capo famiglia coi proprii figli e coi proprii servi, sede, che può anche avere un cortile ed essere circondata da un piccolo orto e forse anche da un piccolo ager, che uniti colla casa costituiscono un tutto, che con un vocabolo non meno antico poteva es sere chiamato heredium da “herus”, od anche mancipium, perchè di pendeva direttamente dalla manus del capo di famiglia, intesa come la somma dei poteri al medesimospettanti, o infine anche familia, perchè comprendeva tanto i liberi quanto i servi. Non vi ha poi dubbio che è dalla domus, che si staccherà più tardi il concetto di “dominium” e si capisce anche che di questo dominium, il quale potrà poi acquistare una larghissima estensione, la parte più sacra, più preziosa, quella, da cui il capo di famiglia si separa più a malincuore e che egli vorrebbe perpetuare nella famiglia, continua sempre ad essere riposta in quel nucleo primitivo, che costitue l'heredium, e che nel diritto quiritario prese poi il nome di mancipium. La riunione poi delle abitazioni di diverse famiglie, provviste di un cortile e cinte da uno spazio, a somiglianza diquelle che Tacito ci descrive presso i germani, viene a costituire il vicus, il quale di regola nella organizzazione gentilizia suole comprendere le abitazioni delle familiae, che dividono il medesimo culto e appartengono alla medesima gente. Il vicus quindi ha ancora un carattere del tutto patriarcale e si comprendono cosi le circostanze attestateci da Festo: che i vici si trovavano di preferenza presso quei popoli, che non avevano ancora delle città, quali erano i Marsi ed iPeligni; che essi erano stabiliti fra i campi – “in agris” -- ; e che se essi già avevano un luogo di mercato, non avevano però sempre un luogo, dove si amministrasse giustizia, nè sempre nominavano un magister vici, a somiglianza del magister pagi, che ogni anno si nominava invece nel pagus. Cio dimostra, che se il vicus puo svolgersi formazione della comunanza, e quindi dalla loro esistenza si può argomentare che dovevano pur conoscersi le istituzioni, che con essi erano indicate. Quanto alle domus familiaque è da vedersi il numero stragrande dei passi raccolti da Voigt, “Die XII Tafeln” -- TACITUS, Germania. Festo, vº Vici, fa, quanto al vocabolo di vicus, ciò che suol fare per ogni altro vocabolo, la cui significazione siasi venuta trasformando, indica cioè le significazioni diverse, che il medesimo ebbe ad assumere. Egli quindi esamina il vicus, finchè trovasi ancora fra i campi – “in agris” -- , ed è a proposito di questo primo vicus, che egli dice: “sed ex vicis partim habent rempubblicam, et ius dicitur, partim nihil eorum et -- talvolta in guisa da prendere le proporzioni ed avere le esigenze del pagus, nei casi ordinarii però era la sede di una comunanza puramente gentilizia. E poi naturale, che come le singole famiglie in esso avevano il proprio heredium, cosi anche il vicus, sede della gente, fosse circondato dal proprio ager gentilicius, sul quale si potevano anche fare gli assegni ai clienti. Viene ultimo il “pagus”, ove esiste un sito per il mercato, ma che contemporaneamente può anche servire per amministrarvi giustizia, sito, che probabilmente può già essere chiamato forum, almodo stesso che in esso già trovasi il magister pagi, dal cui nome ebbe a derivarsi senza alcun dubbio quel vocabolo di magistratus, che tamen ibi nundinae aguntur, negotii gerendi causa. Poi trova il vicus nel seno degli oppida, e dice che comprende « id genus aedificiorum, quae continentia sunt his oppidis, quae itineribus regionibusque distributa inter se distant, nominibusque dissimilibus discriminis causa sunt distributa ». Tuttavia, anche nella città, il “vicus” indica ancora qualche cosa di privato, cioè quei vicoli privati, che dànno accesso esclusivo ad abitazioni contigue. V. Bruns, Fontes. L'interporsi di un elemento estraneo nel seno del vicus e poi naturalmente impedito da quella antica consuetudine romana, per cui il fratello vende al fratello, il vicino al vicino, il consorte al consorte. Che poi esistesse veramente una proprietà spettante al vicus e destinata ad uso comune degl’abitanti di esso lo dimostrano certe iscrizioni, in cui il vicus quale *persona giuridica* fa contratti di compra e di vendita, Corpus inscrip. latin.-- Del resto anche il Digesto ammette il vicus a ricevere donazionie legati. L. 73, 1 Dig. -- È da vedersi, quanto ai vocaboli con cui ebbe ad essere indicato il vicus nelle lingue Indo-Europee, il Pictet, Origines Indo-Européennes. Quanto al concetto del vicus e delle “vicinitas” presso i germani vedi Ross, Land holding among the Germans. Boston. Il vocabolo di “forum” è uno di quelli, che ci indica il processo col quale le genti latine, trovato una volta il vocabolo, venivano trasportandolo a tutte quelle significazioni, che corrispondevano al concetto ispiratore del medesimo. Noi sappiamo da Festo, che “forum” significa il vestibolo di un sepolcro, ove convenivano i parenti per dare l'estremo saluto al defunto. V. Bruns, Fontes. Poi sappiamo da VARRONE, De lingua latina, che le genti latine « quo conferrent suas controversias et quae vendere vellent quo ferrent, forum appellarunt. Infine l'abbre viatore di VERRIO Flacco colla sua consueta diligenza ci dice che “forum sex modis intellegitur; primo negotiationis locus; alio, in quo iudicia fieri, cum populo agi, contiones haberi solent; tertio cum is, qui provinciae praeest, forum agere dicitur, cum civitates vocat et de controversiis earum cognoscit, ecc.” (Brons). Per tal modo, il luogo di convegno per i parenti, che piangono un defunto, viene col tempo a convertirsi nel sito, ove il magistrato romano risolve le controversie fra le città ed i popoli.] serve ad indicare tutte le cariche della città. Nel “pagus” per tanto havvi già un accenno alla vita civile, e quindi si può ritenere con certezza, che esso è già la riunione di più vici e comprende il complesso delle abitazioni occorrenti per un'intera tribù. Ciò del resto è dimostrato dal fatto, che le tribù rustiche di Servio Tullio presero il nome di tanti pagi, che prima esisteno nella stessa località. Così pure, nota Lange, e dimostrato che il pagus Succusanus e sostituito dalla tribus Suburana, che è una delle quattro tribù urbane dello stesso Servio, come pure vi sono iscri zioni, che parlano di un pagus Aventiniensis e di un pagus laniculensis, nei quali nomi è anche degna di nota la terminazione di essi, che è analoga a quella, con cui si indicano le popolazioni, che compongono le tribù. È poi anche naturale, che questo pagus ha pur esso un ager, certamente situato a maggiore distanza, perchè in prossimità vi sono gli agri gentilicii, e che questo ager chiamisi “compascuus”, e che comprenda talvolta eziandio, oltre il sito destinato per il pascolo, anche delle siloae e dei saltus. Intanto da questa configurazione esteriore dell'organizzazione gentilizia si può inferire che, almodo stesso che questa venne forman dosi per una naturale sovrapposizione di varii gruppi, così anche le varie forme di proprietà si vennero assidendo l'una sull'altra. L'ager [LANGE, Histoire intérieure de Rome, NIEBHUR, Histoire Romaine. Del saltus è da vedersi la diffinizione di Elio GALLO conservatasi da Festo, pº Saltus. I saltus potevano essere oggetto di proprietà collettiva del pagus e della città, ed anche di proprietà privata. È poi degno di nota, che il vocabolo “saltus”, allorchè già si venivano formando i latifondi per modo che, secondo Plinio, sei persone possedevano metà dell'Africa (Hist. nat., XVIII, 7), finì per significare quegli immensi dominii, posseduti da privati e soventi anche dal principe, sovra cui dimora una popolazione, di carattere pressochè colonico, che dipende più dall'arbitrio del possessore o del suo procurator, che non dalle leggi del principato. Riguardo ad uno di questi saltus, situato appunto nell'Africa e chiamato Saltus BURANITANUS, si scoperse di recente una importante iscrizione, che contiene una petizione della popolazione del saltus al principe. Fondandosi su di essa ESMEIN, sostiene che in questi saltus comincia a formarsi l'istituzione del colonato. — Mélanges d'histoire du droit et de critique. Paris, V. pure FUSTEL DE COULANGES, Le colonat romain. Paris] si viene, per dir così, atteggiando in tante guise, quanti sono i gruppi che si vengono sovrapponendo. Presentasi anzitutto la casa (domus od anche tugurium, se nel contado) colla sua corte, coll'orto e col campicello attiguo, che appartiene alla famiglia nella persona del suo capo, e ne costituisce l'heredium, la familia, il mancipium. Ma siccome ogni capo di famiglia, oltre questa parte sostanziale del suo patrimonio, può anche avere un capitale circolante, composto di greggi e di armenti e di altre cose mobili, così è naturale, che accanto al concetto dell'heredium si formi quello del peculium, accanto a quello della familia quello della pecunia e accanto a quello del mancipium quello del nec mancipium; distinzione, che tornerà poi in acconcio per spiegare a suo tempo la famosa divisione del diritto quiritario fra le resmancipii e le res nec mancipii. Che veramente questa forma di proprietà già preesiste alla comunanza romana viene ad essere provato da cio, che fin dal primo formarsi di questa occorrono i concetti di herus, di heredium, di heres, il qual ultimo vocabolo ha pur la stessa origine di “herus” e scrivesi talvolta anche semplicemente “eres”, per guisa che anche questo vocabolo significa, se non il proprietario, al meno il comproprietario, come lo prova la testimonianza di Festo, secondo la quale « heres apud antiquos pro domino ponebatur ». Non vi ha poi dubbio, che con questi vocaboli ha eziandio strettissima attinenza il vocabolo di herctum o erctum, che significa ripartizione da erciscere, donde proviene la denominazione certamente antica dell'actio familiae erciscundae. Tuttavia, comegià si accenna, è un costume antichissimo quello indicatoci dall'« ercto non cito » di Aulo Gellio, la cui significazione letterale è, a mio avviso, quella di non venire ad una pronta divisione e che indica il più antico dei con [Trovo confermata la descrizione sovra esposta dell' heredium dal dottissimo lavoro, di recente pubblicato da Voigt, così benemerito degli studii sull'antica Roma, col titolo, “Die römischen Privataltertümer und römische Kulturgeschichte”, estratto dall' Handbuch der klassischen Altertumswissenschaft, pubblicato dal Beck in Nördlingen. Quivi Voigt ritiene che l'heredium comprenda l'hortus, l'ager, la cohors o chors, il pomatum, più tardi detto anche “pomerium”, e di più la casa, detta anche tugurium, che comprende il granarium, il foenilium, il palearium ecc. Ivi poi si trova citata tatta la letteratura sull'argomento, compresa anche l’italiana, così spesso trascurata. Anche Voigt sembra accostarsi alla significazione qui attribuita al dualismo di familia pecuniaque, senza però accennare alla correlazione, che sembra esistere eziandio fra heredium e peculium, mancipium e nec mancipium, sorzii e delle società, che è quella fra i fratelli e gli agnati, che lascia vano indivisa l'eredità ed il patrimonio. Intanto la conseguenza viene ad essere questa, che i vocaboli di mancipium e di manceps, quelli di familia e di pater familias rimontano tutti al periodo gentilizio, e segnano, insieme con herus ed heredium, l'atteggiamento diverso sotto cui poteva essere considerata la figura molteplice del capo di famiglia. Di questi vocaboli però quello che significa meglio il potere giuridico del capo di famiglia era quello certamente di man ceps e di mancipium, ed è questa forse la causa, per cui il vocabolo, che prevarrà più tardi nel diritto quiritario e quello di “mancipium”, al quale solo più tardi sottentrerà quello di dominium ex iure Quiritium. Non vi è poi dubbio, che all'heredium ed all’ager privatus si sovrapponesse l'ager gentilicius, che era quello spazio, non compreso negli heredia, che trovavasi nei dintorni e nelle circostanze del vicus e ritenevasi come proprietà collettiva della intiera gente. Era su quest'ager gentilicius, che potevansi fare degli assegni ai clienti, i quali però non hanno una proprietà, ma ritenevano e godevano le terre loro assegnate a titolo di semplice precario. Dell'esistenza di questo ager gentilicius e del modo di ripartirlo noi troviamo ancora un esempio durante il periodo storico, in occasione della venuta a Roma di Atto Clauso, e della sua gente. Questi viene di Regillo per porre la propria dimora nel territorio stesso di Roma, senza che vi siano elementi nè per affermare nè per negare, che egli con ciò avesse rinunziato all'agro gentilizio, che dove certamente essere posseduto colà da una gente che, come la Claudia all'epoca. Questa induzione, a cui già ebbi occasione di accennare, parlando della familia omnium agnatorum, trova una conferma nel diligente lavoro di POISNEL, “Les sociétés universelles chez les Romains,” specialmente in quella parte ove si occupa del primitivo consortium, accennato da Aulo Gellio, il quale avveravasi tra fratelli ed agnati, stante l'indivisione del patrimonio. “Nouvelle revue historique de droit français et étranger”. È anche degna di nota l'attinenza fra i vocaboli di consortium e di consors con quello di “sors”, che dapprima indicava la quota di eredità spettante a ciascuno. V. BRÉAL, Dict. étym. lat., vu Sors. Ciò è anche confermato dall'espressione di familia inercta nel significato di indivisa, ricordata da Paolo Diacono [Cfr. in proposito i passi citati da Voigt, Die XII Tafeln. Festo, v° Patres. Tale è pure l'opinione di Esmein, “Les baux de cinq ans en droit romain” – “Mélanges d'histoire de droit”, Paris.] della sua venuta a Roma, ha, secondo la tradizione, compresi ben MMMMM clienti. Questo è certo, che dal momento che egli abbandona la sua sede originaria e veniva accolto nel patriziato romano, mediante la cooptatio, gli fu dato un tale spazio di terreno oltre l'Aniene, che egli potè assegnare II iugeri in godimento a tutti i suoi clienti, oltre al che gli sarebbero ancora rimasti XXV iu geri per sè e la sua gente. Questo assegno di territorio, mediante il quale e la gente Claudia, che diede il nome a quella tribù rustica, non impede, secondo Dionisio, che e eziandio assegnato ad Atto Clauso un sito nel circuito stesso di Roma, ove puo abitare egli e la sua famiglia. È facile il vedere, che qui occorrono i concetti tanto dell'heredium, quanto dell’ager gentilicius, e si ha pur anche la prova, che nell'organizzazione gentilizia e alla stessa gens od al consiglio di essa, che si appartene di fare il riparto fra le singole famiglie ed anche gli assegni ai clienti. Di qui deriva la conseguenza, che, fra le varie forme della proprietà nel periodo gentilizio, quella che predomina sopra tutte le altre è la proprietà della gente, ossia l'ager gentilicius; perchè al modo stesso che è nella gens, che si formano le famiglie, cosi è pure dall'ager gentilicius, che si ricano gli heredia. Cosi pure è anche probabile che, in mancanza di eredi suoi, i quali possono in certo modo essere considerati quali comproprietarii dell'heredium, e in difetto eziandio di agnati prossimi, che mantengano ancora indiviso l'asse paterno, questi heredia tornano all’ager gentilicius, cioè alla sorgente stessa, da cui essi furono staccati. Da ultimo sonvi eziandio molti indizii dell'esistenza di una proprietà, che considerasi come spettante alla intiera tribù, e che prende il nome di ager compascuus, di compascua, di pascua, presso le genti del Lazio piuttosto dedite alla pastorizia, e di communia o communalia nell'Etruria. Puo darsianzi, che un ager compascuus puo esservi già nello stesso vicus, come lo dimostrerebbe la deffinizione di Festo – “compascuus ager relictus ad pascendum com muniter vicinis.” Ma in ogni caso non vi ha dubbio, che questo compascuus ager certo esiste nel pagus e già dava origine ad una [Dion. Cfr. Bonghi, Storia di Roma. L'esistenza di questi compascua è dimostrata da diversi passi, sopratutto di agrimensori. Basti il seguente di FRONTINO – “Est et pascuorum proprietas, pertinens ad fundos, sed in commune, propter quod ea compascua communia appellantur, qui busdam provinciis pro indiviso.” Bruns, Fontes] specie di pubblico reddito (vectigal), consistente nel contributo, che doveno dare gl’abitanti, che ivi pascolavano i proprii greggi ed armenti, contributo, che all'epoca romana viene poi ad essere indicato col nome di scriptura. Una prova dell'esistenza di questi pascua e di ciò, che essi costituirono forse le prime sorgenti di reddito pubblico, può ricavarsi da un testo prezioso di Plinio, il quale, dopo aver detto che pecunia a pecude appellatur, cosa del resto che è attestata da tutti gli antiquarii, aggiunge questo particolare importantissimo – “etiam nunc in tabulis censoriis PASCUA dicuntur omnia, ex quibus populus reditus habet, quia diu hoc solum vectigal fuerat” -- il che vuol dire in sostanza, che i romani, in questa parte conservatori come in tutto il resto, finirono per indicare col vocabolo primitivo dei “Pascua”, che costituivano la proprietà collettiva della tribù, tutta quella parte della proprietà collettiva del populus, ossia dell’ager publicus, da cui il popolo stesso ricava qualche reddito. Del resto l'esistenza di questo ager compascuus e anche accennata in quel tradizionale riparto, che Romolo fa fra i Ramnenses, quando aveva fondata la Roma Palatina, poiché delle tre parti una sarebbe stata assegnata al Re ed al culto; l'altra alle singole famiglie e avrebbe costituito gli heredia; e la terza sarebbe stata appunto l'ager compascuus, che e anche la prima forma di ager publicus, in cui le genti patrizie, probabilmente dedite ancora in parte alla pastorizia, potevano far pascolare i proprii greggi ed armenti. Credo che le cose premesse dimostrino abbastanza che, anche anteriormente alla formazione di Roma, la proprietà già esi stesse in tante gradazioni, quanti erano i gruppi, che entravano nella stessa organizzazione gentilizia, per modo che vi era una proprietà privata o meglio famigliare, una proprietà gentilizia, e una proprietà spettante alla comunanza della tribù. Di queste varie forme di proprietà, quella che predomina era la proprietà gentilizia, perchè da essa usceno e ad essa ritornano gli heredia, come poi erano anche i capi di famiglia delle varie genti, che hanno il godimento dei compascua; nel che può forse trovarsi l'origine pro [NIEBHUR, “Histoire romaine”, Voigt, “Die römis. Privataltert.”, LANGE, “Histoire intér. de Rome” --- Plinio -- Dion. NIEBHUR, Hist. rom. - babile di quel fatto importantissimo nella storia di Roma, per cui le genti patrizie riputarono per qualche tempo di avere da sole il diritto di occupare l'ager publicus, il quale a Roma non è che una trasformazione ed un ampliamento per mezzo della conquista del primitivo ager compascuus. Queste varie forme di proprietà nel periodo gentilizio si intrecciano insieme per modo, che si vengono temperando e limitando scambievolmente per guisa, che il potere giuridicamente illimitato del capo di famiglia sul proprio heredium nel costume gentilizio viene ad essere trattenuto da una quantità di temperamenti, che ne impediscono qualsiasi abuso per parte del capo di famiglia. Quindi anche quel potere, che più tardi e affidato al “praetor” di interdire nel iudicium de moribus quel padre di famiglia che disperdesse i bona paterna avitaque, dove certamente rimontare alle consuetudini gentilizie e che probabilmente appartenne al consiglio degl’anziani della gens di frenare queste dispersioni e prodigalità del capo di famiglia con un iudicium, che e de moribus e con una formola, che certo dovette essere analoga a quella adoperata dal praetor. oLe cose premesse intanto ci mettono anche in condizione di poter risolvere in poche parole alcune questioni grandemente agitate fra gli interpreti del diritto romano primitivo. La prima di esse sta in vedere se gl’antichi heredia, ossia quei bina iugera, che Romolo distribusce ai capi di famiglia e di cui Varrone dice che erano così chiamati in quanto che heredem sequerentur, doveno o non ritenersi inalienabili, e se i figli doveno considerarsi come com proprietarii del patrimonio del padre. Senza occuparci per ora della trasformazione, che subi l'heredium ossia la proprietà famigliare e [Questa esclusione dei plebei dall'agro pubblico è attestato da un testo di Nonio MARCELLO, riportato dagli Annali di qualche autore più antico – “Quicumque propter plebitatem agro pubblico eiecti sunt.” Bruns, Fontes, -- il che è pur confermato da un passo di Sallustio. “Regibus exactos servili imperio patres plebem exercere, agro pellere.” Cfr. MUIRHEAD, Histor. introd., accenna per nota, che anche in Grecia vi era un' eguale sollecitudine per i beni aviti.] privata colla formazione di Roma – ANNO I -- , noi possiamo perd affermare con certezza che questo concetto dell'heredium esiste già anteriormente ed erasi naturalmente formato durante il periodo gentilizio. O che l'heredium doveva potersi alienare dal capo di famiglia, perchè, se questa alienazione non e stata possibile, non si comprenderebbe il concetto e l'esistenza di un commercium, come pure non si comprende l'esistenza certo antichissima di un iudicium de moribus, di- a retto appunto ad impedire l'imprudente e prodiga dispersione di questo patrimonio, che nel suo concetto informatore era destinato ad essere trasmesso dai genitori nei figli e da questi ai nipoti. O che tuttavia questa alienazione, durante il periodo gentilizio, dovette essere gover nata da solenni formalità e dovette forse anche compiersi colla approvazione o quanto meno colla testimonianza dei notabili del villaggio. O che infine nella primitiva organizzazione gentilizia i figli si riputano comproprietarii sopratutto di quella parte del patrimonio paterno che costituie l'heredium, il che e in certo modo indicato dal vocabolo “heres”, che in antico avrebbe significato comproprietario, e che posteriormente continua a significare la medesima cosa mediante l'espressione più completa di “heredes sui”. Insomma nel concetto primitivo il padre è come custode e detentore del patrimonio famigliare nell'interesse suo e della sua prole. È questo probabilmente il motivo, per cui non dove nei primi tempi di Roma avere nulla di ripugnante al modo dipensare e diagire del tempo quel concetto giuridico del diritto quiritario primitivo, che ora a noi appare cosi ostico e pressochè inesplicabile, per cui tutto ciò che appartiene od è acquistato dalla moglie, dai figli, dai servi, finisce per essere considerato come di spettanza del padre e tutto ciò, che essi stipulano od acquistano, deve in certo modo ritenersi fatto per conto e nell'interesse del capo di famiglia. Questo concetto infatti, mentre indica l'unificazione potente della famiglia romana sotto l'aspetto giuridico, prova eziandio la comunione ed intimità di vita, che dove esistere nel costume della medesima; comunione ed intimità di cui il diritto non si occupa, perchè non dove occuparsene, ma che sono largamente attestate da tutti gli scrittori, che richia -- Ciò è anche confermato dalla nota proposizione di Gaio, II, 157: « Qui quidem heredes sui ideo appellantur, quia domestici heredes sunt et vivo quoque parente quo dammodo domini existimantur ».] mano la memoria della primitiva famiglia, governata dal “mos pa trius, ac disciplina”. Ad ogni modo la conseguenza ultima della nostra ricerca è questa, che, se gli heredia erano alienabili allorchè l'individuo era ancora legato nei vincoli strettissimi dell'organizzazione gentilizia, per maggior ragione dovettero esser tali, quando egli venne ad essere libero cittadino di una libera Roma. Intanto se si ammette che nell'organizzazione della proprietà nel periodo gentilizio la forma prevalente è quella della proprietà gentilizia, in quanto che essa da una parte origina la proprietà privata e famigliare e dall'altra si estende al godimento della proprietà collettiva della tribù, è facile il dedurne la conseguenza, che il sistema di successione, allora introdotto dal costume e che fini col tempo per cambiarsi in successione legittima, dovette proporsi essenzialmente per iscopo di mantenere e perpetuare la proprietà nella gente con impedire che la medesima potesse passare ad estranei. Si comprende pertanto, che in base al costume gentilizio la proprietà va ai figli, che ne sono comproprietarii, ed anche agli agnati prossimi, finchè essi mantengono indiviso il patrimonio paterno, ma appena questi manchino, dovranno succedere i gentiles e questi non individualmente, come alcuni credono, ma collettivamente in quanto cioè formano la comunanza gentilizia. Il motivo è questo, che se la legge di Roma puo favorire il riparto immediato fra gli eredi, il costume invece di una comunanza gentilizia favorisce invece per quanto esso può l'ercto non cito, come diceno i Romani, cioè l'indivisione e la comunione dei patrimonii; perchè essa mira, non a favorire lo svolgimento dell'individualità del capo di famiglia, ma a rendere compatto per quanto è possibile il gruppo, in cui gli individui vengono ad essere pressochè assorbiti. Parimenti è certo incontrastabile, che la successione, quale compare nei primitivi tempi di Roma e quale esiste anteriormente, non ammette nè distinzioni di primogenitura, nè distinzioni di sesso, quanto alle persone che erano chiamate a succedere. Ma si può anche [Cic., Cato maior, 11, 37, parlando di Appio Claudio il cieco scrive: « Quatuor robustos filios, quinque filias, tantam domum, tantas clientelas Appius regebat et caecus et senex... Tenebat non modo auctoritatem, sed etiam imperium in suos; metuebant servi, verebantur liberi, carum omnes habebant; vigebat in illa domo mos patrius ac disciplina.]- essere certi, che il costume dovette certamente dirigersi costantemente, se non a favorire il primogenito, almeno ad impedire, che si venisse alla divisione del patrimonio, ed anche ad evitare, che le femmine colla libera disposizione della parte di sostanza, che loro apparteneva, potessero compromettere gli interessi della gente. Ciò infatti viene ad essere comprovato dalla tutela perpetua, a cui le donne erano soggette per parte degli agnati -- tutela che aveva sopratutto lo scopo di sottrarre alle femmine la libera disposizione delle proprie cose, e che col tempo divenne per modo odiosa, che esse, aiutate dai giu reconsulti, trovano modo di sottrarvisi mediante quell'espediente giuridico, di carattere eminentemente romano, che è la “coemptio fiduciaria.” Quanto alle istituzioni dell'adrogatio e del testamentum, non può esservi dubbio, che esse doveno certamente esistere nel costume antico dei maggiori, anche anteriormente alla formazione di Roma, in quanto che esse sono istituzioni, che compariscono compiutamente formate, come appare da ciò che le XII tavole, nei frammenti a noi pervenuti, non parlano dell'adrogatio e quanto al testamento non fanno che confermare una istituzione preesistente. Di più e ben naturale, che il concetto dell'una e dell'altro doveno presentarsi naturalmente a capi di famiglia, che da una parte erano tutti in tesi al culto dell'antenato e dall'altra sono fissi nel pensiero di perpetuarsi in una posterità, che continuasse il proprio culto gentilizio. Istituzioni quindi, come l'adrogatio e come il testamento, sono acconcie e indispensabili ad una organizzazione come la gentilizia, ma intanto cosi l'una che l'altra non possono nella medesima servire come mezzo per soddisfare ad un affetto o ad una predilezione capricciosa, ma dovevano avere l'unico scopo di provvedere alla perpetuazione della famiglia e del suo culto. Questa coemptio fiduciaria, in virtù della quale la donna passa in manu di una persona che non divenne marito di lei, nell'intento solamente di farsi manomettere da lui per essere liberata dalla tutela degli agnati, è ricordata da Gaio. E questa coemptio, che fa dire a CICERONE, pro Murena, che i tutori, anzichè essere i protettori delle donne, si erano cambiati in un mezzo per liberarle da ogni tutela. Cfr. MUIRHEAD. Puo sembrare poco logico, che io qui discorra, trattando della proprietà, anche dell'adrogatio, che ha piuttosto rapporti coll'organizzazione della famiglia, ma ho creduto di poterlo fare in quanto anche l'ad rogatio mira a fare in guisa che il capo famiglia abbia un erede, che ne perpetui [Questo carattere è incontrastabile per ciò, che si riferisce al l'antica adrogatio, la quale e una istituzione gentilizia ed aveva in certo modo per intento di perpetuare una famiglia ed un culto, che sarebbero andati perduti per difetto di prole maschile, togliendo da un'altra famiglia l'elemento che in questa sovrabbondava. Trattavasi quidi un vero affare di stato e quindi, se si debba giudicare dalle formalità, che sono poscia seguite dal patriziato nella comunanza romana (dove per compiere un'adrogatio volevasi, comeper una legge, l'intervento dei pontefici e l'approvazione del popolo radunato in curie) conviene certamente inferirne, che solennità non minori dovettero ri chiedersi nel periodo gentilizio. Se questo trapianto dell'innesto di una famiglia sul ceppo sterile di un'altra si opera fra le famiglie della stessa gente, puo forse bastare l'approvazione del consiglio della gente, ma se seguiva invece fra famiglie, non appartenenti alla stessa gente ma alla stessa tribù, dove certo esservi l'approvazione dei padri delle tribù. La cosa invece potrebbe lasciar luogo a qualche dubbio per ciò che si riferisce al testamento, ma se si considera, che in so stanza anche il testamento patrizio in comitiis calatis, cioè davanti all'assemblea delle curie, compievasi con formalità del tutto analoghe a quelle proprie dell'adrogatio, converrà inferirne,che lo spirito informatore del testamento in questo periodo gentilizio dove essere del tutto analogo a quello, che ispira l'adrogatio. Il testamento per sua natura è tale che, come può essere un mezzo per far valere, dopo la propria morte, l'impero di una volontà arbitraria, così può anche es sere il mezzo per impedire, che si avveri fra gli eredi quella ripartizione e quell'uguaglianza di parti, che può essere introdotta o dalla legge o dalla consuetudine. Ora è certo, che la successione invalsa nel periodo gentilizio, secondo cui succedevano prima i figli, poi gli agnati prossimi, e infine la gente collettivamente considerata era bensi già intesa a conservare il patrimonio nella gente, ma intanto aveva an cora due inconvenienti dal punto di vista gentilizio. L'uno di essi consiste nel diritto, che i figli hanno di venire ad una ripartizione immediata dell'asse paterno in porzioni uguali, divisione che face i sacra, e in ciò ha un'attinenza anche col testamento. Di più in questo periodo la proprietà e la famiglia sono ancora strettamente connesse fra di loro, per modo che non può essere il caso di scindere affatto le istituzioni che le riguardano.] vasi per stirpi e non per capi, e l'altro era quello dell'uguaglianza fra maschi e femmine, il che fa si, che ana femmina, passando a matrimonio, sottraesse alla famiglia una parte del patrimonio uguale a quella di un maschio. Queste conseguenze, che sono per noi da approvarsi, non potevano sembrare tali a capi di famiglia, che mirano sopratutto a conservare integro il patrimonio e a perpetuarlo come tale nella famiglia. Si può quindi essere certi, che i capi di famiglia, che si ispirano a questo concetto e che nel fare testamento dovevano anche avere l'approvazione degl’anziani, che pure avevano la stessa tendenza, non potevano certamente servirsi di esso per sottrarre la loro sostanza alla famiglia od alla gente. Essi invece dovevano servirsene o per impedire la pronta ripartizione del patrimonio, usando le antiche parole « ercto non cito » – o per accentrare per la maggior parte il loro patrimonio in uno soltanto dei figli, – o infine per scemare la quota spettante alle femmine, come quella, che dove essere riguardata come una sottrazione fatta al patrimonio vero della famiglia perpetuantesi nella linea maschile. Mone della famiglia e del suo culto. Si può quindi conchiudere, che per lo genti patrizie il testamento non dovette certamente essere un mezzo per disporre liberamente e a capriccio delle proprie cose, come fu poi il testamento nel di ritto quiritario; ma dovette servire alle medesime per conseguire quello scopo, che anche oggi si propongono bene spesso i capi delle famiglie, anche non patrizie ma solo ricche ed agiate, allorchè, dettando il loro testamento, cercano d'accentrare la loro fortuna in una od in poche persone, nell'intento di assicurare ciò che con linguaggio antico e moderno suole essere chiamato il decoro e la dignità della famiglia. Pervenuto a questo punto, parmi di aver dimostrato in un modo, che avendo convinto me potrà forse anche persuadere gli altri, che le genti patrizie, anche anteriormente alla formazione di Roma, già conoscevano una proprietà privata, attribuita al capo di famiglia. Ciò pero non toglie, che quest'ultimo fosse ben lontano dall'avere quella libera disposizione delle proprie cose per atto tra vivi e per testamento, che trovasi invece riconosciuta senza alcun confine nel diritto quiritario, e ciò perchè lo spirito dell'organizzazione gentilizia si informava tutto all'intendimento di serbare integro il patrimonio alla famiglia, ancora indivisa, degli agnati dap prima e in mancanza di essa alla gente. Come dunque potrà essersi operata presso un popolo, di spirito così eminentemente conservatore, una trasformazione cosi radicale nel carattere della proprietà da cambiare la medesima di proprietà gentilizia in quiritaria, allorchè esso passò dal periodo gentilizio alla convivenza civile e politica? Ecco il gravissimo problema, al quale non credo che siasi data ancora una soddisfacente risposta, a causa del l'idea universalmente accolta sull'autorità di Niebhur e di Mommsen, che lo stato romano siasi formato mediante la fusione e l'incorporazione di varie genti e tribù. Secondo questi autori infatti, lo stato costituendosi avrebbe in certo modo incorporato in sè la proprietà gentilizia, cambiandola cosi in territorio nazionale, e sarebbe poi addivenuto al riparto di una parte di esso a favore dei singoli capi di famiglia, ritenendo il restante come ager publicus. Fra gli autori, che trattarono largamente e di recente il gravissimo tema, mi limito a citare De-Ruggero, come quegli che riassume nettamente la opinione universalmente seguita. Egli, dopo di aver premesso che prima della formazione dello stato esiste soltanto la proprietà collettiva o gentilizia, la quale appartene alla gens e non alle singole famiglie, viene alla conclusione seguente. Fondatosi quindi il comune e lo stato con la unione di più genti, esso sarebbe divenuto, come la gente stessa nel periodo della sua autonomia, proprietario del territorio generale di tutte le genti romane, cioè, del territorio nazionale. E come la gens lascia alle sue singole famiglie la coltivazione e l'uso di alcuni terreni (fundi), rimanendo gli altri proprietà comune. Cosi anche lo stato lascia ai privati una parte del territorio come proprietà (adsignatio romulea) e ritiene per sè un'altra parte destinata a tutta la cittadinanza (ager publicus). Di fronte ad una teoria così recisa, conforme del resto alla opinione generalmente seguita, mi sia lecito osservare, che anzitutto non è provato, che prima della formazione dello stato non vi fosse che la proprietà gentilizia, e che la gente non lascia alle famiglie, che la coltivazione e l'uso di alcuni terreni. I vocaboli certamente preesistenti di herus, heres, heredium, che senza alcun dubbio si applicano al capo di famiglia, provano invece che il concetto di una proprietà privata già preesiste fra [DE- RUGGERO, V° Ager publicus-privatus, nella Enciclopedia giuridica italiana. Del resto queste sono le idee che l'autore aveva già sostenute in “La gens avanti la formazione del comune romano” (Napoli), e che stanno pure a base del suo dotto ed interessante articolo sulle Agrariae leges nella stessa Enciclopedia giuridica italiana.] le genti del Lazio; poichè se così non fosse stato non sarebbesi trovata la parola già preparata ed acconcia per indicare gli assegni fatti ai capi di famiglia, e gli assegni si sarebbero fatti alle genti, alle tribù e non ai singoli capi di famiglia, o meglio a ciascun individuo, che segue Romolo nella sua intrapresa. Viha di più, ed è che, tenendo conto del carattere delle genti latine, in cui l'idea del “mio” e del “tuo” – il “nostro” -- presentasi in ogni tempo cosi profondamente radicata, non può essere probabile che le gentes e le tribù, che potevano essere ed erano in effetto in condizioni disuguali quanto ai loro possedimenti, come continuarono ancora ad esserlo dopo, si siano contentate dimettere tutto in comune, malgrado la loro origine diversa, per starsi paghe “ai bina iugera”, assegnati da Romolo. Si aggiunge, che se tutta la fortuna del patriziato primitivo Ramnense si riducesse soltanto ai II iugeri, non si saprebbe veramente comprendere come la medesima potesse bastare per la famiglia coi servi e coi clienti. Del resto non consta, che siavi veramente alcun autore antico, che accenni a questa specie di societas omnium bonorum, per cui si sarebbero messi in comune tutti gl’agri gentilicii. Noi sappiamo soltanto, che Romolo, in base ad un costume tradizionale fra le genti latine, che dove già esistere prima e che e applicato anche più tardi in occasione dell'impianto di colonie, divide Roma in parte fra i proprii seguaci, mentre un'altra parte ritenne per sè e per il culto, ed un'altra riservò a titolo di pascolo comune. Intanto pero le varie genti, che parteciparono alla fondazione di Roma, dovettero continuare a tenere i proprii agri gentilicii, come lo dimostra il fatto, che anche all'epoca di Servio Tullio le varie tribù rustiche continuarono a prendere il nome da quelle genti patrizie, che dovevano avere più larghi possessi nel territorio delle medesime. Vi ha di più, ed è che la tradizione accenna a due testamenti, fatti durante il regno stesso di Romolo, a favore del popolo romano, coi quali questo avrebbe ereditato dei campi presso Roma, ed anche quello stesso campo marzio, che avrebbe poi costituito il primo nucleo dell'ager publicus; fatti e tradizioni queste, che sarebbero del tutto incomprensibili, quando lo Stato romano nella propria formazione fosse diventato il proprietario di tutti i territorii gentilizii, e li avesse poi distribuiti ai singoli privati. Inoltre se Romolo, come dicesi, avesse imitato [I testamenti, a cui qui si accenna, sono quelli ricordati da Aulo Gellio, Noct. Attic., VII, 7, 4, 6, e che egli attribuisce l'ano ad Acca Laurenzia, la quale fino il sistema gentilizio, i capi di famiglia avrebbero dovuto soltanto avere la coltivazione e l'uso dei fondi loro assegnati, mentre la proprietà avrebbe dovuto spettare alle genti; e ciò mentre noi sappiamo, che non vi fu mai proprietà più assoluta, che la proprietà quiritaria fin dai proprii inizii. Del resto convien dire, che l'opinione, di cui si tratta, è per sè una conseguenza logica ed inesorabile del ritenere con Mommsen, che Roma risulta dall'incorpora zione e fusione delle varie genti e tribù; poichè è naturale che con un tale sistema lo stato avrebbe dovuto incorporare ogni cosa nelle proprie mani e farne poi il riparto ai singoli capi di famiglia. Solo sarebbe a spiegarsi come lo stato, creando esso la proprietà famigliare e privata, l'avesse costituita senz'altro cosi illimitata, senza confini e senza alcuna sua ingerenza, quale appare essere stata la proprietà quiritaria. Tutte queste incoerenze invece scompariscono quando si ritenga che il comune romano non assorbi nè le tribù, nè le genti, nè le famiglie, ma intese solo a costituire fra di esse un centro di vita pubblica, e non distribui quindi ai privati altre terre. Quanto alla divisione dell'agro fra le tre tribù, a cui accenna Varrone, la medesima non potè essere che una divisione puramente amministrativa, con cui si riconobbe alle varie tribù la parte del territorio, che già loro apparteneva, prima che entrassero a far parte della stessa comunanza. Di qui la conseguenza, che la proprietà quiritaria, ed anche la famiglia, con cui essa appare strettamente congiunta, non possono essere che quella proprietà e quella famiglia, che già esistevano nell'anteriore organizzazione gentilizia, salvo che le medesime, staccate dall'organizzazione stessa, apparvero con un carattere di assolutezza, che prima era temperato dall'am dall'epoca romulea avrebbe lasciato allo stato certi campi siti presso Roma, e da lei ereditati dal proprio marito; e l'altro alla vestale Gaia Taracia, che avrebbe lasciati al popolo romano tutti quei campi presso il Tevere, che presero poscia il nome di campo marzio, dove si radunarono più tardi i comizi centuriati. Pongasi pure che i due racconti siano leggendarii. Ma essi certo hanno un fondo di vero ed indicano quanto meno, che'i cittadini romani non hanno mai creduto che lo stato fosse il proprietario di tutto il territorio. I due testamenti sono anche citati dal De Rug GERO, V ° Ager publicus privatus, nell'Enc. giur. it. Devo però dichiarare che questa divergenza di opinione nulla toglie alla stima che ho grandissima per l'autore, così benemerito per gli studi di diritto pubblico romano.] biente in cui si erano formate. La causa poi, per cui gli assegni di terre furono fatti ai singoli capi di famiglia, o meglio ai singoli seguaci di Romolo proviene da ciò che essi entrarono nella comunanza non come membri delle genti ma nella loro qualità di capi di famiglia, donde la conseguenza, che di fronte alla nuova formazione della convivenza civile e politica, mediante una federazione fra le varie tribù, più non si trovarono di fronte che la proprietà del capo di famiglia (ager privatus) e la proprietà dell'ente collettivo (ager publicus). Continuano però ancora sempre a mantenersi nel fatto gli agri gentilizii, i quali però sono naturalmente destinati a scomparire, a misura che si dissolve l'organizzazione gentilizia, in quanto che a costituire il populus primitivo non entrano già i membri delle genti, come tali, ma soltanto i capi di famiglia in quanto sono ad un tempo proprietarii di terre; il qual carattere del populus viene ancora ad accentuarsi maggiormente colla costituzione Serviana, in base a cui ognuno partecipa ai diritti ed agli obblighi di cittadino (munera), in proporzione del censo. Questo e non altro e il processo seguito nella formazione di Roma, e per conseguenza anche nella formazione della famiglia e della proprietà, quali comparvero nel diritto quiritario. Per ora intanto, prendendo le mosse dall'ordine logico dei fatti e delle idee, che si vennero svolgendo fin qui, cercherò di riassumere logicamente e sotto forma di ipotesi quello svolgimento del l'istituto della proprietà, che più tardi appare comprovato nell'ordine dei fatti. Pongasi che una mano di uomini forti ed avventurosi, appartenenti a genti diverse ma tutte di stirpe latina – “nomen latinum” -- si raccolgano intorno ad un duce di stirpe regia e sotto la sua guida abbandonino la loro residenza gentilizia, per recarsi a fondare uno stabilimento fortificato sul Palatino. Essi, lasciando per ora in disparte il rito religioso seguito nella fondazione, cominciano dall'occupare il suolo necessario per erigervi il loro stabilimento, e cercano anche di fortificarsi in esso, per essere in caso di difendersi dalle popolazioni vicine, le quali, per appartenere forse a stirpi diverse, non possono vedere di buon occhio quest'ospite novello e pericoloso. Quanto al suolo conquistato ed occupato, è naturale che si cominci dal ripartirlo, secondo le regole tradizionali seguite dai maggiori. Del suolo quindi sono fatte tre parti. Una è assegnata al loro capo, al culto, ai publici edifizi. L’altra è divisa fra i singoli capi di famiglia in altrettanti piccoli heredia di due iugeri, i quali potranno essere ritenuti sufficienti quando si consideri, che questi capi di famiglia continuano ancor sempre ad avere i loro agri gentilizi nei dintorni, e solo abbisognano di uno spazio per costruirvi le loro case, con un cortile ed un orto. La terza, infine, è lasciata a pascolo comune per i singoli capi di famiglia, che possono immettervi i proprii greggi ed armenti, pagando un corrispettivo (scriptura), che costi tuirà il primo reddito pubblico. Fin qui però noi non abbiamo ancora, che la tribù dei Ramnenses e lo stabilimento romuleo da essa fondato sul Palatino. Pongasi ora, che, in seguito ad ostilità seguite con altre comunanze stanziate sui colli vicini, gl’uomini atti alle armi e abili per consiglio di queste varie tribù, rappresentati dal proprio capo, con vengano sotto forma di foedera, di entrare nella loro qualità di capi di famiglia e di proprietarii di terre a far parte della stessa comunanza civile e politica. È naturale allora, che il centro e la [Cfr. De RUGGERO, V ° Ager pub. priv., -- ove considera appunto questo riparto attribuito a Romolo come una istituzione fondamentale romana che, conservatasi nei tempi posteriori, puo naturalmente essere attribuita, nella ricostruzione che si fa posteriormente della storia e del diritto primitivo di Roma, anche al fondatore e al legislatore di questo. Ciò lascia credere che l'autore vegga in questo riparto, che pur è attestato da tanti autori e che d'altronde non ha nulla d'improbabile, in quanto che lascia anche le sue traccie nella centuria in agris e nel centuriatus ager, ricordati da Festo e da VARRONE. Non mipare che siavi motivo per un dubbio di questa natura, solo che si spieghi la formazione di Roma, come è accaduta. Che poi il centuriatus ager e la centuria in agris non comprendessero tutto il territorio romano, nè tutto l'ager romanus conglobando in esso anche gli agri gentilizi, ma solo la parte di esso, che era conquistata sul nemico, risulta oltre che dalla definizione datane da VARRONE e da Festo, anche da un testo di Siculo Flacco, citato dallo stesso DE RUGGERO, vº Ager pub. priv. – “Antiqui agrum ex hoste captum victori populo per bina iugera partiti sunt. Centenis hominibus ducentena iugera dederunt.” Cfr. NIEBHUR, Histoire romaine] fortezza dell'urbs si trasportino in un sito, a cui possano avere facile accesso gl’abitanti delle varie comunanze, quale e il sito, che è fra il Palatino ed il Capitolino, il quale verrà così ad essere la comune fortezza e servirà per la costruzione dei pubblici edifizi e sacri. È pero a notarsi, che per eseguire un simile accordo, siccomei capidi famiglia entrano come tali nella comunanza e non quali membri delle genti e delle tribù, così non e punto il caso, che si mettano in comune gli agri gentilizii e i pascoli delle varie tribù. Quindi se le genti e le tribù sono prima ricche ed agiate e possedevano larghi spazii di suolo, sopra cui disperdevano i proprii servi e clienti, continueranno ad essere tali e a poterlo fare anche dopo. Ciò che viene ad essere comune fra di esse è soltanto l'urbs, in quanto essa comprende i pubblici edifizii, i templi consacrati al divino, che la protegge, non che l'arx o fortezza, che serve per assicurare la comune difesa. Intanto, di fronte a questa nuova specie di comunanza, teatro ed organo della vita civile, politica e militare, non esistono che capi di famiglia proprietarii di terre e quindi le sole istituzioni, che abbiano un'importanza giuridica, politica e militare negli inizii di Roma, sono la proprietà e la famiglia unificate sotto il proprio capo. Pongasi ora, procedendo innanzi, che questa mano di uomini forti raccolta in esercito entri in lotta con altre comunanze e che, in virtù di un diritto delle genti universalmente riconosciuto, venga soggiogandone le popolazioni e conquistandone il territorio. Allora e naturale che questa comune conquista appartenga dapprima al popolo stesso e sia cosi considerata come un ager publicus, che verrà con trapponendosi a quell'ager privatus, che già prima apparteneva ai singoli capi di famiglia. Questo infatti è il dualismo, che domina tutta la storia economica di Roma. Però, a misura che si accrescono le conquiste, l'ager publicus pud anche crescere permodo da sopravanzare ai pubblici bisogni e quindi si comprende, che quelli, che cooperarono alla sua conquista, ne domandino la ripartizione almeno parziale. Dapprima tali assegni sul l'agro pubblico – “adsignationes viritanae” -- sono fatti ai più poveri, i quali sono per tal modo posti in condizione di avere quella pro prietà, che è riputata necessaria per partecipare alla comunanza; ma poscia, di fronte all'incremento sempre maggiore dell'ager publicus, si comincia anche a disporne in guisa diversa. Continua sempre ad esservi una parte dell'ager, che è distribuita fra i più poveri della città e fra quelli, che partono per fondare una colonia, e si ha cosi l'ager adsignatus, che serve per somministrare ai cittadini poveri quella proprietà, quel censo, quell'”ager privatus censui censendo”, che è ritenuto necessario per far parte della vera cittadinanza. Un'altra parte invece e venduta ai pubblici incanti (ager quaestorius), o sarà data in affitto, mediante il pagamento di un corrispettivo, detto scriptura (ager vectigalis). Il primo di questi continuerà ad accrescere l'ager privatus, ma non più quello della classe povera, ma di quella ricca ed agiata, che possiede già il capitale per acquistarlo; ed il secondo, quello cioè dato in affitto, finirà col tempo per dare origine a quelle lunghe locazioni, che quasi si assomigliano a vere compre-vendite, dalle quali uscirà poi una nuova forma di contratto, che è l'enfiteusi. Infine dell'ager publicus puo ancora rimanervene una parte, la quale, o per essere sterile o scoscesa (propter asperitatem ac sterilitatem ), non trovi compratori nè affittavoli, o che il consiglio dei padri non abbia ritenuto opportuno di mettere in vendita. Questa parte continua naturalmente ad appartenere all'ager publicus e ancorchè immensamente ampliata colle conquiste corrisponde in certa guisa ai pascua o compascua, che esistevano nelle antiche tribù. Quindi si comprende come i padri delle genti patrizie, memori ancora del diritto che hanno di slargare nei pascua i proprii greggi ed armenti (compascere), affermino il loro diritto di occupare questa terra in certo modo abbandonata e di spargere in essa le tormedei clienti e dei servi ed anche dei liberi, che siano alla loro mercede. Sorge per tal modo il concetto dell'ager occupatorius, il quale, non essendo stato acquistato, non può certo essere oggetto di proprietà privata, ma costituisce le cosi dette possessiones, le quali, dopo essere durate per qualche tempo, acquistano un carattere pressochè giuridico e danno occasione di [Tutto questo processo ci è attestato dagli agrimensori romani, dei quali sappiamo, che avevano grande autorità anche nelle provincie. L'autore, che primo mise in evidenza l'importanza dei loro scritti, e NIEBHUR, che loro dedica un saggio che può vedersi nell' Histoire romaine. Ora poi sta preparando un lavoro di lena sugli agrimensores Brugi. Quanto alle affermazioni, che sono contenute nel testo, sono esse abbastanza giustificate da quegli estratti degli agrimensores, che sono raccolti dal Bruns, Fontes. Qui infatti io non mi proponeva di entrare in particolari discussioni, ma bensì di mettere in evidenza il processo, che i romani hanno ad applicare costantemente nella distribuzione di un agro, che veniva crescendo colle loro conquiste.] svolgersi alla protezione pretoria, la quale fa cosi entrare nelius honorarium l'istituto giuridico del possesso. Intanto tutta questa parte dell'ager publicus, che è cosi lasciata alla occupazione, viene ad essere come una sottrazione alle ripartizioni gratuite fra quelle classi inferiori, che non hanno mezzi e capitali per tentare una occupazione, e che, anche avendoli, non sarebbero dal senato autorizzati a farla, e quindi tra il patriziato antico, a cui si aggiunge col tempo la nuova nobiltà plebea, e la plebe minuta viene ad esservi una opposizione di interessi. Da una parte si ha interesse a provocare nuovi riparti per impedire le occupazioni e per limitare le occupazioni stesse, che col tempo minacciano di trasformarsi in latifondi; e dall'altra parte ogni ripartizione, se riguarda terreni già occupati, appare in certa guisa come una usurpazione di possessi lungamente durati, e se riguarda terreni solo conquistati di recente, appare come una sottrazione a quel diritto di occupazione, che il patriziato attribuisce a sè stesso. Di qui le lotte intorno alle leggi agrarie, le trasformazioni del concetto ispiratore delle medesime, e infine la insufficienza di esse per risolvere la grande questione sociale dell'epoca, allorchè l'antico patriziato e la nuova nobiltà plebea si strinsero insieme contro una plebe minuta, che già comincia a cambiarsi in una turba forensis, e che incapace di durare in lunghi e persistenti sforzi già si era as suefatta a preferire alle conquiste legali gli spettacoli del circo e le distribuzioni di frumento. Con cio non intendo però di ammettere l'opinione di Niebhur, di SAVIGNY e di altri, che farebbero nascere il concetto della possessio coll'ager pubblicus. Io credo che la *possession*, come istituzione di *fatto* più che di diritto, avesse origini ben più antiche, e che la medesima sia stata anzi il modo, con cui i plebei occuparono le prime terre nei dintorni della città patrizia, il che però non toglie che la prima tutela giuridica del possesso abbia anche potuto cominciare colle possessiones nell'agro pubblico: cosicchè accade del possesso, come di un grandissimo numero di altre istituzioni, che prima cominciano ad esistere di fatto e solo più tardi entrano a far parte del diritto civile di Roma. Che anzi, dacchè sono in quest'ordine di idee, aggiungerà ancora che il concetto dell'ager occupaticius già erasi formato anche prima delle occupazioni del patriziato sull'ager publicus. Lo dimostra Festo, vº Occupaticius, ove scrive: < occupaticius ager dicitur qui desertus a cultoribus frequentari propriis, ab aliis occupatur ». (Bruns, Fontes) -- la qual deffinizione dimostra che anche fuori dell'ager publicus poteva formarsi l'ager occupaticius, il quale perciò differisce dall'occupatorius. Intanto è sempre da questo ager publicus, che ricavansi eziandio gli assegni, che si sogliono fare alle colonie, alle città benemerite del popolo romano, e infine alle stesse provincie. Trattandosi di colonie, questi esemplari di stabilimenti che Roma crea a somiglianza di sè stessa, traendone la popolazione dal proprio seno, si applica quel medesimo sistema, che si applica per la popolazione di Roma, il sistema cioè delle adsignationes viritanae, fatte ad ogni capo di famiglia, ed hannosi così quegli agri, che gli agrimensori chiamano divisi et adsignati, i quali sono fuori di Roma una imitazione di quegli assegni di piccoli heredia, che facevansi un tempo ai cittadini poveri di Roma. Se trattisi invece di città benemerita, a cui il senato e il popolo sovrano intendano di dare un segno di soddisfazione ed un corrispettivo ad un tempo per i servizii prestati, havvi l'ager mensura comprehensus, il quale, essendo assegnato come proprietà collettiva ad una città, non è determinato che nella sua generale misura. Infine se trattasi di delimitare in modo almeno generico i confini del territorio di una popolazione si ricorre alle indicazioni delle valli, dei fiumi, dei torrenti, delle grandi strade, dell'acqua pendente, a quelle indicazioni insomma, che in un periodo ancora molto remoto serviranno poi ad indicare il territorio, che dalla natura stessa sembra essere segnato ai singoli stati e alle nazioni, e si avrà così quell'ager, che gli agrimensores chiamano “arcifinius”. Infine anche nelle porzioni di agro pubblico, che sono vendute all'incanto o date in affitto (ager quaestorius, ager vectigalis), possono esservidelle parti, che, per essere scoscese o sterili, non possono trovare da sole nè compratori, nè affittavoli, e in allora questi siti si aggregano a quelli, che già furono venduti o a quelli dati in af fitto « in modum compascuae », il che significa che essi, a somiglianza dei primitivi compascua, si ritengono appartenere per la proprietà o per il godimento ai più vicini fra quelli, che hanno comprato od affittato gli altri. Di qui la creazione di una specie di proprietà o di possessione privata, con pertinenze consistenti in pascoli accessorii, la cui proprietà e il cui godimento possono dare occasione a questioni fra i giureconsulti per vedere se, vendendosi od affittandosi il fondo principale senza parlare del pascolo accessorio, anche questo debba ritenersi compreso nella vendita o nell'affittamento, sul che [Frontinus, De agrorum qualitate et condicionibus, BRUNS, Fontes] giureconsulti risponderanno affermativamente, quando non consti dell'intenzione contraria dei contraenti. Pongasi infine, e anche quest'ultima supposizione è stata una realtà, che la piccola tribù del Palatino, mutatasi poi nella Roma dei sette colli, divenga conquistatrice dell'universo allora conosciuto, e quindi anche legislatrice del suo suolo. Ma essa continua pur sempre ad applicare, nel piccolo e nel grande, entro l'Italia e fuori di essa, nella proprietà e nel possesso, nel territorio italico e nel suolo provinciale, quei concetti, che ebbe ad applicare nelle proprie origini, e che noi abbiamo dimostrato essersi già preparati in un periodo anteriore alla formazione stessa di Roma. Certo questi sono svolgimenti logici, che precorrono la serie dei fatti, ancorchè siano fondati sopra di essi; ma non sono inopportuni per mettere ordine in una materia, che le minute indagini hanno tal volta resa intricatissima, e danno anche un esempio sensibile del processo semplice, ma sempre logico e coerente, che Roma ha ad applicare non solo nell'estendere il concetto della sua proprietà a tutto il territorio da essa conquistato, ma anche nell'estendere la sua cittadinanza e l'impero della sua legislazione al mondo allora conosciuto. Sono i grandi popoli che con mezzi semplici e pressochè tipici applicati in proporzioni e in condizioni diverse sanno conseguire i grandi effetti. È questo un esempio di quella dialettica potente e pressochè celata, che senza apparire negli scritti dei giureconsulti, i quali sembrano talvolta smarrirsi nei casi singoli e nelle fattispecie, trovavasi tuttavia nei loro intelletti, ed era certo nella mente del popolo da essi rappresentato. Ci sono altre applicazioni di questo processo dialettico, che, mentre non appare allo sguardo, stringe però con una coerenza meravigliosa le parti più disparate della giurisprudenza romana. [Higinus, 117. « In his igitur agris quaedam loca, propter asperitatem aut sterilitatem, non invenerunt emptores; itaque in formis locorum talis adscriptio facta est in modum compascuae; quae pertinerent ad proximos quosque possessores, qui ad ea attingunt finibus suis ». Bruns, -- Frontinus poi, De controversiis agrorum, soggiunge: « Nam et per haereditates aut emptiones eius generis (pascuorum) controversiae fiunt, de quibus iure ordinario litigatur ». Bruns -- È da vedersi a proposito di tali controversie lo scritto del Brugi, “Dei pascoli acces sorii a più fondi alienate”. Bologna. In una organizzazione come quella che ho cercato di ricostruire, così nelle persone che entravano a costituirla, che nei territorii che le servivano di sede, sarebbe affatto fuor di luogo il ricercare delle norme direttive della vita pubblica e privata, che potessero meritarsi il nome di leggi nella significazione, che noi sogliamo attribuire a questo vocabolo. Ormai il lavoro di secoli ha strettamente legato il vocabolo di “legge” e la significazione sua propria alla convivenza civile e politica. Senza negare che un tempo l'uomo abbia ricavato l'idea di una legge direttiva delle cose umane dalla contemplazione dell'ordine, che governa l’universa natura, questo è certo che il vocabolo di legge, nella sua significazione originariamente romana, che poi fu adottata da tutti gli altri popoli, significa ormai l'espressione di una volontà collettiva, che si imponga alle singole volontà individuali. Esso quindi suppone la distinzione fra l'ente collettivo ed i singoli, fra lo stato organo ed interprete della volontà comune e I membri che entrano a costituirlo. È quindi inutile cercare della legge, nel senso proprio della parola, in un'organizzazione, in cui lo stesso gruppo compie ad un tempo le funzioni domestiche e le funzioni politiche, e nel quale pertanto non si può rinvenire la distinzione fra il tutto in sè e le parti, che entrano a costituirlo e neppure quella fra la vita pubblica e la vita privata. Siccome tuttavia qualsiasi stadio di organizzazione sociale suppone di necessità delle norme, che lo governino, cosi noi possiamo indurre, che queste norme non dovettero mancare nel periodo gentilizio. Anzi si può anche aggiungere, che fra le varie forme di organizzazione sociale quella, che tende più di qualsiasi altra a stringere in certe regole precise cosi i rapporti domestici, che quelli della vita esteriore, è certo la comunanza gentilizia, la quale, essendo esclusivamente fondata sulla eredità, finisce per trasmettere, di generazione in generazione, non solo IL SANGUE e degli antenati, non solo il patrimonio e il territorio da essi conquistato, ma anche il nucleo delle tradizioni dei maggiori. Si aggiunge, che al modo stesso che le genti, fisse nell'esempio dei proprii antenati, finiscono per mutarli in oggetto di culto, cosi anche le loro tradizioni tendono, non per impostura di uomini ma per un naturale processo di cose umane, ad assumere un carattere sacro e religioso, per cui qualsiasi atto anche meno importante finisce per acquistare una significazione religiosa. È questa tendenza, cheha condotto tutte le comunanze gentilizie a diventare pressoché immobili e stazionarie, e che avrebbe prodotto forse il medesimo effetto fra le genti italiche, come lo produsse fra le altre genti che appartengono alla medesima stirpe, quando fra esse non si fosse formato un nuovo focolare di vita, che fu quello che brucia nel tempio di Vesta, cambiatasi in patrona della città. Che anzi non dubiterei di affermare, che quello stesso spirito conservatore, che appare in Roma primitiva, sopratutto per parte del patriziato, non è che una trasformazione di questa tendenza naturale delle comunanze gentilizie a diventare immobili e stazionarie, quando sono pervenute a quel maggiore sviluppo, che può comportare il principio informatore di esse. Dal momento in fatti, che questa tendenza all'immobilità e a fare entrare ogni elemento in quadri precisi, determinati dal costume e consacrati dalla religione, male può accomodarsi ad una città piena di vita, i cui elementi nuovi più non possono ad un certo punto entrare nei quadri antichi, è ben naturale, che la tendenza stessa riducasi a trapiantare nel nuovo terreno quanto più si possa dell'antico ordine di cose ed a lottare per la conservazione di esso, come chi è pro fondamente convinto di lottare per uno scopo religioso e santo. È questo culto del passato, che contraddistingue le genti italiche [È abbastanza noto come in quella guisa che la famiglia aveva per centro il focolare, che le serviva anche di altare, così la città ha pur essa un pubblico focolare nel tempio di Vesta, la quale per tal modo di dea del focolare domestico venne a cambiarsi in custode e patrona del focolare di Roma. Questo invece è da essere notato, che le recenti scoperte intorno al “locus Vestae” hanno dimostrato, come questo focolare si trovasse a piedi del Palatino presso il foro e fuori della Roma quadrata; il che serve a provare sempre più, che la vera città, di cui dove essere centro il tempio di Vesta, non era già lo stabilimento romuleo primitivo, ma bensì la città dei Quiriti, che risultò dalla confederazione delle varie comunanze. In una casa poi attigua altempio di Vesta dimora, secondo la tradizione, il Re (domus regia Numae), il quale, come custode della città, dove pur trovarsi nel centro di essa. Cfr. LANGE, Histoire intérieure de Rome, -- dalle elleniche. Mentre queste colla loro intelligenza acuta e profondamente critica, appena hanno analizzate le proprie tradizioni, rivestite anch'esse di carattere religioso, le abbellirono e trasformano colla propria fantasia e finirono per ridurle in frantumi, la credula e religiosa Italia invece colla sua intelligenza più tarda, ma colla sua volontà più tenace le conservo a lungo e potè cosi rica varne tutto il succo vitale, che contenevasi in esse. Questo intanto è certo, che appena noi possiamo arrestare lo sguardo, non sulle gesta primitive delle genti italiche, che solo più tardi furono argomento di storia, ma sul linguaggio di esse e sulle traccie della loro civiltà, che sopratutto ci serbd il culto per i tra passati, noi riconosciamo immediatamente, che tutte le loro tradizioni, le cui origini sono celate in un remotissimo e misterioso passato, hanno già assunto un carattere sacro e religioso. Una religione, per nulla immaginosa ed estetica come la ellenica, ma eminentemente pratica ed applicata con cura minuta a tutte le emergenze della vita, ha già consacrato le basi della organizzazione gentilizia, per modo che le genti italiche, sempre occupate dal divino, che sovraintendono a ciascun atto della vita, cercano con tutti i mezzi di riconoscere i segni della benevolenza o malevolenza divina. Per gli atti della vita quotidiana questa volontà potrà essere indicata anche dai piccoli incidenti della vita; mentre per i fatti di importanza maggiore per il gruppo, è la volontà del cielo, che deve essere consul [Osserva giustamente il SUMNER Maine, L'ancien droit, che mentre l'intelligenza greca colla sua mobilità e la sua elasticità era incapace di chiudersi nella stretta veste delle formole legali, Roma invece possede una delle qualità più rare nel carattere delle nazioni, che è l'attitudine ad applicare e a svolgere il diritto come tale, anche in condizioni non favorevoli alla giustizia astratta, non scompagnata tale attitudine dal desiderio di conformare il diritto ad un ideale sempre più elevato. Del resto il primo, che con occhio veramente acuto abbia scrutato le attitudini mentali diverse dei greci e dei romani, è il nostro Vico, De uno et universo iuris principio et fine uno. D'allora in poi il paragone non è più venuto meno. Lo fanno gli storici, come Mommsen, LANGE ed altri; lo fanno parimenti gli studiosi della giurisprudenza comparata, come MAINE, op. cit., Freeman, Comparative politics, London, Hearn, Arian Household, London, IHERING, L'esprit du droit Romain. Per maggiori particolari in proposito mirimetto al libro: La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale,. ove ho tentato di richiamare alle facoltà psicologiche prevalenti presso i due popoli il diverso svolgimento, che i medesimi ebbero a dare alla religione, al diritto, ed alle istituzioni sociali e politiche] tata. Di qui quella osservazione antichissima del volo degl’uccelli, che è d'origine latina, e l'altra dell'osservazione delle viscere degli animali da sacrifizio, che è di origine etrusca, e quel concetto per noi pressochè incomprensibile degli auspicia, che appartengono al magistrato e che danno al suo potere una consacrazione religiosa e giuridica ad un tempo. Per attenersi tuttavia a quel complesso di norme, che riflettono la vita, intesa questa distinzione in un senso che possa applicarsi al periodo gentilizio, noi troviamo che anche in questa parte le genti italiche mostrano fin da principio decisa tendenza a racchiudere le loro tradizioni in forme certe e precise, e a designarle con vocaboli di significazione determinata, la cui semplicità primitiva sembra indicarne l'antichità remota. Questi vocaboli per le genti latine sono quelli di “mos”, di “fas” e di “jus”, i quali tutti nelle origini sembrano presentarsi con una significazione, che tiene del religioso e del sacro. Del “mos” infatti noi abbiamo una definizione conservataci da Festo. “Mos est institutum patrium, id est memoria veterum pertinens maxime ad religiones caerimoniasque antiquorum.” Qui è notabile anzitutto la significazione larghissima, attribuita al vocabolo, per cui tutte le patrie tradizioni sarebbero inchiuse nel medesimo, come pure l'esplicazione che viene dopo, la quale, restringendo in apparenza il contenuto del vocabolo, indica in sostanza che la parte. BouchÊ-LECLERCQ, Histoire de la divination dans l'antiquité, e lo stesso autore, Institutions romaines. Questo ricorrere agli auspizii in ogni affare pubblico e privato è attestato da Servio, In Aen. “Romani nihil nisi captatis faciebant auguriis et praecipue nuptias” e da CICERONE, De divin. “Nihil fere quondam maioris rei nisi auspicato ne privato quidem gerebatur, quod etiam nunc nuptiarum auspices declarant.” Per quello poi, che si riferisce agl’auspicia, alle varie loro specie, alla procedura solenne, da cui erano accompagnati, ed alla importantissima distinzione fra auspicia privata e publica, distinzione, che fu anch'essa un effetto della formazione di Roma, non ho che a riferirmi alla trattazione magistrale di Mommsen, “Le droit pubblic romain”. Trad. Girard, Paris] prevalente nelle istituzioni dei padri era sopratutto quella, che si rifere alla religione ed alle cerimonie di essa. Questo carattere religioso non ha poi bisogno di essere provato quanto al vocabolo di “fas”. Poichè il fas delle genti italiche è paragonato dagli stessi scrittori latini alla Oeuis dei Greci, e col tempo fu questo vocabolo di fas, che, distinguendosi sempre più da ogni altro elemento estraneo, fini per significare quelle norme di carattere esclusivamente religioso, che si riferiscono agli auspicia, al l'arte augurale ed alle cerimonie del culto. Infine i più recenti investigatori del significato primitivo del “ius”, quali Leist,  Bréal, al quale aderisce anche Muirhead, e diavviso, che il medesimo nelle proprie origini avesse eziandio una significazione religiosa. Cosi Bréal ritiene, che il “ious” antico dei latini, cambiatosi poscia in “ius”, sia perfettamente conforme al iaus, che occorre nel più antico vocabolo, la cui significazione è alquanto vaga ed incerta, ma che egli ritiene essere quella di « volontà, potenza, protezione divina ». Questa primitiva signifi [Festo, vo Mos. È poi notabile come lo stesso Festo, confermando il carattere religioso, comune al mos ed al fas, definisca il ritus dicendolo un “mos comprobatus in administrandis sacrificiis ». Bruns, Fontes, -- Festo, v° Themin, scrive. “Themin deam putabant esse, quae praeciperet ho minibus quid fas esset, eamque id esse existimabant, quod et fas est.” Bruns, Fontes. Lo stesso concetto ha ad esprimere Ausonio, Edyl.: “Prima deum Fas Quae Themis est Graiis.” Per altri passi è da vedersi Voigt, Die XII Tafeln. È poi degno di nota, che nelle formole antiche occorre sovente la frase “secundum ius fasque”, la quale indica in certo modo il bisogno di dare al diritto anche l'appoggio del fas. BRÉAL tratta la questione in “Sur l'origine des mots dési gnant le droit et la loi en latin” nella “Nouvelle revue historique de droit Français et étranger” -- la cui conclusione è la seguente: “Le droit, qu'on a appelé la création la plus originale du génie latin, et qui a l'air de sortir tout d'une pièce de la tête des décemvirs a ses origines dans le passé le plus lointain. Il est inséparable des premières idées religieuses de la race. Questo è pure il concetto di LEIST, Graec. Ital. R. G., MUIRHEAD, Hist. Introd., segue l'opinione del Bréal. Parmi però, che questa etimologia non debba fare abbandonare intieramente quella dalla radice s < iu, che significa stringere, legare, unire, la quale indicherebbe la funzione, che il diritto compie di vinculum societatis humanae. Questo è certo, ad ogni modo, come nota Bréal, che le parole mos, fas e ius debbono essere considerate come caposti pite, e quindi, più che derivare da altre, sono esse che diedero dei derivati, quali. cazione del vocabolo spiega poi come tanto i Latini attribuissero un carattere religioso e sacro alla “lex”, sebbene questi due vocaboli siano di più recente formazione, e ritenessero la legge come un dono del divino; come pure spiega quel sentimento, le cui traccie occorrono ancora in Roma, per cui si ama meglio di lasciar cadere in dessuetudine il diritto costituito, che non di abrogarlo espressamente. Intanto questo carattere comune a questi diversi vocaboli e ai concetti inchiusi neimedesimi, conduce ad inferire, che dovette forse esservi tempo, in cui furono contenuti in qualche concetto più vasto e comprensivo, del quale essidebbono perciò considerarsi come specificazioni ed aspetti diversi. Questo concetto, secondo Müller ed anche secondo Leist, sarebbe stato dagli antichi arii significato col vocabolo di rita, il quale esprime ora l'ordine che regge l'universo, col suo alternarsi del giorno e della notte, ed ora l'ordine stesso della natura, in quanto governa il generarsi, il crescere e il disparire degli esseri viventi. A questo vocabolo di rita corrispon dono perfettamente i concetti del “ritus”, del “ratum” e della “ratio” dei latini, ed anche quello, che essi indicano coll'espressione di “rerum natura”, per guisa che anche il concetto di “ius naturale” nel senso che ha ad essergli attribuito da Ulpiano di un “ius quod natura omnia animalia docuit” puo rannodarsi a questi primitivi concetti. Lo stesso Leist poi osserva, che al concetto fondamentale di rita o di ratio la sapienza antichissima degl’arii associa altri con sarebbero quelli di fari, iubere, iustitia, iudes, iurgium, iniuria e simili. Una trattazione poi di questo elemento etico e religioso dell'antico diritto, sussidiata da una larghissima erudizione, occorre in Voigt, Die XII Tafeln. Leist. Ciò confermerebbe l'asserzione contenuta nelle Institut. Justin.: “palam est autem vetustius esse ius naturale, quod cum ipso genere humano rerum natura prodidit: civilia enim iura tunc esse caeperunt, quum et civitates condi, et magistratus creari,et leges scribi caeperunt.” Questo è certo poi, che a questo diritto naturale primitivo anteriore alle leggi accennano soventi i filosofi latini. Cfr. Henriot, Meurs jur. et judic. Conviene quindi indurne che il concetto di un diritto della natura comincia in certo modo ad essere sentito dall'universale coscienza, e solo più tardi diventò anch'esso argomento di una elaborazione filosofica. In proposito la classica opera del Voigt, “Das ius naturale, bonum et aequum et ius gentium der Römer”, Leipzig] -cetti, che sono espressi coi vocaboli di orata, a cui corrisponde il fas e il ratum dei latini, due vocaboli che sovente procedono uniti: di dhāma, che egli dice analogo alla Oeuis greca e infine quello di svadhā, che corrisponderebbe all'čnog od neos dei Greci e quindi anche al mos dei latini, mentre infine il concetto di dharma già si accosterebbe, quanto alla sua significazione, al vocabolo latino di lex, il quale sarebbe però sopravvenuto più tardi. Parmi tuttavia che la parentela ed analogia fra questi varii concetti possa essere facilmente spiegata, quando si consideri che fra i latini il vocabolo di ratum e quello più astratto di ratio, si associano talvolta al fas, al ius ed anche al mos. Si può quindi inferirne con fondamento, che il ratum, da cui derivò poi ratio, significava l'ordine, che governa il corso delle cose divine ed umane, mentre il fas, il mos ed il ius, che dapprincipio si presentano tutti circondati da un'aureola religiosa, significano i diversi aspetti, sotto cui si manifesta questa forza o volontà operosa, che muove e regge l'universo. Il fas quindisarebbe la stessa volontà divina, in quanto si estrinseca nei fenomeni della natura, ed è interpretata da coloro che sanno conoscerne il significato riposto. È quindi dal fas, che derivano i riti e le cerimonie del culto, le quali sono appunto intese a rendere propizia agli uomini la volontà divina, e che presso le genti italiche assumono anche esse il carattere contrattuale del « do ut des ». Il mos significa la stessa volontà divina, ma non più in [ Leist. Questo scindersi dal concetto primitivo appare nelle parole di Virgilio “Fas et iura sinunt” che Servio commenta con dire – “id est divina humanaque iura per mittunt; nam ad religionem fas, ad homines iura pertinent.” In Aen.  (Bruns, Fontes). La parentela poi fra i vocaboli di ratum e di ratio è dimostrata da Leist con una quantità di passi da lui citati nella Graec. It. R. G. Ciò appare da tutte le formole primitive, che si indirizzavano agli dei di una città nemica, per ottenere che i medesimi abbandonassero la città stessa. V. HUSCHKE, Iurisp. anteiust. quae supersunt, Nota in proposito il Bouche-LECLERCQ, Institutions romaines, che il culto romano e una procedura del tutto analoga a quella delle « legis actiones > che i pontefici trasmisero poi più tardi ai giureconsulti. Che anzi per i Romani il sacrifizio è una offerta fatta in uno scopo interessato e la preghiera, che necessariamente l'accompagna, è una stipulazione, il cui effetto è infallibile, se essa sia concepita nei termini sacramentali, fissati dal costume – “rite”. Ciò significa che è per tal modo immedesimata coi romani l'idea secondo la quale il diritto formasi mediante la convenzione e l'accordo, che essi in ogni argomento scorgono una specie di contratto.] quanto si rivela con segni, la cui interpretazione è lasciata al sacerdote. Ma bensì in quanto si palesa in quella tacita hominum conventio, che dà appunto origine al costume ed alla consuetudine. Infine il “ius” è sempre questa stessa volontà divina, ma in quanto viene ad essere interpretata e statuita espressamente dagli uomini, che appartengono alla comunanza, nell'intento di provvedere alle esigenze della medesima. Per tal modo da un unico ceppo sonosi staccate propaggini diverse; ma siccome esse continuano ancora sempre ad essere in comunicazione fra di loro, così è molto difficile il precisare la significazione di ciascuna, sopratutto nel periodo gentilizio, allorchè vindice di questi varii aspetti della volontà divina era l'autorità patriarcale del padre e del consiglio degli anziani. È poi'degno di nota, che questi varii concetti, negli inizii di Roma, si presentano come patrimonio esclusivo delle genti patrizie come appare da ciò, che queste chiamano le usanze plebee non già col vocabolo di mores, ma con quello di “usus.” Ed anche da ciò che la cognizione del fas e del ius fu per lungo tempo un privilegio del patriziato ed una causa della sua superiorità sopra la plebe. In ciò può con fondamento scorgersi una prova, che queste nozioni doveno elaborarsi in altro suolo ed essere trapiantate da genti migranti dall'Oriente sul suolo italico, ove hanno poiservito per l'educazione di stirpi, che si trovavano in condizioni inferiori di civiltà. Sebbene qui non possa essere il caso di cercare in quale ordine questi varii concetti siansi venuti formando, non è tuttavia inopportuno di avvertire, che, nelle origini, il primo a prodursi, almeno nell'ordine dei fatti, dovette probabilmente essere il “mos”, il quale, dopo essersi formato pressochè inconsapevolmente nel seno delle comunanze patriarcali, viene poi mutandosi in una tradizione, che si trasmette di genitore in figlio e che col tempo assume un carattere sacro e religioso. È poi nel seno di questo mos primitivo, che si opera una distinzione, in virtù della quale una parte di esso riceve una sanzione religiosa, e l'altra una sanzione giuridica, mentre una parte continua sempre ad avere un carattere puramen temorale e costituisce ciò che le genti latine chiamano “i boni mores”. Intanto egli è certo, che le genti italiche si presentano con questi varii concetti, già compiutamente formati, e che fra essi ha già acquistata una incontestabile prevalenza quello del fas. E il fas, che primo ha a ricevere elaborazione e a concretarsi in certe massime, riti e pratiche, che tendono a diventare immutabili e ferme, come la volontà divina, di cui si ritengono essere l'espressione. È poi sotto la protezione del fas, che si vennero elaborando i concetti del ius e e dei boni mores, al modo stesso che più tardi sarà sul modello del ius pontificium, che verrà a formarsi il ius civile. Quasi si direbbe che, mancando ancora un'autorità abbastanza salda per porsi alle passioni dell'uomo in un periodo di lotta e di violenza, siasi sentita la necessità di porre sotto la protezione divina anche quelle regole, che appariscono indispensabili per il mantenimento della convivenza sociale. Intanto queste considerazioni intorno ai concetti fondamentali, che costituiscono il substratum della sapienza popolare delle genti italiche, ci preparano la via a comprendere il processo storico, secondo cui venne svolgendosi ciascuno di essi. Il vocabolo di fas esprime per le genti italiche, più fantastici ed immaginosi, giunsero perfino a personificare nei concetti di Themis, Nemesis, Adrasteia. Esso è l'espressione della volontà divina, in quanto impone e regge l'ordine delle cose divine ed umane, e vendica in modo irresistibile le violazioni, che l'uomo rechi al medesimo colle proprie azioni. Nel fas pertanto non è solo compresa una parte, che si riferisce ai riti e alle cerimonie del culto, ma una parte eziandio, che contiene delle norme che riguardano l'umana condotta. Che anzi, siccome la riverenza per il divino non è propria di questa o di quella gente, ma è comune alle varie genti, cosi è anche sotto la protezione del fas, che si trovano tutti quei rapporti fra le varie genti, senza di cui sarebbe stato impossibile, che esse potessero entrare in comunicazione le une colle altre. È quindi il fas, che determina i modi in cui debba es sere dichiarata una guerra, e copre della sua protezione coloro, che sono inviati a trattare le alleanze e le paci. È esso parimenti che dà un carattere sacro a quell'istituzione dell'ospitalitá (hospitium), che ha un così largo sviluppo presso le genti primitive, e che poi ricompare, come hospitium publicum, dopo la formazione [Per una più larga prova di questa analogia, vedi CARLE, La vita del di ritto, cogli autori ivi citati] della città, come pure è il fas che consacra le obligazioni, che intercedono fra il patrono ed il cliente. È esso, che condanna le violenze dei figli verso i genitori, le nozze incestuose, il falso giuramento e il venir meno ai voti fatti al divino, e alle promesse, che sotto il suggello della fides siansi fatte anche ad uno straniero. Esso in somma nei primordii sembra abbracciare i rapporti fra i membri della famiglia, quelli fra le varie genti, e quelli infine fra le varie tribù; donde la conseguenza, che anche più tardi, allorchè si tratto di patti fondamentali fra il patriziato e la plebe, questa per assicurarne l'adempimento non trova altro mezzo, che di porre i medesimi sotto la protezione di quel fas, che esercita tanto impero fra le genti patrizie, come lo dimostra il concetto ispiratore delle cosi dette leges sacratae. Chi poimanchi a questo complesso di norme, sopratutto allorchè lo faccia di proposito (dolo sciens), mentre offende gli uomini reca pure offesa al divino, e quindi deve espiare il proprio fallo, mediante certi sacrifizii, le cui traccie occorrono ad ogni istante nel ius pontificium e negli scritti dei più antichi giureconsulti, che si erano formati sullo studio di esso; i quali sacrificii prendevano il nome di piacula, e dovevansi anche fare, allorchè altri cade in fallo per semplice imprudenza (imprudens). Di qui si raccoglie, che già dall'epoca più remota, a cui rimontino le tradizioni, trovasi la distinzione, almeno fra le genti patrizie, fra colui che abbia compiuto un delitto di proposito (dolo malo, dolo sciens, prudens), e quello invece, che l'abbia compiuto solo per imprudenza (imprudens), nel che si avrebbe una prova, che queste genti già erano pervenute a tale da analizzare l'atto umano e scrutare perfino l'intenzione dell'agente, sebbene più tardi il diritto quiritario dove fare un passo in dietro, come quello che dove applicarsi a classi, che non erano tutte giunte allo stesso grado di sviluppo. Che se il fallo sia tale [Sul carattere delle leges sacratae è da vedersi Lange, De sacrosanctae tribuniciae potestatis natura, eiusque origine. Lipsiae -- Sono poi diversissime le guise, mediante cui le promesse, che non avevano ancora sanzione giuridica, si mettevano sotto la protezione del fas. Sopratutto a ciò serviva il giuramento, la cui larghissima applicazione, nel periodo storico, appare dal diligente lavoro di Bertolini, Il giuramento nel diritto privato romano. Roma. Cio è dimostrato dal fatto, che la distinzione fra l'omicidio commesso di proposito e quello commesso per imprudenza già occorre nelle leges regiae attribuite da non potersi espiare in questa guisa, in allora il reo viene assoggettato ad una specie di espiazione sacrale, la cui forma tipica consiste nella capitis sacratio. Questa dove essere pena gravissima durante il periodo gentilizio, poichè il colpevole veniva con essa ad essere sot toposto ad una specie di scomunica religiosa e domestica, che lo stacca dal gruppo gentilizio, di cui faceva parte, e lo poneva in certo modo fuori della legge, per guisa che sebbene il sacrifizio della sua vita non potesse essere accetto al divino, esso puo pero essere ucciso impunemente da chicchesia. Di qui il carattere di espiazione sacrale, che informa ancora tutto il diritto penale di Roma, durante il periodo patrizio, come pure i vocaboli e i concetti di expiatio, supplicium, di consecratio bonorum, di interdictio aqua et igni, i quali confermano l'osservazione di Voigt, secondo la quale le genti patrizie avrebbero ravvisato nei delitti più un'offesa al divino che non agl’uomini, a differenza delle plebi, che risentivano di preferenza l'offesa e il danno materiale. Non potrei quindi ammettere l'opinione di coloro, i quali, supponendo le genti italiche in una condizione del tutto primitiva e come nella loro infanzia, mentre sotto un certo aspetto sono già nella loro età matura, vogliono ad ogni costo trovare nel diritto penale le traccie della vendetta. Se cio intendasi nel senso che erano i singoli capi di famiglia, che dovevano essere essi i vindici del proprio diritto e proseguire le offese, che loro fos sero recate, in mancanza di un'altra autorità che lo facesse per essi, ciò può essere facilmente ammesso. Che se invece si intenda che nella stessa comunanza gentilizia dovessero spesseggiare una reazione violente e una vendetta, cio più non può conciliarsi col rattere patriarcale di una comunanza, ove tutto è già regolato dalla a Numa. V. Bruns, Fontes. Tale distinzione poi incontrasi frequentemente in ciò, che a noi pervenne degli scritti dei pontefici dei veteres iurisconsulti. Che anzi pare, che, secondo il Pontefice Quinto Muzio Scevola, i fatti commessi contro il fas allora soltanto potessero espiarsi colla piacularis hostia, quando fossero compiuti per imprudenza; mentre non ammettevano espiazione, quando fossero commessi di proposito. Ciò appare dal seguente passo tolto da VARRONE, De ling. lat. Praetor, qui diebus fastis tria verba fatus est, si imprudens fecit, piacu lari hostia piatur; si prudens dixit, Quintus Mucius ambigebat eum expiari non posse.” Altri esempi occorrono in Huschke, Iurisp. anteiust. quae sup., Voigt, XII Tafeln] religione e dal costume. Non potrebbe certo affermarsi che anche le genti italiche non abbiano attraversato uno stadio, in cui dovette dominare la forza, la vendetta e la violenza. Ma l'organizzazione patriarcale e i vincoli strettissimi di essa erano già un mezzo per uscire da tale condizione di cosa. Quindi, se si deve giudicare dal diritto primitivo di Roma patrizia, sarebbero così poche le traccie, che rimangono in esso della vendetta, nel senso che suole attribuirsi a questo vocabolo, da doverne inferire che nel periodo gentilizio la religione, compenetratasi in ogni atto della vita, ne aveva già cacciata la vendetta ed aveva esclusa perfino la composizione a danaro, almeno nella cerchia delle genti patrizie. Che se il padre di famiglia può incrudelire contro la moglie e la figlia adultera e contro l'adultero (sorpresi in flagrante), o contro il ladro, egli lo fa più come giudice e come investito di un carattere sacerdotale, che non come uomo, che si abbandoni all'impeto della collera e della vendetta. La religione già incatena le passioni dell'uomo, ed è solo più fra la plebe, che ancora si trovano le traccie della vendetta e della composizione a danaro, le quali poi ricompariscono in qualche parte nella legislazione decemvirale, come quella che era comune ad entrambe le classi. Fra gli autori, che cercano di dare una larga parte alla vendetta nel diritto romano, havvi il MUIRHEAD, Hist.introd. Egli argomenta da ciò, che colui il quale commetteva un omicidio per imprudenza dove fare l'offerta di un ariete agli agnati dell'ucciso. Da ciò che il vendicare la morte di un congiunto ucciso e un dovere per i superstiti per acquetare i mani di lui. Dal diritto del padre e del marito di uccidere la figlia o la moglie sorprese in adulterio unitamente all'adultero. Dal taglione, le cui traccie ancora rimangono nella legislazione decemvirale, e perfino dal diritto del creditore di chiudere nel carcere il debitore, chemancasse ai proprii impegni. Parmi tuttavia, che di questi fatti alcuni indichino invece la preponderanza dell'elemento religioso, e gli altri siano concessioni, che il diritto decemvirale fece al modo di pensare e di agire proprio della plebe, presso la quale avevano ancora certamente una più larga parte la privata vendetta, il taglione e la composizione a danaro. Cfr. Ihering, L'esprit du droit Romain. Trad. Meulenaere. Paris, -- ove discorre della giustizia privata e delle forme, con cui essa e esercitata. Finchè quindi si dice, che sono i singoli capi di famiglia, che, in mancanza di una autorità investita dal pubblico potere, perseguono essi stessi le ingiurie e le violazioni di diritto, di cui furono vittima, si afferma una verità indiscutibile. Ma ciò non deve più confondersi coll'esercizio sregolato di una vendetta, che non prende norma che dalla violenza della passione, dal momento che la religione e la consuetudine già hanno determinato la procedura solenne, a cui egli deve attenersi per ottenere soddisfazione dell'ingiuria o del danno sofferto, e che l'organizzazione gentilizia ha appunto per iscopo di porre termine alla pri vata violenza fra coloro che appartenevano alla medesima gente o tribù.Accanto però a queste regole dell'umana condotta, che già sono munite di sanzione religiosa, sonvene delle altre che, appoggiate unicamente al costume, costituiscono, per cosi esprimerci, una morale. Esse vengono indicate col vocabolo di “mos patrius”, di “mores maiorum”, di “boni mores”, e costituiscono un complesso di norme direttive della condotta, le cui traccio si trovano più tardi ancora nel iudicium de moribus, at tribuito al Praetor, e sopratutto nel “regimen morum”, affidato alla custodia dei censori. Anche questi “mores maiorum” si sono venuti formando durante il periodo gentilizio, nella cerchia sopratutto delle familia e delle gens, e sono quelli, a cui deve essere attribuito l'obsequium e la reverentia verso gli ascendenti, la pudicitia delle mogli e il mantenimento della fides, anche per quelle promesse, che non fossero munite di sanzione giuridica e che fossero fatte anche ad uno straniero. Sono questi boni mores, che da una parte conteneno in certi confini il potere delle varie autorità, le quali, giuridicamente considerate, apparivano senza alcun confine; e che dal l'altra colpivano colla sanzione efficace della disistima generale della comunanza coloro, che mancavano a certi doveri, i quali non erano muniti di sanzione giuridica. Così, ad esempio, furono i boni mores, che ancora molto più tardi condussero l'opinione pubblica dei cittadini Romani a condannare al disprezzo quei prigionieri d’Annibale che, lasciati liberi sotto la condizione del ritorno, credettero di liberarsi dalla promessa mediante lo stratagemma di ritornare immediatamente nel campo e di sostenere di aver così attenuta la loro [Questo concetto trovasi espresso da Publio Siro, allorchè scrive – “Etiam hosti est aequus, qui habet in consilio fidem.” Del resto sono diversissime le guise, con cui i filosofi esprimono l'efficacia moralmente obbligatoria delle promesse. È qui che compariscono i concetti del pudor humani generis, del foedus, che talvolta significa anche il patto e la convenzione, il concetto della casta fides, quello della santità inerente alle parole, in quanto che immutabile sanctis Pondus inest verbis; concetto che trova poi la sua espressione giuridica nell' “uti lingua nuncupassit, ita ius esto.” Così pure nell'Andria di Terenzio trovasi elegantemente espresso il concetto, che l'obbligazione è un vincolo che la volontà impone a se stessa colle parole – “coactus tua voluntate es” -- concetto che trova pur esso forma nell'assioma giuridico, “Quae ab initio sunt voluntatis ex post facto fiunt necessitates.” Per altri esempi può vedersi HENRIOT, Meurs juridiques et judiciaires] promessa. Del resto è sempre questo concetto del buon costume, che tornerà poi a penetrare, per opera della classica giurisprudenza, nella compagine soverchiamente rigida del diritto civile romano, come lo dimostrano le considerazioni di ordine morale, che talvolta occorrono nei grandi giureconsulti, l'influenza che esercitò mai sempre l'existimatio anche sulla capacità di diritto, e l'introduzione dell'infamia, della ignominia, della levis nota, che danno in certo modo una configurazione giuridica alle varie gradazioni della publica disistima, in cui sia incorsa una determinata persona. Al qual proposito non e inopportuno di osservare, che quella separazione fra l'elemento esclusivamente GIURIDICO ed il meramente morale, che tarda così lungamente ad operarsi nella scienza, presentasi invece con una meravigliosa nettezza nel diritto di Roma, il quale, dopo essersi separato dal fas e dai boni mores, continua logicamente la propria via, e assunse così quel carattere di rigidezza e di logica pressochè inumana (“dura lex, sed lex”), che solo più tardi e temperato nella classica giurisprudenza, la quale di nuovo richiama in esso quell'alito morale, da cui almeno in apparenza erasi dapprima compiutamente disgiunto. Intanto, per ciò che si riferisce ai boni mores, non è più la religione, che si incarica di punirne le violazioni, ma sono i capi stessi dei diversi gruppi, che vegliano sovra quel retaggio del buon costume, che loro ebbe ad essere trasmesso dagli antenati. Sono quindi il padre nella famiglia, il consiglio degl’anziani nella gente ed il magister pagi nella tribù, che sovraintendono almantenimento di questa morale. Mentre è poi la disistima generale della comunanza, che condanna al disprezzo e all'isolamento coloro, che abbiano esercitato professioni ignominiose, o abbiano mancato alla fede promessa, o abusato del potere loro spettante, o abbiano infine commessa alcuna di quelle azioni, che, senza senza essere colpite [Cfr. Muirhead, Hist. Introd. Basta leggere le commedie di Plauto, e fra le altre specialmente il Trinummus, per scorgere la significazione larghissima, che davasi al vocabolo di boni mores, e come fosse altamente sentita l'importanza di essi di fronte alle leggi e l'impotenza di queste, quando quelli cominciavano a venir meno. Ciò verrà ad essere largamente provato nel ius Quiritium, dovuto ad un ' astrazione potente, mediante cui si riuscì ad isolare l'elemento giuridico da tutti gli elementi affini.] dalla sanzione religiosa o giuridica, incorrono però nella disapprovazione generale. Se il modo in cui formasi questa generale opinione e l'influenza, che essa esercita, male possono scorgersi ancora a Roma, in cui già scomparve ogni traccia della vita patriarcale, possono invece essere anche oggidi facilmente compresi quando si arresti lo sguardo ad una comunanza di villaggio, ove tutti si conoscono e debbono necessariamente essere in rapporto fra di loro, ed ove le colpe dei padri pesano più duramente sulla riputazione dei figli. Se ora si vogliano cercare le origini del ius nel periodo gentilizio, apparisce fino all'evidenza, che e soltanto, collocandosi in un posto intermedio, fra il fas da una parte ed i boni mores dall'altra, che puo riuscire e farsi strada quel ius, che dove poi ricevere cosi largo sviluppo durante il periodo della comunanza civile e politica. Sonvi in una comunanza certi modi di operare e di agire, che, per essere costantemente ripetuti in modo uniforme, fini scono per acquistare un carattere pressochè obbligatorio per tutti coloro, che trovansi in una determinata condizione sociale, e danno cosi origine non più al mos propriamente detto, ma a quella formazione giuridica, che viene poi ad essere indicata col vocabolo efficacissimo di “consuetudo”, il quale in certo modo contiene in sè la propria deffinizione. Colui che manca a queste regole non offende solo il divino e non viola solamente il buon costume, ma viene meno ad obbligazioni, che sono imposte dalla convivenza, cui appartiene e si sottrae cosi alle esigenze della vita sociale. Fra i fatti irreligiosi ed immorali viene così formandosi una categoria di fatti umani, in cui appare soltanto in seconda linea l'offesa alla religione ed alla morale, mentre viene ad essere evidente sopratutto l'offesa [Servius, In Aen. -- VARRO valt morem esse communem consensum omnium simul habitantium, qui inveteratus *consuetudinem* facit ». Del resto questo passaggio del costume, che ha carattere meramente MORALE, in *consuetudine*, che ha carattere strittamente GIURIDICO, è indicato anche da molti passi dei giureconsulti, che possono trovarsi raccolti nell'Heumann, “Handlexicon zu den Quellen des römisches Rechts”. Jena, Va Mos e Consuetudo] alla comunanza, a cui altri appartiene e il danno che vengono a soffrirne gli altri membri della comunanza. Di qui la conseguenza, che comincia già ad operarsi, nel seno delle comunanze anche patriarcali, come una specie di selezione, per cui dal complesso dei precetti religiosi e morali se ne vengono sceverando alcuni, che assumono il carattere *giuridico* propriamente detto. Naturalmente questo lavoro di selezione non può ancora spingersi molto oltre, fino a che trattasi di una comunanza, che adempie a funzioni domestiche, religiose e civili ad un tempo. Ma intanto già comincia ad avvertirsi il carattere particolare di certi precetti, che appariscono più rigidi di quelli puramente morali e religiosi, per ottenere l'adempimento dei quali non può più bastare una sanzione meramente religiosa, né la disistima generale, ma vuolsi una specie di sanzione co-attiva da parte della intiera comunanza e dell'autorità che la governa. Al modo stesso, che già fra le genti e le tribù si vengono gradatamente svolgendo quelle arces, quegli oppida, quei conciliabula, quei fora, che sono il primo nucleo, intorno a cui verrà poi a svolgersi l'urbs e la civitas; cosi, anche frammezzo ad una convivenza, i cui precetti hanno ancora sopratutto un carattere religioso e morale, già cominciano a presentarsene alcuni, che assumono un carattere civile e politico. Che anzi, per continuare nello stesso paragone, al modo stesso che Roma, limitata dapprima ad essere il rifugio degli abitanti dei villaggi, viene poi ad essere il luogo, ove si amministra la giustizia e si tengono le riunioni, e viene infine ad abbracciare nella sua cerchia anche le abitazioni private, e a sottrarre all'organizzazione domestica e gentilizia tutte quelle funzioni di carattere civile e politico, a cui essa prima adempiva; così anche [Questo concetto, per cui chi manca al diritto offende non solo l'individuo, ma reca un danno alla intiera comunanza, che ora noi diremmo danno sociale, è un concetto profondamente sentito dai romani, il quale ha ad essere variamente espresso dai filosfi latini. Basti riportare dall'Henriot questi versi di Pubblio Siro: Multis minatur, qui uni facit iniuria: Tuti sunt omnes, ubi defenditur unus; Omne ius supra omnem iniuriam positum est. O quello di Orazio: « nam tua res agitur, paries quum proximus ardet ». Come pure le frequenti scene di Plauto e di TERENZIO, in cui una persona ingiuriata chiama gli altri testi in testimonio e chiede aiuto con formole, che hanno una precisione giuridica: “Obsecro vos, populares, ferte misero atque innocenti auxilium. Ovvero: Obsecro vestram fidem, subvenite cives ».] questo primo nucleo di precetti giuridici, che negli inizii abbisogna ancora dell'appoggio della religione e del costume e si modella sul fas, viene col tempo accrescendosi sempre più, e richiamando a se una quantità di precetti, i quali nell'organizzazione anteriore non hanno che un carattere religioso o MORALE. Per tal guisa il ius viene in certo modo accrescendosi a spese degl’elementi, da cui si è staccato. Quando poi sentesi forte abbastanza per procedere per proprio conto, afferma senz'altro la propria indipendenza, e assume, per opera dei romani, un processo tutto speciale nel proprio svolgimento, che chiamasi appunto iuris ratio, mediante cui finisce per qualche tempo per isolarsi anche troppo da quegli elementi, da cui ricava il suo primitivo nutrimento. Quel carattere pertanto di rigidezza, che suole condannarsi nel diritto dei Quiriti, è la miglior prova della sua potenza ed energia; perchè indica come l'elemento giuridico ormai fosse giunto a tale da potersi svolgere senza più tener conto della considerazione MORALE o religiose -- al modo stesso che Roma, teatro del suo svolgimento, ormai e pervenuta a tale da cercare ancor essa di spogliarsi di ogni traccia della influenza gentilizia e patriarcale. Questo è poi degno di nota, che anche quando il ius viene ad affermare la propria esistenza separata continua pur sempre a svolgersi sotto due forme, che corrispondono alle due sorgenti da cui esso ebbe a derivarsi. Havvi infatti la parte, in cui il diritto cerca in certo modo di imitare la solennità del fas, ed è quella in cui esso viene ad essere rivestito della forma di “lex.” Quando cioè il popolo, interrogato dal magistrato, dà una forma solenne ed espressa alla propria volontà – “iubet atque constituit” -- creando cosi il “ius legibus introductum”. Intanto si mantiene sempre un altro aspetto del ius, in cui la volontà collettiva del popolo si manifesta nella formazione lenta delle proprie consuetudini, che i romani considerano come il frutto di una tacita civium conventio – “ius moribus constitutum”. Ad ognimodo però il ius, prenda esso il carattere di una *regola*, che il popolo pone a sè stesso, o di una norma, che formisi tacitamente nel costume, è pur sempre il frutto di un accordo espresso e tacito dei cittadini, e deve essere considerato come l'espressione di una volontà comune, che si sovrappone alla volontà dei singoli individui. Finchè esso è in via di formazione può essere argomento di discussioni, le quali hanno luogo nelle riunioni meno solenni del popolo, che chiamansi contiones; ma allorchè la legge viene ad essere posta e costituita con quei riti solenni, che accompagnano i comizii, la vox populi viene ad essere considerata come vox dei, e debbono ubbidirvi tutti coloro, che cooperarono a formarla, non eccettuati quelli che erano di avviso contrario. Vi ha di più, ed è che accanto a questo dualismo se ne delinea ben presto un altro, per cui distinguesi una parte del diritto, che si riferisce all'interesse generale della comunanza, e chiamasi ius publicum; e una parte invece, che si riferisce all'interesse parti colare delle famiglie e delli individui, che entrano a costituirla, e chiamasi ius privatum. Il primo si forma sulla piazza e nel foro, fra gli urti ed i conflitti delle varie classi, lascia le sue traccie nella storia politica di Roma, e si esplica mediante gli accordi e le transazioni, cheavvengono fra patriziato e plebe. L’altro viene elaborandosi pressochè tacitamente nella coscienza generale del popolo, e trova i suoi interpreti nei pontefici e nei giureconsulti. Intanto però l'uno e l'altro sono in certa guisa atteggiamenti diversi di un medesimo diritto, in quanto che il di ritto pubblico è in certo modo il palladio, sotto la cui protezione può nascere e svolgersi il diritto private. Insomma al modo stesso, che l'urbs e il frutto di una lenta formazione, mediante cui si vennero sceverando dalle abitazioni pri vate gl’edifizii aventi pubblica destinazione, e che il formarsi della civitas e del populus si dovette al raccogliersi e al riunirsi di tutti gli uomini (viri) che col braccio o col consiglio potevano provve dere alla difesa ed all'interesse comune; cosi anche la formazione del diritto e attribuita ad una specie di elaborazione, che venne operandosi nella coscienza generale di un popolo, e all'attrito dei varii elementi, che entravano a costituirlo, [È da vedersi, quanto alla distinzione fra diritto pubblico e privato, Savigny, Sistema del diritto privato romano, trad. Scialoia. Sopratutto importa il notare, che il diritto pubblico e il privato, nel concetto romano, sono due atteggiamenti diversi del medesimo diritto – “duae positions” -- e non deve essere dimenticato il detto, che Bacone certo ricava dallo spirito del diritto romano, secondo cui “ius privatum sub tutela iuris publici latet”, De augm. scient., de iust. univ. Quanto alle altre suddistinzioni, che presentansi nel campo del diritto, è da consultarsi Voigt, Die XII Tafeln, come pure lo stesso autore, Das ius naturale, gentium etc. Leipzig] mediante cui da tutti gli elementi morali e religiosi, che già si erano formati durante il periodo gentilizio, si vennero sceverando tutti quelli, che potevano ritenersi indispensabili per il mantenimento della convivenza civile e politica. Roma insomma che, piccola dapprima e limitata a pochi edifizii, si venne però sempre ingrandendo a spese delle comunanze di villaggio, che erano entrate a costituirla, deve essere considerata come il crogiuolo, in cui si gettarono indistintamente tutti gl’elementi della vita patriarcale, per sceverarne ed isolarne quella parte, che ha un carattere essenzialmente giuridico, politico e militare. E questa una specie di chimica scomposizione, che un popolo mirabilmente atto a sceverare nel fatto umano tutto ciò, che in esso si presenti di giuridico, e a concretarlo in forme tipiche e precise, venne in certo modo compiendo a benefizio del genere umano. Espresse quindi una grande verità il filosofo coll'esclamare: Fuit sapientia quondam Publica privatis secernere sacra profanes. Poichè tale veramente e il compito delle città primitive e quello sopratutto di Roma. Il nucleo di questi precetti, di carattere esclusivamente giuri dico, e dapprima assai scarso, e si ridusse a quel poco che Roma, ancora nei proprii esordii, poteva sottrarre ad un'organizzazione come la gentilizia, che ancora aveva tutta la sua vitalità ed energia. Poscia però col crescere di Roma, coll'estendersi delle sue mura, col fondersi insieme degli elemeuti, che entrano a costituirla, coll'in corporarsi di nuovi elementi nel populus, quel ius, che prima ha solo una posizione subordinata, si cambiò invece in tutore e custode della vita pubblica e privata, ed e riconosciuto come sovrano nel seno della comunanza civile e politica. E allora che, consapevole della propria forza e dell'ufficio, che gli e affidato, si riaccosta di nuovo a quell'elemento religioso e sopratutto etico, da cui aveva dovuto disgiungersi, allorchè nel periodo della propria formazione non riconosce più altra guida, che una logica esclusivamente giu ridica – “iuris ratio”. Di qui intanto deriva la conseguenza, che Roma, pur ricevendo [Orazio, Ars poetica] le proprie istituzioni dal passato, ci fa però assistere alla formazione lenta e graduata di un diritto, che venne adattandosi alle esigenze della convivenza civile e politica, e differenziandosi sotto molteplici aspetti. Questo diritto tuttavia può essere logicamente spiegato in tutto il suo processo, ed anche nelle distinzioni che comparvero in esso, in quanto che è stato veramente una costruzione logica e coe rente in tutte le sue parti, che venne svolgendosi “rebus ipsis dictantibus et necessitate exigente.” Che questo sia stato veramente il processo, con cui si esplica il diritto in Roma, risulta poi con tanta evidenza dallo svolgersi della comunanza romana, che per ora non occorre altra dimostrazione. Bensi importa, ed è assai più difficile determinare, quali siano i rapporti, che primi hanno ad assumere un carattere giuridico, e quali siano stati gli aspetti essenziali, sotto cui si presenta questo primitivo diritto presso le antiche genti italiche. Finchè noi siamo nelle mura domestiche e nel seno della famiglia la religione comune, la riverenza verso il proprio capo, il suo carattere patriarcale, il suo potere pressochè senza confini, non che l'autorità moderatrice di quel consiglio o consesso di parenti, da cui egli è circondato, creano un'organizzazione di tale natura, che può bastare a qualsiasi emergenza, senza che occorra perciò di ricorrere al diritto propriamente detto. Che anzi, se il diritto cerca di penetrare nelle mura domestiche, la fiera indipendenza dei padri riguarderebbe ciò come una violazione del proprio domicilio ed una usurpazione della propria autorità, come lo dimostra ancora il padre di Orazio, uccisore della sorella, allorchè osserva che, se il proprio figlio non ha a ragione uccisa la sorella – “iure caesam” -- e toccato a lui di provvedere. Se quindi la moglie, i figli, gli schiavi manchino a quei doveri, che sono fissati dal costume e consacrati dalla religione, e il padre stesso, che e vindice dei loro [Liv., Hist., I, 24. Di qui si può' raccogliere, come non possa ammettersi l'opinione di coloro, i quali vorrebbero senz'altro attribuire al re, come primo magistrato di Roma, la giurisdizione per giudicare di qualsiasi misfatto. CLARK, Early roman law. Deve invece ritenersi a questo riguardo col MuiruEAD, Histor. che la giurisdizione criminale del re o magistrato venne gradatamente svolgendosi frammezzo alla giurisdizione dei capi di famiglia, e a quella che apparteneva alle singole genti, quanto ai delitti, che erano commessi da membri, che entravano a costituirle.] falli, salvo che in certi casi di maggior gravità, come quando trattisi della moglie adultera, non stata sorpresa in flagrante, egli dove circondarsi del tribunale domestico e pronunziare la condanna, dopo averne sentito l'avviso. Allorchè poi l'azione, che reca danno altrui, sia stata compiuta da un altro capo di famiglia, o da persona soggetta al potere del medesimo, e fra i due capi di famiglia, che la questione e risolta, e se quest'ultimo non intenda di riparare il danno arrecato dal suo dipendente, non ha nulla di ripugnante al modo di pensare dell'epoca, che egli consegni la persona, che ha recato il danno, al capo di famiglia, che ha a soffrirlo, mediante l'antichissimo istituto delle noxae deditio. Cosi pure [È noto a questo proposito come nel diritto, distinguasi fra “noxia” e “noxa”, per cui mentre il vocabolo “noxia” significa il danno, veniva anche dai filosofi adoperato per significare la colpa, mentre il vocabolo “noxa” si adopera per significare il peccato, il delitto, ed anche la pena di esso -- donde la espres sione di noxae deditio, la quale trova poi una larga applicazione, tanto nei rapporti fra i capi di famiglia, quanto eziandio nei rapporti fra le varie genti e tribù nel “ius pacis ac belli” nel periodo gentilizio. V. Festo, vº Noxia (Bruns, Fontes). Intanto dalla estesa comprensività del vocabolo di “noxa” o di “nocia”, nella sua significazione primitiva, parmi di poter inferire con fondamento, che nelle origini uno stesso vocabolo significa ad un tempo la colpa, che cagionava il danno, e il danno, che deriva da essa, e che non dove esservi distinzione fra colpa e danno di carattere civile e colpa e danno di carattere penale, come neppure dove distinguersi fra colpa contrattuale ed extra-contrattuale od aquiliana. I concetti e i vocaboli sono sinteticamente potenti nel diritto romano, ed è solo col tempo, che in essi si osservano quegli atteggiamenti diversi, che costituiscono poi altrettante configurazioni giuridiche di un unico concetto fondamentale. Un altro carattere del diritto si è anche questo, che esso prende di regola le mosse da un vocabolo di significazione materiale, e poi gli attribuisce una significazione sempre più estesa e perfino traslata o figurate. Abbiamo un esempio di ciò nel vocabolo “rupere”, che significa il rompere materialmente un membro, od altra cosa; ma fu poscia recato ad una significazione traslata, attestataci da Festo, per cui rupere significa damnum dare, al modo stesso che rupitias e ruptiones finiscono per significare ogni maniera di danno. È uno dei processi più consueti nel diritto di Roma, quello per cui una volta formato un concetto od un vocabolo giuridico non si teme di estenderlo a tutte le configurazioni affini. Come si estese il parricidium ad ogni uccisione di un uomo libero. Così il membrum rupere o la rupitias, essendo stato il danno, che prima ebbe ad essere configurato giuridicamente, passa poi ad indicare qualsiasi danno. Rimando in proposito al dottissimo lavoro del collega G. P. Cuironi, “La colpa nel diritto civile” (Torino). Di quest'opera credo di poter dire, senza offendere la modestia dell'amico, che servirà a rimettere in onore fra noi quel mirabile magistero, che ha fatto la] gli è tenendo conto della posizione rispettiva, in cui in questo periodo si trovano due capi di famiglia, che si può comprendere il nascere e lo svolgersi di certe procedure, che più tardi appariscono strane e pressochè incomprensibili. Tale è, per dare un esempio, quella del “furtum lance lincioque conceptum”, in cui abbiamo un capo di famiglia, che ricercando una cosa statagli derubata può ottenere di entrare nella casa del vicino, in cui teme sia stata nascosta; ma cio a condizione di fare anzitutto una libazione propiziatoria ai lari della casa, in cui egli si inoltra, il che è dimostrato dal piatto, che egli tiene fra mano (lance), e intanto deve stringersi la persona con un cingolo (lincio), che gli impedisca di nascondere qualsiasi oggetto. Sembra però, che questa perquisizione domiciliare dove per un senso di pudicizia arrestarsi dinanzi al cubiculum della moglie, con che però il capo di casa giurasse che nulla di derubato vi era stato nascosto. Del resto in questa condi grandezza della giurisprudenza romana, secondo cui, una volta che si è formata una configurazione giuridica, la medesima non deve più essere perduta di vista nelle in definite trasformazioni e distinzioni, che pud subire nelle vicissitudini delle legislazioni e della giurisprudenza, ma deve sempre essere richiamata alle proprie origini e seguita nella sua dialettica fondamentale. L'autore tratta dei concetti di “rupere”, di “rupitias”, di culpa della lex Aquilia.] Esmein in “La poursuite du vol et le serment purgatoire”, trova le traccie di una procedura analoga a quella, che seguivasi per il “furtum lance lincioque conceptum”, anche presso il popolo di Israele nel fatto di Rachele, che avendo sottratti gli idoli di Labano, li aveva poi nascosti sotto le coperte del cammello, sovra cui essa si era seduta; come pure nel fatto narrato da MACROBIO, Saturnalia, I, 1, cap. VI in fine, ove si narra di un Tremellio, a cui sarebbesi imposto il soprannome di Scrofa, perchè avendo rubata una scrofa uccisa, aveva poi fatto sedere sopra di essa la propria moglie, e aveva giurato, in via di purgazione, che colà non eravi altra scrofa, fuori di quella. Ciò dimostra come questa procedura siasi naturalmente formata presso popoli diversi. Ma non posso convenire nell'apprezzamento dell'autore, per cui nelle epoche primitive non si guarderebbe che all'adempimento delle forme esteriori della procedura. Poichè nel fatto stesso citato da MACROBIO, noi abbiamo l'opinione generale, che segna a dito colui, che ricorse a quell'ignobile stratagemma, imponendogli il soprannome di Scrofa (Esmein, Mélanges d'histoire de droit, Paris). L'autore poi, il quale avvertì che il piatto, tenuto fra mani da colui, che ricerca la cosa derubata nel “furtum lance lincioque conceptum”, ricorda in certo modo la libazione propiziatoria ai lari e ai penati, che dovevasi fare prima di metter piede nella casa altrui, è Leist, Graec. Ital. R. G. Sul “furtum lancie lincioque conceptum” è da vedersi il saggio di Gulli, “Del furtum conceptum secondo la legge delle XII Tavole. Bologna] zione di cose, mancando ancora un'autorità, che siasi fatta ella stessa investigatrice e punitrice dei misfatti, si comprendeche sia il derubato che prosegue il ladro, il marito offeso che tenga dietro all'adultero e sorpreso l'uccida, e si richiederà ancora lungo tempo prima che, in Roma, l'autorità pubblica si incarichi direttamente della punizione di questi e di altri misfatti. Che se la riparazione non venga ad essere accordata all'offeso, e anche naturale, che impegnisi una lotta fra le due famiglie, e che associandosi alle medesime le genti, a cui esse appartengono, il DUELLO mutisi talvolta in un conflitto fra le due genti, ed anche in una guerra fra le tribù, di cui esse entrano a far parte. Cosi è pure dei rapporti interni fra i diversi membri, che entrano a costituire la gente, quali sono i rapporti fra il patrono ed il cliente, ed anche i doveri della ospitalità, poichè essi cadono sotto la protezione religiosa, e le violazioni di essi sono punite mediante la pubblica disistima, e coll'intervento dell'autorità patriarcale e del consiglio degl’anziani, custodi e vindici delle tradizioni dei maggiori. Siccome però nella gente già vengono ad esservi diversi capi di famiglia, che hanno una propria familia, un proprio “heredium”, un proprio “peculium”. Cosi comprendesi come nel “vicus” già puo sorgere delle controversie di carattere GIURIDICO fra i diversi padri. Controversie che talvolta possono anche essere rese più accanite dal vincolo stesso di parentela, che intercede fra le famiglie che appartengono alla medesima gente. È tuttavia ancora sempre verosimile, che l'interporsi di qualche anziano, che goda la fiducia comune dei contendenti, possa indurli ad un amichevole componimento. Il che spiega come nei vici siavi sempre un luogo per il mercato, in quanto che la distinzione del mio e del tuo già rende possibile il commercium, manon vi si rinvenga sempre il luogo per amministrare giustizia. Infatti, il carattere esclusivamente patriarcale dei rapporti, che intercedono fra i membri di essa, rendono [Ciò accade sopratutto, quanto all'adulterio, che comincia a formare oggetto di un “iudicium publicum” solo colla legge Iulia, De adulteriis, che e una di quelle con cui Ottaviano cerca, ancorchè con poco frutto, di far rivivere il buon costume. [In proposito l'interessante articolo dell'Esmein, “Le délit d'adultère à Rome e la loi Iulia, De adulteriis” – “Mélanges d'histoire de droit”. Quanto al vicus e al difetto, che talora trovasi in esso di un magistrato per amministrarvi giustizia] ripugnante l'idea di una vera e propria lite, non solo fra patrono e cliente, ma anche fra i padri o capi di famiglia, che discendono dal medesimo antenato e hanno per mettersi d'accordo fra di loro l'autorità dei proprii anziani. Nella tribù invece, già si trovano di fronte capi di famiglia, che appartengono a genti diverse e che più non discendono dal medesimo antenato, nè partecipano allo stesso culto gentilizio. Quindi già viene ad imporsi il bisogno di provvedere in qualche modo all'amministrazione della giustizia, più non essendovi un'autorità di carattere esclusivamente patriarcale, che possa imporsi ai capi di famiglia, che sono di discendenza e d'origine diversa. Dovette quindi probabilmente essere questa necessità di provve dere all'amministrazione della giustizia, che suggere l'idea di una autorità chiamata a dirigere e ad amministrare il pagus – “magister pagi” -- , la cui primitiva destinazione è ancora indicata dai nomi di “iudex” e di “praetor”, ed anche da quello di “tribunal” (derivato certamente da “tribus”), che significa dapprima il seggio, più elevato sovra cui collocavasi quegli che e chiamato ad amministrare giustizia, e indica così anche esteriormente la posizione cospicua, in cui egli trovavasi di fronte agli altri membri della comunanza. Queste controversie intanto non puo naturalmente sorgere che fra i varii capi di famiglia, i quali, memori delle loro tradizioni, sono dapprima troppo altamente compresi del proprio diritto, perchè sia necessario che intervenga una legge a dichiarare quello che loro appartenga. Ma hanno piuttosto bisogno di essere contenuti nell'esercizio violento delle proprie ragioni e di conoscere il processo, che deve seguire per ottenere giustizia, senza dover ricorrere alla privata violenza. È questo il motivo, per cui presso tutti i popoli la prima forma che giunse ad assumere il diritto e quella dell' “actio”, che è il complesso degli atti e dei riti solenni, che si debbono compiere per far valere il proprio diritto davanti al magistrate. Atti e riti solenni, che presso genti come le latine, le quali imitano coi gesti e coi riti. La posizione elevata del tribunal, sovra cui trovasi assiso il magistrato, perchè – “sedendo quiescit animus, et sedendo ac quiescendo fit animus prudens” -- trovasi soventi accennata dai filosofi latini, come indizio della dignità, a cui era assunto colui, che e chiamato ad amministrare giustizia. V. Henriot, “Mæurs juridiques et judi ciaires de l'ancienne Rome”).] giudiziarii, ciò che un tempo dovette seguire nei fatti, finiranno per contenere una storia simbolica dei varii stadii, per cui dovette passare l'amministrazione della giustizia, prima di giungere ad essere accettata e riconosciuta dallo spirito fiero ed indipendente dei primi capi di famiglia. Che se si volesse spingere anche più oltre questa ri-costruzione logica e concettuale del diritto romano, che ha a svolgersi nel seno della tribù, potrebbe affermarsi con certezza, che le due prime figure di rei, contro cui la giustizia umana associa i proprii sforzi colla giustizia divina e colla esecrazione della generale opinione, dove essere quella del parricidas e del perduellis. Ivi infatti è sopratutto l'uccisione del padre di famiglia, che per il carattere patriarcale della comunanza viene ad essere considerato come padre rimpetto a tutti i membri di essa, i quali talvolta continuano ancora a chiamarsi col nome di fratelli, che è il grande misfatto contro la legge umana e divina, il quale puo mettere in lotta le famiglie fra di loro, ed anche rimanere impunito, quando l'autorità comune non si mette in movimento contro di esso. Nè ripugna al carattere della comunanza patriarcale, che la punizione del parricida acquistasse in certo modo un carattere tradizionale e fosse accompagnata da certe pratiche, che possono anche avere un significato simbolico, e che potrebbero anche essere state portate dall'Oriente. Tali sono quelle, che più tardi ancora accompagnano la punizione del parricida; pratiche tradizionali, che anche oggi in parte sopravvivono e non possono dirsi compiutamente abbandonate anche presso le nazioni civili. Così pure dovette essere un processo del tutto natu [Questa circostanza, che tutti i membri della comunanza patriarcale si chiamano fratelli, è attestata dal Sumner MAINE, “The early history of institutions”, e qualche cosa di analogo dovette accadere ancora nella tribù italica, ove non vi ha dubbio, che i capi di famiglia sono generalmente indicati col vocabolo di patres; poichè di questo stato di cose rimasero ancora le traccie in Roma. È nota la punizione tradizionale contro il parricida, ricordata ancora nel Digesto: “Poena parricidii more maiorum haec instituta est, ut parricida, virgis sanguineis verberatus, deinde culleo insuatur cum cane, gallo gallinaceo et vipera et simia; deinde in mare profundum culleus iactatur ». Qui il giure-consulto lascia travedere, che la pena del parricidio e conservata nel costume e trasmessa per via tradizionale – “mos maiorum”. Essa pertanto dopo essersi mantenuta nel costume più che nella legge, contro i parricidi in senso stretto, ha poi ad essere sanzionata dalla lex POMPEIA, De parricidiis] rale, che condusse l'opinione generale di una comunanza patriarcale a ravvisare un nemico in colui, che getta la perturbazione nella comunanza stessa e si disponeva a tradirla coi nemici di essa. Cosicchè non dubitarono di applicargli il nome stesso, che davano al nemico, con cui erano in guerra, il qual nome era quello appunto di “perduellis”. Cio intanto darebbe una spiegazione molto probabile e naturale del fatto, che fa meravigliare gli stessi romani, per cui Romolo, prima e Numa, dopo chiamare col nome di “parricidas” anche l'uccisore di un uomo libero, non che di quello per cui le prime e sole autorità incaricate di perseguire e punire i mi sfatti in Roma avrebbero assunto il nome di “quaestores parricidii” e di “duumviri perduellionis”. Anche qui la legislazione di Roma comincia dal riconoscere come pubblici reati quelli, che già hanno cominciato ad assumere questo carattere nello stesso periodo gentilizio, e a questi sarebbe poi venuta aggiungendo man mano quelli la cui repressione appare necessaria. Vi ha di più, ed è che nella tribù già si incomincia la formazione di due ordini diversi di persone, che sono i patrizi e i plebei, i quali ultimi più non entrano nei quadri dell'organizzazione gentilizia, ma già cominciano ad es sere indipendenti dal patriziato, sebbene ancora si trovino in condizione assai inferiore e non abbiano potuto ancora dimenticare la loro antica origine servile. Di fronte a questa condizione parmi non sia temeraria la congettura, che mi permetto di avventurare, secondo cui, nel periodo della tribù e nel seno del pagus, non dovette soltanto cominciarsi lo svolgimento dell'elemento giuridico, ma questo diritto primitivo dovette assumere due forme essenziali; in quanto che altro dovette essere il diritto, che governava i rapporti fra i padri, che appartenevano alla stessa comunanza gentilizia, ispirato all'idea della loro parità ed uguaglianza di condizione; ed altro invece il diritto, che venne a svolgersi nei rapporti, che necessariamente dovettero stabilirsi fra l'ordine superiore dei padri e quello INFERIORE della plebe, il quale non potè a meno di ritenere qualche traccia della superiorità che [La questione del “parricidium” e della perduellio scorreno delle leges regiae.] si attribuivano i primi e dell'inferiorità di condizione, in cui sanno di trovarsi i secondi. È solo col dare la debita parte a queste due forme del diritto, le quali del resto trovano la loro base nelle condizioni di fatto dei due ordini, che si possono spiegare certe istituzioni del diritto romano, quali sarebbero quelle del “mancipium”, del “nexum”, della “manus iniectio” e simili; le quali sono tutte forme giuridiche, che non trovarono applicazione nei rapporti fra i padri e i loro discendenti patrizii, ma soltanto nei rapporti fra i patrizii ed i plebei. Se si comprende infatti che un plebeo, il quale non ha altra garanzia da dare che quella della propria persona, e costretto a dare a mancipio sè stesso o la propria figliuolanza, o ad obbligarsi con quella severità, che era propria del nexum, e che il patrizio insoddisfatto puo mettere la mano sopra di lui e trascinarlo nel suo carcere, mediante la procedura della “manus iniectio”. Questi modi di procedere non si possono invece comprendere fra due capi di famiglia appartenenti alle genti patrizie. Nè serve il dire, che queste istituzioni passarono poi effettivamente nel diritto quiritario; poichè anche questo e l'opera dei patrizii, i quali, dettandolo, hanno sopratutto per iscopo di governare e di reggere le plebi. Di più è un processo del tutto romano quello per cui, quando si è creato un vocabolo o un concetto, non si dubita di trapiantarlo in condizioni anche diverse da quella in cui ebbe a formarsi. E quindi opportuno tentare la ricostruzione dell'una e dell'altra forma di questo diritto per trovare in esso la spiegazione alcune singolarità del tutto peculiari al diritto quiritario. Lo svolgimento di questa teorica tratta appunto di alcuni primitivi concetti del diritto quiritario. I giureconsulti col dire che il “ius hominum causa constitutum est”, enunciarono una verità che trova una piena conferma nei fatti, quando seguasi il processo, con cui il diritto vennesi formando fra le genti del Lazio. Finchè trattasi di persone che appartenno al medesimo gruppo, il fas, il mos e l'autorità patriarcale, stabiliti in seno delle varie aggregazioni, possono bastare a qualsiasi emergenza. Così invece non era, allorchè i capi di fa miglie, appartenenti ai diversi gruppi, venivano a mettersi in rapporto fra di loro; poichè in allora, mancando la comune discendenza e l'autorità patriarcale di un capo, convenne di necessità porre le reciproche obligazioni sotto l'impero di un comune diritto. Di qui provennero alcuni caratteri importantissimidel diritto, che possono spargere molta luce sulla formazione del diritto quiritario, e dileguare una quantità di sottigliezze, che furono immaginate per spiegare quel diritto, senza cercarne la causa nelle condizioni sociali che ne determinano la formazione. Il primo di tali caratteri sta in questo, che i rapporti giuridici, sorgeno dapprima fra i capi di gruppo, anzi che fra i singoli individui, che sono assorbiti ed unificati nel medesimo. Di qui le solennità, che dove necessariamente accompagnarne gl’atti, come quelli che non riguardavano gli interessi particolari di questo o di quell'individuo; ma si rifereno all'interesse dell'intiero gruppo da lui rappresentato, e così hanno, per usare il linguaggio moderno, un'importanza pressochè internazionale. Non fu pertanto amore di formalismo, che guida un popolo così eminentemente pratico come il romano nella formazione del proprio diritto; ma questo, nei suoi esordii apparve ingombro di formalità e difinzioni, solo perchè, dopo essere stato preparato in un periodo di organizzazione sociale, e trapiantato in un altro dallo spirito conservatore del popolo romano. Anzichè archittettare formalità artificiose, i romani si valgono invece di quelle, che si sono formate nella realtà dei fatti in un periodo anteriore, e con piccole modificazioni, che sono rese necessarie dalle nuove esigenze, fanno entrare in esse i rapporti, che si vengono svolgendo più tardi nella comunanza civile e politica. Nel che seguono un processo, che non abbandonno neppure più tardi; quello cioè di non creare giammai una forma novella, finchè quella già prima [Il formalismo è certo uno dei caratteri più salienti del diritto di Roma. Si comprende quindi, che I filosofi se ne siano largamente occupati e fra gli altri il SUMNER Maine, L'ancien droit, in cui si occupa delle finzioni legali, e sopratutto poi JHERING, che ha a dedicarvi buona parte del “L'esprit du droit Romain”. La conclusione, a cui sarebbero venuti questi filosofi, e, che questo formalismo del diritto di Roma dove essere attribuito alla predilezione del popolo romano per l'elemento esteriore; carattere, che Roma avrebbe comune con tutti i popoli, e proveniente da ciò, che i medesimi riguardano più alla forma che alla sostanza. Senza voler qui entrare in una discussione, che mitrarrebbe troppo in lungo, mi limito unicamente ad osservare, che il formalismo non è un fenomeno, che comparisca presso tutti i popoli. Esso compare soltanto, al lorchè istituzioni formatesi in un'epoca si trasportano in un'altra, in cui più non si comprenda la significazione delle medesime. Dei popoli non si può dire, che essi siano amici della formalità; perchè essi cercano di esprimere ciò che sentono col gesto, cogli atti e colle parole ad un tempo, e quindi hanno una mimica, la quale, anzichè essere artificiosa ed architettata, tende ad essere l'espressione effettiva e reale delle loro sensazioni ed emozioni. Quindi, il formalismo, anzichè essere l'indizio di un popolo, è invece l'effetto dello spirito conservatore, che trasporta una forma creata in un periodo ad un altro, in cui esse hanno perduto qualsiasi significazione. Tutte le forme che si conservano come tali sono sopravvivenze di un'epoca trascorsa, che sono trapiantate in un'altra, la quale più non le capisce, e quindi si limita ad osservarle pressochè materialmente. Ciò accade nella religione, nella morale, nel di ritto, e accadde certamente nel diritto di Roma, il quale, se divenne formalista, e perchè il patriziato romano vuole conservare le vestigia del passato e fare entrare nella forma preparata nel periodo gentilizio un nuovo rapporto che e creato dalla convivenza civile e politica colla plebe. Non è quindi da ammettersi, che la forma esteriore del diritto si elabori prima della sostanza di esso; nè che i popoli primitivi diano maggior importanza alla forma, che alla sostanza. Forma e sostanza invece si presentano dapprima indissolubilmente congiunte, ed è solo più tardi, allorchè si vorrebbero conservare la forma antica, e fare entrare nelle medesime una sostanza nuova, che si viene alla conseguenza, per cui “a forma dat esse rei”. Ciò che accade nel diritto, avverasi eziandio nel linguaggio, il quale nella sua formazione adatta la parola al concetto; il che non impedisce pero, che più tardi, trasportandosi la stessa parola ad un altro concetto, si venga alle significazioni traslate, la cui origine può talvolta essere poi difficilmente compresa.] esistente possa ancora bastare al bisogno. Del resto non può neppure dirsi, che negli inizii di Roma questo diritto e veramente disacconcio, dal momento che allora soltanto si usce da una condizione di cose, in cui il padre rappresenta effettivamente quel complesso di persone e di cose, che dipendeno da esso. Quindi e naturale che per qualche tempo il diritto conserva quel medesimo carattere, che aveva acquistato durante il periodo gentilizio. Solo comincia a diventare artificioso e disadatto alle nuove condizioni sociali il diritto di Roma, quando al PADRE si venne sostituendo il CITTADINO, e più ancora quando al cittadino si sostitui L’UOMO LIBERO e L’UOMO NUOVO. Del resto non è poi difficile il ricostruirsi nel pensiero un'organizzazione, in cui sia veramente il PADRE, che compia tutto ciò, che si riferisce al gruppo da lui rappresentato, per guisa, che esso sia PADRE (quanto ai figlio), PADRONE (quanto al servo), PATRONO (quanto al cliente), e rappresenti il gruppo da lui governato, ogni qualvolta trattasi di entrare in rapporto con altri gruppi. Di questo padre antico ci hanno conservato la imponente figura non tanto gli scrittori di cose giuridiche, che lo irrigidiscono di troppo perchè lo riguardano sotto l'aspetto esclusivamente giuridico; ma i filosofi latini, allorchè ci dipingono, ad esempio, APPIO Claudio, capo di una grande famiglia, custode geloso dell'antico costume, il quale continua, ancorchè vecchio e CIECO, ad esercitare, venerato e temuto ad un tempo, la propria autorità sui figli, sui servi, e sopra un numero grandissimo di client. Del resto anche il diritto lascia di quando in quando travedere quest'aureola patriarcale, che circonda il capo di famiglia, come lo dimostrano le seguenti parole attribuite ad Ascanio. “Moris fuit, unumquemque domesticam rationem sibi totius vitae suae per dies singulos scribere, quod appareret quid quisque de reditibus suis, quid de arte, de foenore lucrove sepo suisset, et quo die, et quid idem sumptus damnive fecisset.” Tuttavia anche questa descrizione tende già a dare all'autorità del padre un carattere essenzialmente giuridico. Mentre invece, riportandoci al periodo gentilizio, questa figura primitiva presentasi anche [Cic., Cato maior -- È poi sopratutto nei filosofi latini, e specialmente nei comici, come Plauto, che si può facilmente scorgere la differenza fra la patria podestà, quale era giuridicamente concepita é quale invece esisteva nel fatto. È da vedersi in proposito Henriot, Moeurs juridiques et judiciaires de l'ancienne Rome. Bruns, Fontes juris romani antiqui. Edit. V, Friburgi] più imponente col suo carattere patriarcale e religioso ad un tempo; e quindi si può comprendere come l'acceptum, l'expensum, lo sponsum, lo stipulatum, l'actum, il iussum del capo di famiglia si cambiano in altrettanti atti solenni, che diventarono poi il substratum di altrettante configurazioni giuridiche in un periodo posteriore. Un secondo carattere poi sta in questo, che il diritto presentasi fra questi capi di famiglia appartenenti a genti e a tribù diverse, come il solo mezzo per stabilire e mantenere la pace fra i medesimi. Se infatti il suo impero non fosse riconosciuto non ha altro espediente, che quello di ricorrere alla manuum consertio, la quale, allargandosi dalla famiglia alle genti, e da queste alle tribu, mantenne le medesime in uno stato di guerra permanente, i cui rancori si verrebbero poi perpetuando di generazione in generazione. Accenno qui ad un concetto, che sarà svolto più largamente altrove. Diregola si suol cercare nel diritto quiritario il complesso di tutti gli atti e dei negozi giu ridici, che potevano essere richiesti dalle condizioni sociali del popolo, fra cui esso vige. Esso invece non comprese dapprima tutti i rapporti giuridici, che già esi stevano nel costume e nella consuetudine; ma comincia dal comprendere quelli, che erano resi più urgenti dalle esigenze della vita civile e politica. E in questo modo, che esso comincia dall'essere un ius quiritium, che si aggira su pochissimi concetti fondamentali, i quali si adattano a tutte le possibili evenienze; poi trasformasi nel “ius proprium civium romanorum”; quindi assorbisce anche nella propria cerchia le istituzioni del ius gentium; e da ultimo giunge ad informarsi persino al ius naturale; concetti questi che, se non avevano ancora una configurazione scientifica, viveno però già nella coscienza generale del popolo romano, fin dal proprio esordire nella storia. Ciò mi conferma in una antica convinzione, che ho già avuto occasione di esporre nell'opera: La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, la quale consiste in ritenere, che anche nelle epoche primitive il diritto non confondesi colla forza; ma compare invece qual mezzo per reprimere la forza e la violenza. So che questa opinione ha ad essere combattuta da egregi che si occuparono dell'argomento, e fra gli altri da Zocco-Rosa, Preistoria del diritto. Milano, e da Puglia, L'evoluzione storica e scientifica del diritto e della procedura penale, nota; ma i fatti mi inducono a persistere nella medesima. Non è già che io nego, che siavi stato un periodo, in cui abbia predominata la forza e la privata violenza: ma quando presentasi il diritto, esso non solo non confondesi colla forza, ma si propone senz'altro di reprimerla, obbligandola a seguire certi processi, che ne impediscono l’esagerazioni e gl’eccessi. In questo senso aveva ragione il filosofo di scrivere – “Nam genus humanum. Ex inimicitiis languebat; quo magis ipsum Sponte sua cecidit sub leges arctaque iura.” Lucretius, De rerum natura. Cio è anche dimostrato dal carattere del tutto particolare, che assumono le guerre in questo periodo, e che si mantiene ancora per qualche tempo nella storia di Roma. Tali guerre infatti il più spesso prendono le mosse da qualche controversia, di carattere pressochè famigliare, che viene poi estendendosi mediante le aderenze e le parentele, e riduconsi in sostanza a scambievoli scorrerie, che le varie tribù e genti vengono facendo nei rispettivi loro territorii; scorrerie, che si sospendono mediante le induciae nella cattiva stagione, e vengono poi ad essere riprese nell' anno seguente. Ciò fa quasi credere, che queste genti primitive sono in uno stato perpetuo di guerra; il che non può essere ammesso, perchè è contraddetto dalle solennità stesse, che accompagnano così le dichiarazioni di guerra, come la formazione delle tregue, delle alleanze e delle paci. Un ultimo carattere infine, sta in ciò, che la formazione del diritto non si ha dapprima nei rapporti interni dei singoli gruppi; ma piuttosto nei rapporti fra le famiglie, fra le genti, fra le tribù, o almeno fra i loro capi, per guisa che i primi vocaboli di significazione eminentemente giuridica contrappongono sempre l'uomo all'uomo, ed indicano dei rapporti amichevoli od ostili, che vengono a svolgersi fra i diversi capi di gruppo. Di qui la conseguenza in apparenza strana, ma certamente fondata sui fatti, che la formazione di un diritto, che governava i rapporti fra le varie genti, precede la formazione del diritto privato propriamente detto: il che è dimostrato anche dalla considerazione, che nei filosofi si discorre dei “iura gentium”, prima ancora che si discorra del ius quiritium e del ius civium romanorum. Infatti, i iura gentiun, i foedera, le sponsiones fra i capi delle varie genti sono già rapporti, che si sono svolti anteriormente alla formazione della comunanza romana, mentre il ius quiritium dapprima e il ius civile più tardi nacquero e si svolsero colla stessa Roma; il che appare eziandio dal processo delle cose sociali ed umane, che ci è descritto dai filosofi latini. Intanto e sopratutto sui mercati, ove compareno i varii capi di famiglia, ed ove, oltre gli scambi, si puo anche trattare le alleanze e le paci, che comincia la formazione del diritto; il quale, esplicandosi fra capi di famiglia, che appartenano a genti diverse, e che non erano ancora soggetti al medesimo diritto, dove necessariamente essere dapprima piuttosto un “ius gentium”, che non un diritto, che potesse chiamarsi ius civile. Questo anzi non potè formarsi altri menti, che col trasportare fra i cittadini della medesima città quelle forme, che si sono prima elaborate nei rapporti contrattuali fra i capi delle varie genti e famiglie. Si può quindi affermare, che anche quel diritto pdi Roma, che appare nella storia con caratteri di maggior rozzezza e violenza, non trova sempre la propria origine nella forza, come molti sostengono; ma che in parte ha invece un'origine essenzialmente *contrattuale*, come la città, in cui esso era chiamato a ricevere il suo svolgimento. Il diritto, anziché doversi confondere colla forza, compare invece, allorchè si comincia ad uscire da uno stato di violenza, e se la forza continua ancora nei rapporti fra le varie tribù, gli è perchè esse non riuscirono ancora a sottoporsi, mediante accordo, all'impero di un medesimo diritto. E solamente più tardi, allorchè la città comincia ad essere abbastanza forte e potente, per imporsi ai singoli gruppi, che l'autorità civile potè penetrare eziandio nelle mura do [Non mi dissimulo l'arditezza di una idea, che conduce in sostanza a dire, che si forma dapprima il ius gentium, che non lo stesso ius civile, e che il ius quiritium e un diritto, formatosi dapprima fra le genti e i loro capi, e poscia trapiantato fra i quiriti: ma questo processo è per tal modo confermato dai fatti e ne appariranno man mano prove così evidenti, che mi sembra impossibile il poterlo negare. Del resto la ragione di esso trovasi in questo, che mentre la famiglia poo fare a meno del diritto nei suoi rapporti interni; questo invece e indispensabile nei rapporti fra le varie famiglie e fra le varie genti. Che anzi, dacchè sono nel dominio delle induzioni, aggiungerò ancora, che ai iura gentium dovette precedere il senso di quei iura naturalia, quae natura omnia animalia docuit; per guisa che il diritto nel suo svolgimento di fatto sarebbe prima uscito dalle tendenze spontanee dell'umana natura. Poi sarebbe stato elaborato nei rapporti fra le varie genti. Solo più tardi e comparso nell'interno di Roma. Esso insomma nei fatti seguì un processo del tutto opposto a quello che segue la scienza del diritto in Roma; la quale comincia invece dalle cautele del *ius civile*. Poi venne ad abbracciare anche l'equità del *ius gentium*. Più tardi soltanto giunse ad innalzarsi all'umanità del *ius naturale*. Vi ha però questa differenza, che i iura naturalia primitivi sono l'opera in consapevole degli istinti dell'umana natura, e i primitivi iura gentium consistono in un complesso di pratiche fra le varie genti, imposte dalle necessità di fatto; mentre il ius gentium accolto dal praetor e il ius naturale dei giureconsulti sono già nozioni astratte, a cui essi pervennero, mediante la riflessione ed il ragionamento, e forse neppure da soli, quanto al ius naturale, ma col sussidio della filosofia, atta a svolgere questi concetti speculativi ed astratti. Mi rimetto, quanto allo svolgimento del concetto di ius gentium e di ius naturale, a ciò che ho scritto nella Vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, lasciando a chi legge di notare le modificazioni, che qui sonovi arrecate.] mestiche, e sostituirsi a poco a poco alle norme di carattere esclusivamente morale o religioso, imponendo un diritto, a cui tutti devono inchinarsi, perchè è l'espressione della volontà collettiva e comune. I caratteri del diritto che ho fin qui cercato di ricavare dall'esame dei fatti, appariscono eziandio dai vocaboli più antichi, che presso le genti latine abbiano avuta una portata veramente giuridica, quali sono quelli di “connubium”, di “commercium” e di “actio”, e dalla significazione, che questi vocaboli hanno anteriormente alla formazione stessa di Roma. Infatti non può esservi dubbio, che questi tre concetti già avevano un contenuto preciso, allorchè comparve la comunanza romana. Ma essi non indicano ancora un complesso di diritti, che appartenga a questa od a quella persona, ma piuttosto dei rapporti, di carattere pressochè *contrattuale*, che esistono fra le famiglie, le genti e le tribù e i capi rispettivi delle medesime. L’ “action”, nel suo significato giuridico, ha un'origine pressochè contrattuale, come lo dimostra il fatto, che essa suppone il rimettersi di due persone ad un'autorità accettata da entrambi, ed una reciproca scommessa fra i contendenti, con cui entrambi affermano di essere nel buon diritto. E solo più tardi, che questi vocaboli, i quali significavano primitivamente dei rapporti, che intercedevano fra le varie genti e i loro capi, trapiantati fra i cittadini vennero a costituire altrettanti capi saldi, da cui si staccarono le forme essenziali, sotto cui ebbe poi a svolgersi il diritto quiritario. È poi degno di nota, come questi vocaboli, che primi acquistarono una significazione giuridica, abbiano questo di particolare, che contrappongono l'uomo all'uomo, indicando per tal modo come il diritto sia veramente nato colla società umana, e sia chiamato ad essere il “vinculum societatis humanae”. Nel “connubium” infatti abbiamo una persona, che esce da una famiglia per entrare in un'altra. Nel “commercium” abbiamo una persona, che, obligando se stessa od alienando la sua proprietà, addiviene a quelle molteplici relazioni di affari e di negozii giuridici, di cui si intesse la vita sociale sotto l'aspetto economico. Nell' “actio”, infine, abbiamo parimente una persona che, ritenendosi lesa in questo o in quel diritto da un'altra persona, lo afferma e lo fa valere di fronte alla medesima, appigliandosi a quei mezzi, che possono conciliarsi colle esigenze della vita sociale. Per tal modo il ius pone l'uomo di fronte all'altro uomo, e si può affermare con ragione che “hominum causa constitutum est.” Intanto ciascuno di questi concetti è eminentemente sintetico e comprensivo per modo che ognuno può servire come punto di partenza a tutto un complesso di diritti; il che apparirà ancora, allorchè Gaio, riassumendo l'elaborazione scientifica di molti secoli, finisce per con chiudere: “omne ius vel ad personas, vel ad res, vel ad actiones pertinet.” Non ignoro come questa classificazione sia stata di recente combattuta sopra tutto in Germania, e fra gli altri. dallo stesso SAVIGNY, il grande iniziatore del movimento contemporaneo negli studii storici intorno al diritto, il quale giunse fino a sostenere, che la distinzione di Gaio non ha nè valore storico, nè valore intrinseco. Traité de droit Romain. Trad. Guexoux, Paris. Parmi tuttavia, che chi consideri la correlazione perfetta, che vi ha fra la classificazione teorica di Gaio, e i concetti da cui il diritto quiritario prende le mosse, e tenga conto di quella dialettica potente, che stringe insieme le varie parti della giurisprudenza romana, malgrado il tempo per cui durò l'elaborazione di essa, possa difficilmente ammettere, che qui trattisi, come il SAVIGNY dice dell'opinione individuale di un giureconsulto, e che come tale sia priva di qualsiasi valore storico ed intrinseco. Essa invece ha valore storico ed intrinseco ad un tempo, perchè compenetra tutta la giurisprudenza romana, in quanto che e facile il dimostrare a suo tempo, che nel diritto civile romano tutta la parte relativa ai diritti di famiglia e quindi alle persone non e che uno svolgimento del concetto primitivo del “connubium.” Tutta quella relativa alle cose non fa che una deduzione dal concetto di “commercium.” Infine, quella che si riferisce alle azioni, non fu che il frutto di un'elaborazione lenta e non mai interrotta del concetto primitivo di “actio”. Cfr. al riguardo Carle, “De exceptionibus in iure romano” (Torino). L'autore che pose meglio in evidenza la correlazione fra “connubium”, “commercium” ed “actio”, e LANGE, Histoire intérieure de Rome. Che anzi i giureconsulti proseguirono lo svolgimento di queste forme essenziali del diritto, senza mai confondere lo svolgimento dialettico dell'una con quello dell'altra; per modo che certe singolarità del diritto romano solo si puo spiegare, in quanto che la dialettica giuridica non consente di confondere due ordini diversi di idee. Di più se fosse qui lecito di porre innanzi una considerazione, che puo parere TROPPO filosofica, non dubito di affermare, che nel concetto romano la distinzione seguita da Gaio esprime tre atteggiamenti diversi del diritto compreso in tutta la sua larghezza, il quale appartiene alla persona, si spiega sulle cose, e infine, violato, affermasi mediante l'azione. È da questa concezione sintetica e potente del diritto in Roma, che procede la primitiva indistinzione fra il diritto *personale*, il diritto reale, e l'azione, che serve a difenderli. Fra questi concetti presentasi anzitutto quello di “connubium”, che nella sua significazione primitiva indica la facoltà, che appartiene ad individui, i quali appartengono a genti diverse, di imparentarsi fra di loro, mediante quelle nozze, che dalle genti sono riconosciute come giuste e legittime. Esso ha per effetto di mescolare le stirpi, e quindi si comprende, che nell'alto concetto, che hanno le genti patrizie dei proprii antenati e del SANGUE, che corre nelle loro vene, questo dove essere un rapporto, in cui tendevano piuttosto a restringersi, che non ad estendersi. Solo le genti, che appartenevano al medesimo “nomen” -- e questo il latino, il sabino o l'etrusco – hanno fra di loro comunanza di connubii, il che è anche provato dalla tradizione, secondo cui, se i Ramnenses vuoleno il connubium coi Titienses, doveno ricorrere alla violenza ed alla forza; il che pero non tolse, che il MESCOLARSI DEL SANGUE delle due tribù sia stata la causa del loro successivo affratellarsi per formare una medesima Roma. Furono infatti le DONNE di origine SABINE che secondo una tradizione, la quale è certo ben trovata -- si interposero fra i mariti ed i fratelli e riuscirono così ad affratellarli, dando perfino il loro nome alle curie, in cui essa è ripartita. Cosi pure si comprende, che anche fra le genti, che appartenevano allo stesso “nomen” e facevano anche parte della STESSA tribù, il connubium non potesse esistere fra i due elementi, di cui [È questa la significazione primitiva, che si attribuisce al vocabolo, allorchè parlasi di “connubium” fra le varie genti, o fra il patriziato e la plebe. E solo nel diritto quiritario, che il “ius connubië” passa a significare il diritto di addivenire alle iustae nuptiae, e venne così a dare origine a tutti quei rapporti giuridici, che si riferiscono alla famiglia. È da esso infatti, che deriva la manus, che fonda la famiglia; la patria potestas, che spiegasi, allorchè nascono dei figli; e infine la stessa successione legittima, la quale si avvera, allorchè, morendo il capo di famiglia, si discioglie quel gruppo, e si riparte quel patrimonio, che in lui trovavansi unificati. Questa tradizione è riferita da Livio e da Dionisio: ma non sembra essere confermata dai fatti, perchè alcuni dei nomi delle curie primitive, che giunsero fino a noi, sembrano essere tolti più dai luoghi che dalle persone. V. LANGE, Hist. intér. de Rome. Ad ogni modo questa è una tradizione, che è certo ben trovata, in quanto che dimostra l'importanza, che dove avere un avvenimento che la rompe col passato, e rende possibile il connubium fra persone che non appartenevano al medesimo nomen, preso nel senso di stirpe e di schiatta. E questa prima MESCOLANZA DEL SANGUE latino col sabino, che rese possibile la potente attrazione esercitata da Roma su tutte le stirpi italiche, il che è riconosciuto da CICERONE, De Rep.] l'uno in origine rappresenta la classe dei vincitori e l'altro quella dei vinti. Non poteva quindi esservi connubio, nè fra i liberi ed i servi, nè nè fra i patroni ed i clienti, e neppure fra i patrizii ed i plebei. Queste varie gradazioni costituivano pressochè due caste diverse, il cui sangue non dove confondersi, come lo dimostrano le lunghe lotte, che si dovettero sostenere anche più tardi per accomunare i matrimonii fra il patriziato e la plebe. Intanto pero questo connubium, frammezzo a genti, che costitui vano per così dire altrettante piccole potenze, riducesi in realtà a staccare una donna da un gruppo, di cui prima fa parte, per trasportarla in un altro; il che importa eziandio un cambiamento nel culto gentilizio, perchè la donna abbandona il culto dei suo padre per diventare partecipe di quello del marito. Di qui la necessità per le giuste nozze di una cerimonia religiosa, come quella della “confarreation”, a cui assisteno i capi di famiglia della gente e delle tribù, a cui appartene lo sposo e la moglie, e che importa la comunione delle cose divine ed umane. Di qui la conseguenza eziandio, che quanto era dalla moglie recato con sè dovesse diventare [A chi chiedesse col linguaggio ora adottato, se le genti italiche praticassero l'endogamia o l'exogamia (V. SPENCER, Principes de sociologie), si dove rispondere, che esse sotto un certo aspetto erano exogame, perchè ritenevano nefarie le nozze fra persone strette da un certo vincolo di parentela, fra quelle persone cioè, fra cui esiste, secondo l'antico linguaggio, il “ius osculi”, ossia fino al sesto grado; mentre poi erano endogame nel senso, che il Patrizio, per scegliere la propria compagna, non puo uscire dalle genti che appartenevano allo stesso nomen. Pare però, che questa consuetndine tradizionale siasi modificata dagli stessi romani, i quali, misti fin dalla origine, furono anche in seguito i più facili a mescolare il proprio sangue con altre stirpi. Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costituzionale di Roma. Torino. Parmi allo stato attuale degli studii incontrastabile l'opinione, che considera la “confarreatio” come esclusivamente propria delle genti patrizie. Tra gli autori seguono tale opinione EsMein (“La manus, la paternité et le divorce” – “Mélanges d'histoire de droit, Paris); Glasson (“Le mariage civil et le divorce, Paris), e pare anche il nostro Brininel suo bel lavoro sul “Matrimonio e divorzio nel diritto romano” (Bologna). Del resto varii indizii di questa origine patrizia della “confarreatio” si hanno nel carattere religioso della cerimonia, nei X testimonii che ricordano le X curie delle tribù, e in ciò che le leggi regie da Dionisio attribuite a Romolo ed a Numa, non ricordano che le nozze confarreate. V. Bruns, Fontes. Per ciò che si riferisce alla famiglia romana è fondamentale l'opera dello SCHUPFER, La famiglia nel diritto romano. Padova] proprietà del marito, o di colui, sotto la cui potestà trovavasi ancora il marito; e che la medesima, per entrare nei quadri del gruppo, a cui venne ad aggregarsi, cadesse sotto la manus del capo di famiglia, ed acquistasse la posizione migliore, che puo esservi nella medesima, che era quella di figlia – “filiae loco”. Viene in seguito il “commercium”, il quale in questo periodo non significa ancora quel complesso di diritti, che scaturiscono dal dominio, ma ha il suo vero e proprio significato di rapporti commerciali, che possono intervenire fra i capi di famiglia, appartenenti a genti diverse. Qui il rapporto è assai più superficiale, ed è per sua natura tale, che può essere di reciproco vantaggio per i contraenti. Il “commercium” pertanto prende un più largo sviluppo; ed esiste non solo fra il patriziato e la plebe, fra cui era reso indispensabile dalla coesistenza sul medesimo suolo, ma anche fra coloro, che appartengono a stirpi diverse. Che anzi fra queste sonvi anche le stirpi, che, per avere attitudine maggiore ai commerci, fannosi in certo modo intermediarie dei medesimi fra le varie genti e tribù; il quale ufficio fra le genti italiche sembra essersi compiuto sopratutto per opera dell'elemento etrusco. Sono questi commerci, che vengono ravvicinando le varie genti, e conducono gradatamente a cambiare certi siti neutrali in luoghi di riunione ad epoche de terminate e fisse – “conciliabula”, “for a” --. È poi un grande vantaggio [Anche qui la significazione primitiva del vocabolo “commercium” appare da ciò, che Roma fin dagli inizii trovasi circondata da popolazioni, con cui pratica il “commercium”. È solo per opera del diritto quiritario, che il concetto di commercium, applicato fra i cittadinidi una medesima città, dà origine al “ius commercii,” il quale poi, sviscerato negli elementi, che entrano a costituirlo, viene a scindersi; nel “ius emendi ac vendendi”, che operasi colla “mancipatio”; nel “nexum”, da cui deriva la teoria delle obbligazioni; e infine nella “testamenti factio”, che comprende la facoltà di fare e di ricevere per testamento, e quella perfino di essere testimonio nel medesimo. Cfr. Lange, Histoire intérieure de Rome. Per tal modo, nello svolgimento dialettico del diritto quiritario la successione legittima e la testamentaria vengono a spiegarsi in un diverso ordine di idee in quanto che la prima dipende dal connubium, e l'altra deriva dal commercium. Questa forse è la vera ragione della massima. “Ius nostrum non patitur eumdem in paganis testato et intestato decessisse, earumque rerum naturaliter inter se pugna est.” Pomp., I, Dig. È proprio infatti dei giureconsulti, che essi una volta, che hanno separato due ordini di idee, non li confondano più insieme. Secondo il SUMNER Maine, qualche cosa di analogo sarebbe anche accaduto fra 128 per una comunanza incipiente, se la medesima sia posta in tal sito da richiamare alle proprie fiere ed ai proprii mercati le popolazioni vicine; vantaggio, che e una delle cause, per cui Roma, diventata ben presto un emporio per il commercio delle popolazioni latine, potè esercitare sovra di esse un'attrazione ed assimilazione potente] le antiche comunanze di villaggio dell'Oriente; fra le quali esistevano degli spazii di terreno neutrali, che serveno per trattare le paci e per il mercato (Village Communities). Secondo Maine, si ha un indizio dell’associazione del commercio e della neutralità negli attributi di MERC-V-RIO, dio comune alle stirpi di origine aria, che da una parte sarebbe il dio dei termini, il primo dei messaggeri ed ambasciatori, e per ultimo anche il patrono del commercio, dei confini, e un poco anche dei furti e dei ladronecci. Intanto da questa circostanza in apparenza di poco rilievo, per cui nel medesimo sito si fanno gli scambii e si trattavano le alleanze e le paci fra le varie genti, deriva questa importantissima conseguenza, che come in quest'epoca non si distingueva il diritto privato dal pubblico, così non distinguesi il diritto commerciale, da quel diritto, che ora si chiama internazionale. L'uno e l'altro erano compresi nel ius gentium, il che spiega come questo vocabolo talvolta indichi soltanto dei rapporti fra cittadini e stranieri, e talvolta comprenda anche i rapporti di carattere pubblico fra varii popoli. Non puo però esservi dubbio, che il ius gentium, allorchè viene a penetrare nel diritto romano, per opera del “praetor”, appare circoscritto ai rapporti privati fra cittadini e stranieri, ed ha quindi un carattere essenzialmente commerciale. Ciò è molto bene dimostrato da Fusinato nel suo accurato lavoro “Dei Feziali e del diritto feziale”, Accademia dei Lincei. Memorie della Classe di scienze mor. stor. filol.; del quale credo di poter dire, senza offendere la modestia di un collega ed amico, che ha cominciato ad introdurre qualche concetto direttivo in una materia, che certo ne ha grande bisogno. È poi noto, che la grande autorità sull'argomento è Voigt, Das ius naturale, bonum et equum, gentium, etc. Leipzig, dei quali il 2° si occupa pressochè esclusivamente del ius gentium. Fra il modo di vedere di questi autori e quello qui esposto corre però questa differenza, che essi ritenne il concetto ed anche la denominazione del ius gentium, come opera riflessa dei giureconsulti; mentre per me il ius gentium esiste nel fatto e nella parola anche anteriormente e solo più tardi riuscì a trovar posto anche nel diritto civile di Roma. Sembra tuttavia che prima fossero adoperate le espressioni di iura gentium, e di iura naturalia, mentre dopo i vocaboli adottati sono quelli di ius gentium e di ius naturale, i quali indicano l'unificazione, che vi si è operata. MOMMSEN, Histoire Romaine, da tale importanza alla posizione eminentemente commerciale di Roma, da ritenere la popolazione primitiva di essa comededita al commercio e Roma come una città commerciale. PADELLETTI ha combattuta tale opinione (Storia del diritto romano) e parmi in verità che il fatto, per cui Roma divenne l'emporio delle genti del Lazio, possa essere spiegato senza dire, che essa fosse una città sopratutto commerciale; poichè anche per una città agricola e militare ad un tempo, come era Roma nei propri inizii, puo essere grandemente utile di essere in tal sito, da richiamare il commercio [E sui mercati, dove convenivano persone appartenenti a comunanze diverse, che dovettero formarsi quelle convenzioni più semplici, fondate unicamente sul consenso dei contraenti, e fra le altre anche la compra e vendita, che alcuni vorrebbero far nascere solo, quando Roma era già divenuta una grande città. Solo deve avvertirsi, che questa compra e vendita primitiva, avverandosi talvolta fra capi di famiglia, che appartenevano a comunanze diverse, fra cui non esiste forse comunione di diritto, non dove naturalmente ritenersi perfetta, se non era accompagnata dalla tradizione della cosa e dal pagamento del prezzo, come ha a stabilire anche più tardi la legislazione decemvirale. E qui parimenti, che dove nascere e svolgersi quella sponsio o stipulatio, la quale, allorchè poi ottenne di essere riconosciuta dal diritto quiritario, venne ad essere il mezzo più semplice e più acconcio per dar forma giuridica ad ogni maniera di convenzioni. Sono eziandio queste fiere, che die delle popolazioni latine. Può darsi anzi, che anche questa posizione eminentemente commerciale l'ha resa meno esclusiva nell'accogliere nuovi elementi. Del resto anche i romani senteno l'eccellenza della posizione della loro città, e ce ne parla CICERONE, De Rep. Non può quindi, a parer mio, essere giustificata l'opinione di coloro i quali ritengono, che solo più tardi si fosse introdotta in Roma l’emptio venditio, e che la sponsio e la stipulatio, che certo già esisteno nei rapporti fra le varie genti, sonno state invece importate di Grecia, per ciò che si riferisce alle convenzioni private. L'opinione erronea proviene dal credere, che il diritto quiritario comprende dapprima tutto il diritto in uso presso i romani; mentre invece esso fu una codificazione e un adattamento progressivo del diritto già esistente nelle consuetudini. Esso quindi comincia dal comprendere solo quella parte di esso, che era confermata da una “lex publica”, come lo dimostrano le antiche espressioni di “agere per aes et libram”, di “facere testamentum, nexum, mancipium secundum legem publicam”. Quindi, accanto al ius quiritium, visse sempre in Roma un ius gentium, che, senza aver ricevate le forme quiritarie, e però sempre adoperato e forse anche applicato nelle controversie dai recuperatores, anche anteriormente all'istituzione del praetor peregrinus. Ciò è provato dai filosofi latini e sopratutto da Plauto, che ne danno come usuali e frequenti certe forme di negozii e di atti, che non risultano ancor sempre penetrati nel diritto quiritario. Ciò poi è indubitabile per la sponsio o stipulatio, atto romano per eccellenza, dai romani applicato nei trattati pubblici e nelle convenzioni private. Può darsi quindi, che le genti italiche l'avessero comune colle elleniche, e che la espressione spondeo fosse anche comune ai due popoli. Ma i romani non ebbero certo bisogno di apprenderlo d’altri, nè aspettarono ad adoperarlo solo piu tarde verso come sostengono fra gli altri il MurueAD, Histor. Introd. e Leist, Graeco- Italische Rechts geschichte. Solo può ammettersi, che, dopo aver vissuto lungamente nell'uso e davanti ai recuperatores, la sponsio o stipulatio penetra anche nello stretto diritto civile ed e adottata come forma propria del medesimo] dero più tardi occasione al giureconsulto Manilio di concretare in poche parole delle formole acconcie per concepire quelle vendite, che sono più frequenti per una popolazione agreste; delle quali formole alcune pervennero a noi e potrebbero trovare riscontro in formole, ancora oggi usate nelle stesse occasioni, salvo che queste non hanno più la sobrietà e precisione antica. È qui infine, che dove prepararsi la formazione di un ius gentium, che ha dapprima un carattere commerciale, come il commercium da cui esso deriva, e che, accanto al diritto proprio di ogni singola gente o tribù, era indispensabile per le transazioni commerciali fra i capi di famiglia, appartenenti a genti ed a tribù diverse. Sia pure, che solo più tardi questo modesto ius gentium, formatosi sulle fiere e sui mercati, richiami l'attenzione del pretore, e gli dia animo per scostarsi dalle formalità ormai divenute soverchie del ius proprium civium romanorum: cio però non toglie, che le origini di quelle lente formazioni, che si verificano nella coscienza generale di un popolo, si debbano talvolta anche cercare in un'epoca di gran lunga anteriore, come accade delle piccole sorgenti, che solo appariscono degne di osservazione e di ricerca, quando si scorge il corso maestoso del fiume, che ebbe a derivarsi da esse. Da ultimo non può esservi dubbio che, già nel periodo gentilizio, dovette essersi formato il concetto dell' “actio”, ma questa non significa un mezzo accordato dalla legge o dal pretore, per far valere in giudizio un proprio diritto, ma e, per dir cosi, il diritto stesso, che mettevasi in azione, estrinsecandosi in quel complesso di atti, che erano indispensabili per ottenere il proprio riconoscimento. Il poco che pervenne a noi delle formole Maniliane, trovasi riportato dall'HuSCHKE, Iurispr. anteiust. quae supersunt, ed è una prova dell'attitudine dei veteres iurisconsulti a sceverare da un fatto tutto ciò, che in esso eravi di giuridico, modellandolo in una formola tipica, che puo poi servire per tutti i casi dello stesso genere. Accostasi a questo concetto dell' “actio”, nella sua significazione primitiva, l'ORTOLAN, Histoire de la legislation romaine, Paris, parla dell'azione nel periodo decemvirale. “Action est une dénomination Générale. C’est une forme de procéder, une procédure considérée] È a questo punto, che si può trovare la ragione, per cui il diritto di tutti i popoli e quindi anche il romano si è sviluppato dapprima sotto forma di azione e di procedura, che non come legge, che determini i diritti rispettivi dei cittadini. Finché il capo di famiglia è esso il sovrano nella propria casa, egli NON HA BISOGNO CHE LA LEGGE VENGA A RICORDARGLI QUALI SIANO I SUOI DIRITTI. Questo diritto egli porta con sè e ha profondamente impresso nella sua coscienza. Quindi, se il medesimo diritto venne ad essere violato, egli non può aspettare che lo Stato, che quasi ancora non esiste, si metta in moto per ottenere la riparazione dal torto, che ha ad essergli arrecato. Come quindi è il capo di famiglia che vendica l'adulterio, o che corre sui passi del ladro che lo ha derubato, e ne perquisisce la casa, mediante certi riti, che sono determinati dal costume e a cuiniuno osa ribellarsi, perchè sono sotto la protezione del fas: così è pur egli che, quando si vede occupato un fondo, od usurpato uno schiavo, o sottratto un figlio, si mette in movimento ed in azione e afferma in presenza ed a scienza della intiera comunanza, che è suo quel fondo, quello schiavo, quel figlio. Quindi è, che l'azione viene ad essere naturalmente la prima manifestazione del diritto. Prima il diritto esiste allo stato latente, ed ora si produce, si afferma, perchè incontro una persona, che ebbe a violarlo. Quest'azione tuttavia, non è ancora la “legis actio”; perchè in compierla l'uomo offeso non ispirasi ad una *legge*, che forse non esiste ancora, ma ispirasi al senso intimo e profondo del proprio diritto. Tuttavia è in questo momento sopratutto, sotto la sferza dell'offesa e sotto l'impeto dell'indignazione, che il capo di famiglia può anche trascendere nel far valere il proprio diritto, e ricorrere anche alla violenza ed alla vendetta. Quindi è, che se per avventura verrà a formarsi nel seno della comunanza qualche forma di procedura, la quale, mentre da una parte rispetta la fiera indipendenza dell'uomo, consapevole del proprio diritto, dall'altra contenga il prorompere violento di colui, che ha ad essere dans son ensemble, dans la série des actes et des paroles, qui doivent la constituer.” Qui però l'autore parla già della “legis actio”. Ma se noi andiamo più oltre nei tempi, allorchè essa non è ancora “legis actio”, ma semplicemente “actio”, questa non è ancora un modo di procedere, ma è soltanto un modo di *agire*, ed è anzi il diritto stesso in azione. Cfr. Carle, La vita del diritto. È poi notabile, come per i latini il vocabolo “agere” indichi un'azione continuata, che può scindersi in parti diverse; mentre “facere” si adopera di preferenza invece per indicare un'azione, la quale compiesi, per così dire, in un unico contesto.] offeso nel proprio diritto, l'occasione non dove certamente essere trascurata. E quindi prima il mos, che comincia coll'additare la via consuetudinaria, a cui debbe appigliarsi colui, che vuol far valere il proprio diritto. Poi e il fas, che intervenne anch'esso e dichiara empio chi non segue quel determinato rito. Ed infine sarà anche il ius, che venne notando in certo modo i varii stadii, per cui passa quella procedura, e obbliga i contendenti a passare, almeno per forma – “dicis gratia” -- , per ciascuno di questi stadii. E in tal modo, che all'actio violenta, rozza, avida, appassionata dell'individuo sottenne la legis actio, consacrata dalla legge, compassata e lenta, quasi per attutire le passioni irrompenti dei contendenti; ma che intanto ricorda ancora gli stadii dell'anteriore violenza, quasi per ricordare che a quella dovrebbe farsi ritorno, quando la legge non e rispettata. Non è quindi da approvarsi, a mio avviso, l'opinione di coloro, i quali ritengono che il prevalere delle norme procedurali nel diritto, e quindi anche nel romano, sia prevenuto da ciò, che sarebbesi prima badato alla forma, che alla sostanza. La ragione di questo fatto è molto più profonda e deve essere cercata nelle origini stesse della convivenza civile e politica. La causa del fatto sta in ciò, che l'opera della legge negl’inizii e sopratutto necessaria non tanto per assicurare il diritto, quanto per reprimere le reazioni violente, a cui abbandonavasi colui, il cui diritto e violato. In questa parte diritto privato e diritto penale segueno analoghe vicende. Al modo stesso, che la legge penale non mira tanto a punire i misfatti, quanto piuttosto a porre dei confini alla vendetta, e rende cosi obligatoria quella composizione a danaro, che dipende dall'accordo delle parti: cosi anche le norme procedurali comparvero le prime, non tanto perchè i popoli comprendeno più la forma che la sostanza; ma perchè il primo e più urgente bisogno di una società, in via di formazione, e quello di impedire fra i consocii la manuum consertio, ossia l'esercizio violento delle proprie ragioni. Per lo svolgimento parallelo della vendetta e della pignorazione privata, è da vedersi: Del GIUDICE, “La vendetta nel diritto longobardo” (Milano). Sembra poi attribuire la precedenza delle norme di procedura, presso i popoli alla prevalenza, che presso di essi ha la forma sulla sostanza, lo stesso Sumner Maine, The early history of institutions, ove, discorrendo della forma primitiva dei rimedii legali, scrive che in uno stadio delle cose romane i [Intanto non vi ha forse nel vocabolario giuridico parola, che presenti al giureconsulto filosofo e storico una più lunga storia di cose sociali ed umane, dei vocaboli di “agere” e di “actio”, e che lo fa rimontare più oltre nelle tenebre e nella oscurità del passato. Nella loro significazione primitiva di « stimolare » e di « spingere », questi due vocaboli sembrano ancor richiamare gl’antichi abitatori del Lazio, che, pastori di greggi, prima di diventare reggitori di popoli, spingevano al largo le proprie mandre e i proprii armenti. Memori e quasi alteri della propria origine, non dubitarono di applicare il medesimo vocabolo a significare l'attività del magistrato, che si spiega in rapporto col popolo – “ius agendi cum populo” -- , ed anchequella di colui, che forte della convinzione nel proprio diritto intraprende quella specie di conflitto e di lotta, che dove essere necessaria per ottenere il riconoscimento delle proprie ragioni. Questo è certo, che fra capi di famiglia dal carattere fiero ed indipendente non dove esser così facile il conseguire che essi si sottoponessero ad un'autorità per la decisione delle loro controversie, e non è quindi meraviglia se l'avvenimento dove loro apparire così importante, che ritennero opportuno di conservare la memoria dei diversi stadii, che hanno dovuto attraversare per giungervi. Allorchè sorgeva una controversia fra capi di famiglia, appartenenti alla medesima tribù, il modo più naturale di risolverla dovette certamente essere quello di rimettersi ad uno o più arbitri ed amichevoli compositori, che doveno essere concordati fra le parti, come lo dimostra un antico costume, che gli filosofi latini attribuiscono ai proprii maggiori. Era poi naturale, che queste persone, chiamate a risolvere la controversia, dovessero essere scelte fra i padri ed anziani del villaggio; del che rimasero le traccie anche in Roma, ove i iudices furono per secoli tratti dall'ordine dei padri diritti ed I doveri sono piuttosto un'aggiunta della procedura, che non la procedura una mera appendice aidiritti ed ai doveri.  BRÉAL, Dict. étym. latin., v° Agere. Cic., Pro Cluentio. “Neminem voluerunt maiores nostri, non modo de existimatione cuiusquam, sed ne pecuniaria quidem de re minima esse iudicem, nisi qui inter adversarios convenisset.” Del resto, anche secondo la legislazione decemvirale, sembra che alla discussione della causa precedesse un tentativo di componimenti, come lo dimostra il fram., Rem, ubi pacant, orato, tavola II, legge 14, secondo la ricostruzione del Voigt, Die XII Tafeln, o senatori, e solo dopo una lunga lotta, che si avvero già sul finire della Repubblica fra il partito deg’ottimati e quello popolare, poterono anche essere scelti fra gl’equites. La cosa però venne a farsi più grave, allorchè i contendenti non si mettevano d'accordo per un amichevole componimento. Non vi ha nulla di ripugnante, che essi, compresi vivamente del proprio diritto, trovandosi sul fondo stesso o davanti allo schiavo, oggetto della controversia, cominciassero dall'affermare altamente il proprio diritto sul fondo o sullo schiavo. Che se niuno di essi cede, lo studio della natura umana ci insegna anche ora, che non è punto improbabile, che essi potessero addivenire a quella vis realis, a cui secondo Gellio e poi sostituita la “vis festucaria”, e che si effettua cosi fra di essi una vera e propria lotta, che prese il nome “dimanuum consertio”. È però consentaneo eziandio al costume patriarcale che, quando due persone sono cosi in lotta fra di loro, puo anche interporsi fra di esse una persona autorevole, la quale goda la comune fiducia, e che loro imponga di separarsi colle parole, che più tardi sonno pronunziate dal praetor nella procedura quiritaria – “mittite ambo hominem”. Tace allora la lotta: i contendenti, fatti umili dall'autorità stessa di chi intervenne fra di loro e dallo stato stesso di violenza, in cui furono sorpresi, chiamano entrambi a testimoni il divino, che la ragione è dalla parte loro, e per dare energia maggiore alla propria affermazione aggiungono alla medesima una scommessa, la quale, per essere accompagnata dall'affermazione giurata di rimettersi al giudizio della persona intervenuta fra di essi, può prendere il nome di “sacramentum:. Si ha cosi una successione di fatti, che conducono naturalmente la persona autorevole, che si è in [La legge che trasporta dall'ordine dei senatori a quello degli equites la capacità ad essere giudici fu la lex SEMPRONIA iudiciaria del 632 di Roma, proposta da C. Gracco, la quale dove però dar luogo a gravi lotte ed agitazioni, che sono fatte manifeste dalle leggi giudiziarie degli anni, che vengono dopo. È da vedersi in proposito ORTOLAN, “Histoire de la législation Romaine”. Aulo Gellio, Noct. attic. -- Questo sentimento veramente sociale ed umano del pudore, che guadagna colui che si appiglia alla violenza, trovasi maravigliosamente espresso da OVIDIO, Fastorum. “Et cum cive pudet conseruisse manus.” È però a notarsi, che Ovidio limita quel senso di pudore alle violenze fra i cittadini. Con quelli che non sono tali sarebbe tutt'altra cosa.] terposta, ad essere giudice non tanto della ragione o del torto dei contendenti, quanto piuttosto della scommessa intervenuta fra i me desimi; sebbene però venne ad essere naturale conseguenza del suo giudizio, che debba ritenersi aver ragione chi vince la scommessa e torto colui, che perde la medesima. Fin qui pertanto, non si ha che un processo di cose sociali ed umane, di cui si potrebbero trovare le traccie anche ai nostri giorni, e che dove certo essere frequente, allorchè le contese sono sostenute dai capi di gruppo, che non conosceno altra autorità superiore, salvo quella, che sono accettata di comune accordo. Pongasi ora, che questo processo di cose si ripeta più e più volte frammezzo a genti, che, come le italiche, siano use a modellare in formole ed in gesti solenni tutti gli atti tipici della loro vita giuridica, e allora si puo facilmente comprendere, come siasi venuta formando quel l’ “actio sacramento”, che costitui poi l'azione fondamentale di tutto il diritto quiritario, e e dai quiriti conservata con cura così gelosa, che, già abolite le altre azioni delle leggi, l' “actio sacramento” continua ancora a celebrarsi davanti al tribunale quiritario per eccellenza, che è il tribunale dei centumviri. Non è quindi il caso di ridurre questa primitiva azione ad una pantomina incomprensibile, nè di cambiare il popolo maestro al mondo nel diritto in un architetto di formalità e di sottigliezze senza scopo; ma è il caso piuttosto di leggervi la storia delle vicende, che ha a percorrere l'amministrazione della giustizia, riportandola in quell'ambiente patriarcale, nel quale soltanto si può riuscire a ricostruirla nelle sue primitive fattezze. Qui tuttavia non posso passare sotto silenzio l'opinione messa innanzi da una grande autorità, quale è il Bekker, e che e poi anche divisa da molti altri autori, secondo cui dovrebbero ritenersi più an [È già da qualche tempo, che rivelasi nei filosofi la tendenza a dare una spiegazione naturale della formazione dell'actio sacramento. Se ne possono vedere degli accenni nel Maynz, Cours de droit Romain, Bruxelles; nel SUMNER MAINE, Early history of institutions, nel MUIRIEAD, Historical Introduction, nel BUONAMICI, Storia della procedura romana. Pisa. Non credo tuttavia che essa sia stata studiata nell'ambiente stesso, in cui ha dovuto formarsi, nè che siasi dimostrato che essa debba riguardarsi come una sopravvivenza di un'epoca anteriore. È però noto, che Omero nell'Iliade descrive, sopra uno dei compartimenti dello scudo di Achille, una procedura del tutto analoga a quella dell'actio sacramento.] tiche della stessa “actio sacramento”, quelle altre forme di azioni, che sono indicate col vocabolo di “manus iniectio” e di “pignoris capio”, in quanto che le medesime ricorderebbero più direttamente l'uso della forza per far valere il proprio diritto. Lasciando per ora in disparte la “pignoris capio”, che ha solo una importanza secondaria, per i pochi casi in cui fu ammessa, importa anzitutto notare, che il vocabolo di “manus iniectio” può essere tolto in due significazioni diverse, anche secondo la legislazione decemvirale. Havvi anzitutto la “manus iniectio”, a cui ricorre colui che, dopo aver invitato inutilmente il debitore a seguirlo avanti al magistrato, gli pone addosso la propria mano e lo trascina in ius, somministrandogli però quei mezzi di trasporto, che possano esser necessari per lo stato di malattia, in cui egli si trovi. In questo senso però non havvi ancora una vera “legis actio”, ma solo un mezzo per ottenere la comparizione del convenuto davanti al magistrato. Invece la “manus iniectio”, in quanto costituisce una “legis actio”, consiste nel potere, che appartiene al creditore di porre la sua mano sopra il nexus, l'aeris confessus, ed il iudicatus per trascinarlo nel suo carcere, e costringerlo così al pagamento del proprio debito od a lavorare per lui finchè sia soddisfatto. BEKKER, Die Actionen der römisches Privatrechts, Berlin. Del resto un tale concetto è stato in parte enunziato anche dal JHERING, L'esprit du droit romain, Trad. Maulenaere, Paris, salvo che egli dà poi alla “manus iniectio”, come “legis action”, una significazione del tutto speciale. A questa “manus iniectio” accennasi nella prima legge delle XII Tavole. “Si in ius vocat, ito. Ni it, antestamino: igitur em capito. Si calvitur pedemve struit, manum endo iacito.” -- Sonvi persino degli autori, i quali dubitano che la “manus iniectio” puo essere considerata come una vera “legis actio”, in quanto che essa non richiede l'intervento del magistrato e ha solo luogo quando trattasi di esecuzione. E questo il motivo, che induce il JHERING a dare una significazione speciale alla “manus iniectio”. Quanto alla letteratura sull'argomento e alle discussioni, che di recente sorgeno intorno alla questione, se la “manus iniectio” dove ritenersi come una “legis actio”, è da vedersi il MUIRHEAD, Histor. Introd. Parmi tuttavia, che il dubbio non possa esistere, quando si tenga conto della significazione larghissima, che ha il vocabolo di “legis actio” nel diritto; nel quale esso indica in sostanza i diversi genera agendi in conformità di una lex publica, per modo da comprendere la stessa in iure cessio, allorchè serve per effettuare una adozione, una emancipazione, una manomissione, od un trasferimento di proprietà.] Quanto alla manus iniectio Voigt, Die XII Tafeln. Or bene la “manus iniectio”, cosi intesa, non può certamente essere considerata, come di formazione anteriore all' “actio sacramento”. Per verità mentre questa contiene la storia delle varie peripezie, per cui passa lo stabilimento dell'umana giustizia, e quindi richiama ancora un'epoca, in cui non eravi amministrazione di giustizia; la “manus iniectio” invece, quale appare nelle XII Tavole, suppone già stabilita una amministrazione della giustizia, in quanto che essa è un modo di procedere all'esecuzione contro colui, che o siasi obbligato colla solennità del nexum, o abbia confessato il proprio debito davanti al magistrato, o sia stato condannato al pagamento. Nè serve il dire, che la “manus iniectio”, essendo un mezzo per l’esercizio delle proprie ragioni, dove essere applicata anche in altri casi; mentre la legislazione decemvirale la circoscrive ai casi da essa determinati, nell'intento di impedirne gli abusi. A ciò infatti si può facilmente rispondere, che se fra i capi di famiglia delle genti patrizie si può comprendere una procedura solenne, come quella dell' “actio sacramento”, in cui le due parti sono eguali fra di loro e finiscono per accordarsi nell'accettazione di un giudice della loro scommessa, è invece affatto ripugnante una procedura, come e quella della “manus iniectio”. Non è un'eguale che può sottomettersi ad una procedura di questa specie, per quanto egli puo essere profondamente convinto del proprio torto. Fra due eguali, che siano in contesa, può comprendersi la “manuum consertio”, e in seguito l'accettazione di un arbitro; ma non mai che uno obbedisca pecorilmente al cenno dell'altro, e si lasci cosi stringere nei ferri e nelle catene del suo carcere. Con ciò tuttavia non voglio dire, che la “manus iniectio” e direttamente introdotta dalla legislazione decemvirale, e che non esiste anteriormente alla medesima. Ritengo anzi, che essa dove già esistere da lungo tempo: ma intanto a questo proposito mi fo lecito di avventurare la congettura, che la “manus iniectio” dove essere una speciale forma di procedura, che non si adopera già nei rapporti fra i capi di genti patrizie, ma bensì unicamente nei rapporti, che intercedeno fra il creditore patrizio ed il debitore plebeo. Si comprende infatti, come un'aristocrazia territoriale, come quella delle genti patrizie, puo anche adoperare modi simili di procedura verso una classe, che nei primi tempi non aveva ancora dimenticato l'origine servile. Quindi è, che la “manus iniectio” deve essere considerata come una delle istituzioni, che non appartiene al diritto, che dovette formarsi nei rapporti fra i capi delle genti patrizie, ma bensi a quello, che dove formarsi nei rapporti fra la classe dominante e la classe inferiore: il che spiega eziandio come la legislazione decemvirale l'ha solo ammessa contro i nexi, gli aeris confessi e i iudicati, e come la plebe lotta cosi lungamente per l'abolizione del nexum, il quale forse era ancora un segno dell'antica sua soggezione servile. Per quello poi, che si riferisce all'esercizio privato delle proprie ragioni, mi limito ad osservare, che esso nel dominio del diritto corrisponde alla vendetta nel campo dei delitti e delle pene. Quindi, come è esistita la vendetta anche fra le genti italiche, così dove anche esservi un tempo, in cui fra queste esiste l'esercizio privato delle proprie ragioni. Questo tuttavia può affermarsi con certezza, che l'intento supremo dell'organizzazione gentilizia e quello di impedire fra i membri di esse cosi la vendetta, che l'esercizio privato e senza confini delle proprie ragioni. E a questo scopo, che il fas, il ius e il mos riunirono i proprii sforzi, e solo a forze riunite riuscirono a cacciare dalla comunanza la violenza, che continuo a dominare fra le persone, che non appartenevano alla medesima e quindi non avevano fra di loro comunanza di diritto. Quindi non è più nell'organizzazione gentilizia, che deve cercarsi l'esercizio privato delle proprie ragioni, dal momento che in essa tutto è regolato dal mos e dal fas, e che il suo intento supremo e quello dimettere termine allo stato anteriore di violenza. Fin qui si considerano soltanto le norme direttive dai rapporti giuridici, che intercedono fra i capi dei diversi gruppi, norme le quali finiranno per dare in parte origine a quel diritto, che e poi chiamato ius quiritium dapprima e ius civium romanorum più tardi. Ora importa cercare invece, quali rapporti corressero fra i varii gruppi collettivamente considerati, e quale sia stata l'origine del primitivo ius pacis ac belli. Anche i rapporti fra le varie genti, collettivamente considerate, hanno nel periodo gentilizio un carattere esclusivamente patriarcale, e appariscono modellati sui rapporti, che possono intercedere fra i varii capi di famiglia. E a questo proposito parmi anzitutto opportuno di rettificare un concetto, che ormai suole essere ripetuto come un dogma, mentre in verità non merita di essere considerato come tale. Di regola suol dirsi, che lo stato naturale delle antiche genti fosse lo stato di guerra. Esse invece non erano nè in uno stato di pace, nè in uno stato di guerra; ma si consideravano come indipendenti le une dalle altre e non avevano fra di loro comunanza di diritto. Era quindi facile, che fra loro scoppiasse la guerra, ma questa non e però lo stato naturale di esse. Ciò e come dire, che due persone che non si conosceno e non hanno fra di loro alcun rapporto giuridico sonno fra di loro in lotta. Puo darsi che esse siano in reciproca diffidenza, e che stiano in guardia: ma non percio puo dirsi che siano in guerra effettiva fra di loro. Ci vorrà pur sempre qualche causa, od anche semplicemente un pretesto, perchè l'una si arresti minacciosa contro dell'altra. Sarebbe qui inutile citare tutti gli autori, che professano questa opinione; mi basta ricordare LAURENT, Histoire du droit des gens a Roma; il JHERING, L'esprit du droit romain, il quale attribuirebbe a questo stato di guerra il concentrarsi delle genti antiche nella città, a cui esse appartengono; il che è certamente vero, ma non proviene unicamente dalle guerre esteriori, ma anche da ciò, che, creandosi una nuova forma di connivenza sociale, e naturale, che tutte le forze ed energie vitali si concentrassero in essa. Anche Fusinato sembra dividere la stessa opinione nel suo lavoro: Dei Feziali e del di ritto feziale, Roma, « Atti della R. Accademia dei Lincei », Memorie, Classe scienze mor. stor. filologiche, -- al quale io mi rimetto quanto alla bibliografia completissima sul tema. Egli tuttavia già trova, che il popolo romano e stato, fra le altre genti, il meno esclusivo su questo punto, a differenza di PADELLETTI, Storia del diritto romano. Che questi e lo stato dei rapporti fra le genti primitive è provato dalla distinzione, che nell'antico linguaggio già viene fatta fra “hostis” e “perduellis”. “Hostis” chiamasi quello straniero, con cui non sonno rapporto di diritto, e contro il quale il popolo romano si riserva piena ed intera la propria autorità giuridica e la propria libertà di azione. “Perduellis,” nella sua significazione, e colui con cui era scoppiato il dissidio, e col quale, per mancanza di un comune diritto, venne ad essere necessità di appigliarsi alla guerra. E solo più tardi, che il vocabolo di “hostis” assunse una significazione più dura e significa il nemico. In allora le significazioni accettate furono le seguenti. “Peregrinus” chiamasi colui, col quale non havvi nè amicizia, nè ospitalità, nè alleanza; “hostis” quegli, con cui Roma trovasi in guerra aperta; “perduellis” infine colui, che nell'interno dello stato cerchi di recare perturbazione e conflitto, mettendosi in lotta coll'interesse della patria sua. Questa trasformazione si opera però lenta e note relative, il quale attribuirebbe al popolo romano una esclusività maggiore degli altri popoli, per trattarsi di un popolo agricoltore, conservatore e guerresco ad un tempo. Per parte mia ritengo, che i romani in questa parte si governano colle norme stesse delle altre genti italiche, come lo dimostra il fatto che il primitivo ius foeciale è loro comune cogli altri popoli, da cui sono circondati. Non posso però ammettere che essi, sopratutto nei primi tempi, si ritenne in stato naturale di guerra cogli altri popoli; perchè in tal caso tutte le formalità dell'antico ius foeciale si converte in una commedia inesplicabile e in contraddizione col prin cipio direttivo dei rapporti fra le varie genti. Quanto agli argomenti, che sono messi in campo, essi consistono in sostanza nella significazione di hostis e nel passo di Pomponio, Leg. Dig. Quanto a questo passo di PomPONIO, egli, anzichè affermare che gli stranieri sono nemici, dice anzi espressamente che – “si cum gente aliqua neque amicitiam, neque hospitium, neque foedus amicitiae causa factum habemus, hi hostes quidem non sunt.” Tuttavia siccome con questa gente non vi ha comunione di diritto, così contro di “aeterna auctoritas esto” -- donde la conseguenza, che se le cose nostre cadono in loro mano, diventano loro proprie, e così pure se le cose loro vadano in mano dei romani: certo la conseguenza è grave, ma essa non è una conseguenza dello stato di guerra, ma bensì di ciò che fra i due popoli non esiste comunanza di diritto. Nè vorrei si dicesse, che la questione sia soltanto di parole, poichè se la guerra e lo stato naturale, non si sa come CICERONE scrive: “Nullum bellum esse iustum, nisi quod aut rebus repetitis geratur, aut de nuntiatum ante sit, et indictum.” De off, e De Rep. Del resto anche questa opinione è una conseguenza del ritenere, che le cerimonie del diritto feziale e semplici formalità esteriori, il che certamente non dove essere, allorchè questa procedura fra le genti venne ad essere introdotta. essa [mente, e nella stessa legislazione decemvirale, che, come tutta legge, tende a conservare i vocaboli nella loro significazione arcaica, il vocabolo di « hostis », continua ancora sempre a significare colui, col quale non esiste comunione di diritto, come lo dimostrano le espressioni ricordate da Cicerone di “status dies cum hoste” e l'altra “adversus hostem aeterna auctoritas esto.” Del resto, che il vocabolo “hostis” negli esordii non suonasse nemico, nella significazione, che noi siamo soliti attribuire a questo vocabolo, viene anche ad essere dimostrato dall'analogia evidente, che corre fra i vocaboli di “hostis” e di hospes, il quale ultimo sarebbe una sincope di hosti-pes, che significa o protettore dello straniero o straniero ricevuto in protezione -- donde anche i vocaboli di hospitium e di hospitari. Fermo questo concetto dei rapporti, che intercedeno fra le genti, che non entrano a far parte della medesima tribù e non hanno perciò comunione di diritto fra di loro, viene ad essere facile il comprendere come qualsiasi rapporto giuridico fra di esse dovesse derivare dalla convenzione e dal patto; per modo che anche il “ius pacis ac belli” dove avere un'origine contrattuale, analoga a quella, che abbiamo riscontrato nei rapporti privati fra i diversi capi di famiglia. Infatti al rapporto di carattere negativo, che intercede fra le varie genti, per cui sono estranee le une alle altre, pud poi sottentrare il rapporto positivo di pace o di guerra. Tanto l'uno come l'altro indicano, che le genti sono già uscite da quello stato di indifferenza reciproca, in cui si trovavano fra di loro. Quindi perchè siavi lo stato di pace, già occorre che fra le genti sia intervenuta una conven [BRÉAL, Dict. étym. lat., Paris, vº Hospes e Hostis. Del resto questo trasformarsi dalla significazione di hostis viene ad essere indicato con una mirabile chiarezza da CICERONE, allorchè scrive. “Hostis enim apud maiores nostros is dicebatur, quem nunc peregrinum dicimus.” “Quamquam id nomen durius iam effecit vetustas; a peregrino enim recessit, et proprie in eo, qui contra arma ferret, re mansit.” De off., I, 12. Ciò è poi confermato da VARRONE, De ling. lat., V, I (Bruns, Fontes). Intanto l'analogia, che vi ha fra hostis straniero, ed hospes, che significa e lo straniero ricevuto in protezione, come pure il fatto, che nelle origini “per-duellis” significa il nemico esterno ed interno ad un tempo, costituiscono una nuova prova, che in quei primordii non distinguevasi la guerra pubblica dalla privata, nè i dissidii interni delle guerre esterne. E solo più tardi, nel seno della città e nei rapporti delle città fra di loro, che potè operarsi questa distinzione, e in allora talvolta i reggitori della città si appigliarono alle guerre esterne per sopire le lotte interne.] zione od un patto (come lo dimostra l'analogia fra il vocabolo di “pax” e quello di “pactum”). Al modo stesso che, accio siano in istato di guerra, occorre, che siavi una dichiarazione della medesima, tanto più se trattisi di genti che, senza essere in rapporto giuridico fra di loro, riconoscano pero l'impero del fas. Si può quindi affermare con certezza, che anche il “ius pacis ac belli” già erasi formato anteriormente alla formazione della comunanza romana, e che la medesima in questa parte non fa che attenersi a pratiche e a riti, i quali, preparatisi in un periodo anteriore ed affidati alla custodia di un collegio sacerdotale, furono poi applicati con qualche modificazione ai rapporti, che vennero a svolgersi più tardi fra i popoli e le città. Di qui in tanto, deriva la conseguenza, che il diritto, che suol essere chiamato foeciale, essendo stato trapiantato da uno in altro periodo di organizzazione sociale, acquisce un carattere artificioso, che lo fa talvolta apparire come un ostentazione puramente esteriore, diretta non a provare che le guerre si fa per una giusta causa, ma piuttosto a dissimulare l'ingiustizia intrinseca della guerra. Non può tuttavia esservi dubbio, che essó, trasportato nell'ambiente, in cui ebbe a formarsi, ha dovuto essere una procedura viva e reale, la quale ebbe ad essere determinata dalle condizioni, in cui si trovano le genti. Siccome nel periodo gentilizio i rapporti di pace, che si vengono a stabilire pressochè contrattualmente fra le varie genti, si riducono in sostanza a rapporti fra i capi delle medesime. Cosi essi finiscono per modellarsi e per ricavare la propria denominazione dai rapporti stessi, che possono intercedere fra i loro capi. In altri termini quei vocaboli stessi, che indicano le gradazioni diverse, in cui possono trovarsi i capi delle varie genti, sono pur quelli, che desi gnano il vincolo più o meno stretto, in cui possono essere le varie genti o i varii popoli, fra cui intervenne una convenzione di pace. Cosicchè i vocaboli anche qui vengono a dimostrare, come in quei primi tempi non esiste la distinzione fra i rapporti pubblici dei varii gruppi ed i rapporti privati fra i capi, da cui essi sono rappresentati. I vocaboli, intanto, che indicano questi rapporti pubblici e privati ad un tempo, sono quelli di amicitia, di hospitium societas. Prima presentasi l' “amicitial”, che indica quel rapporto contrattuale, che intercede fra due genti diverse o meglio ancora fra i capi di esse, senza che il medesimo imponga obbligo reciproco di difesa e di aiuto in tempo di guerra. La gente “amica” è quella, a cui si puo, in caso di bisogno, ricorrere per un favore e con cui si intenda di intrattenere amichevole commercio. L'amicizia quindi conduce già ad un riconoscimento del diritto della gente amica, e quindi se una persona, od una cosa venga a cadere in mano di una gente amica, questa non puo appropriarsela; il che e potuto fare, allorchè non e esistita fra di loro alcuna comunanza di diritto. Possono tuttavia esservi dei casi, in cui i reciproci commerci, fra individui, che appartengono a tribù diverse, porgano occasione al sorgere di controversie. Quindi fra i patti, che accompagnano i trattati di amicizia, dovette essere frequente quello, che più tardi noi troviamo indicato col vocabolo di “actio” e specialmente con quello di “reciperatio”; il quale è certamente bene appropriato per significare il rapporto, a cui intendeva di accennare, malgrado le difficoltà di in terpretazione a cui esso da luogo. È nota in proposito la definizione di Elio Gallo. “Reciperatio est, cum inter populum, reges, natio nesque et civitates peregrinas lex convenit, quomodo per recipe ratores reddantur res reciperenturque, resque privatas inter se persequantur.” La sua interpretazione non può dar luogo a dubbio, quando diasi al vocabolo di “lex” la sua significazione primitiva di convenzione e di patto; interpretazione, che del resto è anche imposta dall'espressione di “lex convenit.” È evidente infatti, che qui trattasi di un patto intervenuto prima fra le tribù e più tardi fra i popoli, le nazioni e le città, nell'intento di permettere ai membri delle genti, delle tribù e delle città di far valere rispettivamente le proprie ragioni presso la gente, tribù o città, con cui trovansi in rapporto di amicizia; come pure è evidente la correlazione, che intercede fra questo vocabolo e quello di “rerum repetitio”, che costitue uno dei preliminari, che precedevano la vera dichiarazione di guerra. Questo vocabolo è poi meglio spiegato da quello di reciprocare, il quale, secondo Festo, significa « ultro citroque poscere » cioè far valere rispettivamente le proprie ragioni: vocabolo, che anche oggidi conserva l'antica sua significazione in quei trattati fra gli stati e le nazioni, che chiamansi di reciprocità e di reciprocanza. Ciò infine spiega eziandio, come si chiamano recuperatores quei giudici od arbitri, che sono chiamati a risolvere le controversie degli stranieri fra di loro e dei cittadini cogli stranieri. Infine si viene anche a darsi ragione, come in una città come Roma, che e sempre un emporio di tutte le genti, i recuperatores abbiano finito per essere una autorità giudiziaria, pressochè permanente, la quale, mentre decide le questioni con stranieri, puo anche essere chiamata a risolvere delle controversie fra i cittadini, in quei casi sopratutto, in cui non si trattasse di applicare il ius quiritium, ma piuttosto quei iura gentium, che fin dai primi tempi dovettero almeno di fatto esistere accanto al medesimo. A proposito dei “re-cuperatores”, si è poi lungamente disputato se i medesimi fossero chiamati soltanto a risolvere controversie di diritto privato, o se potessero essere chiamati eziandio a risolvere controversie di carattere pubblico fra i popoli e le genti. La definizione di Elio Gallo sembra comprendere le une e le altre, in quanto che essa accenna alla ricupera delle cose tolte da un popolo ad un altro, e alla prosecuzione delle cose private. Se quindi e lecito avventurare una congettura, misembrerebbe essere probabile, che in quell'epoca, in cui ancora mal si distingue la ragion pubblica dalla privata, i recuperatores, che sono persone scelte fra le due genti amiche, possono essere arbitri dell'uno ed un altro genere di controversie, perchè queste tenevano del pubblico e del privato ad un tempo. Allorchè invece, al disopra delle genti, venne a formarsi la città, e per tal modo comincia a distinguersi la cosa pubblica dalla privata, i recuperatores hanno circoscritta la propria competenza alle controversie di carattere privato. Fu in allora che i recuperatores si manteneno per le controversie di indole privata, e che i “fetiales” sono creati invece per le controversie, che insorgevano fra i varii popoli. E allora parimenti che la recuperatio e il modo, con cui gli individui “res privatas inter se persequuntur”, mentre la “rerum repetitio” divenne un preliminare della guerra. E allora infine che i iura gentium si vennero biforcando, e mentre da una parte il vocabolo di ius gen tium rimane ad indicare un complesso di norme, che governa i rapporti di indole privata, quello invece di ius foeciale o di ius belli ac pacis e adoperato per indicare i rapporti di carattere pubblico fra i popoli e le città. Anche qui insomma non si fa che applicare un processo, le cui traccie sono evidenti in ogni argomento, il quale consiste nel “publica privatis secernere, sacra profanes” -- Di qui deriva quell'incertezza di significazione, che questi vocaboli sembrano avere nelle proprie origini; incertezza, che non dovette recare imbarazzo a coloro, che avevano operate queste distinzioni; ma che complica invece grandemente l'opera di coloro che tentano fondarsi sovra pochissime vestigia di ricostrurre l'opera compiuta. Al modo stesso poi, che nei rapporti fra i privati dopo l'amico viene l'ospite, il quale già viene accolto nella casa e per qualche tempo entra in certo modo a far parte della famiglia; cosi nei rapporti fra le varie genti, al disopra dell'amicitia, viene a comparire l'hospitium. L'ospitalità, che diventa un ufficio di cortesia presso le nazioni civili, è invece una vera necessità presso tutti i popoli primitivi, i quali senza di essa si troverebbero isolati gli uni dagli altri. Non è quindi meraviglia, se i doveri dell'ospitalità, oltre al fondarsi sul costume, entrino eziandio sotto la protezione del fas, e se la medesima, presso le genti primitive, tenda ad acquistare un carattere ereditario. L'ospite entra in un certo senso a far parte della stessa famiglia, come lo dimostra il fatto che gli antichi giureconsulti disputano perfino, se gl’ufficii verso l'ospite dovessero precedere o susseguire quelli verso il cliente: nella quale questione, [Quanto alla definizione della recuperatio, HUSCHKE, Jurisp. ante-iust. quae sup. Questa congettura, che d'altronde è molto semplice, ha il vantaggio di risolvere parecchie controversie, che sono largamente trattate da Voigt, Das ius naturale, gentium, etc., e dal Fusinato, Dei Feziali e del diritto feziale. Essa spiega anzitutto come una sola frase, quello di “ius gentium”, possa presentarsi con un duplice significato (V. FusInATO, dove egli combatte in parte l'opinione del Voigt). Essa spiega in secondo luogo, come la recuperatio, che più tardi trovasi solo applicata alle controversie private, nell'antica sua definizione comprenda invece anche quelle di carattere pubblico. Di qui una divergenza fra Fusinato da una parte, che vorrebbe negare ai recuperatores ogni competenza giudiziaria in interessi di pubblica natura e il SelL ed il Rein da lui citati, che sostengono invece un'opinione diversa. Credo poi che non possa essere posta in dubbio l'analogia strettissima fra recuperatio e rerum repetitio, sebbene i due vocaboli abbiano ciascuno una propria significazione, poichè recuperatio significa reciproca actio, mentre rerum repetitio significa il tentativo, che un popolo fa per riavere ciò che gli fu tolto, prima di appigliarsi alla guerra. Del resto questa stessa analogia compare fra le noxae datio del diritto privato e le noxae deditio dei cittadini colpevoli contro il diritto delle genti, di cui discorre lo stesso Fusinato. Ciò significa pertanto, che noi ci troviamo di fronte ad un processo logicamente applicato in tutte le distinzioni, che si vennero introducendo fra i rapporti pubblici e privati, e quindi la coerenza stessa dei risultati, in varii argomenti ad un tempo, dimostra come sia fondata la congettura di cui si tratta. Come poi i recuperatores sono in Roma an’autorità giudiziaria, pressochè permanente, appare da ciò, che essi non sono ignoti alla stessa legislazione decemvirale, il cui impero era ristretto ai soli cittadini.] -- mentre vi era chi colloca prima le persone affidate alla tutela del capo di famiglia, poi il cliente, quindi l'ospite. Masurio Sabino invece preponeva l'ospite al cliente. Tutti però sono concordi nel ritenere, che l'ospite dove avere la precedenza sui cognati e sugli affini. Non puo quindi essere temeraria la congettura, che l'ospitalità e la clientela sono nell'organizzazione gentilizia due istituzioni, che hanno una correlazione fra di loro; colla differenza, che la ospitalità importa solo una difesa e protezione provvisoria, mentre la clientela importa un rapporto di protezione permanente. Sotto quest'aspetto pertanto, si puo dire che il cliente venne prima del l'ospite. Ma, quando, invece si consideri che la clientela importa subordinazione e dipendenza, mentre l'ospitalità può alternarsi in guisa che l'ospitato di un giorno sia l'ospite in un altro, ben si puo comprendere il motivo, per cui Masurio Sabino concede sotto questo aspetto la precedenza all'ospite sopra il cliente, in quanto che l'ospite e l'ospitato sono in rapporto di UGUAGLIANZA fra di loro, il che non accade del patrono e del cliente. Così il concetto dell'amicitia, che quello dell'hospitium, dove nel periodo gentilizio avere un carattere pubblico e privato ad un tempo. E solo posteriormente, quando dalle genti e dalle tribù usceno le città, che cosi l'amicitia come l'hospitium subirono quella distinzione, che si opera in qualsiasi altro argomento, per cui si ebbero l'amicitia e l'hospitium pubblico e privato. Che anzi nella transizione fuvvi un periodo, in cui la casa stessa del re dapprima e del magistrato dappoi servì per accogliere gl’ospiti del popolo romano; ma, a misura che si venne distinguendo l'ente collettivo dello stato dalla persona dei singoli cittadini, si dove anche distinguere l'amicizia e l'ospitalità in pubblica e in privata. Cosi e un effetto della pubblica amicizia, che il cittadino romano, quando e fatto prigioniero di guerra, gode senz'altro del diritto di postliminio, appena ponesse il piede nel territorio di un re alleato od anche solo amico, poichè da quel momento comincia ad essere “pubblico nomine tutus.” Parimenti l'hospitium pubblicum, allorchè e accordato non solo ad un individuo, ma alla intiera popolazione di una città, venne a cambiarsi in certo modo nella [V. sopra il passo di Masurio Sabino -- Dig.] concessione della civitas sine suffragio: il che rende non destituita di fondamento l'opinione di coloro, i quali, dietro l'autorità del Niebhur, vogliono trovare nel concetto dell'hospitium pubblicum la primitiva significazione, che, secondo Festo, e stata attribuita al vocabolo di “municipium”. Infine al disopra dell'amicizia e dell'ospitalità, presentasi la “societas”. Qui non trattasi più di semplici officii di cortesia, ma di obbligazioni che già assumono un carattere giuridico; poichè la “societas” fra le genti, al pari della societas fra i privati, è un accomunare le proprie forze per il conseguimento di un intento comune, e per ripartire i vantaggi, che si possono ricavare dall'opera insieme “associate”. I patti e le condizioni di questa “societas” possono essere molto diversi; ma di regola essa importa alleanza difensiva ed offensiva delle genti, fra cui interviene, e una conseguente ripartizione del bottino. Di qui la conseguenza, che mentre l'amicizia e l'ospitalità possono anche trovare origine nel fatto e nella consuetudine; la “societas” invece suppone una convenzione espressa fra le genti ed i popoli, fra cui interviene: quindi con essa viene a sorgere il concetto del foedus, il quale ha larghissimo svolgimento e da luogo ad importantissime conseguenze nel periodo gentilizio. Per quanto sia dubbià l'origine della parola, questo è certo, che l'essenza del “foedus” sta nella “fides”, che stringe quelli che entrano in confederazione fra di loro, e che il medesimo, nei rapporti fra le varie genti, compie quello stesso ufficio, a cui adempie il contratto fra i singoli capi di famiglia. Infatti, sebbene di regola sogliano ado perarsi come sinonimi i due vocaboli di societas e di foedus, è [NIEBhur, Histoire romaine. Questa opinione e sostenuta dal TADDEI, Roma e i suoi municipii, Firenze] Senza negare che possa esservi esistito un qualche rapporto fra l'hospitium pubblicum e il municipium, nella prima delle significazioni che è attribuita a quest'ultimo vocabolo da Festo, vº Municipium, vuolsi però avere presente che l'hospitium è istituzione di origine gentilizia, mentre il municipium suppone già esistente e svolta la convivenza civile e politica.] però facile l'avvertire, che i medesimi, sopratutto negli inizii, dove avere significazione diversa. Mentre infatti la “societas” indica il rapporto, in cui entrano le genti ed i popoli, il vocabolo di “foedus” invece significa di preferenza l'accordo, la convenzione, con cui questo rapporto viene ad essere stipulato. Che anzi, siccome fra le genti non si distinguono i rapporti di carattere pubblico da quelli di carattere privato: cosi il vocabolo “foedus: si presenta dapprima con una larghissima significazione, instesse convenzioni e stipulazioni private e, sopratutto nei filosofi, significa persino quelle convenzioni tacite, che sembrano stringere tutti i popoli, che si trovino in analoghe condizioni di civiltà: convenzioni e rapporti, che sono appunto indicati col vocabolo di “foedera generis humani”, poichè il popolo che vi venisse meno sembra in certo modo uscire dal novero dalle umane genti. Tali so fra i romani l'inviolabilità e l'immunità dei legati, senza la quale e stata impossibile qualsiasi trattativa fra genti, che non hanno fra di loro comunione di diritto; tale e eziandio quel costume veramente umano per cui, terminata la battaglia, ad divenivasi ad una breve tregua, accio i due eserciti potessero addi venire alla sepoltura dei morti. Di più, anche nei rapporti fra le genti, il “foedus” non significa soltanto la confederazione o l'alleanza; ma puo significare qualsiasi accordo, che venisse a seguire fra due popoli, sia per conchiudere la pace, sia per rimettere la decisione della guerra ad un duello fra individui scelti negli eserciti che si trovavano di fronte, ed anche quell'accordo, in base a cui si addivenne alla deditio di un popolo ad un altro e se ne fissano le condizioni. Il “foedus” insomma indica il momento, in cui l'elemento contrattuale comincia a penetrare nei rapporti fra le varie genti; ed è perciò, che, malgrado tutti i dubbii che possano avere gl’etimologi, non sotrattenermi dall'esprimere la persuasione profonda, che il vocabolo di “ius foeciale”, con cui si indicava il complesso delle pratiche e delle trattative, che poterono seguire fra i varii popoli così in pace, come in guerra, non può essere che una corruzione ed una sincope di “ius foederale”. Gl’etimologi non possono accertare che “foedus” origina da “fides”, nè che “foeciale” derivi da “foedus”. Ma questo è certo, che le parole di “fides”, “foedus”, e “foeciale”, come sembrano avere una parentela materiale, così hanno una strettissima attinenza, quanto al concetto dalle medesime espresso, ed è questo il motivo, per cui continuo a scrivere “ius foeciale” a vece di “ius fetiale.” Quanto alla larghissima significazione pri [Intanto il “foedus” è il rapporto fra le genti e le tribù, che suppone un maggiore progresso nell'organizzazione sociale. Qui infatti non è più il caso di un semplice ufficio di amicizia e di ospitalità; ma trattasi già di un rapporto che assume il carattere GIURIDICO, in quanto che il foedus impone alle genti e alle tribù, che vi addivengono, delle vere e proprie obbligazioni giuridiche, sebbene queste continuino ancora sempre ad essere sotto la protezione del fas. Gli è perciò, che col foedus già comincia a comparire quell'istituto della stipulazione giuridica, che le genti latine recarono non solo nelle convenzioni private, ma eziandio nelle convenzioni di pubblica natura; stipulazione che, a mio avviso, dovette probabilmente essere prima adoperata per i rapporti di carattere pubblico, che non per quelli di carattere privato. Quanto alle formalità solenni, che accompagnavano il foedus, ritengo, che se più tardi potè essere attribuita importanza sopratutto all'elemento esteriore, che serve per dargli il carattere di iustum, come lo dava al testamento, alle nozze e a qualsiasi altro atto; questo è però certo, che le cerimonie, che accompagnavano la conclusione del foedus nel periodo, in cui si vennero formando, dovettero avere una reale ed effettiva significazione. Non dove quindi nel periodo gentilizio esservi un “pater patratus”, che addivenisse alla formazione dell'alleanza: ma erano i padri o capi effettivi delle genti, che da essi erano rappresentati, quelli che conchiudevano il patto. Così pure dovette anche avere una efficace significazione l'obtestatio deorum, per cui chiedevasi il divino in testimonio del patto, che interveniva fra di essi, e si poneva il trattato sotto la protezione del fas, chiamando la collera del cielo contro colui, che venisse meno al patto intervenuto, e simboleggiando, col ferire con un coltello di selce la vittima, il modo, con cui il divino avrebbe colpito il violatore del patto.  [mitiva di foedus, essa appare sopratutto dall'uso che ne fanno I filosofi latini, pei quali indica dapprima qualsiasi patto fra gli individui e fra le genti; quindi anche qui abbiamo una parola, che si rifere dapprima ai rapporti pubblici e privati ad un tempo; argomento questo che gli uni non si distinguevano dagli altri. Questo significato di foeduse presentito dal nostro Vico, allorchè chiama le religioni, le sepolture ed i matrimonii “i foedera generis humani”. Il duplice significato pubblico e privato di foedus occorre poi nel seguente passo di Livio – “Aenean apud Latinum fuisse in hospitio: ibi Latinum, apud penates deos, dome sticum pubblico adiunxisse foedus, filia Aeneae in matrimonium data.” Questo è provato anche da ciò, che nel primo caso narratoci di un patto se [Questo ad ogni modo è fuori di ogni dubbio, che il concetto del foedus, vincolo religioso e giuridico ad un tempo fra le varie genti e le tribù, ha certamente a precedere la formazione della comunanza romana, e dove anche prima ricevere applicazioni molteplici e diverse, durante il period gentilizio. Il foedus può essere anzitutto il mezzo, con cui si pone termine allo stato di guerra fra diverse tribù, e siccome al momento, in cui si addiviene al medesimo, le sorti delle armi possono essere diverse per i contendenti, cosi è probabile, che già, anteriormente a Roma, dovesse esservi quella distinzione, di cui essa poi fa così larga applicazione fra il “foedus aequum” ed il “foedus non aequum”. Eranvi infatti dei casi, in cui il foedus, nella significazione di convenzione e di trattato, serve, come ricorda Gellio, per dettare la legge ai vinti; altri in cui, senza opprimere affatto quello dei contendenti, per cui volgessero sfavorevoli le sorti della guerra, il medesimo in una posizione di ossequio e di subordinazione verso quello che sta per vincere, il che costituie appunto il “foedus non aequum” e da origine ad una specie di clientela di un popolo verso un'altro, che nell'epoca romana e poi indicata coll'espressione « at maiestatem populi romani coleret »; altri infine, in cui, essendo incerte le sorti della guerra, si pone termine alla medesima con un “aequum foedus” e si veniva, secondo i patti, alla reciproca restituzione dei prigionieri di guerra e all'abbandono del territorio occupato.] si pone. Per quanto poi si riferisce a quella distinzione fra foedus e sponsio, stata invocata qualche volta dai romani, sembra che la medesima costituisca già un'applicazione, eminentemente giuridica, trovata dallo stesso popolo romano e posteriore alla formazione della città. È noto in proposito, che i romani ritenevano per foedus il trattato guìto secondo il “ius foeciale”, che è quello relativo al combattimento degl’orazii e dei curiazii, DIONISIO ci narra, che il medesimo e solennemente stipulato, e che due cittadini eletti a ciò, facendo le veci di padri dei due popoli, lo sancirono a nome di ciascuno d'essi. Dion. Cfr. Bonghi, Storia di Roma. Ritengo poi verosimile l'opinione di Pantaleoni, ricordata da Fusinato, “Le droit international de la république romaine” (Bruxelles) – “Revue de droit international”, secondo cui il coltello di selce rimonterebbe all'età della pietra, poichè questo studio di conservare anche materialmente l'antico è veramente nel carattere romano. Quanto alle varie specie di foedera fra le città ed i re è da vedersi Livio. Esempii poi di foedera non aequa possono vedersi in Gellio, Noc. att., e nello stesso Livio] stipulato coll'intervento del “pater patratus” e colle cerimonie tutte del “ius foeciale”, mentre “sponsio” e la pace giurata soltanto dal generale. Mentre il primo obbliga direttamente il popolo pomano, l'altra invece, quando non fosse ratificata dal senato, obbliga solo a fare la consegna del generale, che ha giurato la pace. Ora è evidente, che questa distinzione cosi ingegnosa e sottile presuppone già il passaggio dall'organizzazione gentilizia alla città propriamente detta. Finchè trattasi di tribù o di genti, è il pater o capo effettivo della tribù, che la guida nelle sue imprese militari, e quindi è egli stesso, che tratta la pace circondato da altri capi, ed adempie alle cerimonie tutte di carattere religioso, che devono accompagnare la stipulazione del foedus. Non occorre quindi ancora l'artificio del “pater patratus”, nè l'intervento dei feziali, perchè esso possa obbligare direttamente il proprio popolo. Quando invece trattasi di una città, tanto più se retta a repubblica, il generale non può più dirsi che rappresenti il popolo e il senato, e quindi egli non può addivenire che ad una semplice “sponsio”, la quale, per essere cambiata in un vero trattato, abbisogna della ratifica del senato e dell'adempimento delle cerimonie del diritto feziale. Intanto pero, siccome il generale è colpevole per aver giurata una promessa, che non mantiene o per aver obligato il popolo oltre i limiti del suo mandato; cosi il senato, che non ratifica il suo operato, si appiglia alla noxae deditio del generale stesso. Intanto si comprende, che altri popoli, come i Sanniti, al tempo della pace delle forche caudine, i quali non erano ancora pervenuti ad un eguale sviluppo della loro organizzazione civile e politica, stentassero a comprendere questa sottigliezza giuridica dei romani: poichè per essi il loro generale era anche il loro capo effettivo, e quindi puo obbligare direttamente il popolo da lui rappresentato. Non parmi quindi, che possa essere il caso di introdurre qui la triplice distinzione, a cui accenna Mommsen nel “Le droit public romain” fra la semplice “sponsio” del capitano, il foedus foeciale e il foedus del solo capitano; poichè è dichiarato abbastanza chiaramente da Livio, che tanto il foedus che la sponsio, se siano fatte in iussu populi, non possono obbligare il popolo romano. Quindi la distinzione viene ad essere questa: o la convenzione è opera del solo capitano, in iussu populi ac senatus, che sono quelli che inviano i feziali, e in allora abbiamo una semplice sponsio; o invece vi ha il iussus populi ac senatus, che inviano i feziali e abbiamo il vero foedus: donde la prova che la distinzione dove essere un effetto del passaggio dall'organizzazione gentilizia all'organizzazione politica. Cfr. Fusinato, “Dei Feziali e del diritto feziale.” Non credo poi si possa ammettere con Mommsen, che sulla forma del foedus ha esercitata una visibile influenza la teoria del contratto, in quanto che nel foedus sarebbesi adoperata per analogia la forma della stipulazione, come quella che era considerata come il modo generale e di diritto comune per contrarre le obbligazioni. Ciò è del tutto impossibile: perchè è certo che esisteno già il foedus e la sponsio nei rapporti fra i varii popoli e che l'uno e l'altra già si stipulano con quella forma determinata, assai prima che i giureconsulti costruissero la teoria della stipulazione e ne fanno applicazione alle convenzioni private. Del resto la forma della stipulazione, adoperata dai romani nei rapporti col divino, nella formazione della legge, nella conclusione dei trattati di pace, solo più tardi sembra essere stata accolta nel diritto civile romano ed applicata alle convenzioni private; per guisa che vi sono autori, che ritengono la stipulazione nelle convenzioni private come di impor tazione greca. Il vero si è, che nel diritto primitivo trovasi sempre un'analogia fra i rapporti di diritto pubblico e quelli di diritto privato; la quale deriva da ciò, che nel periodo gentilizio tanto gli uni come gli altri sono rapporti tra capi di gruppo, e quindi le stesse forme, che servono nei rapporti fra le varie genti, possono poi anche servire nei rapporti contrattuali e privati. Sonvi però molte pratiche comuni agli uni e agli altri e fra le altre havvi quella della sponsio, che sembrano aver acquistato forma ed efficacia giuridica prima nei rapporti fra le genti, che nei rapporti dicarattere privato. Del resto cio è anche attestato da Gaio, che chiama sottigliezza il voler applicare la teoria della stipulazione privata alla sponsio del generale romano; poichè, se si venga meno al patto, non ex stipulata agitur, sed iure belli res vindicatur. V. Mommsen, Le droit public romain, il quale, secondo la traduzione Gérard, di cui mi valgo, scrive. “En ce qui concerne la forme, le principe du droit civil a fait employer ici par analogie les formes de la stipulation, parce qu'elle était considérée comme le mode général et de droit commun de contracter des obligations.” Parmi, con tutta la riverenza al dottissimo autore, che questa proposizione non possa essere accolta, e che sarebbe vera piuttosto la proposizione inversa. Infatti secondo MUIRHEAD, Hist. Introd., e molti altri, la sponsio o stipulatio nelle convenzioni private non sarebbe penetrate in Roma, che verso l’epoca, in cui la teoria della sponsio e del foedus, nei rapporti fra le città ed i popoli, aveva già ricevuto tutto il suo sviluppo. Quindi è che pur non ainmettendo l'opinione del MUIRHEAD, in quanto che ritengo che la sponsio e romana fino dalle origini e vivesse nel costume, anche [Un'altra applicazione del foedus era anche quella, per cui tribù e genti, che potevano anche non essere in guerra fra di loro, stringevano fra di loro un'alleanza, i cui patti potevano essere molto diversi, ma che il più spesso costituiva una lega difensiva ed offensiva ad un tempo; la cui idea tipica pud essere ricavata dal foedus latinum, detto anche foedus Cassianum, il cui tenore ha ad esserci conservato da Dionisio. È poi notabile, che queste specie di alleanze fra tribù e popoli vicini, siccome per lo più dipendevano da relazioni ed aderenze fra i capi di gruppo, cosi si venivano for mando e disfacendo con grande facilità, per cui bene spesso l'alleato di oggi poteva essere il nemico di domani. Il che tuttavia non toglie, che la forza e l'efficacia del patto d'alleanza sia cosi profondamente sentita, che stipulavasi talvolta che essa dovesse durare eterna ed im mortale, come lo erano i popoli, fra cui interveniva. Ciò è dimostrato dall'energica espressione adoperata nel foedus latinum, secondo la quale la pace e l'alleanza fra romani e latini doveva durare: « dum coelum et terra eandem stationem obtinuerint.” Infine un'altra importantissima applicazione del foedus nelle epoche primitive, è quella, in virtù della quale più tribù, che possono anche essere di origine diversa, societatem ineunt fra di loro, nel l'intento di formare una stessa civitas e di partecipare così ad una vita pubblica comune. È stato questo il foedus, che ha servito per la formazione dell'urbs e della civitas dei latini, e che fu anche il tipo, sovra cui ebbe ad essere foggiata Roma primitiva; il qual ca rattere è importantissimo, in quanto che induce ad affermare che Roma nei suoi inizii ebbe un carattere federale e pressochè con trattuale. Dal momento infatti, che fra le varie tribù mancava il vincolo della comune discendenza, non poteva esservi che quello della fides, e quindi è nel foedus, che deve essere cercata l'origine prima dientrare nel diritto, conviene pur sempre riconoscere che la teoria della sponsio si svolse prima nei rapporti fra le genti, che non nel diritto civile di Roma. Giu stamente quindi Gaio voleva tener distinte le due cose: poichè, dalmomento che la sponsio nei trattati fra i popoli erasi distinta da quella nelle convenzioni private, non era più il caso di confonderle insieme. Da questa nasceva l'actio ex stipulatu, mentre dalla violazione di quella nasceva la guerra. I due isti tuti, che nella origine potevano essere uniti, ora seguono invece ciascuno la propria via, come la recuperatio e la repetitio rerum, il ius gentium e il ius belli ac pacis e simili, e più non debbono essere insieme confusi. Dion.] 154 della città. Se la tribù può ancora essere una formazione del tutto naturale, perchè è l'effetto del primato, che una gente acquista sopra le altre che la circondano; la città invece suppone di necessità l'accordo delle varie tribù, che entrano a costituirla, accordo, che riveste appunto la forma di un foedus. Intanto egli è evidente, che allorquando le cose sono per venute a tale, che nell'organizzazione gentilizia, in cui prima do minava esclusivamente il vincolo di discendenza, già comincia a pe netrare l'elemento federale e contrattuale, questo non può a meno di attribuire all'organizzazione stessa una elasticità e pieghevolezza, che essa prima non poteva avere. Infatti egli è sopratutto da questo punto, che nel seno della tribù e della città, costituita mediante la federazione di varie tribù, cominciano a comparire dei mezzi, i quali o servono ad aggregare alla comunanza un nuovo elemento, o ser vono invece a staccarne un elemento, che prima ne faceva parte per trasportarlo altrove. Fu in questa guisa, che, già anterior mente alla formazione della comunanza romana, si erano venuti svolgendo gli istituti della cooptatio, della concessio civitatis sine suffragio, della secessio e della colonia; la cui nozione è indispen sabile per comprendere la storia primitiva di Roma. In virtù della cooptatio le genti, che già entrarono a far parte di una medesima comunanza civile e politica, possono accoglierne delle altre a far parte della medesima. Essa fu applicata più volte in Roma primitiva; come lo dimostra la cooptazione delle genti Al bane, dopochè Alba fu, secondo la tradizione, distrutta da Tullo Ostilio, e fu applicata eziandio alla gente sabina, capitanata da Atto Clauso.Questa origine federale delle città costituite sul tipo latino pud servire a spiegare il fatto, per cui i Latini nella loro qualità di socii coi Romani abbiano messa innanzi la pretesa, che Roma e il Lazio dovessero dare origine ad una comu nione ed unità di governo; per cui dei consoli uno dovesse essere nominato dal Lazio e l'altro da Roma, e il senato dovesse comporsi in parti eguali dai due popoli. Vedi Liv. VIII, 3, 4, 5. Cfr. WALTER, Storia del diritto di Roma, Trad. Bollati, Torino. È poi questa istituzione, che ci dà la ragione per cui, durante il periodo di Roma patrizia, la cittadinanza non era conceduta ad in dividui, ma a genti collettivamente considerate, in quanto che la cooptatio era per sua natura applicabile all'intiero gruppo gentilizio e non ai singoli individui (1). Non pud poi esservi dubbio, che questa cooptatio, per essere una istituzione eminentemente patrizia, doveva certainente essere accom pagnata da cerimonie religiose; perchè la gente, che era ammessa nella tribù o alla città, diventava eziandio partecipe della religione di esse, ne aveva comuni gli auspicia, ed il suo capo poteva anche conseguire un seggio nel senato. Quasi si direbbe, che la cooptatio di una gente nella tribù o città corrispondeva alla adrogatio per la famiglia. Quindi si comprende, come al modo stesso che l'adrogatus, per essere disgiunto dalla gens, di cui faceva parte, doveva prima addivenire alla detestatio sacrorum; così anche il gentile, per uscire dall'ordine delle genti patrizie e passare, ad esempio, nella plebe, il che chiamavasi transitio ad plebem, doveva pure appigliarsi ad una specie di abdicatio o detestatio sacrorum; alla quale dovette appunto assoggettarsi Clodio, allorchè abbandono l'ordine patrizio e passò alla plebe per poter essere nominato tribuno [È poi degno di nota, che questa cooptatio ebbe pure ad essere applicata ai collegi sacerdotali, finchè i medesimi furono esclusiva mente tratti dall'ordine patrizio, e fu solo più tardi, allorchè anche la plebe fu ammessa ai sacerdozii pubblici del popolo romano, che ad alcuni fra essi fu applicata l'elezione popolare, la quale anzi fini per essere affidata ai comizi tributi. Quando poi la città cesso di essere esclusivamente patrizia, in allora noi vediamo svolgersi, qualmodo di accrescere la popola zione, la concessione della civitas sine suffragio, in virtù della quale gli abitanti di una città vicina, che venivano a prendere il [Dion., III, 29; Liv., 1, 30. Cfr. Willems, Le droit public romain; CARLOWA, Römische Rechtsgeschichte. La necessità di una specie diabdicatio, anche per uscire da una gens, è provata dal seguente passo di Servio, In Aen. 2, 156: « Consuetudo apud maiores fuit, ut qui in familiam vel gentem transiret, prius se abdicaret ab ea, in qua fuerat, et sic ab alia reciperetur ». Quanto alla transitio ad plebem, è da vedersi Cic., Brut., 16, e Aulo Gellio] nome di municipes (a munere capiendo), recandosi a Roma, erano ammessi a partecipare ai diritti e alle obbligazioni del cittadino, esclusa però la partecipazione al godimento dei diritti pubblici, che consistevano nel ius suffragii e nel ius honorum. Fu con questo mezzo, che Roma incominciò a mettere le basi di quel sistema mu nicipale, per mezzo del quale tutti gli abitanti prima delle città del Lazio e poi quelli delle città italiche, finirono per essere considerati come cittadini di Roma, che era la patria communis; il che però non impediva, che ogni città avesse una propria amministrazione municipale. Questo carattere dei municipia, i quali in sostanza erano città per sè esistenti, che venivano ad essere associate alle sorti di Roma, fu espresso da Gellio con dire, che imunicipia, a differenza delle colonie, veniunt extrinsecus in civitatem et radicibus suis nituntur. Ciò però non tolse, che il concetto del municipium abbia subito poi delle trasformazioni profonde, le quali sono indicate dalle significazioni diverse, che Festo attribuisce a questo vocabolo (). i 125. A questi duemezzi, con cui veniva accrescendosi il numero di coloro, che partecipavano alla stessa civitas, se ne contrapponevano invece degli altri, che servivano piuttosto a trasportare altrove una parte della popolazione, sia che ciò occorresse per il vantaggio della stessa città, come accadeva nella colonia, sia che una parte di essa si trovasse in condizioni incompatibili col rimanente, nel qual caso si ricorreva alla secessio e all'expulsio. Non può esservi dubbio, che il sistema delle colonie, che prese poi cosi largo sviluppo in Roma, esisteva già prima nel costume delle genti italiche, ed era anzi loro comune colle genti elleniche, sebbene il suo scopo potesse essere diverso. Ciò è dimostrato dal fatto, che, secondo la tradizione, la tribù dei Ramnenses non dovette essere dapprima, che una colonia di Alba Longa. Le colonie poi sono gruppi di famiglie, le quali, collettivamente considerate, si staccano dalla madre patria, colla approvazione di quelli che rimangono, la quale si manifesta nella lex coloniae deducendae, e colla buona volontà di coloro che partono, i quali debbono perciò farsi iscrivere nel numero dei coloni. Ciò ebbe ad essere espresso da Servio con dire, che le [I principali passi degli autori, relativi almunicipium e alla colonia, possono trovarsi raccolti nella eruditissima opera del Rivier, Introdution historique au droit romain, Bruxelles, la quale contieneun numero grandissimodi passi di autori e questi raccolti con molta sagacia.] colonie « ex consensu pubblico, non ex secessione conditae sunt ». Di qui la conseguenza, che la colonia porta con sé la religione, la lingua, le tradizioni della tribù o della città, dalla quale si stacca e si organizza a somiglianza di essa, per guisa che, secondo la efficace espressione di Gellio, le colonie sono quasi effigies parvae, simula craque della madre patria, e sono quasi propaggini della città, da cui sonosi staccate, comequelle, che continuano ancor sempre a mantenersi in rapporti con essa (ex civitate quasi propagatae sunt). Punto non ripugna, che le colonie nelle loro origini siansi cosi chiamate a colendo; in quanto che può darsi benissimo, che esse fossero in certo modo delle spedizioni agricole, che partivano da una tribù, sta bilita sopra un territorio, per trasportarsi sopra un altro suolo, quando quello prima occupato più non potesse bastare ai bisogni della intiera popolazione. Però anche in questa parte, allorchè riuscì a delinearsi l'istituto della colonia, nulla impedi che esso potesse essere rivolto ad intenti di diversissima natura, marittimi, militari, commerciali, e che servisse anche a diminuire il numero soverchio della plebe, quando essa, raccolta nella sola città, già cominciava a cambiarsi in una factio forensis e a diventare pericolosa. 126. La secessio invece sembra contrapporsi alla cooptatio, colla differenza che questo vocabolo, in cui non havvi accenno ad alcun rito religioso, sembra aver trovato origine piuttosto nei rapporti fra patriziato e plebe, che non in seno all'ordine patrizio. Ad ogni modo la secessio, intesa in largo senso, ha luogo allorchè un ele mento già ammesso nella comunanza, trovandosi incompatibile colla medesima, se ne stacca volontariamente e recasi altrove a porre la propria sede. Lasciando anche a parte i tentativi di secessio per parte della plebe, i quali non ebbero mai un esito definitivo, può forse scorgersi un esempio di secessio, ancorchè dissimulato dalle tradizioni, nel fatto della gens Fabia, che abbandonava Roma coi suoi numerosi clienti per stabilirsi alla Cremera, ove poi fini per essere distrutta dai Sanniti, lasciando un solo superstite, che entrò di nuovo a far parte della cittadinanza romana. Servio, In Aen., I, 12; Gellio. L'importanza delle colonie nel periodo gentilizio fu già messa in evidenza dal Vico, Scienza nuova. Intorno alle colonie ed alle varie loro specie, è accurata la trattazione del WALTER, Storia del Dir. Rom., Trad. Bollati.Quanto alla tradizione circa la gens Fabia, vedi Bonghi, Storia di Roma. Alla secessio, che è volontaria, si contrappone invece l'expulsio, quale fu quella, che ebbe ad avverarsi per la gens Tarquinia; espul sione, che per la intimità del vincolo, che stringe insieme i membri di una medesima gente, dovette poi essere estesa a tutti coloro che portavano quel nome, non escluso quel Tarquinio Collatino, marito a LUCREZIA, il cui oltraggio, secondo la tradizione, e stata occasione allo scoppio di quella rivoluzione patrizia e plebea ad un tempo, che condusse alla trasformazione del governo regio in repubblicano. Intanto questi varii istituti, unitamente all'amicitia, all'hospitium, alla societas e al foedus, che serviva a dar forma giuridica e so lenne a tutti i rapporti amichevoli fra le varie genti e tribù, avendo in gran parte avuto origine nel periodo gentilizio, dimostrano abba stanza come la città, la quale era uscita dalla federazione e dall'accordo, potesse anche subire dei mutamenti, che si operavano nella stessa guisa. Essa aveva mezzi diversi per accrescere o scemare il numero di coloro, che partecipavano alla stessa comunanza. Finchè infatti la città fu esclusivamente patrizia, potevano bastare la cuoptatio o la expulsio, mediante cui una gente poteva essere ac colta o respinta dall'ordine patrizio, e cosi entrare od uscire dalla partecipazione alla stessa comunanza. Quando poi patriziato e plebe si fusero insieme ed entrarono così a far parte dello stesso esercito e dei medesimicomizii, in allora si svolgono la secessio da una parte e la concessio civitatis dall'altra, e quest'ultima potè essere consen tita cum suffragio o sine suffragio. Infine havvi la colonia che, adoperata prima dalla tribù e poscia dalla città, serve a questa per trapiantare le sue propaggini altrove; mentre il municipium viene a convertirsi in un mezzo,me diante cui popolazioni,che avevano altrove la propria sede ed avevano anzi una propria amministrazione ed una propria vita, vengono ad es sere ammesse a partecipare alla vita pubblica della città, senza però essere ammesse agli onori ed al suffragio. Sarà solo più tardi, allorchè il sistema municipale sarà svolto in tutte le sue conseguenze, che le città latine prima e le città italiche dappoi, pur serbando il diritto di partecipare alla amministrazione della loro patria originaria, otter ranno tuttavia la partecipazione alla piena cittadinanza di Roma, che comincierà cosi ad essere considerata come la communis patria. Così viene preparandosi l'organismo della città per guisa, che essa possa essere capo e centro di qualsiasi vasto impero, e mentre le popolazioni, ammesse alla cittadinanza romana, avranno ancor esse interesse al mantenimento della grandezza romana, sarà però sempre in Roma, dove si decideranno le sorti del mondo e si eleggeranno i magistrati chiamati a governarlo. Solo più ci resta a vedere, se anche le varie forme, sotto cui ebbe a svolgersi il ius belli, già aves sero avuto origine nello stesso periodo e come siansi venute formando. In proposito già si è dimostrato, come non possa ammettersi il concetto, pressoché universalmente accolto, che la guerra debba essere considerata come lo stato naturale delle genti italiche. Esse invece si considerano come straniere le une alle altre e non hanno fra di loro comunione di diritto. Quindi al modo stesso che occorrono degli accordi, perché si trovino in condizione di amicizia e di pace; cosi è necessario che intervenga qualche fatto speciale, che le faccia uscire da questo stato di reciproca indifferenza, accið esse possano essere considerate come in stato di guerra. Quanto alle cause, che possono far scoppiare una guerra, esse sono determinate dalle condi zioni sociali, in cui si trovano le tribù ed i popoli diversi. Appena uscite da uno stato nomade, in cui dovette dominare la privata vio lenza, le genti si fissarono in territorii, i cui confini non erano an cora ben determinati, e quindi dovettero essere frequenti le questioni di confine e le reciproche usurpazioni di territorio. Di più pud ac cadere, che una comunanza nella sua totalità (populus da populari) o gli uomini singoli,che appartengono alla medesima (homines Her munduli) abbiano commesso devastazioni e saccheggi nel territorio della comunanza vicina. Così pure può avvenire, che una contro versia insorta fra due famiglie, appartenenti a tribù diverse, ingros sandosi mediante le parentele e le aderenze dell'una e dell'altra, come avvenne appunto in occasione della cacciata da Roma di Tarquinio e della sua gente, prenda le proporzioni di una vera e propria guerra. Siccome poi le varie genti e tribù sono in questo pe [A questo proposito però fu giustamente notato, che una delle cause della de. cadenza di Roma fu l'impossibilità, in cui erano le popolazioni delle città italiche di prendere parte effettiva alla vita politica di Roma,.in cui finiva perciò per pre valere la turba forensis. Vedi a questo proposito GENTILE, Le elezioni e il broglio nella Repubblica Romana.] riodo rappresentate dai proprii capi; cosi punto non ripugna che le sorti della guerra siano anche rimesse ad un combattimento singolare fra individui, col patto che l'esito della guerra dipenda dalle sorti di un privato duello. Così pure, è nel carattere del tempo che, quando si incontrano i due capi, essi vengano fra loro ad un combattimento non dissimile da quello, che la tradizione attribuisce a Giunio Bruto e ad Arunte, il più forte fra i figli di Tarquinio, e che la moltitudine dei combattenti si arresti a contemplare la lotta fra i proprii capi. Niuna maggior gloria potrà ottenersi, che quando uno dei capi potrà avere le spoglie dell'altro, ed è a questo concetto certamente che rannodasi il culto, che ancora trovasi così radicato in Roma, per cui le spoglie opime, che erano quelle appunto che dal capo di una tribù erano state tolte a quello dell'altra, erano appese nel tempio di Giove Capitolino, ed i fasti e gli annali ricordavano le volte in cui rinnovavasi il memorabile fatto. Per quanto questimodi di pensare e diagire possano riuscire singolari per noi, che siamo giunti a scorgere nella guerra un rap porto fra due Stati; questo è però certo, che i medesimi trovano una naturale spiegazione nel fatto, che durante il periodo gentilizio i rap porti fra le stesse tribù non riescono ancora a distinguersi da quelli fra i capi, che le rappresentano. Diqui conseguita, che il concetto della guerra fra i popoli ancora si confonde col duello fra i capi che lo rappresentano; il che è dimostrato fino all'evidenza dall'origine co mune dei vocaboli duellum e bellum, come appare dal vocabolo perduellis, che mentre ancora accenna al duellante significa già il pubblico nemico. Ciò spiega eziandio le traccie, che occor rono anche in Roma di duello giudiziario, poichè in esso noi abbiamo quel mezzo, che serve per risolvere le controversie fra i popoli appli [È ovvio osservare l'analogia,che presentano le primitive guerre di Roma con quelle, che Omero ci descrive nell'Iliade, ove soventi gli eserciti si arrestano spetta tori delle gesta dei proprii capi. Quanto alla spiegazione del culto per le spoglie opime parmi così naturale, che mi meraviglio di non averla trovata negli autori, che da me furono letti. (2) A questo proposito osserva il BRÉAL, Dict. étym. lat., vº Duo, che il cambia mento di duellum in bellum è analogo a quello di duonus in bonus, di Duilius in Bilius, di duis in bis, per guisa che come da duo derivd duellum, così da bis potè derivare bellum. Del resto il vocabolo di duellum per bellum occorre ancora sovente nei poeti latini e fra gli altri Plauto chiama i Romani « duellatores optimi »] cato a risolvere una controversia privata fra individui; il che in so stanza costituisce il processo inverso di quello, in cui il duello fra due individui viene ad essere adoperato qual mezzo per risolvere la guerra fra due popoli, e dipende perciò dal medesimo ordine di idee, cioè dal sostituirsi dei rapporti pubblici ai privati e viceversa. È nello stesso modo, che possiamo riuscire a darsi ragione di quella analogia costante, che non può a meno di essere notata fra le formalità, che accompagnano la dichiarazione di guerra, e quelle, che accompagnano l'azione che il capo ili famiglia propone in giudizio. 130. È solo infatti questo modo di riguardare le cose, fondato sulla realtà dei fatti ed ispirato al modo di pensare degli uomini e dei tempi, che può condurre a dare una spiegazione del tutto naturale di quella procedura grandiosa e solenne, che accompagna appunto la dichiarazione di guerra. Per quanto tale procedura, tras portata dallo spirito conservatore dei Romani in un'epoca diversa da quella in cui erasi formata, possa apparire artificiosa e siasi talvolta considerata come un complesso di formalità esteriori, archi tettato per celare l'ingiustizia e la prepotenza di un grande popolo; questo è però certo, che essa, ricondotta col pensiero all'ambiente in cui ebbe a formarsi, viene ad essere l'immagine di modi di pen sare e di agire veri e reali, che intanto poterono essere espressi in modo così vigoroso ed efficace, in quanto furono a quell'epoca profondamente sentiti. Questo intanto è fuori di ogni dubbio, che i varii stadii del dramma corrispondono mirabilmente alla realtà dei fatti, quali dovet tero svolgersi in un'epoca patriarcale. Una popolazione vicina o uomini appartenenti alla medesima in vasero il territorio della comunanza, saccheggiandone i raccolti ed (1) Le formole grandiose del ius fociale ci furono conservate sopratutto da Livio, nel libro primo delle sue storie, ove descrive il processo per la dichiarazione di guerra al cap. 32; quello per la conclusione di un'alleanza al cap. 24; e quello per la deditio al cap. 38. Come è notabile la solennità di esse, così è degna di attenzione la coerenza che esiste fra queste varie procedure, le quali perciò appari scono come lo svolgimento di un medesimo concetto. Quanto alle divergenze circa la loro interpretazione e ai tentativi di ricostruzione di formole, che a parer mio appariscono del tutto complete, mi rimetto all'opera del FusinaTO, I Feziali ed il diritto feziale. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. [esportandone mandre ed armenti. La comunanza ne è profonda mente commossa, e il capo di essa, che è pur sempre il padre co mune di tutti, accompagnato da altri capi di famiglia, recasi in persona sul confine del territorio, che appartiene al popolo unde res repetuntur; quivi, chiamando in testimonio le divinità patrone della sua comunanza, quella che protegge il confine e il fas, protettore comune ditutte le genti, espone l'ingiuria e il danno sofferto, e questo ripete a chiunque incontri per la via, e da ultimo sulla piazza del villaggio, spergiurandosi di dire il vero. Questa parte preliminare chiamasi clarigatio, da questo dichiarare ad alta voce e ripetuta mente il torto sofferto, e repetitio rerum, dal chiedere la restituzione delmal tolto. Se le cose, che eglidomanda, sono restituite, egli ritorna con esse, e cogli uomini, che hanno compiuto il saccheggio, che gli sono consegnati, mediante la noxae deditio; ma se egli non ottiene soddisfazione, ha luogo l'obtestatio deorum, con cui chiede in testi monio le divinità del suo popolo e tutti gli altri Dei, che il popolo, di cui si tratta, è ingiusto e vienemeno al diritto (populum illum iniustum esse, neque ius persolvere). Viene infine l'ultima parte della dichiarazione di guerra, in cui il capo del popolo offeso, dopo essersi consultato coi suoi, dichiara al popolo offensore la guerra, get tando entro i confini del suo territorio un dardo intriso di sangue accompagnato dalle parole: « bellum indico facioque », e si ha così in un solo atto l'indictio belli e l'initium pugnae. È fuori di ogni dubbio, che questa procedura, eminentemente patriarcale, dovette assumere alcun che di artificioso per essere adat tata ad un popolo, come il romano: poichè il medesimo aveva una co stituzione politica molto complicata, in base alla quale i feziali, che si erano recati per la rerum repetitio, dovevano poi tornare per avere l'avviso dei padri, e forse anche la deliberazione del popolo intorno alla guerra, che trattavasi di fare; ma questo è certo, che anche così trasformata essa non perde le sue primitive fattezze. Tolgasi il pater patratus, che, anche essendo una finzione, richiama pur sempre l'im poneute figura del patriarca primitivo; tolgansi i feziali, che erano sacerdoti, i quali, al pari di ogni altro collegio sacerdotale del popolo románo, avevano solo per compito di custodire le tradizioni, relative al diritto di guerra e di pace, senza avere alcuna competenza intorno alla giustizia intrinseca della causa, per cui si addiveniva alla guerra o all'alleanza; e non si potrà a meno di riconoscere, che tanto la repetitio rerum, accompagnata dalla clarigatio, quanto l'obtestatio deorum, quanto infine l'indictio belli, sono altrettante procedure, che serbano il colore e il carattere di un età patriarcale e richiamano scene vive e reali, che dovettero seguire in quella primitiva condi zione di cose. Ciò però non toglie, che le procedure del diritto fe ziale, al pari delle antiche procedure dell'actio sacramento e simili, allorchè furono trapiantate nel seno di un organizzazione sociale di altra indole e natura, affidate alla custodia di un collegio sacerdotale, rese complicate dei varii congegni di una costituzione politica, che più non consentiva un perfetto adattamento delle medesime, assun sero di necessità un carattere alquanto artificioso, e apparvero come forme, vuote di contenuto e conservate solo per imitazione dell'an tico, da un popolo, che in sostanza si era già spogliato di ogni ca rattere patriarcale, ed era venuto nel proposito tenace di conquistare e di sottomettere le altre genti. Il diritto feziale tuttavia rimane an cora sempre ad attestare, che in un'epoca remotissima dovette già essere conosciuto un tentativo di amichevole accomodamento nelle controversie, non solo fra i privati, ma anche fra le varie genti. Era pero naturale, che questa sopravvivenza dell'epoca patriarcale fosse destinata a scomparire, a misura che diventava più difficile di pene trarne l'intima significazione. Tuttavia, anche in questa parte, appare sempre lo spirito conservatore del popolo romano, che continuò a conservare e a tenere in onore l'istituto dei feziali, anche allorchè il diritto, di cui essi erano i depositarii ed i custodi, era andato compiutamente in disuso. Intanto non pud essere negata eziandio una certa analogia fra questa procedura e quella, che abbiamo visto svolgersi nell'actio sacramento. Siccome però queste procedure non sono invenzioni di pontefici e di giureconsulti, come alcuni le avrebbero ritenute, ma sono forme tipiche di fatti, che un tempo dovettero seguire nella realtà: cosi, per essere il processo effettivo veramente diverso nel venire al duello od alla guerra fra due popoli, e nel sorgere di una controversia fra due privati, ne derivò, che le due procedure non poterono essere perfettamente conformi, comevorrebbe sostenere il Danz, ma dovettero di necessità riuscire diverse. Nell'actio sa cramento noi abbiamo la storia di una controversia fra due capi di famiglia, i quali, stando già per venire alle mani, piuttosto che ab bandonarsi alla forza ed alla violenza, accettano l'interposizione di una persona autorevole, scommettendo di essere dalla parte della ragione e chiamando lui a giudice della scommessa. Fra due genti 164 invece non può esservi altro giudice che la divinità, e quindi, dopo aver reclamato il mal tolto, è questa, che chiamasi in testimonianza del l'ingiustizia, che quel popolo ha commessa, e a nomedella medesima divinità gli si dichiara la guerra « extremum remedium expedien darum litium ». Quello è il processo, che si è seguito per strappare i contendenti alla privata violenza e per indurli ad accettare l'au torità di un arbitro o di un giudice: questo è il processo, che deve seguirsi prima di cedere alla triste necessità della guerra. Che poi vi fossero buone ragioni, perchè una procedura solenne precedesse una dichiarazione di guerra, appare dalle dure conseguenze, che il consenso delle genti aveva attribuito al diritto di guerra. Questa nel periodo gentilizio era un vero duello fra due popoli, che non doveva cessare, finchè uno non avesse portato nel proprio tempio le spoglie opime dell'altro. Era guerra di uomini e guerra anche fra gli Dei dei due popoli, come lo provano le for mole che ci furono conservate, con cui quel popolo, che faceva delle stipulazioni e dei contratti « do utdes » anche cogli Dei, cercava di attirare a se il favore delle divinità del popolo, con cui era in guerra. Una volta poi, che questa era intrapresa ben potevasi dire, che la guerra diventava lo stato naturale dei due popoli; perchè se si tol gono le tregue (induciae), o per seppellire imorti o a causa della cattiva stagione, la guerra si continuava finché non si veniva ad un trattato di pace, o non si avverasse la dedizione di uno dei popoli in guerra. La deditio era per un popolo ciò, che per un privato il darsi a [È mirabile lo sforzo di sottigliezza fatto dal dotto e compianto Danz, prof. a Iena, per trovare una identità, che non esiste. I suoi ragionamenti sono riportati dal Fusinato nell'opera più volte citata. Intanto tutto questo sforzo di acutezza è ancor esso una conseguenza dell'aver ritenuto il diritto primitivo di Roma, e quindi anche il diritto feziale, come una costruzione essenzialmente formale e non basata sulla realtà dei fatti. Se invece si ritenga, che tutto il diritto primitivo di Roma dovette in altri tempi essere up complesso di reali ed effettive procedure, non si potrà certo pretendere che l'actio sacramento e l'indictio belli, avendo com piuto un ufficio diverso, potessero essere pienamente identiche fra di loro. Quanto alle loro analogie esse sono facilmente spiegate, stante l'indistinzione fra il diritto pubblico e privato,durante il periodo gentilizio. Queste formole ci furono conservate da MACROBIO, Saturn., il quale dice di averle ricavate da un libro antichissimo di un certo Furio (cuius dam Furii), che l'HUScake ritiene possa essere un A. Furio Anziate, scrittore di diritto sacro e di annali in versi. Esse sono riportate dall' HUSCHKE, Iurisp. an teiust. quae sup., pag. 11. - 165 mancipio, cioè un perdere famiglia, patria, territorio, religione, libertà e non avere altra speranza, che quella della clemenza del vincitore. Erano le sue divinità, che l'avevano abbandonato, e a lui non rimaneva, che di accettare rassegnato la propria sorte, entrando in quella classe dei vinti, che formava un eterno dualismo con quella dei vincitori. Che anzi i Romani applicavano anche a se stessi quel medesimo diritto di guerra, e fu soltanto colla fin zione del diritto di postliminio, che riuscirono ad attribuire effi cacia ad atti, che il cittadino romano aveva compiuto, mentre era prigioniero di guerra, e a fare astrazione dal tempo, che egli aveva trascorso in tale qualità presso il nemico. Sono queste dure conseguenze del diritto di guerra, che spiegano quanto dovesse essere profondo il solco, che erasi venuto scavando fra la classe dei vincitori e quella dei vinti, e come fra essi non potesse esservi, nè comunione di matrimonii, nè di reli gione, salvo dopo una lunga convivenza nei quadri dell'organizza zione gentilizia, in cui i vinti formarono la classe dei servi, dei clienti e per ultimo quella dei plebei, mentre i vincitori costituirono quella dei padri, dei patroni e dei patrizi. Intanto di tutto questo periodo, in cui le genti italiche vennero elaborando la religione, il diritto, la famiglia, le istituzioni, il co stume, non un solo nome proprio è sopravvissuto: dei veri grandi uomini, dei veri fondatori di una convivenza sociale non si conosce nè la patria, nè il nome, nè l'epoca precisa, in cui siano vissuti; ma se la memoria degli uomini è perita, sopravvissero perd le isti tuzioni e tutti i concetti fondamentali, che costituirono poi la base della futura grandezza di questi popoli. Fin qui del patriziato e delle sue istituzioni, di cui dovette essere lungo il discorso, perchè era lungo il suo passato; ora importa stu diare le condizioni della plebe, la quale se non ha per sè il passato, dovrà perd avere una gran parte nell'avvenire della città. La formola della deditio ci fa conservata da Livio, I, 38. È notabile: che in essa intervengono anche i Feziali; che si domanda se il popolo che fa la deditio è in sua potestate (il che prova che un popolo, al pari di una persona, poteva essere sotto la potestà di un altro); e che è serbata affatto la forma contrattuale della stipu lazione: « Deditisne vos populum Conlatinum, urbem, agros, aquam, terminos, de « lubra, utensilia, divinaque humanaque omnia, in meam populique romani ditio « nem? – Dedimus. At ego recipio ». Le cose premesse intorno all'organizzazione ed alle istituzioni proprie delle genti patrizie ci pongono finalmente in condizione di prendere in esame la questione della origine della plebe e della sua posizione giuridica di fronte al patriziato negli inizii della comu nanza romana. La genesi di questo elemento, che, poco importante dapprima, fini per esercitare tanta influenza sull'avvenire della città, è certo il più importante problema della storia primitiva di Roma, e quindi si comprende che gli autori tutti siansi travagliati intorno al medesimo ed abbiano anche proposto opinioni compiutamente di verse (1). Sonovi alcuni, fra i quali il Lange, che vorrebbero rannodare l'origine della plebe alla caduta di Alba e alla conquista di altre città latine, la cui popolazione sotto Anco Marzio sarebbe stata tras portata a Roma. Certo un tale avvenimento non potè a meno di avere grande importanza per accrescere il numero ed assicurare l'avvenire della plebe romana; ma egli è impossibile riconoscere in questo fatto l'origine primitiva della plebe, dappoichè, secondo la tradizione, la medesima sarebbe già esistita all'epoca della prima fondazione di Roma; cosicchèRomolo prima e Numa dappoi già avreb bero preso dei provvedimenti per l'ordinamento di essa.L'enumerazione delle varie opinioni circa l'origine della plebe colla indicazione degli autori, che le professano, può vedersi nel Willems, Le droit public romain, pag. 31, e nel Bouchè-LECLERCQ, Manuel des institutions romaines, pag. 11, né 3; come pure nell'opera, ancora in corso di pubblicazione, del prof. LANDO LANDUCCI, col titolo: Storia del diritto romano dalle origini fino a Giustiniano. Corso scola stico. Padova, 1886, pag. 274; opera che,mentre nel testo offre riassunti i risultati, a cui son pervenuti gli studii sulla storia del diritto romano, nelle note porge no tizia agli studiosi della ricchissima letteratura sull'argomento. (2) Il Lange, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 56 e segg., tratta largamente la questione e considera la plebe primitiva di Roma, come una moltitudine di pe regrini dediticii, il cui nucleo più importante sarebbe uscito dalle città latine. A suo avviso, essa è dapprima affatto estranea al popolo delle curie, la quale opinione è pure seguita dal KarlowA, Römisches Rechtsgeschichte] Non può parimenti ammettersi col Vico, che la plebe fosse origina riamente costituita da clienti ammutinati contro l'ordine dei padri, in quanto che, durante il periodo regio, la plebe non trovasi an cora in condizioni tali da impegnare la lotta col patriziato; lotta che, sebbene siasi forse iniziata al tempo dei re, cominciò solo ad essere argomento di racconto e di storia col periodo repubblicano. A ciò si aggiunge, che anche durante la lotta i clienti ed i plebei appariscono in opposizione fra di loro, comeappare dai richiamidella plebe contro la clientela, che costituiva la forza maggiore dell'or dine patrizio. Tuttavia questo fatto, che condusse taluni a con siderare la plebe e la clientela, come due termini inconciliabili ed opposti fra di loro, non ha impedito, che più tardi sianvi state delle famiglie, che originariamente erano in condizione di clienti, e che poi il quale considera anzi la plebe comeuna popolazione residente fuori della cerchia della Roma primitiva, e nota che il Celio, l’Appio e il Cispio, secondo una osservazione stata fatta di recente, hanno un nome identico a quello proprio di genti plebee. Anche il Voigt, Die XII Tafeln, I, pag. 258, viene alla conclusione che i plebei non solo non partecipassero alle curie; ma che essi costituissero una corporazione distinta, la quale, dopo l'istituzione del tribunato della plebe, si sarebbe organizzata nei comitia tributa. La corporazione esercitava sui suoi membri un potere di coerci zione, ne quid ex publica lege corrumpent. Il suo magistrato era il tribunus plebis; al modo stesso che i suoi giudici non sarebbero stati dapprima i centumviri, ma i decemviri, che sarebbero stati tratti dalla plebe. È quindi questa l'opinione, che contrappone più apertamente il populus e la plebes, e ci fa assistere alla lenta fu sione dei due elementi, anche dopo che entrarono a formare parte della stessa comu. nanza. Questo è certo, e cid apparirà meglio a suo tempo, che quella singolare isti tuzione del tribunato della plebe, che non riesce mai ad inquadrarsi perfettamente nella costituzione politica di Roma, dimostra abbastanza, che se colla legislazione decemvirale i due ordini cominciarono ad essere governati da un comune diritto; essi continuarono però ancora per lungo tempo a costituire due classi sociali com piutamente distinte, e recarono un contributo molto diverso sia nello svolgimento della costituzione politica, che in quello del diritto privato di Roma. Cfr. al riguardo PADELLETTI, Storia del diritto romano, pag. 19, e la nota del prof. Cogliolo, in cui pare che l'annotatore si scosti dall' opinione certamente troppo recisa del Padel LETTI, il quale sostiene che patriziato e plebe siano stati, fin dalle origini, ammessi a far parte della assemblea delle curie. Il luogo, in cui il V100 svolge più chiaramente questo suo concetto, è nella prima Scienza nuova, lib. II, Cap. XXXII, dove scrive: « che le prime repubbliche sorsero dagli ammutinamenti dei clienti, attediati sempre di coltivare i campi per li signori, dai quali essendo fino all'anima malmenati, gli si rivoltarono contro; e dai clienti così uniti sorsero le prime plebi; onde, per resister loro, furono i nobili dalla natura portati a stringersi in ordini »: Di qui appare, che anche il Vico fa rimontare l'origine della plebe ad epoca anteriore alla formazione della città. 168 recarono un contributo potente alla plebe nella sua lotta col patri ziato; donde si può argomentare, che anche nella plebe primitiva possono essere entrati degli antichi clienti, che per circostanze di varia natura erano stati prosciolti dal vincolo della clientela. Cosi stando le cose, ha molto del verosimile l'opinione del Mommsen, che in qualche parte si accosta a quella del Vico, secondo cui il nucleo primitivo della comunanza plebea si sarebbe venuto formando per mezzo di clienti, che di fatto si trovavano svincolati dal loro patrono per l'estinzione della gente, da cui essi dipendevano (1). Se non che si presenta ovvia l'osservazione, che quando questo fosse stato il solo mezzo per costituire la plebe, la medesima diffi cilmente avrebbe potuto, fin dal periodo regio, prendere così grandi proporzioni da imporsi al patriziato e farsi accogliere nella città. Quindi è, che l'opinione del Mommsen trova forse un opportuno compimento nella teoria del Niebhur, il quale, tenuto conto del modo, in cui le comunanze plebee si erano formate in condizioni sto riche analoghe a quelle in cui trovavansi i primitivi stabilimenti delle genti patrizie, venne a considerare come una legge storica costante, quella per cui accanto ad uno stabilimento di casate pa trizie, chiuso e fortificato in sè stesso, formasi naturalmente una specie di comunanza plebea; la quale, senza partecipare dapprima agli onori, ai suffragi, e ai matrimonii della città patrizia, pud tut tavia giungere ad una certa indipendenza dalla medesima, mediante il possesso e la coltura delle terre, e mediante l'esercizio dei mestieri e delle professioni diverse (2 ). Tuttavia anche l'opinione del Niebhur (1) MOMMSEN, Histoire romaine, I, Chap. V, pag. 103 e segg. Questa opinione fu poiadottata dal WILLEMS, Le Sénat de la République Romaine,Paris, 1878, pag. 15. (2) Ritengo che anche oggi il Niebhur sia l'autore, che è pervenuto a studiare con vedute più larghe l'origine della plebe. Di regola esso è annoverato fra coloro, i quali ritengono che la plebe sia stata composta delle popolazioni vicine a Roma, state dalle medesima sottomessa. Tale è, ad esempio, l'opinione, che gli è attribuita dal WILLEMS dal Bouchè-LECLERCQ, op. e loc. cit. La lettura invece del capitolo intitolato: « La commune et les tribus plébéiennes » della Histoire romaine, mi ha convinto che il NIEBHUR si è fatta una idea più larga della questione. Le conquiste, secondo lui, hanno bensì contribuito ad accrescere e a trasformare la plebe romana, sopratutto coll'incorporazione delle popolazioni latine; ma intanto essa già preesisteva nelle stesse tribù primitive, costituiva una specie di vera comunanza separata e distinta dal patriziato, composta mediante l'ammessione di cives sine suffragio, e di clienti rimasti senza patrono (op. e loc. cit., pag. 149). Tuttavia misia pur lecito di constatare, che l'autore, il quale ha meglio compreso quel carattere 169 lascia ancor sempre senza spiegazione quello stato di inferiorità e di abbiezione, pressochè servile, in cui una parte almeno della plebe trovasi di fronte al patriziato negli inizii di Roma; cose tutte, che non si comprenderebbero quando si trattasse di possessori e di cul tori di terre, che fossero stati sempre indipendenti dal patriziato. 137. Tutte queste considerazioni mi confermano nell'opinione già altrove manifestata, che il fenomeno della formazione primitiva della plebe debba cercarsi nella sovrapposizione delle genti italiche di origine aria sovra altre razze già preesistenti. In quel periodo di privata violenza, che non dovette essere dissimile da quello, che ebbe poi ad avverarsi, allorchè le razze germaniche invasero l'Impero, gli elementi in urto ed in lotta fra di loro dovettero dividersi in due classi, cioè, in quella dei vincitori e in quella dei vinti; in quella di coloro, che erano tenuti compatti dalla potente organizzazione genti lizia, e in quella di coloro, che non erano ancora cosi progrediti nella loro organizzazione domestica e sociale. Quelli costituirono la classe dominante dei padri, dei patroni, dei patrizii e si vennero sempre più fortificando nella loro ferrea organizzazione gentilizia, e tentarono di fare entrare nei quadri della medesima anche la classe dei vinti, ponendola nella condizione subordinata di servi e di clienti. È in quest'epoca di lotta e di conflitto, che è mestieri di cercare l'o rigine prima di quella distinzione di classi, che si trova agli inizii della comunanza romana; al modo stesso, che è nell'epoca feudale, che deve essere cercata l'origine di quelle distinzioni di classi, le cui traccie simantennero a lungo dappoi, e la cui lotta diede eziandio origine al movimento democratico odierno. Per trovare quindi la prima origine della distinzione converrebbe poter scomporre le po polazioni italiche primitive, conoscere le stirpi diverse da cui esse provennero, e determinare la posizione, in cui i vinti ebbero a tro varsi di fronte alla potente organizzazione dei vincitori; problemi tutti, per la cui risoluzione ci mancano per ora gli elementi necessarii. particolare della città antica, per cui essa suppone il concorso di due elementi, di cui l'ano superiore e l'altro inferiore, le cui lotte danno vita e movimento alla città, è certamente il nostro Vico. La città patrizia non è ancora che un ordine e una cor porazione di padri; mentre è la città patrizio-plebea, che ci porge lo spettacolo della lotta tra quelli, che intendono sopratutto a conservare l'antico ordine di cose, e quelli che abbisognano di innovare per migliorare la condizione presente. 170 138. Forse tali indagini potrebbero anche condurre al risultato, che fra le varie comunanze di villaggio ve ne erano di quelle dedite alle armi ed organizzate per genti e che come tali appartenevano al patriziato e costituivano una specie di aristocrazia territoriale;mentre poi ve ne erano delle altre, prive di tradizioni, dedite soltanto al lavoro dei campi e all'esercizio delle professioni e dei mestieri di versi (quale sembra essere stato ad esempio il vicus Tuscus), che costituivano delle comunanze plebee. Quest' ultime naturalmente dovevano trovarsi in una specie di dipendenza e pressochè di vas sallaggio, rimpetto alle prime; il che potrebbe spiegare in certi con fini quei forcti ac sanates, di cui ci parla Festo, che comprende vano le popolazioni superiori ed inferiori a Roma e trovavansi in dipendenza rimpetto alla medesima, la quale tuttavia già accomunava ad essi una parte del proprio diritto, cioè il ius nexi manci piique (1). Tuttavia, se ciò può esser vero delle plebi rurali, questo si può affermare con certezza, che certamente un buon dato della plebe primitiva e sopratutto della plebe urbana di Roma ebbe ad uscire dalla classe, che trovavasi in condizione inferiore nell'orga nizzazione gentilizia. Cid soltanto può spiegare la superiorità incon trastata del patriziato e l'abbiezione pressochè servile di una parte della plebe, che tradisce ancora quel sentimento di rispetto e di paura, che ha il servo affrancato per il suo antico padrone (2 ). (1) La questione intorno alla condizione dei forcti ac sanates è una delle più difficili, che presenti la storia primitiva di Roma, per la povertà ed anche la muti lazione dei passi degli autori, che vi si riferiscono (V. Festo, vº Sanates, quale è riportato nel Bruns, Fontes, pag. 364, nella Va edizione, pubblicatasi in quest'anno dal Mommsen). Io credo tuttavia, che la medesima, dandoci un concetto del tratta mento giuridico, che i Romani usavano colle popolazioni circostanti a Roma, possa porgerci dei dati preziosi per argomentare quale fosse la condizione della plebe, du rante il periodo esclusivamente patrizio. Rimetto quindi l'esame della questione al Capitolo I di questo stesso libro. (2) Ecco quindi la conclusione, a cui parmi di poter venire. Nella plebe primitiva di Roma voglionsi distinguere due correnti: una uscita dalla stessa organizzazione gentilizia forma il primo nucleo di una popolazione, che ha sede contigua allo stabili mento patrizio, ma non è più compresa nei quadri del medesimo; l'altra invece, per conquiste o per immigrazione, viene ad incorporarsi in questo nucleo primitivo, e l'accresce per modo da richiamare l'attenzione sopra di esso. Questi due elementi appariscono accennati dalla tradizione stessa intorno alla plebe primitiva, poichè altra è la plebe, che già appartiene alle varie tribù, e che viene ancora ad essere col locata sotto la clientela dei padri, ed altra è la plebe, che la tradizione dice rac -- - 171 - 139. La formazione poi di questa plebe dovette cominciare, allorchè i vincoli dell'organizzazione gentilizia già cominciavano a rallentarsi. Ciò accadde quando alla gente, che era ancora stretta insieme dal vincolo della discendenza, cominciò a sovrapporsi la tribù; la quale comprendendo elementi, che potevano essere di origine diversa, fini per non riuscire sempre a chiudere nei suoi quadri, consacrati dalla religione, tutti gli elementi, che si venivano affollando intorno alla medesima. Cominciò cosi a formarsi al di fuori dell'organizza zione gentilizia, che era l'unica riconosciuta dalle genti patrizie, una moltitudine ed una folla, il cui primo nucleo può essere uscito dal seno stesso della medesima, ed essere anche costituito da clienti rimasti senza patrono; al modo stesso, che le comunanze popolari del medio Evo erano in parte costituite da famiglie, che un tempo erano vassalle del feudatario. Siccome però nell'epoche primitive ciò che è più difficile è il creare l'elemento novello, mentre il mede simo, una volta formato, può poi accrescersi in varie guise ed acco. gliere tutti coloro, che, per questa o quella considerazione, si trovano spostati nell'anteriore organizzazione: cosi questo primo nucleo, dopo essersi staccato dalla stessa organizzazione gentilizia, venne richia mando e quasi attraendo a sè rifugiati di altre comunanze; servi fuggitivi; immigranti, che non amavano di porsi sotto la protezione del patriziato, o che, per motivi religiosi o di altra natura, non erano ammessi alla medesima; popolazioni di vinti, che perdevano territorio, religione e famiglia; abitatori di vici, che si erano dati all'esercizio dei mestieri e delle professioni diverse; cultori di terre, che di fatto si erano stabiliti sul territorio situato nelle circostanze dello stabilimento patrizio; popolazioni stabilite superiormente od inferiormente a Roma, a cui per necessità di commercio si dovette dapprima accordare quel ius nexi mancipiique, di cui parlano le dodici Tavole, quanto ai forcti ac sanates. Ciò spiegherebbe anche come queste popolazioni, il cui nome era diventato inesplicabile per gli stessi antiquarii romani, abbiano col tempo perduta la loro an tica denominazione, in quanto che, a misura che estendevasi la do minazione romana, tutte queste popolazioni vennero ad essere com prese nella plebe, e non fu cosi più il caso di attribuire ad esse una colta mediante l'asilo offerto da Romolo. È parlando di questo asilo, che Livio, I, 8, ebbe a scrivere: « E. (asylo) ex finitimis populis, turba omnis, sine discrimine liber seu servus esset, avida novarum rerum, perfugit; idque ad caeptam magnitu dinem roboris fuit ». 172 speciale posizione giuridica. Per tal guisa il nucleo primitivo si venne ingrossando, e quando le genti patrizie volgero lo sguardo at torno a sè videro in esso una plebs, che nel significato primitivo suona moltitudine o folla. Il nome pertanto, che le fu dato, corrisponde alla impressione, che questa folla deve aver fatto sopra una classe di uomini, che non conosceva altra organizzazione fuorchè la gentilizia. Le genti infatti non potevano scorgere in essa dapprima, che ceti di uomini riuniti in una guisa, che per esse non aveva quel carattere religioso e sacro, che avevano tutte le loro istituzioni. Non potevano infatti chiamarla un populus, perchè non era nè divisa in curie, nè aveva consiglio di anziani, nè aveva un magistrato, che la diri gesse, nè era insomma un « coetus hominum iuris consensu et uti. litatis comunione sociatus », e quindi la chiamarono plebes. Di qui il dualismo fra populus et plebes, che trovasi in alcune formule arcaiche; dualismo, che per essere l'effetto di cause naturali viene a presentarsi non solo in Roma, ma in tutte le comunanze delle genti italiche. Di queste tuttavia, se ne hanno di quelle, in cui quest'elemento è tenuto in umile stato, come sarebbero le città etrusche, ed altre invece, in cui esso già ottiene qualche concessione, quali sarebbero appunto le città latine. Il primo senso del patriziato per quest'elemento novello, che prendeva ad esistere fuori dei quadri della propria gerarchia, dovette essere di un disprezzo non dissimile da quello, che più tardi i patrizii manifestarono per quei concilia plebis, che pur dovevano trasformarsi nei comizii tributi; ma al lorchè il numero di questa plebe venne facendosi sempre più grande, si comprende come questo elemento dovesse di necessità essere te nuto in conto, sopratutto in una comunanza di carattere belligero, quale era la romana. 140. Narra infatti la tradizione, per bocca almeno di Dionisio e di Cicerone, che il fondatore della città avrebbe collocata la plebe nella clientela del patriziato, e incaricato i padri di farle assegnidi terre, a titolo di precario, non dissimili da quelli, che essi facevano ai clienti. In verità per una città eminentemente patrizia, come era Roma primitiva, il miglior modo per organizzare la folla, che aveva seguito l'esercito del fondatore o che erasi accalcata intorno allo stabilimento da essa fondato, era quello di farla entrare nella ge rarchia dell'organizzazione gentilizia. Fin qui pertanto la plebe non è ancora veramente tale, ma è costretta ancora nei quadri della clientela. Pero a misura che la fortuna nascente di Roma od 173 anche l'apertura stessa di un asilo ai rifugiati e agli esuli dalle altre città (questo vetus urbis condentium consilium, che non è poi cosi improbabile, come ebbe a farlo la critica storica ) cominciarono a richia mare nei dintorni della città una quantità di individui e di capi di famiglia di provenienza diversa; anche la clientela venne ad essere insufficiente per comprendere nei proprii ranghi questa folla di uo mini, di cui una parte potè forse essere di origine ellenica ed etrusca, ed avere tradizioni e credenze diverse da quelle dai fondatori della città. Era stata la lunga coabitazione come servi e famuli nella famiglia, che nell'anteriore organizzazione gentilizia aveva servito a preparare la clientela delle genti patrizie. Questa preparazione invece mancava nel nuovo elemento, che accorreva nei dintorni di Roma; per tal modo l'antica istituzione religiosa ed ereditaria della clientela venne ad essere inadeguata e disacconcia al bisogno ed inetta a dare un'organizzazione al nuovo elemento. Quasi si direbbe che, collo svolgersi della città, l'antica forma, sovra cui si era modellata l'anteriore organizzazione sociale, che colla tribù già erasi alquanto sgretolata, venne a rompersi affatto. Quindi mentre tutto prima era compreso nella gerarchia gentilizia, colla città in vece comincia a farsi palese e a colpire lo sguardo questo ele mento novello, che guadagna e richiama a sè tutto ciò, che sfugge all'antica organizzazione. Dapprima il fatto dovette colpire l'ordine stesso dei padri, e loro parve strano di dover riconoscere, che l'or ganizzazione gentilizia più non potesse bastare ad ogni emergenza. Ma col tempo fu necessità arrendersi all' evidenza, e l'elemento nuovo non poteva essere trascurato per una comunanza come la Romana di carattere eminentemente belligero, e che abbisognava perciò di un contingente sempre nuovo per riempire le file del proprio esercito. Sopratutto il nuovo elemento doveva apparire im portante per il re, il quale da una parte poteva trovare in esso un sussidio potente per la formazione dell'esercito, e dall'altra, as sumendo la qualità di patrono non dei singoli plebei, ma dell'in tiera classe, poteva anche trovare in essa un appoggio per bilanciare la soverchia influenza dei padri. Questi infatti, memori, che il re era il loro eletto ed il rappresentante, a cui avevano affidato i proprii auspicia, lo volevano naturalmente ligio ai proprii interessi e mira vano a valersi di esso per trasportare anche nella città l'organiz zazione per genti e per tribù, per quanto la medesima male si accon ciasse alla nuova condizione.  Gli è questo il motivo, per cui noi vediamo, secondo la tra dizione, prendersi dai re, che vengono dopo, una serie di provve dimenti nell'intento di organizzare la plebe. Mentre Romolo, dopo avere, secondo Dionisio, affidato alla plebe la coltura delle terre e l'esercizio delle arti manuali, si limita a porla sotto la clientela dei padri, e si vale cosi di un istituto vecchio per comprendere un ele mento nuovo (1), Numa invece già prende quanto alla plebe due importantissimi provvedimenti. Il primo è quello di distribuire direttamente ai più poveri, che sono appunto quei tenuiores, di cui parla Festo, e che appartengono alla plebe, l'ager conquistato da Romolo, e che era venuto ad ac crescere l'ager publicus; il quale provvedimento produsse l'effetto, che la plebe da questo momento, almeno in parte, cesso di essere sotto il patronato dei patres. Però siccome i cambiamenti sono e devono essere lenti; cosi al patronato dei patres sembra sottentrare una specie di patronato del re, il quale fa alla plebe quegli assegni di terre, che dapprima erano affidati ai patres (2). Forse può darsi che dapprima questi assegni di terre, fatti dal re alla plebe sull'ager publicus, fossero soltanto a titolo di semplice precario, come quelli che erano fatti dai patres ai clienti sull'ager gentilicius; ma in tanto è già un passo importante per la plebe quello di non dipen dere più direttamente dai capi delle genti, ma di essere sotto il patronato o almeno sotto la protezione diretta del re, custode e ma gistrato della città. L'altro provvedimento, ricordato da Plutarco, e che egli dice essere stato altamente lodato, fu quello per cui Numa avrebbe di (1) Dion., 2, 9: « Romulus postquam potiores ab inferioribus secrevit;mox legem tulit et quid utrisque faciendum esset disposuit: patricii sacerdotiis et magistra tibus fungerentur et iudicarent, plebeiï vero agros colerent et pecus alerent etmer. cenarias artes exercerent » (Bruns, Fontes, pag. 3 ). (2 ) Quanto a questa ripartizione fatta da Numa, vi ha divergenza fra CICERONE, De rep., II, 14, secondo cui la ripartizione si sarebbe fatta viritim ai cittadini in genere, mentre DIONISIO vuole che siasi fatta ai più poveri, II, 62. Cfr. Bongur, Storia di Roma, I, pag. 85. - Per quello che si riferisce al patronato del re sopra la plebe, ritengo col KARLowa, che ilmedesimo non possa essere preso nella signifi cazione giuridica attribuita al vocabolo (Röm. R. G., I, pag. 63 ). Ciò tuttavia pon toglie, che la plebe, dopo essersi resa indipendente dal patriziato, abbia trovato nel re il suo protettore naturale, e siccome tale protezione non si comprendeva al lora che sotto la figura di clientela, così gli autori considerarono il re come patrono o la plebe come sua cliente. - stribuito quella parte della plebe, che era dedita alle arti manuali e all'esercizio delle professioni diverse, in corporazioni di arti e mestieri (collegia ), che furono nove: quella cioè dei suonatori di flauto, degli orefici, dei muratori, dei tintori, dei calzolai, dei cuoiai, dei fabbri, dei vasai e l'ultima di tutte le altre professioni, dando alle medesime proprie riunioni e i proprii riti. Vero è, che questo provve dimento ebbe ad essere posto in dubbio dalla critica e fra gli altri dal Mommsen, e che probabilmente i collegi, la cui formazione si attribuisce a Numa, potevano già esistere precedentemente, sopra tutto nel vicus Tuscus, la cui popolazione fu una delle prime ad essere compresa nella plebe romana: ma non è punto improbabile che, come erasi cercato di provvedere alla plebe dedita alla coltura delle terre, cosi si cercasse di dare un'organizzazione alla plebe dedita agli esercizi delle arti e professioni diverse, o di consacrare almeno l'organizzazione, che già esisteva precedentemente o che tro vavasi in via di formazione (1). Non è quindi il caso di respingere la tradizione, dal momento che non vi ha nulla di meglio da sosti tuirvi; almodo stesso che è meglio accettare anche le figure alquanto leggendarie dei re, piuttosto che sostituirvi qualche cosa, che non ha neppur più della leggenda, la quale è pur sempre intessuta sopra un fondo di vero. Intanto questo si può affermare con certezza, che fin dagli inizii di Roma cominciò ad apparire un dualismo nella plebe ro mana, che, accennato fin dall'epoca di Romolo con affidare alla plebe la coltura delle terre e l'esercizio delle arti manuali, già comincia a delinearsi con Numa, il quale ad una parte della plebe fa assegni di terre e l'altra distribuisce per arti e mestieri, e che più tardi finisce per accentuarsi molto più recisamente. Havvi infatti in Roma, fin dai proprii esordii, una plebe rurale, composta di piccoli possidenti, ed (1) PLUTARCO, Numa, 17: « De ceteris eius institutis maximam admirationem « habet plebis per artificia distributio; haec vero fuit: tibicinum, aurificum, fabrorum « tignuariorum, tinctorum, sutorum, coriariorum, fabrorum aerariorum, figulorum; « reliquas artes in unum cöegit, unumque ex iis omnibus fecit corpus; consortia et < concilia et sacra cuique generi tribuens convenientia » (V. BRUNS, Fontes, pag. 11 ). L'autore, che sembrava porre in dubbio questa distribuzione della plebe in arti e mestieri, sarebbe lo stesso MOMMSEN, De collegiis ac sodaliciis; Liliae, 1843, citato dal MUIRHEAD, Histor. Introd., pag. 11; ma pare che nella Storia Romana accetti la ripartizione stessa come una verità di fatto. - - una plebe, composta di artieri, commercianti, esercenti le arti e le professioni diverse. L'ideale della prima è quello sopratutto di mu tare le sue possessioni di terre in una proprietà indipendente, che la ponga in condizione di provvedere al sostentamento di sè e della propria famiglia; quello insomma di avere quell'heredium o man cipium, che pur appartiene al capo della famiglia patrizia. A questa plebe, che non abita nelle mura di Roma, ma nelle circostanze di essa, dovette probabilmente dalla città patrizia essere riconosciuto quel diritto, che più tardi da Roma fu pure riconosciuto alle popo lazioni vicine, che sono indicate col nome di forcti ac sanates, cioè il ius nexi mancipiique. Cid pud essere argomentato da cid, che Roma di regola suole seguire gli stessi processi in condizioni anaa loghe e quindi è probabile, che questa plebe, che risiedeva fuori della città, e costituiva in certo modo una popolazione circostante alla medesima, fosse trattata nel modo stesso, in cui da essa furono poi trattate le altre popolazioni vicine. L'altra parte della plebe invece, mancando di altra organizzazione, cerca di rafforzarsi, come farà più tardi anche la popolazione commerciante dei comuni del Medio Evo, mediante le corporazioni di arti e di mestieri. Quelli, che apparten gono alla plebe rurale, convengono in Roma i giorni di mercato per vendervi i loro prodotti, e per conoscere anche i provvedimenti, che siano presi nell'interesse comune; mentre gli altri, che apparten gono alla classe dei piccoli commercianti ed artieri, formano fin d'allora il primo nucleo di quella plebe urbana, nel seno della quale si formerà più tardi quella forensis factio, che già comincia ad apparire sotto la censura di Appio Claudio, e getta il discredito sulle tribù urbane. 143. Già erasi così delineata la distinzione fra plebe rurale ed urbana, quando sopraggiunse un avvenimento, il quale diede una grande compattezza all'organizzazione della plebe romana, e mentre ne accrebbe il numero e la potenza, le diede anche un nuovo indi rizzo e ne assicurò l'avvenire. Questo avvenimento fu l'aggregarsi alla plebe romana della parte più povera della popolazione di Alba, la cui distruzione è attribuita a Tullo Ostilio, e quella del trasporto od anche, come pare più probabile, della riunione alla plebe di Roma per opera di Anco Marzio, della popolazione di varie città latine da lui conquistate. Questo nuovo contributo venne ad accrescere la forte plebe rurale, vivamente affezionata al fondo da essa coltivato, e disposta a porre la vita per la difesa di esso, e fece entrare nella - 177 plebe un elemento, la cui origine era analoga a quella del patriziato, e che aveva già un'organizzazione domestica, non dissimile da quella del medesimo. Fu il rifiuto del corpo chiuso del patriziato primitivo di Roma di ricevere nel proprio seno queste famiglie delle città la tine, che assicurò l'avvenire della plebe romana, incorporando in essa un elemento, che portò nella lotta per il pareggiamento giuri dico e politico una tenacità e perseveranza, non dissimili da quelle, che contraddistinguono il patriziato romano. Di qui la conseguenza, che come era stata latina l'organizzazione del patriziato romano, poichè gli elementi sopraggiunti erano entrati nei quadri della città latina; così fu sopratutto latina la massa più forte della plebe ro mana, quella massa, di cui una buona parte entro più tardi a costi tuire la nuova nobiltà. Senza questo elemento la plebe primitiva, di origine diversa e che in parte era forse di origine servile, avrebbe molto probabilmente continuato lungamente a mantenersi tale;mentre questo innesto di famiglie latine, che nel loro paese nativo tenevano già un certo grado, per cui loro dovette riuscire grave di vedersi respinte dai quadri dell'ordine patrizio, portò forza, organizzazione, tenacità nella plebe e ne assicurò l'avvenire, fino a che questo ele mento vigoroso e vitale non fini per uscire dalla plebe stessa, che aveva resa potente, e aggregandosi alla nobiltà abbandonò la plebe minuta agli spettacoli del circo e alle distribuzioni di frumento. 144. Per comprendere però un avvenimento di questa natura, importa farsi un'idea chiara della lotta, che vi era fra Alba da una parte e Roma dall'altra. Erano entrambe due città latine, cioè due centri di vita pubblica fra varie comunanze di villaggio, ed erano troppo vicine per poter coesistere. L'una o l'altra doveva cedere, e la conseguenza era per la soccombente di dover scompa rire come città e come urbs, per modo che le comunanze, che mettevano capo ad essa, dovessero invece fare capo a quella, che riusciva vittoriosa. Il patto quindi che, secondo la tradizione, ebbe ad essere suggellato fra i capi dei due popoli, con tutte le cerimonie del diritto feziale, era che, trattandosi di popoli fratelli, si dovessero rimettere al combattimento di tre per parte le sorti della guerra (1). (1) Questo intento della guerra Albana è messo in evidenza dalle parole, che Livio, I, 27, attribuisce a Tullo Ostilio nella concione tenuta avanti ai due popoli prima di condannare allo squartamento Metto Fuffezio: « Quod bonum, faustum G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 12 178 La lotta quindi leggendaria fra Orazii e Curiazii era lotta di pre dominio fra le due città, la cui parentela era ricordata e riconosciuta, ed era una specie di giudizio di Dio per sapere quale dovesse preva lere: senza che occorra di sforzarsi col Lange a volere che il numero dei tre corrisponda alle tre tribù, e che il nome di Curiazi provenga dalle curie (1). Conseguenza dell'esito del duello fu, che la città soccombente perdette la propria esistenza separata e fu distrutta come urbs, e quindi le genti patrizie albane furono aggregate al patriziato romano, a cui si aggiunsero cosi i Tullii, i Servilii, i Quinzii, iGe ganei, i Curiazii, i Clelii, le cui genti pero, per essere sopraggiunte più tardi, furono poi collocate dallo stesso Tullo Ostilio o da Tar quinio Prisco nel novero delle gentes minores. Tutta la popolazione invece, che, nelle condizioni, in cui allora si trovava, non poteva entrare nel patriziato entro in massa nei ranghi della plebe, e una parte di essa, cioè la più povera, ebbe anche degli assegni di terre. Cid pure accadde, quando Anco Marzio vinse altre comunanze latine, e ne aggregò la popolazione alla plebe romana; il che fu dalla tradi zione espresso con dire, che Anco Marzio aveva trasportata a Roma la popolazione di quattro città latine (2 ). 145. È a questo punto pertanto, che la plebe acquista in Roma una vera importanza, e che viene ad essere indispensabile di trovare un modo per farla entrare, ancorchè a condizioni disuguali, nella cittadi nanza romana; tentativo cominciato con Tarquinio Prisco, e condotto a compimento da Servio Tullio (3). Mentre Tarquinio Prisco non riesce felixque sit populo romano ac mihi,vobisque, Albani; populum omnem Albanum Romam traducere in animo est; civitatem dare plebi; primores in patres legere: unam urbem, unam rempublicam facere ». (1) Lange, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 35. (2) Questi fatti attestati dalla tradizione e da tutti gli storici rendono a parer mio non accoglibile l'opinione sostenuta con molta erudizione dal PANTALEONI nella sua Storia civile e costituzionale di Roma, lib. I, cap. 6, pag. 97 a 113, Torino, 1881, secondo cui il partiziato romano sarebbe stato Sabellico, mentre la plebe sarebbe stata Latina. Questi fatti invece dimostrano, che la popolazione delle città latine era essa pure divisa in patriziato ed in plebe, cosicchè quel dualismo che presentasi in Roma già preesisteva nel Lazio. Del resto l'ipotesi del dotto au tore sarà poi presa in esame quando si tratterà della legislazione regia, Lib. II, cap. IV, discorrendo del contributo recato dalle varie stirpi italiche alle istituzioni giuridiche di Roma. (3) L'importanza grandissima per l'avvenire della plebe romana di quest' innesto 179 che a conglobare i rappresentanti di queste varie genti nei sacer dozii, nel senato e nell'ordine dei cavalieri, raddoppiandone il numero, e continua a lasciare la plebe nella condizione, in cui prima si trovava; Servio Tullio invece inizia una organizzazione novella, che può comprendere così nelle file dell'esercito, che nelle riunioni dei comizii quella plebe, che è già pervenuta a tale po sizione economica e sociale, da interessarla alla cosa pubblica. È da questo punto parimenti, che la plebe rustica di Roma comincia ad essere più apprezzata che la plebe urbana, e che principia ad avverarsi fra i due ordini la possibilità della formazione di un diritto comune ai medesimi. Il motivo di questo ravvicinamento deve anche essere riposto nel fatto, che le istituzioni del patriziato e quelle del nuovo elemento, aggiuntosi alla plebe, non erano a grande distanza fra di loro; poichè l'uno e l'altro avevano la medesima organizza zione domestica, ed oltre a ciò fra queste famiglie latine ve ne erano di quelle che un patriziato, meno esclusivo e geloso dei suoi privilegi, avrebbe potuto accogliere nel proprio seno (1). Ferma quest'origine della plebe e questa primitiva organizzazione della medesima, veniamo a ricercare quali fossero le istituzioni giu ridiche, che essa poteva possedere all'epoca, in cui entrò a far parte della comunanza romana. di forti popolazioni latine sulla plebe primitiva, in parte di origine servile, è un fatto riconosciuto da tutti gli storici. Cominciò a notarlo il NIEBHUR, e dopo di lui il Mommsen, il Lange e molti altri. (1) Nota molto accortamente a questo proposito il Gentile, Le elezioni e il bro glio, pag. 142, che « quella nobiltà, che poscia fu chiamata nuova e che in gran parte esce di ceppo latino, non era tanto nuova, quanto sembra alla prima; perchè discendeva dalle vecchie aristocrazie di comunità italiche, venute ad aggregarsi allo stato romano, e che avevano aspirato agli onori in quella cittadinanza, a cui più o meno recentemente erano ascritte ». Di qui la conseguenza, a cui egli allude a pag. 150, che « la costituzione romana, eminentemente democratica nei principii, colla piena sovranità popolare nel nome, lasciava il reggimento della cosa pubblica, immobile nella mano di pochi ». La posizione giuridica della plebe di fronte al patriziato. 146. Se posta questa origine della plebe e questa primitiva or ganizzazione della medesima, si domandasse ora in che consistesse la plebe all'epoca, in cui essa appare nella storia di Roma, sarebbe necessità di rispondere con una deffinizione di carattere negativo. La plebe infatti è negli esordii di Roma tutto quel nucleo di indi. vidui e di famiglie di origine diversa, che di fatto trovasi stabilita nel territorio romano, nei dintorni della città patrizia; ma che intanto è priva ancora di qualsiasi posizione giuridica, perchè non entra a far parte dell'organizzazione gentilizia. Essa è, come dice Gellio, quella parte di popolazione, che è stabilita di fatto sul suolo romano, ma in cui « gentes patriciae non insunt » (1); o meglio an cora quella parte di tale popolazione, che, non essendo compresa nei quadri della organizzazione gentilizia, non può dapprima entrare nelle curie e negli ordini della città patrizia. Al modo stesso, che più tardi si chiamerà peregrinus chiunque non sia cittadino di Roma, o non sia in guerra con essa, e per passare anche ad un altro ordine di idee si chiameranno con Gaio nec mancipii tutte quelle cose, che non appartengono alla cerchia prima formatasi della res mancipii, e anche più tardi si diranno in bonis tutte quelle cose, che appar tengono ad una persona senza appartenerle ex iure quiritium; cosi alla domanda in che consista la primitiva plebe di Roma si pud solo rispondere, che essa è quell'elemento, che esiste accanto al po pulus, ma che non entra nei quadri di esso, consacrati dalla reli gione; quell'elemento, che esiste di fatto sul territorio della città patrizia, ma che non è compreso nell'organizzazione giuridica e politica di essa. Ora e sempre sarà questo il punto di vista, a cui si colloca il popolo romano, il quale ferma il suo sguardo sopra di sè, sopra il suo culto, sopra la sua religione, sopra la sua urbs, la sua civitas, sopra il suo diritto, e in base al medesimo classifica e dispone tutto il rimanente dell'universo, secondo la posizione, che esso tiene riguardo a sè e alle proprie istituzioni. Questo modo di (1) GELL., Noct. att., X, 21, 5. - 181 - procedere del resto non sembra esser proprio soltanto dei Romani, che chiamano tutti gli altri popoli hostes o peregrini; ma anche dei Greci, che hanno una sola qualificazione per tutti gli altri, che è quella di Barbari; anche dei cristiani del Medio Evo, che chia mano tutti gli altri col nome di infedeli; ed in genere sembra es sere proprio di tutte le stirpi Ariane, anche nell'Oriente, le quali cre. dono di avere il diritto di sovrapporsi a tutte le altre. Che anzi questo modo di procedere può anche ritenersi comune a tutto il genere umano, sopratutto nelle epoche primitive, in cui ogni popolo, chiuso in sè stesso, mal conoscendo il rimanente, giudica ed ap prezza ogni cosa, facendo sè il centro dell'universo (1). È sempre applicando questa logica superba, ma ad un tempo ingenua e del tutto conforme alla natura dell'uomo, che il popolo formato dalle genti patrizie, chiamò plebe tutto ciò, che non era compreso nei suoi ordini, cioè nelle sue genti e nelle sue curie, e che poscia il populus romanus quiritium, dopo che già comprende va la plebe, vide una folla e moltitudine di peregrini e di hostes in tutti quelli, che non erano compresi nei quadri della città romana. Di qui con seguita, che la definizione di quell'elemento, che è il solo ad essere tenuto in conto, implica eziandio la deffinizione negativa di quello, che ne costituisce il contrapposto. 147. Se quindi è solo il populus delle gentes, che possiede un diritto, ne verrà comeconseguenza, che la plebe non può negli inizii avere rimpetto ad esso che una posizione di fatto, e continuerà ad esser sempre in questa condizione, finchè il populus non le verrà facendo qualche concessione, o la plebe stessa troverà modo di ac costarsi all'organizzazione del populus, e di penetrare, sotto questo o quell'aspetto, nei suoi ordini e nei suoi quadri, consacrati dalla religione e tutelati dal diritto. La plebe insomma è un elemento, che ha una posizione di fatto, e che si viene avviando alla conquista di una posizione di diritto. Essa è nella stessa posizione, in cui saranno poi i Latini e gli Italici, allorchè formeranno già il grosso dell'e sercito romano, e intanto non saranno ancora ammessi alla cittadi. (1) Fo qui applicazione di un concetto del Vico, il quale certo vide molto addentro alla natura dell'uomo primitivo. Tale concetto costituisce anzi la prima degnità della sua Seconda scienza nuova, secondo cui: « L'uomo per l'indefinita natura della mente umana, ove questa si rovesci nell'ignoranza, egli fa sè regola dell'universo ». Solo è a notarsi, che i Romani ciò non facevano per ignoranza,ma perchè veramente attri buivano a se stessi una superiorità sugli altri. 182 nanza romana: mentre questi ricorreranno in tale intento alla guerra sociale, la plebe ricorrerà invece alle lotte civili, finchè non avrà ottenuto il pareggiamento civile e politico. Qui, comenel resto, il processo della logica romana è sempre il medesimo; incomincia da tanti cerchi, che si vengono formando nell'interno della città, e che poi si vengono sempre più allargando, finchè non giungono a comprendere tutto l'universo conquistato dalla eterna città. 148. Ciò premesso si può comprendere, quale potesse essere lo stato delle istituzioni giuridiche presso la plebe primitiva di Roma. Esse erano istituzioni, che avevano un'esistenza di fatto: ma a cui il patriziato non annetteva effetti e conseguenze giuridiche. Tuttavia, anche considerate sotto questo aspetto, le istituzioni plebee non po tevano certo avere fra di loro un ' analogia, che possa paragonarsi con quella, che esisteva fra le istituzioni delle genti patrizie, la quale erasi fatta più intima, stante la loro partecipazione alla stessa co munanza civile e politica. Anzitutto si cercherebbero indarno presso la plebe quei concetti fondamentali, che abbiamo trovato cosi nettamente delineati presso le genti patrizie coi vocaboli di fas, di mos e di ius. Alla plebe invece non si applica dal patriziato che il vocabolo di usus, che riceve però presso di essa una larghissima applicazione. Per verità è coll'usus, che si vengono a rivelare esteriormente le unioni ma trimoniali della plebe, le quali non importano comunione delle cose divine ed umane. Parimenti è col mezzo dell'usus, che nelle consuetudini plebee potè avverarsi l'appropriazionedelle cose esterne. Non essendovi presso di essa quelle forme, che a giudizio del patriziato sono indispensabili per l'acquisto ed il trasferimento dei beni; così è solo, mediante l'usus, che appartenga ad una persona, a scienza e pazienza di tutti gli altri, che viene a manifestarsi non tanto la pro prietà, quanto la possessio, che dapprima tiene luogo di essa. In fine sarà eziandio, mediante l'usus, che, allorquando verrà a morire un capo di famiglia plebea, i suoi figli prima, e in sua mancanza i suoi congiunti ed anche i suoi vicini verranno a mettersi a possesso dei beni da esso lasciati; e avrà così origine quella singolare istitu zione dell'usucapio pro herede, che il buon Gaio trovava disonesta ed immorale, perchè non era coerente al principio dell'agnazione posto a fondamento della successione quiritaria (1). Tutto ciò insomma, (1) GAIO, Comm., II, 53, 54. 183 in cui predomina l'usus auctoritas (per usare l'efficacissimo voca bolo adoperato dalla legislazione decemvirale), piuttosto che il ius propriamente detto, tutto ciò che si fonda di preferenza sul fatto che sul diritto, è da ritenersi di origine plebea, e solo più tardi entrò a far parte del diritto quiritario sotto il nome di usucapio, di usureceptio, di possessio e simili. Cid spiega anche il motivo, per cui, allorchè la legislazione decemvirale attribuì carattere giuridico a queste istituzioni, essa abbia dovuto imporvi delle limi tazioni e prescrivere delle condizioni, alle quali poi si aggiunsero quelle richieste più tardi dalla giurisprudenza, perchè siavi usu capione, e perchè il possesso possa ottenere protezione giuridica. Ciò del resto era una conseguenza delle condizioni reali, in cui trovavasi la comunanza plebea; poichè se in un patriziato, dalle an tiche tradizioni, tutto era preveduto e regolato con norme e regole fisse, le quali se non avevano sempre un carattere giuridico, avevano almeno un carattere religioso e morale; in una comunanza invece, composta di individui e di famiglie di origine diversa, priva di tra dizioni e di recente formazione, i rapporti fra i singoli individui non potevano essere governati, che dall'usus. Credo non occorra qui di richiamare l'attenzione sulla grandissima importanza, che ha questa induzione per spiegare l'origine dimolte istituzioni primitive di Roma, e sopratutto quell'usucapione, che appare introdotta dalla legislazione decemvirale. Colla medesima viene ad apparire l'unità di concetto, a cui si informarono idecem viri, allorchè introdussero contemporaneamente l'usus auctoritas per l'acquisto della manus, per l'acquisto della proprietà immobile e mobile, e per l'acquisto anche del l'eredità. L'usucapio infatti era l'unico mezzo per mutare al più presto la posizione di fatto, in cui trovavasi la plebe, in una posizione di diritto. Ciò spiega eziandio come la primitiva possessio non dovesse richiedere nè giusto titolo, nè buona fede, e come sia stata necessaria una lunga elaborazione, perchè potesse uscirne la teorica del possesso e quella a un tempo dell'usucapione, le quali hanno fra di loro strettissima attinenza. Così pure si spiegano le definizioni di Ulpiano e di Modestino, secondo cui: < Usucapio est dominii adeptio per continuationem possessionis anni vel biennii », senza che richiedasi altra condizione. Lo stesso è a dirsi degli sforzi dei decemviri per trattenere l'istituzione da essi accolta in limiti tali, che non la rendessero pe ricolosa per la convivenza sociale, escludendola per le cose rubate, e consentendo alla moglie, che coabitava colmarito, di interrompere l'usucapione della manus, mediante il singolare istituto del trinoctium. Intendo però di riconoscere, che un avviamento a questa spiegazione già può ravvisarsi nel MUIRHEAD, Histor. Introd., pag. 48 e 179, nella sua ingegnosa congettura intorno all'origine della usucapio pro haerede, e nell' Esmein nel suo recente articolo sull' « Histoire de l'usucapion » che si trova nei suoi Mélanges d'Histoire de droit, Paris, 1886, pag. 171 a 217. Solo credo di 184 149. Parimenti, è sempre sotto l'influenza di queste speciali con dizioni, in cui trovasi la plebe, che i suoi commercii non possono essere governati da forme solenni, simili a quelle che si erano for mate fra i padri delle famiglie patrizie; ma dovettero svolgersi con forme semplici, quali erano suggerite dai bisogni di una comunanza, in seno a cui non era ancora organizzata una vera propria pro tezione giuridica. Fu quindi certamente nei rapporti della comune plebea, che dovette anche svolgersi l'emptio-venditio, accompagnata dalla tradizione della cosa e dal pagamento del prezzo, e questo fu forse anche il motivo, per cui presso gli antichi, secondo Festo, emere pro accipere ponebatur, in quanto che emere era vera mente prendere la cosa comperata (1). Fu in essa parimenti, che dovette aver origine quel singolare istituto della fiducia, il quale serve qual mezzo per accordare una efficace garanzia al proprio creditore, lasciando a sua mano la cosa, che deve servirgli di malle veria (2 ). Fu parimenti in essa, che dovette svolgersi quel modo aver allargato il concetto riunendo istituzioni, che potevano apparire disparate, e dimostrando, che l'opera dei decemviri fu in questa parte indirizzata a dare carat tere giuridico ad istituzioni, che avevano solo un'esistenza di fatto presso la comu nanza plebea. (1) Sarebbe infatti pressochè incomprensibile, che un popolo nelle condizioni eco nomiche, in cui trovavasi allora il Romano, e del quale una parte aveva già attra versato, e non inutilmente, tutto un periodo di organizzazione sociale, potesse igno rare contratti, come l'emptio venditio, la locatio conductio, e simili. Essi dovevano certamente esistere, quand'anche non fossero per avventura penetrati nel diritto qui ritario. Cfr. MUIRHEAD, Histor. Introd., COGLIOLO, Prefazione, pag. XI, alla traduzione del GOODWIN, Le XII Tavole, eseguita dal Gaddi, Città di Ca stello, 1887. È poi noto, che la disposizione della legge decemvirale, per cui la ven dita non è perfetta, che col pagamento del prezzo, è anche coinune alla Grecia; il che dimostra, che dovette essere determinata da comuni necessità, in quanto che la vendita seguiva talora fra persone, che appartenevano a genti e a comunanze diverse, e non sarebbe stato facile riavere la cosa, quando non ne fosse stato pagato il prezzo. (2 ) Anche l'istituto della fiducia è uno dei più antichi e dovette nascere nella comunanza plebea, perchè fuorusciti ed immigranti senza posizione giuridica non potevano ricorrere che a quella. Si spiega pertanto il largo uso, che se ne fece nel diritto primitivo di Roma, in quanto che vi si ricorre nel testamento, per la nomina di un tutore, per la concessione di un pegno e forse in molti altri casi ancora, che dovettero verificarsi pel costume e non penetrarono nel diritto quiritario propria mente detto. Ciò è dimostrato dalla frequenza, con cui nei poeti latini e sopratutto nei comici occorre il caso, in cui una persona, allontanandosi, affida il patrimonio e la figliuolanza (mandat familiam pecuniamque suam ) ad una persona di sua confi denza. Questo costume è anzi il perno, intorno a cui si aggira il Trinummus di PLAUTO. 185 - semplicissimo di fare testamento, che ci venne più tardi ancora de scritto da Gaio nelle sue forme primitive ed arcaiche, e che dovea servire più tardi come base al testamento quiritario per aes et li bram, per cui il plebeo, che muore senza figliuolanza, affida ad un amico il suo patrimonio e le sue sostanze, indicandogli la maniera in cui dovrà poi distribuirli, quando egli sarà morto. Del resto è questo il modo che ancora oggidi torna opportuno all'emigrante, che, trovandosi in pericolo di vita ed essendo lontano dalla patria e dalla famiglia, affida ad un amico, che avrà la fortuna di tornare in patria, tutto ciò, che egli ha potuto risparmiare, perchè lo riporti a coloro, che gli sono cari. Che anzi, dacchè siamo nella ricostruzione di quest'ordine di idee, parmi che a questo modo pri mitivo di fare testamento si rannodi senz'alcun dubbio quella istitu zione del fedecommesso, che, mantenutasi per certo nel costume, senza poter penetrare nella cerchia rigida del diritto civile romano, fini tuttavia per trionfare negli inizii dell'Impero e trionfo, perchè popu lare erat (1). Quel testamento quindi, che per un capo di famiglia patrizia doveva essere fatto coll'approvazione dell'assemblea della tribù dapprima, e poi davanti ai comizii della città e serviva sopra tutto a perpetuare l'heredium nelle famiglie, e ad impedire che il patrimonio uscisse dalla gente; per i membri invece della comunanza plebea non poteva essere che un atto di fiducia, un rimettersi, (1) Il testamento primitivo, a cui accennanoGaio, Comm. II, 102, ed anche Gellio, XV, 27, 3, è una specie di mancipatio cum fiducia, in virtù della quale una persona « si subita morte arguebatur, amico familiam suam, id est patrimonium suum,mancipio dabat, eumque rogabat, quid cuique post mortem suam dari vellet ». Ciò indica che la prima forma, sotto cui comparve il vero testamento, quello che poi si svolse nel testa mento per aes et libram, fu il fedecommesso,malgrado tutte le difficoltà che il mede simo incontrò poi per passare dal costume nel diritto civile romano. È poi degno di nota, che i Romani più tardiritennero di aver ricevuto dai peregrini questa istituzione del fedecommesso, che certo già esisteva nella primitiva comunanza plebea. Gaio in fatti, Comm. II, 285, scrive: « ut ecce peregrini poterant fidem commissam facere et ferre: haec fuit origo fideicommissorum »; il che mi conferma nell'induzione, che il primitivo diritto plebeo, di fronte al diritto già elaborato delle genti patrizie, dovette compiere quello stesso ufficio, che più tardi il diritto delle genti verrà a compiere di fronte al diritto civile di Roma. Che il fedecommesso poi, ancorchè non accolto nel diritto quiritario, abbia sempre continuato a mantenersi nel costume, è provato ad evidenza dai comici latini. Fra gli altri esempi basti il seguente tolto dall'Andria di TERENZIO, I, 5: « Bona nostra tibi permitto et tuae mando fidei ». È da vedersi in proposito l’Henriot, Mours jurid. et judic., I, pag. 411 e segg. 186 che altri faceva ad un amico o ad congiunto, acciò egli distribuisse le sue cose per il tempo, in cui avrebbe cessato di vivere. 150. Lo stesso infine è a dirsi dei modi di procedere contro il debitore in questo primitivo diritto plebeo. Sarebbe inutile cercarvi la forma solenne dell'actio sacramento, che era nata e si era svolta fra capi di famiglia, che sentivano la loro superiorità ed indipen denza; ma è più facile che trovisi fra la plebe l'uso della manus iniectio, ed anche quello della pignoris capio, istituzioni che sa rebbero incomprensibili fra capi di famiglie patrizie, ove sono già penetrati il fas ed il ius, ed hanno escluso, almeno nei rapporti fra i capi famiglia, l'uso di farsi ragione colla forza e l'esercizio della pignorazione privata (1). Così pure è naturale, perchè conforme alle condizioni della plebe, che in essa ancora si rinvengano le traccie della privata vendetta, del taglione, come pena di colui che ha recato un danno, della composizione a danaro per un furto sofferto, e perfino anche per un adulterio;perchè queste sono tutte istituzioni, che sono consentanee col modo di agire e di pensare di una comunanza plebea, mentre ri pugnerebbero all'organizzazione gerarchica e di carattere religioso, che era così fermamente stabilita presso il patriziato (2). La plebe (1) L'origine plebea dell'actio sacramento è esclusa dal carattere religioso inerente alla medesima ed anche dalla circostanza, che noi la troviamo comune alle genti italiche ed elleniche, come lo dimostra la descrizione, che ne troviamo in OMERO, Iliade, Canto XVIII, ove descrive lo scudo di Achille, il che può indurre a credere, che essa fosse già importata dall'Oriente. Quanto alla manus iniectio, essa poteva esistere fra la plebe, come esercizio privato delle proprie ragioni; ma non poteva avere la significazione giuridica, che vi attribuì il patriziato. In questo senso ritengo, che la manus iniectio fosse una procedura usata dai padri contro i debitori plebei, il che cercherò di provare nel capitolo seguente. (2) Questa varia concezione del delitto presso ceti di persone, che erano in con dizioni sociali compiutamente diverse, può essere facilmente compresa. Il patrizio sente di far parte di una corporazione religiosa e civile ad un tempo, e quindi può scorgere nel delitto un'offesa al costume dei maggiori, una violazione del fas, ed un danno alla comunanza: non così il plebeo, che è ancora soltanto un individuo, o un capo di famiglia, pressochè isolato in una comunanza in via di formazione. È quindi naturale, che egli nel delitto senta sopratutto il danno materiale che gliene deriva, che consideri la noxa (colpa ) come una noxia (danno): che quindi reagisca contro quel danno; ricorra al taglione; venga alla composizione a danaro; e così riverberi in modo più schietto l'impressione, che dovette fare il delitto nelle epoche primitive. Quegli vede già ogni cosa attraverso al gruppo di cui fa parte, e quindi comincia 187 primitiva nel delitto sente sopratutto il danno e reagisce contro di esso; mentre il patriziato già vi scorge un peccato contro la divinità e già comincia a ravvisarvi un danno, che colpisce l'intiera comu nanza. Tutte le istituzioni insomma, che non presuppongono una lunga preparazione anteriore, che non hanno una storia nel passato, ma che trovano direttamente la propria radice nelle tendenze naturali dell'uomo e nei bisogni immediati di una comunanza, che è soltanto in via di formazione, e in cui entra ad ogni istante un nuovo ele mento, che si viene aggregando, debbono essere ritenute di origine plebea. Non chiedansi alla plebe nè i iura gentium colle cerimonie solenni, da cui sono circondati, né le procedure, che contengono una storia del passato, nè gli auspicia, che ad ogni atto pubblico e pri vato imprimono un carattere religioso;ma solo chiedasi ad essa il senso di quel ius naturale, quod natura omnia animalia docuit. Sarà anzi questo connubio di un elemento onusto di tradizioni con un altro vergine di esse, che potrà rendere possibile la formazione di un di ritto, che finirà per dar forma giuridica a tutta l'immensa suppel lettile dei rapporti derivanti dalla civil convivenza. Come quindi esistevano, fin dagli inizii di Roma le traccie del ius gentium; cosi vi erano anche quelle del ius naturale, non come idea filosofica, pre sente alla mente di un giureconsulto, ma come un complesso di forze e di energie inerenti all'umana natura, che spingevano una comu nanza in via di formazione a provvedere a tutti i bisogni e a tutte le esigenze, che si venivano presentando. Per talmodo ciò che più tardi verrà ad essere nozione astratta, negli inizii è forza ed energia, che spinge, come direbbe il Vico, l'uomo ad celebrandam suam so cialem naturam. Basta questo per dimostrare, come anche negli usi della plebe potesse esistere un materiale greggio, che potè a poco a poco ricevere forma giuridica nel diritto quiritario. Per tal modo certe istituzioni, che compariscono solo più tardi, poterono già esi stere, come usi, da un'epoca ben più antica. Cid serve intanto a spiegare come nel diritto quiritario non trovisi dapprima una quan tità di atti e di negozii, senza cui sarebbe stato impossibile ogni com già a scorgere nel delitto un'offesa collettiva; mentre questi non sente ancora che il danno privato, che possa derivargliene. È questa la ragione, per cui i delitti nel diritto quiritario si presentano dapprima col carattere di offese private, e solo a poco a poco si convertono in delitti pubblici. Cfr. Voigt, Die XII Tafeln, I, pag. 434. 188 mercio per un popolo, le cui istituzioni giuridiche e politiche già dimostrano assai progredito. Qui intanto, per non spingere questa ricostruzione a particolari troppo minuti, arresterò l'attenzione alle due istituzioni fondamentali del diritto privato, che sono la famiglia e la proprietà. 151. Se noi consideriamo la plebe riguardo all'organizzazione della famiglia, quale è giudicata dai patrizii, noi troviamo che essa non ha le iustae nuptiae,madei semplici matrimonia, quasi ad in dicare che i plebei potevano bensi indicare le loro madri, ma non potevano indicare con certezza i loro padri. Al qual proposito si deve ammettere col Muirhead, che, trattandosi di persone, alcune delle quali erano di origine servile, potesse anche esistere una certa qual rilassatezza nelle unioni matrimoniali dell'infima plebe. Non sembra tuttavia, che la congettura possa spingersi fino al punto, a cui la spinge il Bachofen, secondo il quale, fra gli elementi che entra vano a costituire la plebe, avrebbero dovuto esservene di quelli (e sarebbero quelli di origine etrusca, abitanti nel vicus Tuscus) i quali avrebbero solo conosciuta la parentela dal lato delle femmine, e si sarebbero cosi trovati nella condizione del matriarcato (1 ). Senza affermare, nè negare il fatto, perchè mancano gli elementi per decidere, credo pero didovere osservare che, quando questo fosse stato, ne sarebbero rimaste maggiori traccie ed indizii. Il vocabolo dima trimonia per sè significa soltanto, che la plebe riconosceva la pa rentela dal lato di madre, ossia la cognazione, mentre l'organizza zione della famiglia patrizia fondavasi esclusivamente sul vincolo dell'agnazione. Quindi quello solo, che noi possiamo affermare con certezza, si è che nella plebe primitiva quanto che serve talora ad indicare leesisteva una famiglia, costi tuita sulle sue basi naturali, cioè fondata sulla cognazione e sulla affinità. Ed è anche facile trovare la ragione di questo fatto, la quale consiste in questo, che la famiglia plebea, appunto perchè non era ancora entrata a far parte dell'organizzazione gentilizia, cosi non aveva ancora potuto subire quell'artificiale ordinamento, che veniva ad essere necessario per una famiglia, che doveva servire di convivenza domestica e politica ad un tempo. Era quindi naturale, che la plebe, non avendo l'organizzazione gentilizia fondata sull'a (1) Cfr. Muirhead, Histor. Introd., pag. 34 e 35; e il Bachofen, Das Mutterrecht Stuttgart, 1861, pag. 92. 189 gnazione, cercasse modo di rafforzarsi mediante vincoli più natu rali e più facili a comprendersi, quali sono appunto quelli della co gnazione e dell'affinità. Non è quindi il caso di contrapporre alla famiglia patriarcale una famiglia matriarcale; ma solo di dire, che la plebe, non avendo la famiglia fondata sull'agnazione, aveva in vece quella fondata sulla cognazione, in quanto che quella potrà aver valore per le genti dalle antiche tradizioni, mentre questa pud essere capita e sentita da chicchessia. 152. Qui però si potrebbe opporre che, così essendo, male si com prende come nel diritto quiritario a vece della famiglia, fondata sul vincolo del sangue, che certo dal nostro punto di vista avrebbe do vuto essere preferita, abbia invece avuta prevalenza la famiglia, fon data sull’agnazione, e come solo più tardi la cognazione sia riuscita a correggere almeno in parte la famiglia primitiva romana. Cid tuttavia può essere facilmente compreso, quando si consideri, che la città, in cui trattavasi di entrare, era stata fondata dai patrizii; che questi erano i forti ed i ricchi, mentre i plebei erano, almeno negli esordii, i deboli ed i poveri; che quelli avevano una posizione di diritto, e che questi erano solo tollerati per la loro posizione di fatto. Era quindi naturale, necessario, che la plebe, sopratutto quando fu for temente compenetrata dall'elemento latino, la cui organizzazione domestica era analoga a quella delle genti patrizie, si sforzasse di imitare anche in questa parte il patriziato, e che anzi col tempo le famiglie plebee, che erano pervenute al ius imaginum, si sforzassero di imi tare perfino l'organizzazione per gentes in un'epoca, in cui essa åveva già certamente perduto della propria importanza. 153. Del resto è incontrastabile, che di questo fondamento cognatizio della famiglia plebea rimasero delle traccie nella legislazione pri mitiva di Roma, sopratutto in quelle istituzioni domestiche, che dovettero probabilmente essere di origine plebea. Così, ad esempio, è notabile che la legislazione decemvirale, mentre assegna la suc cessione legittima e la tutela legittima agli agnati, lascia invece al gruppo dei cognati e degli affini (cognati et adfines ) il diritto ed il dovere di proseguire e porre in accusa l'uccisore di un parente, quello di appellare da una sentenza capitale pronunziata contro un congiunto: disposizioni, che possono considerarsi come sopravvivenze 190 e quasi accenni di vendetta privata, la quale, come si è visto sopra, sussisteva sopratutto in seno alla plebe (1). Insomma la conclusione ultima sarebbe questa, che Roma, fin dai suoi esordii, non ignorò la famiglia fondata sulla cognazione e la possedette anzi sotto la umile apparenza di un'istituzione plebea; che tuttavia questa famiglia naturale, nel periodo di formazione del di ritto civile di Roma, fu in certo modo soverchiata dalla famiglia agnatizia, propria del patriziato; e solo riusci di nuovo più tardi, comemolte altre istituzioni, a rientrare in modo indiretto nella cer chia del diritto romano, sotto la protezione del pretore e del diritto delle genti. Nè questa è conseguenza di poca importanza, perchè colla famiglia si connette tutto il sistema della successione e della tutela legittima, le quali perciò penetrarono eziandio coll'organizza zione gentilizia della famiglia nel diritto quiritario. Cid intanto spiega eziandio, come in via di reazione nello stesso diritto quiritario abbia preso così largo svolgimento l'istituzione del testamento, perchè questo era il solo mezzo per sottrarsi alle conseguenze di un sistema di successione legittima, ispirato ancora al concetto di serbare in tegro il patrimonio nelle gentes; sistema, che una piccola minoranza di genti patrizie era riuscita ad imporre ad un numero assai mag giore di famiglie, e che col tempo, col dissolversi della organizza zione gentilizia, fini per divenire grave allo stesso patriziato. 154. Per quello poi, che si riferisce alle condizioni economiche della plebe, è assai probabile che la medesima, prima di giungere ad una vera proprietà di diritto, abbia cominciato dall'occupare di fatto quella parte di suolo, sovra cui i plebei venivano a stabilirsi nelle vicinanze di Roma insieme colla propria famiglia. Dapprima queste possessioni figuravano, od erano in effetto assegni loro fatti o dai padri o dal re come loro patroni, od erano anche terreni incolti, sovra cui si arrestava la famiglia plebea, per fondarvi il proprio tugurium e dissodarvi attorno un piccolo ager. Questo stato primitivo di cose può essere indotto da alcuni passi di Festo, che si riferiscono a questi primitivi possessi ed all'occu pazione di agri, che, per mancanza di coltivatori, fossero stati ab bandonati. Egli infatti scrive: Possessiones appellantur agri late patentes, publici privatique, quia non mancipatione sed usu (1) Cfr. MUIRHEAD, Histor. Introd., tenebantur, et ut quisque occupaverat, colebat (1). Qui infatti è evidente, che non si parla solo di possessioni nell'agro pubblico, ma anche di possessioni di carattere privato, e furono queste, che do vettero appunto essere le prime possessioni della plebe. Ciò è pure confermato dallo stesso Festo, ove scrive: occupaticius ager di citur, qui desertus a cultoribus frequentari propriis, ab aliis occupatur (2), indicando cosi l'esistenza di una consuetudine, per cui, se l'agro era abbandonato dai suoi cultori, ne sottentravano degli altri. Del resto che le possessioni dovessero acquistarsi in questo modo, in seno alle comunanze plebee, lo dimostra l'importanza, che presso di esse acquistò l'usus auctoritas. Tale importanza appare dal fatto, che secondo le leggi decemvirali bastava il possesso di un anno per l'acquisto delle cose mobili e quello di due anni per quello delle immobili; disposizione questa, che dovette uscire dagli usi proprii della plebe. Mentre infatti, presso le genti patrizie, tutto era governato dal mos e dal fas; in una comunanza plebea, che era soltanto nella propria formazione, non poteva esservi altra autorità, che quella dell'usus, e doveva apparire proprietario quegli, che in effetto usucapiva la cosa od il fondo, del quale si trattava. La pro prietà non poteva ancora in questa condizione di cose distinguersi affatto dal possesso, e quindi si comprende che il giureconsulto più tardi ancora dicesse: dominium rerum ex naturali possessione cae pisse, Nerva filius ait; eiusque rei vestigium remanere de his, quae terra, mari, coeloque capiuntur; nam haec protinus eorum fiunt, qui primi possessionem eorum apprehenderint (3). Si com prende parimenti, comein una comunanza di questa natura, che dap principio era costituita da una massa mobile ed eterogenea, dovesse ri. tenersi sufficiente il breve termine di un anno per l'usucapione delle cose mobili, e di due anni per l'usucapione di quelle immobili; e cið nell'intento di poter trasformare con celerità lo stato di fatto in stato di diritto, il possesso in proprietà. Se in una comunanza già formata importa di allungare il termine dell'usucapione, acciò essa non serva come mezzo per usurpare il diritto esistente; in una co (1) V. Festo, v° Possessiones (Bruns, Fontes, pag. 354): la qual definizione è ri portata tal quale anche da Isidoro (BRUNs, pag. 411). (2 ) V. Festo, Occupaticius. Di qui già il RUDDORF ebbe ad indurre che l'ager occupatorius non doveva confondersi coll'ager occupaticius (Bruns, Fontes, pag. 348, nota 6). Vedi per l'opinione contraria Karlowa, Röm. R. G., I, pag. 95. (3 ) Paulus, L. 1, § 1, Dig. (41, 2 ). 192 munanza invece, la quale sia in via di formazione e attragga in sé nuovi elementi, importa di abbreviare il termine di tale usuca pione, acciò lo stato di fatto mutisi al più presto in uno stato di diritto. Con tale sistema una famiglia plebea, quando fermava il piede sopra un suolo incolto od abbandonato (possessio, da pedum quasi positio) aveva appena tempo a metterlo in coltivazione, che già ne diventava proprietaria ex iure quiritium, e intanto, appena un posto rimaneva vacante, veniva ad esservi quello, che lo occu pava, e dopo breve tempo era considerato ancor esso come legittimo proprietario. Certo non poteva esservi un migliore sistema per po polare immediatamente il territorio circostante a Roma, e per popo larlo di famiglie che, affezionandosi al suolo, finissero per prendere interesse alla grandezza e all'avvenire di quella città patrizia, sotto la cui protezione e tutela la plebe aveva potuto diventare anch'essa proprietaria del suolo (1 ). Ciò però non dovette accadere di un tratto; ma solo a misura che i commerci fra Roma patrizia e la popola zione circostante conducevano alla formazione di un comune diritto. 155. Fu quindi solo col tempo, che queste possessioni, tollerate dai padri, od anche dai medesimi o dal re assegnate ai plebei a titolo di precario, poterono cambiarsi in una specie di proprietà di fatto più che di diritto, sovra cui essi vivevano colla propria famiglia. Intanto questo piccolo podere coi frutti, che se ne potevano ricavare e che portavansi al mercato, porgeva anche alla plebe occasione di entrare in commercio col patriziato. Si comprende quindi, che quando le cose furono a tal punto, che i re sentirono la conve nienza di aggregare la plebe alla cittadinanza romana, anche per afforzare l'esercito della città patrizia, dovesse sorgere naturalmente l'idea, attuata poi da Servio Tullio, di ammetterli alla comunanza, in quanto erano capi di famiglia, e avevano uno spazio di terra, sovra cui potevano vivere colla propria famiglia. Siccome poi la plebe non conosceva altra proprietà, che la privata, o meglio quella, che ap (1) Trovo in Gellio, Noc. Att., XVI, 11 un passo, che dimostra come i Romani comprendessero l'importanza, che aveva la proprietà per interessare la plebe alle sorti della Repubblica: « Sed quoniam res pecuniaque familiaris obsidis vicem pignorisque esse apud rempublicam videbatur, amorisque in patriam, fides quaedam in ea, firmamentumque erat ». Fu questo, aggiunge Gellio, il motivo, per cui i prole tarii, e i capite censi, solo tardi e quando non se ne potè fare a meno, furono chia inati a far parte dell'esercito. 193 partiene al capo di famiglia, non aveva agro gentilizio, e non doveva neppure dapprima essere ammessa ad immettere i proprii greggi nell'ager compascuus della tribù, al modo stesso che più tardi non fu ammessa all'occupazione dell'ager publicus, la quale occupazione dapprima ritenevasi come un privilegio dell'ordine pa trizio; cosi ne derivò la conseguenza, che l'unica proprietà, che poteva essere riguardata come posta a base della comunanza patrizio-plebea, perchè era la sola, che fosse comune ai due or dini, era la proprietà privata. Cid può servire a spiegare il fatto, che da Servio Tullio in poi quasi più non si discorre degli agri gentilicii, che pur continuavano sempre ad appartenere alle genti: ma solo più dell'ager privatus, delmancipium, dei praedia censui censendo, e dell'ager publicus. Questi sono l'unica proprietà della plebe; mentre l'occupazione dell'agro pubblico è una gran sor gente della ricchezza del patriziato. Quindi si comprende l'affetto tenace, con cui la plebe si attacca alla propria terra, il suo sotto porsi al duro vincolo del nexum, piuttosto che alienarla, e la lotta, che essa sostiene per ottenere quelle ripartizioni dell'ager publicus, che le porgevano mezzo di entrare nella vera cittadinanza di Roma. Intanto siccome questa proprietà e il commercio, che derivava da essa, erano gli unici diritti, che la plebe avesse comuni col patri ziato: così viene eziandio a spiegarsi, come gli atti tutti del primitivo diritto quiritario assumano un carattere essenzialmente mercantile, e siano tutti fatti entrare forzatamente sotto le figure del nexum e del mancipium, come meglio apparirà più tardi. 156. Dalle cose premesse si può raccogliere la conclusione se guente, quanto ai rapporti, che intercedono fra il patriziato e la plebe negli esordii della comunanza romana. Per quanto debba ri tenersi, che il primo nucleo della plebe siasi costituito mediante ele menti,che si vennero staccando dalla stessa organizzazione gentilizia, perchè più non potevano essere compresi nei quadri della medesima; tuttavia la plebe, avendo richiamati a sè tutti coloro, che si trovarono spostati nell'anteriore organizzazione, crebbe per modo in numero ed importanza da costituire di fronte alla città patrizia una vera e propria comunanza plebea, che doveva di necessità essere presa in considerazione. Siccome tuttavia la plebe è fuori di quella organiz zazione, che è l'unica riconosciuta dal patriziato; così essa viene dapprima ad essere lasciata a se stessa ed è considerata come una moltitudine ed una folla, la quale ha bensì una esistenza G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 13 194 di fatto, ma che è priva di qualsiasi posizione giuridica di fronte al patriziato. Di qui il dualismo fra i due ordini, che, nato già nella tribù, viene a costituire il gran dramma della comunanza civile e politica. In questa infatti son chiamati a convivere due elementi: di cui uno ha una posizione di diritto, ha la città, ha gli auspicii, le magistrature, gli onori; mentre l'altro non ha che una posizione di fatto, più tollerata che riconosciuta, e non può fare as segnamento, che su quello spazio di terra, sovra cui si è stabilito colle proprie famiglie, ed è solo poggiandosisopra di esso, che potrà entrare a fare parte della comunanza. Per quello poi, che si riferisce alle loro istituzioni religiose, giu ridiche e politiche, non corre una minore differenza fra i due or dini. Mentre il patriziato è nei vincoli delle tradizioni e del culto dei suoi antenati, dei concetti, che forse ha recati dallo stesso Oriente, e trovasi fra le strette dell'organizzazione gentilizia, che dopo aver fatta la sua forza, comincia ora ad impedirne il naturale sviluppo e a cambiarlo in un'aristocrazia chiusa in se stessa; la plebe invece ha l'inconveniente, ma al tempo stesso il vantaggio di en trare nella vita politica, senza la memoria dei maggiori ed il culto di essi, senza essere vincolata dalle proprie tradizioni, e trovasi cosi in condizione di ubbidire al proprio interesse, alle proprie esi genze, ai bisogni e alle necessità della nuova organizzazione so ciale. A ciò si aggiunge, secondo la profonda osservazione del Kar lowa, che nell'uomo della plebe per la prima volta compare la nozione per cui l'uomo libero, sciolto da ogni vincolo sociale e gen tilizio, deve essere riguardato come persona, ossia come capace di diritto e di obbligazioni; per guisa che anche il maggior concetto, a cui abbia saputo elevarsi il diritto romano, che è quello di rico noscere l'uomo libero come capace di diritto, ebbe in parte a svol gersi sotto l'influenza dell'elemento plebeo (1). 157. Per tal modo Roma si trovò di fronte al problema di far convivere nelle stesse mura, e di sottoporre all'impero delmedesimo (1) KARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, I, pag. 64. L'autore, che ebbe giusta mente a notare che il più alto concetto, a cui giunse il diritto privato di Roma, è quello che l'uomo libero, come tale, sia capace di diritto, è il compianto Bruns, Geschichte und Quellen des römisches Recht's, $ 3, in HoltZENDORFF's, Encyclo pädie, I, pag. 105, 4.ed. — È da vedersi in proposito il Brugi, Le cause intrinseche della universalità del dir. rom., Prol., Palermo, 1886. 195 diritto due ordini, di cui uno era ricco di tradizioni e stretto nei vincoli del passato, mentre l'altro, per le speciali sue condizioni di fatto, non aveva per sè che il presente e sopratutto l'avvenire. Il problema per la plebe era quello di mutare la sua posizione di fatto in una posizione di diritto, e per il patriziato quello di dare alla plebe un diritto e di farla entrare nei quadri della sua città, senza comunicarle che gradatamente quel fascio di tradizioni reli giose, giuridiche e morali, di cui esso era gelosissimo conservatore. Certo il problema era di difficile risoluzione, ma la logica giuri dica di Roma seppe risolverlo in un modo, che può veramente dirsi meraviglioso. La conseguenza venne ad essere questa, che il di ritto, che venne formandosi in Roma, si presenta antico sotto un aspetto e nuovo sotto un altro. È antico nei concetti, nelle forme, nei vocaboli stessi, che già tutti esistevano precedentemente ed erano stati elaborati dal patriziato nel periodo dell'organizzazione genti lizia; ma è nuovo in quanto che nelle forme antiche penetra uno spirito nuovo e si fa entrare tutta una nuova vita civile e poli tica, che più non poteva essere contenuta nei quadri dell'organiz zazione gentilizia. Nella formazione di questo diritto tutto ciò che è di forme solenni, di concetti già elaborati, di istituzioni aventi carat tere religioso e morale, viene ad essere di origine patrizia; mentre tutto ciò, che trova origine nel semplice usus, nella semplice pos sessio, nel fatto più che nel diritto, e non è avvolto ancora in forme solenni e tradizionali, deve ritenersi piuttosto di origine plebea. La distanza stessa poi, a cui trovavansi i due elementi, che dovevano entrare a far parte della medesima città, obbliga il diritto quiritario a prendere le mosse nella propria formazione dai concetti elemen tari della proprietà e della famiglia, che erano i soli, che fossero comuni ai due ordini, per venire poi all'elaborazione lenta e graduata di tutti gli altri istituti giuridici. Per tal modo nella formazione del diritto pubblico e privato di Roma noi abbiamo un nucleo co piosissimo di tradizioni, di concetti e di vocaboli, già preparati in un periodo anteriore, che viene in certo modo a fondersi nel cro giuolo della comunanza civile e politica, per guisa che, precipitando e cristallizzando lentamente e gradatamente, finisce per dare origine ad un diritto, del quale si può dire con ragione, che si è formato rebus ipsis dictantibus et necessitate exigente. Solo resta a spiegare, come in questa condizione di cose siasi de. terminata la prima formazione del diritto quiritario nello stretto senso, che suol essere attribuito a questo vocabolo. 196 CAPITOLO X. Le prime origini del Jus Quiritium nei rapporti fra patriziato e plebe. 158. Non può certamente negarsi, anche da uno schietto ammi ratore della logica, che ha governata la formazione e lo svolgimento del diritto privato di Roma, che esso nei proprii esordii presentasi con un carattere di rozzezza e di violenza, che desta un'impressione sfavorevole e pressochè di ripugnanza, e spiega anche l'affermazione di coloro, che ebbero a considerarlo, come l'opera esclusiva della forza. Tale impressione è prodotta specialmente da certi vocaboli e concetti, che occorrono nel primitivo jus quiritium: vocaboli, che portano con sè l'impronta della forza e della violenza. Fra questi vocaboli non deve essere annoverato quello di manus, che nel di ritto quiritario significò il potere spettante al capo di famiglia sulle persone e sulle cose, che da esso dipendono, in quanto che questo vocabolo se da una parte indica la forza e la potenza, che si impone; dall'altra può anche significare la protezione e la difesa, che la manus accorda a tutti coloro, che da essa dipendono. Si aggiunge, che questo vocabolo di manus o qualche altro, che corrisponda al me desimo, sembra essere stato adoperato nella stessa significazione dalle altre stirpi di origine ariana (1). Sonvi invece nel primitivo ius quiritium altri vocaboli, come quelli di mancipium, di nexum, di manus iniectio, che non solo si ispirano al concetto della forza, (1) È abbastanza noto in proposito che alla manus del capo di famiglia romano corrisponde anche nella sua significazione materiale il mund ed il mundium del capo di famiglia germanico; il che però non toglie che i due istituti abbiano rice vuto un diverso svolgimento presso i due popoli, sopratutto per ciò che si riferisce al potere del padre sui figli. V. in proposito: VIOLLET, Histoire du droit français, Paris, 1886, pag. 412, cogli autori citati a pag. 447. Del resto fra il primitivo diritto romano e il primitivo diritto germanico vi hanno ben altre istituzioni, che si corrispondono, e fra le altre potrebbesi forse fare un interessante raffronto fra il ius applicationis dei Romani, e il comitatus e la commendatio presso i popoli Germanici. 197 ma, applicandosi anche alle persone, sembrano recare con sè l'idea di soggezione e di dipendenza di una persona da un'altra. È quindi assai difficile a spiegarsi, come mai dal mos e dal fas delle genti patrizie, e dall'usus, che veniva formandosi nel seno della plebe, abbiano potuto scaturire concetti di questa natura, a cui manca non solo quell’aureola religiosa, da cui sono circondate le istituzioni gentilizie, ma perfino quel carattere di fiera indipendenza, che con traddistingue le istituzioni primitive dei popoli italici. 159. Ritengo tuttavia, che questa apparente contraddizione fra questi concetti del primitivo ius quiritium e gli elementi, che avreb bero contribuito alla sua formazione, possa essere spiegata, quando si ammetta la congettura, a cui ho accennato più sopra parlando dell'actio sacramento e della manus iniectio, e sulla quale importa qui di insistere più lungamente. La congettura sta in questo, che nelle istituzioni del diritto quiritario vene hanno alcune, che si erano formate nei rapporti fra i capi delle famiglie patrizie, e perciò nel seno stesso delle genti e delle tribù; ma ve ne hanno eziandio delle altre, le quali dovettero invece formarsi ed assumere un contenuto preciso nelle lotte e nei conflitti fra la classe dei vincitori e quella dei vinti. Il ius quiritium primitivo non governo solo rapporti fra capi di famiglia uguali fra di loro e appartenenti alla stessa tribù; ma dovette eziandio reggere i rapporti fra le genti organizzate nella tribù e la moltitudine e la folla, per la maggior parte di origine servile, che ancora circondava i primitivi stabilimenti patrizii. Quindi se era naturale, che la prima parte del ius quiritium portasse le traccie della fiera indipendenza di quei capi di famiglia, dei quali nemo servitutem servivit; la seconda invece doveva portare quelle della soggezione, a cui era ridotta la classe inferiore. Non può cer. tamente presumersi, che questi due ordini di persone potessero en trare in rapporti giuridici fra di loro, sopra un piede di assoluta eguaglianza. Quindi mi sembra naturale, che il primitivo ius qui ritium, a somiglianza del diritto feudale, che ebbe poi a formarsi in una condizione di cose non dissimile da questa, debba in qualche parte portare le traccie della superiorità, che si attribuivano i vincitori, i conquistatori, i primi organizzatori di una convivenza sociale, e dell'abbiezione invece, a cui erano ridotti i vinti, i con quistati e quelli, che, non essendo ancora pervenuti ad una organize zazione sociale, abbisognavano perciò di protezione e di difesa. 198 160. Questo è certo che anche più tardi noi troviamo una disu guaglianza di condizione giuridica fra Roma e le popolazioni, da cui essa è circondata; come lo dimostra ancora l'accenno, che più tardi è fatto dalla legislazione decemvirale dei forcti ac sanates, ai quali, secondo Festo, sarebbe stato accordato unicamente il ius nesi man cipiique. Da questo peculiare rapporto giuridico, che intercede fra Roma e le popolazioni circostanti, mi sembra di poter dedurre con fondamento, che quel nexum e quel mancipium, che poscia vennero a significare dei rapporti privati fra i cittadini, abbiano potuto un tempo indicare dei rapporti, che correvano fra le genti patrizie e le popolazioni di diritto inferiore e pressochè vassalle, che abitavano nel territorio circostante a Roma. Che anzi qui mi pare opportuno di dare svolgimento ad un concetto, che fino ad ora potè solo essere accennato, ma non svolto. Il medesimo consiste in ritenere, che la condizione primitiva della plebe, di fronte alla città patrizia, dovette essere analoga a quella, in cui ci vengono descritti posteriormente i forcti ac sanates, in base alla legislazione decem virale. È un magistero eminentemente romano quello di seguire sempre il medesimo processo, allorchè si avverano le stesse condizioni di fatto. Ora non è dubbio, che la plebe in Roma primitiva era costituita da popolazioni circostanti, superiori ed inferiori a Roma, in condi zioni quasi del tutto simili a quelle, in cui Festo ci descrive essersi poscia trovati i forcti ac sanates. È quindi naturale e del tutto pro babile, che Roma abbia fatto dapprincipio alle popolazioni, che lo erano più vicine, e che costituivano così la prima plebe, la posizione stessa, che fece poi ai forcti ac sanates; che cioè abbia loro rico nosciuto dapprima il ius nexi mancipiique, il diritto cioè di obbli garsi, di acquistare e di trasferire la proprietà nei modi riconosciuti dal suo stesso diritto. Ciò era necessità, perchè fossero possibili i commercii fra patriziato e plebe; e intanto spiega eziandio, come i primi concetti, che compariscano nel diritto quiritario, comune ai due ordini, siano appunto quelli del nexum e delmancipium, i quali perciò, al pari di quello del commercium, al quale corrispondono, si svolsero dapprima fra popolazioni diverse, e poi furono portati nei rap porti interni fra i membri di una stessa città. Roma patrizia insomma avrebbe in questa parte usato il più semplice dei processi. Dapprima avrebbe considerata la plebe come una popolazione circostante alla città, con cui non poteva a meno di essere in commercio, e perciò avrebbe accordato alla medesima quel ius nexi mancipiique, che anche più tardi continuò ad accordare ai forcti ac sanates. Quando 199 - poi la plebe fu anch'essa incorporata nella città, e coll'ampliamento delle mura serviane una parte delle abitazioni dei plebei si trovò entro il recinto dell'urbs, quel diritto, che prima governava i rap porti, che intercedevano fra due popolazioni distinte, continud natu ralmente a governare i rapporti dei due ordini, in quanto essi fa cevano parte della stessa comunanza; quello, che era dapprima un diritto esterno, divento diritto interno, e fu il punto di partenza dello svolgimento del ius quiritium. Certo questa non è che una congettura fondata sul processo solitamente seguito dai Romani; ma fornisce una spiegazione così naturale delle cose, e così conforme al metodo romano, che non mi sembra temerità di aggiungerla alle altre, che già si escogitarono al riguardo. Intanto, come ho già altrove avvertito (1), viene eziandio a comprendersi il motivo, per cui questa speciale posizione giuridica dei forcti ac sanates, poscia sia scomparsa per guisa da non sapersi più comprendere il signifi cato della medesima, poichè col tempo anch'essi entrarono a far parte della plebe romana, e quindi mancò ogni ragione per serbare loro questa peculiare condizione giuridica. & neaco (Il solo passo, che a noi pervenne intorno ai forcti ac sanates, è di Festo, ed il medesimo è ancora in tale stato, che fu assaidifficile la ricostruzione di esso. L'OFFMANN, Das Gesetz d. XII Tafeln von den Forcten und Sanaten. Vienna, 1866, ritiene che il passo delle XII Tavole, a cui Festo accenna, vº Sanates (Bruns, Fontes, pag. 664), fosse così concepito: mancipatoque ac forcti sanatique idem iuris esto ». Questa lezione stata adottata dal LANGE, Hist. intér. de Rome, I, pag. 171, fu respinta dal MOMMSEN, sulla conside razione che qui trattavasi di determinare la condizione dei forcti ac sanates in sè considerati, e non di metterli a comparazione coi nexi ac mancipati, dei quali non si saprebbe poi dire, quale potesse essere la speciale posizione giuridica. Il Voigt, Die XII Tafeln, I,pag. 273 e 733, Tab. XI,6, ricostruirebbe invece la legge in questa guisa: e nexum mancipiumque, idem quod Quiritium, forcti sanatisque supra infra que urbem esto »; ma non pare che sia nell' indole della legge decemvirale di en trare in particolari così minuti. Parmi quindi di adottare piuttosto il testo della legge, quale sarebbe accettato dal MOMMSEN; ~ Nexi mancipiique forcti sanatesque idem iuris esto »; il che significherebbe in sostanza ciò, che pure dice il Voigt, che cioè i forcti ac sanates possono obbligarsi e trasferire il proprio mancipium nel modo riconosciuto dal diritto quiritario, cosicchè verrebbe ad essere probabile, che la loro posizione fosse precisamente quella della plebs, allorchè era già ammessa in questi confini al commercium,ma non aveva ancora il connubium. Quanto alle varie lezioni proposte è da vedersi il Mommsen nella nota al Bruns, Fontes, pag. 365; ed anche il MUIRHEAD, Histor. Introd., pag. 111, nota 12, ove proporrebbe la se guente ricostruzione: « nexum mancipiumque forcti sanatisque idem esto »; pure avrebbe la medesima significazione. Non conosco però che altri abbia cercato di. la quale 200 161. Del resto, checchè si possa dire di questa induzione, questo deve certo essere ammesso, che il ius quiritium, il quale, sebbene comparisca con Roma, pud tuttavia avere le sue radici, in epoca di gran lunga anteriore, almeno in parte si formò in un periodo di lotta e di violenza fra gruppi e ceti di persone, che si trovavano in condi zione affatto diversa, in quanto che alcuni di tali gruppi e ceti già erano pervenuti alla formazione di consorzii civili ed umani: mentre gli altri ancora vivevano in uno stato di promiscuità e confusione, che le genti patrizie riputavano nefario. Non può quindi essere mera viglia, se alcuni dei resti, che giunsero fino a noi, portino ancora i segnidelle lotte e dei conflitti, che vi furono fra vincitori e vinti, non che della soggezione e della dipendenza, in cui erano le classi inferiori. Al modo stesso, che i ruderi delle costruzioni primitive di mostrano, colla rozzezza e coll'enormità delle loro proporzioni, quali edifizii in quell'epoca fossero necessarii per ripararsi contro i cataclismi del suolo: così i resti, che ancora ci rimangono del primitivo ius qui ritium, in questi vocaboli, che sono sopravvissuti ai tempi, in cui si sono formati, dimostrano quali specie di vincoli si potessero richiedere per richiamare da una condizione pressochè nefaria, per usare l’es pressione del Vico, le moltitudini e le folle ad celebrandam suam socialem naturam. Gli uomini in questa epoca dovettero sentire l'impotenza loro di fronte ai terrori della sconvolta natura, ai pe ricoli delle fiere, e agli scontri continui con genti di origine stra niera, e quindi non poterono preoccuparsi tanto della loro libertà, quanto sentire il bisogno di ripararsi sotto la protezione di quelle genti, che prime erano riuscite ad organizzarsi e a fortificarsi sotto il potere dei loro capi. Cid spiega come l'antico vocabolo di « iobi lare » abbia potuto significare il gridare salvezza per l'aperta campagna e come i deboli fossero nella necessità di fare appello alla fede ed alla protezione dei forti, e disposti ad accettare la posizione portata dal mancipium e dal nexum, pur di averne la protezione e la difesa. Non era perciò un diritto mite ed umano e pieno di grada zioni delicate e sottili, che poteva nascere in questi inizii dell'organiz zazione sociale, sopratutto nei rapporti fra classi, di cui una era su periore e l'altra inferiore; ma bensi un diritto rozzo e violento, che risentisse in certo modo della lotta, da cui esso usciva, e che da una inferire da questa disposizione la condizione giuridica primitiva, in cui si trovò la plebe di fronte alla città patrizia. - 201 parte avesse l'impronta della superiorità dei vincitori e dei forti e dall'altra dell'abbiezione, a cui erano ridotti i vinti ed i deboli (1). 162. Si comprende quindi come in questo periodo, la manus, armata di lancia, pronta da una parte ad atterrare il nemico, a seguirlo fuggi tivo e a farlo prigioniero di guerra, e dall'altra disposta a difendere tutti i proprii dipendenti, potesse presentarsi come l'espressione più, naturale e più energica ad un tempo per significare il potere giu. ridico, che spetta al capo di una famiglia sopra tutte le persone, che da lui dipendono, e per significare eziandio l'unità della famiglia nei rapporti esteriori. Genti come le italiche, le quali, secondo l'at testazione di Servio, avevano nella loro ingenua personificazione di tutte le energie proprie dell'uomo dedicato ad un nume le varie parti del corpo, cioè l'orecchia alla memoria, la fronte all'ingegno, la destra alla fede, le ginocchia alla pietà e alla misericordia, perchè abbracciano le ginocchia coloro che implorano, non avevano che ad applicare il medesimo processo per dedicare la manus ad espri mere il potere unificatore della famiglia (2). Non era forse la manus che atterrava il nemico e lo faceva prigioniero di guerra e che intanto proteggeva moglie, figli, clienti e servi? Non era essa, che riuniva e stringeva la famiglia nella sua compagine interna, e che serviva a renderla forte e compatta contro le aggressioni esterne? Intanto però è evidente, che la manus, intesa in questo significato, poteva solo spettare a quei capi di famiglia, che avevano serbata intatta la loro autorità di diritto, perchè non erano mai stati sotto (1) Buona parte di questi concetti trovasi accennata qua e là dal Vico; na è avvolta in una forma fantastica, proveniente dall'idea preconcetta di voler conside rare i Romani come i rappresentanti di quell' epoca eroica, che, secondo le sue teorie, avrebbe susseguito quei tempi,che egli chiama divini, e preceduto quelli, che egli chiama umani; idea, che finì per condurlo a considerare come una leggenda tutta la storia primitiva di Roma, fino alla prima guerra Cartaginese. Ciò però non impedisce che le sue divinazioni, anche non essendo vere, se applicate a Roma sto rica, possano contenere del vero, se riportate all'epoca veramente patriarcale ed eroica, che avrebbe preceduta la fondazione di Roma. In proposito è da vedersi il MORIANI, La filosofia del diritto nel pensiero dei Giureconsulti romani, Firenze, 1856, pag. 14 e segg., ove parla dell'origine del diritto e dell'etimologia del vocabolo ius. (2) Servius, In Aen., 3, 607: « Phisici dicunt esse consecratas singulis numinibus singulas corporis partes: ut aurem Memoriae, frontem Genio, dexteram Fidei, genda Misericordiae, unde haec tangunt rogantes. Iure pontificali, si quis flamini genua fuisset amplexus, eum verberari non licebat ». 202 posti a servitù, e primi erano pervenuti a fondare una vera organiz zazione sociale. Il concetto quindi di manus, in quanto è l'unificatore della famiglia e dà alla medesima la compattezza necessaria per re spingere ogni aggressione, dovette prima formarsi nei rapporti fra le famiglie, le genti e le classi diverse, che non nei rapporti interni della famiglia; perchè la causa, che determino questo irrigidirsi della famiglia, non fu interiore alla medesima, ma bensì esterna, ossia la necessità di provvedere alla lotta per l'esistenza. Dal momento per tanto, che il concetto di manus ha un'origine, che potrebbe chia marsi pressochè esteriore ed internazionale, ne consegue eziandio, che nel conflitto delle genti il concetto della manus, in quanto indica un potere, che non ebbe giammai a soccombere sotto la schiavitù, non potè essere applicato che ai capi delle famiglie patrizie, e non già alla folla e alla moltitudine, di cui erano circondati gli stabili menti dei padri. Si comprende pertanto, come nel diritto quiritario primitivo continuamente comparisca la manus, la quale è quella, che lotta nella manuum consertio; che rivendica nella vindicatio; che trascina il debitore nella manus iniectio; che distendendosi lascia in libertà lo schiavo (manu emittit); che obbliga la propria fede nella dextrarum iunctio; e da ultimo è anche quella, che afferrando il vinto, lo trasmuta in mancipium. Essa quindi non ha soltanto una significazione relativa alla costituzione interna della famiglia, ma dap prima ha sopratutto una significazione, quanto ai rapporti esteriori in cui la famiglia può trovarsi, essendo la manus, che la rende unita e compatta nel respingere ogni aggressione. Sarà solo più tardi, che essa verrà a significare il complesso dei poteri giuridici, che ap partengono ai quiriti, in quanto essi costituiscono una specie di ari stocrazia fra la moltitudine e la folla, da cui sono circondati. Però almodo stesso, che la manus in questa significazione è già il frutto di una specie di astrazione, cosi deve pur dirsi del concetto del qui rite. Senza entrare nell'etimologia della parola e senza discutere se la medesima venga da quiris lancia, o da curia, come vorrebbe il Lange; questo è certo che in ogni caso il vocabolo di quiriti non significa i membri delle genti patrizie individualmente considerati; ma li indica in quanto appartengono ad uno stesso populus, che ora ra dunasi nelle curie, ed ora costituisce un esercito. Come tali i qui riti trovansi in una posizione privilegiata e quindi sono essi sol tanto, a cui appartiene la manus, come simbolo del diritto quiritario; sono essi soli, che abbiano le iustae nuptiae; che sappiano consul 203 tare gli Dei cogli auspizii; e che partecipino direttamente al bene fizio delle istituzioni proprie della città (1). 163. Malgrado di ciò è improbabile, che nel periodo anteriore alla fondazione della città, e in quello della città esclusivamente patrizia non intercedano dei rapporti fra la classe dominante e quelle inferiori, da cui essa è circondata. Sarebbe tuttavia a meravigliarsi, se in questi rapporti essi si trattassero alla pari, e se le istituzioni, che dovettero nascere in questa condizione di cose, non portassero le traccie della disuguaglianza di condizione, in cui si trovavano le due classi. Il plebeo, che non ha una posizione giuridica, e che quindi non può offrire garanzia di sorta al patrizio, quando voglia entrare in rapporto con esso, non può avere altro mezzo che quello di darsi a mancipio o divincolarsi col nexum, per guisa che, se esso non paghi, possa essere ridotto alla condizione di mancipio, assoggettandosi cosi alla manus iniectio. Di qui la conseguenza, che i durissimi concetti del mancipium, del nexum, della manus iniectio, prima di diventare istituti proprii del diritto quiritario, in cui presero poi una significazione speciale, dovettero significare dei rapporti, che si stabilirono fra patriziato e plebe, prima che entrassero a far parte della stessa comunanza; il che spiega appunto quel carat tere di soggezione e di dipendenza di una persona ad un'altra, che è loro inerente. Che anzi, siccome le origini di certi concetti primitivi debbono talora cercarsi in un periodo anteriore a quello, in cui essi appari scono e cominciano a prendere una forma determinata e precisa, cosi anche questa significazione dei vocaboli di mancipium, di nexum, di manus iniectio non è ancora quella assolutamente pri mitiva; ma conviene cercarne le origini nelle lotte, che dovettero esistere in epoca più remota fra i vincitori ed i vinti, fra i con quistatori ed i conquistati. In questa indagine non può esservi altra luce fuori di quella, che viene dalla significazione diversa, che as sunsero i vocaboli, di cui si tratta. 164. Nella povertà del linguaggio giuridico primitivo il vocabolo mancipium ebbe ad assumere significazioni molto diverse, che però riduconsi a due essenziali; a quelle cioè per cui significa: - o ciò (1) LANGE, Hist. inter. de Rome, I, pag. 29. 204 che è soggetto al potere del capo di famiglia – o il modo per trasfe rirlo di una ad altra persona. Nel primo significato mancipium in dica anzitutto il prigioniero di guerra, stato ridotto in schiavitù; poi indica eziandio tutto cid, che può essere preso e assogettato colla manus: quidquid manu capi subdique potest,uthomo, equus, ovis; infine indica eziandio, allorchè il diritto quiritario è già formato, il complesso delle persone e delle cose, che dipendono dalla manus del capo di famiglia. Questa serie di significazioni, che si vengono sempre più estendendo, contengono in compendio la storia dell'istituzione. Non può esservi dubbio, che il primo mancipium dovette essere lo schiavo ed il vocabolo era anche acconcio ad esprimerlo, in quanto che questo era stato veramente manu captum e poi ridotto in schia vitù; poscia l'analogia lo fece estendere eziandio alle cose e persone, che erano assoggettate in modo analogo al potere della persona, quali erano i cavalli e i buoi, allorchè domati cominciavano a dipendere dalla mano dell'uomo; infine, quando la manus prese la significazione traslata, per cui essa designa il potere del capo di famiglia, tanto le persone, che le cose soggette al medesimo, poterono essere indi cate col vocabolo di mancipium. Giunge però tempo, in cui questo vocabolo sembra per la sua stessa origine essere disadatto a signi ficare tanto le persone, che le cose soggette al capo di famiglia, ed in allora esso scompare in questa significazione, ma continua ancora sempre a mantenersi nella sua significazione primitiva, che era la vera; come lo dimostrano le disposizionidell'editto degli edili curuli col titolo de mancipiis vendundis, ove il vocabolo continua sempre a significare lo schiavo (1 ). (1 ) Quanto al tenore dell'Editto curule vedi Bruns, Fontes, pag. 214. Non potrei ciò stante ammettere la significazione, che il MUIRHEAD ebbe di recente a proporre per i vocaboli di mancipium e di mancipatio, colla quale egli direbbe, che mancipium significa eziandio il potere, ossia la padronanza del manceps, e che perciò debba ritenersi come sinonimo di manus; donde egli deriva, che mancipare non deriverebbe da manu capere, ma piuttosto da manum capere (Histor. Introd., pag.61). Oltrecchè questa etimologia non servirebbe veramente a spiegar meglio la significazione primitiva del vocabolo; parmi eziandio che contraddica all'uso, che i giureconsulti fecero di questo vocabolo, attribuendo costantemente al medesimo una significazione passiva, la quale indica piuttosto la soggezione di una persona o di una cosa, che non il potere che appartiene sulla persona o cosa soggetta. Noi ve diamo infatti, che mentre occorrono talvolta le espressioni di habere manum, habere potestatem, habere dominium, i giureconsulti invece non direbbero mai habere man cipium nel senso di significare un potere, che spetti ad una persona,al modo stesso - 205 Se non che il vocabolo mancipium non significa soltanto ciò, che è soggetto al capo di famiglia, ma indica eziandio il trasferimento, di cui possono essere oggetto le cose, che entrano a costituirlo. Ciò è dimostrato dall'espressione vigorosa della legislazione decemvirale, nella quale si dice facere mancipium, facere nexum, al modo stesso, che direbbesi facere testamentum. Or bene non vi ha dubbio, che anche il facere mancipium deve avere subito delle trasforma zioni profonde nel proprio significato. Facere mancipium infatti dovette negli inizii indicare il darsi o il prendere a mancipio, la dedizione del vinto o la presa del vincitore, per cui quello viene in tutto ad essere a disposizione di questo. Ciò è dimostrato da questo che i servi, che erano chiamati mancipia ex eo, quod ab hostibus manu capiuntur, sono anche chiamati servi dediticii, in quanto che essi provenivano da una specie di resa o di dedizione del vinto al vin citore (1). Cid però non tolse, che il concetto del facere mancipium si applicasse eziandio a persone libere, che potevano dare se stesse a mancipio, od anche a persone, che dipendevano da esse, come accadeva nella noxae deditio. Che anzi è molto probabile, che nel periodo, in cui i plebei non erano ammessi a far parte della citta dinanza, il solo mezzo, che essi avessero per trovare protezione e difesa, fosse quello di darsi a mancipio. Infine, allorchè il mancipium prese quella significazione, eminentemente giuridica, per cui significa il complesso delle persone e delle cose, soggette al capo di famiglia, anche il facere mancipium ricevette una larghissima applicazione, per modo che la mancipatio verrà ad essere come il perno, sovra cui si modellano tutti gli atti, che modificano in qualche modo il potere del capo di famiglia (2 ). che non adoperano mai il vocabolo di nexus per indicare il creditore, ma sempre per designare il debitore. Convien quindi dire, che mancipium significò sempre la cosa soggetta o la trasmissione della medesima, ed è anche questo il significato, che ha sempre conservato dipoi, allorquando accade ancora di usare il vocabolo di mancipio. A ciò si può anche aggiungere, che il vocabolo di capio nella sua significazione giuridica suole sempre essere accompagnato dall'ablativo, come accade nell'usucapio, nell'usureceptio e simili. (1) A questo proposito è notabile il seguente passo di Festo, Vº Quot.: Quot servi tot hostes in proverbio est, de quo Sinnius Capito existimat esse dictum initio quot hostes tot servi» quod tot captivi fere ad servitutem adducebantur », BRUNS, Fontes, pag. 359. (2) Per la larghissima esplicazione della mancipatio nel diritto quiritario è da vedersi il Longo, La mancipatio, parte 14, Firenze, 1886. 206 165. Passando ora alla manus iniectio, noi riscontriamo nella medesima un processo del tutto analogo. Non può esservi dubbio che essa dovette essere dapprima il modo effettivo, con cui il vinci tore afferrava il vinto, in base al diritto di guerra e lo riduceva in schiavitù. Il suo concetto quindi nacque anch'esso nella lotta e nella violenza; ma poscia dai rapporti fra vincitori e vinti fu tra sportato anche fra le persone, che appartenevano alla stessa co munanza e significò l'esercizio privato delle proprie ragioni, come lo dimostra la seguente deffinizione di Servio: manus iniectio di citur, quotiens, nulla iudicis auctoritate expectata, rem nobis de bitam vindicamus. Pare però, che quest'esercizio privato delle proprie ragioni, che non si può conciliare coll'esistenza della pubblica autorità, non fosse riconosciuto dal diritto quiritario, che in alcuni casi soltanto. Infatti nel diritto quiritario noi troviamo la manus iniectio in due significazioni. Essa è il modo per trascinare avanti al magistrato colui che invitato a venirvi siasi rifiutato; ma in ciò non havvi ancora un esercizio privato delle proprie ragioni, bensì un mezzo per ottenere la presenza del convenuto avanti al magistrato. La manus iniectio poi, nella legislazione decemvirale, è anche un mezzo di esecuzione contro il proprio debitore; ma in questo senso è solo ammessa in alcuni casi, cioè: contro coloro che o abbiano confes sato il proprio debito (aeris confessi); contro coloro che siano stati condannati (iudicati); o infine contro coloro, che si siano ob bligati mediante il nexum (nexi). Ora di queste varie applicazioni del diritto di esecuzione privata contro il debitore, quella, che ri guarda gli aeris confessi ed i iudicati, suppone già un intervento dell'autorità giudiziaria; mentre quella, che riguarda il nexum, ri monta certamente ad epoca anteriore alla formazione della comu nanza, il che fa credere che la manus iniectio nelle proprie origini abbia avuto una stretta attinenza col nexum (1). Cid miporge quindi occasione di discorrere brevemente di esso e di dimostrare, che anche l'istituto del nexum è una di quelle istituzioni primitive, che trovo solo applicazione nei rapporti fra il patriziato e la plebe, e che poi entró a far parte del diritto quiritario. 166. Il nexum è certo uno degli istituti, che diffonde una triste aureola sul diritto primitivo di Roma. La sua origine è ignota; ma (1) V.sopra, Cap. VI, § 3, n. 105-6, pag. 135 e seg. - 207 si può affermare con certezza, che essa rimonta ad epoca anteriore alla formazione della comunanza romana: poichè la tradizione già attribuisce a Servio Tullio dei provvedimenti diretti a limitare gli effetti, che derivavano da esso. Lo stesso è a dirsi della legislazione decemvirale, che lo suppone già esistente e si limita a trattenere in certi confini i maltrattamenti contro il debitore. Fu poi notato a ragione dal Niebhur, che il nexum con tutti i tristi suoi effetti apparisce soltanto nei rapporti fra il patriziato e la plebe; per guisa che la sua abolizione si riduce ad una specie di questione sociale fra le due classi; come è anche dimostrato da ciò, che Livio consi derd l'abolizione di esso come una vittoria della plebe sopra il pa triziato. Vero è, che questo fatto può anche essere spiegato con dire che solo il patriziato era in condizione di fare degli imprestiti alla plebe, e che perciò esso solo aveva interesse al mantenimento di questo « ingens vinculum fidei »; ma parmiche il carattere vero di questa istituzione possa essere più facilmente spiegato, quando si cer chino le cause, che vi hanno dato origine. Il nexum dovette essere un modo di obbligarsi di colui, che, non avendo altre garanzie da offrire al proprio creditore, obbligava direttamente la propria persona. Ora è questa appunto la condizione, in cui si trovò il plebeo di fronte al patrizio, anteriormente alla formazionedella comunanza romana, allorchè, sprovvisto di qualsiasi diritto, non aveva altro mezzo, per trovare protezione o credito, che o di dare a mancipio se o la fa miglia, o di vincolarsi col nexum. Quello era una specie di dedizione di se stesso e questa era una specie di ipoteca, che egli consentiva sulla propria persona. Siccome poi, come si vedrà a suo tempo e come del resto fu già ritenuto dal Niebuhr, il nexum non obbligava che la persona, e non attribuiva qualsiasi diritto sui beni di esso; cosi in parte si comprende che il diritto del creditore sul debitore, sia stato spinto a quelle estreme esagerazioni, che a noi riescono pressochè inesplicabili (1). 167. Quanto al vocabolo poi non può esservi dubbio, che esso ebbe ad assumere significazioni molto diverse. (Liv. VIII, 28, in princ.: « Eo anno plebi romanae velut aliud initium liber tatis factum est, quod necti desierunt »; e più sotto: « victum eo die ingens vin culum fidei. Cfr. Niebhur, Hist. Rom., III, pag. 375. Della portata e degli effetti del nexum, come pure del mancipium, si discorrerà più sotto; poichè qui importava solo di cercare l'origine dei vocaboli e dei concetti coi medesimi significati. 208 Anche qui è probabile, che il nexum nella sua primitiva signifi cazione indicasse veramente i vincoli, a cui sottoponevasi lo schiavo fuggitivo; ma che poscia dalla significazione letterale siasi fatto pas saggio alla significazione giuridica. Tuttavia rimangono ancor sempre le traccie delle due significazioni, in quanto che gli storici chiamano col vocabolo di nexi, ora quelli che si trovano già condotti nel car cere privato del debitore, ed ora invece i debitori, che si sono ob bligati colle forme solenni del nexum. Del resto anche questo vo cabolo, al pari di quello dimancipium, significa non solo il vincolo fisico o giuridico, a cui altri si sottopone, ma eziandio l'atto con cui egli contrae il vincolo stesso (nexum facere). La conclusione intanto viene ad essere cotesta, che tutti questi istituti più rozzi, che appariscono nel primitivo ius quiritium, dovet tero aver avuto origine nei rapporti fra i vincitori e i vinti, i quali trasformati in varia guisa furono poi estesi anche ai rapporti fra il patriziato e la plebe. Sarebbe insomma anche qui accaduto cið, che pure accadde delle altre istituzioni del diritto quiritario, che esse si svolsero dapprima fra le varie genti o almeno fra i diversi capi di gruppo e furono poiapplicate nei rapporti dei quiriti fra di loro. Al modo istesso, che i concetti di connubium, di commercium e dell'actio sacramento si spiegarono dapprima fra le varie genti ed i loro capi, e solo più tardi si svilupparono nel diritto quiritario; così i concetti del mancipium, del nexum, e della manus iniectio, dopo essersi formati fra la classe dei vincitori e quella dei vinti, ed essersi poi applicati ai rapporti fra il patriziato e la plebe, si tra sformarono in istituzioni proprie del diritto quiritario. Di qui il carattere di rozzezza, di violenza, inerente ai medesimi, che rese necessaria la loro trasformazione ed anche il cambiamento dei vo caboli, con cui furono indicati, a misura, che vennero sempre più pareggiandosi le due classi, dopo che entrarono a far parte della stessa comunanza civile e politica. 168. Che se, riassumendo, si volesse ora dare uno sguardo sinte tico a quelle istituzioni esistenti fra le genti italiche, anteriormente alla fondazione della città, che si vennero ricostruendo a poco a poco, noi possiamo scorgere fin d'ora, che già si erano poste le basi fondamentali del diritto pubblico, privato ed internazionale, che ebbe poi a svolgersi in Roma. Quanto al diritto pubblico infatti, già erasi elaborato il concetto del potere monarchico, di cui avevasi il modello nel capo di famiglia; - 209 quello di un elemento aristocratico, che era rappresentato dal con siglio degli anziani, proprio della gente; e quello infine di un ele mento popolare e democratico, il quale già aveva cominciato a svolgersi nelle tribù e a presentare quel dualismo fra patriziato e plebe, che doveva poi ricevere nella città tutto lo svolgimento, di cui poteva essere capace. Furono questi elementi che, accomodati alle esigenze della vita civile e politica, servirono di base alla co stituzione primitiva di Roma e condussero naturalmente allo svolgi mento dei poteri, che furono attribuiti al re, al senato ed al popolo. 169. Così pure quanto al diritto privato, già erano in pronto gli elementi diversi, i quali,amalgamandosi insieme, dovevano porre le basi del diritto civile di Roma. Eravi infatti un diritto proprio delle genti patrizie, che, appoggiandosi da una parte sull'elemento religioso del fas e dall'altra sopra l'elemento morale del mos, già aveva dato origine ai concetti fondamentali del connubium, del commercium e dell'actio sacramento, ed aveva elaborato tutte quelle forme tradizionali e solenni, in cui si fecero entrare a poco a poco i nuovi rapporti giu ridici, ai quali diede occasione il formarsi e lo svolgersi della convi venza civile e politica. Esisteva parimenti, ancorchè solo in via di formazione, un diritto proprio della comunanza plebea, fondato so pratutto sull'usus auctoritas, il quale, per essere più semplice nella sua forma, più alieno dalle solennità, più libero da ogni influenza del passato poteva meglio adattarsi alle esigenze della vita civile e po litica. Da ultimo già cominciava ad elaborarsi un diritto, che non poteva dirsi proprio, nè del patriziato, nè della plebe, mache ten deva a racchiudere in forme rozze e primitive i rapporti, che inter cedevano fra di essi. Questo diritto era tutto uscito dal concetto fondamentale della manus, in quanto esprime il potere del capo di famiglia patrizio, ed aveva dato origine ai concetti del mancipium, del nexum e della manus iniectio, i quali, debitamente trasformati, si dovranno poi convertire in altrettanti concetti fondamentali del diritto quiritario. È quest'ultimo elemento, che attribuisce al ius qui ritium quel carattere di rozzezza e di forza, che lo contraddistingue. Tuttavia fu esso che, isolando l'elemento giuridico dall'elemento re ligioso e dal morale, con cui prima trovavasi confuso, viene a for mare il primo nucleo di quel ius quiritium il quale, assimilando col tempo istituzioni patrizie e costumanze plebee, finirà per conver tirsi in un ius civile, che poteva convenire alle due classi, che erano chiamate a far parte della stessa comunanza civile e politica. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 14 210 170. De ultimo, anche per quello che si riferisce a quei rapporti, che con vocabolo moderno si potrebbero chiamare internazionali, già erausi poste le basi di un ius belli ac pacis, e si erano elabo rati i concetti dell'amicitia, dell'hospitium,della societas, e del più importante fra tutti, che era quello del foedus, il quale poi doveva somministrare il mezzo per far partecipare più tribù alla stessa vita politica, militare e giuridica, e per dare cosi origine alla città. Questa parimenti, traendo profitto dagli istituti della cooptatio, della co lonia, della concessio civitatis sine suffragio, del municipium, pos sedeva anche i mezzi per accrescere la sua popolazione e per esten dere il proprio impero. I materiali quindi erano in pronto: solo rimane a vedersi il pro cesso, col quale Roma, gittandoli tutti nello stesso crogiuolo, abbia saputo scegliere ciò, che in essi eravi di vigoroso e di vitale, e sia così riuscita a ricavarne lentamente e gradatamente la propria co stituzione politica, e quel diritto privato, il quale svolgendosi sempre sul medesimo modello e sempre arricchendosi di nuovi elementi, finirà per diventare tale da poter essere accettato da tutte le genti. Intanto una delle cause, che condurrà a questo risultato, sarà la distanza stessa, a cui trovansi i due ordini, che debbono insieme con tribuire alla formazione della città. Sarà tale distanza infatti, che forzerá la costituzione di Roma a percorrere tutte le gradazioni, di cui possa essere capace, e che obbligherà il diritto privato di Roma a riconoscere la capacità di diritto ad ogni uomo, purchè libero. Per tal guisa tutte le gradazioni del senso giuridico, dalle più semplici e naturali alle più sottili e raffinate, cadranno sotto l'elabo razione dei giureconsulti, e l'universalità del diritto romano dovrà sopratutto essere attribuita a ciò, che esso è la più completa e pre cisa espressione di un complesso di sentimenti eminentemente sociali ed umani, che nacquero e si svolsero insieme colla convivenza ci vile e politica. - 1 LIBRO II. Roma e le sue istituzioni nel periodo esclusivamente patrizio ("). CAPITOLO I. Genesi e carattere della città primitiva. 171. Nella storia non vi ha forse avvenimento, il quale abbia eser citata maggiore influenza sulle sorti dell'umanità che il passaggio dall'organizzazione gentilizia alla comunanza civile e politica. Sotto quest'aspetto non sarà mai abbastanza approfondita la storia pri mitiva di Roma, perchè non vi ha certamente altro popolo, che abbia più vivamente sentito, e quindi più profondamente scolpito nelle proprie istituzioni questa importantissima trasformazione, che (* ) Pervenuto a questo punto della trattazione, trovomidi fronte ad una lettera tura così copiosa, che mi sarebbe impossibile di poter indicare la bibliografia, che può riferirsi ad ogni singolo argomento. Siccome quindi l'intento del libro è quello unicamente di tentare una ricostruzione delle istituzioni giuridiche e politiche di Roma primitiva; così mi limitero ad indicare in nota gli autori, di cui prendo in esame le opinioni, e i passi di antichi scrittori, sui quali si fonda l'opinione da me sostenuta, e non mi fard anche scrupolo di citare una traduzione, quando non tenga l'originale, sopratutto di autori tedeschi. Quanto alla bibliografia, essa potrà essere facilmente trovata nei recenti trattati di storia del diritto romano, o di introduzione storica allo studio del diritto romano, quali sono in Francia quelli dell' ORTOLAN, del Bouché -LECLERCQ, del Maynz, del MISPOULET, del Roblou et Delaunay, del MORLot, ecc.; nel Belgio quelli del Maynz, del Rivier, del WILLEMS, ecc.; in Ger mania quelli del Bruns, del BARON, del KARLOWA, del Voigt, dell'HERZOG, ecc.; in Inghilterra quelli del MUIR EAD e del Roby; e nella nostra Italia quelli del PA DELLETTI-Cogliolo, e del LANDUCCI, ecc.; trattati, che ho citato già, o che mi occor rerà di citare in seguito. Mi perdoni il lettore: ma la sola bibliografia, fatta un po ' a dovere, mi avrebbe assorbito il volume. 212 accadde nell'organizzazione sociale. A ciò si aggiunge, che lo spirito conservatore del popolo Romano ha fatto si, che esso, modellando e svolgendo la città primitiva, abbia sempre conservato le traccie delle istituzioni preesistenti, e dei periodi diversi, per cui passò la nuova formazione. Di qui la conseguenza, che quando si riesca a penetrare il processo logico, stato seguito dai Romani nella fondazione della loro città, si potranno determinare con rigore geometrico non solo l'orientamento materiale di essa, e il modo, con cui furono costrutte le sue mura; ma eziandio la serie di quei concetti fondamentali, che, preparati in un periodo anteriore, ricevettero poi nella città tutto lo sviluppo, di cui potevano essere capaci. Già si è veduto, come nella organizzazione gentilizia siasi svolta la famiglia colla sua distinzione fra i padroni ed i servi, la gente con quella fra patroni e clienti, e infine la tribù con quella fra patrizii e plebei. È da questo punto dell'evoluzione sociale e da questo dualismo costante, che incomincia la formazione della città. Trattasi pertanto di vedere in qual modo, con questi elementi, che si erano naturalmente formati e sovrapposti gli uni agli altri, abbia potuto essere iniziata la convivenza civile e politica. Fu questa una continuazione del medesimo processo formativo dell'organizzazione gentilizia, o fu invece il risultato di qualche nuova energia o forza operosa, che si introdusse nell'organizzazione sociale? 172. Le teorie, che furono escogitate in proposito dagli studiosi della storia primitiva di Roma, sono molte in numero e diverse nei risultati a cui giunsero; quindi per noi sarà necessità di arrestarsi alle principali. Per il Mommsen, il Sumner Maine, e per la maggior parte degli autori moderni, la città primitiva avrebbe nei proprii esordii un ca rattere eminentemente patriarcale, e non sarebbe in certo modo, che un ulteriore svolgimento della stessa organizzazione gentilizia; essa sarebbe un edifizio, le cui proporzioni si sono fatte più grandi, ma che è foggiato sempre sul medesimo modello. A quel modo, che la famiglia ingrandita, dando origine a diramazioni diverse, avrebbe costituita la gente, e che le genti, riunendosi insieme, avrebbero dato origine alle tribù; cosi l'aggregazione delle tribù in un numero determinato, che sembra essere diverso secondo i varii popoli, avrebbe dato origine alla civitas. Afferma pertanto il Mommsen, che la famiglia e la gente non solo avrebbero somministrati gli elementi, da cui fu costituita, ma anche il modello, sovra cui sarebbesi fog --- - - 213 giata la comunanza civile e politica. Il re della città sarebbesi mo dellato sul capo di famiglia, e avrebbe i poteri patriarcali al mede simo spettanti; il senato non sarebbe che un consiglio di anziani, come lo prova il nome di patres, dato per tanto tempo ancora ai senatori, e compierebbe nella città quella medesima funzione, che il tribunale domestico compieva nella famiglia, e il consiglio degli anziani nella gente e nella tribù; il populus non sarebbe che la riu nione delle gentes, per guisa che sarebbe cittadino ogni individuo, che appartenga ad una di tali gentes; e da ultimo il territorio ro mano comprenderebbe i territorii riuniti, che appartenevano alle varie gentes, le quali pertanto sarebbero incorporate nello Stato nella condizione stessa, in cui prima si trovavano, e con tutte le fa miglie, che entravano a costituirle (1). Tale a un dipresso sarebbe eziandio la teoria del Sumner Maine, il quale si limita a dire, che come la tribù era stata una riunione di gentes, cosi la città era dovuta all'incorporazione di varie tribù (2). Il Lange invece, mentre si studia in tutti i modi per dimostrare, che lo Stato e il suo ordi namento è fondato sulla famiglia, e che il diritto pubblico di Roma sarebbe in certo modo uscito dal seno del diritto privato, e sareb besi modellato sul medesimo, viene poi a riconoscere, che la città primitiva è già fondata sopra una specie di contratto, il quale avrebbe modificato i poteri patriarcali del re, e al principio dell'e redità avrebbe fatto sottentrare quello dell'elezione (3 ). Il Jhering invece scorge nella costituzione primitiva di Roma un carattere essenzialmente militare. Per lui il re sarebbe un condottiero, un capitano, e il suo potere sarebbe, in sostanza, un militare im perium, destinato sopratutto a mantenere la disciplina nell'esercito, e percid accompagnato dal ius gladii; la curia da conviria sa rebbe una riunione di uomini armati, che si chiamano quiriti da quiris, asta, che è il contrassegno del potere aimedesimi spettante; il populus romanus quiritium sarebbe l'assemblea complessiva dei guerrieri, portatori di lancia; e infine le gentes stesse, in cui egli ritiene ancora che si dividano le curiae, sarebbero gruppi naturali, basati bensì sulla discendenza, ma già raffazzonati secondo le esi (1) Mommsen, Histoire Romaine. Trad. DeGuerle. Paris, 1882, I, pag. 77 et suiv. (2 ) SUMNER MAINE, L'ancien droit. Trad. Courcelle Seneuil. Paris, 1874, pag. 121. (3) Lange, Histoire intérieure de Rome. Trad. Berthelot et Didier, Paris, 1885, pag. 37. 214 - genze di un esercito; donde quel numero fisso di trenta curiae, in cui sarebbe ripartito il popolo primitivo di Roma, le quali poi sareb bero suddivise in trecento gentes (1). A queste vuolsi eziandio aggiungere la teoria, così splendidamente esposta dal Fustel de Coulanges, secondo la quale quella religione, che avrebbe fondata la famiglia e la proprietà, la gente e la tribù, sarebbe pur quella, che avrebbe fondata e cementata la primitiva città. La civitas pertanto sarebbe per lui l'associazione religiosa e politica delle famiglie e delle tribù; mentre l'urbs sarebbe il luogo di riunione, il domicilio, e sopratutto il santuario di questa associa zione, nella quale ogni istituzione assumerebbe un carattere essen zialmente religioso (2 ). 173. Non è a dubitarsi, che queste varie opinioni contengano tutte alcun che di vero, e che ognuna possa invocare delle analogie e degli argomenti, che le servano di appoggio; ma intanto ciascuna di esse, collocandosi ad un punto di vista esclusivo, mal pud riuscire a spie gare in modo coerente la natura cosi varia e complessa della costi tuzione primitiva di Roma: il cui concetto sembra sbocciare da una sintesi potente, la quale non può altrimenti essere ricostruita, che riportandoci nell'ambiente stesso, in cui essa ebbe a formarsi. È questo il motivo, per cui è impossibile spiegare quel carattere di unità e di varietà ad un tempo, con cui Roma compare nella storia, senza seguire la lenta e progressiva formazione della città, e tener conto delle necessità reali ed effettive, a cui le genti primitive cer carono di soddisfare, creando la comunanza civile e politica. Or bene io non dubito di affermare che, collocandosi a questo punto di vista, apparisce fino all'evidenza, che la città per le po polazioni latine non può essere considerata come una continuazione del processo formativo dell'organizzazione gentilizia prima esistente; ma inizia un nuovo ordine di cose sociali, e segue un indirizzo (1) V. IHERING, L'esprit du droit romain. Trad. Maulenaere. Paris, 1880, I, $ 20, pag. 246 e segg.; dove mette molto bene in evidenza il carattere militare della primitiva costituzione romana, e l'influenza che esso esercitò anche sullo svolgersi del suo diritto; alla quale opinione in parte anche si accosta lo SchweGLER, Rö mische Geschichte, I, pag. 523. (2) FUSTEL DE COULANGES, La cité antique. Paris, 1876. Liv. III, Chap. IV, p. 155. È però a notarsi, che l'autore è a un tempo fra quelli, che a ragione insistono sul carattere confederativo della città primitiva. Cfr. pag. 147. 215. compiutamente diverso, il quale doveva logicamente condurre alla dissoluzione dell'organizzazione sociale preesistente. Per verità si è veduto più sopra, come le popolazioni latine, che avevano preceduta la fondazione di Roma, già fossero pervenute ai concetti dell'urbs, del populus, della civitas. Che anzi tali concetti, per le popolazioni del Lazio, erano già stati il frutto di una lunga evoluzione. Esse avevano cominciato dal costruire dei siti fortificati (arces, oppida ), in cui le comunanze rurali potessero cercare rifugio nei momenti di pericolo, e in cui potessero ricoverarsi coi proprii greggi e coi proprii armenti in un'epoca, in cui erano quotidiane le scorrerie e le depredazioni nei rispettivi territorii delle varie co munanze. Il primo bisogno pertanto, a cui le genti del Lazio ave vano cercato di soddisfare, era stato quello di provvedere alla co mune difesa. Poscia, siccome la sicurezza è condizione, che favorisce gli scambi ed i commerci, così fu naturale, che, accanto a questi luoghi fortificati, si siano formati dei siti (fora ), a cui le genti convenivano per scopo di commercio, e dove, occorrendo, si tratta vano anche le alleanze e le paci. Col tempo infine questa mede sima località apparve anche sede opportuna così per l'amministra zione della giustizia, che per la trattazione di quegli affari, che riguardassero l'interesse delle varie comunanze (conciliabula ) (1). Per genti poi, in cui era vivo il sentimento della religione, era naturale, che questa comune fortezza e questo luogo di convegno (comitium ) fossero posti sotto la protezione di una divinità, non propria di questa o di quella gente, ma comune alle varie genti; e fu anche in questa guisa, che le menti giunsero a concepire una reli gione collettiva al di sopra di quella propria delle singole famiglie e genti. 174. Per tal modo il concetto della città non sboccið di un tratto, ma ebbe ad essere provato e riprovato in varie guise sotto forma di arces, di oppida, di fora, di conciliabula, di comitia, e infine di urbes; e fu soltanto, allorchè questa lenta costruzione ebbe ad essere compiuta, che i riti, secondo cui le città dovevano essere fon date e la loro popolazione doveva essere ripartita, assunsero un (1) Questa idea, che è fondamentale nella presente trattazione, ebbe ad essere accennata e dimostrata più sopra, nei suoi varii aspetti, nel lib. I, ai numeri 5, 14, 66, 99. - 216 - carattere sacro e religioso, per modo che ogni fondazione di città ebbe ad essere accompagnata da cerimonie religiose. L'urbs venne così ad essere il frutto di una lunga evoluzione, che già erasi inco minciata in seno alla stessa organizzazione gentilizia. Essa per tanto, fin dai suoi primordii, non si presenta sotto l'aspetto di una aggregazione di gruppi gentilizii, come vorrebbero il Mommsen e gli autori sopra citati; ma piuttosto come il frutto di una specie di selezione, per cui dal seno stesso dell'organizzazione gentilizia, si viene sceverando ed isolando tutto ciò, che si riferisce alla vita pub blica. Quindi la città primitiva viene ad apparire come un centro e un focolare di vita pubblica, fra varie comunanze di villaggio, la cui vita domestica e patriarcale continua a svolgersi nei vici e nei pagi. Di qui la conseguenza, che se essa sia materialmente consi derata, cioè come urbs, non si presenta, nelle proprie origini, come la riunione delle abitazioni private; mapiuttosto come la riunione in una orbita sacra degli edifizi, aventi pubblica destinazione, come la fortezza, il santuario comune, la dimora del re (custos urbis ) e dei sacerdoti (sacerdotes populi), il luogo (forum ) ove si tiene il mercato e si am ministra la giustizia, il sito ove si tengono le riunioni (comitia ) per deliberazioni di pubblico interesse; donde la curia, il qual vocabolo designa tanto il luogo di riunione, quanto il complesso delle persone che vi si riuniscono. Che se poi la città primitiva sia riguardata negli ele menti, che entrano a costituirla, essa non è più l'organizzazione delle gentes o delle tribù, nelle quali si comprendevano anche le donne, i vecchi ed i fanciulli; ma è solo il complesso di quegli uomini, ricavati dalle gentes e dalle tribù, che possano aver partecipazione attiva alla vita pubblica; di quegli uomini cioè, che possano difendere la cosa pubblica come soldati (iuniores), o che col proprio consiglio possano giovare alla medesima nelle deliberazioni, che la riguardano (se niores). L'urbs insomma è il risultato di una selezione, in virtù della quale si raccolgono in uno stesso sito tutti gli edifizi, che hanno pubblica destinazione; il populus è una selezione, per cui fra i membri delle gentes si organizzano, in esercito ed in comizii ad un tempo, coloro, che siano in età e in condizione di provvedere alla difesa ed all'interesse comune; la civitas infine, è quel rapporto speciale, che intercede fra le persone, che compongono il populus, in quanto esse appartengono alla medesima cittadinanza, e parteci pano alla stessa vita politica e militare. 175. La città latina pertanto, e quindi anche Roma, che è un 217 esemplare tipico della medesima, anzichè essere un'aggregazione di gentes e di tribus, corrisponde invece a un nuovo aspetto di vita sociale: cioè al nascere ed allo svolgersi di una comune vita poli tica, frammezzo a popolazioni rurali, che continuano ancora a svol gere la loro vita domestica nelle comunanze patriarcali. Allorchè essa compare, quella organizzazione gentilizia, che aveva prima com piuto le funzioni di associazione domestica e politica ad un tempo, si viene biforcando: mentre la vita privata continua a spiegarsi nelle pareti domestiche, ed in gruppi concentrati sotto l'autorità del capo di famiglia, la vita politica invece prende a svolgersi nella piazza e nel foro, e dà cosi origine a quelle discussioni e a quelle lotte, che costituiscono la vita e il movimento della città. Di qui la conseguenza, che la città, dopo aver ricavato gli elementi, che entrano a costituirla, dalle comunanze che la circondano, finisce per preparare la via alla estinzione dell'organizzazione gentilizia, e sopratutto di quelle gradazioni di essa, che prima compievano eziandio una funzione politica, quali sarebbero la gente, la tribù e la clientela. Le istituzioni invece, che colla sua formazione vengono ad affermarsi e a costituire le due basi dell'organizzazione sociale, sono i due elementi estremi, cioè: la famiglia da una parte, la quale finisce per richiamare a sè medesima tutto quello, che si riferisce alla vita domestica; e la città dall'altra, poichè essa, essendo la meta e l'aspirazione comune, tende ad attirare nella propria cerchia tutte le energie naturali e sociali, che possono conferire a darle forza e con sistenza. Di qui la conseguenza, che le due figure preponderanti, negli inizii della città, vengono ad essere il pater familias, il quale è il solo, che abbia piena capacità di diritto, ed il populus, il quale richiama a sè tutti gli elementi vigorosi e vitali, che esistono nelle comunanze, che colla propria federazione hanno dato origine alla città. Siccome perd l'opera si viene compiendo gradatamente; cosi sarà necessario un lungo svolgimento, prima che la città si possa affatto spogliare di quelle forme, che essa ricava ancora dall'orga nizzazione gentilizia, e prima che la famiglia possa perdere quel carattere pressochè civile e politico, che essa aveva assunto durante il periodo gentilizio. 176. Si può quindi conchiudere, che il processo formativo della organizzazione gentilizia e quello della città si avverano in guisa com piutamente diversa, e sono avviati in senso pressochè contrario ed opposto. - 218 Mentre il processo formativo dell'organizzazione gentilizia, in tutte le sue gradazioni, consiste in una stratificazione di gruppi natu rali, che si sovrappongono gli uni agli altri, e intanto continuano sempre ad essere foggiati sul medesimo modello, che è quello della famiglia patriarcale; la città invece non deve più la sua esistenza ad un processo di aggregazione, ma ad un processo, che potrebbe chiamarsi diselezione. Essa non comprende più tutta la vita sociale, come la tribù; ma tende invece ad isolare l'elemento giuridico, po litico e militare dagli altri aspetti di vita sociale, che si spiegavano strettamente uniti, e pressochè confusi gli uni cogli altri nell'orga nizzazione patriarcale. Di qui derivano alcune importantissime conseguenze. – Mentre l'organizzazione gentilizia, per quanto abbia già in sè qualche cosa di artificiale, in quanto che in essa la famiglia deve anche compiere funzioni politiche, può tuttavia ancora considerarsi come una pro duzione naturale, come quella che è composta di gruppi uniformi, che si sovrappongono gli uni agli altri, e il cui vincolo, vero o supposto, è pur sempre quello della discendenza da un antenato comune; la città invece viene già ad essere il frutto dell'accordo, del contratto, della federazione insomma di varii elementi, che si associano per costituirsi un centro comune di vita politica, e per provvedere così alla comune utilità ed alla comune difesa. Mentre l'organizzazione gentilizia, comprendendo persone, che si suppongono derivare da un medesimo antenato, tende a mantenere una proprietà comune e collettiva; la città invece, uscendo dalla federazione e dall'accordo, tende ad assicurare ai singoli capi di famiglia le possessioni e le terre, che loro appartengono, solo se parandone quel complesso di beni e di interessi, che riguarda l'uni versalità dei cittadini, il quale costituisce così un patrimonio co mune, che col tempo sarà indicato col vocabolo di res publica. Mentre infine il principio informatore dell'organizzazione gentilizia consiste nell'eredità e nella discendenza, per guisa che in essa tutto tende ad acquistare un carattere ereditario; il principio in vece informatore della comunanza civile e politica, appena essa compare, viene ad essere quello della capacità e dell'elezione. 177. Tutto questo svolgimento della città primitiva, che solo erasi iniziato presso le popolazioni latine, potè spingersi con Roma a tutte le conseguenze, di cui poteva essere capace. Allorchè essa compare, il periodo di incubazione della città può 219. già ritenersi compiuto, e quindi le cerimonie, che ne accompagnano la fondazione, già hanno assunto un carattere sacro e religioso. È cogli auspizii, che incomincia la fondazione di Roma, per conoscere a quale dei due fratelli debba essere affidata la fondazione e il reg gimento della città. Tuttavia la Roma Palatina, finchè è contenuta. nei limiti dello stabilimento romuleo, non pud ancora chiamarsi una vera e propria città; ma è piuttosto lo stabilimento fortificato di una aggregazione di genti, dedita di preferenza alle armi, che è la tribù dei Ramnenses. Tutto è ancora patriarcale nella medesima; il suo re, che è il sacerdote, il capitano, e che non è ancora eletto, ma è designato dalla propria nascita e dagli auspizii; i suoi anziani, i quali non sono che i padri delle genti, che entrano a costituire la tribù; e infine anche il suo populus, che è composto ancora di persone, che si ritengono unite dal vincolo della comune discendenza, come lo dimostra la loro stessa denominazione di Ramnenses, derivata dal nome del proprio capo. Non è quindi appena stabilitosi sul Palatino, che Romolo, secondo la tradizione, procede alla costituzione politica della città. Secondo Livio, ciò accade soltanto dopo la guerra coi Sabini, e secondo Ci cerone aspettasi perfino la morte di Tito Tazio, capo dei medesimi(1 ). È da questo momento, che la città assume un carattere federale e pressochè contrattuale. Le singole tribù infatti continuano a risie dere ciascuna sopra il proprio colle, e ad avere delle proprie forti ficazioni; ma è il Capitolium, che mutasi nella fortezza delle varie comunanze, come pure gli edifizii pubblici si vengono raccogliendo nel sito, che trovasi fra il Palatino ed il Capitolino. È quivi che è collocato il locus Vestae, la domus regia Numae, le novae cu riae, da non confondersi colle curiae veteres (2 ), il cui sito era sul Palatino, edifizii tutti, che, secondo il rito, dovevano trovarsi nel cuore stesso della città. Non consta quindi che le tribù confederate abbiano abbandonate le proprie possessioni e le proprie terre; ma ciò, che esse ebbero comune fu soltanto la città ed il governo di essa, come lo dimostra il fatto, che secondo la tradizione vi sarebbe stato un breve periodo di tempo, in cui Romolo e Tazio avrebbero (Livio, I, 13; Cic., de Rep. II, 8. Cfr. più sopra, i numeri 85, 86. « Novae curiae (scrive Festo) proxime compitum Fabricium aedificatae sunt, quod parum amplae erant veteres a Romulo factae ». Tuttavia vi restarono an cora sette curie, che continuarono a compiere i loro sacra nel sito antico (Bruns, Fontes, pag. 346 ). 220 regnato contemporaneamente: il che significa, che ciascuno di essi avrebbe conservato la qualità di capo della propria tribù. Non è quindi meraviglia, se la città primitiva presenti ancora per qualche tempo le traccie dell'organizzazione gentilizia, perchè il trapasso dalla semplice tribù ad una vera e propria città si operò solo gra datamente. Intanto però la trasformazione viene ad essere iniziata e proseguita senz'interruzione fin da quel momento, in cui al vin. colo della discendenza si sostituisce quello della federazione e del l'accordo, e alla trasmessione ereditaria sottentra il principio del l'elezione. 178. A ciò si aggiunge, che Roma, fin dai proprii esordii, si trovo in una condizione diversa da quella delle altre città latine, da cui trovavasi circondata. Essa infatti non costitui soltanto un centro di vita pubblica, frammezzo a varie comunanze rurali; ma diventò ben presto un centro di vita urbana, contrapposta alla vita rustica dei campi. I suoi primi fondatori, pur conservando i proprii agri genti lizii, avevano ottenuto nel recinto stesso della città uno spazio di terra, ove avevano potuto costruirsi una casa, circondata da un orto. Per tal guisa in Roma non eravi soltanto l'elemento, che conveniva nei giorni di festa, o di pubbliche riunioni, o per causa di fiera e di mercato; ma eravi una parte eziandio, e questa era quella dell'antico patriziato, che, pur conservando la propria dimora gentilizia, aveva posta sede permanente dentro la città, o in prossimità di essa. Fu in questa guisa, che Roma diventò ben presto, secondo l'espressione del Mommsen, l'emporio del Lazio, e che, dopo aver cominciato, al pari delle altre città latine, dall'essere un centro di vita pub blica fra diverse comunanze, cambiossi ben presto eziandio in un centro urbano, la cui vita si contrappose a quella dei campi, e venne cosi accrescendosi costantemente, mediante quell'attrazione, che i centri urbani esercitano anche oggi sulle popolazioni, da cui tro vansi circondati. È questo che spiega come, durante lo stesso periodo regio, Roma da sola già potesse conchiudere un foedus aequum con tutta la confederazione latina, e come l'intento costante dei re sia stato quello di estenderne la cerchia per guisa da comprendere in essa anche le abitazioni private dei cittadini. Intanto agli altri dua lismi, che presenta Roma fin dai proprii inizii, debbe anche aggiun gersi quello, per cuidistinguesi la vita urbana dalla vita rustica; come lo dimostra il fatto che il patriziato romano ha serbata sempre la consuetudine di passare un periodo di tempo fra le mura della città, 221 e un altro invece alla campagna (ruri), frammezzo alle proprie pos sessioni gentilizie: consuetudine, che anche oggi può dirsi mantenuta dal patriziato romano. 179. Di qui la conseguenza, che Roma, in una lunga e lenta evoluzione, poté compiere in ogni sua parte quello svolgimento, che solo erasi iniziato presso le altre popolazioni latine. Essa riusci a sceverare la vita pubblica dalla privata, l'elemento sacro dal pro fano, la vita urbana dalla vita rustica, la vita militare dalla vita civile; ed effigid questi atteggiamenti diversi della vita sociale ed umana con un linguaggio così efficace e scultorio, che nessun'altra città può in questa parte competere con essa. Di queste varie distin zioni, quella, che cominciò ad effettuarsi fin dal periodo di Roma esclusivamente patrizia, fu la distinzione fra la vita pubblica e la vita privata; mentre la distinzione fra l'elemento sacro ed il profano cominciò solo ad operarsi, allorchè la plebe, che non era partecipe del culto gentilizio, fu anche ammessa a far parte della cittadinanza romana; e da ultimo la distinzione fra la popolazione rustica ed urbana, solo prese a farsi evidente, allorchè la città si accorse di essere in parte dominata dalla turba forense. Infine il dualismo fra la vita militare e la vita civile è anche uno di quelli, che appariscono costantemente nella storia di Roma, e che rimontano fino agli inizii di essa. Il suo populus è un'assem blea ed un esercito ad un tempo; il suo magistrato ha l'imperium domi, militiaeque; i suoi cittadini hanno un periodo di età, in cui partecipano al servizio attivo, e un altro, in cui entrano a formare l'esercito di riserva; gli atti stessi più importanti della vita, quale sarebbe, ad esempio, il testamento, possono farsi in guisa diversa, secondo che trattisi di cittadini in tempo di pace, o di soldati in procinto di venire a battaglia; la quale distinzione poi mantiensi co stante per modo, che anche con Giustiniano il testamento pud distin guersi in comune ed in militare. Per tal modo il cittadino di Roma è uomo di toga e di spada ad un tempo, e si acconcia alle esigenze della pace e a quelle della guerra (rerum dominos, gentemque togatam ). 180. Sopratutto qui importa di mettere in evidenza quel dua lismo, che colla formazione della città venne ad introdursi fra la vita pubblica e la privata; in quanto che fu questo il grande intento, a cui si ispirò Roma primitiva, e a cui accennano costantemente i 222 poeti latini, i quali non trovano espressione più efficace per indicare la corruzione del costume, e il perdersi delle buone tradizioni, che l'accennare alla confusione della cosa pubblica colla privata (1). È questo il dualismo veramente fondamentale, che, una volta in trodotto, finisce per riverberarsi, con un processo logico non mai in terrotto, in una quantità di altri dualismi, che compariscono costan temente nelle stesse circortanze sociali, e che potrebbero essere paragonati ad una voce, che con gradazioni diverse viene ad es sere ripercossa e ripetuta dall'eco. 181. Per verità è ovvio il considerare, come in seguito alla forma zione della città, accanto alla gentilitas, che era il rapporto, che stringeva i varii membri dell'organizzazione gentilizia, si svolga la civitas, la quale è il rapporto, che unisce coloro, che appartengono alla stessa comunanza militare e politica. Quindi è, che alla distin zione fra liberi e servi, fra gentiles e gentilicii, viene ad aggiun gersi e ad acquistare un'importanza sempre maggiore quella fra cives e peregrini. Cosi pure, accanto ai genera hominum, che sono sparsi nei pagi e nei vici, e che comprendono senza distinzione tutti coloro, che si suppongono discendere da un medesimo antenato, si svolge il concetto del populus, che dapprima non comprende ogni ordine di persone, ma solo il complesso degli uomini validi ed ar mati, che col braccio e col consiglio possono partecipare alla difesa ed al governo della cosa pubblica. Procedendo ancora innanzi, accanto al concetto della res fami liaris, che comprende il complesso degli interessi privati di una de terminata persona, si esplica il concetto della res publica, il quale, per essere più astratto, compare più tardi, che non quello del popu lus; ma finisce anch'esso per esprimere con potenza ed efficacia il complesso degli interessi comuni alla intiera città, ed a tutto il popolo (res populi). Intanto così la res familiaris, come la res pu blica debbono avere un'autorità che le governi, e mentre questa per la famiglia sarà indicata col vocabolo di manus, nella sua signi ficazione più larga, per la repubblica invece sarà indicata col vo cabolo di publica potestas. Che anzi i due poteri sono cosi distinti (1) Per dimostrare l'importanza, che nel concetto romano ha la distinzione fra il pubblico e il privato, basti citare il Trinummus di Plauto, questa commedia, così profondamente morale, in cui, ogni qualvolta occorre una censura contro i corrotti costumi, si lamenta sempre questo mescersi del pubblico col privato. 223 fra di loro, che la subordinazione più estesa nel seno della famiglia non toglie, che altri possa esercitare tutti i suoi diritti come cit tadino, e partecipare come tale agli onori ed alle magistrature. La distinzione poi, che è nella natura dei rapporti, viene natu ralmente a riflettersi eziandio nel diritto, che è chiamato a gover narli. Di qui la distinzione che, iniziata fin dalla formazione della città, viene col tempo facendosi sempre più netta e precisa fra il diritto pubblico ed il diritto privato; il quale ultimo, secondo il con cetto romano, non deve già essere soffocato ed assorbito dal diritto pubblico, ma trovasi invece collocato sotto la tutela e la protezione di esso. Non può quindi essere ammesso il concetto del Lange, che in parte è anche quello del Mommsen, secondo cui il diritto pubblico verrebbe in certo modo a modellarsi sul diritto privato: poichè il processo che si segui in Roma si avverd invece in senso contrario ed opposto. Non fu il diritto pubblico, che si modello sopra il pri vato; ma fu il diritto privato, che venne svolgendosi in quella guisa e in quei confini, che erano consentiti dalla costituzione politica della città. Quindi è che il diritto privato di Roma non si formo di un tratto, ma venne svolgendosi gradatamente, a misura che le esigenze della vita civile fecero sentire il bisogno del suo ricono scimento. Ciò ci è dimostrato dal fatto, che fin dalle origini di Roma noi possiamo trovare poste le basi di tutto il diritto pubblico di Roma, mentre la vera elaborazione del diritto civile romano, co mune alle due classi del patriziato e della plebe, incomincia solo più tardi. Prima si fondò la città, e poi si pensò alla formazione del suo diritto, ed è anche questo uno dei motivi, per cui il diritto di Roma potè riuscire tipico ed esemplare per tutti i popoli. Intanto, in prosecuzione del medesimo processo, anche la legge, che è l'espressione delle volontà riunite e concordi, viene a distin guersi in les privata ed in lex publica (1), di cui quella esprime l'accordo di due o più contraenti, mentre la lex publica invece è l'espressione della volontà collettiva del popolo, che si impone alla volontà dei singoli individui. Anche i sacra vengono a subire la medesima distinzione; la quale pure si verifica per cid, che si rife (1) La distinzione fra la lex publica e la lex privata è accennata più volte da Garo in formole, che da lai ci furono conservate. Comm. I, 3; II, 104; III, 174. Una delle modificazioni state introdotte dal MOMMSEN nell'ultima edizione, Friburgi, 1887, da lui curata del Bruns, Fontes iuris romani antiqui, fu quella di intito larne il capo terzo: Leges publicae populi romani post XII Tabulas latae. 224 - risce agli auspicia (1). Lo stesso infine deve dirsi dei crimina, i quali, a misura che si vengono delineando, sono pure richiamati alla distinzione fondamentale di publica e di privata, secondo che il danno, che ne deriva, e quindi la prosecuzione di essi appar tenga ai singoli individui, oppure colpisca ed interessi l'intiera co munanza; distinzione, che riflettesi eziandio nei iudicia, i quali fin da Servio Tullio cominciano a dividersi in iudicia publica e pri vata. A queste si potrebbero aggiungere ancora molte altre distin zioni, che son tutte il riverbero di un medesimo concetto, che una volta accettato percorre l'intiera vita sociale e lascia dapertutto le traccie del suo passaggio. È in questo senso, che le proprietà si distinguono in due categorie, indicate coi vocaboli di ager pri vatus e di ager publicus; che i rapporti stessi, che possono correre fra cittadini e stranieri, subiscono la stessa distinzione, cosicchè la societas, l'amicitia, l'hospitium, il foedus si distinguono anche essi in pubblici e in privati. Non è quindi meraviglia, se parlisi eziandio di costume pubblico e privato, di virtù pubbliche e private, e se la distinzione si inoltri nei particolari più minuti della vita, co sicchè anche i servi stessi si distinguono in publici e privati, e chiamasi publicus l'equus, che è somministrato dallo Stato agli equites, che vengono così ad essere denominati equo publico. 182. Conviene quindi ammettere, che la distinzione dovesse es sere profondamente sentita, se essa lasciò le proprie traccie in qual siasi argomento. Non occorre poi di notare, che l'esplicazione dia lettica dei due concetti, che qui si compendia in pochi tratti, dovette naturalmente essere il frutto di una lunga evoluzione; ma se questa potè accadere colla fondazione della città, mentre prima non erasi avverata, la causa di un tal fatto deve trovarsi in ciò, che la città non si propose di agglomerare genti e famiglie, ma intese fin dapprincipio a sceverare la vita pubblica dalla privata. Che se si volesse spingere più oltre lo sguardo sarebbe anche facile il dimostrare, che la formazione della città cooperò eziandio allo svol gersi di sentimenti e di affetti, che prima non riuscivano a sceverarsi (1) Quanto alla distinzione dei sacra publica ac privata, è da vedersi Festo, vu Publica sacra (Bruns, Fontes pag. 358), stato già citato a pag. 43, nota nº 3. Quanto alla distinzione poi fra gli auspicia publica e gli auspicia privata, è da vedersi Mommsen, Le droit pubblic romain. Trad. Girard. Paris, 1887, I, pag. 101, cogli autori ivi citati in nota. 225 dagli affetti domestici e patriarcali. Fu infatti la città, che, accanto agli affetti di famiglia ed al culto per gli antenati, suscitò l'affetto per la propria terra, e il culto per coloro, che si sacrificavano per essa, e quell'illimitato amore di patria, che informa tutta la storia e tutta la letteratura di Roma, e che fece esclamare al cittadino ro mano: dulce et decorum est pro patria mori. Fu essa parimenti, che accanto al culto per i mores maiorum riusci a svolgere il concetto di una legge, espressione della volontà comune, che doveva a tutti essere nota, e costituire in certo modo la base e il fonda mento della comunanza civile. Fu essa ancora, che, accanto alle tradizioni, che si serbavano gelosamente nelle famiglie e nelle genti e si trasmettevano di generazione in generazione, diede origine a quella narrazione dei fasti e degli avvenimenti notevoli per la città, da cui doveva poi uscire la storia; al modo stesso che, accanto al comando del padre ed alla persuasione degli anziani, fece svolgere l'arte oratoria e l'eloquenza, le quali più non si impongono per l'au reola religiosa, da cui sono circondate, ma commuovono e trasci nano la moltitudine e la folla, a cui si indirizzano. Fu essa infine, che, accanto alla narrazione delle gesta degli eroi e dei principi, cantate nelle epopee primitive, rese possibile la storia militare e po litica della città e del popolo, e pose anche in evidenza l'impor tanza politica di quell'elemento, che chiamavasi plebe (1 ). 183. Dopo cið parmi di poter conchiudere, che non può essere accolta l'opinione di coloro, che considerano Roma primitiva come uno Stato patriarcale. « Lo Stato romano, noi diremo con un re. cente autore, che è il Pelham, appartiene, quanto alla sua struttura, ad uno stadio già molto più inoltrato dello sviluppo della convivenza sociale e suppone innanzi a sè una lunga preparazione storica. Certo esso conserva ancora le traccie di un più antico e più pri mitivo ordine di cose; ma queste sono traccie di un periodo ormai trascorso, le quali tendono sempre più a scomparire » (2). La supre (1) Per una più larga trattazione dei mutamenti, che recò nella vita sociale il surrogarsi della città all'organizzazione patriarcale, mi rimetto all'opera: La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, Torino, 1880, nº. 34, pag. 94 e segg., e alla dissertazione: Genesi e sviluppo delle varie forme di convivenza civile e po litica. Torino, 1878. (2 ) Pelham, vº Rome (ancient), nell'Encyclopedia Britannica, ninth edition. Edinburgh, 1886, vol. XX, pag. 731. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 15 - 226 - mazia dello Stato è ormai stabilita sopra ciascuno dei gruppi, dalla cui confederazione esso è uscito, e ciascuno di questi gruppi più non si mantiene, che come una corporazione di carattere esclusivamente privato. In questa parte pertanto « lo Stato Romano, come ben nota il Gentile, lascia a grande distanza la monarchia delle popolazioni Orientali, ed anche quella delle primitive società greche, la quale è ancora stretta da intimo vincolo colla divinità, da cui ritiensi pro cedere, e che trasmettesi per eredità nei discendenti per sangue, e signoreggia con assoluta potestà il populus od il demos, il quale è solo convocato ad udire le decisioni sovrane e non mai a deliberare. Il principio invece della sovranità popolare ed il diritto a partecipare all'amministrazione della cosa pubblica con un voto direttamente esercitato, e il diritto anche di voto nell'elezione dei reggitori dello Stato è fin dalle prime origini inerente alla cittadinanza romana » (1). Il Re, fin dagli esordii della città, è la suprema magistratura dello Stato, e questo è l'opera del volontario accordo dei cittadini e dei capi di famiglia, che concorsero alla sua formazione, i quali, nella propria elezione, più non badano esclusivamente alla nascita ed alla stirpe, ma cominciano a riguardare al valore ed alla sapienza dei proprii reggitori. Sarà collocandosi a questo punto di vista, che non segue questo o quell'elemento esclusivo, ma cerca di riguardarli tutti ad un tempo nel loro progressivo sviluppo, che potrà riuscire più facile di com prendere i primitivi elementi dello Stato romano, ed il carattere dei poteri, che lo governano. (1) GENTILE, Le elezioni e il broglio nella repubblica romana, Milano, 1879, pag. 2 e 3. 227 CAPITOLO II. Gli elementi costitutivi del primitivo Stato Romano. § 1. – Cause del rapido svolgimento di Roma e della sua primitiva costituzione. 184. Le cose premesse hanno abbastanza dimostrato, come nella formazione primitiva dell'organizzazione sociale domini una legge di evoluzione, non dissimile da quella, che governa le formazioni naturali. Le traccie di essa apparirono evidenti, allorchè fra i gruppi gentilizii si veniva lentamente preparando e quasi sperimentando in varie guise la convivenza civile e politica. Tuttavia questo concetto deve essere completato con osservare, che nella storia delle cose sociali ed umane, ogni qualvolta sono preparati gli elementi di una formazione novella, e questa trovi un terreno acconcio al proprio sviluppo, gli elementi, di cui si tratta, sembrano richiamarsi l'un l'altro, attirarsi scambievolmente, riunirsi per guisa, che la nuova formazione sboccia tanto più rigogliosa e potente, quanto è più matura la preparazione di essa. Per tal modo ad una lenta incuba zione può anche succedere una pronta e rapida formazione: il che talvolta accade ancora a ' nostri tempi, e accadde senz'alcun dubbio nella storia primitiva di Roma, allorchè la nuova città, dopo essere stata lungamente preparata, presentasi nella storia pressochè con sapevole della propria destinazione. Tutte le incertezze sembrano essere scomparse, e quasi si potrebbe dire con ragione, che la co stituzione primitiva di Roma, al pari di Minerva, sembra uscire compiutamente armata dal cervello di Giove. Se infatti si possono ancora scorgere delle incertezze, in quanto riguarda la formazione di una religione, comune alle varie tribù, perchè questo non è lo scopo essenziale, a cui Roma intende; la costituzione politica di Roma invece sembra in certo modo essere il frutto di una intuizione po tente, tanta è l'armonia dell'edifizio, tanta l'efficacia e l'acconcezza dei vocaboli, con cui si esprimono le singole istituzioni, tanto è il sentimento, che ciascun organo del nuovo Stato ha di sè medesimo. e del contributo, che deve recare all'opera comune. Noi ci troviamo 228 di fronte ad un popolo, che con uno sforzo collettivo giunge a mo dellare ne' fatti un edificio, al quale a stento potrebbe riuscire un pensatore, che raccolto nelle proprie meditazioni cercasse di isolare da una quantità di materiali, posti a sua disposizione, tutto ciò, che si riferisce alla vita politica, giuridica e militare. Tutte le energie naturali e sociali sembrano concentrarsi in un'opera sola, e ben può dirsi con Ennio e con Cicerone, che fin dai propri esordii: Moribus antiquis res stat romana virisque. Secondo la tradizione, bastó un solo regno per porre le basi di una costituzione, che richiese poi parecchi secoli per svolgersi in tutte le sue parti (1): nè la tradizione pud essere così facilmente respinta, come vorrebbe la critica moderna, in quanto che noi difficilmente possiamo comprendere l'entusiasmo potente, da cui poterono essere stimolati re, senato, sacerdozii e popolo, allorchè erano intesi tutti all'attuazione di un grande concetto. 185. L'urbs, dopo la federazione delle varie tribù, viene ad essere collocata in un sito, a cui hanno facile accesso le diverse comunanze e trovasi così in tale posizione da potersi cambiare nel l'emporio del Lazio. Essa per la prima, fra le comunanze italiche, da cui trovasi circondata, l'ha rotta colle tradizioni, e si è formata mediante il connubio di genti, che appartengono a stirpi e a nomi diversi. I padri, che si riunirono per costituirla, hanno parentele ed aderenze nei territori contigui, e probabilmente continuano a tenervi delle possessioni, e possono così esercitare un'attrazione potente sulle popolazioni vicine, a qualunque stirpe esse appartengono. Se a tutto ciò si aggiunge la fortuna della nascente città, la fortezza della sua posizione e delle sue mura, il carattere tenace e perseverante de' suoi cittadini, che tutto aspettano dall'avvenire di essa, potrà lasciarci ammirati, ma non increduli il suo rapido incremento. Anche lasciando in disparte il provvedimento, che viene attribuito a Ro molo, di aver aperto un asilo ai rifugiati delle altre città, era na turale, che essa dovesse cambiarsi in un asilo per tutti coloro, che « Vi. (1) Cic., de Rep., V, 1. È lo stesso CICERONE, che insiste più volte sul rapido svolgimento di Roma all'epoca romulea, e fa dire fra le altre cose a Scipione: detisque igitur, unius viri consilio non solum ortum novum populum, neque ut in cunabulis vagientem relictum, sed adultum iam pene et puberem? » (De rep., II, 11). Lo stesso pure appare dal racconto di Livio e di Dionisio. 229 si trovassero spostati nella propria terra o nella propria organiz zazione gentilizia. Il grande scopo dei fondatori era quello di fon dere insieme questi elementi diversi e di unificare così la città, tanto nelle mura, che la circondano, quanto nei concetti giuridici politici e militari, che servono a stringerne insieme le parti diverse. 186. La cerchia delle mura e la sua compagine interna sembrano cosi procedere di pari passo. I suoi fondatori già hanno una lunga esperienza di cose civili e non ignorano anche i riti religiosi, da cui deve essere accompagnata la fondazione di una città. Cominciasi pertanto dagli auspizi, per conoscere « quod bonum, felix, faustum, fortunatumque siet populo Romano», e per tal modo anche la re ligione viene ad essere posta a base della nuova formazione. Quanto alla sua costituzione interna, tutto sembra essere preparato ed ac concio. I concetti politici di Roma primitiva, nella loro sintesi po tente, possono essere paragonati a quei massi rozzamente modellati, che sovrapposti gli uniagli altri formano la cerchia delle sue mura, e che per il proprio peso e la propria quadratura non abbisognano di essere cementati gli uni con gli altri. Essi non escono da una costituzione scritta: ma erompono dalla stessa realtà dei fatti, e sono altrettante costruzioni logiche e coerenti in tutte le loro parti, le quali, una volta accolte nella costituzione, potranno essere svolte con rigore dialettico, fino a che non abbiano ricevuto tutto lo svi luppo, di cui possono essere capaci. Le forme esteriori delle istituzioni politiche di Roma sono bensì ricavate da istituzioni analoghe, esi stenti nell'organizzazione anteriore, ma il contenuto di esse viene ad essere determinato dalle esigenze della nuova città. Quanto all'in tento, che la città si propone, esso è universalmente sentito, e quindi non è meraviglia, se la nuova città proceda verso il proprio scopo con l'ordine, con cui si dispiegherebbe un esercito, e se dei suoi fondatori possa dirsi col poeta: cui lecta potenter erit res, nec facundia deseret hunc, nec lucidus ordo (1). Per tal modo il concetto della città presentasi determinato in tutte le sue parti, e si esplica con un rigore geometrico, che rende pos sibile di rifare i diversi stadii, che ha dovuto percorrere. (1 ) ORAZIO, Ars poetica. 230 187. La città è un edifizio nuovo, costruito con elementi tolti dall'organizzazione gentilizia preesistente, i quali però, mirando ad un intento novello, ricevono uno svolgimento compiutamente diverso. L'urbs è una selezione dalle comunanze di villaggio circostanti, per cui tutti gli edifizii, che hanno pubblica destinazione, sono con centrati in un medesimo sito; il populus non è tutta la popolazione delle comunanze, ma il complesso dei viri, che col braccio e col consiglio possono cooperare all'interesse comune; la civitas non è più un vincolo di sangue, ma è determinata dalla partecipazione alla medesima vita pubblica sotto l'aspetto politico e militare ad un tempo; il munus non è il complesso delle obbligazioni, che incom bono all'uomo come tale, ma il complesso dei diritti e delle obbli gazioni, che derivano dall'ubbidire al medesimo diritto e dal par tecipare alla stessa comunanza civile e politica (1); la res publica non è la somma degli interessi de' singoli cittadini,ma il complesso degli interessi, che riguarda l'universalità dei cittadini, considerata come un tutto organico e coerente; infine la lex publica è il com plesso dei patti ed accordi votati nei comisii, in base ai quali si conviene di partecipare alla stessa vita pubblica, e quindi per la formazione di essa debbono concorrere tutti gli elementi costitutivi della città. 188. Intanto perd nella formazione della città non può aversi altro punto di partenza, che quello delle istituzioni preesistenti, per guisa che il nuovo edificio richiama pur sempre l'antico, ma intanto la sua base è mutata; poichè mentre quello si reggeva sull'eredità e sulla discendenza, questo invece si fonda sulla capacità e sull'ele zione; mentre quello si fondava sul vincolo del sangue, questo invece pone la sua base salda sopra un determinato territorio, nel quale si fortifica e si chiude; mentre in quello ogni cosa veniva ad essere determinata dall'età e dalla posizione naturale, che altri tiene nella famiglia e nella gente, in questo invece le funzioni degli (1) « Munus (scrive Festo, quale è restituito dal Mommsen nell'ultima ediz. del Bruns, Fontes, pag. 344 e 3-15 ) dicitur administratio reipublicae, magistratus alicuius, aut curae, imperiive, quae multitudinis universae consensu, atque legitimis in unum convenientis populi comitiis, alicui mandatur per suffragia, ut capere eum eamque oporteat, et statim, certove ex tempore, certum usque ad tempus administrare », Qui però il vocabolo munus è preso in una significazione più ristretta, che non quella che lo stesso autore vi attribuisce, quando discorre del municipium. - 231 individui vengono ad essere determinate dalla cooperazione, che possono recare alla città. Giovani debbono esserne i soldati; anziani debbono esserne i consiglieri. — Solo potrebbe trarre in inganno quel l'aureola religiosa, che sembra ancora circondare la formazione della città; maanche questa religione non deve più confondersi con quella preesistente; essa non è nè il fondamento, nè l'intento supremo, a cui la città intende, come sembra sostenere il Fustel de Coulanges (1); ma è soltanto una consacrazione dello scopo, che viene a proporsi la nuova comunanza, politica e militare ad un tempo, e quindi anche la sua religione, i suoi sacerdozii, i suoi auspizii hanno un carattere pubblico, e come tali si contrappongono alla religione, ai sacerdozii, e agli auspicii delle singole genti. $ 2. Il populus e le sue ripartizioni (tribus, curiae, decuriae). 189. Anche le divisioni, che compariscono nella città, a prima giunta appariscono come un riverbero di quelle, che esistevano nel periodo precedente e quanto alla loro conformazione esteriore, sono veramente tali; ma se si riguardano più da vicino, si presentano con un contenuto, che già comincia ad essere diverso e che tende a diventarlo sempre più. Così è certamente vero, che la città viene ad essere divisa in tribu; ma è evidente, che questa divisione in tribů, trasportata nell'interno di una stessa comunanza, non può più considerarsi come una distinzione del populus, ma tende di necessità a cam biarsi in una ripartizione del suo territorio. Le tre tribù primitive, ancorchè serbino per qualche tempo la denominazione antica, ten dono necessariamente a trasformarsi in altrettante divisioni territo riali; poichè col mescolarsi degli elementi riuniti in una stessa co munanza, la distinzione delle stirpi primitive finisce per non più corrispondere alla realtà dei fatti. Come si potrà ancora parlare di una tribù di Ramnenses, di Titienses e di Luceres, quando, per la comunanza di connubio e di diritto, le varie genti si vengono me scolando insieme e nulla pud impedire, che le persone di una stirpe possano anche trasportare la propria sede nel territorio dell'altra? Si (1 ) FUSTEL DE COUlanges, La cité antique, liv. III, chap. 5, 6, 7. 232 comprende pertanto, che fin dapprincipio i re tentassero di togliere di mezzo questa distinzione, che solo ebbe a mantenersi ancora per qualche tempo in conseguenza di quello spirito conservatore, che dimostrasi tenace sopratutto fra le genti di stirpe Sabina, alle quali appunto apparteneva l'augure Atto Nevio. La sua opposizione tut tavia non mutasi che in una dilazione, e la soppressione delle an tiche tribù, se non di diritto, verrà ad essere operata di fatto da Servio Tullio, che alla tribù fondata sulla discendenza sostituirà la tribù di carattere territoriale, e sarà cosi conservato il nome antico per indicare una istituzione compiutamente nuova. In questo modo infatti si sostituisce il vincolo territoriale, a quello della discendenza, che prima era il solo ad essere riconosciuto (1). 190. La distinzione invece, che è veramente fondamentale per il populus, è quella per cui il medesimo viene ad essere ripartito in curiae. Un tempo si è dubitato circa il carattere originario delle curiae, e sull'autorità del Niebhur si è soventi sostenuto, che esse non fossero, che aggregazioni di gentes, e che si ripartissero anzi in gentes (2 ). Ora però comincia ad essere universalmente ammesso, che la curia può essere una istituzione, la cui origine è forse an teriore alla comunanza romana, e che poteva già essere conosciuta alle genti latine ed etrusche; ma che essa deve ad ognimodo essere considerata come la base di tutte le divisioni politiche e militari della città, finchè questa si mantenne esclusivamente patrizia. Essa, al pari del populus, di cui è una suddivisione, costituisce una cor porazione religiosa, politica e militare ad un tempo; ha un proprio capo (curio); un proprio sacerdote (flamen curialis ); un proprio culto, che fa parte dei sacra publica; un proprio santuario (sacel um ); e tutte insieme riunite hanno proprie assemblee, che pren dono il nome di comitia curiata. L'esattezza stessa del loro nu mero già dimostra come questa divisione abbia un carattere del tutto artificiale, e miri a uno scopo preordinato, che è quello di dare (1) Del resto anche VARRONE, De ling. lat., IX, 9, parla della divisione primitiva in tribù, come di una divisione piuttosto dell'ager che del populus. Cfr. Karlowa, Röm. R. G., I, pag. 31, il quale anzi nota che la distinzione in tribus, secondo Livio I, 13, si applicherebbe di preferenza agli equites. (2) Niebhur, Histoire Romaine. Trad. Golbery. Paris, 1830, II, pag. 19. Vedi in proposito ciò, che si è detto parlando delle gentes nel lib. I, cap. III, al nº. 28 e seg. e nelle note relative. 233 - ai quiriti, posti sotto la protezione della religione, un ordinamento politico e militare ad un tempo, per modo che essi sotto un aspetto possano costituire un'assemblea di quiriti, e sotto un altro un eser cito di Romani. Quello viene ad essere il loro nome nei rapporti interni (domi), e questo è quello, con cui sono designati nei rapporti esterni (foris, militiae). Nulla vieta, che imembri di una medesima curia siano anche stretti da vincoli gentilizi fra di loro, e che essi, come attesta Aulo Gellio, siano anche tratti ex generibus homi num (1); ma le curie sono già composte di uomini scelti, di viri, diguerrieri armati di lancia (quiris), di persone comprese in certi limiti di età, e quindi non possono più avere colle gentes altro rapporto, salvo quello che da esse ricavasi il contingente, che entra a costituirle. È quindi incomprensibile, che le curiae possano ripartirsi in gentes, le quali comprendono indistintamente tutti coloro, che derivano dal medesimo antenato, senza riguardo nè all'età, né al sesso. Solo può dirsi, che i membri della curia possono essere considerati sotto un doppio aspetto: o in rapporto colle famiglie, colle genti, colle tribù, da cui ebbero a staccarsi, e sotto quest'aspetto essi continuano ad essere dei gentiles; o rimpetto al populus ed alla civitas, di cui entrano a far parte, e sotto questo aspetto sono dei viri, dei quirites, degli uomini di arme e di consiglio, che non debbono avere altro pensiero, che quello della res publica. 191. Quanto alla suddivisione in decuriae, che è solo accennata da Dionisio, essa non può certamente essere confusa colla riparti zione in gentes, come avrebbe voluto il Niebhur; ma può essere facilmente compresa, quando si ritenga, che dalle curie usciva poi quel contingente, scelto e nominato dal re, che doveva poi entrare a costituire le centurie dei cavalieri e le decurie dei senatori. I (1) Aulo Gellio, Noctes Atticae, lib. XV, 27, ci conservò in succinto tutta una teoria intorno ai comizii, che egli dice di aver ricavata dal libro di Laelius Foelix, ad Quintum Mucium, e sarebbero parole testuali di quest'ultimo le seguenti: « cum ex generibus hominum suffragium feratur, curiata comitia; cum ex censu et aetate, centuriata; cum ex regionibus et locis, tributa ». Fu anche fondandosi su questo passo, che si è sostenuto per lungo tempo, che le curiae si dividessero in gentes; ma parmi evidente, che, anche ammettendo che genus in questo caso suoni gens, il medesimo non potrà mai condurre ad altro risultato salvo a quello, che il contingente delle curie era ricavato dalle genti e in base alla discendenza, mentre quello delle cen turie era ripartito in base al censo, e quello dei comizii tributi in base alle località o alle tribù, a cui erano ascritti i cittadini. 234 senatori (patres) ed i cavalieri (celeres, equites) nella città primi tiva appariscono come due corpi scelti nel seno stesso delle curie, e corrispondono in certo modo alla divisione dei iuniores e dei se niores. I primi sono l'elemento giovine, splendido nell'armi, che costituisce il corteggio del re e l'ornamento della città (civitatis or namentum ), sotto il comando di un tribunus celerum, o di un magister equitum; mentre il senato, nella concezione estetica ed armonica della città primitiva, rappresenta l'elemento più maturo negli anni, più saggio nel consiglio, e costituisce veramente il con siglio, da cui il re è circondato (regium consilium ). Non vi ha poi dubbio, che l'uno o l'altro elemento viene ad essere ricavato dal seno delle curie, e quindi è assai probabile, che, nell'ordinamento simmetrico della città primitiva, ogni curia potesse anche sommini strare un numero eguale di cavalieri e di senatori, numero che dovette appunto essere quello di dieci per ogni curia; donde il con cetto, che anche le curiae si dividessero in decuriae. Del resto non avrebbe nulla di ripugnante, che questa suddivisione esistesse vera mente nel seno delle curie: mentre sarebbe in ogni caso incom prensibile, che le curie si potessero suddividere in gentes (1 ). 192. Conchiudendo si può dire: che la ripartizione in tribù, qualunque potesse esserne la significazione primitiva, tende a cam biarsi in una divisione territoriale, ossia in una ripartizione del l'ager; che il populus, ricavato per selezione dalle genti e dalle tribù, dividesi in curiae, che sono corporazioni religiose, politiche e militari ad un tempo, i cui quadri sono regolari, come quelli diun esercito, cosicchè riunite possono costituire sotto un certo aspetto un esercito e sotto un altro aspetto un'assemblea politica, e sotto altro assumono eziandio un carattere sacerdotale, che fu quello (1) Che le decuriae non debbano confondersi colle gentes, ma debbano invece ri cercarsi piuttosto negli equites e senz'alcun dubbio anche fra i patres del senato, è provato anzitutto da ciò, che il senato fin dai primi tempi si divideva senz'alcun dubbio in decuriae, il che dovette pure essere degli equites, il cui corpo, secondo OVIDIO, Fast., III, 130 dividevasi appunto in dieci squadroni o turme, così chia mate « quasi turimae, quod ter deni equites, ex tribus tribubus Titiensium, Ramnium, Lucerum fiebant » (V. Festo, vº Turmam ). Del resto la divisione del senato in de curiae fu ancora mantenuta nelle coloniae e nei municipia, dei quali si sa, che erano organizzati sul modello stesso della metropoli. Cfr. in proposito Belot, His toire des chevaliers romains, I, pag. 151, 152; e il Bloy, Les origines du Sénat romain. Paris, 1883, pag. 102-105. 235 - che serbarono più a lungo, allorchè già avevano perduto le altre funzioni politiche e militari; che da ultimo il corpo scelto degli equites e dei patres dividesi in decuriae. Questo è certo ad ogni modo, che nel populus non deve più essere cercata la riparti zione in gentes, delle quali solo si può dire ciò, che Cicerone disse più tardi della famiglia, che esse cioè erano il seminarium reipublicae, perchè da esse ricavavasi il contingente, che entrava a costituire le curie. § 3. — Il pubblico potere e gli aspetti essenziali del medesimo (regis imperium, patrum auctoritas, populipotestas). 193. Intanto questo esame del populus e della sua composizione può facilmente condurci a spiegare in qual modo abbia potuto sboc ciare nel seno del medesimo il concetto del pubblico potere, ed in quali forme esso siasi venuto manifestando. I vocaboli sono qui una guida incerta, poichè il potere in genere viene ad essere indicato, ora col vocabolo di potestas, ed ora con quello di imperium; ma l'in certezza, che è nei vocaboli, può essere tolta di mezzo, se si riesca a ricostruire il processo logico, che in questa parte seguirono i Romani. Anche a questo riguardo esistevano degli elementi, che già erano preparati nell'organizzazione preesistente. Per unificare la città, presentavasi acconcia la figura del padre; per consultarsi nei momenti più difficili, eravi il consiglio degli anziani; e in fine per deliberare intorno alle cose, che riguardavano il comune interesse, già si conosceva l'assemblea della tribù. Erano così in pronto l'elemento monarchico, l'aristocratico e il democratico; nė ai fondatori della città patrizia poteva ripugnare, che queste con figurazioni dell'organizzazione gentilizia fossero trasportate nella nuova comunanza. L'imitazione dell'antico avrebbe conciliato rive renze alle istituzioni novelle, e quindi tutte queste estrinsecazioni del potere, preesistenti nell'organizzazione anteriore, ricompariscono nella città; ma intanto il concetto ispiratore viene ad essere com piutamente diverso. Il re infatti non è più tale per nascita, ma è creato dall'elezione; il che deve pur dirsi del senato, e fino anche dei comizii del popolo, i quali non sono una moltitudine, ne una folla, in qualsiasi modo congregata, ma costituiscono un esercito di uomini di arme, ed un'assemblea, debitamente organizzata, di uomini di senno e di consiglio. Il re, il senato ed il popolo, adu 236 nato nei comizii, vengono così ad essere i tre organi essenziali, in cui si estrinseca il pubblico potere nella costituzione primitiva di Roma. 194. Quanto al vocabolo adoperato per significare questo supremo potere, la cosa è dubbia, poichè occorrono in significazione generica ora quello di potestas, ed ora quello di imperium. Dei due vocaboli tuttavia quello, che a mio avviso appare più largo e comprensivo, è certamente il vocabolo di potestas, il quale, per la propria ge neralità, può facilmente adattarsi ad indicare qualsiasi gradazione del pubblico potere. Esso quindi si applica talora per significare il potere del magistrato (potestas regia, consularis, censoria ); quello del popolo (populi potestas) e talvolta eziandio quello del senato, al modo stesso che può anche adoperarsi per significare il potere domestico e privato. Potestas insomma, nella sua significa zione più larga, indica il potere, riguardato in tutte le sue mol teplici manifestazioni; il che però non toglie, che, contrapponen dosi talvolta lo stesso vocabolo a quello di imperium, possa anche assumere una significazione più circoscritta (1). L'espressione quindi (1) Questa incertezza di significazione fra potestas ed imperium è notata, fra gli altri, dal KARLOWA, Röm. R. G., I, pag. 84, il quale trova eziandio, che il voca bolo di potestas ha una significazione più generica. Così pure la pensa il MOMMSEN, secondo il quale il vocabolo di potestas esprime l'idea più larga, e quello di impe rium la più ristretta; sebbene ciò non tolga, che nel linguaggio corrente il vocabolo di imperium siasi poscia riservato alle magistrature maggiori,mentre si adoperò quello di potestas per i magistrati, che non avevano imperium. Ciò risulta dal passo di Festo ivi citato: « Cum imperio dicebatur apud antiquos, cui nominatim a populo dabatur imperium; cum potestate est, dicebatur de eo, qui negotio alicui praeficiebatur ». Le droit public romain, I, pag. 24. Lo stesso autore poi osserva, che quel vocabolo di imperium, che in un senso tecnico indicava in genere il potere del magistrato, in un senso ugualmente tecnico e più frequente indicava il comando militare. Op. cit., I, pag. 135. Parmi tuttavia, che queste apparenti incoerenze nella significazione di questi vocaboli vengano a dileguarsi, quando si ritenga, che il vocabolo di potestas indicava il potere pubblico in genere, mentre quello di imperium usavasi di prefe renza per il potere del magistrato, e più specialmente ancora per l'imperium militiae. Anche nell'indicazione del potere privato del capo di famiglia accadde alcun che di analogo. Questo potere infatti in origine era indicato col vocabolo generico dimanus o di potestas; ma ciò non tolse, che questi vocaboli abbiano poi designato i singoli aspetti di questo potere, cioè la manus il potere del marito sulla moglie, e la po testas quello del padre sui figli. Ciò significa, che i vocaboli presentansi dapprima con una significazione più larga, che corrisponde al vigore sintetico di quei concetti primitivi, di cui sono l'espressione; ma quando poi questi concetti si vengono diffe renziando nei varii loro aspetti, il vocabolo primitivo suol sempre essere mantenuto per significare in modo più specifico uno di tali aspetti. 237 - più generale del potere viene ad essere quella di publica potestas; ma siccome poi esso può atteggiarsi sotto aspetti diversi, così ben presto nella indeterminazione primitiva, compariscono i vocaboli, che esprimono gli atteggiamenti diversi, che il medesimo viene ad assumere. Tali sono i vocaboli di imperium, che applicasi di prefe renza al potere del magistrato; quello di auctoritas, che sopratutto si accomoda al senato; e quello infine di potestas, che, applicato al popolo, indica il potere di esso, in quanto iubet atque constituit (1), Tutti questi concetti sono ancora vaghi ed indeterminati: ma intanto sono concepiti in una sintesi potente, che renderà possibile a cia scuno di ricevere uno svolgimento pressochè indefinito. 195. Ciò può scorgersi anzitutto quanto al concetto di imperium, che indica di preferenza il potere del magistrato. Il medesimo, nel concetto romano, non esce dalla nascita, nè dalla investitura divina; ma esce dall'accordo delle volontà, che concentrano ed unificano in esso il potere, che prima era disperso fra i singoli capi di fa miglia, alla cui potestà trovasi talvolta applicato il vocabolo stesso di imperium. Per esprimere un tal concetto non poteva esservi im magine più efficace, che quella di raccogliere e di riunire quelle aste, che sono l'emblema del potere spettante ai singoli quiriti (2 ). (1) Che il potere del re e degli altri magistrati maggiori, che a lui sottentrarono più tardi, sia di regola indicato col vocabolo di imperium, è cosa che appare da tutti gli antichi scrittori. È poi sopratutto CICERONE, che accenna a queste varie distin zioni, allorchè afferma che « potestas in populo, auctoritas in senatu est ». De le gibus III, 12, § 28; distinzioni, che egli fa rimontare fino agli inizii di Roma, in quanto che, parlando di Romolo, scrive: « vidit singulari imperio et potestate regia tum melius gubernari et regi civitates, esset optimi cuiusque ad illam vim do minationis adiuncta auctoritas », nel qual passo il potere regio viene efficacemente chiamato vim dominationis, mentre quello del senato è indicato con quello di au ctoritas. De rep., JI, 8. (2) Magistratus, scrive a questo proposito il Mommsen, è l'individuo investito di una magistratura politica regolare, in quanto essa emana dall'elezione del popolo (Le droit public romain, I, pag. 8 ); e aggiunge poi a pag. 10, che il magistrato, quanto alle forme esteriori, è appunto colui, che ha diritto di portare i fasci dentro la città. Ora se il magistrato è l'eletto del popolo, e se i fasci, che simboleggiano i poteri riuniti dei quiriti, sono l'emblema del suo potere, non so veramente com prendere, come siasi potuto sostenere, in parte dallo stesso Mommsen, che il re non riceva il proprio potere dal popolo: tanto più, che gli scrittori antichi parlando del popolo usano le espressioni di imperium dare, magistratum creare, iubere, sibi ad scire e simili. 238 Per tal guisa, dal fascio delle armi usci il fascio dei littori, e si frapposero in esso anche le scuri, che simboleggiano quel ius vitae et necis, il quale apparteneva al capo di famiglia, e non poteva perciò essere negato al capo della città. È tuttavia degno di nota, che questo imperium, formatosi mediante la riunione dei poteri spettanti a ciascuno, appena costituito apparisce pauroso per coloro stessi, che ebbero a conferirlo, in quanto che le sue stesse insegne esteriori (fasces) indicano, come al disopra del potere dei singoli siasi formato un potere collettivo, a cui tutti debbono inchinarsi. È questa la causa, per cui, davanti ai fasci dei littori, si apre la molti tudine e la folla per lasciare il passo a quel magistrato, il quale, mentre è il frutto dell'elezione di tutti, viene ad essere imponente e pauroso per ciascuno; e che se il magistrato ordini al littore « col liga manus », il cittadino non osa sottrarsi al comando. 196. Intanto in questa prima concezione del potere del magi strato, non si potrebbe certamente aspettare, che siano determinati i confini, in cui il medesimo debba essere contenuto. La necessità di un elemento unificatore è universalmente sentita, trattandosi di una città, che fin dalle proprie origini era il frutto della con federazione di elementi eterogenei e diversi; né si può aspettare, che un popolo, il quale non pose dapprima alcun limite al potere giuridico del capo di famiglia, possa cercare di mettere dei confini alpubblico potere del magistrato. Il medesimo percid compare senza limitazione di sorta; è potere religioso, militare, politico e civile ad un tempo; ed è concepito in una sintesi cosi potente, che, secondo il Mommsen, per ricostruire il potere primitivo del re, con viene in certo modo ricomporre quei poteri, che si vennero poi di stribuendo fra tutte le magistrature più elevate di Roma, quali sono il console, il pretore, il dittatore ed il censore (1). Fu solo l'esperienza, che venne dopo, che fece conoscere come del potere possa abusare anche un eletto dal popolo, e in allora si assiste ad una singolare scomposizione del potere primitivo del re, per cui ogni sua particolare funzione finisce per dare origine ad una ma gistratura speciale. Tuttavia, anche allora, cercherebbesi indarno una circoscrizione netta di qualsiasi potere, cosicchè il magistrato ro mano, che può talvolta essere reso impotente per un atto di minima (1) Mommsen, Op. cit., pag. 5 e 6. 239 importanza, viene ad avere un potere pressochè senza confini, al lorchè trovasi appoggiato e sorretto dalla pubblica opinione. 197. Lo stesso è a dirsi della patrum auctoritas. Anche qui occorre un vocabolo, che come quello di potestas, presentasi con significazione alquanto vaga ed indeterminata, e che trovasi applicato eziandio, cosi in tema di diritto pubblico che di diritto privato. Chi ben riguardi tuttavia non potrà a meno di notare, che il vocabolo auctoritas, nella varietà delle significazioni, che sogliono essergli attribuite, significa costantemente l'appoggio, l'approvazione, la ga ranzia, che si arreca o si assume per un determinato atto. Tale è la significazione fondamentale di questo vocabolo, sia quando parlasi di iuris auctoritas, di usus auctoritas, sia anche quando è questione di tutoris auctoritas, o del venditore, il quale, dovendo garentire l'evizione al compratore, auctor fit dirimpetto al medesimo. Or bene anche questa è la significazione del vocabolo di patrum auctoritas. Da una parte havvi il re, che agisce ed esercita l'imperium, dal. l'altra il popolo, il quale iubet atque constituit; mentre il senato trovasi nel mezzo, e cosi da una parte dà i suoi consilia almagi strato, dall'altra auctor fit, cioè accorda la propria approvazione alle deliberazioni del popolo (1). Esso componesi di persone, alle quali, per la loro età e per il loro grado, si appartiene non tanto l'agere, quanto il consulere, e quindi, senza avere propria iniziativa, completa in certo modo l'opera dell'uno e dell'altro; poichè per mezzo del senato le misure prese dal re vengono ad avere l'autorità e l'appoggio del suo consiglio, e le delibera zioni del popolo ricevono consistenza ed autorità, mediante la sua approvazione. Finchè dura il periodo regio, il concetto si man tiene ancora vago ed indeterminato; ma durante il periodo repub blicano quest'autorità, essenzialmente consultiva, riceverà una lar ghissima esplicazione, e finirà per penetrare in qualsiasi argomento; e quindi può affermarsi a ragione, che la grandezza di Roma non fu (1 ) L'ufficio consultivo, che il senato compie rispetto al re, è bellamente espresso da CICERONE, allorchè dice di Romolo: « Itaque hoc consilio et quasi senatu fultus ». De rep., II, 8. Quanto poi all'auctoritas, che il senato esercita rimpetto al populus, essa non può certamente pareggiarsi coll' auctoritas tutoris dirimpetto al pupillo, perchè non trattasi qui di integrare una personalità incompleta; ma bensì di recare il sussidio e l'autorità, che viene dall'età e dall'esperienza, ai provvedimenti, che ri guardano il pubblico interesse. Cfr. Karlowa, Röm. R. G., I, pag. 47. 240 solo opera della fortezza del suo popolo, nè dell'energia del suo ma gistrato, ma benanco della sapienza del suo senato. Per i Romani ebbe importanza l'agere e il iubere; ma l'uno e l'altro dovettero essere temperati dal consulere. 198. Intanto, dacchè sono in quest'argomento, importa qui di accen nare alla questione tanto controversa, fra gli autori, circa la signifi cazione da attribuirsi al vocabolo di patrum auctoritas: col qual vocabolo alcuni intendono l'approvazione del senato; altri invece l'approvazione, che, durante i primi secoli della repubblica, i pa trizii delle curie dovevano dare alle deliberazioni prese negli altri comizi; mentre altri infine ritengono, che con esso intendasi l'ap provazione dei senatori esclusivamente patrizii (1 ). Sembra a me, che la questione possa essere risolta in modo assai più naturale e più verosimile, quando si abbia presente che, in una lunga evoluzione storica, quale è quella della costituzione politica di Roma, una stessa espressione può in varii periodi di tempo anche assumere significazioni compiutamente diverse. Durante il periodo regio, il vocabolo di patrum auctoritas significò senz'alcun dubbio l'approvazione del senato; perchè nella città esclusivamente patrizia erano chiamati col nome di patres i senatori, mentre gli altri capi di famiglia costituivano il populus e l'assemblea delle curie. Più tardi invece, allorchè, accanto ai comizii curiati, si vennero for mando anche i comizii centuriati, ed anche i comizii tributi, il vo cabolo di patres o patricii potè naturalmente comprendere tutto l'ordine patrizio, il quale costituiva veramente l'ordine dei patres e dei patricii di fronte al rimanente del popolo, ed aveva ancora una propria assemblea, che era quella appunto delle curie. Di qui (1) Questa è una delle questioni più controverse, che presenti la storia politica di Roma, e credo veramente, che la causa del dissenso provenga dalla supposizione, che un medesimo vocabolo in una lunga evoluzione storica debba sempre avere una medesima significazione. Le opinioni diverse sostenute dagli autori possono vedersi riassunte dal WILLEMS, Le droit public romain, 5me éd., Paris 1883, pag. 208 e dal Bouché-LECLERCQ, Manuel des institutions romaines, Paris 1886, pag. 16, nota 1. Di recente la questione ebbe ad essere trattata con grande chiarezza ed eradizione dal PANTALEONI, L'auctoritas patrum nell'antica Roma nelle sue diverse forme (Rivista di filologia, 1884, pag. 297 a 395. Così pure ebbe nuovamente a trattarla il KARLOWA, op. cit., pag. 42 a 48; il quale finisce per associarsi all'opinione già soste nuta dal Rubino, che l'auctoritas patrum debba ritenersi per l'approvazione dei se natori patrizii. 241 la conseguenza, che d'allora in poi, per indicare l'approvazione del senato si usd di preferenza il vocabolo di senatus auctoritas, in quanto, che il senato aveva già cessato di essere composto esclusi vamente di veri patres, e cominciava a raccogliersi fra gli equites e più tardi fra i magistrati uscenti di uffizio (patres et conscripti); mentre il vocabolo di patrum auctoritas potè servire acconciamente per indicare la ratifica, che i comizii curiati, composti ancora dell'ele mento patrizio, dovevano dare alle leggi ed alle altre deliberazioni, che fossero state votate nelle altre riunioni comiziali; il che è dimo strato da ciò, che si usano promiscuamente le espressioni « patres o patricii auctores fiunt ». Siccome però in questo periodo, il senato è ancora essenzialmente l'organo del patriziato, così si comprende come posteriormente, allorchè la necessità della patrum auctoritas era stata abolita, l'espressione siasi talvolta adoperata per significare l'una o l'altra approvazione (1). (1) Nella gravissima questione, che è tuttora aperta, gli unici argomenti, vera mente saldi, di cui possiamo valerci, sono i seguenti: 1° Che l' auctoritas patrum, durante il periodo regio esclusivamente patrizio, non potè significare che l'approva zione del senato, come risulta dal racconto di Livio, relativo all'elezione di Numa, ove i patres, qui auctores fiunt, non possono essere che i senatori. Hist. I, 17, ed anche da Cicerone, il quale, comesopra si è visto, attribuisce l'auctoritas al senatus; 2° Che colla Repubblica il senato continuò senz'alcun dubbio ad approvare le deli berazioni curiate e centuriate, ed anche tribute, in quanto che parlasi più volte di senatus auctoritas, come risulta da Livio, XXXII, 6; IV, 46, ove i colleghi di Sestio di chiarano: nullum plebiscitum nisi ex auctoritate senatus passuros se perferri; 3º Che oltre a questa approvazione del senato si parla sovente di patres o di patricii auctores sopratutto da Livio, ogni qualvolta trattasi di proposta di un interrex, o di qualche provvedimento voluto dalla plebe. Hist. III, 40, 55, 59; IV, 7, 17, 42, 43 ecc. Ora quest'ultime parole non possono più riferirsi al senato, e quindi l'unica conclusione probabile viene ad essere, che, siccome l'assemblea delle curie, composta di patricii, era in certo modo stata esclusa dalla formazione delle leggi, la quale era passata invece ai comizii centuriati, che erano la vera riunione del populus, così essa, accid ritenesse sempre una parte nella formazione delle leggi, è stata chiamata a dare la patrum o patriciorum auctoritas, che venne così ad essere distinta dalla senatus au ctoritas. Cid fu una conseguenza della modificazione introdottasi nella costituzione colla introduzione dei comizii centuriati, e del principio ispiratore della costituzione primitiva, secondo cui, per la formazionedella legge, richiedevasi il concorso di tutti gli organi politici dello stato. Ciò che è accaduto dell'auctoritas patrum, si è pure verificato della lex curiata de imperio, ed anche della proposta dell' interrex, che pure appartengono all'assemblea esclusivamente patrizia, quale fu per qualche tempo ancora quella delle curie; mentre il Senato, avendo anch'esso accolto in parte l'ele mento plebeo, aveva seguito lo svolgersi della costituzione, e aveva così cessato di G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 16 - 212 199. Viene infine la potestas populi, e a questo riguardo io non dubito di affermare, che essa nel concetto della costituzione pri mitiva di Roma, debbe essere considerata come la sorgente di ogni altro potere. Alcuni autori trovano ripugnante, che Roma sia sen z'altro pervenuta al concetto della sovranità popolare, e quindi cercano di dare, come fondamento all'imperium del magistrato, il concetto degli auspicia, che essi considerano come una specie di investitura divina (1 ). Parmi invece, che la genesi dello Stato romano essere esclusivamente patrizio. Insomma, coll'accoglimento della plebe nel populus quiritium, il vero potere legislativo viene a portarsi nei comizii centuriati; ma in tanto l'assemblea delle curie conserva l'auctoritas patrum, la lex curiata de imperio, e la proposta dell'interrex. Certo è una congettura anche questa, ma mentre essa non contraddice ai passi degli antichi autori, corrisponde allo spirito della costitu zione primitiva, in cui ogni organo politico deve aver parte nella formazione delle leggi e nell'elezione del magistrato, ed al sistema romano, che, pur introducendo un nuovo organo politico, suole ancora mantenere per riverenza e per culto quelli, che esistevano precedentemente. Il vero intanto si è, che queste varie funzioni dell'as semblea delle curie non avevano più una vera ed effettiva influenza, poichè la lex curiata de imperio divenne una semplice formalità, la proposta dell'interrex era una reliquia del principio, che auspicia ad patres redeunt, e la patrum auctoritas soleva solo essere negata, quando trattavasi di opposizione d'interessi fra patriziato e plebe. Dovrò ritornare sull'argomento nel Capitolo III, al § 1° e 2°, discorrendo dello svol gimento storico del concetto di lex, e di quello dell'interregnum. Del resto delle opinioni poste innanzi dagli autori quella, che parmi la meno probabile, è quella adottata dal KARLOWA, che intende per patrum auctoritas l'approvazione dei soli senatori patrizii, perchè essa non si concilia coll'espressione dei patricii auctores fiunt, patricü coeunt, interregem produnt e simili, e perchè crea una divisione nel senato, che è incompatibile col carattere di unità coerente, che ebbe sempre questo corpo. Mentre l'assemblea delle curie diventava una soprav vivenza dell'antica' costituzione, il senato invece si mantenne sempre vigoroso e vi tale, e subì modificazioni analoghe a quelle del populus, senza mai portare le traccie di dissidii che fossero nel suo seno, poichè la nobiltà plebea, che entrava in esso, aveva già le stesse tendenze dell'antico patriziato. Che poi il vocabolo di patres, in questo periodo, fosse venuto a significare in genere l'ordine patrizio, è dimostrato in modo incontrastabile da quella disposizione della legge decemvirale: « connubium patribus cum plebe ne esto », dove il vocabolo patres non comprende certo soltanto i senatori, ma tutti i patrizü; come pure dal fatto, che gli storici parlano soventi dei iuniores patrum, la cui intransigenza è condannata dal senato. (1) Parmi, che questa proposizione sia abbastanza provata dalle espressioni ado. perate dagli autori per significare il potere del popolo. CICERONE, ad esempio, parla di questo potere, dicendo che il populus regem sibi adscivit, creavit, iussit, constituit; espressioni, che indicano abbastanza, che la potestà suprema, a suo avviso, risiedeva presso il popolo. Lo stesso è da lui confermato, allorchè nel discorso de lege agraria 2, 7, 17 dice: « omnes potestates, imperia, curationes ab universo populo romano 243 dovesse logicamente condurre al risultato di riporre la sorgente del pubblico potere nella sovranità popolare, circondandola però di quel l'aureola religiosa, che occorre in tutte le primitive istituzioni di Roma. Lo Stato romano esce dalla confederazione e dal contratto, e quindi al modo stesso, che la patria riceve la sua denominazione dai patres; così il potere pubblico si forma mediante la riunione del potere, che appartiene ai singoli quiriti, e che è rappresentato dalla lancia, di cui essi sono armati. Quanto agli auspicia, che appar tengono al magistrato, essi non mirano, che a dare una consacra zione religiosa al potere stesso, e a metterlo in condizione di sapere giudicare, se questo o quel provvedimento, da prendersi nel pubblico interesse, possa essere o non accetto agli dei. Che anzi gli auspicia publica del magistrato debbono considerarsi essi stessi come una trasmessione, che i padri fanno al magistrato di quegli auspicia, che appartengono a ciascuno di essi. Cid è dimostrato dal fatto che, du rante l'interregno, gli auspicia ritornano ai padri (ad patres re deunt auspicia ); il che significa, che in origine dovevano appartenere ai padri stessi, i quali, nell'interesse delle loro genti e famiglie, as sumevano quegli auspicii, che il magistrato romano doveva invece consultare, quando si trattasse di qualche deliberazione importante per il popolo stesso. Tuttavia se ai patres tornano gli auspicia, è però sempre al populus, che spetta di creare il magistrato, che debba succedere nell'imperium, come lo dimostra la tradizione, per venuta fino a noi, della elezione diNuma. Si aggiunge, che è solo dopo il conferimento dell'imperium, fatto mediante la lex curiata de imperio, che il re dapprima e le magistrature, che gli sottentrarono più tardi, possono entrare nell'adempimento del proprio uffizio. Ri tengo pertanto, che a questo proposito non possa essere accolta l'opi nione del Mommsen, la quale riesce pure inammessibile per il Kar proficisci convenit ». Lo stesso è indicato da Festo, allorchè parlando del magi stratus cum imperio, dice, che esso è quello al quale « a populo dabatur imperium ». Malgrado di ciò convien dire, che l'opinione contraria, come si vedrà in seguito, ha la prevalenza presso gli autori anche recenti, che si occuparono dell'argomento. Si accostano però al concetto da me sostenuto il Mainz, Introd. au cours de droit romain. Bruxelles, 1876, nº. 6, pag. 33, ed il GENTILE, Le elezioni e il broglio nella repubblica romana, il quale fino dapprincipio afferma molto chiaramente e giusta mente, a parer mio, che « i pastori della leggenda riconoscono Romolo per capo supremo; ma, pur conferendogli la somma autorità, riguardano ancor sempre se stessi quali depositarii, e quasi natural sorgente della sovranità ». 244 - lowa, secondo la quale la lex curiata de imperio non conferirebbe l'impero, ma soltanto vincolerebbe il popolo verso il re (1). Se cosi fosse infatti, il magistrato dovrebbe poter esercitare il proprio ufficio, anche prima di aver ricevuto questa specie di giuramento di fedeltà, che servirebbe ad obbligare il popolo, ma nulla aggiungerebbe al suo potere. Il vero invece si è, che anche in questa appare il carattere eminentemente contrattuale della costituzione primitiva di Roma, per cui anche il conferimento del potere supremo si opera colla forma propria della stipulazione, in quanto che havvi il magistrato, che prima di entrare in ufficio rogat imperium, ed havvi il popolo, che con una legge glie lo conferisce: e intanto l'uno e l'altro co noscono i diritti e le obbligazioni, che una legge di questa natura può loro conferire. Una prova poi di questo riconoscimento della sovranità popolare l'abbiamo per parte del patriziato, in quel fatto di Valerio Pubblicola, che in tempo di pace e dentro la città ordinava ai littori di abbassare i fasci, e di togliere daimedesimi le scuri, come pure nel fatto, che gli imperatori, quando già si erano fatti onnipotenti, sentirono il bisogno, per rispettare un tradizionale concetto, di essere investiti dell'imperium dal popolo. 200. Intanto però il concetto, che il potere supremo risiedesse nel popolo, non poteva in nessun modo affievolire l'imperium: poichè al modo stesso che il popolo doveva ubbidire alle leggi, che si erano (1 ) Che il magistrato non possa entrare in ufficio, e tanto meno esercitare l'im perium, prima della lex curiata de imperio, è provato da due passi di CICERONE, nei quali si dice: « consuli, si legem curiatam non habet, rem militarem attingere non licet » (De lege agraria, II, 12, 30 ) e più genericamente ancora: « sine lege cu riata nihil agi per decemviros posse » (Ibidem, II, 11, 28). Dal momento quindi, che il concetto dell'imperium dei consoli è in tutto identico a quello del regis im perium, non si comprende come il Mommsen, Staatsrecht, I, 588 s. possa ridurre la lex curiata ad un semplice giuramento di fedeltà, che vincola i soli sudditi, e meno an cora, che il Karlowa, op. cit., I, pag. 52 e 82 possa sostenere, che la lex curiata de imperio non sarebbe entrata in azione, che colla costituzione Serviana, ossia colla in troduzione dei comizii centuriati, i quali avrebbero conferita la potestas, mentre i comizii curiati avrebbero poi conferito l'imperium. Ciò è contraddetto ripetutamente da CICERONE, de Rep. II, 10, 17, 18, 20, che parla appunto della lex curiata de imperio a proposito dei primi re. Non solo deve negarsi, che questa lex entrò in azione solo colla costituzione Serviana; ma deve dirsi piuttosto, che essa da quel momento perde della propria importanza e riducesi ad una semplice sopravvi venza dell'antico ordine di cose, in cui erano i patres, che investivano il re del. l'imperium, e a cui ritornavano gli auspicia. - 245 da lui votate nei comizi, così esso doveva eziandio inchinarsi al potere, che aveva conferito al magistrato per mezzo di una pro pria legge. Che anzi questo potere riusciva tanto più efficace ed imponente, in quanto si fondava sopra una volontà collettiva, che ve niva a sovrapporsi alla volontà dei singoli. Ed è anche questo il mo tivo, per cui il potere del magistrato romano veniva in certo modo ad essere senza confini, finchè aveva l'appoggio della pubblica opinione. Fermo cosi il concetto della costituzione primitiva di Roma, quale esce dalla logica delle istituzioni (logica, che nel fatto dovette anche essere più rigorosa e coerente di quella, che a noi possa esser riu scito di ricostruire ), riescirà più facile di ricomporre insieme i cenni, che gli autori ci conservarono di questa primitiva costituzione e di comprendere il vero ed intimo significato della medesima. § 4. Il re ed il regis imperium. 201. Dei concetti politici del periodo regio, quello che presentasi modellato in modo più vigoroso e potente è certamente il potere del rex. Tutti i poteri infatti, che nel periodo anteriore, presso le genti latine, erano indicati coi vocaboli di magister populi, di magister pagi, di dictator, di praetor, di iudex appariscono fusi e concentrati nella concezione sintetica del regis imperium. Per tal modo il con cetto del rex da una parte inchiude la sintesi di tutte le manifestazioni del potere, che eransi avverate nel periodo gentilizio, e dall'altra è il punto di partenza,da cui prendono le mosse tutti i poteri, che, durante il periodo repubblicano, saranno poi affidati alle diverse magistrature maggiori. Il rex nel concetto romano è l'unificazione potente del populus; accoglie in sè la somma dei poteri, che possono essere necessarii nell'interesse della cosa pubblica; nė vi ha costituzione scritta, che gli prescriva alcun limite nell'esercizio dei medesimi. Cid però non toglie, che questi limiti esistano di fatto nel costume pubblico e privato; nel bisogno incessante, che il re ha dell'appoggio della pubblica opinione; ed anche negli imbarazzi, che gli possono creare i padri, ogni qualvolta egli volesse spingere troppo oltre la propria azione. Capo del populus, egli è custode eziandio della città spiega la vita pubblica (custos urbis), e deve avere la propria casa nel cuore stesso della città, accanto al sito, ove deve bru 246 ciare perenne il focolare della vita pubblica, che si conserva nel tempio di Vesta. Che se, per provvedere al pubblico interesse, debba abbandonare la città, dovrà lasciare nella medesima un proprio delegato, che prenderà il nome di praefectus urbis. È quindi anche il re, che provvede al lustro esteriore della città, che progetta e costruisce quelle opere grandiose, che già rimon tano all'epoca regia, e che non furono le meno durature fra quelle costruite nell'eterna città. È nella successione dei re parimenti, che può scorgersi una continuità nel grandioso intento di ampliarne le mura e le fortificazioni; lavori tutti, le cui reliquie dimostrano abbastanza, come trattisi di un concepimento, che già presentatosi ai primi re, ebbe poi ad essere continuato da quelli, che vi suc cedettero, non eccettuato quello, che aspird alla tirannide. 202. Cid quanto alla custodia materiale dell'urbs. Che se si con sidera dirimpetto al populus, il re, condottiero di un popolo, che è ripartito in curie, le quali hanno un carattere religioso, militare e politico ad un tempo, riunisce in sè tutti questi caratteri. Finché dura il periodo regio, il magistrato non è solo il capo dell'esercito (impe rator) od il magister populi, o il giudice cosi in tempo di pace che in tempo di guerra, ma è anche il sommo sacerdote del popolo romano. Esso è augure sommo, e tale appare Romolo stesso; è pontefice massimo, come lo dimostra il fatto, che questa ' magistratura sacer dotale del popolo romano compare soltanto colla repubblica, allorchè sentivasi già il bisogno di limitare in qualche modo il sovrano po tere, disgiungendone la parte che si riferiva alla religione, la quale ebbe ad essere ripartita fra il pontifex maximus ed il rex sa crorum; e fino a un certo punto esso è ancora il pater patratus del popolo romano, come lo dimostra il fatto, che nelle descrizioni dei più antichi trattati sono i capi dei due popoli, che vengono alla stipu lazione del foedus e al compimento solenne delle cerimonie del ius foederale o foeciale, mentre gli eserciti si limitano a salutarsi re ciprocamente, e così approvano tacimente l'opera dei proprii capi (1). Verò è, che già fin dal periodo regio noi troviamo l'istituzione dei collegii sacerdotali, ma questa creazione è opera del re stesso, nè essi hanno, anche nella città patrizia, alcuna partecipazione diretta all'e (1) Ciò appare dal seguente passo di Livio, I, 1, a cui se ne potrebbero aggiungere molti altri: « inde foedus ictum inter duces, inter exercitus salutationem factam ». - - 247 sercizio del pubblico potere; ma sono soltanto, come si dimostrerà a suo tempo, depositarii e custodi delle tradizioni giuridiche, politiche, internazionali delle genti e delle tribù, da cui essi sono tolti, e aiu tano così il re nella opera di unificazione legislativa, che dovette essere urgente cosa e difficile negli inizii di Roma, per trattarsi di città, che risultava dalle confederazioni di genti, che appartenevano a stirpi diverse (1). Vero è parimenti, che durante il periodo regio già appariscono altre cariche, quali sono quelle del tribunus celerum, dei quaestores parricidii, e deiduumviri perduellionis; ma anche questi non sono che ufficiali dipendenti dal re, e da lui nominati. Di qui la conseguenza, che è solo il re o qualche suo delegato, che può essere preceduto dai fasci dei littori e dalle scuri, simbolo del pubblico potere. È esso parimenti, che solo può convocare il popolo e il senato, salvo che egli deleghi questo potere al tribunus celerum o al praefectus urbis (2). È quindi vero, che colla creazione del regis imperium si rias sumono in una sintesi potente tutte le manifestazioni del magi stratus nel periodo gentilizio, e si inizia lo svolgimento di tutti i poteri, che possono convenire ad una comunanza civile e politica. Nel rex insomma, per usare una espressione dello Spencer, termina l'integrazione del potere preparatasi nel periodo gentilizio, e da esso incomincia quella differenziazione del potere pubblico, che dovrà poi operarsi nella città. 203. Per quello poi, che si riferisce ai poteri che sono inchiusi nell'imperium regis, indarno si cercherebbero quelle decise ripar tizioni, che compariranno più tardi. L'imperium regis è una con cezione logica, più che l'opera di una costituzione scritta, e quindi egli può compiere tutto ciò, che può essere indicato coi vocaboli di agere, di ius dicere, di rogare, di imperare. Egli deve pren dere norma più dalla funzione, che è chiamato a compiere nella città, che non da una precisa e particolareggiata determinazione del (1) Quanto al compito dei collegi sacerdotali in Roma primitiva, mi rimetto a quanto avrò a dirne in questo stesso libro, capitolo IV, § 2º. (2) Secondo il LANGE, Histoire intérieure de Rome, pag. 115, sarebbe, valendosi di questo potere, che Giunio Bruto, come tribunus celerum o Spurio Lucrezio Trici pitino, quale praefectus urbis, avrebbero convocato il popolo, dopo la cacciata dei Tarquinii: quantunque sia probabile, che in circostanze del tutto eccezionali non siasi forse pensato all'adempimento di tutte le formalità. 248 proprio uffizio. Tuttavia già fin da quest'epoca nel potere regio si possono distinguere atteggiamenti diversi, che cominciano a diffe renziarsi mediante i vocaboli di auspicia, di imperium domi, e di imperium militiae. A lui quindi si appartiene di assumere gli au spicii, allorchè trattasi di qualche deliberazione, che si riferisca al pubblico interesse, cosicchè, già fin da questo periodo, gli auspicia publica si vengono a distinguere dagli auspicia privata. Nell' as sumere tali auspicii potrà valersi dell'opera degli auguri, ma a questi solo si appartiene la custodia dei riti e il compimento delle cerimonie tradizionali; mentre è al re stesso, che si appartiene di giudicare se essi siano favorevoli o non lo siano (1). Così pure ha l'imperium domimilitiaeque, col quale incomincia una distinzione, le cui traccie si perpetuano per tutta la storia politica e militare di Roma. Per verità, se i Romani credettero di porre dei confini al l'imperium nei confini della città, e vollero che i consoli, entrando nella medesima, facessero togliere le scuri dai fasci, e facessero abbassare anche questi, allorchè concionavano il popolo, compresero però la necessità, che le scuri fossero rimesse nei fasci, e che la provocatio ad populum fosse tolta di mezzo, allorchè si trattava di mantenere la disciplina dell'esercito; quasi si potrebbe dire, che a Roma il re o il magistrato rogat in tempo di pace, e imperat in tempo di guerra. In virtù dell'imperium militiae, egli fa la leva (delectus) ed è capitano supremo in tempo di guerra (2 ): nè può ammettersi l'opi nione, secondo cui il re sarebbe il duce della fanteria, mentre il tribunus celerum sarebbe quello della cavalleria, in quanto che quest'ultimo non è che un ufficiale da lui stesso nominato, e quindi, sebbene guidi il proprio drappello, che forma il corteggio militare del re, deve però sempre dipendere dagli ordini del capo supremo. In virtù poi dell'imperium domi, il re convoca i comizi: ra duna il senato; amministra giustizia, non nella propria casa, ma all'aperto, in cospetto della cittadinanza; propone le leggi; e (1) Cfr. Mommsen, Le droit public romain, I pag. 119, ove discorre della proce dura seguìta nel prendere gli auspicia, e del compito affidato agli auguri. (2 ) Sulla distinzione fra l'imperium domi e l'imperium militiae è da vedersi la trattazione magistrale del Mommsen, op. cit., I, pag. 68 e 69 e sui poteri compresi nell'imperium militiae, ivi, pag. 135 e 157. Non occorre però di notare, che tutti questi poteri nell' epoca regia sono, per dir così, allo stato embrionale, e solo più tardi ricevono tutto lo sviluppo, di cui possono essere capaci. 249 infine nomina i cavalieri e i senatori. Al qual proposito mi fo lecita la congettura, già accennata più sopra, che nella costituzione primitiva di Roma i senatori ed i cavalieri, i quali finirono poi per mutarsi in due classi o ordini sociali, indicati coi vocaboli di ordo senatorius e di ordo equestris, furono due corpi scelti, in base a un numero determinato, dall'assemblea delle curie. I primi scelti fra i giovani, splendidi nella propria armatura, formano la corte militare del re; mentre i secondi, scelti fra gli anziani, ne costitui scono il consiglio; donde la naturale distinzione, in cui vennero ad essere posti l'uno e l'altro ordine, e le lotte perfino di prevalenza, che poterono esservi fra i medesimi, allorchè l'uno e l'altro già eransi profondamente trasformati. Un indizio di cið l'abbiamo in questo, che negli inizii di Roma sembra esservi una correlazione fra il numero degli equites e quello dei patres, col numero delle curie; correlazione, che non tardd a scomparire, in quanto che il numero degli equites si accrebbe coll'aumentare delle legioni, mentre il numero dei patres si arrestò a trecento, fino agli ultimi anni della Repubblica. Di più il senato costituisce un organo politico dello Stato, il che non può dirsi degli equites, i quali hanno solo il pri vilegio di essere i primi chiamati a dare il proprio voto (sex suf fragia ) nei comizii centuriati, al modo stesso, che anche più tardi hanno, al pari dei senatori, un posto distinto nel circo per assi stere ai pubblici spettacoli (1). 204. Questo è certo ad ognimodo, che nella costituzione primitiva di Roma il re appare come l'elemento più operoso ed intraprendente, per modo che la tradizione finisce per attribuire tutto all'opera personale del re. Egli impone tasse, distribuisce terre, costruisce (1) Parmi di scorgere un accenno all'idea qui svolta nel PANTALEONI, Storia ci vile e costituzionale di Roma, I, nel IV ed ultimo appendice, ove discorre dell'isti tuzione dei cavalieri a Roma e dell'ordine equestre. È poi Livio, I, 35, che parla dei « loca divisa patribus equitibusque » nel circo; altra prova questa, che essi formavano fin dagli inizii due ordini distinti dal resto del popolo delle curie. È poi degna di considerazione l'idea dello stesso Pantaleoni, secondo cui gli equites costituiscono non solo un militaris ordo, ma anche un ordo civilis, in quanto che ciò serve a spiegare, come essi abbiano poi potuto trasformarsi nel l'ordo equestris. Del resto questo carattere militare e civile ad un tempo è inerente a tutto il popolo delle curie, e a tutte le istituzioni primitive di Roma, eccettuato il senato; sebbene siavi chi attribuisce anche al senato un'origine militare. LATTES, Della composizione del senato (Mem. Istituto Lombardo, 1870 ). 250 - edifizii. Può darsi, che la tradizione colla sua tendenza a semplifi care e a sintetizzare i processi seguiti, e a concentrare in un solo l'opera dei molti, abbia in questa parte esagerata l'opera personale del re; ma ad ogni modo, quando si consideri che il primo periodo di Roma fu essenzialmente un periodo di unificazione dei varii ele menti, che concorrevano alla formazione della città, si dovrà sempre riconoscere, che la parte più operosa nel compito comune doveva appartenere a quell'elemento, che era chiamata ad unificarle. Allorchè trattasi della formazione di una città (e si potrebbe anche dire di uno Stato e di una nazione), importa sopratutto l'agere; soltanto si potrà fare una parte maggiore al consulere, allorchè si tratterà di provvedere all'amministrazione interna, o a quella delle provincie; sarà infine soltanto, allorchè saranno ferme le basi della grandezza dello Stato, che potranno svolgersi largamente il iubere e il constituere. Cid intanto prova ad evidenza che il potere del re in Roma pri mitiva aveva già assunto un carattere essenzialmente politico e mi litare, come quello, che conteneva in germe tutti quei poteri essen zialmente politici, che furono poscia affidati a magistrature diverse. Nelle forme esteriori può ancora assomigliarsi ad un padre: ma nella sostanza è già un principe, ossia il primo del popolo (prin ceps), è il duce dell'esercito, e il magistrato della città. § 5. — Il Senato e la patrum auctoritas. 205. On carattere analogo può riscontrarsi eziandio nel senato, quale appare nella costituzione primitiva di Roma. Può darsi benis simo, che il nome stesso di senatus sia una sopravvivenza dell'or ganizzazione gentilizia, come lo è certamente quello di patres, che fu dato ai senatori, e che essi conservarono anche più tardi, allorchè certamente avevano cessato di esser tali. Può darsi eziandio, che il primo concetto del senatus potesse essere suggerito da quel consi glio domestico, che temperava talvolta il potere del primitivo capo di famiglia, od anche dal consiglio degli anziani, che provvedeva all'interesse comune della gente. Questo ad ogni modo è fuori di ogni dubbio, che il senato romano assume fin dai proprii inizii un ca rattere eminentemente politico, e che presentasi come l'applicazione di un concetto, che i Romani avevano profondamente radicato, il quale consisteva in ciò, che tanto il regis imperium, quanto il iussus po 251 - puli abbisognassero di un ritegno in quell'autorità, che viene ad essere attribuita dall'esperienza e dall’età (1). Di qui conseguita, che la patrum auctoritas, allorchè comparenella costituzione primitiva di Roma, non è un'autorità, i cui limiti siano stabiliti e determinati; ma è anch'essa una costruzione logica, che potrà col tempo rice vere tutto quello svolgimento, di cui può essere capace il concetto ispiratore della medesima. Di essa, come dell'imperium regis, non potrebbe dirsi quale sia l'influenza, che verrà ad esercitare sulle sorti di Roma; solo si conosce la funzione che, in base al proprio concetto informatore, è chiamata ad esercitare nella costituzione politica della città. Saranno poi gli eventi, che additeranno al senatus la via che dovrà seguire, i limiti in cui dovrà contenersi, e i casi eziandio, in cui dovrà forzare il proprio ufficio e spingerlo perfino oltre i confini, in cui la logica dell'istituzione dovrebbe contenerlo. 206. Siccome perd la funzione del consulere, per essere una fun zione intermedia, ha per sua natura una indeterminatezza molto maggiore, che non quella dell'agere e del iubere; così ne viene, che i poteri del senato presentano negli inizii ed anche nello svolgi mento posteriore un carattere vago ed indeterminato, che dipenderà dall'influenza effettiva e reale, che i membri, che lo compongono, saranno in condizione di esercitare sull'andamento della cosa pubblica. Possono esservi dei consigli che, per le persone da cui vengono, si cambiano in ordini ed in comandi, per quanto siano accompagnati dalla formola « si eis videbitur »; al modo stesso, che possono esservi dei responsi e degli avvisi, che, per l'autorità della persona, da cui partono, possono anche valere come sentenza, contro cui non sia consentito di appellare. Queste esplicazioni sono frequenti nella lo gica romana, e sono esse, che possono spiegare in qual modo il se nato, pressochè lasciato in disparte dallo spirito intraprendente dei re, che dovevano preferire l'appoggio dell'elemento popolare e quello anche della plebe, abbia potuto, senza romperla affatto col concetto ispiratore della propria istituzione, cambiarsi colla Repubblica nel l'organo più potente della costituzione politica di Roma, per guisa da attribuire ai proprii avvisi (consulta ) l'autorità di vere leggi; (1) Parmi di trovar espresso questo concetto, a proposito di Romolo, in CICERONE, de Rep. II, 8. 252 mentre invece coll'Impero viene ad essere ridotto a concedere la propria autorità ai decreti di un principe, al cui arbitrio non era più in caso di poter resistere. 207. Del resto questo carattere non è proprio solo del senato, ma di tutti gli organi della costituzione politica di Roma, nella quale, ad esempio, occorre un magistrato, come quello del censore, che in caricato dapprima di una funzione, che sembrava non adatta alla di gnità di un console, quale si era quella della compilazione del censo, cambiasi poi in censore del pubblico e del privato costume, in elet tore supremo del senato, e per la dignità finisce in certo modo per essere considerato come superiore allo stesso console. Nè altrimenti accade anche delle magistrature plebee, e sopratutto dei tribuni della plebe, i quali negli inizii non hanno che il ius auxilii, e non mirano che a difendere i debitori dai maltrattamenti dei creditori, e i plebei dai maltrattamenti del console; ma poi da ausiliatori si mutano in organizzatori della plebe, in accusatori del patriziato, e nell'organo certamente più efficace del pareggiamento giuridico e politico della plebe; finchè da ultimo il potere tribunizio, che continua pur sempre ad essere circondato dal favor popolare, mutasi ancor esso nella base più salda, sovra cui poggi ildispotismo imperiale. È quindi sopratutto in Roma, che qualsiasi aspetto del potere sovrano tanto vale quanta è la tempra della persona, che trovasi investito di esso, e quanto è l'appoggio, che esso trova nella pubblica opinione, con quest'unica limitazione, che esso deve trattenersi nei limiti del concetto, a cui si informa dai proprii inizii. Questo concetto da una significazione materiale potrà passare ad una significazione morale e politica, sic come accadde del censore, che da compilatore del cengo si cambiò in censore del costume, dalla difesa potrà anche passare all'accusa, in uno scopo di difesa, siccome fecero i tribuni della plebe;ma intanto nel proprio sviluppo sarà costantemente percorso da una logica interna, a cui i Romani seppero mantenersi fedeli, non solo nelle istituzioni giuridiche, ma anche in quelle politiche. Questo carattere perd so pratutto si appalesa nell'istituzione del senato. Potere consultivo nelle proprie origini trovò opposizione nel partito popolare, allorchè cerco di cambiare i proprii senatusconsulti in leggi; ma anche in quei senatusconsulti, che ebbero autorità di vere leggi, esso si propose costantemente di esercitare sulla comunanza un ' autorità di carat tere consultivo e pressochè di protezione e di tutela: come lo pro 253 vano il senatusconsulto intorno ai Baccanali, ed i senatusconsulti Macedoniano e Velleiano. Intanto per tornare all'argomento, questo è certo che tutti gli autori sono concordi nel descrivere il senato come elettivo fin dagli inizii di Roma. Festo anzi ci attesta, che la nomina attribuita al re era più libera di quella, che più tardi appartenne al censore, in quanto che l'essere lasciati in disparte dal re (praeteriti sena tores) non era riputato ignominia; il che fu invece di quei ma gistrati, uscenti d'uffizio, che, avendo le condizioni per entrare nel senato, non vi fossero chiamati dal censore, o fossero rimossi dal medesimo, se già ne facevano parte (1). 208. L'incertezza invece è grande, quanto alle funzioni, che da esso furono effettivamente esercitate; il che provenne probabilmente da ciò, che, trattandosi di un potere di carattere vago ed indeterminato, gli autori, e fra gli altri Dionisio, non potendo attribuirgli dei poteri determinati da una costituzione scritta, dovettero sforzarsi ad asse gnargli quei poteri, che sembravano convenire alla funzione, che esso era chiamato ad esercitare. Questo è certo ad ogni modo, che le sue funzioni, anche durante il periodo regio, furono essenzialmente con sultive. Esse anzi sembrano ancora tenere del patriarcale, come quando i senatori son chiamati a fare ripartizioni di terre fra le popolazioni di classe inferiore, e quando ad essi viene affidata, almeno secondo Dionisio, la punizione dei delitti meno importanti, mentre il re sarebbesi riservata la giurisdizione sui più gravi (2). Non può invece ammettersi, perchè ripugna al carattere dell'istituzione, che il re, dopo aver chiesto l'avviso del senato, fosse obbligato ad attenervisi: inquantochè, se questo fosse stato il carattere degli avvisi dati al re, che da solo aveva per tutta la vita quei poteri, che poscia furono non solo suddivisi fra magistrati diversi, ma anche attenuati e limitati quanto alla propria durata, per maggior ragione i senatusconsulti avrebbero conservato e spinto anche più oltre questo carattere, allor chè, durante il periodo repubblicano, il senato venne ad essere pres sochè onnipotente. Sembra invece, per quello che risulta dagli avveni menti,cheil senato, durante il periodo regio, non abbia potuto esercitare tutta quella influenza, che spiego più tardi; cosicchè, quando volle (1 ) Festo, V ° Praeteriti senatores (Bruns, Fontes, pag. 355). (2 ) Dion. 2, 12, 14, il cui testo è riportato in greco ed in latino dal Bruns, Fontes, pag. 4 e 5. 254 - contrastare alla intraprendente operosità del re ed alle innovazioni dal medesimo tentate, dovette ricorrere all'intermezzo degli auguri e dei sacerdoti, come lo dimostra la tradizione relativa all'augure sabino Atto Nevio, all'epoca di Tarquinio Prisco. Il suo potere con sultivo trovavasi inefficace di fronte ad un re a vita, che aveva per sè l'appoggio del popolo non solo,ma anche della plebe, la quale già cominciava ad esercitare un'influenza, se non di diritto, almeno di fatto. Quindi fu solo colla cacciata dei re, che il senato, consesso permanente fra magistrati, che mutavano ogni anno, e che usciti dalla magistratura entravano a farne parte, divenuto così custode della politica tradizionale diRoma, sopratutto nei rapporti esteriori, potè dare al concetto ispiratore dell'istituzione tutta la portata logica, di cui poteva essere capace, e forse spingerla anche oltre i confini, che dalla logica erano consentiti. 209. Sopratutto sono gravi i dubbii e le incertezze intorno alla composizione ed al numero dei senatori, durante il periodo esclusi vamente patrizio; al qual riguardo parmi impossibile di ricomporre e coordinare i pochi e non concordanti accenni, che pervennero fino a noi, senza ricostrurre il processo logico, che segui la politica dei re nel formare e nell'accrescere il senato primitivo di Roma. In proposito tutti gli autori sembrano essere concordi nell'atte stare, che Roma, nella sua primitiva formazione, non fece che imi tare, quanto al senato, l'organizzazione delle altre città latine; quindi il suo senato appare dapprima limitato al numero di cento, che sembra appunto essere il numero adottato per le altre città latine, e per gli stessi municipii, che ebbero poi ad essere organizzati sul modello ro mano (1). Tuttavia la politica di Roma, che nel periodo regio non pensa ancora a chiudersi in sè stessa,mapiuttosto ad aggregarsi nuovi ele menti, condusse in questa parte a modificare il modello latino. Al lorchè trattavasi di associare nuove popolazioni alle sorti di Roma, il processo a seguirsi non poteva offrire difficoltà, finchè trattavasi soltanto di famiglie o di individui, che appartenessero alla plebe. Questa non era ancora organizzata o almeno lo era in guisa tale, che poteva accogliere, senza difficoltà, qualsiasi nuovo elemento. Di più (1) Liv. I, 8; Dion., II, 12; Cic., De Rep., II, 12. Che il senato o meglio l'ordo decurionum delle colonie e dei municipii si componesse solitamente di cento, appare da ciò, che essi talvolta erano perfino chiamati centumviri. Cfr. Willems, Le droit public romain, pag. 535. 255 l'Aventino, che sembra essere il colle, sovra cui accentrasi di prefo renza la comunanza plebea, è ancora spopolato, e fu anche più tardi lasciato fuori della cinta Serviana, in modo da poter offrire territorio e spazio, ove le nuove famiglie si possano stabilire. Tutto al più oc correrà di far loro concessioni di terre, che sotto la tutela del ius mancipii porgano loro un mezzo sicuro di provvedere al proprio sostentamento. Cosi invece non accade, allorchè trattasi di famiglie, che già abbiano ottenuta posizione elevata nella comunanza, a cui esse appartengono, e tanto più se trattasi di quelle, che,mediante l'orga nizzazione gentilizia e le numerose clientele, siano in condizione tale da offrire un contingente poderoso alla crescente popolazione romana. Allora anche Roma deve venire a patti, in quanto che genti nume rose e potenti difficilmente si disporrebbero ad abbandonare la pro pria sede gentilizia, quando non fossero accolte nell'ordine patrizio, mediante la cooptatio, e quando non potessero ottenere, che i loro capi entrassero nel senato, e i gentili, che entrano a costituirle, non fossero ammessi a far parte delle curie. Quanto a quest'ul time, non occorre dimutare l'ordinamento primitivo della costituzione romana, nè di aumentarne il numero, poichè, non essendo determinato il numero dei componenti ciascuna curia, le curie costituiscono dei quadri, che possono anche accogliere gli elementi, che si vengono aggiungendo. Cosi non è invece del senato; la consuetudine latina vorrebbe che il medesimo fosse limitato al numero di cento, e tale esso fu veramente nelle origini, secondo la tradizione, e lo fu anche più tardi nei municipii e nelle colonie: ma, una volta completato questo numero, sarebbe stato necessario arrestarsi, salvo di appigliarsi al partito di aggiungere un determinato numero disenatori, ogniqual volta si avverasse in una sola volta una considerevole aggregazione di genti patrizie. Tuttavia non è nel costume dei romani di abbandonare senz'altro il numero prefisso, poichè tutto ciò, che viene daimaggiori, è sacro per essi. Quindi, siccome Roma risulta in certo modo dalla confederazione di un triplice elemento: così il senato potè essere portato fino a trecento, il qual numero aveva anche il vantaggio di essere in esatta correlazione con quello delle curie, e di non contrastare cosi colla composizione simmetrica della città. 210. Come e quando siasi fatta quest'aggiunta, non è bene atte stato. Alcuni, ritenendo che Roma avesse successivamente incorpo rato nelle sue curie le tre tribù primitive, direbbero, che i primi cento senatori furono tolti dalle tribù dei Ramnenses, gli altri, che 256 vengono dopo, dai Titienses, e gli altri infine dai Luceres: la cui aggregazione sarebbe accaduta sotto Tarquinio Prisco, al quale ap punto si attribuisce di aver portato a trecento il numero dei sena tori (1). Questa spiegazione sarebbe abbastanza verosimile, allorchè non fosse contraddetta dalla tradizione, che fa rimontare fino al regno di Romolo la federazione delle tre primitive tribù. Di più se veramente quest'aumento si fosse fatto, allorchè una nuova tribù veniva aggregata, non si comprenderebbe come potesse parlarsi di Ramnenses, Titienses e Luceres primi et secundi; la quale distin zione appare essere stata introdotta nelle centurie dei cavalieri, il cui aumento sembra, quanto alle epoche, in cui è seguito, corrispondere all'aumento nel numero dei senatori. Di qui deriva la conseguenza, che la spiegazione più verosimile del processo, che è stato seguito in questo argomento, sia quella stessa, che ci viene additata dalla tradi zione. Le tre piccole tribù, che costituirono Roma primitiva, non potevano essere tali da offrire il numero di trecento senatori, e Livio ci dice appunto, che il numero del senato primitivo fu di cento, per chè Romolo non ne trovò un numero maggiore che fosse degno di sedere nel senato (2). Ma intanto, dopo la primitiva costituzione romulea, che sarebbesi avverata in seguito alla federazione delle tribù dei Titienses, sono due sopratutto gli avvenimenti, che, du rante il periodo della città esclusivamente patrizia, contribuirono ad un forte aumento del patriziato romano. 211. Il primo di questi avvenimenti consiste nella sconfitta di Alba, in seguito al combattimento degli Orazii e dei Curiazii, il quale, come ho già notato altrove, più che una vera e propria scon fitta, deve piuttosto essere considerato comeuna specie diduello giu diziario, a cui si rimisero i due popoli fratelli per sapere quale delle due città dovesse essere centro della vita pubblica per le po polazioni, che ne dipendevano. In quella circostanza infatti la (1) Tale è l'opinione sostenuta dal WILLEMS, Le Sénat de la république romaine, Paris, 1878, I, pag. 21 e segg.; dal Bloch, Les origines du Sénat romain, Paris, 1883, pag. 43 e 55; i quali pure accennano alle diverse opinioni professate in proposito. (2) Liv., I, 8. È però a notarsi, che Livio farebbe rimontare la composizione del senato per opera di Romolo, ad un'epoca anteriore all'aggregazione coi Sabini, mentre parla invece della formazione delle trenta curie, come avvenuta posteriormente. In ciò è però contraddetto da CICERONE, che accenna alla formazione del senato, dopo la federazione coi Sabini. De Rep., II, 8. (3 ) V. sopra, lib. I, Cap. VIII, nº 144. 257 tradizione narra, che la parte povera della popolazione latina entrò a far parte della plebe, ed ottenne delle concessioni di terre. Quanto alle genti patrizie, noi sappiamo, che uno dei patti era quello, che esse dovessero venir accolte nel patriziato romano, e noi sappiamo in effetto, che così accadde. Ora l'effetto naturale di questa coo ptatio era, che i capi di queste genti dovessero essere ammessi nel senato, il che non avrebbe potuto essere fatto, senza aumentare il numero dei senatori. Se quindi ci mancassero anche le testimo nianze di un tale aumento in questa occasione, non sarebbe invero simile il supporlo; sonvi invece degli storici, i quali, senza accennare espressamente alle proporzioni di tale aumento, attestano però che esso dovette aver luogo. Così, ad esempio, Livio attribuisce a Tullo Ostilio di aver duplicato il numero dei cittadini; di aver accolto nei patres i principali cittadini d'Alba; di aver costrutto in quell'occa sione la curia Ostilia; e di aver aggiunto dieci torme di cavalieri, acciò a ciascun ordine si recasse un contributo dal nuovo popolo. Così pure Dionisio parla di un aumento fatto nel patriziato e nel senato all'epoca di Tullo, in occasione della distruzione di Alba, seb bene poi non accenni le proporzioni dell'aumento (1). Il numero tut tavia si può argomentare da ciò, che entrambi affermano più tardi, che Tarquinio Prisco elesse altri cento senatori, e ne portò così il numero a trecento, il qual numero non avrebbe potuto essere raggiunto, se nel frattempo e precisamente all'epoca di Tullo Ostilio non si fossero aggiunti gli altri cento (2). Alcuni, e fra gli altri il Pantaleoni, vor rebbero, che il secondo centinaio si fosse aggiunto coll'aggregarsi della tribù Tiziense; ma ciò non può essere ammesso, in quanto che l'ordinamento politico della città, per opera di Romolo, era già se guito dopo l'aggregazione di questa tribù, come lo dimostra la tra dizione, che le trenta curie avrebbero perfino ricevuto il loro nome dalle donne sabine; inoltre, cid ammettendo, rimarrebbe inesplicato quell'aumento, che certo ebbe a verificarsi sotto Tullo Ostilio (3 ). 212. Quanto all'ultimo aumento, la tradizione e concorde nell'attri (1) LIV., I, 30; Dion., III, 29. (2) Liv., I, 35 dice di Tarquinio Prisco « centum in patres legit »; e Dion., III, 62: « Et tunc primum populus tercentos senatores habuit, qui ducentos tantum ad eam usque diem fuerant ». (3) PANTALEONI, Storia civile e costituzionale di Roma. Appendice III, pag. 645 a 672. G. CARLE, Le origini dil diritto di Roma. 17 258 buirlo a Tarquinio Prisco; ma vi ha divergenza nel modo, in cui sa rebbesi operato. Cicerone dice, che egli avrebbe duplicato il numero dei senatori, e portatolo cosi a trecento, il che farebbe supporre, che anteriormente fossero soli cento cinquanta, il qual numero non può essere ammesso, perchè non risponde ai numeri comunemente seguiti dai Romani, e dai quali non solevano scostarsi. Resta quindi la testi monianza concorde di Dionisio e di Livio, che l'aumento da lui fatto sia stato di cento senatori. Questi nuovi senatori, alcuni vogliono che fos sero delle genti Albane: ma è ovvio l'osservare, che non può essere probabile, che genti, entrate nella comunanza fin dall'epoca di Tullo Ostilio, siano rimaste tutto questo tempo senza rappresentanti nel se nato. Altri invece, come il Pantaleoni, sostengono che i nuovi senatori aggiunti fossero tratti dalla tribù dei Luceres, i quali, a suo avviso, deriverebbero il proprio nome da Lucer, che in Etrusco corrisponde rebbe a Lucius (1); ma contro quest'opinione vi ha sempre la consi derazione, che se questi entravano per la prima volta nella comunanza romana, non poteva esservi motivo, perchè le nuove centurie di equi tes, ricarate da essi, si chiamassero Luceres posteriores o secundi. Ciò indica, che dovevano esservi i Luceres primi, i quali erano en trati prima nella comunanza; il qual fatto potrebbe forse essere spie gato colla tradizione, serbataci da Varrone, secondo cui Romolo in guerra coi Sabini avrebbe avuto soccorso dai Lucumoni Etruschi, uno dei quali (forse Celes Vibenna, che dette nome al Celio, già compreso nell'antico Septimontium ) avrebbe anche preso parte alla confede razione, che segui allora fra i due popoli, sebbene le sue genti siano state forse collocate in condizione inferiore (2). Bensi è probabile, che le genti, da cui si trassero i nuovi senatori, potessero essere altre genti, pure di origine Etrusca, come i Luceres primi, le quali fossero venute a Roma al seguito di Tarquinio e della sua gente: il che spiega molto meglio, che non la leggenda di Tanaquilla, comemaiTarquinio, appena giunto a Roma, abbia potuto avere un seguito e un appoggio così forte nella popolazione romana, da aspirare e da ottenere colle (1) PANTALEONI, op. cit., pag. 660. (2 ) L'opinione di VARRONE a questo proposito è ricordata da SERvio, in Aen., V, ove scrive: « nam constat tres fuisse partes populi Romani. Varro tamen dicit, Romulum dimicantem contra Titum Tatium, a Lucumonibus, id est Tuscis, auxilia postulasse; unde quidam venit cum exercitu; cui, recepto iam Tatio, pars urbis data est ». Del resto anche Livio, I, 13, fa rimontare a Romolo l'aggregazione dei Lu ceres primi, solo mettendo in dubbio la loro origine. 259 forme tradizionali la dignità regia. Egli tuttavia non potè passar sopra almetodo essenzialmente romano, che è quello di porre come primi quelli, che veramente sono tali, e quindi dovette collocare i nuovi senatori nel novero dei patres minorum gentium; quest'appellazione tuttavia non sembra tanto indicare la minor dignità delle medesime, quanto il loro essere entrati più tardi a far parte della comunanza. È questo il motivo, per cui dovevano essere chiamati gli ultimi a dare il proprio avviso; al modo stesso, che anche più tardi nei co mizii centuriati erano chiamati primi a dare il loro suffragio i se niores, ossia i maiores natu, e soltanto dopo venivano i iuniores, che erano i minores natu. Cid dimostra, che, trattandosi di un processo costantemente seguito, non può ricavarsene indizio di minor dignità di questi senatori, ma solo della costanza romana in appli care il principio: « prior in tempore, potior in iure ». 213. Le genti insomma, che, a nostro avviso, si vennero ag giungendo, escono da quelle stirpi, a cui appartenevano le tribù, la cui confederazione primitiva aveva dato origine alla città dei quiriti, e per tal modo si spiega come esse abbiano potuto esservi attirate dalle aderenze e parentele, che già potevano avere in Roma, e come, offrendosi ad entrare nella nuova città, abbiano po tuto esservi accolte. A misura però, che esse erano conglobate, do vevano pure avere una rappresentanza nel senato, e così il numero di questo venne ad essere portato a trecento; il quale, essendo in correlazione con quello delle curie, non ebbe ad essere più superato fino all'epoca dei dittatori, che prepararono l'Impero. D'altronde le occasioni di aumento vennero mancando dappoi: perché quando la città patrizia ha riempiuto il vuoto dei suoi quadri, essa comincia a rinchiudersi in sè stessa, e a vece di farsi grande, mediante le federazioni e le cooptazioni, si propone invece di affermare la pro pria superiorità sugli altri popoli, e di associare la comunanza ple bea, di cui trovasi circondata, all'avvenire della sua città. Bene è vero, che si verifica ancora più tardi la cooptazione della gente Claudia: ma essa avverasi, quando erano troppi i vuoti nel senato, perchè bisognasse aumentarne il numero, e poi trattavasi di una gente soltanto, la quale, per quanto numerosa, non poteva occupare tanti seggi nel senato, da richiedere un aumento nel numero. La spiegazione, che mi son fatto lecito di proporre, quanto ai suc cessivi incrementi nel numero dei senatori, parmi, fra le moltissime che si posero innanzi, che si concilii più facilmente colla tradi 260 zione e col processo eminentemente romano di far procedere di pari passo gli aumenti, chesi introducono nel senato, con quelli dell'or dine dei cavalieri e di tutti gli ordini della popolazione; non poten dosi negare, che nel concetto primitivo della città tutte le parti di essa debbono essere simmetriche, proporzionate e coerenti fra di loro. La medesima intanto ci prepara anche la via a risolvere la questione, intorno alla composizione del senato nel periodo regio. 214. Gli storici, al modo stesso che parlano talvolta dei comizii curiati, come se essi abbracciassero l'intiero popolo, il quale all'e poca, in cui essi scrivevano, comprendeva anche la plebe, così sem brano talvolta accennare a nomine, che i re avrebbero fatte di se natori, che non sarebbero stati tolti dalle genti patrizie; e cid fra gli altri attribuiscono allo stesso Tarquinio Prisco. Un tale fatto sembra anzitutto essere smentito dalla circostanza, che anche questi nuovi senatori sono chiamati patres minorum gentium, denomina zione, che poteva solo accomodarsi all'ordine patrizio, il quale consi derava come un suo privilegio la gentilità. A ciò si aggiunge, che in quest'epoca la distanza era ancora troppo grande fra i due ordini, perchè deimembridella plebe potessero essere ammessi nell'ordine più elevato della cittadinanza romana, tanto più se i plebei, come dimo strerò a suo tempo, non erano ancora ammessi a far parte delle curie. Ritengo quindi in proposito, che l'opinione più probabile e più conforme al processo solitamente seguito nello svolgimento politico di Roma, ove i cambiamenti, più che da arbitrio di uomini, sogliono derivare dal processo naturale delle cose, sia quella, che l'ammessione della plebe al senato dovette essere una naturale conseguenza del l'ammessione di essa a far parte del populus delle classi e delle centurie; poichè, modificandosi la composizione di uno degli organi essenziali della costituzione, che erano i comizii, anche il senato dovette subire un'analoga trasformazione (1 ). Più tardi poi, allorchè (1 ) Il WILLEMS, nella sua opera: Le Sénat de la République romaine, I, 19, 28 e poi anche nel Droit public romain, pag. 46, sostiene invece che i plebei non sareb bero stati ammessi nel senato, che a misura che furono ammessi alle magistrature ed agli onori. Tale opinione trovasi in contraddizione col fatto, che gli storici attri buiscono a Giunio Bruto od a P. Valerio di aver colmato i vuoti lasciati nel senato da Tarquinio il Superbo, mediante persone tolte dalla plebe più ricca ed agiata (ex primoribus equestris gradus); la qual tradizione ha nulla di ripugnante, perchè il cambiamento nella composizione del popolo richiedeva una modificazione correlativa - - 261 - i senatori cessarono in realtà di essere nominati esclusivamente fra i patres delle antiche gentes, ma furono scelti fra i magistrati, uscenti di ufficio: ne consegui per una naturale evoluzione di cose, che anche i plebei, che un tempo non avrebbero potuto esservi am messi per nascita, poterono esservi ammessi per la dignità, che avevano coperto. Probabilmente fu poi in questo secondo periodo, e in conse guenza di questa trasformazione, per cui la dignità e gli onori con seguiti cominciano a tener luogo della nascita, che i capi delle grandi famiglie plebee, che erano già pervenute al ius imaginum, e ave vano così imitata l'organizzazione gentilizia, poterono perfino entrare a far parte delle curie; le quali, se avevano perduta ogni loro im portanza politica, continuavano però sempre ad avere una impor tanza grande sotto l'aspetto religioso e sacerdotale, sopratutto per coloro, che già eguali in influenza e in ricchezza al patriziato pri mitivo, potevano desiderare di apparire loro eguali, anche nella no biltà di origine. § 6. – I comizii curiati e la populi potestas. 215. Anche i comizii curiati, che furono l'unica assemblea del popolo romano, finchè durò la città esclusivamente patrizia, appa riscono vigorosamente tratteggiati nella costituzione primitiva di Roma. Per quanto i medesimi abbiano poscia perduto della propria importanza e siansi ridotti ad un'assemblea di carattere gentilizio e sacerdotale, che può quasi considerarsi come una sopravvivenza dell'antico ordine di cose; ciò però non toglie, che essi siano stati il modello, sovra cui più tardi si vennero foggiando tutte le altre assemblee del popolo romano. Fu quindi solo più tardi, allorchè si videro privati di ogni importanza politica e militare, che essi si circo scrissero a funzioni meramente gentilizie e sacerdotali: manel loro comparire essi hanno un carattere religioso, militare e politico ad anche nel senato; ed anche perchè in tal modo il patriziato sottraeva alla plebe i capi delle più potenti ed agiate famiglie. La questione della composizione del senato all'epoca regia fu dottamente trattata dal Lattes nelle Memorie dell'Istituto Lom bardo di scienze e lettere, vol. XI, Milano, 1870, il quale inclina a credere che il numero primitivo fosse quello di 300, come quello, che corrispondeva già al numero delle 30 curie. È poi degno di nota, che egli attribuirebbe anche al senato primitivo un carattere militare. 262 un tempo (1). Essi, nella costituzione politica della città, corrispondono all'assemblea patriarcale della tribù, che accorre al cenno del proprio capo, per accordarsi con esso intorno alle cose, che possono interes sare la comunanza. In questo però le curie già differiscono da quella, che non comprendono tutta la popolazione delle varie tribù, ma solo la parte eletta della medesima, ossia coloro, che col braccio o col consiglio possono giovare alla cosa pubblica. Esse quindi hanno per iscopo di far partecipare, sopra un piede di uguaglianza, alla vita pubblica le varie tribù, la cui confederazione è concorsa a formare le città (2 ). 216. I membri delle curie, come tali, chiamansi quirites, e sono noti i dubbii intorno all'origine di questa denominazione. Sonvi coloro, che fanno discendere il vocabolo da quiris, asta, che sa rebbe stata l'arma del quirite, il simbolo del potere al medesimo spettante; nè l'etimologia può dirsi inverosimile, quando si consideri, che nei carmi saliari il popolo ramnense è chiamato populus pi lumnus, ossia il popolo del pilo, e viene così ad essere qualificato anch'esso dall'arma, che lo contraddistingue (3). Altri invece, fra i (1) Il carattere non solo politico, ma anche essenzialmente militare dei comitia curiata, è stato posto in evidenza sopratutto dal IHERING, L'esprit du droit romain, $ 20. Esso è poi provato dal seguente passo di Livo, V, 32: « comitia curiata, qui rem militarem continent », e da un altro di Cicerone, De lege agraria, II, 12, 30, ove è detto, che il console, finchè non abbia ottenuta la legge curiata, non può as sumere il comando militare (rem militarem attingere non licet). È però notabile, che il carattere militare di quest'assemblea, che dapprima fu il più accentuato, come lo indica il nome stesso di quirites, e l'asta di cui erano armati, fu anche il primo ad essere perduto coll' introduzione dei comizii centuriati, che assunsero di preferenza questo carattere militare: poscia i comizii curiati vennero perdendo anche il carattere politico, allorchè la lex curiata de imperio fu ridotta ad una semplice formalità e la patrum auctoritas fu tolta di mezzo dalla lex Hortensia o dalla lex Moenia. Il carat tere invece, che sopravvisse più a lungo nelle curie, fu il carattere religioso e sacer dotale, in quanto che fu in esse, che si mantennero gli auspicia, come lo dimostra la nomina dell'interrex, la quale viene ad essere loro affidata, in quanto i patres o pa tricii delle curie sono i soli depositarii dei primitivi auspicia, e sono le curie, che presiedute dal pontefice, continuano ad avere la custodia dei culti gentilizii e fa migliari. Ciò spiega, come anche nell'età moderna, il vocabolo curia sia sopravissuto con una significazione pressochè sacerdotale. (2) Cfr. il Bouché-LECLERCQ, Manueldes institutions romaines, Paris, 1886, pag. 6 e 7, e il BourgeaUD, Le plébiscite en Grèce et en Rome, Paris, 1887, pag. 39. (3) Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costituzionale di Roma. Appendice II, pag. 617. 263 quali, il Niebhur, vogliono che fossero così chiamati da Curium o da Quirium, città sabina, e che avessero ricevuto un tal nome, allorchè ai Ramnenses si unirono per confederazione i Titienses (populus romanus et quiritium ) (1); la quale opinione non pare si possa ac cogliere per il modo diverso, con cui sarebbero indicati idue popoli insieme uniti, ed anche perchè il vocabolo di quirites, più che l'origine, sembra indicare l'ufficio, il compito, a cui essi sono chia mati di fronte alla città, poichè il nome loro nei rapporti esteriori continua sempre ad essere quello di Romani. Altri infine, come il Lange, fanno provenire il vocabolo da ciò, che essi facevano parte delle curiae, cosicchè quiriti significherebbe per essi gli uomini delle curie (2). È perd facile il vedere, che il vocabolo quirite, derivi da quiris o da curia, esprime pur sempre il medesimo concetto, poichè è la lancia, che è il simbolo del potere di chi appartiene alle curie, e sono i portatori di lancia, che sono i membri delle curie. I quiriti quindi in ogni caso son chiamati tali, in quanto hanno partecipazione effettiva al governo della cosa pubblica, mentre nei rapporti esterni continuano ad essere Romani; cosicchè anche questa distinzione sembra corrispondere, sotto un certo aspetto, a quella indicata coi vocaboli domi, militiaeque. 217. I comisii poi sono la riunione solenne dei quiriti, allorchè sono chiamati ad esercitare il loro sovrano potere. Finchè trattasi di semplici notificazioni, che il re o i suoi delegati debbono fare al popolo, o di discussioni intorno a qualche proposta di legge ba stano le semplici contiones. In queste possono anche sentirsi gli oratori in pro e in contro; intervenire i patres, quali moderatori del populus; e tenersi anche orazioni (conciones), le quali, senza essere precisamente quelle da Dionisio e Livio attribuite ai personaggi della loro storia, dovettero però essere ispirate alle circostanze, in (1) NIEBAUR, Histoire romaine, I, 407. Questa opinione fu poi seguita dal WALTER e da molti altri autori. Nella inedesima però vi ha questo di vero, che il vocabolo di Quirites fu assunto dopo la confederazione coi Sabini, il che ci è attestato espres samente da Festo. Vº Quirites: « Quirites autem, dicti post foedus a Romulo et Tatio percussum, comunionem et societatem populi factam indicant ». (2) LANGE, Histoire intérieure de Rome, pag. 29. Inering, L'esprit du droit ro main, 1, $ 20, pag. 20. Secondo il Lange, il vocabolo quirites non è però da con fondersi con quello di curialis; poichè quelli sono gli uoniini delle curie in genere, mentre questo è colui, che appartiene ad una determinata curia. 264 cui venivano pronunziate. Allorchè invece sono convocati i comizii, tutti questi preliminari già sono compiuti, e il popolo, ordinato a guisa di un esercito, si avvia unito al luogo della riunione, donde il vocabolo di comitium (1 ). Quasi si direbbe, che nelle pubbliche de liberazioni il popolo romano primitivo osservi un processo analogo a quello da lui seguito nelle sue transazioni private. Finché trattasi di mettersi di accordo, è lecito discutere e può anche adoperarsi quel dolus bonus, che mira a porre sotto l'aspetto più favorevole la transazione proposta; ma allorchè il periodo delle trattative è finito, più non occorre che una interrogazione ed una risposta, so lenni, ed allora: « quod lingua nuncupassit, ita ius esto ». È in questo senso soltanto, che deve essere inteso, ciò che attestano gli storici, che nei comizii, il popolo non poteva nè discutere, nè di videre o modificare le proposte fattegli, ma solo accettare o respin gere il candidato propostogli o la legge, oppure condannare od as solvere. Già nelle adunanze anteriori erano seguite le discussioni, e queste ripetute nei comizii avrebbero impedito quella solennità e quel silenzio, che ritenevansi indispensabili nelle deliberazioni, che ri guardavano l'interesse pubblico, e che avevano per i Romani primitivi alcunché di religioso e di sacro (2 ). 218. I comizii pertanto erano preceduti dagli auspizii, per cono scere se la volontà divina si palesasse favorevole, o non alla delibera zione, che si stava per prendere; si radunavano in un luogo con sacrato, che chiamavasi templum; e si tenevano in certi giorni, che i riti ritenevano adatti alle pubbliche deliberazioni, i quali perciò chiamavansi dies comitiales. (1) Quanto alla distinzione fra comitium e contio, vedi il KARLOWA, Röm. R. G. I, pag. 49. È però a notarsi, che anche la contio non è una riunione qualsiasi del popolo, ma suppone anch'essa una convocazione del magistrato, il che appare dal seguente passo di Paolo Diacono: « Contio significat conventum; non tamen alium, quam eum, qui a magistratu vel a sacerdote publico per praeconem convocatur ». Ciò pur conferma Liv., 39, 15. (2 ) Combatto qui l'opinione universalmente seguìta dagli autori, specialmente ger manici (v. fra i recenti Karlowa, Röm. R.G., pag. 52), che riduce i c omizii ad una funzione puramente passiva nella formazione delle leggi, in quanto che la medesima, a mio avviso, altera il carattere del populus primitivo; il quale, composto di capi di famiglia e di persone esperte negli auspicii e ricchedi tradizioni, poteva benissimo anche prender parte viva alla discussione delle leggi, come dimostrerò più larga mente nel capitolo III, § 2º, discorrendo della lex, e nel capitolo IV, § 1º, parlando delle leges regiae. - 265 Il modo poi, in cui doveva essere proposta la deliberazione, di mostra fino all'evidenza, come il magistrato fosse consapevole del potere, che apparteneva al popolo, e come questo conoscesse l'impor tanza del proprio uffizio. Da una parte eravi il re o magistrato, che, dopo aver premessa la formola: quod bonum felis, etc., invitava il popolo (rogabat) ad esprimere il proprio volere (iussus populi ) sulla proposta fattagli colla formola: velitis, iubeatis, quirites; e dall'altra vi erano i membri delle curie, che rispondevano affermando (uti rogas), o negando (antiquo). Quanto al processo, che seguivasi nella votazione, già appare nelle assemblee curiate quel sistema, che ebbe poi ad essere mantenuto negli altri comizii. I singoli quiriti votano viritim nella propria curia, e in questa prevale il voto della maggioranza, ma intanto la decisione definitiva dipende dal voto complessivo delle curie; nel che abbiamo un indizio del vincolo potente, che stringeva l'indi viduo alla corporazione, di cui faceva parte, in quanto che non era il voto degli individui, che prevaleva, ma quello dei gruppi, a cui appartenevano. Cid da una parte è un concetto trapiantato dalla stessa organizzazione gentilizia, in cui non si può comprendere l'in dividuo, che aggregandolo ad un gruppo; ma dall'altra dovette anche condurre alla disciplina del voto. I membri delle curie non atomi vaganti, ma parti vive di un organismo, senza del quale sa rebbero ridotti all'impotenza; disciplina questa, che ebbe pure ad essere mantenuta più tardinei comizii centuriati, ed anche nei tri buti, salvo che alla curia si sostituirono la centuria, e la tribů. Intanto anche nella votazione appare il carattere religioso e per fino superstizioso del romano primitivo, che da qualsiasi avvenimento suole trarre un pronostico, in quanto che il voto della prima curia si ritiene come un augurio (omen ); donde la denominazione di curia principium, che viene ad essere imitata anche negli altri comizii, e che è conservata nell'intitolazione stessa delle delibera zioni comiziali. sono 219. Sopratutto poi importa determinare, quali fossero le funzioni affidate ai comizii curiati; il che riesce assai difficile, in quanto che anche il potere dell'assemblea popolare presentasi dapprima piuttosto abbozzato, che non compiutamente formato. Secondo Dio nisio, il quale talora si sforza a precisare i contornidelle istituzioni primitive di Roma, sarebbe già l'assemblea delle curie, che, me diante una lex de bello indicendo, avrebbe deciso della pace o della 266 guerra; sarebbe essa, che conferirebbe la cittadinanza non ad indi vidui, ma ad intiere popolazioni o gentes, mediante la cooptatio; sarebbe essa parimenti, che voterebbe le leggi, e nominerebbe il magistrato supremo (1). Che se invece si tiene conto dei fatti, dei quali ci pervenne notizia, ben poche sarebbero state le occasioni, in cui l'assemblea delle curie avrebbe esercitato queste funzioni. Cid vuol dire, che anche il potere dei comizii curiati non dovette dap prima essere determinato da una costituzione scritta; ma deve ri guardarsi come un potere in via di formazione, che poi si svolgerà, a seconda delle occasioni e degli avvenimenti, mantenendosi perd sempre fedele al proprio concetto informatore. Esso tuttavia, come si vedrà più sotto (2 ), già contiene in germe tutti quei poteri, che l'assemblea del popolo acquisterà colle altre forme di comizii. È esso infatti, che nomina il Re e si ha così il germe del potere elettorale; è esso che, secondo la tradizione, sanziona le leges re giae, e si ha così l'inizio del suo potere legislativo; è esso infine, che già avrebbe avuto l'occasione di esercitare una specie di giu risdizione criminale, come lo dimostra la provocatio ad populum, che si fa rimontare all'epoca dei primi re, e si sarebbe dispiegata, secondo la tradizione, nel fatto dell'Orazio, uccisore della propria sorella. 220. Sopratutto poi è notabile nei comizii coriati uno speciale ca rattere, che, a parer mio, è la prova più evidente del passaggio dall'organizzazione gentilizia alla comunanza civile e politica, e che non parmi siasi tenuto in conto sufficiente dagli autori. Questo ca rattere consiste nella doppia competenza della assemblea delle curie; la quale, sotto un certo aspetto, è ancora sempre una riunione di ca rattere gentilizio, e coll'intervento dei pontefici provvede alla con servazione delle genti e delle famiglie, e del loro culto, e sotto un altro aspetto è una riunione di carattere eminentemente politico. Quasi si direbbe, che il quirite, al pari di Giano, protettore della città, deve avere lo sguardo rivolto in due opposte direzioni: da una parte egli è ancora un rappresentante della gente e della tribù, (1) DION., 2, 14, scrive in proposito: « populo vero haec tria concessit,magistratus creare, leges sancire, et de bello decernere, quando rex rogationem ad eum tulisset ». (2) Rimando la prova di ciò al capitolo seguente, ove si considera la costituzione primitiva di Roma nelle sue principali funzioni. 267 da cui discende, e come tale è ancora strettamente vincolato al l'organizzazione gentilizia, e deve curare che il culto di essa non venga ad interrompersi, e che il suo patrimonio non sia disperso; dall'altra invece è membro del populus, e come tale deve obbe dire ai cenni del magistrato, e deve aver presente sopratutto il pubblico interesse, in quanto che « salus populi suprema lex esto ». Questa doppia qualità del quirite si appalesa nell'indole diversa delle riunioni, di cui esso è chiamato a far parte. Accanto ai veri comizii, convocati dal magistrato, per mezzo dei littori, e in cui si votano le cose attinenti al pubblico interesse, sonvi i comitia ca lata, convocati dal pontifex maximus, per mezzo dei suoi calatores, nei quali si compiono quegli atti, che possono toccare in qualche modo l'organizzazione gentilizia. Nei primi si votano le leggi; si deliberano le guerre e le paci; si nomina il magistrato; si assolvono o condannano coloro, che appellarono al popolo. Nei secondi invece, che rivestono di preferenza un carattere religioso, i quiriti si ra dunano, in quanto hanno un culto, a cui debbono provvedere. È quindi in essi, che compiesi l'inauguratio regis, ed anche quella dei flamines; come pure è in essi, che si compiono quegli atti, che possono alterare in qualche modo l'organizzazione gentilizia, e com promettere l'avvenire del culto. È perciò in questa specie di co mizii, che deve essere approvata l'adrogatio di una persona sui iuris, come quella che ha per effetto di fare entrare un capo di famiglia sotto la podestà di un altro; il che significa sopprimere una famiglia e il suo culto, per continuare invece un'altra famiglia e il culto della medesima. È in essi parimenti, che ha luogo la detestatio sacrorum, che è la rinuncia al proprio culto gentilizio, per causa di adrogatio o di transitio ad plebem; come pure è ivi, che segue la cooptatio di una gens nell'ordine patrizio: cooptativ, che si opera per l'intiero gruppo, e non per i singoli individui, che entrano a costituirla. È in essi infine, che deve seguire quel testamen tum, che vien detto appunto in calatis comitiis; il quale, secondo il concetto delle genti patrizie, costituiva materia di diritto pubblico, come quello, che alterava le norme relative alla successione genti lizia, e quelle riferentisi alla trasmessione dei sacra. Cid è provato dal fatto, attestatoci da Cicerone, che il ius pontificium, nell'intento d'impedire l'interruzione dei sacra, fini per porre i medesimi a ca rico di coloro, che avevano gli utili dell'eredità; donde l'espressione popolare, che occorre soventi nei comici latini, di haereditas sine - 268 sacris, per significare un vantaggio conseguito senza i pesi inerenti al medesimo (1). 221. Intanto questo speciale punto di vista, sotto cui debbono, a parer mio, essere considerati i comitia calata, ci spiega quel carattere singolare e pressochè contraddittorio del diritto primitivo di Roma, il quale, mentre da una parte dà al quirite il più illi mitato arbitrio di disporre delle proprie cose per testamento; dal l'altra vuole, che i testamenti, le adrogationes e simili atti, che pur riguardano interessi privati, siano compiuti in cospetto dell'intiero popolo, e li ritiene come relativi ad argomenti di diritto pubblico. Gli autori vollero spiegare la cosa con dire, che in Roma primitiva tutti questi atti costituivano altrettante leges publicae, e che, come tali, dovevano essere fatti in cospetto e coll'approvazione del po polo. Riterrei invece, che in questa istituzione dei comitia calata si debba ravvisare, se mi si consenta l'espressione, il rudere meglio conservato, che dall'organizzazione gentilizia sia stato trasportato nella costituzione primitiva di Roma. Si è veduto a suo tempo, che il grande intento dell'organizzazione gentilizia era quello di perpe tuare le famiglie e il loro culto, e di impedire la dispersione dei patrimoni; donde la conseguenza, che il testamentum e l'adrogatio dovevano farsi coll'approvazione dell'assemblea della gente o della tribù (2 ). Or bene così continuò ancora ad essere, finchè la città fu esclusivamente patrizia: quindi questi atti continuarono ad essere fatti coll'approvazione delle curie, e di quei collegi sacerdotali, che erano incaricati di serbare integri non solo i sacra publica, ma ancora i sacra privata. Quindi conviene ammettere, che le curie non prestassero soltanto la loro testimonianza a questi atti, ma fossero chiamate a darvi la loro approvazione, dopo aver sentito l'avviso dei pontefici; il che viene ad essere provato dalla formola, conserva taci da Aulo Gellio, relativamente all'adrogatio (3 ). Una volta poi, (1) La teoria dei comitia calata ci fu conservata sopratutto da Aulo Gellio, Noc. Att.. XV, 28 e 3, il quale dice di averla ricavata da un'opera di Laelius Felix. Quanto alla ripartizione dei sacra, in proporzione della sostanza ricevuta dagli eredi, è attestata da CICERONE, De legibus, II, 19, SS 47, 49. (2) Vedi libro I, cap. IV, $ 4, nº. 61 a 65. (3 ) Aulo Gellio, Noc. Att., V, 19. Ivi si dice che a adrogatio per rogationem populi fit », ed è riportata la formola, che è quella della vera e propria legge, in quanto che comincia colle parole velitis, iubeatis, quirites » e termina coll'espres. sione « Haec ita, uti dixi, ita vos, quirites, rogo ». 269 che una istituzione di questa natura sia penetrata nella primitiva costituzione romana, noi oramai conosciamo abbastanza il tempera mento del popolo romano per poter affermare, che esso non l'abban donerà così presto. Si comprende pertanto, che quando si introdussero i comizii centuriati, anche questi, secondo la testimonianza di Gellio, abbiano avuti i proprii comizii calati, salvo che nei medesimiil po polo, radunato due volte all'anno, più non dovette approvare il te stamento, ma solo prestare la propria testimonianza. Ciò è dimostrato dal fatto, che il testamento in calatis comitiis potè poi essere surro gato da quello per aes et libram, in cui i quiriti sono chiamati non per approvare, ma solo per testimoniare (testimonium mihi perhi bitote). Intanto però, anche quando l'adrogatio e il testamentum furono atti di carattere intieramente privato, rimane però sempre la traccia dell'antico stato di cose nel concetto, ricordatoci da Papiniano, secondo cui la testamenti factio pubblici iuris est (1). A questo riguardo poi, è ancora degno di nota, che quando l'as semblea delle curie fini per perdere ogni importanza politica e mi litare, e si ridusse ad essere una riunione di trenta littori, presie duta dai pontefici, serbò però ancora sempre e forse esagero perfino questa competenza, per ciò che si riferisce agli atti, che riguardano l'organizzazione gentilizia, e sopratutto, quanto all'adrogatio. Questa fu praticata ancora, davanti alle curie, dagli imperatori Augusto e Claudio, i quali, non avendo dimenticata la loro antica origine dalle genti patrizie, seguirono le forme tradizionali nella arrogazione di Tiberio e di Nerone. Cosi le primitive istituzioni vengono anche esse perdendosi a poco a poco in Roma,ma ne rimane ancora sempre un'eco lontana. Resterebbe qui ad esaminarsi la questione fondamentale se la plebe sia stata ammessa a far parte della assemblea delle curie; ma (1) Papin., L. 4, Dig. (28, 1). La conclusione sarebbe questa, che il carattere di lex del testamento primitivo è una reliquia dell'antica organizzazione gentilizia. Tale carattere poi in parte avrebbe cominciato a dileguarsi, allorchè accanto ai comizië curiati calati, si introdussero anche i comiziï centuriati calati, la cui esistenza ci.è attestata da Aulo Gellio, XV, 27, 2, e che probabilmente dovettero essere quelli, i quali, secondo Gaio, Comm., II, 101, si radunavano due volte l'anno,acciò in essi po tessero farsi i testamenti. Il fatto stesso della loro riunione periodica dimostra, che molti testamenti si potevano presentare ad un tempo, e che perciò in essi il popolo doveva limitarsi a prestare la propria testimonianza. Fu questo il motivo, per cui il testamento in calatis comitiis potè poi essere sostituito dal testamento per aes et libram, ove i quiriti si riducono ad essere dei classici testes. Gaio, Comm., II, 103. 270 credo opportuno rimandarne l'esame ad un capitolo speciale, in cui cercherò di determinare la posizione dei clienti e della plebe, cosi sotto l'aspetto del diritto pubblico, che sotto quello del diritto pri vato; premettendo però fin d'ora, che seguo l'opinione, secondo cui la plebe non potè, durante il periodo regio e nei primisecoli della Repubblica, essere ammessa all'assemblea delle curie (1 ). $ 7. Sguardo sintetico allo svolgimento storico dei comizi in Roma. 222. Le cose premesse sarebbero sufficienti per formarsi un con cetto del carattere speciale della primitiva assemblea curiata: ma intanto per scoprire certe relazioni, che difficilmente potrebbero es sere afferrate, quando non fossero sorprese alle origini, ed anche per rendere intelligibili gli svolgimenti, che verranno dopo, e dimo strarne la continuità, ritengo opportuno, a costo anche di precor rere gli avvenimenti, di dare uno sguardo sintetico allo svolgimento che ebbero i comizii in Roma. Roma antica, simile in cið alla moderna Inghilterra, ci presenta bene spesso l'esempio di congegni della costituzione politica ed am ministrativa, la cui creazione rimonta ad epoche compiutamente di verse, ma che intanto funzionano contemporaneamente. Ciò è vero sopratutto per quello, che si riferisce ai comizii. Roma patrizia, e forse anche Roma, durante tutto il periodo regio, non conosce altra assemblea del popolo, che quella delle curie. Essa è un'assemblea, di carattere religioso e sacerdotale, politico e militare ad un tempo: è la riunione del primo populus romanus quiritium, di quello cioè, che era ristretto al populus, che usciva esclusivamente dalle genti patrizie. In base alla costituzione Serviana, che ammette la plebe a far parte delle classi e centurie, sulla base del censo, intro ducesi un' altra assemblea del populus romanus quiritium, già inteso in senso più largo, che è la centuriata. Anch'essa è mo dellata sulla prima, e secondo Gellio, imita perfino i comizii calati, come pure è anche preceduta dagli auspicii;ma intanto, accogliendo già un elemento, che non partecipava al culto gentilizio, che era quello della plebe, perde ogni carattere religioso e sacerdotale, e (1) La questione qui accennata sarà presa in esame in questo stesso libro, cap. V. 271 assume un carattere essenzialmente militare, e poscia anche poli tico. Da questo momento l'assemblea per curie più non può rap presentare l'intiero populus, perchè una parte di questo, cioè la plebe, non entra a farne parte. L'assemblea curiata quindi diventa, dirimpetto alla centuriata, un' assemblea di patres, perchè com prende coloro, che discendono sempre dalle antiche genti patrizie. La vera rappresentanza dell'intiero populus (comitiatus maximus) viene quindi ad essere l'assemblea per centurie; perchè essa soltanto comprende tutto il popolo, organizzato sulla base del censo. Siccome però i patres o patricii, cioè i discendenti delle antiche genti pa trizie, continuano ancora sempre a formare un nucleo separato del populus, cosi essi sono ancora chiamati a dare alle deliberazioni dei comizii centuriati la patrum auctoritas, la quale viene, come sopra si è veduto, a distinguersi dalla senatus auctoritas. Così pure l'antico populus, composto appunto dai patres, continua ancora sempre a con ferire l'imperium colla lex curiata de imperio, sebbene l'una e l'altra funzione tendano naturalmente a perdere della loro im portanza, e l'assemblea curiata si limiti sempre più a funzioni di carattere puramente gentilizio e sacerdotale (1). 223. Fin qui lo svolgimento della costituzione primitiva procede ancora regolarmente: ma la cosa si fa più malagevole, quando, fra i congegni della costituzione politica di Roma, compare un nuovo elemento, che è quello delle assemblee proprie della plebe (concilia plebis). La plebs forma già parte del populus e partecipa alla civitas; ma la sua civitas è ancora minuto iure, in quanto che essa non ha ancora nè il ius connubii col patriziato, nè il ius honorum. È quindi naturale in essa l'aspirazione al pareggiamento, e sorge una opposizione di interessi fra il patriziato e la plebe. Quest'ultima, che, uguale sotto un aspetto, aspira a diventarlo anche sotto gli altri, viene naturalmente a costituire sotto un certo riguardo una fazione nello Stato, poichè i suoi interessi si contrappongono a quelli del patriziato, il quale continua ad essere il vero reggitore dello Stato, essendo il solo ammesso alle magistrature e agli onori. La plebe però ha già un proprio magistrato, sotto cui si organizza, che è il tribuno della plebe, il quale, in base alla costituzione, può (1) È da vedersi, quanto all'auctoritas patrum, questo stesso capitolo, § 3º, n° 198, pag. 240 e seg. colle note relative. 272 convocarla per prendere deliberazioni nel proprio interesse. Sorge cosi spontaneamente l'istituto dei concilia plebis, i quali dapprima hanno più un'esistenza di fatto, che non di diritto: ma che intanto, fatti forti dal numero e dalla intraprendenza dei tribuni, tendono naturalmente a prendere dei provvedimenti, che mirano a prepa rare l'uguaglianza giuridica e politica fra la plebe e il patriziato. Essi perciò mettono in accusa patrizii avversi alla plebe e gli stessi consoli, allorchè escono di ufficio. Proibirli è impossibile, perchè è principio riconosciuto dalle XII Tavole, che ogni sodalizio, che abbia un capo (magister ), possa dettarsi una propria legge, e perchè in ogni caso sarebbe impossibile vietare le riunioni di un elemento, che ha per sè il numero e la forza, e che, ricorrendo ad una secessio, potrebbe mettere a repentaglio l'avvenire della città (1). L'unico partito pertanto, che rimanga al patriziato ed al senato, che lo rap presenta, è quello di riconoscere queste riunioni e di farle entrare, per quanto sia possibile, nei quadri legali della costituzione politica di Roma, trasformando a poco a poco i concilia plebis in comitia tributa: in comizii, cioè, che comprendano eziandio tutto il popolo, ma non più in base al censo, come l'assemblea delle centurie, ma in base alle tribù locali, in cui è raccolta tutta la cittadinanza ro mana. È questa la trasformazione, che incomincia col tribuno Pu blilio Volerone, il quale, nel 283 U. C., dopo lunghe lotte, ottiene che la plebe possa nominarsi i suoi tribuni nei proprii comizii; ma con ciò questi non possono ancora prendere che provvedimenti riguar danti la sola plebe, e che possono soltanto essere obbligatorii per essa. Quindi incomincia da parte di questa uno sforzo inteso a pareggiare i comizi tributi agli altri comizii, e a fare si che i plebisciti obbli ghino anche il patriziato, il che si opera per mezzo delle leggi Va leria -Orazia, Publilia e Ortensia; le quali, sebbene, per il poco che a noi ne pervenne, mirino tutte allo scopo di rendere obbligatorii i plebisciti per tutto il popolo, segnano però, come si vedrà più sotto, pag. 728, (1) La proibizione dei concilia plebis sarebbe stata contraria a quelle disposizioni della legge decemvirale, secondo cui « Sodalibus potestas esto, pacionem, quam volent, sibi ferre, dum ne quid ex publica lege corrumpant. V. Voigt, die Tafeln, I, che attribuisce tal legge alla Tavola VIII, n. 12. Qualcosa di analogo ci è pure accennato da Livio, 39, 15: « ubicumque multitudo esset, ibi et legitimum rectorem multitudinis, censebant maiores debere esse »; ed è questo forse il motivo, per cui i concilia plebis cominciano a diventare potenti, quando la plebs ha trovato un proprio rector o magister nel tribunus plebis. - 273 discorrendo del concetto romano di lex, i varii stadii, per cui passò la risoluzione del gravissimo problema (1). 224. Giungesi cosi ad un periodo della costituzione politica di Roma, in cui nei quadri di essa trovansi tre specie di comizii. I primi e i più antichi sono i comizii curiati,ma essi vengono ad essere sempre più ridotti a funzioni puramente gentilizie e sacerdotali, e anzichè essere in effetto ancora le riunioni delle curie, si riducono ad essere la riunione dei trenta littori, che le rappresentano, e diven tano così una sopravvivenza dell'antico ordine di cose. Accanto ad essi sonvi i comizii centuriati, che sono sempre la vera assemblea del popolo romano, e continuano a conservare in qualche parte il pri mitivo carattere militare: ma anch'essi si fanno più democratici, come lo dimostrano le riforme, che sappiamo essere state introdotte, senza saperne precisare il come ed il quando, e debbono dividere in parte le proprie funzioni colla nuova assemblea tributa, più fa cile a convocarsi e più intraprendente nella propria iniziativa. Certo si richiedeva il genio pratico dei Romani per far procedere di pari passo assemblee, che rappresentavano un principio diverso, cioè la nascita, il censo, ed il numero. Dapprima ciascuna di queste istituzioni potè serbare intatto il proprio carattere primitivo; ma poscia la fusione sempre maggiore dei due ordini condusse al ri sultato, che poterono esservi plebei di grandi famiglie, che furono accolti nelle curie, e che vi ottennero anche la dignità sacerdotale di curio maximus; al modo stesso, che i pochi discendenti delle an tiche genti patrizie poterono anche intervenire ai comizi tributi, i quali ricevettero cosi anche la consacrazione religiosa, e poterono essere presieduti da magistrati, che un tempo erano esclusivamente patrizii. Quando le cose pervennero a questo punto, il vero populus trovasi raccolto nei comizii centuriati, e nei comizii tributi. Quelli sono organizzati in base al censo, e questi in base alle tribù lo cali, a cui i cittadini trovansi ascritti; quelli serbano ancora un carattere specialmente militare e radunansi al campo Marzio, fuori delle mura Serviane, e questi invece hanno un carattere civile e (1) Rimetto la discussione gravissima relativa a queste tre leggi al capitolo se guente § 2º, n ° 232 e seg. dove si discorre del concetto romano di lex. Quanto alla proposta di Publilio Volerone e alla portata della medesima è da vedersi il Bonghi, Storia di Roma, pag. 439 a 451, come pure a pag. 593, ove parla dell'elezione dei tribuni nei comizii tributi. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 18 274 radunansi nel fôro, cosicchè il vero movimento della costituzione politica di Roma ondeggia fra l'una e l'altra assemblea. Tuttavia, a ricordare l'antico dualismo, sopravvivono ancora sempre i comizii curiati ridotti ad essere la riunione di trenta littori, presieduti dal pontefice, e circoscritti a funzioni di carattere essenzialmente reli gioso, e i concilia plebis, che ricordano ancora quel tempo, in cui la plebe costituiva un dualismo col patriziato, e nei quali continuano a nominarsi le magistrature esclusivamente plebee (1). Intanto è ancora degno di nota, che la trasformazione, che si opera nei comisii tri buti, accade anche nei tribuni della plebe, i quali, sebbene debbano sempre essere trattidalla plebe, diventano però a poco a poco magi strati urbanidel popolo romano; comepure accade nei plebisciti, i quali a poco a poco vengono ad essere pareggiati alle leggi propriamente dette, il che sarà meglio dimostrato nel capitolo seguente. Questo è il solito processo, seguito dai Romani, nello svolgimento delle proprie istituzioni, ed è la logica che lo governa, che per mette di poterlo ricostruire, malgrado le lacune, che possono esservi nel racconto storico, che a noi pervenne. Questa logica è, per così esprimersi, intensiva ed estensiva ad un tempo, e quindi si può es sere certi, che se un concetto entri nella compagine romana non scomparirà, se prima non siasi ricavato da esso in profondità ed estensione tutto ciò, che contenga di vigoroso e di vitale. Studiata cosi la costituzione primitiva di Roma negli organi, che entrano a costituirla, importa ora di considerarla nell'esercizio delle sue principali funzioni. (1) È questo, a parer mio, il solo modo per risolvere la questione così contro versa relativa alle analogie ed alle differenze, che possono intercedere fra i comitia tributa ed i concilia plebis. È noto in proposito, come il Niebhur non ammettesse che un'unica assemblea tributa (Histoire romaine, III, 283), la quale, esclusivamente plebea dapprima (concilium plebis), avrebbe più tardi compreso anche il patriziato, e sarebbesi così cambiata in comitium tributum. Il Mommsen invece (Römische For schungen, Berlin, 1864, I, 151 a 155) sostenne, dai decemviri in poi, l'esistenza di due assemblee tribute: l’una patrizio-plebea (comitia tributa ); l'altra esclusivamente plebea (concilium plebis). Ritengo che quest'ultima opinione possa essere accolta, ma limitando le funzioni dei concilia plebis a cose di interesse esclusivamente plebeo, quali erano la nomina dei tribuni e degli edili plebei, mentre il vero potere legisla tivo, elettorale e giudiziario appartiene ai comitia tributa, i quali soli possono con siderarsi come un vero organo della costituzione romana. Cfr. BOURGEAUD, Le plébi scite dans l'antiquité, Paris, 1887, pag. 57 a 76; Karlowa, Röm. R. G., pag. 118; MORLot, Précis des instit. polit. de Rome. Paris. La primitiva costituzione di Roma nelle sue principali funzioni. $ 1. - Carattere generale della medesima. e 225. La costituzione primitiva di Roma, finchè si mantenne esclusivamente patrizia, si presenta con un carattere di unità e di coerenza, che indarno si cercherebbe più tardi nelle istituzioni po litiche di Roma. Vero è che la plebe, entrando a far parte della comunanza politica, recò nella medesima il movimento e la vita, rese possibile per Roma un avvenire, che non avrebbe mai conse guito la città esclusivamente patrizia, la quale da sola tendeva più a chiudersi in se stessa, che ad estendersi; ma è vero eziandio, che colla plebe penetrò il dualismo in ogni aspetto della costituzione primitiva di Roma. Dirimpetto ai comizii disciplinati del popolo rac colto nelle curie, si svolsero i concilii talvolta tumultuosi della plebe; ai magistrati del popolo si contrapposero quelli della plebe; ed alle leggi votate nella solennità e nel silenzio dalle curie si so vrapposero i plebisciti. Fu in tal guisa, che la costituzione primitiva di Roma venne in certo modo ad essere forzata a spingersi oltre il concetto ispiratore della medesima, e fini per assumere un ca rattere del tutto peculiare, in quanto che dovette stringere insieme due popoli, che politicamente erano associati, ma che non erano intimamente uniti fra di loro, di cui uno pretendeva di avere per sè la priorità ed il diritto, mentre l'altro aveva per sè il numero e la forza. Nè conseguita che, per comprendere lo spirito della primitiva costituzione di Roma, conviene in certo modo isolarla dagli elementi, che sopravvennero coll' ammessione della plebe alla cittadinanza, e quando ciò si faccia non si può a meno di rima nere ammirati di fronte all'unità ed alla coerenza, che presenta la costituzione esclusivamente patrizia. Essa è un vero organismo, che componesi di varie parti, delle quali ciascunaè chiamata ad adempiere la propria funzione: ma che tutte intanto si suppongono e si completano a vicenda. La potestas in largo senso si ritiene bensi appartenere al popolo, ma questo non potrebbe esercitarla, se 276 non fosse posto in azione dall'imperium del magistrato; e intanto fra di loro si interpone l'auctoritas del senato, il quale da una parte modera col suo consiglio il regis imperium, e dall'altra da la consistenza e l'appoggio della propria autorità ai iussa populi. 226. Questa coerenza poi appare anche più evidente, allorchè i congegni della costituzione siano considerati nel loro movimento; poichè mentre ciascun aspetto del pubblico potere non ha altra norma e altro confine, che il proprio concetto ispiratore, niuno di essi però può compromettere l'interesse comune, senza che vi concorrano tutti gli altri. Questo carattere della costituzione politica di Roma ha fatto dire a Polibio, che essa appariva mo narchica, aristocratica e democratica ad un tempo, secondo che altri la considerava rimpetto a questo o a quell'aspetto del pubblico potere (1); ma se altri poi la consideri in movimento ed in azione, essa si presenta con tutti questi caratteri ad un tempo. L'imperium regis, la senatus auctoritas, la populi potestas sono altrettante concezioni logiche, destinate col tempo a ricevere tutto lo sviluppo, di cui possono essere capaci; ma intanto son disposte per modo, che si contengono e si limitano a vicenda, non già perchè esista fra di essi una ripartizione o circoscrizione di poteri, ma perchè nessuno di questi elementi puo compromettere la pubblica salute senza la cooperazione di tutti gli altri. Onnipotente ciascuno coll'appoggio degli altri, viene ad essere impotente, quando trovi opposizione o contrasto in alcuno fra essi; donde l'importanza, che ebbe nella costituzione romana l'istituto dell'intercessio, la quale viene atteg giandosi in guise molteplici e diverse, in quanto che tale intercessio, o può esercitarsi a nome della religione, o frapponendo la par ma iorve potestas, o contrapponendo anche quelli, che esercitano la medesima magistratura (2 ). Questo è, a parer mio, il carattere fon (1) Polibio, Histor., lib. VI. (2) È mirabile il partito, che Roma seppe trarre dal concetto dell'intercessio nello svolgimento storico della sua costituzione, come appare dalla magistrale trattazione dell'argomento nel Mommsen, Le droit public romain, pag. 230 a 329. Non potrei tuttavia accettare la sua affermazione recisa, che l'intercessio non esistesse nel periodo regio. Certo essa non ebbe occasione di svolgersi, perchè i tre elementi od organi della costituzione erano potentemente unificati; ma intanto la cost ituzione primitiva inchiudeva già allo stato latente il germe di tutta la teoria dell'intercessio, in quanto che in essa niun provvedimento, che possa compromettere il pubblico interesse, pud  damentale della costituzione primitiva di Roma, per cui essa ora apparisce conservatrice fino allo scrupolo, ed ora invece diventa operosa ed intraprendente fino all'audacia, secondo che essa abbia o non l'appoggio dell'opinione generale. Intanto quando trattasi della res publica, ossia di cosa, che possa interessare l'intiera comunanza, tutti questi elementi sono chia mati ad arrecare il proprio contributo. È infatti almagistrato (rex, interrex, tribunus celerum, praefectus urbis) che si appartiene l'agere, quando trattasi di convocare il popolo o il senato; il ro gare, quando importa di ottenere l'approvazione di qualche proposta; l'imperare, allorchè nei pericoli di una guerra il suo imperium si spinge fino alla maggiore estensione, di cui possa essere capace. E invece al senato, che si appartiene il consulere, quando trattasi di dare il proprio avviso al magistrato, o di richiamare l'attenzione di lui su qualche imminente pericolo, « ne res publica detrimenti capiat »; e l'auctor fieri, se è questione invece di appoggiare le de liberazioni del popolo. È infine al popolo, che spetta il iubere e lo statuere, quando trattasi di una lex, sotto la qual forma si manifesta di regola la volontà collettiva del quando trattasi della elezione dei magistrati. Intanto però, siccome queste gradazioni dell'azione collettiva debbono tutte concorrere in sieme per costituire un atto compiuto, cosi niun elemento pud da solo prendere un provvedimento, che possa compromettere l'interesse comune (1 ). Ciò sopratutto appare nel compimento di quegli atti, che, per propria natura, interessano l'intiera comunanza, quali sarebbero: la formazione di una legge, l'elezione del magistrato, e l'amministra zione della giustizia; dai quali poi discendono le tre manifestazioni essere preso senza il concorso di tutti. L'intercessio nel periodo repubblicano non fu che uno svolgimento di questo concetto, e toccò il suo massimo sviluppo per opera dei tribuni, stante il carattere negativo del potere spettante aimedesimi. È poi notabile, come essa si applichi al decretum, alla rogatio, ed al senatus consultum, il quale, se colpito dall'intercessio, non può più essere posto in esecuzione: ma tuttavia deve essere perscriptum, perchè è sempre una espressione dell'auctoritas senatus, col quale vocabolo viene appunto ad essere indicato. Cfr. MOMMSEN, op. cit., (1) Ho già insistito su questo concetto, che può essere considerato comela chiave di volta della primitiva costituzione di Roma, in una prolusione al corso di Storia del diritto romanu col titolo: L'evoluzione storica del diritto pubblico e privato di Roma, Torino, 1886, pag. 13. pag. 317. 278 del potere sovrano nella città antica, che sono il potere legislativo, il potere elettorale, ed il potere giudiziario. È quindi sopratutto a proposito di questi atti, che vuolsi cercare in qual modo entri in movimento ed in azione la primitiva costituzione di Roma, dando al tempo stesso un popolo, o ilo sguardo allo svolgimento storico, che dovrà poi ricevere ciascuno di questi poteri. $ 2. Il concetto romano di lex nei suoi rapporti colla patrum auctoritas e col plebiscitum. 228. Nel considerare il concetto primitivo della lex in Roma si riman magistratum creare,e anzitutto colpiti dalla larghissima significazione, colla quale si presenta questo vocabolo. Esso significa dapprima qualsiasi ac cordo di più individui in una stessa volontà, e viene così, fin dagli esordii, a distinguersi in lex privata, che significa una convenzione od una norma, che altri si impone relativamente ad interessi privati (lex contractus, lex mancipii, lex testamenti), ed in les publica, che significa la volontà collettiva e comune, che si sovrappone alla volontà dei singoli individui. Quando poi il concetto di lex privata viene ad essere assorbito da quello di convenzione o di contratto, quello di lex publica continua ancora ad avere una estesissima si gnificazione; poichè esso comprende in certo modo qualsiasi delibera zione solenne del popolo. Parlasi infatti di una lex belli indicendi, foederis ineundi, coloniae deducendae, agri adsignandi e simili; e fino a un certo punto la nomina stessa del magistrato, o almeno il conferimento dell'imperium, spettante al medesimo, viene ad essere argomento di una legge. Gli è solo più tardi, che il vocabolo di legge viene a significare un generale iussum populi, che si rife risce alla generalità dei cittadini, e si distingue così da qualsiasi de liberazione, relativa ad una persona o ad un fatto particolare (1). Ciò (1) Insomma il concetto dominante è sempre quello, che la lex è il risultato di un accordo. Quindi la lex publica, essendo il risultato dell'accordo di tutti gli organi dello Stato, viene ad essere una communis reipublicae sponsio, e deve da tutti essere rispettata; donde la conseguenza, che il ius publicum privatorum pactis mutari non potest. La lex privata invece è l'accordo di due o più individui in tema di loro interessi privati: non è quindi la legge pubblica, che deve occuparsene, secondo il principio della stessa legge decemvirale, privilegia ne inroganto: donde conseguita, che la legge cambiasi a poco a poco in un generale iussum. È in questa guisa, che vuol dire, che anche la nozione di lex subisce in Roma una lunga evoluzione: ma intanto il concetto, che la pervade in ogni tempo, è quello di un accordo di più volontà in un medesimo intento. Tale significazione sembra pure essere indicata dall'etimologia del vocabolo di lex a legendo od a colligendo, la quale perciò non indica tanto la forma scritta, assunta dalla legge, come vorrebbe il Bréal, quanto piuttosto il collegarsi delle volontà in un medesimo intento (1 ). 229. Un altro carattere della lex, secondo il primitivo concetto romano, si è quello di un'aureola religiosa, che la circonda, come lo dimostrano le cerimonie solenni, da cui son precedute le deliberazioni comiziali, e la reverenza e il culto, di cui la legge viene ad essere l'oggetto in Roma primitiva, dopo che essa fu solennemente votata dal popolo. Di qui alcuni autori ebbero a ricavare la conseguenza, che la forza obbligatoria della legge, anche per Roma, non deri vasse tanto dal suffragio del popolo, quanto piuttosto da questo carat tere religioso, da cui essa appare circondata. Se con ciò si vuol dire, che la legge solennemente votata dal popolo, dopo aver assunto gli auspicii, doveva in certo modo considerarsi come una interpreta zione della stessa volontà divina, questo concetto pud essere facil mente ammesso, essendo il medesimo una conseguenza di ciò, che il ius, come si è dimostrato a suo tempo, aveva nei suoi primordii un carattere religioso, e impotente a sostenersi da solo cercava di mettersi sotto la protezione del fas. Ma se con ciò si intende in la legge e il contratto, uniti nell'origine, più tardi si vennero separando, e quasi si contrapposero fra di loro, lasciando perd sempre una traccia nel concetto, che « il contratto costituisce legge per i contraenti ». (1) L'etimologia di lex a legendo nel senso di « leggere, suole appoggiarsi al testo di Varrone, De ling. lat., VI, 66: leges, quae lectae et ad populum latae, quas ob servet; ma egli è evidente, che qui Varrone, non sempre felice nelle sue etimologie, non ha punto l'intenzione di proporne una. Se quindi è vero, come del resto insegna lo stesso BRÉAL, Dict. étym. latin, vº lego, che il vocabolo di legere ebbe anche la antica significazione di raccogliere, di scegliere, di riunire, parmi sia molto più acconcio di dare questa etimologia al vocabolo di lex. Così si potrà anche compren dere la lex privata, la quale certo non pud essere derivata da ciò, che i contratti fossero scritti; ma da cid, che le volontà si accordavano e si riunivano. Cfr. BRÉAL et BAILLY, Dict. étym., vº lex. Un passo, in cui il vocabolo « legere » prende questa an tica e larga significazione, è il seguente di Virgilio: Iura, magistratusque legunt, sanctumque senatum. (Aen., I, v. 431). - 280 vece, che la sua efficacia obbligatoria provenga direttamente dalla volontà divina, se questo può forse ancora ammettersi per il vóuos de' Greci, più non può ritenersi vero per la lex romana (1). Questa non potrà essere votata senza che prima si assumano gli auspicii; ma intanto, fin dal periodo esclusivamente patrizio, essa è già l'espres sione della volontà collettiva del popolo, come lo dimostra il fatto, che assume la forma di una vera e propria stipulazione fra il ma gistrato che propone (rogat), e il popolo che vota (iubet atque con stituit); come pure il concorso nella formazione di essa di tutti gli organi della costituzione politica di Roma, per cui essa, fin dagli esordii della città, deve essere considerata come una « communis rei publicae sponsio ». Essa sarà ancora riguardata come una volontà divina; ma il popolo già si attribuisce facoltà d'interpretare questa volontà, ogni qualvolta trattisi, non di cosa relativa al culto, ma di provvedimenti, che riguardano l'interesse generale della comu nanza. Anche la definizione dei Giureconsulti classici: « lex est, quod populus, senatorio magistratu rogante, iubet atque con stituit », può già essere applicata alla legge, durante il periodo regio; salvo che in questa definizione più non compare l'elemento della patrum auctoritas, che nella città patrizia era ancor ritenuto indispensabile, e che era poi stato tolto di mezzo dalla legge Ortensia. Vero è, che più tardi il patriziato cercò di dare sopratutto prevalenza all'elemento religioso, che accompagnava la legge; ma ciò accade unicamente, allorchè l'assemblea patrizia delle curie perdette ogni importanza politica; poichè in allora la religione e gli auspicii diven tano pressochè il solo titolo di superiorità del patriziato sopra la plebe, e fu naturale che si cercasse di accrescerne la importanza. 230. Intanto questo carattere, eminentemente contrattuale della legge, che corrisponde all'origine federale della città, ed anche la necessità, secondo il concetto primitivo delle genti patrizie, che, a formare la legge, dovessero concorrere tutti gli organi dello Stato, servono a spiegare naturalmente certe singolarità del diritto primitivo (1) V. in senso contrario il FUSTEL DE COULANGES, La cité antique, liv. III, chap. XI, pag. 221 e segg., e fra i recentiilBourgeaud, Leplébiscite dans l'antiquité, Paris, 1887, pag. 91 e segg. Quest'ultimo nega il carattere contrattuale alla legge, anche per la considerazione, che essa non potrebbe obbligare quelli, che non vi hanno consentito; ma egli è evidente, che l'accordo in una pubblica votazione non può aversi, che dando prevalenza al maggior numero. 281 di Roma, che ebbero a verificarsi, allorchè la plebe entrò a far parte della comunanza politica. Allora infatti venne ad essere necessità, che il potere legislativo si portasse ai comizii centuriati, in quanto che questi soltanto erano l'assemblea plenaria del populus romanus (comitiatus maximus). Siccome però, accanto ai comizii centuriati, si manteneva pur sempre l'assemblea curiata dei patres o dei patricii: così, per ubbidire al principio che tutti gli organi politici dello Stato dovevano concorrere alla formazione della legge, fu necessario che vi contribuisse eziandio l'assemblea dei patres; donde la conseguenza, che la legge centuriata dovette dapprima essere proposta dal magistrato, votata dal popolo, e poscia ancora approvata non solo dal senato, ma anche dall'assemblea delle curie. Di qui dovette provenire la distinzione della patrum o patriciorum auctoritas dalla senatus auctoritas, ancorchè le due approvazioni si riducessero in sostanza ad una medesima cosa, perchè in questo periodo il senato può riguardarsi sopratutto come l'organo del patriziato; il che spiega appunto la confusione, che gli storici vengono facendo fra l'una e l'altra auctoritas, in un'epoca, in cui erano già scomparse e l'una e l'altra (1). 231. Se non che il mantenersi fedeli a questo principio diventò assai più difficile, allorchè alle altre fonti legislative venne ad ag giungersi eziandio il plebiscitum, che costituiva in certo modo una lex inauspicata. Questo dapprima non può obbligare tutto il popolo, perchè è l'opera soltanto di una parte di esso; e quindi, al pari dei concilia plebis, in cui viene ad essere votato, ha più un'esistenza di fatto, che non di diritto. Intanto però la plebe ha per sè il nu mero e la forza, e valendosi di essi cerca talora di forzare la mano al senato. In questa condizione di cose viene ad essere nell'interesse stesso del patriziato di fare rientrare nell'ordine legale tanto i concilia plebis, trasformandoli in comitia tributa, allorchè trattisi di provvedimenti, che possano interessare tutto il populus, quanto eziandio di riconoscere l'autorità dei plebisciti, con che essi subi scano le condizioni richieste per obbligare tutto il popolo. È in questa occasione, che nella storia politica di Roma compa riscono successivamente tre leggi ad epoca diversa, il cui contenuto, conservatoci dagli scrittori, sembra essere identico (ut plebiscita (1) V. sopra capitolo II, § 3, n ° 198, pag. 240 e segg. e le note relative. 282 omnem populum tenerent); ma che intanto sembrano indicare tre successivi stadii di una importantissima trasformazione. La difficoltà di conciliarle, che formò oggetto di lunghe discussioni e che anche oggi suole essere considerata come una delle più gravi questioni, che presenti la storia politica di Roma (1), pud, a parer mio, essere supe rata, quando abbiasi presente il concetto della primitiva costituzione di Roma, secondo cui qualsiasi vera legge suppone il concorso di tutti gli organi politici dello Stato. 232. Occorre anzitutto la legge Valeria Orazia, dell'anno 304 di Roma; la quale è la prima a dichiarare, che i plebisciti obblighino tutto il popolo (ut quod tributim plebs iussisset omnem populum te neret) (2 ); ma ancorchè la legge nol dica, questo è certo che, secondo il concetto informatore della costituzione politica di Roma, ciò poteva solo accadere, allorchè i provvedimenti, che erano di iniziativa della plebe, avessero subite tutte le prove, a cui erano sottoposte le stesse (1) Così si esprime il Soltau, die Gültigkeit der Plebiscite, Berlin, 1888, pag. 107. La bibliografia sulla questione pud vedersi nel BOURGEAUD, Le plébiscite dans l'anti quité, Paris, 1887, pag. 121, il quale sosterrebbe, che il plebiscito sia stato in ogni tempo una deliberazione presa dalla sola plebe, esclusi i patrizii. Non potrei divi dere tale opinione, poichè vi fu un tempo, in cui la differenza fra plebiscito e legge si ridusse unicamente alla persona diversa, che ne prendeva l'iniziativa, secondo che essa fosse un tribuno, od un altro magistrato. Vero è che il vocabolo di plebs signi fica il populus, esclusi i senatori ed i patrizii;ma il motivo, per cui i patrizii non si tenevano legati dai plebisciti non consisteva già in ciò, che essi non potessero inter venire ai comizii tributi, essendo anch'essi iscritti alle tribù, ma in ciò, che essi soste nevano « plebiscitis se non teneri, quia sine auctoritate eorum facta essent »,Gaio, Comm. I, 3. Tolta poi la necessità della patrum vel patriciorum auctoritas, i plebisciti divennero obbligatorii per tutto il popolo, e anche i patrizii poterono certo intervenire ai comizii tributi. Difatti dopo la legge Ortensia le due espressioni di leo e di plebi scitum diventano fra di loro equipollenti, e occorrono perfino le espressioni populum plebemve iussisse, come nella lex tabulae Bantinae (Bruns, Fontes, pag. 51). (2) Secondo il Mommsen, è da questa legge, che parte l'istituzione dei comizii curiati, e quindi egli riterrebbe, che nei termini conservatici da Livio, III, 55, come proprii della legge Valeria Orazia, si dovrebbe sostituire il vocabolo di populus a quello ivi adoperato di plebs, e leggere quindi: quod tributim populus iussisset, omnem populum teneret (Römische Forschungen, I, pag. 164-5 ). Non parmi, che questa opinione possa essere accolta, sia perchè tutti i giuristi fanno partire il pareggiamento del plebiscitum colla lex dalla legge Ortensia, e non dalla legge Valeria Orazia, ed anche perchè poste riormente la denominazione di lex o di plebiscitum non sembra più dipendere dalla composizione dei comizii, ma piuttosto dal magistrato, da cui sono convocati, il quale come dava il suo nome alla legge, così poteva anche attribuirvi il carattere di lex o di plebiscitum: tanto più che la sua efficacia veniva ad essere uguale. 283 - leggicenturiate. Questa legge pertanto significo solamente, che anche i tribuni della plebe potevano prendere l'iniziativa di un provvedi mento, che potesse obbligare tutto il popolo; ma che il medesimo, per avere un tale effetto, doveva poi essere approvato dal Senato, ed ottenere anche la patrum auctoritas, come lo dimostrano gli sforzi, che in questo periodo si fanno dai tribuni per ottenere l'ap provazione del senato a plebisciti, come quelli di Canuleio, di Icilio e altri ancora. Quasi si direbbe, che questo è il periodo delle seces sioni, a cui ricorre appunto la plebe, quando non può ottenere dal senato l'approvazione di un provvedimento da essa desiderato. Suc cede quindi una seconda legge, che è la legge Publilia del 415 di Roma, la quale, mentre in un capo statuisce, che la patrum auctoritas doveva precedere le leggi centuriate, ripete in un altro l'ingiunzione già fatta che « plebiscita omnes quirites tene rent (1). È però evidente, che la portata di questa legge verrà ad essere diversa, perchè in virtù di essa i plebisciti, al pari delle leggi centuriate, non dovevano più essere susseguiti, ma preceduti dalla patrum auctoritas, che comprende probabilmente anche la senatus auctoritas. Noi abbiamo quindi un secondo periodo, in cui tutte le proposte di provvedimenti, per parte dei tribuni della plebe, sogliono esser precedute da trattative ed accordi fra il senato e i tribuni della plebe, per guisa che il senato si vale talvolta di questi per ottenere, che essi prendano la iniziativa di una determinata proposta (2 ) 233. Da ultimo infine apparve, che anche questa previa approva (1) È lo stesso Livio, che ci conservò i termini di questa legge, VIII, 12. (2 ) Secondo il WILLEMS, Le Sénat, II, chap. I, l'espressione di patrum auctoritas sarebbe equipollente a quella di senatus auctoritas. Tale opinione è divisa dal Bour GEAUD, op. cit., pag. 135, ed è combattuta invece dal Soltau, die Gültigkeit der Ple. biscite, pag. 135, come pure dal Pantaleoni nella 3a parte della sua dissertazione: Dell'auctoritas patrum nell'antica Roma (< Rivista di Filologia », Torino, 1884, pag. 350 a 395). Di fronte ad una quantità di passi di scrittori antichi, citati da quest'ultimo, in cui si usano le espressioni di patricii auctores, mentre altre volte si parla invece della senatus auctoritas, fra cui è notabile il passo di Livio, III, 63, parmiche l'opinione del WILLEMS non possa essere accolta. Ritengo tuttavia, che gli storici, mossi forse dall'identico interesse, che potevano spingere le curie dei patrizii e il senato a fare opposizione ad un provvedimento di iniziativa della plebe, possano talvolta aver comprese le due cose col vocabolo alquanto incerto di patrum aucto ritas. V. in proposito ciò, che si è detto nel capitolo precedente 83, n ° 198, pag. 240 e note relative. 284 zione dei padri, senza sempre riuscire nell'intento, finiva per essere causa di dissidii e di secessioni. Fu quindi, in seguito ad una di queste secessioni, che sulla proposta del dittatore Ortensio, uscito dalla no biltà di origine plebea, sopravviene una legge Ortensia, nel 467 della città, che ripete pur sempre la stessa formola; ma intanto toglie di mezzo la necessità della previa approvazione dei padri e produce, se condo Pomponio, l'effetto, che « inter plebiscita et legem species con stituendi interessent, potestas autem eadem esset (1) ». Fu neces saria una secessione e ci volle un dittatore per vincere questa legge; ma ve ne era ben donde, poichè, a mio avviso, non vi ha forse nella storia della costituzione primitiva di Roma una rivoluzione più ra dicale di questa. Con essa infatti l'antico concetto di lex, quale era stato concepito da Roma patrizia, viene ad essere sovvertito; in quanto che potrà esservi una legge, alla cui formazione non coope rino tutti gli organi politici dello Stato; poichè d'allora in poi anche un solo elemento, la plebe, può dettare leggi, che sono obbligatorie per tutto il popolo. Strappo più grave non poteva essere arrecato alla costituzione patrizia: ma tentasi ancora di rimarginarlo nel senso, che fu da questo tempo probabilmente, che la nobiltà plebea co minciò a penetrare nelle curie, e che il patriziato antico si valse * della sua iscrizione alle tribù per intervenire anche ai comizii tri buti, i quali poterono anche esser presieduti da magistrati patrizii, e furono anche essi preceduti dagli auspizii. Per tal modo i concilii un tempo della plebe diventarono anch'essi comizii del popolo, e solo cambiò il criterio, che doveva essere di base alla riunione, in quanto che i comisii centuriati si adunavano in base al censo, e i comisii tributi in base alle tribù. Da questo momento il senato trovossi (1) Che il pareggiamento fra la lex e il plebiscitum parta veramente dalla legge Ortensia, la quale deve aver tolta dimezzo la patrum auctoritas, risulta dai seguenti passi di scrittori e giureconsulti, che erano meglio in caso di apprezzare il valore tecnico delle parole. Pomponio L. 2, 8, Dig. (1, 2 ), oltre l'espressione già riportata nel testo, scrive: « pro legibus placuit et ea plebiscita observari », e aggiunge al $ 12: « plebiscitum, quod sine auctoritate patrum est constitutum », con che accen nerebbe all'abolizione della patrum auctoritas per i plebisciti. Così pure Gaio, Comm., I, 3: « lex Hortensia lata est, qua cautum est, ut plebiscita omnem populum tene rent, itaque eo modo legibus exaequata sunt; Giustin., Instit., I, 2: « sed et plebi scita, lege Hortensia lata, non minus valere, quam leges, coeperunt ». Lo stesso confermano Aulo Gellio, Noc. Att., X, 20 e XV, 27; come pure Plinio, Hist. nat., XVI, 15, 10. — Cfr. ORTOLAN, Histoire de la législation romaine, pag. 161, n. 178 et suiv. e il Madvig, L'État romain, trad. Morel, Paris, 1882, I, pag. 260. 285 costretto ad invitare frequentemente i tribuni a presentare dei pro getti di riforme o di misure amministrative alla plebe (agebat cum tribunis, ut ferrent ad plebem ), e quindi il tribunato viene a for mare l'elemento riformatore, ed attivo nell'organizzazione dello Stato. Che anzi i comizii tributi possono anche essere presieduti da magi strati patrizii, trattandosi di leges praetoriae, o di elezioni dimagi strati minori. Accanto ai medesimi, si mantengono perd ancora i concilia plebis: ma si limitano a provvedimenti, che riguardano la sola plebe, e alla nomina di magistrati esclusivamente plebei. 234. Intanto però eravi sempre l'organo politico più potente in questo periodo, che era il senato, il quale veniva ad essere lasciato in disparte nella formazione della legge, in quanto che non era più richiesta la sua approvazione. È in allora che il senato, non avendo più in questo argomento una parte proporzionata alla effettiva sua influenza, non potendo sempre bastargli di far dichiarare gli au spicia vitiata e di rifiutare l'esecuzione dichiarando « ea lege non videri populum teneri » viene ad essere condotto a forzare la propria funzione consultiva. È quindi da quell'epoca, che cominciano a compa rire dei senatusconsulti con autorità di leggi (1 ). Indarno i seguaci del partito popolare protestano contro questa violazione della logica inerente all'istituzione del senato, poichè questo ha influenza suffi ciente per far valere la propria pretesa. Si capisce quindi come più tardi i giureconsulti finiscano per esclamare « non ambigitur senatum ius facere posse »; indicando così colla stessa loro affermazione, che il dubbio era veramente esistito (2 ). Siccome però le trasgressioni alla logica di una costituzione non si fanno impunemente: cosi in questa stessa epoca, anche gli editti dei magistrati e sopratutto quelli del pretore,avendo l'appoggio dalla pubblica opinione, finiscono ancor essi per costituire un ius non scriptum, che viene poi a conver tirsi in un ius scriptum e in una copiosa fonte legislativa. A questo punto lo Stato romano è ormai un organismo troppo (1) Cfr. Madvig, L'État romain, I, 260; WILLEMS, Le Sénat, II, chap. III. Però è sopratutto il PUCATA, che hamesso in evidenza l'importante rivoluzione introdotta della legge Ortensia (Cursus der Institutionen). Solo mi pare di dover ag giungere, che la rivoluzione stessa sta nell'aver cambiato il primitivo concetto di lex, e di aver così iniziato l'esercizio di una specie di potere legislativo per parte dei singoli organi politici dello Stato. (2 ) ULP., L. 8, Dig. (1, 3 ). 286 grande, perché possa mantenersi ancora il rigoroso principio del l'antica costituzione patrizia, che a formare le leggi debbono con correre tutti gli elementi costitutivi dello Stato; conviene di ne cessità lasciare, che ciascuno di questi elementi possa dal suo canto prendere l'iniziativa. È per questo motivo, che i comizii tributi di ventano la sorgente legislativa più copiosa, durante gli ultimi secoli della repubblica, e che i pretori, di magistrati preposti all'ammini strazione della giustizia, si mutano in certo modo in legislatori (ius honorarium ): al modo stesso che più tardi anche i giureconsulti sa ranno autorizzati a dare dei responsi, che avranno autorità di leggi (responsa prudentum ). Tuttavia siccome tụtti questi fattori con tinuano pur sempre a procedere sulle traccie antiche; così l'edificio non solo potrà mantenersi saldo, ma per qualche tempo si innal zerà tanto più rapido e grandioso, quanti più sono gli artefici, che cooperano alla costruzione. Sarà invece quando mancherà il senso del pubblico bene, e quando scomparirà la distinzione antica fra l'interesse pubblico e il privato, che, per salvare un edifizio, il quale tende a scompaginarsi, sarà necessario di rimettere ogni cosa nelle mani di un solo, la cui volontà, in base ad una apparente investi tura del popolo, legis habet vigorem (1). Questo sguardo allo svolgimento storico del concetto di legge, pro lungato oltre i confini, che misarebbero prefissi, deve essermi per donato; perchè era soltanto sorprendendo il concetto alle origini, che poteva comprendersene l'incerto ed irregolare sviluppo, come lo dimostrano le divergenze di opinioni, che ancora oggi dominano l'ar gomento. (1) Ulp., L. 1, Dig. (1, 4 ) « Quod principi placuit, legis habet vigorem; utpote quum lege regia, quae de imperio eius lata est, populus ei et in eum omne suum imperium ac potestatem conferat ». Per tal modo la lex, che era un tempo il frutto dell'accordo di tutti gli organi politici, diventa ormai l'opera di un solo; ma intanto si mantiene sempre il concetto, che la sorgente di ogni potere sia il popolo; altra conferma dell'opinione, fin qui sostenuta, relativamente alla populi potestas. Questo svolgimento storico della legge in Roma sembra essere compendiato da POMPONIO, allorchè, dopo aver discorso delle lotte fra la plebe, il patriziato ed il senato, con chiude dicendo: « Ita in civitate nostra aut iure, id est lege, constituitur, aut est proprium ius civile, quod sine scripto in sola prudentum interpretatione consistit; aut sunt legis actiones, quae continent formam agendi; aut plebiscitum, quod sine auctoritate patrum est constitutum; aut est magistratuum edictum, unde ius hono rarium nascitur; aut senatus consultum, quod solum senatu constituente inducitur sine lege; aut est principalis constitutio, id est, ut quod ipse princeps constituit, pro lege servetur », L. 2, 12, Dig. (1, 2). 287 $ 3.- L'elezione del rex, l'interregnum, e la lex curiata de imperio. 235. Per quello che si riferisce al magistrato supremo del popolo romano, il concetto, a cui si informa la primitiva costituzione pa trizia, consiste nel ritenere che, come è immortale il popolo, cosi non debbano mai essere interrotti nè gli auspicia, nè l'imperium, indispensabili entrambi per la prosperità della repubblica. È questo concetto, che spiega, come, morto il re, auspicia ad patres re deant; è questo parimenti, che condurrà più tardi a fissare il co stume per cui i magistrati annui succeduti al re, debbono, prima di uscire di ufficio e finchè ritengono ancora gli auspicia, proporre il proprio successore; è questo infine, che può somministrare il mezzo per comprendere quella singolare istituzione dell'interregnum, non che la procedura solenne per l'elezione del re, che, introdotte fin dagli inizii di Roma, si perpetuano ancora col medesimo nome e colle stesse formalità sotto la repubblica, allorchè i re sono aboliti, e che in questi ultimitempi ebbero ad essere argomento di tante e cosi erudite elucubrazioni. 236. Un recente autore, il Bouchè Leclercq, ebbe a scorgere nel l'interregnum e nella procedura per l'elezione del re, « un capo lavoro di casuistica, in cui appare lo spirito sottile e formalista degli antichi romani » (1). Ciò darebbe a credere, che le due pro cedure siano una creazione architettata dai pontefici, i quali in que st'argomento avrebbero dato prova del loro acume teologico e giuridico. Parmi invece assai più semplice e più verosimile il ri tenere, che i romani, in questo, come in altri casi, non si compiac ciano nella creazione di formalità, come tali, ma intendano piuttosto a conservare le tradizioni del passato. Le formalità infatti, che accompagnano l'interregno e la elezione del re, non dimostrano l'investitura divina del re, come alcuni vorrebbero: ma provano sol tanto, che i romani avevano altissimo il concetto della continuità ideale dello Stato, alla guisa stessa, che prima avevano avuto quello della perennità della famiglia e della gente. Esse provano parimenti, (1) Bouché-LECLERCQ, Manuel des institutions romaines, Paris, 1886, pag. 15. 288 che, secondo il concetto primitivo della costituzione romana, al l'elezione del magistrato, per trattarsi dell'atto forse più importante per la comunanza, dovevano prendere parte tutti gli elementi costi tutivi dello Stato. Ciò stante, anche in quest'elezione riscontrasi quel carattere contrattuale, che abbiamo trovato nella legge, in quanto che il re, già nominato e consacrato, deve ancora sottoporre all'assemblea della curia la lex curiata de imperio, e solo dopo la medesima può compiere gli uffici a lui affidati, come capo civile e militare della comunanza. Infine queste formalità possono anche considerarsi come un indizio, che in un anteriore periodo di orga nizzazione sociale gli auspicia risiedevano nei patres, ai quali perciò dovevano ritornare, allorchè il re veniva a mancare. 237. Per conchiudere, questa istituzione dell' interregnum, ar gomento di tante discussioni, deve essere considerata anche essa come un naturale processo, che dovette spontaneamente formarsi in una comunanza primitiva, uscita allora dal seno dell'organizzazione gentilizia: processo, che è perd rivestito di quel carattere religioso e solenne, che i romani attribuivano ad ogni loro atto, e sopratutto a quelli, che riguardavano il pubblico interesse. In una comunanza infatti di carattere gentilizio, formatasi mediante una confederazione, riverente verso l'età e memore delle tradizioni del passato, era na turale, che, mancando il capo comune, il suo potere religioso, civile e militare dovesse passare al padre più anziano della più antica decuria del senato, e da questa trasmettersi successivamente ai principes delle altre decurie, che venivano dopo, in base all'an zianità, accið non venisse ad essere offeso il senso geloso, che i capi di famiglia avevano della propria uguaglianza, e non potesse neppur nascere il timore, che uno di essi « regni occupandi consilium iniret ». Era naturale parimenti, che la proposta del successore dovesse partire da uno dei padri, ed anzi dal più anziano fra essi, sebbene sia pur consentaneo all'indole di questa comunanza, che la sua proposta potesse essere anche comunicata agli altri padri, e che fosse anche sentito in famigliari concioni l'avviso del popolo, ancora composto esclusivamente di membri delle genti patrizie. Maturata così la proposta, è l'interrè, che deve farla; le curie, che debbono approvarla; la presa degli auspicii, che deve inaugurarla; e infine fra l'eletto e la comunanza deve intervenire quella specie di con venzione e di accordo, che avverasi mediante la lex curiata de imperio; la quale, sotto un aspetto, costituisce l'investitura del ma 289 gistrato per parte del popolo, e dall'altro vincola quest'ultimo alla obbedienza verso di quello. Infine questo processo naturale di cose viene come al solito gittato e fuso in certe forme solenni, che si trasmettono ad epoche, le quali mal sanno apprezzare i motivi, che le fecero adottare; cosicchè viene ad apparire artificiosa ed architettata in modo casuistico e sottile quella procedura, che dovette un tempo essere la naturale conseguenza del modo di pensare e di agire di coloro, che concorrevano alla formazione di essa. 238. Ad ogni modo il caso, di cui ci fu serbata memoria parti colareggiata, e in cui appare in tut a la sua solennità questa pro cedura solenne, è la elezione di Numa, il quale fra i re primitivi si presenta ancora con un carattere pressochè patriarcale. Sparito Romolo e collocato fra gli dei col nome di Quirino, gli auspicia e l'imperium erano passati ai capi delle decurie del senato, che se ne trasmettevano di cinque in cinque giorni le insegne (decem imperitabant, unus cum insignibus imperii et lictoribus erat). I padri, che non parevano troppo soddisfatti del regis imperium, agitano il partito se non fosse il caso di non più nominare il re: ma di lasciare, che il potere si venga cosi avvicendando, senza che alcuno possa essere re per tutta la vita. Il partito non prevale fra il popolo, il quale non ama di avere cento capi, a vece di un solo, e quindi a re si sceglie Numa di stirpe sabina. È l'interrè, che è chiamato a proporlo (rogat), ed è il popolo che è chiamato a crearlo, mentre sono i padri, che approvano l'elezione (quirites, regem create: deinde, si dignum crearitis, patres auctores fient). Segue poscia l'inauguratio, che è descritta in modo particolare da Livio; e viene ultima la proposta della lex curiata de imperio, la quale, non ri cordata da Livio, è invece ricordata e ripetuta da Cicerone ad ogni elezione di re, quasi ad indicare l'importanza, che la medesima doveva avere. Ci attesta poi Livio, che questta procedura, che egli descrive come introdotta per quel caso determinato, ma che Dionisio farebbe già rimontare allo stesso Romolo, non è stata abbandonata più tardi: « hodieque in legibus magistratibusque rogandis usurpatur idem ius, vi adempta », cioè esclusa la violenza, a cui dovette dal popolo ricorrersi in quel caso, accid i patres procedessero alla proposta del nuovo re (1) (1) Livio, I, XVII; Cic. De Rep., II, 13, 17, 18, 20; Dion., II, 57; PLUTARCO, Numa, 2. Di fronte a queste testimonianze concordi, non può esservi dubbio, che du G. Carle, Le origini del diritto di Roma. 19 290 239. Il concetto informatore dell'elezione del magistrato non po trebbe qui essere più chiaro; essa deve essere l'opera di tutti gli organi dello Stato, ed assume un carattere pressochè contrattuale fra magistrato e popolo, al pari di qualsiasi altra legge. Cacciati i re, il concetto si mantiene, poichè anche con magistrati annui la con tinuità degli auspicia e dell'imperium non deve essere interrotta; quindi è l'antecessore, che è chiamato a proporre il successore, e se egli per qualche motivo non possa farlo, si ricorre alla nomina di un interré, anche quando i re già sono aboliti. Tuttavia, anche in questa parte, l'accoglimento della plebe nel populus delle classi e delle centurie produce una modificazione nella primitiva costituzione; modificazione, che in questi tempi diede argomento a gravissime discussioni, e che, in coerenza alle cose sovra esposte, pud a mio avviso essere spiegata nel modo seguente. Non può esservi dubbio che, durante il periodo regio, l'interres era uno dei patres del senato, ai quali redibant auspicia. Colla repubblica invece, al modo stesso che nel populus delle classi e delle centurie fu compresa anche la plebe, così anche il senato venne ad essere non più composto esclusivamente di patrizii, ma anche di nobili plebei; del che alcuni scorgono un indizio nella de nominazione data ai senatori di patres et conscripti. Comunque stia la cosa, questo è certo, che il senato, divenuto patrizio -plebeo, non poteva più rappresentare gli antichi patres o patricii, che erano stati i fondatori della città, e ai quali redibant auspicia. Erano le curiae invece, le quali continuarono ancora per lungo tempo ad essere esclusivamente patrizie, e di cui potevano fare parte anche i senatori di origine patrizia, che di fronte al rimanente del popolo rappresentavano l'antico ordine dei patres o dei patricii, e alle quali perciò dovevano ritornare gli auspicia. Di qui la conseguenza, che furono i patricii, o in altri termini le curiae, a cui venne a devolversi la proposta dell'interrex, come lo dimostrano le espres sioni « patricii coeunt ad interregem prodendum », « patricii rante il periodo regio l'interrea era tolto, secondo certe regole tradizionali, dal se nato, e che dallo stesso senato partiva la patrum auctoritas. Anche quanto alla lex curiata de imperio, ancorchè solo ricordata da CICERONE, di fronte alla sua atte stazione ripetuta, manca ogni motivo di ragionevole dabbio. Non potrei quindi, come sopra già si è accennato, nº 199, pag. 244, in nota, consentire col Karlowa, Röm. R.G., pag. 52 e 82 e segg., il quale ritiene che la lex curiata de imperio sia entrata in azione soltanto colla costituzione di Servio Tullio. 291 interregem produnt» e simili, e ciò perchè l'interrex, facendo in certa guisa ancora rivivere la figura del rex primitivo, ed essendo depositario e custode degli auspicia, durante il periodo della va canza del magistrato, non poteva esser nominato che da patrizii e fra i patrizii, come espressamente ci attesta Cicerone allorchè af ferma: « cum interrex nullus sit, quod et ipsum patricium et a patriciis prodi necesse est » (1). Come sia accaduto questo cambiamento, se cioè per legge o per il logico sviluppo delle isti tuzioni, il che è più probabile, non si può affermare con certezza; ma certo dovette essere questo il processo logico, che governo tale modificazione. In questo modo infatti si vengono a rannodare insieme tre istituzioni, che furono argomento di lunghe discussioni, e di cui tutti riconoscono la strettissima attinenza, che sono la patru patriciorum auctoritas per le leggi, la lex curiata de imperio per la elezione dei magistrati, e la proposta dell'interrex, accið l'im perium e gli auspicia non siano interrotti, durante la vacanza del magistrato. Tutte queste istituzioni non sono che conseguenze ed ap plicazioni dell'antico principio, che « auspicia penes patres sunt»; dal qual concetto conseguiva, che nè una legge, nè un magistrato, nè un interrex potevano ritenersi bene auspicati per lo Stato, senza l'intervento dell'ordine patrizio, il quale, di fronte al nuovo popolo, corrispondeva ai patres del periodo regio. In questo senso viene ad essere spiegato quanto ci afferma Cicerone che « curiata comitia, tantum auspiciorum causa, remanserunt », come pure si com prende, che col tempo i medesimi si siano ridotti ad una imitazione od adombramento dell'antico per mezzo dei trenta littori, che rap presentavano le trenta curie (ad speciem atque ad usurpationem vetustatis per XXX lictores) (2 ). Intanto però, anche coll' introduzione dei comizii centuriati, la nomina dei veri magistrati cum imperio continua ancora sempre ad essere l'opera di tutti gli organi politici dello Stato, in quanto che vi ha sempre il magistrato o interrè, che lo propone (rogat); il popolo delle classi o centurie, che lo elegge (creat); il senato, che continua a dare la propria auctoritas alla elezione (auctor fit); e da ultimo l'assemblea delle curie, che lo investe degli auspicia e dell'imperium mediante la lex curiata de imperio, per modo (1 ) CICERO, Pro domo sua, 14. (2) CICERO, De lege agraria, II, 11, 27 e 28. 292 che il magistrato non può entrare in ufficio, e compiere sopratutto atti di carattere militare, prima di aver ottenuta la legge stessa (1). 240. Se non che anchequi lo svolgimento armonico e coerente della primitiva costituzione romana comincia a dar luogo ad un dualismo, allorehè compariscono i magistrati plebei, e sopratutto il tribunato della plebe, il quale, pur essendo la magistratura urbana più operosa del periodo repubblicano, non riesce però mai ad inquadrarsi per fettamente nella costituzione politica di Roma. Dapprima infatti i tribuni della plebe non sono ancora veri magistrati, ma piuttosto ausiliatori della plebe, e non si pud neppure affermare con certezza dove fossero nominati, in quanto che gli storici parlano di una no mina fatta dalla plebe per curie, di cui non si comprende il signifi (1) Ho cercato qui di riunire e di risolvere, mediante i concetti informatori della primitiva costituzione di Roma, e dei cambiamenti, che in essa si vennero operando, alcune questioni, che furono oggetto di gravi e lunghe discussioni. La patrum au ctoritas, la lex curiata de imperio, la proposta dell'interrex furono spiegate in varia guisa. Havvi l'opinione del Niebhur, seguìta anche dal Becker, Röm. Alterth., vol. II, pag. 314-332, che pareggia fra di loro la patrum auctoritas e la lex curiata de imperio, e quindiattribuisce l'una e l'altra alle curie fin dal periodo regio; vi ha quella del WILLEMS, Le droit public romain, pag. 208 a 212, che invece attribuisce al vocabolo di patrum auctoritas la significazione costante di senatus auctoritas, affi dando al senato anche la proposta dell' interrex; sonvi il Rubino, e fra i recenti il Karlowa, Röm. R.G., I, p. 44 e seg., i quali sotto le espressioni di patrum aucto ritas e di patricii interregem produnt scorgono i senatori patrizii, e quindi affidano ad essi così la patrum auctoritas, come la proposta dell'interrex. Vi banno infine quelli, i quali sostengono, che la primitiva costituzione dovette certo subire qualche modi ficazione, allorchè la formazione delle leggi e la elezione dei magistrati dal popolodelle curie passò al popolo delle classi e delle centurie, e che il senato diventò pa trizio-plebeo; poichè in allora tutte le funzioni, che si rannodavano agli auspicia, dovettero di necessità passare alle curie, che erano il solo corpo esclusivamedelle curie passò al popolo delle classi e delle centurie, e che il senato diventò pa trizio-plebeo; poichè in allora tutte le funzioni, che si rannodavano agli auspicia, dovettero di necessità passare alle curie, che erano il solo corpo esclusivamente pa trizio. Tale è l'opinione sostenuta con molta dottrina dal PANTALEONI, L'auctoritas patrum nell'antica Romu (Rivista di Filologia, Torino, 1884, pag. 297 a 395). Se guendo un processo diverso, sono riuscito ad una conclusione analoga a quella soste nuta dal Pantaleoni, e intanto ho cercato di richiamare ad un unico concetto i varii aspetti, sotto cui presentasi la questione. Ritengo poi, che tanto il pareggiamento della patrum auctoritas e della lex curiata de imperio (BECKER), quanto quello della patrum auctoritas e della senatus auctoritas (WILLEMS), quanto infine il con cetto di un senato patrizio, diviso dal plebeo, che darebbe l'auctoritas e proporrebbe l'interrex (KARLOWA), per quanto sostenute con ingegno e con erudizione, siano in contrasto coi passi degli antichiautori, e collo svolgimento storico della costituzione romana. 293 cato (1 ). Più tardi nel 283 U. C. da Publilio Volerone si ottiene, che la plebe possa nominare i suoi tribuni nei proprii concilii, i quali cosi vengono ad essere legalmente riconosciuti. Come quindi con tinua ad esservi sempre un magistrato esclusivamente patrio, il qualedeve essere nominato dai patrizii delle curie, che è l'interrex; così vengono ad esservi deimagistrati, esclusivamente plebei, quali sono appunto i tribuni e gli edili della plebe, che debbono esser sempre nominati nei concilia plebis. Per quello poi, che si rife risce ai magistrati veri del popolo romano, e comuni ai due ordini, si viene ad operare una specie di divisione del potere elettorale fra i comizii centuriati, che continuano sempre a nominare i magi strati maggiori, ei comizii tributi, che finiscono per attirare a sè la nomina dei magistrati minori; di quei magistrati cioè, che un tempo erano nominati direttamente dal magistrato maggiore. Per talmodo anche qui sonvi i poteri, in cui i due ordini si confondono e si ripartono gli uffizii, ma rimangono ancor sempre le traccie del l'opposizione, che un tempo esisteva fra patriziato e plebe (2 ). Infine è ancora degno di nota in quest'argomento il processo, che i romani seguirono nella creazione dei pro-magistrati nelle pro vincie, secondo cui i magistrati di Roma, allorchè avevano terminato il proprio ufficio nella città, diventavano pro-magistrati nelle pro vincie. Per noi la cosa può sembrare singolare: ma pei romani era un processo regolare e costante, in quanto che essi, al modo stesso che avevano prese le istituzioni gentilizie e le avevano tra piantate nella città, così presero i magistrati di Roma, e li tras portarono nelle provincie, prorogandone l'imperio e chiamandoli pro-magistrati, poichè i veri magistrati dovevano essere quelli di (1) È Dionisio, IX, 41, il quale dice, che i tribuni furono dapprima eletti nelle curie, ma in verità non si riesce a comprendere come i difensori della plebe potes sero essere eletti coll'intervento del patriziato; salvo che con ciò si voglia dire, che la plebe, per la nomina dei suoi primi tribuni, siasi raccolta nel luogo stesso, ove si riunivano le curiae. La proposta di Volerone ebbe poi grandissima importanza in quanto che è con essa, che incomincia il riconoscimento legale dei concilia plebis. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, pag. 593 e segg. Non parmi tuttavia, che si possa far rimontare a quest'epoca l'esistenza dei comitia tributa, poichè i tribuni della plebe, anche più tardi, furono sempre nominati nei concilia plebis. (2) Questa è una prova, che in questo periodo della costituzione politica di Roma i veri comizii del popolo romano erano i comiziï centuriati e i comizii tributi; mentre i comizii curiati erano solo più conservati auspiciorum causa, ed i concilia plebis per provvedimenti di interesse esclusivo alla plebe. 294 Roma (1 ). Veniamo ora all'esercizio del potere giudiziario nel periodo regio. § 4. – L'amministrazione della giustizia, la distinzione fra ius e iudicium, e la provocatio ad populum nel periodo regio. 241. Per quello che si attiene all'amministrazione della giustizia durante il periodo regio, la questione fondamentale, intorno a cui vi ha grande divergenza fra gli autori, è quella che sta in vedere se l'esercizio della giurisdizione, cosi civile come penale, apparte nesse esclusivamente al re, oppure vi avessero anche partecipazione il senato ed il popolo. Questo è però fuori di ogni dubbio, che in questo periodo si cercherebbe indarno una delimitazione precisa fra la giurisdizione civile e la criminale, sebbeue già sianvi dei reati, che sono pubblicamente proseguiti, come si vedrà più tardi, discor. rendo del parricidium e della perduellio, e delle autorità incari cate della prosecuzione e punizione di essi (quaestores parricidii e duumviri perduellionis ) (2). Senza pretendere di volere risolvere le gravissime questioni, che si agitano in proposito, mi limito unicamente ad osservare, che anche in questa parte la costituzione primitiva di Roma contiene il germe di tutte quelle istituzioni, che son chiamate a determinare lo svolgimento ulteriore del potere giudiziario in Roma. Queste isti tuzioni primordiali, che gli antichi fanno già rimontare al periodo regio, sono: la potestà di giudicare, che appartiene al re; la distin zione fra il ius e il iudicium, per cui, accanto al magistrato qui ius dicit, già compariscono i iudices, gli arbitri, i recuperatores in materia civile, ed i duumviri, ed i quaestores in materia crimi nale; e da ultimo l'istituto della provocatio, che col tempo sarà quello, che finirà per trasportare la giurisdizione penale dal magi strato ai comizii. Questi istituti sono in certo modo altrettanti abbozzi, che svolgendosi a poco a poco finiranno per determinare l'evoluzione del potere giudiziario, durante il periodo repubblicano. 242. Che la potestà del ius dicere sia compresa nella concezione (1) Non occorre di notare, che qui si parla dei pro-magistrati, che dopo essere stati consoli o pretori in Roma, diventavano proconsoli o propretori nelle provincie. Cfr. in proposito MOMMSEN, Le droit public romain, I, pag. 11 e segg. (2 ) Cfr. Muirhead, Histor. introd., Sect. 15, pag. 59. 295 - sintetica del regis imperium, sebbene non esista ancora la sepa razione recisa fra la iurisdictio e l'imperium, è cosa a parer mio chenon può essere posta in dubbio. Non può quindi essere accolta l'opinione del Maynz, che quasi vorrebbe fin dal periodo regio attribuire la giurisdizione criminale al popolo (1 ). Tuttavia in pro posito occorre di rettificare un concetto, che sembra essere general mente adottato, secondo cui si vorrebbe in certo modo riconoscere nel re il potere di giudicare di qualsiasi controversia e di qualsiasi misfatto. Questo concetto ripugna col processo seguito nella forma zione della città, e dell'imperium regis. Almodo stesso, che la ci vitas non assorbi tutta la vita delle genti e delle famiglie, ma è dovuta ad una specie di selezione, che si viene operando di quelle funzioni civili, politiche e militari, che prima erano esercitate dalle singole comunanze patriarcali; così anche il potere regio venne for mandosi, mediante lente e graduate sottrazioni, che si vennero ope rando da quei poteri, che prima appartenevano ai capi di famiglia e delle genti. Di qui la conseguenza, che negli esordii dovette per lungo tempo mantenersi vigorosa, accanto al potere del re, la giu risdizione propria dei capi di famiglia e delle genti, e che per lungo tempo ancora i capi di famiglia curarono essi la prosecuzione delle proprie offese e continuarono ad essere i vindici della disciplina, che doveva essere mantenuta nelle famiglie; come lo dimostra il fatto stesso dell'Orazio, quale ci viene narrato da Livio. Tut tavia in questa progressiva formazione del potere del magistrato fu la stessa realtà dei fatti e l'intento della comunanza civile e po litica, che somministrò il concetto direttivo, che ebbe a determi narla. Questo concetto consiste in cid, che il re primitivo non si impone ai membri delle genti e delle famiglie come tali, ma bensi ai medesimi, in quanto sono quiriti, cioè in quanto partecipano alla stessa convivenza civile e politica. Quindi il re dapprima non è il custode dell'ordine delle famiglie, nè il vindice delle offese tutte, che possono patire i membri di esse; ma è il custos urbis, ed è incaricato sopratutto di provvedere al mantenimento di quelle leges publicae, che sono in certo modo la base della confederazione ci vile e politica, a cui addivennero le varie comunanze. Nel resto continuano ad essere competenti i singoli padri e capi di famiglia, V. Maynz, Introd. au cours de droit romain, n. 20, pag. 60, ove sostiene, che anche in tema di giurisdizione criminale la sovranità appartenesse alla nazione. 296 ed anche i capi di tutti gli altri sodalizii di carattere religioso o civile (magistri): i quali, secondo il concetto primitivo, hanno giuris dizione sui membri tutti del sodalizio, come lo dimostra, fra le altre, la giurisdizione del pontefice sui sacerdozii, che da esso dipendono (1 ). Sarà quindi solo più tardi, ed a misura che nella cerchia delle mura cittadine saranno anche comprese le abitazioni private, che la giu risdizione del magistrato perderà questo suo carattere, e si potrà esten dere anche a fatti, che, quantunque compiuti fra le pareti domestiche e da persone dipendenti dall'autorità del capo di famiglia, potranno tuttavia produrre una pubblica perturbazione. 243. Di questo carattere speciale della giurisdizione, spettante al magistrato primitivo di Roma, abbiamo una prova eloquente in quella distinzione fondamentale per l'antica amministrazione della giustizia, così civile come penale, fra il ius ed il iudicium. Sono note le discussioni, che seguirono in proposito, e non mancarono anche coloro, che attribuirono la divisione stessa alla separazione, che l'ingegno sottile dei romani avrebbe tentato di fare, fin d'allora, fra il diritto ed il fatto: cosicchè il magistrato avrebbe decisa la que stione di diritto, mentre il giudice avrebbe poi applicato il diritto al fatto. Una simile distinzione non si cercò mai dai Romani, perché essi professarono sempre, che ex facto oritur ius;ma furono invece i fatti stessi e le condizioni reali, fra cui vennesi formando la città, che condussero naturalmente a questa distinzione. Pongasi infatti un centro di vita pubblica, che stia formandosi fra varie comunanze patriarcali. L'effetto, che dovrà risultare da questo stato di cose, sarà quello di produrre, fra le giurisdizioni, che con tinuano ad appartenere ai capi delle famiglie e delle genti, una giurisdizione di carattere pubblico, che appartenga al capo ed al (1) Cfr. Maynz, op. cit., n. 20, pag. 60, e MOMMSEN, Le droit public romain, I, pag. 187: « Magistri (scrive Festo, po magisterare), non solum doctores artium, sed etiam pagoram, societatum, vicorum, collegiorum, equitum dicuntur, unde et magi stratus (Bruns, Fontes, pag. 341). È da vedersi a questo proposito quanto ebbi ad esporre nel lib. I, Capo V, n ° 88, pag. 109 e nota relativa. (2 ) Fra gli autori, che in questa distinzione videro in certo modo una separazione fra il diritto ed il fatto havvi il Bonjean, Traité des actions chez les Romains, Paris, 1845, vol. I, § 29. Cfr. Carle, De exceptionibus in iure romano, 1873, pag. 11. Di tale distinzione tratta il BuonAMICI, Storia della procedura civile romana, Pisa, 1866, I, $ 5. 297 custode della città. Di qui la conseguenza, che la questione pre liminare, che questo magistrato sarà chiamato a risolvere, ogni qual volta gli sia sottoposta un'accusa od una controversia, consisterà nel decidere, se il fatto, del quale si tratta, sia uno di quelli, che debbono essere lasciati alla giurisdizione domestica, od invece attribuiti alla giurisdizione di carattere pubblico, che a lui appartiene; come pure dovrà cercare, se al fatto, del quale si tratta, siavi qualche lex pu blica, che debba essere applicata. Se quindi, ad esempio, l'Ora zio avrà uccisa la sorella, e sarà trascinato innanzi al re in ius, la questione, che questi è chiamato a decidere, sta in vedere, se il fatto in questione debba essere lasciato alla giurisdizione del padre, che afferma che la sua figlia è stata iure caesam, o se trattisi invece di tal fatto, alla cui repressione provveda una lex publica. Ed è questa appunto la questione, che risolve Tullo Ostilio, il quale, secondo Livio: « concilio populi advocato: duumviros, inquit, qui Horatio perduellionem iudicent, secundum legem fació » (1). Che se in vece di un misfatto si fosse trattato di una controversia di carattere civile, la questione a risolversi sarà pur sempre quella di vedere, se trattisi di un caso contemplato da una legge pubblica, e se perciò si dovrà accordare diritto di agire secondo la legge. Solo allora il magistrato gli dirà di agire secundum legem publicam: oppure più tardi, allorchè vi sarà una speciale magistratura per l'amministrazione della giustizia, questa pubblicherà nel proprio editto quali siano i casi particolari, in cui actionem dabit. Non è perciò da ammettersi il concetto per tanto tempo ricevuto, che, secondo il diritto civile romano, vi fossero dei diritti, che erano senz'azione; ma soltanto si deve dire, che il diritto in Roma si venne lentamente e gradatamente formando, e che toccava al ma gistrato di esaminare e di risolvere la questione, se in quel caso determinato dovesse, o non, essere accordata l'azione. Spettava quindi al magistrato (in iure) di decidere in ogni caso particolare, se il caso stesso fosse stato tale da richiedere, in base alle leggi, l'intervento e l'appoggio del pubblico potere: ma, una volta decisa affermativamente una tale questione, il magistrato aveva compiuto (1 ) Liv., I, 26. Dalle espressioni, che Livio attribuisce a Tullo Ostilio, si ricava, che la questione, che egli si propose di risolvere, consisteva nel decidere, se vi era una legge, e quale fosse la legge, che colpiva il delitto del quale si trattava. Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costituzionale di Roma, I, pag. 317. 298 il proprio ufficio, e quindi poteva rimettere il giudizio o ai quae stores parricidii, o ai duumviri perduellionis, se trattavasi di ac cusa penale, od anche ad un iudex e perfino ai recuperatores, se trattavasi di una controversia civile, intorno a cui le parti non si fossero poste d'accordo innanzi al magistrato. Questo è certo, che già nel periodo regio vi furono queste varie maniere di giudici; ed è anzi probabile, che già esistessero i iudices selecti, il cui albo do veva probabilmente ricavarsi dal novero dei padri o senatori; come lo dimostra la testimonianza di Dionisio, ed anche il fatto, che fu così anche dopo, e che in una comunanza, che aveva ancora del patriarcale, era ovvio, che i padri fossero i naturali giudici delle controversie. È certo parimenti, che quando trattavasi di delitti ca pitali, il re doveva essere circondato da un consilium; come ap pare dal fatto, che, secondo Livio, a Tarquinio il Superbo fu mossa l'accusa che « cognitiones capitalium rerum sine consiliis per se ipsum exercebat ». Era poi naturale, che anche questo consilium fosse tratto dall'albo dei patres o senatori, e per tal modo abbiamo anche qui un ricordo del re patriarcale, che, circondato dagli an ziani, amministra la rozza patriarcale giustizia (1). Per quello poi, che si riferisce all'intervento dell'elemento popo lare nell'amministrazione della giustizia civile, sembra che il mede simo debb a attribuirsi soltanto all'epoca serviana, alla quale puo con molta verisimiglianza farsi rimontare l'istituzione del Tribunale dei centumuiri, come si vedrà a suo tempo. 244. Intanto è sempre dal modo, in cui la città si venne formando, e dall'essere essa l'organo e il centroella vita pubblica, che ven gono ad essere determinati i caratteri della procedura, che dovette essere seguita negli esordiidella città, così nei giudizii civili come nei giudizii penali. È infatti nel foro, ossia nella piazza, che deve essere amministrata giustizia, come lo dimostra il fatto, che una delle ac cuse, mossa contro Tarquinio il Superbo, fu quella appunto di essere venuto meno al tradizionale costume, amministrando giustizia nell'in terno della propria casa (2 ). Così pure si comprende come questa (1) Il testo è citato da Livio, I, 49. Abbiamo poi Dionisio, II, 14, che dice parlando del re: « de gravioribus delictis ipse cognosceret; leviora senatoribus committeret; donde si può inferire, che anche il consilium regis dovesse, trattandosi di delitti ca pitali, ricavarsi dal senato. Cfr. Karlowa, Röm. R. G., pag. 54. (2 ) Liv., I, 49. 299 procedura dovesse essere orale, ed ispirarsi al concetto di una assoluta parità di condizione fra i contendenti, come quella che doveva imi tare, cosi nei giudizii civili come nei penali, quella specie di lotta e di certame, che un tempo dovette seguire fra i contendenti. Se si trat terà di un misfatto, sarà il cittadino che accuserà il cittadino e cer cherà egli stesso le prove, sovra cui si appoggia la propria accusa, e se si tratterà invece diazione civile, sarà seguita la procedura solenne dell'actio sacramento, od anche quella della iudicis postulatio. Di queste si è veduto come la prima già si era formata nella stessa tribù patriarcale: mentre un tempo essa era il modo di pro cedere del capo di famiglia contro il capo di famiglia nel seno della tribù, venne poi ad essere trapiantata nella città, unitamente alle formalità, che ricordano l'antica procedura patriarcale, e cominciò cosi ad usarsi dal quirite contro ' il quirite (1 ). La seconda poi, ossia la iudicis postulatio, fu l'effetto necessario di quella separazione del ius dal iudicium, che, come si è dimostrato più sopra, era una con seguenza del formarsi di una giurisdizione pubblica, accanto alle giurisdizioni di carattere domestico e patriarcale, in quanto che, toc cando al magistrato di risolvere la questione se in quel caso dovesse o non ammettersi un cittadino ad agire secundum legem publicam, conveniva di necessità ricorrere a lui, accid delegasse un iudex o un arbiter per la risoluzione della controversia; donde l'antica de nominazione della iudicis arbitrive postulatio (2 ). Questa conget tura ha la sua base in ciò, che all'epoca decemvirale già si trovano stabilite queste due maniere di procedura, senza che si possa deter minare, quando le medesime siano state introdotte. Cotali procedure tuttavia, passando dai rapporti fra capi di famiglia, pressochè indi pendenti e sovrani, ai rapporti fra i cittadini di una medesima città, hanno già cessato di essere semplici actiones, e sono diventate legis actiones, in quanto che sono altrettanti modi riconosciuti dalla legge pubblica per far valere in giudizio le proprie ragioni. 245. Soltanto più ci resta a discorrere di una istituzione, che era (1) Quanto all'origine gentilizia e alla naturale formazione dell'actio sacramento vedasi sopra lib. I, n. 104. (2 ) La iudicis arbitrive postulatio è ricordata da Gaio, come una delle più antiche legis actiones, Comm. IV, § 12, sebbene poi il manoscritto di Verona sia stato il. leggibile nella parte, che vi si riferisce. V. quanto alla medesima il Murhead, Hist. introd., Sect. 35, pag. 197, e il BuonamiCI, Storia della procedura civile romana. I, Cap. VII, pag. 43 a 57. 300 poi chiamata a ricevere una larga applicazione, durante il periodo repubblicano, e che è indicata colla denominazione di provocatio ad populum. Si dubita dagli scrittori, se questa istituzione già potesse esistere fin dal periodo regio, ed alcuni lo negano, perchè ritengono, che in questo periodo le funzioni del popolo si riducessero esclusivamente a quelle, che il re credeva di dovergli affidare. Per parte nostra, di fronte alla testimonianza di Cicerone, che, augure egli stesso, ebbe a dire, che della provocatio ad populum parlavano i libri pontificii e gli augurali, il dubbio non dovrebbe più presentarsi (1 ). Quanto alle considerazioni desunte dagli stretti confini della populi potestas, durante il periodo regio, ed anche dalla narrazione di Livio, che nel caso dell'Orazio parla di una provocatio ad populum, accordata da Tullo « clemente legis interprete », parmi che esse non possano condurre ad escludere un diritto di provocatio ad populum, che in effetto sarebbe stato invocato e fu fatto valere dallo stesso Orazio. Pud darsi, che in quel caso particolare potessero esservi dei motivi per dubitare, se dovesse o non essere ammessa. Ma se l'Orazio vi ricorre, egli lo fa in base ad una consuetudine, le cui origini dovevano rimon tare ad un'epoca anteriore. Si aggiunge, come appare dalle cose premesse, che la costituzione primitiva di Roma dovette essere più liberale negli inizii, quando vi era un populus, tutto composto di padri uguali fra di loro e consapevoli del proprio diritto, che non posteriormente, allorchè il populus cominciò ad essere composto di due classi disuguali fra di loro, cioè del patriziato, che era il populus primitivo, e della plebe; di una classe dirigente e di una classe, che trovavasi in posizione inferiore. In base ad una tale costituzione primitiva, secondo cui la populi potestas era la sorgente di tutti i pubblici poteri ed anche del regis imperium, veniva ad essere naturale e logico, che se il ius dicere apparteneva al re, il con dannato dovesse poter ricorrere in appello al potere supremo che era il popolo, mediante la provocatio. Per verità di questo diritto alla provocatio fa cenno la stessa lex horrendi criminis, i cui termini ci furono conservati da Livio « duumviri perduellionem iudicent: si a duumviris provocarit, provocatione certato ». Era poi naturale, che questa provocatio, al pari dell'azione e del giudizio, venisse a canıbiarsi in quella specie di certame o di combattimento (1) Cic., De Rep., II, 35: « Provocationem etiam a regibus fuisse, declarant pon tificii libri, significant nostri etiam augurales », 301 legale, che viene appunto ad essere descritto da Livio, a proposito del giudizio dell'Orazio, in quanto che ogni procedura patriarcale prende naturalmente questo carattere. I duumviri, che avevano pronunziata la condanna, dovevano essi sostenere l'accusa davanti all'assemblea del populus. Eravi cosi una specie di certamen fra essi e l'accusato, che simboleggiava quel combattimento vivo e reale, che un tempo aveva dovuto effettivamente seguire. Che anzi, già fin d'al lora, il populus, trattandosi di reato di carattere politico, quale era la perduellio, poteva anche passare sopra alla questione puramente giuridica, per giudicare invece ex animi sententia, e assolvere, come avrebbe fatto nel caso speciale dell'Orazio, «admirationemagis virtutis, quam iure causae » (1). Vero è, che posteriormente nel primo anno della repubblica tro viamo una legge Valeria Orazia de provocatione, che riconobbe solennemente al popolo questo suo diritto, il quale fu anzi conside rato come il palladio della libertà del cittadino romano (unicum praesidium libertatis); ma allora le circostanze erano cambiate, perchè il populus non comprendeva solo più i patres e i patricii, ma anche la plebs, e quindi volevasi una legge, che accomunasse e consacrasse una istituzione, forse solo consuetudinaria, a tutto il nuovo populus quiritium, comprendendo in esso anche la plebe (2). 246. Intanto è evidente la influenza, che questa istituzione della provocatio ad populum, solennemente consacrata, doveva esercitare sul futuro svolgimento della giurisdizione criminale, in quanto che essa doveva condurre al risultato di trattenere il magistrato dal pronunziare una condanna, da cui poteva esservi appello al popolo, e trasportare cosi in definitiva la giurisdizione criminale dal magistrato al popolo. Tuttavia anche qui lo svolgimento regolare e graduato ebbe ad essere per qualche tempo interrotto, allorchè i tribuni della plebe presero a portare accuse contro i patrizii avversi alla plebe, e contro i consoli uscenti di ufficio davanti ai concilia plebis. Fu (1) Liv., I, 26. (2) Non potrei quindi ammettere l'opinione del KarlowA, Röm. R. G., pag. 53 e segg., il quale, argomentando da ciò, che le leggi Valeriae Horatiae avrebbero introdotta la provocatio ad populum, vorrebbe inferirne, che questa sotto i re non esistesse che per la perduellio. CICERONE parla di provocatio in genere, e quindi non vi ha motivo di restringerla, ma vuolsi ammetterla in genere per i reati a quella epoca puniti di pena capitale, cioè tanto per la perduellio, quanto per il parricidium. 302 allora, che la legislazione decemvirale ebbe a stabilire il principio che soltanto i comizii centuriati potessero pronunziare una condanna capitale (1 ). Ciò però non impedisce, che i tribuni della plebe conti nuino ancora ad eserc itare il proprio diritto di accusa, sopratutto per i delitti di carattere politico, e per quelli che sono puniti di sole pene pecuniarie. Di qui deriva la conseguenza, che anche quanto alla giurisdizione criminale viene a ripartirsi il compito fra i comizii centuriati, che giudicano dei delitti capitali, e dd i comizii tributi, che giudicano dei delitti, che debbono essere puniti con pene pecuniarie, finchè l'incremento della città ed anche dei delitti perseguiti per legge non renderà necessario di ricorrere alla istituzione delle quaestiones perpetuae, ossia di tribunali speciali per giudicare delle diverse categorie di delitti (2 ). Parmi con ciò di aver abbastanza dimostrato non solo l'unità e la coerenza della primitiva costituzione patrizia; ma di aver provato eziandio, come essa debba essere considerata come il modello e l'esem plare, sovra cui si foggiò tuttoil posteriore svolgimento delle istituzioni politiche diRoma. Essa fu tale dameritarsi il grande elogio diCicerone, allorchè scriveva, che la costituzione politica di Roma formatasi « non unius ingenio, sed multorum, nec una hominis vita, sed aliquot saeculis et aetatibus », era tuttavia riuscita superiore in eccellenza alle costituzioni greche, che erano l'opera meditata dei filosofi e dei sapienti. L'opera collettiva di un popolo, proseguita con logica tenace e coerente, e accomodata ai tempi, riusciva per talmodo superiore all'opera individuale dei più grandi ingegni del l'umanità: nam, dice lo stesso Cicerone, facendo intervenire Sci pione, neque ullum ingenium tantum exstitisse dicebat, ut quem res nulla fugeret quisquam aliquando fuisset; neque cuncta in genia, conlata in unum, tantum posse uno tempore providere, ut omnia complecterentur, sine rerum usu ac vetustate (3). Veniamo ora alle leges regiae. (1) Cic., De leg. 3, 4: « De capite civis nisi per maximum comitiatum ne fe runto », disposizione questa, attribuita alla legislazionedecemvirale, la quale mirava con ciò ad impedire, che le cause capitali contro i patrizii e contro i consoli fossero dai tribuni della plebe recate innanzi ai concilia plebis. (2 ) Cfr. Esmein, Le délit d'adultère à Rome e la loi Iulia, de adulteriis, nei Mélanges d'histoire du droit, Paris, 1886, pag. 71 et suiv. (3 ) Cic., De Rep., II, 1. La legislazione regia durante il periodo esclusivamente patrizio. $ 1. - Del contributo delle varie stirpi italiche alla primitiva legislazione di Roma. 247. Dal momento che a costituire la città patrizia concorsero comunanze, le quali erano di origine diversa, era naturale, che, anche esistendo una certa analogia fra le loro istituzioni, non potesse perd esservi una identità perfetta fra le medesime. È quindi evidente, che col partecipare di diverse stirpi alla medesima città dovette ope rarsi fra di loro una assimilazione lenta e graduata delle loro isti tuzioni giuridiche. Che anzi, a questo proposito, un recente autore, a cui deve assai la ricostruzione del diritto primitivo di Roma, il Muirhead, andrebbe fino a dire, che le varie stirpi, come recarono un diverso contributo alla costituzione politica di Roma, cosi deb bono pure aver portato un contributo diverso alla formazione del diritto privato di Roma; contributo, che egli cercherebbe di riassu mere nei seguenti termini: « La patria potestas spinta fino al ius vitae et necis sulla figliuolanza; la manus ed il potere del marito sulla moglie; il concetto per cui  « maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio, IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù; tutto ciò insomma, che deriva dal concetto, che la forza generi « maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio, IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù; tutto ciò insomma, che deriva dal concetto, che la forza generi « maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio, IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù; tutto ciò insomma, che deriva dal concetto, che la forza generi « maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio, IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù; tutto ciò insomma, che deriva dal concetto, che la forza generi il diritto, sarebbe dovuto all'influenza latina: « Le cerimonie religiose invece, che accom pagnano il matrimonio, il riconoscimento della moglie, quale padrona della casa e partecipe delle cure religiose e domestiche; il consiglio di famiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii necessarii per il riposo delle loro anime, sarebbero evidentemente uscite da un diverso ordine di idee, e sarebbero perciò a ritenersi di provenienza sabina. - « Quanto all'influenza etrusca non si sarebbe sentita che ad una data più recente;ma dovrebbe probabilmente essere attri 304 buito alla medesima quello stretto riguardo, che deve aversi all'os servanza delle cerimonie e delle parole solenni, nelle più impor tanti transazioni della vita pubblica e privata » (1). Non può certam ma dovrebbe probabilmente essere attri 304 buito alla medesima quello stretto riguardo, che deve aversi all'os servanza delle cerimonie e delle parole solenni, nelle più impor tanti transazioni della vita pubblica e privata » (1). Non può certamma dovrebbe probabilmente essere attri 304 buito alla medesima quello stretto riguardo, che deve aversi all'os servanza delle cerimonie e delle parole solenni, nelle più impor tanti transazioni della vita pubblica e privata » (1). Non può certamente negarsi, che la ricostruzione dell'in signe giureconsulto appare come una verosimile congettura, quale del resto è annunciata dallo stesso autore. Alla sua mente acutanon poteva sfuggire la stretta attinenza, che dovette esservi fra il diritto pubblico e il privato nello svolgimento delle primitive istitu zioni: e ciò lo condusse a questa ripartizione di parti, che pure si appoggia al carattere e alle opere, che la tradizione attribuisce ai re, che provengono dalle varie stirpi. Tuttavia, con tutta la reverenza all'opinione di un insigne, crederei che questa ricostruzione del diritto primitivo di Roma non possa essere accettata, neppure come ipotesi e congettura, perchè è in contraddizione col modo, in cui Roma e il suo diritto si vennero formando, e colle tradizioni, che a noi pervennero. 248. Non credo anzitutto, che la costituzione, anche politica di Roma, possa considerarsi in certo modo come una composizione di elementi diversi recati da questa o da quella stirpe. In proposito ho cercato di dimostrare che l'ossatura della città primitiva fu essen zialmente latina, e che, al pari delle altre città latine, Roma usci da un foedus, ossia dall'accordo di varie tribù per partecipare ad una stessa comunanza civile e politica. Quindi è che gli elementi, che sopravvennero, entrarono tutti nei quadri della città latina, la quale fu anzi concepita sopra un'unità cosi organica e coerente, che non può essere riguardata, come il frutto del contemperamento di ele menti diversi (2 ). Re, senato e popolo esistono fin dagli esordii di Roma, e a misura che nuovi elementi si aggiungono, il re potrà sce (1) MUIRHEAD, Historical introduction to the private law of Rome, Edinburgh. 1886, pag. 4. (2 ) In questa parte divido perfettamente l'idea del MOMMSEN, che condanna l'opi nione di coloro « che han voluto trasformare il popolo, che ha dimostrato nella sua lingua, nella sua politica e nella sua religione uno sviluppo così semplice e naturale, in uno amalgamarsi confuso di orde etrusche, sabine, elleniche e perfino pelasgiche ». A suo avviso sono i Ramnenses, di origine latina, che non solo fondarono e diedero il proprio nome alle città, ma che posero eziandio quelle linee primitive, in cui entra rono poi tutte le istituzioni, che furono assimilate più tardi » Histoire Romaine, I, liv. I, Chap. 4, pag. 54. Questa opinione, fra gli autori recenti, è pur sostenuta dal Pelham, Encyclopedia Britannica, XX, vº Rome (ancient), ove rinviene in Roma tutti i caratteri di una città latina. 305 gliersi da un'altra stirpe, il numero dei senatori e dei cavalieri potrà essere aumentato, e potranno anche accrescersi i coll egi sacerdotali, ma l'ossatura primitiva sarà sempre conservata. Vero è che un re sabino, cioè Numa, secondo la tradizione, fu organizzatore del culto e del collegio dei pontefici, ma auspicii e cerimonie religiose ed au gurali sono già attribuite allo stesso Romolo; nè tutto ciò, che si riferisce all'organizzazione domestica, può ritenersi di origine sabina, dal momento che già una legge, attribuita a Romolo, riguarda il matrimonio per confarreationem (1). Lo stesso è a dirsi del tribunale domestico e della tendenza delle famiglie a perpetuarsi, che il Mui rhead vorrebbe pur ritenere di origine sabina, mentre ne troviamo le traccie in tutti i popoli di origine Aria, e in tutti quelli parimenti, che hanno attraversato lo stadio dell'organizzazione patriarcale (2). Cid pure deve dirsi del cerimoniale esteriore e dell'uso di parole so lenni nei contratti e negli atti, che il Muirhead attribuirebbe alla in fluenza etrusca, poichè, se stiamo alla tradizione, questo cerimoniale esteriore rimonta alla fondazione stessa della città, e quindi sarebbe anteriore all'epoca, in cui, secondo il Muirhead, si sarebbe comin ciata a sentire l'influenza etrusca. Si aggiunge, che le solennità di parole, di atti e di gesti non sono anch'esse un privilegio di questa o di quella stirpe; ma sono comuni a tutti i popoli, che attraver sarono l'organizzazione gentilizia, e trovano anzi, come si è dimo strato, una causa naturale in ciò, che in questa condizione di cose, gli atti ed i contratti, seguendo in certo modo, non fra individui, ma fra capi di gruppo, acquistano una solennità, che ora direbbesi internazionale, la quale si conserva poi eziandio negli inizii della co munanza civile e politica. Infine non pud neppure affermarsi, che quella serie di istituzioni, che mette capo al concetto, che il diritto scaturisce dalla forza, debba considerarsi come di provenienza latina, in quanto che questo concetto deriva piuttosto dall'attitudine emi nentemente guerriera, che prende il populus romanus quiritium (1) Dion. II, 25 (BRUNS, Fontes, pag. 6 ). (2) Che questo sia un carattere comune a tutti i popoli, che trovansi nell'orga nizzazione patriarcale, o che escono dalla medesima, è stato dimostrato dal SUMNER MAINe, nelle varie opere sue, e di recente dal Leist, Graeco-italische Rechtsge schichte. Jena, 1885. Io stesso credo di averne data la prova nell'opera: La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, lib. I e II, seguendo le migrazioni delle genti Arie, e dimostrando come esse abbiano trapiantato nell'Occidente quelle istituzioni, che avevano preparato nell'Oriente) nelle sue origini, attitudine che è comune a tutte le stirpi, che lo costituiscono; come lo dimostra il fatto, che vi hanno genti di origine sabina (come, ad es., la Claudia ), ed altre di origine etrusca (come la Tarquinia), le quali appariscono non meno amiche della forza, e fino anche della prepotenza, di quelle di origine veramente latina, alle quali appartengono di regola le genti, che come la Valeria, appariscono nelle tradizioni più favorevoli alla plebe, e più disposte ad equi e a miti consigli. 249. Del resto non è un esame delle singole affermazioni del Muirhead, che io qui intendo di fare; ma piuttosto dalle cose pre messe intendo inferire, che, trattandosi di genti, che probabilmente erano tutte di origine Aria, e si trovavano pressochè nel medesimo stadio di organizzazione sociale, le istituzioni fondamentali del di ritto privato, salvo le divergenze nei particolari minuti, dovevano essere essenzialmente comuni alle varie stirpi. Tutte avevano isti tuzioni, in cui prevaleva il carattere religioso; tutte compievano i loro atti con solennità e cerimonie esteriori, che richiamavano un precedente periodo di organizzazione sociale; e tutte possedevano l'organizzazione patriarcale della famiglia, e gli istituti della gente, della clientela e della tribù. Cið tutto si può affermare con certezza, dal momento, che questi caratteri sono comuni al diritto primitivo, quale ebbe a modellarsi nell'Oriente, durante il periodo, chepotrebbe chiamarsi della comunanza del villaggio. La stirpe tuttavia, che diede il primo modello, in cui furono poi fuse le istituzioni analoghe, che erano già possedute dalle varie genti, fu anche, quanto al diritto privato, la stirpe latina, la quale appare come fondatrice della città; il che punto non tolse, che, stante il comporsi dei varii elementi, si allargasse poi il concetto della divinità, patrona comune della città, e si ammettessero man mano anche istituzioniproprie di altre stirpi, ma sempre foggiandole, come Roma fece anche più tardi, sul l'impronta latina. Che anzi credo perfino di dover affermare, che quella potenza di assimilazione, che contraddistingue Roma, appena compare, deve sopratutto ritenersi propria alla stirpe latina, da cui Roma ebbe la sua prima origine. Per verità, anche prima della fondazione di Roma, le popolazioni latine erano quelle, che avevano già mag giormente svolto il concetto di federazione, e che perciò si di mostravano anche meno esclusive, e perfino anche più favorevoli alle plebi, e più disposte a ricevere altri elementi nel proprio seno, - 307 e ad apprendere in conseguenza anche dalle istituzioni degli altri popoli. Ciò è tanto vero, che nella storia primitiva di Roma l'ele mento etrusco fu dapprima tenuto in più basso stato, e più tardi, quando diventò potente ed aspird alla tirannide, ne fu cacciato ed espulso; l'elemento sabino fu quello, che, essendo ancora più tena cemente vincolato nell'organizzazione gentilizia, si dimostrò il più esclusivo e il meno favorevole alle plebi; mentre invece l'elemento latino fu quello che, dopo essere stato il primo a modellare la città, entrò anche dopo in copia maggiore a riempire tanto i quadri della città patrizia, quanto le file di quella plebe operosa e battagliera, che ebbe tanta parte nella grandezza di Roma. Una prova di ciò pud ravvisarsi nel fatto, che Roma, elevandosi gigante fra le altre co munanze italiche, combattè ad oltranza cogli Etruschi, coi Sabellici e coi Sanniti, e non si arrestd finchè ebbe quasi cancellata ogni traccia di loro civiltà; mentre quanto ad Alba, la considerò come sua madre patria, e anzichè estinguerla e soffocarla, dopo averla vinta, pre feri di accoglierne il patriziato e la plebe, e di essere erede della medesima, continuando quel processo nell'organizzazione sociale, che da essa erasi iniziato. Fra Roma da una parte e l'Etruria e la Sabina dall'altra, vi fu pressochè una guerra di sterminio, sopratutto fra le due prime, mentre fra Roma e il Lazio vi fu soltanto una lotta di precedenza; perchè due città foggiate sullo stesso modello, come Roma ed Alba, non potevano coesistere l'una in prossimità dell'altra (1). (1 ) La questione dell'origine di Roma e dell'organizzazione, da cui essa prese le mosse, forma tuttora argomento di discussioni fra gli eruditi. Fra gli altri il PAN TALEONI, Storia civ. e costituz. di Roma, I, nei primiquattro capitoli, e nella 1a appen dice aggiunta in fondo del volume, avrebbe sostenuta l'origine sabellica di Roma e di quella organizzazione patriarcale, di cui essa ritiene ancora le traccie, cosicchè per esso anche i Ramnenses sarebbero Sabellici, mentre la plebe sarebbe da lui ritenuta di ori gine latina, poichè, a suo avviso, le popolazioni latine già erano maggiormente use alla vita della città. Credo di aver abbastanza dimostrato, che Roma primitiva si formò sul modello latino, e che nelle stesse città latine già eravi la distinzione fra patriziato e plebe, e quindi non sembrami che la dottrina certo grande dell'autore possa far preva lere un'opinione,che contraddice a tutte le testimonianze degli storici e alle tradizioni stesse del popolo romano circa le proprie origini. Di recente poi il Casati in una nota letta alla Académie des inscriptions et de belles lettres di Parigi, nell'ottobre del 1886, sostenne che la gens fosse di origine Etrusca. Anche questi nuovi studii mi confermano nella conclusione: che l'organizzazione gentilizia sia stata un tempo comune a queste varie stirpi, e che, all'epoca della formazione di Roma, la stirpe - 308 250. Del resto la causa di questa divergenza col Muirhead ed il motivo, per cui ritenni di dover qui combattere la sua teoria, devono essere cercati in un'altra divergenza ben più grave, che sta nel modo diverso di comprendere e di spiegare la primitiva formazione di Roma. Per il Muirhead (ancorchè, a mio avviso, egli sia fra gli autori re centi uno di quelli, che ha posto meglio in vista il contributo diverso recato alla formazione del diritto Romano, dal patriziato e dalla plebe), la città di Roma continua ancor sempre ad essere il frutto dell'unione di genti appartenenti alle stirpi latina, sabina ed etrusca, ed è ancora questo il concetto, che egli pone a fondamento della sua ricostruzione del diritto primitivo di Roma. Era naturale quindi che, fondendosi ed incorporandosi le varie stirpi, ciascuna dovesse recare il proprio contributo, anche alla formazione di un comune diritto, e che egli cercasse di discernere in questa composizione la parte, che a ciascuna stirpe dovesse essere attribuita. Ben è vero, che alcune volte egli si trova imbarazzato del fatto, che il diritto quiritario primitivo si presenta del tutto insufficiente a governare tutti i rapporti di una comunanza anche primitiva, e lascia senza norma una quantità di relazioni, che dovevano già certamente esi stere: ma intanto il punto suo di partenza gli impedisce pur sempre di spiegare come ciò abbia potutoaccadere (1). Che se invece si ammetta, come ho cercato di dimostrare, che Roma è una città formata sul modello della città latina, e che essa, uscita dalla federazione e dall'accordo, costituisce dapprima un centro di vita pubblica, frammezzo a varie comunanze di villaggio, in allora Sabellica non avesse ancora superata tale organizzazione, ma le avesse dato il mag. giore svolgimento, di cui era capace, come lo dimostrano le genti Claudia e Fabia: che la stirpe Latina fosse invece già p ervenuta al concetto della città federale; e che da ultimo l'Etrusca fosse già pervenuta alla città, che potrebbe chiamarsi corpora tiva. Roma partì dal tipo latino e quindisi costitui fin dapprincipio in un centro di federazione: poi sotto l'influenza etrusca diventò anche una città unificata; ma serbò tuttavia anche in seguito il carattere latino, per guisa che cambiossi in certo modo in un centro di vita pnbblica del mondo allora conosciuto. Tale difficoltà occorre al MUIRHEAD, per esempio, allorchè a pag. 50 parla del. l'opinione di coloro, che sostengono che Roma non conoscesse dapprima che la pro prietà degli immobili, ed anche a pag. 54, ove, parlando dei delitti e delle pene, trova non parlarsi di delitti, che non potevanomancare anche in una città primitiva. Questi fatti invece sono facilmente spiegati, se si ammette la formazione progressiva e gra duata, così della città, come del suo diritto civile e criminale, non che della giuri sdizione spettante ai suoi magistrati. sarà facile il comprendere come, nella formazione del suo diritto pub blico e privato, Roma, dopo aver preso lemosse da quelle istituzioni di origine latina, che potevano già confarsi colla comunanza civile e politica, sia poi venuta lentamente assimilando tutte le istituzioni, che già si erano formate nel periodo gentilizio, anche presso le altre stirpi, quando le medesime potessero conciliarsi coll'impronta primi. tiva, che essa aveva data al suo diritto. Questo è stato certo il me todo, che Roma seguì anche più tardi nella trasformazione del suo diritto privato; nè, conoscendo ormai per prova la sua costanza nei processi seguiti, possiamo averemotivo di dubitare, che essa abbia dovuto esordire nella stessa guisa. § 2. Della esistenza di vere e proprie leggi (leges rogatae) durante il periodo regio.Intanto questo modo di considerare la formazione di Roma e del suo diritto mi conduce ad apprezzare la legislazione primitiva di Roma in guisa diversa da quella, che suole essere generalmente adot tata dalla critica, e ad accostarsi invece a quella, che, ci verrebbe ad essere indicata dalla tradizione. Mentre la critica infatti, dopo aver resi leggendari i re, nega pressochè ogni fede alla legislazione, che suol essere indicata col nome di regia, e la riduce esclusiva mente ad essere opera dei collegi sacerdotali, o a semplice raccolta di consuetudini e di tradizioni anteriori, la tradizione invece ci dipinge il periodo regio, anteriore anche a Servio Tullio, come un periodo di grande attività legislatrice. Or bene, a mio avviso, si deve andare a rilento nel respingere in questa parte il racconto della tradizione. Se la città latina in genere, e Roma sopra tutte le altre, fu dapprima un organo di vita pubblica fra comunanze, in cui continuavasi la vita domestica e patriarcale, viene ad essere evidente, che come la città fu il frutto di una specie di selezione, cosi dovette pur essere del diritto, che governo i primi rapporti fra i membri della mede sima. Le esigenze della vita civile e politica sono diverse da quelle di una vita di carattere patriarcale: quindi se questa poteva som ministrare i concetti religiosi, morali ed anche giuridici, già prima elaborati, questi però non potevano essere trasportati tali e quali, ma dovevano subire un lavoro di scelta e di coordinamento, ed è questo appunto, che dovette compiersi durante il periodo regio. Ne ripugna il credere, che ciò siasi potuto fare, dal momento, che si è 310 abbastanza dimostrato, come le genti, che fondavano la città, erano lungi dall'essere del tutto primitive, ma avevano una suppellettile copiosa di concetti e di tradizioni, che già si erano prima formati. Esse non erano più nello stadio della primitiva formazione del di ritto: ma erano già in quello della elaborazione e dell'adattamento di un diritto già formato alle esigenze della vita cittadina. Ammet tasi, che in parte siano leggendarie le figure dei primi re; ma questo è certo che, leggendarii o no, essi dovettero sottostare alla neces sità di quella convivenza, di cui erano i capi, e quindi dare opera vigorosa a quella selezione ed unificazione legislativa, che era il più urgente bisogno per una città, che risultava di elementi diversi. Conviene aver presente, che la città in genere e sopratutto Roma, (che fra le genti italiche fu forse la prima ad iniziare il processo di accogliere persone di discendenza diversa a partecipare alla stessa vita pubblica ), si presentava come una istituzione novella, destinata ad un grande avvenire. Era mediante la città, che l'uomo o meglio il capo di famiglia cominciava ad essere qualche cosa, anche fuori della propria famiglia o gente, e quindi non è punto a maravigliare, se un senso pubblico energico e potente abbia potuto penetrare re, senato, sacerdoti e popolo. Quelsenso di devozione e di abnegazione, di cui diedero prova più tardi le grandi famiglie plebee, allorchè giunsero finalmente ad essere ammesse come eguali nella città, do vette dapprima essere provato dagli uomini, usciti dalle genti patrizie, allorchè sentirono di costituire un populus, malgrado la loro ori gine diversa: e quindi non è punto probabile, che essi abbiano dovuto mantenersi del tutto estranei alla elaborazione di quel diritto, che doveva governarli, e che tutto lasciassero ai collegi sacerdotali ed al re loro capo. Se essi eleggevano il re e per tale elezione si ra dunavano nei comizii, non si comprende veramente come essi abbiano potuto essere affatto esclusi dall'opera legislativa, che era una con seguenza inevitabile della formazione della città (1). (1) L'opinione, qui combattuta, posta innanzi dal DIRKSEN, Die Quellen des röm misches Rechts, Leipzig, 1823, pag. 234 e segg., in un'epoca, in cui tutta la storia primitiva di Roma erasi convertita in una specie di leggenda, trova ancora oggidi molti seguaci. Basti annoverare, tra i recenti, il PANTALEONI, op. cit., pag. 309; il KARLOWA, Röm. R. G., pag. 52,ed anche il Murrhead, Hist. Introd., pag. 20. L'ar gomento da questi due ultimi invocato consiste sopratutto nella nota espressione di Livio: « vocata ad concilium multitudine, quae coalescere in populi unius corpus, nulla re, praeterquam legibus, poterat, iura dedit ». Essi argomentano dal iura 311 252. A ciò si aggiunge che in una piccola comunanza, formata da persone, che poco prima ancora vivevano patriarcalmente, do vette essere frequente e quotidiano il contatto fra elementi, che ora a noi appariscono grandiosi per l'età remota e per il grande avve nire, che ebbero di poi. È quindi assai probabile, che i rapporti fra re, padri, pontefici, auguri e popolo fossero continui, e che perciò potesse anche formarsi una specie di pubblica opinione in torno a ciò, che potesse esservi di comune interesse per una città, che era uscita dalla volontà comune, e che era la creazione di tutti. Senza voler sostenere che le concioni, da Livio e Dionisio attribuite ai personaggi della loro storia, siano state veramente quelle, non è però inverosimile, che concioni siansi veramente fatte, e che in tutti i casi, in cui trattavasi di qualche pubblico interesse, potesse vera mente accadere, che i padri intervenissero fra il popolo ed anche fra la plebe, e interponessero nei rapporti quotidiani un'autorità di persuasione, non dissimile da quella, che entrò a far parte sostan ziale della costituzione primitiva di Roma, sotto il nome appunto di patrum auctoritas. Se il rispetto, che quegli uomini avevano per l'età, e la loro disciplina domestica spiegano la solennità, con cui essi votavano nei comizii, e il loro limitarsi a rispondere, appro vando o negando; non possono però escludere, che quelle discussioni, che erano inopportune al momento della votazione, potessero anche essere indispensabili e frequenti in seno ad un popolo, che senti con tanta energia la vita pubblica, e l'influenza della medesima. Il popolo romano, fin dalle proprie origini, non fu un popolo nè di asceti, nè di anacoreti, che seguissero una regola conventuale: ma fu un popolo, i cui membri appresero ben presto a dire la verità nella vita pub blica, quantunque i suoi membri continuassero ad essere ligii ed ossequenti all'autorità del padre nella vita domestica. dedit, adoperato invece di iura tulit; ma è facile il notare, che le espressioni di iura dare et accipere sono talvolta sinonime di quelle di iura ferre, come lo dimostra fra gli altri Aulo GELLIO, XV, 28, 4, che deffinisce i plebiscita « quae, tribunis plebis ferentibus, accepta sunt». Si aggiunge che Livio in quello stesso passo insiste sulla necessità di vere leggi per incorporare elementi eterogenei e diversi, e usa quel vo cabolo di legge, che pei Romani significò sempre un provvedimento proposto dal magistrato e accettato dal popolo. Ad ogni modo questa proposizione si riferisce an cora all'epoca anteriore alla confederazione coi Sabini, e quindi, trattandosi ancora del capo patriarcale di una tribu militare, si comprende che egli potesse iura dare; mentre si dovettero richiedere vere leges rogatae, allorchè le varie tribù entrarono a partecipare alla medesima città. La loro caratteristica prevalente non è nè la religiosità, né l'indole guerriera, ma piuttosto quell'equilibrio e contemperamento di facoltà umane, in cui consiste il senso giuridico e politico. La qualità, che prepondera in essi fra le facoltà affettive, è la volontà pertinace, costante, e fra le facoltà intellettuali è una logica, che analizza con un acume senza pari i varii elementi dell'atto umano, e che quando ha afferrato un concetto non lo abbandona, finchè non abbia dato tutto cid, che da esso può ricavarsi; due qualità queste, l'una pratica e l'altra teorica, che si corrispondono perfettamente fra di loro, e che spiegano come la storia giuridica e politica di Roma si riduca all'applicazione costante delmedesimo processo, che inizia tosi con essa, non fu più abbandonato fino alla completa formazione del diritto pubblico e privato di Roma. Di qui la conseguenza, che tanto nella politica, quanto nel diritto,Romanon procedette maiper semplice agglomerazione ed incorporazione, ma per selezione, cosicchè apprese da tutte le genti, ma accettò solo queimateriali, che potevano entrare nei quadri del proprio edificio. Roma nella storia dell'umanità rap presenta, per cosi esprimersi, un crogiuolo, in cui sono gettate tutte le istituzioni anteriori del periodo gentilizio, e quelle che fu rono poi da essa rinvenute presso gli altri popoli conquistati, nel l'intento di isolare dagli altri elementi della vita sociale l'elemento giuridico e politico, e questa selezione e questo isolamento essa cominciò ad operare fin dai proprii esordii. 254. Credo quindi che per comprendere Roma primitiva convenga guardarsi dall'esagerare quella, che suole essere chiamata, la reli giosità del popolo romano. Non è già che possa negarsi ai Romani un sentimento profondamente religioso; ma essi non si trovano punto sotto il dominio di quel terrore superstizioso della divinità, che soffoca l'operosità umana; ma scorgono in essa una potenza, la quale invocata e resa benevola con determinati riti, doveva condurre il popolo romano ad insperata grandezza. Si aggiunge, che questa carattere religioso, finchè Roma fu esclusivamente patrizia, era co mune a tutti i membri del populus, i quali tuttiavevano un culto da perpetuare e tradizioni da conservare. Non era quindi possibile fra essi la formazione di una classe esclusivamente sacerdotale, che con ducesse al risultato, a cui si giunse in Oriente, di fare preponderare per modo l'elemento religioso da soffocare affatto l'elemento politico e il giuridico. Quanto alla differenza, sotto il punto di vista religioso, fra le razze Arie del 313 A questo proposito pertanto è opportuno di tener distinti eziandio due periodi in Roma primitiva: quello cioè di Roma esclusivamente patrizia, in cui ci troviamo di fronte ad un popolo, i cui membri, uscendo dalle genti patrizie, conoscono tutti i riti, gli auspizii e le cerimonie religiose, e se ne servono nell'interesse comune; e quello invece, in cui fu ammessa anche la plebe alla cittadinanza. In questo secondo periodo infatti il populus viene a comprendere due classi: l'una, poco numerosa, ricca di tradizioni, dotta nelle cose reli giose, esperta nelle civili e politiche; e l'altra, che ha per sè il nu mero e la forza, ma che è nuova alla vita civile, priva di tradizioni, e si trova nella necessità di ricevere modellato e formato il proprio diritto dall'ordine patrizio. È solo in questo secondo periodo, che la conoscenza degli auspicia e delius viene a cambiarsi in un ti tolo e in un mezzo di superiorità per il patriziato, il quale se ne vale per tenere in rispetto e in riverenza le masse. È solo allora che il diritto, le cui origini erano già celate nell'oscurità dei tempi, e le cui formalità erano già divenute inesplicabili per la generalità dei cittadini, viene ad essere chiuso negli archivii dei pontefici, che sono in certo modo incaricati della custodia e della elaborazione di esso; mentre quest'arcano e questa segretezza non poterono certo esi stere negli esordii della città, allorchè la conoscenza del diritto e degli auspizii era ancora comune a tutti i capi di famiglia (1). Cid mi induce a credere, che la parte da attribuirsi al populus, nella formazione del diritto primitivo di Roma, sia maggiore di quella, che suole generalmente essergli assegnata; ma per riuscire in qualche modo a determinarla, importa ricercare anzitutto la funzione, a cui furono chiamati i collegii sacerdotali in Roma primitiva, quanto alla formazione del diritto. l'India e quelle trasportatesi nell'Occidente, mirimetto ai concetti svolti nell'opera: « La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale », pag. 92, n ° 33, e agli autori, che ivi sono citati. (1) Vedasi a questo proposito il MACHIAVELLI, Discorsi sulle deche di Tito Livio, Libro I, Cap. XI, XII, XIII e XIV, e il MONTESQUIEU, Dissertation sur la politique des Romains dans la religion. 314 $ 3. – I collegii sacerdotali in Roma e la loro influenza sulla formazione del diritto primitivo.  La caratteristica di Roma è una mirabile coerenza nel pro cesso, che essa ebbe a seguire nei diversi aspetti della propria for mazione. Si può quindi essere certi che come la città fu il frutto di una selezione della cosa pubblica dalla privata, cosi anche la re ligione pubblica di Roma non potè essere il frutto dell'agglomera zione dei culti e delle credenze proprie delle varie genti; ma fu an ch'essa il risultato di una selezione, per cui, mentre le singole genti e tribù continuarono nel proprio culto gentilizio, vennesi formando nella città un culto pubblico, il quale alla sua volta assunse poi una doppia forma, quella cioè di culto pubblico ed ufficiale (sacra pu blica ), e di culto popolare (sacra popularia ). Ciò è dimostrato dal fatto, che fra la quantità degli Dei riconosciuti dai Romani, quelli al cui culto intendono i flamini maggiori sono Marte, Quirino e Giove, di cui il primo, secondo la tradizione, è il padre del fondatore, l'altro il fondatore stesso della città, e l'ultimo infine sembra talvolta con fondersi coll'antica divinità italica di Giano, rivestita alla Greca. Intanto una pubblica religione richiedeva pure un pubblico sacerdozio. Questo concentrasi dapprima nello stesso re, il quale è augure sommo e pontefice massimo; ma poscia il re stesso, pur conservando gli auspicia del magistrato supremo, costituisce intorno a sè dei collegii sacerdotali, i quali hanno un carattere del tutto peculiare, in quanto che essi non hanno un compito esclusivamente religioso,ma anche una vera importanza civile e politica. Cotali sono sopratutto gli auguri, i feziali e i pontefici, i quali,mentre hanno un carattere sacerdotale, che dà un'aureola religiosa al loro ufficio, compiono ad un tempo una funzione importantissima per le genti patrizie, che è quella di essere i custodi e gli interpreti delle tra (1) La triade di Giove, Marte e Quirino si fa dalla tradizione rimontare a Numa, il quale avrebbe già istituiti i tre flamini maggiori, dando però la prevalenza al fila mine di Giove (Liv., I, 20). Fu più tardi però, che la religione si rivestà alla Greca e ciò sopratutto sotto l'influenza etrusca, ossia sotto gli ultimi tre re, in quanto che fu allora che venne costituendosi la triade Capitolina di Giove, Minerva e Giunone. Cfr. Bouché-LECLERCQ, Manuel des instit. romaines, pag. 456 a 562. 315 dizioni,non solo religiose, ma anche giuridiche e politiche, e sopra tutto di quella parte di esse, che era indicata col vocabolo di fas, ed era considerata come l'espressione della volontà divina. Quelle tradizioni, che in Grecia furono lasciate ai poeti, i quali in antico avevano ancor essi un carattere sacerdotale, in Roma invece sono affidate a collegi sacerdotali, i cui membri sono scelti nel novero stesso dei padri, memori dei riti e degli auspicii religiosi, i quali, malgrado il loro carattere sacerdotale, continuano pur sempre a prendere parte alla vita civile e politica, e sono i custodi fedeli del patrimonio tradizionale delle genti patrizie. Cid spiega come le varie tribù primitive, a quella guisa che erano concorse in parti eguali sotto l'aspetto politico e militare, così sembrano pure avere na propria rappresentanza nei varii collegii sacerdotali, come lo dimostrano il numero di tre, poscia di sei, e quindi di nove auguri e pontefici, ed anche il numero di venti, che sembra essere stato quello dei feziali. Intanto se un posto facevasi vacante, il vuoto veniva a riempirsi con quella stessa cooptatio, mediante cui una nuova gente doveva essere accolta nell'ordine patrizio. Cosi es sendo composti i collegii sacerdotali, essi erano in condizione di contemperare e coordinare le tradizioni proprie delle varie tribù, che erano concorse alla formazione della città; e potevano col re, che era il loro capo, contribuire potentemente all'unificazione e al coordinamento legislativo. Quindi è che il culto, di cui essi sono i sacerdoti, non è un culto speciale di questa o di quella tribù, ma un culto ufficiale del popolo romano, come lo dimostrano le appel lazioni di augures publici populi romani quiritium, di fetiales populi romani, non che la qualificazione data ai pontifices di sacerdotes publici populi romani. Per quello poi, che si riferisce alle tradizioni, della cui custodia essi sono incaricati, senza voler pretendere, che in cið potesse esservi uno scopo preordinato, questo è però certo, che si effettud fra essi una ripartizione, la quale corri sponde ai varii aspetti, sotto cui il diritto può essere considerato (1). (1) Non ho creduto qui di dovermi occapare specialmente dei quindecim viri sa cris faciundis, poichè questo collegio, iniziato da Tarquinio Prisco colla nomina di due sacerdoti per la custodia dei libri sibillini, si cambid col tempo nel custode dei culti, che erano di provenienza straniera. Esso quindi non esercitò alcuna diretta influenza sul diritto specialmente privato; sebbene sia una prova evidente del con tinuo studio dei Romani per assimilarsi le istituzioni anche religiose degli altri po poli. È a vedersi, quanto al medesimo, il Bouché- LECLERCQ, op. cit.,pag. 555 a 560, e il Villems, Le droit public romain, pag. 323-24. 316 257. Vengono primi gli auguri, i quali, secondo la tradizione, sem brano costituire il più antico di questi collegii, in quanto che Roma stessa sarebbe stata fondata coll'osservanza delle cerimonie prescritte dall'arte augurale. Essi sono i custodi dei riti, che debbono prece dere e accompagnare tutte le deliberazioni, che possono riferirsi al pubblico interesse, e costituiscono cosi nella religione pubblica della città una imitazione degli stessi augurii privati: come lo dimostra l'at testazione di Cicerone, che l'abitudine di consultare la volontà divina era universale, e che i capi delle famiglie e delle genti non tenevano meno dello Stato ai loro auspizii privati (1). È indubitabile, che essi ebbero dei libri augurales, in cui serbavano le proprie tradizioni e la propria giurisprudenza, e senza voler penetrare nei concetti, a cui poteva ispirarsi l'arte loro, egli è certo, che essa fu una crea zione originale, propria sopratutto alle stirpi latina e sabellica, che dimostra lo spirito religioso e giuridico ad un tempo del primitivo popolo romano. È al collegio degli auguri, che devesi la teoria sot. tile e complicata degli auspicii, che dovevano essere osservati, la distinzione fra quelli, che potevano essere favorevoli o sfavorevoli, e la precedenza che certi segni dovevano avere sopra altri. È ad essi parimenti, che devesi l'orientamento del templum, ossia la delimi tazione di un sito senza ostacoli e in cui potesse spaziare la vista, per modo che gli auspizii potessero essere osservati; delimitazione, che do vette probabilmente anche esercitare influenza sulla scelta e sull'o rientamento dei luoghi, in cui le città dovevano essere edificate (2 ). 258. È però notabile, che se gli auguri sono incaricati dell'osser vanza dei riti e della custodia delle tradizioni e decisioni augurali, è pur sempre il magistrato, che è investito dei publica auspicia, il quale deve giudicare se i medesimi siano o non favorevoli, e può così eser citare una influenza decisiva sulle deliberazioni relative al pubblico interesse (3).Era poinaturale, che gliauguri, i quali, nella città esclu (1 ) Ciò è attestato da Cicer., De div., I, 16, 28. — Cfr. MOMMSEN, Le droit public romain, I, pag. 100 e 101. (2 ) Il vocabolo di arte augurale prendesi talvolta in senso così largo, da com. prendere non solo l'avium inspectio (donde l'auspicium ),ma eziandio l'ispezione delle viscere degli animali, donde l'aruspicium. Questo però è da avere presente, che l'ar spicium era di origine latina, mentre l'aruspicium era di origine etrusca. È da ve dersi in proposito il PANTALEONI, Storia civ. e cost., appendice III, relativa ai Luceres. (3 ) Cfr. MOMMSEN, Op. cit., I, pag. 119. 317 sivamente patrizia, erano i custodi di riti e di tradizioni, che erano noti a tutto il populus, posteriormente, allorchè nel populus entro anche la plebe, finissero per acquistare una grande autorità nelle lotte fra patriziato e plebe, e per recare al primo un potentissimo sussidio mediante riti, la cui significazione era ormai divenuta inesplicabile, anche per persone che uscivano dalle stesse genti patrizie. La loro po tenza ed autorità ci è sopratutto attestata da Cicerone, il quale scrive: « maximum autem et praestantissimum in re publica ius est au gurum cum auctoritate coniunctum », e lo prova dicendo, che essi potevano disciogliere i comizii, rimandarli ad altro giorno, dichiararli viziati, anche dopo che eransi tenuti, mentre intanto niuna delibera zione di pubblico carattere poteva essere presa senza il loro inter vento (1). Però questa loro apparente onnipotenza, di fronte allo Stato, scompare, quando si consideri, che il giudizio relativo agli auspizii favorevoli o non appartiene al magistrato, e che gli auguri emettono il loro avviso sulla osservanza del rito, con cui siansi tenuti i co mizi, solamente quando siano interrogati dal senato o richiesti dal magistrato stesso. 259. Quanto al collegio dei feziali, esso è il custode e il deposi tario del ius foeciale; ma non è certo il creatore del medesimo, come lo dimostra il fatto, che questo erasi già formato durante il periodo gentilizio, ed era comune ad altri popoli, pure di origine la tina e sabellica (2 ). L'istituzione del collegio è dagli antichi attribuita ora a Tullo Ostilio, ed ora ad Anco Marzio, ma tutti fanno rimon tare il ius foeciale ad epoca anteriore, poiché Tullo Ostilio vi sa rebbe ricorso, anche prima che il collegio fosse da lui istituito. Narra. infatti la tradizione, che il fatto di rimettere le sorti della guerra fra Roma ed Alba ad un singolare combattimento fu solennemente sti pulato coi riti proprii del ius foeciale. « I due cittadini eletti a cid, cosi riferisce il Bonghi la tradizione, facendo le veci dei padri dei due popoli, lo sancirono a nome di ciascuno di essi. L'uno e l'altro giurarono, invocando Giove, che l'uno e l'altro popolo l'a vrebbe osservato. Quello dei due popoli, che primo vi fosse ve (1) Cic., De legibus, II, 12. (2 ) Il processo di naturale formazione, durante il periodo gentilizio, di quel ius belli ac pacis, che costituì poi il ius foeciale dei Romani, fu esposto nel Lib. I, Cap. VII, pag. 139 a 166. 318 nuto meno, Giove lo ferisse, come l'uno e l'altro ferivano il porco, che sacrificavano; anzi con tanta più forza, quanto era la forza di lui » (1). Ciò significa che il collegio dei feziali non è stato mai il giudice della giustizia intrinseca della guerra o della opportunità della pace; l'una e l'altra son trattate dal senato e sono deliberate dal popolo; mentre i feziali sono incaricati dell'osservanza dei riti o custodiscono le tradizioni relative al ius pacis ac belli. Anche essi sono messi in azione dagli organi del potere civile e politico, e potranno talora essere chiamati a decidere delle questioni, ma queste non si riferiscono alla giustizia intrinseca, nè almerito delle cause di guerra, ma sono di preferenzaquestioni di rito e di procedura (2). I feziali sono in numero di venti; riempiono i posti vacanti, mediante la cooptatio; non hanno un capo permanente, ma scelgono caso per un pater patratus nel proprio seno; il che è un altro indizio come veramente il pater patratus fosse un cittadino eletto a fare le veci del popolo, e che ricordasse così l'antico patriarca della gente e della tribù. Il ius foeciale pertanto è in ogni sua parte una sopravvivenza del periodo gentilizio; indica lo stadio più pro gredito, a cui erano pervenuti i rapporti anteriori fra le genti e le tribù; dimostra come già allora vi fossero degli esperimenti di amichevole componimento, prima di addivenire alla guerra; ed è una prova di più, che i fondatori della città non erano popolazioni primitive nello stretto senso della parola, ma avevano anche in questa parte un tesoro di antiche tradizioni, le quali, serbate dallo spi rito conservatore dei Romani, furono mantenute fino a che non di ventarono pienamente disadatte e incompatibili colla convivenza civile e politica (3 ). 260. È poi probabile, e l'ho dimostrato a suo tempo, che la distinzione fra foedus e sponsio fu una conseguenza del passaggio dall'organizzazione gentilizia alla costituzione politica della città, il (1) Bonghi, Storia di Roma, I, pag. 79. (2) Tale è pure l'opinione sostenuta dal FusiNATO, Dei Feziali e del diritto fe. ziale, Cap. III. (3 ) Il numero dei venti feziali, che non corrisponde a quello degli auguri e dei pontefici, può forse essere un indizio, che il diritto feziale, comune ancora ai Latini e ai Sabini, che erano più vicini ancora all'organizzazione gentilizia, non apparteneva invece agli Etruschi, che, più avanzati nella vita cittadina, già si erano maggior mente discostati da pratiche di carattere eminentemente patriarcale. - - 319 – che rendeva tale distinzione incomprensibile per popoli, che non erano ancora pervenuti a questo punto di svolgimento (1). Così pure è un effetto di tale passaggio la distinzione netta, che viene operandosi fra l'amicitia, l'hospitium,i quali si dividono in pubblici e in privati; ancorchè sia facile di scorgere, che nel primo periodo le amicizie sono ancora curate specialmente dallo stesso re; il qual sistema fu seguito sopratutto dalla politica dei Tarquinii, che intrattenevano relazioni coi capi delle comunanze vicine, e macchinavano proba bilmente un cambiamento nella forma di governo, che doveva es sere generale (2 ). Era poi una conseguenza logica della politica seguita da Roma nella propria formazione, che essa in questo primo periodo non si chiudesse ancora in se medesima, ma venisse in certo modo at traendo a sè le popolazioni vicine. Roma continua in questa parte la politica dell'asilo, dalla tradizione attribuita a Romolo, e in ciò presenta un carattere del tutto opposto alla formazione delle città greche, e a quella della stessa Atene. Giovano a questo intento l'isti tuto dell'hospitium publicum, la concessione della civitas sine suf fragio, l'istituzione del municipium, singolare istituzione, per cui altri, pur restando nella propria terra, e partecipando alle cose amministrative di essa, pud tuttavia prendere parte viva alla gran dezza della patria communis, e recarsi a darvi il prorio voto, allorchè trattisi di quelle deliberazioni, che possono interessare direttamente anche gli abitanti dei municipia. È poi notabile il profitto, che Roma seppe ricavare dall'istituzione, graduando e differenziando le con cessionida essa fatte ai municipii, e svolgendone il concetto in guisa da cominciare colla concessione di una civitas sine suffragio per giungere sino alla concessione di una cittadinanza compiuta, il che pure a dirsi dell'istituto della colonia (3 ). Intanto però anche qui è (1) V., quanto al foedus e alla sponsio, il Lib. I, Cap. VII, nº 118. (2) Cid è attestato da Livio, I, 49, allorchè scrive di Tarquinio il Superbo: « La tinorum maxime sibi gentem conciliabat, ui peregrinis quoque opibus tutior inter cives esset; neque hospitia modo cum primoribus eorum, sed adfinitates quoque iungebat ». (3) Inteso in questa guisa, il sistema municipale per Roma non è che l'applica zione del sistema stesso, che essa aveva seguito nella propria formazione, quello cioè di interessare alle sorti della patria comune tutti i popoli, che da essa dipendevano, facendo sempre più larghe concessioni a quelli, che le erano più vicini, e di cui quindi poteva avere maggiore bisogno. V. sopra, Lib. I, Cap. VII, nº 127. 320 appare, che la politica estera di Roma non appartiene punto ad un collegio di sacerdoti,ma che nel periodo regio appartenne al re, e nel repubblicano al senato, il quale, essendo un consesso permanente ed accogliendo nel proprio se noi magistrati uscenti di ufficio, poteva mantenere quella continuità tradizionale non interrotta, di cui porge un mirabile esempio la storia politica di Roma. Infine si comprende eziandio, come il collegio dei feziali, custode di tradizioni, che si riferivano ai rapporti colle altre genti, non abbia avuta l'influenza effettiva, che appartenne agli auguri e ai pontefici, perchè il nucleo delle tradizionida esso serbate non poteva trovare applicazione nelle lotte fra patriziato e plebe. Tuttavia allorchè i due ordini erano ancora distinti, vi furono patti fra essi, stipulati coi riti del diritto feziale, e accompagnati, a richiesta della plebe, dalla capitis sacratio di colui, che li avesse violati (leges sacratae) (1). 261.Non vi ha poi dubbio, che il collegio sacerdotale più importante nell'organizzazionedella città patrizia è, senza alcun contrasto, quello dei pontefici. È questo collegio che riverbera nel proprio seno le istituzioni primitive di Roma. Esso infatti, a differenza degli altri collegi, ha una costituzione monarchica, ed ancorchè composto di più membri, è presieduto nel periodo regio dal re, e poscia dal pontifex maximus, il quale raffigura il capo religioso del popolo romano, in quanto costituisce una famiglia religiosa. Cid appare da questo, che il pontefice massimo, durante la repubblica, e quindi anche il re,nel periodo anteriore, ha una vera patria potestà sui sa cerdoti e sulle vestali, che da esso dipendono, le quali ultime sono da lui captae in quella stessa guisa, in cui lo sarebbe una figlia dal proprio padre o marito (2). Il collegio dei pontefici poi, al pari del popolo dei quiriti, di cui esso ha la direzione religiosa, ha un potere, che spiegasi in doppia direzione. Da una parte esso costituisce il vero sacerdozio del po polo romano, e quindi prima il re e poscia il pontifex maximus, da cui dipende lo stesso rex sacrorum, compiono i sacrifizii proprii della religione pubblica ed ufficiale del popolo romano. Da un altro (1) Cfr. LANGE, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 134, e la sua dissertazione: De sacrosanctae potestatis tribuniciae natura. Lipsiae, 1883. (2) Cfr. Bouché-LECLERCQ, Les Pontifes de l'ancienne Rome. Paris, 1871; Ma nuel des Instit. romaines, pag. 510 a 533. 321 - canto invece il collegio dei ponteficideve eziandio curare, che i culti delle genti e delle famiglie non siano interrotti (sacra privata ): e sotto quest'aspetto raduna le curie in quanto costituiscono una religiosa famiglia nei comitia calata, per mezzo dei proprii cala tores. Quindi è pure col suo intervento, che compiesi la cerimonia solenne della confarreatio, la quale dà origine alle iustae nuptiae delle genti patrizie, e consiste in una cerimonia religiosa, che si compie avanti ai pontefici coll'intervento di dieci testimonii, che rappresentano le dieci curie delle tribù, a cui appartiene quegli, che addiviene alle medesime. È esso parimenti, che presiede a quei co mitia calata delle curie, in cui i membri del popolo primitivo addiven gono all'adrogatio e al testamentum, i quali, durante il periodo della città patrizia, dovettero ottenere un ' approvazione analoga a quella, a cui erano sottoposte le leggi, come lo dimostra la formola conservataci da Aulo Gellio, relativa all'adrogatio, la quale senza dubbio doveva essere analoga a quella del testamentum. Per verità ho già cercato di dimostrare a suo tempo come per le genti patrizie tanto l'uno che l'altro atto dovevano subire la pubblica approvazione, in quanto che i medesimi potevano alterare quell'organizzazione gentilizia, che aveva costituita la forza e la superiorità del patriziato, e che in Roma primitiva volevasi conservare ad ogni costo. Intanto ne veniva, che i Pontefici sotto quest'aspetto potevano anche eser citare un'influenza sulla successione per quella parte, che si rife risce alla trasmissione dell'obbligazione relativa ai sacra. 262. Tuttavia l'importanza maggiore del collegio dei pontefici provenne sopratutto da che questo collegio ebbe l'altissimo ufficio di serbare le tradizioni relative al mos, al fas ed al ius, e proba bilmente dovette anche compiere quella prima elaborazione, me diante cui il diritto, che, erasi formato fra le genti e i loro capi, potè poi essere applicato fra i quiriti, ossia fra i membri che par tecipavano alla medesima comunanza civile e politica (1). Essi dovet (1) Questa funzione, essenzialmente conservatrice degli antichi riti e tradizioni, che sarebbe stata affidata ai pontefici, parmi provata dal seguente passo di Livio, I, 20: « Cetera quoque omnia publica privataque sacra pontificis scitis subiecit: ne quid divini iuris, negligendo patrios ritus, peregrinosque adsciscendo, turbaretur ». Per quello poi, che si riferisce all'adrogatio ed al testamentum, è da vedersi ciò, che si disse per l'epoca gentilizia nel Lib. I, Cap. IV, n ° 65, e per il periodo dei primi re in questo stesso libro, Cap. II, nº. 220. G. Caeli, Le origini del diritto di Roma. 21 322 tero essere in questo periodo i trasformatori dei iura gentium nel pri mitivo ius quiritium, e furono in condizione di poterlo fare, come quelli, che erano probabilmente ricavati dalle varie tribù, ed erano cosi in condizione di coordinare e di richiamare ad unità le istitu zioni, che in qualche particolare potevano essere diverse. Durante il periodo regio non può quindi essere dubbio, che il collegio dei pontefici, presieduto appunto dal re, dovette essere un cooperatore potente di quell'unificazione legislativa, di cui sentivasi urgente bi. sogno, e dovette anche essere il custode e depositario della primitiva legislazione, come lo dimostra la tradizione con attribuire a un pon tefice Papirio la prima collezione della medesima (ius Papirianum ). Ad ogni modo era naturale, trattandosi della legislazione di un popolo, i cui componenti prima quasi non conoscevano altra autorità, che quella del fas, che anche questo primitivo diritto dovesse essere ri vestito di quell'aureola religiosa, che è propria di tutte le istituzioni, durante il periodo gentilizio. Intanto però in questo periodo i pontefici, uscendo ancor essi dal novero delle genti, non avrebbero potuto attri buire al diritto quel carattere di segretezza e di arcano, che potè as sumere più tardi, in quanto che le tradizioni, di cui essi erano i custodi, vivevano ancora fra i capi di famiglia, da cui era costituito il populus primitivo, distribuito per curiae, corporazioni religiose e politiche ad un tempo. 263. Era invece naturale, che col passare dal periodo regio ad una repubblica, il cui populus non era più composto di uomini, ri cavati esclusivamente dalle genti di origine patrizia, le funzioni del collegio dei pontefici dovessero subire una trasformazione profonda. Essi sono sempre i sacerdoti del popolo Romano: ma intanto non escono che da una parte di questo populus, e sono anzi i depositari e i custodi delle tradizioni proprie di questa parte eletta del populus, la quale continua da sola ad avere gli auspicia e ad essere la reggi trice della città. Si aggiunge, che il potere religioso del pontifex ma ximus, che prima apparteneva al re, viene poscia attribuito ad una specie di magistratura sacerdotale, la quale finisce per dar sempre più al diritto un'aureola religiosa; sebbene sia vero che questa se parazione del potere civile dal religioso cooperò a preparare la distin zione del ius sacrum dal ius civile. Intanto però, cosi l'uno come l'altro sono conservati dapprima negli archivii dei pontefici (in pene tralibus pontificum ), sopratutto in quel periodo, che corre fra la cac ciata dei re e la legislazione decemvirale, durante il quale sono i pontefici, che compiono quell'elaborazione giuridica, che sarebbe stata impossibile permagistrati annui, i quali ad un tempo erano chiamati a cure compiutamente diverse. Sipud quindi affermare con certezza, che i primi elaboratori di un ius, comune al patriziato ed alla plebe, fu rono i pontefici; cosa del resto, che è concordemente attestata da Pomponio, da Valerio Massimo, da Cicerone e da altri, e che era una naturale conseguenza dello stato delle cose e dei rapporti, che in tercedevano fra i due ordini, allora in lotta fra di loro (1). Di qui la conseguenza, che la divulgazione del diritto venne in certa guisa a procedere di pari passo col pareggiamento politico delle due classi; ma intanto la prima scuola dei giureconsulti fu certamente il ius pontificium; nè è a credersi, che tutta l'opera loro potesse solo ri ferirsi al diritto sacro; poichè i pontefici di Roma, come si è ve duto, essendo una magistratura sacerdotale, erano i veri rappresen tanti delle genti patrizie, la cui religiosità non escludeva il senso giuridico e politico, e neppure lo spirito militare. Intanto ne de rivava eziandio, che, per essere resi partecipi di questa scienza del diritto, conveniva anche ottenere l'ammessione nel collegio dei pontefici, i cui libri e commentarii contenevano un tesoro di con cetti, molti dei quali passarono certamente nei primi giureconsulti, che furono essi stessi pontefici massimi(2 ). Vero è, che i frammenti, che a noi pervennero del diritto pontificale, sembrano riferirsi esclu sivamente a prescrizioni di diritto sacro; ma ciò proviene da che la parte relativa al ius civile passò nei giureconsulti, ed entrò nel l'organismo vivo della giurisprudenza, mentre quella, che aveva un carattere sacro, fini per ridursi a concetti, che poscia più non furono compresi, e venne cosi ad essere argomento di curiosità per gli ar cheologi e per i grammatici. Un'altra causa di questo fatto deve pur (1) Questa influenza dei Pontefici sul diritto, sopratutto nei primi periodi della Repubblica, è attestata da VALERIO Massimo, II, 5; Livio, IX, 46; Cic., pro Mu rena, 11; De legibus, II, 8, 9; De oratore, III, 33. I passi relativi sono raccolti dal Rivier, Introd. histor., pag. 121 e segg. (2 ) Basta perciò il considerare, che i primi giureconsulti, di cui sia a noi perve nuto il nome, come Papirio (donde il ius Papirianum ), Appio Claudio (il cui segretario Gneo Flavio avrebbe propalato il ius Flavianum ) e Tiberio Coruncanio, che appare come il primo giureconsulto di origine plebea, furono pontefici massimi, o quanto meno aggregati al collegio dei pontefici. Quelli poi, che più non erano tali, presero pur sempre le mosse dal ius pontificium, come appare ad evidenza dalle reliquie degli antichi giureconsulti raccolte dall ' HUSCHKE, Jurisp. anteiustin. quae supersunt. Lipsiae, 1879. 324 - riporsi in questo, che a misura che la scienza del diritto venne a concentrarsi nelle mani dei giureconsulti e del pretore, il diritto pon tificale venne naturalmente restringendosi al ius sacrum, e fu in questa guisa che alla separazione, che già erasi operata nella città patrizia fra il pubblico ed il privato, venne poscia aggiungendosi la distinzione fra il diritto sacro e il diritto civile strettamente inteso. Intanto perd vuolsi avere per fermo, che questo ritirarsi del diritto negli archivi dei pontefici, durante il primo periodo della repubblica, venne ad essere l'effetto dell'ammessione nel populus di un nuovo ele mento, che non possedeva queste tradizioni giuridiche, e che sotto questo aspetto doveva dipendere da un'altra classe: il qual concetto ci conduce a combattere l'opinione, pressochè universalmente accolta, circa quella legislazione, che suol essere compresa col vocabolo di « leges regiae ». § 4. Delle leges regiae e della fede da attribuirsi alle medesime. 264. È abbastanza noto come qualsiasi demolizione ne provochi un'altra; tanto più se trattisi di un edifizio armonico e coerente. Ciò videsi sopratutto della storia primitiva di Roma. Dopo aver resi leg gendarii i re, per guisa che si riuscì a fare la storia, senza pur nominarli; anche la legislazione, che era aimedesimi attribuita dalla tradizione, dovette essere considerata come una invenzione di tempi posteriori. Parve che un popolo, il quale era solo chiamato ad ap provare o a respingere le proposte fattegli, non potesse avere una parte effettiva nella formazione di leggi, di cui alcune avevano un carattere essenzialmente religioso, e che la collezione di leggi regie, accennate dagli scrittori, e attribuite ad un pontefice Papirio, dell'e poca regia, dovesse ritenersi come opera di tempi posteriori (1). (1) Questa opinione, che prevalse col DIRKSEN: Die Quellen des römisches Rechts, Leipzig, 1823, trovò uno strenuo oppositorenel Voigt: Über die leges regiae. Leipzig, 1876, la cui opera è divisa in due parti, nella prima delle quali egli investiga la sostanza e il contenuto delle leges regiae, mentre nella seconda si occupa dell'au tenticità e delle fonti delle medesime. Secondo il FERRINI, Storia delle fonti del diritto romano. Milano, 1885, pag. 3, nota 2, l'opinione del Voigt, se in qualche parte deve temperare le esagerazioni della scuola del NIEBHUR, dall'altra per ade rire troppo alla tradizione, non potrà forse piacere a molti. Cid si capisce, trattan. dosi di persone educate a tutt'altra scuola; ma intanto abbiamo un altro contri buto allo studio veramente positivo della storia primitiva di Roma. 325 Sembrami che in questa parte la critica siasi spinta troppo oltre, in quanto che il processo seguito da Romanella propria formazione ac cadde invece in guisa tale, che se una legislazione regia non fosse ram mentata dagli scrittori, dovrebbe essere pur supposta, perchè era una necessità dei tempi. Il populus primitivo di Roma era composto di persone appartenenti a genti patrizie, memori delle antiche tradi. zioni, e quindi non è punto ripugnante, che il medesimo, alla guisa stessa che eleggeva il re e conferiva l' imperium con una lex cu riata de imperio, cosi fosse pur chiamato a dare approvazione alle leggi, che rappresentavano i patti e gli accordi, in base a cui le varie tribù entravano a formar parte della stessa comunanza civile e politica. Ciò non potè accadere, come narra Pomponio, finchè Romolo fu solo capo della tribù Ramnense, stabilita nella Roma pa latina; ma dovette divenire indispensabile, allorchè la città, la no mina del suo re, la sua religione, il suo diritto cominciarono ad essere il frutto della confederazione e degl'accordi seguiti fra diverse comunanze. La stessa varietà degli elementi, che concorrevano a costituirle, rendeva opportuno, quanto ai provvedimenti, che riguar. davano il comune interesse, di adottare la forma della legge, la quale, elaborata e coordinata dal collegio dei pontefici, proposta dal re, appoggiata dai padri del senato, approvata dalle curie, poteva veramente ritenersi come l'espressione della volontà comune. In questa parte ha tutte le ragioni Livio, allorchè ci dice, che il popolo romano era cosi composto, che « nulla re, nisi legibus, in unius populi corpus coalescere potuisset ». Era solo a questa condizione, che capi di tribù e di genti, fino allora indipendenti e sovrani, potevano sottoporsi all'impero di uno stesso magistrato e di un medesimo diritto. Lo stesso carattere religioso della le gislazione regia non può costituire un argomento in contrario; perchè il primitivo populus diRoma era composto di persone esperte anche nei riti e nelle cerimonie religiose, che ciascun capo di fa miglia compieva nel seno della propria famiglia. Del resto a voler anche ammettere, che quella parte della legislazione regia, la quale ha un carattere esclusivamente sacro, potesse, fin da quella prima epoca, essere lasciata intieramente alla elaborazione del collegio dei pontefici; egli è però certo, che l'altra parte invece, la quale ha un carattere civile, giuridico e politico ad un tempo, dovette essere il frutto del concorso dei varii organi della costituzione primitiva di Roma, e deve perciò aver presa la forma di vere e proprie leges rogatae. Certo possono darsi dei casi, in cui questa procedura regolare 326 non sarà stata effettivamente adempiuta in tutte le sue parti, al modo stesso, che, secondo gli storici, non fu sempre osservata in ogni sua parte la procedura relativa alla nomina dei re: ma in man canza di prove in contrario, di fronte all'attestazione concorde degli autori, che non avevano alcun motivo di alterare le cose, e cono scendo il carattere del popolo, osservatore costante della legalità e facile a commuoversi, quando questa non fosse osservata, non si può essere in diritto di negare l'esistenza di vere e proprie leggi, anche in questo periodo, in quella parte, che si riferisce a cose di pubblico e di privato interesse (1). 265. Pur ammettendo che in questa primitiva condizione di cose, la maggior parte dei rapporti giuridici abbia continuato ad essere lasciata all'impero della consuetudine e del costume, dovevano perd anche esservi quelle parti, in cui le divergenze, esistenti fra le varie comunanze, presupponevano una unificazione ed un coordina mento, che doveva di necessità operarsi, mediante quelle leges, che a ragione si chiamavano publicae, perchè erano la base della comune convivenza civile e politica. Che anzi dovettero esser queste leges, che costituirono il nueleo primitivo di quel ius quiritium, che cominciava a sceverarsi dal fas e dai bonimores. Siccome perd questo ius venne formandosi « rebus ipsis dictan tibus et necessitate exigente »; cosi esso non potè formarsi di un tratto, nè essere fin dapprincipio un organismo coerente, che provvedesse a tutti i rapporti; ma dovette lasciare la maggior parte di questi rap porti alla consuetudine, limitando l'opera sua a concretare quei prov vedimenti, la cui necessità facevasi urgente e palese, a misura che la convivenza civile venivasi svolgendo. Niun dubbio parimenti, che anche i concetti e sopratutto le forme di questa primitiva legislazione dovessero essere tolti dal periodo anteriore: ma il fatto stesso, per cui essi erano trapiantati in terreno diverso, dovette far sì, che essi mutassero  carattere. 266. Se intanto potesse essere lecito anche solo tentare di rico struire il processo, con cui dovette formarsi il primo nucleo delle istituzioni e dei concetti quiritarii, in base alla formazione progres siva della città, crederei di poter rich iamarlo alle seguenti leggi fondamentali: (1) Liv., I, 8. - 327 l• Un primo effetto di questa grande trasformazione, per cui i capi e membri delle varie genti venivano ad essere cittadini della medesima città, dovette esser quello di far trasportare nella città e nei rapporti fra i quiriti quelle istituzioni e quei concetti giuridici, che si erano formati nei rapporti fra le varie genti e specialmente fra i capi delle medesime. Tutti i concetti pertanto, che apparte nevano ai iura gentium, diventarono proprii del ius quiritium; cosicchè il commercium, il connubium, l'actio, da rapporti fra le varie genti e i loro capi, diventarono rapporti fra i quiriti; donde la spiegazione di quelle solennità di carattere gentilizio, che ancora si mantengono nel diritto primitivo diRoma. Processo più naturale di questo non sarebbesi potuto seguire, poichè colla formazione della città i capi di famiglia e delle genti, che prima erano indi pendenti, vennero a cambiarsi in quiriti, e quindi il loro diritto di internazionale ed esterno, quale era prima, doveva cambiarsi in di ritto quiritario ed interno. 2º Una seconda conseguenza poi dovette essere eziandio che questi concetti, così trapiantati dai rapporti fra le genti, nei rapporti fra i quiriti o membri della stessa civitas, i quali prima avevano solo avuto uno svolgimento estensivo, poterono ricevere uno svolgimento inten sido, e cambiarsi in altrettante propaggini, da cui scaturirono le varie forme del ius quiritium. Dal connubium potè uscire il ius connubii con tutte le conseguenze delle iustae nuptiae, che consistono nella manus, nella potestas, nel mancipium, nella successione e nella tutela legittima: le quali naturalmente non poterono in questo periodo ispi rarsi, che ai concetti dell'organizzazione gentilizia. Il commercium parimenti si esplico nel ius commercii, con tutte le sue varie gra dazioni del comprare e del vendere (mancipium ), dell'obbligarsi (nexum ) e del poter ricevere o disporre per testamento (testamenti factio). Così pure l'actio sacramento, che era una procedura fra i capi di famiglia indipendenti, nel seno delle tribù, potè conver tirsi in una procedura fra quiriti, e siccome eravi un magistrato, a cui si apparteneva di pronunziare circa il ius, che si manteneva distinto dall'iudicium, così fu naturale, che accanto all'actio sacra mento si svolgesse eziandio la iudicis postulatio (1). 3º Infine una terza conseguenza di questa trasformazione dovette (1) È da vedersi in proposito quanto si disse nel capitolo precedente nº. 244, pag. 298 e segg. 328 consistere in ciò, che le istituzioni, cosi trapiantate nella città, es sendo staccate dall'ambiente, in cui si erano formate, si trovarono libere dai vincoli, in cui prima erano trattenute, e poterono cosi ricevere tutto lo svolgimento, a cui le portava il proprio concetto informatore. Ciascuna di esse si ridusse in certo modo ad essere una concezione astratta; e potè così essere sottoposta a quegli speciali processi e a quelle analisi, che sono proprii della logica giuridica (iuris ratio ). Per tal guisa venne ad essere un'astrazione il quirite, perchè esso non è più tutto l'uomo, ma è l'uomo considerato sotto l'aspetto speciale dei diritti e delle obbligazioni, che gli incombono come cit tadino; fu un ' astrazione il potere giuridico (manus) attribuito al medesimo, in quanto che esso è concepito senza le limitazioni esi stenti nel costume. Di qui la conseguenza, che egli come capo di famiglia (pater familias) giuridicamente la riassume in sè stesso, e ha il ius vitae et necis sulla moglie, sui figli, sugli schiavi; come proprietario può disporre in qualsiasi guisa delle proprie cose; come creditore può appropriarsi e perfino dividere il corpo del debitore. Per tal guisa tutto il diritto primitivo di Roma è già il frutto di un'astrazione, cioè di una specie di isolamento dell'elemento giuridico dagli altri elementi della vita sociale, per cui ogni istituzione può ricevere quello svolgimento logico e dialettico, che costituisce la ca ratteristica del diritto romano, e ne costituisce la superiorità sopra tutte le altre legislazioni. Il diritto romano infatti, fin dai proprii esordii, è uscito bensi dalla realtà dei fatti, ma fece ben presto astrazione da essi e diede uno svolgimento logico alle proprie istitu zioni, le quali perciò diventarono istituzioni tipiche, e poterono essere portate dapertutto, perchè la logica è di tutti i popoli e di tutti i tempi. Fu mediante questo processo; che i Romani poterono essere per il diritto ciò, che i Greci furono per l'arte, e questo segreto essi già lo possedevano fin dalla prima formazione della propria città, e continuarono sempre ad applicarlo, senza curarsi di darne nelle opere loro una spiegazione, che sarebbe stata inutile, perchè trattasi di un genio originario e nativo, che può essere intuito, ma non insegnato. Tutte queste conseguenze del nuovo stato di cose poterono rica - varsi senza bisogno di apposita legislazione, per opera di una logica istintiva e naturale, sentita universalmente da un popolo, che mi rava diritto al proprio scopo, e che, poste le premesse, sapeva deri varne le conseguenze. 329 267. Intanto però eranvi altri argomenti, intorno a cui potevano esistervi divergenze nelle istituzioni particolari delle varie tribù, ed in questi argomenti appunto, secondo la tradizione, verrebbero ad ap parire le traccie di una legislazione regia, la quale potrà forse non esserci pervenuta nelle sue fattezze genuine: ma che intanto non merita punto di essere senz'altro respinta, come una creazione di tempi posteriori (1). Essa porta in sè un'impronta efficace di verità, in quanto che si presenta con un carattere del tutto consentaneo ad un populus, che esce dall'organizzazione gentilizia, e le cui isti tuzioni sono ancora tutte circondate di un ' aureola religiosa; del che sarà assai facile persuadersi, ricostruendo e componendo insieme i rottami, che ci pervennero di questa legislazione, per la parte, che si riferisce al diritto privato e al diritto penale primitivo di Roma. § 5. – La famiglia e la proprietà secondo la leges regiae. 268. Quanto al diritto privato l'istituzione, che presentasi più ri gorosamente delineata nelle reliquie delle leges regiae, è l'orga nizzazione della famiglia. È evidente, che essa riducesi in sostanza ad un rudere della stessa organizzazione gentilizia, che viene ad essere portato nel seno della città. Ma intanto separata dall'orga nizzazione gentilizia, in cui erasi formata, e dalla quale era tempe rata in qualche parte, presentasi con linee così rigide e precise, da riuscire a noi pressochè incomprensibile, se non riportisi nell'ambiente, in cui dovette formarsi. Dei varii modi, in cui questa famiglia potrà essere fondata, le leggi regie non ne ricordano che un solo, e questo è la cerimonia re ligiosa della confarreatio, la quale già conosciuta probabilmente alle genti delle varie tribù può benissimo essere stata adottatta come la forma solenne e riconosciuta per il matrimonio quiritario. Dio nisio infatti dice, che Romolo avrebbe condotto all'onestà le donne con un'unica legge, con cui avrebbe stabilito: « uxorem, quae nuptiis (1) La vera causa di questa critica, che tutto nega, relativamente alla storia pri mitiva di Roma, sta nel presupposto, che il popolo fondatore della città fosse un popolo del tutto primitivo. Ho cercato di dimostrare il contrario, e quindi non trovo nulla di improbabile, che un popolo, che si presenta con una quantità di tradizioni e di concetti già elaborati, fosse in condizione tale da prendere una parte effettiva, anche nella formazione delle leggi. 330 sacratis (confarreatione ) in manum mariti convenisset, commu nionem cum eo habere omnium bonorum ac sacrorum ». Noi ab biamo qui il matrimonio primitivo, esclusivamente patrizio, accom pagnato da una cerimonia religiosa; esso compiesi coll'intervento dei pontefici e colla testimonianza di dieci testimonii, che rappresentano le dieci curie, in cui è ripartita ciascuna tribù primitiva; produce la comunione delle cose divine ed umane; e intanto riduce in certo modo la moglie in posizione di figlia, rimpetto al marito; il che però non toglie, che essa gli sia compagna nel culto domestico. È al marito, che appartiene la giurisdizione sulla moglie pei delitti, che essa compie; anzi due fra essi, l'adulterio ed il bere vino (per causa che proba bilmente può riferirsi a qualche rito religioso ) possono essere puniti di morte: ma egli deve perciò essere circondato dal tribunale dome stico, il quale è ancora una istituzione eminentemente gentilizia (1). Il vincolo matrimoniale, stretto coll'intervento della religione, è per per sua natura indissolubile, in quanto che non potrebbe compren dersi, che una moglie, che è figlia al marito, possa far divorzio da esso. Di qui una legge, che Dionisio chiama dura, la quale nega alla moglie difar divorzio dal marito;ma intanto questi può ripudiarla,ma solo per cause determinate, quali sarebbero il venefizio commesso a danno della prole, la sottrazione delle chiavi e l'adulterio. Che se il marito abbandoni la moglie per altre cause, dei suoi beni si faranno due parti, di cui una andrà alla moglie, l'altra sarà sacra a Cerere: che se egli la venda, dovrà essere immolato agli dei infernali (2 ). Qui pertanto il potere del marito sulla moglie ha ancora tutti i caratteri del periodo gentilizio; ma le cerimonie religiose, che forse potevano essere diverse presso le varie tribù, già vengono ad essere unificate e son tutte ridotte alla confarreatio; son fissati i casi per il ripudio; e sono anche posti certi confini ai poteri del marito sulla (1) Le disposizioni attribuite alle leges regiae, che sono qui riprodotte, ci furono conservate da Dionisio, II, 25; il loro testo può vedersi nel Bruns, Fontes, pag. 6. (2) Questa legge, attribuita a Romolo relativamente al ripudium, è ricordata da PLUTARCO, Romulus, 22. Gli autori, che studiarono di recente l'argomento, già co minciano ad ammettere la probabilità, che nell'antico matrimonio per confarreatio nem non potesse essere consentito il divortium, nel senso vero della parola; il quale dovette avere origine dal divertere della moglie dalla casa del marito nel matri monio sine manu, e poi si concretò in una istituzione giuridica, che si estese allo stesso matrimonio cum manu. Cfr. Esmein, La manus, la paternité et le divorce, nei Mélanges d'histoire du droit, pag. 3 a 37. 331 moglie. A queste leggi se ne aggiunge una di Numa, che assume un carattere più sacro, la quale è cosi concepita: « paelex aram Iunonis ne tangito; si tanget, Iunoni, crinibus demissis, agnum foeminam caedito »: la qual legge (se si accetta la significazione attribuita al vocabolo di paelex da Festo, secondo cui suonerebbe la donna « quae uxorem habenti nubebat » ), significherebbe, che il matrimonio doveva essere monogamo, e che altra donna non poteva entrare nella casa, ed accostarsi all'altare di Giunone, protettrice appunto delle giuste nozze; in caso contrario doveva sacrificarsi una piacularis hostia (agnum foeminam caedito) (1). 269. Lo stesso è a dirsi della patria potestas, la quale, secondo una legge attribuita a Romolo, duráva tutta la vita e importava il potere di vita e di morte sul figlio, e la facoltà di venderlo fino a tre volte per trarne profitto; alla qual legge se ne aggiunge un'altra di Numa, secondo cui il padre, che abbia consentito alle nozze confar reate del figlio, le quali importano la comunione delle cose divine ed umane, più non è in facoltà di venderlo. Devono poi i padri educare tutta la prole maschile e le figlie primogenite, e non possono mettere a morte niun feto minore di tre anni, se non sia mostruoso o mutilato, nel qual caso deve prima essere mostrato ai vicini, e questi deb bono approvare il suo operato; disposizione questa, che richiama ancora le consuetudini proprie della vita patriarcale del vicus e del pagus, ove i vicini mutansi talvolta in giudici ed in consi glieri (2). Alle leggi relative a quest'ordine di idee può eziandio ri chiamarsi quella, attribuita a Numa, secondo cui se una donna fosse morta in istato di gravidanza, non doveva essere seppellita, se prima non se fosse estratto il feto: alla quale disposizione il Voigt rannode rebbe, con molta verisomiglianza, quel passo di lex regia, conserva toci da Paolo Diacono, secondo cui: Si quisquam aliuta (aliter ) faxit, lovi sacer esto (3). (1) Festo, v ° Paelices (Bruns, Fontes, pag. 350). Tutti i passi relativi possono vedersi raccolti dal Voigt, über die leges regiae. Leipzig, 1876, § 2º, pag. 8. (2 ) Tutte queste leggi regie, relative alla patria potestà, sono ricordate da Dio NISIO, II, 26, 27: II, 15; II, 27. Quella attribuita a Numa è pur ricordata da Plu TARCO, Numa, 17. Il testo delle medesime trovasi nel Bruns, Fontes, pag. 7 e 9. (3) A questa legge accenna il giureconsulto MARCELLO, L. 2, Dig. (11, 8): mentre l'altra parte sarebbe ricavata da Festo, pº aliuta. Il Voigt ritiene doversi combinare i due frammenti in una sola legge, Über die leges regiae, 8 13, pag. 75. 332 Iatanto però tutto quest'ordinamento religioso e politico della fa miglia primitiva è ancora sempre sotto la protezione del fas, in quanto che i figli, i quali maltrattino i genitori, e la nuora, che venga a cattivi trattamenti verso la suocera, mettendo cosi in non cale il rispetto dovuto all'età, incorrono nella capitis sacratio; la quale è pure la pena, in cui incorre il patrono, che faccia frode al proprio cliente, e ogni altro, che venga meno alle disposizioni re lative all'ordinamento della famiglia (1). 270. Per quello poi, che si riferisce alla proprietà, nulla ci fu con servato circa il carattere intimo della medesima; ma dalle disposi zioni, che Dionisio attribuisce a Romolo relativamente alla clientela, e dall'incarico, che secondo Festo sarebbesi da Romolo affidato ai patres o senatori, di fare assegni di terre agli uomini di bassa condizione (tenuioribus), è lecito di inferire, che la proprietà con tinua in parte ad avere un carattere gentilizio, e che in questo periodo ancora si mantengono quelle proprietà o possessioni collet tive, sulle quali si possono fare degli assegni ai clienti (2). Tuttavia nell'interno della città vediamo già comparire netta e decisa l' isti tuzione della proprietà privata. In virtù di una legge attribuita a Numa, quel dio Termine, che un tempo separava i confini fra i ter ritori delle varie genti e delle varie tribù, viene a ripartire e a consacrare la proprietà fra i quiriti, i quali hanno già una proprietà individuale e privata, rappresentata dal proprio heredium. Per tal modo la terminazione, che prima esisteva fra i territorii gentilizii, come lo dimostra l'accenno, che si fa nel ius foeciale alle divinità patrone dei confin., viene a cambiarsi anch'essa in una istituzione quiritaria, e si introduce così la terminazione fra le proprietà private. Tutti quindi son tenuti a porre dei termini al proprio campo, e questi sono consacrati a Giove Termine; colui, pertanto che li ri. muova o li trasporti da un sito all'altro, sarà soggetto alla capitis sacratio (3 ). (1) Così,ad esempio, secondo il Mommsen in Bruns, Fontes, pag. 7, nota 6, una legge, attribuita a Tullo Ostilio, sarebbe così concepita < si parentem puer verberit, ast olle (ille) plorasset, puer divis parentum, sacer estod; si nurus, sacra divis pa rentum estod. » Per i divi parentum si intendono poi i diï manes, Cfr. Voigt, Op. cit., § 7, pag. 41. (2) Dion., II, 9; Cic., De rep., II, 9; Festo, vº Patres (Bruns, pag. 372). (3) Dion., II, 74; Festo, pº Termino. Cfr. Voiat, Op. cit., $ 9, pag. 48. 333 Certo queste son tutte disposizioni di legge, che consacrano isti tuzioni, che vivevano nella consuetudine e nelle tradizioni; ma punto non ripugna, che, trattandosi di genti, le cui istituzioni nei partico lari potevano essere diverse, le medesime abbiano anche potuto fare argomento di disposizioni legislative, elaborate dai pontefici, pro poste dal re, appoggiate dal senato, ed approvate dalle curie. Quanto alla sanzione religiosa, che accompagna ciascuna legge, essa si spiega facilmente, se si tiene conto del carattere religioso del popolo delle curiae, il quale esce allora allora dall'organizzazione gentilizia, in cui tutte le istituzioni erano rivestite di un ' aureola religiosa e sacra. Solo ci resta a vedere quali siano le traccie, che ci pervennero della legislazione penale primitiva di Roma patrizia, alla quale occorre una trattazione speciale per il peculiare svolgimento, che ebbe a ri cevere, e per le molte discussioni, a cui diede occasione. § 6. – Le origini della legislazione criminale in Roma e specialmente del parricidium e della perduellio. 271. Per quanto la legislazione criminale primitiva di Roma sia quella parte del suo diritto, dicui giunsero a noi più scarse reliquie, tuttavia anche queste poche sono tali, che ricomposte possono ad ditarci, come anche in essa siasi effettuato un lento e graduato pas saggio dall'organizzazione gentilizia alla convivenza civile e politica. Anche il delitto nel periodo regio ritiene ancora quel carattere, che aveva assunto presso le genti patrizie; esso è un'offesa contro gli uomini e contro l'aggregazione gentilizia, a cui essi appartengono, ma è poi sopratutto un'offesa contro la divinità. Chi l'abbia com messo di proposito (dolo sciens), di regola è punito colla capitis sacratio ed anche colla consecratio bonorum; mentre se altri l'abbia compiuto per imprudenza (imprudens) egli e la famiglia di lui sono tenuti ad offerire una piacularis hostia alla famiglia dell'of feso (1). Ciò vuol dire, che il concetto gentilizio del delitto e della (1) La più notabile distinzione fra il reato doloso e colposo, che occorra nella legislazione regia, è quella che si desume dalle due leggi attribuite a Numa, rela tive all'omicidio volontario (parricidium ), e quella relativa all'omicidio involontario, che è ricordata da Servio nei seguenti termini: « In Numae legibus cautum est, 334 pena viene ad essere trapiantato di peso nel seno della città. Sono tuttavia ancora in piccol numero i misfatti, a cui accennano le leges regiae; in quanto che non parlasi nè del furto,nè dell'ingiuria, nè di quegli altri misfatti, che sono più tardi minutamente preveduti dalle XII Tavole. Ciò non significa certamente, che questi misfatti fossero ignoti, nè che i medesimi fossero impuniti: ma soltanto, che le leges publicae (quelle almeno che giunsero fino a noi) non avevano ancora richiamato alla pubblica giurisdizione la repressione di essi; ma avevano continuato a lasciarli alla prosecuzione dell'offeso, che doveva perciò seguire le pratiche tradizionali, formatesi nelle tribù, le quali già avevano ricevuta una consacrazione religiosa (1). 272. Tuttavia fra i fatti criminosi, accennati nelle leges regiae, già può introdursi una distinzione; sonovi dei delitti, che possono essere ritenuti contro l'ordine delle famiglie, comprendendo anche fra questi quello contro la proprietà, consistente nella rimozione dei termini; altri, che sono contro la religione, quale sarebbe l'incesto della Vestale e l'abbandono dei sacra '; e altri infine, che già possono ricevere il nomedi crimina publica, in quanto che, fin dagli inizii della città, sonovi autorità incaricate dalla pubblica pro secuzione di essi. Quanto ai primi mantiensi ancora nella propria integrità l'auto rità e la giurisdizione del capo di famiglia, il quale in certi casi è tenuto a circondarsi del tribunale domestico; come pure sono san cite contro di essi pene di carattere sacro e religioso, comela capitis sacratio e la consecratio bonorum. Quanto ai reati contro la religione, appare invece la giurisdizione dei pontefici; giurisdizione, che alcuni autori, fondandosi sul carattere sa crale del delitto e della pena in questo periodo, avrebbero creduto, che dovesse essere prima estesa in più larghi confini. Il carattere, che ab biamo trovato nella istituzione del collegio dei pontefici, per cui esso appare come depositario e custode delle tradizioni gentilizie, ci impe disce di seguire una tale opinione, in quanto che il carattere sacrale del delitto e della pena in questo periodo non è creazione dei pon ut si quis imprudens occidisset hominem, pro capite occisi, agnatis eius in contione offerret arietem ». Bruns, Fontes, pag. 10. Cfr., per ciò che si riferisce all'omicidio involontario, il Voigt, Op. cit., § 11, pag. 64 a 72. (1) Cfr. MUIRIEAD, Histor. Introd., pag. 54 a 55. 335 - tefici, ma è un carattere proprio di tutte le istituzioni gentilizie, che si mantiene ancora nel la città esclusivamente patrizia. Del resto la sola giurisdizione criminale, che gli antichi scrittori attribuiscono ai pontefici, è quella relativa alle Vestali, la quale per giunta sembra essere una conseguenza della patria potestà, di cui essi sono rive stiti riguardo alle medesime. Sono quindi i pontefici, che secondo una legge, che la tradizione attribuisce a Tullo Ostilio, giudicano dell'in costo delle Vestali, il quale è considerato come un delitto, che da una parte contamina i sacra publica, e dall'altra provoca la ven detta di Vesta sopra il popolo. Quindi da una parte sacrificavansi alla dea la Vestale, nei tempi più antichi col gettarla nel fiume e più tardi seppellendola viva, e l'amante, flagellandolo fino alla morte, e dall'altra si facevano sacrifizii di purificazione per la città. Da questo caso in fuori non trovasi traccia di giurisdizione criminale più ampia, che sia mai spettata ai pontefici; nè vi ha motivo di credere, che po tesse essere più estesa, dal momento che presso i romani pareva già enorme questo potere accordato a una magistratura sacerdotale (1). 273. A noi però importa sopratutto di cercare come siasi venuto svolgendo il concetto del pubblico delitto; perchè è con esso, che incomincia l'esercizio del magistero punitivo, per parte dell'autorità sociale. Già ho accennato altrove, che la giurisdizione del magistrato in Roma quanto ai misfatti non presentasi svolta fin dai propri inizii; ma viene invece estendendosi, a misura che la potestà pubblica si viene rafforzando di fronte alla giurisdizione domestica del capo di famiglia. Qualche cosa di analogo accade eziandio nello svolgersi della nozione del pubblico delitto. I due primi misfatti, perseguiti dalla pubblica autorità, compariscono coi nomi di parricidium e di perduellio; e per perseguirli fin dal periodo regio sarebbero istituiti due speciali magistrati, coi nomi di questores parricidii e di duum viri perduellionis; fra i quali intercede perd questa differenza, che mentre i primiappariscono quali magistrati permanenti, i secondi invece sembrano essere nominati, caso per caso (2 ). (1) Cfr. MOMMSEN, Le droit public romain, I, pag. 187. (2 ) Ciò è dimostrato dal racconto di Livio, I, 26, relativo al fatto dell'Orazio, in cui i duumviri perduellionis son nominati per quel caso dal re, mentre dei quae stores parricidii abbiamo una definizione di Festo, pº Quaestores, che parla di essi, come di autorità permanenti, create « ut de delictis capitalibus quaererent ». 336 Son pochi i passi, che si riferiscono all'uno e all'altro misfatto, donde la conseguenza, che non solo gli autori moderni, ma anche gli storici antichi attribuiscono significazione diversa ai due vocaboli. È noto infatti, che mentre Dionisio e Festo ritengono colpevole di parricidium l'Orazio, uccisore della propria sorella, Tito Livio parla invece di perduellio (1). In questa condizione di cose occorre ripren dere in esami e passi di antichi autori, che sono a noi pervenuti; esa minare le opinioni principali emesse dagli autori in una questione, che ha una copiosissima letteratura; e poi cercare di ricomporre i testi che si riferiscono all'argomento per ricavarne il processo logico e storico, che dovette essere seguito nella configurazione di questi primitivi misfatti. 274. Quanto al parricidium, i pochi passi a noi pervenuti indicano in sostanza una certa quale meraviglia, per parte degli au tori, che Romolo, mentre aveva lasciato senza pena e neppur rite nuto possibile il parricidium, nello stretto senso della parola, avesse poi chiamato ogni omicidio col vocabolo di parricidium, il che sa rebbesi pur fatto da Numa, al quale si attribuisce una legge, secondo cui: « si quis hominem liberum,dolo sciens,morti duit, parricidas esto ». Quanto poi alla perduellio si sa con certezza, che questo vocabolo deriva certamente da perduellis, che in antico significava il nemico, con cui erasi in guerra, e che il medesimo comprendeva, tanto il tradimento verso la patria, mediante pratiche tenute col ne mico esterno di essa, tradimento, che suole essere indicato special mente col vocabolo di proditio; quanto eziandio le perturbazioni ed i sovvertimenti contro la cosa pubblica, tentati all'interno, per i quali era specialmente adoperato il vocabolo di perduellio. Circa quest'ultima però abbiamo una descrizione abbastanza completa di un primitivo processo per causa di perduellio in Tito Livio, il quale in questa parte, come ben nota il Bonghi, « sembra dare al proprio racconto un colorito particolare e diverso dal rimanente, in quanto che cerca di mostrarsi espositore preciso delle forme antiche e solenni, con cui sarebbe seguito questo primitivo giu dizio » (2 ). Furono questa scarsità di passi e questa incertezza negli antichi au tori, che provocarono molte indagini per spiegare il fatto, per cui negli (1) Dion., III, 22; Festo, vº Sororium tigillum; Livio, I, 26. (2) Liv., 1, 26; Bongai, Storia di Roma, I, pag. 102 e pag. 129 e segg. 337 inizii col vocabolo ili parricidium sarebbesi indicato ogni omicidio, ed anche le cause, per cui gli antichi autori in un medesimo fatto poterono ora ravvisare il carattere di parricidium, ed ora quello di perduellio (1). Fra le molte congetture fattesi in proposito sono degne di nota sopratutto le seguenti: quella messa prima innanzi del Gebauer, ed ora anche seguita dal Voigt, e pressochè dalla universalità degli au tori tedeschi, secondo la quale a vece di leggere parricidium si dovrebbe leggere paricidium, cosicchè il vocabolo verrebbe a signi ficare l'uccisione di un pari o di un eguale (2 ); quella messa in nanzi dal Rubino e dal Rein, secondo cui il vocabolo parricidium significherebbe fin dagli inizii l'uccisione di un congiunto, ossia un parentis excidium (3 ); quella sostenuta con molta dottrina dal Brüner e poi seguita damolti altri, in base a cui parricidium avrebbe dapprima da molti altri significato soltanto l'uccisione di un pater delle genti patrizie, e sarebbe poi stato esteso a designare l'uccisione di qualsiasi uomo libero (4 ); e da ultimo quella sostenuta, fra gli altri,dalWalter e dal Maynz, secondo cui idue termini di parricidium (1) La questione non è recente, ma fu già trattata dagli antichi criminalisti, e fra gli altri dal Sigoxio, De iudiciis, Cap. XXX, dal Mattei, dall'UBERO e da altri, che possono vedersi citati dal CARRARA, Programma di diritto criminale, Parte speciale, vol. I, pag. 137, $ 1138. (2 ) Il primo, che sostenne « paricidam esse, qui parem occidit fu il GEBAUER, Dissertationes academicae, vol. I, pag. 64, § XI, il quale si fondava sul detto di Ulpiano, che giunse veramente molto più tardi, « omnes homines esse aequales. » L'opinione era nuova, e fu accolta come osserva il CARRARA, op. e loc. cit., pressochè universalmente in Germania. Di recente poi il Voigt aggiunse a questa opinione anche il peso della sua autorità: Über die leges regiae, pag. 11 a 64, e sopratutto a pag.57, nota 130. L'opinione stessa fu seguita fra noi anche dall'ARABIA, Princ. di diritto penale, III, pag. 258. Quanto al CARRARA, egli sostiene, che in questo caso l'espressione « paricidas esto » significasse « capital esto », cioè condannabile a morte; ma tale opinione non trovò seguito (Op. cit., § 1139). (3) Tale fu l'opinione messa innanzi dal Rubino: Untersuchungen über römische Verfassung und Geschichte. Casellae, 1839, pag. 433-466; e dal Rein, Das Crimi nalrecht der Römer. Lipsiae, 1844, pag. 401 e segg. (4 ) L'autore, che a mio avviso sostenne con grande erudizione, e con un senso vero di romanità, quest'opinione è il BRÜNER in una dissertazione col titolo « De parricidii crimine et quaestoribux parricidii », letta il 2 marzo 1857 e riportata negli Acta societatis scientiarum Fennicae, Helsingforsiae, 1858, pag. 519 a 569. Quest'o pinione è anche seguìta dal GORRIUS, in una dissertazione di laurea: « De parricidii notione apud antiquissimos romanos », Bonnae, 1869, notevole per la rassegna, che fa delle opinioni professate daglialtri autori. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 22 338 e di perduellio sarebbero fra loro pareggiati, e significherebbero qualsiasi delitto, che per sua natura sia tale da chiamare la pub blica vendetta, e da eccitare una ripulsione universale (1). 275. Or bene con tutta la riverenza, che deve certo aversi per un autore cosi benemerito degli studii sul diritto primitivo, quale è il Voigt, non ritengo, che possa adottarsi l'opinione da lui seguita, secondo cui parricidium significherebbe il paris excidium. Anzi. tutto è malagevole di trovare negli esordii di Roma l'idea di questa parità e di questa uguaglianza giuridica, in quanto che, se si tol gano i capi di famiglia, non vi sono altre persone, che abbiano un'assoluta parità di diritto. Vi ha di più, ed è che, mettendo il concetto della parità a fondamento della figura criminosa del pa ricidium, ne verrebbe come conseguenza, che allora soltanto vi sa rebbe paricidium, quando un pari uccidesse un altro pari, cioè quando cosi l'uccisore che l'ucciso fossero in condizioni uguali fra di loro; il che certo non può richiedersi. Infine male si comprende, come questa figura primitiva di reato si venga foggiando sopra un con cetto puramente astratto, come è quello della uguaglianza, mentre vediamo, che tutte le altre distinzioni di reati, ed anche le confi gurazioni giuridiche di altra natura, che compariscono nell'antico diritto, vengono piuttosto ad essere determinate da circostanze este riori di fatto, come accade dal furtum manifestum, nec manife stum, conceptum, ed oblatum, ed anche della distinzione della res mancipii e nec mancipii, come pure delle mancipationes, vindi cationes, e simili. Cið anche per il motivo, che nel linguaggio pri mitivo si passa di preferenza da una significazione fisica ad una mo rale, o da una concreta ad un astratta, di quello che non accada il contrario. Quanto al fatto, che il vocabolo parricidium e parricidas in certi antichi codici trovisi scritto paricidium e paricidas, non può avere importanza, quando si consideri, che nelle leggi arcaiche trovansi soventi le lettere semplici, a vece delle doppie, come lo di mostra l'antico Senatusconsulto de bacchanalibus » in cui occor rono le parole esent, velent, bacanal per essent, vellent, baccanal; quest'argomento del resto è anche distrutto da ciò, che son vi pure (1) Questa opinione enunziata prima dal WALTER, Storia del diritto romano. Trad. BOLLATI, 8 766, vol. II, pag. 450, fu di recente anche sostenuta dal Maynz, Introd., $ 18, 1, pag. 55. Essa però fu vigorosamente confutata dal Koestlin: Die perduellio unter der römischen Königen. Tubing, 1841, pag. 10-14. 339 dei codici, in cui occorrono le parole patricidium e patricidas, le quali attestano cosi anche la materiale derivazione dei due vocaboli da patris excidium. Vero è, che anche, fra gli antichi autori, se ne trovano di quelli, che sembrano accennare a questa origine del vocabolo; ma non è punto improbabile, che, allorquando la figura del parricidium aveva già presa altra significazione nella lex Pom peia de parricidiis, siasi anche allora cercato di spiegare nello stesso modo, cioè col ricorrere all'analogia delle parole, il vocabolo primitivo, con cui erasi indicato l'homicidium (1). 276. Non può del pari ammettersi, che il vocabolo parricidium abbia significato dapprima un parentis excidium, ossia l'uccisione di un congiunto in certi limiti di parentela, e che poscia siasi esteso a significare l'uccisione di qualsiasi concittadino, anche per quella specie di parentela, che viene ad esservi fra i cittadini di una me desima città. Per verità, quando così fosse, il vocabolo di parrici dium avrebbe avuto fin dapprincipio una significazione, che non cor risponde alla parola, in quanto che, come nota il Voigt stesso, nella precisione primitiva del linguaggio, per indicare l'uccisione di un congiunto, si sarebbe adoperata piuttosto l'espressione di parentici dium, che non quella di parricidium, in cui compare evidente l'idea dell'uccisione di un padre (2 ). Lo stesso è a dirsi dell'opinione, secondo cui parricidium avrebbe, nelle origini della città, significato l'uccisione di un pater delle genti patrizie, e solo più tardi sarebbesi estesa all'uccisione di ogni uomo libero. Questa opinione, sostenuta con logica ed erudizione dal Brüner, sarebbe di tutte la più probabile, e quella che meglio spiega i passi a noi pervenuti, quando non contrastasse colla testi monianza di Plutarco: singulare est, quod Romulus, cum nullam in parricidas statuerit poenam, omne homicidium appellavit parricidium. Qui infatti si direbbe, che Romolo fin dagli inizii (1) Lo scrittore latino, che sembra far derivare l'antico parricidium dalla parità fra uccisore ed ucciso, sarebbe ISIDORO, De orig., X, 225, il quale scrisse: « parri cidium et homicidium, quocumque modo intelligi possunt, cum sint homines homi. nibus pares »; ma qui è evidente, che l'autore non cerca di dare la vera origine del vocabolo, ma solo di dare una spiegazione, che poteva apparire probabile all'epoca sua. Del resto quest'opinione fu già combattuta dall'OSENBRUEGGEN, Das altrömische parricidium. Kiel, 1841, pag. 59. (2) Cfr. Voigt. Op. cit., § 10, pag. 57, nota 130, in fine. 340 - della città avrebbe chiamato parricidium ogni omicidio, e che quindi non vi sarebbe stato periodo di tempo, in cui, dopo la for mazione della città, la parola fosse stata ristretta a significare l'uccisione di un padre delle genti patrizie (1). 277. Resta ancora l'opinione sostenuta fra gli altri dal Walter e dal Maynz, secondo cui parricidium e perduellio sarebbero due espres sioni, usate promiscuamente, ad indicare i più gravi misfatti, che si potessero commettere nella comunanza. Vero è, che soventi nel lin guaggio primitivo presentansi di questi vocaboli sintetici, e comprensivi, che più tardi vengono in certo modo suddividendosi in guisa da espri mere solo più uno degli atteggiamenti, sotto cui presentasi il concetto primitivo; ma qui la cosa non ha potuto accadere, poichè i due concetti si svolgono in certo modo paralleli l'uno all'altro, ei due crimini sono perseguiti da ufficiali diversi. Se si guarda poi all'ori gine dei due vocaboli, anche questa viene ad essere completamente diversa; poichè, per formare la figura del parricidium, si riguarda alla persona dell'offeso, mentre, per formare invece quella della per duellio, si parte invece da quella dell'offensore, ossia dal vocabolo di perduellis, che nelle origini significava nemico. Nel parricidium si ha un'offesa contro un privato, che è sottratta alla privata per secuzione, ed attribuita alla pubblica autorità; mentre nella per duellio compare già personificata la stessa comunanza collettiva, la quale, trovando nel proprio seno chi cerca di comprometterne la sicu. rezza, scorge in esso una somiglianza coi nemici esterni della città, e perciò lo qualifica col nome stesso, che darebbe al nemico, con cui trovisi in aperta ostilità. 278. Ritengo invece, che anche queste due figure di crimini, che compariscono in Roma primitiva, possano essere spiegate in modo assai più verosimile, quando si tenga conto, che la città risulto dalla confederazione delle tribù, e che percid, colla sua formazione, i con cetti, che già esistevano nelle tribù, vennero a trapiantarsi nella città, colla differenza, che quei concetti, che prima erano intergen tilizii, per cosi esprimersi, diventarono invece concetti interqui ritarii, e ricevettero cosi una significazione diversa, per il diverso punto di vista, sotto cui vennero ad essere considerati. Cid è provato (1) PLUTARCO, Romulus, 22. - - - 341 - da questo che, appena Roma è fondata, già presentansi formati così il concetto del parricidium, che quello della perduellio; poichè il primo è già attribuito a Romolo, e l'altro a Tullo Ostilio, ma durante il regno di questo già esiste formata la lex horrendi criminis, rela tiva alla perduellio. Ciò significa, che queste due figure di reati eransi già delineate nella stessa organizzazione gentilizia, e che il parricidium significava l'uccisione di un padre, ossia del capo di una famiglia o di una gente: la quale uccisione costituiva l'unico misfatto, che non dipendesse dalla giurisdizione domestica, e che dovette per il primo essere punito, perchè era origine diguerre private nelseno stesso della tribù e di guerra fra le genti; e che la perduellio significava la nemicizia e l'ostilità fra gente e gente (1). Fu quindi naturale dal momento, che i capi di famiglia entrarono per confederazione nella medesima città, che il vocabolo parricidium si trovasse natural mente portato a significare l'uccisione di chiunque partecipasso alla comunanza, tanto più che i partecipi di essa dapprima erano veri padri, e che la perduellio, mentre prima significava le ostilità fra le genti, venisse ad indicare l'ostilità, che sorgeva nel seno stesso della città, poichè i capi delle varie genti e famiglie ne erano di ventati i cittadini. Allorchè poi fra i cittadininon furonvi solo più i capi di famiglia, ma anche altri uomini liberi fu naturale e lo gico, che l'uccisione volontaria di qualsiasi uomo libero rientrasse nella figura primitiva del parricidas. Viene cosi ad essere natural mente spiegato ciò, che ci attesta Plutarco: che Romolo, senza indurre pene contro i parricidiin senso stretto, abbia tuttavia chia mato ogni omicidio parricidium: in quanto che quello, che era parri cidio nei rapporti fra le varie famiglie e genti, venne ad essere uccisione di un quirite, allorchè questi padri furono cittadini della medesima città; al modo stesso, che il perduellis fra le varie genti venne ad essere il nemico dell'intiera comunanza, nel seno della città. Solo potrebbe notarsi, che non si deve ammettere una siffatta trasposizione di vocabolo da una significazione ad un'altra: ma è facile il rispondere, che la trasposizione dapprima fu pressochè in sensibile, perchè i primi quiriti erano veramente padri, e che simili trasposizioni sono frequentissime presso i Romani, i quali, ogni qual volta hanno formata una figura giuridica, non temono di traspor tarla da un caso ad un altro; come lo dimostra il ius Latii, che (1) V. Festo, vº Hostis (Bruns, Fontes, pag. 340). 342 trovato pei latini fu poi dai Romani applicato a popoli ed a genti, che non avevano più nulla a fare con essi. Era poi naturale, che quell'estendersi, che aveva luogo nella significazione del parricidium, a misura che la figura del cittadino e quella dell'uomo libero si ve nivano sostituendo a quella del padre, dovesse pure avverarsi quanto ai quaestores parricidii, il cui compito si viene così allargando, finchè più tardi il vocabolo apparisce disadatto, ed in allora sembra siansi sostituiti ai medesimi i tres viri capitales (1). 279. Intanto però nulla potè impedire, che, accanto alparricidium pubblicamente perseguito e che mutasi a poco a poco in homicidium, potesse ancora sussistere la configurazione tradizionale del massimo dei misfatti, che consiste nell'uccisione di un genitore, operata per mano di un figlio o di una figlia. La sua stessa enormità ed infre quenza spiega come negli esordii Romolo, al pari di Solone, non l'abbia contemplato: ma intanto, se per avventura accadeva, veniva ad essere punito con pene tradizionali, che cogli accessorii stessi, da cui erano accompagnate, cercavano di simboleggiare l'enormezza del delitto. Fu soltanto allorchè questo triste misfatto diventò ab bastanza frequente per la corruzione dei costumi, che la punizione di esso, prima conservata nella tradizione e nel costume, penetro anche nella legge, che dovette anche punire il parricidium in senso stretto, dandogli tuttavia una significazione più larga, comprenden dovi cioè qualsiasi uccisione di un parente o di un congiunto in certi confini di parentela, e a tal uopo far rivivere l'antica pena tradizionale. Fu allora, che il vocabolo di parricidium abban donò il semplice omicidio per venire ad indicare l'uccisione di un parente e di un congiunto, il che appunto si fece colla legge Pom (1) Questa trasformazione non è ammessa dal BRÜNER, Dissert. cit., 8 7. Parmi tuttavia, che essa fosse una naturale conseguenza dell'estendersi della competenza dei quaestores parricidië, e del processo seguito dai Romani nello svolgimento delle proprie istituzioni. Essa poi sembrami anche una conseguenza della diffinizione da taci da Festo: « quaestores parricidii, appellantur, qui solebant creari causa rerum capitalium quaerendarum ». Non sarebbe poi qui il caso di entrare nella questione, se i quaestores parricidii del periodo regio, ed i questores aerarii della Repubblica possano avere la medesima origine: ma ritengo, che questa identità di origine non abbia nulla di improbabile, allorchè si tenga conto della primitiva indistinzione delle funzioni, che erano talora affidate allo stesso magistrato. Cfr. al riguardo il Villems, Le droit public romain, pag. 303, nota 3. - 343 peia de parricidiis. Tuttavia, per il vocabolo di parricidium, alla significazione più ristretta, che esso viene ad assumere, sopravvive ancora un'altra significazione, non compiutamente giuridica, ma piut tosto oratoria, per cui parricidas viene ad essere chiamato il tradi tore della patria, l'oltraggiatore dei templi, quegli insomma, che col proprio delitto abbia violato uno di quei doveri, che hanno un ca rattere sacro per l'umanità (1). 280. Solo più resta a spiegare il fatto, per cui un medesimo de litto, quello cioè dell'Orazio, uccisore della propria sorella, abbia po tuto essere qualificato come perduellio da Livio, e invece sia riguar dato qual parricidium da Festo e da Dionisio. A questo propo sito è certo, che il fatto dell'Orazio, quale ci è narrato dalla tradi zione, presentava un carattere molto dubbioso. Da una parte eravi per certo l'uccisione di una persona libera, e quindi occorrevano gli estremi della legge attribuita a Numa; ma dall'altra l'uccisione era stata commessa, allorchè il popolo seguiva in massa l'Orazio vinci tore, e l'uccisione, sempre secondo la tradizione, sarebbe stata da lui inflitta, come pena contro coloro, che piangevano la morte di un nemico della patria. L'Orazio in certo modo, fra gli applausi della vittoria, aveva usurpato un ufficio, che al re, ed al popolo sarebbe spettato, e in quel momento aveva operato, come un perduellis, come una persona, che si era posta al disopra delle patrie leggi. È questo il motivo, per cui il popolo, che plaude il vincitore, trascina tuttavia il ribelle davanti al re, ed è questi, che, in base a quella distin zione fondamentale della primitiva procedura nel ius e nel iudicium, viene ad essere chiamato a giudicare di qual misfatto si tratti. In darno il padre dell'Orazio cerca di richiamare a sè la giurisdizione per trattarsi di un misfatto, che erasi compiuto da un suo figlio contro una sua figlia; qui il re ravvisa prevalere il carattere pubblico del misfatto, e quindi ritiene trattarsi di perduellio e conchiude: « duum viros, qui Horatio perduellionem iudicent, secundum legem facio ». Dura era la legge relativa al perduelle, in quanto che, se condo i termini di essa, il condannato doveva avere avvolto il capo, essere sospeso arbori infelici, e poi essere ucciso a colpi di verghe, (1) Cfr. BRÜNER, Dissert. cit., $ 526. È poi CICERONE, che parla di parricidium patriae, civium, e scrive: « sacrum, sacrove commendatum, qui clepserit rapsitve parricida esto ». Cfr. CARRARA,Op. cit., § 1139. 344 « intra pomoerium vel extra pomoerium ». Il tenore della legge era quindi tale, che i duumviri dovettero condannarlo, e uno di essi già ordinava al littore « colliga manus» quando l'Orazio propone appello al popolo, il quale l'assolve in memoria del fatto compiuto, e sotto l'e sortazione del padre stesso, che viene esclamando fra la folla, che la propria figlia era stata iure caesam. Tuttavia l'Orazio, anche assolto, fu costretto a passare sotto il giogo, donde l'erezione del tigillum sororium, e la sua gente, secondo Dionisio, dovette anche offrire una piacularis hostia in base alla legge di Numa, che prevedeva il caso di un omicidio commesso per imprudenza. Anche in ciò abbiamo un indizio del dubbio, che si era presentato intorno al carattere del misfatto, poichè il passare sotto il giogo era certo la pena, a cui era sottoposto il nemico vinto, e il sacrifizio dell'ariete era imposto alla gente per causa dell'omicidio involontario (1). 281. Tuttavia, a mio avviso, la ragione che rende più verosimile la spiegazione premessa intorno alle origini del diritto criminale in Roma, sta sopratutto in ciò, che in questa parte sarebbesi seguito quel medesimo processo, che abbiamo potuto constatare in tutto il rimanente. I concetti già elaborati nella tribù sono trapiantati dalla città, al modo stesso che più tardi dalla città saranno portati ed estesi a tutto il mondo conquistato, e per tal modo di concetti intergentilizii, diventano concetti quiritarii, al modo stesso che più tardi i concetti quiritarii, ricevendo un nuovo contenuto, di venteranno poi di nuovo universali e comuni a tutte le genti. (1) A questo proposito tolgo dal Bongai, Storia di Roma. I, pag. 132, nota 1, una citazione dello SCHOEMANN, che sembra confermare l'opinione qui sostenuta: « Horatium, quum supplicium de sorore indemnata sumpsisset, eaque caede et ius regis ac populi imminuisset, visum esse adversus ipsam rempublicam adeo deliquisse, ut perduellionis, non modo parricidii, teneretur ». Osserverò poi per mio conto la singolarità del fatto, per cui il perduelle, considerato come nemico interno, viene ad essere assoggettato alla pena stessa del nemico esterno, cioè fatto passare sotto il giogo, quasi in segno di sottomissione forzata alle leggidella patria; altra prova, che non solo si tolse dall'ostilità esterna la figura della perduellio, ma in parte anche la pena, con cui essa era punita. Insomma perduellis significava il nemico nei rap porti fra le varie genti; ma quando i membri delle genti diventarono cittadini della stessa comunanza, diventò il nemico interno della medesima, e il nemico esterno si chiamò hostis. 345 Intanto anche in questa parte il parricidium e la perduellio sono due nozioni, il cui contenuto non è ancora ben determinato, ma al pari di tutti i primitivi concetti quiritarii appariscono come due co struzioni logiche, che si verranno svolgendo col tempo. Di qui con seguita, che il parricidium finirà per allargarsi per modo da com prendere tutte le offese contro il libero cittadino, che giungono a produrre la morte di lui: mentre la perduellio finirà per compren dere tutti i reati contro lo Stato, e quando questo si concentrerà nella persona dell'imperatore si cambierà nel crimen lesae maie statis. È quindi fino da quest'epoca, che comincia ad apparire la di stinzione fra il reato comune e il reato politico; ed è fin d'allora, che si sente l'opportunità di lasciare una parte al popolo nel giu dizio dei reati politici propriamente detti. L'uno e l'altro nel loro comparire sono come la sintesi dei reati pubblici, dopo i quali verranno poi anche ad essere repressi i delitti privati: la qual distin zione, iniziata da Servio Tullio, diventerà poi fondamentale nella legislazione decemvirale. Intanto le cose premesse bastano per dimostrare in qual modo siasi effettuata la formazione di una giurisdizione e di un diritto criminale in Roma primitiva. La giurisdizione criminale fu il risul tato di una sottrazione lenta e graduata, che l'autorità pubblica venne facendo alla giurisdizione domestica e patriarcale; e i primi pubblici delitti furono due figure di misfatti, che già preesistevano nell'organizzazione gentilizia, le quali, sebbene continuino ad essere indicate cogli stessi vocaboli, assumono però una significazione di versa. Di più anche nella primitiva concezione del delitto in Roma occorre quella potenza sintetica, che già abbiamo riscontrata nei concetti fondamentali della costituzione politica, e che apparirà anche più evidente nei concetti primitivi del diritto quiritario. Ciò indica che tanto il diritto pubblico e privato che il diritto penale, allorchè appariscono in Roma, sono già il frutto di una potente selezione ed elaborazione, fatta sui materiali somministrati dall'anteriore orga uizzazione gentilizia. I concetti del diritto primitivo di Roma sono altrettante sintesi potenti, in cui i fondatori della città cercano di scegliere e di con densare ciò, che hanno appreso nel periodo precedente. Ora più non ci resta che ad esaminare le condizioni della plebe cosi in tema di diritto pubblico, che di diritto privato. La condizione dei clienti e della plebe in Roma prima della costituzione Serviana. 282. Le cose premesse dimostrano ad evidenza, che tutta la primitiva costituzione politica di Roma, e quella legislazione, che dalla tradizione è attribuita ai primi cinque re, debbono ritenersi di origine esclusivamente patrizia, in quanto che si riducono in so stanza a concetti già elaborati nel periodo gentilizio, i quali, trapian tati nella città, vengono a ricevere un nuovo atteggiamento, ed a prendere una nuova significazione nella medesima. Solo più rimane a determinarsi quale potesse essere in questo periodo la condizione giuridica delle classi inferiori, al qual pro posito importa di tenere assolutamente distinti i clienti dalla plebe propriamente detta. 283. Per quello, che si riferisce ai clienti, la loro posizione giu ridica, in questo primitivo stadio della città, non viene ancora ad essere modificata, in quanto che essi continuano sempre ad apparte nere più alla gente, che alla città: perciò essi, per quanto si può ricavare da quella enumerazione dei diritti e degli obblighi fra patrono e cliente, che ci fu trasmessa da Dionisio, continuano ad avere gli stessi diritti e le medesime obbligazioni, che loro appar tenevano, durante il periodo gentilizio (1). Essi quindi non hanno ancora una vera proprietà, ma continuano a ricevere dalle genti degli assegni a titolo di precario sugli agri gentilizii; ne pos sono parimenti far valere direttamente le proprie ragioni davanti al magistrato della città, ma perciò debbono valersi della protezione e degli uffici del patrono. Per maggior ragione non può ammettersi, che in questo primo stadio essi possano intervenire nell'assemblea delle curie, comesostiene un gran numero di autori (2 ). Le curie sono (1) Dion., II, 10. Cfr. quanto si espose intorno alla clientela, nel Lib. I, Cap. III, § 3º, pag. 46 a 52. (2) Tale è l'opinione del Willems, Le droit public romain, pag. 46 e seg. e del PADELLETTI, Storia del diritto romano, pag. 48 e seg., nota 2. Il prof. COGLIOLO nella sua nota nº d, pag. 50, non approva intieramente l'opinione del Padelletti. 347 il sito di riunione pei quirites, per i gentiles, per i viri, il cui potere è simboleggiato dalla lancia, e non possono in nessun modo essere state aperte a quelli, che nell'organizzazione gentilizia trovinsi in condizione subordinata, anche per il semplice motivo, che, quando così fosse stato, il numero dei clienti, i quali avrebbero pur essi avuta parità di voto, avrebbe di gran lunga soverchiato quello dei patroni. Pud darsi che in occasione di guerra anche i gentilicii seguano il loro patrono, ma i medesimi dipendono ancora più dal cenno di esso, di quello che dipendano direttamente dallo Stato. Sarebbe in fatti strano ed incomprensibile, che quelli, che non possono ancora stare in giudizio, potessero concorrere direttamente alla elezione del re ed alla votazione delle leggi, e giudicare di coloro, che abbiano interposto appello al popolo. Sarà soltanto la costituzione Serviana, che, ponendo il censo a base della partecipazione ai ca richi civili e militari, obbligherà i padri delle genti a fare conces sioni di terre in proprietà ai propri clienti, per avere cosi un ap poggio nelle votazioni dei comizii centuriati, ed è da quest'epoca che cominciano a sentirsi le lagnanze dei plebei, perchè i padri appoggiati dai loro clienti riescono a dominare le votazioni nei co mizii centuriati (1). In questo senso la costituzione Serviana fu quella, che diede il gran colpo alla clientela, e con essa alla organizzazione gentilizia, perchè da quel momento anche i padri furono tenuti a fare concessioni di terre in proprietà ai proprii clienti, i quali acqui starono così una indipendenza economica dai patroni, che fu anche il principio della loro indipendenza politica; donde la conseguenza chemolti fra essi sono poi venuti ad allargare anche le file della plebe e ad appoggiare le pretensioni di essa. 284. Intanto peró la questione, la cui risoluzione è assolutamente indispensabile per comprendere la storia politica e giuridica di Roma primitiva, è quella relativa alla condizione giuridica della plebe sotto i primi re, così sotto l'aspetto del diritto pubblico, che sotto quello del diritto privato. Il grande avvenire della plebe romana rese per gli storici di Roma assai difficile il comprendere, come quell'elemento, che ai tempi (1) Che le lagnanze dei plebei contro i clienti, per la preponderanza, che essi re cavano al patriziato, si riferiscano ai comizii centuriati, appare dal seguente passo di Livo, II, 64: « irata plebs inesse consularibus comitiis noluit; per patres, clien tesque patrum consules creati sunt Titus Quintius et P. Servilius ». 348 - loro era ormai divenuto il dominatore della piazza e del foro, po tesse, nelle origini, essere affatto escluso dal suffragio. Ond'è che essi, trovando ai loro tempi la plebe ammessa in parte agli stessi comizii curiati, e compresa nel populus, e una parte di essa anche pervenuta alla nobiltà potevano difficilmente riuscire colla mente loro a ricostruire quella primitiva distinzione fra populus e plebes, che ormai era scomparsa. Essi quindi parlarono nel loro racconto deglian tichi comizii curiati, come se essi avessero compreso tutto il populus, quale allora era costituito, cioè inchiudendovi anche la plebs. Tuttavia, malgrado quest'attestazione concorde, dubitarono i critici moderni, e quelli sopratutto, che al pari del Vico e del Niebhur, ave vano penetrato più profondamente l'indole e il carattere primitivo della città patrizia. La loro opinione trovò favorevole accoglimento; ma in questi ultimi tempi, essendosi dal Mommsen trovato, che vi fu un tempo, in cui dei plebei furono elevati alla dignità di curiones maximi, sorse nuovamente il dubbio, che la plebe abbia potuto essere am messa anche alle curie. Che anzi, siccome mancava notizia di una legge, che avesse proclamata quest'ammessione, vi furono anche degli autori, i quali, come il Paddelletti, giunsero a sostenere, che questa ammessione dovesse risalire fino agli inizii della città. Conviene però aggiungere, che gli autori, i quali direcente investigarono sulle fonti le origini della città, come il Voigt, il Karlowa, il Bernöft, il Pantaleoni, il Muirhead, il Gentile, ritornarono di nuovo al concetto di una città esclusivamente patrizia, ed alla esclusione della plebe primitiva dal far parte dell'assemblea delle curie (1). 285. Non è qui il caso di entrare in discussioni erudite sull'argo (1) L'opinione sostenuta dal PADELLETTI è anche seguita dal WILLEMS, Op. cit., pag. 47 e segg.; dal LANDUCCI, Storia del diritto romano, pag. 357, nota nº 2; dal Peluam, Encyclop. Britann., vol. XX, pº Rome (ancient), i quali però non entrano nella discussione degli argomenti in pro e in contro. Quanto al PADELLETTI debbo far notare, che se la sua autorità è grande quanto al periodo storico, non può dirsi altrettanto quanto al periodo delle origini, e ciò perchè l'autore, fin dagli inizii dell'opera, col suo solito fare reciso ed alieno dalle dubbiezze, afferma e che lo studio delle origini può essere interessantissimo ed utile al mitologo ed allo storico, ma è molto sterile per il giurisprudente » (pag. 4 ). Ciò spiega come l'autore, essendosi accinto all'opera sua con un tale concetto dello studio delle origini, sia caduto in gravi equivoci, ogniqualvolta toccò quell'argomento, come può scorgersi quanto alle origini della famiglia, della proprietà, dei delitti e delle pene, ed al sistema delle azioni. Nell'o pera sua il diritto romano compare bello e formato, senza che si sappia, donde pro ceda. Ciò comprese il suo annotatore Cogliolo, che intese a supplirvi colle proprie note. 349 mento; mibasterà il dire, che se si tenga conto del processo, che do minò la formazione della comunanza romana, è del tutto improbabile, che la plebs abbia potuto essere ammessa, fin dagli inizii, alla civitas e quindi anche alle curiae, le quali erano una ripartizione della me desima. I cambiamenti sono troppo lenti nelle organizzazioni primitive, perchè un elemento, che trovavasi in una condizione del tutto infe riore, potesse di un tratto, e fin dal tempo, in cui era ancora debole e privo di qualsiasi organizzazione, essere ammesso a far parte di una nuova consociazione, sovra un piede di uguaglianza, in guisa da entrare a far parte della civitas e della curiae, le quali, oltre al l'essere corporazioni politiche, erano anche corporazioni strette dal vincolo di una religione, chenon era ancora accomunata alla plebe. È affatto improbabile, che quel gentile o patrizio, che è sopratutto altero di poter indicare i suoi antenati, senza che alcuno fra essi fosse mai stato servo nè cliente, potesse diun tratto accettare un voto del tutto eguale con un plebeo, che poteva forse essere stato prima suo cliente o suo servo, e che ad ognimodo era di un'origine diversa dalla sua, e non poteva indicare i propri antenati. Ciò ripugna al modo di pen sare delle genti primitive, che non conoscendo altro vincolo, che quello del sangue, dånno sopratutto importanza alle discendenza ed alla nascita. Sarebbe strano, che quei patrizii, i quali, allorchè più tardi accoglievano nuove genti, le collocavano fra le gentes mi nores, potessero concepire un pareggiamento completo del loro ordine colla moltitudine o folla, da cui si trovavano circondati. Questa pa rità, secondo il modo di pensare dell'epoca, nè poteva essere am messa dal patriziato, nè poteva essere chiesta dalla plebe, la quale trovavasi ancora in condizione troppo umile per potervi aspirare; nè è a credersi, che il patriziato primitivo, fondatore della città, volesse per generosità accordare spontaneamente cid, che era ancora in condizione di negare, e che non concesse, che quando vi fu compiutamente forzato. Ciò è tanto più improbabile, in quanto che la curia, come abbiamo dimostrato a suo tempo, era chiamata eziandio a deliberare sopra una quantità di affari, che si riferivano direttamente all'organizzazione domestica e gentilizia loro esclusivamente propria; poichè il quirite in questo periodo da una parte guarda ancora alla gente, da cui esce, e dall'altra alla città, di cui entra a far parte. 286. Quanto al fatto, che più tardi i plebei, almeno in parte, siano 350 anche stati ammessi alle curie, esso può essere facilmente spie gato. La lunga convivenza nelle stesse mura, e nello stesso esercito ravvicinò i due elementi; anche i plebei vennero imitando l'or ganizzazione del patriziato; e non mancarono anche le famiglie, che, pur essendo di origine plebea, poterono, per importanza politica, eco nomica e per servigii resi alla repubblica, stare a fronte anche delle poche famiglie, originariamente patrizie. Quindi al modo stesso, che più tardi anche i patrizii poterono entrare a far parte dei comisii tributi; cosi non è meraviglia, se anche la plebe, ormai ammessa agli onori, agli auspicii ed ai sacerdozii, abbia potcui esce, e dall'altra alla città, di cui entra a far parte. 286. Quanto al fatto, che più tardi i plebei, almeno in parte, siano 350 anche stati ammessi alle curie, esso può essere facilmente spie gato. La lunga convivenza nelle stesse mura, e nello stesso esercito ravvicinò i due elementi; anche i plebei vennero imitando l'or ganizzazione del patriziato; e non mancarono anche le famiglie, che, pur essendo di origine plebea, poterono, per importanza politica, eco nomica e per servigii resi alla repubblica, stare a fronte anche delle poche famiglie, originariamente patrizie. Quindi al modo stesso, che più tardi anche i patrizii poterono entrare a far parte dei comisii tributi; cosi non è meraviglia, se anche la plebe, ormai ammessa agli onori, agli auspicii ed ai sacerdozii, abbia potuto essere am messa anche alle curie, la cui importanza non era più che religiosa. Un tal fatto venne certo ad essere possibile più tardi; ma l'ammet terlo fin dagli inizii, è uno sconvolgere ed invertire ilmodo di pensare dell'epoca e l'ordine degli avvenimenti. Sarebbe infatti un fare co minciare l'unione del patriziato e della plebe dal partecipare ad una stessa corporazione religiosa; mentre i fatti dimostrano, che questa fu l'ultima parte delle loro tradizioni, che si decisero ad accomunare alla plebe. Se quindi la plebe riuscì a penetrare nella civitas ciò non dovette essere mediante le curiae, che avevano ancora un ca rattere religioso, ed erano formate ex hominum generibus; ma bensi per mezzo delle classi e delle centurie, che avevano piuttosto un carattere militare, e si fondavano sulla proprietà e sul censo. Le cause, che cooperarono più tardi a ravvicinare i due ordini, furono sopratutto i comuni pericoli, che obbligarono la città patrizia ad arruolare nell'esercito i plebei, al modo stesso che dovette arruolare più tardi anche i liberti; come pure vi cooperarono la proprietà, che fu pure acquistata dalla plebe ed i conseguenti commerci, che ne deri varono fra essa e il patriziato; ed è forse questo il motivo, per cui la costituzione Serviana assunse dapprima un carattere militare ed eco nomico ad un tempo. Quanto al fatto allegato dai sostenitori del l'opinione contraria, che il vocabolo populus romanus quiritium abbia più tardi compresa eziandio la plebe, esso può essere facilmente spiegato, in quanto non è questo il solo caso, in cui i Romani, man tenendo la parola, ne mutassero il significato. Del resto il vocabolo populus per Roma era una concezione e forma logica, al pari di tutte le altre concezioni giuridiche e politiche; esso comprendeva l'uni versalità dei cittadini, e quindi, come era naturale, che non com prendesse la plebe, finchè questa non faceva parte della città, cosi doveva comprenderla, allorchè essa, in base al censo, entrò a far parte delle classi e delle centurie Serviane. 351 287. Ferma così la risoluzione delmaggior problema della storia primitiva di Roma, solo resta a ricercare brevemente, quale potesse in questo periodo essere la posizione della plebe in tema di diritto privato; il qual compito ci è reso facile da ciò, che si venne fin qui ragionando. È noto, come il ius quiritium, allorchè giunse al suo completo sviluppo, mentre in tema di diritto pubblico comprendeva il ius suf fragii e il ius honorum, che entrambi, a nostro avviso, furono dapprima negati alla plebe, in tema invece di diritto privato si rias sumeva nel ius connubii e nel ius commercii. Quanto al primo di questi diritti, abbiamo troppi argomenti nella storia per affermare con certezza, che solo più tardi i plebei furono ammessi al ius connubii col patriziato; il che però non significa, che essi non potessero contrarre fra loro delle unionimatrimoniali, ma soltanto che queste unioni non potevano, di fronte al patriziato, produrre gli effetti della iustae nuptiae. L'opinione quindi, che suol essere comunemente accolta, è quella secondo cui la plebe sarebbe in questo periodo stata ammessa al solo ius commercii (1). Così avrei ritenuto ancioni non potevano, di fronte al patriziato, produrre gli effetti della iustae nuptiae. L'opinione quindi, che suol essere comunemente accolta, è quella secondo cui la plebe sarebbe in questo periodo stata ammessa al solo ius commercii (1). Così avrei ritenuto anch'io nell'inizio di questo studio, e può darsi che nel corso del libro cid apparisca in qualche parte; ma ora il processo logico, che domind la formazione del diritto romano, in mancanza di ogni informazione diretta, mi conduce ad affermare, che non dovette essere il ius commercii, che la città patrizia riconobbe alla plebe circostante, ma bensì il ius neximancipiique, il quale, come si è veduto più sopra, è quello stesso diritto, che Roma, dopo es sersi incorporata la primitiva plebe, ebbe ad accordare alle altre popolazioni circostanti, che vengono sotto il nome di forcti ac sa crates. Anche il concetto di commercium, nella larga significazione che ebbe pei Romani, in guisa da comprendere il diritto di comprare e di vendere, di obbligarsi e di fare testamento ex iure quiritium, suppone una certa parità di condizione fra le persone, fra cui in tercede. Siccome quindi le genti patrizie erano per modo organizzate da provedere compiutamente ai loro bisogni: così non poteva dap prima essere il caso, che riconoscessero ad una classe inferiore un ius commercii, sopra un piede di eguaglianza, ma loro dovettero riconoscere soltanto il diritto del mancipium, ossia quello di avere una proprietà, che poteva essere alienata, e il ius nexi, ossia il di (1) Tale è, ad esempio, l'opinione del LANGE, Histoir. intér. de Rome, I, pag. 61. 352 ritto di potersi obbligare, mediante il nexum. Le conseguenze pra: tiche nella sostanza potevano essere le stesse; ma intanto la supe riorità delle genti e il vassallaggio della plebe venivano ad essere riconosciute. Ed è questo il motivo, che allorquando la plebe fu ammessa nella città, il nexum ed il mancipium, come accadde anche in tutto il resto, cessarono di significare dei rapporti fra le genti patrizie e la plebe, che le circondava, per diventare rapporti interni, e costituirono cosi i primi concetti quiritarii, comuni alle due classi. Più tardi però, anche questi vocaboli, che ricordavano una disugua glianza di condizione fra le due classi, apparvero disadatti, e nella successiva elaborazione del diritto quiritario furono sostituiti da altri (1). Non può dirsi pertanto, che in questo periodo siasi già cominciata l'elaborazione di un vero ius civile, ispirato ad un concetto di ugua glianza fra patriziato e plebe, ma continua sempre ad esistere un diritto proprio delle genti patrizie, che parteciparono alla formazione della città, e che costituisce il primitivo ius quiritium; ed un di ritto che governa i rapporti fra la città patrizia e la plebe, che la circonda, il quale si risente ancora delle condizioni disuguali, in cui essi si trovano. È questo il motivo, per cui la plebe nelle proprie tradizioni fece sempre rimontare la sua esistenza giuridica alla costi tuzione Serviana; colla quale lo sviluppo del diritto pubblico e privato di Roma prende un indirizzo del tutto peculiare, che influi potente mente su tutto lo svolgimento, che ebbe ad avverarsi più tardi, e merita perciò di essere particolarmente e profondamente studiato. (1) Non mi trattengo più a lungo su questo punto, perchè ho già dovuto accen narvi nel Lib. I, Cap. X, nº 160, pag. 193 e seg., e perchè la prova delle cose qui enunziate apparirà anche più evidente, quando si tratterà della costituzione Ser viana e della sua influenza sul diritto privato di Roma. Colla venuta dei Tarquinii a Roma, si inizia nella medesima una trasformazione profonda, la quale potè in parte essere travisata dalle tradizioni e dalle leggende, ed anche dissimulata dall'amor patrio degli storici latini, ma i cui principali tratti si possono di scernere nelle serie degli avvenimenti e dei fatti, di cui ci fu con servata memoria. Fino a quell'epoca, delle varie stirpi, che erano concorse a co stituire la città, avevano sempre avuta una incontrastabile prevalenza le latine e le sabine, fra le quali erasi venuto alternando il ma gistrato supremo; mentre i Luceres non avevano somministrato alcun re, nè forse avevano avuto nella formazione dei primitivi sacerdozii. Or bene, regnando Anco Marzio, di origine latina, la gente Tarquinia, di origine etrusca, ricca di capitali e numerosa per clientele, viene a porre la propria sede in Roma, per conseguirvi quello stato, che le era conteso nel luogo nativo (Tarquinia ). Il capo di essa è uomo abile ed intraprendente, e dopo aver consi gliato in vita Anco Marzio, ne guadagna per modo la fiducia, da diventare dopo la sua morte tutore dei figli di lui, o ottiene in breve colle sue ricchezze e collo splendore della propria vita tale un seguito, da essere assunto al trono, mediante il suffragio del G. Carle, Le origini del diritto di Roma. 23 354 popolo e coll'autorità dei padri: « eum, scrive Livio, ingenti con sensu populus romanus regnare iussit » (1). Nè sembra essere il caso di supporre col dottissimo OldofredoMüller, che questa immigrazione di genti etrusche corrisponda alla supre mazia, che la città di Tarquinia avrebbe conquistata su Roma, su premazia, che gli storici latini avrebbero cercato di dissimulare (2 ): poichè le nuove genti appariscono in concordia con tutti gli ordini della città, e il capo di esse, chiamato con tutte le formalità al trono, raccoglie in effetto tutte le sue cure sulla patria novella, e l'arricchisce di pubblici edifizii, che allo splendore delle costruzioni greche ed etrusche sembrano associare quel carattere di grandiosità e di forza, che è proprio delle costruzioni latine. Sembra quindi più verosimile, che alcune fra le città etrusche in quell'epoca fossero pervenute a quel periodo di crisi, che occorre eziandio nelle città greche, durante il quale, sorgendo lotta di superiorità e di predo minio fra i capi delle grandi famiglie, vengono ad esservene di quelle, che sono forzate a cercare altrove miglior sorte e fortuna. Per un tale intento offerivasi opportuna la città di Roma, la quale in quel periodo di tempo era ancora disposta ad accogliere nuove genti nei proprii quadri, e mentre da una parte, per la fortezza già sperimentata dei proprii abitanti, poteva aspirare ad un grande avvenire, dall'altra aveva ancora molto ad apprendere, sia quanto allo splendore dei pubblici edifizii, sia quanto all'ordinamento mi litare e civile. Di più essa già conteneva nel proprio seno delle genti di origine etrusca, cosicchè la nuova immigrazione poteva avervi parentele ed aderenze, che spiegano l'appoggio e il seguito, che vi trovarono in breve la gente Tarquinia e il proprio capo (3). 289. Questo è certo ad ogni modo, che in Roma si manifestano ben tosto i segni di una trasformazione potente. - Infatti, secondo la tradizione, la sua popolazione viene ad essere come raddoppiata, ed il nuovo elemento sembra dare alla città un indirizzo mercantile, come lo dimostra il fatto, che dopo la dominazione dei Tarquinii (1) Liv., 1, 34; Dion., IV, 2. (2 ) Müller O., Die Etrusker. Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costituz.di Roma, pag. 134, ove si impugna appunto l'opinione del Müller. (3) L'opinione qui accettata è conforme a quella, che ho cercato didimostrare più sopra, relativamente agli aumenti nel numero dei senatori. Lib. II, cap. II, § 5, nn. 212 e 213, pag. 258 e segg. 355 Roma è già in condizione di conchiudere, anche come rappresen tante del Lazio, un trattato di navigazione con Cartagine (1). Mentre poi fino a quell'epoca Roma aveva ancor sempre conser vato il suo carattere primitivo di federazione fra diverse comunanze, con Tarquinio invece sembra iniziarsi il periodo, che potrebbe chia marsi di incorporazione. Narra infatti Livio, che Tarquinio avrebbe distribuito spazi intorno al foro, accið i privati vi potessero costruire le proprie abitazioni, e che in lui era già sorto il pensiero di cin gere la città di mura, adottando così il tipo delle città etrusche, le quali, essendo dedite ai commerci, solevano chiudersi e fortificarsi nelle proprie mura (2 ). A compir l'opera sarebbesi richiesto, che i quadri della città pri mitiva fossero modificati, e che alle divisioni di carattere gentilizio se ne sostituissero altre di carattere territoriale e locale. Cid secondo la tradizione avrebbe pur tentato Tarquinio, quando non si fosse op posto il patriziato per mezzo dell'augure sabino Atto Nevio, osser vando che la primitiva città erasi fondata mediante gli auspicii, e che perciò i quadri di essa consacrati dalla religione dovevano essere mantenuti (3). Non vi fu quindi altro mezzo che di fare entrare il nuovo elemento nei quadri antichi, il che Tarquinio avrebbe cercato di conseguire: lº aggiungendo alle centurie dei cavalieri, altre centurie, che serbarono il nome antico, ma presero la deno minazione di Ramnenses, Titienses, e Luceres secundi; 2º ac crescendo il senato di cento nuovi senatori, che si chiamarono patres minorum gentium; 3º raddoppiando il numero dei pontefici e degli auguri, e destinando anche alla custodia ed alla interpretazione dei libri sibillini i duoviri sacris faciundis, i quali, portati poscia a dieci e più tardi a quindici, finirono per cambiarsi in un collegio sacerdotale, che sovraintendeva și culti di provenienza straniera (4 ). (1) La memoria di questo trattato di navigazione, conchiuso nel primo anno della Repubblica, ci fu serbata da POLIBIO, III, 22, 24, il quale l'avrebbe tradotto da un latino arcaico, che ai suoi tempi era già diventato difficile a comprendersi. (2) Liv., I, 35, 36, 38. Egli anzi attribuisce a Tarquinio di aver già intrapresa la cinta, che prese poi il nome di Serviana. (3 ) Liv., I, 36; Dion., III, 70, 72. (4 ) Dron., III, 67; IV, 62. L'istituzione dei duoviri sacris faciundis ora è attri buita a Tarquinio Prisco ed ora a Tarquinio il Superbo. Quanto allo svolgimento storico di questo collegio sacerdotale è da vedersi il Bouché-LECLERCQ, Histoire de la divination, Paris, 1882, IV, pagg. 286-317, come pure il Manuel des institu tions romaines, Paris, 1886, pag. 545 e segg. 356 Intanto anche la religione subì l'influenza del nuovo elemento, ma in proposito fu giustamente osservato, che la religione, importata da questa immigrazione etrusca, non ha quel carattere misterioso ed arcano, che vuole essere attribuito ai riti etruschi, ma si risente invece dell'influenza greca, come lo prova la triade capitolina di Giove, Minerva e Giunone (1); il che sembrerebbe confermare, che i Tarquinii, pur venendo da una città etrusca, potessero remotamente provenire da una città greca, che secondo la tradizione sarebbe stata Corinto (2 ). Della plebe quasi non si occupa la tradizione; ma si può affer mare con certezza che come le immigrazioni latine avevano ac cresciuta la plebe rurale, dedita alla coltura delle terre, così quella etrusca dovette trascinare con sè un grande numero di artieri, di commercianti, di uomini esperti nell'arte della costruzione, che con corse ad accrescere la plebe urbana (3). Intanto si accrebbero i mo tivi di ravvicinamento fra patriziato e plebe, poichè la plebe del con tado era divenuta un elemento indispensabile per rafforzare l'esercito, e la cooperazione della plebe urbana era anch'essa necessaria per compiere quelle opere pubbliche grandiose, che sono la caratteri stica di questo periodo della storia di Roma, e che erano natural mente richieste dall'ingrandirsi della città e dal nuovo indirizzo preso dalla medesima. 290. Le cose quindi erano venute a tale, che coll'ampliarsi della città, anche i quadri del populus dovevano essere allargati in guisa da potervi comprendere quella parte della plebe, che ormai per venuta a qualche agiatezza, ed affezionata al suolo da esso col tivato, poteva avere interesse all'incremento e alla difesa della città. Fu questa l'opera, che la tradizione ha attribuito a Servio Tullio; altro re, che appare come trasfigurato dalla leggenda, la quale probabilmente ha finito anche qui per attribuire all'opera di un solo ciò che ha dovuto essere l'effetto del concorso di varii elementi, e delle nuove energie e forze operose, che vennero a (1) Questa osservazione è del PANTALEONI, op. cit., p. 149. (2) È noto che, secondo Livio I, 34, Tarquinio Prisco, pur provenendo diretta mente da Tarquinia, sarebbe tuttavia figlio di un Demarato Corinzio. (3 ) Quanto all'incremento della plebe sotto il regno del primo Tarquinio, è da ve dersi Herzog, Geschichte und System der römischen Staatsverfassung. Leipzig, 1884, I, pag. 32 e segg. 357 scaturire dal nuovo stato di cose e dal nuovo indirizzo, che veniva prendendo la città di Roma. È dubbia la origine di Servio Tullio: mentre la tradizione latina, unitamente al carattere della sua riforma, che appare più una evoluzione che una rivoluzione, lo la scierebbero credere di origine latina, una tradizione invece, che vigeva presso gli Etruschi, e che ci fu conservata dall'imperatore Claudio nel preambolo ad un senatusconsulto, lo direbbe di origine etrusca, e gli attribuirebbe il nome di Mastarna (1). Tutta l'antichità ad ognimodo è concorde nel riconoscere l'impor tanza della sua costituzione, poichè è certo che, debbasi ciò attribuire alla sapienza del principe autore di essa, o alla tenacità del popolo che ebbe a svolgerla, essa corrisponde a un graduato sviluppo e segna comeun nuovo stadio nella formazione della città. Essa chiude il pe riodo esclusivamente patrizio, in cui domina ancora la discendenza e la nascita, ed inizia quello patrizio -plebeo, in cui i due ordini, dopo essere entrati a far parte del medesimo popolo, sulla base del censo, finiscono per avviarsi fra le lotte ed i dissidii al pareggia mento giuridico e politico. Può darsi, che anche altre città abbiano avuta una costituzione analoga, come, ad esempio, Atene per opera di Solone (2 ); ma non ve ne ha certamente un'altra, che per la tenacità e la perseveranza degli ordini, che si trovarono di fronte, abbia saputo ricavarne un più sicuro e graduato sviluppo. Ben è vero, che anche per Roma vi fu un periodo, in cui l'evo luzione è stata interrotta da un tentativo di tirannide; ma nel resi stervi tutti gli ordini furono concordi, e il rimedio fu estremo, quello cioè di cacciare dalla città l'elemento, che ne aveva poste a repen (1) L'oratio, che precede il senatusconsulto Claudiano dell'anno 48 dell'êra vol gare de iure honorum Gallis dando può vedersi nel Bkuns, Fontes, ed. V, p. 177. Ivi l'erudito imperatore, volendo accogliere nel senato anche dei Galli, fa la storia degli elementi, che Roma avrebbe assorbito nei suoi varii stadii, e trova così occa sione di accennare alle due tradizioni relative a Servio Tullio, di cui una lo farebbe nascere da una prigioniera di nome Ocresia, mentre l'altra lo direbbe di origine etrusca. Le diverse opinioni degli eruditi sulla fede, che merita il racconto di Claudio, e la conferma indiretta, che esso avrebbe ricevuto da alcune recenti scoperte archeologiche, sono riportate dal Bonghs, Storia di Roma, I, pag. 201, nota 14. (2) Quanto alle analogie fra la costituzione di Solone e quella Serviana e fra le condizioni storiche, che poterono determinare l'una e l'altra, è sempre a consultarsi il GROTE, Histoire de la Grèce. Trad. De Sadous, Paris, 1865, tome IV, chap. 4me, pag. 137 a 216, come pure l'appendice allo stesso capitolo, in cui discorre della con dizione dei nexi e degli addicti in Roma antica. - 358 al taglio le libere istituzioni, malgrado le difficoltà gravissime, in cui venne allora a trovarsi la città. L'interruzione però non impedì che, superata la crisi, lo svolgimento storico fosse ripreso punto stesso, a cui erasi arrestato, cosicchè lo spirito della costituzione serviana pervade non solo l'elaborazione del diritto pubblico, ma ancora quella del privato. Fu il non averne tenuto conto sufficiente che, a mio avviso, ha impedito di dare una spiegazione plausibile dei più singolari caratteri del diritto primitivo di Roma. § 2. – Il concetto ispiratore della riforma Serviana eimezzi che servirono ad attuarla. 291. Fu abbastanza dimostrato, che la formazione della città pri mitiva non è un'opera di semplice agglomerazione, che piglia i ma teriali quali si presentano e li amalgama confusamente insieme; ma un'opera di selezione, che solo li accetta in quanto entrano nel suo ordinamento simmetrico e coerente; donde la conseguenza, che se un mutamento si introduce in una parte essenziale di essa, questo deve pur riflettersi e riverberarsi nelle altre parti. Ciò apparve nella città patrizia, e appare ugualmente nella costituzione serviana. Il problema era quello di unire due popolazioni, che si trovavano, come si è veduto, in condizioni sociali compiutamente diverse, e di farle entrare a far parte della stessa comunanza civile, politica e militare. Il fonderle insieme era per il momento impossibile, perchè la distanza fra di loro. era ancora troppo grande, e certi istituti, come la religione e i connubii, erano ancora troppo gelosamente custoditi per poter essere accomunati. Le sole istituzioni, comuni ai due ordini, erano la proprietà e la famiglia, e il solo inte resse, che li aveva condotti ad avvicinarsi, era quello di prov vedere insieme alla difesa di sè e delle proprie terre. Queste sol tanto potevano essere le basi della loro partecipazione alla medesima città: quindi è che la costituzione serviana, sebbene allarghi le file del populus, comprendendovi un elemento, che era escluso dalla città patrizia, finisce però per dare una base più ristretta alla par tecipazione dei due ordini alla stessa comunanza civile e politica. Mentre il popolo delle curie aveva comune l'elemento religioso, l'organizzazione gentilizia, e il culto per le antiche tradizioni; il popolo invece, che esce dalla costituzione di Servio, viene ad essere composto di capi di famiglia e di proprietari di terre, che entrano 359 a far parte del medesimo esercito, e più tardi anche della medesima assemblea, in base alla sola considerazione del censo, e nell'intento esclusivo di provvedere alla difesa di quegli interessi, che loro potevano essere comuni. La nuova comunanza pud in certo modo essere paragonata ad una società, in cui ciascuno viene ad aver diritti ed obbligazioni proporzionate al proprio censo, il quale viene così ad essere considerato come una garanzia dell'interesse, che altri può avere all'avvenire e alla grandezza della città (1). Il nuovo popolo pertanto non ha nulla a fare colle curie dei patrizii, ai quali continuano ad essere riservati gli auspizii, i sacerdozii, le magistrature e gli onori; ma viene ad assumere negli inizii una organizzazione di carattere essenzialmente militare, in cui la parte cipazione ai diritti e alle obbligazioni della cittadinanza sotto l'aspetto militare, politico e tributario viene ad essere determinata esclusiva mente dal censo. In apparenza quindi l'organizzazione per curie delle genti patrizie è lasciata integra ed intatta; ma intanto a lato della medesima sorge un nucleo novello, che per essere più numeroso e più forte finirà per richiamare in sè ogni energia civile, politica e militare, lasciando col tempo alle curie la sola custodia delle tradi zioni e dei culti gentilizii. 292. È questo il motivo, per cui la costituzione serviana potè essere apprezzata in guisa compiutamente diversa, anche dagli an tichi scrittori, i quali la descrivono, ora come favorevole al patri ziato o almeno alle classi più elevate, ed ora invece come favorevole alla plebe (2). Essa era tale, che da una parte doveva essere accetta al patriziato, il quale, mentre riteneva ciò, che era esclusivamente suo proprio, trovava poi più forte il proprio esercito, più ricco il proprio erario, più ampia la città, di cui continuava ad avere le magistrature e gli onori; dall'altra doveva anche essere gradita alla plebe, perchè essa, ancorchè sulla base esclusiva del censo, veniva (1) Che questo fosse il concetto informatore della costituzione serviana appare da Aulo Gellio, XVI, cap. 10, n ° 11, il quale dice espressamente che « res pecuniaque « familiaris obsidis vicem pignorisque esse apud rempublicam videbatur, amorisque « in patriam fides quaedam in ea, firmamentumque erat ». Il paragone poi della comunanza quiritaria, in base alla costituzione serviana, ad una società di azionisti già occorre nel NIEBHUR, Histoire romaine, II, p. 193. (2 ) Il diverso apprezzamento,che gli antichi fecero della riforma serviana, apparisce da Cic., De rep., II, 22; Liv., 1, 42, 43; Dion., IV, 20. Cfr. in proposito il Bonghi, op. cit., I, pag. 548 e segg. 360 ad acquistare una posizione giuridica, che prima non aveva, ed è abbastanza noto, che quando trattasi di un'aggregazione sociale, il passo più difficile è quello di potervi penetrare, poichè dopo la forza stessa delle cose condurrà ad avervi una posizione adeguata al pro prio valore. Questo è certo, per quanto appare dalla tradizione, che i due ordini sembrano essere concordi nell'accettare la costituzione di Servio Tullio, per guisa che ad opera compiuta gli riconoscono re golarmente quel potere, che prima aveva esercitato più di fatto, che non di diritto; tantoque consensu, quanto haud quisquam alius ante, rex est declaratus (1). Intanto la nuova costituzione appare informata anche essa ad un unico concetto, che è quello di dare a ciascuno nella città una parte proporzionata all'interesse, che egli può avere per l'incremento della medesima: interesse, che si ritiene dover essere misurato dal censo. Quest' unico concetto poi viene incarnandosi nel fatto con mezzi e con istituzioni diverse, fra i quali sono sopratutto importanti e degni di nota l'ampliamento delle mura, la ripartizione del territorio in tribù o regioni locali, l'istituzione del censo e l'organizzazione del nuovo popolo in classi ed in centurie; istituti questi, che abbozzati negli inizii da mano maestra, dovranno poi ricevere dalla logica tenace del popolo romano tutto lo sviluppo, di cui possono essere capaci. 293. Coll’ampliamento delle mura la città, che prima riducevasi ad un complesso di edifizii, aventi pubblica destinazione e riuniti in un piccolo spazio, a cui mettevano capo le varie comunanze, viene a comprendere nella propria cerchia buona parte di tali comunanze, le loro rispettive fortezze, ed una quantità grande di abitazioni pri vate. Cresce così il nucleo della popolazione urbana di fronte a quella del contado; il contatto fra il patriziato e la plebe diviene più intimo e frequente, e la vita della città concorre così a dissol vere quell'ordinamento per genti e per clientele, che forse sarebbesi mantenuto stazionario o almeno più duraturo in seno alle comunanze di villaggio. La città intanto, chiusa e fortificata nelle proprie mura, difesa da un esercito, il cui contingente viene ad essere più volte moltiplicato, abitata da un popolo pressochè militarmente organizzato, assume anch'essa un carattere più decisamente militare e apparisce (1) Liv., I, 46. 361 paurosa ed imponente alle popolazioni vicine (1). Così pure è da questo momento, che la vita fra le stesse mura conduce a mescolare e a confondere il sangue delle varie stirpi, fino a che per mezzo di re ciproci adattamenti finiranno tutte per concorrere a formare un or ganismo unico e coerente (2). Quasi poi si direbbe, che i fondatori della nuova città abbiano una certa consapevolezza dell'avvenire di essa; poichè il nuovo circuito comprende non solo il Palatino, il Capitolino, il Quirinale, il Celio, il Gianicolo, ma anche l'Esquilino e il Viminale, alcuni fra i quali sono ancora spopolati (3 ); cosicchè il pomoerium della città non dovette più essere ampliato, durante il periodo repubblicano, malgrado gli incrementi, che si verificarono nella popolazione. A questo riguardo vuolsi però osservare, che sebbene la città dal tipo latino sembri far passaggio al tipo etrusco, tuttavia essa au menta bensi il suo nucleo centrale, ma serba ancor sempre i ca ratteri primitivi della città latina. Infatti non tutta la sua popola zione viene ad essere accolta nelle sue mura, ma buona parte di essa continua ad essere dispersa per le campagne e fuori delle mura; cosicchè la città continua sempre ad essere un centro di vita pub blica per popolazioni, che possono avere altrove la propria resi denza. Cosi pure in tutta questa trasformazione punto non parlasi di nuove ripartizioni di terre, se si eccettuano i soliti assegni, che per consuetudine invalsa i re sogliono fare alla plebe; il che si gnifica che le famiglie, le genti e le tribù dovettero continuare a ritenere le proprie terre (4 ). 294. Intanto è evidente, che in una città cosi concepita diveniva necessario, che all'antica distinzione fondata sull'origine e sulla discen (1 ) L'intento eminentemente militare della cinta serviana è dimostrato anche dal fatto, che gli intelligenti delle cose militari ritengono che dall'orientamento di essa si possa perfino argomentare alla situazione delle porte in essa esistenti. V. BARAT TIERI, Sulle fortificazioni di Roma antica, « Nuova Antologia », 1887, fascic. 10. (2 ) Questo concetto trovasi efficacemente espresso da Floro nel passo citato al lib. I, cap. I, nº 10, pag. 10, nota 1. (3) MIDDLETON, Ancient Rome, pag. 59 e segg. « L'ampliamento delle mura, scrive NIEBIUR, fu il pensiero di un genio, che confidava nella eternità e negli alti destini della città, e che aperse la via ai suoi futuri progressi o. Op. cit., II, 123. (4 ) Questi assegni fatti da Servio Tullio alla plebe sono attestati da Livio, I, 46, più chiaramente ancora da Dionisio, IV, 9, allorchè scrive: « agrum publicum di « visit civibus romanis, qui ob rei domesticae difficultates aliis, mercedis causa, ser viebant ». e 362 denza si aggiungesse una nuova ripartizione di carattere locale e ter ritoriale, la quale potesse anche essere di base per constatare la po polazione, che vi avesse la propria residenza, e per fissare il tributo, a cui dovesse essere soggetta (tributum ex censu ). Cid si ottenne col ri partire il territorio in tribù o regioni locali, le quali si suddivisero poi in rustiche ed urbane. Le urbane sono quattro e prendono senz'altro il nome dalle località, e chiamansi così Suburana, Esquilina, Collina e Palatina: mentre le rustiche continuano per la maggior parte a prendere il nome dalle genti patrizie, quali sarebbero l'Emilia, la Cornelia, la Fabia, la Galeria, l'Orazia, la Menenia, Papiria, Pollia, Sergia, Romilia, Voturia, Voltinia, ed altre; solo eccettuata la tribù Crustumina, che sarebbe stata la prima ad essere denominata dalla località. Cid indica che nel contado continud la prevalenza delle genti, che vi tenevano le loro possessioni. Il numero origi nario delle tribù rustiche non è ben noto, ed anzi, secondo alcuni storici, fra i quali Livio, le tribù rustiche comparirebbero solo più tardi. Questo è certo pero, che la ripartizione, anche del ter ritorio rustico, era una conseguenza del concetto informatore della costituzione serviana, e che il numero delle tribù, dopo le guerre a cui diede occasione la cacciata dei Tarquinii, e forse per la diminuzione del territorio, che ne fu la conseguenza, appare ri dotto a quello di venti. La cooptazione della gente Claudia porto le tribù a vent'una, e da quel punto la storia ricorda tutte le date, in cui la conquista di un nuovo territorio conduce alla for mazione di nuove tribù, fino al numero di trentacinque, che poi si mantenne immutabile (1). Non è già con ciò, che Roma non abbia fatte nuove concessioni di cittadinanza, ma i nuovi cittadini si fecero rientrare nelle antiche tribù, le quali, dopo aver avuto una base locale, si mutarono cosi in altrettanti quadri, a cui poterono essere (1) Mentre Livio, I, 43 attribuisce a Servio Tullio soltanto la ripartizione della città nelle quattro tribù urbane, Dionisio, IV, 15, invocando la testimonianza di Fabio, gli attribuisce eziandio la divisione dell'agro in 26 tribù, cosicchè il numero complessivo delle tribù sarebbe stato di 30. Di qui la difficoltà di spiegare comemai queste tribù negli inizii della Repubblica fossero ridotte al numero di 20 soltanto. Anche oggidi la spiegazione più probabile sembra essere quella data dal Niebhur, secondo cui l'ager romanus avrebbe sofferto la diminuzione di varii pagi o tribus, in seguito alla guerra cogli Etruschi guidati da Porsena. Op. cit., II, 154. Quanto all'epoca, in cui si vennero aggiungendo le altre tribù fino al numero, che poi si mantenne, di 35, sono a vedersi il Willems, Le droit public romain, pag. 34 e segg. e il Morlot, Institutions politiques de Rome, Paris, 1886, p. 71 e segg. 363 ascritti tutti i cittadini romani, senza tener conto della effettiva residenza dei medesimi (1). 295. Sopratutto poi il concetto informatore di tutta la costitu zione serviana fu l'istituzione del censo; poichè è in proporzione del censo, che vengono ad essere determinati i diritti e gli obblighi dei cittadini. Vuolsi però aver presente, che nel censo di Servio Tullio non intervengono tutti gli individui, ma solo i capi di fa miglia, quelli cioè, che per non essere soggetti a potestà altrui possono giuridicamente essere considerati come padri di famiglia, ancorchè in realtà non siano tali. La dichiarazione poi del capo di famiglia deve essere duplice, cioè comprendere tanto le persone quanto le cose, che da lui dipendono; donde provenne la conse guenza, che in questo periodo le persone e le cose, dipendenti dalla stessa potestà, si presentarono come un tutto indistinto, che suol essere indicato coi vocaboli di familia o di mancipium. Il padre di famiglia pertanto, o meglio colui, il quale, per non essere sog getto a potestà altrui, ha diritto di contare per uno nel censo, deve dichiarare anzitutto, ex animi sententia, il suo stato civile, cioè il suo nome, il prenome, il nome del padre o del patrono, la tribù a cui trovasi ascritto, l'età, il nome della moglie, il nome e l'età dei figli. Esso deve dichiarare eziandio il patrimonio, che a lui ap partiene in proprio; non quello cioè, che appartenga alla sua gente, ma quello che è collocato in suo capo, che gli appartiene ex iure quiritium, che fa parte del suo mancipium, il quale in significa zione più ristretta comprende appunto il complesso dei beni, che deb (1) È solo in questo modo, che a parer mio si può risolvere la questione tanto agitata fra gli autori se le tribù di Servio fossero divisioni di territorio, oppure di visioni di persone. Non parmi poi che possa ammettersi l'opinione del NIEBHUR, secondo cui le tribù dapprima non avrebbero compreso che i plebei, e solo dopo il decemvirato avrebbero compreso anche i patrizii (Op. cit., IV, 16 ); poichè il loro stesso nome derivato da quello di genti patrizie ed anche lo scopo della ripartizione del territorio in tribù o sezioni dimostrano ad evidenza il contrario. Che anzi, in base alla narrazione di Dionisio, IV, 15, il re Servio non solo avrebbe diviso il ter ritorio in tribù, ma nei siti montani avrebbe costrutto dei pagi, che dovevano ser vire come luogo di rifugio, e avrebbe obbligato tutti quanti gli abitatori (omnes romanos) a consegnarsi nel censo « addito et urbis tribu et agri pago, ubi singuli habitarent »; il che fa credere, che le tribù rustiche serviane fossero un rimaneggia mento dei pagi, che già prima esistevano nel territorio circostante a Roma. Cfr. il Morlot, op. cit., pag. 57 e seg., ove espone le varie opinioni degli autori intorno al carattere locale o personale delle tribù. 364 bono essere valutati nel censo. Sarà poi in base a questo censo, che sarà designata la classe del popolo, a cui deve appartenere, tanto per sè che per i figli, che abbiano raggiunta l'età di diciasette anni, e verranno cosi ad essere determinati i suoi diritti e le sue obbliga zioni sotto l'aspetto politico, militare e tributario ad un tempo (1 ). 296. Basta questa semplice indicazione per comprendere l'im mensa importanza, che dovette, sopratutto negli esordii, esercitare una istituzione di questa natura sopra il popolo forse più tenace che presenti la storia in quella che il Jhering chiamerebbe la lotta per il diritto. Per la città serviana la formazione del censo ha quella stessa importanza, che ha per una società di carattere mercantile la determinazione del contributo, che altri deve arrecare alla for mazione del capitale sociale, il quale contributo dovrà poi servire di base per la ripartizione dei profitti e delle perdite. Essa costrinse a considerare ogni individuo come un caput, il quale tanto vale quanto è il numero dei figli e l'ammontare delle sostanze, in base a cui egli contribuisce alla comunanza. In essa l'uomo non è solo contato, ma in certo modo è anche pesato, e viene ad essere isolato da ogni altro suo rapporto, per essere considerato esclusivamente sotto il punto di vista delle persone e delle sostanze, che in lui vengono ad unificarsi. Vi ha di più, ed è che la proprietà, che conta nel censo serviano, non è la proprietà gentilizia, che apparteneva al solo pa triziato, ma è la proprietà famigliare e privata, che era la sola, che fosse comune al patriziato ed alla plebe. Di qui la conseguenza, che tutte le altre forme di proprietà vengono di un tratto ad essere lasciate in disparte, cosicchè se le genti patrizie vorranno 284 ' e seg (1) Quanto alle operazioni relative al censo cfr. WILLEMS, op. cit., pag. Per me è sopratutto notabile la circostanza, che il capo di famiglia doveva denun ziare persone e cose, che da lui dipendevano, poichè essa serve a spiegare come i due vocaboli di familia e di mancipium potessero talvolta scambiarsi fra di loro, e as sumessero una significazione così larga da comprendere le persone le cose ad un tempo. Cid non accadeva già, perchè si confondessero persone e cose, ma perchè le une e le altre apparivano nel censo come dipendenti dalla stessa persona. Tale doppia consegna è attestata espressamente da Dion.,. IV, 15, verso il fine. Parmi che in questo modo si possano conciliare le due opinioni contrarie del MARQUARDT, Das privat leben der Römer, pag. 2 e quella del Voigt, Die XII Tafeln, II, pagg. 6 e 83-84, quanto alla significazione primitiva dei vocaboli manus, di mancipium e di familia. Cfr. in proposito il Longo, La mancipatio, Firenze, 1887, pag. 5, nota 8, ed il BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, Roma 1888, pag. 100, nota 1. 365 avere nelle classi l'appoggio dei proprii clienti, dovranno dividere fra essi i proprii agri gentilizii, e fare a ciascuno un'assegno di terra in proprietà quiritaria, che valga a farli ammettere in una delle classi. Da questo momento viene solo più ad essere questione di mancipium o di nec mancipium, perchè è solo il primo, che conta nel censo di Servio Tullio, e se il medesimo non giunga ad una certa misura, altri non potrà essere censito, che per il proprio capo (capite census ), o verrà ad essere confinato nei proletarii, senza poter far parte delle classi e delle centurie, in cui si raccoglie l'eletta del popolo romano, ossia coloro (adsidui, locupletes) i quali avendo una terra di loro proprietà esclusiva, si possono ritenere aver interesse alla difesa della patria comune. Si comprende quindi l'affezione tenace, con cui il plebeo, ammesso a questa condizione nella città, si attacca al proprio tugurio e al campicello, che lo circonda, perchè è questo, che gli assicura una posizione giuridica, militare, economica per sè e per i proprii figli, quando siano perve nuti ai diciasette anni; il che spiega eziandio come il plebeo ami meglio di vincolare se stesso e la propria figliuolanza col nexum, che di privarsi della sua piccola terra. 297. Noi stentiamo naturalmente a ricostruire col pensiero tutte le conseguenze, che una istituzione di questa natura può avere pro dotto sovra un popolo, come il romano, in un momento storico, in cui la grande opera, a cui si intendeva, era la formazione della ' città. Quando si pensi tuttavia, che trattavasi di un popolo, il quale una volta ammesso un principio sapeva trarne tutte le conseguenze di cui poteva essere capace, che possedeva una mirabile potenza, che chiamerei di astrazione giuridica, la quale consiste nell'isolare l'ele mento giuridico da tutti gli altri con cui trovasi intrecciato, e che questo popolo fu costretto per secoli a misurare la propria posizione politica, militare e tributaria attraverso il crogiuolo del censo, si pud in qualche modo giungere a comprendere il punto di vista rigido ed esclusivo, a cui esso fu costretto di collocarsi e le con seguenze, che possono esserne derivate nella elaborazione del suo diritto. Ciò spiega intanto l'importanza immensa, che si diede per tutto il periodo dalla repubblica alla istituzione del censo; le cerimonie religiose, da cui esso era preceduto ed accompagnato; le cure, che pose nel medesimo lo stesso Servio, il quale, secondo la tradizione, ebbe a farlo per ben quattro volte; le pene gravissime, cioè la vendita al di là del Tevere, da lui stabilite contro coloro, 366 che non si fossero fatti iscrivere nel censo (incensi); l'opportunità, che si senti più tardi di creare talvolta un dittatore per la sola for mazione del censo, e di affidare poscia la formazione del censo ad una speciale magistratura (censura), a cui potevano esservene delle altre superiori in imperio, manessuna che fosse superiore in dignità. Ciò spiega infine la singolare evoluzione, che venne ad avere in Roma il concetto del censo, il quale negli inizii comincia dall'essere una valutazione, che potrebbe chiamarsi puramente economica dei singoli capi di famiglia, e poi finisce per cambiarsi in una specie di valutazione politica e morale di tutti i cittadini. Cid infatti è comprovato dalla trasformazione, che accade nel censore, che isti tuito dapprima per la materiale formazione del censo, reputata in degna delle cure dei consoli, finisce per acquistare tale un potere, da eleggere senatori, fare la ricognizione dei cavalieri, imprimere note di ignominia su chi venga meno al pubblico o al privato co stume, prendere le persone da una classe per confinarle in un altra, e trasportare a suo beneplacito tutta una classe di popola zione dalle tribù rustiche alle urbane o viceversa, e ad essere cosi l'arbitro sovrano della cooperazione effettiva, che i varii individui e le varie classi recano al benessere delle città. 298. Infine è anche il censo, che serve di base alla classificazione del populus nelle classi e nelle centurie. Non è già, come alcuni credettero, che coloro, i quali non avevano un certo censo, non fossero contati ed iscritti a questa o a quella tribù; ina essi vi erano iscritti solo nel capo (capite censi), oppure nella classe dei proletarii, la quale secondo Aulo Gellio, « honestior aliquanto et re et nomine quam capite censorum fuit ». Gli uni e gli altri non facevano di regola parte dell'esercito, perché né la repubblica avrebbe avuto garanzia dell'interesse, che essi avevano a combattere per essa, nè essi avrebbero avuti i mezzi per far fronte alle spese per il proprio equipaggio. Quelli invece, che giungevano ad un certo censo appartenevano agli adsidui, per l'assiduità appunto a compiere il loro ufficio civile e politico (munus), sia pagando le imposte (ab asse dando), sia ubbidendo alla leva, sia per la sede fissa, ove po tevano essere cercati e dove avevano i loro possessi (locupletes) (1). (1) Il criterio, che servì a distinguere i varii ordini di persone indicati coi voca boli di capite censi, proletarii, adsilui e locupletes, si può ricavare sopratutto da Aulo GELLIO, XVI, 10. È pure lo stesso Gellio, il quale ci attesta che la proprietà 367 I vocaboli di classi e di centurie, ed anche il luogo, ove si riu nirono i comizii centuriati (Campo Marzio ), il modo di convocazione di essi (per cornicinem ), e il vessillo rosso inalberato sul Gianicolo o in arce durante le riunioni di questi comizii, rendono verosimile il concetto stato svolto sopratutto dal Mommsen, che questa riparti zione siasi presentata dapprima con un carattere principalmente militare. Cið poteva anche essere opportuno per ovviare a quella opposizione del patriziato e degli auguri, che aveva incontrato l'an tecessore di Servio; e sembra anche corrispondere all'intento, che si propone la comunanza serviana, che è quella di provvedere so pratutto alla comune difesa. Egli è però certo, che se la costituzione per classi e per centurie è negli inizii organizzata per guisa da presentare l'aspetto di un esercito, essa è però in condizioni tali da cambiarsi facilmente nell'assemblea di un popolo; perchè i suoi quadri possono essere allargati in guisa da non comprendere solo un esercito, ma tutta la popolazione di una città (1). 299. Ad ogni modo nel loro primo presentarsi le classi e le centurie di Servio costituiscono un vero esercito, di cui venne ad allargarsi la base, in quanto che nella sua composizione più non si ha riguardo all'origine ed alla discendenza, ma unicamente al censo. Nelle sue file possono essere compresi tutti i liberi abitanti del ter ritorio di Roma, distribuito per quartieri o regioni, senza riguar tenuta in conto nel censo era quella famigliare e privata, poichè egli parla di res, pecuniaque familiaris, e dice che i proletarii si arrolavano nell'esercito solo in caso di necessità, e che i capite censi vi furono solo arrolati da Mario nella guerra contro i Cimbri o in quella contro 'Giugurta. Tutte queste distinzioni poi fondate sul censo spiegano le espressioni di Livio, I, 42, che dice il censo « rem saluberrimam tanto futuro imperio, e chiama Servio a conditorem omnis in civitatem discriminis ordinumque, quibus inter gradus dignitatis fortunaeque aliquid interlacet ». (1) Pur ammettendo col Mommsen, Hist. rom., I, cap. VI, e col Peluam, v° Rome, « Encych. Britann.., XX, pag. 731 che lo ha seguito, che l'ordinamento per classi e centurie, tanto più se posto a raffronto con quello delle curie, avesse un carattere eminentemente militare, non parmituttavia, che anche nei suoi inizii si possa escludere affatto la sua attitudine alle funzioni civili. Ciò ripugna al carattere delle istitu zioni primitive, le quali di regola hanno del civile e del militare ad un tempo, ed alla circostanza, che mal si saprebbe comprendere comemaiuna base, come quella del censo, non dovesse servire ad altro, che ad indicare il modo con cui le varie classi aves sero ad equipaggiarsi. Del resto questo carattere esclusivamente militare mal potrebbe conciliarsi con ciò che scrive Livio, I, 42: «tum classes centuriasque, et hunc ordinem ex censu descripsit, vel paci decorum, vel bello ». 368 dare se essi entrino o non nelle antiche divisioni, e senza più tenere conto delle formalità e delle cerimonie religiose proprie delle riunioni esclusivamente patrizie. La sua unità è la centuria, che nominalmente dovrebbe comprendere cento uomini; le centurie poi vengono ad essere aggruppate in classi, che sono in numero di cinque, e che alcuni vorrebbero collocate nell'ordine stesso della falange. Le centurie, che vengono prime, sono composte dei più ricchi cittadini, che possono procacciarsi un completo equipaggio indispen sabile per coloro, che primi debbono sostenere l'urto del nemico. Esse in numero di 80 costituiscono la prima classe. Dopo vengono le centurie della seconda e terza classe, in numero di 20 per ogni classe, le quali sono già meno completamente armate, ma costituiscono con quelle della prima classe la fanteria pesante. Ultime vengono le centurie della quarta e della quinta classe, di cui quella composta di 30 e questa di 20 centurie, reclutate fra i cittadini meno ab bienti, e che serviranno come fanteria leggiera. L'intiero corpo degli uomini liberi è poi diviso in due parti eguali, cioè in un numero eguale di centurie di seniores (da 47 ai 60 anni), che costituivano l'esercito di riserva, ed un uguale numero di centurie di iuniores (dai 17 ai 46 anni) per il servizio attivo. Ciascuno di questi corpi viene cosi ad essere composto di 85 centurie (8500 uomini) ossia di due legioni di circa 4200 per ciascuna, che costituiva appunto la forza normale della legione consolare durante la repubblica. In sieme colle legioni, ma non inchiuse con esse, vi erano 2 centurie di fabbri e di legnaiuoli (fabri, tignuarii) e 2 di suonatori di tromba e di corno (tibicines et cornicines ), circa le quali non vi è accordo quanto alle classi a cui erano assegnate. Per quello poi che si riferisce al censo richiesto per ciascuna classe, il medesimo ci pervenne calcolato in assi, ma è probabile che nelle origini dovesse essere valutato in iugeri (1). (1) È abbastanza noto, che il censo per la prima classe era di 100 mila assi, per la seconda di 75 mila, per la terza di 50 mila, e per la quinta classe di 11,000 secondo Livio e di 12,500 secondo Dionisio; ma il difficile sta in determinare, se negli inizii la fortuna dei cittadini non fosse piuttosto valutata in iugera, e in de terminare qual fosse il valore dell'asse. Il MOMMSEN afferma come fuori di ogni dubbio, che l'iscrizione alle varie classi era dapprima determinata dal possesso delle terre, argomentando anche dalle denominazioni di adsidui e locupletes. Hist. rom., chap. VI. Di recente poi il Karlowa ha pur seguìta la stessa opinione e ha rite nuto che il iugerum debba ritenersi rispondere a cinque mila assi, cosicchè il patri monio della prima classe corrisponderebbe a 20 iugeri, quello della seconda a 15, 369 Intanto però in questa organizzazione militare del populus con tinuano a tenere un posto distinto le centurie degli equites. Di queste 6 ritengono ancora i vecchi nomi di Ramnenses, Titienses e Luceres primi et secundi, e sono ancora composte esclusivamente di patrizii. Esse quindi stanno a parte, son determinate dalla na scita, e costituiscono i sex suffragia; poichè è da esse che si trae a sorte la centuria principium, quella cioè, che sarà chiamata a votare per la prima nei comizii centuriati. Ad esse poi furono ag giunte da Servio altre 12 centurie, le quali sono reclutate dai più ricchi ordini di cittadini, sia patrizii che plebei (1 ). Da questi brevi cenni appare che, pur ammettendo il carattere essenzialmente militare di questa organizzazione, basterà però sop primere nella centuria il limite di 100, per togliere alla medesima tutta la sua rigidezza militare, e per fare entrare nei suoi quadri tutta la popolazione della città; trapasso, che non offrirà gravi diffi coltà quando si consideri la facilità, che è propria delle organizzazioni primitive di passare dalle funzioni militari alle civili, e il nessun scrupolo, che si fecero i Romani di mantenere costantemente il vo cabolo antico, facendo anche entrare in esso un contenuto diverso da quello, che sarebbe indicato dal medesimo. Queste sono le istituzioni fondamentali di Servio; ora importa di vedere lo svolgimento storico, che esse ebbero a ricevere e la con seguente influenza che esercitarono sul diritto pubblico e privato di Roma. quello della terza a 10, della quarta a 5 iugeri, e quello della quinta a 2 iugeri incirca, ritenendo con Livio, che il censo della medesima ammontasse a soli 11,000 assi. Röm. R.G., I, pag. 69-70. Sono a vedersi, quanto al valore dell'asse, il WILLEMS, op. cit., pag. 58 e segg., dove son riassunte le diverse opinioni al riguardo, e il Voigt, Die XII Tafeln, I, pag. 16 a 23. (1) Quanto agli equites e ai loro rapporti coi primitivi celeres, richiamo volentieri i due recenti lavori del BERTOLINI, I celeres e i7 tribunus celerum, Roma, 1888, e del TAMAssia, I Celeres, Bologna, 1888. - Par ammettendo col primo che gli equites non siano che uno svolgimento dei primitiviceleres (p. 31) e col secondo che i celeres possano anche essere un ricordo di qualche istituzione, che occorre presso tutti i popoli di origine Aria (p. 19), continuo però a ritenere, che nell'ordinamento simmetrico della primitiva città patrizia vi fosse una rispondenza fra i celeres, che costituivano la corte militare del Re primitivo e il senato, che ne costituiva il consiglio, donde quella correlazione, che per qualche tempo si mantenne fra gli aumenti nel senato e quello degli equites, e la distinzione così del senato come degli equites in decuriae. V. sopra, nº 191, pag. 233 e 234. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 24 - 370 - CAPITOLO II. Influenza della costituzione Serviana sul diritto pubblico di Roma. 300. L'influenza della costituzione Serviana sullo svolgimento, che ebbero le istituzioni politiche di Roma, durante l'epoca repubbli cana, non può essere posta in dubbio, e non mancano i lavori ché la posero in evidenza (1). Ne ebbero consapevolezza anche i Romani, come lo provano le tradizioni, che attribuirono a Servio Tullio di aver voluto abdicare per istituire due consoli annui, e che fanno ricorrere i due primi consoli della repubblica ai commentarii di Servio Tullio, per ricavarne le norme secondo cui dovevano adu narsi i comizii per centurie (2). Le due tradizioni possono anche essere non vere: ma dimostrano ad ogni modo in coloro, che le trovarono e le custodirono, la persuasione, che la costituzione repubblicana metteva capo alle istituzioni serviane, e che, appena superato il peri colo della tirannide, si dovette riprenderne lo svolgimento al punto stesso, a cui era stato interrotto. Ad ogni modo se si tenga dietro alla evoluzione storica, quale si rivela negli avvenimenti, si può affermare con certezza, che le istituzioni politiche di Roma per tutto il periodo repubblicano implicano uno svolgimento continuo e non mai interrotto dei concetti informatori della costituzione patrizia, combinati perd e modificati dalle istituzioni fondamentali della co stituzione serviana. 301. Fra queste modificazioni è fondamentale e determina tutte le altre trasformazioni, che derivarono dalla costituzione serviana, quella, in virtù della quale venne a mutarsi nella sua stessa base il concetto del populus romanus quiritium. Questa espressione (1) NIEBHUR, Histoire romaine, II, pag. 91 a 255; Huscke, Die Verfassung der Königs Servius Tullius, Heidelberg, 1838; Maury, Des événements qui portèrent Servius Tullius au trône. « Mém. de l'Acad. des Inscript. et belles lettres », année 1866, vol. 25, pag. 107 a 223: Herzog, Geschichte und System der römischen Staats verfassung, Leipzig, 1884, I, § 5, pag. 37 a 48; KarlowA, Röm. Rechtsgeschichte, I, SS 11, 12, 13, pag. 64 a 85. (2 ) Liv., Hist., I, 48; I, 60. È però a notarsi, che queste tradizioni non sono con fermate da Dionisio. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, I, pag. 242. - 371 infatti, che un tempo aveva indicato esclusivamente il popolo delle curie, venne secondo il metodo romano ad essere trasportata al popolo delle classi e delle centurie, come lo dimostrano la denomi nazione di quirites, che d'allora in poi è applicata appunto a tutti i membri del popolo delle centurie, non che ai testimonii ricavati dal medesimo per gli atti di carattere quiritario (classici testes ), ed è anche adoperata nelle formole di convocazione dei comizii centuriati, stateci conservate da Varrone (1). Quanto ai membri delle curie pri mitive essi, in quanto entrano nelle classi e nelle centurie, sono anche compresinel vocabolo generico di quirites, ma in quanto hanno delle proprie assemblee, in quanto ritengono per sè le magistrature, gli onori, gli auspizii, i sacerdozii, in quanto insomma formano ancora un nucleo separato del populus romanus quiritium, prendono il nome di patres o di patricii, come già si è veduto discorrendo della patrum au ctoritas, della lex curiata de imperio e dell'interrex (2 ). Mentre quindi prima i termini non erano che due, quelli cioè di populus e di plebes; dopo Servio i termini vengono ad essere tre, cioè quello di patres o patricii, che indicano i primitivi fondatori della città, i ritentori degli auspicia e dell'imperium; quello di plebes, che designa l'elemento, stato di recente ammesso nella medesima; e quello infine di populus, che comprende l'uno e l'altro elemento, sopratutto in quanto entra a far parte delle classi e delle cen turie (3 ). In questo senso vuolsi ammettere col Mommsen, che uno dei significati di populus sia stato quello di leva plebeo-patrizia; ma certo non può dirsi, che questa sia stata la significazione primi tiva del vocabolo; poichè nulla vi è di ripugnante al processo ro mano, che la stessa parola abbia indicato prima la riunione degli (1) Le formole di convocazione delle classi, conservateci da VARRONE, De ling. lat., VI, 86 a 95, sono riportate dal Bruns, Fontes, pag. 383 e segg. I classici testes sono poi ricordati da Festo, pº classici, come testimoni adoperati nei testa menti; ma è probabile che questo nome si estendesse a tutti i testimonii dell'atto per aes et libram, di cui il testamento non era che un'applicazione, come si vedrà a suo tempo al cap. IV, § 4 di questo libro. (2) V. sopra, lib. II, nº 198, pag. 240 e seg. e le note relative. (3) È questo appunto il concetto di populus, quale appare più tardi anche nei grammatici e nei giureconsulti. Aulo Gellio infatti, Noct. Att., X, 20, attribuisce al giureconsulto Ateio Capitone di aver distinto il popolo dalla plebe, « quoniam « in populo omnis pars civitatis, omnesque eius ordines contineantur: plebes vera, ea < dicitur, in qua gentes civium patriciae non insunt », il qual concetto poi ricompare in GaJo, Comm., I, 3 e ancora nelle stesse Institut. di GIUSTINIANO, I, 2. 372 uomini validi ed armati della tribù gentilizia, poi il populus confe derato della città patrizia, e da ultimo il popolo patrizio - plebeo della città serviana (1). Questo populus intanto perde in gran parte quel carattere reli gioso e patriarcale del popolo delle curie, e assume invece il ca rattere, che è proprio di coloro, che entrano a costituirlo; viene cioè ad essere un popolo di capi di famiglia e di proprietarii di terre, che da una parte sono uomini di arme e dall'altra sono de diti alla coltura delle terre, e i quali si considerano come isolati da tutti quei rapporti gentilizii, in cui possono trovarsi vincolati. I quiriti dell'epoca serviana vengono ad essere considerati come indivi dualità indipendenti e sovrane; hanno l'asta come simbolo del pro prio diritto; ritengono come proprie le cose sopratutto che riescono a togliere al nemico, ed il loro potere appare senza confine cosi rispetto alle persone, che alle cose, che da essi dipendono; donde le caratteristiche peculiari del ius quiritium, che viene formandosi in questo periodo, come cercherò di dimostrare a suo tempo (2). 302. Modificato così il concetto del populus, cioè l'elemento es senziale della costituzione primitiva, da cui escono tutti gli altri, era naturale, che anche questi dovessero lentamente e gradatamente trasformarsi in correlazione col medesimo. E così accade appunto del senato, il quale accompagnando lo svolgimento lento e graduato della costituzione romana, comincia ad accogliere fin dagli inizii della repubblica i principali dell'ordine equestre, i quali per tal modo vengono ad essere conscripti coi patres, donde la formola patres et conscripti, finchè più tardi esso viene a ricevere tutto l'elemento, che siasi reso benemerito della repubblica, sostenendone degnamente le magistrature e gli uffizii, o che abbia così quell'età e quell'esperienza, che valgono ad assicurare la repubblica della au torità del suo consiglio (3 ). Cosi invece non accadde del magistrato, poichè questo continud (1 ) MOMMSEN, Rötnische Forschungen, I, pag. 168. (2 ) V. il cap. seg. in cui si discorre dell'influenza della costituzione serviana sul diritto privato. (3 ) Le trasformazioni introdotte nella composizione del Senato in base alla les Ovinia che deferì ai censori la senatus lectio sono brevemente riassunte dal Lan DUCCI, nel suo scritto sui Senatori Pedarië, Padova 1888, pagg. 7-8, colle note re lative. - 373 ancora per qualche tempo ad essere ricavato esclusivamente dalla classe dei patrizii; donde la conseguenza, che è sopratutto contro l'imperio dei consoli, che spiegansi le prime sedizioni della plebe, le quali più non si arrestano fino a che la plebe non abbia ottenuta, anche nelle magistrature e nei sacerdozii, quella parte, che già aveva conseguita negli altri aspetti della costituzione politica. Cið era na turale, perchè non vi sarebbe stata coerenza in un organismo, in cui il popolo e il senato già potevano essere tolti dai due ordini, che concorrevano a formarlo; mentre il magistrato poteva essere scelto in un ordine soltanto e quindi veniva ad apparire piuttosto come un custode dei privilegii del patriziato, che come un rappresentante imparziale del popolo. Di qui la conseguenza, che anche le lotte, che vennero ad esservi fra patriziato e plebe, possono in gran parte ritenersi determinate dalla costituzione serviana, come meglio sarà dimostrato a suo tempo (1 ). 303. Mentre si avverano queste modificazioni negli organi essen ziali della costituzione politica, e quindi si trasformano a poco a poco le loro principali funzioni, che, come si è veduto, consistono nella formazione delle leggi, nella elezione del magistrato e nella amministrazione della giustizia, tutte le istituzioni serviane, che negli inizii erano soltanto abbozzate, vengono prendendo tutto quello svol gimento, di cui potevano essere capaci. Cid appare quanto al censo, il quale, come già si è accennato, incomincia dal presentarsi come una valutazione economica dei cit tadini, e poi cambiasi a poco a poco in una valutazione politica e morale dei medesimi. Il punto di partenza viene ad essere quello di dare a ciascun cittadino una parte di diritti e di obblighi, che sia proporzionata al suo censo, mentre lo svolgimento posteriore conduce a dare ai singoli individui e ai varii elementi del popolo una parte, che vorrebbe essere proporzionata alla cooperazione, che essi recano al pubblico bene. Abbiamo quindi i magistrati uscenti di ufficio, che somministrano il contingente per la formazione del senato e poscia dell'ordo senatorius; abbiamo gli equites, che perdono il carat tere essenzialmente militare, che avevano nelle proprie origini, e finiscono per formare un ordine distinto di cittadini, che chiamasi ordo equestris, e costituiscono una specie di aristocrazia del censo, (1) V. il cap. IV del presente libro, in cui si tratta appunto delle lotte fra il patriziato e la plebe. 374 da cui esce poi la nuova nobiltà, la quale, dopo aver lottato coll'an tica, finisce per confondersi con essa (1). Di qui la conseguenza, che col tempo quel populus, che erasi formato, mediante la riunione del patriziato e della plebe, finirà un'altra volta per subire un nuovo dualismo, che è quello del partito popolare e del partito degli otti mati. Queste però sono conseguenze remote dell'ordinamento ser viaño, fondato sul censo, mentre è assai più facile tener dietro alle trasformazioni, che subirono le centurie e le tribù introdotte col medesimo. 304. Le centurie infatti, allorchè perdettero il loro carattere es senzialmente militare, finirono per cambiarsi in altrettanti quadri, in cui potè essere compreso tutto il popolo romano, che avesse rag. giunto certi limiti nel censo, il quale, fissato dapprima in iugeri di terra, sembra essersi più tardi calcolato in una somma di denaro. Si formarono così quei comisii centuriati, che ebbero tanta impor tanza sopratutto nei primi secoli della repubblica, e che furono per certo una delle assemblee meglio organizzate, che offra la storia politica dei popoli civili. È tuttavia notabile, che anche in questa parte si conserva sempre mai l'antico modello, per guisa che i con cetti informatori dell'assemblea delle centurie sembrano essere tolti e trasportati da quella più antica delle curie. Anch'essi quindideb bono essere preceduti da cerimonie religiose, ed il magistrato, che li convoca in giorni prestabiliti (dies comitiales), essendo investito degli auspicia, debbe prima investigare se gli dei si dimostrino fa vorevoli alle deliberazioni, che debbono essere prese dai comizii. Anche la precedenza nella votazione deve seguire l'antico costume, e quindi precedono le sei centurie di cavalieri, le uniche cioè che rappresentino ancora il patriziato primitivo, fondatore della città; quindi è fra esse, che chiamansi i sex suffragia, che viene tratta a sorte quella che dovrà essere la centuria principium, il cui voto continua ad essere considerato come un augurio (omen). Dopo aver così attribuita la debita parte alla nascita e ai primi fondatori della città, viene il riguardo all'età, in quanto che i seniores (dai 47 ai 60 anni) hanno in ogni classe un numero di centurie eguale a quello dei iuniores (dai 17 ai 46 ), malgrado il numero certo maggiore di questi ultimi, e le loro centurie negli inizii erano probabilmente le (1) Queste trasformazioni sono accuratamente seguìte dal Madvig, L'État romain, trad. Morel, Paris 1882, tome 1er, pag. 135 e segg. 375 prime chiamate a dare il proprio voto. Viene poscia la considera zione del censo, in quanto che le centurie, che votano per le prime sono, dopo le diciotto centurie degli equites, quelle della prima classe e queste sono in numero tale, che se siano concordi, possono da sole avere la maggioranza, senza che più occorra di passare alla chia mata delle altre classi (1). Intanto perd nel seno di ogni centuria ogni individuo ha il proprio voto, e tutti contano egualmente; ma, come già accadeva nelle assemblee curiate, l'esito definitivo dipende dalla maggioranza delle centurie. Qui parimenti si presentano le distinzioni fra comitia e contiones; come pure dovette introdursi eziandio la distinzione fra comizii propriamente detti e i comizii calati, in cui si compievano pei quiriti i testamenti e le arroga sioni, ma questi non sembrano essere durati lungamente, perchè erano una semplice imitazione dell'antico, senza che avessero lo scopo dei comizii calati delle curie, che era quello di mantenere salda ed integra anche nella città la primitiva organizzazione delle genti patrizie (2). Così pure sopra i nuovi comizii, i padri, antichi fondatori della città, continuano ad esercitare una specie di prote zione e di tutela, sotto il nome di patrum auctoritas, dalla quale i comizii centuriati riescono ad emanciparsi soltanto molto più tardi (3 ). 305. Nella realtà però questa imitazione dell'antico non impe disce che tutte le principali funzioni vengano a concentrarsi nei co mizii centuriati. Sono essi infatti che votano le leggi fondamentali dello stato, come le leggi Valerie-Orazie, la legislazione decemvirale, le leggi Licinie Sestie, e da ultimo la legge Ortensia; sono essi parimenti, che nominano i magistrati maggiori, come i consoli, i pretori, i censori, quei magistrati insomma, il cui potere può essere considerato come una suddivisione di quell'imperium, che trovavasi un tempo con centrato nel re. Da ultimo fu davanti alle centurie, che dovette essere interposta quella provocatio ad populum, che un tempo pro ponevasi dinanzi al popolo delle curie; il che spiega comeun ma (1) Sono queste gradazioni e distinzioni che fecero dire a CICERONE, De leg., III, 19, 44: < descriptus enim populus censu, ordinibus, aetatibus plus adhibet ad suf « fragium consilii, quam populus fuse in tribus convocatus »; concetto che ripete con altre parole nel De rep., II, 22. (2) L'esistenza di comizii calati, proprii delle centurie, è attestata espressamente da Aulo Gellio, XV, 27, 1. (3) V. quanto alla patrum auctoritas ciò che si è detto al nº 198, pag. 240 e segg. 376 gistrato annuo, come il console, abbia finito per rinunziare a poco a poco a pronunziare condanne, da cui poteva esservi appellazione al popolo, il quale venne cosi ad essere direttamente investito della giurisdizione criminale (1). Intanto si comprende eziandio come la lotta fra i due ordini, finchè non furono ancora del tutto pareggiati, abbia dovuto concentrarsi so pratutto nei comizii centuriati, e come quindi il patriziato per assi curarsi una prevalenza nel seno delle centurie, abbia dovuto dividere i proprii agri gentilizii fra i clienti, acciò i medesimi potessero essere collocati nelle classi e possibilmente nella prima di esse, la quale aveva una prevalenza sopra tutte le altre. Per talmodo la disorganizzazione delle genti, che erasi già iniziata colla costituzione di Servio, con tinud necessariamente collo svolgersi delle istituzioni da lui intro dotte; poichè quei clienti, che sotto l'impressione immediata del benefizio ricevuto stavano ancora agli ordini dell'antico patrono, se ne emanciparono ben presto, allorchè il censo loro assicurò una indipendenza, mediante cui poterono talvolta aggregarsi alla stessa plebe. Conviene tuttavia riconoscere, che la plebe negli inizii del l'organizzazione per centurie male poteva riuscire nella lotta contro un patriziato reso forte e numeroso mediante l'appoggio dei proprii clienti. Di qui la conseguenza, che la plebe resa impotente alla lotta nei comizii per centurie, dovette appigliarsi a riunioni che non avessero più la loro base nel censo, ma bensì nel luogo di residenza e nel numero. A tal uopo la plebe, guidata ed organizzata dai proprii tribuni, seppe trarre profitto di un'altra istituzione ser viana, che è quella della tribù locale, ricavando da essa uno svolgi mento, che probabilmente non doveva essere nella intenzione di quegli, che l'aveva istituita. 306. La tribù nella costituzione serviana non era che una ripar tizione locale, fatta in uno scopo essenzialmente amministrativo, cioè per fare il censo, per fare la leva militare e per ripartire i tributi. Essa però aveva il vantaggio su tutte le altre ripartizioni, che mentre le curie non comprendevano dapprima che i patrizii, e le centurie e le classi non accoglievano che i locupletes od adsidui, le tribù invece comprendevano anche i proletari, i capite censi, gli aerarii; quindi in essa esisteva un germeessenzialmente democratico, (1) Cfr. ciò che si è detto più sopra intorno alla provocatio ad populum nel pe riodo regio, n ° 245 e 246, pag. 299 e segg. 377 che non poteva mancare di svolgersi col tempo. Era infatti naturale, che i tribuni della plebe, per radunare la medesima, non potessero indirizzarle il proprio appello, che per tribù (tributim ), e che quindi si facessero già in questa guisa quelle prime riunioni, che appellavansi concilia plebis. Intanto le tribù, che avevano dapprima un carattere essenzialmente locale e comprendevano realmente le persone, che dimoravano in quel determinato quartiere, si cambiarono in effetto in altrettanti quadri, in cui poterono essere compresi tutti i cittadini romani, senza tener conto del sito effettivo, in cuiavessero la propria residenza. Si avverò anche in questo, ciò che è accaduto in molte altre istituzioni di Roma, che cominciano dall'avere una base reale nei fatti, ma col tempo si cambiano in concezioni teoriche ed astratte, e in forme tipiche, in cui può farsi entrare un contenuto, che nella realtà loro non potrebbe appartenere. Per tal guisa la ripartizione delle tribù diventò la più comprensiva di tutte; cesso quasi di essere locale per diventare personale; la indicazione della tribù entrò a far parte della denominazione stessa del cittadino romano, e fu in tal modo, che essa potè riuscire di base alla più democratica delle riunioni, che siasi conosciuta in Roma, che fu quella appunto dei comizii tributi. Questi non hanno più il carattere militare dei co mizii centuriati, ma hanno un'impronta essenzialmente cittadinesca; si tengono perciò nel foro e nei primitempi si riuniscono nei giorni di mercato, in cui la plebe del contado ha occasione di convenire nella città (1 ). 307. Tuttavia anche i comizii per tribù, allorchè entrarono nei quadri regolari della costituzione politica, finirono per modellarsi sulle assemblee precedenti. Essi infatti, quando sono giunti al pieno loro sviluppo, sono anche preceduti dagli auspizii, quando siano convocati da un magistrato, a cui questi appartengano, e sono convocati solennemente dal medesimo, per mezzo degli araldi, in giorni, che non saranno più chiamati comitiales, ma che debbono però essere nel novero dei dies fasti. È analoga parimenti la pro cedura per la votazione, salvo che il voto si dà per tribù, la prima delle quali viene ad essere tratta a sorte, e prende anche il (1) È degno di nota a questo proposito il {passo diMACROBIO, Saturnales, I, 16, $ 34, in cui, riferendosi ad uno scritto del giureconsulto P. Rutilio Rufo, parla dei giorni dimercato, in cui « rustici, intermisso rure, ad mercatum legesque accipiendas Romam venirent ». Husche, Jurisp. antijustin., pag. 11. 378 nome di tribus principium. Nel seno poi di ogni tribù il voto è dato viritim, e l'esito definitivo viene ad essere determinato dalla maggioranza delle tribù. Questi comizii hanno però il vantaggio della più facile convocazione, in quanto che possono essere convocati da magistrati patrizii e da magistrati plebei, come i tribuni, al modo stesso che i provvedimenti, che essi prendono, possono essere o vere leggi o semplici plebisciti, secondo l'autorità che li propone (1); il che spiega come i comizii tributi si siano gradatamente cambiati nell'organo legislativo più operoso nell'ultimo periodo della repub blica. Mentre essi infatti richiamano a sè la sola elezione dei magi strati minori, e la giurisdizione per i reati punibili con sole pene (1) Per lo svolgimento pressochè parallelo dei comizii centuriati e dei comizii tri buti mi rimetto a ciò che ho scritto più sopra al n ° 224, pag. 273 e segg. e per il pareggiamento che venne facendosi fra le leggi ed i plebisciti ai numeri 231, 232 e 233, pag. 281 e seg. Solo mi limito ad aggiungere che negli ultimi tempi dagli stessi comizii tributi potevano emanare vere leggi, allorchè erano convocati da veri magistrati, come consoli e pretori, oppure plebisciti, allorchè erano convocati da tri buni della plebe. Trovo una prova di ciò paragonando le intestazioni di due leggi riportate dal Bruns. L'una è la lex agraria del 643 dalla fondazione di Roma, la cui intestazione è così concepita: « tribuni plebei plebem ioure rogarunt, plebesque ioure scivit », sebbene in tale occasione abbiano preso parte alla votazione anche i patrizii come lo dimostra il fatto, che ivi si aggiunge: « Tribus principium fuit, pro tribu Q. Fabius, Q. filius, primus scivit », il quale Fabio dovette probabilmente essere un patrizio della gens Fabia (Bruns, Fontes, pag., 72). L'altra legge invece è la les Quinctia, de aqueductibus, dell'anno 745 di Roma, che è così intestata: « T. Quinctius Crispinus populum iure rogavit, populusque iure scivit, in foro pro rostris Aedis divi Iulii pridie K. Iulias. Tribus Sergia principium fuit; pro tribut Sex... L. F. Virro primus scivit ». Bruns, Fontes, pag. 112. — Diqui infatti appare ad evidenza, che quando la convocazione parte dal tribuno della plebe parlasi di plebes e di plebiscitum, ancorchè la riunione comprenda anche i patrizii: mentre quando trat tasi di convocazione fatta dal console esso chiama ai comizii tributi il populus e il provvedimento emanato viene così ad essere un populiscitum, ossia una lex nel senso primitivo dato a questo vocabolo. La cosa è pur confermata da quella parte, che ci pervenne della intestazione alla lex Antonia, de Tarmessibus, dell'anno 683 di Roma, in cui la riunione dei comizii tributi, essendo provocata dai tribuni della plebe, ancorchè in base ad un parere dato dal senato (de senatus sententia) parlasi perciò di convocazione della plebes e quindi di plebiscitum (Bruns, Fontes, p. 91). In questo periodo quindi tanto le leges quanto i plebiscita emanano da comizii tributi e la loro differenza deriva dall'essere l'iniziativa presa da un vero magistrato (console, pretore) che convoca il popolo, o da un tribuno della plebe, che convoca invece la plebe, sebbene anche in queste ultime riunioni intervengano anche i patrizii. Viene così ad essere vero ciò che dice Pomponio, che « inter plebiscita et leges species constituendi interesset, potestas autem eadem esset ». L. 2, 8, Dig. 1, 21. pecuniarie, finiscono invece per assorbire tutto il potere legislativo. È a notarsi tuttavia, che mentre la legislazione dei comizii centu riati aveva avuto un carattere specialmente politico e costituzionale, perchè è con essa che si vennero pareggiando gli ordini, quella in vece, che usci dai comizii tributi, ha un carattere eminentemente sociale, e in parte già si riferisce ad argomenti di diritto privato (1). 308. Si può quindi conchiudere, che la costituzione serviana per vade le istituzioni politiche di Roma per tutto il periodo repubblicano. I concetti della medesima cominciano dall'avere una base nella realtà, ma finiscono per cambiarsi in altrettante costruzioni logiche, a cui si dà tutto lo sviluppo, di cui possono essere capaci. In questa guisa il censo di economico divien morale, le centurie di militari si con vertono in politiche, le tribù di ripartizioni locali mutansi in quadri, in cui tutta la cittadinanza può essere compresa, per quanto la me desima dimori eziandio fuori della città. Per tal modo la costitu zione di Servio Tullio, al pari delle mura che ne portano il nome, poté bastare a tutti gli incrementi e a tutte le trasformazioni, che Roma ebbe a subire per parecchi secoli, e per tutto quel tempo, in cui essa tenne ancora in pregio le antiche virtù ed istituzioni. Vero è, che le forme esteriori sembrano sempre essere foggiate su quelle, che erano prima adoperate; ma conviene dire che « spiritus intus alit », e che questo nuovo alito spira per modo entro le forme an tiche, da far loro capire un contenuto ben diverso dal primitivo, e da spezzarle anche, quando siano diventate disadatte, nel qual caso però se ne foggiano delle nuove, ma sempre sul modello delle an tiche. Questo è il magistero, che Roma seguì costantemente nello svol gimento delle proprie istituzioni politiche. Un analogo processo ap pare anche più evidente nella elaborazione più lenta e graduata, che ebbe a ricevere il diritto privato di Roma, sovra il quale la costituzione serviana ha certamente esercitata una influenza di gran lunga maggiore di quella che soglia essergli attribuita, come spero di poter dimostrare nel seguente capitolo. (1) Quanto alla legislazione comiziale e ai caratteridella medesima, cfr. FERRINI, Storia delle fonti del diritto romano, Milano. La costituzione serviana e la sua influenza sull'elaborazione del ius Quiritium. 309. Se fu agevole il mettere in rilievo gli effetti della costitu zione serviana sul diritto pubblico di Roma, non può dirsi altrettanto della influenza tacita, ma non meno importante, che essa esercito sulla elaborazione del diritto privato. A questo proposito poco o nulla ci dicono gli storici, come quelli che naturalmente si arrestarono alle mutazioni più appariscenti, che si erano avverate nelle istituzioni politiche. Solo Dionisio si limita a dire di Servio, che egli pubblico ben cinquanta leggi sui delitti e sui contratti; che egli distinse i giudizii pubblici dai privati; e che prese anche dei provvedimenti a favore dei debitori, senza però ricordare il contenuto preciso dei medesimi (1). La probabilità ed anche la necessità di una legislazione all'epoca serviana non può certo essere negata, non potendo essersi avverata una trasformazione cosi profonda nell'organizzazione civile e politica, senza che si riflettesse eziandio nel diritto privato. Tut tavia è certo, che le mutazioni nel diritto privato non dovettero tanto operarsi per mezzo di leggi, quanto piuttosto mediante quella tacita elaborazione di un diritto comune alle due classi, che era la naturale conseguenza dei nuovi rapporti, in cui esse venivano a trovarsi. È quindi negli scritti dei giureconsulti, che si devono cer care le reliquie delle istituzioni scomparse, e in essi sono sopratutto a cercarsi quelle distinzioni, quei concetti, quegli atti simbolici, che sopravvissero ancora in epoche, in cui più non se ne comprendeva il significato, e che possono in qualche modo rannodarsi al concetto informatore della costituzione serviana. Sono le hastae, le vindictae, i procedimenti simbolici, gli atti per aes et libram, i concetti primi tivi del caput, della manus, del mancipium, la distinzione fra le res mancipii e le res nec mancipii, tutti quei concetti insomma, (1) Dron., IV, 10, 13, 25. Quanto ai debitori Dionisio, IV, 9, 11, attribuisce a Servio di aver perfino pagato del proprio i creditori, e di aver voluto che i beni e non la persona del debitore fossero vincolati al creditore; ma ciò forse non è che un effetto di quella tendenza, che fa riportare a Servio tutti i provvedimenti, che potevano apparire favorevoli alla classe servile ed alla plebe. 381 di cui ignorasi la vera origine e che sono sopravvivenze di un'e poca anteriore, che possono servire come materiali per la ricostru zione del primitivo diritto. Gli è soltanto col ricomporre insieme tutti questi rottami, che spargono talvolta dei vivi sprazzi di luce, quando siansi collocati nel sito, ove debbono trovarsi, e coll'avere presente il carattere del popolo, le sue istituzioni politiche, il suo metodo di serbare i vocaboli, cambiandone anche il contenuto, ed il criterio informatore della riforma serviana, che si pud riuscire a ricostituire il diritto privato, che dovette iniziarsi in questo periodo, se non nei particolari minuti, almeno nelle sue linee generali e nella logica fondamentale, da cui dovette essere percorso. 310. Fu questo paziente lavoro di ricomposizione, che mi mette in condizione di porre innanzi a questo proposito una congettura, la quale a prima giunta potrà apparire ardita, ma che risulterà sempre meglio comprovata, a misura che, procedendo innanzi, tutte le reli quie, che ci pervennero, dell'antico diritto, finiranno per prendere senza sforzo quel posto, che loro compete, e ci porgeranno cosi una spiegazione naturale, logica e verosimile dei caratteri primitivi del medesimo. La congettura sta nell'affermare, che almodo stesso che con Servio Tullio si posero le basi della Roma storica, e si formd quel populus romanus quiritium, che riempi poi la storia del racconto delle proprie gesta, così fu eziandio da quel punto, che dovette iniziarsi la vera e propria elaborazione di quel ius quiritium, che fu ilnucleo primitivo di tutto il diritto privato di Roma, e che quest'ultimo, malgrado il posteriore suo svolgimento, non perdette più mai quella speciale impronta, che ebbe ad assumere sotto l'influenza della costi tuzione serviana. Non si vuole già dire con ciò, che prima non vi fossero i quirites ed un ius quiritium; ma quelli non comprendevano che i membri delle curie, e questo indicava il complesso delle istituzioni di carattere gen tilizio, che erano proprie del popolo delle curie, e che perciò avevano ancora un carattere pressochè feudale e patriarcale (1). Con Servio (1) Cid parmi abbastanza dimostrato dall'analisi, che ho fatta della legislazione attribuita ai Re nel periodo della città esclusivamente patrizia, dalla quale risulta che la famiglia, la proprietà, il delitto e le pede continuavano ancora in parte a conservare quei caratteri, che avevano nel periodo gentilizio. V. sopra lib. II, cap. IV, 88 5 e 6, pag. 329 e segg. 382 Tullio invece incomincia l'elaborazione di un diritto comune ai due ordini, e siccome i medesimi, riuniti nelle classi e nelle centurie, prendono il nome di quirites, così incomincia la formazione di un vero e proprio ius quiritium, in cui i vocaboli e le forme proprie del diritto formatosi nei rapporti fra le genti patrizie e la popo lazione di condizione inferiore, da cui esse erano circondate, ven gono a ricevere una nuova significazione, e ad essere applicati ai rapporti, che erano l'effetto della nuova condizione di cose. Si conservano pertanto ancora i vocaboli di manus per indicare nel loro complesso i poteri, che appartengono al quirite, quale capo di famiglia e come proprietario di terre; quello di nexum per indicare l'obbligazione di carattere quiritario; quello di mancipium per in dicare il complesso delle cose e delle persone, che dipendono dal quirite: ma intanto questi vocaboli, che dapprima designavano il diritto proprio della classe superiore di fronte alle popolazioni vas salle, da cui era circondata, vengono a significare i concetti pri mordiali del vero ius quiritium, comune alle due classi, e si mutano in altrettante concezioni logiche ed astratte, in cui può farsi entrare un nuovo contenuto. A quel modo insomma che colla formazione della città patrizia quei concetti di connubium, di commercium e di actio, che prima si erano spiegati nei rapporti fra le varie genti, vennero invece a governare dei rapporti fra quiriti, e cambiandosi così in concetti quiritarii furono il punto di partenza di altret tante istituzioni proprie dei quiriti (ex iure quiritium ) (1); così quel ius nexi mancipiique, che prima governava i rapporti fra i padri della gente patrizia e la plebe circostante, per l'accoglimento di quest'ultima nel populus romanus quiritium, venne a cam biarsi eziandio in una istituzione di carattere quiritario. Fu in questa guisa, che accanto a quella parte del diritto quiritario, che si ispira ad un'assoluta uguaglianza fra i capi di famiglia, fra i quali intercede, se ne presenta un'altra, che tradisce l'inferiorità di con dizione di una delle classi, che entró a costituire il populus, alla qual parte appartengono appunto i concetti del nexum, del manci pium, della manus iniectio (2). 311. Si aggiunge che il contenuto di questi concetti viene anche (1) Questo è ciò che ho cercato di dimostrare più sopra al nº 266, p. 326 e segg. (2 ) Cfr. a questo proposito ciò, che si è detto intorno alla condizione giuridica della plebe, anteriormente alla sua ammessione nella città, al n ° 287, pag. 351 e seg. 383 a risentirsi delle circostanze sociali, in cui essi vennero a consolidarsi. Siccome quindi il concetto ispiratore di tutta la riforma ser viana consisteva nel censo, quale misura e stregua dei diritti, che appartengono ai quiriti, cosi il censo venne in certo modo ad essere un crogiuolo, che servi ad isolare l'elemento giuridico e politico di questi varii istituti dagli elementi di carattere diverso con cui trovasi confuso. Il diritto perdette cosi alquanto del suo carat tere religioso e venne invece ad esseremodellato in modo rozzo o sintetico sul concetto del mio e del tuo; esso inoltre assunse un'im pronta di rigidezza pressochè militare, quale poteva convenire ad un popolo, che presentavasi nell'atteggiamento di un esercito, i cui membri riguardavano l'asta come simbolo del proprio diritto, e « ma xime sua esse credebant, quae ab hostibus caepissent ». Il censo viene in certo modo a misurare il contributo, che ciascuno reca in questa specie di società, e quindi, mentre esso è la stregua per giudicare dell'interesse, che ciascuno ha nella medesima, serve anche per determinare la parte, per cui ciascuno deve contribuire alla co mune difesa. Il popolo romano venne così a compiere collettivamente quel lavoro, che dovrebbe fare anche oggi il giureconsulto per con siderare le persone sotto il punto di vista esclusivamente giuridico, facendo astrazione da tutti gli altri aspetti, sotto cui esse potreb bero essere considerate. Per tal modo il quirite, come tale, non è più nè patrizio nè plebeo, ma viene ad essere isolato da tutti i suoi rapporti gentilizii; si considera come un caput; conta come uno nel censo, e compare nel medesimo, in quanto unifica in sè le per sone e le cose, che da esso dipendono. Di qui l'immedesimarsi dei diritti di famiglia e di proprietà, che è il carattere più saliente del primitivo ius quiritium, e la significazione comprensiva e sintetica dei vocaboli in esso adoperati, che lo indicano ad un tempo come capo di famiglia e quale proprietario di terre, ed hanno in certo modo l'apparenza di altrettante rubriche, che esprimono disgiuntamente i varii atteggiamenti sotto cui il quirite può essere considerato (1). (1) Ritengo che questo sia il solo modo per spiegare in modo plausibile quel ca rattere peculiare al diritto primitivo di Roma, per cui persone e cose, proprietà e famiglia sembrano confondersi ed immedesimarsi insieme. Non è sostenibile infatti, che i Romani a quest'epoca confondessero il diritto del marito sulla moglie e del padre sui figli con quello del proprietario sopra una cosa; ma siccome persone e cose figuravano nel censo, come dipendenti dal medesimo caput, così esse al punto di vista giuridico comparvero dapprima come se entrassero a far parte del medesimo mancipium o della stessa familia. 384 - 312. Sarebbe naturalmente difficile trovare un autore, che accenni a questa tacita elaborazione, ma la medesima risulta da diverse circostanze, le quali insieme riunite provano che tale ha dovuto essere il processo logico, che domino la formazione del ius quiri tium all'epoca serviana. Così, ad esempio, noi sappiamo dal Momm sen, che una delle significazioni più certe dell'espressione « populus romanus quiritium » è stata quella di indicare la « leva patrizio plebea », leva che ha cominciato appunto ad effettuarsi in quest'e poca (1). Noi sappiamo parimenti, che da quest'epoca cominciarono ad essere lasciate in disparte le espressioni di iura gentium, di iura gentilitatis, di ius gentilicium, che dovevano essere ancora frequenti durante l'epoca patrizia, e che presero invece il sopravvento le espressioni di ius quiritium, e di potestà spettante al cittadino ro mano ex iure quiritium. Cosi pure non vi ha dubbio, che le altre forme di proprietà non vengono più tenute in calcolo, ma si tien conto invece del solo mancipium, che vedremo a suo tempo essere stata il primo nucleo della proprietà ex iure quiritium, quello cioè che doveva essere valutata nel censo per commisurarvi la posizione del cittadino (2). Intanto la espressione di quirites entra nell'uso co mune: come serve per le formole di convocazione delle classi e delle centurie, così serve per indicare i testimonii, che si adoperano negli atti di carattere quiritario (classici testes). È da questo punto pa rimenti, che l'asta viene ad essere l'emblema del diritto quiritario, che il populus assunse un carattere essenzialmente militare, nè può ritenersi inverosimile la congettura, che a quest'epoca rimonti il centumvirale iudicium, tribunale essenzialmente quiritario, la cui competenza era appunto indicata dall'asta, che si infiggeva davanti al medesimo (3). Infine fu certamente una conseguenza di questo (1) MOMMSEN, Röm. Forschungen, I, pag. 168. (2) Quanto allo svolgimento del concetto di mancipium, e alla conseguente distin zione delle res mancipii e nec mancipii mi rimetto al seguente lib. IV, cap. II, S $ 1°, 4º, 5º. (3) L'origine del centumvirale iudicium è una delle questioni più controverse nella storia del diritto primitivo di Roma, nè io pretendo qui di risolverla. Per ora mi limito a notare, che per me ha molta significazione quel passo di Gajo: « festuca « autem utebantur quasi hastae loco, signo quodam iusti dominii, quod maxime sua « esse credebant, quae ab hostibus caepissent; unde in centumviralibus iudiciüs hasta « praeponitur ». Parmi infatti di scorgervi un nesso, se non storico, almeno logico, fra l'epoca in cui il quirite appare come un uomo di guerra, armato di asta,disposto a chiamar suo ciò, che conquisterà sul nemico, e l'istituzione del centumvirale iudi 385 speciale punto di vista, sotto cui i quiriti vennero ad essere con siderati, che fra i diversi negozii giuridici, che potevano essere in uso, venne facendosi la scelta di quelli, che si riferissero direttamente al diritto quiritario. Di qui le espressioni di legis actiones, di actus legitimi, di iudicia imperio continentia, di negozii, che si com pievano secundum legem publicam, espressioni tutte, che noi tro viamo anche più tardi, ma la cui origine dovette rimontare a quel momento storico, in cui il diritto quiritario cominciò a consolidarsi, come diritto comune al patriziato ed alla plebe. Che anzi fu anche in quest'occasione, che dovette modellarsi quell'atto quiritario per eccellenza, che è l'atto per aes et libram, il quale serve in certo modo per attribuire autenticità a tutti gli atti, che possono modifi care in qualche modo la posizione giuridica del cittadino nella comunanza quiritaria. 313. Per verità basta porre l'istituzione del censo, come base di partecipazione alla vita giuridica, e politica e militare di una comu nanza, per comprendere come per l'attuazione di un tale concetto fosse indispensabile: lº di determinare quali fossero le persone, che dovevano contare nel censo (caput); 2° di isolare la parte del pa trimonio, che è tenuta in calcolo nel censo (mancipium ) da tutte le altre (nec mancipium ); 3º di determinare le forme pubbliche cium. Ora se vi ha epoca in cui il quirite assuma decisamente questo carattere di uomo di guerra, questa è certamente l'epoca serviana; e quindi è a quest'epoca che deve rimontare il concetto informatore dell'hasta, della festuca, dell'actio sacra mento, in cui questa si adopera, e del centumvirale iudicium, che deve essere appunto preceduto dall'actio sacramento, e avanti cui trovasi infissa l'asta simbolo del giusto dominio. La grave questione fu di recente presa in esame dal MUIRHEAD, Histor. Introd., pag. 74, il quale sembra rannodarsi all'opinione del Niebhur, II, pag. 168, seguita poi dal KELLER e da molti altri, che riporta all'epoca serviana l'istituzione dei centumviri. Questa opinione invece è ora vigorosamente combattuta dal WLASSAK, Römische Processgessetze, Leipzig, 1888, pag. 131 a 139, il quale verrebbe alla conclusione, che l'istituzione dei centumviri non abbia preceduto di molto la lex Ae butia, la quale secondo lui deve essere assegnata al principio del sesto secolo di Roma. Se con ciò egli intende di sostenere, che non abbiamo una prova diretta, che l'esistenza dei centumviri rimonti ad epoca anteriore, egli è certamente nel vero; ma ciò non basta per escludere, che l'istituzione potesse già esistere prima, senza che a noi ne sia pervenuta notizia. È poi incontrastabile, che essa porta in sè un carattere di antichità remota, e che i simboli, da cui è circondata e la procedura da cui è proceduta, ci riportano a quella concezione essenzialmente militare del popolo romano, che rimonta appunto all'epoca serviana. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 25 386 - e solenni, mediante cui questa proprietà potesse essere trasmessa, e che servissero ad attestare qualsiasi modificazione potesse soprav venire nella condizione giuridica del caput (atto per aes et libram ); 4º di richiedere, che questi atti, i quali influissero sulla posizione del quirite, fossero compiuti coll'intervento di un pubblico ufficiale (libri pens) e colla testimonianza di persone, che appartengano alla stessa comunanza (classici testes); 5 ° E infine di introdurre eziandio una procedura, che debba essere di preferenza seguita nelle controversie di diritto quiritario (actio sacramento ), ed anche un tribunale per manente, composto esso pure di persone tolte dalle classi e dalle centurie, per risolvere le questioni relative al diritto stesso (cen tumvirale iudicium ). Non può certamente sostenersi, che tutte queste istituzioni, che poi si incontrano effettivamente nell'antico diritto romano, possano tutte rimontare alla stessa costituzione serviana; ma si può almeno affermare con certezza, che esse erano una conseguenza logica del concetto informatore della medesima. Spiegasi in questo modo come mainel diritto di Roma trovinsi sen z'altro costituita e formata una quantità di istituzioni, in cui si ac centua il carattere quiritario, e come queste acquistino un carattere prevalente e preponderante, mentre le istituzioni di carattere genti lizio sembrano per il momento essere lasciate in disparte. Spiegasi parimenti come il mancipium siasi distinto dal nec mancipium; come l'espressione pressochè militare di mancipium sia sottentrata a quella gentilizia di heredium; come diversi siano i modi per la trasmissione delle res mancipii, e di quelle che non sono tali; come i diritti del quirite compariscano in certo modo come illimitati e senza confine, poichè egli, essendo isolato dall'ambiente, in cui prima si trovava, viene ad essere riguardato come un'individualità sovrana ed indipendente. Intanto si comprende eziandio come pochi siano i concetti e le istituzioni del diritto quiritario, e come esso non governi dapprima tutti i rapporti giuridici, anche fra i cittadini ro mani; poichè intorno ad esso perdurano sempre le istituzioni gentilizie del patriziato ed anche le consuetudini della plebe. Questo ius quiri tium insomma rappresenta quella parte di quel ricco materiale giu ridico, che era posseduto dalle genti patrizie, fluttuante sotto forma consuetudinaria, che primo riusci a precipitarsi ed a cristallizzarsi, e a diventare comune al patriziato ed alla plebe, in quanto facevano parte del populus romanus quiritium. Siccome poi esso venne a consolidarsi fra due classi, che prima erano in condizioni compiuta 387 > mente diverse, così in questo periodo della sua formazione dovette maggiormente irrigidirsi e prendere le mosse da certi concetti, come quelli del nexum, del mancipium, della manus iniectio, che eransi prima formati nei rapporti della classe superiore con quella inferiore. 314. Le cause intanto, che a parer mio possono aver determinata questa singolare formazione del ius quiritium, che doveva poi eser citare tanta influenza sull'avvenire della giurisprudenza romana, debbono essere cercate nel carattere peculiare della costituzione serviana, e nello svolgimento che seppe dare alla medesima il genio eminentemente giuridico del popolo romano. Prima fra esse è la costituzione serviana, in virtù della quale all'organizzazione essenzialmente patrizia di Roma primitiva sottentra un'organizzazione novella, in cui entrano cosi i patrizii come i plebei nella doppia qualità di capi di famiglia e di proprietarii di terre. Siccome infatti la famiglia e la proprietà privata erano l'uniche istituzioni, che erano comuni alle due classi, così esse solo potevano essere di base alla partecipazione nella stessa comunanza. Quindi un primo effetto logico ed inevitabile di questa speciale condi zione, in cui si trovò collocato il popolo dei quiriti, venne ad es sere questo, che al punto di vista giuridico si fece astrazione da quelle istituzioni intermedie, che si frapponevano fra la famiglia ed il popolo, quali erano le genti e le tribù primitive. Sia pure che queste istituzioni continuino ad esistere nel patriziato; ma in tanto l'elemento gentilizio viene ad essere escluso dal ius quiritium nello stretto senso della parola, in quanto che di fronte al censo più non vi sono che capi di famiglia, riguardati come liberi disposi tori delle proprie cose. Quasi si direbbe, che la vita giuridica si ri tira dalle istituzioni intermedie, e viene invece a riunirsi più potente e concentrata nelle due istituzioni estreme, le quali vengono cosi ad irrigidirsi, come il diritto da esse rappresentato, per guisa che la famiglia e il suo patrimonio si cambia nel mancipium del proprio capo, ed il populus assume un carattere essenzialmente militare. Quella distinzione pertanto fra res publica e res familiaris, che già aveva cominciato a delinearsi fin dapprincipio, ora viene ad accentuarsi in modo più vigoroso e potente; poichè tutti i gruppi intermedii vengono in certa guisa ad essere soppressi al punto di vista della costituzione serviana. Parimenti siccome l'intento di questo associarsi di elementi, fra cui intercedevano così gravi differenze, era quello della comune difesa, e forse anche quello dell'offesa e della conquista dei terri 388 torii vicini, così il nuovo popolo non poteva a meno di assumere un carattere essenzialmente militare, che doveva riflettersi eziandio nel suo diritto privato. Infine tutto ciò che riferivasi al connu bium, al culto gentilizio, agli auspizii, continuava anche dopo la costituzione serviana ad essere esclusivamente proprio del patriziato: quindi i soli atti, che potessero essere comuni ai due ordini, dove vano essere atti di carattere mercantile, quale era appunto l'atto per aes et libram, il quale viene così a ricevere molteplici e sva riate applicazioni, e ad essere la forma fondamentale, intorno a cui si aggirano tutti i negozii di carattere quiritario. A queste considerazioni deve aggiungersi quella del genio emi nentemente giuridico del popolo romano, il quale nella elaborazione del proprio diritto seppe spingere fino alle sue ultime conseguenze lo speciale punto di vista, a cui si era collocata la costituzione serviana. Questo è certo, che per l'elaborazione giuridica presen tavasi mirabilmente atto questo considerare i capi di famiglia come altrettanti capita, ed il complesso dei loro diritti come un manci pium, ossia come una questione di mio e di tuo. Era soltanto in questa guisa, che ai rapporti fra i diversi membri della comunanza poteva essere applicata quella iuris ratio, elaborazione propria del genio romano, mediante cui l'elemento giuridico viene ad isolarsi da tutti gli elementi affini. Fu questo il processo, mediante cui il diritto potè essere sottoposto a quella logica astratta, per cui le per sone perdono in certa guisa ogni personalità concreta e diventano dei capita; le fattispecie si riducono ad una selezione di tutto cid che possa esservi di strettamente giuridico nei fatti umani; e le isti tuzioni giuridiche appariscono come altrettante costruzioni geome triche, i cui elementi possono essere scomposti, e ricevere cosi un proprio svolgimento. Il momento appunto, in cui questa logica si presenta più rigida, più esclusiva, fu certamente l'epoca serviana, perchè in essa i membri della comunanza non potevano considerarsi, che sotto l'aspetto del mio e del tuo, e quindi dovevasi in ogni argomento procedere numero, pondere acmensura e attribuire ad ogni diritto le forme accentuate e prominenti del diritto di proprietà. 315. Si potrà forse osservare, che questa specie di astrazione giu ridica mal si può comprendere in un popolo primitivo, quale sa rebbe il Romano. È però facile il rispondere, che una parte di esso non poteva chiamarsi del tutto primitiva, dal momento che aveva attraversato tutto un lungo periodo di organizzazione sociale, ed aveva 389 fatto tesoro delle tradizioni del medesimo. Ma vi ha di più, ed è che senza un'astrazione di questo genere era impossibile la formazione di una comunanza, come quella dei quiriti. Questi sono certamente uomini reali, ma in quanto entrano nella comunanza sono riguardati soltanto come capi di famiglia e come proprietarii di terre. Il quirite pertanto è esso stesso un'astrazione, come sono astrazioni e costruzioni logiche tutti i diritti, che al medesimo appartengono. Ciò fa sì, che ad esso può applicarsi quella logica geometrica e precisa, che nel suo genere non è meno meravigliosa di quella, che i Greci applica rono ai concetti del vero, del bello e del buono. I Romani procedono bensì in base alla realtà, ma hanno anch'essi una potenza specula tiva e di astrazione, per cui isolano l'elemento giuridico dagli elementi affini, e per tal modo riescono a costruire un edifizio logico e dia lettico in tutte le sue parti, le cui linee son dissimulate nelle parti colari fattispecie, ma che certo esiste nella mente dei giureconsulti. È l'ignorare questa dialettica latente, che ci rende così difficile il ricom porre le dottrine dei giureconsulti classici, e a questo proposito sono altamente persuaso, che questa dialettica non può essere sorpresa che alle origini del diritto quiritario. Posteriormente infatti il numero infinito dei particolari colla sua stessa varietà e ricchezza rende im possibile di comprendere l'ossatura primitiva dell'edifizio, mentre la sintesi primitiva del diritto quiritario, le cause che ne determina rono la formazione, e la logica, che ebbe a governarla, possono facil mente somministrarci la chiave per comprenderne il successivo svi luppo. Lo studio di questa struttura primitiva del diritto quiritario, sarà argomento del seguente libro, e conclusione del presente lavoro. Per ora intanto, onde non essere costretto ad interrompere la esposizione della struttura organica del jus quiritium col racconto degli avvenimenti storici, che contribuirono alla formazione di esso, credo opportuno di porre termine al presente libro con un capitolo, in cui cercherò di riassumere quella lotta per il diritto fra il pa triziato e la plebe, che segui nel periodo, che intercede fra la co stituzione serviana e la legislazione decemvirale. Le divergenze fra gli autori nell'apprezzare gli effetti della costituzione serviana, non impediscono, che tutti siano concordi nel riconoscere, che essa costitui il primo passo al pareggiamento dei due ordini. Con essa infatti la plebe venne ad avere un terreno giuridico e legale, sovra cui potè misurarsi col patriziato, ed una assemblea, in cui potè impegnare la lotta. Da quel momento perciò potè manifestarsi quella legge, che secondo Aristotele determina tutte le rivoluzioni politiche e sociali, secondo cui gli eguali sotto un aspetto, tendono anche a diventarlo sotto tutti gli altri aspetti. Come potevano gli eguali nell'esercito, nei comizii centuriati, nei tributi, continuare ad essere disuguali nei connubii, nelle magistra ture, nei sacerdozii, e nel diritto (1 )? Finchè durd il regno di Servio Tullo, la lotta non ebbe occasione di spiegarsi, perchè, secondo la tradizione, lo stesso Servio si appiglid a tutti i mezzi per favorire quel pareggiamento, che era nello spi rito della costituzione da lui introdotta. Egli quindi rinnovo a più riprese il censo; introdusse nuove leggi relative ai contratti ed ai debiti; concesse la cittadinanza ai servi manomessi, comprenden doli anche nel censo; distinse i giudizii pubblici e privati; institui giudici privati per la decisione delle controversie di minore impor tanza, e probabilmente eziandio la Corte dei centumviri per stioni di diritto quiritario nello stretto senso della parola, e cerco eziandio di migliorare la condizione dei creditori (2). Fu in tal le que (1) ARISTOTELES, Politica, ed. Bekker. Lib. V, pagg. 1301 e 1302. Questo con cetto trovasi mirabilmente espresso da CICERONE, De rep., I, 49, allorchè scrive: « quo iure societas civium teneri potest, cum par non sit conditio civium? Iura « paria esse debent eorum inter se, qui sunt cives in eadem republica ». Di qui egli sembra dedurre, che se fosse continuata la dominazione esclusiva dei padri, la città non avrebbe mai potuto avere uno stabile assetto; « itaque cum patres rerum poti rentur, nunquam constitisse civitatis statum putant ». (2 ) Questi sono i provvedimenti attribuiti a Servio Tullio sopratutto da Dionisio, il cui racconto in questa parte ebbe ad essere accettato dal Niebhur, dal Lange e da altri nella loro ricostruzione della storia primitiva di Roma. È tuttavia da notarsi che Dionisio non parla punto dei centumviri, ma solo dei iudices privati. V. Dion., IV, 22, 4, 10, 13. 391 modo che mentre egli si cattivo l'affetto e la riconoscenza delle plebi, che continuarono sempre a venerarne la memoria e a con siderarlo come l'iniziatore di tutte le riforme ad esse favorevoli, si procurò invece una sorda opposizione nel patriziato, come lo dimostra il fatto, che egli avrebbe dovuto confinarlo ad abitare nel vicus patricius (1). Dopo Servio così il patriziato che la plebe si trovarono di fronte ad un pericolo comune, che fu il tentativo di tirannide di Tar quinio il Superbo, il quale avrebbe tolto di mezzo le leggi ser viane, e mentre da una parte cercò di occupare la plebe con la vori edilizii, si studið dall'altra di comprimere il patriziato, non curandosi di convocare il senato, nè di riempirne i seggi, che re stavano vacanti (2). – Ne consegui una sosta nello svolgimento dei concetti ispiratori della costituzione serviana: sosta forse più appa rente, che reale, poichè se il governo di un tiranno comprime la libertà di tutti, può sotto un certo aspetto esser favorevole allo svolgersi dell'uguaglianza fra le varie classi, rendendo tutti eguali di fronte al dispotismo di un solo. Il tentativo ad ogni modo non potè riuscire, e quando i due or dini dimenticarono le loro gare di fronte al nemico comune, venne ad essere naturale, che l'evoluzione si ripigliasse, ritornando a quelle istituzioni serviane, che per il momento erano ancora le sole, che potessero essere di base ad un accordo del patriziato e della plebe. 317. Narra infatti Livio, che i primi consoli furono nominati in base ai commentarii di Servio Tullo, e Dionisio aggiunge, che essi avrebbero richiamate in vigore le leggi di Servio sui contratti, abrogate da Tarquinio ed accette alla plebe, riattivata l'istituzione del censo, e ristaurati i comizii per l'elezione dei magistrati e per le deliberazioni popolari (3). Tutti gli autori poi, che ricordano il passaggio dal governo regio al repubblicano, sono concordi in rico noscere, che il cambiamento essenziale si ridusse a sostituire al re, magistrato unico ed a vita, il consolato, magistrato duplice ed (1) « Patricius vicus, scrive Festo, dictus eo, quod ibi patricii habitaverunt, iu a bente Servio Tullio, ut, si quid molirentur adversus ipsum, ex locis superioribus opprimerentur ». Bruns, Fontes, ed. V, pag. 351. (2) Dion., IV, 25; Liv., I, 49. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, I, pag. 209, ove riassume le tradizioni diverse a noi pervenute intorno a Tarquinio il Superbo. (3 ) Liv., I, 60; Dion., V, 2. 392 annuo (1). Il potere pertanto dei consoli fu una continuazione del potere regio, colla sola differenza che il potere religioso si venne già in parte separando dal civile, in quanto che i poteri, che appar tenevano al re qual sommo sacerdote del popolo romano, furono per imitazione dell'antico affidati a un rex sacrorum, o rex sa crificulus, ma in realtà si vennero concentrando nel pontifex maximus, chiamato a presiedere il collegio dei fpontefici (2 ). Da cid in fuori il potere sovrano non è dapprima ripartito fra i due consoli, ma persiste intero in ciascuno di essi, salvo la reciproca intercessione, che l'uno può opporre agli atti compiuti dall'altro. Che anzi, ad impedire che la continuità dell'imperium possa essere interrotta col passare da un console ad un altro, tocca al magi strato che esce di proporre ai comizii il proprio successore, e nel caso in cui egli non lo faccia, si continua sempre a provvedere coll'istituzione dell'interregnum, conservando il concetto ed il vo cabolo, che erano già in vigore durante il periodo regio (3 ). È poi solo in seguito alle lotte fra patriziato e plebe, e in causa anche dell'accrescersi della dominazione romana, che quell'unico potere (imperium ) che accentravasi dapprima nel re e poscia nei consoli, si viene lentamente e gradatamente suddividendo fra le mol. teplici magistrature del periodo repubblicano; per guisa che le ma gistrature maggiori (consoli, pretori, censori) si dividono in certo modo le funzioni, che un tempo erano comprese nell'imperium regis, (1) Questo concetto, che nel passaggio alla repubblica non siasi sostanzialmente mutato il carattere del potere spettante al magistrato, occorre in Dion., IV, 72-75; in CiceR., De rep., II, 30 e in Livio, II, 1, 17. V. il raffronto che ne fa il Bongai, op. cit., pagg. 562-69. (2 ) Che la dignità del pontifex maximus dati soltanto dalla repubblica, mentre prima era il re stesso, che era il sommo sacerdote del popolo romano, è cosa da tutti ammessa. V. fra gli altri, Bouché-LECLERQ, Les Pontifes de l'ancienne Rome, p. 8 e 9; e il Willems, Le droit public romain, pag. 51 e pag. 318. A parer mio la causa storica del fatto sta in questo, che colla costituzione serviana il populus ro manus quiritium, comprendendo anche la plebe, perdette in parte quel carattere re ligioso, che aveva finchè era ristretto alle genti patrizie, e quindi il magistrato del popolo romano assume un carattere essenzialmente civile e militare, mentre i pon tefici, pur rappresentando il popolo come famiglia religiosa, continuarono ad essere i custodi delle tradizioni religiose e giuridiche di quel patriziato, da cui erano tolti. (3 ) V. quanto all' interrex e alla nomina di esso per parte dei patres o patricii ciò che si è detto ai numeri 237-39, pag. 288 e segg., ove ho cercato di dimostrare che la nomina dell'interrex, la patrum auctoritas e la lex curiata debbono riguar darsi come sopravvivenze della costituzione esclusivamente patrizia. 393 mentre le magistrature minori (questori, edili) sono uno svolgimento di quegli ufficiali subalterni, che dapprima erano nominati dal re e dal console, e che finiscono col tempo per essere anche essi nomi nati direttamente dal popolo (1). È in questo modo che si spiega come mai siasi potuto avverare una trasformazione cosi grande nella forma di governo, senza che si alterassero le basi fondamentali della costi tuzione primitiva di Roma. 318. Intanto finchè durarono i pericoli esterni delle guerre susci tate dagli esuli Tarquinii, si mantenne fra i due ordini un' appa rente concordia (2), come lo dimostra il fatto, che i consoli sogliono essere tolti da famiglie ritenute di tendenze favorevoli alla plebe, e che sono i consoli stessi, che propongono di togliere le scuri dai fasci, allorchè rientrano nelle città, e consacrano con leggi spe ciali il ius provocationis ad populum (3). Ma appena colla morte di Tarquinio si attutiscono i pericoli esterni, si accentuano invece i dissidii interni, ed è allora che si inizia una lotta, che direbbesi un modello nel suo genere, tanta è la tenacità del patriziato nel conservare i suoi privilegii e la perseveranza della plebe nell'ap profittarsi di tutte le opportunità per ottenere concessioni novelle. Egli è durante questa lotta, che già si pud scorgere come nella massa plebea venga distinguendosi la plebe ricca ed agiata, la quale essendo pari in ricchezze aspira alla comunanza dei connubii e degli (1) La specializzazione dell'imperium del magistrato è uno dei processi più degni di nota, che presenti lo svolgimento delle istituzioni repubblicane, poichè l'imperium regis, al pari del potere giuridico del capo di famiglia, parte da un'unità e sintesi potente, a cui succede durante la repubblica una differenzazione, la quale,mentre è determinata dall'incremento della città e dalle lotte fra patriziato e plebe, obbe. disce però sempre alla logica fondamentale del concetto primitivo di imperium. Cfr. MOMMSEN, Le droit public romain, I, pag. 5; Herzog, Op. cit., I, § 32, pag. 580 e segg., e ciò che si disse in proposito al nn. 201-204, pag. 245 e segg. (2) La diversità di trattamento, usata dal patriziato alla plebe, nell'epoca che seguì immediatamente la cacciata dei re e in quella posteriore alla morte di Tarquinio il Superbo è accennata da Liv., II, 21, 6 e da Sallustio, Hist. fragm., I, 9. Nota però giustamente il Bonghi, che i dissidii esistevano già prima, e che quindi venne soltanto meno l'indulgenza, che prima era adoperata. Op. cit., pag. 302. (3) La provocatio ad populum, che Livio chiama « unicum libertatis praesidium ebbe ad essere consacrata negli inizii della repubblica colla lex Valeria, proposta dal console Valerio Pubblicola. La provocatio doveva già preesistere nel periodo regio, ma fu necessaria una espressa consacrazione di essa per il nuovo elemento, che era entrato a far parte del populus. Cfr. ciò che si disse al n ° 245, pag. 300 e 301. >> 394 onori, e la plebe povera e minuta, che sopratutto teme il carcere privato dei creditori patrizii, e aspira a quella ripartizione dell'ager pubblicus, mediante cui può entrare a fare parte della vera ed ef fettiva cittadinanza, accolta nelle classi e nelle centurie (1). Di qui i caratteri peculiari di questa lotta, che ha del pubblico e del pri vato ad un tempo, cosicchè una sommossa provocata dalla legge inumana sulla condizione dei debitori, può condurre alla istituzione del tribunato della plebe, al modo stesso che una mozione per restringere l'arbitrio del magistrato, finisce per riuscire ad una proposta di generale codificazione. Cosi pure è un carattere di questo conflitto, che le proposte dei tribuni sogliono comprendere più provvedimenti ad un tempo, anche di natura diversa, e cid perchè essi mirano a tenere unite la plebe ricca ed agiata e quella povera e minuta (2 ). Di più anche in questa lotta si mantiene quel carattere pressochè contrattuale, che ha governato la formazione della città; poichè i due ceti vengono fra di loro a transazioni e ad accordi, stipulano dei foedera, e cercano persino di dare aime desimi quella consacrazione religiosa, che è propria dei trattati fra i popolidiversi (leges sacratae) (3). Così pure la plebe, quando trova incomportabile la propria coesistenza nella città, minaccia di abban donare la comunanza e di fermare altrove la propria sede, o quanto meno si ricusa alla leva, che è il primo obbligo e diritto del citta dino. Dappertutto infine si palesa il carattere essenzialmente pra tico del popolo romano, in quanto che il conflitto non appare do minato da questo o da quel concetto teorico, ma sembra essere determinato dalle opportunità ed occasioni, che si presentano nella realtà dei fatti. La questione infatti che si agita viene nella so stanza ad essere una sola, cioè quella del pareggiamento giuridico e politico dei due ordini; ma essa prende occasione ora dai mal trattamenti inflitti ai debitori, ora dall'arbitrio del magistrato, ora (1) Questa distinzione della plebe in due parti è acutamente notata da leinio GENTILE, Le elezioni e il broglio nella Rep. Rom., pag. 24. (2) Di qui l'espressione di lex satura o per saturam, la quale secondo Festo si gnificherebbe a lex multis aliis legibus confecta ». Siccome però essa cambiavasi in un mezzo per ottenere favore a provvedimenti, che altrimenti non sarebbero stati approvati, accoppiandoli con altri che erano popolari, così si cercd diporvi riparo colla lex Cecilia Didia del 655 di Roma. Cic., De domo, 20, 53. Festo, vº Satura. Cfr. WILLEMS, op. cit., pag. 184. (3 ) V. quanto alle leges sacratae la dissertazione del LANGE, De sacrosancta tri buniciæ potestatis natura eiusque origine. Leipzig, 1883. 395 dalla ripartizione dell'agro pubblico, ora dall'incertezza del diritto, ed ora infine dal divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe, e dall' esclusione di quest'ultima dalle magistrature e dai sacer dozii (1). Per tal modo quella plebe, che memore dapprima della condizione pressochè servile da cui era uscita, si contenta di chie. dere l'istituzione di un magistrato, il quale non abbia altra potestá che quella di venirle di aiuto, finisce col tempo, guidata ed orga nizzata da questo istesso magistrato, per ottenere non solo il pareg giamento giuridico e politico, ma per far entrare nei quadri della costituzione politica di Roma i suoi magistrati (tribuni della plebe), i suoi plebisciti, ed i suoi comizii tributi (2 ). 319. Qui però non può essere il caso di tener dietro alle vicis. situdini diverse dei varii aspetti della questione politica e sociale, che si agito fra il patriziato e la plebe, ma piuttosto di cercare quali fossero le condizioni rispettive dei due ordini per ciò che si riferisce al diritto privato. È questo certamente il maggior problema che presenti questo pe riodo di transizione, poichè se la storia ha serbato qualche traccia delle lotte politiche fra il patriziato e la plebe, noi sappiamo quasi nulla di quello che accadde fra di loro nell'attrito dei quotidiani in teressi. Si aggiunge che le testimonianze, che ci pervennero in proposito, sono del tutto contradditorie. Mentre infatti Dionisio attesta che si rimisero in vigore le leggi intorno ai contratti attri buite a Servio Tullio, Pomponio invece dice senz'altro, che tutte le leggi promulgate dai re furono abolite con una legge tribunizia, e che tutto fu lasciato alla consuetudine come era prima (3). Non vi è quindi altro modo di uscire dalla difficoltà, che di argomentare lo stato del diritto privato dalle condizioni rispettive, in cui si tro vavano le due classi. (1) Un riassunto chiaro ed ordinato degli aspetti essenziali, sotto cui ebbe a svol gersi la lotta, fra patriziato e plebe, nelle parti attinenti al diritto, occorre nel Mui RHEAD, Histor. Introd., part. II, sect. 17, pag. 83-88. Per un racconto più partico lareggiato cfr. il Lange, Histoire intérieure de Rome, livre II, pag. 111 a 217. (2 ) Già ebbi occasione di riassumere questo singolare svolgimento della costitu zione politica di Roma a proposito dei comizië tributi ai numeri 233-34, p. 271 e segg.; dei plebisciti ai numeri 231-32-33, pag. 281 e seg.; e dei tribuni della plebe n ° 249, pag. 292 e seg. (3 ) Dion., V, 2; Pomp., Leg. 2, § 3 (Dig. I, 2). Secondo quest'ultimo l'incertezza del diritto sarebbe durata circa vent'anni; ma è facile il notare, che se essa perdurò fino alle XII Tavole, l'intervallo dovette essere di circa sessant'anni. 396 Ora è certo anzitutto, che in questo periodo quell'attrito delle classi, che appare nel campo politico, dovette avverarsi eziandio nel dominio strettamente giuridico. Anche qui dovettero trovarsi di fronte le tradizioni patrizie e le consuetudini plebee, coll' avver tenza perd che la magistratura esclusivamente patrizia fini per dare una prevalenza alle prime sulle seconde; cosicchè è probabile, che sopratutto la plebe ricca ed agiata, malgrado il divieto dei connubii, cercasse già in qualche modo di imitare l'organizzazione della fa miglia patrizia. Di più siccome eravi fra il patriziato e la plebe co munanza di commercio, ma non ancora quella di connubio, cosi si dovette continuare quell'elaborazione di un jus quiritium, comune alle due classi, che già erasi iniziata colla costituzione serviana, ed il medesimo dovette continuare a modellarsi sotto quelle forme di carattere mercantile, che allora si erano introdotte, ricorrendo sopratutto all'applicazione dell'atto quiritario per eccellenza, ossia dell'atto per aes et libram. Che anzi, quando si voglia ammettere con alcuni autori, che il tribunale de' centumviri, composto dap prima di quiriti tolti dalle varie classi e poscia dalle varie tribù, rimonti all'epoca di Servio Tullio, converrebbe, inferirne che questo Tribunale, in quell'epoca probabilmente presieduto da un ponte fice, dovette cooperare efficacemente alla formazione del jus qui ritium, come quello che anche più tardi appare chiamato a ri solvere questioni di diritto strettamente quiritario (1). Nella sua opera tuttavia la corte dei centumviri dovette più tardi anche es sere aiutata dai decemviri stlitibus iudicandis, i quali pur sareb bero stati istituiti a poca distanza dalla legislazione decemvirale, e dichiarati inviolabili, al pari dei tribuni e degli edili della plebe, sarebbero stati chiamati a decidere le questioni di stato (2 ). Infine è (1) Quanto all'istituzione dei centumviri e alle varie opinioni intorno all'epoca, a cui rimonta vedi il capitolo precedente, nº 312, pag. 384, nota 3. (2) È del tutto incerta anche l'origine dei decemviri stlitibus iudicandis, in quanto che l'unico accenno ai medesimi sarebbe quello, che occorre in Livio, III, 55, il quale parla di iudices decemviri, stati dichiarati inviolabili al pari dei tribuni e degli edili della plebe colla legge Valeria Horatia del 305 di Roma. Di recente poi il WLASSAK, Römische Processgesetze, Leipzig, 1888, pag. 139 a 151, sostiene che i decemviri stlitibus iudicandis non debbono confondersi coi iudices decemviri di Livio ma sono di istituzione posteriore. Noi però sappiamo di essi, che giudicavano delle questioni di libertà e distato. Cic., pro Caec., 33. V. per l'opinione comunemente ricevuta Keller, Il processo civile romano (Traduz. Filomusi, Napoli 1872, pag. 17), il quale anzi li farebbe rimontare sino a Servio Tullio, come giudici per le cause 397 pur probabile, che gli edili della plebe, come ufficiali dipendenti dai tribuni, fossero fin d'allora chiamati a risolvere quelle quistioni fra i plebei, che sorgevano sui mercati e sulle fiere, e che comin ciassero cosi a dare forma e carattere giuridico alle costumanze della plebe. In ogni caso è incontrastabile, che in questo periodo il console, pressochè assorbito dalle cure militari, dovette, per quello che si riferisce alla elaborazione del diritto e all'amministrazione della giustizia, lasciare una larga parte alla influenza del collegio dei pontefici. Questo collegio infatti, che abbiamo visto, fin dal l'epoca di Numa, essere chiamato alla custodia delle tradizioni re ligiose e giuridiche, aveva serbato il proprio ufficio anche dopo la cacciata dei re, e aveva anzi acquistata una indipendenza maggiore, in quanto che era presieduto non più dal re, ma da un pontifex maximus, in cui si unificavano i poteri al medesimo spettanti. Si comprende pertanto la testimonianza pressochè unanime degli scrittori, che ci descrivono il diritto primitivo di Roma, sopratutto negli inizii della Repubblica, come riposto negli archivii de' ponte fici, e parlano di questi ultimi come dei primimaestri in giurispru denza, e del ius pontificium, come di una scuola a cui venne poi formandosi il ius civile (1). Intanto è naturale, che i pontefici, come depositarii delle antiche tradizioni, avessero sopratutto per iscopo di applicare le forme antiche ai rapporti giuridici, che venivano sor gendo collo svolgersi della convivenza civile, e che in questo senso venissero continuando quella elaborazione di un ius quiritium, che erasi iniziata dal tempo, in cui la plebe era entrata a far parte della cittadinanza romana. 320. Insomma la conclusione ultima viene ad essere questa, che in questo periodo dovette avverarsi un continuo attrito fra le isti tuzioni patrizie e le costumanze plebee, e che perciò dovette essere grandissima l'incertezza intorno a quel diritto, che doveva essere applicato nei rapporti fra il patriziato e la plebe. Ne conseguiva che private, il che non sembra da ammettersi, perchè il giudice di queste cause dovette essere piuttosto il iudex unus tratto dai iudices selecti. (1) Per l'influenza dei pontefici sul diritto civile vedi sopra i numeri 262 e 263, pag. 321 e seg. colle note relative. Si occupò molto largamente di questo argomento il KARLOWA, Röm. R. G., 1, $ 43, pag. 219 e seg. Trovasi poi un esattissimo elenco dei libri, annali e commentarii dei pontefici nel TEUFFELS, Geschichte der röm. Literatur, Leipzig, 1882, SS 70-76, pag. 114 a 119. 398 il console, chiamato ad amministrare la giustizia, finiva per non avere alcun confine al proprio arbitrio, il che doveva essere grave alla plebe, anche per trattarsi di magistrato, il quale per essere tratto esclusivamente dall'ordine patrizio, poteva ritenersi favorevole a quest'ultimo. Si comprende cid stante come Terentillo Arsa, nel 292, cominciasse dal chiedere che fosse eletta una commissione, che determinasse per iscritto quale fosse la giurisdizione dei consoli, acciò fosse posto un confine all' arbitraria ed oppressiva ammini strazione di ciò, che essi chiamavano col nome di diritto e di legge (1). Fu solo nell'anno dopo, che d'accordo coi colleghi, per togliere alla sua proposta il carattere di odiosità contro il potere dei consoli, egli chiese che la legge, così pubblica come privata, dovesse essere codificata, e che cosi ogni incertezza venisse per quanto si poteva ad essere rimossa. L'importanza della questione viene ad essere provata dalla lotta di dieci anni, che ebbe ad essere sostenuta in torno alla medesima; poichè solo nel 303 di Roma si ebbe completa la legislazione decemvirale. Qui non può essere il caso di entrare nell'esame minuto della medesima, nè di parlare dei tentativi di rico struzione, che se ne vennero facendo anche in questi ultimi tempi (2): mi basterà invece dir qualche cosa intorno al carattere generale di questo codice, da cui doveva prendere le mosse tutto lo svolgimento posteriore del diritto civile di Roma. A mio avviso la legge decemvirale e la legge Canuleia, che la segui a poca distanza (309 di Roma) ed aboli il divieto de' con nubii fra il patriziato e la plebe, debbono essere considerate, quanto al diritto privato di Roma, come l'avvenimento che chiude il periodo delle origini ed apre quello dello svolgimento storico della giuris prudenza romana. Colle leggi delle XII tavole si chiude in certo modo il periodo del ius non scriptum, di quel diritto cioè, che viveva più nelle consuetudini che nelle leggi, ed incomincia il pe riodo del ius scriptum, poichè da quel momento anche l'interpre tazione cominciò ad avere la sua base nella codificazione (3 ). Con (1) Liv., III, 9. Cfr. MuirŅEAD, op. cit., pag. 87 e 88. (2 ) V. Ferrini, Storia delle fonti del diritto romano, pag. 5 a 9. È poi noto, che i grandi tentativi di ricostruzione delle XII Tavole si riducono a quelli di Jacopo Gottofredo, del Dirksen e a quello recentissimo del Voigt, già più volte citato. (3) Non voglio dire con ciò, che prima non esistessero delle leggi scritte: ho anzi dimostrato che dovettero esservene fin dal periodo regio. Tuttavia è solo colle XII Tavole, che si introdusse tutto un sistema di legislazione scritta, il quale potè servire 399 esso parimenti termina il periodo del ius non aequum, ossia di un diritto disuguale fra patriziato e plebe, e comincia il periodo del ius aequum, ossia la formazione di un diritto eguale per l'uno e per l'altro ceto, il che gli autori esprimono con dire, che le leggi delle XII Tavole erano intese ad aequandum ius e ad aequandam libertatem (1). Con esso infine termina il periodo della indistinzione del fas e del ius, al modo stesso che già si possono scorgere i principii del diverso indirizzo, in cui si pongono il diritto pubblico e il diritto privato; dei quali il primo continua a svolgersi nelle lotte della piazza e del foro, mentre il secondo comincia ad apparire come il frutto della tacita elaborazione prima dei pontefici e poscia dei giureconsulti. 321. Non vi ha poi dubbio che anche la legislazione decemvirale deve essere considerata come un compromesso fra i due ordini e in certo modo come una specie di patto fondamentale della loro coe sistenza nella medesima città (2 ). Di qui la conseguenza, che le XII Tavole nè comprendono un sistema compiuto di legislazione pubblica e privata, nè rinnovano tutte le disposizioni che già erano contenute nelle leggi regie: ma sembrano il più spesso limitarsi ad introdurre sotto forma imperativa quei provvedimenti, che potevano essere stati oggetto di discussione e di lotta, il che è sopratutto evidente quanto alle disposizioni, che si riferiscono al diritto pub come punto di partenza alla iuris interpretatio ed alla disputatio fori, di cui parla Pomponio, L. 2, § 5, dig. 1-2. Quanto ai caratteri particolari di questa interpre tatio dei veteres iures conditores, vedi JHERING, Esprit du droit romain, III, pag. 142 e segg. (1) LIVIO (III, 24 ) fa dire ai decemviri « se quantum decem hominum ingeniis provideri potuerit, omnibus, summis infimisque iura aequasse ». Di quianche l'espres sione, che occorre in Livio ed in Tacito, che le leggi delle XII Tavole fossero il fons omnis aequi iuris, ed anche il finis aequi iuris, perchè esse, a differenza di altre leggi, non furono il frutto di una sorpresa, ma di una vera transazione ed accordo fra i due ordini. Vedi i passi relativi nel RIVIER, Introd. Histor., Bruxelles, 1881, pag. 163 a 167, come pure nel Voigt, Die XII Tafeln, I, pag. 7 e note relative. (2) Questa specie di compromesso appare dalle parole che Livio, III, 31 attribuisce ai tribuni della plebe: « finem tamen certaminum facerent. Si plebeiae leges displi « cerent, at illi communiter legum latores et ex plebe et ex patriciis, qui utrisque « utilia forent, quaeque aequandae libertatis essent, sinerent creari ». Di qui rica vasi anche un argomento per inferire, che la legislazione decemvirale suppone già una specie di fusione del diritto delle genti patrizie con quello della plebe, il che sarà meglio dimostrato più oltre. 400 blico, e per quelle che riguardano l'usura e il trattamento che il creditore può usare contro il debitore (1). Cid spiega anche in parte la sobrietà e la concisione della legislazione decemvirale, la quale, senz'entrare nella descrizione degli istituti ed in disposizioniminute, si limita a porre dei concetti sintetici e comprensivi, pressochè enunziati in forma assiomatica, lasciando poi alla interpretazione di ricavare da essi tutte le conseguenze, di cui potevano essere ca paci (2). Di qui derivano eziandio la venerazione e la riverenza, in cui fu tenuto sempre questo codice primitivo del popolo romano; la differenza che i Romani ravvisarono sempre fra queste leggi fonda mentali, e quelle che si vennero gradatamente aggiungendo alle medesime; ed il fatto incontrastabile, che la legislazione decemvirale, malgrado la pochezza dei proprii dettati, ha finito per essere il punto di partenza di un sistema intiero di legislazione. Tuttavia il carattere più saliente e più importante per la storia del diritto primitivo di Roma, che a mio giudizio vuolsi ravvisare nella legislazione decemvirale, consiste in questo, che siccome le XII Tavole furono il primo codice comune ai due ordini, cosi fra tutti i documenti dell'antico diritto, esse portano le traccie più evi denti dell'origine diversa delle istituzioni, che entrarono a costituire il sistema del primitivo diritto romano. In esse infatti noi troviamo da una parte trasportate di peso certe istituzionidelle genti patrizie, il che si avverò sopratutto quanto all'organizzazione della famiglia e alla successione e tutela legittima degli eredi suoi, degli agnati e dei gentili, istituzioni che i giureconsulti ci dicono appunto essere state introdotte dalla legislazione decemvirale (3 ). In esse parimente (1) Così, ad esempio, la legge secondo cui a de capite civis nisi maximo comi tiatu ne ferunto » mira certamente ad impedire, che le accuse capitali potessero re carsi innanzi ai concilia plebis, come i tribuni della plebe avevano più volte tentato di fare, come lo dimostra, fra gli altri, il processo contro C. Marcio Coriolano. Uno scopo analogo dovette pure avere la legge: privilegia ne inroganto. Cic., de leg., 19, 44. (2) Nota a ragione il Bruns, che nelle XII Tavole già si appalesa il genio giu ridico di Roma, sia perchè esse già comprendono ogni parte del diritto, e sia anche per il carattere obbiettivo e pratico delle singole disposizioni. Vedi HOLTZENDORF's, Rechts Encyclopedie, I, 117. A parer mio esse dimostrano eziandio, che l'elabora zione giuridica era già pervenuta molto innanzi, in quanto che già si dànno come formati i concetti del nexum, del mancipium, del testamentum, senza che occorra di indicarne il contenuto. (3) Se prestiamo fede ai giureconsulti sarebbero state introdotte direttamente dalla legislazione decemvirale le successioni e le tutele legittime e le legis actiones, le quali sarebbero state composte dai pontefici sui termini stessi delle XII Tavole. 401 è evidente lo sforzo dei decemviri di porgere alla plebe un mezzo per uscire dalla posizione di fatto in cui si trovava, e procurarsi invece una posizione di diritto; come lo dimostra fra le altre cose la parte assai larga fatta all'usus auctoritas, che compare qual mezzo per contrarre le giuste nozze, per acquistare le cose mobili ed immobili, e qual modo di acquisto della stessa eredità (1). Infine nella legislazione decemvirale si rinviene eziandio una parte dovuta all'elaborazione di quel rigido ius quiritium, che ebbe a formarsi sotto l'influenza del censo e delle altre istituzioni serviane, i cui concetti fondamentali sono quelli del nexum, del mancipium, del testamentum, dell'atto per aes et libram, nei quali tutti il quirite appare con un potere senza confini, cosicchè la sua parola viene in certo modo a convertirsi in legge: « uti lingua nuncupassit ita ius esto » (2 ). 322. Questi varii elementi di origine diversa, che insieme ad alcune disposizioni particolari imitate dalle legislazioni greche (3) (1) Lo stesso è pure a dirsi del riconoscimento della fiducia, la quale non avendo forma giuridica dovette probabilmente nascere nelle consuetudini della plebe. Vedi in proposito ciò che si disse quanto al contributo della plebe nella formazione del di ritto romano ai numeri 148 a 157, pag. 182 e segg., e sopratutto a pag. 184. Si ritornerà poi sull'argomento nel libro seg., cap. IV, § 3, trattando della mancipatio cum fiducia. (2) V. cap. precedente, relativo all'influenza della costituzione serviana sulla for mazione del ius quiritium. (3) V. Lattes, L'ambasciata dei Romani per le XII Tavole. Milano, 1884. Non può qui essere il caso di trattare a fondo la questione della ambasciata in viata in Grecia e ne quella dell'influenza greca sulle XII Tavole, questione che pud aver bisogno di un nuovo stadio dopo la scoperta delle leggi di Gortyna: ma credo che il seguente libro proverà fino all'evidenza, che le basi fondamentali del primitivo ius quiritium sono desunte dalle istituzioni già esistenti fra le genti italiche, e che furono eminentemente ed esclusivamente romani così il modo in cui furono foggiati gli istituti giuridici, come il processo logico e storico ad un tempo, con cui furono svolti. L'analogia pertanto di certi istituti può anche essere prove nuta o dalla comune origine ariana, o dalle condizioni analoghe, in cui si trova rono le genti italiche e le elleniche nel passaggio dall'organizzazione per genti alla vita cittadina; mentre l'imitazione diretta si limita a disposizioni di poca impor tanza, la cui origine ellenica è sempre di buon animo accennata dagli autori la tini, che non disconobbero mai la sapienza dei Greci, pur affermando la propria superiorità in tema di diritto. Cfr. Voigt, XII Tafeln, I, pag. 10 a 16, dove pare si trovano raccolti i passi degli antichi autori, che si riferiscono all'argomento. Quanto all'influenza greca sulla giurisprudenza romana in genere mi rimetto a ciò che ho scritto nella Vita del diritto, pag. 179 a 194. 1. CARLE, Le origini del diritto di Roma, 26 402 formarono il substratum della legislazione decemvirale, finiscono dopo di essa per svolgersi contemporaneamente e quindi con essa può dirsi aver termine il ius quiritium propriamente detto, e cominciare. invece l'elaborazione di un ius proprium civium romanorum, in cui continuarono però a perdurare le primitive istituzioni del ius quiritium. Ciò ci è dimostrato dall'attestazione di Pomponio, se condo cui tutto quel diritto, che venne a formarsi sulla legislazione decemvirale, mediante la iuris interpretatio, la disputatio fori, e la formazione delle legis actiones, venne appunto ad essere indi cato col vocabolo di ius civile (1). Anche qui pertanto si fa ma nifesto quel singolare magistero, che si rivela poi in tutta la forma zione della giurisprudenza romana, per cui, accanto al diritto già formato e consolidato, havvene una parte, che continua sempre ad essere in via di formazione. Per talmodo accanto al ius quiritium, iniziatosi sopratutto colla costituzione serviana, venne formandosi il ius civile, i cui esordii partono dalla legislazione decemvirale; poi accanto a questo si esplicò il ius honorarium, elaboratosi sopratutto sull'editto del Pretore; infine molto più tardi ancora, secondo qualche autore, accanto al ius ordinarium viene formandosi il cosi detto ius extraordinarium (2 ). Parmi quindi giusto il ritenere, che colla legislazione decemvirale si chiude il periodo delle origini propriamente dette, in cui le varie istituzioni trovansi ancora allo stato embrionale, e comincia il vero svolgimento storico del diritto romano, in cui le varie parti del di ritto pubblico e privato, già procedendo separate le une dalle altre, debbono anche essere studiate separatamente nel proprio sviluppo. È a questo punto pertanto, che può essere opportuno un tentativo di ricostruzione di quel primitivo ius quiritium, che a mio giudizio costituisce l'ossatura primitiva di tutta la giurisprudenza romana, e può darci il segreto di quella dialettica potente, che strinse insieme le varie parti della medesima. Spero che la bellezza e l'im portanza grandissima del tema, e la luce, che può derivarne per la spiegazione del diritto primitivo di Roma, il quale, quanto alle proprie origini, non ha cessato ancora di essere un grandemistero, valgano a farmi perdonare l'audacia del tentativo. (1) KUNTZE, Ius extraordinarium der römischen Kaiserzeit. Leipzig, 1886. (2 ) POMP., Leg. 2, SS 5 e 6, Dig. (1-2). LIBRO IV. Ricostruzione del primitivo ius quiritium (*). CAPITOLO I. La struttura organica del ius quiritium ed il concetto del quirite. 323. E opinione pressochè universalmente adottata, che il primitivo diritto di Roma porti in sè le traccie della violenza e della forza, e debba essere considerato in ogni sua parte come il frutto di una evo luzione lenta e graduata, determinata esclusivamente dalle condizioni economiche e sociali, in cui trovossi il primitivo popolo romano. Lo studio invece della genesi e della formazione del ius quiritium, nel momento in cui per opera della costituzione serviana comincio ad essere comune alle due classi, mi conduce a conclusioni alquanto diverse. Questo ius quiritium, se nei vocaboli può ancora portare le traccie di un periodo anteriore di violenza, nella sostanza invece è già il risultato di una selezione e di un'astrazione potente, intesa da una parte a trascegliere dal periodo gentilizio quelle istituzioni, (*) Ancorchè l'intento di questo libro IV sia di isolare in certo modo quella parte del diritto privato di Roma, che prima riuscì a consolidarsi sotto il nome di ius quiritium, e a costituire così il nucleo centrale di quella elaborazione giuri dica, che doveva poi durare per 14 secoli, mi riservo tuttavia anche qui la libertà di seguire talvolta lo svolgimento logico e storico dei varii istituti giuridici, anche oltre gli stretti confini del ius quiritium. Il motivo è questo, che anche nella clas sica giurisprudenza occorrono certe singolarità, le quali, a parer mio, non potranno mai essere spiegate, quando non siano sorprese alle origini. Siccome infatti la carat teristica del tutto peculiare del diritto romano consiste nell'essere il frutto di una elaborazione, che malgrado la sua lunga durata non abbandono mai intieramente quei metodi e processi, con cui era stata iniziata; così in esso accade ben soventi, che negli ultimi sviluppi occorrano certe apparenti singolarità ed anomalie, le quali non sono che una conseguenza logica di fatti, che si avverarono nel principio della formazione, e dell'indirizzo con cui questa ebbe ad essere iniziata. 404 - che potevano accomodarsi alla vita della città, e dall'altra a sce verare l'elemento giuridico da tutti gli altri punti di vista, sotto cui i fatti sociali ed umani possono essere considerati. Il suo linguaggio rozzo ma efficace; i suoi concetti sintetici e comprensivi; le solennità tipiche, in cui esso si manifesta; la disinvoltura con cui si maneg giano tali solennità e si trasportano da uno ad un altro negozio giuridico; la coerenza organica delle sue varie parti sono già la ma nifestazione di una potente logica giuridica, di cui appare investito il popolo romano fin dai proprii esordii, mediante cui esso riesce a sceverare dalle proprie tradizioni del passato e dalle condizioni so ciali, in cui si trova, tutto ciò che in esse havvi di strettamente e di esclusivamente giuridico, modellandolo in altrettante costruzioni tipiche, che concentrano in sè l'essenza giuridica dei fatti sociali ed umani. Lo stesso nostro linguaggio sembra essere inadeguato ad esprimere una selezione di questo genere, cosicchè ad ogni istante viene ad essere necessario di ricorrere a vocaboli tolti dalle scienze fisiche, chimiche e naturali, perché è soltanto nelle naturali forma zioni che possono essere sorprese delle sintesi e delle analisi, ana loghe a quelle, che occorrono nel primitivo diritto di Roma. In esso dispiegasi una logica giuridica cosi rigida, cosi geometrica, precisa e coerente, che anche un giureconsulto, preparato da una lunga edu cazione giuridica, stenterebbe a giungervi, e la quale può soltanto essere spiegata con dire che ci troviamo di fronte a un popolo, giu rista per eccellenza, il quale, guidato dalle proprie attitudini natu rali, esordisce con un capolavoro di arte giuridica, che può essere considerato come un pegno della perfezione, a cui esso giungerà più tardi nel suo lavoro legislativo. 324. Il diritto quiritario infatti toglie dalla realtà il linguaggio ed i concetti primitivi, di cui esso si vale; ma intanto li isola e li scevera per modo da ogni elemento affine, che i primitivi concetti giuridici del popolo romano, al pari dei suoi concetti politici, si pre sentano come altrettante concezioni logiche, e costruzionigeometriche, che possono poi essere sottoposte a quella logica astratta, che fu del tutto propria dei giureconsulti romani. Che anzi la logica giuridica dei giureconsulti romani non si ma nifestò forse mai in modo più vigoroso e potente, che nel modellare il concetto stesso del quirite e i varii atteggiamenti, sotto cui il medesimo può essere considerato. Io non dubito infatti di affermare, che il concetto stesso del quirite, in quanto si considera come il 405 caput, da cui erompono le varie manifestazioni giuridiche, deve per sè essere considerato come una concezione giuridica nel senso vero della parola. Il quirite infatti non è l'uomo quale in effetto esiste, ma è l'uomo isolato da tutti gli altri suoi rapporti, per essere consi derato sotto l'aspetto esclusivo di capo di famiglia e di proprietario di terre. È come tale soltanto, che egli conta nel censo serviano, ed è come tale eziandio, che esso si presenta nel primitivo ius quiritium. Esso inoltre è anche un'astrazione sotto un altro aspetto, in quanto che la logica giuridica lo isola da tutti i vincoli religiosi e morali, a cui nel fatto possa essere sottoposto, e lo concepisce come fornito di un potere illimitato e senza confini. Essa lo considera come un pater familias, ancorchè in effetto non abbia figliuolanza, e in quanto è tale, gli attribuisce i poteri più illimitati. Egli infatti quale capofa miglia ha il ius vitae et necis sulla moglie, sui figli, sui servi; come proprietario pud usare ed abusare delle proprie cose; come credi tore può anche appropriarsi il proprio debitore, venderlo al di là del Tevere e dividerne il corpo, se concorra con altri creditori; come testatore pud disporre in qualsiasi guisa delle proprie cose per il tempo per cui avrà cessato di vivere. Col tempo questa potestà giuridica illimitata potrà apparire eccessiva, in quanto che si verrà a riconoscere che il quirite potrà anche abusare di essa, come il magistrato del proprio imperium, ed in allora si cercherà di porre dei limiti al suo potere come padre, come proprietario, come credi tore, come testatore, come padrone; ma nel suo erompere primitivo l'uomo, a cui appartiene l'optimum ius quiritium, è una indivi dualità completa, che sotto l'aspetto giuridico non subisce limitazione di sorta. Il quirite poi, in base al censo serviano, riunisce due carat teri: quello cioè di capo di famiglia e di proprietario di terre, e i medesimi si compenetrano per modo, che i due concetti si vengono immedesimando l'uno nell'altro, cosicchè, quale padre di famiglia, esso apparisce come un proprietario, e per essere proprietario deve essere un capo famiglia; donde consegue, che anche i due vocaboli di familia e di mancipium possono sostituirsi l'uno all'altro (1). (1) V. in proposito il Voigt, Die XII Tafeln, II, pag. 10 e 11, note 5 e 6, ove son citati varii passi da cui risulta, che la familia in personas et in res deducitur. Leg. 195, Dig. (50, 15 ). Cid pure accade del mancipium, il quale talvolta è preso in significazione così larga da comprendere non solo le cose, ma anche le persone 406 Nel censo infatti non comparisce che il caput, in quanto unifica in sè medesimo persone e cose, e in quanto egli è libero, cittadino, in dipendente nel seno della famiglia. Esso conta per uno, ma intanto rappresenta molte persone ad un tempo: cosicchè anche la proprietà, che trovasi posta in suo capo, mentre nel costume appartiene alla famiglia, sotto il punto di vista giuridico viene invece ad essere considerata come una proprietà esclusivamente propria del capo di famiglia. Quasi si direbbe che l'imperium del quirite nella propria casa viene ad essere foggiato sulmodello stesso del regis imperium per quello che si riferisce alla città. Esso ha impero sulle cose e sulle persone, al modo stesso che il magistrato ha l'imperium domimi litiaeque, e l'una ed anche l'altra podestà, sotto il punto di vista giuridico e politico, non hanno confine, sebbene nella realtà siano contenute in stretti vincoli dal costume pubblico o privato. Di qui la conseguenza, che mentre questo è il momento storico, in cui ap parisce più senza confini il potere del padrone sugli schiavi, quello del marito sulla moglie, quello del padre sui figli, noi intanto ab biamo tutti gli argomenti per credere, che fu appunto questo il tempo, in cui fu migliore la condizione degli schiavi, volontariamente accettata la subordinazione dei figli e della moglie, e quello in cuiil potere del padre, cosi esorbitante nella sua configurazione giuridica, nella realtà non ebbe a dar luogo a gravi abusi. Fu sopratutto in questo primo periodo, che i figli dei servi erano allevati con quelli del padrone; che le mogli, mentre giuridicamente potevano essere ripudiate, nel fatto non conoscevano il divorzio; che i figli prova vano la severità del padre, non tanto nelle pareti domestiche, quanto piuttosto, allorchè egli investito del pubblico potere giungeva a soffo care gli affetti del sangue per far rispettare l'imperium, di cuitro vavasi insignito (1). dipendentidal capo di famiglia, come lo dimostra l'espressione conservataci da Gellio, secondo cui la mater familias è in manu mancipioque mariti. XVIII, 6, 9. Ciò però non toglie, che il vocabolo familia significasse di preferenza il complesso delle per sone, e quello di mancipium il complesso delle cose, che erano soggette al potere del capo di famiglia. Cid apparirà meglio in questo stesso capitolo, $ 4, in cui si discorrerà appunto del mancipium, e delle sue varie significazioni. (1) La causa di questo contrasto tra l'ordinamento giuridico della famiglia e le condizioni reali della medesima sarà meglio posta in evidenza al cap. 1, § 1°, ove si discorre del ius connubii. Quanto alla figura del padre di famiglia patriarcale durante il periodo gentilizio, vedi sopra il nº 94, pag. 119. 407 326. Se non che è ovvio il chiedersi, in qual modo siasi potuto modellare in modo così vigoroso ed efficace la figura del quirite. Io non dubito di rispondere che questa concezione dell'uomo sotto l'aspetto esclusivamente giuridico, se per una parte fu determinata dalle condizioni economiche e sociali, dall'altra fu anche l'effetto di una potente astrazione giuridica, compiuta da un popolo con un pro cesso mentale non diverso da quello, che seguirebbe un giureconsulto moderno. Gli elementi preesistevano nella organizzazione gentilizia e consistevano nella figura del capo di famiglia, e nel concetto della proprietà, che a lui apparteneva. Mediante un lavoro di astrazione, che è famigliare al giureconsulto, i due concetti di capofamiglia e di proprietario furono staccati dall'ambiente, in cui si erano for mati, furono isolati da tutti gli altri rapporti di carattere gentilizio, riguardati attraverso il crogiuolo del censo, in cui persone e cose dipendevano da un solo caput, e ne eruppe cosi questa figura tipica del quirite, che è soldato ed agricoltore, capo di famiglia e proprietario, individuo e capo gruppo, il quale sotto un aspetto è una realtà e sotto un altro è già una astrazione o concezione giuridica. Lo stesso è a dirsi delle due istituzioni fondamentali della famiglia e delle proprietà, quali vengono a presentarsi nel ius quiritium la cui formazione fu determinata dalla costituzione serviana, An ch'esse sono tratte dalla realtà, e sono due ruderi dell'organizzazione gentilizia, nel senso vero e proprio della parola, salvo che, traspor tate nel seno delle città e cosi isolate dall'ambiente, che le circon dava, fanno su chi le considera un effetto analogo a quello di quei ruderi delle mura serviane, che circondate da un' aiuola si incon trano nella Via Nazionale di Roma moderna. Di qui la conseguenza, che anche la proprietà e la famiglia debbono essere considerate come due costruzioni giuridiche, in quanto che esse non sono la pro prietà e la famiglia, quali effettivamente esistevano, ma sono il frutto di un'elaborazione giuridica, per cui l'una e l'altra sono iso late da quegli elementi, sopratutto religiosi e morali, che nella realtà ne moderavano la rigidezza. Siccome infatti il quirite, come tale, non è più nè il gentile, nè il cliente, né il patrizio, nè il plebeo, ma è un capo famiglia, considerato come padrone assoluto delle cose e delle persone, che da lui dipendono; cosi l'aureola del buon co stume, del consiglio domestico, del consiglio degli anziani, delle tradizioni del villaggio, della religione, di cui il padre antico era il sacerdote, viene a scomparire pressochè intieramente nel diritto 408 quiritario. In questo più non scorgesi, giuridicamente parlando, che un caput, che è proprietario e padre ad un tempo, e il cui potere (manus) sulle persone e sulle cose, che ne dipendono (mancipium o familia ), apparisce senza confini, rendendo cosi possibile l'applicazione di una logica, il cui processo sarebbe stato ad ogni istante interrotto, se si fosse dovuto tener conto degli altri vincoli e rapporti, in cui il quirite effettivamente si trovava. 327. Lo stesso deve pur dirsi di quel carattere, cosi saliente nel di ritto primitivo di Roma, per cui i poteri sulle persone e sulle cose vengono ad immedesimarsi l'uno nell'altro, e possono quindi essere in dicati coimedesimivocaboli, rivendicati nella stessa guisa, e trasmessi col medesimo atto. Anche ciò non deve ritenersi come indizio, che per i Romani la potestà del padre si confondesse colla proprietà: ma è unicamente il frutto di una elaborazione giuridica, in quanto che questi due poteri, dovendo passare per il crogiuolo del censo, venivano in sostanza a ridursi tutti al concetto del mio e del tuo. Ed a questo riguardo credo di non esagerare dicendo, che fu una grande ventura per il diritto romano, che il medesimo fosse cosi costretto a modellare ogni diritto sopra quello di proprietà, in quanto che non eravi certamente altro concetto, che potesse meglio acco modarsi a tutte le applicazioni della logica giuridica. Se questa infatti avesse dovuto applicarsi alle persone, si sarebbe ad ogni istante inceppata in considerazioni di umanità, mentre spiegandosi in certa guisa di fronte alle cose potė spingersi a tutte le deduzioni, di cui poteva essere capace, e per tal modo il diritto potè appa rire in certi casi inumano e crudele, ma la costruzione giuridica venne ad essere più logica e più coerente. Cosi deve pure attribuirsi ad una elaborazione giuridica, resa ne cessaria dalle condizioni, sotto cui patriziato e plebe entravano a far parte della comunanza, quel concetto, per cui quella proprietà, che nel costume ritenevasi appartenere alla famiglia, giuridicamente in vece venne ad essere considerata come spettante ad un individuo, che poteva disporne in qualsiasi guisa. Questo infatti era il solo modo di combinare il concetto della proprietà famigliare, che era proprio del patriziato, con quello della proprietà privata ed individuale, che era la sola, che fosse conosciuta dalla plebe. Fondendosi insieme, le due formedi proprietà diedero origine a quella singolare istituzione della proprietà quiritaria, che nel costume si ritiene della famiglia, e in diritto si considera come esclusivamente propria del padre, per 409 cui tutto ciò, che acquistano gli altri membri della famiglia, a lui solo appartiene (1). 328. Fermo cosi nelle sue linee generali il concetto fondamentale del quirite, quale ebbe ad uscire dal crogiuolo del censo istituito da Servio Tullio, viene ad essere facile il comprendere come i varii atteggiamenti, sotto cui esso può essere considerato, abbiano potuto essere scomposti ed analizzati, e abbiano così data origine ad al trettante concezioni giuridiche foggiate sullo stesso modello. Il quirite infatti costituisce in certo modo la configurazione giu ridica dell'umana persona, quale allora poteva essere concepita, e come tale può essere considerato: – o in quanto sta, ossia nella posizione giuridica (status), che egli tiene nella comunanza quiri tiana: - o in quanto egli si muove ed agisce, ossia in quanto egli entra in rapporti con altri quiriti. In quanto sta, ossia in quanto egli tiene uno status, questo può essere scomposto nei suoi varii elementi, e quindi il quirite viene ad avere un caput, che comprende tutta la sua capacità giuridica come quirite; una manus, che inchiude il complesso dei poteri, che gli appartengono ex iure quiritium; un mancipium, il quale implica parimenti nella sua significazione primitiva così le persone, che le cose, che da lui dipendono per diritto quiritario. È poi degno di nota, che tutti questi vocaboli, in cui viene ad essere racchiusa l'individualità giuridica del quirite, hanno una significazione mate riale e giuridica, concreta ed astratta ad un tempo. Cosi, ad esempio, il vocabolo caput, mentre da una parte indica la parte più nobile ed importante del corpo, dall'altra designa la capacità giuridica poten ziale del quirite che è come la sorgente di tutti i diritti spettanti al medesimo; quello dimanus,mentre esprime l'organo mediante cui si esplica la forza e l'energia fisica dell'uomo, è ad un tempo il sim bolo efficacissimo dell'attività giuridica che si viene estrinsecando in certi determinati poteri; e quello infine di mancipium da ma nucaptum, mentre da una parte significa una cosa, che per essere materialmente afferrata dalla manus, non può sfuggire alla mede sima, dall'altra indica eziandio lo stato di sottomissione giuridica, in cui vengono a trovarsi le persone e le cose che da essa dipendono. (1) Questo carattere speciale della proprietà quiritaria e il modo in cui essa potè formarsi saranno meglio spiegati nel cap. seg., $ 6, ove si discorre dell'origine del dominium ex iure quiritium. 410 Questi varii elementi poi, intrecciandosi fra di loro, costituiscono un tutto organico e coerente; poichè, tanto nel significato mate riale quanto nel giuridico, la manus viene in certo modo ad esser e il termine di mezzo fra il caput che la dirige e il mancipium che dipende dalla medesima. In quanto invece si muove ed agisce, il quirite viene a contatto coi proprii simili, e quindi le sue estrinsecazioni giuridiche possono essere richiamate: al connubium, da cuideriva, si può dire, tutto il diritto, che si riferisce alle persone; al commercium, in cui si com pendiano tutte le manifestazioni giuridiche, che si riferiscono alle cose; all'actio, da cui scaturisce tutto quel complesso di proce dure, con cui egli pud far valere qualsiasi suo diritto: vocaboli anche questi, che hanno pure una significazione materiale e giuridica ad un tempo. Tutti questi elementi poi, mentre concorrono a costituire l'organismo del tutto, sono percorsi da un proprio concetto informa tore, che si viene logicamente svolgendo, e che dà cosi origine a quella dialettica latente della giurisprudenza romana, colla quale sol tanto si possono spiegare certe peculiarità del diritto romano. Intanto è da notarsi, che tutto questo bagaglio del diritto quiri tario è tolto in sostanza dal periodo gentilizio, perchè già in esso eransi formati i concetti del caput per indicare il capo del gruppo famigliare o gentilizio, della manus per indicare il complesso dei suoi poteri, e del mancipium per indicare le cose e le persone che gli erano soggette; come pure in esso, già si erano preparati i concetti di connubium, di commercium e di actio. Vi ha però questa differenza, che mentre questi un tempo indicavano dei rap porti, che intercedevano fra i membri delle varie genti, ora indi cano invece la posizione speciale, che il quirite prende nella co munanza quiritaria, ed i varii aspetti sotto cui dispiegasi l'attività giuridica del quirite nei suoi rapporti cogli altri quiriti (1). Quindi è, che mentre questi concetti un tempo avevano una significazione, che era determinata dall'ambiente, in cui si erano formati; ora invece, essendo staccati dall'ambiente stesso, si cambiano in altrettante forme e concezioni logiche, e come tali diventano capaci di uno svolgi mento logico e storico compiutamente diverso, la cui ricostruzione formerà oggetto dei capitoli seguenti. (1) Il naturale processo, in base a cui venne formandosi un diritto fra le varie genti, fu spiegato più sopra ai nn. 94 e seg., pag. 117, e quello per cui i concetti intergentilizii così formati si cambiarono in concetti quiritarii trovasi descritto al n ° 266. Il quirite nel suo status. § 1. – Il censo serviano e la genesi dei concetti di caput, manus, mancipium. 329. Anche oggidi il più arduo problema, che presentino le ori gini del ius quiritium, consiste nello spiegare come mai il mede simo si trovasse di un tratto isolato da quell'ambiente religioso e gentilizio, in cui erasi formato, e come esso abbia potuto prendere le mosse da concetti così sintetici e comprensivi, quali sono quelli di caput, manus, mancipium. Come mai potè accadere, che quel ius, che presso le genti patrizie era ancora soverchiato dal fas ed ed avviluppato nel mos (1), sia pervenuto pressochè di un tratto ad affermare la propria esistenza e a ricevere uno svolgimento lo gico e storico del tutto distinto da quello della religione e della mo rale? In qual modo parimenti potè accadere, che un diritto, il quale, secondo l'attestazione dei giureconsulti, ebbe a formarsi « necessi tate exigente et rebus ipsis dictantibus », siasi iniziato con sintesi potenti, che inchiudono in germe tutti i suoi ulteriori svolgimenti? Son note in proposito le divergenze degli autori e le congetture innumerabili, che furono poste innanzi, ed è certo assai difficile di giungere ad una risoluzione, che possa rispondere a tutte le ob biezioni. Persuaso tuttavia, che per comprendere le istituzioni di un popolo, sia sopratutto indispensabile di spogliarsi delle idee del tempo, per trasportarsi nell'ambiente e nel pensiero del popolo, fra cui quelle istituzioni giunsero a formarsi, io ritengo che il solo modo per giungere a comprendere questa singolare formazione del ius quiritium e la significazione dei concetti da cui esso parte, sia quello di ricostrurre in base alle condizioni economiche e sociali, in cui si trovavano il patriziato e la plebe, quella comunanza quiritaria, (1) Il carattere eminentemente religioso del diritto primitivo delle genti patrizie fu dimostrato più sopra, lib. I, cap. V, pag. 90 a 104, discorrendo dei rapporti fra il mos, il fas e il ius. Il medesimo poi si mantenne ancora durante il periodo della città esclusivamente patrizia, come lo dimostra l'analisi delle leges regiae fatta ai nn. 268 a 270, pag. 329 e segg. 412 la cui formazione ebbe ad essere determinata dalla costituzione e dal censo di Servio Tullio. 330. Credo di avere dimostrato a suo tempo come il patriziato e la plebe, anteriormente all'epoca serviana, non avessero comuni nè la religione, né i costumi, nè l'organizzazione gentilizia, nè i connubii, che sono il fondamento dell'organizzazione domestica. I soli diritti, che la città patrizia avesse accordati alle plebi circo stanti, non devono neppure essere indicati col nome di ius com mercii, ma bensi con quello di ius nesi mancipiique; il quale consisteva nel diritto dei plebei di potersi obbligare vincolando la propria persona, e di poter disporre di quelle possessioni, che essi tenevano nel territorio romano (1). È quindi evidente che, se era possibile una comunanza fra i due ordini, questa nelle origini non poteva avere nè un carattere religioso e neppure un carattere mo rale, ma poteva solo avere un carattere esclusivamente economico, giuridico e militare. Ne consegui pertanto, che per formare questa comunanza venne ad essere necessario di sceverare affatto il ius, nel senso stretto e rigido della parola, dal fas e dal mos, con cui prima trovavasi implicato nelle istituzioni delle genti patrizie. Questa selezione erasi già in parte iniziata col formarsi della città esclusivamente patrizia, poichè già fin d'allora erasi venuta distin guendo la vita pubblica dalla privata ed erasi già in parte affie volita l'organizzazione gentilizia (2); ma la medesima dovette spin gersi ben più oltre coll'accoglimento nel populus di un elemento, a cui non erasi riconosciuto che il ius neximancipiique. Di qui la rigidezza singolare, che ebbe ad assumere il ius quiritium, allorchè cominciò ad essere comune al patriziato ed alla plebe; poichè da quel momento esso venne ad essere sottratto a quell'au reola religiosa e patriarcale, che dominava il periodo gentilizio, e fu sottoposto all'impero di una logica del tutto sua propria. Se non che, anche in tema di diritto, nel senso stretto della pa rola, non tutte le istituzioni potevano servire di base alla comu (1 ) V., quanto alla condizione della plebe, il lib. I, cap. IX, pag. 180 a 196, e quanto al ius nexi mancipiique, spettante alla medesima, il nº 160, pag. 198 e 199, come pure il nº 287, pag. 351 e 352. (2) Che anche il diritto della città patrizia supponesse una specie di selezione fra le istituzioni delle varie genti, operatasi per opera dei collegi sacerdotali e sotto forma di legislazione regia, fu dimostrato nel libro II, cap. IV, SS 1º, 2º e 3º, pag. 303 a 333. - 413 nanza quiritaria, ma soltanto quelle che in effetto erano comuni ai due ordini, o che erano tali da rendere possibile un ravvicina mento fra di loro. Quindi anche in fatto di diritto convenne fare astrazione da tutti quei rapporti, che per il momento non potevano essere comuni, per fissare lo sguardo su quei rapporti e su quegli interessi, in base a cui essi potevano partecipare alla stessa comu nanza. Siccome quindi l'interesse, che avevano il patriziato e la plebe ad entrare in una stessa comunanza, era sopratutto l'interesse della comune difesa, così la comunanza quiritaria assunse in que st'epoca un carattere più esclusivamente militare, che prima non avesse. Siccome parimenti gli unici rapporti, per cui poteva avve. rarsi un ravvicinamento fra di loro, erano quelli relativi alla fa miglia unificata sotto il proprio capo, e alla proprietà spettante alla famiglia stessa, così il ius quiritium comune ai due ordini cominciò a consolidarsi nella parte relativa alle due istituzioni fondamentali della proprietà e della famiglia. 331. Di cid è facile persuadersi quando si considerino le condi zioni rispettive dei due ordini, che dovevano partecipare alla stessa comunanza. Da una parte eran vi i membri delle gentes patriciae, i quali ancorchè fossero i fondatori della città, continuavano però sempre ad essere organizzati per gruppi, sovrapponentisi gli uni agli altri (famiglie, genti, e tribù gentilizie), come lo dimostra il fatto, che il popolo primitivo era diviso per curiae, le quali erano appunto for mate ex hominum generibus. Il patriziato pertanto non aveva in certo modo il concetto della individualità nello stretto senso della parola, ma solo il concetto dei diversi gruppi e dei capi che rap presentavano imedesimi. Di questi gruppi poi ilmeno esteso e il più strettamente unificato era quello della famiglia, fondata sulla agna zione, e riunita sotto la potestà del padre. - Dall'altra parte in vece eravi la plebe, la quale, essendo una moltitudine di individui rimasti liberi dalla clientela, o immigrati da altre città, o traspor tati da popolazioni conquistate, componevasi invece di individui anche isolati o tutto al più di famiglie, le quali non erano più strette insieme dal vincolo di agnazione, ma piuttosto da quello più naturale dell'affinità e della cognazione (1 ). (1) V.,quanto all'organizzazione gentilizia del patriziato, il lib. I, cap. IV, e quanto alle condizioni della plebe, il lib. I, cap. IX. 414 Queste differenze poi, che esistevano fra di loro quanto alla loro organizzazione, si riflettevano eziandio nelle loro condizioni econo miche. Da una parte infatti continuava a prevalere presso le gentes patriciae la proprietà collettiva dell'ager gentilicius o dell'ager compascuus, il che però non impediva che esse già conoscessero una specie di proprietà famigliare e privata, la quale era designata col vocabolo di heredium. Questo consisteva nell'assegno, che le varie gentes facevano sull'ager gentilicius ad ogni gentile, che passando a matrimonio veniva a fondare una nuova famiglia, ed era a somi glianza di esso, che secondo la tradizione anche Romolo aveva fatto a ciascuno dei suoi seguaci un assegno, il quale pur riteneva il nome di heredium. Il medesimo quindi costituiva in certo modo il patrimonio famigliare, e come tale non poteva essere alienato senza il consenso degli altri capi di famiglia, ma doveva invece trasmettersi dai genitori ai figli, e mantenersi per quanto si poteva indiviso (ercto non cito ); ma intanto, essendo già intestato al capo di famiglia, cominciava ad avvicinarsi alla proprietà individuale e privata. Dall'altra invece la plebe, non avendo l'organizzazione gentilizia, non poteva neppure avere la proprietà collettiva dell'ager gentilicius e dell'ager compascuus. Di qui conseguiva, che i plebei nel fatto si trovavano stabiliti sopra certi spazi di suolo, che essi avevano occupato sul territorio romano, o di cui avevano ottenuto il godimento da qualche gens patricia, o che loro erano stati as segnati dal re sullo stesso ager publicus. È quindi evidente, che questi stanziamenti della plebe, essendo una applicazione del ius mancipii alla medesima accordato, più non potevano essere chia mati col vocabolo di heredia, poichè questo conteneva ancora l'idea di un patrimonio avito da trasmettersi agli eredi, ma potevano in vece più acconciamente indicarsi col vocabolo dimancipia, poichè essi erano state effettivamente manucapti, e perchè fino a quel punto costituivano piuttosto semplici possessi, che non vere proprietà al punto di vista gentilizio (1). 332. In questa diversità di condizioni egli è evidente, che il (1) Quanto al concetto dell'heredium, come forma della proprietà famigliare nel periodo gentilizio, vedi il nº 56, pag. 70; ma devo aggiungere, che dettando quelle pagine non aveva ancora ravvisata la differenza esistente fra l'heredium ed il man cipium, nè aveva cercato di spiegare come perchè all'heredium del periodo genti lizio fosse sottentrato nel ius quiritium il concetto di mancipium. - 415 censo, dovendo comprendere i due ordini, non poteva tener conto che degli elementi, che erano loro comuni. Se il censo quindi avesse dovuto farsi di soli patrizii, si sarebbe dovuto indicare la famiglia, la gente e la tribù gentilizia a cui ap partenevano, e avrebbesi così avuto un censo fondato sulla discen denza, come quello sovra cui dovevano probabilmente essersi for mate le curiae. Se esso invece avesse dovuto comprendere i soli plebei, si sarebbe dovuto procedere per capita; poichè fra essi ve ne erano anche di quelli, che solo avevano il loro caput, e che non avrebbero potuto indicare la loro vera discendenza. Siccome invece il censo, come base della nuova comunanza quiritaria, do veva comprendere gli uni e gli altri; cosi la soluzione fu la più naturale di tutte, quella cioè di dare al censo non più una base genealogica (ex hominum generibus), che avrebbe potuto compren dere solo i patrizii ed alcune famiglie plebee, ma bensì una base territoriale e locale (ex regionibus et locis) (1), che poteva com prendere gli uni e gli altri, e di censire gli abitanti, non per genti e neppure per famiglie, ma per capita, attribuendo perd al voca bolo di caput la doppia significazione di individuo e di capo di quel gruppo famigliare, che era appunto il solo, che fosse comune al patriziato ed alla plebe. Così pure se si fosse trattato di censire le proprietà patrizie, si sarebbe dovuto prendere come base la proprietà collettiva della gens (ager gentilicius), nella quale sarebbero anche rientrati gli heredia delle singole famiglie; ma volendosi anche censire i possessi e gli stanziamenti della plebe, convenne di necessità prendere a base del censimento quella sola forma di proprietà e di possesso, che apparteneva ai patrizii sotto il nome di heredium, e ai plebei sotto quello di mancipium. Tuttavia questa proprietà individuale e famigliare ad un tempo, che era comune ad entrambi gli ordini, non potè più essere indicata acconciamente col vocabolo di here dium, il quale era pur sempre una istituzione di origine gentilizia, ma potè esserlo più acconciamente con quello di mancipium, il quale, oltre al rispondere perfettamente ai concetti di caput e di inanus, aveva anche il vantaggio di significare al tempo stesso la proprietà e il possesso, e di esprimere con potente efficacia quel carattere di proprietà esclusiva ed individuale, che veniva ad assu (1) Gellio, XV, 28, 4. 416 mere quel patrimonio, che nel censo era intestato ad una deter minata persona. La conseguenza intanto fu questa, che nella comunanza quiritaria, formatasi in base alla costituzione ed al censo serviano, mentre il patrizio fu isolato in certo modo dall'ambiente gentilizio, in cui esso prima si trovava, il plebeo ottenne invece il riconoscimento ufficiale del possesso, sovra cui esso era stabilito. L'uno e l'altro comparvero nel censo come quiriti, ossia come capi di famiglia e come proprietarii di terra; ebbero un complesso di diritti comuni, che prese appunto il nome di ius quiritium. Così pure la comunanza quiritaria, avendo una base economica, venne a considerare ogni cosa sotto l'aspetto del mio e del tuo, e assunse eziandio una impronta emi nentemente militare, che spiega quel carattere di forza e di vio lenza che è inerente al ius quiritium e si rivela nei vocaboli e nei simboli da esso adoperati. 333. Pongasi ora, che trattisi di comprendere in certe rubriche, che si adattino per la formazione del censo, l'individualità giuridica di questo quirite, e anche oggidi sarebbe forse difficile di sovrap porre a queste varie rubriche vocaboli più sintetici e compren sivi e al tempo stesso più esatti e precisi di quelli di caput, manus, mancipium. Nella categoria del caput verrà il nome del cittadino, libero e sui iuris, come individuo e come capo di famiglia, e vi saranno le indicazioni del suo nome, della sua età, della tribù locale a cui appartiene, la cui indicazione finirà anzi per formar parte delle denominazioni ufficiali del cittadino romano (1). Nella seconda rubrica invece saranno indicati i poteri, che a lui ap partengono sulle persone, che entrano a costituire il gruppo, di cui egli è capo, sulle persone cioè, che siano in manu, in potestate, in mancipio, e siccome questa enumerazione dovrà naturalmente par tire dalla moglie, che trovasi sotto la manus, così può spiegarsi come tutti questi poteri vengano sotto la intitolazione generica di manus. Nella terza categoria infine comparirà il mancipium, ossia il complesso delle persone e delle cose, che costituivano il vero patri monio del quirite, in quanto egli era un capo di famiglia indipen dente e sovrano. (1) Che il nome della tribù, a cui il cittadino apparteneva, entrasse nelle deno minazioni ufficiali del medesimo, appare da una quantità grandissima di iscrizioni. V. in proposito il MICHEL, Du droit de cité romaine, Paris, 1885. 417 Questo mancipium pertanto non potrà più comprendere nè l'ager gentilicius, come quello che non appartiene al capo di famiglia, ma alla gente; né le mandrie e gli armenti, che pascolano in questo ager gentilicius; né eziandio le possessiones, che si possano avere nell'ager publicus; nè la pecunia circolante, il cui ammontare pud essere variabile e non si presta ad una constatazione esatta e pre cisa, quale è quella richiesta per un censo; ma dovrà invece com prendere soltanto quella proprietà, che costituisse in certo modo il patrimonio normale, costante, e pressochè tipico di un capo di fa miglia agricola, nelle condizioni economiche e sociali in cui trova vasi allora il popolo romano. Egli è probabile infatti, per chi tenga conto della tendenza delle genti italiche a modellare i loro istituti sul medesimo tipo, che quel mancipium, che doveva figurare nel censo, quale patrimonio asso luto ed esclusivo del quirite, tendesse nella generalità dei casi ad essere configurato nella istessa guisa. Per verità se trattavasi dell'heredium ossia dell'assegno fatto ad un capo di famiglia di gente patrizia, il medesimo probabilmente doveva consistere in uno spazio dell'ager gentilicius, che potesse bastare all'abitazione e al sostentamento di lui e della sua famiglia; ed è certo a somiglianza di questi primitivi assegni, che, salve le proporzioni, dovettero es sere configurati gli assegni, che le genti facevano ai clienti, e quelli parimenti che i re facevano alla plebe. Di qui consegui na turalmente che, facendo astrazione dalla quantità maggiore o mi nore di iugera, o dall'ampiezza maggiore o minore della domus in città o del tugurium nel contado, dovette formarsi una configura zione tipica del podere del quirite. Che anzi non è punto impro babile, che nella formazione del censo, dovendosi ridurre a categorie generali le cose essenziali, che entravano a costituire questo man cipium, anche queste fossero raccolte sotto certe denominazioni ti piche, quali sarebbero quelle di praedia, di praediorum instru menta (servi, quadrupedes quae dorso collove domantur), di praediorum servitutes (iter, via, actus, aquaeductus); le quali po terono assai naturalmente essere indicate col vocabolo complessivo di res mancipii, come quelle che effettivamente entravano a costi tuire il mancipium (1). (1) Mi limito qui ad accennare in genere come possa esser nato e siasi svolto l'importantissimo concetto del mancipium, perchè le molteplici questioni al riguardo saranno prese più opportunamente in esame in questo stesso capitolo, § 4º, ove si G. Carle, Le origini del diritto di Roma. 27 - 418 334. Intanto una conseguenza necessaria di questa specie di se lezione del patrimonio, che apparteneva ad ogni singolo capo di fa miglia, veniva ad essere questa, che le res mancipii, come quelle che servivano a determinare la posizione di esso nella comunanza quiritaria, costituissero come una specie di proprietà privilegiata, che doveva ritenersi appartenere in modo assoluto ed esclusivo al quirite, a cui trovavasi intestata. Si vengono così a comprendere le espressioni più antiche di mancipium facere, mancipio dare, mancipio accipere, le quali dapprima dovettero significare la costi tuzione di una cosa nel mancipium, e poi anche l'acquistare e il trasmettere una cosa, che fa parte del mancipium; finchè la fre quenza di questi atti non condusse a creare un vocabolo apposito, che è quello di mancipare, da cui derivò appunto quello della mancipatio, la quale venne cosi ad essere il modo proprio ed esclu sivo per l'alienazione delle res mancipii (1 ). Non conseguiva tuttavia da cid, che non esistessero altri beni, di cui il cittadino avesse l'effettivo godimento: ma questi non con tavano nel determinare la sua posizione di quirite, non entravano a costituire il suo contributo alla comunanza quiritaria, e come tali non erano dapprima oggetto di proprietà assoluta ed esclusiva, nelvero senso della parola: essi formavano piuttosto oggetto di uso e di godimento, ed erano compresi genericamente in una categoria ne gativa, che più tardi fu denominata delle res nec mancipii, le quali perciò potevano essere alienate collasemplice traditio. Può dirsi pertanto, che il mancipium fu in certo modo la prima pro prietà ufficialmente constatata del cittadino romano, fuori della quale poteva esservi uso o godimento, ma non proprietà nel senso vero della parola e al p semplice traditio. Può dirsi pertanto, che il mancipium fu in certo modo la prima pro prietà ufficialmente constatata del cittadino romano, fuori della quale poteva esservi uso o godimento, ma non proprietà nel senso vero della parola e al punto di vista quiritario. È poi questa se parazione, che a causa del censo si venne operando fra l'intesta zione ufficiale della proprietà di una cosa, e l'effettivo godimento di essa, che ci spiega come negli antichi autori si contrappongano tratterà ex professo del mancipium e della distinzione delle res mancipii e nec mancipii. L'idea che la distinzione delle res mancipië e nec mancipii dovesse avere qualche attinenza col censo Serviano ebbe già ad essere enunciata dal PUTTENDORF, dal LANGE, dalWANGERON, dal Kuntze, ed è anche seguìta presso di noi dal SERAFINI, Istituz., Firenze, 1881, § 21. Vedi lo Squitti, Resmancipi e nec mancipi, Napoli, 1885, pag. 51, gli autori ivi citati, e gli argomenti che egli adduce contro questa opinione, quale ebbe ad essere fino ad ora formulata. (1) Cfr. BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, Roma 1888, pag. 90. 9 419 talvolta i concetti dimancipium e quelli di usus fructus (1), e come più tardi abbia potuto accadere, che una persona avesse sopra una cosa il nudum ius quiritium, mentre un'altra invece ne aveva l'ef fettivo godimento (in bonis ). È poi facile a comprendere come questa posizione privilegiata, in cui venne ad essere collocato il mancipium, abbia anche cooperato efficacemente a dissolvere la proprietà collettiva dell'ager gentilicius, e con essa a dissolvere eziandio l'organizzazione gentilizia, la quale venne in certo modo ad essere senza base, allorchè manco del suo fondamento economico. Ogni gens patricia infatti, se volle avere una quantità di suffragii anche nelle centurie, ove fini per concentrarsi la somma del pubblico potere, dovette affrettarsi a fare degli assegni di terra ai proprii membri non solo, ma anche ai proprii clienti e per tal modo gli agri gentilicii vennero spartendosi, ed all '« ercto non cito », che indicava l'indivisione del patrimonio famigliare nel periodo gentilizio, sottentrò il principio già riconosciuto dalle XII Tavole, secondo cui altri non può essere costretto a rimanere in comunione suo malgrado: « si erctum ciet, arbitros tres dato » (2 ). 335. Così spiegato il censo serviano, viene a conseguirne che se vogliasi conoscere la vera posizione del quirite, non come uomo, ma come membro della comunanza quiritaria, sarà nelle tabulae censoriae, che a lui si riferiscono, che dovrà essere cercato il suo vero status. Quindi se trattisi di un cittadino, libero e sui iuris, ma senza potestà famigliare e senza patrimonio, egli sarà bensi un caput, ma, non avendo che quello, sarà un capite census, e sarà (1) Questo contrapposto occorre più volte nelle epistole di CICERONE, e fra le altre volte in una lettera ad Curium, VII, 30, 2 ove scrive: « Cuius (Attici) quando « proprium te esse scribis mancipio et nexo, meum autem usu et fructu, contentus « isto sum. Id enim est cuiusque proprium, quo quisque fruitur atque utitur »; il che significava in sostanza, che egli preferiva al dominio ufficiale su Curio (man. cipium et nexum ), che spettava ad Attico, il godimento effettivo (usus et fructus ) della sua conversazione. Altre volte però questo contrapposto ha una significazione diversa, come nel bel verso di LUCR., III, 969: « vita mancipio nulli datur, omnibus usu », ove mancipium si contrappone ad usus, in quanto significa una cosa, che ci appartiene a discrezione, in guisa da poterne usare ed abusare, ed indica così il potere illimitato ed esclusivo, che competeva sulmancipium. Cfr. BONFANTE, op. cit., pag. 92, nota 2, e pag. 96, nº 2, e gli altri passi ivi citati. (2 ) Secondo la ricostruzione del Voigt, op. cit., I, pag. 712, tale sarebbe stato il tenore della legge 16, della tavola V. 420 solo molto tardi, che la repubblica si contenterà di accettarlo nella formazione del proprio esercito. Che se egli, pur non avendo il patrimonio richiesto per entrare nelle classi e centurie, abbia tut tavia qualche sostanza (1500 assi) ed una prole, che può crescere a benefizio della repubblica e che può interessarlo per essa, egli figu rerà nel censo colla prole stessa e colla manus, che gli appartiene sulla medesima, e sarà cosi nella classe dei proletarii, la quale è già in condizione meno umile, poichè in condizioni difficili potrà far parte, se non del vero esercito, almeno di una specie di milizia raccogli ticcia (militia tumultuaria ), che sarà armata a spese della repub blica (1). Infine se anche per ciò, che si riferisce al mancipium, egli giunga a quella misura, che è necessaria per essere ammesso nelle classi e nelle centurie, egli verrà ad essere adsiduus o locuples, e secondo il valore maggiore o minore del suo mancipium potrà essere collocato in una delle cinque classi, che formano il vero po pulus romanus quiritium. Queste diverse categorie verranno poi ad essere così distinte fra di loro, che ancora nelle XII Tavole per un adsiduus convenuto in giudizio per un debito, dovrà rispon dere un altro adsiduus, mentre per il proletario potrà rispondere chicchessia: « adsiduo vindex adsiduus esto; proletario, iam civi, quis volet vindex esto »; ed è solo più tardi che, secondo l'atte stazione di Gellio, « proletarii et adsidui evanuerunt, omnisque illa XII Tabularum antiquitas consopita est » (2). Tutto ciò intanto spiega come dalle stesse tavole censuarie si po tesse desumere lo status generalis del quirite sia come individuo, che come capo di famiglia e proprietario. Siccome tuttavia, accanto alle qualificazioni generali del capo gruppo, trovavansi pure nel censo le qualificazioni speciali di pater familias, mater familias, di liberi, di servi, di sui iuris, di alieni iuris, così anche queste varie gradazioni dello stato giuridico, senza essere create dal censo, furono tuttavia nel medesimo delineate, e per tal modo esso cooperd eziandio a svolgere e a precisare, accanto al concetto generale del quirite come tale, anche il concetto degli stati speciali, che una persona rappresentava nel gruppo a cui apparteneva. (1) Questa condizione dei capite censi e dei proletarii, riguardo al servizio mili tare, ci è attestata espressamente da GELLIO, XVI, 10, $$ 10 a 15. Egli poi, citando un passo di Sallustio, direbbe che i capite censi non furono arruolati, che da C. Mario nella guerra contro i Cimbri, o in quella contro Giugurta. (2 ) Gellio, XI, 6, 10, 8. Che se alle cose premesse si aggiunga, che il censo all'epoca serviana fu il documento ufficiale dello stato del cittadino, il quale serviva a determinare la sua posizione come contribuente, come cit tadino e come soldato ad un tempo, per guisa che la sola iscrizione nel censo poteva valere per la manomissione di un servo, sarà fa cile il comprendere come esso abbia potuto in parte conferire a determinare il linguaggio sintetico ed astratto, da cui prese le mosse il ius quiritium, ed il processo con cui esso vennesi elaborando. Esso infatti fu uno dei mezzi più potenti, mediante cui l'individualità giuridica del cittadino fu isolata da tutti gli elementi estranei al diritto, ed il quirite fu sottratto all'ambiente gentilizio in cui prima si trovava, ed obbligato a fermare il suo sguardo sovra quei rapporti che comparivano nel censo. Esso parimenti fu una delle cause per cui il ius. quiritium, che venne elaborandosi su questa trama pri mitiva, perdette di un tratto quell'aureola religiosa, che circondava le istituzioni delle genti patrizie, e potè essere svolto con una rigi dezza e con una logica astratta, che sarebbero certo incomprensi bili, quando non si conoscesse la causa, da cui poterono essere de terminate. Con ciò non intendo già affermare, che i concetti, da cui prese le mosse il ius quiritium, siano stati creati dal censo, poichè ho dimostrato invece che essi già preesistevano; ma solo di provare, che il censo servi a dare loro una configurazione esatta e precisa; a separarli nettamente gli uni dagli altri; a fare in guisa che ciascuno avesse un'esistenza propria e distinta, an corchè fra tutti concorressero a costituire una sola individualità giuridica. Fu in questo modo, che al punto di vista quiritario ogni gruppo apparve in certo modo unificato sotto il proprio capo; che tanto il diritto sulle persone che quello sulle cose nel l'elaborazione giuridica si ridusse ad una questione di mio e di tuo; che ciascun gruppo, essendo per dir cosi racchiuso in una cate goria determinata, ebbe un'esistenza cosi distinta da tutti gli altri gruppi, che i membri dell'uno non potevano promettere nè stipu lare per quelli dell'altro; che infine anche le varie membra del quirite si vennero come dislogando le une dalle altre, e poterono ricevere ciascuno un proprio sviluppo, dando così occasione a quel l'automatismo di concetti e di istituti, che è uno dei caratteri più salienti del diritto romano. Intanto questo sguardo generale ai caratteri peculiari della co munanza quiritaria, quale si formò nell'epoca serviana, e al censo che servi di base alla medesima, ci preparerà la via per ricostruire 422 la storia primitiva dei concetti fondamentali di questa, che può a ragione chiamarsi la parte statica del ius quiritium, in quanto fu in parte determinata da una delle prime applicazioni della sta tistica per la constatazione del numero, della forza e della ricchezza di un popolo (1). § 2. – Il concetto del caput e la teoria della capitis diminutio. 337. Chi volesse cercare le prime origini del concetto di caput, dovrebbe forse riportarsi col pensiero a quell'epoca, in cui i fonda tori della città contavano dai capi i proprii greggi ed armenti; nè sarebbe a farne le meraviglie dalmomento, che essi non dubitavano di chiamare ovilia quei recinti, in cui raccoglievansi le centurie e le classi per dare il proprio voto nei comizii. Parmi tuttavia più verosimile, che il vocabolo di caput dovesse, nel periodo gentilizio anteriore alla formazione della città, avere quella significazione, che tuttora conserva presso le popolazioni, che si trovano nelle stesse condizioni sociali, per cui esso indica un capo di gruppo, quella per sona cioè, che avendo preminenza su tutti quelli, che da essa di pendono e che la circondano, pud essere considerata come il rap presentante, in cui si unifica il gruppo stesso. Questo vocabolo poi, trapiantato nel censo serviano, viene ad indicare colui, che conta per uno nel censo, e conserva cosi un'analogia colla significazione anteriore, in quanto che il medesimo, pur essendo un individuo, unifica però in sè stesso le persone e le cose che ne dipendono. Se per tanto altri non abbia che il proprio caput e manchidi una sostanza valutabile nel censo stesso, verrà ad essere un capite census; se invece abbia solo una sostanza, che giunga ai 1500 assi e conti so. pratutto per la prole, che potrà produrre per la repubblica, sarà un proletarius; se infine abbia una sede fissa, e sostanze sufficienti per (1) A scanso di ogni malinteso, devo qui dichiarare che il concetto, che qui ap pare come direttivo nella ricostruzione della parte statica del ius quiritium, non fu un presupposto, dal quale io sia partito, ma fu il risultato ultimo, a cui mi con dussero pazienti e minute elucubrazioni intorno ai singolari caratteri con cui esso si presenta. Questo paragrafo pertanto fu l'ultimo ad essere scritto, ma ho creduto di premetterlo; perchè esso, a mio avviso, agevola al lettore la comprensione di ciò che verrà dopo. Ciò valga anche a farmi perdonare, se per avventura occorra qualche ine vitabile ripetizione. 423 collocarlo nelle classi e per assicurare la città della assiduità di lui a compiere le proprie obbligazioni di cittadino e di soldato ad un tempo, verrà ad essere chiamato adsiduus o locuples (1). In ogni caso, per avere integro il proprio caput e per poter contare per uno nel censo, conviene essere libero, cittadino, e sui iuris nel seno della famiglia; come lo dimostra il fatto, che se altri abbia un figlio, che per aver raggiunta l'età di 17 anni debba già entrare nelle classi e nelle centurie, non sarà esso che conterà per uno, ma sarà invece il padre, che verrà ad essere un duicensus, in quanto che egli viene ad essere censito con un'altra persona, cioè col proprio figlio: « duicensus dicebatur cum altero id est cum filio, census » (2 ). 338. È quindi facile il comprendere comefosse facile il passaggio dalla significazione materiale del caput alla significazione giuridica di esso, chiamando col vocabolo di caput il complesso delle condi zioni richieste per figurare nel censo, ossia lo stato generale della persona. In tal modo il vocabolo di caput cessa di indicare questo o quell'individuo in particolare, per trasformarsi in una concezione logica ed astratta (persona ), la quale, ancorchè ricavata dalla realtà, può servire ad indicare il complesso delle condizioni richieste, accid altri possa avere la capacità giuridica quiritaria. Una volta poi, che il caput venne cosi ad essere cambiato in una concezione astratta, il medesimo potè essere assoggettato ad una specie di analisi o di scomposizione dei varii elementi, che entravano a costituirlo. Tali elementi erano la libertas, la civitas e la qualità di sui iuris nel seno della famiglia (3). Di qui la teoria della capitis diminutio, che non si ricavò esclusivamente dai fatti, ma si svolse sulla concezione logica del caput; come lo dimostra il fatto, che anche l'emancipato, anche l'arrogato, sebbene in sostanza vengano talvolta a migliorare (1) Quanto all'etimologia di questi vocaboli vedi il $ prec., nº 335. (2 ) V. Festo, vº duicensus; Bruns, Fontes, pag. 337. (3) V. quanto al concetto di caput, Herzog, Gesch. und Syst., I, pag. 997; il KRÜGER, Geschichte der capitis diminutio, Breslau, 1887, $ 5 “, pag. 49 a 67, ove prende in esame il concetto di caput nei diversi autori moderni, sopratutto germa nici. Egli poi sembra ritenere, che il concetto di caput siasi venuto formando gra datamente. Ritengo invece, che il diritto romano anche in questo prorompa da una sintesi potente, a cui solo più tardi sottentrò quell'analisi, che diede poi origine alla teoria della capitis diminutio. Il caput quindi dapprima appartenne solo all'uomo libero, cittadino, e sui iuris; e fu solo più tardi, che anche il figlio di famiglia si considerò avere un caput. 424 la propria posizione, finiscono tuttavia per subire una capitis dimi nutio (1 ). Che anzi questa logica giuridica dovrà anche applicarsi al cittadino, che sia fatto prigioniero di guerra, e piuttosto che venir meno alla medesima si cercherà di supplirvi colla finzione di postliminio (2 ) Intanto sono tre gli elementi del caput, e questi vengono l'uno dopo l'altro in base alla loro importanza. Quindi la perdita della libertas costituisce la maxima capitis diminutio, la perdita della civitas la media, e la mutazione di stato nel seno della famiglia la minima. Ciascuno poi di questi elementi dà origine ad una di stinzione che vi corrisponde; donde le distinzioni fra liberi e servi, fra cives e peregrini, fra persone sui iuris e le persone alieni (1) Gaio, Comm., I, 160-64. Secondo il Krüger, op. cit., pag. 5 a 21, ed altri autori germanici da lui citati, la teoria della capitis diminutio avrebbe avuto uno svolgimento storico, nel senso che la prima a delinearsi sarebbe stata la mi nima capitis diminutio, sul cui modello si sarebbe poi foggiata la magna capitis diminutio, che fu poi divisa in maxima e media capitis diminutio. Ritengo anch'io, che questa istituzione dovette avere uno svolgimento storico,ma nel senso che come fu sintetico il concetto primitivo di caput, così la primitiva capitis diminutio dovette comprendere qualsiasi avvenimento, per cui altri cessasse di tare come un caput. Quindi la perdita della libertà, quella della cittadinanza e l'adrogatio per cui altri cessava di essere sui iuris, dovettero costituire la capitis diminutio, che venne poi distinguendosi nelle sue varie specie. Sarà poi sempre un problema il determinare come mai l'emancipatio potesse costituire una capitis diminutio, e si comprende come il Savigny, Traité de droit romain, trad. Guenoux, II, pag. 66, quasi voglia esclu derla dalla vera capitis diminutio; ma questa singolarità potrà essere capita quando si ritenga, che nel censo primitivo ogni famiglia sotto il suo capo costituiva un gruppo, e quindi anche l'emancipazione, facendo uscire quell' individuo dal gruppo, costituiva, come dice Gajo, una « prioris status permutatio », la quale era anche compresa nella significazione larga di capitis diminutio. Del resto l'emancipatio sotto un certo aspetto produceva anche un deterioramento nello status dell' emancipato, poichè nel diritto primitivo questi perdeva ogni diritto di successione di fronte al gruppo, da cui esso era uscito. Intanto ciò serve eziandio a spiegare quella singolarità del diritto romano, in virtù di cui la capitis diminutio fa perdere soltanto i diritti fondati sull'agnazione, e non quelli provenienti dalla cognazione, poichè quella teoria fu una creazione del ius quiritium e del ius civile, e come tale non poteva produrre effetti, che al punto di vista del diritto civile, per la ragione appunto detta da Gajo, Comm., I, 158: « civilis ratio civilia quidem iura corrumpere potest, naturalia vero non potest »; distinzione questa, che nell'epoche primitive non poteva esservi, ma cominciò a formarsi quando comparve il dualismo fra il ius civile ed il ius gentium, a cui sottentrò più tardi il ius naturale. (2) È nota in proposito la finzione della legge Cornelia de iure postliminii. Cfr. Voigt, XII Tafeln, I, pag. 299 e 300. 425 - iuris, le quali vengono ad essere fondamentali e servono di punto di partenza anche ai giureconsulti classici, come lo dimostrano le Isti tuzioni di Gaio. Che anzi, una volta adottato questo metodo, si po terono anche attuare delle posizioni giuridiche intermedie, come quella che è rappresentata dal ius latii, e queste si poterono applicare tanto ai popoli, ai quali non si voleva accordare il completo ius quiritium, quanto eziandio ai servi affrancati, i quali, invece di es sere posti senz'altro nella condizione degli altri cives, erano invece collocati nella condizione di latini iuniani (1). Certo tutta questa teoria non potè svilupparsi di un tratto; ma intanto è con Servio, che si pose il vocabolo ed il concetto infor matore della medesima, e si iniziò così quel processo logico, che de terminò poi l'elaborazione progressiva. Questa poi si spinse fino tale da distinguere fra lo stato generale della persona e le condizioni speciali, in cui essa può trovarsi; donde ne provennero le determina zioni giuridiche speciali del pater familias, del filius familias, della mater familias, che distinguesi dall'uxor. Che anzi ciascuno di questi stati speciali venne eziandio a convertirsi in una conce zione astratta, per modo che una persona poteva essere padre senza aver figli, essere tenuto come figlio, ancorchè effettivamente fosse padre, essere riguardata come figlia, ancorchè in effetto fosse moglie, poichè tutto dipendeva dal punto di vista giuridico, sotto cui la per sona veniva ad essere considerata (2 ). (1) Per tal modo mentre prima non eravi che una specie di libertas se ne ven nero creando varie gradazioni, cioè quella dei libertini, che erano cives romani, quella dei latini, e quella infine dei dediticii; altra prova questa, che il concetto pri mitivo è sempre sintetico, mentre le suddistinzioni compariscono più tardi. V. GAJO, Comm., I, 10. (2 ) Ciò è detto espressamente da ULPIANO, Leg., 195, § 2, dig. (50, 16) ove dice del pater familias: « recteque hoc nomine appellatur, quamvis filium non habeat; non enim solam personam eius, sed et ius demonstramus »; il che vuol dire, che nel qualificarlo come tale, il giureconsulto si poneva al punto di vista giuridico. Era poi nello stesso modo, che la moglie in manu si riteneva figlia del marito, e simili. Ciò mi indurrebbe alquanto a modificare la teoria accettata intorno alla fictiones nell'antico diritto. Tali fictiones dal SUMNER -MAINE, Ancien droit, pag. 25 e dal Juering, Ésprit de droit romain, IV, p. 295, sono in certo modo ritenute come alterazioni della realtà dei fatti, a cui si ricorre per modificare il diritto già esi stente. Se ciò è vero delle finzioni, che poifurono introdotte dal diritto pretorio, non può dirsi delle fictiones del primitivo ius quiritium. Queste, come lo dice la stessa etimologia da fingere nel senso di foggiare, modellare, fanno parte dell' ars iura condendi, e sono un mezzo per completare una costruzione giuridica. 426 339. Quando poi venne ad essere cosi svolta la concezione giu ridica del caput, era naturale che la medesima potesse essere con siderata indipendentemente da colui, al quale essa si riferiva, e che fosse così riguardata come una specie di persona e quasi ma schera giuridica, che poteva essere anche sovrapposta non solo ad uomini realmente esistenti, ma eziandio a quegli enti giuridici, i quali « etiam sine ullo corpore iuris intellectum habent »: donde la co struzione delle persone giuridiche (1). Che anzi si va anche più oltre e per quell'immedesimarsi che è proprio di quest'epoca fra i diritti delle persone e quelli sulle cose, anche la proprietà quiritaria può essere considerata, o in quanto è perfetta e senza limitazione (er optimo iure quiritium ), o in quanto può subire delle diminuzioni, le quali verranno ad essere designate col vocabolo di servitutes, perchè anch'esse, al pari della servitù riguardo alle persone, scemano e di minuiscono quella perfetta posizione giuridica, in cui trovasi la proprietà del fondo, allorchè non abbia subito limitazione di sorta (2 ). Si comprende infine come spinta fino a questo punto l'elabora zione del concetto del caput, la medesima sia una costruzione giu ridica, che può anche stare da sè e svolgersi per conto proprio, secondo che esige la logica informatrice dei varii elementi, che en trano a costituirla. Che anzi questo caput e lo stato giuridico, che ne dipende, potrà anche essere trasportato da una ad un'altra per sona. Quindi è facile a spiegarsi come il caput dapprima non ap partenesse che al capo di famiglia, e poi fosse attribuito ad ogni cittadino, e per ultimo all'uomo libero; nel qual trapasso la logica giuridica non fa che rinunziare successivamente ad uno dei tre ele menti, che costituivano il primitivo stato generale della persona. Essa comincia quindi a rinunziare alla qualità di sui iuris, e viene (1) Tale essendo il processo seguito dalla giurisprudenza romana nella formazione del concetto di persona, la famosa questione intorno all'esistenza della persona giu ridica in diritto romano può essere risolta nel senso che essa deve ritenersi come una fictio iuris, attribuendo però a questo vocabolo la significazione sopra accennata di una costruzione giuridica modellata su quella della persona fisica, ma limitata solo a quella categoria dei diritti della persona fisica, che poteva avere una base nella realtà; donde la conseguenza, che queste persone hanno il diritto ai beni, ma non possono avere i diritti di famiglia. Cfr. Savigny, Traité de droit romain, II, pag. 234 e segg. (2) Questo svolgimento pressochè parallelo del concetto della persona e della pro prietà libera da qualsiasi vincolo sarà posto in maggior luce in questo stesso capi tolo, § 5, discorrendo del dominium ec iure quiritium. 427 ad essere capace di diritto ogni cittadino, ancorchè non sia capo di famiglia; poi rinunzia indirettamente a quella di civis, in quanto che la civitas finisce per essere estesa a tutti i sudditi dell'impero, e viene ad essere persona ogni uomo libero; ma la logica romana non potè ancora fare a meno della libertas per accordare il caput, e quindi solo l'uomo libero fu dalla medesima considerato come capace di diritti e di obbligazioni. Nè è il caso di fargliene colpa, perchè la logica romana si basava sui fatti, e la schiavitù, finchè durò il Romano Impero, fu una istituzione comune a tutte le genti (1). Cid perd non tolse, che il concetto del caput o della persona, quale era stato elaborato dai Romani, potesse più tardi essere trasportato anche all'uomo come tale, perchè esso era una costruzione logica, la quale, foggiata dapprima sulla realtà dei fatti, erasi poi staccata da essi, e poteva così ricevere delle nuove applicazioni. S 3. Il concetto di manus e le sue principali distinzioni. 340. Può darsi benissimo, che l'antichissimo vocabolo dimanus significasse un tempo la forza effettiva dell'uomo, in quanto sottopone a sè stesso uomini e cose, ossia la forza del vincitore, che si impone al vinto, o il potere dell'uomo, che doma e addomestica gli animali. È tuttavia più probabile, che questo vocabolo nel periodo gentilizio significasse già il potere effettivo, di cui ciascun capo poteva disporre, nei conflitti e nelle lotte coi capi delle altre famiglie e genti, della qual primitiva significazione potrebbero ancora trovarsi le traccie nel nostro vocabolo di masnada. La manus invece nelius qui ritium viene già a cambiarsi anch'essa in una concezione giuridica ed astratta, che comprende il complesso dei poteri, che appartengono ad una persona nella sua qualità di quirite. Come il vocabolo di caput indica per cosi esprimersi la capacità potenziale del quirite: cosi l'estrinsecazione effettiva di questa potenza sulle persone e cose (1) Il Bruns, Geschichte und Quellen des röm. Rechts (in HOLTZEND., Encyclop., I, pag. 105 ), ebbe a dire con ragione, che il più alto concepimento del diritto ro mano consiste nell'avere riconosciuto in ogni uomo libero la capacità astratta didiritto. Cid è vero; ma vuolsi aggiungere, che il diritto romano vi pervenne a gradi, e ri conobbe questa piena capacità prima al capo famiglia, poi al civis, e da ultimo all'uomo libero. Cfr. BRUGI, Le cause intrinseche della universalità del diritto ro mano, Prolus., Palermo, 1886, pag. 8. 428 che ne dipendono viene ad essere designata col vocabolo di manus (1). È questo il motivo, per cui la manus viene a comparire in tutte le manifestazioni, che si riferiscono al diritto quiritario. Se essa afferra qualche cosa nell'intento di acquistarvi sopra la proprietà ex iure quiritium viene ad aversi la manu capio; se essa riven dica qualche cosa che spetta al quirite da altri che lo possegga, abbiamo la vindicatio e la manuum consertio: se essa lascia uscire qualche cosa dal proprio potere quiritario, abbiamo la manumissio e la emancipatio; se essa infine afferra il debitore condannato per trascinarlo nel carcere privato abbiamo la manus iniectio. Questa manus simbolica non è però sempre inerme, ma talvolta compare munita della lancia od asta quiritaria, che trovasi simboleggiata nella vindicta, la quale serve come modo tipico per la manomis sione dei servi; nella festuca, il cui uso si mantiene nell’actio sa cramento; nell'hasta, sotto cui si mette all'incanto il bottino fatto in guerra, e che si infigge dinanzi al centumvirale iudicium. Questo potere giuridico, sintetico e comprensivo, subisce poi anche l'influenza del censo serviano, e quindi viene negli inizii ad essere modellato sul concetto del mio e del tuo, per modo che così il potere sulla moglie, che quello sui figli, che quello sui servi e sulle persone quae sunt in causa mancipii appariscono foggiati sul modello della proprietà, sebbene non sia lecito dubitare, che essi nel costume pre (1 ) La generalità degli scrittori è oggi concorde nell'ammettere, che dei varii vo caboli per significare il potere giuridico spettante al quirite il più antico sia quello di manus. Tale è l'opinione del Sumner Maine, del Voigt, del PADELLETTI, ed essa trova anche un fondamento nell'analogia fra la manus dei Romani e il mundium dei Germani. La questione sta piuttosto in vedere se il vocabolo dimanus comprenda solo i poteri sulle persone, compresi anche i servi, oppure anche il potere sulle cose. Egli è certo a questo riguardo, che i giureconsulti classici dànno al vocabolo di manus il significato di potere sulle persone e considerano questo vocabolo come un sinonimo di potestas. Tuttavia io riterrei probabile, che il vocabolo dimanus in una signifi cazione del tutto primitiva potesse anche comprendere il potere sulle cose, e ciò per il semplice motivo, che altrimenti nel diritto antico non vi sarebbe stato vocabolo per significare la proprietà e il dominio. È vero che alcuni dicono, che questo voca bolo primitivo sarebbe quello dimancipium: ma miriservo di dimostrare a suo tempo, che questo vocabolo significò piuttosto le cose soggette al potere, che non il potere una spettante sulle medesime. In ogni caso, se al vocabolo di mancipium si vuol dare etimologia è necessità di darvi quella di manu-captum, e in tal caso la manus comparirebbe ugualmente per significare l'assoggettamento di una cosa al potere della persona. Cfr. Voigt, XII Tafeln, II, $ 79; BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, pag. 100, nota 1; Longo, La mancipatio, Firenze, 1887, pag. 3, nota 4. 429 sentavano delle differenze e dei temperamenti. Così pure, sotto il punto di vista giuridico, nulla hanno di proprio nè la moglie, nè i figli, né i servi, e tutto ciò che essi acquistano va al marito, al padre, al padrone, perchè è lui il vero quirite e quegli che conta nel censo. Sarà poi una conseguenza di questa logica giuridica, che se il dipendente rechi un danno, il capo di famiglia potrà addive nire alla noxae datio; che se alcuno si ribellerà al suo potere, gli spetterà un ius coercendi, che potrà giungere fino al ius vitae ac necis; e se alcuna delle persone, che da esso dipendono, verrà ad essergli sottratta, egli potrà proporre percid quella stessa actio furti od actio exhibendi, che potrebbe da lui essere proposta per una cosa, di cui sia stato derubato. 341. Dalmomento poi che la manus costituisce così una concezione giuridica, si comprende che anche ad essa siasi applicata quella scom posizione, che ebbe già a dispiegarsi quanto al caput. Si spiegano così le iniziali conservateci da Valerio Probo, secondo cui il potere giuridico del quirite verrebbe a suddividersi nella manus, che resta a significare il potere del marito sulla moglie, nella potestas, che significa il potere del padre sui figli, e nel mancipium, che qui sembra indicare il potere sulle persone quae sunt in mancipii causa. Quest'ultimo vocabolo tuttavia, più che un aspetto del potere quiri tario, sembra indicare piuttosto il complesso delle persone e delle cose, che dipendono dal potere spettante al quirite; come lo dimostra la circostanza, che il medesimo dai giureconsulti non è mai adoperato con significazione attiva, ma sempre con significazione passiva (1). (1) Basta per ciò osservare, chementre nei giureconsulti si incontrano le espressioni habere manum, potestatem, dominium, non occorre però mai l'espressione habere mancipium, ma sempre quella habere in mancipio: poichè quest'espressione di man cipium, derivando da manu-captum, significa bensì la cosa soggetta, ma non può si gnificare il potere sulla medesima. Io ritengo, che questa inesatta significazione data al vocabolo mancipium sia stata una causa dei gravi dubbii ed incertezze nell' ar gomento. Così, ad esempio, non potrei accettare l'opinione, che mancipium sia stato il primo vocabolo con cui si indicò il dominium ex iure quiritium; ciò sarebbe come dire che i vocaboli di praedium, fundus significassero il diritto di proprietà, mentre invece indicano la cosa, che ne forma l'oggetto. L'unico passo, che suol essere citato per far significare a mancipium un potere, è quello di GELLIO, XVIII, 6, 9, ove si parla della mater familias in manu, mancipioque mariti, ma anche questo dimostra, che anche la moglie era talora considerata come in mancipio, e conferma così la significazione passiva del vocabolo. Se dovette quindi esservi un vocabolo primitivo, che potè indicare il potere del proprietario, esso fu quello di manus, che ha in 430 Una volta poi, che i poteri, un tempo inchiusi nel vocabolo generico di manus, sono cosi separati l'uno dall'altro, essi possono essere ca paci di una propria elaborazione e venirsi cosi differenziando fra di loro secondo il diverso concetto a cui si ispirano, per modo che cia scuno di essi finirà per ricevere un diverso svolgimento logico e storico ad un tempo, e per essere sottoposto a quelle limitazioni, che verranno ad apparire necessarie nella realtà dei fatti. Negli esordii invece della formazione del ius quiritium non presentasi ancora il dubbio, che il quirite possa in qualche modo abusare della propria manus, e quindi tutti i poteri, che a lui appartengono, giuridicamente considerati, vengono ad apparire senza alcun limite e confine. Che anzi le persone a lai soggette, sotto il punto di vista giuridico acquistano ed operano non per sè,ma per le per sone, di cui trovansi in manu, in potestate, in mancipio. Di qui la conseguenza, che mentre le persone sottoposte al potere del capo di famiglia possono rappresentarlo, questa rappresentazione invece non può essere cosi facilmente ammessa, allorchè trattasi di altre persone, come lo dimostra il principio prevalente nell'antico di ritto, secondo cui una persona non può promettere nè stipulare per un'altra. Il concetto del mancipium e la distinzione delle res mancipii e necmancipii. 342. Che se la manus viene poi ad essere considerata, in quanto abbia assoggettate al suo potere le persone e le cose che da essa dipen dono, formasi il concetto del mancipium. Mentre i concetti di caput e di manus indicano un'energia che si esplica, il vocabolo invece di mancipium indica piuttosto lo stato di soggezione, in cui si trovano sè l'idea della forza e dell'energia, ma non mai quello di mancipium, che allora e sempre significò soltanto la soggezione. Del resto gli stessi giureconsulti ci attestano, che in antico non eravi un vocabolo speciale per significare il dominio, ma dicevasi soltanto meum, tuum. (1) Di qui credo di poter indurre, che anche quel principio del diritto primitivo, secondo cui altri non può essere rappresentato, che dalle persone che da lui dipen dono e niuno può promettere e stipulare per altri, sia una conseguenza del modo, in cui si iniziò la formazione del ius quiritium; in quanto che nell'esercito e nei comizii ciascuno doveva rispondere per sè e non poteva farsi rappresentare da altri. r 431 le persone e le cose che dipendono da essa, e presentasi con una signi ficazione eminentemente passiva. Non vi ha quindi nulla di ripu gnante, che esso nelle origini significasse il manu -captum; e designasse specialmente il vinto che, fatto prigioniero di guerra, veniva ad es sere soggetto alla potestà del vincitore. Questo è certo ad ogni modo, che nel ius quiritium il vocabolo dimancipium, al pari di quello di caput e di manus, ha già assunta una significazione eminentemente giuridica, per cui comprende quel complesso di persone e di cose, che dipendono esclusivamente dal capo di famiglia, e che a lui apparten gono ex iure quiritium, e che nel censo compariscono in certo modo comeposte in suo capo (1). È quindi sopratutto coll'entrare a far parte delmancipium, che i diritti spettanti al capo di famiglia ed al pro prietario ex iure quiritium assumono quel carattere così esclusivo ed individuale, che è del tutto proprio del diritto primitivo di Roma. Con esso infatti il quirite viene ad essere staccato dall'ambiente gen tilizio, di cui fa parte, a compare nel censo con un complesso di persone e di cose, che dipendono da lui in modo assoluto. È quindi in virtù di quest'astrazione, che viene a formarsi il concetto di una potestà senza confini e di una proprietà assoluta ed esclusiva spet tante al capo di famiglia (2 ). Anche nel mancipium, come negli altri (1) Quasi tutti gli autori son concordi in ritenere, che il mancipium abbia avuta una significazione così larga da comprendere così le persone, quanto le cose, in quanto son soggette al potere del capo di famiglia. Solo combatte quest'opinione il MARQUARDT, Das Privatleben der Römer, pag. 2. Ritengo che debba essere seguita la prima opinione, la quale per me ha un appoggio incontrastabile in ciò, che le formole serbateci da Aulo Gellio e VALERIO Probo accennano a persone, che sono in manu, potestate, mancipio; la qual formola troviamo poi adoperata nelle leggi più antiche che a noi pervennero, come nella lex Cincia de donationibus, del 550 di Roma (Bruns, Fontes, pag. 45) e nella lex Acilia repetundarum, del 631 di Roma (pag. 57). Ciò vuol dire, che anche le persone sotto un certo aspetto si considera vano come comprese nel mancipium del capo famiglia, il che poi spiega come ad esse potesse anche applicarsi la mancipatio, l'emancipatio e simili. Ciò però non toglie, che le significazioni tecniche del vocabolo mancipium fossero quelle specialmente di significare il servo, come lo prova l'editto curule de mancipiis vendundis (Bruns, pag. 214 ), o quel complesso di beni, che doveva essere consegnato nel censo. Quanto alle altre significazioni dimancipium, è da vedersi il BONFANTE, op. cit., pag. 79 a 105, col quale tuttavia non concordo in questo, che egli attribuisce al mancipium anche la significazione di una potestà sulla cosa (pag. 100 ), e sembra ritenere, che il mancipium non comprenda mai le persone (pag. 101, in nota). (2) Come il mancipium, fondendosi in certo modo coll'heredium, sia venuto a de signare le cose comprese nel dominio assoluto ed esclusivo del cittadino romano è stato dimostrato più sopra al nº 331, pag. 414. 432 concetti fin qui presi in esame, trovansi dapprima confuse le persone e le cose, che dipendono dalla stessa persona; ma poi anche qui viene operandosi una specie di differenziazione, per cui il vocabolo mancipium finisce per indicare il complesso dei beni, e quello di familia il complesso delle persone, che dipendono dal medesimo capo. Siccome però nel mancipium non si comprende tutto il pa trimonio del quirite, ma solo quella parte di esso, che è portata nel censo e che serve come stregua per determinare la classe, di cui entra a far parte; così ne deriva che il censo serviano deve eziandio essere considerato come il momento storico, in cui cominciò ad accen tuarsi quella distinzione fra il mancipium e il nec mancipium, che diede poi origine a quella importantissima distinzione fra le res mancipii e le res nec mancipii, che deve formare oggetto di par ticolare esame per le molte discussioni, a cui diede argomento. 343. La distinzione fra le res mancipii e le res nec mancipii, è a mio giudizio, un rottame del diritto primitivo, che indecifrabile da solo, può cambiarsi in un documento prezioso, quando si riesca a ricomporlo nell'ambiente in cui ebbe a formarsi (1). L'antichità del concetto, a cui si ispira la distinzione, è dimostrata dal fatto, che i giureconsulti ebbero ad accettare la medesima come già esi stente nel fatto, senza pur cercare di darsi la vera ragione di essa (2 ). La circostanza poi, che questa distinzione ebbe a perdurare per se coli, dimostra che essa non può considerarsi come una semplice biz zarria giuridica, ma deve invece rannodarsi a qualche concetto fon damentale dell'antico diritto, che i giureconsulti classici credettero di dovere accettare e rispettare. Ció del resto può in certi confini anche argomentarsi dal modo singolare, in cui è concepita questa distinzione; in quanto che essa è evidentemente fatta nell'intento (1) L'importanza della questione per lo studio del diritto primitivo di Roma fu in questi ultimi tempi assai sentita in Italia, come lo dimostrano i lavori già ci tati dello Squitti e del BONFANTE sulle res mancipi e nec mancipi e quello del Longo sulla mancipatio. Ritengo tutta via, che questa sia una di quelle questioni, che prima debbono essere studiate nei particolari, ma difficilmente possono poi es sere comprese e spiegate, se non siano coordinate colle altre istituzioni del diritto primitivo, con cui concorrevano a costituire un tutto organico e coerente. (2 ) Non può certamente ritenersi definitiva la ragione data da Gavo, Comm., II, 22, che le res mancipii siano così dette perchè suscettive di mancipatio; poichè si potrebbe sempre chiedere la ragione, per cui le sole res mancipii furono ritenute suscettive della mancipatio. 433 di mettere in una posizione speciale e privilegiata le res mancipii, che costituiscono la parte positiva della distinzione, mentre l'altra parte della distinzione ha un carattere puramente negativo, cioè comprende tutte quelle cose, che non appartengono alla prima ca tegoria. Da questo carattere infatti è lecito indurre, che nello svol gimento storico dovette precedere la formazione delle res mancipii, ossia di un complesso di cose, che erano comprese nel mancipium, e che solo più tardi quelle, che non erano comprese nelmedesimo, vennero ad essere chiamate res nec mancipii, quasi per contrap porle alla categoria già formata dalle res mancipii. Queste considerazioni aggiunte a quella pur importante, che dopo l'ultima lettura del manoscritto di Gaio da lui fatta, lo Studemund avrebbe adottata la lezione di res mancipii e res nec mancipii a vece di quella di res mancipi e nec mancipi, che prima era ge neralmente adottata, mi inducono a ritenere che il caposaldo, a cui deve rannodarsi questa antica distinzione, sia l'antichissimo concetto del mancipium, le cui origini rimontano quanto meno alla costitu zione ed al censo di Servio Tullo (1). 344. Per poter poi spiegare come nell'antico diritto possa essersi cominciato a distinguere il mancipium dal nec mancipium, non sarà inopportuno il notare, che fin dai tempi più antichi noi troviamo degli accenni ad una specie di distinzione, che erasi fatta nel pa trimonio spettante al capo di famiglia. Noi troviamo infatti una specie di dualismo nei vocaboli di heredium e di peculium, e in quelli eziandio di familia pecuniaque, i quali appariscono in certo modo contrapposti fra di loro. Per verità mentre i vocaboli di he (1) Del resto la questione della i doppia o semplice nel vocabolo mancipi o man cipii non ba grande importanza dal momento, che nel latino primitivo solevasi usare l'i semplice a vece della doppia ii. Che anzi sonvi autori, i quali continuano a seguire l'antica scritturazione, appunto perchè veggono in essa un indizio ed una prova dell'antichità della distinzione, sebbene ammettano la parentela delle res man cipiä сol primitivo mancipium. Così il BONFANTE, op. cit., pag. 21. Per parte mia, siccome mi propongo di fare la storia del concetto, anzichè della parola, così trovo più conveniente di adottare quella scritturazione, la quale, esprimendo materialmente l'attinenza fra il mancipium e le res mancipii, impedisce di dare a questa distin zione una significazione diversa da quella, che veramente ha. La grafia mancipi sarà forse la più genuina e la più antica; ma essa condusse alla distinzione fra cose man cipabili e non mancipabili, e a cercare l'origine della distinzione in cose, che non avevano a fare con essa, il che appunto deve essere evitato. G. CARLw, Le origini del diritto di Roma. 28 434 redium e di familia indicano di preferenza quella parte del patri monio, che nel proprio concetto informatore è destinata a passare negli eredi, i concetti invece di peculium e di pecunia sembrano designare di preferenza quella parte di patrimonio, che per sua na tura è destinata allo scambio, alla circolazione ed al soddisfacimento dei quotidiani bisogni. Di quisi può inferire, che una distinzione come questa, che compare indicata con vocaboli diversi, e che si mantiene con una certa costanza, dovette trovare la propria ragione d'essere nelle condizioni economiche e sociali, in cui allora trovavasi il popolo romano, e che perciò la spiegazione di essa debba ricercarsi nell'e poca, in cui vennesi formando il primitivo ius quiritium (1). Parmipoi a questo proposito, che anche oggi, fermando lo sguardo sopra una comunanza di carattere rurale, si possa trovare qualche vestigio di condizioni sociali ed economiche analoghe a quelle, che determinarono questa distinzione nell'antico diritto di Roma. Anche oggi nelle comunanze agricole la famiglia rurale appare in certo modo unificata nella persona del suo capo, e sotto l'aspetto econo mico costituisce come un gruppo di persone e di cose, in cui si comprende il capofamiglia, la moglie, i figli, il bestiame, la terra coltivata, e la cui importanza può essere maggiore o minore, secondo la quantità di terra da esso posseduta, e il numero di braccia, di cui può disporre per la coltura della medesima. È poi facile l'osser vare come in questo patrimonio, che si intitola al padre, ma che nel costume si considera come proprietà comune del gruppo, for misi naturalmente una distinzione congenere a quelle, le cui traccie pur compariscono fra gli antichi romani. Nel patrimonio infatti di una famiglia agricola havvi anzitutto una parte fissa, sostanziale, che comprende tutti quei beni, senza di cui l'azienda agricola non potrebbe percorrere il suo corso regolare. Essa costituisce, per cosi esprimersi, il capitale fisso della famiglia agricola; quella parte cioè della sua sostanza, che sebbene di diritto appartenga al padre, nel costume si ritiene invece come proprietà comune; quella che è dal padre custodita con speciale affetto, e di cui si spoglia a malincuore, ritenendosi come obbligato a trasmetterla intatta alla propria figliuo lanza. Se egli quindi alieni una parte della medesima, la comunanza rurale non può a meno di esserne informata e il suo credito vacilla. Quindi piuttosto di alienare questa parte fissa e trasmessibile dal (1) Già si accenno a questa correlazione, senza tuttavia cercare di spiegarla, al nº 56, pag. 70. 435 proprio patrimonio, il capo di famiglia suole anche oggidi, come già un tempo la plebe romana, appigliarsi al partito di contrarre dei debiti, o di ricorrere a quella vendita con patto di riscatto, che nei nostri villaggi si cambiò nella forma più perfida ed ingannatrice sotto cui si nasconde quell'usura, che chiamasi palliata. Accanto poi a questa parte fissa del patrimonio havvi eziandio la parte, che costituisce in certo modo il capitale circolante della fa miglia rurale. In essa si comprendono i raccolti dell'annata, le somme di danaro che si tengono alla mano, il bestiame minuto, che ogni anno si compra e si vende, e gli altri beni e valori, coi quali il capo famiglia può fare maggiormente a fidanza, perchè la copia o la scarsità di essi potrà rendere più o meno agiata la famiglia, senza però mettere a repentaglio l'esistenza della medesima. È naturale che una distinzione di questa natura abbia dapprima alcunché di vago e di indeterminato, in quanto che possono esservi delle cose, di cui può dubitarsi se debbano essere collocate in questa od in quella parte del patrimonio. Se tuttavia in determinate con dizioni economiche avvenga un avvenimento di carattere ammini strativo, che costringa in certo modo a distinguere le due parti del patrimonio, quale, sarebbe ad esempio, la formazione di un censo o di un catasto per fissarvi sopra una imposta, la conseguenza im mediata di questo fatto sarà, che quella distinzione, che stava for mandosi, perderà il suo carattere vago ed indeterminato e finirà per assumere un significato preciso, il quale, mentre corrisponde allo stato reale delle cose in quel determinato momento, potrà in vece riuscire inesplicabile più tardi, allorchè siansi trasformate le condizioni economiche del popolo, di cui si tratta. 345. Or bene un avvenimento di questa natura ebbe appunto ad avverarsi nella primitiva vita economica e giuridica di Roma. Esso fu il censo di Servio Tullio, il quale, essendo stato posto a base di una nuova composizione del populus romanus quiritium, non potè a meno di lasciare anche delle traccie nello svolgimento posteriore del diritto romano. Si sa infatti, che questo censo comprese non solo le persone, ma anche le sostanze, e che esso sopravvenne dopo che Servio e i re suoi antecessori avevano fatto alla plebe degli assegni di terre, che per essere tutti della stessa natura dovevano aver rice vuta una analoga configurazione. Questi assegni erano stati senza alcun dubbio fatti a somiglianza di quegli heredia, che la gens an tica faceva ai suoi membri, allorché i medesimi fondavano una fa 436 miglia, colla differenza che mentre gli heredia del patriziato erano ricavati dall'ager gentilicius, quelli invece, che si facevano alla plebe, erano fatti direttamente dallo Stato sul suo ager publicus, mediante le così dette adsignationes viritanae. Senza cercare qui se tali assegni fossero di due, di cinque od anche di sette iugeri, questo è certo che essi costituivano una specie di piccolo podere, che com ponevasi di una abitazione rurale (tugurium ), di un orto e di un campo attiguo, naturalmente fornito di quelle servitù rurali di pas saggio e di acquedotto, che erano del tutto indispensabili per la sua coltivazione. Esso quindi veniva in certo modo a costituire la pro prietà tipica del quirite, la quale, dipendendo direttamente dalla sua manus, poteva opportunamente ricevere il nome dimancipium. Che anzi è anche probabile, che questo podere prendesse il nome dal suo primitivo proprietario, come lo dimostra il fatto, che i poderi romani ancora più tardi conservano il nome derivato da quello del primitivo proprietario, che si considera in certo modo come il fon datore del podere, e lo trasmettono successivamente ai proprietarii che vengono dopo (1). Era quindi questo mancipium, che doveva essere consegnato e valutato nel censo, e che costituiva la base, sovra cui si determinavano i diritti e le obbligazioni del quirite; le altre cose invece non gli erano tenute in conto, o perchè non appartenevano al quirite come tale, ma piuttosto alla gente, di cui esso faceva parte, o perchè costituivano una specie di capitale cir colante, di cui non potevasi fissare l'ammontare in questo od in quel determinato momento. Di qui conseguiva, che questo mancipium (1) Questa induzione mi fu suggerita da due notevoli articoli del FUSTEL DE COULANGES, pubblicati sulla « Revue des deux mondes » del 1886 col titolo Le domaine rural chez les Romains, tomo 3º dell'annata. II FUSTEL DE COULANGES non si occupa veramente delle origini del podere ru rale in Roma, stante le incertezze che ancor durano sull'argomento, ma parla piut tosto dei poderi rurali sul finire della Repubblica e durante l'Impero, allorchè i medesimi per le loro proporzioni certo non avevano più che fare col primitivo man cipium. Egli nota tuttavia, che i poderi anche in quest'epoca avevano una denomi nazione ricavata dal nome non del proprietario attuale ma del proprietario primitivo del podere, e chiamavansi così fundus Manlianus, Terentianus, Gallianus, Sempro nianus e simili, il che finiva per dare una personalità al fondo, determinata da colui, che prima l'aveva occupato e posto in coltivazione. Ora non è certo impro babile, che questa singolarità nel podere romano sia stata determinata dal fatto, che nella tabula censoria del quirite, al disotto del nome del caput, era anche descritto il podere a lui spettante, il quale veniva così ad assumere un nome, che i Romani trasmisero poi con quella costanza, che abbiamo riscontrato in molti altri esempi. 437 veniva in certo modo a costituire il vero e proprio patrimonio del quirite, cometale: quello cioè che era posto direttamente in suo capo, che in certo modo ne prendeva il nome, e di cui egli poteva disporre senza limitazione di sorta, purchè lo facesse nei modi solenni, che erano riconosciuti dalla comunanza quiritaria. Anche gli altri beni potevano essere buoni e desiderabili per il quirite; ma quelli, che entravano nel mancipium, avevano per esso una importanza del tutto peculiare, la quale spiega come i plebei preferissero alla loro alienazione l'imprigionamento nelle carceri del creditore, con tutti i mali trattamenti, che potevano conseguirne. 346. Questa spiegazione del modo, in cui si formò ilmancipium, trova poi la sua conferma nella enumerazione, che i giureconsulti Gaio ed Ulpiano ebbero a conservarci delle res mancipii (1). Questa enumerazione infatti serba evidentemente il carattere di una antichità remota, e richiama il pensiero agli assegni rurali aventi una configurazione tipica e determinata, che dovevano essere fatti sull'ager gentilicius ai gentili e ai clienti che entravano a co stituire la gens, e dai re ai plebei sull’ager publicus. Per verità le res mancipii, sebbene siano annoverate come cose singole, co stituiscono però ad evidenza un tutto, che corrisponde alle condi zioni economiche del tempo, ed ai bisogni di una famiglia agricola, la quale debba, per dir cosi, bastare a se stessa. Ciò è dimostrato anche dalla circostanza, che il podere, che forma il nucleo centrale del mancipium, non è già un campo nudo di qualsiasi attrezzo, ma è un praedium instructum considerato cioè cogli istrumenti e colle servitù, che sono necessarie per la sua coltivazione (2). Una casa in città, un tugurio in campagna, circondato da un piccolo podere, coi servi, cogli animali, e colle servitù indispensabili per la coltura del medesimo, dovettero in quell'epoca costituire come la proprietà tipica del quirite; quella proprietà cioè, che lo rendeva adsiduus, perchè ne accertava la residenza, e locuples, perchè assicurava il sostentamento suo e della famiglia. Essa era la prima porzione di (1) Gajo, I, 120; II, 14-17; Ulp., Fragm., XIX, 1. (2 ) Anche questo concetto del fundus instructus sopravvive a lungo presso i Ro mani, come appare dal Fustel De Coulanges, op. cit., pag. 340, che lo trova in pieno vigore durante l'impero. Che anzi i giureconsulti al solito formano una con cezione giuridica dello stesso e instrumentum fundi », ossia di quel complesso di ar nesi, di bestiame e di servi, che può essere necessario per la coltura del fondo. 438 terra, che sottraevasi in certo modo dalla proprietà collettiva della gente (ager gentilicius), o da quella dello stato (ager publicus), per costituire la vera proprietà esclusiva ed individuale. Or bene è appunto un gruppo analogo di cose, che può raccogliersi. dall'enumerazione conservataci da Gaio e da Ulpiano delle res man cipii. L'uno e l'altro infatti son concordi nell'attestare, che queste comprendevano; lº i praedia, così rustici comeurbani, purchè situati nell'ager romanus od anche nel suolo italico, il quale mediante la concessione del ius italicum, poteva anche essere oggetto del do minium ex iure quiritium; 2° le servitù rustiche, che sono il naturale compimento di un podere rurale, quali le servitutes viae, itineris, actus, aquaeductus; 3° i servi, in quell'epoca strumento indispensabile per la coltura; 4º e infine i quadrupedes, quae dorso collove domantur, veluti boves, equi, muli et asini. Invece le altre cose tutte, che esorbitano da questa cerchia, comprendendovi la stessa pecunia, le pecore, i buoi ed i cavalli non domati, sono indicate senz'altro colla espressione di res nec mancipii. 347. Di fronte a questa enumerazione dei giureconsulti si osservo, che riesce difficile a comprendersi come nelmancipium, quale pro prietà tipica del cittadino, non si comprendessero nè le pecore, nè le mandre dei cavalli e dei buoi non domati, né i greggi ed ar menti, cose tutte, che certamente costituirono la parte più notevole della ricchezza dei primitivi romani. È perd anche ovvio il rispondere, che il criterio della riforma serviana non fondavasi sulla ricchezza, quale che essa fosse, ma piuttosto sulla proprietà stabile, esente da qualsiasi vincolo. Era solo questa forma di proprietà, che poteva ren dere i quiriti adsidui e locupletes, e servire così di garanzia alla co munanza dell'interesse, che essi avevano alla comune difesa. Non fu quindi la pecunia, che ebbe ad essere tenuta in conto, perchè questa, anche consistendo in greggi ed in armenti, poteva sempre essere trasportata altrove. Si aggiunga che le mandre, i greggi, e gli ar menti dovevano dapprima non appartenere ai singoli capi di famiglia, macostituire invece la ricchezza delle genti collettivamente conside rate; poichè per il loro pascolo non poteva certo bastare, nè sarebbe stato atto il piccolo podere quiritario, ma occorrevano dei grandi e vasti spazi, che solo potevano trovarsi negli agri gentilicii, o nell'ager compascuus della tribus primitiva, o nell'ager publicus, proprietà dello Stato. Quanto ai capi di piccolo bestiame, che po tevano anche appartenere al proprietario di un piccolo podere, 439 tenuto ex iure quiritium, essi costituivano quel capitale circolante, che formava argomento degli scambii e delle negoziazioni quoti diane, e che perciò non offriva una base salda per essere valutato nel censo. 348. Parmi cið stante di poter conchiudere, che il primitivo man cipium consistette in quel complesso di cose, che costituiva in certo modo la proprietà tipica del quirite, come capo di una famiglia agricola, all'epoca in cui ebbe ad essere introdotta l'istituzione del censo. La selezione di questo mancipium dal resto delle cose, il cui godimento apparteneva ai primitivi romani, erasi preparata len tamente nelle condizioni economiche e sociali ed ebbe poi ad essere determinata in modo esatto e preciso dal censo serviano, il quale per tal modo potè perfino influire nel determinare le varie categorie delle res mancipii (1). È infatti questo mancipium, che nel censo appare intestato ad ogni singolo quirite, e che costituisce il primo nucleo di quella proprietà ex iure quiritium, che ebbe poi a svol gersi coi caratteri di assoluta, di esclusiva e di irrevocabile. Sia (1) Infatti non è punto improbabile, che la distinzione stessa delle res mancipii abbia potuto essere determinata dalle rubriche diverse, in cuidividevasi il mancipium, come già ebbi ad accennare al n ° 332 (in fine). Intanto colla soluzione indicata nel testo credo di aver fatto procedere di pari passo i due aspetti, sotto cui fu discussa l'origine delle res mancipië e nec mancipii. Nota giustamente il Bon FANTE, op. cit., pag. 35, che le teorie diverse, da lui esposte, si possono dividere in razionali e storiche, secondo che cercano di spiegare razionalmente quella distinzione, oppure di rannodarla ad un fatto storico. I due punti di vista, a parer mio, deb bono esser fatti procedere di pari passo; poichè la distinzione non sarebbesi intro dotta presso un popolo pratico e logico come il romano, se non avesse avuto una ragione di essere nelle condizioni economiche e sociali del tempo, ed essa non sareb besi poi perpetuata con tanta tenacità, se non vi fosse stato un avvenimento storico importantissimo, come il censo, il quale, per essersi in certo modo immedesimato colla vita e col modo di pensare del popolo, mantenne allo stato fossile la distinzione, di cui si trattava, anche allorchè non aveva più ragione d'essere. Che anzi in questo modo vengono perfino ad offrire alcunchè di vero anche le opinioni, che vogliono rannodare il concetto di mancipium alla bellica occupatio; poichè questo carattere militare, inerente anche almancipium, è una conseguenza di quell'impronta militare, che sopratutto in quell'epoca assume il populus romanus quiritium; impronta, che rimane inerente a tutti i concetti e alle istituzioni che ebbero origine in quell'occa sione. Tuttavia, siccome trattasi qui di ricostrurre e non di far l'esame critico delle varie opinioni, mi rimetto per l'analisi di queste opinioni, delle quali alcune hanno perfino del singolare, allo Squirti, pag. 38 a 68, al BONFANTE, pag. 35 e 75 e agli altri autori, che di recente esaminarono la vecchia controversia. 440 pure, che più tardi, per l'accrescersi della fortuna dei cittadini ro mani, siansi aggiunte molte cose, che avrebbero pur dovuto essere tenute in conto per valutare il patrimonio del quirite; ma in questa parte, come nel resto, i giureconsulti, allorchè trovarono foggiata questa configurazione giuridica, si guardarono dall'alterarne in qual siasi modo le primitive fattezze. Di qui ne venne, che il concetto del mancipium, come molti altri concetti del primitivo diritto, dopo avere un tempo corrisposto alla realtà dei fatti e aver così com preso quelle cose, che effettivamente costituirono la prima proprietà esclusiva del quirite, fini in certo modo per fossilizzarsi e cambiarsi in una categoria giuridica, in cui si compresero tutte quelle cose, che un tempo dovevan essere consegnate nel censo. Il mancipium si mantenne cosi come un rudere dell'antichità primitiva di Roma, che malgrado l'incremento delle cose romane rimase ad attestare le condizioni economiche dei quiriti, nel tempo in cui Servio Tullio pose il censo come base di partecipazione alla comunanza quiritaria. Ciò tuttavia non impedi, che il potere rurale presso i Romani, salvo le più grandi proporzioni, abbia ancora sempre conservati i tratti del primitivo mancipium, in quanto che esso continud pur sempre a costituire un tutto organico, ad avere un proprio nome, che è quello del primitivo proprietario, e ad essere considerato come fornito delle servitù e del bestiame necessario per la coltivazione di esso (instru mentum fundi). Le cose romane di piccole si fanno grandi, ma continuano sempre ad essere foggiate sul primitivo modello (1). 349. Nè può essere difficile lo spiegarsi come il concetto del man cipium siasi cosi conservato allo stato fossile, malgrado l'ingrandirsi delle cose romane, quando si tenga conto dello spirito conservatore della giurisprudenza romana, e della circostanza, che i giureconsulti (1) La miglior prova di ciò può aversi dagli articoli citati del FUSTEL DE COULANGES, sur le domaine rural chez les Romains. Da questi infatti si scorge che i Romani portarono il loro concetto del podere anche nelle provincie conquistate, e che le varie parti di esso ingrandendosi vennero ad avere talora una esistenza propria e distinta: cosicchè si ebbe il podere coltivato per mezzo di schiavi, quello fatto valere per mezzo di affittavoli, quello lasciato alla coltura dei servi e dei liberti, e quello più tardi coltivato da coloni; ma intanto le fattezze primitive non scomparvero più. Per tal modo anche il podere romano, come tutte le altre istituzioni di quel popolo, è un organismo, che si svolge e si differenzia nelle sue varie parti, ma conserva sempre quei caratteri, che già si potevano ravvisare nell'embrione, da cui è partito; em brione, che, secondo il mio avviso, consisterebbe appunto nel primitivo mancipium. 441 in questa parte trovarono già chiusa e formata la cerchia delle res mancipii, nè ebbero motivo di estenderla o modificarla in un'epoca, in cui già cominciavano a ritenersi gravi e inopportune le forma lità dell'antico diritto. Di qui la conseguenza, che i giureconsulti in tutti i responsi, che si riferiscono alle res mancipii, mantennero inviolata l'antica misura, e solo ammisero qualche allargamento, che corrispondeva al concetto informatore del primitivo mancipium, e che era necessario per rendere applicabile il concetto stesso (1). Così noi troviamo, ad esempio, che i giureconsulti interrogati, se i camelli ed elefanti potessero essere compresi nelle res man cipii, risposero negativamente, sia perchè questi animali non erano conosciuti, quando si fissd il concetto del mancipium, o meglio ancora, perchè essi non si sarebbero potuti riguardare come una pertinenza di quel podere tipico, che costituiva il mancipium (2 ). Indarno parimenti si fece notare, che le servitù urbane avevano la medesima natura delle rustiche; esse malgrado di ciò furono sempre ritenute come res nec mancipii, non tanto perchè non fossero co nosciute a quell'epoca, quanto piuttosto perchè non formavano parte integrante del podere stesso (3). Quando poi si chiese, se i cavalli e i buoi non domati potessero essere ritenuti come res mancipii, l'opinione prevalente fu che non fossero tali, probabilmente perchè essi, finchè non erano domati, non potevano essere strumento indi (1) Parmi perciò da seguirsi,ma con una certa discrezione, l'opinione che l'enumera zione delle res mancipii debba ritenersi tassativa, come quella che in parte fu determi nata da un avvenimento che doveva dargli un carattere esatto e preciso. Ciò però non toglie, che nel concetto comune anche altre cose potessero essere considerate come res mancipii, quali erano, ad esempio, le pietre preziose di Lollia Paolina, di cui ci parla Plinio il Vecchio (Hist. nat. 9, 35, 124 ). Ciò tanto più perchè posteriormente il concetto di mancipium, che erasi sovrapposto a quello di heredium, tornò a riacco starsi almedesimo, e nell'uso non giuridico significò talora i bona paterna avitaque, e specialmente quelli, che nel costume solevano trasmettersi digenerazione in genera zione, quali erano appunto le pietre preziose, che costituivano in certo modo un avitum mancipium. In ciò seguo l'opinione, che il Bonghi ebbe a manifestare nella recensione del lavoro dello SQuitti nella Cultura, anno 1886, 1-15 agosto. Cfr. BONFANTE, op. cit., p. 93. (2) GAJO, Comm., II, 16; ULP., Fragm., XIX, 1. (3 ) GAJO, II, 17; ULPIANO, loc. cit. Che anzi fra le servitù rustiche sono res mancipii quelle soltanto, che hanno una maggior importanza per un podere ru stico, e che formano parte integrante del medesimo, cioè l'iter, actus, via, aquae ductus, e non le altre, come quelle del ius pascendi, calcis coquendae e simili, le quali, essendo particolarità di certi speciali poderi, non potevano dapprima essere tenute in conto. -.442 spensabile per la coltura del fondo, che costituiva il primitivo man cipium (1). Cid intanto può eziandio servire a spiegare come Varrone parli di formole relative alla vendita di animali da tiro, e da soma ed anche di servi, accennando alla semplice traditio e non alla mancipatio; poichè questa doveva solo ritenersi necessaria, allorchè gli animali e i servi, di cui si trattava, dovessero considerarsi come instrumenta fundi (2). Siccome invece le res mancipii, ancorchè singolarmente enumerate, costituiscono però un tutto (cioè il man cipium ), così i giureconsulti rispondono, che alle medesime conside rate come un tutto può essere applicato quello stesso mezzo di alienazione, che è proprio delle singole res mancipii; donde la pos sibilità della mancipatio familiae e del testamentum per aes et libram, di cui si parlerà a suo tempo (3 ). (1 ) La controversia in proposito fra i Proculeiani, che escludevano dalle res man cipii questi animali finchè non fossero giunti a tale età da essere domati, e i Sabi niani, che invece li ammettevano fra le res mancipii, appena fossero nati, è accen nata da GAJO, II, 15, comemolto dubbiosa anche per lui, che era Sabiniano. In ogni caso la stessa esistenza di una simile controversia, ed anche il fatto, che erano res man cipii solo i quadrupedes, quae dorso collove domantur, dimostra abbastanza che la determinazione delle res mancipii aveva stretta attinenza colla coltivazione del fondo. (2) Le formole conservateci da VARRONE intorno all'emptio venditio dei cavalli e dei buoi anche domati (V. Bruns, Fontes, p. 388) condussero il Voigt a ritenere che i cavalli ed i buoi fossero introdotti solo dopo Varrone nel novero delle res man cipië (Ius nat., Leipzig). Veramente non si saprebbe ilmotivo di questa nuova introduzione in una distinzione, che oramai appariva antiquata; ma ad ogni modo la cosa a mio avviso è facile a spiegarsi, quando si ritenga che la qualità di res mancipiä era dapprima attribuita dall'essere questa cosa un « instru mentumt fundi». Quindi non sempre era necessaria la mancipatio per questi animali, come non sempre era necessaria per i servi, come lo attesta lo stesso Varrone. Non credo poi che possa essere il caso di supporre degli errori nella esposizione di Var rone, come vorrebbe il Bonfante, op. cit., pag. 111, non potendosi supporre un er rore di questo genere sopra formole, che vivevano nelle consuetudini ed erano ela. borate dagli stessi giureconsulti. (3) È tuttavia degno di nota, che mentre il mancipium o la familia, intesi nel senso di patrimonio, sono per sè suscettivi di mancipatio, l'hereditas invece è consi derata come una res nec mancipië, e come tale è suscettiva di in iure cessio, ma non di mancipatio (Gajo, Comm., II, 14, 17, 34). La ragione, a parer mio, è questa, che la familia o il mancipium, finchè dipendono dal pater familias, costituiscono un'entità concreta: mentre l'eredità, riguardo a colui che vi ha diritto, costituisce già una cosa incorporale, una res, quae etiam sine ullo corpore iuris intellectum habet, e quindi cade fra le res nec mancipii. Intanto però non parmiaccettabile l'opinione, quale è espressa dallo SQUITTI, op. cit., pag. 12, che la distinzione delle res man cipië e nec mancipii sia solo applicabile alle res singulares, poichè non è certamente una res singularis nè il mancipium, nè la familia. Tuttavia conviene ritenere, che la necessità delle cose con dusse in qualche parte ad allargare i confini del primitivo manci pium. Così, ad esempio, non può esservi dubbio, che nel primitivo mancipium dovevano solo essere compresi i praedia, che fossero si tuati nel primitivo ager romanus, mentre più tardi furono compresi eziandio quelli situati nel restante suolo italico, quando anche questo venne ad essere suscettivo di proprietà quiritaria. Così pure è pro babile, che nelle res mancipii fossero dapprima compresi solo i servi addetti al lavoro del fondo, mentre più tardi siccome i servi della città potevano essere trasportati alla campagna, così i servi in genere furono compresi fra le res mancipii (1). Non potrei invece ammettere col Puctha, che fra le res mancipii fossero anche com prese le persone libere, che fossero in potestate, in manu, o in causa mancipii(2); poichè, come sopra si è notato, qui il vocabolo mancipium è già preso in una significazione più ristretta e si ri ferisce al patrimonio, anzichè alle persone dipendenti dal capo di famiglia, le quali persone si dicono « alieni iuris, quae in manu, potestate,mancipio sunt », ma non sono mai chiamate res mancipii. Vero è, che anche alle persone si applica la mancipatio, ma cid provenne, come si vedrà più tardi, da cid che la mancipatio è una applicazione dell'atto quiritario per eccellenza, che è l'atto per aes et libram, e quindi compare ogniqualvolta trattisi di acquistare o trasmettere la manus, intesa nel senso di potestà giuridica quiritaria. 351. Intanto questa storia primitiva del mancipium ci pone eziandio in caso di risolvere la questione tanto agitata fra gli autori relativa alla precedenza fra la mancipatio e la distinzione fra la res mancipii e nec mancipii. hi seguisse alla lettera i giureconsulti dovrebbe dare la prece denza alla mancipatio, in quanto che, secondo i medesimi, le res mancipii si chiamerebbero tali appunto, perchè si trasferiscono me diante la mancipatio; ma rimarrebbe ancor sempre a cercarsi la ragione, per cui la mancipatio venne ad essere il mezzo proprio per l'alienazione di questa speciale categoria di cose. La cosa invece viene ad essere facilmente spiegata quando si ri (1) Ho già notato più sopra come le formole di VARRONE dimostrino che un servo, allorchè non era un instrumentum fundi, poteva anche essere alienato colla sem plice traditio. (2 ) Puchta, Inst., § 238. Cfr. SQUITTI, op. cit., pag. 15. 444 tenga, che primo a formarsi dovette essere il concetto delmancipium, il concetto cioè di una proprietà tipica del quirite, che compren deva uno spazio di terra e quelle pertinenze di esso, che riputa vansi il patrimonio indispensabile del capo di una famiglia agricola. La formazione di questo mancipium, che già aveva una base nelle condizioni economiche e sociali dei primitivi romani, venne in certo modo a precipitarsi e a consolidarsi sotto l'influenza della costitu zione serviana. Da quel momento l'importanza non solo economica, ma anche politica del mancipium, pose le cose, che erano comprese nel medesimo, in una posizione privilegiata di fronte a tutte le altre cose, che potevano spettare al cittadino romano, e trasformò così il mancipium in una proprietà essenzialmente quiritaria, perchè apparteneva al quirite come tale. Era quindi naturale, che all’alie nazione del mancipium e delle cose comprese nel medesimo si estendesse l'atto quiritario per eccellenza, che era l'atto per aes et libram, mentre per l'alienazione delle altre cose potè bastaré anche la semplice traditio accompagnata dal pagamento del prezzo. Per quello poi, che si riferisce alla distinzione fra le res mancipii e quelle nec mancipii, parmi evidente che essa fu l'ultima ad es. sere introdotta, e non ho difficoltà di ritenere, che essa possa anche essere stata formolata più tardi dai giureconsulti, quando i mede simi già sentivano il bisogno di ridurre ad ordine sistematico le distinzioni molteplici, che eransi introdotte nel diritto. Il censo in fatti per sè poteva condurre alla determinazione delle res mancipii, ed anche alla divisione delle medesime in varie categorie; ma esso non poteva determinare che indirettamente la formazione delle res nec mancipii. È quindi probabile, che i giureconsulti trovando più tardi questo nucleo di cose (mancipium ), per la cui alienazione era richiesta la mancipatio, abbiano formato di queste cose una cate goria speciale (res mancipii), la cui caratteristica consisteva ap punto nel modo di alienazione (mancipatio), mentre tutte le altre furono lasciate nella categoria negativa dalle res nec mancipii (1). (1) Non parmi tuttavia accoglibile l'opinione del Voigt, secondo cui la distinzione sarebbe nata fra il 585 e il 650 di Roma. Essa invece dovette già essere formata all'epoca delle XII Tavole, in cui accanto alla mancipatio, riservata alle res man cipii, era già comparsa l'in iure cessio, che era applicabile eziandio alle res nec man cipii: il che sarebbe anche provato da ciò, che le stesse XII Tavole già ponevano le res mancipii nella condizione speciale di non potere essere usucapite, allorchè fos sero state vendute da una donna senza approvazione del tutore. È evidente infatti 445 Essi insomma fecero qui una distinzione analoga a quella, che si introdurrà più tardi, fra le cose, che appartengono ad una persona ex iure quiritium, e quelle invece che le appartengono solo in bonis; poichè le prime costituiscono una cerchia chiusa e circo scritta, quanto alle cose, che possono essere l'oggetto, quanto ai modi di acquisto, e alle persone cui appartengono, mentre quelle in bonis comprendono tutte le altre. $ 6. La storia primitiva della proprietà ex iure quiritium. 352. L'analogia, che ho sopra notata fra la distinzione delman cipium e del nec mancipium e quella presentatasi più tardi fra il dominium ex iure quiritium e quello in bonis, mi fa tornare un'altra volta sul grave problema dell'origine e dello svolgimento storico della proprietà ex iure quiritium. Fino ad ora si è sola mente dimostrato, come già nel periodo gentilizio vi fosse una forma di proprietà, che intestavasi al capo di famiglia, e che pren deva il nome di heredium. Questa tuttavia non costituiva ancora una proprietà assolutamente individuale ed esclusiva, perchè il capo di famiglia trovavasi in proposito ancora sotto la dipendenza della gens, a cui apparteneva. Accanto a questi heredia dei patricii si erano poi venuti formando gli stanziamenti e i possessi dei plebei, che probabilmente chiamavansi mancipia. Quando poi patriziato e plebe entrarono a far parte dello stesso populus romanus qui ritium, in base alla considerazione del censo, la sola proprietà, che era loro comune era quella che spettava al capo di famiglia, e perciò fu questa, che comparve nel censo intestata ad ogni quirite sui iuris, sotto il vocabolo di mancipium e coi caratteri di una proprietà assolutamente individuale. Il vocabolo mancipium tuttavia non significd per sè il dominium ex iure quiritium, ma piuttosto quel complesso organico di cose, che per il primo formo oggetto del medesimo; come lo dimostra la circostanza, che in questo periodo, secondo l'attestazione dei giureconsulti, si ricorse per indicare il che questa condizione speciale delle res mancipii, accennata da Gajo, I, 192, e da Ul PIANO, Fragm., XI, 27, doveva fin d'allora condurre alla distinzione di cui si tratta. Per un più lungo esame dell'opinione del Voigt, vedi Squitti, op. cit., pag. 73 e seg., e BONFANTE, op. cit., pag. 115 e seg. 146 dominio quiritario all'espressione meam esse: « aio hanc rem iure quiritium ». Ferma cosi la spiegazione del modo in cui sarebbesi formato il primo nucleo del dominium ex iure quiritium, resta ora a ve dere come il suo concetto siasi venuto allargando, e quali siano i varii stadii, che attraverso questa proprietà ex iure quiritium, la quale doveva poi divenire il modello di ogni proprietà esclusiva mente privata ed individuale. 353. A questo riguardo i ricercatori dell'antico diritto si arrestano sorpresi di fronte a questo fatto singolare, che il solo mancipium nei primi tempi sembra aver formato oggetto della proprietà ex iure qui ritium. L'Ortolan, ad esempio, trova assurdo che il quirite non avesse la proprietà delle cose incorporali, se si eccettuano certe servitù rustiche, nè la proprietà delle cose mobili, se si eccettuano i servi e le bestie da tiro e da soma. Così pure il Muirhead stenta a spiegare in qualmodo quei quiriti, che avevano divisi i loro fondi, fossero poi indifferenti alla distinzione del mio e del tuo per molte altre cose; il che lo induce a combattere la proposizione di Gaio, secondo cui il popolo Romano non conosceva un tempo, che la sola proprietà ex iure quiritium: « aut enim ex iure quiritium unusquisque do minus erat, aut non intellegebatur dominus » (1). È certo che la cosa riesce assai strana, quando si voglia ritenere che, al difuori della proprietà ex iure quiritium, non vi fosse pei romani primitivi altra forma di proprietà o di possesso; ma la cosa pud invece essere spiegata quando si abbia presente il modo, in cui si vennero formando il ius quiritium e le istituzioni, che entrarono a costituirlo. Già ho cercato di dimostrare comeil ius quiritium non comprendesse tutto il diritto primitivo di Roma, ma solo quella parte di esso, che prima venne a precipitarsi e a consolidarsi e che di vento cosi comune ai due ordini, che con Servio Tullio entrarono a far parte della stessa comunanza quiritaria. Il patriziato e la plebe continuarono ancor sempre a seguire le proprie tradizioni ed usanze, e non ebbero comune che quella parte di diritto, che essendo stata accettata come base della comunanza quiritaria prese il nome spe ciale di ius quiritium. Questo pertanto non governd dapprima tutti i rapporti giuridici, ma solo quelli che intervenivano fra loro nelle (1) Ortolan, Histoire de la législation romaine, Paris, 1880, p. 606. MUIRHEAD, Histor. Introd., pag. 40.. 447 loro qualità di quiriti, e fu solo col tempo e a misura che facevasi più intima la convivenza dei quiriti, che esso venne arricchendosi di nuove forme, assimilando nuovi istituti, modellando nuovi negozii richiesti dalle esigenze della vita civile in una grande e popolosa città, e si cambiò così nel ius proprium civium romanorum (1). 354. Or bene ciò che accadde nella formazione del ius quiritium si avverò eziandio nell'elaborazione delle varie istituzioni, che en travano a costituirlo, e quindi anche delle proprietà ex iure qui. ritium. Questa non comprende dapprima tutta la fortuna, famigliare o gentilizia dei cittadini, ma comprende solo quella parte di essa, che loro appartiene nella loro qualità di quiriti. Siccome quindi nella comunanza serviana non conta dapprima che il mancipium, che è la sola proprietà intestata nel censo al quirite e in base a cui si determinano i suoi diritti e le sue obbligazioni di quirite, cosi la primitiva proprietà ex iure quiritium non potè comprendere dapprima che il mancipium, e fu solo a questa, che si applicò l'atto quiritario per eccellenza, cioè l'atto per aes et libram, e quella pro cedura quiritaria dell'actio sacramento, in cui i contendenti affer mavano: « hanc rem suam esse ex iure quiritium ». Questa infatti era l'unica proprietà, che poteva essere tenuta in conto al punto di vista quiritario e che doveva perciò avere la tutela del diritto qui ritario. Quindi era giusto il dire, che altri « aut erat dominus ex iure quiritium, aut non intellegebatur dominus »: il che non vuol già dire, che non si potesse avere il possesso od il godimento di altri beni, ma soltanto che le altre forme di proprietà non potevano es sere tenute in calcolo al punto di vista quiritario. Quindi al modo stesso, che il ius quiritium fu il frutto della selezione di certi con cetti e forme solenni, che furono adottate dalla comunanza dei qui riti, cosi la proprietà ex iure quiritium fu anche essa determinata da una specie di selezione. Il suo primo nucleo consistette nel man cipium, il quale costitui in certo modo la proprietà tipica del qui rite, ma più tardi i suoi limiti apparvero troppo circoscritti, e perciò alla cerchia troppo ristretta del mancipium si venne sostituendo un concetto più esteso del dominium ex iure quiritium. Questo infatti (1) Questo carattere particolare del ius quiritium, per cui esso non è tutto il di ritto primitivo di Roma, ma solo quella parte di esso, che vennesi consolidando al lorchè patriziato e plebe entrarono a formar parte della stessa comunanza quiritaria. fu dimostrato sopratutto nel lib. III, cap. 3º. 448 viene già ad essere più esteso: lº quanto alle persone a cui compete, che non sono più i soli capi di famiglia, ma tutti i cittadini ro mani ed anche i latini cui sia accordato il ius quiritium; 2° quanto ai modi, con cui si acquista, che non si riducono più alla sola man cipatio, ma comprendono anche la in iure cessio e la usucapio (1 ); e quanto alle cose, che possono essere l'oggetto, che non sono più le sole res mancipii, ma tutte le cose in commercio, eccetto il solum provinciale. Tuttavia egli è evidente, che anche in questo secondo stadio la proprietà ex iure quiritium costituisce ancora sempre una proprietà privilegiata, quanto alle persone, alle cose, ai modi di acquisto; cosicchè ogni qualvolta manchi una di queste condizioni la cosa ap partiene solo in bonis, ed è solo col tempo e per effetto della pro tezione pretoria, che viene a poco a poco delineandosi una proprietà in bonis, accanto alla proprietà per eccellenza, che era quella ex iure quiritium. Qui pertanto appare evidente quella legge di for mazione del diritto romano, per cui accanto alla parte di esso già formata ne compare un'altra, che trovasi in via di formazione e che cercasi a poco a poco di fare entrare nelle forme di quella, che prima riuscì a consolidarsi. Mentre questo dualismo nel primitivo ius quiritium è rappresentato dal mancipium e dal nec mancipium, il medesimo invece nel ius proprium civium romanorum viene ad essere rappresentato dalla proprietà ex iure quiritium e da quella in bonis; ma intanto la seconda distinzione, pur abbracciando una cerchia più vasta, continua ancora sempre ad essere foggiata sulla prima. 355. Queste considerazioni mi conducono a ritenere, che anche il dominium ex iure quiritium, dopo esser stato modellato sulla realtà dei fatti, abbia finito per convertirsi in una costruzione giuridica non dissimile da quella, che abbiamo ravvisata nei concetti di caput, di manus e di mancipium. Esso è una forma di proprietà, che cor risponde al concetto del quirite, e quindi al modo stesso, che questi nella sua configurazione giuridica era una individualità integra e perfetta, concepita sotto l'aspetto esclusivamente giuridico, ed (1) Non è qui il caso di parlare nè dell'adiudicatio, nè della lex, e dell'adsignatio viritana, che potevano anche attribuire il dominium ex iure quiritium; poichè lo stesso Gajo, Comm., II, 65, parla soltanto della mancipatio, della in iure cessio e dell'usucapio, come costituenti un ius proprium civium romanorum. 449 isolata da tutti gli altri suoi rapporti, cosi anche la sua proprietà ebbe ad essere concepita come assoluta ed esclusiva, e fu modellata in certo modo ad imagine della persona, a cui doveva appartenere. Una prova di ciò l'abbiamo in questo, che allo svolgimento del dominium ex iure quiritium si applicò una logica del tutto ana loga a quella, che erasi applicata allo svolgimento del concetto di caput; cosicchè, per determinare i varii atteggiamenti del dominio, furono adoperati dei criteri analoghi a quelli, che servirono a de terminare lo stato del quirite. Così, ad esempio, al modo istesso, che si ha l'optimum ius quiritium allorchè la capacità del quirite non soffre alcuna limitazione; cosi havvi il dominium optimum maximum, quando il dominium non è soggetto ad alcuna limita zione. Al modo stesso parimenti, che vi ha una diminutio capitis, cosi havvi eziandio una diminutio dominii, la quale è perfino in dicata collo stesso vocabolo di servitus, con cui pure si indica la maxima capitis diminutio. Che anzi a quella guisa, che l'intiero caput non appartiene a tutti gli uomini, cosi non tutte le cose sono suscettive del dominium.ex iure quiritium; il qual concetto spin gesi a tal punto, che può ravvisarsi una specie di correlazione fra la concessione della civitas agli abitanti, e la concessione al suolo da essi abitato di quel ius privilegiato, che lo rende suscettivo di dominio quiritario. Cosi mentre il solum italicum ottenne questa speciale condizione, sotto il nome di ius italicum, il solum provin ciale invece non potè mai essere oggetto di vera proprietà, se non quando scomparve con Giustiniano la distinzione fra la proprietà ex iure quiritium e la proprietà in bonis (1). Vi ha di più ancora, ed è che le trasformazioni storiche, che ac cadono nel concetto di caput, camminano di pari passo con quelle del dominium ex iure quiritium. Così, ad esempio, finchè il vero caput non appartenne che al capo di famiglia, anche questi fu il solo capace di proprietà ex iure quiritium. Quando poi la capacità di diritto dal capo di famiglia passò ad ogni cittadino romano ) (1) In questa guisa si spiega, come i Romani procedessero nell'accordare ad un determinato territorio l'attitudine ad essere oggetto di proprietà quiritaria nel modo stesso, in cui procedevano nell'estendere la cittadinanza romana ai popoli conquistati. Di qui l'analogia fra la formazione del ius latiï e quella del ius italicum: di cui quello si riferisce alle persone, questo invece si riferisce al suolo (Cfr. Baudouin, Étude sur le ius italicum, nella « Nouvelle revue historique de droit français et étranger », annate 1881 e 1882). G. CARLI, Le origini del diritto di Roma. 29 450 bastò essere tale, per essere capace di proprietà ex iure quiritium. Quando infine la capacità giuridica appartenne ad ogni uomo li bero, perchè tutti gli abitanti dell'impero ottennero la cittadinanza, bastò essere uomo libero per essere capace di quella proprietà, che un tempo era stata privilegio dei soli quiriti. La qual trasforma zione avverasi anche, quanto alle cose che ne formano l'oggetto, le quali cominciarono dall'essere quelle soltanto, che figuravanonel censo intestate al capo di famiglia (res mancipii), e finirono per compren dere tutte quelle, che potevano essere in commercio. Il che deve pur dirsideimodi diacquisto, i quali dapprima furono probabilmente circo scritti alla sola mancipatio, mentre dopo compresero l'in iure cessio e l'usucapio, e finirono col tempo per comprendere anche quei modi di acquisto, che dapprima erano proprii soltanto del diritto delle genti; donde la distinzione della classica giurisprudenza fra i modi di acquisto del dominio, civili e naturali, originarii e derivativi (1 ). 356. Era poi naturale, che alla proprietà cosi intesa i giurecon sulti abbiano finito per applicare quella stessa analisi, che già ab biamo riscontrato nel caput. Essi contrapposero il quirite alla cosa che gli apparteneva: gli fecero afferrare materialmente la cosa ed affermare la sua proprietà sulla medesima dicendo, che la cosa era sua ex iure quiritium: immedesimarono in certo modo la persona colla cosa alla medesima spettante, e le attribuirono così un di ritto illimitato di usarne, goderne, e di disporne, anche abusando di essa. In questo diritto del proprietario, che non ha confine, deve quindi ravvisarsi una costruzione giuridica, non dissimile da tante altre, che occorrono nel diritto romano: poichè in effetto l'abuso della proprietà era poi frenato dal costume, e sopratutto dal iudicium de moribus, il quale, dopo essere stato una istituzione gentilizia, fu di nuovo ristabilito dalle XII Tavole, e fu affidato al pretore (2 ). Che anzi ciascuno dei diritti inchiusi nella proprietà (1) Non può ammettersi, come vorrebbero taluni, che nelle origini del diritto ro mano non esistessero modi naturali di acquisto, il che sarebbe contraddetto dall'an tichità della traditio, quanto alle res nec mancipii: ma soltanto che i modi naturali, pur esistendo da epoca forse più antica, furono solo più tardi incorporati nella com pagine del diritto romano, il quale assimilava solamente ciò, che in qualche modo poteva entrare nelle forme prestabilite. (2 ) L'origine gentilizia del iudicium de moribus fu dimostrata al n° 59, p. 74. Del resto tale origine gentilizia è comprovata dalla intitolazione stessa di questo iw dicium demoribus, la quale sembra richiamare qualche antica norma consuetudi 451 fini per ricevere una propria denominazione, e staccato dal ceppo, sovra cui aveva radice, fini per dare origine alle varie configura zioni dei diritti reali, comprendendovi anche il ius possessionis, ciascuno dei quali potė ricevere un vero e proprio sviluppo, pur sempre ritenendo l'impronta reale, che eragli provenuta dalla pro prietà, di cui costituiva un frazionamento. Fu anzi in questa occa sione, che sembra essere venuto in uso il vocabolo di proprietas, il quale in origine appare adoperato, quando si tratta di contrapporre la proprietà ai diritti reali, che erano inchiusi nella medesima (1). 357. Questa ricostruzione intanto del dominium ex iure quiri. tium mi porge occasione di fare un brevissimo cenno dei rapporti, che nel diritto romano intercedono fra la proprietà ed il possesso. A questo proposito il diritto romano presenta questa singolarità, chementre il giureconsulto Paolo, fondandosi sull'autorità di Nerva filius, annunzia come fuori di ogni dubbio, che il dominio dovette cominciare dalla materiale appropriazione delle cose (dominium rerum ex naturali possessione coepisse) (2); noi troviamo invece, che nello svolgimento storico presentasi dapprima integro e com piuto il concetto del dominium ex iure quiritium, ed è solo molto più tardi, che il possesso viene ad essere considerato come una isti tuzione giuridica, protetta cogli interdetti possessori. Di fronte a questo stato di cose sarebbe fuor di luogo il sostenere, che i Romani non distinguessero dapprima fra la materiale detenzione di una cosa, e la padronanza giuridica sovra di essa; ciò sarebbe smentito dal fatto, che essi fin dai primi tempi ebbero il concetto dell'usus e dell'usus auctoritas, ed anche dalla circostanza, che ai plebei, stanziati sul territorio romano, non si riconobbe dapprima una vera naria, ed anche dalla circostanza, che le XII Tavole, affidando al pretore questo po tere, che un tempo apparteneva alla gens, richiamarono di nuovo in vita il primitivo concetto dell'heredium, che era venuto meno nello stretto ius quiritium, e ristabili rono contro il prodigo interdetto la cura degli agnati e dei geniili, la quale è certo una reliquia dell'organizzazione gentilizia. Il testo infatti, secondo la ricostruzione del Voigt, Tav. VI, 10, sarebbe il seguente: « Qui sibi heredium nequitia sua disperdit, liberosque suos ad egestatem perducit, ea re commercioque praetor interdicito. In adgnatum gentiliumque curatione esto ». (1) Che il vocabolo di proprietas abbia cominciato ad adoperarsi, allorchè si trat tava di contrapporre la proprietà in sè ai diritti frazionarii inchiusi nella medesima, può argomentarsi, fra gli altri passi, da quello di GAJO, II, 30, ove la proprietas si contrappone appunto all'ususfructus. (2 ) L. 1, § 1, Dig. (41, 2 ). 452 proprietà, ma una specie di possesso a titolo di precario, che non aveva ancora carattere giuridico (1). La causa invece del fatto deve riporsi in ciò, che anche in questa parte il ius quiritium, essendo già stato il frutto di una vera elaborazione giuridica, prese senz'altro le mosse dal concetto più vasto e comprensivo, a cui si potesse giungere in tema di proprietà. Il concetto infatti del do minium ex iure quiritium ebbe dapprima ad essere modellato sul mancipium, il quale, implicando la sottomissione illimitata di una cosa ad una persona, inchiudeva in una sintesi potente tutti i po teri, che ad una persona possono appartenere sopra una cosa. Il diritto infatti, che al quirite spetta sul proprio mancipium, nella sua sintesi vigorosa, implica la detenzione materiale e la proprietà della cosa: è un fatto ed è un diritto; è una proprietà originaria, ma intanto comprende eziandio la proprietà derivata; esso anzi de signa perfino una proprietà, che ha dell'individuale e del famigliare ad un tempo. Fu soltanto più tardi, che anche in questo concetto venne penetrando l'analisi, la quale cominciò dal distinguere la materiale detenzione di una cosa (naturalis possessio), la quale è un puro e semplice fatto (res facti), dalla padronanza giuridica sovra di essa (dominium ex iure quiritium ), la quale costituisce invece un vero e proprio diritto (res iuris). Col tempo però, siccome fra questi due termini estremiverranno ad esservi delle possessiones, che per speciali considerazioni potranno anche apparire meritevoli diprotezione giuridica, cosi si verrà a poco a poco modellando dal pretore il concetto di una civilis possessio. Questa tuttavia non apparirà più unicamente come una res facti, ma in parte eziandio come una res iuris; non supporrà unicamente la materiale deten zione della cosa (corpus), ma anche l'intenzione di tenere la cosa per sè (animus rem sibi habendi). Questo possesso verrà cosi a pren dere un posto di mezzo fra la semplice detenzione materiale di una cosa, e la proprietà della medesima (2 ); quindi, per la protezione di esso, il pretore, non trovandosi di fronte ad un diritto compiutamente formato, non potrà ius dicere nel vero senso della parola, ma sol tanto interdicere, cioè proibire che venga turbato lo stato di fatto, del quale si tratta (vim fieri veto ), donde la denominazione degli inter. (1) Vedi, quanto alle primitive possessioni della plebe nel territorio romano, il nº 154, pag. 190 e segg. (2) V. in proposito Savigny, Dela possession, Trad. Staedtler, sulla 74 ed. tedesca, Bruxelles 1879, § 5º, pag. 20 a 25. 453 dicta, con cui si protegge il possesso. Siccome poi questo possesso, du rando un determinato spazio di tempo, già poteva, in base all'usuca pione,trasformarsi in un vero diritto; cosi il possesso, oltre al costituire per se stesso una istituzione giuridica, protetta mediante gli inter detti, costituisce pure un mezzo, mediante cui il fatto della deten zione e del godimento di una cosa (usus) può trasformarsi nel di ritto di proprietà (auctoritas) (1). È tuttavia a notarsi, che siccome tanto il dominium ex iure quiritium, quanto la semplice possessio debbono ritenersi come una scomposizione del diritto, che al quirite spettava sul primitivo mancipium, il quale aveva del materiale e del giuridico ad un tempo; così tanto il dominium, che la pos sessio, presso i romani, non poterono mai intieramente spogliarsi di un certo carattere di materialità. Cid è dimostrato dalla circostanza, che da una parte il dominium fini per essere circoscritto alle cose corporali e dovette sempre essere trasferito col mezzo della tra dizione, e dall'altra il possesso non potè parimenti estendersi, che alle cose corporali e ad alcuni dei diritti reali competenti sulle me desime (quasi possessio ) (2). In questo modo possono facilmente spiegarsi le incertezze dei giureconsulti, i quali ora considerano il possesso come una res facti, ed ora come una res iuris, ora scorgono in esso l'estrinsecazione del diritto di proprietà, ed ora dicono invece, che il possesso ha nulla di comune con essa; poichè il medesimo, essendo una istitu zione intermedia fra il fatto ed il diritto, fra la detenzione e la proprietà, poteva presentarsi or sotto l'uno or sotto l'altro aspetto, secondo lo speciale punto di vista, sotto cui era considerato (3 ). Si comprende parimenti, che sebbene ogni dominio abbia dovuto (1) A parer mio è importante nello svolgimento storico del diritto romano di tener distinti i due istituti del possesso ad usucapionem, e del possesso ad inter dicta. Il primo prese le mosse del concetto dell'usus e perciò potò essere applicato così alle res mancipië che alle nec mancipii, così alle cose corporali, che alle incor porali; mentre il secondo fu il frutto dell'analisi del mancipium, e ritenne quindi sempre qualche cosa della materialità inerente a quest'ultimo. L'uno mette capo alla legislazione decemvirale, mentre l'altro ricevette la propria configurazione giu ridica dal diritto pretorio. (2 ) Cfr. Savigny, V. i passi in proposito citati dal Savigny, op. cit., § 5, pag. 21 e segg., nelle note. Sono poi noti i passi di Ulp., 12, § 1, Dig. (41, 2) nihil commune habet proprietas cum possessione», ed altri analoghi, L. 1, $ 2, Dig. (43, 17). Cfr. JHERING, Fondement des interdits possessoires, Trad. Maulenaere, Paris 1882, pag. 42. - 151 prendere le mosse dalla materiale appropriazione di una cosa, il concetto del possesso sia tuttavia di formazione posteriore, e non abbia ricevuto una propria configurazione giuridica, che per opera del pretore, allorchè il medesimo cominciò ad accordare la prote zione giuridica a quelle possessiones nell'ager publicus, che per la propria durata già cominciavano ad assumere il carattere di un vero A proprio diritto (1). Per quello poi, che si riferisce alla questione tanto agitata del fon damento razionale della protezione giuridica accordata al possesso, essa, come al solito, non ebbe ad essere trattata di proposito dai giu reconsulti; ma si può indurre dallo svolgimento storico di esso, che tale fondamento deve riporsi sul principio, sovra cui poggia tutto il diritto romano, secondo cui « ex facto oritur ius », in quanto che ogni fatto, che riunisca in sè certe condizioni di durata e di buona fede, contiene in sé i germi di un diritto e come tale può già meri tare la protezione giuridica e servire ad un tempo di base all'usu capione (2 ). (1) Tale sarebbe l'opinione del Niebaur, Histoire romaine, III, 191 e segg.; e del Savigny, op. cit., § 12 a, pag. 177-185. Essa parmi in ogni caso più verosimile di quella sostenuta dal Pochta, Istit., § 225, secondo cui l'idea del possesso sarebbe provenuta dalla concessione del possesso interinale, che si accordava ad uno dei contendenti nella procedura di vindicazione coll' actio sacramento; poichè questo possesso interinale non ha punto che fare col possesso, in quanto ha una protezione giuridica tutta sua propria, che consiste negli interdetti. Comunque stia la cosa, sembra che l'interdetto più antico sia quello uti possidetis, destinato appunto ad impedire il turbamento di uno stato di fatto. Intanto viene ad essere evidente, che in base all'opinione qui sostenuta, se si voglia collocare il possesso nella solita di stinzione dei diritti in personali e reali, esso dovrà certo esser collocato tra i diritti reali. Cfr. il SavIGNY, op. cit., $ 6, p. 42, il quale sostiene un'opinione in parte diversa. (2 ) Senza voler qui prendere in esame le molte teorie, che furono escogitate in proposito, solo mi limiterò ad osservare, che la questione ebbe ad essere profonda mente discussa in due opere, che vennero ad un risultato compiutamente diverso; di cui una è quella del JHERING, Ueber den Grund des Besitzschutzes, Jena 1869, di cui abbiamo la trad. franc. del Maulenaere, sopra citata, e l'altra è quella del Bruns, Die Besitzklagen des röm. und heutigen Rechts, Weimar 1874, il cui con cetto fu adottato e largamente esposto dal PADELLETTI, Archivio giuridico, XV, pag. 3 e segg. Secondo il primo, la protezione accordata al possesso fondasi su ciò, che il possesso è una estrinsecazione della stessa proprietà, e quindi senza tale pro tezioneanche la proprietà non sarebbe sufficientemente difesa. Secondo l'altro invece, il posseso è tutelato unicamente per se stesso, in base al concetto, enunciato nella L. 2, Dig. (43, 17): qualiscumque possessor, hoc ipso quod possessor est, plus iuris habet, quam qui non possidet ». Parmi che, assegnando a questa protezione il fondamento razionale indicato nel testo, cioè il principio: « ex facto oritur ius », si 455 358. Di fronte a questo svolgimento storico e logico ad un tempo, parminon possa essere difficile la risposta a coloro, i quali chiedono comemai una istituzione, come quella della proprietà ex iure quiri. tium, dopo essere stata esclusivamente propria dei romani, abbia finito per diventare istituzione universale, e per essere adottata anche da quei popoli, i quali non subirono l'influenza diretta della dominazione romana. La causa vera del fatto sta in questo, che la proprietà quiritaria, dopo essere uscita dai fatti, e aver prese le mosse da quel nucleo di cose, che anche nell'organizzazione gentilizia era assegnato ai singoli capi di famiglia, fini per essere isolata dall'ambiente, in cui si era formata, e si cambiò così in una costruzione logica e coerente. Fu in questa guisa, che la medesima, essendo ridotta, per dir cosi, ad un capolavoro di costruzione giuridica, potè cessare di essere l'istitu zione di un popolo, per diventare quella del mondo. Vero è, che tutti i popoli ebbero i loro istituti giuridici, e quindi anche questa o quella forma di proprietà, ma non tutti riescirono ad isolare tali istituti e sopratutto la proprietà dall'ambiente storico, in cui si erano for mati; solo i romani ebbero la potenza di sceverarli da ogni elemento affine, di sottoporli ad un'elaborazione non interrotta, che duro pa recchi secoli, e riuscirono cosi a ridurre allo stato di purezza quella, che potrebbe chiamarsi l'obbiettività giuridica dei singoli istituti. Le loro analisi, le loro fattispecie, le loro costruzioni giuridiche non potranno sempre essere applicabili, ma saranno sempre elaborazioni tipiche nel loro genere, come lo sono in un genere diverso i capo lavori dell'arte greca; ed è questo il motivo dell'eternità e dell'uni versalità del diritto romano. Questa elaborazione poi fu dai romani compiuta sopratutto quanto al concetto della privata proprietà. In questo senso si pud dire col Sumner Maine (1) che essi furono i crea tori della proprietà privata ed individuale;ma è sopratutto notabile abbia il vantaggio di far contribuire alla giustificazione della protezione giuridica accordata al possesso e l'una e l'altra teorica, e quello di dare contemporaneamente una base, così al possesso ad interdicta, come al possesso ad usucapionem. Secondo il Puglia, Studii di storia del diritto romano, Messina 1886, pag. 72: « l'interdetto pos sessorio sarebbe comparso come un mezzo particolare per risolvere una controversia, per la quale non potevasi dal pretore esercitare la iurisdictio »; ma è ovvio il notare che in questa guisa si potrà forse spiegare l'introduzione degli interdetti, ma non maiil fondamento della protezione giuridica accordata al possesso. Cfr. PADELLETTI Cogliolo, Storia del dir. rom., pag. 529 e segg., ove trovasi citata in nota la bi bliografia più recente sull'argomento. (1) SUMNER-MAINE, L'ancien droit, trad. Courcelles Seneuil, Paris, il modo e il perchè essi ed non altri riuscirono in tale creazione. Essi infatti vi pervennero svolgendo prima il concetto della pro prietà individuale, assoluta ed esclusiva, riguardo a quel nucleo di cose, che era compreso nel primitivo mancipium, con cui ogni sin golo quirite compariva nel censo, e poi trasportarono successiva mente il concetto logico, che essi si erano formati di questa pro prietà ex iure quiritium, a tutte le cose corporali, che potevano essere oggetto di commercio. Per tal modo la proprietà quiritaria si staccò da una organizzazione gentilizia e patriarcale, non dissi mile da quella, da cui usci la proprietà privata dei Germani e degli Inglesi nell'evo moderno; ma a differenza di questa, quella fu ben presto isolata dall'ambiente, in cui erasi formata, e si cambid cosi in una proprietà tipica, strettamente individuale, che potè con certi temperamenti essere adottata da tutti i popoli. Appendice. Senza voler qui fare comparazioni, che miporterebbero fuori del tema, non so tuttavia trattenermi dall'accennare ad alcune singolari analogie fra lo svolgi mento della proprietà privata in Roma e presso i popoli Germanici. Ebbi già occasione di accennare, a pag. 62, nota 2, la discussione seguita nell'Accademia Francese, a pro posito della proprietà presso gli antichi Germani. Ora aggiungo, che quella stessa discussione porse argomento ad una nota del prof. Del Giudice, stata letta all'Isti tuto Lombardo, nelle adunanze del 4 e 18 marzo 1886, in cui egli fa un accura tissimo raffronto fra la descrizione di Cesare e quella di Tacito circa le condizioni dei primitivi Germani, e cerca di ridurre nei loro veri confini le mutazioni, che si erano avverate, quanto alla proprietà del suolo, nei 150 anni, che separano i due autori. Tale trasformazione riducevasi in sostanza a ciò, che i possessi erano diventati più stabili, e che dalla proprietà collettiva del villaggio già erasi venuta distin guendo la proprietà della famiglia. Pervenuti così a questo punto della evoluzione della proprietà presso i Germani, analogo a quello, a cui erano pervenute le genti italiche, allorchè fondarono la città di Roma, noi troviamo nel dottissimo lavoro dello SCHUPFER sull'Allodio nei secoli Barbarici, Torino, 1886, la descrizione degli ulteriori stadii, per cui passò l'evoluzione stessa. Noi cominciamo anzitutto dal trovarci di fronte a certi vocaboli e concetti, che ci richiamano le condizioni primi tive delle genti italiche. Cotali sono i communalia, i vicinalia, i vicanalia (SCHUPFER, pag. 26 ) i quali, senz'aver più la configurazione tipica dell'ager compascuus delle tribù italiche, richiamano però il medesimo. Così anche tra i Germani trovasi una forma di proprietà, che, senza essere del tutto individuale, già si accosta alla medesima, ed è notevole, che essa, così fra le genti italiche, come fra i Germani, è indicata con un vocabolo, che richiama l'eredità, il passaggio cioè di un patrimonio dai genitori nei figli. Questo vocabolo presso i Romani, era quello di heredium, e presso i Germani è quello di alodium; il quale eziandio, secondo il Waitz e lo Schupfer, cominciò dapprima dall'indicare l'eredità, e passò poscia ad indicare il patrimonio avito. SCHUPFER, Op. cit., pag. 11 e 12. Or bene, presso l'uno e l'altro popolo, è questo heredium o alodium, che finisce per costituire il primo nucleo della proprietà esclusivamente privata. — È notabile anzi, che, nel periodo della tras 457 formazione, nè i Romani, nè i Germani hanno un vocabolo specifico per indicare la proprietà: poichè mentre i primi esprimono la proprietà coi concetti di meum e di tuum, di heredium, di praedium, di mancipium, i Germani invece la indicano coi vocaboli di Land, Erbe, Eigen, Allod, Sundern (pag. 14 ). Così pure anche presso i Germani occorrono quei consortia, che presso le genti italiche erano indicati coi vocaboli di « ercto non cito ». Questi consortia parimenti esistono sopratutto fra fra telli, e talora anche fra zii e nipoti, che continuano spontaneamente nella comunione (SCHUPFER, pag. 52), e richiamano così la familia omnium agnatorum. — Infine la vera proprietà privata formasi presso i due popoli nella stessa guisa. Al modo stesso, che la prima proprietà privata in Roma fu un assegno sull'ager gentilicius o sull'ager publicus, così anche la proprietà privata, presso i popoli germanici, seguendo sempre la guida sicura del prof. Schupfer, fu anche essa una sors, un lotto, un assegno (pag. 63); accanto al quale però si svolge eziandio il concetto dell'adquisitum la bore suo (pag. 60), il quale, salvo il linguaggio, non presenta poi grande differenza dal manucaptum dei latini. È poi anche degno di nota, che questo nucleo cen trale della proprietà privata presso i Germani, al pari che presso gli antichi Ro mani, è costituito da un podere o da una abitazione rustica, a cui trovasi annessa una certa quantità di terra, che in massima avrebbe dovuto essere invariabile (pag. 63 ). Il medesimo poi è indicato coi nomi dimansus, di hoba, di sedimen, i quali proba bilmente portano eziandio con sè quella idea di residenza, che era indicata anche dai vocaboli di mancipium e di dominium. Che anzi, come già notava lo Schupfer, p. 78, anche l'uomo libero longobardo, che si chiama arimanno, indica la sua libera pro prietà col vocabolo di arimanna, al modo stesso che il quirite addimandava la sua proprietà esclusiva « dominium ex iure quiritium ». Infine questa proprietà si acquista, si trasmette e si rivendica con modi, che ricordano l'usucapio, la manci. patio e l'actio sacramento dei Romani (SCHUPFER, Op. cit., pag. 122, 138 e 160 ). Intanto però, accanto alle analogie, che dimostrano la costanza delle leggi che go vernano l'evoluzione della proprietà, sonvi anche le differenze, che sono determinate dal diverso temperamento dei popoli. Mentre infatti il popolo romano, giunto una volta al concetto della proprietà individuale, ne fa una costruzione tipica, che estende a poco a poco a tutte le cose, che sono in commercio, e che svolge in tutte le sue conseguenze logiche, i popoli germanici invece non giungono a questa concezione tipica; quindi mentre la proprietà romana è una sola, la proprietà germanica, come ben nota lo ScuuPFER, non potrà mai richiamarsi a un solo tipo (pag. 75). Di più mentre i Romani, una volta raggiunta la proprietà quiritaria, la disgiunsero affatto dall'ambiente gentilizio, e si concentrarono esclusivamente nello svolgimento di essa, pressochè lasciando in disparte la proprietà collettiva prima esistente, i popoli ger manici invece, compresi anche gli Anglo-Sassoni, non giunsero mai a districare com piutamente la proprietà privata dall' involucro feudale da cui era uscita, o se lo fecero vi giunsero solo per imitazione della proprietà, quale era stata modellata dai Romani, nè spinsero mai la logica della istituzione a conseguenze così estreme, come i Romani (pag. 82). Ciò è vero sopratutto della proprietà inglese, la quale, uscita dall'organizzazione feudale, continua sempre a serbarne le traccie in quella serie di gradazioni e di distinzioni, che ancor oggi la contraddistinguono. Vedi, quanto alla proprietà inglese, il Williams, Principii del diritto di proprietà reale, trad. Ca negallo, Firenze, 1873 e il POLLOCH, The Land Laws, Edinburgh. Il ius quiritium ed i concetti di commercium, connubium, actio. 359. Fin qui ho cercato di ricomporre il quirite negli elementi essenziali del suo status, e di seguire le trasformazioni, che si vennero introducendo man mano in ciascuno di questi elementi. Ricostruendo cosi il primitivo diritto, fummo condotti ad una con figurazione giuridica del quirite, la quale, ancorchè rigida e com passata, si presenta però organica e coerente in tutte le sue parti. Resta ora la parte più difficile di questa ricostruzione, quella cioè di cercare, come mai una figura cosi automatica potesse entrare in rapporti con altre individualità foggiate sullo stesso modello, e dare cosi origine a quella infinita varietà di negozii, in cui il quirite pud essere chiamato a svolgere la propria attività giuridica. Non è quindi meraviglia, se qui sopratutto apparisca sorprendente il magi stero dei veteres iuris conditores, in quanto che non trattavasi solo più di notomizzare e di scomporre lo status del quirite, ma di mettere il medesimo in movimento ed in azione, valendosi di pochissimi mezzi per dar forma giuridica alla varietà grandissima dei negozii, che si venivano moltiplicando col formarsi e collo svol gersi della convivenza cittadina. Anche qui la supposizione più ovvia intorno al magistero seguito dai modellatori del primitivo diritto, sarebbe che essi, da uomini pratici quali erano, fossero venuti introducendo le istituzioni, a mi sura che se ne presentava il bisogno, e che perciò il diritto privato di Roma, almeno in questa parte, debba essere considerato come il frutto di una evoluzione lenta e graduata, determinata sopratutto dalle condizioni economiche e sociali del popolo romano (1). Lo studio invece delle vestigia, che a noi pervennero dell'antico ius quiritium, mi hanno profondamente convinto, che il medesimo, anche in questa parte, che potrebbe chiamarsi la dinamica del diritto quiritario, sia stato il frutto di una specie di elaborazione e selezione potente, (1) Tale sarebbe l'idea, forse alquanto preconcetta, a cui sembra ispirarsi l'opera del Puglia col titolo: Studii di storia di diritto romano, secondo i risultati della filosofia scientifica, Messina, 1886. 459 che venne operandosi su materiali giuridici preesistenti, la quale ebbe ad essere guidata da una logica e da una tecnica giuridica, non dissimile da quella, che abbiamo riscontrata nella parte statica del diritto quiritario. Vi ha tuttavia questa differenza, che mentre le basi fondamentali dello status del quirite furono fissate, pressochè contemporaneamente, dall'avvenimento importantissimo del censo ser viano; lo svolgimento invece della parte del diritto quiritario, che si riferisce al negozio giuridico, fu l'effetto di una elaborazione più lenta e graduata, la quale si operd man mano, che veniva accomu nandosi il diritto fra il patriziato e la plebe, e che le loro rispettive istituzioni si fondevano insieme nell'attrito della vita cittadina. 360. Che questo sia stato il processo, con cui si formò eziandio la parte dinamica del ius quiritium, risulta da una quantità gran dissima di indizii, fra cui basterà qui di ricordare i più importanti. È indubitabile anzitutto che, anche nella parte relativa al negozio giuridico, il ius quiritium non prende le mosse da questo o da quel fatto particolare, ma parte invece senz'altro da concetti sin tetici e comprensivi, quali sarebbero quelli del commercium, del connubium e dell'actio, i quali tutti hanno una larghissima signi ficazione, e sembrano già preesistere nel periodo gentilizio, anteriore alla fondazione della città. Cosi pure è certo, che il primitivo ius quiritium non viene già creando le forme giuridiche, a misura che si vengono svolgendo i nuovi rapporti giuridici, ma compare invece con certe forme tipiche, efficacemente modellate, nelle quali cerca poi di fare entrare, anche forzatamente, quei nuovi rapporti giuri dici, a cui dà argomento la convivenza civile e politica. È in questa guisa, che un solo atto, quale sarà, ad esempio, l'atto per aes et libram, finirà per servire alle applicazioni più disparate. Che anzi è facile eziandio di scorgere, che il ius quiritium, nelle diverse serie di rapporti giuridici da esso governati, presentasi dapprima con istituzioni tipiche, che costituiscono in certo modo il nucleo centrale, intorno a cui si vengono poi consolidando le istituzioni, che hanno qualche affinità con quelle già formate. Così, ad esenipio, non vi ha dubbio, che il ius quiritium riconosce una forma tipica di matrimonio, che è il matrimonio cum manu; un atto quiritario per eccellenza, che è l'atto per aes et libram; come pure una legis actio essenzialmente quiritaria, che è l'actio sacramento. Convien perciò conchiudere, che anche in questa parte del diritto quiritario non si accettano i materiali giuridici, quali che essi siano; - 460 - ma si viene operando una specie di scelta fra i medesimi, e soltanto si adottano quelli, che possano convenire al concetto fondamentale, che è quello del quirite. È quindi evidente, che per giungere ad una ricostruzione di questa parte del ius quiritium conviene in certo modo assecondare le leggi della sua naturale formazione, cominciando dal cercare: lº quali siano i concetti fondamentali, da cui prende le mosse la formazione di questa parte del ius quiritium; 2 ° la pro venienza di questi concetti e l'elaborazione, che essi subiscono en trando nel diritto quiritario; 3º l'ordine progressivo, con cui questi varii concetti vennero penetrando e consolidandosi nella elabora zione del ius quiritium. 361. Quanto ai concetti fondamentali, da cui prende le mosse la dinamica del diritto quiritario, essi sono senz'alcun dubbio quelli del connubium, del commercium, dell'actio. Cid pud inferirsi anzitutto dalla circostanza, che tutti questi concetti già si erano elaborati nel periodo gentilizio, nei rapporti fra i capi delle famiglie e delle genti, e quindi era naturale, che questi, entrando a far parte della comunanza quiritaria, li applicassero eziandio nei loro rapporti come quiriti, tanto più che il quirite, pur essendo un individuo, continuava ancora ad essere un capo gruppo. A ciò si aggiunge, che questi concetti si adattavano mirabilmente alla concezione tipica del quirite, quale era stata determinata sopratutto dal censo e dalla costituzione serviana. Il quirite infatti presentavasi nella doppia qualità di capo di famiglia e di proprietario di terra, i quali due caratteri, nella sintesi primitiva, sembravano in certo modo immede simarsi fra di loro, come lo dimostrano le concezioni del caput, della manus e del mancipium. Era quindi naturale, che siccome le istitu zioni fondamentali del diritto quiritario si riducevano alla famiglia ed alla proprietà, così le varie manifestazioni dell'attività giuridica del quirite si richiamassero: o al concetto del connubium, da cui di scende appunto l'organizzazione della famiglia; o a quella del com mercium, in cui comprendonsi tutti i negozii, a cui porge occasione la circolazione e lo scambio della proprietà. — Le une e le altre ma nifestazioni poi trovavano la propria difesa nell'actio, che serviva a tutelare il quirite sotto l'uno e sotto l'altro aspetto, non essendovi ancora la distinzione fra i diritti reali e personali. Questi concetti pertanto, trasportati nel ius quiritium, si cambiarono, per così dire, in altrettanti capisaldi, da cui si vennero staccando i varii aspetti, sotto cui pud esplicarsi l'attività giuridica del quirite; co 461 sicchè anche più tardi, per mettere ordine nello svolgimento copioso della giurisprudenza romana, Gaio dovette di necessità ricorrere ad una distinzione, che richiama quella antichissima del connubium, del commercium e dell'actio (1). Tutto il diritto infatti, che si ri ferisce alle persone, considerate sotto il punto di vista esclusiva mente privato, sembra metter capo al concetto del connubium; quello invece, che si riferisce alle cose, non è che uno svolgimento del commercium; e quello infine, che riguarda le azioni, non è che una derivazione da quella legis actio, che costituì la procedura pri mitiva propria dei quiriti. Del resto sono gli stessi giureconsulti romani che, dopo aver distinto i diritti pubblici dai privati, finirono per richiamare questi ultimi ai due diritti fondamentali del con nubium e del commercium, somministrandoci così, almeno questa volta, una chiave di quella dialettica fondamentale, che stringe ed unifica il molteplice svolgimento della giurisprudenza romana (2). 362. Per quello poi, che si riferisce alla provenienza di questi concetti direttivi di questa parte del ius quiritium, non può esservi dubbio, che essa deve essere cercata nel periodo gentilizio, il che credo di avere largamente dimostrato a suo tempo (3). Vuolsi perd aggiungere, che questi concetti, i quali prima avevano governato dei rapporti fra i capi di famiglia e delle genti, allorchè furono tras portati nei rapporti fra quiriti, si trasformarono in altrettante basi del diritto spettante ai quiriti, cosicchè dal connubium derivd il ius connubii ex iure quiritium; dal commercium il ius commercii pure ex iure quiritium; e infine dall’actio il sistema delle legis actiones, che è parimenti proprio della comunanza quiritaria. Questi concetti pertanto cessarono di avere uno svolgimento pura mente estensivo, come era accaduto nei rapporti fra le famiglie e le genti, ma ricevettero eziandio uno svolgimento intensivo; cosicchè (1) Intendo qui parlare della nota distinzione di Gaio, Comm., I, 8: « Omne autem ius, quo utimur, vel ad personas pertinet, vel ad res, vel ad actiones ». Quanto alle obbiezioni che si fecero, sopratutto dal Savigny, al valore di questa distinzione, vedi quanto si è detto al n ° 97, pag. 124, nota 1. (2) È sopratutto Ulpiano, checerca di abbracciare nei due larghissimi concetti di connubium e di commercium tutto l'esplicarsi dell'attività giuridica del qui rite. V. Ulp., Fragm., V, 3, quanto al connubium, e XIX, 5 quanto al commercium. Quanto all'uno e all'altro concetto cfr. il Voigt, XII Tafeln, I, pag. 244 e. 274, coi passi ivi citati, ed il MUIRHEAD, Histor. Introd., pag. 108 e 109. (3 ) V. sopra lib. I, cap. VI, SS 2 e 3, pag. 123 a 138. 402 ciascuno di essi venne ad essere una propaggine di quel diritto pri vilegiato, cui i Romani diedero dapprima il nomedi ius quiritium, e che più tardi chiamarono ius proprium civium romanorum. Cosi, ad esempio, il connubium nel periodo gentilicio, era il di ritto di imparentarsi fra di loro, che esisteva fra i membri delle genti, che appartenevano al medesimo nomen. Trasportato invece nella comunanza quiritaria, esso venne a trasformarsi nel ius con nubii ex iure quiritium. Secondo Ulpiano infatti « connubium est uxoris iure ducendae facultas », ossia il diritto di addive nire alle giuste nozze riconosciute dal ius quiritium, e di godere cosi di tutti i diritti, che in base al medesimo derivavano da queste giuste nozze, cioè: della manus sulla moglie, fino a che il matrimonio cum manu costitui il matrimonio tipico del cittadino romano; della patria potestas sui figli, che anche più tardi i giureconsulti consideravano come istituzione peculiare al popolo romano. Che anzi, siccome anche l'istituto dell'arrogazione e dell'adozione, come pure quello della successione e della tutela le gittima nel diritto romano avevano stretta attinenza coll'organiz zazione domestica e col principio dell'agnazione, che stava a fonda mento della medesima, cosi anche queste istituzioni apparvero nel primitivo ius quiritium, come una dipendenza del connubium, considerato come un ius proprium civium romanorum. 363. Lo stesso è pure a dirsi del commercium. Il medesimo, nei rapporti fra le genti, era il diritto di addivenire ai reciproci scambii « emendi vendendique invicem potestas »; ma allorchè invece venne ad essere trapiantato fra i quiriti, i quali come tali avevano una proprietà speciale e privilegiata, che era la proprietà ex iure quiritium, esso venne a cambiarsi nel ius commercii ex iure qui ritium, ossia nel diritto di addivenire a tutti quei negozii giuridici, di carattere mercantile, che erano stati adottati come proprii dalla comunanza dei quiriti. Questi negozii poi nel primitivo ius qui ritium e ancora nella legislazione decemvirale, si presentano sotto tre forme fondamentali, che sono: lº il facere nexum, che è il diritto di potersi obbligare nella forma e cogli effetti riconosciuti dal diritto quiritario; 2° il facere mancipium, che è il diritto di acquistare e trasmettere la prima proprietà quiritaria, consistente appunto nel mancipium, colle forme riconosciute dal diritto quiritario; 3º e in fine il facere testamentum, che è il diritto di acquistare o di tras mettere un'eredità, mediante il testamento riconosciuto dal diritto 463 quiritario, donde il vocabolo di testamenti factio (1). Che anzi l'unità primordiale di questi varii negozii, in cui si estrinseca il ius commercii ex iure quiritium, viene ad essere messa in evi denza anche da ciò, che tutti questi negozii finiscono per compiersi con una sola forma tipica, che è quella dell'atto per aes et libram, e tutti appariscono foggiati sullo stesso modello. Basta perciò considerare, che il nexum indica un vincolo, che ha del fisico e del giuridico ad un tempo, il mancipium sembra inchiudere ad un tempo il possesso e la proprietà, e infine il testamentum, sotto un aspetto ha tutte le apparenze di un negozio tra vivi, e sotto un altro è già un atto per causa di morte, e non produce i suoi effetti, che per il tempo in cui il testatore avrà cessato di vivere. Così pure l'unità di origine di questi varii negozii e il loro diramarsi dal concetto, che il proprietario ex iure quiritium deve poter liberamente disporre delle proprie cose, viene anche ad essere dimostrata dalla circostanza, che di fronte a tutti questi atti la legislazione decemvirale proclama il principio: « uti lingua nuncupassit », o quello analogo: « uti legassit, ita ius esto ». 364. Da ultimo accade eziandio una trasformazione analoga nel concetto dell'actio. Questa nel periodo gentilizio era la procedura solenne, consacrata dal costume, a cui doveva attenersi il capo di famiglia, il cui diritto fosse disconosciuto e violato, e la medesima poteva anche dar luogo ad una effettiva violenza fra i contendenti, quando essi non avessero potuto venire ad un amichevole compo nimento (2 ). Allorchè invece l'actio compare nel ius quiritium, essa imita bensì ancora la procedura anteriore allo stabilimento della ci vile giustizia, ma intanto già si compie in iure, cioè davanti al magistrato riconosciuto come capo e custode della città. Di più questa actio non può più seguire arbitrariamente questa o quella pratica, introdottasi nel costume, ma deve invece essere accomodata alla legge, ed ai termini di essa. Essa cessa perciò di essere,un'actio qualsiasi, ma diventa una legis actio, e viene così a cam (1) Fra gli autori, che dànno questa larga significazione così al connubium, che al commercium, accennerò il LANGE, Histoire intérieure de Rome, pag. 13, in nota, il quale pur riconosce, che questi concetti dovettero prima aver origine nei rapporti fra le varie genti. (2 ) Quanto alle origini dell'actio nel periodo gentilizio e ai caratteri della mede sima, vedi sopra lib. I, cap. VI, § 3, pag. 130 a 138. 464 biarsi nel diritto di far valere le proprie ragioni davanti al ma gistrato, nella forma che è riconosciuta dal diritto quiritario. Quindi è, che anche la procedura quiritaria sembra prendere le mosse da un'azione tipica, che è l'actio sacramento, la quale può anche essa essere considerata come il nucleo centrale, da cui si verrà poi derivando non solo tutto il sistema delle legis actiones, ma in parte eziandio il sistema delle formulae. È poi quest'origine gentilizia dei concetti fondamentali del diritto quiritario, che spiega eziandio, senza bisogno di ricorrere a quello spirito formalista del popolo romano, che fu ormai abbastanza sfrut tato, le cerimonie solenni, che accompagnano gli atti di carattere quiritario: poichè anche queste solennità dovevano un tempo accom pagnare gli atti, che intervenivano fra i capi delle famiglie e delle genti, in quanto rappresentavano il proprio gruppo, e avevano cosi una importanza, che spiega le formalità, da cui erano circondati (1). 365. Resta ora a determinarsi l'ordine progressivo, con cui si vennero consolidando questi varii aspetti del primitivo ius quiritium. Anche qui ci mancano le testimonianze dirette, perchè i veteres iuris conditores, secondo la testimonianza di Cicerone, non amavano divulgare il segreto dell'arte loro (2); ma abbiamo tuttavia una quantità di fatti, che possono servirci di guida. Così noi sappiamo anzitutto, che la prima parte del diritto, che ebbe ad essere comune al patriziato ed alla plebe, fu certamente quella relativa al commercium, e quindi viene ad esser naturale, che l'elaborazione di un ius quiritium, comune ai due ordini, inco minciasse da quegli atti, che si riferiscono al commercium. Questa circostanza verrebbe poi ad essere eziandio confermata dal fatto, che la parte di antichissima legislazione civile, che sarebbe da Dionisio attribuita a Servio Tullio, si riferirebbe appunto ai con tratti, la cui azione dispiegasi appunto nella parte relativa al com (1) Tralascio qui ogni maggior spiegazione intorno alle origini del formalismo romano, perchè ebbi già ad occuparmene al n ° 94, pag. 117 e segg. e sopratutto nella nota 1a a pag. 118, ove si presero in esame le opinioni, in proposito emesse, dal Sumner-Maine e dal Jhering. (2) Cic., De Orat., I, 42, lagnandosi delle difficoltà, che ai suoi tempi ancora accompagnavano lo studio del diritto, dice espressamente, che una delle cause di queste difficoltà deve essere riposta nella circostanza che « veteres illi, qui buic scientiae praefuerunt, obtinendae atque augendae potentiae suae caussa, pervulgari artem suam noluerunt ». 465 mercium. Cosi pure abbiamo un'altra conferma di questo fatto nella circostanza, che, all'epoca della legislazione decemvirale, già si presentano come compiutamente formati i tre negozii giuridici attinenti al ius commercii, cioè il nexum, il mancipium ed il testa mentum; cosicchè in questa parte viene ad essere evidente, che le leggi delle XII Tavole non fecero che confermare uno stato di cose già preesistente, e si limitarono a dire, che in questa specie di negozii, la volontà del quirite doveva essere sovrana, per modo che la sua parola costituisse legge (1). Infine un argomento indiretto di questa precedenza l'abbiamo anche in questo, che la forma dell'atto commerciale per eccellenza, che è l'atto per aes et libram, ebbe più tardi ad essere applicata eziandio in atti relativi al ius con nubii, come nella coemptio, nell'adoptio e simili: il che significa, che l'atto per aes et libram già doveva essersi formato prima, che si addivenisse alla concessione dei connubii fra patriziato e plebe, la quale segui solo più tardi. Mi pare ciò stante di poter conchiudere, che la parte del ius quiritium, relativa al commercium, fu la prima ad elaborarsi ed a consolidarsi, e che deve attribuirsi a questo motivo, se lo svolgi mento posteriore del diritto romano appare costantemente modellato sul concetto del mio e del tuo. È questo il concetto espresso da Ulpiano, allorchè scrive: omne ius consistit aut in acquirendo, aut in conservando, aut in minuendo; aut enim hoc agitur, quem admodum quis rem vel ius suum conservet, aut quomodo alienet, aut quomodo amittat (2); ma la causa storica, che determinò questo carattere peculiare del diritto romano, deve essere riposta nel fatto, che la parte del ius quiritium, relativa al commercium, fu la prima a consolidarsi, e costitui in certo modo il nucleo centrale della for mazione, cosicchè tutte le parti, che si aggiunsero più tardi, ne ri sentirono l'influenza e ne conservarono l'impronta. Quando si tratto infatti di rendere comune anche la parte relativa al connubium, si trovarono già formati i concetti relativi alla proprietà, e quindi anche il diritto del marito, del padre, del padrone furono model (1) Cid non può lasciar dubbio quanto al nexum ed al mancipium, che già si presentano nelle XII Tavole come istituzioni compiutamente svolte, ed è confermato eziandio, quanto al testamentum, da ULPIANO, il quale dice espressamente, che le suc cessioni testamentarie e i tutori nominati per testamento furono confermati dalle XII Tavole. Fragm., XI, 14. (2) Ulp., L. 41, Dig. (1-4 ). G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 30 - 466 lati su quello di proprietà. Cosi pure quando si tratto di model lare le azioni, tutto si ridusse ad una questione di mio o di tuo, si trattasse di rivendicare una cosa qualsiasi, oppure la moglie od un figlio. Quindi è che la rigidezza, che a questo riguardo presenta il primitivo ius quiritium, non proviene già da una confusione, che si facesse fra i diritti di famiglia ed i diritti di proprietà, ma bensi da ciò, che essendosi nel ius quiritium modellato prima il diritto di proprietà, anche le elaborazioni posteriori ne conservarono l'im pronta. Ciò è anche provato dal fatto, che nelle fonti l'espressione di ius quiritium è sopratutto adoperata relativamente alla proprietà ed al commercio; cosa del resto, che è facile a comprendersi, quando si consideri, che la comunanza quiritaria all'epoca serviana si formo appunto in base alla proprietà ed al censo. 366. Noi possiamo invece affermare con certezza, che fu solo assai più tardi, che il ius connubii entrò a formar parte di quella singolare costruzione giuridica, che porta il nome prima di ius qui ritium e poscia quello di ius proprium civium romanorum; poichè fu soltanto colla legge Canuleia, che si riusci ad abolire il divieto del connubio dei patrizii colla plebe. Malgrado di ciò, si può essere certi, che, anche prima di quest'epoca, la parte più ricca ed agiata della plebe già aveva cercato di accostarsi alla organizzazione della famiglia patrizia. Ciò è abbastanza dimostrato dal fatto, che i de cemviri considerarono la famiglia fondata sull'agnazione, come la famiglia propria dei quiriti, e cercarono anzi di fornire alla plebe un mezzo semplicissimo per addivenire al matrimonio cum manu, mezzo che consiste nella coabitazione di un anno, non interrotta per tre notti di seguito. Allorchè poi colla legge Canuleia furono leciti i connubii fra il patriziato e la plebe, era naturale, che l'atto quiritario per eccellenza venisse ad essere applicato anche in que st'argomento. Probabilmente dovette essere allora, che fra le forme del matrimonio cum manu, di cui una era la confarreatio, propria del patriziato, e l'altra l'usus, propria della plebe, venne svolgendosi. la forma del matrimonio, che può ritenersi come quiritaria per ec cellenza, cioè quella per coemptionem. Intanto questo trapianto del l'organizzazione domestica, propria del patriziato, nel ius quiritium, comune ai due ordini, fece si che la famiglia quiritaria si fondasse esclusivamente sulla patria potestà e sull’agnazione, e che perciò anche la successione e la tutela legittima fossero deferite, in base alla legislazione decemvirale, agli eredi suoi, agli agnati e in loro 407 mancanza ai gentili. Fu sopratutto in questa parte, che l'organiz zazione gentilizia del patriziato riusci a penetrare nel diritto quiri tario; donde la conseguenza, che il ius connubii e la conseguente organizzazione della famiglia finiscono per essere la parte dell'an tico diritto, in cui rivelasi più tenace e persistente lo spirito conser vatore dell'antico patriziato romano (1 ). 367. La parte infine del diritto primitivo, che ultima sarebbe entrata nella compagine del ius quiritium, deve ritenersi essere quella, che si riferisce alle legis actiones. Non è già, che anche in questa parte non vi fossero dei materiali preesistenti: ma, secondo l'attestazione concorde degli stessi giureconsulti, fu soltanto poste riormente alla legislazione decemvirale è in base alle parole stesse della medesima, che sarebbe stato modellato il sistema delle legis actiones. Che anzi si può affermare con certezza, che questa parte del primitivo diritto di Roma fu certamente dovuta alla elaborazione dei pontefici, i quali, come custodi delle tradizioni patrizie, spie garono sopratutto in questa parte la loro tecnica giuridica, e cer tamente seguirono quel processo di costruzione logica, che erasi già adottato nelle altre parti del diritto quiritario. Furono quindi essi, che introdussero, quale azione tipica del diritto quiritario, l'actio sacramento, la quale può essere considerata come il germe di tutto lo svolgimento posteriore della procedura quiritaria: come pure furono essi, che si fecero gli iniziatori di quell'arte meravigliosa di accomodare l'azione alla varietà infinita delle fattispecie, che si potevano presentare, la quale giunse poi a tanta eccellenza per opera del pretore nel sistema per formulas. Non ignoro che l'opinione qui professata, secondo cui le legis actiones sarebbero state le ultime a penetrare nella compagine del ius quiritium o meglio del ius proprium civium romanorum, sebbene appoggiata all'attestazione degli antichi giureconsulti, sembra (1) Le affermazioni, che qui sono semplicemente enunciate, verranno poi ad essere meglio comprovate nel capo V, ove trattasi diproposito del ius connubii. È notabile, quanto al connubium, che l'espressione ad perata nelle fonti non è più quella di ius quiritium, la quale sopratutto si adopera in tema di proprietà, ma è già quella di ius proprium civium romanorum. La causa di questo cambiamento sta in ciò che il connubium venne ad essere comune dopo le XII Tavole, cioè quando al concetto più circoscritto del ius quiritium già cominciava a sovrapporsi il concetto più largo di un ius civile, ossia di un ius proprium civium romanorum. 168 contraddire alla opinione oggidi molto seguita, secondo cui le actiones avrebbero avuta la precedenza su tutte le altre parti del diritto quiritario (1). Credo quindi opportuno di avvertire, che io pure ammetto, che in quella evoluzione lenta dei concetti giuridici, che ebbe ad avverarsi nel periodo gentilizio, il concetto che prima venne a svolgersi, fu certamente quello di actio (2 ): ma così invece più non accadde nell'elaborazione del ius quiritium. Questo infatti è già una costruzione organica e coerente, che prese le mosse dal concetto del quirite, come individualità giuridica integra e perfetta, e che in base al medesimo cominciò dapprima dal modellare la pro prietà, a lui spettante; poscia gli attribui il connubio; da ultimo provvide anche alle azioni, che potevano tutelarlo nei suoi diritti di proprietà e famiglia: donde la conseguenza, che il ius quiritium, essendo già un'opera riflessa, accolse talvolta più tardi istituzioni, che nella realtà dovettero svolgersi per le prime (3 ). Intanto questo sguardo complessivo alla progressiva formazione del ius quiritium ha ' per noi una grandissima importanza, in quanto che mantenendo nella ricostruzione l'ordine stesso, che ebbe ad essere seguito nella naturale formazione del ius quiritium, si potrà giungere a spiegare certi caratteri peculiari del diritto pri mitivo di Roma, che altrimenti riuscirebbero incomprensibili. La materia intanto verrà ad essere naturalmente ripartita in tre capi toli, di cui il primo si occuperà del ius commercii, l'altro del ius connubii, e l'ultimo delle legis actiones. (1) Fra gli altri sembra attribuire questa precedenza all'actio sulle altre parti del diritto civile romano il Cogliolo, Saggi sopra l'evoluzione del diritto privato, Torino, 1885, pag. 105 e segg. (2 ) Ho cercato altrove di spiegare questo carattere delle società primitive, che al punto di vista attuale pud apparire alquanto singolare nella Vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, Torino, 1880, pag. 40. (3 ) Per una più larga discussione intorno al modo, in cui si formarono le legis actiones, mi rimetto al cap. VI ed ultimo, § 1º, ove trattasi appunto di quest'ar gomento. - 469 CAPITOLO IV. Il ius commercii nel diritto quiritario. $ 1. Il commercium e l'atto per aes et libram. 368. Se havvi parte del ius quiritium, che sia modellata in per fetta correlazione con quella individualità giuridica, integra e com piuta, che era il quirite, è quella certamente, che si riferisce al ius commercii. In questa parte la volontà del quirite apparisce indi pendente e sovrana; la sua parola costituisce una vera legge;" e non trovasi imposto altro limite e confine al suo potere, salvo quello, che deriva dalla osservanza delle forme solenni, che sono ricono sciute ed adottate dal diritto quiritario. Il quirite infatti, quale pro prietario, può disporre delle sue cose fino ad abusarne, e può alienarle nel modo solenne proprio dei quiriti (facere mancipium ); quale debitore può obbligare se stesso fino a vincolare la libertà della propria persona (facere nexum ) per il caso in cui non soddisfi il suo debito, e come creditore può appropriarsi perfino la persona ed il corpo del debitore; come testatore infine può disporre in qual siasi modo del suo patrimonio, dimenticando anche di avere de' figli. Si può quindi affermare, che i tre atti fondamentali, in cui si esplica il ius commercii ex iure quiritium, sono tutti governati dal con cetto, che la volontà del quirite non deve aver limite o confine: concetto, che, quanto al nexum ed al mancipium, viene enun ciato con dire « uti lingua nuncupassit, ita ius esto », e quanto al testamento, colle parole: « uti pater familias super familia tute lave suae rei, legassit, ita ius esto (1) ». E questa la parte, in cui « uti (1) Mentre nella ricostruzione del Dirksen, seguita dal Bruns, Fontes, pag. 22 e 2.3, la disposizione: « Cum nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto » sarebbe la legge 1º della Tavola VI; secondo la ricostruzione del Voigt invece, essa viene ad essere la 1° della Tavola V. Così pure la disposizione legassit super pecunia tutelave suae rei, ita ius esto », che nella ricostruzione del Dirksen è la terza della Tavola V, in quella del Voigt viene ad essere la prima della Tavola IV. Ciò dimostra quanto sia grande, anche oggi, l'incertezza intorno all'ordine dei frammenti delle XII Tavole. - 470 domina sovrana la nuncupatio, e quindi si comprende come tanto nelle obbligazioni, quanto nei trasferimenti del dominio, quanto nei testamenti abbia avuto cosi larga parte lo studio delle espressioni adoperate. Queste espressioni infatti nel concetto primitivo costitui vano delle vere leggi, come lo dimostrano ancora le espressioni ado perate di lex mancipii, di lex testamenti, di lex fiduciae e simili, colle quali si comprendevano le varie clausole, che potevano essere apposte ad un trasferimento del dominio, o ad un testamento (1 ). L'unità poi, che domina tutta questa parte del primitivo ius qui ritium, viene anche ad essere provata dal fatto, che un medesimo atto tipico, che può chiamarsi l'atto quiritario per eccellenza, fini per servire quale mezzo per compiere tutti questi negozii giuridici. 369. L'opinione, ora generalmente seguita, intorno all'atto tipico del diritto quiritario, sembra ritenere, che tale atto debba essere riposto nella mancipatio, argomentando dalla larga applicazione, che questa ebbe a ricevere, ogni qualvolta trattavasi di trasferire la manus, intesa nel senso di potestà giuridica sopra una cosa o sopra una persona (2 ). Parmi invece, che le poche vestigia, che a noi pervennero dall'antico diritto, conducano a ritenere, che la forma (1 ) Il vocabolo di lex, come significò la clausola di un contratto o di un testa mento, così indicò eziandio le condizioni pubblicamente prescritte per i luoghidesti nati ad uso pubblico o comune. Vedi Bruns, Fontes, Pars II, Negotia, Caput I, pag. 240. Quanto agli altri significati del vocabolo di lex, nel primitivo diritto ro mano, vedi sopra nº 228, pag. 278. (2) Tra gli autori recenti, che cercarono di ricostruire il primitivo diritto romano, poggiandosi sul concetto di manus, in quanto comprende i poteri sulle cose e sulle persone, e sulla mancipatio, quale mezzo generale per il trasferimento delle manus, deve essere ricordato il Voigt, XII Tafeln, II, pag. 83 a 345. Anche il lavoro del dott. Longo, La mancipatio, Firenze, 1887, è un tentativo in questo senso. Questi verrebbe alla conclusione, che la mancipatio, quale a noi pervenne, sarebbe una reliquia di un atto più antico e più solenne, il quale in origine avrebbe dovuto compiersi in calatis comitiis, e che sarebbesi applicato ad ogni acquisto e trasferi mento della inanus. Di quest'atto primitivo egli troverebbe le traccie nel testamen tum e nell'adrogatio in calatis comitiis. Quest'opinione, a parer mio, non può am mettersi; perchè la mancipatio comparve relativamente tardi, e si riduce in sostanza ad una semplice applicazione dell'atto per aes at libram. Quanto agli atti di diritto privato, in cui abbiamo ancora l'intervento del populus, essi non indicano già, che tutti gli atti relativi alla manus richiedessero un tempo l'assistenza del popolo; ma debbono considerarsi come una sopravvivenza dell'organizzazione gentilizia nel pe riodo della città; come ho cercato appunto didimostrare ai nn. 220 e 221, pag. 256 e segg., discorrendo dei calata comitia, e degli atti che compievansi in essi. 471 tipica del negozio quiritario, debba essere riposto nell'atto per aes et libram; cosicché la nexi datio, la nexi liberatio, la man cipatio, la testamenti factio debbono essere riguardate come altret tante applicazioni di quest'atto primordiale. Cid può essere dedotto anzitutto dal concetto fondamentale del primitivo ius quiritium, in cui tutto si riduceva ad una questione di mio e di tuo; donde la conseguenza, che ogni atto relativo al commercium si riduceva in sostanza a fare in modo, che una cosa di nostra diventasse altrui (quod de meo tuum fit) mediante un corrispettivo, che può consistere o nel prezzo, o nell'obbligazione solenne assunta dal de bitore, o nel corrispettivo di quella finta mancipatio familiae, in cui facevasi consistere lo stesso testamento: trapasso, che trova vasi mirabilmente espresso, mediante l'atto per aes et libram. Ed è questo concetto appunto, che risulta dai passi, che a noi perven nero degli antichi giureconsulti. Questi passi infatti indicano anzi tutto, che il nexum era un'applicazione dell'atto per aes et libram, e dapprima quasi confondevasi con esso, poichè era definito: « omne quod geritur per aes et libram ». Lo stesso è a dirsi del facere mancipium, in quanto che una parte essenziale della mancipatio, quale è descritta da Gaio, consiste senz'alcun dubbio eziandio nel l'atto per aes et libram; il che è pur dimostrato dalla denomina zione stessa del testamento per aes et libram, il quale si introdusse più tardi, e non fu che una nuova applicazione dell'atto per aes et libram. Si aggiunga, che questi passi degli antichi giureconsulti indicano una incertezza intorno alla significazione primitiva del nexum e del mancipium. Vi sono infatti dei giureconsulti, che nel nexum comprendono anche il mancipium, mentre altri già distinguono fra l'uno e l'altro, osservando che dal nexum deriva un obbligazione, mentre col mancipium si opera la traslazione della proprietà. Questa incertezza appare eziandio quanto al testamento per aes et libram, il quale sotto un aspetto appare come una vera vendita o mancipatio familiae, come lo dimostra l'intervento del familiae venditor e del familiae emptor; mentre sotto un altro aspetto non è più una vendita nel vero senso della parola, ma è già un vero atto per causa di morte, poichè il familiae emtor riceve solo in deposito e in custodia il patrimonio del te statore, accið egli possa liberamente disporne « secundum legem publicam » per il tempo in cui avrà cessato di vivere (1). (1) Non sarà inutile riportare qui alcuni dei passi di antichi giureconsulti, che 472 Di qui pertanto si può ricavare, che nella sintesi primitiva del diritto quiritario tutto ciò, che riferivasi al commercium, compievasi per aes et libram, col quale atto esprimevasi lo scambio ed il tra passo, e che solo col tempo in questa sintesi primitiva si vennero differenziando il nexum, il mancipium, il testamentum; i quali col tempo procedettero ciascuno per la propria via, ed informati ad un proprio concetto finirono per dare origine a tre istituzioni fonda mentali. Col tempo infatti dal nexum scaturi la teoria delle obbli gazioni, dal mancipium derivò quella dell'alienazione e trasmissione del dominio e dei diritti reali inchiusi nel medesimo, e dal testa mentum si derivò tutta la teoria della libera disposizione delle proprie cose per causa di morte, la quale non potè mai confondersi ed imparentarsi colla successione legittima, poichè questa nel ius quiritium ebbe un'origine compiutamente diversa, come sarà di mostrato a suo tempo (1 ). È poi notabile, che il primitivo ius quiri tium, nella sua sintesi potente, ebbe a ravvisare uno scambio, ed una trasmissione con corrispettivo, tanto nel contratto, in quanto è fonte di obbligazioni, quanto nel trasferimento delle proprietà, quanto eziandio nel testamento, mediante cui l'erede viene in certo modo a dimostrano come il nexum, il mancipium e il testamentum facere non fossero, che altrettante applicazioni dell'atto per aes et libram. « Nexum Manilius scribit omne, quod per aes et libram geritur, in quo sint mancipia ». Varro, De ling. lat., 7, 5, § 105 (AUSCHKE, Iurispr. antiiustin., pag. 6 ); « Nexum, est ut ait Aelius Gallus, quodcumque per aes et libram geritur, idque necti dicitur; quo in genere sunt haec: testamenti factio, nexi datio, nexi liberatio » (Hoschke, Op. cit., pag. 96 ). Accanto a questa significazione larghissima, in cui il vocabolo di nexum comprende ancora « omne quod geritur per aes et libram », sonvi poi altri passi, che già attribuiscono al nexum una significazione più circoscritta. Così, ad esempio: « Nexum, Mucius scribit, quae per aes et libram fiunt, ut obligentur, praeter quae mancipio dentur », la quale opinione sarebbe prevalsa secondo VARRONE, De ling. lat., VII, 105, il quale aggiunge: « hoc verius esse ipsum verbum ostendit,de quo quaerit, nam id est quod obligatur per libram, neque suum fit, inde nexum dictum » (Bruns, Fontes, pag. 386). Quest'ultima definizione sarebbe pur confermata da Festo, vº Nexum: « Nexum aes apud antiquos dicebatur pecunia, quae per nexum obligatur » (Bruns, Fontes, pag. 346). Sonvi poi eziandio dei passi, in cui la mancipatio sarebbe indi cata perfino colla espressione di traditio alteri nexu, quale sarebbe il seguente di Cic., Top., 5, 28: « Abalienatio est eius rei, quae mancipii est, aut traditio alteri nexu, aut in iure cessio ». Per altri passi vedi il Voigt, XII Tafeln, I, pag. 197, nota 7, e II, 482 e segg. (1) La successione legittima non prende le mosse dal commercium, ma dal con nubium, come sarà dimostrato nel seguente cap. V, $ 5. - 473 continuare la personalità giuridica del proprio autore, e viene perciò ad essere obbligato alla continuazione dei sacra. Di qui la conseguenza, che, per ricostruire in questa parte il ius quiritium, vuolsi ricomporre anzitutto il primitivo atto per aes et libram, cercare l'epoca in cui esso penetrò nel ius quiritium, e se guire da ultimo le progressive applicazioni, che se ne vennero facendo. 370. Più volte ebbe ad essere notato, che nel diritto romano oc corrono le traccie di un processo, che ha del matematico, e che taluni vollero attribuire alla influenza di Pitagora, la cui filosofia, teorica e pratica ad un tempo, poggiava appunto sul numero, come espres sione dell'ordine e dell'armonia (1). Senza entrare in una simile di scussione, questo è certo, che non si può a meno di ravvisare questo carattere di matematica precisione ed esattezza in quel negozio, es senzialmente proprio dei quiriti, che compare sotto la forma del l'atto per aes et libram; poichè in esso noi vediamo comparire la persona di un pubblico pesatore, che tiene la bilancia quasi per de terminare ciò che altri då, e ciò che deve essere ricevuto in con traccambio. Può darsi benissimo, che quest'atto per aes et libram abbia avuto origine dalla necessità, in cui i contraenti erano di pesare l'aes rude, allorchè non erasi ancora introdotto l'aes signa tum: ma intanto si stenta a credere, che i veteres iuris conditores, allorchè introdussero come tipico quest'atto nel ius quiritium, e ne prolungarono la vita ben oltre l'epoca, in cui era veramente neces saria la bilancia, non abbiano ravvisato nel medesimo come una espressione ed un simbolo della esattezza e della precisione, che deveaccompagnare il negozio giuridico, e della uguaglianza, che deve mantenersi fra la cosa ed il prezzo, fra quello che si dà e ciò che si riceve in contraccambio. Questo è certo, che difficilmente sareb besi potuto rinvenire un atto, che potesse meglio simboleggiare quella giustizia, che Aristotele chiamò poi commutativa, e che era quella appunto, che doveva sovraintendere a quegli scambii, che i Romani inchiudevano col vocabolo di commercium (2 ). Ad ogni modo l'esistenza presso i Romani di un atto quiritario « quod geritur per aes et libram » da applicarsi in tutti gli scambii, in tutti i trapassi, in tutte le contrattazioni, che potessero interve (1) V. ZELLER, La philosophie des Grecs, trad. Boutroux, I, Paris, 1877, p. 486 e sopratutto la nota 8, pag. 401. (2 ) Cfr. Carle, La vita del diritto, pag. 132. - 474 nire fra i quiriti, tanto negli atti tra vivi, quanto eziandio negli atti per causa di morte, non pud essere posta in dubbio (1). Vero è, che il medesimo non ci pervenne nelle sue fattezze genuine, ma soltanto nelle applicazioni diverse, che se ne fecero; ma il fatto stesso che l'atto per aes et libram compare nelle obbligazioni, nei trasferimenti e nei testamenti dimostra, che esso in certo modo fra i quiriti compieva quella funzione, che presso di noi ha compiuto, sopratutto in altri tempi, quello che chiamasi l'atto pubblico ed autentico, il quale, al pari dell'antico atto per aes et libram, con tinua in certi confini ancora oggi ad avere la forza e l'efficacia del titolo esecutivo, salvo che esso sia impugnato di falso (2). Dal momento, che erasi venuto formando per la comunanza dei quiriti una forma particolare di diritto, che prese il nome di ius quiritium, era naturale che si modellasse eziandio un atto tipico, che potesse ser vire nei negozii essenzialmente quiritarii. Esso doveva essere pub blico, come tutti gli atti, che si compievano fra i quiriti; doveva es sere fatto colla testimonianza dei quiriti stessi, in quanto che poteva mutare in qualche modo la posizione rispettiva degli uni verso degli altri nella comunanza quiritaria, donde l'intervento nel medesimo dei classici testes, corrispondano o non i medesimi alle cinque classi serviane; doveva esser fatto coll'intervento di un pubblico ufficiale, che era il libripens, il quale poteva anche essere inca ricato di denunziare agli uffizii del censo le mutazioni, che ne derivavano alla condizione dei quiriti; alle quali solennità negli antichi tempi aggiungevasi eziandio la presenza di un antestator, incaricato in certo modo di richiamare l'attenzione delle parti e dei testimoni sulla importanza dell'atto (3). Il medesimo poi, per quanto si può inferire dalle applicazioni (1) Tra gli autori, che sembrano accostarsi all'idea, che l'atto per aes et libram costituisca nell'antico diritto la forma solenne per tutti i negozi relativi al com mercium, parmi di poter annoverare l'HÖLDER, Istituzioni di diritto romano, $ 28, trad. Caporali. Torino, 1887, pag. 82. (2 ) Cod. civ. it., art. 1317. (3) Questi varii caratteri del primitivo atto per aes et libram si possono facil mente ricostruire, ricomponendo insieme la descrizione, che sopratutto Gajo ed Ul PIANO ci serbarono, dei varii negozii, che compievansi per aes et libram, quali la nexi datio, la nexi liberatio, la mancipatio, ed il testamentum per aes et libram, dei quali avremo poi a discorrere partitamente. Quanto all' antestator o antestatus vedi il Longo, La mancipatio, pag. 74 e segg. 475 diverse, che ne furono fatte, ebbe ad essere costituito di due parti, cioè: lº dell'atto per aes et libram, il quale, mentre dava al negozio il carattere di pubblicità e di autenticità, poteva eziandio essere un ricordo effettivo di un'epoca, in cui l'aes rude serviva di istrumento per gli scambii e doveva perciò essere pesato colla bilancia; 2º della nuncupatio, che era un complesso di parole solenni, accomodate alla natura dell'atto, le quali esprimevano con preci sione ed esattezza il negozio giuridico, che veniva operandosi fra i contraenti. Mentre la prima parte era un ricordo del passato e conservavasi « dicis gratia, propter veteris iuris imitationem »; la seconda parte invece serviva a dargli duttilità e pieghevolezza, e a rendere possibili le applicazioni diverse, che si fecero dell'atto per aes et libram, non solo ai negozii giuridici propriamente detti, ma anche agli atti relativi all'ordinamento della famiglia (1). 371. Quanto al tempo, in cui l'atto per aes et libram può essere stato introdotto nel ius quiritium, esso non può e non potrà forse mai essere determinato con certezza, anche per il motivo che il medesimo può essere stato il frutto di una formazione lenta e gra duata. Egli è probabile tuttavia, che l'epoca, in cui esso cominciò a formarsi, dovette essere quella stessa, in cui prese ad elaborarsi un ius quiritium, comune al patriziato ed alla plebe, e quindi le sue origini possono con probabilità essere riportate all'epoca della costi tuzione serviana. Fu allora, che mediante l'istituzione del censo co minciò a delinearsi una proprietà ex iure quiritium, la quale con sisteva nel mancipium; quindi è probabile, che anche allora siasi sentito il bisogno di una forma tipica per compiere i negozii quiri tarii. Questo è certo, che alcuni tratti dell'atto per aes et libram richiamano l' epoca serviana. Cosi, ad esempio, noi sappiamo, che probabilmente in quell'epoca dovette avverarsi una trasformazione nel sistema monetario, poichè presso i primitivi romani il più an tico strumento di scambio non consistette nel rame, ma nei capi di (1) L'esistenza di questo duplice elemento nel primitivo atto per aes et libram è già accennato dalla disposizione delle XII Tavole: « qui nexum faciet, mancipium que, uti lingua nuncupassit, ita ius esto », e appare poi dall'analisi di tutti i ne gozii, che si compiono per aes et libram, descrittici sopratutto da Gajo, Comm., II, 104-5 e da Ulp., Fragm., XX, 9. - 476 bestiame, e sopratutto nelle pecore e nei buoi, come lo dimostra la designazione delle multe, che anche più tardi si continuò a fare in questa guisa. Che se per avventura si volesse ritenere, come fino a un certo punto è probabile, che l'atto per aes et libram fosse stato anche adottato per simboleggiare lo scambio, il trapasso, anche questo linguaggio simbolico corrisponderebbe all'epoca serviana, che è quella che ricorre ai simboli dell'hasta, della vindicta, e simili. Cosi pure noi sappiamo, chei testimonii dell'atto per aes et libram chiamavansi quirites, ed è anzi probabile, che fossero ricavati dalle classi ser viane, come lo dimostra la denominazione di classici testes: la quale, sebbene sia solo menzionata per i testimonii nel testamento, può ra gionevolmente essere estesa alle altre applicazioni dell'atto per aes et libram (1). Infine anche l'intervento di un pubblico ufficiale in quest'atto sembra essere stato determinato dalla necessità, in cui si era di conoscere i cambiamenti, che si avveravano nella posizione ri spettiva dei quiriti. Comunque sia, è però sempre probabile, che anche nella formazione di quest'atto siasi seguito il processo, che suole es sere adoperato dai Romani, quello cioè di servirsi di qualche forma già preesistente, attribuendovi il carattere quiritario, e cambiandola cosi in una forma tipica, che potrà poi essere capace di applicazioni diverse. Nulla ripugna pertanto, che l'atto per aes et libram sia stato veramente una realtà nell'epoca, in cui l'aes rude, non potendo essere numerato, doveva invece essere pesato; ma questo è certo, che quando quest'atto compare nel ius quiritium, esso viene già (1) Festo, vº « Classici testes dicebantur, qui signandis testamentis adhibebantur ». La questione se questi classici testes dovessero ritenersi come rappresentanti delle cinque classi, in quanto che essi non potevano essere meno di cinque, fu trattata di recente dal Longo, La mancipatio, pag. 83 e segg., il quale sosterrebbe che i clas sici testes non hanno che fare colla rappresentanza delle classi. Se con cið egli in tende di dire, che i testimoni non avevano nessun incarico di rappresentare le cinque classi serviane, ciò può facilmente essere consentito, poichè, secondo la testimonianza di GaJo, Comm., II, 25, questi testi solevano essere amici dei contraenti e potevano perciò essere presi anche dalla stessa classe: ma intanto non vi ha motivo per ne gare, che essi fossero chiamati classici, appunto perchè dapprima dovevano essere presi dalle classi, ossia dagli adsidui e locupletes. Era infatti nello spirito della costituzione serviana, che nell'atto per aes et libram, con cui si attuavano le muta zioni di proprietà quiritaria, dovessero intervenire dei testimonii tolti dalle classi al modo stesso, che ancora in base alle XII Tavole era stabilito: « adsiduo adsiduus vindex esto ». Tale sembra pur essere l'opinione del MUIRHEAD, Histor. introd., pag.59, il quale trova anzi non improbabile, che i non minus quam quinque testes rappresentassero le cinque classi. 477 ad essere cambiato in un atto tipico, che poteva essere suscettivo di molteplici applicazioni. Si comprende quindi, che Gaio ci parli sempre della mancipatio, come di una imaginaria venditio, senza neppur far cenno di un'epoca, in cui essa poteva costituire una vendita effettiva e reale (1 ). 372. Per quello poi che si riferisce all'ordine progressivo, con cui l'atto per aes et libram sarebbe stato applicato ai principali negozii giuridici deldiritto quiritario, è opinione generalmente ammessa, che esso siasi prima applicato alla mancipatio, poscia al nexum, e più tardi al testamentum per aes et libram (2). Mentre non pud esservi alcun dubbio circa l'applicazione più tarda dell'atto per aes et li bram al testamento, poichè in proposito Gaio ed Ulpiano attestano, che questa forma di testamento ebbe ad essere introdotta posterior mente a quella in calatis comitiis (3), ritengo invece, che sianvi dei forti indizii per credere, che l'applicazione dell'atto per aes et libram al nexum debba essere considerata come la più antica. Un argomento di ciò l'abbiamo anzitutto nel fatto, che nell'antico ius quiritium il diritto sembra spiegarsi prima contro la persona del debitore, che non contro i beni del medesimo, ed è solo assai tardi e sotto l'influenza del diritto pretorio, che si giunge a rite nere vincolati i beni, anzichè il corpo e la persona del debitore. Di più il facere mancipium suppone già un'epoca, in cui anche la plebe era pervenuta alla proprietà, mentre il facere nexum ci ri porta ad un'epoca più antica, in cui la plebe, nei suoi rapporti col patriziato, non potendo offrire alcuna garanzia reale, non poteva ob bligarsi altrimenti, che vincolando la propria persona. A ciò si ag giunge, che l'atto per aes et libram pud essere stata una realtà relativamente al nexum, poichè in un'epoca, in cui l'aes rude serviva come strumento di scambio, era una necessità il pesare la somma, che era data ad imprestito; mentre invece l'applicazione (1) Egli è evidente che i giureconsulti considerarono sempre l'atto per aes et libram come una forma riconosciuta dalla legge (secundum legem publicam ) per compiere i negozii di carattere quiritario; di qui le loro espressioni di imaginaria venditio, e di imaginaria mancipatio, e la disinvoltura con cuinon hanno difficoltà di applicarle a negozii, che più non hanno carattere mercantile, come sarebbe, ad esempio, il matrimonio per coemptionem. (2) Tale sembra, ad esempio, essere l'opinione del Voigt, XII Tafeln; del MUIRHEAD, Op. cit., pag. (3 ) GAJO, Comm., II, 102; ULP., Fragm., XX, 2. 58 e segg. 478 dell'atto per aes et libram, non solo per eseguire il pagamento del prezzo, ma anche per operare il trasferimento della proprietà di una cosa, è già ad evidenza un espediente giuridico, e merita il nome da tole da Gaio di « imaginaria venditio ». Si comprende pertanto, come gli antichi giureconsulti comprendano talvolta il facere mancipium nel concetto più antico del nexum chiamando con questo nome « omne quod geritur per aes et libram », mentre non consta che essi facciano mai rientrare il nexum nel concetto del facere mancipium (1). Infine si può anche aggiungere, che nei passi antichi parlasi di un ius nexi mancipiique, e che le stesse XII Tavole fanno precedere il nexum nel famoso testo: « cum nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto »: argomento questo, chemalgrado la sua tenuità apparente non deve trascurarsi del tutto, quando si consideri l'esattezza e la precisione, anche cronologica, che i ro mani, sopratutto nei tempi più antichi, recavano nel proprio lin guaggio legislativo, facendo di solito precedere il concetto, che prima erasi formato a quello, la cui formazione era posteriore. Che se po steriormente la mancipatio fini per prendere un posto più impor tante, ciò proviene da una causa storica, dal fatto cioè, che la parte del diritto primitivo relativa al nexum fu la prima ad essere abolita, il che accadde per mezzo della lex Paetelia, nel 428 dalla fondazione di Roma; donde la conseguenza, che il nexum cadde pressochè in dimenticanza, mentre la mancipatio apparve come l'atto quiritario per eccellenza presso i classici giureconsulti. Noi possiamo invece affermare, che presso i giureconsulti più antichi dovette essere as solutamente il contrario; perchè noi sappiamo che Manilio nel con cetto del nexum comprendeva ancora il mancipium, e che Elio Gallo vi comprendera perfino la testamenti factio; cosicchè tutto ciò, che compievasi per aes et libram, necti dicebatur, e quindi nel nexum veniva ad essere compreso « omne quod geritur per aes et libram ». La distinzione invece fra il nexum ed il mancipium compare in Quinto Muzio Scevola, il quale dice bensi che il nexum è ancor sempre « quod per aes et libram fit », ma non più nel l'intento di dare la cosa a mancipio, ma bensì in quello di obbli garla soltanto; la quale opinione, secondo Varrone ebbe ad essere seguita, e fu allora che si chiamò nexum, « quod obligatur per libram, neque suum fit». Si pud quindi conchiudere, che il vocabolo di nexum ebbe dapprimauna significazione più larga, per cui tutto (1) V. in proposito i passi di antichi giureconsulti ed autori citati a p. 411, nota 1. -- 479 ciò che compievasi « per aes et libram, necti dicebatur », mentre più tardi fini per significare l'obbligazione assunta per aes et libram; trasformazioni di significato, che occorrono frequenti nel diritto ro mano, come lo dimostrano i vocaboli di imperium, di manus e di mancipium, i quali tutti, mentre hanno una significazione più larga, finiscono per assumere un significato specifico più circoscritto. A queste considerazioni, fondate sui testi, se ne aggiunge un'altra, per me più importante di tutte, ed è che nella formazione del diritto quiritario, che poggia tutto sul concetto fondamentale del quirite, il diritto, quale vinculum societatis humanae, dovette presentarsi dap prima come un nexum, ossia, come un vincolo, che intercede fra due quiriti. Ciò è dimostrato dal fatto, che la procedura primitiva è azione di una persona contro di un'altra, e che la esecuzione pri mitiva va direttamente contro la persona del debitore, e si mani festa quale manus iniectio contro il medesimo (1 ). Quest'indagine intanto è per noi importante anche nel senso, che ci induce a discorrere prima del nexum, poscia della mancipatio, e da ultimo del testamentum per aes et libram. $ 2. Il nexum e la storia primitiva della obbligazione quiritaria. 373. L'origine diquell'obbligazione quiritaria di strettissimo diritto, che contraevasi mediante il nexum, deve essere cercata in quel (1) Non parmi pertanto, che possa essere accettata la teoria ingegnosa, ma non fondata sui fatti, del SumnER-MAINE, L'ancien droit, p. 305 e seg., secondo la quale il nexum avrebbe prima significato il trasferimento della proprietà, e sarebbe poscia venuto a significare l'obbligazione del venditore, che non avesse pagato il prezzo. Cid è assolutamente contrario al concetto romano, secondo cui la consegna della cosa e il pagamento del prezzo seguivano contemporaneamente nella mancipatio. Si può anzi dire che il processo seguito dal diritto romano fu compiutamente inverso. Il primo rapporto, che potè esservi fra il patriziato e la plebe, fu quello del nexum, ossia quella rigida obbligazione, per cui il mancato pagamento dava luogo alla manus iniectio contro la persona; mentre solo più tardi l'atto per aes et libram potè servire per il trasferimento della proprietà. Queste considerazioni mi impedi scono eziandio di aderire allo svolgimento storico, che sarebbe proposto dal CoglioLO nelle note al PadELLETTI, Storia del dir. rom., pag. 250, dove, premesso che il con cetto del diritto reale dovette precedere quello del diritto personale, farebbe anche precedere la formazione della mancipatio a quella del nexum. Cfr. Puglia, Studii di storia del dir. priv., pag. 73 e segg. 480 l'epoca, in cui la plebe, priva ancora di una vera posizione di diritto di fronte al patriziato, non poteva trovar credito presso ilmedesimo che vincolando la propria persona. In virtù del nexum il debitore plebeo, che non pagava a scadenza, poteva essere sottoposto alla manus iniectio, ed essere tradotto nel carcere privato del creditore patrizio (1). Coll'ammessione dei plebei alla comunanza quiritaria, il nexum, questa obbligazione rozza è primitiva, che era surta nei rapporti fra la classe superiore e la classe inferiore, venne ancor essa a con vertirsi nella forma tipica della obbligazione quiritaria, ma dovette perciò sottomettersi a tutte le solennità dell'atto quiritario. Essa quindi dovette essere contratta colle formalità dell'atto per aes et libram, colla assistenza cioè di non meno di cinque testes cives romani, e coll'intervento del libripens e dell'antestator (2). La formola precisa del nexum non ci è pervenuta, ma ci giunse invece, conservataci da Gaio, quella della nexi liberatio, la quale, essendone naturalmente il contrapposto, pud servirci per determinare, se non la formola precisa, almeno gli elementi essenziali, che dove vano concorrere nella nezi datio, per usare una espressione, che occorre nel giureconsulto Elio Gallo (3 ). Da questa formola si può in durre che a costituire il nexum dovettero concorrere due parti, cioè: (1) Senza pretendere qui di citare la ricchissima letteratura sul nexum, ricorderò soltanto l'Huschke, Ueber das nexum, Leipzig, 1846; GIRAUD, Des nexi, ou de la condition des débiteurs chez les Romains, Paris 1847; Voigt, XII Tafeln, I, $$ 63-65; MUIRHEAD, Histor. Introd., 152 a 163. Le opinioni degli autori tuttavia sugli effetti del nexum primitivo sono ancora molto discordi. Secondo la dottrina più seguita, il nexum dava origine ad un'obbligazione di strettissimo diritto, la quale, non soddisfatta, autorizzava senz'altro alla manus iniectio. Di recente invece il Voigt sosterrebbe, che l'obbligazione assunta col nexum non avrebbe alcun effetto speciale; la quale opinione sembra pur seguita dal Cogliolo, nelle note al PADELLETTI, Storia del diritto romano, pag. 329. Per mio conto seguo la prima opinione in base sopratutto a quell'origine del nexum, che ho cercato di spiegare più sopra ai nu meri 166-67, pag. 206 a 208, e sulla considerazione, che non si comprenderebbero le grandi lotte sostenute dalla plebe per ottenere l'abolizione di questo ingens vin culum fidei; quando il medesimo avesse prodotto i medesimi effetti dell'obbligazione assunta col mezzo della stipulatio. (2 ) Questa necessità dell'atto per aes et libram, per contrarre il nexum, probabil mente fu quel provvedimento favorevole ai debitori, che da Dionisio è attribuito a Servio Tullio. Cfr. MUIRHEAD, op. cit., pag. 67. (3 ) La formola della nexi liberatio conservataci da Gajo, Comm., III, 174, sa rebbe la seguente: « Quod ego tibi tot milibus condemnatus sum, me eo nomine a te « solvo liberoque hoc aere aeneaque libra. Hanc tibi libram primam postremamque 481 1° l'atto per aes et libram, non minus quam quinque testes, cives romani, il libripens e forse eziandio l'antestator; 2° e la nuncu patio, che non si sa bene se dovesse essere pronunziata da un solo, ovvero da entrambi i contraenti. Essa però probabilmente dovette comporsi di due parti, l'una pronunziata dal nexum accipiens e l'altra dal nexum dans, e consistette in una specie di damnatio. Il primo conchiudeva damnas esto dare, e l'altro rispondeva damnas sum, il che implicava una specie di condanna, che il debitore pronunziava contro se stesso, al pagamento della somma (1 ). Di qui la conseguenza, che se il medesimo non pagava si poteva proce dere contro di lui, come se il medesimo fosse damnatus al paga mento, e perciò poteva essere soggetto alla manus iniectio, senza che fosse richiesta una speciale condanna del magistrato. I dubbii più gravi, che si riferiscono al nexum, sono quelli re lativi alla natura dell'obbligazione contratta col nexum, ed agli effetti, che derivavano da essa in base al diritto primitivo, le cui vestigia appariscono ancora nella legislazione decemvirale. 374. Per quello che riguarda la natura della obbligazione con tratta col nexum, alcuni antichi scrittori, non giuristi, descrivendo la trista condizione dei debitori, tradotti nel carcere privato del loro & expendo secundum legem publicam ». Essa è per noi molto preziosa: 1° perchè ci dice anzitutto, che il nexum per aes et libram importava una damnatio per parte del debitore, il che fa credere che rendesse contro di lui applicabile senz'altro la manus iniectio, che Gaio ci dice appunto essere ammessa contro i damnati, e contro i iudicati; 2° perchè essa è un argomento per ritenere, che le obbligazioni contratte per aes etlibram dovevano essere risolte con un atto della medesima natura; 3. perchè infine ci attesta, che l'atto per aes et libram era una forma di liberatio secundum legem publicam, e come tale non si applicava soltanto nei casi di obbligazioni con tratte col nexum, ma anche quando trattavasi del pagamento di una somma ex causa iudicati, o del pagamento di un legato per damnationem. Ciò conferma sempre più la congettura posta innanzi, che l'atto per aes et libram era in certo modo la forma quiritaria del negozio giuridico, donde le sue molteplici applicazioni, allorchè si tratta di negozii ex iure quiritium. (1) La nuncupatio del nexum secondo il Voigt, XII Tafeln, pag. 483, si com porrebbe bensì di due parti; ma egli, ricostruendone la formola, respingerebbe l'e spressione damnas esto e damnas sum, in conformità appunto della sua teoria, se condo cui il nexum non avrebbe dato origine ad un'obbligazione di carattere spe ciale. Parmi che quest'ultima parte della sua ricostruzione non possa accettarsi; poichè, così essendo, la formola della nesi datio non corrisponderebbe a quella della nexi liberatio, conservataci da Gaio, la quale è certo ciò, che noi abbiamo di più testuale in proposito. G. Carle, Le origini del diritto di Roma. 31 482 creditore, ebbero a dire, che essi, dopo essere stati spogliati dei beni, avevano poi dovuto rinunziare alla propria libertà (1). Ciò fece ri tenere talvolta, che il nexum attribuisse il diritto di procedere non solo contro la persona, ma anche contro i beni del debitore. Questo concetto sembra ripugnare a quel carattere del primitivo ius qui ritium, secondo cui il medesimo, allorchè giungeva a separare due istituti, quali sarebbero quelli del nexum e del mancipium, lasciava poi che ciascuno procedesse per la propria via, informato ad una propria logica, senza che l'uno più non si confondesse coll'altro. Ora pur riconoscendo che il vocabolo di nexum, nella sua significazione primitiva, designasse in genere il vincolo giuridico, che intercedeva fra un quirite ed un altro, e che potesse anche estendersi ai beni del debitore, questo è certo che non dovette più essere cosi, allorchè si operò la distinzione fra il nexum ed il mancipium, e i due con cetti cominciarono ad avere ciascuno un proprio svolgimento. Ora noi sappiamo, che questa distinzione del nexum dal mancipium già erasi operata anteriormente all'epoca decemvirale, e che da quel momento il quirite come tale ebbe due mezzi per provvedere alle proprie necessità; quello cioè di alienare il proprio mancipium, o quello di vincolarsi col nexum. Con quello egli poteva trasferire i beni e con questo vincolare la sua persona; ma gli effetti dell'uno non potevano più confondersi coll'altro. Fu in seguito a questa di stinzione, che anche più tardi la giurisprudenza romana ebbe a ri tenere, che le obbligazioni ed i contratti, che derivarono dal nexum, non possono mai riuscire al trasferimento della proprietà, il quale con tinuò sempre ad operarsi per mezzo della usucapione e della tradi zione, che erano sottentrate all'anticamancipatio. Parmi pertanto in questa parte di dovere seguire l'opinione, adottata, fra gli altri, anche dall'Hölder, secondo cui il nexum costituisce in certo modo il con trapposto della mancipatio nel senso, che quello è la sottomissione della persona del debitore alla potestà del creditore per il caso di non seguito pagamento, mentre la mancipatio costituisce invece (1) Così, ad esempio Livio, II, 23, attribuisce queste parole a quel nexus, che avrebbe provocata la prima rivolta della plebe per causa della legge sui debiti: e se « aes alienum fecisse; id cumulatum usuris primo se agro paterno avitoque exuisse, a deinde fortunis aliis; postremo, velut tabes, pervenisse ad corpus ». È tuttavia evidente, che quinon si dice punto, che il creditore, in base al nexum, potesse pro cedere sai beni del debitore, ma solo che quest'ultimo aveva dovuto prima spogliarsi del suo patrimonio avito, e poi anche vincolare la sua persona al proprio creditore. 483 il trasferimento di una cosa in potestà altrui. Questa è pure l'opi nione, che fu seguita recentemente dall'Esmein e dal Cuq, i quali ritengono, che la primitiva obbligazione quiritaria, la cui forma tipica fu il nexum, costituisse dapprima un legame del tutto personale e fosse perfino intrasmessibile da una persona ad un'altra (1). Ho insistito sopra questo carattere esclusivamente personale del nexum primitivo; perchè il medesimo, se nori a giustificare, può condurci in qualche modo a spiegare le conseguenze estreme, a cui nel diritto primitivo di Roma potè giungere il diritto del creditore contro il proprio debitore. Parmi tuttavia, che sarà più opportuno discorrere di tali conseguenze, allorchè si tratterà della manus iniectio, ossia della procedura di esecuzione contro il debitore; poichè l'inumanità di questa primitiva procedura non spiegasi soltanto contro i nexi, ma anche contro i iudicati ed i damnati (2 ). 375. È certo ad ogni modo, che il nexum, fra le istituzioni qui ritarie, era quella, che ripugnava maggiormente a quell'uguaglianza, che avrebbe dovuto esistere fra i membri di una stessa comunanza. Esso portava ancora le traccie della soggezione, pressochè servile, a cui un tempo era ridotta la plebe; poichè anche nel periodo sto rico sono sempre i plebei, che appariscono sottoposti al rigore del nexum, mentre il patrizio, anche oberato di debiti, poteva trovar sussidio presso la propria gente. Ne derivò che, durante le lotte fra i due ordini, il nexum si cambið talora in un'arma del patri ziato per assicurare la sua superiorità sopra la plebe, e fu in tal modo che una istituzione di diritto privato si cambiò in un fomite di dissensioni civili. La questione della condizione dei debitori sembra già rimontare all'epoca di Sergio Tullio, il quale, se non pagd del proprio i creditori, come vorrebbe la tradizione, certo impose la solennità dell'atto per aes et libram per potersi obligare col nexum. Sotto la Repubblica poi, è a causa della legge sui debiti, che i plebei si rifiutano prima alla leva, poi abbandonano la città e si ritirano (1) HÖLDER, Istituz., trad. Caporali, pag. 225 e segg. Cfr. eziandio l' Esmein, L'intrasmissibilité première des créances et des dettes, nella « Nouvelle Revue histo rique », 1887, pag. 48, nel quale scritto egli cerca di corroborare la stessa tesi già enunciata dal CuQ, Recherches historiques sur le testament per aes et libram pubblicato nella stessa « Nouvelle Revue », 1886, pag. 536. (2) La questione qui accennata del trattamento contro i debitori sarà trattata nel capitolo VI, § 3º, parlando della procedura esecutiva, mediante la manus iniectio. 484 sul monte Sacro, da cui non ritornano, che dopo aver ottenuto la istituzione del tribunato della plebe. Anche la stessa legislazione decemvirale porta le traccie di questa contesa; come lo dimostrano le disposizioni minute, a cui essa discende nella parte, che si rife risce al trattamento del debitore, ridotto in potestà del creditore. Malgrado di ciò, le dissensioni continuano fino alla legge Petelia del 428 di Roma, la quale non abolisce il nexum, e neppure dà diritto al creditore di procedere contro i beni del debitore, anzichè contro la sua persona, come vorrebbe Livio, ma toglie al creditore il diritto di poter procedere immediatamente alla manus iniectio contro il debitore, senza che neppure occorresse l'intervento del magistrato (). Continuò quindi ancora a sussistere l'atto per aes et libram, qual mezzo di sottomettersi al nexum, come lo dimostra la sopravvivenza delle nesi liberatio, che è ancora ricordata da Gaio; ma intanto il nexum, sprovvisto di quegli effetti immediati contro la persona, che costituivano l'odiosità e la forza di questo ingens vinculum fidei, non ebbe più ragione di sussistere, e venne ad essere sosti tuito da altri modi di obbligarsi, che forse preesistevano nel costume, ma non erano ancora stati accolti nella cerchia circoscritta del primitivo ius quiritium. 376. Accade qui, in tema di obbligazioni, una trasformazione analoga a quella, che abbiamo veduto essersi avverata in tema di proprietà, quanto al concetto del mancipium. Al modo stesso che (1) Le espressioni di Livio, VIII, 28, sono le seguenti: « iussique consules ferre ad « populum, ne quis, nisi qui noxam meruisset, donec poenam lueret, in compedibus < aut in nervo teneretur; poecuniae creditae bona debitoris, non corpus obnoxium « esset. Ita nexi soluti, cautumque in posterum, ne necterentur ». Di qui alcuni autori avrebbero argomentato, che da quel momento fosse stata abolita la procedura contro la persona dei debitori, e introdotta invece quella contro i beni. Cid sarebbe smentito espressamente dalla storia giuridica di Roma, dove la vera procedura fu sempre contro la persona, mentre quella contro i beni fu solo introdotta dal pretore Rutilio nel 647 di Roma, e la stessa cessio bonorum, introdotta dalla legge Giulia, fu ancora considerata come un beneficio fatto al debitore. Le parole quindi di Livio debbono essere intese nel senso, che d'allora in poi il nexum non bastò più per sè ad autorizzare il creditore a tradurre il debitore nel suo carcere privato, e che in tal modo l'obbligazione, contratta con questo mezzo, non ebbe più lo speciale effetto di autorizzare senz'altro la manus iniectio; ma produsse solo gli effetti, che sareb bero derivati da un 'obbligazione assunta mediante la semplice stipulatio. Questa fu probabilmente la causa, per cui il nexum andò gradatamente in disuso, e sottentra rono al medesimo la mutui datio e la stipulatio, come sarà dimostrato più sotto. 485 al mancipium, quale unica forma della primitiva proprietà quiri taria, sottentrò il concetto più largo del dominium ex iure qui ritium; così al nexum, forma primitiva dell'obbligazione quiritaria, sottentrò il concetto più esteso dell'obligatio propria civium roma norum, al vincolo materiale, che stringeva il debitore al creditore sottentrò il vincolo giuridico (vinculum iuris); ma intanto i voca boli di obligatio, di solutio, di liberatio e simili rimasero ancor sempre a ricordare la rozzezza dell'antico concetto, che scorgeva nell' obbligazione un vincolo pressochè materiale, e nel pagamento ravvisava lo scioglimento di questo vincolo (solutio ). Così pure al modo stesso, che col sostituirsi al mancipium un concetto più largo del dominium ex iure quiritium, si vennero accogliendo nuovi modi di acquistare e trasmettere questo dominio; cosi, allorchè al concetto del nexum sottentrò quello dell'obligatio, si vennero accogliendo nel ius proprium civium romanorum nuovi modi di obbligarsi. Il nexum, mentre costituiva ed esprimeva efficacemente un vincolo materiale e giuridico ad un tempo, aveva eziandio questo carattere speciale, che esso teneva in certo modo del reale e del verbale, in quanto che componevasidi dueparti, cioè: dell'atto per aes et libram, mediante cui avveravasi il trapasso dal mio al tuo e si operava la consegna immediata della cosa (tuum de meo fit ): e della nuncupatio, mediante cui fra creditore e debitore si conveniva la condanna ed il pagamento. Queste due parti, collo scomporsi del nexum vennero in certo modo ad acquistare libertà di movimento, e si operò la distinzione fra l'obligatio quae re contrahitur, e quella che con trahitur verbis, a cui venne più tardi ad aggiungersi eziandio l'obligatio quae contrahitur litteris, ossia l'expensilatio. Per tal modo alla sintesi potente del nexum, che era il modo primitivo di obbligarsi ex iure quiritium, sottentrarono varii modi di obbli garsi, che costituirono un ius proprium civium romanorum, quali sono la mutui datio, la sponsio o stipulatio, e la acceptilatio: ciascuno dei quali viene ad essere il germe di quei varii contratti formali, che si vengono poi svolgendo nel diritto civile romano, sotto il nome di contratti reali, verbali e letterali. 377. È evidente anzitutto l'analogia col nexum della mutui datio. Questa infatti continua a produrre un'obligatio stricti iuris; si ap plica dapprima alla credita pecunia, e poi si estende a tutte le cose quae numero, pondere ac mensura constant: e la sua effi 486 cacia obbligatoria consiste nella numeratio pecuniae, oppure con segna della cosa (datio rei ). Non può poi esservi dubbio, che il mutuo fu il modello, sopra cui si foggiarono poi gli altri contratti reali del comodato, del deposito, del pegno (1). Tuttavia il modo di obbligarsi, che prende un più largo sviluppo collo scomparire del nexum, è sopratutto la sponsio o stipulatio. Questa, sotto un certo aspetto, corrisponde a quella nuncupatio, che già preesisteva nel nexum, salvo che essa, liberata di quella forma rigida della damnatio, che era propria del nexum, venne a trasfor marsi in una semplice sponsio o stipulatio, in cui l'obbligazione viene ad essere assunta per mezzo di una interrogazione e di una risposta, congrue e solenni, le quali, per la propria elasticità e pieghevolezza, possono essere veste acconcia per esprimere la varietà infinita delle obbligazioni, a cui può sottoporsi il cittadino romano. Qualunque possa essere stata l'origine della stipulatio, è sopratutto nello svol gimento di essa, che si palesa il genio giuridico dei giureconsulti romani, i quali non credettero indegno del loro ufficio l'attendere a concretare le formole, con cui doveva essere concepita la stipula zione nei varii negozii giuridici (2 ). Anche la stipulatio divenne (1) Per ciò che si riferisce alla mutui datio, è nota la censura, che di regola suol farsi alla etimologia di mutuum data dai giureconsulti, secondo cui questo vocabolo deriverebbe da « quod de meo tuum fit ». Per conto mio, non come etimologo, ma come giurista, ritengo invece assai probabile questa etimologia, tenuto conto di ciò, che nelle formole primitive occorrono ad ogni istante le parole di meum e di tuum, e che l'essenza del mutuum consiste veramente nel far sì, che un oggetto ex meo tuum fit. Queste etimologie, che direi ragionate, diventano tanto più probabili, quando si ri tenga, che il diritto romano fin dai primi tempi fu il frutto di una vera elaborazione, la quale può benissimo avere adattata la parola al concetto, che intendeva di signi ficare. Lo stesso direi delle etimologie di testamentum da mentis testatio, di manci pium da manucaptum, e di altre analoghe; sebbene ve ne siano di molte, le quali, per essere composte post factum, sono evidentemente foggiate per far dire alla parola cid, che è nella mente del giureconsulto nell'epoca, in cui egli analizza il significato della parola. Intanto il fatto stesso, che i giureconsulti cercano sempre di dare alla parola un senso, che corrisponda alla cosa significata, dimostra, che essi dovevano procedere in tal guisa, allorchè il comparire di qualche nuovo negozio li costringeva a foggiare qualche nuovo vocabolo. In cid abbiamo anche una delle ragioni, per cui il linguaggio giuridico di Roma potè diventare pressochè universale, come le sue leggi. (2 ) Sono molte le opinioni intorno all'origine della sponsio o stipulatio nel di ritto romano. Alcuni la ritengono come la parte verbale del nexum, allorchè andò in disuso l'atto per aes et libram nel contrarre le obbligazioni; altri, argomentando dal vocabolo sponsio, la ritengono come una specie di promessa giurata, che facevasi davanti all'antichissima ara di Ercole; altri infine la ritengono di origine greca, donde sarebbe passata in Sicilia e poi nel Lazio. Tale sarebbe, ad es., l'opinione 487 così un modo tipico di obbligarsi; ma il suo carattere non è più artificioso, come quello dell'atto per aes et libram, nè così rigido come quello della damnatio, propria del nexum, ma sembra essere desunto dalla natura stessa delle cose. La parola infatti è riguardata come il vero mezzo di obbligarsi, e ogni negozio, dopo essere stato lungamente discusso, viene colla stipulatio ad essere conchiuso, in guisa da escludere qualsiasi dubbiezza sulla volontà dei contraenti. Tocca pertanto a colui, che stipula un beneficio a suo favore, di interrogare il promettente: « centum dare spondes? », e tocca a colui che promette di rispondergli congruamente: « spondeo » per modo che non possa esservi dubbio circa l'incontrarsi delle due volontà (1 ). Viene poscia nel costume una dextrarum iunctio, poichè, fra le genti primitive, la destra è l'emblema della fede, in base a cui si conclude il negozio. Forse in antico potè eziandio aggiungersi la solennità del giuramento, come lo indicherebbe la significazione in parte religiosa, del vocabolo di sponsio; ma questa, quando è accolta nel diritto civile romano, sembra già aver perduto questo carattere primitivo. Anche qui pertanto vi ha una forma tipica di obbligazione, ma essa non è più quella del nexum, propria del ius quiritium, e modellata probabilmente dal ius pontificium, nell'intento di serbare le tradizioni del passato; bensì è già quella del ius proprium civium romanorum, come lo dimostra il fatto, che anche quando i romani consentirono la stipulatio ai peregrini, riservarono sempre per sè la espressione primitiva: « spondes? spon deo », la quale sembra ancora richiamare quel carattere religioso, che doveva accompagnare simili stipulazioni nel periodo gentilizio. Questo è certo ad ogni modo, che la stipulatio ha vantaggi in del Leist, Graeco-ital. Rechtsgeschichte, pag. 455-470, a cui si associa il MUIRHEAD, op. cit., pag. 228. Per me trovo assai probabile, che anche in Grecia potesse esi stere un modo di obbligarsi così naturale e semplice, come è quello rappresentato dalla stipulatio, al quale trovasi pure qualche cosa di correlativo, anche fra i popoli germanici (SCHUPPER, L'allodio, pag. 47); ma non posso in verità persuadermi, che i Romani dovessero apprenderlo dalla Grecia, dal momento, che senz'alcun dubbio già lo conoscevano nei rapporti fra le varie genti. Essa quindi deve essere ritenuta come una di quelle istituzioni, che vivevano nelle costumanze, e che solo più tardi riuscirono ad entrare nella cerchia rigida del ius quiritium, il che probabilmente dovette accadere, quando cominciò ad andare in disuso il nexum. (1) Questo carattere speciale della stipulatio, per cui essa costituisce il modo più semplice ed acconcio per conchiudere le trattative di un negozio, in quanto che l'in terrogante viene ad essere colui che stipula, e il rispondente colui che promette, fu già acutamente notato dal SUMNER MAINE, L'ancien droit, pag. 311. 488 contrastati sul nexum. Essa è duttile, pieghevole, come la parola umana, e può cosi accomodarsi a qualsiasi uso; è un materiale, che si adatta ad ogni specie di costruzione; è il modo più spiccio e più logico per conchiudere qualsiasi trattativa; può servire per un'obbligazione principale ed anche per un'obbligazione accessoria; sebbene unilaterale per propria natura, si può, raddoppiandola, farla servire per dare origine ad una convenzione bilaterale. Stante la propria esattezza e precisione, la stipulatio è sopratutto atta ad esprimere i negozii stricti iuris. Ma essa, coll'aggiunta di una clau sola semplicissima, che è quella ex fide bona, pud anche adattarsi ai negozii di buona fede. Si comprende pertanto come, in base alla medesima, i giureconsulti romani siano riusciti a svolgere in gran parte la teoria dei contratti, in cui la giurisprudenza romana spiego una duttilità e pieghevolezza, tanto più mirabili, in quanto che non scompagnansi giammai dall'esattezza e dalla precisione. 378. Sembra invece essere alquanto più tardi, che vennero ad essere accolti nella compagine del diritto civile di Roma, quegli altri modi di obbligarsi, che diedero poi origine ai contratti letterali. Anche a questo riguardo non può esservi dubbio, che il diritto civile di Roma non creò di pianta le proprie istituzioni; ma si contento, per dir cosi, di accogliere sotto la sua tutela e di modellare, in base alla propria logica giuridica, le istituzioni, che già esistevano nel l'uso e nel costume. Così dovette accadere senz'alcun dubbio dell'expensilatio, la quale, ancorchè entrata tardi nel diritto civile di Roma, ci richiama in certo modo la figura del primitivo capo di famiglia, il quale dir: gendo una vasta azienda e avendo sotto la sua dipendenza un nu mero grande di persone, deve tenere il conto quotidiano del dare e dell'avere. Ciò che egli scrive nel proprio libro doveva certo far fede dirimpetto ai suoi dipendenti. Questo sistema pero, che era il più ovvio nelle consuetudini patriarcali, presentava invece dei pe ricoli nel diritto, come quello, che fondavasi esclusivamente sulla buona fede. Fu questo il motivo, per cui esso penetrò più tardi nel diritto civile di Roma, il quale cerco poi di ovviare al pericolo inerente al medesimo, aggiungendo al nomen transcripticium una ricognizione scritta del debito, che doveva restare a mani del cre ditore (cautio, chirographum ); al qual proposito viene ad essere probabile, che l'istituzione originariamente italica della expensilatio siasi imparentata con un'istituzione, che il vocabolo farebbe credere - 439 di origine probabilmente g: eca, donde la cautio chirographaria, che pervenne fino a noi (1 ). 379. Queste tre categorie di contratti, che sogliono talvolta es sere indicati col vocabolo di formali, dovettero certamente essere i primi ad entrare nella compagine del diritto civile romano. Esso invece, che stentava a comprendere il consenso senza un fatto esteriore, che servisse a rivelarlo, sembra che solo più tardi e pro babilmente già sotto l'influenza del ius honorarium, sia pervenuto ad adottare e ad attribuire efficacia giuridica all'emptio venditio, e agli altri contratti, che a somiglianza di essa si perfezionano col solo consenso. Ormai non può esservi dubbio, che anche l'emptio venditio già esisteva nel primitivo diritto, poichè la legislazione decemvirale disponeva, che la medesima, per essere perfetta, doveva essere accompagnata dalla tradizione della cosa e dal pagamento del prezzo. Cosi stando le cose, è però evidente, che l'emptio venditio come mezzo per trasferire il dominio, non poteva valere da sola, ma doveva essere accompagnata dalla mancipatio o dalla traditio. Di qui ne venne, che essa, come contratto stante per sè, comparve solo più tardi nel diritto civile di Roma, il quale non ebbe a collocarla nella categoria dei negozii, che valgono a trasferire il dominio, ma bensì in quella dei negozii, che obbligano a dare, facere, praestare; il che deve pur dirsi di tutti gli altri contratti consensuali, cioè della locatio conductio, del mandatum e della societas, che furono fog giati sul modello della compra e vendita (2 ). 380. Intanto si comprende, che la giurisprudenza romana, la quale, nel suo primo consolidarsi, aveva prese le mosse da una unica forma di obbligazione quiritaria, che era quella assunta col nexum, allorchè pervenne a così grande ricchezza di sviluppo, abbia cominciato a sentire il bisogno di richiamare a certe classi i genera obligationum, quae ex contractu nascuntur; ma intanto essa si trovò già di fronte ad una suppellettile così copiosa, che per potervi riuscire ac canto ai contratti fu costretta a creare la figura dei quasi- con (1) Cfr. per ciò che si riferisce all'expensilatio ed all'abitudine del capo di fami glia romano di tenere il Codex accepti et expensi, vedi il PADELLETTI, Storia del diritto romano, cap. XXI, pag. 249 e segg. Quanto all'acceptilatio vedi SCHUPFER, nella « Enciclopedia giuridica italiana », vol. I, pag. 175 a 180, vº acceptilatio. (2) Quanto alle origini di uno di questi contratti consensuali, cioè della societas, vedi l'articolo del Ferrini nell'a Archivio giuridico » diretto dal Serafini, anno 1887. 490 tratti; accanto ai contratti nominati dovette porre quelli non no minati; accanto ai veri e proprii contratti, i patti, che non pro ducono azione, ma una semplice eccezione; e da ultimo accanto ai contratti, che avevano avuto origine nel diritto civile, quelli che avevano avuto origine nel diritto delle genti. Anche qui pertanto è facile lo scorgere come, prima nel ius quiritium e poscia nel ius civile, presentisi costantemente una parte già formata e consoli data, e un'altra, che si viene foggiando e consolidando sựl modello somministrato dalle formazioni anteriori, senza che mai si abbandoni il concetto fondamentale della primitiva obbligazione, da cui il ius quiritium aveva preso le mosse. Ciò tanto è vero, che, anche nel conchiudersi dello svolgimento storico del diritto delle obbligazioni, si riscontra ancora quel con cetto, a cui si informava l'istituzione primitiva del nexum, con cetto, che viene ad essere enunziato da Paolo con dire « obligationum « substantia non in eo consistit, ut aliquod corpus, nostrum, aut « servitutem, nostram faciat, sed ut alium nobis obstringat ad « dandum aliquid, vel faciendum, vel praestandum » (1). Si viene cosi a mantenere una separazione fra la teoria delle obbligazioni e quella del trasferimento della proprietà, non meno radicale e pro fonda, di quella, che negli inizii del ius quiritium esisteva fra il concetto del facere nexum e quello del facere mancipium. È questo il motivo, per cui la genesi dei modi, coi quali nel diritto ro mano si acquistano e si trasferiscono la proprietà e i diritti inchiusi nella medesima, deve essere cercata in un altro istituto del diritto primitivo di Roma, che è quello della mancipatio. $ 3. – La mancipatio e la storia primitiva dei modidi acquistare e di trasferire ildominio quiritario. 381. Mentre il facere nexum costitui senz'alcun dubbio la forma primitiva dell'obbligazione quiritaria, il facere mancipium invece, che prese più tardi il nome di mancipatio, deve considerarsi come la forma primordiale, che ebbe ad assumere l'acquisto ed il trasferi mento della proprietà ex iure quiritium (2). Tanto la nexi datio, (1) Paolo, Leg. 3, Dig. (44, 7). (2) Anche sulla mancipatio abbiamo una ricchissima letteratura. Tra i recenti mi limiterò a ricordare il Leist, Mancipatio und Eigenthums Tradition, Iena, 1865; il MuirHead, Hist. Introd., sect. 30, pag. 131 a 149; il Voigt, XIl Tafeln, II, SS 84 491 quanto la mancipatio, debbono poi essere considerate come due ap plicazioni dell'atto quiritario per eccellenza, che era l'atto per aes et libram, come lo dimostra il fatto, che i più antichi giureconsulti comprendono l'una e l'altra nella categoria di quegli atti, che si compiono per aes et libram (1). Esse vengono soltanto a differire fra di loro nella nuncupatio, ossia in quelle parole solenni, che dovevano accompagnare l'atto per aes et libram, e che potevano attribuire al medesimo una significazione diversa. Mentre la nun cupatio nel nexum doveva consistere in una specie di condanna convenzionale del debitore al pagamento della somma da lui tolta in imprestito; la nuncupatio invece nella mancipatio, quale ebbe ad esserci conservata da Gaio, consiste nella affermazione solenne del mancipio accipiens, che la cosa gli appartiene ex iure qui ritium, per averla egli acquistata con tutte le solennità richieste dal diritto quiritario (hunc ego hominem ex iure quiritium meum esse aio, isque mihi emptus est hoc aere aeneaque libra ). Gaio poi non ci dice, se a questa affermazione solenne del mancipio ac cipiens corrispondesse una congrua risposta del mancipio dans; ma ad ogni modo egli è certo, che questi, essendo presente all'atto, e ricevendo quell'aes rude, con cui si percuoteva la bilancia, a titolo di prezzo, riconosceva con cið la verità dell'affermazione dell'acqui rente (2). È poi anche degno di nota nella mancipatio, che sebbene a 88; il Longo, La mancipatio, Firenze, 1887. Sembra essere opinione comune a questi autori, che nell'antico linguaggio in luogo di mancipatio si dicesse mancipium; donde la conseguenza, che la espressione facere mancipium sarebbe pressochè un sinonimo di facere mancipationem. Noi abbiamo veduto invece, che il vocabolo man cipium ebbe, fra le altre significazioni, anche quella di indicare il primitivo patri. monio del quirite; quello cioè, che doveva da lui essere consegnato nel censo. Quindi per noi le antiche espressioni di facere mancipium, mancipio dare, mancipio acci pere dovettero significare il ricevere una cosa nel proprio mancipium, o il trasferirla nel mancipium altrui. Quanto ai vocaboli di mancipare e di mancipatio, essi si for marono, allorchè l'uso frequente di queste espressioni costrinse a foggiare una parola, che esprimesse più brevemente il concetto. Di qui la conseguenza, che il vocabolo di mancipatio non deriva direttamente da manu capere, ma piuttosto da mancipium facere, mancipio dare e simili. Cfr. BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, Roma, 1888, pag. 90 e 91. (1) « Nexum Manilius scribit omne quod geritur per aes et libram, in quo sine mancipia ». VARRO, De ling. lat., VII, 105. Vedi gli altri passi citati nel § 1° di questo capitolo, nº 369, pag. 471, nota 1. (2 ) Gaio descrive la mancipatio e le formalità, da cui era accompagnata, nei Comm., I, SS 119 a 123. 492 la medesima in effetto servisse per il trasferimento della proprietà quiritaria, aveva perd eziandio tutti i caratteri di un acquisto ori ginario, come lo dimostra il fatto, che era l'acquirente, il quale doveva per il primo affermare la sua proprietà sulla cosa ed affer rare materialmente la cosa stessa; donde anche la conseguenza, che la mancipatio richiedeva la presenza delle cose mobili, e per gli immobili era stata la sola necessità, che aveva condotto all'uso, accen nato da Gaio, secondo cui « immobilia in absentia solent manci. pari » (1). 382. La circostanza intanto, che la mancipatio ebbe dapprima ad essere indicata coll'espressione di facere mancipium, costituisce un forte indizio, che la mancipatio sia comparsa nel diritto quiri tario, in quell'epoca stessa, in cui si formd il concetto del manci pium, e che essa sia stata introdotta quale mezzo peculiare per la formazione e per il trasferimento del mancipium, in quanto il me desimo costituiva il primo nucleo della proprietà quiritaria, quella parte cioè del patrimonio, che doveva essere consegnata e valutata nel censo. Fu l'importanza economica e politica, dal censo attribuita al mancipium, che rese necessario un atto solenne per la trasmis sione delle res mancipii contenute nel medesimo. Quindi l'origine della mancipatio deve rimontare probabilmente alla costituzione serviana, e l'introduzione di essa avere una stretta attinenza col concetto del mancipium; il che è comprovato dal fatto, che anche i classici giureconsulti, memori dell'origine di essa, continuarono sempre a considerare la mancipatio, come un modo di alienazione del tutto proprio delle res mancipii, e sostennero perfino, che queste fossero cosi chiamate, perchè erano suscettive della mancipatio (2). (1) Gaio, Comm., I, 119. Sono da vedersi, quanto alla necessità di adprehendere manu la cosa acquistata, se mobile, i passi citati dal Voigt, op. cit., II, pag. 133, nota 10. Intanto nella necessità di questa materiale apprensione della cosa parmidi scorgere un'altra prova, che il concetto del primitivo mancipium implicava in certo modo la detenzione materiale e la proprietà delle cose, che ne formavano oggetto, al modo stesso che il nexum indicava ad un tempo il vincolo fisico e il vincolo giuri dico, a cui era sottoposto il debitore. Ciò a parer mio rende probabile l'etimologia di mancipium da manucaptum, come lo provano i passi citati dallo stesso Voigt, op. e loc. cit., pag. 134, nota 12. (2 ) Cfr., quanto alle origini della mancipatio, il MUIRHEAD, op. cit., pag. Sono poi Gaio, I, 120 e Ulpiano, Fragm., XIX, 3, i quali attestano che la manci patio era esclusivamente propria delle res mancipii. « Mancipatio, scrive quest'ultimo, propria species alienationis est rerum mancipü ». Ciò però non impedì, che, trattan 57 e segg. 493 - Siccome però fin da quest'epoca, accanto alle cose, che costituivano il nucleo del mancipium, vi erano quelle, che non erano comprese nel medesimo, e a cui perciò non potevasi applicare il facere man cipium, così ne venne che accanto alla mancipatio dovette già essere in vigore la semplice traditio, la quale, accompagnata dal pagamento del prezzo, poté servire per il trasferimento delle cose, che non erano comprese nel mancipium. Mentre quindi la man cipatio veniva ad essere una costruzione giuridica, la cui forma zione fu determinata dal formarsi del mancipium, la traditio in vece era il mezzo naturale ed ovvio per il trasferimento di quelle cose, che erano nec mancipii, e che perciò in questo primo periodo non formavano oggetto di vera proprietà ex iure quiritium (1). 383. Questo stato di cose venne poi a subire una modificazione profonda, sotto l'influenza della legislazione decemvirale. Infatti è colla medesima, che al concetto del mancipium, il quale restringeva di troppo il novero delle cose, che potevano essere oggetto di pro prietà quiritaria, cominciò già a sovrapporsi un concetto più esteso del dominium ex iure quiritium. Da questo momento infatti le res mancipii continuano ancor sempre a costituire il nucleo più importante delle cose, che possono essere oggetto di proprietà qui ritaria, ma questa già può estendersi ad altre cose, che non erano comprese nel primitivo mancipium. Di qui ne derivo, che mentre le XII Tavole serbarono la mancipatio, quale mezzo esclusivamente proprio per la trasmissione delle res mancipii, esse perd introdus sero o confermarono due altri mezzi, per l'acquisto e la trasmis sione del dominium ex iure quiritium, di cui uno è l'in iure cessio, la quale, essendo compiuta davanti almagistrato, potè anche dosi di cose, le quali si ritenevano di grande prezzo e perciò si trasmettevano in fami glia, quali erano ad esempio le pietre preziose, si potesse nella consuetudine appli carvi anche la mancipatio. V. quanto si è detto a pag. 441, nota 1. (1) Ciò è dimostrato da ULP., Fragm., XIX, 3, e 7; il quale, dopo aver premesso che la mancipatio era propria delle res mancipii, soggiunge poi: « traditio aeque propria est alienatio rerum nec mancipii »; nei quali passi è evidente, che la man cipatio e la traditio si contrappongono fra di loro, come il mancipium ed il nec mancipium. Quello cade sotto il diritto civile, e perciò deve essere alienato colle forme del diritto civile, il che pure si accenna da Festo, tº censui, allorchè scrive: « censui censendo agri proprie appellantur, qui et emi et venire iure civili pos sunt » (Bruns, Fontes, pag. 334). Che il contrapposto fra mancipatio e traditio sia stato poi la prima origine della distinzione fra i modi civili e naturali di acqui stare e di trasmettere il dominio appare ad evidenza da Gaio, Comm., II, 65. 494 essere estesa alle res mancipii, e l'altro è l'usus auctoritas, più tardi denominata usucapio, mediante cui l'uso ed il possesso di una cosa, durato per un certo tempo, potė attribuire la proprietà quiritaria della medesima. Colla legislazione decemvirale pertanto vengono ad essere tre i principali mezzi, con cui può essere acqui stata e trasmessa la proprietà quiritaria, e che costituiscono perciò un diritto esclusivamente proprio dei cittadini romani. 384. Di questi mezzi il più importante è sempre la mancipatio, la quale è il vero modo ex iure quiritium per l'acquisto ed il tras ferimento del dominio, ma la medesima, essendo nata col mancipium, continua sempre ad essere un mezzo di alienazione proprio delle res mancipii. Vero è, che in questi ultimi tempi si è dubitato, se la mancipatio non siasi più tardi applicata anche a quelle res nec mancipii, che potevano essere oggetto di proprietà quiritaria: ma questa opinione non sembra potersi accogliere, di fronte alle afferma zioni precise di Gaio e di Ulpiano, i quali parlano sempre della manci. patio, come propria delle res mancipii (1). Ciò tuttavia non impedi, che colla legislazione decemvirale la mancipatio abbia acquistata una elasticità e pieghevolezza, che prima non aveva, il che spiega come essa sia durata così lungo tempo, quale mezzo di trasferimento della proprietà, ed abbia in questa parte esercitata una influenza analoga a quella esercitata dalla stipulatio in materia di obbligazioni. Sembra infatti, che il facere mancipium, negli inizii, fosse uno di quei ne gozii di strettissimo diritto, che producevano l'immediata traslazione della proprietà, e non ammettevano perciò nè termine, nè condi zioni. Le XII Tavole invece introdussero il principio: « qui manci pium faciet, uti lingua nuncupassit, ita ius esto », e diedero così libertà ai contraenti di aggiungere al primitivo mancipium, sotto la forma di una nuncupatio, che faceva parte integrante del negozio, tutte le clausole e condizioni, che potessero convenire ai contraenti. Fu in questo modo, che l'antica mancipatio potè accomodarsi alla varietà dei casi e delle esigenze, e che si vennero così formolando, per opera degli stessi pontefici e giureconsulti, quelle clausole diverse, che sogliono essere indicate col vocabolo di leges mancipii. Colle medesime infatti il mancipio dans, pur alienando la cosa, potè riservarsi l'usufrutto della medesima, potè alienarla con patto di (1) GA10, I, 120, Ulp., Fragm., XIX, 3. Vedi tuttavia ciò che in proposito si disse a pag. 441, nota 1. 495 - riscatto, poté restringere la propria garanzia per l'evizione, ed anche limitare l'uso della cosa venduta per parte dell'acquirente. Era pero naturale, che, per aggiungere alla mancipatio tutte queste clausole, più non poteva bastare la semplice affermazione del man cipio accipiens, che la cosa era sua ex iure quiritium; maoccor reva eziandio, che il mancipio dans, con una congrua risposta, apponesse quelle clausole e condizioni, che potessero essere del caso, le quali, entrando a far parte integrante della stessa mancipatio, dovevano fra i contraenti avere la forza di vere leggi (1). 385. Sopratutto, fra queste leges mancipii, viene ad essere impor tantissima quella, che suol essere indicata col vocabolo di lex fidu ciae, od anche semplicemente con quello di fiducia (2). Questa pro babilmente doveva essere nata nelle consuetudini della plebe, la quale, non possedendo le vere forme giuridiche, doveva di necessità nelle proprie convenzioni lasciare una larga parte alla scambievole fiducia (3 ). Anche questa fiducia colla legislazione decemvirale pe netrò nel ius quiritium, dove, combinandosi col rigoroso atto della mancipatio, diede origine a quella singolare istituzione della man cipatio cum fiducia, che doveva poi acquistare un così largo (1) Si può veder raccolta nel Voigt, op. cit., II, $ 85, pag. 146 a 166, una varietà grandissima di queste clausole o leges mancipii, raccolte da passi di antichi autori. Nel Bruns parimenti, Fontes, pag. 251 a 256, sono riportati parecchi moduli di mancipationes, che pervennero fino a noi. (2) Quanto alla mancipatio cum fiducia è a vedersi il Voigt, $ 86, pag. 166 a 187, ove sono raccolte le formole, che vi si riferiscono. È poi degno di nota quel modulo di mancipatio fiduciae causa, che si fa risalire al primo o secondo secolo dell' êra cristiana, riportato dal Bruns, Fontes, pag. 251. (3) Le ragioni, per cui le origini della fiducia devono cercarsi nelle costumanze della plebe, furono già esposte al n ° 149, pag. 184. Di recente un giovine e dotto autore, l’Ascoli, ebbe in proposito a scrivere, che la fiducia, come forma di pegno, non dovette essere il prodotto spontaneo delle pratiche necessità del commercio, ma una creazione artificiale, e che l'ipoteca nel suo concetto astratto è più semplice della fiducia (Le origini dell'ipoteca e l'interdetto Salviano, Livorno, 1887, pag. 1). Io credo, che se l'autore si riporti col pensiero ad una plebe ragunaticcia, in parte immigrata e priva ancora di una vera posizione di diritto, di fronte ai patrizii, fon datori della città, comprenderà facilmente come i membri di essa, per trovar cre dito presso coloro, che già vi si trovavano stabiliti, non avessero mezzo più acconcio, che quello di alienare a questi cum fiducia le cose, che loro dovevano servire di pegno. L'ipoteca invece avrebbe già supposto una comunanza di diritto, che ancora non esisteva, e un'analisi del diritto di proprietà, che mal si poteva conciliare colle condizioni di un popolo primitivo. 496 svolgimento nel diritto civile di Roma. Con essa, accanto all'ele mento strettamente giuridico, cominciò a penetrare anche la consi derazione della buona fede, in quanto che non si bado più in modo esclusivo alla osservanza delle forme esteriori del negozio giuridico, ma cominciò anche a tenersi qualche conto dell' intenzione vera ed effettiva dei contraenti. Che anzi questo elemento fiduciario fu introdotto nella formola stessa della mancipatio, cosicchè il man cipio accipiens non affermò più, la sua proprietà assoluta sulla cosa a lui alienata, ma disse invece: « hunc ego hominem fidei fi duciae causa ex iure quiritium meum esse aio »; colla qual formola già si lasciava intendere, che, sebbene egli avesse acquistata la proprietà quiritaria, questa perd era stata affidata al suo onore per l'adempimento di qualche incarico di fiducia (1). Questa fiducia poi, secondo Gaio, poteva farsi o con un amico o con un creditore. Essa accadeva, ad esempio, con un amico nella manci patio familiae cum fiducia, che fu una delle forme più antiche di testamento, mediante cui si mancipava il proprio patrimonio ad un amico (familiae emptor), coll'incarico di disporne nella guisa statagli indicata per il tempo, in cui altri avesse cessato di vivere. La fiducia seguiva invece con un creditore, allorchè a lui si mancipava la cosa, che si voleva lasciargli a titolo di pegno (2 ). È probabile che dap prima questa clausola fiduciaria non avesse efficacia giuridica, ma col tempo essa venne acquistandola. Per tal modo la mancipatio cum fiducia venne cambiandosi in un espediente giuridico, mediante cui la mancipatio non serviva più unicamente al trasferimento della proprietà; ma serviva eziandio per costituire comodati, donazioni mortis causa, doti, e riceveva cosi applicazioni diverse, anche nei rapporti famigliari, nei quali essa si svolse, come vedremo a suo tempo, sotto la forma di coemptio fiduciaria (3). 386. Fu questo il magistero, mediante cui la mancipatio fu dal diritto civile di Roma adattata alle varie contingenze di fatto; ma (1) Cfr. il MUIRHEAD, op. cit., pag. 140 e seg. e il Voigt, op. cit., II, pag. 172. (2) È notevole in proposito il passo di ISIDORO, Orig., 5, 22, 23, 24, riportato dal Bruns, Fontes, pag. 406, in cui egli istituisce, sulle vestigia di qualche antico au tore, una specie di raffronto fra il pignus, la fiducia e l'hypotheca. Della fiducia egli scrive: « fiducia est, cum res aliqua, sumendae mutuae pecuniae gratia, vel man cipatur vel in iure ceditur ». (3) Quanto alle svariate applicazioni della fiducia V. Ascoli, op. cit., pag. 3 e seg. 497 siccome la sua applicazione era pur sempre circoscritta alle res mancipii, cosi, accanto alla medesima, si introdussero o si confer marono dalla legislazione decemvirale due altri modi di acquistare e di trasmettere la proprietà, di indole e di origine compiutamente diversa, ancorchè entrambi costituiscano un ius proprium civium romanorum. Essi sono l'in iure cessio e l'usucapio. È ovvio scorgere l'opposizione, che esiste fra questi due mezzi di acquisto della proprietà ' quiritaria. Mentre l'in iure cessio viene talvolta nelle fonti ad essere indicata col vocabolo di legis actio, perchè essa, al pari delle legis actiones, si compie in iure, cioè da vanti al magistrato, ed è in certo modo una rei vindicatio non con traddetta. (1); l'usucapio invece nelle dodici tavole viene ad essere indicata col vocabolo di usus auctoritas. Mentre la prima consiste in una finta rivendicazione, fatta dal compratore o dal cessionario, non contrastata dal venditore o dal cedente della cosa, che forma oggetto di negozio, la quale si compie davanti almagistrato, e a cui sussegue l'aggiudicazione del medesimo; la seconda invece fondasi esclusivamente sull'autorità dell'uso, cosicchè una cosa posseduta per due anni, se trattisi di un fondo, e per un anno, se trattisi di qualsiasi altra cosa, finirà per appartenere ex iure quiritium a colui che ebbe a possederla. Mentre nella in iure cessio noi abbiamo un modo di procedere, eminentemente legale e giuridico, in quanto che essa compiesi coll'intervento del magistrato;, nella usucapio in vece abbiamo un fatto, che trasformasi in diritto, ossia l'uso od il possesso, che trasformansi nella proprietà ex iure quiritium, quando abbiano durato per un certo spazio di tempo. Queste considerazioni mi inducono a ritenere, che, mentre l'in iure cessio è un modo di acquisto, ricavato dal diritto proprio delle genti patrizie, presso le quali tutto già facevasi con formalità so lenni e coll'intervento del magistrato, l'usus auctoritas invece do vette avere origine presso la plebe, la quale, avendo dapprima più una posizione di fatto, che una posizione di diritto, dovette cono scere più l’uso ed il possesso, che non la proprietà nella significa zione, che vi attribuivano i patrizii. L'accoglimento pertanto di questi due modi di acquistare e di trasmettere la proprietà quiri di essa (1) È lo stesso Gaio, Comm., II, 24, che, dopo aver descritta l'in iure cessio, dice idque legis actio vocatur ». A questa descrizione di Gaio poi corrisponde quella brevissima di Ulp., Fragm., XIX, 10 « In iure cedit dominus; vindicat is, cui ceditur; addicit Praetor ». G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 32 498 taria fu in certo modo il frutto di una specie di compromesso fra i due ordini; poichè da una parte si riconosceva la cessio in iure davanti al magistrato, il quale era ricavato dall'ordine patrizio, e dall'altra il patriziato cominciava a riconoscere qualche efficacia giu ridica a quell'usus auctoritas, sulla quale 'soltanto fondavansi i di ritti della plebe (1). (1) Qui cade in acconcio di arrestarci alquanto alla significazione da attribuirsi alla espressione « usus auctoritas », che occorre nelle XII Tavole. La legge relativa dal DIRKSEN collocata al nº 3 della Tavola VI, e fu riportata colle parole stesse di CICERONE, Top., 4: « usus auctoritas fundi biennium est; ceterarum rerum omnium annuus est usus ». Essa invece dal Voigt, op. cit., I, pag. 110, sarebbe collocata al n. 6, della Tavola V, e sarebbe così concepita: « usus, auctoritas biennium, cetera rum rerum annuus esto ». Di qui molte discussioni fra gli studiosi relativamente ai rapporti fra i due termini usus ed auctoritas, al qual proposito l'opinione pre valente sembra essere, che il vocabolo di usus si riferisca all'usucapione e quello di auctoritas alla garanzia del titolo, che incombe al venditore in una mancipazione; cosicchè la legge verrebbe a dire, che tanto l'usus quanto l'auctoritas sarebbero li mitati a due o ad un anno, secondo le cose di cui si tratta. Tale opinione sarebbe stata prima enunciata dal SALMASIO, De usuris, cap. 8, pag. 215; Lugd., Bat. 1638, e troverebbe seguito ancora oggidì, presso il Voigt, il quale avrebbe perciò separato l'usus dall'auctoritas con una virgola. A mio avviso invece sembra alquanto fuor di luogo, che si venga a discorrere di garanzia dall'evizione colà, ove tutti gli antichi autori non ci parlano che dell'usucapione. Parmi poi evidente, che l'espressione effi cacissima di « usus auctoritas » non possa essere che il contrapposto dell'altra espres sione « iuris auctoritas », e che quindi la significazione naturale della medesima consista in dire, che l'uso varrà come titolo, e il possesso equivarrà a proprietà, allorchè essi siano durati un biennio pei fondi, e un anno per tutte le altre cose. Il solo vocabolo di usus, analogo a quello di possessio, non avrebbe potuto da solo indicare l'usucapione, e fu perciò, che dovette dirsi usus auctoritas, la quale espressione appunto occorre in Cic., Top., 4. Sia pure che lo stesso Co., pro Caec., 19, sembri separare le due cose, allorchè scrive: « lex usum et auctoritatem fundi iubet esse biennium »; ma è facile il vedere, che la dizione qui è già alterata dall'uso dell'infinito, e che le due parole indicano pur sempre una cosa sola, cioè l'autorità od il diritto sul fondo provenienti dall'uso. Ogni dubbio poi viene ad essere tolto dal passo di Boezio, in Cic., Top., loc. cit., nel quale trovansi appunto contrapposte l'usus auctoritas e la iuris auctoritas. Egli infatti, dopo aver definita l'usucapio, scrive: « Plurima « rum autem rerum usucapio annua est, ut si quis eis anno continuo fuerit usus, « id firma iuris auctoritate possideat, velut rem mobilem; fundi vero usucapio « biennii temporis spatio continetur. Ait Cicero: ut, quoniam ususauctoritas fundi « biennium est, sit etiam aedium. Hic igitur aedium usus auctoritatem biennio « fieri sentit » (Bruns, Fontes, pag. 400). Che se altrove la legge dice a adversus hostes aeterna auctoritas esto », gli è perchè ivi parlasi tanto della iuris, che del l'usus auctoritas, e quindi non occorreva specificare il concetto, ed anche perchè il vocabolo di auctoritas da solo significa la iuris auctoritas. In ogni caso sarebbe in 499 387. Dei due istituti tuttavia esercito certamente una maggiore influenza sullo svolgimento del diritto romano l'usucapio, che non l'in iure cessio. Di questa infatti dice Gaio, che la medesima, quanto alle res man cipii, non poteva competere colla mancipatio, poichè era naturale che quello, che poteva compiersi dagli stessi contraenti, coll'inter vento di amici, non si compiesse con difficoltà maggiori presso il magistrato (1). Di qui ne venne che, sebbene l'in iure cessio po tesse anche applicarsi alle res mancipii, essa invece fini per restrin gersi al trasferimento di quelle cose, che per essere nec mancipii non erano suscettive di mancipatio. Così, ad esempio, Gaio ci dice, che mediante l'in iure cessio si poteva fare la costituzione delle servitù urbane, le quali erano res nec mancipii, la cessione della eredità, che consideravasi come una cosa incorporale, come pure la costituzione dell'usufrutto. Quanto a quest'ultimo tuttavia, egli os serva, che esso poteva anche costituirsi mediante la mancipatio, al lorchè altri, mancipando la cosa, riservava per sè l'usufrutto della medesima, apponendovi una lex mancipii: mentre invece colui, che voleva conservare la proprietà, non avrebbe potuto staccarne l'usu frutto, che mediante la in iure cessio (2). L'usucapio invece deve essere considerata come una delle istitu zioni, che maggiormente influirono sullo svolgimento del diritto. Essa in certo modo fu il mezzo somministrato alla plebe per passare da una posizione di fatto ad una posizione di diritto, per cambiare cioè la semplice usus auctoritas nella iuris auctoritas. Fu quindi essa, che determinò la formazione della teoria del possesso, accanto a quella della proprietà, e che condusse la giurisprudenza a deter minare le condizioni, mediante cui il possesso può trasformarsi in proprietà. È poi degno di nota, quanto all'usucapio del diritto qui comprensibile, che Gato ed ULPIANO, i quali ebbero più volte ad accennare a questa disposizione delle XII Tavole, avessero sempre solo avuto occasione di parlare della durata dell'usucapio, e non mai della durata dell'obbligo di garanzia per parte del mancipante. Parmi quindi, che la ricostruzione più probabile sia la seguente: « usus auctoritas fundi biennium, ceterarum rerum annus esto »; la quale concorda anche di più colle regole grammaticali. (1) Scrive infatti Garo, Comm., II, 25, discorrendo della iure cessio per le res mancipii: « Plerumque tamen et fere semper mancipationibus utimur; quod enim ipsi per nos, praesentibus amicis, agere possumus, hoc non est necesse cum maiore difficultate apud Praetorem aut Praesidem provinciae agere ». (2) GAIO, II, 33; Ulp., Fragm., XIX, 11 e 12. 500 ritario, che essa, a differenza della prescrizione, che ebbe ad essere introdotta molto più tardi, non presentasi ancora come un mezzo di estinzione dei diritti, ma ha sopratutto il carattere di un mezzo di acquisto, come lo indica il vocabolo stesso di usucapio. Cid pure è confermato dal motivo, che si assegna come fondamento all'usucapio, il quale non consiste nell'intento di punire coloro, che trascurassero di esercitare il proprio diritto, ma bensi in quello di evitare l'in certezza dei dominii: « ne rerum dominia diutius in incerto essent ». 388. Le considerazioni premesse dimostrano, che l'usucapio fu effettivamente adottata dai decemviri per fare in modo che le pos sessioni della plebe potessero in un breve periodo di tempo acqui. stare anch' esse il carattere quiritario, cosicchè tutti i possessori di terre si cambiassero in breve in veri proprietarii ex iure quiritium. Quest'effetto era già stato ottenuto in grande col censo serviano, il quale aveva convertito di un tratto tutti i mancipia, proprii della plebe, in altrettante proprietà ex iure quiritium, facendoli consegnare nel censo; ed il medesimo processo venne ad essere reso continuativo colla disposizione relativa all'usus auctoritas, la quale in breve spazio di tempo attribuiva al sem plice possesso il carattere di un vero e proprio diritto. Ciò appare eziandio dalle applicazioni del tutto diverse di questa usus aucto ritas, la quale compare non solo qual mezzo per acquistare la pro prietà quiritaria delle cose mobili ed immobili, ma anche qual mezzo per far acquistare al marito la manus sulla propria moglie, e quale mezzo infine per far acquistare col possesso di un anno la proprietà quiritaria di un'eredità, come accade nell'usucapio pro herede (1 ). Così pure dapprima non si richiedono condizioni di sorta, perchè l'usucapio possa effettuarsi, ma basta il possesso di uno, op pure di due anni, ed è solo posteriormente, che i giurisprudenti fis (1) Il concetto qui accennato fu già più largamente svolto al nº 154, p. 190 e seg., ove ho dimostrato che l'attribuire carattere giuridico ai possessi della plebe nel ter. ritorio romano era il miglior mezzo per interessarla all'avvenire e alla grandezza della città. Cfr. il MUIRHEAD, op. cit., pag. 48, e l'Es sin, Histoire de l' usucapion nei « Mélanges d'histoire du droit », Paris, 1886, pag. 171 a 217. Dal momento poi, che l'usus auctoritas era per i decemviri un mezzo per cambiare una posizione di fatto in una posizione di diritto, si comprende come essi non abbiano avuto diffi coltà di applicarla all'acquisto della proprietà, all'acquisto della manus, ed anche all'acquisto dell'eredità (usucapio pro herede). 501 sano le condizioni, che debbono concorrere in tale possesso, perchè possa dar luogo all'usucapione (1). Tuttavia fin da principio la legge decemvirale già comincia ad escludere certe cose dall'usucapione, come le cose furtive, le res mancipii appartenenti alla donna, quando siano state vendute e consegnate senza il consenso del tutore (sine tutoris auctoritate) (2 ), mentre è solo più tardi, che la giurisprudenza venne a richiedere la buona fede nell'acquirente. Per tal modo un mezzo, che dapprima servi per mutare una posizione di fatto in una posizione di diritto, fini col tempo per convertirsi eziandio in un rimedio contro il difetto inerente al titolo di acquisto, proveniente o da irregolarità dell'atto di trasferimento o da incapacità dell'ac quirente (3 ). L'usucapione poi, per sua natura, può già applicarsi cosi alle res mancipii, che alle res nec mancipii, ma non pud tuttavia applicarsi al suolo provinciale, come quello, che non poteva essere oggetto di proprietà quiritaria (4 ). Tuttavia anche qui co mincia a svolgersi una istituzione del diritto delle genti, che è quella della prescrizione, la quale, salvo la durata maggiore, ha un carattere analogo a quello della usucapio nel diritto civile: come lo dimostra il fatto, che le due istituzioni finiscono col tempo per fondersi insieme, e dar cosi origine alla praescriptio longi temporis giustinianea (5 ). (1) Questo carattere dell'usucapio primitiva è già accennato dall'Esmein, op. cit., pag. 177, e può inferirsi dalla definizione di Ulpiano, Fragm., XIX, 8: « Usucapio « est dominii adeptio per continuationem possessionis anni, vel biennii »; nella quale non occorre ancora quel carattere della iusta possessio, che compare invece nelle altre definizioni, e fra le altre in quella di Boezio riportata dal Bruns, Fontes, pag. 400. Quanto ai rapporti fra il possesso, di cui qui si parla, che sarebbe il pos sesso ad usucapionem, ed il possesso ad interdicta, che costituisce un istituto, avente un proprio scopo, e distinto da quello della proprietà, vedi ciò che si disse più sopra al n. 357, pag. 452, nota 1. A parer mio dovette forınarsi prima il concetto del pos sesso ad usucapionem, e più tardi soltanto quello del possesso ad interdicta. (2 ) Questa condizione speciale delle res mancipii, spettanti alle femmine ed ai pupilli, la quale ha evidentemente lo scopo di impedire l'alienazione delmancipium per conservarlo nella linea agnatizia, è attestata in modo concorde da Gaio, Comm., I, 47, 192 e II, 80, e da ULP., Fragm., XI, 27. (3) È naturale infatti, che l'usucapione in una società, che si forma, sia un modo di acquisto, e che in una società invece, che si è formatn, si converta in un mezzo di difesa; e richieda così un tempo maggiore per servire quale mezzo di acquisto. Le società giovani pensano sopratutto all'acquisto; mentre le società adulte e già for mate pensano sopratutto a conservare l'acquistato. (4 ) GAIO, Comm., II, 46: « item provincialia praedia usucapionem non recipiunt ». (5 ) Mainz, Cours de droit romain, I, SS 111 e 112, pag. 745 e segg. 502 389. Intanto,mentre accade questo svolgimento nei modi di trasfe rimento della proprietà ex iure quiritium, accanto alla medesima viene lentamente consolidandosi un'altra forma di proprietà, che prende il nome di proprietà in bonis. Questa dapprima non è che una proprietà di fatto, ma col tempo ottiene anch'essa in via indi retta e per opera del pretore una protezione di diritto, e viene così a costituire un vero dualismo nel concetto di proprietà, il che ebbe ad esprimere Gaio con dire: « postea divisionem accepit dominium, ut alius possit esse ex iure quiritium dominus, alius in bonis habere (1) ». Il primo nucleo di questa nuova forma di proprietà ebbe ad essere costituito dalle res mancipii, allorchè le medesime erano trasmesse colla semplice traditio; ma poscia essa fini per comprendere tutte le altre cose, che per qualsiasi causa non fossero oggetto della proprietà ex iure quiritium. Che anzi il dualismo andò fino a tale per l'esistenza contemporanea del ius civile e del ius honorarium, che di una stessa cosa potè accadere, che altri fosse il proprietario ex iure quiritium, mentre un altro la teneva in bonis; il che voleva dire in sostanza, che l'uno ne aveva la pro prietà ufficiale, mentre l'altro ne aveva l'effettivo godimento. È tut tavia notabile, che prima della fusione delle due proprietà, quella in bonis già cominciava in certe cose ad avere la prevalenza; come lo dimostra il fatto, che se un servo appartenesse ad una persona ex iure quiritium, e fosse stato in bonis di un altro, gli acquisti, che egli faceva, andavano a profitto di colui, del quale era in bonis (2 ). Diqui una lotta fra le due forme di proprietà, che diede occasione allo svolgersi dei modi naturali di acquisto, accanto a quelli ricono sciuti dal diritto civile; lotta, che Gaio ebbe a riassumere scrivendo: « Ergo ex his, quae dicimus, apparet, quaedam naturali iure alie nari, qualia sunt ea, quae traditione alienantur; quaedam civili, nam mancipationis et in iure cessionis et usucapionis ius pro prium est civium romanorum » (3). Così è pure questa lotta, che porge occasione allo svolgersi della publiciana in rem actio (4 ), ac canto alla rei vindicatio, della prescrizione accanto all'usucapione, (1) Gaio, Comm., II, 40. (2) Gaio, II, 88 e UlP., Fragm., XIX, 20. (3) Id., II, 65. Di qui infatti Gaio prende occasione di discorrere deimodi natu rali di acquisto. (4) Quanto all'actio in rem pubbliciana è da vedersi APPLETON, De l'action pub blicienne nella « Nouvelle Revuehistorique », 1885, pag. 481-526, e 1886, pag. 276-342. - - 503 fino a che le due proprietà finiscono per essere pareggiate fra di loro, ed allora si consegue l'effetto, che quelle caratteristiche della pro prietà quiritaria, che si erano prima applicate a quel nucleo ristretto di cose, che erano comprese nel mancipium, poi si erano estese a tutte le cose, che erano oggetto delle proprietà ex iure quiritium, finiscono per essere estese a tutte le cose, che, per essere in com mercio, possono essere oggetto di proprietà privata. È solo allora che Giustiniano, forse non troppo consapevole dell'ufficio, che un tempo avevano compiuto le distinzioni fra res mancipii e nec man cipii e fra la proprietà ex iure quiritium e la proprietà in bonis, abolisce pressochè ab irato queste distinzioni, le quali a suo giu dizio « nihil ab eniymate discrepant» e dànno solo più origine ad inutili ambiguità ed incertezze (1). 390. Infine anche qui deve essere notato, che tutta questa teoria del trasferimento della proprietà non potè mai trovare applicazione in tema di obbligazioni. Almodo stesso, che più tardi la giurisprudenza romana continua ad affermare che « traditionibus et usucapionibus dominia rerum, non nudis pactis, transferuntur » (2); così essa pur continua a professare, che i modi, i quali servono a trasferire la pro prietà, non possono invece servire per trasferire un'obbligazione da una persona ad un'altra. Scrive infatti Gaio, dopo aver discorso della mancipatio e della in iure cessio, quali modi di trasferimento della proprietà: « obligationes, quoquo modo contractae, nihil eorum recipiunt; nam quod mihi ab aliquo debetur, id si velim tibi de beri, nullo eorum modo, quibus res corporales ad alium transfe runtur, id efficere possum; sed opus est, ut, iubente me, tu ab eo stipuleris » (3 ). Quindi le obbligazioni, che si contraggono colla sti pulatio, devono essere trasmesse e cedute anche colla stipulatio, e non potrebbero esserlo colla mancipatio e colla in iure cessio, che sono circoscritte al trasferimento della proprietà e dei diritti reali. Per tal modo quella distinzione radicale e profonda, che apparve nell'antico ius quiritium, fra il facere mancipium ed il facere nexum, si mantenne per tutto lo svolgimento posteriore del diritto civile romano, nel che abbiamo un'altra prova della dialettica co (1) Giustin., Cod., VII, 25: de nudo iure quiritium tollendo; e VII, 31, $ 4: de usucapione transformanda et de sublata differentia rerum mancipii et nec mancipii (2 ) L.20, Cod., II, 3 (Dioclet. et Maxim.). (3 ) Gaio, Comm., II, 38. 504 stante, con cui i giureconsulti romani tengono dietro ai concetti pri mordiali, da cui presero le mosse nella prima elaborazione del ius quiritium. Ciascun concetto di questo è come un nucleo, che viene attraendo tutto ciò, che può esservi di affine, ma il medesimo non si confonde mai coi concetti, da cui ebbe già a separarsi, nè pud at trarre materie, che siano partite da un concetto primordiale diverso. Chi poi volesse trovare la ragione intima, per cui nel diritto civile romano il semplice contratto può soltanto essere sorgente di obbligazioni, e non potè mai bastare da solo al trasferimento della proprietà, dovrebbe probabilmente ricercarla nel concetto in parte materiale, che il primitivo diritto erasi formato prima del manci pium e poscia anche del dominium ex iure quiritium; avrebbe infatti ripugnato alla logica giuridica, che un dominio, il quale aveva in se qualche cosa di corporale, potesse trasferirsi senza es sere accompagnato da qualche fatto esteriore, che mettesse la cosa acquistata a disposizione dell'acquirente. Veniamo ora al testamento e cerchiamo di spiegare come mai anche un atto di questa natura abbia finito per rivestire la forma dell'atto per aes et libram. $ 4. La testamenti factio e la storia primitiva del testamento quiritario. 391. Degli atti, che rimontano all'antico ius quiritium, il testa mento è certamente quello, di cui ci pervennero in maggior quantità i dati per ricostruirne la storia primitiva, e per seguire le trasfor mazioni, che ebbe a subire nel passaggio dal periodo gentilizio alla vita cittadina. Non può dubitarsi anzitutto, che le origini del testamento rimon tano ad un'epoca anteriore alla fondazione della città, perchè noi sappiamo con certezza, che esso fin dagli inizii della città esclusiva mente patrizia fu uno degli atti, che, al pari dell'adrogatio, della detestatio sacrorum e simili, dovevano essere compiuti coll'inter vento dei pontefici, davanti al popolo delle curie, riunito nei comizii calati. Ciò dimostra, che esso già preesisteva presso le genti patrizie, che concorsero alla fondazione delle città, le quali dovettero ser virsene, comedi un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto. Si è veduto infatti, che nella organizzazione delle genti italiche la famiglia, ancorchè entrasse a far parte di un organismo maggiore, cioè della gente e della tribù, aveva però già una propria esistenza, 505 un proprio culto, e un proprio patrimonio (heredium ). Era quindi naturale, che essa tendesse a perpetuarsi, e che perciò il capo di famiglia riguardasse. come una grande sventura la mancanza di un erede, che continuasse in certo modo la sua personalità, e che adem piesse all'obligo del sacrifizio domestico. Fu quindi per supplire alla mancanza di un erede naturale, che noi troviamo essere in uso presso le genti italiche l'adrogatio ed il testamentum: due istitu zioni, le quali, ancorchè in guisa diversa, mirano in sostanza al medesimo intento, cioè alla perpetuazione della famiglia e del suo culto. Intanto però, siccome l'una e l'altra istituzione toccavano da vicino l'organizzazione gentilizia, cosi egli è certo, che nel periodo gentilizio l'adrogatio e il testamentum non poterono compiersi dal capo di famiglia, di sua privata autorità, ma dovettero invece essere compiuti colla approvazione degli altri capi di famiglia, che appar tenevano alla medesima gente o tribù (1). 392. Allorchè poi le due istituzioni vennero ad essere trapiantate nella città patrizia, esse conservarono dapprima il medesimo carat tere, e perciò apparirono come due negozi, i quali, avendo un carat tere pubblico, non potevano operarsi di privata autorità, ma dovevano essere compiuti nei comizii calati delle curie, convocati dai ponte fici. Che anzi, se abbiamo da argomentare dalla formola dell'adro gatio, che ci fu conservata da Gellio, conviene inferirne, che anche il testamento, in questo periodo, dovette assumnere il carattere di una vera e propria legge (2 ). Intanto però egli è evidente, che questo testamento nei comizii calati delle curie dovette essere esclusivamente proprio delle genti patrizie, e che il medesimo non ebbe certamente lo scopo di porgere al testatore un mezzo di disporre a capriccio delle proprie sostanze; (1) Ho già toccato dell'attinenza strettissima, che intercede fra l'adrogatio ed il testamentum nel periodo gentilizio al nº 63-65, pag. 77 e segg. Cfr. in proposito il SUMNER -MAINE, Ancien droit, pag. 184 e il CoQ, Recherches sur le testament per aes et libram nella « Nouvelle Revue historique », 1886, pag. 536. Qui solo ag. giungerò, che questa attinenza appare anche meglio nel diritto greco, e sopratutto nell'ateniese, nel quale il primitivo testamento compare sotto la forma dell'adozione. Cfr. il Jannet, Les institutions sociales a Sparta. Paris, 1880, pag. 96 e segg.; e il Cocotti, La famiglia nel diritto attico. Torino, 1886, pag. 69. (2) Questo carattere pressochè pubblico dell'adrogatio e del testamentum in Roma non è mai intieramente scomparso, come lo prova il detto di PAPINIANO, L. 4, Dig. (28-1): testamenti factio iuris publici est. Cfr. quanto ho scritto a n ° 221, pag. 268 e seg. 506 - ma lo scopo invece di perpetuare la famiglia ed il suo culto, e di impedire la divisione immediata del patrimonio, come lo dimostra l'antica espressione romana « ercto non cito »; la quale ha tutti i caratteri di una primitiva clausola testamentaria. Quanto alla plebe, non avendo essa la organizzazione gentilizia, non poteva certamente possedere un simile testamento; quindi è probabile, che il capo di famiglia plebeo, quando rimaneva senza figliuolanza diretta, non avesse altro mezzo di disporre delle proprie cose, che quello di ri correre all'istituto della fiducia, affidando il suo patrimonio ad un amico, che ne disponesse nel modo da lui indicato; modo questo di far testamento, che era una conseguenza naturale delle condizioni economiche e giuridiche, in cui trovavasi la plebe, e che Gaio ci indicherebbe come affatto primitivo, ed anteriore ancora a quella forma di testamento, che a noi pervenne sotto la denominazione di testamento per aes et libram (1 ). Di qui la conseguenza, che fin dagli esordii di Roma dovettero tro varsi di fronte due forme di testamento; un testamento cioè, di origine patrizia, fatto colla formalità di una vera e propria legge, nei comizii calati delle curie, coll'intervento dei pontefici, diretto a perpetuare la famiglia ed il suo culto e ad impedire la disper sione dei patrimonii; e l'altro, di origine plebea, che compievasi colle forme stesse di quel fedecommesso, che penetrò solo più tardi nel diritto civile romano, il quale non era che una applicazione della fiducia, e aveva l'unico scopo di porgere un mezzo al capo di famiglia per disporre delle proprie cose per il tempo, in cui egli avrebbe cessato di vivere. 393. Fu soltanto allorchè la plebe entro eziandio a far parte del populus, che potè svolgersi una forma di testamento, comune ai due ordini, ed è sopratutto a questo punto, che l'esposizione di Gaio ci può venire in sussidio per ricostruire la storia primitiva del testa mento civile romano (2 ). Gaio ci parla di due forme primitive di testamento, cioè: di un testamento, che compievasi in calatis comitiis, i quali si sarebbero radunati due volte all'anno per la confezione dei testamenti; e del (1) Gaio, Comm., II, 107. Vedi a proposito di questo primitivo testamento della plebe, che era una applicazione della fiducia e corrispondeva in certo modo a quel fedecommesso, che fu accolto più tardi nel diritto romano, cid che ho scritto a n ° 149, pag. 184 e seg. Cfr. MUIRHEAD, Histor. Introd. (2 ) GAIO, II, 101 a 108. 507 testamento in procinctu, che facevasi invece davanti all'esercito già preparato alla battaglia. Egli anzi sembra compiacersi nel notare, che queste due forme di testamento corrispondevano a quel carat tere civile e militare ad un tempo, che era proprio del popolo ro mano: « alterum itaque in pace et in otio faciebant, alterum in praelium exituri » (1); ma intanto non dice, se i comizii calati, a cui egli accenna, fossero i comizii delle curie o quelli delle centurie. Sembra tuttavia ovvio l'osservare, che Gaio qui discorre già delle due forme di testamento, comuni cosi al patriziato che alla plebe, allorché i medesimi già erano entrati a far parte dello stesso populus, e che perciò la sua distinzione non si deve riferire al popolo primitivo delle curie, ma bensì al popolo plebeo-patrizio delle centurie; del quale sopratutto si poteva dire a ragione, che mentre in pace co stituiva i comizii, in guerra invece costituiva un esercito. Di qui la conseguenza, che il testamento in calatis comitiis, di cui discorre Gaio, non è più il testamento proprio delle genti patrizie, che fa cevasi nei comizii calati delle curie, coll'intervento dei pontefici: ma bensi un testamento, già comune al patriziato ed alla plebe, che fa cevasi in quei comizii calati, che noi sappiamo da Aulo Gellio essere stati eziandio proprii delle centurie (2 ). Furono probabilmente questi comizii calati delle centurie, che dovevano radunarsi due volte l'anno per la confezione dei testamenti: mentre i comizii calati delle curie potevano convocarsi dai pontefici, ogni qualvolta ne occorresse il bi sogno. Siccome poi in questo tempo il quirite, come tale, appare già prosciolto dai vincoli dell'organizzazione gentilizia, ed è già libero dispositore delle proprie cose, anche per atto di morte, come ebbe a dichiararlo espressamente la legge decemvirale; così si può in durne, che il popolo delle centurie, in questa fase del testamento quiritario, più non intervenisse per approvare il medesimo con una legge, ma soltanto per prestare la propria testimonianza, secondo la (1) GAIO, II, 101. (2 ) Gellio, XV, 27, 1 e 2, parlando dei co:nitia calata, scrive: « eorum alia esse « curiata, alia centuriata. Curiata per lictorem curiatim calari, id est convocari; « centuriata per cornicinem ». Egli dice poi, che in questi comizii si facevano i testa menti, il che fa supporre che si facessero tanto nei comizii calati curiati, che nei centuriati. Lo stesso autore V, 19, 6, parla un'altra ' volta dei comizii calati, a pro posito dell'adrogatio, ma qui sembra alludere soltanto ai comizii calati curiati. Sembra infatti che l'adrogatio, a differenza del testamento, abbia continuato sempre a farsi davanti alle curie, salvo che la medesima finì per compiersi davanti ai trenta littori, che la rappresentavano. Cic., Adv. Rutt., II, 12. Cfr. Cuq, art. cit., p. 539. 508 formola, che poi ricompare più tardi nel testamento per aes et libram: « et vos, quirites, testimonium mihi perhibitote ». Cid è confermato eziandio dalla considerazione, che questi comizii calati non si sarebbero radunati che due volte l'anno per la confezione dei testamenti, il che avrebbe reso pressochè impossibile, che ognuno dei testamenti presentati nei medesimi avesse potuto essere approvato con tutte quelle formalità di una vera e propria legge, che erano richieste nei comizii calati delle curie primitive. 394. Di qui deriva, che se questo testamento nei comizii calati delle centurie imitava ancora nella forma esteriore il testamento pa trizio, che facevasi nei comizii calati delle curie, nella sostanza pero già ne differiva grandemente: poichè nel medesimo questo intervento di tutto il popolo convertivasi in una semplice formalità, in quanto che il popolo non era più chiamato ad approvare il testamento,ma sol tanto ad assistere al medesimo cometestimonio. Si comprende pertanto, che la consuetudine popolare cercasse di sostituirvi qualche mezzo più semplice di fare testamento, e che ricorresse percið alla manci patio familiae cum fiducia, che è appunto la forma ditestamento, che Gaio ci descrive essersi introdotta posteriormente al testamento in calatis comitiis (1). Questo testamento non era in sostanza, che il testamento primitivo di origine plebea, salvo che esso era già sottoposto alla forma quiritaria dell'atto per aes et libram, e ac compagnato dalla fiducia. Era quindi un testamento, che era facile a celebrarsi, ma che, al pari della fiducia iure pignoris, aveva dapprima l'inconveniente di rimettere ogni cosa alla buona fede del familiae emptor, il quale poteva anche abusare della fiducia, che il testatore aveva in lui riposta. Fu allora, che i veteres iuris conditores sentirono la necessità, come dice Gaio, di ordinare altrimenti il testamento per aes et libram, e modellarono così quella forma di testamento, che penetrd con questa denominazione nel ius quiritium o meglio nel ius pro prium civium romanorum, e che fu poi argomento di uno svolgi mento storico non interrotto fino a Giustiniano. Questo testamento (1) Fra gli autori, che distinguono la primitiva mancipatio familiae cum fiducia, che ha quasi del fedecommesso, dal posteriore testamento per aes et libram, quale è descritto da Gaio, II, 102, è da vedersi il MuIRHEAD, op. cit., pag. 66 e 167, e sopratutto il Cuq, Op. e loc. cit., pag. 534 e segg., il quale, dopo aver discorso prima della familiae mancipatio, passa a trattare separatamente del testamento per aes et libram. 509 pertanto compare nel ius quiritium molto più tardi, che non il nerum ed il mancipium, e viene ad essere una artificiosa applica zione dell'atto per aes et libram, nell'intento di porgere al quirite un mezzo per disporre del suo patrimonio per il tempo, in cui avrà cessato di vivere. 395. Questo testamento, secondo la definizione di Gaio e di Ul. piano, componevasi di due parti, cioè della mancipatio familiae e della nuncupatio. La prima consiste in un atto per aes et libram, compiuto, come al solito, davanti a non meno di cinque testimoni, cittadini romani, ed al libripens, in cui si addiviene ad una « ima. ginaria venditio » delle sostanze del testatore (familiae). È però a notarsi, che,mentre nella primitiva mancipatio familiae il negozio seguiva effettivamente fra il testatore e l'erede, di cui quello era il familiae venditor e questo il familiae emptor; nel testamento invece per aes et libram, quale appare modellato in questo secondo stadio, il familiae emptor non è più il vero erede, ma è piuttosto un depositario e custode del patrimonio, accid il testatore possa disporne « secundum legem publicam » (1 ). Cið appare dalla circostanza, che il familiae emptor, dopo aver finto di comprare il patrimonio e di pagarne il prezzo, se ne dichiara perd semplice depositario, ricorrendo alla formola seguente: « familia pecuniaque tua endo mandatelam, custodelamque meam, quo tu iure testamentum facere possis secundum legem publicam, hoc aere esto mihi empta » (2). (1) Trovo alquanto singolare la interpretazione che il Cuq, art. cit., pag. 565, verrebbe a dare a queste parole: « secundum legem publicam ». Egli ritiene, che tutte le parole del testamento dovessero aversi come confermate da quella lex publica, che era andata in disuso; mentre invece è evidente, che le parole della formola: « quo tu iure testamentum facere possis secundum legem publicam », mirano evidentemente a porre il familiae venditor in condizione di poter fare il testamento approvato e riconosciuto dalla legge pubblica. Una prova di cið l'abbiamo nella circo stanza, che questa stessa espressione « secundum legem publicam », compare eziandio nella formola della nexi liberatio, in cui si dice: « hanc tibi libram primam postre mamque tibi expendo secundum legem publicam » (Gaio, III, 174 ), ove la medesima non può certo avere la significazione, che vorrebbe attribuirvi il Cuq. La causa di questa erronea interpretazione sta in ciò, che il Cuq considera il testamento per aes et libram, come una modificazione di quello in calatis comitiis, mentre esso ha un'origine affatto diversa, come ho cercato di dimostrare nel testo. (2) GAIO, Comm., II, 104. Ho ricavato questa formola dall'ultima edizione curata dal MOMMSEN, sull'Apographum Studemundianum, novis curis auctum, Berolini, 1884; la quale presenta qualche notevole differenza dalle anteriori edizioni fatte dal Dubois, dall'HUSCHKE e dal MUIRHEAD. 510 – Fin qui pertanto non havvi che una imaginaria venditio, della quale Gaio dice espressamente, che viene compiuta soltanto « dicis gratia, propter veteris iuris imitationem ». La sostanza invece di questa forma di testamento consiste nella nuncupatio solenne, nella quale il testatore, in presenza dei testimoni, istituisce il proprio erede, il quale viene cosi già a distinguersi dal familiae emptor, ed indica eziandio i legati, che saranno poi a carico dell'erede. Questa nuncupatio dapprima dovette essere compiutamente orale; ma poscia potè essere fatta in doppia guisa, in quanto che il testa tore – o dichiarava espressamente la sua volontà davanti ai testi moni, - o presentava invece ai medesimi le sue tavole testamen tarie, dichiarando solennemente, che queste contenevano la sua ultima volontà: « haec ita, ut in his tabulis cerisve scripta sunt, ita do, ita lego, ita testor: itaque, vos, quirites, testimo nium mihiperhibitote » (1). Di qui prorenne, che già collo stesso testamento per aes et libram comincid a delinearsi la distinzione, che acquistò più tardi grandissima importanza fra il testamento nun cupativo e il testamento scritto. 396. Basta questa semplice descrizione per dimostrare, che il testa mento per aes et libram è già informato ad un concetto ben diverso da quello, a cui si ispirava il primitivo testamento delle genti patrizie. Mentre infatti il testamento primitivo in calatis comitiis mirava a perpetuare il culto domestico e ad impedire la dispersione dei patri monii: quello invece per aes et libram tendeva senz'altro a sommi nistrare al quirite un mezzo per disporre liberamente delle proprie cose. Ciò è dimostrato dalla circostanza indicataci da Cicerone, che questo testamento deve considerarsi come un'applicazione della di. sposizione delle XII Tavole: qui nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto; ed è pur confermato dagli antichi giureconsulti, i quali parlano di questo testamento, come di una va rietà ed applicazione del nexum, o meglio dell'atto per aes et libram (2 ). Così pure, mentre nel testamento primitivo si richiedeva (1) Gaio, loc. cit. e Ulp., Fragm., XX, 2 a 10. Quest'ultimo sopratutto distingue nettamente le due parti, di cui componesi il testamento per aes et libram, allorchè scrive al $ 9: « In testamento, quod per aes et libram fit, duae res aguntur, fa miliae mancipatio et nuncupatio testamenti »; e dopo viene senz'altro a parlare della nuncupatio, come di quella, che veramente importa. (2 ) Cic., De Orat., I, 57, § 245. La stessa esposizione di Gaio, II, 102 e 103, dimostra, che il testamento per aes et libram ebbe origine diversa da quello in - 511. l'intervento dei pontefici, perchè in esso trattavasi di provvedere al mantenimento del culto; il testamento invece per aes et libram viene ad essere considerato come una esplicazione del ius commercii, ossia della facoltà del quirite di disporre liberamente delle proprie cose, e quindi si attua mediante un atto di carattere esclusivamente mercantile, quale era l'atto per aes et libram, lasciando poi al ius pontificium di provvedere, quanto all'adempimento dei sacra (1). Mentre infine nel testamento primitivo la volontà del testatore era sottoposta all'approvazione del popolo; nel testamento invece per aes et libram, la volontà del quirite appare indipendente e sovrana, e non è soggetta a qualsiasi limitazione. Dopo ciò credo di poter conchiudere con fondamento, che anche il testamento per aes et libram, quale compare nel ius quiritium, deve già essere considerato come il frutto di una vera e propria elaborazione giuridica, e comeuna conseguenza logica di quel potere illimitato e senza confine, che appartiene al quirite di disporre delle proprie cose, non solo per atto tra vivi, ma anche per causa di morte. Non potrei quindi ammettere col Sumner Maine, che questa forma di testamento importasse dapprima uno spoglio immediato ed irrevocabile del testatore a favore del proprio erede: tanto più, che questa congettura è in diretta opposizione con tutte le notizie, che a noi pervennero del testamento romano, il quale appare essere stato fin dapprincipio una attestazione solenne « de eo quod quis post mortem tuam fieri vult » (2 ). calatis comitiis, poichè egli non dice già, che il medesimo sia stato surrogato a quello in calatis comitiis, ma dice invece: « accessit deinde tertium genus testamenti ». (1) Cic., De leg., II, 19, 47. Cfr. in proposito il Cuq, art. cit., pag. 555, il quale pure osserva, che la mancipatio familiae, e quindi anche il testamento per aes et libram più non aveva carattere religioso, pag. 553, nota 2. (2) È noto come il SUMNER Maine, Ancien droit, pag. 191, abbia coll'autorità del suo nome resa accetta a molti l'opinione, che il testamento per aes et libram fosse di origine plebea, e che esso importasse negli inizii una spogliazione immediata ed irre vocabile del testatore a favore dei proprii eredi. Tale opinione non può essere ac colta; poichè il testamento per aes et libram, anzichè essere proprio della plebe, fu invece una creazione del ius quiritium, e quindi, al pari di ogni altro negozio qui ritario, rivestà la forma dell'atto per aes et libram. Il motivo poi, per cui esso ri vestì la forma di una mancipatio non sta in ciò, che esso siasi veramente riguar dato come una vendita immediata, ma bensì nella circostanza, che esso imponeva all'erede una quantità di obbligazioni, e fra le altre anche quella di provvedere alla continuazione dei sacra e al pagamento dei legati. A questo motivo si aggiunge una causa storica, ed è che il testamento per aes et libram era un rimaneggia mento della primitiva mancipatio familiae cum fiducia, la quale, essendo un atto di carattere puramente fiduciario, figurava come un vero atto fra vivi. 512 397. Una volta poi che questo testamento entrò a far parte del diritto quiritario, esso ebbe a ricevere uno svolgimento storico e Ingico ad un tempo, non dissimile da quello delle altre istituzioni quiritarie, senza che mai si perdessero i caratteri essenziali, con cui era penetrato nel diritto civile di Roma. Così, ad esempio, il testamento era stato accolto nel diritto quiri tario sotto l'apparenza di un negozio, che seguiva fra il testatore, qual familiae venditor, e l'erede, quale familiae emptor: or bene ancora all'epoca di Giustiniano esso conserva questo carattere, come lo provano l'unità di contesto, che è richiesta nel testamento, e la disposizione per cui quelli, che dipendono dall'erede, non possono servire di testimoni nel medesimo (1). Cosi pure il testamento, nel suo concetto primitivo, aveva per iscopo di perpetuare nell'erede la personalità del testatore, donde la conseguenza, che l'istituzione dell'erede venne ad essere considerata quale « caput et fundamen tum testamenti»; il qual concetto continua pure a mantenersi fino alla più tarda giurisprudenza. Parimenti il testamento, nel suo primo presentarsi, era stato un negozio di carattere nuncupativo, uno di quei negozi cioè, in cui la parola del testatore costituiva legge, e noi troviamo, che in tutto il suo svolgimento posteriore esso continua ad essere uno degli atti solenni, in cui giunge fino agli ultimi confini l'osservanza di un linguaggio esatto e preciso; come lo provano le espressioni solenni e precise, con cui doveva farsi l'istituzione di erede, la diseredazione, l'istituzione di erede cum cretione, e simili. Sopratutto poi questo carattere nuncupativo del testamento si fece palese nel tema dei legati, in quanto che nel diritto civile di Roma le varie specie di legato vennero ad essere determinate dalle diverse espressioni, adoperate dal testatore (2 ). Infine anche quel principio, secondo cui la volontà del testatore costituiva legge, continud a mantenersi anche più tardi; dapprima infatti si cercò con mezzi in diretti, quali sarebbero l'obbligo della diseredazione e la querela di (1) Questo carattere del primitivo testamento per aes et libram, per cui esso si presenta come un negozio fra il familiae emptor ed il familiae venditor, è chiara. mente attestato da Gaio, Comm., II, 105 a 107 e da Ulp., Fragm., XX, 3 a 6. Questo carattere poi non si perdette mai completamente, ed è ancora ricordato da GIUSTINIANO, Instit., II, 10, $ 10. È nota la distinzione fra i legati per vindicationem, per damnationem, sinendi modo, e per praeceptionem: in essi la volontà del testatore appare come una vera legge, e viene ad essere analizzata e studiata come la parola stessa del legislatore. V. Gaio, II, 192 e 222; Ulp., Fragm., XXIV. 513 inofficioso testamento, di impedire che il testatore potesse abusare della libertà, a lui consentita dal primitivo diritto, e fu solo con Giustiniano che si introdusse una limitazione diretta all'arbitrio del testatore, attribuendo a certe persone il diritto ad una porzione legittima (1). 398. Intanto, anche nella materia testamentaria, è facile scorgere come accanto al diritto già formato siavi sempre una parte, che continua ad essere in via di formazione. Quindi anche qui, accanto al testamento civile, si esplica un te stamento pretorio; ma anche questo appare modellato a somiglianza del primo. Per verità nel testamento pretorio più non comparisce l'atto per aes et libram, ma debbono però intervenire due nuovi testimoni, i quali si ritengono corrispondere al libripens ed al fa miliae emptor: donde la necessità di sette testimoni, che dånno au tenticità al testamento, apponendovi col testatore il proprio sigillo. Allorchè poi il testamento pretorio è riuscito anch'esso ad avere una efficacia giuridica, sopravvengono anche in questa parte le co stituzioni imperiali, le quali tendono a fondere insieme le due forme di testamento, finchè si giunge al testamento giustinianeo, il quale è ancor esso un coordinamento delle forme anteriori. Esso infatti, secondo l'attestazione di Giustiniano, viene ad essere costituito da un triplice elemento, cioè: dall'unità di contesto e dalla presenza dei testimoni, che proviene dal diritto civile: dal numero di sette testimoni e dall'apposizione del loro sigillo, che è di origine pre toria: e infine dalla sottoscrizione del testatore e dei testimonii, che deriva dalle costituzioni imperiali. Ciò però non toglie, che anche Giustiniano, per imitazione dell'antico, continui a ritenere il testa mento come un negozio che interviene fra il testatore e l'erede, nel che abbiamo una prova della logica tenace, che è propria della giu risprudenza romana, e del metodo da essa costantemente seguito di venire coordinando nel medesimo istituto gli elementi, che si ven nero successivamente formando (2 ). (1) L'istituzione della legittima ebbe presso i Romani una lunga preparazione prima nello stesso diritto civile, poi nel diritto onorario, la quale non terminò che collo stesso Giustiniano. A mio avviso, il motivo degli espedienti, a cui si appiglid il diritto, prima di venire alla fissazione di una legittima, deve appunto essere riposto in cid, che non volevasi porre una limitazione diretta alla volontà del testatore. Quanto alla storia della legittima, è a consultarsi il Boissonade, De la réserve héréditaire. Chap. IV, Paris, 1888, pag. 61–160. (2 ) Justin., Instit., II, 10, $ S 3 e 10. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 33 - 514 399. A compimento di questa materia non saranno inopportune le seguenti osservazioni intorno allo svolgimento storico del testamento: 1 ° Il testamento in Roma è un atto, in cui il quirite si presenta col suo doppio carattere di uomo di pace e di guerra ad un tempo, come lo dimostra il dualismo fra il testamento civile ed il testamento militare, il quale, dopo essere cominciato colla distinzione fra il te stamento in calatis comitiis ed in procinctu, non solo si mantiene, ma si viene accentuando sempre più fino all'epoca diGiustiniano; 2 ° Nella storia del testamento romano si presenta questo fatto singolare, che si vede ricomparire più tardi sotto nome di fidecom messo, una forma di testamento analoga a quel testamento fiduciario, che era stato il testamento primitivo in uso presso la plebe. Cid significa, che, accanto al testamento quiritario, dovette mantenersi nelle consuetudini la primitiva forma di testamento, la quale non riesci ad ottenere il proprio riconoscimento, che all'epoca di Au gusto. Questi poi, accordando efficacia al fidecommesso, fini per ce dere alla forza della pubblica opinione, e alla nécessità di ovviare agli abusi, a cui dava luogo l'inefficacia giuridica di un testamento, in cui tutto dipendeva dalla buona fede di colui, a cui erasi affi dato il testatore (1). Noi abbiamo così una prova, che alcune delle istituzioni, che penetrarono più tardi nel diritto quiritario, come proprie del diritto delle genti, già preesistevano nella comunanza plebea, salvo che non erano riuscite a penetrare in quella rigida selezione, mediante cui erasi formato il primitivo ius quiritium. Un altro carattere di questo svolgimento storico consisterebbe in cid, che nel diritto civile romano non riescirono mai a mescolarsi insieme la successione testamentaria e la successione legittima; ma questa singolarità potrà essere più facilmente spiegata nel capitolo seguente, dopo aver discorso di quel ius connubii, di cui era una conseguenza la successione legittima, stata accolta dal diritto civile romano (2 ). (1) Che il fedecommesso sia sempre vissuto, se non nel diritto, almeno nelle con suetudini del popolo romano, lo dimostra il fatto, che Augusto si indusse a dargli efficacia giuridica per l'abuso, che taluni avevano fatto della fiducia in essi riposta. Appena accolto poi il fedecommesso apparve così popolare e trovò così favorevole ac coglienza, che si dovette ben presto istituire un pretore apposito (praetor fideicom missarius). V. Justin., Instit., II, 23, ss 1 e 2. (2 ) Rimando l'indagine intorno alle cagioni storiche della massima « nemo pro parte testatus pro parte intestatus decedere potest, al seguente capitolo V, $ 5; perchè la questione non potrebbe essere risolta senza aver prima cercato i rapporti, in cui stavano presso i romani la successione testamentaria e la legittima. Il ius connubii nel primitivo ius quiritium e l'ordinamento giuridico della famiglia romana. $ 1. - Sguardo generale all'argomento. 400. Più volte fu osservato dagli autori, che la famiglia romana nella realtà dei fatti si presenta con caratteri molto diversi da quelli, che si potrebbero argomentare dall'ordinamento giuridico di essa. Mentre, sotto il punto di vista giuridico, la famiglia costituisce come un'aggregazione, retta dispoticamente dal proprio capo, nel quale si vengono ad unificare le persone e le cose, che entrano a costituirla; nella realtà invece essa då origine ad una comunione di tutte le utilità domestiche, in cui trovano campo a svolgersi la pietà, l'os sequio e la reciproca confidenza. Mentre, giuridicamente parlando, havvi un unico padrone nella casa: « pater familias in domu do minium habet »; nella realtà invece anche la moglie e i figli ap pariscono comproprietarii del patrimonio paterno: « vivo quoque parente, quodammodo condomini existimantur ». Mentre infine, in base al diritto, il padre ha perfino il ius vitae ac necis sulle persone tutte, che da lui dipendono, nel costume invece la famiglia è sopratutto governata dal sentimento profondo dei doveri famigliari, dalla religione, dalla morale e dal civile costume (1 ). Di fronte ad una opposizione di questa natura fra la famiglia quale appare nel diritto, e quale si presenta nel fatto, non è certo (1) Ho già accennato a questo contrasto, fra la configurazione giuridica della fa miglia e la realtà dei fatti, al nº 94, pag. 119. Del resto gli autori sembrano essere concordi in rilevare questa speciale caratteristica della famiglia romana. Basterà citare fra gli altri il Savigny, Sistema del diritto romano attuale, I, &$ 54 e 55; il JHERING, L'esprit du droit romain, trad. Meulenaere, tomo II, SS 36 e 37, e specialmente da pag. 190 a 214; il Gide, Étude sur la condition privée de la femme, 2a ed., par Esmein, Paris 1885, cap. IV e V; il Voigt, XII Tafeln, II, $ 92, pag. 241 a 256; il MUIRHEAD, Histor, introd., pag. 24 a 34; il Brixi, Matrimonio e di vorzio, Bologna, 1886, parte 1“, passim, e specialmente ai SS 21 e 22, pag. 87 a 110. Tra le opere poi, che si occupano della famiglia romana in genere, ricorderò lo SCHUPPER, La famiglia secondo il diritto romano, vol. 1°, Padova 1876; e il CE NERI, Lezioni su temi del ius familiae, Bologna, 1881.; 516 il caso di ritenere, che i Romani ci abbiano trasmesso nel proprio diritto una immagine non conforme alla realtà dei fatti; ma piut tosto deve credersi, che essi, anche in questa parte del proprio di ritto, abbiano cercato di isolare l'elemento giuridico da tutti gli elementi affini, con cui trovavasi intrecciato, e siano cosi riusciti ad una costruzione giuridica, che fini per attribuire alla famiglia romana una rigidezza ben maggiore di quella, che esisteva real mente nel costume. Quindi il vero problema, che presentasi al ri guardo, sta nel ricostruire il processo storico e logico ad un tempo, che può aver condotto i romani ad accogliere un ordinamento giu ridico della famiglia, il quale, a giudizio degli stessi giureconsulti, si differenziava grandemente da quello di tutti gli altri popoli. 401. A questo proposito vuolsi anzitutto premettere, che l'ordi namento famigliare dovette certamente essere la parte del diritto primitivo, in cui trovavansi a maggior distanza le istituzioni già elaborate, proprie delle genti patrizie, e le istituzioni appena ab bozzate, proprie della plebe. Ciò è provato da quel divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe, che si protrasse fin dopo la legislazione decemvirale; dalle lotte accanite, a cui diede origine l'abolizione di questo divieto per opera della legge Canuleia; ed anche dal disprezzo ostentato dai patrizii per le unioni della plebe, come pure dal culto di una pudicizia propria delle matrone patrizie, a cui si contrappose più tardi una pudicizia plebea. Così stando le cose, era anche naturale, che in questa parte le istituzioni dei due ordini dovessero riuscire più difficilmente a fondersi e a mescolarsi fra di loro. Da una parte eravi la famiglia patriarcale delle genti patrizie, la quale, unificata sotto la patria potestà del padre, e stretta insieme dal vincolo dell'agnazione, era sopratutto intesa a perpetuare la stirpe ed il suo culto, costituiva una vera corporazione religiosa, e conduceva alla comunione delle cose divine ed umane; mentre dall'altra eravi la famiglia della plebe, la quale, costituita dall'unione consensuale di un uomo e di una donna, fatta palese dalla loro coabitazione, unita dai vincoli della affinità e della cognazione, aveva piuttosto per iscopo la procreazione della prole, e di soppor tare insieme i pesi del matrimonio (1). (1) Quanto all'organizzazione domestica delle genti patrizie, vedi libro I, cap. 3', § 2º, pag. 28 a 34; quanto a quella della plebe, lo stesso lib. I, cap. 9, pagina 188 e segg. - 517 Dei due ordinamenti però, il più forte, il più elaborato, il più coerente in tutte le sue parti, era certamente quello delle genti patrizie; quindi non è meraviglia, se essé in questa parte siansi ri fiutate a qualsiasi transazione ed accordo, e siano così riuscite a dare un'assoluta prevalenza alle proprie istituzioni domestiche. La plebe quindi, quanto all'ordinamento della famiglia, dovette cercare in qualche modo di imitare l'organizzazione delle famiglie patrizie; il che dovette riuscire più agevole, allorchè la plebe primitiva venne ad essere accresciuta da un largo contingente di famiglie di origine latina, la cui organizzazione doveva già essere analoga a quella propria delle genti patrizie. 402. Ne consegui pertanto, che l'ordinamento domestico, adottato dalla comunanza quiritaria, fu quello della famiglia patriarcale propria delle genti patrizie, e che anche in questa parte i veteres iuris conditores seguirono quel medesimo processo, a cui si erano attenuti nelle altre parti del diritto quiritario. Essi cioè trapianta rono nella città quell'organizzazione domestica, che già preesisteva nel periodo gentilizio; la isolarono cosi da quell'ambiente patriar cale, in cui erasi formata, il quale serviva a temperarne la rigi dezza; la riguardarono come organizzazione tipica della famiglia quiritaria e presero a svolgerla logicamente in tutte le sue parti. Siccome pertanto i concetti informatori della famiglia, nel periodo gentilizio, si riducevano essenzialmente all'unificazione potente della famiglia nella persona del proprio capo, ed alla tendenza della me desima a perpetuarsi e a conservare il proprio patrimonio; cosi questi concetti vennero in certo modo a costituire il capo saldo, da cui prese le mosse l'elaborazione del diritto quiritario, e spinti a tutte le conseguenze, di cui potevano essere capaci, condussero logi camente a quell'ordinamento della famiglia, che ci fu trasmesso dal diritto civile romano. Fu in questa guisa, che ogni famiglia, nel diritto primitivo di Roma, fini per costituire un gruppo di persone e di cose, ordinato sotto il potere del proprio capo, e disgiunto per modo da ogni altro gruppo, che una persona, uscendo da una famiglia, per entrare in un'altra, cessava di avere qualsiasi rapporto giuridico colla prima. Così pure la forma tipica del matrimonio quiritario dovette essere dapprima il solo matrimonio cum manu; perchè solo la conventio in manu, collocando la moglie in posizione di figlia, poteva con durre alla unificazione della famiglia nella persona del proprio capo. 518 Accolta poi questa unificazione giuridica della famiglia nella per sona del padre, ne derivava eziandio che il vincolo, il quale univa imembri della famiglia, non poteva più essere quello della cogna zione,ma doveva essere quello dell'agnazione; il quale aveva appunto la sua radice nel potere spettante al capo di famiglia, ed era cosi una conseguenza diretta della preponderanza dell'elemento paterno nell'organizzazione della famiglia. Se poi tutti i membri, che costi tuiscono il gruppo, sotto il punto di vista giuridico, appariscono unificati nel proprio capo, viene pure a conseguirne logicamente, che tutto quello, che essi facciano od acquistino, debba in diritto ritenersi fatto od acquistato per il medesimo. Cid infine ci spiega eziandio, come, nel diritto primitivo romano, mentre i figli possono rappresentare il padre, ed i servi il padrone, questa specie di rap presentazione non sia invece ammessa, quando trattasi di persone, che appartengano ad un gruppo diverso. Così pure sarà una con seguenza logica di questo ordinamento giuridico della famiglia, che la persona, la quale, per adozione o per matrimonio, venga ad uscire da un gruppo per entrare in un altro, sotto il punto di vista giuri dico, cessi di esistere per la famiglia, da cui esce, e pigli nella fa miglia, in cui entra, quel posto, che le sarebbe spettato, quando fosse nata nel medesimo (1 ). 403. È poi degno di nota, che quest'organizzazione giuridica della famiglia quiritaria, la cui elaborazione già erasi cominciata nella città esclusivamente patrizia, ebbe occasione di svolgersi, anche più rigidamente, mediante l'istituzione del censo serviano. Con questo infatti la famiglia venne ad essere staccata affatto da quel l'ambiente patriarcale, che in parte aveva ancora potuto mantenersi nel periodo della città patrizia, in quanto che ogni cittadino venne ad essere censito, come capo di famiglia, e dovette come tale denun ziare le persone e le cose, che da lui dipendevano, e ne costituivano in certo modo il mancipium. Fu quindi sopratutto sotto l'influenza del censo serviano, che i diritti del padre sulla moglie, sui figli, sui servi vennero in certo modo ad essere modellati sul concetto rozzo, ma preciso del mio e del tuo, il quale aveva anche il vantaggio di essere, più di qualsiasi altro, suscettivo di una vera e propria ela (1) Il concetto di quest'unità potente della famiglia è uno dei più radicati nella coscienza dei primitivi romani. Si può averne una prova nei passi di antichi autori, citati dal Voigt, Op. cit., II, $ 72, pag. 6 e segg., a proposito della domus fami liaque, considerata come un'unità organica di persone e di cose ad un tempo. -- -- 519 berazione giuridica. L'epoca serviana pertanto dovette essere il mo mento storico, in cui la famiglia quiritaria cominciò ad essere mo dellata esclusivamente sul concetto di proprietà, cosicchè le forme dei negozii, proprie del commercium, poterono essere applicate eziandio per acquistare i diritti derivanti dal connubium. Per tal modo la logica del diritto quiritario potè essere applicata in tutto il suo rigore anche all'ordinamento giuridico della famiglia, e venne così ad uscirne quella struttura giuridica della medesima, in cui tutto sembra ridursi ad una questione di mio e di tuo (1 ). Quando poi si promulgò la legislazione decemvirale, questa con tinud l'opera già iniziata di estendere anche alla plebe l'ordina mento giuridico della famiglia patriarcale. Essa infatti riconobbe la coabitazione, non interrotta per un anno, come un mezzo, che poteva servire alla plebe per attribuire alle proprie unioni il carattere qui ritario, e rese comune eziandio alla plebe quel sistema di succes sione legittima, che era proprio dell'organizzazione gentilizia. Infine allorchè la legge Canuleia tolse il divieto del connubio fra i due or dini, tutto l'ordinamento giuridico della famiglia patriarcale venne ad essere accolto nel ius proprium civium romanorum, salve al cune poche modificazioni, che erano imposte dalle condizioni, in cui si trovavano le infime classi della plebe (2). Fu da questo momento, che la famiglia quiritaria venne a costi tuire una costruzione giuridica, organica e coerente in tutte le sue parti, i cui caratteri non potrebbero essere compresi, quando si di menticasse, che la medesima è un rudere dell'organizzazione genti lizia, trapiantato nella città, e svolto logicamente in tutte le con seguenze, di cui poteva essere capace. È certo che un processo di questa natura doveva finire per at tribuire alla famiglia quiritaria un carattere rigido e pressochè inumano, perchè escludeva dall'ordinamento giuridico di essa ogni traccia di sentimento e di affetto; ma il medesimo ebbe anche il (1) Come il censo serviano abbia contribuito ad isolare la famiglia dall'ambiente gentilizio, e a far considerare ciascuna famiglia, come un gruppo separato e distinto da tutte le altre, fu dimostrato nel libro III, cap. 3 °, e in questo stesso libro, cap. 1 ° e 2°, § 1º. (2) Così, ad esempio, la legge decemvirale, pur cercando di estendere anche alla plebe il matrimonio cum manu, fu tuttavia nella necessità di aprire l'adito fin d'allora al matrimonio sine manu, accordando alla donna di sottrarsi al vincolo della manus, mediante l'usurpatio trinoctii, ossia l'interruzione della coabitazione per tre notti di seguito. 520 vantaggio di isolare ciò, che havvi di giuridico nella famiglia, da ogni elemento estraneo, e di sottoporre così all'elaborazione giari dica una istituzione, in cui le considerazioni religiose e morali avrebbero ad ogni istante impedito l'applicazionedella logica propria del diritto (iuris ratio ). Si aggiunga, che questa apparenza, pressochè inumana, non produsse in realtà alcun inconveniente, poichè essa punto non impedi, che il costume temperasse il rigore della costru zione giuridica; che il iudicium de moribus, dalle XII Tavole affi dato al pretore, impedisse al padre la dilapidazione del patrimonio famigliare; che il censore, vindice della morale, punisse in effetto il padre, che abusasse de' proprii poteri; e che infine il diritto stesso intervenisse a moderare i poteri spettanti al capo di famiglia, al lorchè, per il corrompersi dei costumi, cominciò a sentirsi il pericolo, che egli potesse abusare dei medesimi. 404. Intanto una importante conseguenza di questo svolgimento storico fu anche questa, che, siccome nell'organizzazione gentilizia tutto l'ordinamento famigliare metteva capo al concetto del con nubium, cosi anche tutto l'ordinamento giuridico della famiglia qui ritaria sembra essere derivato da quest'unico concetto. Quel connubium infatti, che nei rapporti fra le varie genti aveva significato quella facoltà di imparentarsi, che di regola era circo scritta ai membri delle genti, che appartenevano allo stesso nomen, trasportato nel diritto quiritario, venne a trasformarsi nel ius con nubii ex iure quiritium, ossia nel diritto di addivenire alle iustae nuptiae, riconosciute dai quiriti, e di dare così origine ad una fa miglia, organizzata ex iure quiritium, con tutte le conseguenze, che potevano derivarne (1). Quindi è, che anche la famiglia ex iure (1) Io parlo ancora qui di una famiglia ex iure quiritium: ma, a scanso di equi voci, devo far notare, che siccome l'organizzazione della famiglia romana non venne ad essere comune ai due ordini del patriziato e della plebe, che dopo la legislazione decemvirale e la legge Canaleia, così l'espressione, solitamente adoperata da Gaio e da Ulpiano relativamente al ius familiae, non è più quella di ius quiritium,ma bensì quella di ius proprium civium romanorum; poichè in quell'epoca il concetto del quirite già si era allargato in quello del civis romanus, e per conseguenza il ius quiritium si era in certo modo travasato nel ius proprium civium romanorum. Di qui consegue che mentre, per quello che si riferisce al ius commercü, i giurecon sulti parlano, ancora sempre del ius quiritium (Gaio, II, 40), trattandosi invece della manus (Id., I, 108 ) e della patria potestas (ID., I, 55 ), parlano invece di un ius proprium civium romanorum. 521 – quiritium, al pari del dominium ex iure quiritium, venne a costituire una famiglia privilegiata, che può giustamente chiamarsi propria civium romanorum, in quanto essa ha certi caratteri, che la contraddistinguono da ogni altra: quali sono la manus delmarito sulla moglie, la patria potestas del padre sui figli, l'agnazione, che stringe i varii membri di essa e che viene a costituire il fonda mento della tutela e della successione legittima. Del resto il concetto, che tutti i diritti di famiglia discendono in sostanza dal connubium, ha eziandio un fondamento nella realtà; perchè è col connubio che viene a costituirsi una nuova famiglia, la quale poi si esplica nella figliuolanza: il qual concetto, trovasi mi rabilmente espresso da Cicerone, allorchè scrive: « prima societas in coniugio, proxima in liberis; deinde una domus, communia omnia » (1). Diqui derivò la conseguenza, che la famiglia quiritaria, pur essendo il frutto di una lunga e lenta elaborazione giuridica, fini in sostanza per modellarsi sulla realtà dei fatti, e per cogliere, per cosi esprimerci, l'essenza giuridica di essi. Essa quindi costi tuisce un tutto organico e coerente in tutte le sue parti, il cui svol. gimento può appunto essere studiato, nei tre momenti essenziali, per cui passa l'organismo famigliare, cioè: lº nella sua origine, ossia nella iustae nuptiae e negli effetti giuridici che derivano da esse; 2 ° nel suo svolgimento, ossia nei rapporti fra il capo di fami glia e le persone che ne dipendono; 3º e da ultimo nel suo disciogliersi per la morte del proprio capo, scioglimento che dà occasione alla successione ed alla tutela legittima, fondate sul vincolo dell’agnazione. 405. Siccome poi in questa parte il diritto delle genti patrizie riuscì a penetrare, pressochè intatto nel diritto civile romano, e ad imporre a tutti i cittadini una organizzazione domestica, che era propria soltanto di una minoranza, e che per giunta era una so pravvivenza di un periodo anteriore di convivenza sociale; cosi, in tema di diritto famigliare, venne a farsi manifesto,meglio che altrove, il conflitto fra le istituzioni, che riuscirono a penetrare nel diritto quiritario, e quelle invece, che continuarono a vivere nel costume. Questo conflitto, che può scorgersi in ogni parte del diritto fami gliare, è sopratutto evidente nella lotta fra il matrimonio cum manu (1) Cic., De officiis, I, 17, 54. 522 e quello sine manu; in quella fra l'agnazione e la cognazione; e in quella fra la successione e tutela legittima e la successione e tutela testamentaria; e più tardi anche nella lotta fra l'hereditas e la bonorum possessio. Sono queste lotte, che danno interesse allo svolgimento storico delle istituzioni famigliari, spiegano le modifica zioni lente e graduate che si introdussero nelle medesime, e dimo strano come anche in questa parte, alla parte del diritto già formato e consolidato, se ne contrapponga costantemente un'altra, che tro vasi in via di formazione, e che tenta di temperare il rigore delle primitive istituzioni quiritarie. § 2. – Le iustae nuptiae e la storia primitiva del matrimonio quiritario. 406. Anche nella parte, che si riferisce al matrimonio romano, gli ultimi studii conducono al risultato, che il medesimo, al pari della proprietà e del negozio giuridico, dovette incominciare da un concetto tipico, che è quello del matrimonio cum manu. Non è già che in Roma primitiva non potessero esistere altre forme più umili di matrimonio, sopratutto nelle costumanze della plebe; ma il ius quiritium non si curò dapprima delle medesime, e non riconobbe gli effetti quiritarii, che al matrimonio cum manu (1). Che anzi vi sono forti indizii per supporre, che l'unica forma solenne, per contrarre il matrimonio quiritario, stata riconosciuta finchè duro la città esclusivamente patrizia, fu quella accompagnata dalla cerimonia re ligiosa della confarreatio, la quale importava fra i coniugi la comunione delle cose divine ed umane. Cid sarebbe in parte (1) Questa è la conseguenza, a cui giunse fra gli altri l'Esmein, nel suo scritto: La manus, la paternité et le divorce dans l'ancien droit romain, nei « Mélanges d'histoire du droit », Paris 1886, pag. 6. Una prova poi di quest'antico diritto l'abbiamo in questo, che la moglie, in questo primo periodo, chiamavasi materfami lias, e tale nell'antico diritto era soltanto la moglie, quae in manu 'convenerat. Sono testuali in proposito le affermazioni di CICERONE, Top. 3, il quale scrive: « genus est enim wor; eius duae formae: una matrumfamilias, earum quae in manum convenerunt, altera earum, quae tantummodo uxores habentur ». La cosa poi è confermata da Gellio, XVIII, 6, 9, ove dice: « matremfamilias appellatam eam solam, quae in maritimanu mancipioque erat », e da Nonio MARCELLO nel passo riportato dal BRUNS, Fontes, pag. 390. Sopratutto è degno di nota, che l'espres sione di materfamilias è pur quella adoperata nella formola dell'adrogatio, conser vataci dallo stesso Gellio, V, 19, 9. Cfr. in proposito KARLOWA, Formen den rö mischen Ehe und manus, pag. 71, e il Brini, Op. cit., pag. 37. 523 comprovato dalla circostanza, che le leggi regie, ogniqualvolta ac cennano al matrimonio, si riferiscono in modo espresso al matri monio per confarreationem. Così, per esempio, Dionisio attribuisce a Romolo di aver richiamato alla pudicizia le donne romane, rico noscendo questa sola forma di matrimonio, e parla anche di una legge attribuita a Numa, con cui sarebbesi stabilito, che il figlio, il quale fosse addivenuto alle nozze confarreate col consenso del ge nitore, non potesse più essere venduto dal medesimo (1). Tutto ciò significa, che le genti patrizie, fondatrici della città, presero senz'altro le mosse da una forma di matrimonio, che pree • sisteva nel periodo gentilizio, e che il loro matrimonio continud nella città a celebrarsi con una certa solennità religiosa e patriarcale; come lo dimostrano l'intervento del pontefice e del flamine di Giove, la cerimonia simbolica per cui i coniugi gustano insieme il pane di farro, ed anche la presenza dei dieci testimonii, in cui si vollero ravvisare i rappresentanti delle curie, in cui dividevasi la tribù, a cui appartenevano gli sposi. Non pud poi esservi dubbio intorno al l'altissimo concetto, che queste genti patrizie avevano del matrimonio, il quale, oltre all'essere strettamente monogamo, importava l'unione perpetua de' coniugi, e la comunione fra essi delle cose divine ed umane (divini et humani iuris comunicatio). Che anzi, a questo proposito, sembra pure essere probabile, che questa forma primitiva di matrimonio non potesse dapprima dar luogo al divortium, ma soltanto al repudium, il quale doveva essere accompagnato dalla cerimonia religiosa della diffarreatio, e poteva solo aver luogo nei casi, che erano determinati dal costume e dalla legge (2). Cosi pure è a questo primitivo concetto del matrimonio presso le genti pa trizie, che deve rannodarsi quel disprezzo per la donna che passi a seconde nozze, di cui trovansi ancora le traccie nel diritto poste riore di Roma (3 ). Ad ogni modo egli è certo, che questa forma di matrimonio, in (1) Dion., II, 25 e 27. V. sopra lib. II, nº 268, pag. 329 e seg. (2) Cid sarebbe attestato da PLUTARCO, nella Vita di Romolo, 22, in un passo, che è riportato dal Bruns, Fontes, pag. 6. Una prova poi, che il matrimonio per confar reationem doveva durare tutta la vita, si rinvien lle attestazioni di Gellio, X, 15, 23, e di Festo, vº Flammeo, dalle quali risulta, che alla moglie del flamine di Giove, le cui nuptiae farreatae erano un ricordo del matrimonio primitivo, non era consentito il divorzio. Cfr. Esmein, Op. cit., pag. 17. (3) È a consultarsi in proposito il dotto lavoro del DELVECCHIO, Le seconde noeze del coniuge superstite, Firenze 1885, pag. 12 a 15. 524 cui apparisce quel carattere eminentemente religioso, che è proprio delle genti patrizie, non poteva appartenere alla plebe. Per questa il matrimonio dovette avere più un'esistenza di fatto, che una con. sacrazione di diritto, e consistere in una unione fondata sul reci proco consenso, fatta manifesta mediante la coabitazione dei coniugi, piuttosto che con cerimonie di carattere giuridico e religioso ad un tempo. 407. Era frammezzo a queste due istituzioni, di carattere compiu tamente diverso, di cui una era forse importata dall'antico Oriente, mentre l'altra si ispirava alle tendenze spontanee dell'umana natura, che dovette formarsi un diritto comune alle due classi. Questo fu il problema, che dovette risolvere la legislazione decemvirale, e la cui difficoltà era tanto più grande, in quanto è probabile, che le classi più infime della plebe stentassero a comprendere un matri monio, come quello cum manu, che costituiva la moglie in condi zione di figlia del proprio marito. Questo potere del marito, il quale, corretto dal patriarcale costume, conduceva all'unificazione della fa miglia patrizia, poteva invece cambiarsi in un dispotismo pericoloso, allorchè fosse esteso a classi sociali, che non vi fossero preparate da una lunga educazione civile. È questa speciale condizione di cose, che spiega i singolari tem peramenti, che a questo proposito furono adottati dalla legislazione decemvirale. In questa infatti i decemviri, mentre da una parte si studiano di fornire alla plebe un facile mezzo per addivenire allo acquisto della manus, e di dar cosi carattere giuridico al proprio matrimonio, collo stabilire che basti perciò la coabitazione di un anno (usus), dall'altra si trovano nella necessità di aprire l'adito ad un matrimonio sine manu, accordando alla donna il mezzo di sottrarsi alla manus, coll'interrompere la coabitazione per tre notti di seguito (trinoctium ) (1). 408. Colla legislazione decemvirale non sembra essersi andato più oltre nella elaborazione di un diritto comune ai due ordini; poiché (1) In base all'attestazione di Gaio, I, 111, l'usus, qual mezzo di acquisto della manus, non fu che un'applicazione della teoria dell'usucapione: la donna poi, che avesse voluto sottrarvisi, doveva ogni anno interrompere la coabitazione per tre notti di seguito. Questa parte della legge sarebbe dal Voigt, XII Tafeln, I, pag. 708, assegnata al n° 1', tav. IV, e ricostrutta nei seguenti termini: « si qua nollet in manu mariti convenire, quotannis trinoctio usum interficito ». - 525 sussisteva ancora il divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe. Quando invece il divieto fu tolto dalla legge Canuleia, si dovette sentire la necessità di introdurre un modo essenzialmente quiritario per l'acquisto della manus, che poteva essere comune al patriziato ed alla plebe. Fu allora, che si ebbe ricorso a quell'atto per aes et libram, che era la forma solenne propria del negozio quiritario, e si diede cosi origine alla coemptio, quale modo di acquistare la manus (1). Non potrei quindi ammettere l'opinione, che considera la coemptio, come la forma essenzialmente plebea del matrimonio cum manu, e neppur quella, che ravvisa nella medesima una compra della moglie per parte del marito. La coemptio in Roma non fu che un'applicazione dell'atto quiritario per eccellenza, che era l'atto per aes et libram, e venne cosi ad essere un espediente giuridico per esprimere l'acquisto di quel potere del marito sulla moglie, che nel ius quiritium era indicato col vocabolo generico di manus (2 ). (1) La questione della precedenza dei varii modi riconosciuti dal diritto romano per l'acquisto della manus fu assai discussa in questi ultimi tempi. Secondo il Mac LENNAN, Primitive marriage, 2me édit., 1876, pag. 71,avrebbe preceduto l'usus, poscia sarebbesi introdotta la coemptio, e da ultimo sarebbe venuta la confarreatio. Anche secondo il BERNHÖFT, Staat und Recht der römischen Konigszeit, 1882, pag. 187, l'usus sarebbe più antico della coemptio: mentre invece quest'ultima, secondo il Karlowa, Formen der römischen Ehe und manus, pag. 59, avrebbe avuta la precedenza sull'usus. Per risolvere la questione conviene bene intenderci. O si vuol fare la storia dei modi di contrarre il matrimonio presso le primitive genti italiche, e in allora non ripugna, che anche presso le medesime la moglie sia stata prima rapita e poscia comprata; o si vuol invece determinare l'ordine, in cui queste varie forme penetrarono nel diritto romano, e in allora, pur ammettendo, che i vocaboli del primitivo diritto romano possano ancora richiamare uno stato ante riore di cose, si può però affermare con certezza, che le varie forme di matrimonio, adottate dal diritto romano, sono già il frutto di una vera e propria elaborazione giuridica. Quanto all'ordine cronologico, con cui queste varie forme furono accolte, esso non potè essere che il seguente, cioè dapprima fa accolta nel ius proprium civium romanorum la confarreatio dei patres o patricii; poscia fu riconosciuto l'usus di un anno per dar carattere giuridico alle unioni della plebe; da ultimo, quando si comunicarono i connubii, comparve anche la coemptio, la quale fu comune ai due ordini, e come tale finì per avere la prevalenza su tutti gli altri modi di acquistare la manus. Cfr. ESMEIN, Op. cit., pag. 8 e 9. (2) Non posso quindi accogliere l'opinione sostenuta da molti autori, che la coemptio fosse di origine plebea, e che essa implicasse la compra della moglie per parte del marito. Cfr. SCHUPFER, La famiglia nel diritto romano; Voigt, XII, Tafeln, II, $ 159; BRINI, Matrimonio e divorzio, pag. 50 e segg. La coemptio non fu invece, che una nuova applicazione dell'atto per aes et libram, e perciò deve ritenersi come una creazione del diritto quiritario, nell'intento di attri 526 Essa quindi, al pari di ogni atto quiritario, componevasi di due parti, cioè: lº dell'atto per aes et libram, compiuto colle solite formalità ed inteso ad esprimere l'acquisto della manus per parte del marito; 20 e della nuncupatio solenne, le cui parole non ci sono perve nute, ma la cui sostanza, secondo Servio e Boezio, consisteva in una reciproca interrogazione, con cui lo sposo interrogava la sposa se volesse assumere a suo riguardo la qualità di madre di famiglia, e questa interrogava lo sposo se volesse assumere quella di padre di famiglia. Ciò intanto ci spiega, come la coemptio, sotto un aspetto, abbia potuto essere descritta da Gaio come una compra fittizia della moglie per parte del marito, e sotto un altro invece colla sua stessa denominazione sembri indicare il reciproco consenso degli sposi nel riconoscersi rispettivamente la qualità di padre e di madre di famiglia (invicem se coemebant) (1). È poi probabile, che, come il vocabolo di coemptio è certamente modellato su quello di confarreatio, cosi anche le parole solenni, che accompagnavano la coemptio, fossero una imitazione di quelle, che erano adoperate nella confarreatio, esclusi però i riti religiosi, che accompagnavano quest'ultima. 409. Questo svolgimento storico deimodi, riconosciuti dal diritto quiritario, per contrarre il matrimonio cum manu, lascia abbastanza buire la manus al marito, e di attribuire carattere giuridico al matrimonio romano. In esso quindi è già scomparsa qualsiasi idea di vendita della figlia, sebbene non sia improbabile, che il vocabolo possa ancora ricordare un' epoca anteriore, in cui la moglie fosse effettivamente comprata. Cfr. MUIRHEAD, Op. cit., pag. 65, e sopratutto l'appendice sulla coemptio in fine al volume, nota B, pag. 441. (1) Che l'essenza della coemptio fosse per dir così simboleggiata in un reciproco acquisto, che facevano i due sposi, non è solo comprovato dal vocabolo, ma è atte stato da Servio, in Aen., IV, 103 (Bruns, pag.402), allorchè dice: « Mulier atque vir inter se quasi coemptionem faciunt; da Nonio MARCELLO, vº nubentes (Bruns, pag. 370); da Isidoro, Orig., $ 24, 26 (Bruns, pag. 407); e sopratutto da Boazio nei commenti alla Top. di Cic., dove, appoggiandosi all'autorità di Ulpiano, dice che il marito e la moglie « sese in coemendo invicem interrogabant » (BRUNS, pag. 399). Solo farebbe eccezione Gaio, I, 113, il quale dice, che nell'atto per aes et libram « is emit mulierem, cuius in manum convenit »; ma la cosa si comprende, quando si tenga conto che la coemptio componevasi di due parti, e quindi se nel l'atto per aes et libram doveva certo figurare come compratore il marito, che acqui stava la manus, nulla impedisce, che nella nuncupatio gli sposi apparissero uguali, e reciprocamente si interrogassero se volessero assumere rispettivamente fra di loro la qualità di pater e di materfamilias, V. in senso contrario BRINI, Op. cit., pag. 51 e segg. 527 scorgere il contributo diverso, che vi arrecarono il patriziato e la plebe. Non vi ha dubbio anzitutto, che la confarreatio dovette essere di origine patrizia, come lo dimostrano il suo carattere eminente mente religioso, e l'origine di essa, che rimonta ad un'epoca ante riore all'ammessione della plebe alla cittadinanza romana. Che anzi, egli è probabile, che, anche dopo, la confarreatio abbia continuato ad essere usata di preferenza dalle genti originariamente patrizie, come lo dimostra il fatto, che essa continud a sussistere anche sotto gli imperatori, sopratutto per considerazioni di carattere religioso. Noi sappiamo infatti, che i figli nati da tale matrimonio conserva rono più tardi certi privilegii religiosi, che convengono assai bene ai discendenti dell'antico patriziato. Essi soli infatti erano ammessi a certi sacerdozii; soli potevano figurare in certe cerimonie reli giose, ed erano anche indicati coi nomi speciali di patrimi e di matrimi. Così pure il matrimonio per confarreationem era il solo, a cui potessero addivenire i flamini di Giove, di Marte e di Qui rino, i quali negli inizii dovevano appartenere all'ordine patrizio (1). Per contro può affermarsi con una certa probabilità, che l'usus, ossia la coabitazione non interrotta per un anno, qual mezzo per fare acquistare la manus, non potè essere che un mezzo per tras formare i matrimonii di fatto, proprii della plebe, in matrimonii di diritto, che come tali erano produttivi della manus. Ciò spiega come l'usus, quanto aimatrimonii, abbia potuto produrre lo stesso effetto dell'usucapio, quanto all'acquisto della proprietà ex iure quiritium, e come i decemviri abbiano applicato la stessa regola in argomenti, che pur erano cosi compiutamente diversi (2 ). Da ultimo la coemptio vuol essere considerata come il modo di contrarre il matrimonio cum manu, essenzialmente proprio dei quiriti, e come tale dovette essere introdotto, quando già erano permessi i connubii fra patrizii e plebei, cosicchè essa, fin dalle sue origini, dovette essere comune agli uni ed agli altri. Noi troviamo (1) Gaio, I, 112. Nel passo già citato di Boezio, in cui egli parla delle varie forme di matrimonio, fondandosi sull'autorità di Ulpiano (Bruns, pag. 399), si dice espressamente che « confarreatio solis pontificibus conveniebat ». Cfr. Esmein, Op. cit., pag. 7, nota 1. (2) La ragione fu questa, che tanto l'usucapio, applicata alle cose, quanto l'usus, qual mezzo per acquistare la manus, si proposero il medesimo'intento, quello cioè di cambiare una posizione di fatto in una posizione di diritto. 528 infatti, che la coemptio viene ad essere la forma dimatrimonio, che incontra maggior favore presso le varie classi dei cittadini; cosicchè, nei rapporti di famiglia, essa sembra compiere quella funzione stessa, che compie la mancipatio nel trasferimento della proprietà quiritaria. Quindi al modo stesso, che accanto alla mancipatio effettiva abbiamo visto svolgersi la mancipatio cum fiducia, così accanto alla coemptio effettiva, che sottoponeva la moglie alla manus del marito, vediamo pure svolgersi quel singolare istituto della coemptio fiduciaria, la quale serve come espediente per sottrarre la donna alla tutela degli agnati, e per metterla in condizione di poter fare testamento (1). Intanto perd la coemptio dovette avere per effetto di attribuire un carattere essenzialmente civile almatrimonio, che nella confar reatio aveva un carattere eminentemente religioso. Quindi viene ad essere probabile, che colla introduzione di essa anche il matrimonio cum manu abbia cominciato ad essere suscettivo del divorzio, il che non sarebbe consentaneo col carattere religioso della confarreatio. Nella coemptio infatti la manus viene ad essere l'effetto di un con tratto, e perciò può essere risolta nel modo stesso, in cui ebbe ad essere acquistata, cioè mediante la remancipatio (2 ). 410. Intanto il carattere e l'origine diversa dei varii modi per contrarre il matrimonio cum manu, pud anche spiegare le sorti (1) GAIO, I, 114 a 116. (2) GAIO, I, 115 e 137. Se siammette che il matrimonio primitivo per confarreatio nem non consentisse il divorzio, è un grave problema quello di spiegare, come il mede simo abbia potuto essere introdotto anche nel matrimonio cum manu, e persino essere esteso al matrimonio per confarreationem, il quale doveva però ancor sempre essere accompagnato dalla diffarreatio. V. Festus, pº diffarreatio; Bruns, pag. 336. Alcuni ritengono, che il divortium abbia cominciato a svolgersi nel matrimonio sine manu, e poi da questo siasi anche esteso a quello cum manu (Cfr. Esmein, Op. cit., pag. 23 e segg.); ma non parmi probabile un'imitazione di questa natura. Piuttosto il cambiamento venne a farsi, allorchè, accanto al matrimonio religioso per confar reationem, venne a svolgersi il matrimonio civile per coemptionem. Fa in quella occasione, che al rito religioso sottentrò l'idea del contratto, la quale rese applica bile il divortium, anche al matrimonio cum manu. L'applicabilità poi di questo divortium anche al matrimonio cum manu, e precisamente a quello contratto per coemptionem, parmi che non possa essere posta in dubbio di fronte al passo di Gaio,. I, 137, ove, paragonando la moglie ad una figlia di famiglia, dopo aver detto che la figlia non può costringere il padre ad emanciparla, aggiunge quanto alla moglie: « haec autem (virum ), repudio misso, proinde compellere potest, atque si ei nun quam nupta fuisset ». 529 diyerse, che ciascuno di essi ebbe nell'ulteriore svolgimento del diritto civile romano. Noi sappiamo infatti, che l'usus, fra i modi di acquistare la manus, fu il primo a scomparire, poichè secondo Gaio « hoc ius partim legibus sublatum est, partim ipsa desuetudine obliteratum est» (1). Esso infatti era stato un espediente per dar carattere quiritario ai matrimonii della plebe, che prima non l'avevano, e quindi si com prende che le leggi e il costume tendessero ad abolirlo, allorchè, mediante la coemptio, anche la plebe venne ad avere un mezzo di retto per acquistare la manus. La confarreatio invece, colla introduzione della coemptio, venne ad essere più circoscritta nel proprio uso, ma intanto fu quella, che ebbe a perdurare più lungamente; provenisse ciò dalla tenacità con servatrice, che era propria delle genti patrizie, o da considerazioni di carattere religioso. Questo è certo, che Gaio parla della confar reatio, come di cerimonia che era in uso ancora ai suoi tempi; poichè i flamini maggiori e il rex sacrorum dovevano esser nati da nozze confarreate, e non potevano contrarre altrimenti il proprio matrimonio. Noi sappiamo tuttavia da Tacito, che il mantenere questa antica tradizione ebbe talvolta a dar luogo a difficoltà, per trovare le persone, che potessero essere elevate alla dignità di fla mini, il che sarebbe appunto accaduto al tempo di Tiberio, e che le matrone ottennero in quell'occasione dal senato, che il matri monio per confarreationem non dovesse più produrre gli effetti di un tempo, sopratutto quanto ai diritti del marito sui beni della moglie (2 ) Infine la coemptio diventò senz'alcun dubbio il modo più frequente per contrarre il matrimonio cum manu, e non scomparve che cessare di questa forma di matrimonio; cessazione, che venne ope randosi verso il finire dell'epoca repubblicana, più nel costume che per opera di legge, stante la prevalenza sempre maggiore, che venne acquistando il matrimonio sine manu (3 ). (1) Gaio, I, 111. (2 ) GAIO, I, 36; Tacito, Ann. IV, 6. (3 ) La laudatio Thuriae scritta dal marito, Q. Lucrezio Vespillone, console nel 735 di Roma, riportata dal BRUNS, pag. 303 e seg., dimostra che verso il finire della Repubblica il matrimonio sine manu già cominciava a praticarsi anche nelle grandi famiglie. Tuttavia il fare un elogio speciale di Turia per aver fatto a meno della conventio in manu, a differenza della sua sorella, e per avere, malgrado di ciò, lasciato il suo patrimonio all'amministrazione del marito, dimostra che un fatto (Un autore recente, il Bernhöft, ebbe a considerare l'esten dersi e il prevalere del matrimonio sine manu, come un segno di decadenza del primitivo costume di Roma (1 ). A me parrebbe invece, che questa importantissima trasformazione dell'ordinamento giuridico della famiglia romana, debba essere considerata come una conse guenza necessaria dello svolgimento della vita cittadina, che veniva a poco a poco cancellando le vestigia dell'anteriore organizzazione patriarcale. È ovvio infatti lo scorgere, che la manus, mentre era una istituzione confacente all'organizzazione gentilizia, perchè da una parte serviva ad unificare la famiglia, e dall'altra era temperata dal patriarcale costume, trapiantata invece nella città, ove le famiglie vivevano isolate le une dalle altre, poteva essere sorgente di gravi pericoli, sopratutto nelle infime classi della plebe, poichè lasciava la moglie priva di qualsiasi difesa, contro il potere dispotico del proprio marito. Fu questo il motivo, per cui i decemviri, i quali pur miravano, come si è veduto, ad estendere a tutte le classi dei cittadini l'or. ganizzazione patriarcale della famiglia patrizia, si trovarono tuttavia nella necessità di lasciar l'adito aperto ad un matrimonio sine manu, dando alle donne il singolare diritto di interrompere l'usus, collo assentarsi dalla casa maritale per tre notti di seguito. Fu poi una conseguenza di questo provvedimento, che in ogni tempo in Roma, accanto al vero matrimonio ex iure quiritium, venne ad esistere di fatto un matrimonio sine manu, che non producera le conse guenze rigide del matrimonio cum manu. Il diritto civile non si preoccupo dapprima di questa forma più umile di matrimonio, e quindi esso si limitò a svolgersi come un matrimonio di fatto, di fronte al vero matrimonio ex iure quiritium, che era il matri monio cum manu. Giunse però un tempo, in cui lo svolgersi della vita cittadina finì per rendere grave il vincolo della manus, anche per le donne, che appartenevano alle classi sociali più elevate, e fu in allora che il matrimonio sine manu cominciò ad entrare nella pratica comune, e dovette essere preso in considerazione anche dal diritto proprio dei quiriti. Tutto ciò però accadde lentamente e gra datamente, per modo che lo svolgimento del matrimonio sinemanu, simile costituiva ancora a quei tempi una eccezione degna di nota nelle famiglie di condizione elevata. Cfr. De-Rossi, L'elogio funebre di Turia, negli « Studii e do cumenti di storia e diritto ». Roma, 1880, pag. 17. (1) BERNHöft, Op. cit., pag. 179. Cfr. Voigt, XII Tafeln, di fronte a quello cum manu, presenta una singolare analogia collo svolgersi della proprietà in bonis, di fronte alla proprietà ex iure quiritium. Quindi al modo stesso, che la proprietà in bonis:i venne a poco a poco modellando su quella ex iure quiritium, così anche il matrimonio sine manu venne delineandosi lentamente sulmodello del matrimonio cum manu, per modo che esso fini per assorbire ed assimilare in se medesimo il concetto etico, che ispirava il primitivo matrimonio delle genti patrizie, che era il matrimonio cum manu. Quindi è, che nel matrimonio sine manu scompariscono bensì le 80 lennità dirette all'acquisto della manus, ma si mantiene la neces sità della deductio della sposa in domum mariti, quasi ad indicare che essa abbandona la casa del padre per entrare in quella del marito, la quale continua sempre a considerarsi come il domicilium matrimonii. Così pure anche nel matrimonio sinemanu si trasfonde il concetto altissimo del matrimonio cum manu, come lo dimostrano la maritalis affectio, e la perpetua vitae consuetudo, di cui parlano i giureconsulti classici nella definizione del matrimonio, al lorchè era già scomparsa la manus (1). 412. Cid pero non impedisce, che dalla sostituzione delmatrimonio sine manu a quello cum manu, siano derivati degli importantissimi effetti nell'ordinamento giuridico della famiglia romana, che possono essere cosi riassunti: lº Accanto al concetto della materfamilias, che era in certo modo assorbita nella personalità del capo di famiglia, viene a deli nearsi la figura dell'uxor, la quale, senza essere uguale al marito (vir ), comincia però già ad avere una propria personalità giuridica, distinta da quella del marito; 2 ° La pratica del divorzio viene ad essere più facile, poichè, più non essendovi l'acquisto della manus, più non si dovette richie (1) Credo che questa analogia fra il processo seguito dai Romani nello svolgere il diritto di famiglia e quello di proprietà non apparirà come puramente fantastica, quando si tenga conto della correlazione evidente fra il concetto dei matrimonii cum manu e sine manu coi concetti del mancipium e del nec mancipium, e più tardi con quelli del dominium ex iure quiritium e di quello in bonis; fra la fun zione, che compie la mancipatio, in tema di proprietà, e quella che compie la coemptio, in tema dimatrimonio; tra la mancipatio cum fiducia e la coemptio fidu ciae causa; e infine la correlazione anche più singolare fra l'usus auctoritas, appli cato all'acquisto dei fondi, e l'usus, applicato all'acquisto della manus sulla moglie. 532 - dere per il divorzio, nè la diffarreatio, nè la remancipatio, ma poté bastare il reciproco consenso del marito e della moglie; 3° Sopratutto poi ebbe ad avverarsi un grave cambiamento nella posizione economica della moglie di fronte al marito. Senza affermare infatti, che l'istituto della dote sia veramente sorto col matrimonio sine manu, questo è certo, che la dote, qual concorso della moglie a sostenere i pesi del matrimonio, non potè svolgersi che col matrimonio sine manu; poichè un simile concorso non avrebbe potuto avverarsi di fronte a quell'unificazione potente, che veniva ad essere l'effetto della manus. Cid intanto ci spiega, come la dote, anche col matrimonio sine manu, abbia cominciato dal di ventare proprietà del marito, e siansi richieste stipulazioni speciali, perchè esso o i suoi eredi fossero tenuti a restituirla (1). Non potrei invece ammettere, che il matrimonio sine manu debba considerarsi come una causa della decadenza della corruzione del costume romano. Basta perciò osservare, che il matrimonio sine manu, quale ebbe ad esser concepito dai romani, poteva condurre ad un ideale più elevato dello stesso matrimonio cum manu. In questo infatti l'unità della famiglia veniva ad essere imposta dalla legge, mentre nel matrimonio libero la comunione delle cose divine ed umane veniva ad essere il frutto del libero accordo e della con fidenza reciproca (2). Non fu quindi il matrimonio sine manu, che O per (1 ) Sonovi autori, che vorrebbero rannodare l'origine dell'istituto della dote al matrimonio sine manu, V. fra gli altri PADELLETTI, Op. cit., pagg. 172-73, e il Cogliolo, Saggi di evoluzione, pag. 33. A questo proposito conviene intenderci. O per dote si intende cid che la moglie o il padre di lei consegna al marito in occa sione del matrimonio, e la dote in questo senso dovette rimontare anche all'epoca del matrimonio cum manu, come lo dimostra l'esistenza di un'antichissima dotis dictio e di un'actio dictae dotis. Cfr. Voigt, XII Tafeln, II, pag. 486. dote si intende invece l'istituto già svolto, per modo che essa venga ad apparire come il concorso della moglie a sostenere i pesi del matrimonio ed attribuisca alla moglie una personalità distinta da quella del marito, e questa non potè svolgersi col ma trimonio sine manu, perchè in quello cum manu lo svolgimento dell'istituto era impedito dall'unificazione potente della famiglia e del suo patrimonio nella persona del proprio capo. Intanto ciò spiega la necessità di apposite stipulazioni, per la resti tuzione della dote, intorno alle quali è da vedersi GELLIO, IV, 3, il quale dice, che la opportunità di esse avrebbe cominciato a sentirsi dopo il divorzio di Spurio Carvilio Ruga, seguito nel 523 dalla fondazione di Roma. (2 ) Cfr. in proposito quanto scrive il Labbé nell'articolo intitolato: Du mariage romain et de la manus, nella « Nouvelle Revue historique »  corruppe il costume, ma fu piuttosto il costume che abbassò l'altis. simo concetto del matrimonio. $ 3. — Il pater familias e i poteri al medesimo spettanti. 413. Fermo il concetto, che in Roma primitiva la famiglia, sotto il punto di vista giuridico, costituisce un tutto organico, separato da ogni altro ed ordinato sotto il potere del proprio capo, sarà facile il comprendere come la logica quiritaria non scorgesse nella mede sima che un capo, il quale comanda, ed un complesso di persone, le quali debbono obbedire. Da una parte havvi il pater familias, che è l'unica personalità giuridica riconosciuta dal primitivo ius qui ritium: dall'altra sonvi le persone, che dipendono da esso, cioè la moglie, i figli ed i servi, che in antico dovettero tutte essere sot toposte alla medesima manus, e furono perfino indicate col vocabolo generico e comprensivo di familia od anche dimancipium. Il padre è quegli, che è padrone nella casa, che figura nel censo colle persone e cose che da lui dipendono, che risponde di tutti i suoi dipendenti di fronte alla comunanza quiritaria; perciò i diritti, che a lui spet tano sulle persone componenti la famiglia, sono modellati in tutto e per tutto su quelli, che a lui appartengono sul patrimonio della medesima. Ciò tuttavia non deve essere considerato come un indizio, che i romani confondessero il potere sulle persone col potere sulle cose; ma soltanto che essi, nel modellare la costruzione giuridica della famiglia, si collocarono al punto di vista del mio e del tuo, e una volta accolto il medesimo lo spinsero a tutte le conseguenze, di cui poteva essere capace. Intanto se nella concezione primitiva era unico il potere spettante al capo di famiglia sulla moglie, sui figli e sui servi, viene pure ad essere probabile, che questo potere sia stato indicato con un unico vocabolo, il quale con tutta verosimiglianza dovette essere quello di manus, la quale designava in genere la potestà giuridica spet tante al quirite (1). Fu poi nell'elaborazione ulteriore, che in questo (1) L'autore, che ha recato incontestabilmente il maggior numero di prove per dimostrare, che il vocabolo di manus indicò in genere la potestà giuridica, spettante al capo di famiglia, è certamente il Voigt, Op. cit., II, SS 79 e 80. Cid però non toglie che il vocabolo di manus, pur indicando in senso largo la potestà spettante anche sulle cose, designasse in modo più specifico il potere sulle persone, e fosse così pres sochè un sinonimo di potestas. 534 concetto sintetico e comprensivo cominciò ad apparire una prima distinzione, per cui mentre il vocabolo di manus, pur conservando in qualche caso la sua significazione generica, fini per indicare più specialmente il potere del marito sulla moglie, quello invece di po testas indico di preferenza il potere del padre sui figli e sui servi, e venne cosi a distinguersi in patria ed in dominica potestas. Quanto al vocabolo mancipium, esso non scomparve, ma fini per restringersi ad indicare il complesso delle cose spettanti al capo di famiglia, e qualche volta servi ad indicare il complesso dei servi. Infine, siccome anche le persone libere potevano essere date a mancipio, ed essere poste così transitoriamente in condizione di servitù; cosi dovette pure aggiungersi la categoria giuridica delle persone « quae in mancipii causa sunt » e che come tali « servo rum loco habentur.” Allorchè poi questi aspetti diversi di un unico potere si furono differenziati gli uni dagli altri, ciascuno potè obbedire al proprio concetto ispiratore, e ricevere cosi uno svolgimento storico compiutamente diverso. Di questi poteri, quello, che per il primo ebbe a sostenere un rude conflitto colle esigenze della vita cittadina, fu la manus, ossia il potere del marito sulla moglie. Sopravvivenza dell'organizzazione patriarcale, la manus appariva disadatta nella città, ove non era più temperata dal patriarcale costume, e convertivasi in un potere dispotico del marito sulla moglie. Se a ciò si aggiunga, che le donne, le quali avevano da sottomettersi alla manus, dovevano prima consentirvi, e avevano per giunta la protezione dei proprii genitori, sarà facile il comprendere come la conventio in manu, dopo essere stata la regola, sia divenuta l'eccezione, finchè fini per cadere com piutamente in disuso. Con ciò non deve già intendersi, che il marito perdesse ogni autorità sulla propria moglie, ma solo che la moglie non fu più assorbita nella personalità del capo di famiglia, ma (1) Secondo Gaio, I, 52 e 55, il vocabolo di potestas comprenderebbe tanto il potere sui servi, quanto quello sui figli; quello di manus, invece il potere del ma rito sulla moglie (I, 109). Quando esso viene poi a parlare delle personae, quae in mancipio sunt, I, 116 e segg., comincia dal premettere, che anche i figli e la moglie mancipari possunt nel modo stesso, in cui lo possono i servi: il che dimostre rebbe, che il vocabolo di mancipium,nella sua significazione più larga, comprendeva eziandio tutte le persone soggette alla potestà del padre. Quanto alle persone, quae in causa mancipii sunt, vedi lo stesso Gaio, I, 138 e segg. 535 acquistò una certa indipendenza dal proprio marito, sopratutto sotto l'aspetto economico (1). 415. Così invece non accadde della patria potestas. Questa non ha più bisogno di essere volontariamente accettata, come la manus, ma deve invece essere necessariamente subita, e sotto un certo aspetto può anche apparire come una conseguenza del fatto della nascita. Mancò quindi il principale motivo, che contribuì alla abo lizione della manus del marito sulla moglie: donde la conseguenza, che la patria potestà potè più a lungo conservare nel diritto romano le sue fattezze primitive, e fu quindi un'istituzione, in cui la logica quiritaria ebbe campo a spiegarsi in tutto il suo rigore. Il padre dal punto di vista giuridico si appropria tutti gli acquisti, che siano fatti dai figli; pud vendere ed anche uccidere i proprii figli; può rivendicarli, se gli siano sottratti; può dargli a mancipio, se abbiano recato un danno, che egli non voglia risarcire. È però a notarsi, che anche in questa parte la costruzione giuridica non risponde sempre alla realtà dei fatti; poichè in sostanza i figli si ritengono compro prietarii del padre, nè mostrano di lagnarsi di un potere, a cui il costume reca gli opportuni temperamenti, e che loro non impedisce di aspirare e di giungere agli onori e alle magistrature della città (2). Anche qui fu il corrompersi dei costumi, che fece sentire il peri colo di un potere illimitato e senza confine, e fu allora, che il di ritto civile romano, pur serbando integro il concetto della patria potestà, venne attribuendo forma e carattere giuridico a quei tem peramenti della medesima, che prima esistevano soltanto nel costume. Fu in questa guisa, che il diritto romano, senza derogare alla supe riorità del padre, fini per riconoscere una certa personalità giuridica anche al figlio, il quale venne così ad avere un proprio caput, e un proprio status nel seno della famiglia, ed introdusse eziandio dei temperamenti, sia quanto alla durata, che quanto agli effetti della patria potestà. 418. Noi troviamo infatti, che, mentre la patria potestà continud a durare per tutta la vita, venne formandosi l'istituto dell'emancipa zione, in cui si assiste ad una singolare trasformazione, per cui il potere, che al padre appartiene, di vendere il proprio figlio, viene a (1) V. in proposito il precedente $ nella parte relativa al conflitto del matrimonio cum manu e di quello sine manu, nn. 411 e 412, pag. 530 e segg. (2 ) Cfr. Voigt, Op. cit., II, SS 93 e 94. 536 convertirsi in un espediente per liberarlo dalla patria potestà. Anche qui abbiamo una applicazione dell'atto quiritario, ossia dell'atto per aes et libram, salvo che, in base alla letterale interpretazione delle XII Tavole, per l'emancipazione di un figlio si richiedono tre man cipazioni, mentre, trattandosi di figlie o di nipoti, basta una semplice mancipatio (1). Ed è notabile eziandio, che questa emancipazione, pur attribuendo al figlio una libertà ed indipendenza, che prima non aveva, continua pur sempre ad essere considerata come una capitis diminutio; poichè sotto il punto di vista giuridico, l'emancipato cessa di appartenere a quel gruppo famigliare, da cui esce mediante l'emancipazione, e viene cosi a perdere quello status, che a lui ap parteneva rimpetto alla medesima. Che anzi il rigore del diritto primitivo si spinge fino al punto da escludere l'emancipato dalla successione per legge alla morte del padre, e toccherà poi al diritto pretorio il cercare con mezzi indiretti di ovviare a queste conse guenze, le quali, pur essendo conformi alla logica giuridica, ripu gnano però ai naturali sentimenti ed affetti (2 ). Cosi pure, mentre si mantiene sempre il concetto primitivo, che tutti gli acquisti del figlio debbono sotto l'aspetto giuridico essere at tribuiti al padre, si viene a poco a poco attribuendo carattere giu ridico all'istituzione dei peculii. Non può infatti esservi dubbio, che i peculii già dovevano preesistere nel costume, almeno sotto la forma di peculium profecticium, che era quel piccolo patrimonio, di cui il (1) Gaio, I, 135. Si è molto disputato circa la ragione probabile delle tre man cipazioni, che sono richieste per l'emancipazione del figlio. Alcuni vogliono scorgere in ciò un indizio del più forte vincolo, con cui il figlio intendevasi congiunto al proprio padre. A parer mio, sembra invece molto più probabile, che questa triplice mancipazione richiesta per i figli sia stata, come dice Gaio, I, 132, una conseguenza della letterale interpretazione data alla legge delle XII Tavole, secondo cui « si pater ter filium venum duit, filius a patre liber esto ». Per tal modo una disposizione, che era evidentemente introdotta per impedire al padre di abusare della persona del suo figlio,dandolo a mancipio più di tre volte, si cambiò in un mezzo per emanciparlo. Negli altri casi invece, a cui non estendevasi la lettera di questa disposizione, per trattarsi o di una figlia o di un nipote, potè bastare una semplice mancipazione per produrre ilmedesimo effetto. Le singolarità di questo genere si possono facilmente spiegare, quando si tenga conto della lette rale osservanza della legge, che era un carattere della primitiva iuris interpretatio. Questa interpretazione del resto trova un appoggio in Dionisio, II, 27. (2) Vedi quanto all'emancipatio, in quanto costituisce una capitis diminutio, ciò che si disse al nº 338, pag. 424, nota 4. Aggiungerò tuttavia agli autori colà ci tati il Voigt, Op. cit., II, $ 73, presso il quale occorre una raccolta completa dei passi relativi all'argomento, pag. 27 e 28, note 12, 13, 14. 537 padre concedeva una separata amministrazione al figlio;ma ciò punto non impedi, che essi, solo assai tardi e gradatamente,abbiano ottenuto il loro riconoscimento giuridico. Ed è notabile eziandio l'ordine e il processo, con cui vennesi operando tale riconoscimento, poichè si comincið dall' attribuire al figlio i guadagni, che egli avesse fatti servendo nella milizia (peculium castrense ); poi si assomigliarono ai lucri, da lui fatti in guerra, quelli fatti nell'esercizio delle pro fessioni liberali (peculium quasi castrense); da ultimo si presero in considerazione tutti quegli acquisti, che a lui fossero provenuti dagli ascendenti materni o in qualsiasi altra guisa (bona adventicia ). Intanto, mentre si modellavano così le varie specie di peculii, si introduceva ad un tempo una sapiente ed acconcia graduazione per determinare a queste proposito i diritti, che appartenevano al padre ed al figlio (1 ). Questi temperamenti tuttavia non tolgono, che la patria potestà continuasse sempre ad essere il rudere meglio conservato dell'an tica organizzazione della famiglia patriarcale, e quindi non è me raviglia se ad operá compiuta gli stessi giureconsulti fossero colpiti dal carattere particolare della patria potestà del cittadino romano, di fronte alle istituzioni degli altri popoli. 417. L'importanza di questa unificazione della famiglia sotto la patria potestà del padre viene a farsi anche più evidente, quando trattasi di quelle istituzioni, che hanno per iscopo di supplire in qualche modo al difetto di figliuolanza. Esse sono l'adrogatio, con cui si viene a sottoporre alla patria potestà una persona sui iuris, e la semplice adoptio, con cui un figlio ancora sottoposto alla patria potestà di una persona, viene ad essere costituito sotto la patria potestà di un altra. Le origini dell'una e dell'altra rimontano senza alcun dubbio all'organizzazione della famiglia patriarcale, nella quale (1) L'antichità del peculium è dimostrata dalla stessa etimologia della parola (a pecudibus). Del resto è facile a comprendersi, che lo stesso accentramento della famiglia nel proprio capo rendeva indispensabile la concessione di un certo peculio, così ai figli che ai servi. Anche qui pertanto il ius civile non creò già l'istituzione; ma la raccolse dalle costumanze, e diede alla medesima configurazione giuridica. Quanto all'ordine, con cui furono accolte le diverse forme di peculia, cfr. MUIRHEAD, Op. cit., pagg. 344 e 347; il PADELLETTI, Storia del dir. rom., ediz. Cogliolo, pag. 187, nota 4; il SERAFINI, Istituzioni di diritto romano, $ 169. Sono poi degne di nota, quanto all'istituzione dei peculii, le osservazioni del SumnER MAINE, L'ancien droit, pag. 134. 538 si proponevano l'intento importantissimo di perpetuare la famiglia ed il suo culto. Quella perd fra esse, che produceva più gravi ef fetti, al punto di vista gentilizio, era certamente l'adrogatio, come quella che sopprimeva in certo modo una famiglia ed il suo culto, per rendere possibile la perpetuazione di un'altra (1). Essa quindi, nella comunanza gentilizia, dovette probabilmente essere compiuta coll'approvazione dei capi di famiglia, o degli anziani del villaggio; donde la conseguenza, che quando fu poi trasportata nella città, essa fu uno di quegli atti solenni, che, al pari del testamento, dovevano es sere compiuti in calatis comitiis, coll'intervento dei pontefici, i quali dovevano vegliare al mantenimento dei culti pubblici e privati, e colle forme di una vera e propria legge. L'adoptio invece, riferen dosi a persona, che era ancora soggetta alla patria potestà, suppo neva da una parte la rinunzia del padre al proprio potere, il che facevasi col mezzo della mancipatio, applicando al solito l'atto per aes et libram, e dall'altra la sottomissione del figlio alla patria po testà dell'adottante, il che compievasi davanti al magistrato, me diante quella finta rivendicazione ed aggiudicazione, che costituiva l'in iure cessio. 418. Intanto qui viene ad essere evidente, che, siccome trattavasi di istituzioni di origine esclusivamente patrizia, perchè era sopratutto nella famiglia patrizia, che era viva ed efficace l'aspirazione a per petuare se stessa ed il proprio culto, cosi lo svolgimento storico di queste istituzioninon ritiene le traccie di un contributo diretto, che possa avervi recato la plebe. Le forme infatti, che le accompagnano, o sono di origine patrizia, come quella relativa all'adrogatio, o sono invece una elaborazione giuridica del diritto quiritario, comequelle che circondano l'adoptio, senza che trovinsi le traccie di un modo di adozione, che possa essere di origine plebea. Ciò però non tolse, che anche l'arrogazione e l'adozione abbiano finito per diventare una istituzione comune a tutti gli ordini sociali; ma intanto a misura che ciò accade, esse perdono sempre più il loro carattere gentilizio, finchè finiscono per informarsi ad un con cetto ispiratore compiutamente diverso. Esse infatti col tempo ces (1) Questo effetto dell'adrogatio è efficacemente espresso da PAPIN., Leg. 11, § 2, Dig. (37-11): « dando se in arrogando testator cum capite fortunas quoque suas in familiam et domum alienam transfert ». Quanto alle origini dell'adrogatio nel pe riodo gentilizio, vedi lib. I, n° 25, pag. 31. Le differenze poi fra l'adrogatio e l'a doptio sono sopratutto poste in evidenza da Gellio, V, 19. 539 sano dall'essere un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto; ma si limitano allo scopo di procurare le gioie della figliuolanza a coloro che siano privi della medesima, per guisa che in contrad dizione col diritto primitivo, anche le donne poterono adottare ed essere adottate. Così pure queste istituzioni, che negli inizii stacca vano affatto una persona dalla sua famiglia, per trasportarla in un'altra, finirono per modificarsi in guisa da contemperare i diritti della famiglia naturale con quelli della famiglia adottiva (1). 419. Rimane ora a dire brevemente del potere del padre di fa miglia sui servi. Anche qui non pud esservi dubbio, che la servitù rimonta al periodo gentilizio, e che essa non dovette essere propria delle genti italiche, ma comune a tutte le genti; come lo dimostra il fatto, che i Romani non riguardarono mai la servitù come istitu zione loro propria, ma comeuna istituzione del diritto delle genti (2 ). La medesima sotto un certo aspetto era un compimento necessario della famiglia patriarcale: perchè senza di essa questa non avrebbe potuto costituire un gruppo, che potesse bastare a se stesso. È quindi naturale, che quando il capo di famiglia entrò a parte cipare alla comunanza quiritaria, esso comparisse nella medesima non solo colla moglie e colla figliuolanza, ma anche coi servi, i quali vennero ad essere compresi nel suo mancipium, e costituirono così una parte integrante della famiglia romana (3 ). Per tal modo i servi diventarono in Roma gli strumenti intelligenti del cittadino romano, il quale potè valersi di essi per esercitare qualsiasi ne gozio o commercio, senza derogare alla sua dignità, ed anche per evitare ai proprii figli l'ignominia di una eredità passiva, chia mandoli anche loro malgrado a succedergli, in qualità di heredes necessarii (4). Si comprende quindi, che al punto di vista giuri dico i servi fossero considerati come cose, anzichè come persone, e che il potere del padrone sopra di essi apparisse illimitato e senza confine. Tuttavia, anche qui la famigliarità dei rapporti fra il pa drone ed i servi, l'intimità di vita, che eravi talora tra i figliuoli (1) Quanto all'ultimo stadio del diritto civile romano nello svolgimento dell'ado zione, vedi Justin., Instit. II, XI. (2 ) Fra gli altri Gaio, I, 52, dichiara espressamente, che la potestas sui servi iuris gentium est. (3 ) Come i servi costituissero una parte integrante della famiglia risulta ad evi. denza dai passi raccolti dal Voigt, XII Tafeln, II, pag. 12 e segg., e note relative. (4 ) GAIO, II, 152; ULP., Fragm. XXII, 11 e 24. 540 - dell'uno e quelli degli altri, l'abnegazione frequente dei servi per il loro padrone, e la necessità stessa, in cui fu la legge di porre dei limiti alla facoltà di manomettere i proprii servi, sono circo stanze che dimostrano, come anche la condizione effettiva dei servi, sopratutto nei primi tempi di Roma, non corrisponda in ogni parte alla severità, con cui essa ebbe ad essere governata sotto l'aspetto giuridico (1). 420. In ogni caso è cosa fuori di ogni dubbio, che la condizione dei servi ebbe a subire ancor essa una trasformazione profonda nel pas saggio dall'organizzazione gentilizia alla città propriamente detta. Giuridicamente parlando, il potere del padrone appare forse più rigido nella città, che non nel periodo gentilizio; ma in essa il servo ha il vantaggio di poter essere fatto libero, e di essere così elevato alla dignità di cittadino. Mentre dapprima il servo manomesso do veva, per la stessa necessità delle cose, cercare protezione e tutela nel gruppo, a cui apparteneva, e quindi col cessare di esser servo doveva trasformarsi in cliente: nella città invece, sopratutto dopo Servio Tullio, a cui si attribuisce di aver attribuita la cittadinanza ai servi affrancati, il servo manomesso venne ad essere sotto la protezione della pubblica autorità, e potè colla libertà acquistare anche la cittadinanza. Colla manomissione pertanto viene a verifi carsi la più profonda trasformazione nello stato giuridico, di cui ci porga esempio il diritto civile romano. Con essa il servo, che era considerato come una cosa, viene a trasformarsi in una persona, e colui, che non aveva nė libertà, nè cittadinanza, nè posizione nella famiglia, viene ad acquistare tutte queste cose ad un tempo. Solo rimangono le traccie dell'antico stato di cose nella istituzione del patronato, la quale deve perciò essere considerata come una soprav vivenza dell'organizzazione gentilizia. Malgrado di ciò, questa impor tantissima trasformazione nello stato di una persona viene dapprima ad essere rimessa intieramente all'arbitrio del quirite, il quale può manomettere i proprii servi vindicta, censu, testamento, ed ha cosi potestà di accrescere indefinitamente il numero dei cittadini romani. (1) Nota giustamente l'HÖLDER, Istituz., $ 42, pag. 117, che il servo, ancorchè sia considerato come una cosa, non perde però la sua qualità d'uomo, poichè gli si ri conoscono le facoltà, che lo distinguevano come uomo, prima dell'altrui dominio. È questo il motivo, per cui il potere sullo schiavo chiamavasi potestas, e gli atti acqui. sitivi da lui compiuti erano stati validi, come se fossero stati compiuti dal suo padrone. 541 Anche qui fu solo più tardi, che l'esercizio illimitato di questa po testà privata sembrò essere in conflitto colle esigenze del pubblico interesse, e allora, mentre da una parte si cercd di assicurare i di ritti del patrono sull'eredità dei liberti, dall'altra si cerco di met tere dei confini alla manomissione dei servi, il che si ottenne in parte coll'introdurre gradazioni diverse nella libertà, che era accor data ai servi (1). Fu in questa guisa, che al concetto di un'unica libertà i giureconsulti, interpretando le leggi Aelia Sentia e Junia Norbana, sostituirono le categorie diverse dei latini, dei latini iu niani, e dei dediticii, la cui libertà può essere migliore o peggiore, secondo che essa lasci più facile l'adito alla cittadinanza romana: « pessima itaque, conchiude Gaio, eorum libertas est, qui dediti ciorum numero sunt, nam ulla lege, aut senatus consulto, aut con stitutione principali aditus illis ad civitatem romanam datur » (2 ). 421. Da ultimo anche le persone libere, quae in causa mancipii erant,dovettero pur esse avere un posto in questa costruzione giuridica della famiglia romana, il che si ottenne collocandole nella posizione di servi (servorum loco habentur), per tutto quel tempo per cui erano date a mancipio. Tuttavia i giureconsulti stessi hanno cura di notare, che la concezione giuridica non deve in questa parte essere confusa colla realtà, come lo prova questa notevole proposizione di Gaio: « admonendi sumus, adversus eos, quos in mancipio ha bemus, nihil nobis contumeliose facere licere; alioquin iniuria rum actione tenebimur: ac ne diu quidem in eo iure detinentur homines, sed plerumque hoc fit dicis gratia, uno mo mento, nisi scilicet ex noxali causa mancipentur » (3 ). Con ciò parmi di aver abbastanza dimostrato, che la rigidezza, con cui fu modellata nel diritto civile di Roma la potestà spettante al capo di famiglia, trova la sua causa in ciò, che i Romani, anche in (1) È notabile a questo riguardo, che il più antico diritto di Roma, come lasciava al cittadino piena libertà dimanomettere i propri servi, così, in omaggio sempre alla libertà del testatore,non aveva tutelato in nessun modo le ragioni del patrono contro il testamento del liberto. Ciò viene attestato da Gaio, III, 40, 41, il quale, dopo aver detto, che « olim licebat liberto patronum suum impune in testamento prae terire » aggiunge poi che il diritto pretorio e poscia la legge Papia Poppea avevano cercato di riparare a questa iuris iniquitas. (2 ) Gaio, 1, 26; Ulp., Fragm., I, 5. (3 ) Gaio, I, 141. 542 questa parte, trasportarono nella città il potere del capo di famiglia patriarcale; lo isolarono dall'ambiente, in cui erasi formato e da ogni elemento estraneo al diritto; e riuscirono così a dare una configu razione prettamente giuridica, ad un potere, che in realtà conti nuava poi a trovare molti temperamenti nel costume e nella morale. Questi caratteri della famiglia romana trovano poi una conferma nel modo, in cui era governata la successione legittima, nel primi tivo diritto di Roma. § 4. – La successione e la tutela legittima nel primitivo ius quiritium. 422. L'ordinamento giuridico della famiglia primitiva in Roma presenta eziandio questa singolarità, che mentre, vivo il padre, tutto sembra unificarsi in lui, mancando invece il medesimo, senza aver disposto delle proprie cose per testamento (si intestato moritur), ricompare una specie di comproprietà famigliare fra le persone, che dipendono dalla sua patria potestà. Queste persone infatti son chia mate a succedergli come heredes sui; non possono respingerne la eredità (heredes sui et necessarii); che anzi, senza bisogno di una vera e propria accettazione, sembrano essere direttamente investite dalla legge stessa di quel patrimonio famigliare, di cui già prima apparivano comproprietarie: « sui quidem heredes, dice Gaio, ideo appellantur, quia domestici heredes sunt et vivo quoque parente quodammodo domini existimantur » (1). Molti autori combatterono il concetto di questa comproprietà fa migliare, dicendola in contraddizione colla unificazione potente della famiglia romana nella persona del proprio capo (2). A nostro avviso invece questa specie di comproprietà, che i giureconsulti pongono a fondamento della successione degli heredes sui, può essere facil mente spiegata e conciliata coll'unità potente della famiglia romana, (1) GAIO, II, 157. (2 ) Fra gli autori, che combattono questa comproprietà famigliare, mi limiterò a citare il PADELLETTI, Op. cit., pag. 201, e il Cogliolo, Saggi di evoluzione nel di ritto privato, pag. 108 e segg.; il quale, a pag. 111, in nota, fa pure un elenco degli autori, che tengono per l'una o per l'altra opinione. Fra quelli, che ammettono questa comproprietà famigliare, vuolsi aggiungere il DUBOIS, La saisine héréditaire en droit romain, Paris, 1880, pag. 63, e il CARPENTIER, Essai sur l'origine et l'étendue de la règle: nemo pro parte testatus, pro parte intestatus decedere potest, nella « Nouvelle Revue historique », 1886, pag. 457 e segg. 513 quando si ritenga che la famiglia quiritaria non è in sostanza, che la stessa famiglia patriarcale, trasportata nella città, ed isolata dal l'ambiente gentilizio, in cui erasi formata. La famiglia patriarcale infatti riuniva appunto due caratteri, pressochè opposti fra di loro; quello cioè di apparire da una parte unificata nella persona del padre, il che la rendeva unita e compatta per la lotta, che doveva sostenere cogli altri gruppi, da cui era circondata; e quello di sup porre dall'altra un'assoluta comunione di tutte le utilità domestiche, il che produceva un'intima solidarietà fra le persone, che entravano a costituirla. In questo senso potevasi dire di essa con Cicerone: « una domus, communia omnia ». Questa solidarietà e compro prietà fra i membri del medesimo gruppo famigliare viene ad essere dimostrata dai seguenti indizii: che il primitivo heredium era di sua natura trasmessibile di padre in figlio; che il padre trovava un ostacolo alla dilapidazione del patrimonio famigliare, nel iudicium de moribus per parte del consiglio degli anziani della gens; che il padre infine non poteva disporre delle proprie cose per testamento, nè scegliersi un figlio adottivo senza l'approvazione degli altri capi di famiglia, che appartenevano alla sua gente o tribù (1). Vero è, che tutti questi temperamenti del potere patriarcale del capo di famiglia sembrano scomparire, quando, col formarsi della città, la famiglia venne ad essere staccata dal gruppo patriarcale, di cui entrava a far parte, e il capo di essa apparve così investito di un potere illimitato e senza confini; ma ciò deve essere considerato come un effetto di quella elaborazione giuridica, che tendeva ad uni ficare la famiglia nella persona del proprio capo. Era quindinatu rale, che, quando questa unificazione non era più possibile per la mancanza del capo, risorgesse la primitiva comproprietà famigliare fra le persone libere, che appartenevano allo stesso gruppo. Che anzi la stessa unificazione potente del gruppo nel proprio capo do veva determinare una specie di comunione fra i membri del gruppo, e condurre così alla conseguenza giuridica, che in questo caso non si avverasse una vera successione, ma il dominio del padre conti nuasse in certo modo nella persona dei figli; conseguenza, che ebbe ad essere mirabilmente espressa dal giureconsulto Paolo: in suis heredibus evidentius apparet continuationem dominii eo rem per ducere, ut nulla videatur hereditas fuisse, quasi olim hi domini (1) Ho cercato di dimostrare questi caratteri della proprietà famigliare nel pe riodo gentilizio nel lib. I, cap. 4, § 3º, sopratutto pag. 70 e segg. 544 essent, qui, vivo etiam patre, quodammodo domini existimantur. Itaque post mortem patris non hereditatem percipere videntur, sed magis liberam bonorum administrationem consequuntur (1). Fu in questa guisa, che la famiglia primitiva potè perpetuarsi nelle generazioni, e cambiarsi in un organismo immortale e perpetuo, poichè i figli apparivano come i continuatori della personalità del padre, e al modo stesso, che dovevano perpetuare il culto domestico, così dovevano raccoglierne, anche loro malgrado, l'eredità. 423. Nè si può ammettere, che questa specie di comproprietà, a cui accennano i giureconsulti, sia un concetto penetrato più tardi nella classica giurisprudenza, per spiegare il passaggio del patrimonio famigliare dal padre nei figli (2 ): poichè questo intimo rapporto fra l'hereditas ed i sacra, è certo un concetto, che rimonta all'an tichissimo diritto, come pure è a questo, che deve farsi risalire quella posizione del tutto speciale, che gli heredes sui assumono di fronte agli altri ordini di eredi. Questa distinzione infatti già doveva esistere nella universale coscienza, all'epoca della legislazione decem virale. In questa infatti non si fa menzione espressa della succes sione dell'heres suus, ma solo vi si accenna come a cosa, che na turalmente accade, e che quasi non abbisogna di speciale menzione; mentre è solo per il caso, in cui non siavi un heres suus, che le XII Tavole determinano l'ordine della successione per legge, chia mando alla medesima prima l’agnatus proximus, e in mancanza del medesimo i gentiles: « si intestato moritur, cui suus heres nec escit, adgnatus proximus familiam habeto; si adgnatus nec escit, gentiles familiam habento » (3). Che anzi a questo proposito parmi di poter con fondamento inol trare la congettura, che in occasione della legislazione decemvirale le genti patrizie cercarono di trasportare nel ius proprium civium (1) PAOLO, Leg. 11, Dig. X (28-2). V. nel CARPENTIER, Op. e loc. cit., una rac colta di testi che confermano questa comproprietà famigliare. (2) Tale sarebbe l'opinione del PADELLETTI, Op. cit., pag. 201. (3 ) Queste due disposizioni delle XII Tavole, secondo il Voigt, Op. cit., I, pag. 704, sarebbero la 2a e la 3a legge della Tav. IV. A questo proposito poi il Voigt, Op. cit., II, pag. 387, sembra ritenere, che esistesse una comproprietà di fatto, ma non di diritto. Convien però ammettere, che tale comproprietà producesse, dopo la morte del padre, delle vere conseguenze di diritto, dal momento che faceva considerare gli heredes sui, come continuatori della personalità del padre, e li metteva anzi nella impossibilità di rinunziarvi. Vedi Gaio, I, 157. - 545 romanorum, e di rendere così comune a tutte le classi quel sistema di successione ab intestato, che doveva già esistere nel loro costume durante il periodo gentilizio. Noi sappiamo infatti dagli stessi giu reconsulti, che colle XII Tavole soltanto ebbe ad essere introdotto il sistema di successione legittima, e ne abbiamo anche una prova nella circostanza, che fu perfino introdotto un ordine di eredi le gittimi, che era quello dei gentiles, il quale non poteva certo appar tenere alla plebe, dal momento che questa non possedeva le gentes. Per tal modo il patriziato, che già aveva trasportata nella comu nanza quiritaria la propria organizzazione domestica, riusci eziandio a farvi penetrare il proprio sistema di successione. Di qui la con seguenza, che anche il sistema successorio dei romani deve essere considerato come una sopravvivenza dell'organizzazione patriarcale della famiglia patrizia; come lo dimostra la circostanza, che esso fondasi esclusivamente sull'agnazione, non tiene alcun conto della cognazione, e si propone come scopo esclusivo di perpetuare il pa trimonio nella famiglia agnatizia, e di farlo ritornare alla gente, al lorchè siasi estinta la famiglia (1). Per tal modo, in base alla legislazione decemvirale, noi veniamo a trovarci di fronte a tre ordini di eredi, che sono: lº gli heredes sui, nei quali si comprendono la moglie, i figli cosi maschi come femmine e gli altri discendenti nella linea maschile, tutte le per sone insomma, che erano soggette alla patria potestà del capo di famiglia; 2 ° gli agnati, cioè tutti coloro, che discendono per la linea maschile da un comune autore, alla cui potestà sarebbero stati sog getti, quando non fosse premorto; 3º e da ultimo i gentiles, ossia tutti coloro, i quali, più non essendo compresi nella familia omnium agnatorum, hanno però comune la discendenza da un medesimo (1) Che la successione e la tutela legittima siano state introdotte dalle XII Ta vole, mentre queste non avrebbero fatto altro, che confermare le successioni testa mentarie, è cosa a più riprese affermata da ULPIANO, Fragm. XI, 3, e XXVII, 5. Di qui ilMuirhead avrebbe perfino indotto, che i decemviri abbiano creato di pianta l'ordine degli agnati, come tutori e successori legittimi (Op. cit., pag. 122 e 172 ). Ho già dimostrato più sopra, pag. 39, nota 1", che questa opinione non può essere accettata, perchè l'ordine degli agnati già esisteva nell'organizzazione gentilizia, ed il concetto dell'agnazione stava a fondamento della medesima; ma intanto questa sua opinione può essere accolta, quando sia intesa nel senso, che i decemviri colle XII Tavole estesero anche alla plebe quel sistema di successione legittima, che le consuetudini avevano già svolta presso le genti patrizie. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 35 546 antenato, e come tali hanno ancora ilmedesimo nome e appartengono alla stessa gente. 424. È poi degno di nota il modo diverso, con cui questi varii ordini di eredi sono chiamati a succedere. Finchè trattavasi di heredes sui, essi, essendo soggetti alla patria potestà della stessa persona, e come tali appartenendo almedesimo gruppo, venivano in certo modo ad essere eredi di se stessi; esclu devano gli emancipati, le figlie passate a matrimonio e cosi entrate in un'altra famiglia, tutti coloro insomma, che erano già usciti dal gruppo; non abbisognavano di vera accettazione dell'eredità, ma suc cedevano anche loro malgrado (heredes sui et necessarii): non potevano essere spogliati dell'eredità mediante l'usucapio pro he rede; infine succedevano per stirpe, ossia per rappresentazione, perchè nella costituzione della famiglia primitiva i figli rappresen tano il padre (1). Quando trattavasi invece di agnati, il patrimonio doveva già uscire da un gruppo per passare ad un altro: quindi la legge, per impedirne la suddivisione soverchia, si limitava a devolverlo allo agnatus proximus, escludendone ogni altro. Questi però non può più essere considerato come un heres suus, ma è già un heres extraneus, perchè più non appartiene al gruppo famigliare nello stretto senso della parola. Egli quindi ha già facoltà di accettare o di respingere l'eredità, e può vedersi usucapita l'eredità da altre per sone. Nella interpretazione dei giureconsulti prevalse poi l'opinione, che nell'ordine degli agnati non dovesse farsi luogo alla successione per stirpi o per rappresentazione, forse perchè nel concetto romano è solo nei limiti della stessa famiglia, che i figli appariscono come i rappresentanti dei loro genitori. Quindi è, che l'agnato prossimo esclude tutti gli altri agnati, e se egli non accetti o non possa ac cettare l'eredità, questa viene ad essere devoluta all'altro ordine, ossia ai gentiles (2 ). (1 ) Gaio, III, 1 a 8; Ulp., Fragm., XXIV, 1 a 3. (2) GAIB, III, 9 a 15, Ulp., Fragm., XXIV, 1. L'enumerazione, che Gaio ed Ulpiano fanno degli agnati, confermano il concetto, che ho svolto nel lib. I, pag. 38 e 39, secondo cui la cerchia degli agnati sarebbe stata determinata da quella in divisione di patrimonio, che, morto il padre, mantenevasi fra i fratelli e i loro di scendenti per la linea maschile. Questo gruppo continuava in certo modo l'unità indivisa della famiglia, e costituiva quella famiglia più grande, che fu chiamata 547 Qui però l'espressione della legge cambia, in quanto che essa dice senz'altro: « si agnatus proximus nec escit, gentiles familiam habento »; il che fa ritenere, che i gentili non fossero chiamati a succedere come individui, ma in quanto costituivano l'ente collet tivo della gens, cosicchè l'eredità sarebbe in certo modo ritornata alla gente considerata nella propria universalità, e sarebbe così ve nuta a ricadere in quell'ager gentilicius, da cui si erano staccati i primitivi heredia delle singole famiglie. Era sopratutto in questa parte, che erasi cercato di mantenere viva nella città l'antica orga nizzazione gentilizia: ma l'istituzione non potè mantenersi a lungo come lo dimostra Gaio, il quale parla di questo ius gentilicium, come di cosa andata da lungo tempo in disuso (1). Non ha poi bisogno di essere dimostrato, che questo sistema di successione per legge, desunto dall'antica organizzazione gentilizia, trovava il proprio compimento nella disposizione, per cui la succes sione del cliente o del liberto, che fosse morto senza testamento o senza eredi suoi, veniva dalla legge ad essere devoluta al patrono, od ai figli di lui, od infine alla gente del patrono: « si cliens in testato moritur, cui suus heres nec escit, pecunia ex eius fa milia in patroni familiam redito » (2). omnium agnatorum. Quando poi venne meno quest' indivisione del patrimonio, si chiamarono agnati tutti coloro, che sarebbero stati soggetti alla patria potestà, quando il padre non fosse premorto. Fra essi ULPIANO, loc. cit., comprende anzitutto quelli, che egli chiama i consanguinei, « id est fratres et sorores ex eodem patre »; poscia, quando questi manchino, gli altri agnati prossimi « id est cognatos virilis sexus, per mares discendentes, eiusdem familiae, (1) Gaio, III, 17; UlP., Fragm., XXIV, 1. Noi abbiamo tuttavia CICERONE, De orat., I, il quale accenna ad una causa di eredità, dibattutasi davanti ai Centum viri fra i Claudii patrizii ed i Marcelli discendenti da un loro liberto, in cui dice che gli oratori delle parti dovettero occuparsi « de toto stirpis ac gentilitatis iure ». Sembra tuttavia, che anche all'epoca di Cicerone fossero già infrequenti le cause di questo genere. (2 ) Ulp., L. 195, § 1, Dig. (50, 16). Nella ricostruzione del Voigt, I, pag. 705, questa legge sarebbe la 4a della Tavola IV. Vedi ciò che dice lo stesso Voigt, II, pag. 392 e 393, quanto alla successione del patrono al liberto. Anche quanto alla successione del liberto si manifesta una specie di antagonismo fra la successione testamentaria e la legittima; poichè,mentre nella prima il liberto poteva nei primi tempi (V. Gaio, III, 40-41) dimenticare impunemente il suo patrono, la seconda invece, introdotta eziandio dalle XII Tavole, tendeva a richiamare il patrimonio del liberto alla famiglia del patrono, quando il primo fosse morto senza eredi suoi. 548 425. Per contro è assai degno di nota, che, unitamente al sistema della successione legittima, dalla legislazione decemvirale fu eziandio introdotto il sistema della tutela legittima. Di cid abbiamo l'espressa attestazione dei giureconsulti (1): ma la prova più convincente vuolsi riporre nella circostanza, che il sistema della tutela legittima, quale ebbe ad essere regolato dalle XII Tavole, é coordinato con quello della successione legittima, ed obbedisce al medesimo concetto ispi ratore. Per giustificare la cosa i giureconsulti più tardi misero in nanzi la considerazione, che l'onere della tutela doveva cadere su coloro, che avevano il vantaggio della successione: « ubi emolu mentum successionis, ibi onus tutelae »; ma la causa storica deveessere cercata nel fatto, che tanto la tutela, che la successione le gittima si informano ancora ai concetti dell'organizzazione genti lizia, da cui furono desunte, e come tali mirano a conservare il patrimonio prima alla famiglia agnatizia e pos cia alla gente. Viene così a comprendersi, come nel sistema primitivo la tutela degli im puberi ed anche la cura dei prodighi e dei furiosi, fosse affidata agli agnati ed ai gentili; come le donne, anche perfectae aetatis, cadessero sotto la tutela degli agnati; come infine le res mancipii, spettanti alle medesime e ai pupilli, non potessero essere usucapite, quando non si fossero alienate col consenso del tutore. Così pure viene a spiegarsi quel singolare carattere della tutela primitiva del l'impubere, la quale mira piuttosto alla conservazione del patrimonio, che non alla educazione della persona, la cui cura soleva essere lasciata alla madre ed agli altri congiunti, i quali si ispiravano di preferenza all'affetto del sangue, che all'interesse gentilizio di ser bare integro il patrimonio famigliare (2). i 426. Chi tuttavia riguardi al posteriore svolgimento del diritto civile romano, può facilmente inferirne, che tanto il sistema della successione, quanto quello della tutela legittima, non trovarono mai favorevole svolgimento nella opinione comune della cittadinanza ro mana. Conformi al modo di pensare di quella minoranza patrizia, che si atteneva strettamente alle tradizioni gentilizie, esse invece ripugnavano al modo di sentire delle altre classi, i cui rapporti di (1) Ulp., Fragm., XI, 3. (2) È da vedersi, quanto alla tutela legittima e ai suoi caratteri peculiari, il Pa DELLETTI, Op. cit., pag. 188 e le note relative. 549 famiglia si ispiravano di preferenza al vincolo naturale del sangue e della cognazione. A misura poi, che le traccie dell'organizzazione gentilizia si venivano dissolvendo sotto l'influenza della vita citta dina, questo sistema di successione e di tutela apparve disadatto a quei magistrati stessi, che dovevano applicarlo. È questo il motivo, per cui Gaio a questo proposito non parla solo di sottigliezze del l'antico diritto, ma di vere iuris iniquitates; alle quali cercò poi di riparare il diritto pretorio, introducendo, accanto alla successione legittima, una successione pretoria, e creando, accanto ai tutores legitimi, i tutores Atiliani o dativi. Fu pur questo il motivo, per cui i giureconsulti mal potevano spiegarsi la tutela perpetua, a cui le donne erano sottoposte nell'antico diritto, e vennero creando essi stessi degli espedienti giuridici, quale fu quello veramente ca ratteristico della coemptio cum fiducia, per liberarle da una tutela, le cui ragioni dovevano forse essere cercate in un periodo anteriore di organizzazione sociale (1). In ogni caso poi una prova di questa generale condanna del si stema di successione e di tutela legittima può scorgersi eziandio nel largo sviluppo che presero in Roma la successione e la tutela testamentaria, e nell'antagonismo che sembra esistervi fra le due maniere di successione. $ 5. – Rapporti fra la successione legittima e la testamentaria nel diritto primitivo di Roma. 427. È noto che in Roma la successione legittima e la testamen taria non poterono mai fondersi insieme, e si mantennero anzi in una specie di antagonismo fra di loro. Ciò è dichiarato espressa mente dal giureconsulto, che scorge nelle due istituzioni un natu (1) Fra i giureconsulti, che non sanno darsi ragione della tutela perpetua, a cui le donne erano sottoposte, abbiamo Gaio, I, 190. È tuttavia a notarsi, che egli, più sotto, I, 192, finisce per indicare la vera ragione, per cui anche le donne erano sot toposte alla tutela dei loro agnati; la quale consiste in ciò, che siccome gli agnati erano chiamati a succedere alle donne, che morissero ab intestato, così essi avevano interesse a che esse, senza il loro consenso, non potessero fare testamento, nè alienare le cose più preziose, che entravano a costituire il patrimonio. Per tal modo la tutela degli agnati ebbe lo scopo stesso della loro successione legittima, quello cioè di conservare il patrimonio nella famiglia agnatizia; il qual concetto è per certo uno di quelli, le cui origini debbono essere cercate nel periodo gentilizio. 550 rale conflitto; è confermato dalla massima: nemo paganus partim testatus, partim intestatus decedere potest; ed è provato eziandio da quella specie di ripugnanza, che avevano i Romani a morire senza testamento: ripugnanza, che si spinse fino a tale da ritenere pressochè disonorato chi morisse senza testamento. Il fatto può quindi essere affermato con certezza; ma è tanto più ardua la spie gazione di esso, come lo dimostra la varietà grandissima di opinioni e di congetture, che furono emesse in proposito (1 ). Credo tuttavia, che anche in questa parte possa condurci a qualche conclusione, forse nuova, lo studio delle origini del ius quiritium. Questo studio infatti ci pone in grado di affermare, che la succes sione legittima ed il testamento hanno avuto una origine e uno svolgimento compiutamente diversi nel primitivo ius quiritium. Mentre la successione e la tutela legittima, le quali soltanto colle XII Tavole entrarono a far parte del diritto comune, sono istitu zioni di origine prettamente gentilizia, ispirate al concetto di ser (1) L'origine storica della massima « nemo paganus, ecc. » è una questione, che è lungi dall'essere risolta, malgrado la ricchissima letteratura, di cui fu argomento. Fra autori, che la esaminarono di recente, citero soltanto il RUGGERI, nei Documenti di storia e di diritto; il CARPENTIER, nella Nouvelle Revue historique, 1886, pag. 449 a 474; il Padel LETTI, La istituzione di erede ex re certa (« Archivio giuridico », vol. IV ). Anche l'ESMEIN, La manus, la paternité, ecc., pag. 4, nota 10. accenno di passaggio ad una spiegazione di questa massima, dicendo che la medesima proveniva da che il patrimonio si trasmetteva come l'accessorio di un culto, e che siccome di un culto non si poteva disporre per una parte soltanto, così non si poteva neppure lasciare un'eredità parte per testamento e parte per legge. Parmi che questa non possa an cora essere la risoluzione definitiva: poichè se un culto poteva dividersi fra più eredi legittimi, non vi può essere ragione, per cui non si potesse anche dividere fra eredi legittimi e testamentarii. Il CARPENTIER poi, nel suo dotto lavoro sopra citato, verrebbe alla conseguenza, che questa massima fosse una conseguenza logica del concetto romano, per cui tanto la successione legittima, quanto la testamentaria, do vevano comprendere l'intiero patrimonio; ma anche qui si potrebbe sempre dire, che quest'universum ius, come poteva dividersi fra gli eredi per legge e testamentarii; così avrebbe potuto dividersi eziandio fra gli uni e gli altri. Secondo il RUGGIERI, Op. cit., il motivo della massima starebbe in ciò, che anche il testamento dapprima era una vera lex, e quindi doveva prevalere o la lex publica o la lex testamenti,ma non potevano concorrere insieme; ma egli è evidente, che questa ragione, se po trebbe valere per il testamentum in calatis comitiis, non può certo applicarsi al testamentum per aes et libram, che non ha più il carattere di una legge. Fu questo il motivo, per cui ho creduto didover cercare la causa prima di questa mas sima nella stessa dialettica fondamentale, a cui si informa il diritto primitivo di Roma. 551 - bare il patrimonio alla famiglia agnatizia ed alla gente; il testamento invece, che prevalse nel ius quiritium, non è più il testamento delle genti patrizie, ma è già un'applicazione dell'atto quiritario per ec cellenza, ossia dell'atto per aes et libram, che si ispira al prin cipo: uti legassit, ita ius esto. In quella prevale ancora lo spirito conservatore dell'antico gruppo patriarcale: mentre in questo già campeggia la fiera individualità del quirite, la cui volontà solenne mente manifestata deve essere legge, anche per il tempo in cui avrà cessato di vivere (1). A cið si aggiunge, che la successione legittima e la testamentaria, nella struttura organica del ius quiritium, muovono da un con cetto fondamentale compiutamente diverso. Mentre infatti la suc cessione legittima prende le mosse dal ius connubii, ed è quindi una conseguenza dell'organizzazione giuridica della famiglia romana, il testamento invece, che prevalse nel diritto quiritario, fu un'ap plicazione del principio: « qui nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto »; come tale, esso prese le mosse dal ius commercii, e fu considerato come un mezzo di disporre libe ramente delle proprie cose (2 ). Fu sopratutto questa circostanza del l'essere le due istituzioni partite nella loro elaborazione giuridica da un concetto fondamentale diverso, che impedì alle medesime di con fondersi e di compenetrarsi insieme; poichè è un carattere della dialet tica quiritaria, che gli istituti giuridici, una volta separati, obbediscano ciascuno al proprio concetto ispiratore, nè sogliano mai confondersi con un altro, che si informi ad un concetto compiutamente diverso. Tale sembra appunto essere la significazione della celebre regola del giureconsulto Paolo: « ius nostrum non patitur eundem in paganis et testato et intestato decessisse, earumque rerum natu raliter inter se pugna est, testatus et intestatus » (3 ). Per verità (1) Quanto al carattere diverso di queste due successioni vedi il cap. III, § 4, in cui si discorre della successione testamentaria, ed il $ precedente relativo alla successione legittima. (2) Questo carattere speciale del testamento per aes et libram è attestato, ancorchè solo di passaggio, da Cic., De orat., I, 57, § 245; ma è poi dimostrato all'evidenza da ciò, che questo testamento ebbe ad essere ritenuto come un negozio, che compie vasi fra testatore ed erede, e in cui la volontà del testatore dominava sovrana. (3) Paolo, Leg. 7, Dig. (50-17). Secondo il PadELLETTI, Storia del dir. rom., pag. 201, questa massima sarebbe invece una conseguenza della superiorità esclusiva della successione testamentaria sulla legittima; ma questo non è ancora un motivo adeguato per impedire che le due eredità si confondessero fra di loro. 552 sarebbe stato illogico, che quel diritto, il quale in tutto il suo svi luppo tenne sempre mai distinte fra di loro le obbligazioni e i trasferimenti di proprietà, di cui quelle erano partite dal concetto primitivo del nexum e questi da quello del mancipium, avesse pui consentito, che concorressero insieme due istituzioni, le quali muove vano da concetti fondamentali anche più distanti fra di loro. Questo quindi fu uno dei casi in cui la logica quiritaria non volle piegarsi alle nuove esigenze, e si limitò ad introdurre una eccezione a fa vore del testamento dei soldati. 428. Qui intanto cade in acconcio di esaminare brevemente un'altra gravissima questione, quella cioè della precedenza, che nel diritto primitivo di Roma abbia avuto la successione legittima o la successione testamentaria. Sull'autorità del Sumner Maine, suole essere generalmente seguita l'opinione, che nella evoluzione storica del diritto romano dovette precedere la successione ab intestato, poichè la possibilità del testa mento, anche nel diritto romano, avrebbe cominciato dall'essere am messa soltanto in quei casi, in cui non vi fosse figliuolanza, e poi sarebbe stata estesa anche agli altri casi (1). Mentre ritengo, che questa opinione possa essere conforme al vero, per quanto si rife risce al periodo gentilizio, nel quale il testamento non dovette essere, che un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto, per il caso in cui non vi fossero dei figli, crederei invece, che essa non sia con forme all'evoluzione storica, che ebbe ad avverarsi nel ius quiritium. Sonvi infatti degli indizii, che ci inducono ad affermare, che nel ius quiritium penetrd dapprima il testamento, mentre la successione legittima vi fu solo introdotta più tardi, e che il testamento ebbe fin dal principio una prevalenza incontrastata sulla successione le gittima. È noto infatti, che Ulpiano dice espressamente, che la suc cessione legittima fu introdotta dalle XII Tavole, mentre queste invece avrebbero confermata la successione testamentaria; il che indica appunto, che il testamento era già comune ai due ordini, e aveva già subito l'elaborazione del ius quiritium, mentre la suc cessione legittima non sarebbe penetrata nel diritto comune, che colla legislazione decemvirale. Anteriormente a quest'epoca la suc cessione legittima, per ciò che si riferisce agli agnati ed ai gentili, (1) SUMNER MAINE, L'ancien droit, pag. 186. 553 doveva probabilmente essere esclusivamente propria delle genti pa trizie, le cui consuetudini in quest'argomento erano certo diverse dalle semplici costumanze della plebe (1). Appare poi fino all'evidenza dalle espressioni stesse delle XII Tavole, che la successione testamentaria ha una prevalenza indiscutibile sulla successione legittima, in quanto che quest'ultima non può verificarsi, che quando manchi il testa mento (si intestato moritur); il qual concetto perdurò poi per tutto lo svolgimento storico del diritto civile romano (2 ). In cid abbiamo un'altra prova, che il ius quiritium non deve essere considerato unicamente, come il frutto di un'evoluzione lenta e graduata delle istituzioni giuridiche, a misura che ne occorra il bisogno, ma piuttosto come il frutto di una selezione su materiali giuridici preesistenti. In esso infatti istituzioni più antiche penetra rono talvolta più tardi di altre, la cui formazione nella realtà dei fatti doveva essere più recente. Così, ad esempio, la successione le gittima, che fu certo la prima a svolgersi nell'ordine dei fatti, fu l'ul tima a penetrare nel ius quiritium, mentre il testamento, che era stato ultimo a comparire, fu il primo ad esservi accolto, come quello che meglio rispondeva a quella potente individualità giuridica, che era il quirite. — Cid apparirà anche più evidente trattando del si stema delle actiones, le quali, mentre furono le prime a formarsi nell'ordine dei fatti, furono invece le ultime ad essere elaborate nel primitivo ius quiritium. (1 ) ULP., Fragm., XI, 3; XXVII, 5; L. 130, Dig. (50-16 ). (2) La prevalenza della successione testamentaria sulla legittima nel diritto civile romano è provata da una quantità grande di passi di giureconsulti, fra i quali mi limito a citaro i seguenti: « quamdiu possit valere testamentum, tamdiu legitimus non admittitur » (Paolo, L. 89, dig. 50, 17); « quamdiu potest ex testamento adiri hereditas, ab intestato non defertur » (Ulp., L. 39, dig. 29, 2). 554 CAPITOLO VI. Le legis actiones e la storia primitiva della procedura civile romana. $ 1.- Le origini della procedura ex iure quiritium. 429. Quella tecnica giuridica, di cui già si riscontrarono le traccie nelle varie parti del ius quiritium, appare anche più rigida e se vera nella parte, che si riferisce alla procedura delle legis actiones. È qui sopratutto, ove l'elemento giuridico del fatto umano compare del tutto isolato e disgiunto da ogni elemento estraneo, e ove l'ela borazione giuridica dell'antico diritto ebbe a spingersi a tal punto di tecnicismo da rendere difficile alle nostre menti il comprenderne i concetti direttivi, e la logica inesorabile, a cui obbedi nella pro pria formazione. Alla difficoltà intrinseca dell'argomento si aggiun sero poi altre cause, che contribuirono a mantenere in questa parte una quantità di dubbii e di incertezze, la quale non potè del tutto essere dileguata dalla scoperta delle istituzioni di Gaio, dalla ricchissima letteratura, che in seguito alla medesima ebbe a svolgersi sull'argomento (1). È noto infatti, in base alle attestazioni concordi degli antichi au tori, che la parte dell'antico diritto, relativa alla procedura delle legis actiones, ebbe ad essere custodita ed elaborata dal collegio dei pontefici, anche dopo le XII Tavole, e continuò cosi ancora a co e (1) Anche qui non mi propongo di dare una bibliografia completa: ma piuttosto di indicare le opere, di cui ho potuto giovarmi per il punto speciale di vista, a cui mi collocai in questo lavoro. Fra esse citerò lo ZIMMERN, Traité des actions, trail. Etienne, Paris 1843; BONJEAN, Traité des actions chez les Romains, Paris 1845; il KELLER, Il processo civile romano e le azioni, trad. Filomusi-Guelfi, Napoli 1872; BETHMANN-HOLLWEGG, Der röm. Civilprocess in seiner geschichtl. Entwichelung, 3 vol., Bonn 1864-66, e sopratutto il primo, che tratta delle legis actiones; BEKKER, Die Aktionen d. röm. Privatrechts, 2 vol., e sopratutto il vol. I, pag. 18-74; KAR LOWA, Der röm. Civilprocess zur Zeit d. Legisactionen, Berlin 1872; BUONAMICI, La storia della procedura civile romana, Pisa 1886, e sopratutto il 1°, da pag. 15 a 86; JHERING, L'esprit du droit romain, tome 36, pag. 312 a 343; MuiraEAD, Histor. Introd., pag. 181 a 235; Zocco-Rosa, Le palingenesi della procedura civile romana, Roma 1887; WLASSAK, Römische Processgesetze, Leipzig 1888. 555 stituire per qualche tempo un segreto di professione e di casta. Pomponio infatti attribuisce ai pontefici di aver modellate le legis actiones, in base alla legislazione decemvirale; egli anzi dice con Gaio, che di qui sarebbe provenuta la denominazione di legis actio nes, le quali poi per la prima volta sarebbero state rese di pubblica ragione da Gneo Flavio, segretario di Appio Claudio (1). La notizia poi, che ci pervenne di queste legis actiones, è molto imperfetta; poichè lo stesso Gaio, che è forse il solo che ebbe a discorrerne di proposito, ci descrive il sistema delle legis actiones nell'ultimo stadio del suo svolgimento, e quindi si limita alla enu merazione ed alla descrizione dei varii modi o genera agendi, al lorchè questi furono definitivamente formati, senza farci assistere alla progressiva formazione di essi, salvo quel poco, che egli ci dice, circa la introduzione della legis actio per condictionem. A ciò si aggiunge, che Gaio, discorrendo di un sistema di procedura già andato in disuso ai suoi tempi, si limita a cenni assai generali, i quali per giunta ci pervennero anche con gravissime lacune, quali quelle relative alla iudicis postulatio, ed alla condictio (2 ). 430. Da questa notizia, per quanto imperfetta, si possono tuttavia ricavare alcune illazioni, che, per quanto generali, sono perd impor tantissime per la ricostruzione della prima procedura quiritaria, che fu senz'alcun dubbio quella delle legis actiones. È certo anzitutto, che anche in questa parte il primitivo ius qui ritium non venne creando speciali procedure, per i varii casi, che si presentavano; ma parti invece da certe forme tipiche di proce dura, che i pontefici od il magistrato venivano poi accomodando ai casi particolari, per guisa che le primitive legis actiones costitui scono, secondo l'esatta espressione di Gaio, altrettanti modi o genera agendi, di cui ciascuno poteva comprendere una varietà di azioni particolari (3 ). Noi sappiamo in secondo luogo, che il sistema delle legis actiones è decisamente informato al concetto, secondo cui la procedura per ogni controversia, che percorresse tutti i suoi stadii, viene a divi dersi in due parti essenziali, di cui una compievasi in iure, cioè (1) Pomp., Leg. 2, § 6, Dig. (1, 2 ); Gaio, IV, 11. (2) V. Gaio, IV, 17, ove manca il foglio, in cui egli doveva trattare dell'actio per iudicis postulationem, e passare poi a discorrere della legis actio per condictionem. (3) Gaio, IV, 12, scrive:, lege agebatur modis quinque etc. 556 davanti al magistrato, e l'altra invece seguiva davanti al giudice singolo od al corpo collegiale dei giudici, al quale le parti potevano essere rimesse dal magistrato. Mentre in iure si decideva, se in quel determinato caso si potesse far luogo all'applicazione della legis actio, e si dava alla fattispecie la configurazione giuridica delle me desima; in iudicio invece giudicavasi della ragione e del torto fra le parti contendenti, in base alla configurazione giuridica, che la controversia aveva assunto davanti al magistrato (1). Ci consta infine, che le legis actiones si dividevano in due ca tegorie, ispirate ad un concetto compiutamente diverso, in quanto che vi erano quelle, che miravano a fissare il punto in questione e ad ottenere la decisione del medesimo, e costituivano così la pro cedura, che potrebbe chiamarsi processuale o contenziosa; e quelle invece, che miravano all'esecuzione del giudicato, e costituivano così la procedura esecutiva. Nella prima categoria noi troviamo la legis actio sacramento e la iudicis postulatio, alle quali venne ad ag giungersi più tardi la legis actio per condictionem; mentre nella seconda la vera procedura di esecuzione è costituita dalla manus iniectio, che è diretta contro la persona del debitore condannato o confesso, poichè solo in pochi casi, determinati dalla legge o dal costume, è accordata la pignoris capio (2). (1) Ho già accennato altrove n ° 243, pag. 296 e seg., come la distinzione fra il ius ed il iudicium debba considerarsi come una conseguenza necessaria di ciò, che la pubblica giurisdizione del magistrato non estendevasi dapprima a tutte le con troversie civili e penali, ma comprendeva soltanto quelle, che eransi sottratte alla giurisdizione domestica e gentilizia, per essere deferite alla giurisdizione del magi strato. Di qui la conseguenza, che ogni controversia civile ed ogni accusa penale davano anzitutto luogo ad una questione preliminare, da decidersi in iure, in cui trattavasi di vedere, se la controversia, o se il delitto, di cui si trattava, potessero dare argomento ad un iudicium. Di qui le espressioni di actionem dare, iudicium dare. Questa distinzione pertanto, fra il ius ed il iudicium, non ha nulla che fare colla separazione tra il fatto ed il diritto: ma mira in certo modo a sceverare le questioni, che debbono essere lasciate alla giurisdizione domestica ed agli arbitra menti privati, da quelle, che debbono essere giudicate a secundum legem publicam ». (2) Questa distinzione fra la procedura contenziosa e la procedura di esecuzione non è espressamente indicata in Gaio, il quale si limita a dare come caratteristica delle legis actiones, che esse, ad eccezione della pignoris capio, si compievano in iure, cioè davanti al magistrato; ma tale distinzione è comunemente accettata e può dedursi dalla circostanza, che Gaio comincia in effetto a discorrere delle azioni, che si potrebbero chiamare processuali, e poi viene a parlare delle procedure esecu. tive, ancorchè queste fossero certo più antiche della legis actio per condictionem. In questo stato di cose, la questione fondamentale, che pre sentasi all'investigatore delle origini della procedura quiritaria, sta in cercare, se il sistema delle legis actiones debba ritenersi creato di pianta dopo la legislazione decemvirale ed in base alla medesima, o se invece debba ritenersi costruito e modellato con materiali giu ridici già preesistenti (1). A questo proposito ho cercato di dimostrare a suo tempo, che già fin dal periodo regio, cosi nei giudizii penali come nei civili, si possono trovare le traccie di quella separazione fra il ius ed il iudicium, che venne poi ad essere fondamentale nel sistema delle legis actiones, e che dovettero fin d'allora già esistervi delle pro cedure consuetudinarie, certamente analoghe a quelle, che compa riscono più tardi col nome di legis actiones. Che anzi abbiam visto eziandio essere probabile, che sopratutto all'epoca serviana, in cui si cominciò ad elaborare un ius quiritium, comune al patriziato ed alla plebe, e si modello l'atto quiritario per eccellenza, che era l'atto per aes et libram, siasi pure iniziata la formazione di una procedura propria per le questioni di carattere quiritario. Le prime origini di tale procedura sembrano accennate dalla tradizione, che at tribuisce appunto a Servio Tullio, di aver distinto i giudizii pubblici dai privati, e di aver ritenuto per sè la cognizione delle contro versie di maggior importanza, mentre avrebbe affidato a giudici scelti nell'ordine dei senatori, la risoluzione delle controversie di minor importanza. È infatti questa tradizione, che unita alla considerazione del grande movimento legislativo, che dovette ve rificarsi in quell'epoca, rende assai verosimile l'opinione di co loro, che farebbero rimontare a Servio Tullo l'origine del tribu che egli ci dice essere stata introdotta per l'ultima. Cfr. BUONAMICI, Op. cit., pag. 19 e 20. (1) È questa la questione, che fu di recente presa in esame dallo Zocco-Rosa, Palingenesi della procedura civile romanı, Roma 1887. Egli ridurrebbe le teorie in proposito enunciate a tre, cioè: 1) a quella che vuol fare uscire la primitiva procedura dal seno stesso della religione e del ius sacrum; 2) alla teoria, che egli chiama della preesistenza delle legis actiones alle XII Tavole; 3 ) e alla teoria della discendenza delle medesime dalle XII Tavole. Egli viene alla conclusione ammessa dalla generalità degli autori, che prima delle XII Tavole moribus agebatur, mentre posteriormente lege agebatur. Passa poi a cercare le origini della primitiva proce dura consuetudinaria presso i popoli di origine Aria, e questa sarebbe ricerca di grande interesse; ma forse per ora non si hanno ancora materiali sufficienti per giungere ad una conclusione definitiva)  nale quiritario dei centumviri, quella dei iudices selecti, ed anche la prima distinzione fra l'actio sacramento e la iudicis postulatio; di cui quella avrebbe aperto l’adito al centumvirale iudicium, e questa invece alla nomina di arbitri o di giudici, scelti dal novero dei iudices selecti. Questi indizii tuttavia, che accennano alla for mazione di una procedura quiritaria, anteriore alle XII Tavole, non impediscono punto, che la medesima abbia dovuto subire un rima neggiamento in tutte le sue parti, di fronte ad un avvenimento cosi importante per il diritto privato di Roma, quale fu quello della le gislazione decemvirale. Non parmi quindi, che possano essere respinte le attestazioni con cordi degli antichi autori, secondo cui la procedura civile, se non creata, dovette almeno essere rimaneggiata, in base alla legislazione decemvirale, per opera del collegio dei pontefici, e che in quell'oc casione appunto le actiones, essendo state accomodate alla legge, abbiano assunta la denominazione caratteristica di legis actiones. Che anzi da questo fatto parmi si possa indurre con fondamento, che la parte del ius quiritium, relativa alle legis actiones, dovette essere l'ultima ad essere elaborata dai veteres iuris conditores, al lorchè già erasi formato un vero ius quiritium, e che, ciò stante, questa parte, per essere sopraggiunta più tardi, quando le altre già erano formate, non potè ridursi ad una semplice incorporazione di consuetudini processuali già preesistenti, ma dovette già essere il frutto di una selezione e di una elaborazione, a cui le medesime furono sottoposte. Nė può ritenersi improbabile, che questa elabo razione abbia potuto essere l'opera degli stessi pontefici, quando si ritenga, che essi da una parte erano i custodi delle tradizioni delle genti patrizie e personificavano in certo modo lo spirito conserva tore delle medesime, e dall'altra furono senz'alcun dubbio i creatori della tecnica giuridica, e i primi maestri alla cui scuola si forma rono i grandi giureconsulti della Repubblica e dei primi secoli del l'Impero. Parmi anzi, che questa elaborazione dei pontefici, giure consulti e patrizii ad un tempo, valga a spiegare quel doppio carattere dell'antica procedura romana, la quale nelle proprie forme e nei proprii vocaboli richiama ancora l'organizzazione patriarcale, mentre sotto un altro aspetto è già un capolavoro di tecnica giuridica, che corrisponde mirabilmente alle altre parti del diritto privato romano e al concetto del quirite, ispiratore del medesimo. A quel modo in somma, che i veteres iuris conditores, trascegliendo fra le forme di matrimonio e di negozii già preesistenti nelle consuetudini delle - 559 genti italiche, riuscirono a sceverarne un connubium ed un com mercium ex iure quiritium, e a richiamare l'uno e l'altro a certe forme tipiche e solenni, che costituirono il diritto esclusivamente proprio della comunanza quiritaria: cosi essi, operando una scelta fra i modi di procedere, che già potevano essersi formati nei rap porti fra i capi di famiglia, e in quelli fra essi ed i loro dipendenti, riuscirono a ricavarne una procedura tipica, che potè essere consi derata come propria della comunanza quiritaria. Anche qui pertanto i materiali certo erano preesistenti; ma il primitivo diritto romano non li accetto senz'altro, quali esistevano, il che avrebbe dato ori gine ad una varietà di procedure, analoga a quella che occorre presso gli altri popoli primitivi; ma li sottopose invece ad una se lezione, riducendoli a quelle forme tipiche, in cui tanto si compia ceva il genio giuridico romano, come lo dimostra il modo, in cui fu rono modellate tutte le loro istituzioni giuridiche. Fu in questa guisa, che si riuscì ad una procedura, la quale, mentre è adatta ad un popolo agricolo e militare ad un tempo, quale era il popolo romano, porta perd le traccie evidenti dell'organizzazione patriarcale, da cui usciva, e contiene cosi un ricordo prezioso delle varie fasi, per cui passo lo stabilimento della civile giustizia (1). 432. Noi abbiamo infatti veduto a suo tempo, come già nella stessa organizzazione gentilizia, e sopratutto, allorchè al disopra della gens venne a svolgersi la tribus, e colla riunione dei vici si formò il pagus, già potessero sorgere controversie di carattere giu ridico fra i varii capi di famiglia, ed anche fra essi ed i loro di pendenti, e come il bisogno di venire alla risoluzione di tali con (1) Questa spiegazione intorno all'origine delle legis actiones ha il vantaggio di mettere d'accordo fra di loro i passi di antichi autori, relativi a quest'argomento, che pervennero fino a noi. Con essa infatti può conciliarsi la vetustissimi iuris ob servantia, a cui accenna Pomponio, coll'attestazione concorde dello stesso Pomponio e di Gaio, secondo cui le legis actiones furono composte ed accomodate sulle parole stesse delle XII Tavole. Questi due caratteri, pressochè in opposizione fra di loro, possono conciliarsi fra di loro, quando si accetti la teoria, svolta più sotto, di distin guere nella legis actio, come già nell'atto per aes et libram due parti, cioè la parte mimica, e la verborum conceptio. È la prima, che costituisce una vetustissimi iuris observantia, ed è un ricordo delle varie fasi attraversate nello stabilimento della civile giustizia; ed è la seconda, che potè invece essere accomodata e composta sulle parole stesse della legge. GAIO, IV, 11; POMP., Leg. 2, 8 6 e 24, Dig. (1,2). 560 troversie, abbia potuto dare origine a certimodi di procedura, che col tempo dovettero acquistare una vera autorità consuetudinaria (1). Da una parte si dovette formare una procedura fra i capi di fa miglia, uguali fra di loro, che nella loro fiera indipendenza non accettavano altro giudice, che quello che erasi fra loro concordato, il quale, anzichè giudice diretto della controversia, lo era invece della scommessa, con cui cercavano di rafforzare l'affermazione so lenne della propria ragione. Questa è quella procedura, che presso i romani fu ridotta ad una forma tipica, e denominata actio sacra mento, le cui traccie trovansi non solo fra le genti italiche, ma anche fra le elleniche, e presso i popoli Arii dell'India (3). L'altra invece fu una procedura, la quale ricorda ancora uno stato di privata violenza, e che probabilmente dovette svolgersi nei rapporti fra i vincitori ed i vinti, e più tardi nei rapporti fra la classe superiore dei padri, dei patroni, dei patrizii, e quella infe riore dei servi, dei clienti e dei plebei. Essa nelle proprie origini dovette essere una effettiva manus iniectio, ma poscia fu richiamata ad una significazione giuridica, e significò l'esercizio anche violento della potestà giuridica spettante a una persona, come lo dimostra il fatto, che essa continuò anche più tardi ad essere adoperata dal padrone sul servo, dal padre sul figlio, ed anche dal patrono sul liberto (3 ). Or bene entrambe queste forme di procedere, che certo ricordano un periodo anteriore di organizzazione sociale, entrarono nella com pagine del ius quiritium, e vi furono modellate per modo da cor rispondere alle altre parti di esso. La prima fu adottata come azione tipica, allorchè trattasi di istituire un giudizio fra quiriti: come tale essa mira a serbare la più scrupolosa imparzialità ed ugua glianza fra i contendenti, non sapendosi ancora chi possa essere il vincitore e chi il soccombente. La seconda invece fu adottata come azione tipica, allorchè trattasi di procedere all'esecuzione contro chi abbia subita una condanna, o confessato il proprio debito. (1) Quanto alla primitiva formazione delle actiones, nei rapporti fra i capi di fa miglia della stessa tribù e in quelli fra i capi famiglia e i loro dipendenti, vedi ciò, che si è detto nel lib. I, cap. V, § 3º, pag. 130 e segg. (2 ) V. in proposito lib. I, nº 104, pag. 135, nota 14. Cfr. il SUMNER MAINE, Early history of institutions, Lect. IX; e lo Zocco- Rosa, Op. cit., pag. 209 e seg. (3 ) V., quanto alle prime origini della manus iniectio, lib. I, nº 106, pag. 137. Cfr. CAPUANO, Storia del diritto romano, Napoli 1878; Cugino, Trattato storico della procedura civile romana, pag. 116; BuonamiCI, Op. cit., pag. 58. - 561 433. Di qui provennero i caratteri compiutamente diversi del l'actio sacramento e della manus iniectio. Nella prima abbiamo una procedura fra eguali; quindi i con tendenti sono in certo modo attori e convenuti ad un tempo: sono le persone, fra cui si discute, che recansi dinanzi al magistrato. Esse fingono un combattimento fra di loro; affermano con identiche parole il proprio diritto; fanno le medesime scommesse di 50 o di 500 assi, secondo il valore della controversia; sono ugualmente obbligati a dare garanzia (vindicias dare) se siano ammessi al possesso della cosa, che forma oggetto della controversia. Lo scru polo nel mantenere l'uguaglianza non potrebbe spingersi più oltre, ed è uguale anche il pericolo per l'uno e per l'altro dei contendenti; poichè la somma scommessa si perde dal soccombente, e mentre nell'epoca gentilizia era forse consacrata ad usi religiosi, nel periodo storico deve andare invece a benefizio del pubblico erario (1). L'altra procedura invece, rozza, violenta suppone una assoluta disuguaglianza fra i contendenti. Quella stessa legge, che procedeva titubante e quasi diffidente per il timore dioffendere l'indipendenza dei contendenti, non teme invece di accordare diritti illimitati e pres sochè senza confine al creditore contro il iudicatus ed il confessus. Essa non si preoccupa dei beni di quest'ultimo, ma dà diritto al creditore di procedere contro la persona del debitore, di imporre sopra di lui la sua manus, e di trascinarlo avanti al magistrato per farsi aggiudicare la persona del debitore stesso. Questi invece non ha diritto di reagire contro la violenza del creditore (a se de pellere manum ) né di agere pro se lege; ma solo di nominare un altro, che faccia valere le sue ragioni (vindicem dare) (2 ). Mentre l'actio sacramento è come una rappresentazione simbolica (vis festucaria) di quel combattimento effettivo (vis realis), a cui poteva dar luogo una privata controversia fra capi di famiglia indipendenti e sovrani, dell'interporsi fra essi di un vir pietate gravis, dell'affermazione scambievole della propria ragione, fatta dai contendenti e rafforzata da una scommessa, della quale deve esser giudice quegli a cui le parti si sono rimesse; la manus in (1) Tutti questi caratteri della legis actio sacramento si possono ricavare dalla descrizione di quest'azione fatta da Gaio, IV, 13 a 17, per quanto la medesima presenti molte lacune, sia quanto all' actio sacramento in personam, che quanto all'actio sacramento relativa agli immobili. (2 ) Gaio, Comm., IV, 21 a 26. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 36 562 iectio invece è la procedura del vincitore contro il vinto, di colui, che ha il diritto, contro colui, il quale ne è privo, di quegli, che può dettare la legge, contro colui, che deve subirla. Anche la controversia è una lotta: quindi se durante la me desima deve essere serbata l'uguaglianza, allorchè invece essa è finita, il vincitore può stendere la propria mano sul vinto e questi è forzato ad arrendersi. Era poi naturale, che la procedura di un popolo agricolo e militare ad un tempo, per cui l'asta era il sim bolo del giusto dominio, venisse eziandio ad essere simboleggiata in una specie di lotta e di conflitto. 434. È tuttavia degno di nota, che i pontefici, nell'accogliere e nel modellare queste forme di procedura, si attennero ad un processo del tutto analogo a quello, che abbiam visto essersi seguito nel fog giare le forme dei negozii giuridici del diritto quiritario. Al modo stesso, che nell'atto quiritario per aes et libram può ravvisarsi una parte, che compievasi « dicis gratia, propter veteris iuris imitationem » e che costituiva cosi un ricordo del passato, ed una parte veramente viva, che era la nuncupatio, mediante cui un medesimo atto poteva accomodarsi ad una varietà grandissima di negozii, anche di carattere compiutamente diverso; cosi anche nella procedura primitiva, miri essa ad istituire un giudizio od alla esecuzione di un giudicato, possono facilmente distinguersi due parti, che compiono una funzione compiutamente diversa. Havvi anzitutto una parte, che potrebbe chiamarsi mimica, che si presenta sempre uniforme ed uguale, la quale è mantenuta evidentemente più come un ricordo del passato, che per l'utilità effettiva, che si possa ricavarne; come lo dimostra la disinvoltura, con cui si accettano gli espedienti, che mirano a semplificarla. Questa parte nell'actio sacramento è rappresentata dal recarsi sul luogo, ove trovasi l'oggetto in contestazione, se trattisi di immobile; dal portare davanti al magistrato la cosa mobile o una particella di essa; dal simbolo della festuca, che adoperavasi hastae loco; dalla finta manuum consertio, dalla mutua provocatio, e dal sacra mentum. Nella manus iniectio invece essa è rappresentata dal fatto di adprehendere manu qualche parte del corpo del proprio debitore. È questa parte mimica, la quale, costituendo in certomodo una soprav vivenza, col tempo divento pressochè incomprensibile, e potè talvolta essere posta in derisione, anche da autori antichi e fra gli altri da Cicerone. E tuttavia a notarsi, che lo stesso Cicerone, allorchè scrisse 563 nell'interesse del vero e non in quello del cliente, non dubito di dichiarare, che era di grande diletto questa impronta di vetusta, inerente alle legis actiones, e di affermare che: « actionum ge nera quaedam maiorum consuetudinem vitamque declarant» (1). Queste formalità infatti, conservateci da un popolo, che, più di qualsiasi altro, seppe sceverare l'essenzialità del fatto umano dalle circostanze accidentali del medesimo, sono anche oggidi un impor tantissimo documento del modo di pensare e di agire. che era proprio delle primitive genti italiche. Intanto perd, accanto a questa parte, il cui mantenimento era l'effetto dello spirito conservatore del popolo romano, eravi eziandio la parte veramente viva ed attuosa, e questa consisteva in quelle concezioni verbali, solenni e precise (conceptiones verborum, verba concepta, certa verba ), che servivano a dare una configurazione giuridica alle varie fattispecie e a farle entrare nella veste rigida delle legis actiones (2). Era in questo modo, che, malgrado la va rietà infinita delle fattispecie, si riusciva ad isolare l'obbiettività giuridica delle medesime e a richiamarle tutte a pochissimi genera agendi. Questo era l'ufficio, a cui attesero dapprima i pontefici, poi il pretore, e da ultimo i giureconsulti, e fu con questo magistero che la sola actio sacramento fini per essere accomodata a tutte le controversie di carattere quiritario, e la sola manus iniectio poté bastare a qualsiasi procedura esecutiva. Vuolsi quindi conchiudere, che queste due legis actiones costi tuiscono in certo modo il nucleo centrale della procedura quiritaria. Esse sono quelle, in cui si può leggere il modo di pensare e di agire del primitivo quirite, fiero, indipendente, geloso del proprio (1) Co., Pro Murena, vol. 2, scherza spiritosamente sull'actio sacramento, relativa alla proprietà di un fondo, dimostrando come le forme primitive avessero complicata una procedura, che avrebbe potuto essere semplice e pronta. Egli però nel De orat., I, riconosce eziandio quanto possa essere di dilettevole e di utile in questo studio dell'antico, allorchè scrive: « Nam si quem aliena studia delectant, plurima est in omni iure civili, et in pontificum libris, et in XII Tabulis antiquitatis effigies, quod et verborum prisca vetustas cognoscitur, et actionum genera quaedam maiorum con suetudinem vitamque declarant. (2) A mio avviso, la conceptio verborum nella legis actio tiene il posto stesso della nuncupatio nell'atto per aes et libram. Ciò sarà meglio dimostrato più sotto, nº 449, ed apparirà così la costanza e la coerenza dei processi, a cui suole atte nersi il primitivo diritto romano. 564 diritto, finchè la sentenza non sia pronunziata; umile, sottomesso, pronto ad abbandonare se stesso al proprio creditore, allorchè sia stato soccombente nella lotta giudiziaria. Intanto però, accanto a queste due procedure fondamentali, se ne vennero svolgendo delle altre, che sembrano sussidiarne l'azione, e quindi importa di ri cercare lo svolgimento storico, così della procedura contenziosa, che della procedura esecutiva. § 2. – Lo svolgimento storico della procedura contenziosa nel primitivo diritto. 485. Se l'actio sacramento costituisce il nucleo centrale della procedura contenziosa nel sistema delle legis actiones, noi sappiamo però, che attorno ad essa fin dai primi tempi si vennero svolgendo la iudicis postulatio fra i cittadini, e la recuperatio fra cittadini e stranieri, e che alle medesime più tardi venne ancora ad aggiun gersi la legis actio per condictionem. Importa quindi di determinare la funzione, che questi vari genera agendi esercitarono sulla pri mitiva procedura, e di ricercare eziandio l'ordine progressivo della loro formazione. Delle antiche legis actiones, quella, intorno a cui ci pervennero maggiori notizie, è certo l'actio sacramento. Noi sappiamo della medesima, che generalis erat, in quanto che poteva essere adoperata per tutte le controversie, per cui non fosse stata introdotta altra speciale procedura, si trattasse di agere in rem, od anche di agere in personam. Essa quindi sembra riportarci ad un'epoca, in cui non doveva esistere ancora la distin zione fra l'azione in rem e l'azione in personam; il che però non impedisce, che essa presentasse delle differenze nelle solennità e nelle espressioni adoperate, secondo che trattavasi di agere in rem o di agere in personam. Cosi pure in essa non vi è ancora la distin zione netta e precisa fra l'attore ed il convenuto, ma i contendenti sono attori e convenuti ad un tempo, come lo dimostra l'identità delle espressioni da essi adoperate. Infine essa non conduce alla ri soluzione diretta della controversia, ma piuttosto a giudicare quale dei due contendenti abbia affermato il vero e quale il falso, e quale perciò debba essere soccombente nella scommessa fra i medesimi intervenuta (utrius sacramentuin iustum, utrius sacramentum in iustum sit); cosicchè in essa il soccombente, oltre al perdere in 565 - direttamente la lite, corre anche il rischio di perdere la scom messa (1). Noi sappiamo poi, quanto alle controversie che dovevano rivestire la forma di questa legis actio, che essa costituiva un preliminare indispensabile per tutte le cause di carattere veramente quiritario, le quali erano sottoposte al centumvirale iudicium, ed anche per quelle relative alla verità ed allo stato delle persone (caussae liberales), quanto alle quali noi sappiamo, che il sacramentum era solo di cinquanta assi (quinquagenarium ), e che esse erano devolute ai decemviri stlitibus iudicandis (2 ). Tutti questi caratteri imprimono un suggello di vetustà all'actio sacramento, e ci richiamano a quella potente sintesi, che è carat teristica del primitivo ius quiritium, in cui non distinguesi ancora fra diritto personale e reale, fra attore e convenuto, fra la provo. catio e la litis contestatio. Si comprende quindi, che la mimica, che la precede, sia come un ricordo dei varii stadii, per cui passò lo stabilimento della civile giustizia, fra i capi di famiglia, e che essa, trapiantata dall'organizzazione gentilizia nella città, sia stata rico nosciuta come l'azione tipica del diritto quiritario. Ciò spiega eziandio come essa, mentre è certamente la più antica, sia stata anche la più duratura delle legis actiones; poichè, quando le altre furono abolite, continud pur sempre ad essere mantenuta qual preliminare al centumuirale iudicium, cioè davanti a quel tribunale dei cen tumviri, che può essere considerato come il tribunale essenzial mente quiritario, sia per il modo, in cui era composto, sia per le controversie, che gli erano sottoposte, che erano appunto quelle, che riguardavano la posizione di ciascun cittadino nel censo, e quindi anche nello Stato (3). (1) GAIO, IV, 13 a 17: Cic., Pro Caecina, 33, ove dice, che in una causa da lui trattata per la libertà di una certa Aretina fu deciso, che il suo sacramentum era iustum. Di qui le espressioni: iusto sacramento contendere, iniustis sacramentis petere. (2) La necessità della legis actio sacramento, per una causa da istituirsi davanti al centumvirale iudicium, è dimostrata dal fatto che, secondo Gaio, IV, 31, anche dopo l'abolizione delle legis actiones, fu ancora permesso di agire in questa guisa: a domini infecti nomine, et si centumvirale iudicium futurum sit ». È poi lo stesso Gaio, IV, 14, il quale ci attesta, che le cause di stato erano precedute dall'actio sacramento, in quanto che egli afferma, che in base alle XII Tavole il sacramentum per una questione di libertà era solo di cinquanta assi. L'uso del sacramentum nelle caussae liberales è poi anche confermato da Cic., Pro Caec. 33. (3) La competenza del centumvirale iudicium, per le cause di carattere eminente. - 566 436. È invece ben poca cosa quello, che ci pervenne intorno alla legis actio per iudicis postulationem. Dal palimpsesto di Verona non si potè ritrarne, che il titolo, mentre da Valerio Probo si ricavo la formola, che dovette adoperarsi per ottenere la nomina di un giudice o di un arbitro: iudicem arbitrumve postulo uti des. Nelle XII tavole poi sono indicati varii casi, in cui trattandosi di controversie di carattere indeterminato, che suppongono una certa libertà di apprezzamento, e che talvolta sono anche designate col vocabolo di iurgia, piuttosto che con quello di lites, si propone la nomina di uno o più arbitri (1). Bastano tuttavia questi pochiindizii per dimostrare le molte e gravi differenze, che la contraddistinguono dall'actio sacramento. Essa in fatti già suppone la persona dell'attore distinta da quella del conve nuto; suppone una amministrazione della giustizia già organizzata, in cuiil magistrato procede alla designazione del giudice; conduce alla risoluzione diretta della controversia; non trae più con sè, per quanto almeno noi possiamo saperne, il pericolo di perdere una scommessa. Essa parimenti, come lo indica la sua denominazione, non conduce più alla rimessione dei contendenti avanti ad un tribunale collegiale, come quello dei centumviri e dei decemviri; ma dà origine ad un iudicium privatum, nel vero senso della parola, in cui il giudice o l'arbitro, secondo un antichissimo costume ro mano, dovevano essere concordati fra le parti (2 ). Essa infine differisce eziandio dall'actio sacramento per il ca rattere di indeterminatezza delle controversie, che ne formavano oggetto, le quali supponevano una certa libertà di apprezzamento 1 mente quiritario, è attestata dall'enumerazione fatta di tali cause da Cic., De orat., I, 38. (1) I casi, in cui la legge decemvirale parla di nomine di arbitri, sono quelli relativi al regolamento di confini: « si iurgant de finibus, tres arbitros dato »; alla divisione dell'eredità fra i coeredi (actio familiae erciscundae); all'apprezzamento del danno dato dall'acqua piovana (arbiter aquae pluviae arcendae) e qualche altro caso analogo. Vedi KELLER, Il processo civile romano, $ 7, pag. 25; ORTOLAN, Expli cation historique des Institutes de Iustinien, Paris 1883, III, pag. 494. (2 ) Sebbene non si possa dire, che il centumvirale iudicium si contrapponga in senso stretto al iudicium privatum, tuttavia occorrono passi di autori, in cui i centumviri sono contrapposti al privatus iudex, come in Cic., De or., I, 38, 39; in Quint., Instit. or., 10, n ° 115, ove scrive: « alia apud centumviros, alia apud iudicem privatum in iisdem quaestionibus ratio ». Cfr. ZIMMERN, Traité des actions, pag. 36, nota 3 e 4. 567 - — nel giudice o nell'arbitro chiamato a risolverlo; cosicchè, di fronte al iudicium directum, asperum, simplex, che era istituito col l'actio sacramento, essa iniziava di preferenza un iudicium od un arbitrium moderatum, mite, in cui cominciava ad essere lasciata qualche parte a quell'equità e buona fede, che erano escluse dalle forme rigide e precise del primitivo ius quiritium. Al qual pro posito vuolsi eziandio notare, che quando si confronti la denomi nazione attribuita da Gaio a questa legis actio, che è quella di iudicis postulatio, colla formola serbataci da Valerio Probo, secondo la quale si domanda un giudice od un arbitro, è lecito di inferirne, che in essa dovette avverarsi uno svolgimento storico. Essa dapprima infatti dovette implicare soltanto la nomina di un iudex, sotto il quale vocabolo si comprendeva anche l'arbiter. Più tardi invece, e probabilmente in seguito alla legislazione decemvirale, la quale am metteva per certe questioni anche la nomina di arbitri, essa dovette porgere occasione a quella distinzione fra iudicium ed arbitrium, la quale presentava ancora tante incertezze all'epoca di Cicerone. Questi caratteri presi insieme mi condurrebbero alla conclusione, che la iudicis postulatio non presenti più quell'impronta di vetustà, che è propria dell'actio sacramento, e non possa perciò considerarsi come una procedura di carattere patriarcale, trasportata a Roma. Essa invece dove già formarsi sotto l'influenza della vita cittadina, e dove probabilmente essere una conseguenza della stessa formazione del ius quiritium. Siccome infatti, secondo appare dalle leggi, che ne governarono la formazione, il ius quiritium non costitui mai tutto il diritto di Roma, ma solo quella parte di esso che corrisponde al concetto del quirite, e che primo era riuscito a consolidarsi mediante il riconoscimento di una lex publica. Cosi ne consegui necessariamente, che anche le controversie, che potevano sorgere fra i cittadini, si divi [Cic., Pro Mur.,osserva, scherzando, che i giuristi non si sono ancora potuti accordare circa l'uso delle parole di iudex o di arbiter. La difficoltà di allora non è ancora scomparsa oggidì; poichè la distinzione fra iudicium e arbitrium, fra il ius strictum e l'aequitas, fra la lis e il iurgium, è una di quelle questioni di limiti, che non saranno mai definitivamente risolte. Cfr. KELLER. Quanto alla differenza fra iudicium strictum e arbitrium, mi rimetto al “De exceptionibus in iure romano” (Torino)] dessero naturalmente in due categorie. Vi erano da una parte le controversie di carattere eminentemente quiritario, relative al caput, alla manus, al mancipium, all'atto per aes et libram, ai negozii rivestiti della forma del medesimo (nexum, mancipium, testamentum ), all'eredità e alla tutela legittima; le quali, per poggiare sopra una legge o sopra un atto od un negozio di carattere quiritario, potevano ridursi in certo modo ad una affermazione o ad una negazione, ed accomodarsi così alle forme rigide dell'actio sacramento. Vi erano invece dall'altra parte quelle controversie, le quali, o per l'indeterminatezza del loro oggetto, o per supporre una certa latitudine di apprezzamento in chi era chiamato a giudicarle, o per dipendere più dalla consuetudine, che da una vera legge, abbisogna vano in certo modo più di un arbitro, che non di un giudice, nel significato ristretto, che ebbe ad assumere più tardi questo vocabolo. Quest'ultime pertanto richiedevano una procedura più semplice, non accompagnata dai pericoli dell’actio sacramento, in quanto che le parti contendenti possono anche in parte essere nella ragione ed in parte essere nel torto. Quindi è probabile, che siano state appunto queste controversie, le quali, al punto di vista quiritario, hanno minor importanza, che Servio Tullio comincia a deferire al iudex privatus, introducendo appunto per esse la iudicis postulatio. Così pure non è punto improbabile, che nella precisione ed esattezza del linguaggio le prime controversie di carattere quiritario si indicassero col vocabolo di vere lites, mentre le altre fossero designate piuttosto col vocabolo di iurgia. Siccome poi col tempo, una parte di quel diritto, che in certo modo esiste allo stato fluttuante intorno al nucleo centrale del ius quiritium, fini per essere attratto dal medesimo, e per entrare eziandio nelle forme rigide e precise del diritto quiritario. Cosi si può comprendere, come col tempo la iudicis postulatio, che dapprima ha un carattere sussidiario, puo entrare anch'essa a far parte del sistema delle legis actiones. Ciò anzi dovette avvenire naturalmente, allorchè la legislazione decemvirale accolge la iudicis arbitrive postulatio, come lo dimostrano le controversie, [L'opinione qui svolta, circa i rapporti fra l'actio sacramento e le iudicis postulatio, si avvicina a quella enunziata da KARLOWA (“Der röm. Civilprozess”) per cui essa prescrisse al magistrato di addivenire alla nomina di un giudice, o di uno o più arbitri. Da quel punto la iudicis postulatio entra a far parte del sistema della procedura civile romana. Costitui ancor essa una legis actio; che anzi, per il minor pericolo che offriva ai contendenti, dovette acquistare un largo svolgimento, come lo dimostra Voigt, il quale attribuisce un maggior numero di azioni alla iudicis postulatio, che alla stessa actio sacramento. Questo svolgimento poi fu sopratutto favorito dalla distinzione, che si opera nella stessa iudicis postulatio, fra il iudicium e l'arbitrium, il quale ultimo, accompagnato dalla clausola “ex fide bona”, fini, secondo l'attestazione di Cicerone, per essere applicato, dopo la scomparsa delle legis actiones, in tutti quei negozii, in cui domina la buona fede, quali sarebbero la società, la fiducia, il mandato, la vendita, la locazione, e simili. Questi negozii infatti, negli inizii, sono ancora esclusi dalla cerchia del ius quiritium, e come tali non potevano formar tema dell'actio sacramento, ma solo della iudicis postulatio, alla quale probabilmente dovette appartenere la clausola conservataci dallo stesso Cicerone – “uti ne propter te fi demve tuam captus fraudatusve siem.” Pervenuto a questo punto nella storia della primitiva procedura romana, parmi opportuno di arrestarmi alquanto all'esame di un istituto, il quale, malgrado le sue modeste apparenze, dovette tuttavia esercitare una potente influenza sullo svolgimento della medesima. Esso è quell'antichissimo istituto, che è indicato col vocabolo di “reciperatio”, ed al quale si rannoda senz'alcun dubbio quella categoria di giudici, o di arbitri, che vengono sotto il nome di recuperatores. Si è veduto in proposito, che nelle consuetudini delle genti italiche era indicata col vocabolo di “reciperatio” quella clausola, che soleva aggiungersi aitrattati di amicitia e di hospitium fra le varie genti o tribù, con cui stipulavasi fra esse un diritto di reciproca actio, cosicchè i cittadini di un popolo potevano chiedere ed ottenere ragione nel territorio e presso il magistrato di un altro. Era con [Voigt (“XII Tafeln”) assegna alla iudicis arbitrive postulatio ben XXXV azioni, di cui IX apparterrebbero agl’arbitria, e il rimanente ai iudicia propriamente detti. Cfr. MUIRHEAD, Histor. introd., -- Cic., De offic.] questa clausola, che la protezione giuridica, in base ad un trattato (foedus), comincia ad oltrepassare la cerchia degli abitanti di un territorio per estendersi a quelli di un altro, con cui si fosse in amichevoli rapporti. Essa poi aveva questo di particolare, che pone in certo modo di riscontro i diritti dei due popoli, e rendeva anche necessario il ministero di più recuperatores, tolti anche da popoli diversi, in quanto che i medesimi doveno rappresentare l'elemento cittadino e lo straniero ad un tempo. Quando poi si ritenga, che Roma usci essa stessa dalla confederazione di genti di origine diversa, e fin dalle proprie origini cerco di accrescere le proprie forze colle amicizie e colle alleanze coi po poli vicini, sarà facile a comprendersi, come in essa la “reciperatio” sia venuta a cambiarsi in una istituzione permanente, e ha col tempo assunto il carattere di una procedura regolare, da applicarsi nei rapporti fra i cives ed i peregrini. Cio è dimostrato dal fatto, che gl’antichi autori indicano talvolta la “recuperatio” col vocabolo caratteristico di actio, e che in Roma i recuperatores, dopo essere stati giudici fra i cives ed i peregrini, si cambiarono in una categoria di giudici, che potevano essere nominati anche per le controversie inter cives, e sopratutto dal bisogno sentito più tardi di creare un “praetor peregrinus” “qui inter peregrinos ius diceret.” La reciperatio s’applica anche al ius pacis, nei rapporti fra le varie genti. Se fosse lecito di paragonare istituti, che si svolsero a distanza di migliaia di anni,direi che la reciperatio, nel passaggio dall'organizzazione gentilizia alla città nel mondo an tico, corrispose a quella istituzione, che pure ebbe a svolgersi nel periodo di forma zione degli Stati moderni, e che si esplicò col nome analogo di reciprocanza di diritto, la quale consisteva nell'accordare agli stranieri quella stessa protezione di diritto, che fosse accordata ai nostri concittadini nello stato, a cui gli stranieri ap partenevano. In quei tempi antichissimi la “reciperatio”, come nei tempi moderni la reciprocanza, concorsero alla formazione dell'idea di una comunanza di diritto fra i diversi popoli, che presso i romani prenderà il nome di ius gentium, e che nell'età moderna e dal Savigny indicata col nome di comunanza di diritto, la quale, secondo il grande fondatore della scuola storica, dove essere posta a fondamento del diritto internazionale. V. Savigny, “Traité de droit romain,” trad. Guenoux. Quanto ai rapporti poi, che intercedono fra il concetto dell'antico ius gentium, e questa comunanza di diritto fra gli stati moderni, mi rimetto ad altro mio lavoro col titolo, “La dottrina giuridica del fallimento nel diritto internazionale private” (Napoli) come pure all'opera, “La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale” (Torino). Quanto all'influenza, che esercitarono in Roma la recuperatio ed i recupera [Queste circostanze intanto rendono probabile la congettura, che in Roma, fin dai più antichi tempi, dovettero trovarsi di fronte due forme di procedura. L'una, propria dei quiriti, e perciò adatta al rigore del diritto quiritario; l'altra invece, applicabile ai rapporti fra cittadini e stranieri, e percid più semplice e spedita. Siccome pero uno stesso magistrato sovraintendeva dapprima all'una e all'altra, cosi esso veniva ad essere posto nella posizione singolare di proseguire da una parte l'elaborazione del ius quiritium e di sentire dall'altra l'influenza del diritto degli altri popoli, e di potere cosi giudicare dell'opportunità e del bisogno di trasportare nella procedura romana certe semplificazioni, che sono invece proprie della reciperatio. Di qui una scambievole influenza di queste due forme di procedura, la quale continua ancora, allorchè l'accrescersi delle controversie condusse a dividere la iurisdictio fra due pretori, che nella loro stessa denominazione di “praetor urbanus” e di “praetor peregrinus” portano le traccie del dualismo, che essi rappresentano. E questo il motivo per cui, a quelmodo stesso, che i recuperatores finirono per essere accolti nelle categorie dei giudici fra i cittadini, così certe procedure, che prima dovettero essere seguite nei rapporti fra i cives e i peregrini, finirono, come più semplici e spedite, per essere accolte eziandio nel diritto civile di Roma. Che anzi la coesistenza di queste due procedure dovette, a mio tores, i quali diventarono col tempo una istituzione romana e sono i modesti preparatori della maggior opera, che doveva poi compiere il praetor peregrinus, istituito probabilimente nell'anno 512 dalla fondazione di Roma (KELLER, “Il processo civile romano”, ZIMMERN, “Traité des actions,” JHERING, “L'esprit du droit romain”, KarLOWA, “Röm. Civil prozess,” Bouché-LECLERQ, “Instit. rom.,” MUIRHEAD, Histor. introd., quanto all'applicazione della recuperatio inter cives. Keller nota a ragione che il riguardare la legis actio come propria soltanto dei cittadini romani, è una asserzione più volte prodotta, ma non pienamente giustificata. Noi sappiamo anzi da Gaio, che coll'actio sacramento poteva procedersi, anche davanti al praetor peregrinus, al modo stesso che il praetor urbanus nomina dei recuperatores, anche per cause inter cives; ma ciò venne appunto ad essere l'effetto di questa esistenza contemporanea delle due procedure, la quale condusse ad uno scambio fra di esse. Intanto qui non può esservi dubbio, che negli inizii le cause relative allo stretto diritto quiritario, quali erano quelle, che si recano davanti al centumvirale iudicium, non potevano essere che assolutamente proprie dei cives romani o dei latini, o dei peregrini, a cui fosse stato esteso il ius quiritium.] avviso, servire a preparare lentamente certi effetti, chenegli avvenimenti posteriori appariscono pressochè repentini. Cosi, ad esempio, essa dovette essere una delle principali cause, per cui, accanto al concetto rigido del ius civile, si dovette venir gradatamente delineando nella mente del pretore e dei giureconsulti, che lo circondavano, il concetto più largo di un ius gentium, il quale, una volta formato, doveva poi recare cosi profonde trasformazioni nel primo. Cosi pure egli è probabile, che il pretore in questa procedura, non essendo vincolato ai terminidi una legge, dovette avere una maggior libertà nel formolare giuridicamente la controversia, il che lo pose in condizione di poter lentamente preparare, fin da quel tempo, in cui fra i cittadini duravano ancora le legis actiones, quel sistema delle formulae, il quale col tempo dove poi essere accolto dal ius civile. Infine, per non spingere troppo oltre le induzioni, parmi eziandio probabile, che quella “egis actio per condictionem,” che ultima comparve nel sistema delle legis actiones, siasi modellata sulla condictio, che certo già esisteva nella procedura della recuperatio. Noi sappiamo infatti, che questa era appunto iniziata, mediante una condictio, in quanto che i contendenti condicebant diem, ossia fis savano di comparire fra XXX giorni, avanti il magistrato, per ot tenere la nomina dei recuperatores; come lo dimostrano le espres sioni, che occorrono nelle XII Tavole, di « status, condictus dies cum hoste », il quale doveva essere sacro per modo da essere un legittimo impedimento a comparire in un giudizio fra cittadini. Sembra tuttavia, che vi fosse una differenza fra la condictio nella procedura inter peregrinos, e la condictio come legis actio inter cives; poichè, mentre nella prima era in certo modo concordato il giorno di comparire avanti al magistrato, nella seconda invece, secondo la descri zione di Gaio, era l'attore, che intimava al convenuto (actor adver sario denuntiabat) di comparire fra trenta giorni avanti almagistrato ad iudicem capiendum (2 ). (1) Quanto all' influenza del praetor peregrinus nel preparare il sistema delle formole e dell'editto provinciale nell'estendere il concetto del ius gentium è da ve dersi il Glasson (“Étude sur Gajus,” Paris). Cfr. Carle, “L'evoluzione storica del diritto romano” (Torino). Secondo Voigt, XII Tafeln, la legge II, Tav. II, fra le altre cause di legittimo impedimento a comparire avanti il magistrato, accenna appunto lo status, condictus dies cum hoste. Cfr. quanto alla “condictio cum hoste,” il MuruEAD]. Anche intorno alla legis actio per condictionem ci per vennero notizie molto scarse, in quanto che il manoscritto di Gaio si presenta manchevole in quella parte, in cui egli, accingendosi a parlare della legis actio per condictionem, sembrava accennare alle origini di essa. Da quel poco tuttavia, che egli ne dice, si può ricavare: lº che la sostanza di questa legis actio consisteva nella condictio, o meglio nella denuntiatio, che l'attore faceva al conve nuto di comparire fra XXX giorni ad iudicem capiendum; 2º che nella medesima quella scommessa, che occorreva nel sacramentum, appare surrogata dalla sponsio et restipulatio tertiae partis, per cui il soccombente, oltre l'importo della controversia, deve corrispondere al vincitore il terzo della medesima a titolo di pena; 3º che infine essa fu introdotta prima da una lex Silia per le obbligazioni di una certa pecunia e poi estesa dalla lex Calpurnia alle obbligazioni di una certa res: leggi, che sogliono essere assegnate approssima tivamente al principio del sesto secolo di Roma (anni 510 a 520 U. C.). Quanto alla causa, per cui la condictio ha ad essere intro dotta, essa forma oggetto di discussione fra i giureconsulti, i quali ha ad osservare, che per le controversie di questa natura possono servire le anteriori legis actiones. Ricomponendo tuttavia questi pochi indizii col resto, che sappiamo delle legis actiones, si possono ricavare alcune importanti illazioni. È certo anzitutto, che la condictio non e del tutto nuova, nè quanto al nome, nè quanto alla sostanza, e non è punto improbabile, che fosse una imitazione della condictio, propria della procedura inter cives et peregrinos. Essa poi e accolta nel sistema delle legis actiones per le controversie, che volgevano o intorno ad una certa pecunia o intorno ad una certa res. Quindi, riguardando obbligazioni relative ad un certum, essa dovette restringere il dominio della [Gaio.  Quanto alla stipulatio et restipulatio tertiae partis essa non è accennata nel testo mutilato di Gaio, relativo alla legis actio per condictionem. Ma noi possiamo indurne la esistenza da ciò, che egli dice altrove, che questa stipulatio et restipulatio tertiae partis fa parte dell’actio certae creditae pecuniae propter sponsionem. Ora l' “actio certae creditae pecuniae”, nel sistema formolario, succedette alla legis actio per condictionem. Quindi se essa ritiene questo carattere, che certamente sa di antico, e richiama sott'altra forma la scommessa del “sacramentum”, dove certo ereditarlo dalla medesima. È poi lo stesso Gaio accenna ai dubbi fra i giureconsulti circa il motivo, per cui fu introdotta questa nuova legis action] actio sacramento, anzichè quello della iudicis postulatio, la quale e propria delle controversie di carattere indeterminato. Per tal modo, la condictio si presenta come una semplificazione dell'actio sacramentu. Abolisce tutta la parte mimica del sacramentum. Sostituisce, quanto alle obbligazioni aventi per oggetto un certum, il giudice singolo al tribunale popolare dei centumuiri. Infine surroga alla scommessa, che anda a beneficio dell'erario, la sponsio et restipulatio tertiae partis, che va invece a benefizio del vincitore delle lite. Quanto alla causa storica, che può aver determinata questa semplificazione nella procedura relativa alle obbligazioni di un certum, essa deve certamente essere cercata in qualche importantissima tra sformazione, che dovette avverarsi nell'epoca della Lex Silia e Calpurnia, quanto alle obbligazioni di carattere quiritario. Qui per tanto viene ad aprirsi un largo campo alle congetture. Ma è possibile di giungere a qualche risultato probabile, se si tenga dietro al processo storico del ius quiritium nella parte relativa alle obbligazioni. A questo proposito si è dimostrato a suo tempo, che la forma primitiva dell'obbligazione ex iure quiritium e quella del l'atto per aes et libram, che piglia il nome di nexum. Colla medesima il debitore sottoponeva senz'altro la sua persona a tutti i rigori della manus iniectio, per il caso che non avesse soddisfatto il suo debito a scadenza. In questa parte però il ius quiritium subi una trasformazione profonda, allorchè la Lex Poetelia tolse di mezzo gl’effetti speciali del nexum, negando al medesimo l'efficacia di un'esecuzione immediata contro la persona del debitore. Da quel momento il nexum cessa di costituire quell'ingens vinculum fidei che prima e, e comincia a cadere in disuse. Ma sottentrarono in suo luogo e vece altri modi, esclusivamente proprii dei cittadini romani, per assumere l'obbligazione di una certa pecunia, o di una certa res, quali furono ad esempio la “sponsio” o “stipulatio”, la expensi latio o litteris obligatio, o infine la mutui datio, di cui formano oggetto quelle cose “quae numero, pondere acmensura constant.” Per tutte queste obbligazioni di un certum, non essendo più consentita la immediata manus iniectio, che un tempo era con- [Cfr. in Keller e il Buonamici, “Proc. civ. rom.”] -sentita per il nexum, non puo più esservi altra procedura, che quella dell'actio sacramento, la quale, per il pericolo, che vi e inerente, non puo a meno di riuscire grave per i creditori di una somma o cosa certa, il cui credito risulta in modo solenne da atti riconosciuti dal diritto civile. Si comprende pertanto, che prima la lex Silia, per una certa pecunia, e poi la lex Calpurnia, per ogni certa res, abbiano sostituita all’actio sacramento la legis actio per condictionem, in cui evvi ancora un vestigio dell'antica scommessa nella sponsio et restipulatio tertiae partis, la quale tuttavia non va più a benefizio dell'erario, ma è un compenso e come un indennizzo per il vincitore ed una pena per il soccombente. Siccome poi nel diritto romano ogni istituto, che riesce a pene trare nella compagine di esso, ben presto si rivendica il posto, che gli compete, e riceve tutto lo sviluppo, di cui può essere capace; così la condictio, appena fu ammessa come legis actio, essendo più semplice, più spedita, meno pericolosa dell'actio sacramento, fini per richiamare a sè stessa tutte le controversie relative all'obbligazione di un certum, mentre l'actio sacramento si circoscrive a tutte quelle controversie, che hanno il carattere di una vindicatio, intesa in largo senso. Di qui consegui col tempo, che il vocabolo di “condictio”, nel linguaggio giuridico, divenne pressochè sinonimo di “actio in personam”, mentre l'actio sacramento finì per significare di preferenza l'actio in rem o la vindicatio. Ha quindi tutte le ragioni Gaio di accusare di improprietà l'uso, che facevasi ai suoi tempi, del vocabolo di “condictio” per indicare l' “actio in personam”, poiché l'essenza della primitiva condictio non consiste tanto nel dari oportere, quanto piuttosto nella denuntiatio diei. Ma ciò punto non toglie, che di fatto, in virtù di un lungo processo storico, verificatosi nel sistema delle legis actiones, l'actio sacramento si riduce alle sole vindicationes, mentre la condictio e in sostanza divenuta la forma, sotto cui facevansi valere tutte le actiones in [(1) Cf. il nexum -- ove trattasi appunto del comparire della mutui datio e della stipulatio, in surrogazione del nexum primitivo, che anda in disuso. Anche il MUIRHEAD stiene un'opinione analoga a quella proposta nel testo, come lo dimostra il fatto, che egli tratta contemporaneamente della introduzione della stipulatio e della legis actio per condictionem. Ho però già notato, come quest'autore ritenga col Leist la stipulatio come importata dalla Grecia, opinione che non credo da ammettersi.] personam, e quindi realmente veniva ad essere come un sinonimo dell'actio in personam. Intanto dalle cose premesse può esser ricavato il seguente svolgimento storico della procedura contenziosa nel sistema delle legis actiones. Le due procedure più antiche, le quali rimontano probabilmente ad epoca anteriore alla fondazione stessa di Roma, sono l'actio sacramento e la reciperatio. Quella è la procedura, che e accolta come esclusivamente propria dei quiriti, per le questioni di carattere quiritario, e quindi negli inizii dove essere la legis actio fondamentale del ius quiritium, nello stretto senso della parola. Questa invece si applica nei rapporti inter peregrinos ed anche in quelli inter cives et peregrinos. Siccome però a Roma e continuo l'attrito fra i cives ed i peregrini, e l'una e l'altra procedura segue davanti allo stesso magistrato, così ne venne, che le due procedure finirono per esercitare scambievole influenza l'una sull'altra. Cosicchè col tempo le forme più semplici e spedite della procedura inter cives et peregrinos finirono talvolta per essere trasportate ed accomodate alle esigenze del diritto civile romano. Così, ad esempio, allorchè fra i cittadini, accanto alle vere lites di carattere quiritario, che per la precisione ed esattezza di questo diritto, potevano risolversi affermando o negando, si svolsero delle questioni di carattere più indeterminato, che chiamavansi piuttosto iurgia, accanto all’actio sacramento, che continua ad essere l'a zione tipica del ius quiritium, comincia a svolgersi la iudicis postulatio, la quale fini colla legislazione decemvirale per entrare eziandio nel novero delle legis actiones. Per tal guise, le controversie, che hanno per oggetto un certum, si trattano coll'actio sacramento. Quelle invece, che riguardano un incertum, danno argomento alla iudicis postulatio. Ognuna poi di queste due legis actiones fini- [Gaio, dopo aver detto, che l'essenza dell'antica legis actio per condictionem consiste nella denuntiatio diei, aggiunge: « nunc vero non proprie condictionem dicimus actionem in personam, qua intendimus dari oportere; nulla enim hoc tempore eo nomine denuntiatio fit.” Gaio ha ragione dal suo punto di vista, perchè l'essenza dell'actio in personam ai suoi tempi sta non più nella denuntiatio diei, ma nel dari oportere. Ma storicamente lo scambio della parola si era operato, perchè nel sistema delle legis actiones la condictio era divenuta la forma, sotto cui si proponevano tutte le actiones in personam aventi per oggetto un certum.] per subire una suddistinzione. Quando infatti, accanto all'actio sacramento, penetra la condictio, la prima fini per restringersi alle vindicationes, e questa invece attire a sè tutte le actiones in personam, che avessero per oggetto un certum, e divenne quasi si nonimo di actio in personam. Cosi pure, allorchè nel diritto civile romano penetra in parte la considerazione dell'aequitas e della bona fides, nel seno della iudicis postulatio si opera pure una distinzione; poichè essa puo dar luogo o alla nomina di un giudice o a quella soltanto di un arbitro, secondo la larghezza maggiore o minore dei poteri, che era loro affidata nell'apprezzamento della causa e nel tener conto delle considerazioni di equità. Intanto però, mentre si ha questo svolgimento storico, è probabile, che tanto la iudicis postulatio quanto la condictio, almeno in parte, imitano delle procedure, che già si applicano nei rapporti inter cives et peregrinos. Fu in questa guisa, che, già sotto la veste ferrea delle legis actiones, si vennero preparando tutte quelle distinzioni di actiones, che poterono poi acquistare un libero svolgimento col sistema delle formulae. Tali sono le distinzioni fra la vindicatio e la condictio; fra l'actio in rem e l'actio in personam; fra le actiones stricti iuris e bonae fidei; fra le actiones certae e le incertae; fra l'actio nesin ius conceptae e le actiones in factum. Si può quindi conchiudere che, anche in tema di procedura, tutte le varietà e distinzioni delle azioni sembrano procedere da un'unica forma tipica, che è quella dell’ “actio sacramento”, la quale fu il nucleo centrale, intorno a cui si svolge la procedura contenziosa del diritto; ma che accanto alla medesima fin dai primi tempi fuvvi la reciperatio per le controversie inter cives et peregrinos, dalla quale dovettero essere mutuate certe procedure più semplici, come quella della “condictio”. E poi eziandio in questa procedura, che dove essere applicata dal praetor peregrinus, che comincia a prepararsi quel concetto del ius gentium, e quel sistema delle formulae, che esercitarono poi tanta influenza sul diritto civile romano. Mentre nella procedura contenziosa il diritto cerca di mantenere la più rigorosa IMPARZIALITA fra i contendenti, esso invece apre l'adito ad una procedura ben più decisiva, allorchè la lotta fra i contendenti giunse al suo termine, e trattisi di procedere all'esecuzione contro il soccombente. Anche il linguaggio giuridico sembra allora richiamare un'epoca di violenza. Ciascuno e vindice del proprio diritto. Noi veniamo cosi a trovarci di fronte alla manus iniectio e alla pignoris capio, di cui quella sembra avere il carattere di una esecuzione contro la persona del debitore, e questa invece il carattere di una pignorazione contro i beni del medesimo. È tuttavia facile lo scorgere, che nella procedura quiritaria si preferisce nell'esecuzione di procedere contro la persona del debitore, anzichè contro i beni del medesimo. Infatti nel diritto il modo generale di esecuzione per le obbligazioni viene ad essere la manus iniectio, che è diretta appunto contro la persona. Mentre la pignoris capio riveste in certo modo il carattere di un privilegium, e viene così ad essere ristretta a pochissimi casi, che furono specificamente introdotti o dalla legge o dal costume, e determinati dalla natura del credito. Intanto nell'una e nell'altra procedura già apparisce evidente, che se i vocaboli richiamano ancora l'uso della forza, questa pero viene già ad essere regolata dall'impero della legge; poichè è questa che determina i varii casi, in cui può ricorrersi all'uno od all'altro modo di esecuzione. Incominciando dalla manus iniectio, noi troviamo che la medesima, nel ius quiritium, compare sotto forme diverse, che vogliono essere tenute ben distinte fra di loro. Una prima forma di essa era la manus iniectio, a cui puo appigliarsi il padrone col servo, che avesse cercato di sottrarsi al suo potere, e questa era una conseguenza della podestà del padrone sul servo, di cui rimasero le traccie nella “vindicatio in servitutem”. Un'altra forma era quella invece, a cui dava origine l'obbligazione solenne del “nexum”, in base a cui il debitore, che non paga a scadenza, poteva, anche senza l'intervento del magistrato, essere trascinato nella casa del debitore, e quivi essere ridotto a condizione pressochè servile, fino a che non avesse soddisfatto il proprio debito. Vuolsi qui aggiungere, che Gaio accenna perfino al dubbio surto fra i giureconsulti, relativamente alla natura della pignoris capio, che alcuni ritenevano non essere una legis actio, in quanto che la medesima, sebbene si compiesse certis verbis, a differenza tuttavia delle altre legis actiones, extra ius peragebatur, e poteva perfino compiersi *in giorno nefasto*. Questa manus iniectio rimonta certamente ad epoca anteriore alla legislazione decemvirale, ed era una conseguenza del rigore dell’obbligazione quiritaria, contratta colle formedell'atto per aes et libram. Questa e quella manus iniectio, la quale, applicata sopratutto nei rapporti coi debitori plebei, da origine a quelle dissensioni civili, a proposito dei nexi, a cui cercò di porre termine la Lex Poetelia nel 428 di Roma. La Lex Poetelia però non e ancora una vera legis actio, in quanto che non fondavasi sulla legge, ma derivava direttamente dal rigore dell'obbligazione quiritaria, assunta colle forme del nexum, nella quale la volontà manifestata dalle parti costituiva legge, ed implica la condanna del debitore. Havvi infine quella manus iniectio, che occorre nella legislazione decemvirale e che costituisce un modo generale di esecuzione contro coloro, che avessero confessato il proprio debito (aeris confessi), o che avessero subita una condanna giudiziale per il pagamento di una determinata somma (iudicati vel damnati). A mio avviso, è solo a quest'ultima, che Gaio attribuisce il carattere di una vera legis actio, e che egli indica col nome di manus iniectio iudicati, sive damnati. La severità inumana, a cui poteva giungere la procedura della [Gaio. L'opinione espressa nel testo fondasi sulla considerazione, che Gaio restringe evidentemente la legis actio per manus iniectionem ai casi « de quibus, ut ita ageretur, lege aliqua cautum est », e si limita a fare una rassegna storica delle varie leggi, le quali, incominciando da Le XII Tavole, avrebbero consentito questo mezzo di esecuzione. Nella sua esposizione pertanto non si accenna più a quella rigorosa procedura, di origine pressochè contrattuale, a cui dava origine il primitivo nexum; tanto più che la medesima era andata in disuso fin dal tempo, in cui la Lex Poetelia ha tolte di mezzo le conseguenze speciali del nexum. Non mi sembra quindi il caso di voler forzare le espressioni di Gaio per far entrare i nexi nella espressione dei iudicati o dei damnati, adoperata da Gaio. Piuttosto i nexi dell'antico diritto possono ritenersi compresi negli aeris confessi di Le XII Tavole, dei quali non era più il caso che Gaio si occupasse. Poichè, se con quel vocabolo si intendevano gli obbligati col nexum, le disposizioni di Le XII Tavole sono state abrogate, e se si intendevano gli in iure confessi, non era il caso di farne una categoria speciale di fronte al principio – “in iure confessus pro iudicato habetur.” Questa opinione intanto si differenzia da quella di coloro, che vorrebbero comprendere i nexi nei damnati, di cui parla Gaio, fra i quali il MUIRHEAD, e da quella eziandio di coloro, che appoggiati al testo di Gajo, il quale non parla dei nexi, vorrebbero escludere gli obbligati col nexum dalla procedura della manus iniectio, e porre imedesimi nella condizione di tutti gli altri debitori, come Voigt e Cogliolo, nelle note al PADELLETTI, “Storia del dir. rom.,” il quale pure ha adottato l'opinione del Voigt.] manus iniectio, e probabilmente una delle cause, per cui la medesima col tempo diventa oggetto di investigazione curiosa per gli stessi autori latini, i quali hanno cosi occasione di tramandarci le espressioni testuali di Le XII Tavole a questo riguardo. Allorchè altri aveva subito condanna per un proprio debito, gli era prima consentita una specie di tregua (velut quoddam iustitium ), che durava XXX giorni, in cui doveva avvisare almodo di pagare il debito (conquirendae pecuniae causa ). Trascorsi i medesimi senza che egli pagasse, il creditore puo porre sopra di lui la sua manus, condurlo davanti al magistrato, e quivi pronunziare la formola solenne della manus iniectio. Né al debitore era lecito di depellere manum a se, né di agere lege pro se, ma solo poteva nominare un vindex, che fa valere le sue ragioni, dando sicurtà per il processo e per l'eventuale pagamento del doppio nel caso in cui vincesse l'attore. Intanto il creditore puo condurre il debitore nel suo carcere, e quivi metterlo in catene, con scelta al debitore di alimentarsi del suo o di lasciarsi alimentare dal creditore. Questo arresto durava LX giorni, e negli ultimi III giorni di mercato, compresi in questo spazio di tempo, il creditore dove condurlo di nuovo davanti al magistrato, e far pubblica la somma da lui dovuta accid qualcuno potesse pagare per lui. Che se anche allora non si fosse fatto il pagamento, il creditore poteva *ucciderlo* o venderlo al di là del Tevere (“capite poenas dabat, aut trans Tiberim venum ibat”). Ed anzi, se più fossero i creditori, venivano le famose espressioni conservateci da Gellio – “partis se canto: si plus minusve secuerunt, se fraude esto.” L'autore, che ci ha serbata più particolare notizia della procedura esecutiva nel diritto, conservandoci perfino le parole testuali della legge, è Gellio, Noc. Att., -- dove introduce il giureconsulto Sesto Cecilio Africano e il filosofo Favorino, a discutere intorno ad alcune singolari disposizioni del diritto. Interessante discussione, poichè da una parte abbiamo il giureconsulto, che, riportandosi alle opportunità dei tempi, cerca di scusare il vigore del diritto. Dall'altra abbiamo il filosofo, il quale, a nome della ragione, viene combattendone quelle disposizioni, che il tempo aveva fatto apparire o irragionevoli od inumane. Intanto, a questa discussione poi dobbiamo la maggior parte di quelle testuali disposizioni di Le XII Tavole, che a noi siano pervenute, le quali composte insieme colle informazioni dateci da Gaio, ci porgono le fattezze primitive della manus iniectio. Si comprende come l'enormezza del potere, che la legge qui accorda al creditore,  lascia increduli gli antichi ed anche i moderni. Di qui il tentativo recente di Voigt di interpretare la legge nel senso, che il capite poenas dabat significasse la riduzione in schiavitù del debitore, e che il partis secanto si riferisse alla ripartizione del prezzo ricavato dalla vendita, per il caso in cui fossero più i coeredi del creditore. Certo è, che se noi avessimo soltanto il testo della legge, questo potrebbe forse consentire questa interpretazione, punto non ripugnando che la legge attribuisse a quei vocaboli una significazione giuridica, anzichè letterale. Ma noi, oltre al testo della legge, abbiamo anche il commento, che vi diedero gli antichi. E questo è tale da escludere qualsiasi interpretazione più benigna. Noi troviamo infatti presso Gellio, che il giureconsulto Sesto Cecilio, pur tentando di spiegare il rigore della legge, punto non accenna alla possibilità di tale interpretazione. Sesto Cecilio dice invece, che il legislatore, nell'intento di tutelare la fede nei negozii,  introduce una pena, che, per la propria immanità, non puo essere applicata, come in effetto non lo era mai stata. Voigt, “XII Tafeln”. Egli, ciò stante, nella ricostruzione della legge VIII della Tav. III, aggiungerebbe alle parole serbateci da Gellio. “Tertiis nundinis, partis secant” -- le parole “si coheredes sunt” -- il che vorrebbe dire, che se il debitore era domum ductus da uno dei suoi creditori, egli non poteva più essere soggetto alla manus iniectio degli altri; ma intanto se fossero stati più i co-eredi del creditore, che l'aveva domum ductus, i medesimi potevano, in base alle XII Tavole, procedere contro di lui soltanto per la quota loro spettante di credito, e perciò dovevano chiedere il riparto della somma loro dovuta. Questa supposizione è ingegnosa. Ma è difficile di persuadersi, che una espressione larghissima, quale e quella di Gellio, puo restringersi ad un caso abbastanza speciale, qual e quello posto innanzi dal Voigt. Questa interpretazione letterale della legge, di cui si tratta, non e  solo attribuita alla medesima da Gellio ma eziandio da Quintiliano e da TERTULLIANO -- ma con parole alquanto vaghe, e coll'ag giunta,pur fatta da Gellio,  che la storia non ricorda alcun caso di “sectio corporis”. “Dissectum esse antiquitus neminem equidem neque legi, neque audiri.” Parmi poi, che un argomento per questa letterale interpretazione siavi eziandio in quell'altra disposizione delle XII Tavole. “Si membrum rupit, ni cum eo pacit, talio esto” -- ove compare in certo modo la stessa tendenza di accordare a colui che ha subìto un danno per colpa di un altro, una potestà corrispondente sul corpo di lui. Questa letterale interpretazione ha pure ad essere sostenuta, col sussidio della giurisprudenza comparata, dal Kohler (“Das Recht als Culturerscheinung”, Vürzburg) il cui brano relativo è riportato dal MUIRHEAD. Non può quindi essere il caso di dare alla legge una significazione diversa da quella, che vi attribuirono gl’antichi, ma piuttosto di cercare, come mai i decemviri possono giungere ad una disposizione di questa natura. Tale spiegazione non deve essere cercata tanto nella rozzezza dei costumi romani, quanto piut tosto in quella logica inesorabile, di cui già sonosi trovate le traccie nelle varie parti del “ius quiritium”, e sopratutto nel rigoroso concetto, che questo diritto ha a formarsi dell'obbligazione personale. Al modo stesso che il diritto quiritario, nella sua logica rude, trattandosi del dominio, immedesimò in certo modo la cosa, oggetto della proprietà, colla persona a cui essa appartiene. Così pure esso, nel concepire il diritto di obbligazione, vide nel medesimo un vincolo strettamente personale, che stringe pressochè materialmente il debitore al suo creditore (nexum), senza punto preoccuparsi dei beni, che appartenessero a quest'ultimo. Se quindi il debitore condannato non soddisfi il debito, la logica del diritto non si appiglie all'espediente di ripiegarsi sovra i beni del debitore. Procede diritta per la sua via, e verrà così aggravando i mezzi di co-azione contro il debitore che non paga, nell'intento di forzarlo ad eseguire il pagamento. Che se le co-azioni di carattere giudiziale od estra-giudiziale non bastano, questa logica, fissa nel carattere esclusivamente personale dell'obbligazione, puo anche giungere fino al l'estremo di accordare al creditore il diritto di vendere o di *uccidere* il debitore, al modo stesso, che attribuisce al proprietario la facoltà di distruggere la cosa, che gl’appartiene (ius abutendi). È tuttavia evidente, che il diritto, accordando simili diritti al creditore contro il debitore condannato, non intende tanto di accordargli un diritto reale ed effettivo, quanto piuttosto di attribuirgli efficaci e potenti mezzi di co-azione. Ciò è dimostrato da tutta la procedura. Lo stesso Kohler già erasi occupato della questione nel “Shakespeare vor dem Forum der Jurisprudenz” (Vürzburg), di cui può vedersi un largo resoconto del GIRARD nella “Nouvelle revue historique.” A compimento di questa notizia ricordo anche l’interessante saggio di ESMEIN, “Débiteur privé de sépulture, nei « Mélanges d'histoire de droit” -- ove il diritto del creditore prende un altro singolare svolgimento, quello cioè di porre un sequestro sul cadavere del debitore, e di rifiutare al medesimo il riposo della tomba, finchè i congiunti o gl’amici non ne abbiano pagato il debito. Qui la co-azione adoperata s'appoggia sull'opinione popolare che l’ANIMA del debitore non trova riposo, finchè il suo CORPO non riposa nella tomba.] della manus iniectio, dalla necessità nei varii stadii della medesima della presenza del magistrato, dall'obbligo imposto al creditore di far pubblico il suo credito e di esporre sul mercato la persona del debitore. Ed è questo il concetto, che ebbe ad esprimere, presso Gellio, il giureconsulto Sesto Cecilio dicendo che i decemviri. “eam capitis poenam, sanciendae fidei gratia, horrificam atrocitatis ostentu, novisque terroribus metuendam reddiderunt.” Che anzi, prendendo alla lettera l'espressione di Le XII Tavole, nella parte, che si riferisce alla spartizione del corpo del debitore, appare perfino di impossibile attuazione, poichè vien dichiarato in frode il creditore, che tolga dal corpo del debitore una parte maggiore o minore diquella che gli sia dovuta, il che conferma eziandio l'altra espressione dello stesso giureconsulto, secondo cui – “eo consilio tanta immanitas poenae denuntiata est, ne ad eam perveniretur.” Del resto non è questo il solo esempio di questa logica astratta, propria del diritto, che talora si spinge fino a tale da non essere quasi più applicabile nel fatto. Il diritto infatti del creditore sul corpo del debitore trova un riscontro nel diritto al talione, spettante a colui, di cui fosse stato rotto un membro -- talione che, secondo l'osservazione da Gellio attrituita al filosofo Favorino,  non puo essere più facilmente eseguito che la spartizione del corpo del creditore in proporzione dei crediti. Cosi pure esso ha un altro riscontro nel ius vitae et necis, che giuridicamente parlando spetta al padre sui figli, al marito sulla moglie, al padrone sullo schiavo, ancorchè in questa parte sia certo, che il rigore del diritto trova dei temperamenti nel pubblico costume. Non è quindi il caso di inferire da queste disposizioni l'esistenza di costumi antropofagi presso i romani. Ma soltanto di scorgere in ciò una nuova prova, che il loro “ius quiritium”, essendo il frutto di una elaborazione giuridica, la quale mira ad isolare l'elemento giuridico da ogni elemento estraneo, fini per essere governato da una logica inesorabile, che tal volta appare non solo inumana, ma perfino inapplicabile nel fatto. Dice infatti Favorino presso Gellio: “Praeter enim ulciscendi acerbitatem ne procedere quoque executio iustae talionis potest; nam, cui membrum ab alio ruptum est, si ipsi itidem rumpere per talionem velit, quaero, an efficere possit rampendi pariter membri aequilibrium? in qua re primum ea difficultas est inexplicabilis”. KOHLER dice scherzevolmente, che alla lista delle ipotesi escogitate per spiegare questa disposizione, ne manca una sola, quella cioè che i romani sono degli antropofagi. Dal momento poi che il primitivo ius quiritium, nella sua procedura di esecuzione, ha preso di mira piuttosto la persona del debitore, che non i beni, che ne costituivano il patrimonio, si comprende, che esso, nella sua perseveranza tenace, stenta più tardi ad abbandonare la via, che prima segue. Noi troviamo infatti, che nel posteriore svolgimento della procedura esecutiva in Roma, mentre il diritto civile nello stretto senso della parola continua sempre a dirigersi contro la persona, anzichè contro i beni del debitore, e invece il ius honorarium, il quale soltanto molto più tardi riusci ad organizzare una procedura esecutiva contro i beni, che costituivano il patrimonio del debitore. L'una e l'altra circostanza è abbastanza comprovata dalle atte stazioni di Gaio. Questi infatti, parlando delle legis actiones, ci fa assistere allo svolgimento storico della manus iniectio nel diritto civile di Roma, dimostrando, come, sul modello della manus iniectio iudicati, altre leggi abbiano introdotto una manus iniectio pro iu dicato, ed altre abbiano poi dato occasione ad una manus iniectio pura, la quale, a differenza delle altre due, non impede che il debitore potesse “manum a se depellere et lege agere pro se”, senza ricorrere all'opera di un vindex. Posteriormente poi, la legge Vallia ristrenge di nuovo i casi, in cui non potevasi manum de pellere e pro se lege agere, a quei due, che primierano stati introdotti, in cui si agiva o in base a un giudicato, o contro una persona per cui altri aveva dovuto pagare qual sicurtà. Di questo, secondo Gaio, rimane una traccia anche dopo l'abolizione delle legis actiones in ciò, che anche ai suoi tempi colui, col quale si agisce in base a un giudicato o per aver pagato per esso, «”iudicatum solvi satisdare cogitur.” Lo stesso Gaio poi, sebbene alla sfuggita, dice altrove, che l'introduzione della bonorum venditio sole essere attribuita a Publio Rutilio, il quale dovette essere praetor nel 647 di Roma, e noi sappiamo, che è appunto con questa bonorum venditio, che si introdusse in Roma un concorso fra i creditori, non dissimile da quello, che ora ha luogo nella procedura per fallimento. E solo più tardi, che anche il diritto civile, per mezzo della lex Iulia de [Gaio. È notabile infatti come Gaio in tutta la sua esposizione della procedura esecutiva non accenni mai alla esecuzione sui beni del debitore. Gaio, IV, 35. Quanto a questa procedura contro i beni, vedi KELLER, “Il processo civ. rom.” e quanto alle analogie, che questo con corso dei creditori presenta col fallimento, cfr. Montluc, “La faillite chez les Romains” – ] -cessione bonorum, accordo al debitore il mezzo di evitare l'esecuzione personale, ricorrendo alla cessio bonorum. Ma anche allora questa cessio bonorum dove essere consentita dallo stesso debitore, e costitui in certo modo un benefizio, che gli venne accordato per cansare la esecuzione personale e per evitare anche l'infamia, da cui questa era accompagnata. Quindi neppur questa legge aboli intieramente l'esecuzione contro la persona, ma piuttosto fece in guisa, che essa cadesse in disuso, essendosi introdotto un mezzo per liberarsi da essa. Parmi poi, che questa preferenza indiscutibile del ius quiritium per la esecuzione contro la persona del debitore, anzichè contro i beni spettanti al medesimo, sia stata eziandio la ragione, per cui si mantenne in così ristretti confini l'applicazione della pignoris capio. Essa infatti si ridusse ad essere un privilegio per crediti di origine militare (aes militare, hordearium, equestre), e per crediti di origine religiosa (il prezzo di un hostia e il nolo di giumento allo scopo di un sacrificio, in dapem). Un solo caso di pignoris capio lascia traccie durature nella storia delle istituzioni giuridiche, e fu quello introdotto da una lex praediatoria o censoria, a favore degl’appaltatori delle imposte, sui fondi che sono gravati dalle medesime: privilegio di carattere fiscale, che ha un'analogia incontrastabile col privilegio generale sugl’immobili, che ancora oggidi spetta al fisco per le imposte dirette. Intanto però sta sempre il concetto, che nel diritto di Roma è la persona, che risponde direttamente delle proprie obligazioni, e che la missio in bona deve ritenersi soltanto introdotta dal pretore. Che anzi è degno di nota, che anche questa procedura sembra negl’inizii essersi forse introdotta fuori di Roma, come lo dimostra il fatto, che noi la troviamo descritta dapprima nella “Lex Rubria” de Gallia Cisalpina. Una ragione di questa preferenza [Quanto all'origine pretoria dell'esecuzione contro i beni, vedi eziandio LENEL, “Das Edictum perpetuum”, La lex Rubria, Bruns, Fontes, attribuisce la facoltà di accordare questa missio in bona al solo pretore della città di Roma, come lo dimostrano le seguenti parole della legge “Praetor” – “isve qui de eis rebus Romae iure dicundo praeerit, in eum et in heredem eius de « eius rebus omnibus ius deiicito, decernito, eosque dari bona eorum, possideri, « proscribique venire iubeto, etc. » Cfr. WLASSAK, “Röm. Processegesetze”] dell'antico diritto per la persona, anzichè per i beni del debitore, non potrebbe essa trovarsi nella considerazione, che tutto il primitivo ius quiritium ha ad essere modellato sul concetto fondamentale del “quirites”, in quanto era considerato come una individualità integra e completa sotto l'aspetto giuridico, la cui parola dava origine al “nexum”, e la cui volontà costituiva una legge, cosi nei negozii tra vivi come nel testamento? Non abbiamo anche in questo una conseguenza dal punto speciale di vista, a cui eransi collocati i modellatori del diritto? Basta ora ricomporre insieme queste varie parti della procedura romana e metterle in movimento ed in azione, per comprendere come il sistema della “legis actio”, anzichè essere, come vorrebbero taluni, un complesso di solennità, escogitate dallo spirito sottile e formalista dei romani, sia stato invece il mezzo più potente ed efficace,mediante cui venne preparandosi l'elaborazione del diritto civile romano. La “legis actio” e per cosi esprimerci, il crogiuolo mediante cui l'obbiettività giuridica del fatto umano puo essere isolata da tutti gl’elementi estranei, ed essere ridotta cosi a quello stato di purezza, che solo si rinviene negli scritti dei giureconsulti romani. Siccome infatti ogni diritto, per poter affermarsi in giudizio, dove passare per lo strettoio della “legis actio”: cosi ne venne, che con questo sistema prima il pontefice, nel modellare la “legis actio”, poscia le parti nell'adattare alle medesime la loro controversia. Quindi il magistrato nel determinare i termini, in cui tale controversia dove essere giuridicamente concepita. Infine i giudici, che doveno di necessità restringere la loro decisione al punto di questione che e loro sottoposto, attendeno tutti ad un medesimo lavoro, che e quello di spogliare una fattispecie da ogni elemento etico (morale) o religioso, con cui si trovasse implicata, per ridurla ad una configurazione e ad una formola ESCLUSIVAMENTE LEGALE O GIURIDICA. Siccome poi, il giudice della controversia, o e tolto dalle varie classi o tribù, come i centumviri e forse anche i decemviri, o scelto nel l'ordine dei senatori, come i iudices selecti, o convenuto fra le parti, come gl’arbitri, od anche scelto in parte fra i peregrini, come i recuperatores. Cosi ne veniva, che l'elaborazione del diritto in Roma e un'opera collettiva, a cui concorrevano tutti gl’ordini e le V classi, e che puo perfino sentire l'influenza del diritto e della procedura, che applicasi dei rapporti fra i cittadini e gli stranieri. Siccome parimenti tutto questo lavoro e unificato e coordinato per opera del magistrato, che sovraintende all'amministrazione della giustizia, ed e poi assecondato dall'opera dei giureconsulti, che venivano racchiudendo in formole la varietà grandissima dei negozii giuridici. Cosi ne venne, che in Roma fin dai suoi inizii si trova sapientemente organizzato un sistema di mezzi, il quale mira ad isolare l'elemento giuridico del fatto umano dagl’elementi estranei, a consolidare le consuetudini fluttuanti in una forma determinata e precisa, a richiamare le varietà dei fatti umani a certe forme tipiche e generali. E in questo modo, che puossono scomparire i contendenti e si sostituirono ai medesimi dei nomi convenzionali -- Aulus Agerius e Numerius Negidius nella formola processuale, Titius, Caius, Sempronius, etc. in quella contrattuale --; che una controversia PARTICOLARE e richiamata a certa forma GENERALE; e che intanto i concetti primordiali, da cui ha preso le mosse il diritto di Roma, poterono con una logica perseverante e tenace essere spinti a tutte le conseguenze, di cui erano capaci. E quindi sopratutto in Roma, che il diritto potè essere l'espressione della coscienza giuridica di tutto un popolo, un elemento organico della vita sociale, il frutto di un'elaborazione unica e varia ad un tempo, la quale obbedisce costantemente a quei processi, i quali, applicati prima dal pontifice, passarono poscia al praetor ed al giureconsulto, e non furono neppure abbandonati sotto gli stessi principi. Per tal modo, quel lavoro di selezione, che erasi in Roma iniziato mediante la legge, le quali, trascegliendo fra le istituzioni delle varie genti, ne hanno ricavato un diritto tipico, esclusivamente proprio del quirites, e perciò chiamato “ius quiritium”, venne ad essere eziandio proseguito nella interpretazione della legge e nell'amministrazione della giustizia, le quali si sforzarono dapprima di fare entrare nelle forme determinate dalla legge la varietà sempre crescente dei rap porti giuridici, a cui dava occasione la convivenza cittadina, e vennero poi gradatamente ampliando e differenziando le forme stesse, allorchè esse cominciavano ad essere inadeguate ai bisogni, a cui trattavasi di provvedere. Per tal modo il “ius quiritium” si allarga ed amplia nel “ius proprium civium romanorum”; poscia accanto a questo venne svolgendosi il “ius honorarium”, il quale pur derogando al ius civile ed assimilando nuovi elementi, li forza tuttavia ad entrare in forme analoghe a quelle già preparate dal ius civile. È in questa guisa, che il diritto romano, dopo essere stato la selezione più rigida dell'ELEMENTO ESCLUSIVAMENTE GIURDIICO E NON ETICO, che presenti la storia, ed essere stato una produzione esclusivamente propria del popolo romano, viene a poco a poco attirando nella propria cerchia le considerazioni di equità e di buona fede, assimilando quelle istituzioni delle altre genti, che potevano ricevere l'impronta del genio giuridico di Roma, finchè non diventa tale da poter essere comune a tutte le genti, che avevano somministrato i materiali, sovra cui erasi venuto elaborando. Può darsi ed è anzi probabile, che i principii di questa grande opera di selezione sono dapprima inconsapevoli, come gl’inizii di tutte le opere umane, e fossero determinati dal modo di formazione di Roma, e dal genio eminentemente giuridico dei fondatori di essa. Ma egli è certo eziandio, che essa non tarda a cambiarsi ben presto in un'opera consapevolmente voluta e proseguita con una perseveranza tenace, di cui non potrebbesi trovare paragone. Così, ad esempio, dell'importanza della “legis actio” già dovette aver consapevolezza il patriziato romano, allorchè, dopo avere in parte reso comune alla plebe il proprio diritto, continua tuttavia a riservare al collegio dei suoi pontefici la formazione della “legis actio”, e la cambia in un segreto di professione e di casta; come pure dovette averne coscienza anche la stessa plebe romana, come lo dimostra la sua riconoscenza a Gneo Flavio, il quale, secondo la tradizione, ha resa di pubblica ragione la piu primitiva “legis actio”. Questa influenza poi del sistema delle azioni venne ad essere anche maggiore, allorchè l'abolizione della “legis actio” e l'intro duzione del sistema delle formole attribui da una parte al magistrato libertà maggiore nella concezione giuridica delle varie fattispecie, e dall'altra gli porse eziandio il modo di introdurre nuove azioni, accanto a quelle, che si fondano direttamente sui termini della legge. Fu in quest'epoca, che il medesimo, oltre al ius dicere, si [(Pomp., Leg. 2, § 7, Dig. (1, 2 ); Liv. IX, 46. Secondo la tradizione, Gneo Flavio e dalla riconoscenza della plebe elevato alla dignità di *tribune* della plebe, di senatore e di edile curule.] trova eziandio nella necessità di edicere, ossia di pubblicare, entrando in ufficio, la norma, che avrebbe applicate nell'amministrazione della giustizia; che accanto ai iudicia legitima si svolgeno quelli imperio continentia; che, accanto alle “actiones legitimae”, quae ipso iure competunt, se ne formarono eziandio di quelle, “actiones quae a praetore dantur.”Da quel momento il “praetor” puo essere considerato come una “lex loquens”, e venne in certo modo ad essere arbitro sovrano nell'amministrazione della giustizia. Tuttavia l'abolizione della “legis action” e la sostituzione del sistema delle formulae devono essere intese alla romana, il che vuol dire, che l'abolizione è soltanto parziale e non impedisce la sopravvivenza dell' “actio sacramento”, come preliminare del “centum. virale iudicium” e di quello “damni infecti nominee”, al modo stesso che l'introduzione delle formulae, anzichè una rivoluzione, è piut tosto il riconoscimento e l'adozione fatta per legge di una pratica, che dove già essersi prima introdotta nel fatto. È infatti probabile che il sistema delle formulae già puo esser applicato nella “procedura inter cives et peregrinos”, nella quale non potevano essere applicate la “legis actio”, e che in tal guisa una procedura propria della “recuperatio” sia penetrata nel “ius proprium civium romanorum”, almodo stesso, che più tardi l'”actio sacramento” puo eziandio essere proposta davanti al “praetor peregrinus”. Il sistema delle formole e in certa guisa già contenuto in germe nel sistema della “legis actio”. A quel modo, che la “stipulatio” riducesi in sostanza alla parte nuncupativa del “nexum”, la quale, liberata dalla solennità del l'atto “per aes et libram”, puo essere adattata alla varietà dei negozii [Gaio dice espressamente, che, negl’esordii di questo sistema di procedura, “edicta praetorum nondum in usu habebantur”. Era quindi naturale, che quando questi sono introdotti, accanto a quella parte di diritto, che fondasi direttamente sulla legge, e che perciò da origine alle denominazioni di “actus legitimus”, “actio legitima”, “iudicium legitimum”, si svolgesse un diritto, che fondasi in certo modo sull'autorità del magistrato, e che, come tale, “imperio continebatur”, il quale finì poi per essere compreso sotto il concetto di “ius honorarium”. È poi Cic., pro Cluentio, il quale ha a dire, che siccome la legge e al disopra del magistrato, e questo è al disopra del popolo, “vere dici potest magistratum legem esse loquentem -- legem mutum magistratum.” Quanto ai concetti di “actio legitima” e di “iudicium legitimum”, vedi WLASSAK. Sull'influenza del “praetor peregrinus” e dell'edictum provinciale sul sistema delle formulae, v. Glasson, “Étude sur Gajus”] giuridici. Così, la formola consiste essenzialmente in quei “concepta verba”, che già occorrevano nella “legis actio”, salvo che questa “verborum conceptio”, liberata dalla parte mimica, da cui era accompagnata, e da quel rigore di termini (“certis verbis”), che era propria della “legis actio”, puo acquistare una duttilità e pieghevolezza, che la prima non ha. Noi trovammo infatti, che già sotto la veste ferrea della “legis actio”, ogni modus agendi finisce per abbracciare diverse azioni particolari. Queste azioni già cominciano a distinguersi nelle “actiones in rem” in “actiones in personam”, in quelle, che hanno per oggetto un certum od un incertum, e in quelle, che dano origine ad un iudicium o ad un arbitrium. Or bene tutti questi materiali, che ancora erano riuniti nella sintesi potente della legis actio, si trovano in certo modo abbandonati a se stessi, e si cambiarono in altrettante azioni, autonome ed indipendenti, aventi un nome specifico, una propria formola ed un proprio contenuto, e diedero cosi origine a quello splendido ed opulento sviluppo, che ebbe ad avverarsi col sistema delle formole. Quella libertà della formola, che sarebbe stata pericolosa negl’inizii della elaborazione giuridica, venne invece ad es sere opportuna, quando questa era già iniziata ed abbastanza progredita. Le prime formole, essendo state preparate sotto la rigida disciplina della “legis actio” e del “ius pontificium”, indicano abbastanza la via, in cui dove mettersi il magistrato per continuare l'opera già incominciata. È questa la ragione, per cui il “praetor”, malgrado la libertà apparente, che lo appartiene, sia di introdurre nuove azioni, sia di modificare le formole già ricevute, procede in cio molto a rilento, ed ama piuttosto di ricorrere a finzioni e di forzare cosi fatti ad entrare nelle forme riconosciute dal diritto, che non di alterare la forma che già e accolta. Per tal modo, il nuovo trova sempre un addentellato nell'antico, anche allorchè mira ad introdurre una modificazione al medesimo, e intanto ciò non impedisce, che una parte del diritto, che vive fluttuante pelle consuetudini, accanto al vero ius civile, si venisse ancor esso consolidando sotto forma di un ius honorarium, che è pur sempre modellato sul primo. Così pure, nella opera progressiva del praetor succedentisi l’uno all’altro, puo manifestarsi uno spirito di continuità, per cui le azioni ed eccezioni introdotte opportunamente da alcuno di essi finirono per costituire un ius translaticium, che passa al praetor successore, e serve cosi a preparare i materiali, che raccolti e coordinati costituirono poi l'editto perpetuo di Salvio Giuliano. In questa condizione di cose appare ad evidenza l'importanza del sistema delle azioni, poichè ogni progresso pratico della giurisprudenza romana viene ad esser introdotto, o per mezzo di una nuova azione, che tuteli un diritto prima non riconosciuto, o per mezzo di una eccezione, che neutralizzi l'effetto di un'azione già riconosciuta dal diritto civile. Allorchè poi un'azione è accolta od un'eccezione è ammessa, essa viene ad essere come un centro, intorno a cui si moltiplicano le formole per abbracciare l'infinita varietà delle fattispecie, finchè si giunge a quella ricchezza di formole, a cui accenna Cicerone, allorchè dice: -- “sunt formulae de omnibus rebus constitutae, ne quis aut in genere iniuriae aut in ratione actionis errare possit: expressae sunt enim, ex uniuscuiusque damno, dolore, incommodo, calamitate, iniuria, publicae a praetore formulae, ad quas privata lis accomodatur.” Le formole pertanto servirono anch'esse ad ampliare e a compiere quel lavoro di selezione, iniziato sotto l'impero della “legis actio”. Esse si accomodano alle varie fattispecie. Isolano l'elemento giuridico da ogni elemento estraneo, gl’elementi essenziali del fatto umano dalle circostanze accidentali: accolgeno quelle aggiunte, che sono rese necessarie dalla maggiore varietà dei negozii; riassunggeno le varie fasi della controversia in guisa da presentare come uno specchio ed un compendio dell'intiero giudizio. Queste formole poi non furono qualche cosa di esclusivo alla procedura. All'epoca stessa, in cui penetrarono in questa, si vennero eziandio esplicando nel contratto, nei testamento, nei legato, e in ogni altra parte del diritto civile romano, e vi portarono cosi dappertutto l’ESATTEZZA E LA PRECISIONE DELLA LOGICA DEI CONCETTI GIURIDICHI, non disgiunta da elasticità e pieghevolezza alla varietà infinita dei negozii. È quindi facile il comprendere come il pontefice, il pretore e il giureconsulto, non credeno indegno del loro ufficio l'attendere alla composizione delle formole, e come bene spesso l'invenzione di una formola ha reso celebre e tramandato fino a noi il nome di un pretore o di un giureconsulto. Basta perciò aver presente l'importanza grandissima e la larghissima applicazione, che [Cic, Pro Roscio -- Cfr. WLASSAK. Occorrono delle notevoli osservazioni sulla importanza delle formole nel diritto civile romano presso LABBÉ-ORTOLAN, “Explication historique des Institutes de Justinien” (Paris)] ricevettero le clausole “ex fide bona” “quando aequiusmelius” e “propter te fidemve tuam fraudatus siem” -- le formole aquiliane de dolo malo ed altre, che sarebbe lungo ricordare; le quali serveno a far penetrare nel diritto la considerazione dell'equità e della buona fede, e a dare forma concreta e pratica applicazione alle lente mutazioni, che si venivano operando nella coscienza giuridica del popolo romano. E infatti per mezzo di una piccola aggiunta in una formola contrattuale e giudiziaria, che le aspirazioni latenti della coscienza giuridica popolare ricevevano applicazione pratica, e che il diritto fluttuante nelle consuetudini venne ad ottenere la tutela e la sanzione dell'autorità giudiziaria. Questa considerazione  mi porge opportunità di conchiudere questo saggio, spiegando un carattere del tutto peculiare della giurisprudenza romana. Nostro tentativo di “ri-costruzione” del primitivo ius quiritium quanto meno dimostra che il diritto civile romano, anzichè essere il frutto di una incorporazione qualsiasi di consuetudini preesistenti, operatasi a caso e lasciata in balia delle cir costanze, fu invece governato, fin dai proprii inizii, da una logica fondamentale, che non venne mai meno a se stessa. Esso può es sere paragonato ad un lavoro lento di cristallizzazione, in virtù di cui gli elementi affini, fluttuanti in un liquido, cominciano dal precipitarsi a poco a poco, e poi si compongono insieme, atteggiandosi costantemente a quelle forme tipiche, che sono imposte dalla legge, che ne governa la formazione. Se ciò è fuori di ogni dubbio, vuolsi però anche ammettere, che questa dialettica fondamentale, la quale regge tutta la formazione del diritto civile romano, sembra in certo modo essere dissimulata nelle opere anche dei grandi giureconsulti. In tali opere, per quel poco che a noi ne pervenne, i singoli istituti appariscono come autonomi ed indipendenti gli uni dagli altri, go [Questa importanza delle formole appare sopratutto nelle formole processuali, poichè ogni progresso nell'amministrazione della giustizia lascia in certo modo le traccie nella composizione della formola giudiziaria. Questo concetto ha ad esprimere, molti anni or sono, in “De exceptionibus in iure romano” (Torino) -- colle seguenti parole. “Neque vereor dicere, omnia quae in  iudiciorum ordine, progressione temporum et seculorum elaboratione, invecta fuerunt ad corrigendam, producendam, emendandam et adiuvandam antiquissimi iuris « formulam quodammodo adhibita fuisse.”] --vernati ciascuno da una propria logica, senza che più si scorgano le commettiture, che possono stringere un istituto cogli altri. Vero è, che considerando attentamente il formarsi di ogni singolo istituto, facilmente si riconosce la mano di artefici, educati tutti alla medesima scuola, cosicchè i varii istituti si possono paragonare ad altrettanti cristalli foggiati sulla stessa forma. Ma intanto più non si scorgono le traccie della legge, che ne governa la formazione. Era questo disordine apparente dei giureconsulti, che torna grave alla mente FILOSOFICA ed ordinata di Cicerone, il quale perciò giunse fino a dire, che i primi grandi maestri cercano di dissimulare la propria arte. Ma se questo potè forse esser vero, finchè la scienza del diritto – come la filosofia, dopo -- e un monopolio della gente patrizia, o meglio del pontefice massimo, custode delle loro tradizioni, non può più ammettersi per il tempo, in cui la casa del giureconsulto e aperta a tutti coloro, che volevano consultarlo. Anche i plebei furono ammessi a questo collegio dei pontefici e a professare giurisprudenza. Non è quindi in una causa alquanto puerile e di carattere transitorio, che vuolsi cercare il motivo di questa specie di contraddizione, che presenta l'elaborazione della giurisprudenza romana. Ma questo e piuttosto il modo, in cui venne in Roma operandosi l'elaborazione stessa. A questo riguardo vuolsi aver presente, che i modellatori del primitivo diritto di Roma – “veteres iuris conditores” – non hanno mai in animo di insegnare una scienza, ma piuttosto di professare un'arte (“iuris prudentia”), che forma solo più tardi argomento di scienza. Essi quindi non intesero punto di soddisfare alle esigenze didattiche, nè di introdurre quell'ordine sistematico, che è proprio della scienza. Si proposero sopratutto di soddisfare alle esigenze pratiche. Sono i casi, che si venneno presentando, che loro offrivano occasione di applicare l'arte loro. Siccome per tanto nella pratica era l' “actio”, che predomina, poichè era con l’ “actio”, che il diritto sperimenta se stesso. Così ne venne, che dapprima sono la “legis actio” che costitue il punto di richiamo dell'elaborazione giuridica, e determina l'ordine, a cui la medesima venne obbedendo. Quando poi la sintesi potente della “legis actio” venne ad essere disciolta, e pullularono così azioni e formole, molteplici e svariate, aventi ciascuna una propria vita ed una propria funzione nella formazione dei negozii e nell'amministrazione della giustizia, sono eziandio le actiones, l’”interdictum.” -- Cic., De orat., I. la “exceptio” e simili, che costituirono il punto centrale, intorno a cui dovette appuntarsi l'arte dei giureconsulti. Quindi è, che essi, per quanto ubbidissero ad una dialettica fondamentale, trascurarono naturalmente di far scorgere i fili, che componevano la trama. Cosicchè la girusprudenza apparisce come a frammenti, e ravvicinano istituti, che non hanno attinenza, disgiungendone altri, che sono in vece strettamente affini fra di loro. Di qui la conseguenza, che la costruzione giuridica romana non segue il processo dei concetti fondamentali, da cui parte, ma venne seguendo invece l'ordine, prima, di Le XII Tavole, e, poscia, dell'Editto. Nè questo disordine apparente puo recare imbarazzo agl’esperti, perchè l'arte in essi era viva e feconda. Puo invece riuscire grave agl’altri, i quali, come Cicerone, cercano di inoltrarsi in questo campo con un indirizzo mentale concettuale e filosofico – di ‘re-costruzione logica.’. Fu soltanto, allorchè la ricchezza dei materiali comincia ad ingombrare il campo, che si senti il bisogno di introdurre questa o quella distinzione sistematica, al modo del Liceo per genere e specie, ma anche queste distinzioni non compariscono nelle opere di costruzione giuridica propriamente detta, quali sono quelle dei classici giureconsulti, ma soltanto nell’opere di carattere didattico o tutoriale -- donde la spiegazione dell'ordine diverso, che occorre nelle Istituzioni di Gaio e di Giustiniano e nelle Pandette. Siccome poi anche l'ordine sistematico, introdotto nelle Istituzioni, ha naturalmente lo scopo pratico di coordinare la giurisprudenza romana nello stato in cui si trova, anzichè di fare assistere alla formazione progressiva di essa; cosi ne viene, che anche le distinzioni, che occorrono in Gaio ed in Giustiniano, danno talvolta come contemporanei degl’istituti, che possono avere avuto origine in epoca compiutamente diversa. Ne consegue, che la giurisprudenza romana, quale a noi pervenne, colle sue proporzioni armoniche e colla coerenza delle sue varie parti, cela in certo modo la trasformazione lenta e graduata, che venne operandosi in essa, e la dialettica, che ne governa la for [Ciò appare sopratutto nelle “Receptae sententiae” di Paolo Diacono. Questo apparente disordine invece è alquanto minore nei cosidetti “Fragmenta” di Ulpiano, in quanto che questo lavoro di Ulpiano segue già passo passo l'ordine dei “Commentarii” di Gajo, abbreviandoli in qualche parte, e facendovi altrove qualche aggiunta, che altera talvolta le armoniche proporzioni dei “Commentarii” di Gajo. Questi ultimi poi, a parte l'originalità maggiore o minore del giureconsulto, sono il nostro modello di ordinamento sistematico, fatto in un intento didattico o tutorial per l’elite diriggente. Cfr. Huschke, Jurisp. antijustin., ed i proemii da lui preposti alle opere sopra citate dei giureconsulti] –mazione. Ma ciò punto non impedisce, che, penetrando sotto la scorza di essa, tosto si incontrino le traccie di materiali e di ruderi, che appartengono a sorgenti e ad epoche diverse, e rivelano cosi al l'investigatore i diversi periodi e momenti, per cui passa la lenta e graduata formazione della legislazione romana. Giunto al termine di questo faticoso lavoro di ricostruzione, ritengo opportuno di riassumere a grandi linee quelli fra i risultati a cui sono pervenuto, che possono cambiare in qualche parte il modo comunemente seguito di spiegare la storia primitiva di Roma, nel l'intento sopratutto di porre in evidenza quella mirabile coerenza organica, che sempre si mantenne nello svolgimento storico delle istituzioni di Roma. Allorchè le genti italiche si sovrapposero alle popolazioni già prima stanziate sopra quel suolo, che più tardi e denominato “italic”, dove avverarsi un periodo di forza e di violenza, non dissimile da quello, che si avvero più tardi all'epoca delle invasioni barbariche, ed il maggior bisogno, che dove sentirsi allora dai vincitori e dai vinti, e quello di uscire da quello stato di privata violenza. E allora, che le genti sopravvenute, memori forse delle tradizioni, che portavano dall'antico oriente, irrigidirono la propria organizzazione gentilizia, cercando di attirare nella medesima anche le popolazioni dei vinti, e costituirono così l'aristocrazia territoriale dei patres, dei patroni, dei patricii, mentre i vinti sono organizzati nella classe inferiore dei servi, dei clienti, e infine dei plebei. Questa organizzazione, malgrado le differenze nei particolari, assunge pressochè dapertutto un carattere uniforme, non dissimile da quello dell'organizzazione feudale nel Medio Evo. Essa organizzazione venne cosi ad essere composta di familiae, di gentes e di tribus, strette in sieme dal vincolo di discendenza reale o fittizia da un medesimo antenato, le quali risiedevano rispettivamente nella domus, nel vicus e nel pagus, mentre il territorio da esse occupato era ripartito in heredia, in agri gentilicii, e in compascua. Fu a questo stadio del proprio svolgimento, che le genti italiche presero tutte a travagliarsi intorno alla grande opera del passaggio dall'organizzazione gentilizia a Roma. Questa organizzazione ha sopratutto lo scopo di assicurare la comune difesa e di fortificarsi nelle lotte pres sochè quotidiane fra i varii gruppi. Roma comincia dall'essere un sito fortificato (“arx”, “oppidum”, “capitolium” ) per servire di rifugio in caso di pericolo. Poi diventa un sito per il mercato (“forum”) e un luogo di riunione dei capi di famiglia delle varie comunanze confederate per la trattazione degli affari comuni (“conciliabulum”, “comitium”). E posta sotto la protezione di un divino – “dius,” “dius-piter” -- , comune patrono. Finchè da ultimo sotto la protezione della comune fortezza cominciano eziandio a costruirsi le abitazioni private. Non tutte le stirpi però sono pervenute al medesimo stadio di svolgimento, nè tutte hanno seguito il medesimo indirizzo nella formazione di Roma. Mentre gl’umbro-sabelli adereno ancora strettamente alla organizzazione gentilizia, e gl’etruschi sono già pervenuti alla città chiusa e fortificata, i Latini invece si trovano in uno stato intermedio. I latini sono pervenuti a Roma di carattere federale, considerata come un centro della vita pubblica per varie comunanze di villagio. È al buon seme latino, che s’attribuie l'origine del nome di Roma. Roma comincia dall'essere lo stabilimento fortificato di un nucleo di uomini forti ed armati – “vir”, “quirites”), staccatisi d’Alba per cercare altrove sorti migliori, secondo una consuetudine comune delle genti primitive, fidenti sopratutto nella forza del proprio braccio, ma non immemori delle tradizioni proprie della stirpe, a cui appartenno. Le lotte di questo nucleo di uomini di arme, stabilitosi sul Palatino, i quali, senza essere ancora veri capi di famiglia, tendeno a diventarlo, colle comunanze di villagio stabilite sulle alture circostanti dell'antico septimontium, lo conducenno prima alla comunanza dei connubii e in seguito alla confederazione colle medesime. Percorse due periodi compiutamente distinti -- cioè: il periodo della città federale, in cui Roma è una città esclusivamente patrizia, ed è un centro di vita pubblica fra varie comunanze gentilizie. Il secondo, quello in cui Roma, esclusivamente patrizia associasi anche la plebe circostante delle periferii, già pervenuta ad una certa agiatezza, nell'intento sopra tutto di provvedere alla comune difesa, e chiude nelle proprie mura le primitive comunanze di villagio, che entrano a costituirla.  Nel primo periodo, i cittadini di Roma sono i capi famiglia delle genti patrizie, confederati in uno scopo di comune difesa, e la loro città, posta nel centro delle varie comunanze di villaggio, rispecchia in se medesima le istituzioni dell'organizzazione gentilizia, a quella guisa che un lago limpido rispecchia le abitazioni e i villaggi, collocati sulle alture, che lo circondano. Essi infatti trapiantano a Roma, centro della loro vita pubblica, le proprie istituzioni gentilizie, salvo che le medesime, assumendo un intento essenzialmente civile, politico e militare, cominciano a perdere alquanto il proprio carattere patriarcale, e ricevono cosi uno svolgimento compiutamente diverso. Roma esce cosi dalla confederazione e dal l'accordo dei capi di famiglia (patres) e dei loro discendenti (patricii). Ma intanto assume un carattere religioso, politico e militare ad un tempo, come le genti che concorsero alla sua formazione. Sono i pontefici, che ne serbano le tradizioni giuridiche e religiose ad un tempo. Gli auguri modellano gli auspicia publica sugli auspicia, a cui già ricorrevano i capi di famiglia o delle genti. I feziali serbano le tradizioni relative ai rapporti fra le varie genti. In questo periodo la città serve ad operare la selezione della vita pubblica, che comincia a spiegarsi nella città, dalla vita domestica e patriarcale, che continua a svolgersi nelle varie comunanze di villaggio. L'urbs infatti designa l'orbita sacra, in cui trovansi riuniti gli edifizii aventi pubblica destinazione, ed ha nel proprio contro il tempio di Vesta e la domus regia. La civitas non comprende ancora quelli rapporti soltanto che si riferiscono alla vita civile, politica e militare. Il populus non comprende tutta la popolazione, ma quella parte eletta della medesima che puo giovare alla res publica col braccio (“iunior”) o col consiglio (“senior”). Per tal modo il grande intento della città in questo periodo e quello di sceverare la vita pubblica dalla privata – “publica privatis secernere” -- , di modellare il concetto della “res publica”, in quanto essa ha un'esistenza distinta dalla “res familiaris”, e di architettarne la costituzione politica, la quale venne cosi ad uscire dal concorso di tutti gli elementi, che entravano a costituirla. La sorgente della pubblica potestà risiede quindi nel “populus.” Ma in tanto la parte dovuta all'età e all'esperienza nel provvedere all'interesse comune viene ad essere rappresentata dal “senatus”, che è già elettivo ed è nominato dal “rex”; il quale alla sua volta è l'eletto del “populus” e unifica in se medesimo l'”imperium”, che il medesimo gli conferisce. Tutto cio, che riguarda l'interesse comune, si delibera col concorso di tutti questi elementi, cioè essere proposto dal re, appoggiato dal senato, votato dal popolo. Cosicchè, la legge assume la forma di una pubblica stipulazione – “communis reipublicae sponsion”. Per quello invece, che si riferisce alla vita domestica e privata – “res familiaris” --, essa continua a svolgersi nel seno della “domus”, del “vicus”, del “pagus”, sotto la potestà dei capi di famiglia o delle genti. Queste continuano a possedere le proprie terre sotto la forma collettiva di “agri gentilicii” e di compascua, soli eccettuati gli heredia, assegnati dalla gens od anche dal re, i quali appariscono intestati ai singoli capi di famiglia. Anche la repressione dei delitti continua ad essere lasciata al potere domestico e patriarcale, e le pene conservano quel carattere religioso, che hanno nel periodo gentilizio. Solo assumono carattere di delitti *pubblici*, e sono sotto posti alla giurisdizione del re, temperata dalla provocatio ad populum, il parricidium e la perduellio, di cui quello è come il germe del reato comune e questa il germe del reato politico. Ma il diritto private continua in gran parte ad essere governato dal costume (“mos”), il quale appare ancora circondato da un ' aureola religiosa (“fas”). Cio tuttavia non impedisce, che fra le consuetudini e le tradizioni preesistenti già ve ne sono di quelle, che sono sanzionate dala “lex publica”, la quale è preparata dal pontefice, proposta dal re, e votata dal popolo; donde la formazione della “lex regia”, nelle quali tuttavia le istituzioni giuridiche serbano ancora quel carattere religioso, che era proprio delle istituzioni delle genti patrizie. Nel frattempo quell'elemento plebeo, la cui formazione già erasi iniziata nelle stesse comunanze di villaggio, prende un grandissimo incremento collo svolgersi della città. Poichè, esso trovasi accresciuto dalle popolazioni conquistate e da coloro che, spostati nell'organizzazione gentilizia, vengono a stanziarsi nel territorio circostante alla città. Questa moltitudine, che per essere composta di elementi di provenienza diversa e per difetto di organizzazione chiamasi “plebes”, non entra ancora a formare il “populus”, nè è ammessa alle curiae della città patrizia, ma abita nelle circostanze di essa, e tiene cosi una posizione più di *fatto* che di diritto. Ai plebei, che la compongono, solo dovette essere accordato, negli ultimi tempi della città esclusivamente patrizia, il “ius nexi”, ossia il diritto di contrarre dei prestiti, vincolando direttamente la propria persona, e il “ius mancipii”, ossia il diritto di ritenere quello spazio di terra, sovra cui essi erano stanziati colle proprie famiglie. È sotto l'influenza etrusca, che Roma comincia a prepararsi ad un secondo stadio, a quello cioè di città chiusa e fortificata nelle proprie mura, il che però non toglie, che essa continui ancor sempre ad essere un centro di vita pubblica per le comunanze e le famiglie, che trovansi stanziate nell'ager romanus, ma fuori del pomoerium della città. La trasformazione, iniziata da Tarquinio Prisco, si compie, allorchè con Servio Tullio Roma viene a comprendere nella propria cerchia non solo gli edifizii pubblici, ma anche le abitazioni private, e in base alla sua costituzione viene a formarsi accanto ai patres o patricii, un nuovo populus, composto di patrizii e di plebei, ripartito in V classi ed in centurie, di carattere essenzialmente militare, i cui membri hanno i loro diritti ed obblighi civili, politici e militari determinati sulla base del CENSO. Da questo momento quel dualismo, che esiste negl’elementi, che entra vano a partecipare alla medesima Roma, penetra eziandio nelle istituzioni politiche. Per tal modo accanto ai veri magistrati del popolo, comparvero il “tribune” della plebe. Accanto ai comizii delle curie e delle centurie si formar il “concilium plebis”, il quale col tempo si trasforma in comizio tribute. Da ultimo, accanto alla “lex” si svolge il “plebiscitum.” Di qui lotte, che condussero a svolgere e in parte anche a modificare i concetti fondamentali, che servivano di base alla costituzione primitiva di Roma. Intanto Roma si è ingrandita. Nelle suemura non si esplica più soltanto la vita pubblica, ma anche la vita domestica e private. Quindi la grande opera, che si inizia in questo periodo, viene ad essere la formazione di un diritto privato, comune ai due ordini, e la creazione di quell'arte, in cui i romani dovevano essere maestri al mondo, cioè dell'”ars iura condendi.” Gl’elementi, che dovevano convivere sotto la protezione di un comune diritto, sono due, cioè: il patriziato, onusto di tradizioni religiose, giuridiche e politiche, e la plebe la quale e un agglomeramento di elementi diversi, nuovo ancora alla vita civile e politica. Quello ha l'organizzazione gentilizia fondata sul vincolo civile dell'agnazione, e questa non conosce che la famiglia, stretta insieme dal vincolo naturale della cognazione. Quella ha tante forme di proprietà, quante sono le gradazioni dell'organizzazione gentilizia. Questa non ha in certo modo che il possesso delle terre, sovra cui era stanziata (“mancipium”). Qello ha il “fas”, il “ius”, l' “imperium”, l’ “auspicium”, il “mos veterum”. Questa non conosce che l'”usus auctoritas”.  Fu la distanza stessa, a cui trovavansi collocati i due elementi, e il loro modo di sentire e di pensare compiutamente diverso, in fatto di religione e di morale, che resero necessaria la elaborazione di un DIRITTO, comune ai due ordini, il quale FA COMPIUTAMANTE ASTRAZIONE DALLA MORALE E DALL RELIGIONE. Cosi pure è questa distanza, che spiega la lentezza di questa elaborazione e la ricchezza dei risultati a cui essa pervenne. Questa dove prendere le mosse dalle istituzioni più elementari, comuni ai due ordini, e poi estendersi a poco a poco a tutti i rapporti della vita civile. Per qualche tempo ciascun elemento continua ad attenersi alle proprie consuetudini e costumanze. La convivenza dei due ordini, pero, nelle stesse mura e l'attrito dei quotidiani interessi finirono per determinare una specie di precipitazione del materiale giuridico, fluttuante sotto la forma di tradizioni patrizie (“mos veterum”), o di costumanze della plebe (“usus”). Si inizia così la più mirabile selezione dell'elemento giuridico dagl’elementi affini, con cui trovasi implicato, che siasi mai avverata nella storia dell'umanità; selezione, che da una parte obbedisce alla legge naturali di formazione, e dall'altra è già l'opera di una elaborazione, per parte sopratutto del pontefice, i quali, essendo i custodi delle tradizioni delle genti patrizie, già sono in possesso di una vera tecnica giuridica. Il nucleo centrale di questa formazione venne ad essere il concetto del “quirites”, ossia dell'uomo, isolato da tutti gli altri suoi rapporti, per essere riguardato esclusivamente come capo di famiglia e proprietario di terre, quale appunto compariva nel censo. Il “quirites” viene cosi ad essere una realtà ed una astrazione, un individuo e un capo gruppo, un soldato ed un agricoltore ad un tempo. Ed il punto di vista, sotto cui si riguardano il “quirites” nel reciproco rapporto, essendo determinato dal censo, viene ad essere quello del mio e del tuo – “il nostro” --. Di qui consegue, che per essi ogni negozio riducesi ad un trapasso dal MIO al TUO – il nostro -- , simboleggiato nell'atto “per aes et libram”, e ogni procedura viene ad essere simboleggiata in una specie di combattimento e di reciproca scommessa. Questo diritto, costituendo un privilegio dei “quiriti”, viene ad essere denominato “ius quiritium”. I suoi concetti fondamentali sono quelli vasti e comprensivi di caput, manus, mancipium, commercium, connubium ed actio. Esso costituisce in certo modo l'ossatura rigida di tutta la giurisprudenza romana. Siccome pero, attorno a questo primo nucleo, che si vien precipitando e consolidando, si mantengono ancora sempre, allo stato fluttuante, tanto le consuetudini e le tradizioni dei patres, quanto gli usi della plebe; così il primitivo “ius quiritium” viene in certo modo attraendo ed assimilando quelle istituzioni preesistenti, che potevano avere qualche analogia col diritto già formato. Per tal guisa il medesimo, arricchendosi di nuove forme, si viene gradatamente allargando nel “ius pro prium civium Romanorum”, il quale può essere considerato come un proseguimento di quella selezione, che erasi già incominciata col “ius quiritium”. Sono Le XII Tavole, che danno forma scritta alle basi fondamentali di questo ius civile. Quindi nelle medesime si possono scorgere le commettiture dei varii elementi, che entrano a costituirlo. Infatti in qualsiasi istituzione di quel ius, che i giureconsulti chiamano “proprium civium Romanorum”, può scorgersi una formazione centrale, che è dovuta al “ius quiritium”, e due laterali, di cui una suole essere di origine patrizia, e l'altra di origine plebea. Così, ad esempio, fra le forme del matrimonio havvi da una parte la “confarreatio,” di origine patrizia e dall'altra l'”usus” di origine plebea. La “coemption” sta nel mezzo, ed è la forma essenzialmente quiritaria. Fra le forme del testamento, le più antiche sono il testamento “in calatis comitiis”, propria del patriziato, e la “mancipatio familiae cum fiducia”, propria della plebe, le quali poi, pressochè componendosi insieme, dànno origine al vero testamento quiritario, che è quello “per aes et libram.” Infine, fra i modi di acquistare e trasmettere il dominio, il primo a formarsi è quello essenzialmente quiritario della “mancipatio”, attorno a cui si vengono poi accogliendo l'”in iure cessio” e l'”usucapion”. Intanto pero questa selezione non si arresta ancora colla formazione di un “ius civile”, e quindi, accanto al medesimo, si esplica il “ius honorarium”, il quale, pur derogando al primo, assimila nuovi elementi, facendoli pero entrare in forme modellate a somiglianza di quelle già adottate dal “ius civile”. È con questo meraviglioso processo che il diritto di Roma, dopo aver cominciato dall'essere la *selezione* più rigida dell'elemento giuridico, che ricordi la storia, ed una produzione esclusivamente romana, venne a poco a poco attraendo nella propria orbita anche le considerazioni di equità e di buona fede, ed assimilando quelle istituzioni delle altre genti, che si acconciavano alla logica fondamentale, da cui era governato, finchè divenne poi tale da essere considerato come un diritto universale, e da poter essere accomunato a tutte le genti, da cui aveva tolti i materiali, sovra cui erasi venuto elaborando. Il diritto romano riusci cosi ad essere una costruzione eminentemente dialettica, la quale riunisce da sè gli opposti ed i contrarii. Il diritto romano è antico nei materiali, che lo compongono, nuovo per le applicazioni che se ne ricavano. Sotto un aspetto il diritto romano è sempre fisso e fermo nei proprii concetti, sotto un altro è sempre in via di formazione. Il diritto romano obbedisce ad una logica fondamentale, e intanto lascia che ogni istituto proceda per proprio conto e segna un proprio concetto ispiratore. Mentre il diritto romano è una produzione del tutto propria del genio romano, assimila in se stesso le istituzioni di tutte le genti; è un'arte ed una scienza ad un tempo. Esso infine, mentre obbedisce e si piega alle esigenze pratiche, appare informato, come ben dice il giureconsulto, ad una vera e propria FILOSOFIA, la quale non si abbandona alle speculazioni ideali, mamedita sui fatti sociali ed umani, ne scevera l'essenza giuridica, la modella in concezioni tipiche, e svolge le medesime in tutte le conseguenze, di cui possono essere capaci. È questo il motivo, per cui le costruzioni giuridiche dei giureconsulti romani sono sempre dei modelli, che difficilmente potranno essere superati, poichè nella divisione di lavoro, che si opera fra i popoli moderni, non ve ne ha certamente alcuno, che possegga in questa parte le attitudini veramente meravigliose dell'ingegno romano per l'elaborazione dell'elemento giuridico, e nessuno parimenti, che possa aver l'occasione, il modo e il campo, che esso ebbe, per applicare la sua giurisprudenza alla immensa varietà dei fatti sociali ed umani. Singolare destino quello di Roma. Come le sue mura furono costrutte coi massi più solidi dell'epoca gentilizia; così i concetti, che le servirono di base, furono la sintesi potente di tutto un periodo di umanità, le cui vestigia si vengono ora discoprendo nelle necropoli delle più antiche città italiche e nelle civiltà fossili dell'antico oriente. Da questi ruderi di un periodo che può chiamarsi pre-istorico, essa seppe ricavare uno svolgimento storico e logico ad un tempo, che basta ad organizzare il mondo per tutto un grande periodo di civiltà. Senza essere ricca di concetti proprii, essa ebbe però tanta forza ed energia assimilatrice da fare entrare nei medesimi il lavoro di tutte le genti, con cui denne a trovarsi a con tatto. Senza abbandonarsi a speculazioni ideali, essa riusci ad isolare l'essenza giuridica dei fatti sociali ed umani, e a svolgerla in tutte le sue conseguenze con una logica inesorabile e tenace. Quando poi i concetti, che stano a base della sua grandezza, sono anch'essi esauriti, dalle loro macerie usce ancora la grande idea della umanità civile, e la sua legge puo servire come punto di partenza ad un nuovo periodo di cose sociali ed umane, Soltanto Roma, fra le città dell'universo, puo personificare in se stessa quella legge di continuità, che unifica la storia del genere umano. Le sue radici si perdono nella preistoria, e le nazionalità moderne sono  preparate da essa. Essa e l'erede e la raccoglitrice paziente delle tradizioni del periodo gentilizio, e intanto pose le basi, da cui presero le mosse, gli stati e le nazioni moderne. Inchiniamoci a Roma. Quando si pretende di cambiarla in sede esclusiva del potere spirituale, essa sa di nuovo rivivere alla vita civile. Quando si crede di riguardarla come una specie di museo del mondo civile, colle sole sue memorie essa coopera a ridestare a vita una giovine nazione. I dualismi, che ora esistono in Roma, non ci debbono impaurire. Roma e sempre la città dei dualismi. Punto non ripugna, che Roma e la sede del governo civile. Già altra volta essa apprese l'arte di separare il potere religioso dal civile – “sacra profanis secernere.” Non ripugna parimenti, che Roma continua ad essere la città dei dotti e degl’eruditi, e che intanto sia la capitale di un giovine stato. Roma ha tal copia di monumenti del passato da ricavarne la più splendida passeggiata archeologica, e ha spazio che basta per fondare nuovi quartieri, che possano corrispondere alle nuove esigenze ed ai nuovi bisogni. Ormai er tempo, che essa un'altra volta arricchisse il nucleo ristretto della sua popolazione, accordando nuovamente la sua cittadinanza alle popolazioni, che vi concorsero da ogni parte dell'Italia. Lo stato federale non cerca di far rivivere la tradizione civile e politica di Roma. Lasciamo ad altri di combattere l'influenza della romanità. Noi, studiando fra i ruderi di Roma antica, abbiamo nella grandezza del suo passato uno stimolo ed un incitamento per l'avvenire; nè e inutile, che il giovine regno cerchi di educare il suo senso politico e legislativo, studiando l'opera dei più grandi politici e legislatori del mondo. La storia civile e politica di Roma e quella del suo diritto non deve in Italia essere privilegio di dotti e di eruditi. Deve essere parte dell'istruzione e dell'educazione civile e politica del popolo italiano. È solo in questo modo, che si spiega la falange di giovani studiosi, che si precipito sopra questo patrimonio, che deve essere nostro, allorchè lo studio della storia del diritto romano e opportunamente chiamato a far parte dell'insegnamento giuridico nell’università italiane. Credo infatti di poter affermare, senza timore di essere contraddetto, che nessun nuovo insegnamento provoca nel nostro paese cosi largo movimento di studii, come lo dimostrano le pubblicazioni fattesi sull'argomento, gli istituti per lo studio del diritto romano, che ora vengono sorgendo, e l'entusiasmo stesso, con cui non solo l'Italia, ma tutta l’Europa partecipa alla commemorazione solenne di quell'epoca, in cui l'iniziarsi degli studi sul diritto ro mano pone le fondamenta dell'illustre ateneo di Bologna. L'importanza dogmatica del diritto romano potrà forse diminuire colla pubblicazione del codice civile germanico, il quale fa si che il diritto romano cessi di essere il diritto comune di un grande Popolo. Ma la sua importanza storica venne per cio stesso ad essere accresciuta, perchè si tratta pur sempre di determinare la parte, che nelle moderne legislazioni deve essere attribuita alla grande in fluenza del diritto romano. Ne è da farsi illusione, che questo gepere di studii possa ugualmente mantenersi fuori della cerchia dell’università. Poichè, tanto in Italia che in Germania, la scienza è nata e si è svolta nell’università, ed è in esse, che deve essere tenuto vivo il focolare della medesima. È soltanto nell’università, che la storia del diritto antico può cessare di occuparsi esclusivamente di minute ricerche archeologiche, per cambiarsi in un sistema di concetti, che possa essere succo e sangue per la giovine generazione. Giuseppe Carle. Diritto romano. Keywords: implicatura, diritto romano, legge romana, concetto di legge romana, natura romana Roman law often invoked nature to justify a legal ius – the principle of individual ownership: JOINT position of a single object  is said to be contra naturam. CONTRA NATVRAM QVIPPE EST VT CVM ALIQVID TENEAM TV QVOQVE ID TENERE VIDARIS. SERVITVS EST CONSTITVTIO IVRIS GENTIVM QVA QVIS DOMINIO ALIENO CONTRA NATVRAM SVBICITVR. Orazio. Sat, Roma – filosofia antica – Luigi Speranza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carle” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Carlini: l’implicatura conversazionale della filosofia fascista – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I love Carlini, and Speranza loves him even more,  but then he is Italian! My favourite is his “A brief history of philosophy,” especially the subtitle: “Da Talete di Mileto a Talete di Mileto, con una postfazione di Talete di Mileto – “Nel principio era l’acqua”!” – “Il primo filossofo – che cadde in un pozzo.” Si laurea a Bologna (“l’unica universita italiana”) sotto Acri. Insegna a Iesi, Foggia, Cesena, Trani, e Parma. E chiamato presso Pisa per sostituire Gentile, trasferitosi a Roma, come titolare della cattedra di filosofia teoretica. Membro dell’Accademia d'Italia. Inizia a farsi conoscere assumendo la direzione di una collana edita da Laterza che inizialmente venne lanciata sotto il nome di “Testi di filosofia ad uso dei licei”. Ad introdurlo nella Laterza fu Gentile, conosciuto qualche anno prima, e Croce, all'epoca ancora in rapporti col filosofo di Castelvetrano. “Testi di filosofia ad uso dei licei” ha un scopo divulgativo, ma divenne presto celebre per l'alto livello degli autori che collaborarono in vario modo al suo interno, fra cui, oltre al Carlini, anche Saitta e lo stesso Gentile. Oltre al lavoro di direzione e coordinamento in qualità di direttore responsabile, pubblica due saggi su Aristotele (in realtà raccolte aristoteliche da lui curate, commentate e tradotte) cui fece seguito uno studio su Bovio che desta l'interesse di non pochi studiosi e l'approvazione di Gentile, considerato da Carlini suo tutore indiscusso. Pubblica due corposi volumi che gli assicurarono un posto di assoluto rilievo nell’ambiente filosofico: un esaustivo studio sul sense e l’esperienza, e soprattutto “Lo spirito”.  In “Lo spirito” si inizia infatti chiaramente a delineare il proprio pensiero: adesione alla dottrina idealista, vista come sintesi fra il pensiero immanentista gentiliano (Gentile fu, fino alla propria scomparsa, suo amico, oltre che tutore) e quello crociano. Il soggetto attraversa un costante irto di dubbi ed angosce e un dialogo che riusciamo ad instaurare con noi stessi, in un percorso critico dialettico, una conquista realizzabile solo attraverso gli strumenti di una metafisica critica. La centralità della teoria della conoscenza e sviluppata in “Lineamenti di una concezione realistica dello spirito umano” e “Alla ricerca di noi stessi”, “alla ricerca di tu”. Comprensibile appare pertanto l'interesse che nutre per l'esistenzialismo, che però si espresse con una singolare preferenza verso Heidegger, nelle cui speculazioni trovarono ben poco posto le istanze metafisiche, piuttosto che nei confronti di Jaspers che su quelle stesse istanze aveva strutturato la propria filosofofia. Commenta il pensiero logico di Heidegger, e Che cos'è la metafisica? (“La nulla anihila”). Rende un commosso omaggio a Gentile con i suoi Studi gentiliani, raccolta di scritti in massima parte già pubblicati precedentemente, tesi a ricordarne la figura e le affinità intellettuali che un tempo lo avevano legato al grande filosofo siciliano. “Bovio” (Bari, Laterza); “Senso ed esperienza” (Firenze, Vallecchi); “Lo spirito” (Firenze, Vallecchi); “Note a la metafisica d’Aristotele” (Bari, Laterza); “Filosofia” (Roma, Quaderni dell'Ist. Naz. di Cultura, ser. 4; 5); “Il mito del realism” (Firenze, Sansoni); “Lo spirito” (Roma, Perrella); Filosofia (Roma, Ist. Naz. di Cultura, 2); Il problema di Cartesio, Bari, Laterza); Storia della filosofia, Firenze, Sansoni); “La Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi filosofici” (Firenze, Sansoni); Le ragioni della fede, Brescia, Morcelliana); Michelino e la sua eresia” (Bologna, Nicola Zanichelli). Dizionario biografico degli italiani. l'architrave 4    ala I ai Mi L. LL    a cura di  alberto schiavo       Gy  giovanni volpe editore  FUTURISMO E FASCISMO. Una fotografia inedita di Marinetti mentre si esercita  al poligona di tiro di Gorizia nel 1915. Marinetti e Russolo si erano  arruolati volontari nel « Battaglione Lombardo Volontari Ciclisti » il  3 agosto 1914 per poi combattere da alpini sul Monte Altissimo. In  seguito Marinetti verrà assegnato ad un reparto di autoblindate e poi  servirà nei bombardieri. Sarà tre volte ferito e tre volte decorato  al valore.    © 1981. Tutti i diritti riservati. Giovanni Volpe Editore  in Roma — Via Michele Mercati, 51 — Telefono 87.31.39    FUTURISMO E FASCISMO    a cure di    ALBERTO SCHIAVO    GIOVANNI VOLPE EDITORE    FUTURISMO CON E SENZA FASCISMO    «A Giacinto Menotti Serrati allora direitore del-  l’Avanti, che si era recato in Russia per respirare  aria comunista. Lenin affermò: “Voi socialisti non  siete dei rivoluzionari. In Italia ci sono soltanto tre  uomini che possono fare la rivoluzione: Mussolini,  D'Annunzio, Marinetti”. Il povero Giacinto Me-  notti, inotridito, ritornò a Milano precipitosamen-  te. E. quando, paco dapo, un capo scarico con un  magistrale colpo di forbice gli tagliò di netto, per  beffario, Ia veneranda barba, reagì in questo modo:  facendo proclamare nella grande città lombarda lo  sciopero generale. I milanesi orripilarono, è il caso  di dirlo, perché si sentirono da quel giorno appesi  ai peli del direttore dell'Avarti »    EmiLio SErTIMELLI, Mille giudizi di statisti, scrit-  tori, giornalisti, scienziati, industriali di Cinquanta  Stati sulla personalità e misstone di Mussolini, Edi.    zioni Erre, Milano, 1945, XXIII faprile).    1. Quale futurismo?    Il futurismo è ormai un fatto d’esportazione: italiano  d'origine pur se si è cercato di farlo passare per francese  e russo poi di acquisizione e di affermazione, è ormai  alla ribalta dell’esperimentazione artistica americana. Se-  gno questo che il fenomeno è vitale e ancora carico di  prospettive, nonostante la « storicizzazione » di un avve-  nimento che fu d'avanguardia. Ma quale avvenimento?  Il manitesto del futurismo fu pubblicato sul parigino Le Figaro. Si tratta di un manifesto letterario di rinnova-  mento e di rivoluzione, se vogliamo, della tradizione clas-  sicista e « passatista » {secondo un termine caro ai futu-  risti) dominante.   Gli aspetti politici non furono tuttavia estranei alla    sua volontà di rivolgimento letterario ed artistico. Ci  sembra quindi giusto prenderli in considerazione, eftet tuarne un esame. Anzi, è proprio di questi che ci vo-  gliamo occupare, del loro svolgersi, articolarsi 0, comun-  que, manifestarsi nel corso del tempo e della vita del fu-  turismo. Che, in fondo, ancora oggi è accettato o respinta,  condiviso o negletto, « approvato » o denigrato a seconda  delle posizioni o degli intendimenti politici del momento.  Ma anche è ticonsiderato, tivisto e « rivisitato » nel suo  complesso, da tutte le parti, vicine e lontane, amiche ed  avverse, per la carica vitale e rinnovatrice che lo anima,  suscitatrice di nuovi spiriti e ancòra, in fondo, moderna.   « La letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità pen-  sosa, l'estasi e il sonno », scriveva Marinetti in quel Mani  festo di settanta e più anni fa. « Noi vogliamo esaltare il  movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di cor-  sa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno». E non è  già atteggiamento letterario « aggressivo », ma anche di  rinnovamento, questo? Non è, come si suol dire ancora,  « fare politica »? Al settimo punto del Manifesto, Ma-  rinetti così continuava: «Non c'è più bellezza, se non  nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere ag-  gressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere  concepita come un violento assalto contro le forze ignote,  per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo ». Per conclu-  dere poi con l'undicesimo: « Noi canteremo le grandi fol-  le agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa; can-  teremo le maree multicolori e polifoniche delle rivolu-  zioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fer-  vore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da  violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici  di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole... ».  E tutto questo cantava e diffondeva da Parigi, da uno  dei più gloriosi quotidiani della capitale francese; ma cio-  nonostante « ...è dall'Italia, che noi lanciamo pel mondo  questo nostro manifesto di violenza travolgente e incen-  diaria, col quale fondiamo oggi il “Futurismo”, perché  vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena  di professori, d’archeologi, di ciceroni e di antiquari ».    Un grido così coinvolgente e totale non può, in fon-  do, non trascinare ancora gli osservatori della cultura,    A       non invitarli almeno a prendere posizione, poco importa  se favorevole o contraria. Non si può rimanere indiffe-  renti ancora negli Anni Ottanta, non sentirlo tutt'ora pre-  sente nei suoi contenuti « prospettici » e attuali. Ecco  perché tutti lo hanno ripreso, riconsiderato o « riabilita-  to» alla loro dimensione storica: liberali e comunisti,  socialisti e conservatori, cattolici e radicali, fino alla « nuo-  va destra ». Anche noi, vorremmo quindi riesaminarlo a  distanza non però per riappropriarcene, ma solo per ve-  dere la sua origine, il muoversi storico e la collocazione  politica nel corso della sua esistenza, che in fondo, è an-  cora incerta e anche, in parte, controversa.    Si è parlato d’irrazionalismo filosofico, di decadenti-  smo o di romanticismo letterario, di surrealismo con evi-  dente errore di collocazione, di nietschianesimo natural  mente, o di bergsonismo ecc. ecc. Ma non sta a noi que-  sto compito, perché siamo convinti che rutto si potrebbe  dite, o comunque tutto si potrebbe adattare in buona  combinazione di purpurie filosofica, o di pensiero. E in-  vece è il futurismo che vorremmo considerare nella sua  realtà storica, nella sua entità e valenza « politica », di  fianco o a distanza di quel fascismo con cui bene o male  si è accompagnato. Anche se ciò non basta certamente  per avere un'idea chiara e precisa della sua effettiva por-  tata e del suo valore « storico ». Perché il futurismo va  visto sì nel suo tempo, che non è poi tanto passato, pur  se non è più momento dell’oggi; ma va visto anche nella  sua prosecuzione e nella sua proiezione al tempo presen-  te, sia pure per quel che riguarda la « dimensione d’arte ».   Il futurismo oggi non è più un fatto politico, ma è  tuttora fatto culturale, e diverse manifestazioni e pubbli  cazioni lo dimostrano ancora. Quando nacque, fu espres-  sione rivoluzionaria di un paese giovane e « nuovo » mos-  so dalla felice conclusione dei fermenti unitari, i quali  — è ovvio — comportano sempre semi di sconvolgimen-  to e di « rinnovazione ».   L’« Italia di Vittorio Veneto » sancità definitivamente  ed epicamente il ciclo dell’unità e segnerà così anche, nel  l'immediato dopoguetra, il momento di temperatura massima del « futurismo politico », che vedremo poi ricadere  in seguito completamente a zero.   Oggi, in tempi di riflusso dopo una guerra perduta  anche se ormai lontana, il futurismo risulta meno com-  prensibile e meno « attuale » alla nostra capacità d'in-  tendimento storico. Ma a ben osservare possiamo ancora  intravvederlo, per intendere poi anche meglio il futurismo  artistico e letterario, che del tutto estraneo a quello « po-  litico » proprio non è.   La cultura è un fatto del presente, ma anche dell’av-  venire. Come tale è o dovrebbe essere giovane, perché  vissuta, voluta, « creduta » e quindi guardata in prospet-  tiva nella visione dell’oltre, nell'ottica di uno sguardo lon-  tano. Il futurismo si pone in questo «taglio » di visuale  sull'inizio del secolo, e si focalizza in tale dimensione.  Vuole aprire una nuova strada e vuole porgere un'indi-  cazione, una proposta.   Erano i tempi del progresso, dello sviluppo della scien-  za e dell'industria, del nascere della velocità dei nuovi  suoni e dei nuovi rumori, quelli delle scoperte e delle  invenzioni, del cinema e dell'aviazione. Marinetti percepì  tutto questo e lo espresse. E fondò il futurismo, pose  le sue basi e cantò la sua prima voce. Nessuno forse  s’aspettava o s'immaginava che potesse riuscire a trovare  ascolto. Marinetti però viveva a Parigi a quel tempo, e  seppe approfittare dei contatti che aveva con la cultura  rancese per lanciare il Manifesto: fu un'occasione, e fu  anche un lancio sicuro.    2. Futurismo e « passatismo »    Esiste ancora oggi il « passatismo », quello di mari-  nettiana memoria. E se è pet questo c'è ancora il futu-  rismo. Proprio per tale suo aspetto, dunque, il futurismo  è ancora attuale: la decadenza della cultura o il suo in-  vecchiamento, e la sua inadeguatezza ai tempi; il preva-  lere per contro dell'accademia, della pedanteria, del vec-  chiume cattedratico sono sempre all'ordine del giorno.    ®    Il futurismo, quindi, non ha esaurito il suo compito, ov-  vero non è riuscito nel suo intento. E allora dovremo dire  che non è morto ed è tuttora attuale. Ma prima di aprire  un'ipotesi di «nuovo futurismo », dovremmo esaminare  quello passato, fattosi movimento d'avanguardia, e ormai  da ridefinirsi vera e propria avanguardia storica, solo ed  esclusivamente.   Il « passatismo » può essere oggi solo un « fatto di  ritorno », o esser rientrato ad occupare il suo campo d'’ori-  gine, ma il futurismo settanta anni fa aveva già conosciu-  to quello di allora, tanto da indicarlo e da definirlo, con  una sua caratteristica espressione: passatismo, appunto.  E non si trattava anche allora di una cultura ripetitiva  e monocorde, puntualizzatrice e pedante, noiosa e inat-  tuale? Allora come oggi: una cultura fuori dal tempo,  sterile e ferma. E il futurismo aveva voluto muoversi a  rinnovarla, a darle nuova spinta vitale. Ecco allora le  sue invettive contro l’accademismo o il professorume, i  suoi appelli alla distruzione di musei, archivi, biblioteche.   Si trattava di appelli squisitamente letterari, ma sono  stati presi il più delle volte alla lettera o in senso lette-  rale, per farne atto d'accusa al futurismo e alla sua anti-  cultura. Leggendo al di là delle righe, invece, dovremmo  capire la portata o la dimensione del messaggio, rivolto  agli uomini più che ai musei e alle accademie, o almeno  a certi uomini capaci di rappresentare solo ed esclusiva-  mente cultura da museo.   Sulla spinta di questo stimolo « ideologico », era fatale  che il movimento trovasse più facili accoglienze 0 acco-  stamenti con le parti politiche d’azione, quelle dell'inter  vento prima della Grande Guerra, e dell’arditismo prima  durante e dopo il conflitto. La guerra veniva ormai intesa  sola ed unica «igiene del mondo », ed era logico che i  futuristi si accostassero a lei, come ad una forza capace  di debellare ed estirpare il tanto inviso « passatismo ».  I futuristi quindi furono interventisti accanto ai naziona-  listi (D'Annunzio) ed ai socialisti di Corridoni e di Mus-  solini. La ineluttabilità della storia accosta spesso e vo-  lentieri i « differenti ». Furono vicini nei comizi, nelle  manifestazioni, nella propaganda per l’intervento.  E poi partirono, praticamente tutti 1 futuristi, volontari per il fronte di una guerta che avevano inteso e visto  aggressiva, purificatrice e moderna. Una guerra al passo  coi tempi, si direbbe oggi, una guerra insomma « futu-  rista ». Partì Martinetti e partì Boccioni, partirono Funi  e Sitoni, partì Sant'Elia, che lasciò i suoi 23 anni in trin-  cea sulle colline del Carso. Erano entrati tutti e cinque  « compatti » in quel glorioso battaglione ciclisti, che tan-  to fece patlare di sé, e che Funi rittasse in un famoso  quadro. Anche Boccioni morirà in ospedale a Verona.  La vita fu forse la massima offerta all’« igiene » di una  guetra tanto desiderata.    Il futurismo in quanto fermento rinnovatore di una  lotta nazionale che concluse il Risorgimento, potrebbe es-  sere inteso come un epigono del Romanticismo. Fu in-  vece di più e di meglio, visto in altra dimensione o in  altro significato. Perché fu avanguardia, anzi il primo ve-  to e proprio movimento d’avanguardia culturale del nuo-  vo secolo. E l'avvento del fascismo in senso politico, di-  mostra in fondo che lo sbocco di tutto quel rivolgimento  innovativo 0 avanguardistico che tutti sentivano e « avevano  nel sangue », era diventato una ineluttabile necessità del  momento.    L’irreggimentazione del fascismo è un fatto successiva,  indipendente dal futurismo. Il fascismo-regime, per dirla  con De Felice, è un'esito autonomo e « solitario » di Mus-  solini e del potere. Il fascismo-movimento invece, sempre  per dirla alla De Felice, no. I) fascismo-movimento è una  realtà più complessa, articolata e multiforme, più sentita e  partecipata. Ed in essa entra il futurismo, che « vive » il fa-  scismo ma anche lo anima, che Jo vuole in parte, ma anche  lo informa.    Il « passatismo » doveva essere stroncato: e in un  primo momento, con l'avvento di Mussolini, languì. La  cultura subì uno svecchiamento non indifferente ed il fer-  mento del nuovo portò sulla scena uomini « giovani » ac-  cantonando | « vecchioni » dell'accademia libera!socialista.  Balla, Carrà, Soffici, Funi, Sironi, Prampolini si afferma-  rono col vento futurista che stava soffiando. Ed ebbero spazio nelle mostre, almeno in un primo momento, aper-  tura nei musei, apprezzamento all’estero, dove vennero  accolti, ammirati, imitati. Il futurismo ebbe una grande  forza vitale sua, autonoma e individuale. Senza per que-  sto imporsi e schiacciare la « concorrenza », anzi. I fu-  turisti accettatono nuove esperienze ed accolsero scambi  con avanguardie straniere (come l'astrattismo), che vol.  lero mutuare in reciprocità l’influenze. Il fascismo fu l’avan-  guatdia collaterale politica del futurismo, che tuttavia que-  st'ultimo cronologicamente precedette e « ideologicamente »,  almeno in parte, ispirò. La lotta al « passatismo » diven-  ne così quasi simbolo del fascismo, che si fece portaban-  diera del rinnovamento e della nuova rivoluzione nazio-  nale.   I « professori », non avendo messaggi originali da con-  trapporre, rimasero in disparte. Marinetti divenne acca-  demico d’Italia a fascismo avanzato e, forse, suo malgra-  do. Tuttavia « usò » l'Accademia per promuovere ed ap-  poggiare i « suoi » futuristi, per dar loro spazio nelle di-  verse manifestazioni d’arte e di cultura. Il filosofo Croce,  « professore ad honorem », era stato proposto alla presi-  denza dell’Accademia, ed era stato proposto da parte fa-  scista, quando ancora da Napoli applaudiva a Mussolini:  ebbe invece più consensi la presidenza Marconi, lo scien-  ziato, e Croce si ritirò nell’antifascismo, forse mi litante,  della sua incensurata e liberissima Critica. Croce fu « pas-  satista », 0 tortò ad essere tale dopo una parentesi {od  un tentativo di rivolgimento innovativo), che non lo sot-  trasse tuttavia dalle « carte » della sua più o meno im-  mobile filosofia.    3. Futurismo e politica    La comparsa « politica » del futurismo fu praticamente  contemporanea alla sua nascita «artistica: infatti avvenne  in occasione delle elezioni del 1909, quando Marinetti  lanciò il suo Primo Manifesto Politico, che così si rivol-  ge agli « Elettori Futuristi »: « Noi Futuristi invochiamo da tutti i giovani ingegni d’Italia una lotta ad oltranza  contro i candidati che patteggiano coi vecchi e coi preti ».  Posizione confermata nel marzo dello stesso anno in un  famoso Discorso ai Triestini tenuto al Politeama Rosset-  ti, della città giuliana, dove così sottolinea: « In politica,  stamo tanto lontani da] socialismo internazionalista e an-  tipatriottico — ignobile esaltazione dei diritti del ven-  tre — quanto dal conservatorismo pauroso e clericale,  simboleggiato dalle pantofole e dallo scaldaletto ». Sono  le premesse del famoso anticlericalismo marinettiano, che  sfocerà poco dopo nello « svaticanamento » tanto predi-  cato per la salvezza nazionale.    Nel 1910, dopo la nascita del futurismo politico, vie-  ne fondato il Partito Nazionalista Italiano, antidemocra-  tico ed antiborghese. Nel 1913 nasce Lacerba, cui diede-  ro vita a Firenze Soffici e Papini, la rivista che in pra-  tica divenne ben presto organo ufficiale del futurismo /ato  sensu. Sempre nel 1913 sorgeva a Napoli un’altra rivista  futurista, diretta da Ferdinando Russo e intitolata Vele  Latina, che si ergeva in un primo tempo a voce di pa-  sizioni morigerate e tranquille, e poi dal 1915 più spinte  nella mischia dell'intervento.   Ancora del ’13, e dell'11 ottobre per l'esattezza, è  la pubblicazione del Programma politico futurista a firma  di Marinetti, Boccioni, Carrà e Russolo, per le elezioni  dello stesso anno. « Questo programma vincerà », s'in-  dica al margine inferiore del foglio, «il programma cle-  rico-moderato-liberale » e «il programma democratico-re-  pubblicana-socialista ». Cosa che poi in realtà non av-  venne.    Il 12 dicembre dello stesso anno Marinetti pronun-  ciava un discorso al Teatro Verdi di Firenze, dove sao-  stiene la volontà di appoggiare l'impresa libica ed il suo  felice compimento. Il discorso viene immediatamente ri-  preso e pubblicato da Lacerba, nel numero del 15 dicem-  bre (n. 24, anno I): « Si convincano i socialisti che noi  rappresentanti della nuova gioventù artistica italiana com-  batteremo con tutti i mezzi e senza tregua i loto vigliac-  chissimi tentativi... » iniziava il discorso; e così concludeva, a rafforzamento delle sue inconciliabili posizioni:  « Noi siamo dei nazionalisti futuristi e perciò ferocemen-  te avversi all’altro grande pericolo imminente: il clerica-  lismo con tutte le sue propaggini di moralismo reaziona-  sio, di repressione poliziesca, di professoralismo archeo-  logico e di quetismo rammollito o affatismo di partito ».  Ormai la collocazione del movimento è quanto mai chia-  ra e inequivocabile.    4. Futuristi e « fiorentini »    Che i futuristi fossero « milanesi » è problema tutto  da vedere, anche se è vero che Marinetti abitava a Mi-  lano e che dopo la fondazione del movimento a Parigi  fu a Milano il suo centro di spinta e di irradiazione.  Ma i legami con Firenze furono ben presto agganciati,  e determinanti. Scrive Luciano De Matia: « Fsiste un fu-  turismo milanese (con Marinetti e Boccioni in simbio-  si); esiste un primo futurismo fiorentino lacerbiano, che  assimila, elabora in modo nuovo, creativo, le istanze mi-  lanesi; esiste un secondo futurismo fiorentino (la « pattu-  glia azzurra »; i giovani de L'Italia futurista) psicologico,  occultista, predadaista e presurrealista. E potremmo con-  tinuate nelle differenziazioni »”.   Ma non è tanto per questo tipo di differenziazioni che  ci interessa il futurismo fiorentino, quanto per la dimen-  sione « politica » dei personaggi che vi aderirono, diversa  da quella di Marinetti e degli altri futuristi milanesi o  degli altri politici che a Milano operavano e si muove-  vano (Boccioni, Sant'Elia, Balla; più tardi poi, Vecchi  e Mussolini). Milano era già città d'avanguardia e alla  guida dell’industrializzazione settentrionale: questo non va  dimenticato.   Firenze era ancora « passatista », accademica e salot-  tiera; legata comunque ad una cultura d’indagine e di    ! Tuciano De Maria, Palazzeschi e l'avanguardia, Mondadori,  Milano, 1968, pag. 31. riesumazione di un passato ricco e glorioso, ma ormai ri-  petitivo e sclerotizzato. Firenze tuttavia era anche la terra  feconda del primo Novecento, delle nuove riviste, dei  tentativi di rivisitazione di una cultura pur sempre na-  zionale, e di lancio dell'avanguardia sullo scorcio del nuo-  vo secolo, che andava creato e costituito, Il Leonardo apre  le sue tirature il 4 gennaio 1903, per chiuderle poi nel-  l'agosto del 1907. Era stato Papini a fondarlo, ma c’era  già anche presente Prezzolini (Giuliano il Sofista). Che  poi mise in piedi La voce nel 1908: uno dei migliori ten-  tativi di collegamento delle forze intellettuali e di fon-  dazione di un minimo denominatore comune, letterario e  politica {idealismo e sindacalismo socialistico di tipo so-  reliano). Papini continuò la « collaborazione ». Ma vi fu-  rono anche, sulle pagine de La Voce, Amendola e Sal  vemini, Soffici e De Robertis, oltre che il futuro fonda-  tore de Il Popolo d’Italia e del Fascismo.    La Voce chiudeva però i battenti nel 1912 senza ec-  cessiva eco politica immediata. Papini non aveva condi-  viso certe alleanze del suo amico Giuliano il Sofista, come  non condivideva l'intento didascalico e divulgativo della  Voce su qualsiasi argomento artistico e sociale, come an-  che « idealistico ». Si unì a Soffici di cui condivideva gli  atteggiamenti, ed insieme fondarono Lacerba (il 1° gen-  naio del 1913, sempre a Firenze). « Non si volge chi  a stella è fisso! », portava come motto il Leonardo sotto  la testata. Volendo dare tono battagliero a Lacerbae, Pa-  pini forse ancora seguiva le prospettive d’arte e di cul-  tura del Leonardo. Anche se in una dimensione « attiva »  che già i « leonardiani » avevano inteso fondare nell’uti-  lizzazione del pragmatismo come « strumento di poten-  za ». (« In quegli anni tutti vollero sapere che cosa fosse  il pragmatismo »).  Lacerba riprende l’impostazione di  battaglia, tipica di Papini, e ritotna all’orientamento spe-  cifico dell’arte.       ? Vedi anche Giovanni Papini, Pragmatismo, Firenze, Vallec-  chi, 1927.    14    In questo contesto è evidente che non poteva man-  care l’incontro col futurismo.   La scazzottatura dei futuristi con Soffici e i vociani  nel 1911° non poteva aver contribuito all'incontro? Po-  trebbe darsi, anche se Papini non vi aveva partecipato,  come Marinetti stesso asserisce in una sua lettera a Pra-  tella. Sta di fatto che col 15 marzo del 1913, cioè col  suo sesto numero, Lacerba diventa futurista. Con un ar-  ticolo proprio di Papini dal titolo Contro il futurismo che  dal famosa attacco iniziava così: « Il futurismo italiano ha  fatto ridere, urlare e sputare. Vediamo se potesse far pen-  sare». Segue un passo di Boccioni sul «fondamento plastico  della scultura e pittura futurista». Proprio Boccioni che ave-  va investito Soffici col suo celebre pugno, poco più di  un anno prima a Firenze. E che continuerà a pubblicare  articoli sul numero del 1° di aprile e su quello del 1° di  agosto e poi sul primo numero del 1914, ecc. Per non  parlare di Carrà, Marinetti, Russolo, Sant'Elia, Auro d'Al-  ba, ecc., che porteranno continuamente i loro contributi.   Il 15 ottobre del ’13 Lacerba pubblicherà addirittura  il citato Programma politico futurista in occasione delle  elezioni generali. Il manifesto politico compare in prima  pagina con tutti i crismi d'appoggio o di affiancamento  della rivista. Papini ne dà un commento più che « sod-  disfacente ». E lo stesso Papini il 1° dicembre dello stes-  so anno uscirà poi con un lungo articolo intitolato Perché  son futurista. Sarà l’atto di accettazione definitiva del fu-  turismo, od il suo accoglimento più completo, e « globale ».    1 Su La Voce Soffici pubblica il 1° aprile del 1909 la sua Ri-  cetta di Ribi Buffone. Vi si elencano gli ingredienti del neonato  futurismo: « Un chilo di Verhaeren, 200 gr. di Alfred Jarry, cento  di Laforgue, trenta di Laurent Tailhade, cinque di Viélé Griffin, un  pugno di Morasso..., una presa di Pascoli », aggiungendovi poi « una  pila di undici automobili, sette aetoplani, quattro treni, due carghi,  due biciclette, diverse batterie elettriche e qualche candela arden-  te». Sempre su La Voce Soffici pubblicherà poi nel ‘10 e nell’11  dei rendiconti negativi sulle opere futuriste esposte a Venezia e a  Milano, per cui sarà decisa la spedizione punitiva a Firenze da par-  te dei fuiuristi,   Non molti giorni dopo, il 12 dicembre (lo ab-  biamo già visto), si tenne al Teatro Verdi a Firenze  una « grande serata futurista », di cui riporta il « reso-  conto sintetico » il numero 24 della rivista (del 15 di-  cembre 1913).   Non molto tempo dopo, però, il 15 febbraio del ’14,  appare sul quarto numeto del nuovo anno I! cerchio si  chiude, che avvia inesorabilmente al declino della colla-  borazione. Autore ne è ancora una volta Giovanni Papini,  che chiuderà definitivamente il « colloquio » sull'ultimo  numero dell’anno insieme a Soffici, cofirmatario de Il Fu-  turismo e Lacerba. E’ l'atto di chiusura di un « perio-  do »: quello, appunto, del futurismo lacerbiano. Rispon-  derà Boccioni il 1° di marzo sul numero 5 con Il cerchio  non si chiude; ma sono solo sussulti, e anche sugli ultimi  numeri dell'anno della rivista compariranno solamente i  cosidetti « canti del cigno ».   Il cerchio era ormai già chiuso. E non molto dopo  chiudeva anche Lacerba, nonostante i suoi ultimi tenta-  tivi interventisti di rivivificazione (1915) e le sue discri-  minazioni tta futurismo c marinettismo, che ne sarebbe  stata la versione deteriore‘. 1l marinettismo sarebbe pra  ticamente già morto secondo «i fiorentini », mentre il  futurismo avrebbe potuto tendere a mete migliori. Dopo  pochi mesi in realtà morirà definitivamente anche Lacerba.    5. Il futurismo e la guerra    Nel 1929 Marinetti ricordava così l’inizio della sua  « carriera interventista »: « Nel settembre 1914 dutante  la battaglia della Marna e in piena neutralità italiana, noi  futuristi organizzammo le due prime dimostrazioni contro  l’Austria e per l'intervento. Bruciammo il 15 settembre  nel Teatro Dal Verme e il 16 settembre in Piazza del       4 Cfr. Palazzeschi, Papini, Soffici, Futurismo e Marmnettismo, in  Lacerba, anno III, n. 7, 14 febbraio 1915, pp. 49-50. Duomo e in Galleria undici bandiere austriache ». Poco  prima di quegli avvenimenti, Mussolini aveva fondato il  suo nuovo quotidiano, I{ Popolo d’Italia. Contemporanea-  mente, sotto l'auspicio e il favore di Corridoni, i gruppi  rivoluzionari di sinistra, già pronunciatisi a favore della  guerra, si stavano organizzando per sostenere anch’essi  l'intervento. Come ricorda De Felice, «il 5 ottobre il  Fascio Rivoluzionario d'Azione Internazionalista avreb-  be lanciato il suo primo appello ai lavoratori italiani in  questo senso » * L'incontro tra futuristi e rivoluzionari  di estrema sinistra si stava verificando e « stringendo »,  anche se già confortato da reciproche simpatie per le uni.  voche posizioni anticlericali ed antiborghesi.  Mussolini scriveva dalla direzione de Il Fopolo d'Italia una lettera a Buzzi, che  riportiamo interamente: « Caro Buzzi, Boccioni vi avrà  detto — se mai vi avrà parlato di me — che tutte le  mie simpatie sono — anche nel dominio dell’arte — per  i novatori e i demolitori: per i “futuristi”. Inattesa, e  perciò gradita, mi giunge la vostra lettera riboccante di  simpatia. E’ questo uno dei momenti più amari della mia  vita. Ma vincerò. Vincerò. Lo sento. F' necessario. Ho  messo nel gioco tutta me stesso. Credetemi. Vostro Mus-  solini ».   L’amarezza gli è data probabilmente dall’espulsione  dal Partito socialista proprio per la posizione da lui assun-  ta a favore dell'intervento. La conoscenza da parte di  Mussolini, di Boccioni e del movimento d’arte d’avanguar-  dia di Marinetti, risultava sino a poco tempo fa inesistente.  La lettera, unica del genere, conferma la precedenza del  futurismo politico rispetto al fascismo ancora da sorgere,  che poi mutuerà da esso idee, elementi e programmi.   Le simpatie si manifestano per il dominio dell'arte,  al dire di Mussolini, ma non solo; c'è un « anche », che  indica chiaramente dell'altro e un'apertura, forse politi  ca, possibile nei confronti degli innovatori e dei « demo-    Renzo De Felice, Mussolini il Rivoluzionario, Einaudi, Tori. litori », vale a dire per i futuristi. Che ancora il 9  dicembre di quell’anno organizzano le prime manifesta-  zioni interventiste all’Università di Roma, sotto la guida  di Marinetti, Balla, Cangiullo e Depero. Qualche mese  dopo, nel ’15, le autorità di governo fermano Marinetti,  Cangiullo, Balla e Depero che avevano indetto una ma-  nifestazione interventista un’altra volta a Roma, in Piazza  Venezia. E' il primo « fermo politico » di Marinetti. Sia-  mo quasi alla vigilia della guerra.    Il 12 aprile 1915 si mette in piedi la « terza grande  dimostrazione interventista » davanti alla Camera dei De-  putati. E' presente anche Mussolini e si verifica uno dei  maggiori « momenti d’incontro » tra futuristi e Mussolini  sul terreno dell’intervento. Balla, Corra, Settimelli, Ma-  rinetti e lo stesso Mussolini vengono attestati. Tutti gli  sforzi ormai, tutte le volontà e tutte le energie sono con-  centrate verso un'unica e suprema meta: quella della guer-  ra. A Messina esce il nuovo periodico La Balze, e Ma-  rinetti pubblica il manifesto Guerra sole igiene del mon-  do, mentre il poeta futurista Auro d'Alba « lancia » a Mi-  lano per le Edizioni Futuriste di « Poesia » (« sostenute »  da Marinetti) il volume Baionette.    Con l’entrata in guerra nel maggio, a Fitenze Lacerba  interrompe — come si è visto — le pubblicazioni. Una  guerra che avevano tutti quanti, in un certo senso, pre-  parato con interventi, discorsi, giornali, manifestazioni e  pubblicazioni. Fra questi non va dimenticato il manifesto  del Teatro futurista sintetico, firmato da Martinetti, Corra  e Settimelli, nel quale, fra l’altro, così si legge: « Aspettan-  do la nostra grande guerra tanto invocata noi Futuristi al-  terniamo la nostra violentissima azione artistica sulla sen-  sibilità italiana, che vogliamo preparate alla grande ora  del massimo pericolo ». E più avanti: « Perché I’Italia  impari a decidersi fulmineamente a slanciarsi, a sostenere  ogni sforzo e ogni possibile sventura non occorrono libri  e riviste... La guerta, futurismo intensificato, ci impone  di marciare e di non marcire nelle biblioteche e nelle sale  di lettura. No: crediamo dunque che non si possa oggi  influenzare guerrescamente l'anima italiana, se non median-    18    te il teatro ». E in effetti, a partire dal gennaio del '15,  i futuristi avevano iniziato una serie di « Tournées di tea-  tro futurista interventista » per sostenere la necessità del-  l’intervento con un mezzo di comunicazione ben più po-  polare e « circolante » della letteratura.   Anche la «serata futurista », per esempio, è un al  tro canale o strumento di « incoraggiamento » dell'inter-  vento. Si tratta di una sorta di riunione o ritrovo di arti-  sti futuristi, uno dei quali sollecita gli intervenuti (pubbli-  co) danda uno spunto, e proponendo un tema, o aggre-  dendo qualche aspetto dell'arte del passato, da cui nasce  lo stimolo alla creazione e alla lotta del nuovo 0 del futu-  ro, e anche lo stimolo alla guerra che lo conduce sino alle  ultime conseguenze. Ma sentiamo Marinetti come la defi-  nisce quando si rivolge agli studenti in un altro manifesto,  di poco precedente a quello « teatrale », intitolato Im que-  st'anno futurista, rivelto agli « studenti italiani » e datato  29 novembre 1914. Laddove si esortano i giovani alla  guerra così si afferma: «... il futurismo segnò appunto  l’irrompere della guerra nell’arte, col creare quel fenome-  no che è la Serata futurista (efficacissima propaganda di  coraggio). Il futurismo fu la militarizzazione degli artisti  novatori ».   E la guerra arrivò, come A biamo visto, e per molti  versi fu vera e propria « guerra futurista ». In luglio par-  tiva il gruppo più consistente di « volontari »: Marinetti,  Boccioni, Russolo, Sant'Elia, Bucci, Carlo Erba e Funi.  Ma ci saranno al fronte anche Carrà e Sironi, fattosi futu-  rista nello stesso anno, e Piatti e Fortunato Depero.   Alla fine dello stesso anno Boccioni, Russolo, Sant’E-  lia, Sironi e Piatti, sempre sotto l'egida di Marinetti, fir-  mano un altro manifesto futurista, quello dell’Orgoglio  italiano, con cui si promettono pugni, schiaffi e fucilate  a quelli degli italiani che avessero manifestato in sé «la  più piccola traccia del vecchio pessimismo imbecille, deni-  gratore e straccione che ha caratterizzato la vecchia Italia  di mediocristi antimilitaristi (tipo Giolitti), di professori  pacifisti (tipo Benedetto Croce, Claudio Treves, Enrico  Ferri, Filippo Turati), di archeologi, di eruditi, di poeti  nostalgici. Sant'Elia muore al fronte, e Boccioni, una settimana dopo, per una caduta da cavallo durante un'esercitazione militare a Orte. Nasce a Firenze la  nuova rivista L'Italia futurista. Prampolini fonda con Fol-  gore il foglio d'avanguardia Awvenscoperta. Nel ’17 nasce  il periodico Deda, che tanto dovrà nell’ispirazione al no-  stro futurismo. I) 18 è ormai l'anno della vittoria. Depe-  ro realizza i suoi nuovi «balli plastici ». Bruno Corra  pubblica a Milano con i tipi dello Studio Editoriale Lom-  bardo Per l'arte della nuova Italia. Siamo infatti nell’Ita-  lia della vittoria.    6. Il Partito politico futurista    Nella nuova realtà del dopoguerra il futurismo cerca  una sua nuova collocazione politica più « pacifista », se  il termine non è nella fattispecie una contraddizione. Ai  fasti dell'intervento e della militarizzazione, succede un  nuovo intento programmatico di realizzazione. La prima  espressione di questa volontà è ancora una volta dovuta a  Marinetti che pubblica nel febbraio del ’18 un Manifesto  del Partito politico futurista, l'adesione al quale era libera  ed aperta a tutti coloro che avessero accettato i principî  del suo programma, indipendentemente dalle concezioni  dell’arte o dal consenso all’« estetica futurista ». E questo  indica una presa di posizione più ponderata e meno « di  rottura », almeno in senso sociale.   Il documento esprime, negli intenti, il desiderio di  rinnovamento di quelle fasce del combattentismo inter.  ventista, comprese fra i mussoliniani, i sindacalisti tivo-  luzionari, i socialisti e i repubblicani di sinistra, che avreb-  bero poi dato vita alla formazione dei Fasci di Combatti-  mento, quelli cui futuristi ed arditi avrebbero infuso la  prima linfa vitale. Si possono considerare punti essenziali  del nuovo programma l'estensione del suffragio universa-  le, comprendente anche le donne, la socializzazione della  terra con assegnazione ai reduci, la tassazione progressi-  va, l'abolizione dell'esercito e la sua professionalizzazione    20       (volontariato), la giustizia gratuita, la libertà di sciopero  e stampa, le otto ore lavorative e Î contratti collettivi di  lavoro, l'assistenza e la previdenza sociale, la « tecniciz-  zazione » clel parlamento e l’introduzione del divorzio. A  diffondere le idee del nuovo partito era destinato il perio-  dico Roma futurista, fondato a Roma da Marinetti, Mario  Carli ed Emilio Settimelli, che vedeva la luce il 20 set-  tembre 1918 e portava come sottotitolo « Giornale del  Partito politico futurista ». .   « Roma futurista », racconta Marinetti nel suo libro  Futurismo e Fascismo (1924) « nacque un mese e mezzo  prima dell’armistizio, cioè il 20 settembre 1918, e porta-  va nel suo primo numero tre scritti importantissimi dei  suoi tre direttori: Mario Carli, Marinetti, Settimelli. Scri-  veva Settimelli: “Il Futurismo che fino ad oggi esplicò  un programma specialmente artistico, si propone una inte-  grale azione politica per collaborare a risolvere gli urgen-  ti problemi nazionali. Coloro che ci accusarono di squili-  brio dovranno ricredersi. I] preconcetto di serietà pedan-  tesca e quietista imposto alla vecchia Italia dai profes-  sori rammolliti, dai preti anti-italiani e dagli affaristi gio-  littiani, cercò di svalutare la nostra genialità di giovani  audaci e novatori. Ma la vera Italia non può rimanere e  non rimarrà neppure parzialmente nelle loro mani inca-  paci. La guerra ha rivelato le vere forze italiane. Sono for-  ze giovani, violente, antitradizionali e ultra-italiane” ».   Il primo numero di Roma futurista (decadario, poi  settimanale) pubblicava il programma del giornale mede-  simo ed anche il manifesto di quel Partito Politico Futu-  rista che si doveva ancora fondare. Partito che, nell’inten-  dimento di Settimelli, doveva essere « più che altro una  tendenza psicologica », una « fusione di realtà e di scon-  (inamento, di praticità e di lirismo », che avrebbe contri-  buito a creare un nuovo tipo d'italiano. Ma ecco ancora  come si esprime «la volontà» di fondazione del movimento:  « Il Partito politico futurista che noi fondiamo e che or-  xanizzeremo dopo la guerra, sarà nettamente distinto dal  movimento artistico futurista. Questo continuerà nella  sua opera di svecchiamento e rafforzamento del genio creatore italiano... Potranno aderire al partito politico futu-  rista tutti gli Italiani, uomini e donne d’ogni classe e di  ogni età... Questo programma politico segna la nascita  del partito politico futurista invocato da tutti gli italiani,  che si battono oggi per una più giovane Italia, liberata  dal peso del passato... ». La firma è di Roma futurista,  cioè, come si presume, del direttore, o anzi di tutti i tre  direttori.    Ecco alcuni punti del manifesto-programma del par-  tito: « 4) Trasformazione del Parlamento mediante un'equa  partecipazione di industriali, di agricoltori, di ingegneri e  di commetcianti al Governo del Paese. Il limite minimo  di età per la deputazione sarà ridotfò a 22 anni. Un mi-  nimo di deputati avvocati {sempre opportunisti) e un mi-  nimo di deputati professori (sempre retrogradi)... Aboli-  zione del Senato... Unica religione, l'Italia di domani...  10) ...Svalutazione della pericolosa e aleatoria industria  del forestiero... Difesa dei consumatori... Svalutazione dei  diplomi accademici e incoraggiamento con premi della  iniziativa commerciale e industriale... ».    Le adesioni all'iniziativa si fecero subito sentire da  diverse parti: ci furono vecchi futuristi come Auro d'Alba,  Rosai e Rocca, reduci dalla guerra come Bolzon e Bottai  (che avrebbe poi rivestito un ruolo di primo piano nel-  l'ambito del nuovo regime fascista) e Massimo Bontempel-  li, secondo il quale il programma fondamentale del futu-  rismo politico sarebbe stato quello di sostituire «la gio-  vinezza alla vecchiaia nelle funzioni direttive ». E non  sarebbe stato poco. Sarebbe stato uno dei tentativi, anche  se non del tutto riuscito, dell’insorgente fascismo.    Nel dicembre dello stesso anno 1918, quasi ad esito  naturale della formazione del nuovo partito, poco orga-  nizzato e poco «costituito », s'istituirono invece i « Fasci  politici futuristi », più attivi e vitali particolarmente in  diverse città dell'Italia centrale e settentrionale, la prima  ossatura su cui si sarebbero appoggiati e sarebbero cre-  sciuti i muovi « Fasci di combattimento », voluti e pro-  mossi da Mussolini quattro mesi dopo. Nel febbraio del  '19 i Fasci futuristi erano già una ventina, tra quelli di Roma (Balla, Carli, Bottai, d'Alba e Chiti), Milano (Mari-  netti, Buzzi, Somenzi e Bontempelli), Firenze (Settimel-  li, Rosai, Marasco), Perugia (Dottori), Genova (Depero),  Torino (Azari), e poi ancora Bologna, Palermo, Napoli,  Fiume, Messina, Ferrara, Piacenza, Venezia, Taranto, Mo-  dena, Stradella, ecc. I futuristi avevano quindi accolto  con entusiasmo l'iniziativa e vi si erano immersi fino a  determinare una prima ossatura: l’organizzazione. E Mus-  solini a sua volta aveva visto di buon occhio e seguìto  la formazione dei Fasci politici futuristi, sino a « scopri  re » in essi un punto d'appoggio per la sua campagna  combattentistica ed antisocialista che si concretizzerà nei  suoi Fasci di combattimento (quelli di Piazza San Sepol-  cro).    Mario Carli, come condirettore di Rowza futurista e  dietro spinta di Marinetti stesso, caldeggiava da tempo,  anche dalle colonne del suo nuovo periodico, l’avvicen-  damento e l'annessione degli arditi al partito politico, di  cui sul primo numero del giornale si pubblicava il rivolu-  zionario programma: era il 20 settembre 1918.    Dieci giorni dopo, il 30 settembre 1918, le proposte  politiche si fanno più tecniche, più « specializzate », più  particolari. Volt firmerà un testo « dinamico » per dichia-  rare: « Sostituiremo il Parlamento con le tappresentan-  ze dei sindacati agricolo-industriali ed operai. La rappre-  sentenza sindacale sarà la base dello “Stato tecnico” futu-  rista ». Ma allora di quale rappresentanza sindacale si ttat-  rerà e quale sarà riconosciuta dallo Stato nella sua veste  di personalità giuridica? Sono tutti problemi che già Volt  si pone e così, a suo modo, « risolve », e continua: «To  credo non si debba tener conto del numero degli iscritti  al sindacato, ma della importanza della funzione economica  che esso esercita nel Paese ». Ed ancora, prosegue ad in-  terrogatsi: « Quali saranno i limiti posti all'esercizio del  potere dell'assemblea eletta mediante la rappresentanza  sindacale? La competenza dell'assemblea dovrà essere li-  mitata alle questioni prevalentemente economiche, che so-  no del resto le più importanti in politica. Le questioni  di famiglia, di politica estera, ecc. dovranno esser risolte    II! 'EUE vu SS it: _gLZffkfkzstllEaAaz:F:=+”sx«x:®(  '81‘daoiaaiA'.°’°à0‘@e ra —-    in parte mediante il referendum popolare diretto ed in  parte attribuito alla competenza del potere esecutivo ».   Gli arditi venivano poi sciolti nel gennaio del ’19  dai loro reparti di ufficiali, sottufficiali e truppa, perché  considerati provocatori di disordini e di incidenti nella  vita civile. L'iniziativa era stata ovviamente criticata dai  diretti interessati come manovta socialista-giolittiana atta  a disconoscere i loro meriti di guerra. Ed anche Marinetti  aveva appoggiato dalle colonne di Roma futurista 1’« uni-  ficazione » (ira futuristi ed arditi),   Alla fine di novembre del ’18 Mario Carli fondava,  a conclusione di questa « campagna », l’« Associazione fra  gli Arditi d’Italia », che fu un po’ l’altra faccia del Partito  politico futurista. In breve, l'associazione atrivò a racco-  gliere circa diecimila iscritti, la maggior parte, forse, degli  ex «reparti militarizzati ».    7. Futurismo e arditismo    Ormai anche gli arditi, nonostante lo scioglimento del-  la loro organizzazione paramilitare, hanno una consistenza  civile ed in certo modo un loro peso politico. Tanto da  poter fondare un loro organo di stampa che prende a  uscire a Milano dall’11 di maggio 1919: il settimanale  L’Ardito, edito dall’Associazione nazionale, e condiretto  da Ferruccio Vecchi e, non a caso, da Mario Carli. Nello  stesso periodo altre furono le voci di stampa allineate su  analoghe posizioni: Armando Mazza, per esempio, fondò  a Milano I remici d'Italia, settimanale « antibolscevico »;  il più importante di questi giornali « minori » fu però  L’Assalto, pubblicato a Bologna come voce dell’arditismo,  e diretto da Nanni Leone Castelli. Marinetti ed i futuri-  sti non potevano a questo punto non vedere negli arditi  dei nuovi futuristi politici, così come Mussolini non po-  teva non vedere in loro dei potenziali simpatizzanti e allea-  ti. La pronta adesione di molti di essi ai Fasci di combat-  timento lo dimostrerà definitivamente.   Arditismo e futurismo furono dunque componenti es-    dd    senziali del nuovo insorgente fascismo. Almeno dal punto  di vista ideologico, o formativo del suo nascere. Mussoli-  ni aveva, per così dire, « abiuraro » il suo vecchio socia-  lismo e aveva bisogno di una forza nuova, una forza idea-  le o di pensiero che gli permettesse il suo «slancio in  avanti ». Il futurismo gliela porgeva già bell'e pronta, o  quasi, mentre il precedente socialismo gli alimentava certi  spunti sociali, in parte, almeno, già presenti nel futurismo.  L'arditismo, ancora, gli comunicava una spinta, una forza  di aggressività e di « assalto », che forse gli sarebbe man-  cata, o non sarebbe stata, senza di esso, tanto irruente.    L'11 gennaio il futuro « duce » partecipava a Milano  ad una « serata futurista » contro Bissolati, alla Scala, con-  tribuendo in parte al suo « siluramento ». C'era anche  Marinetti e, forse, non fu un caso, e si trattò di un incon-  tro importante.    II 23 marzo dello stesso anno in una riunione milanese  a Piazza San Sepolcro, presieduta da Ferruccio Vecchi, Ma-  rinetti tenne un discorso alla presenza di Dessy e di altri  arditi e futuristi, per la fondazione dei Fasci di combatti-  mento, decisa da Mussolini. Questi propose come pro-  gramma ai nuovi raggruppamenti l'abolizione del Senato,  il suffragio universale, il sindacalismo nazionale, ricona-  scendo «le rivendicazioni d'ordine materiale e morale »  agli ex-combattenti e rimproverando al partito socialista  di essere stato « nettamente reazionario, assolutamente  conservatore », col negargli così qualsiasi possibilità di  « mettersi alla testa di un'azione di rinnovamento e di  ricostruzione ». La conclusione del discorso, antimassima-  lista ed antitotalitaria, era in fondo quanto mai « futu-  rista ». Così terminava il Mussolini:  « Noi conosciamo  soltanto la dittatura della volontà e dell’intelligenza ». Al  termine della riunione si nominava un comitato centrale  dei Fasci di combattimento di cui facevano parte anche  Vecchi e Marinetti.   Il 1° di aprile Marinetti venne nominato insieme a  Mussolini membro della commissione di lavoro nazionale  per Ia propaganda e la stampa. Ancora in aprile a Milano  nuclei di futuristi, arditi e « principianti » fascisti assali-    tu    rono la sede del quotidiano socialista Avanti! Il giorno  dopo i « fattacci » del 15 aprile, visto il mancato inter  vento delle forze dell’ordine nel prender provvedimenti  contro i promotori dell'azione, Vecchi e Marinetti emise-  ro un « proclama agli italiani » a nome dei futuristi, degli  arditi e dei fasci: « Nella giornata del 15 aprile avevamo  assolutamente deciso, con Mussolini, di non fare alcuna  controdimostrazione perché prevedevamo il conflitto e ab-  biamo orrore di versare sangue italiano. La nostra con-  trodimostrazione si formò, spontanea, per invincibile vo-  lontà popolare. Fummo costretti a reagire contro la pro-  vocazione premeditata degli imboscati. Col nostro inter-  vento intendiamo di affermare il diritto assoluto dei quat-  tro milioni di combattenti vittoriosi, che soli devono diri-  gere e dirigeranno ad ogni costo la nuova Italia ». La  « controdimostrazione » si riferisce ad una manifestazione  socialista all'Arena, cui seguì la « battaglia di Via Mer-  canti », dove furono chiari, secondo i reduci, alcuni mo-  menti di provocazione nei confronti del combattentismo  {da qui, l'assalto all’Avanti!).   Sempre nell'aprile del *19 esce a Milano per i tipi del-  l’Editore Facchi un volume politico di Marinetti, forse il  suo più importante: si tratta di Democrazia futurista, che  porta come sottotitolo « dinamismo politico ». E' una rac-  colta di articoli apparsi su Roma futurista e che appari  ranno sul nuovo giornale di Vecchi, L’Ardito, generoso  sempre di spazio per Marinetti. Questi definisce il suo  « concetto democratico » in un altro articolo edito in apri-  le sempre dall’Ardito: « Vogliamo dunque creare una vera  democrazia cosciente e audace che sia la valutazione e  l'esaltazione del numero poiché avrà il maggior numero  di individui geniali. L'Italia rappresenta nel mondo una  specie di minoranza genialissima tutta costituita di indivi-  dui superiori alla media umana per forza creatrice, inno-  vatrice, improvvisatrice. Questa democrazia entrerà natu-  ralmente in competizione con la maggioranza formata dal-  le altre Nazioni, per le quali il numero significa invece  massa più o meno cieca, cioè democrazia incosciente ».  Certo, si tratta di una nuova cancezione di democrazia,    26    che con quella tradizionale, anche attuale, non ha niente  a che vedere. E' una lotta di democtazie, o una demo-  crazia di lotta, il che alla fin fine non è poi molto diverso.  E’ una vera e propria concezione dinamica. Che, tanto  per tener conto del suo opposto si mette a confronto, a  dire di Marinetti, così: « Arturo Labriola definisce la de-  mocrazia "come sentimento dei diritti concreti della mas-  sa sullo Stato e sulla Economia“... Noi intendiamo la de-  mocrazia italiana come massa di individui geniali, divenu-  ta petciò facilmente cosciente del suo diritto e natural  mente plasmatrice del suo divenire statale. La sua forza  è fatta di questo diritto acquisito, moltiplicata dalla sua  quantità valore, meno il peso delle cellule morte (tradi.  zione), meno il peso delle cellule malate (incoscienti, anal-  fabeti). La democtazia italiana è per noi un corpo umano  che bisogna liberare, scatenare, alleggerire per accelerar-  ne la velocità e centuplicarne il rendimento... ». Come  potrebbe essere più futurista e avanzata questa nuova con-  cezione democratica « progressiva »? Che così, giustamen-  te, si conclude e si definisce: «La democrazia futurista  è ormai pronta ad agire, poiché sente vibrare tutte le sue  cellule vive ».   E’ il punto d'arrivo, logico e conseguenziale, di una  concezione « d’assalto ». E per la definizione ulteriore del-  le posizioni e dei concetti, il 27 aprile 1919 ancora, sulle  pagine di Roma futurista, un testo di Mario Carli (Non  chiamatela reazione) afferma: «Non è per l’ordine, non  è in difesa dell’autorità costituita o della borghesia vile,  non è in appoggio alla così detta “benemerita” che noi ci  siamo battuti a Milano, e ci batteremo altrove, se se ne  presenterà l’occasione. Ma è per un'idea, per un princi-  pio: è per l’idea di patria, è per il principio di progresso,  che noi crediamo realizzabile con mezzi e con metodi op-  posti a muelli dei rivoluzionari russi ».   Ciò nonostante Gramsci e Lunaciarsky, al TI Congres-  so dell'Internazionale comunista, difendono i futuristi ita-  liani e li considerano veri e propri « rivoluzionari ». E  Lenin medesimo dità a Giacinto Menotti Serrati, che, co-    DI    A       me direttore dell’Avanti!, si era recato a Mosca a respi-  rare il nuovo comunismo: «In Italia ci sono soltanto  tre uomini che possono fare la rivoluzione: Mussolini,  D'Annunzio e Marinetti ». Mentre a proposito di questo  ultimo, cioè di Marinetti e del suo movimento futurista,  Gramsci così annotava in un suo articolo pubblicato su  Ordine nuovo nel 1921: « Distruggere, in questo campo,  non ha lo stesso significato che nel campo economico...  significa non avere paura della vanità e delle audacie, non  avere paura dei mostri, non credere che il mondo caschi  se un operaio fa errori di grammatica, se una poesia  zoppica, se un quadro assomiglia a un cartellone... I futu-  risti hanno svolto questo compito nel campo della cultura  borghese... hanno avuto cioè una concezione nettamente  rivoluzionaria ». E continuava a migliore definizione del  concetto: « ...Quando i socialisti si sarebbero spaventati  al pensiero che bisognava spezzare la macchina del potere  borghese nello Stato e nella fabbrica, i futuristi, nel loro  campo, nel campo della cultura, sono rivoluzionari: in que-  sto campo, come opera creativa, è probabile che la classe  operaia non riuscirà per molto tempo a far di più di quan-  to hanno fatto i futuristi! »    L'11 luglio del '19 Marinetti otteneva un biglietto d'’in-  vito alla Tribuna di Montecitorio. Andò con Ferruccio  Vecchi, gran capitano, ad aspettare un momento opportu-  no per l’« intervento ». L'occasione fu data alla fine del  discorso di un deputato socialista (Lucci). Martinetti si  sporse e, rivolto a Nitti, gridò: « A nome dei Fasci di  Combattimento, dei futuristi, e degli intellettuali, prote-  sto per la vostra politica e vi urlo: Abbasso Nitti! Morte  al Giolittismo! Dichiaro che non può sussistere il Mini-  stero dei sabotatori della Vittoria, degli schiaffeggiatori de-  gli ufficiali, un ministero che si difende coi carabinieri e  coi poliziotti!.. Vergognatevi! La gioventù italiana, per  bocca mia, vi urla: Fate schifo! Fate schifo! ». Vecchi an-  cora inveisce a voce alta contro Nitti, mentre Marinetti  lotta con usceri e carabinieri, come descrive egli stesso nel  suo Futurismo e Fascismo di cinque anni dopo. L’indoma-  ni avrebbe ricevuto da D'Annunzio la presente missiva:    2R    « Mio caro Marinetti, bravo per il grido di ieri, coraggioso  come ogni vostro atto. Vorrei vedervi. Se potete, venite.  Il vostro Gabriele D'Annunzio ».    In settembre Mario Carli, con Mino Somenzi ed altri  futuristi, partecipano con D'Annunzio alla presa di Fiume  (11 del mese): vi si recheranno anche Vecchi e Marinetti  a tenere discorsi ai legionari. Anzi, i due personaggi sembra  fossero considerati, a dire di De Felice « facinorosi sovver-  sivi » o addirittura in qualche caso « bolscevici », per il  loro atteggiamento intransigente ed estremistico.° Tanto  che si era detto fossero stati espulsi da Fiume, mentre  erano stati solo richiamati da Paselia, segretario politico  dei Fasci, che aveva bisogno di loro per l'organizzazione,  forse, del primo congresso fascista. All'inizio di ottobre,  infatti, Marinetti partecipa a Firenze al I Congresso dei  Fasci di Combattimento dove, dopo l'intervento di Mus-  soltni, parla a futuristi, arditi e fascisti sostenendo la ne-  cessità dello « svaticanamento »: « Noi dobbiamo doman-  dare. volere, imporre », dice fra l’altro il capo del futu-  rismo, « l’espulsione del papato, o meglio ancora, per usa-  re un'espressione più precisa, lo “svaticanamento” ».    Nel novembre le elezioni generali vengono condotte a  Milano all'insegna del « blocco fascista » con lista autono-  ma di Mussolini, Marinetti (secondo), Toscanini, Podrec-  ca e Bolzon. Comizi elettorali si tennero a Milano in Piaz-  za Belgioioso (10 novembre) e in Piazza S. Alessandro e  a Monza, dove parlarono sempre « accoppiati » Marinetti  e Mussolini. Dopo il 16 novembre, giorno delle votazioni,  in seguito ad incidenti coi socialisti, Marinetti, Vecchi e  Mussolini furono atrestati sotto l'accusa di attentato alla  sicurezza dello Stato ed organizzazione di bande armate,  come afferma ancora il De Felice.    Breton e Aragon, direttori della rivista Littersture, or-  ganizzano a Parisi una manifestazione di solidarietà a Ma-  tinetti: sono i momenti di affermazione del dadaismo e del  muoversi, lento, verso il surrealismo.    Renzo De Felice, Mussolini i! Rivoluzionario, Gli incontri e gli scontri, oltre che gli incidenti, tra  socialisti e futuristi non etano cosa nuova. E la « battaglia  di Via Mercanti » del 15 aprile fu solamente il punto di  arrivo di una vecchia e lunga polemica.   Già negli anni prebellici il futurismo si era scontrato  col socialismo neutralista (Turati), che non poteva andar  d’accordo con un movimento intrinsecamente interventista.  Lacerba, per esempio, entrava nella polemica affiancandosi  al futurismo e pubblicando, il 15 ottobre del ’13, quel  famoso Programma politico futurista, esaminato in pre-  cedenza. La postilla di Giovanni Papini non fa altro che  convalidare, sia pure con riserva, la sostanza del pro-  gramma.   A proposito di socialismo interviene poi nel '14 sempre  sv Lacerba, Ardengo Soffici, affermando nel suo articolo  Per la guerra che « l’idea che i socialisti si fanno del mon-  do è questa: un capitalista borghese e sfruttatore alle prese  con un magro popolano sfruttato. La cultura, le scienze, le  arti, la bellezza, i sentimenti, gli amori, le passioni —  tutto ciò insomma che fa la vita così terribilmente com-  plessa, così colorita, così varia, multiforme, incoetcibile —  non è nulla per loro. Tutto è grigio, e l'universo intero una  specie di ragnatela squallida senza confini né orizzonti,  eterna, in mezzo alla quale un ragno cetca di succhiare  una mosca alla quale Karl Marx ha insegnato che non  deve lasciarsi succhiare ». Sicché, conclude Soffici, i socia-  listi nemmeno capiscono che si combatte una guerra per  difendere anche, magari, le loro stesse idee, o il mondo  dove l’idea socialista è nata e cresciuta, contro i nemici  medesimi del socialismo e dei socialisti: i tedeschi. Ma  questo non ha nessuna importanza, « giacché, ed eccoci  alla mentalità di codesto partito, ogni buon socialista non  vede nella guerra, qualunque essa sia, se non una lotta di  capitalisti e banchieri contro capitalisti e banchieri i quali  si servono del proletariato per liquidare le loro partite ».    La polemica continua com'è logico, dopo la guerra.  Il primo ad accenderla è Mario Carli su Roma futurista  con un articolo del 13 luglio 1919, che ha un titolo signi-  ficativo: Partiti d'avanguardia: se tentassimo di collabora-  re? Laddove si considera « partito d'avanguardia », ovvia-  mente, anche quello socialista, che tanta parte ha esercita-  to nella storia d'Italia. « Ho esaminato seriamente l'ipo-  tesi », esordisce Carli, « di una collaborazione fra noi {futu-  risti, arditi, fascisti, combattenti, ecc.) e i Partiti cosiddetti  d'avanguardia: socialisti ufficiali, riformisti, sindacalisti, re-  pubblicani... Il terreno comune c’è... E' la lotta contro le  attuali classi dirigenti, grette, incapaci e disoneste, si chia.  mino borghesia e plutoctazia o pescecanismo o parlamen.-  tarismo... sono una casta che deve cadere e cadrà », E cad-  de infatti, come sappiamo, però non certo per merito di  quei socialisti con cui Carli stava cercando di trovate un  punto di contatto, sia pur rendendosi conto che la collabo-  razione sarebbe stata difficile per non dire impossibile o,  peggio, inutile.   Ciò nonostante Giuseppe Bottai farà eco alla sua tesi  con un paio di lunghi articoli: uno del 9 novembre e l'al.  tro del 21 dicembre 1919 entrambi col titolo Futurismo  contro socialismo, il cui succo riesce già evidente. « Noi  siamo contro il socialismo », afferma Bottai, « perché astra-  zione filosofica senza possibilità di contatti vitali. Simbolo  che si agifa nel mondo da secoli, e di cui mai si è trovato,  e mai si troverà la formula di traduzione in positivi sviluppi  di masse sociali... Noi siamo contro l’idea socialista perché  sosteniamo la necessità della diseguaglianza... Siamo con-  tro il socialismo perché idea generatrice di vigliaccheria ».   Ii 14 dicembre sempre del 1919, tuttavia, certo Man-  narese, avversario, pubblica un articolo per espotre l’impos-  sibile intesa fra le due avanguardie, o l'impossibilità di ac-  cordo in unione d’intenti e di lavoro. Il Mannarese sotto-  linea l'identità di socialismo e masse proletarie con loro  relative e legittime aspirazioni. Romza futurista non gli ne.  sa spazio, ospitandolo apertamente e liberamente.   Ci pensa Bottai a rispondere e confutare Mannarese  col suo secondo articolo preciso ed aggressivo. Il titolo:  Insisto: futurismo contro socialismo; la data, 21 dicembre  dello stesso anno. La posizione polemica si specifica e si    SAI       puntualizza: « Prima caratteristica del futurismo è questa,  libera, sciolta sfrenata spregiudicatezza: e se il salumaio ci  crede oggi difensore dei suoi salami, delle sue salsicce, poco  male! ciò potrà darci la prova della sua minchioneria, non  già infirmare l'esattezza del grido “futurismo contro socialismo” ».   L’intonazione antibotghese è evidente e forse si spo-  sa, per così dire, con quella antisocialista, essendo l'una  complementare all'altra, e viceversa. Non si può essere  antisocialisti senza essere antiborghesi, e viceversa non si  può essere antiborghesi senza essere antisocialisti, sembra  quasi che dica Giuseppe Bottai, e l’invettiva contro il sa-  lumaio non ha nient'altro che questo sapote...    L'equazione « socialismo-proletariato », sostenuta dal  Mannarese, è vacua e falsa, dice Bottai, e bisogna distin-  guere, perché va da sé, afferma, che «il socialismo è uno  dei tanti sistemi, i quali, da che il mondo è mondo, si  accaniscono sulla disparità di condizioni delle classi ». Lo  esempio dato poi, del fenomeno dell’arditismo, è quanto  meno sufficiente e significativo a smentire una tesi tanto  inutile. Infatti, « in parecchi mesi di convivenza con le  fiamme nere mi son trovato attorno solo contadini, ope-  rai, lavoratori-proletari! »; e gli arditi non erano certo so-  cialisti, anzi. Tuttavia l’autore è ben consapevole della  « portata economica » del socialismo e nello stesso tempo  delle esigenze dei ceti umili o dei proletari, e degli scompen-  si derivanti da queste esigenze anche per la loro « cattura »  da parte di un socialismo ignorante e incapace.   L'individuazione dell'errore di dimensione del sociali  smo è evidente, nonostante i successi già conseguiti. Tanto  che, concludeva il Botrai, nel cogliere le possibilità della  formazione di un letale assolutismo, con la postulazione del-  la differenziazione futuristica da esso, intesa nella diffusione  di programmi e di rimedi economici: « Noi siamo per la  elevazione del popolo, e non per l'assolutismo di esso ».  Dove « il nai », è evidente, si riferisce ai futuristi ed al  loro movimento.    « Tirando le somme », alla fine, si postula petsino un  programma, quasi, nei rapporti col socialismo, di cui i    32    punti più interessanti sono il secondo ed il quarto, cioè  l'ultimo. Il secondo postilla una « possibile comunanza di  vedute economiche: il che non implica nessuna fusione »;  l'ultimo sostiene e ribadisce, sottolineandolo tutto in maiu-  scolo: « CONTRO IL SOCIALISMO NON VUOLE DI-  RE CONTRO IL PROLETARIATO ».   La miopia del socialismo nella considerazione dei futu-  risti appare evidente e inequivocabile. E si parla del so-  cialismo dei primi del secolo, quello storicamente più « ca-  pace » di quanto non lo sia l'attuale, e consono ad una  realtà « epocale » ad esso, tutto sommato, più favorevole.  L’esito del socialismo italiano, confluito in massima parte  nel fascismo, non fa che confermare l'opinione o l’ipotesi  dei futuristi, che avevano saputo vedere la sua « minima  portata » da inserire, eventualmente, nel panorama di una  prospettiva ben più vasta e diversificata. A Fiume Gabriele D'Annunzio dà alla luce la sua  « Carta del Carnaro ». Siamo agli inizi del ’20 e la nuova  proclamazione statutaria sarà base fondamentale per la suc-  cessiva politica sindacale fascista (si veda la Carta del La-  voro ad esempio). Sempre a Fiume Mario Carli dirige il  nuovo foglio di vita istriama La Testa di Ferro, sulle cui  colonne (la seconda, per l'esattezza, della prima pagina) ;l  12 settembre esce un riquadro firmato da Marinetti. Che  così commenta la Prima vittoria della quindicesima batta-  glia, come dice il titolo della pagina: « Nell’applaudite oggi  D'Annunzio, liberatore di Fiume, penso che questo mera-  viglioso genio riassuntivo della nostra razza, uscito dalle  alcove del Pizcere... dopo aver esplorato le profondità del  la lussuria... ha logicamente... strappato Fiume all’imperia-  lismo europeo e americano, ed ora deve, seguendo la linea  della sua fortuna inesauribile, logicamente, con genio sem-  pre più rivoluzionario e futurista, liberare Roma dal Pa-  pato e dalla Monarchia, e creare la grande Repubblica Ita-  liana ». Siamo di fronte aul'« ittedentismo integrale » che i futnristi sostenevano contro l’« irredentismo mutilato » di  Bissolati, favorevole al Patto di Londra. Di cui il movimento  per contro chiedeva un’« estensione », oltre che una modi-  ficazione del Patto di Roma in modo che si potesse favo-  rire l’inserimento italiano sulla costa dalmata e garantire  all'Italia l'egemonia sull’Adriatico. Il Trattato di Rapallo,  poco dopo, dichiarerà Fiume «città libera » ed assegnerà  Zara all'Italia.    11 24 e 25 maggio dello stesso anno si tiene a Milano  il IX Congresso dei Fasci di Combattimento, che segna una  svolta del movimento o anche — si potrebbe dire — una  sua conversione in senso « conservatore ». Si assiste ad un  parziale ma consistente ricambio del nucleo dirigente fa-  scista. Solo 10 membri su 19 del comitato centrale eletto a  Fitenze vengono riconfermati: tra essi Marinetti e Ferruc-  cio Vecchi.    Mussolini sostiene un nuovo indirizzo: l'accordo fra  proletariato e borghesia produttiva, tipico di quel fascismo  « provinciale » che stava prendendo il sopravvento. Mari-  netti reagisce confermando la sua intransigenza antimonar-  chica ed antipontificia. I Fasci di Combattimento, come  riporta ancora il De Felice, avrebbero dovuto, secondo  Marinetti, iniziare « una politica decisa in difesa delle ri-  vendicazioni proletarie, appoggiando e scioperi e agitazio-  ni che siano fondati o formulati su un principio di giu-  stizia ». Mussolini aveva cercato di replicare che i Fasci  « hanno anzi aiutato gli scioperi che avevano un chiaro  contenuto economico », ma aveva sottolineato di non po-  ter accettare la pregiudiziale antimonarchica e: « Quanto  al Papato, bisogna intendersi: il Vaticano rappresenta 400  milioni di uomini sparsi... Io sono, oggi, completamente  al di fuori di ogni religione, ma i problemi politici sono  problemi politici. Racconta lo stesso capo del  futurismo nel suo volume Futurismo e Fascismo pubbli  cato quattro anni dopo, « Marinetti e alcuni capi futuri-  sti escono dai Fasci di Combattimento, non avendo potuto imporre alla maggioranza fascista la loro tendenza  antimonarchica e anticlericale ». Gli altri «capi futuristi» sono Mario Carli e Neri Nannetti, appena eletto a  Milano come membro del comitato centrale per Firenze.  Ferruccio Vecchi si allontanò dai Fasci poco dopo, anche  per la crisi interna che stava attanagliando l’« Associa-  zione fra gli Arditi d’Italia ».   La spaccatura risulta evidente all'uscita dell’opuscalo  Al di là del comunismo, pubblicato in agosto da Marinetti,  per giustificazione alle sue dimissioni ed in risposta allo  svuotamento della portata rivoluzionaria, o futurista, dei  Fasci di Combattimento. Al di lè del Comunismo sarà  la sua seconda opeta politica (dopo Democrazia futurista,  del ’19), quella più ricca di spunti e di idee: quella, in-  somma, sua fondamentale.   L'opera è dedicata sul colophox « Ai futuristi francesi,  inglesi, spagnoli, russi, ungheresi, rumeni, giapponesi »:  it che esprime già tutto un programma. Fra le sue tesi,  dd esempio queste: « Noi futuristi abbiamo stroncato tut-  te le ideologie imponendo dovunque la nostra nuova con-  cezione della vita, le nostre formule d’igiene spirituale,  il nostto dinamismo estetico, sociale, espressione sincera  dei nostri temperamenti d’italiani creatori e rivoluzionari...  L'umanità cammina verso l'individualismo anarchico, me-  ta e sogno di ogni spirito forte. Il Comunismo invece è  una vecchia formula mediocrista, che la stanchezza e la  paura della guerra riverniciano oggi e trasformano in mo-  da spirituale... La storia, la vita e la terra appartengono  agli improvvisatori. Odiamo la caserma militarista quanto  la caserma comunista. Il genio anarchico deride e spacca  il catcere comunista ».    Fu questo passo a provocare la reazione dell’Ardito?  Che ben presto si fece sentire, a più riprese, per deni-  grare il volumetto marinettiano, mentre al contrario La  Testa di Ferro ad opera di un gruppo di futuristi fiumani  (e di Mario Carli, ardito a sua volta) elogiava pubblica-  mente ed ardentemente il nuovo testo. Bottai, già futu-  tista, interverrà ben presto (sul n. 35 dell’Ardito) con  una «lettera aperta a F.T. Marinetti » per mettere in ri-  salto la sua posizione critica all’atteggiamento anarchicheg-  piante dello scritto, inconciliabile con qualunque espressione di potere, sia pur di tipo « tecnico », come quello  a suo tempo proposto dallo stesso « padre » del futuri  smo. L'attacco di Bottai è senz'altro il più autorevole e  i] più significativo.   L'ideologia del fascismo-regime (da parte di un mini  stro in pectore come Bottai) cominciava già a farsi sen-  tire. E si chiudeva, ovviamente, almeno sul terreno sto-  rico della prassi politica, l'ideologia del fascismo-movi-  mento, quello dell’intransigenza e del fervore mistico, del  libertarismo e dell'avanguardia, dell'anarchismo e dell’an-  tiautoritarismo verso la monarchia ed il papato. Il pos-  sibilismo politico e il realismo tattico per la conquista  del potere subentrano e il fascismo-regime si muove or-  mai, anche se lentamente, sotto la guida del suo abile e  « compromesso condottiero ».   A Marinetti non restano che le dimissioni, e dopo il  suo « canto del cigno » politico (Al di là del comunismo),  il ritorno alla letteratura.    10. La dimensione futurista    Nel 1921 esce a Piacenza per i tipi dell'Editore Porta  il volume di Francesco Flora Dal Romanticismo al Fu-  turismo. Il giudizio più interessante è senz’altro quello  di Luigi Russo, che così si esprime al proposito: «Il  Flora, mentre vi grida il superamento sillogistico dell’ar-  te decadente, la guarigione del suo spirito dal generale  futurismo, passa poi egli stesso a fare troppo rumorosa  e compiaciuta mescolanza con quell'arte e con quel futu-  rismo ». Pirandello pubblica nello stesso anno I sei per-  sonaggi in cerca d'autore. Marinetti sostiene che sono  ispirati al futurismo e al suo spirito creatore. Il con-  gresso socialista di Livorno si spacca, e dalla scissione  si forma il neonato partito comunista. A Catania vede  la luce la nuova rivista futurista Heschisch.   Nel 1922 il fascismo salirà definitivamente al potete.  Marinetti fonda una nuova rivista, I{ Futurismo, che di-  rige in prima persona. A Berlino sarà poi tradotta in edizione tedesca (Der Futurismus), a cura di Ruggero Va-  sari. Bragaglia fonda a Roma il Teatro Sperimentale de-  gli Indipendenti, primo teatro stabile italiano, da Ivi di  retto fino al ’36: metterà in scena duecento opere d'’avan-  guardia fra quelle di autori italiani e stranieri. A_ Monza  si crea l’Istituto Superiore delle Arti decorative, trasfor-  mato poi in Biennale e dal ’30 definitivamente in Trien-  nale, con sede nel palazzo di Milano (al parco, arch. Mu-  zio). Mussolini, dopo la marcia su Roma del 28 ottobre,  forma il governo con radicali e liberali, e istituisce il Gran  Consiglio del Fascismo.    Giuseppe Prezzolini, come sempre lucidamente, poco  prima del « grande ritorno » del futurismo al fascismo,  metteva ancora una volta in risalto «come possa l'arte  futurista andare d'accordo con il Fascismo italiano, non  si vede. C'è un equivoco, nato da una vicinanza di per.  sone, da un’accidentalità d’incontri, da un ribollire di  forze, che ha portato Marinetti accanto a Mussolini. Ciò  andava bene durante il periodo della rivoluzione. Ciò  stona in un periodo di governo. Il Fascismo italiano  non può accettare il programma distruttivo del Futuri  smo, anzi, deve, per la sua logica italiana, restaurare |  valori che contrastano al Futurismo. La disciplina e la  gerarchia politica sono gerarchia e disciplina anche lette-  raria. Le parole vanno all’aria quando vanno all'aria le  gerarchie politiche. Il Fascismo, se vuole veramente vin-  cere la sua battaglia, deve ormai considerare come as-  sotbito il Futurismo in quello che il Futurismo poteva  avere di eccitante, e di reprimerlo in tutto quello che  esso consetva ancora di rivoluzionario, di anticlassico, di  indisciplinato dal punto di vista dell’arte » (da I/ Secolo,  3 luglio 1923).   Nel marzo dello stesso 1923 s'inaugura alla Galleria  Pesaro di Milano una mostra dell'« Arte del Novecento ».  Si trattava di un gruppo formatosi alla fine del ’22 in-  torno alla medesima galleria milanese, che affiancava la  nuova tendenza del regime in senso conservatote, già san-  cita dal 2° Congresso Fascista (Milano, maggio 1920).  L'animatrice del nuovo movimento « Arte del Novecen-    37    to» era Margherita Sarfatti. Il gruppo fu accolto, nean-  che due anni dopo dalla sua costituzione, alla Biennale  veneziana del ’24, e si affermò definitivamente attraverso  due ulteriori mostre: una del '26 al Palazzo della Perma-  nente a Milano, e l'altra del ’29 alla Galleria Pesaro,  sempre a Milano. I futuristi invece, rimasti esterni al  regime e aderenti ancora, in fondo, all'avanguardia, fu-  rono ammessi alla Biennale solo nel ’26, e fuori dal pa-  diglione italiano additittura. All'inaugurazione della Biennale, Marinetti  si rivolge al Re, a Venezia in visita ufficiale, e gli de-  nuncia gridando «l’incapacità senile e antitaliana della  Direzione, che massacra i giovani artisti italiani ». L’in-  tervento di Marinetti suscita scandalo. Tuttavia nello stes-  so anno 1924 si verifica anche un cetto riavvicinamen-  to tra futurismo e fascismo, e forse anche tra Marinetti  e Mussolini. L’occasione viene data dall’edizione della  terza ed ultima opera politica del capo futurista, che, co-  me già detto, s'intitola Futurismo e Fascismo, ed esce  a Foligno per i tipi dell'Editore Campitelli.    Ancora nello stesso anno escono diverse altre signifi-  cative testate, futuriste ma anche fasciste. Mino Maccari  fonda I! Selvaggio (organo del fascismo strapaesano) ed  Enzo Benedetto a Reggio Calabria pubblica il foglio fu-  turista Originalità, da lui stesso direrto: compaiono fra  i suoi collaboratori Marinetti, Jannelli, Nicastro e Sanzin,  Quest'ultimo scrive un saggio su Marinetti e il futurismo.  Gerardo Dottori, altra collaboratore di Originalità, crea  le prime aeropitture, che si affermeranno in seguito come  espressioni del « secondo futurismo ».    A Milano si tiene il Primo congresso futurista e So-  menzi vi organizza le onoranze nazionali a Marinetti.  Siamo al 23 di novembre 1924, ore 10, al Teatro Dal  Verme di Milano. Mino Somenzi legge il telegramma di  Mussolini: « Considerami presente adunata futurista che  sintetizza 20 anni di grandi battaglie artistiche politiche  spesso consacrate col sangue. Congresso deve essere punto  di partenza, non punto di arrivo. Credi mia cordiale ami-  cizia e ammirazione ». Alle 16 parla Marinetti, che conclude i lavori del congresso, così rivolgendosi all’indirizzo  del « duce »: «I futuristi italiani, primi fra i primi in-  terventisti nelle piazze e sui campi di battaglia, e primi  fra i primi diciannovisti più che mai devoti alle idee ed  all'arte, lontani dal politicantismo, dicono al loro vecchio  compagno Benito Mussolini: Con un gesto di forza ormai  indispensabile liberati dal parlamento. Restituisci al Fa-  scismo ed all'Italia Ia meravigliosa anima diciannovista,  disinteressata, ardita, antisocialista, anticlericale, antimo.  narchica. Concedi alla Monarchia soltanto la sua provvi-  sotia funzione unitaria, rifiutale quella di soffcare o mor.  finizzare la più grande, la più geniale e la più giusta Italia  di domani. Non imitare l’inimitabile Giolitti, imita il  Grande Mussolini del diciannove. Pensa sempre all’Italia  immortale ed al Carso divino. Schiaccia l'opposizione cle.  ricale antitaliana di Don Sturzo, l'opposizione socialista  antitaliana di Turati e l'opposizione mediocrista di A’  bertini con una ferrea dinamica aristocrazia di pensiero  armato che soppianti l’attuale demagogia d’armi senza  pensiero. Tu puoi e devi fare ciò, noi dobbiamo volerlo  e lo vogliamo ». Lo vollero, ma non lo realizzarono. La  volontà può essere bella, ardita, ispira ai più alti sensi  di giustizia, anche se non sempre la realizzazione le tiene  dietro. Come in questo caso.   Mussolini telegrafa ancora il 1° marzo del ’25 ad un  banchetto « romano » offerto da Carli e Settimelli a Ma:  rinetti: « Sono dolente di non poter intervenire al ban:  chetto ofterto a F.T. Marinetti. Ma desidero che vi giun-  ga la mia fervida adesione che non è espressione formale  ma vivo segno di grandissima simpatia per l’infaticabile  e geniale assertore di Italianità, per il poeta innovatore  che mi ha dato la sensazione dell'oceano e della macchi-  na, per il mio caro vecchio amico delle prime battaglie  fasciste, per il saldato intrepido che ha offerto alla Pa  tria una passione indomita consacrata dal sangue ». Ma.  rinetti si era già trasferito a Roma con Benedetta. La  capitale diveniva così anche centro del futurismo. In que.  sta stessa occasione Marinetti dichiarava, un'altra volta  inascoltato: « Vi sono in Italia forze che osteggiano la nostra idea imperiale, combattiamole, non dimenticando  però fra queste la più segreta e la più antitaliana: il  Vaticano! ».   Un discorso di Mussolini alla Camera (3 gennaio 1925)  dà inizio al vero fascismo-regime. A Tortino si tiene a  Palazzo Madama un'esposizione nazionale futurista. La  tendenza al riavvicinamento ira i due movimenti è già  indicata nella dedica di Futurismo e Fascismo: « Al mio  caro e grande amico Benito Mussolini ». Il che dimostra,  in fondo, una certa volontà di non troncare i contatti: ma  anche gli scritti raccolti, gli articoli e le tesi sostenute  sono di tipo più che altro conciliativo. Mussolini vi è  definito « meraviglioso temperamento futurista »: e non  risuoni però ad adulazione, perché il tentativo di recu-  pero del futurismo in senso artistico e letterario (o cul  turale in senso lato) è evidente, nonostante l'occasionale  « dimensione » del movimento nell'attività e nell'impegno  politico. Non senza motivo, il volume prende inizio con  queste parole: «Il Futurismo è un grande movimento  antiflosofico e anticulturale di idee, intuiti, istinti, pu-  gni... ». E subito dopo: « Fra le tante definizioni io predi-  ligo quella data dai teosofi: “I futuristi sono i mistici  dell’azione”. Infatti i futuristi hanno combattuto e com-  battono il passatismo... ». Il nuovo regime e la portata  storica di realizzazione di quello che si considera il patri-  monio del futurismo è così giudicato: « Vittorio Ve-  neto e l'avvento del Fascismo al potere costituirono la  realizzazione del programma minimo futurista ». Dove si  dimostra in fondo la connessione inscindibile tra futuri.  smo e fascismo, ma nello stesso tempo il distacco, in  questa realizzazione « minimale »; comunque la mancanza  di coincidenza totale delle entità ideali dei due blocchi.    « Questo programma minimo », specifica ancora Ma-  rinetti, « propugnava l'orgoglio italiano... la distruzione  dell'impero austro-ungarico, l’eroismo quotidiano, l'amore  del pericolo... ». Ma, alla fine, quello che più conta è  che «il Futurismo italiano, tipicamente patriottico, che  ha generato innumerevoli futurismi esteri, non ha nulla  a che fare coi loro atteggiamenti politici, come quello bolscevico del Futurismo russo, divenuto arte di Stato ».  Il futurismo italiano fu sempre italiano, non mai italiano  di Stato.   « Il futurismo », afferma ancora il nostro, «è un mo-  vimento artistico e ideologico. Interviene nelle lotte po-  litiche soltanto nelle ore di grave pericolo per la Nazio-  ne », E un'altra volta a migliore definizione della posi-  zione concettuale o della sua immagine: « Il Fascismo  nato dall'interventismo e dal Futurismo si nutrì di prin-  cipî futuristi... Il Fascismo opera politicamente... Il Fu-  turismo opera invece nei domini infiniti della pura fan-  tasia, può dunque e deve osare osare osare sempre più  temerariamente. Avanguardia della sensibilità artistica ita-  liana, è necessariamente sempre in anticipo sulla lenta  sensibilità delle masse ».    La consapevolezza della difficoltà del consenso è più  che sentita, ed è convinzione al tempo stesso che il fa-  scismo sia più capace di farsi accogliere o di comunicare  certe necessità, e certi principî. E la convinzione implica  la coscienza che sia il fascismo ad aver raccolto © mutuato  idee e « posizioni » dal futurismo, solo ed esclusivamente.  Senza che mai sia avvenuto il contrario. Ed appare evi-  dente, perché non viene mai fatto cenno a questa secon-  da ipotesi: che cioè sia stato il futurismo ad attingere  al fascismo. Anche se affiora l’« autocritica », l’interroga-  zione, il domandarsi sotterraneo della coscienza...    « Il lettore domanderà: “Ci sono idee futuriste su-  perate o da scartarsi, oggi?” Nulla da scartare. Le idee  vittoriose tengano fermamente le posizioni conquistate.  Per esempio questo principio: “Noi vogliamo glorificare  la guerra, sola igiene del mondo... le belle idee per cui  si muore e il disprezzo della donna”, fu una pietrata fe-  roce ma necessaria nel pantano letterario di sentimenta-  lismo dannunziano sulle cui rive singhiozzavano i gio-  vani malati di luna e di donne fatali ».   La condanna della decadenza di un romanticismo fiac-  co e sdolcinato che ha irretito la realtà della Penisola è  quanto mai chiara ed evidente. E la volontà di scuoterla  per una necessità di spirito, per una volontà di resurrezione, per una coscienza ancora viva di grandezza e di  capacità creativa e rinnovatrice, porta inevitabilmente allo  scontro e alla conflagrazione, quella della guerra, che è  guerra di sentimento e di volontà, prima ancora che di  occasione politica.    « Oggi », continua Marinetti, « l'Italia è piena di gio-  vani forti e sportivi. Ma molti purtroppo sacrificano ad  una donna la loro volontà di conquista e l'avventura...  Dopo Vittorio Veneto io predicai la necessità per ogni  combattente di diventare un cittadino eroico... Oggi esi-  ste uno Stato fascista che tutela il diritto individuale.  Ma bisogna alimentare ancora lo spirito del cittadino eroi-  co, amico del pericolo e capace di lotta, poiché occorretà  improvvisare domani gli indispensabili volontari della nuo-  va guerra. Questa, lo ripeto, è certa, forse vicina. Perciò  è sempre vivo il grido futurista: glorifichiamo la guerra  sola igiene del mondo! Il Futurismo interprete delle for-  ze telluriche, il Futurismo, manometro della nostra pe-  nisola (caldaia bollente!), odia i macchinisti incapaci. Si  palesano tali i culturali d’Italia che verniciati di patriot-  tismo parlano oggi d’Impero, con un'anima pacifista pron-  ti ad imboscarsi al minimo pericolo. Essi ignorano che  Impero significa guerra. Votrebbeto conquistarlo con una  lezione sulla Roma Imperiale! ». Ecco, ancora, la coscien-  za di cui parlavamo prima: quella della curiosità anti-  quaria di una cultura d’accatto non più in grado di te-  nere il passo della storia e di muovere lo spirito della  giovinezza vittoriosa. Marinetti lo coglie e lo esptime in  una testimonianza, ancora una volta, di vita e di speran-  za, che è vita perché è speranza del futuro.    « Noi futuristi parliamo d’Impero convinti e lieti di  batterci domani... Parliamo d’Impero perché è venuto per  l’Italia il momento di prendere le tetre indispensabili...  IÎ programma politico futurista lanciato l’11 ottobre 1913  che propugnava una politica estera cinica astuta e aggres-  siva è più che mai di attualità. Le idee vittoriose tengano  fermamente le posizioni conquistate. Le nuove idee si  slancino all'assalto. Marciare non matcite! ». Firmato: F.T.  Marinetti.    42    Il futurismo ha dimostrato di voler procedere sulla  strada del nuovo: il fascismo lo ha accolto ed ha accon-  disceso, almeno fino a un certo punto, al suo messaggio.  Oltre è stato frenato, forse, non solo dal « borghesismo »,  ma anche da quel socialismo, che avanti non è mai stato  capace di andare e che di nuovo ha portato solamente  vuote formule e fantasmi. Non così il futurismo, ben ade-  rente al reale, e capace di ritirarvisi anche, nel caso di  inadempienza (o di mancanza di corrispondenza) della  realtà ai suoi messaggi.   Marinetti docet, proprio con quel fascino che aveva  voluto, o con cui aveva marciato, e in cui aveva creduto  senza marcire mai, nemmeno nell’auge del regime, quan-  do avrebbe potuto sedersi sulle comode poltrone di un  otmai «arrivato » futurismo di «destra ». Ma il futuri-  smo per Marinetti era e rimaneva comunque movimento  d'avanguardia artistica e culturale, nonostante gli agganci  più 0 meno politici, più o meno di regime, e nonostante  l'amicizia con Mussolini, che poteva anche essere un « fu-  turista », ma era e doveva essere prima di tutto il capo  dello Stato e il « duce del Fascismo ». E il fascismo ave-  va preso e doveva tenete ormai una certa linea, molte  volte non gradita, o valida, per il futurismo, ed anzi pro-  prio al contrario.   La gloria di Roma rievocata nel monumentalismo  classicheggiante, il novecentismo ricalcante vuoti modelli  di un fasullo rinnovamento filotradizionale, la riesumazio-  ne del mito della storia come copia di grandezza e no-  vella misura di falsa gloria, erano tutti temi aborriti da  Marinetti proprio perché segni ed indici di « passatismo »,  messaggi sterili di una mentalità ferma e statica, incapace  di dare alcunché di vitale all'Italia in movimento. Ma-  rinetti era invece, e rimaneva, anche nel fascismo e no-  nostante il fascismo, « futurista », come lui amava defi-  nirsi, e come lo rimanevano anche altri, non tutti però,  anzi forse troppo pochi. Marinetti, quindi, futurista, e futurista nonostante tut-  to, fu forse fascista solo ed esclusivamente per quel che  il futurismo poteva consentirgli di essere. Ma fu anche  grande oratore Marinetti, e fu oratore d’arte, oratore di  genio letterario e improvvisatore della parola, più 0 me-  no libera o in libertà che fosse.   Mussolini fu oratore politico e parlava, anche, nella  ricerca del consenso. Marinetti invece fu poeta, e parlava  per stimolare la curiosità, per muovere l'incanto  del-  l'espressione. La sua oratoria fu essenzialmente artistica,  il suo discorso fu culturale e poetico. Mussolini forse  in parte la imitò, sempre attenendosi all’oratoria politica  e trasformando il messaggio letterario in presenza ideo-  logica e in colloquio « popolare ». Forse qui sta inoltre  la differenza fra i due movimenti: il futurismo avanguar-  dia di rottura e il fascismo sistema di potere. Anche se  il primo l’aveva spinto e sorretto nella sua azione di con-  quista. Il fascismo è allora per un suo aspetto futurista,  e non invece il contrario. E' la realizzazione di quel « pio-  gramma minimo futurista » che abbiamo già esaminato.  E Mussolini si può dire fosse stato anche futurista, o  comunque molto vicino al movimento di Marinetti. E  gli era stato anche amico, o c’era stata una reciproca  comunanza di sentimenti, che non esula dall’amicizia.   Ma Mussolini era stato anche socialista, anzi lo era sta-  to davvero e « fino in fondo ». Che fosse anche per que-  sto che i futuristi non potevano essere completamente  fascisti? O non si potevano identificare completamente  nel regime? Almeno i futuristi autentici, quelli più « idea-  listi ».   Il futurismo era stato sempre e comunque antisocia-  lista, in modo integrale, totale come si è visto. E lo era  stato dall’inizio antisocialista, per la sua posizione cultu-  rale, per il suo intendimento antimilitaristico ed antiegua-  litario, per il suo slancio antipassatista di svecchiamento.    Lo schiaffo ed il pugno, la velocità e l’aggressione,  la lotta e la vittoria erano tutti temi o motivi antisocia    44       listi. Il fascismo, nonostante tutto, era meno antisocia-  lista. In primo luogo per le origini del suo capo, per la  sua formazione-estrazione, per i suoi intendimenti di  visuale che non si erano spenti del tutto, ma si erano  solo attenuati e modificati: e si erano travasati, anche,  nella novità del futurismo.    Comunque, e malgrado questo, il fascismo rimase e  resta agli atti della storia un «movimento di massa »,  una « realtà sociale », un fenomeno popolare, un sistema  del numero in scala comunitaria e nazionale: questo è  acquisito, ed è incontestabile. E non può essere confutato  dagli storici seri. Mussolini lo volle e lo promosse que.  sto « popolarismo » e, se vogliamo anche, riuscì lenta.  mente e gradatamente ad «imporlo ». Ma non volle mai  l'uguaglianza o il livellamento, e cercò sempre di favo.  rire la distinzione dell’individualismo. Lo stimolo stesso  alla competizione nel campo dell’arte e l’amicizia con  l’amico-nemico Marinetti ne sono garanti. L’amicizia fra  i due personaggi non fu esclusivamente un fatto episo-  dico o della prima ora; fu un fatto profondo e vitale,  forse inalienabile ed « assoluto ». E durò, a controprova  del vero, fino alla morte.    Quando Marinetti, reduce dalla guerra di Russia per  cui si era arruolato volontario (malgrado i suoi 64 anni),  aderiva alla Repubblica Sociale Italiana dopo i tragici fatti  dell’armistizio, dimostrava sino all'ultimo fede ad un’ami-  cizia e ad un'idea, comunque e nonostante tutto. Mari-  netti era partito per la Russia all’insegna della coerenza,  non potendo contraddire il suo messaggio della guerra  « sola igiene del mondo ». Messaggio che anche il « duce »  aveva sentito, forse tragicamente e forse fuori tempo. Ma  lo aveva comunque sentito, e l’amicizia con Marinetti e  la sua nomina ad Accademico d'Italia lo dimostra. Quan-  do avrebbe benissimo potuto « bruciarlo ». E aveva an-  che sentito che il nuovo secolo richiedeva un cambiamen-  to, che si doveva in qualche modo maturare.    Volle promuoverlo e accelerarlo (da « futurista »?), in-  tervenite e spingere l'avanzata fino all'assurdo. Ne rimase  coinvolto e definitivamente « inghiottito ».  Marinetti si era salvato, e con se stesso aveva salvato  la poesia.    La guerra (leggi: politica) non poteva averla distrutta.  In età avanzata era rientrato a vivere brevemente, a lot-  tare fino all’ultimo per consegnare a Venezia un messag-  gio, quello vitale e ineliminabile « verso il futuro ». I suoi  discepoli lo accolsero come un testamento e qualcuno lo  trasmette ancora per testimonianza. Nonostante la trasmu-  tazione dei tempi e le difficoltà del presente. Lo docu-  menta ancora per la verità storica e per la risonanza del-  l'oggi. E, forse, per un nuovo futuro di domani.    12. Sindacalismo futurista    II fascismo aveva creato la « Carta del Lavoro », che  ricalcava a sua volta quella ptima espressione originale  di emissione statutaria d’impronta sociale, che era stata  la dannunziana « Carta del Carnaro ». Ma già prima i  futuristi avevano inteso una «loro » sindacalizzazione in  senso artistico, ed avevano ancora una volta concepito un  manifesto. Si tratta del manifesto al governo fascista del  1° maggio 1923 intitolato I diritti ertistici propugnati  dat futuristi italiani.   I diritti rimasero in gran parte sulla carta, ma l’in-  tenzione era evidente: quella di creare una specie di « car-  ta sindacale » per la costituzione dei « sindacati artistici  futuristi », atti alla difesa ed all'assistenza degli artisti  eventualmente bisognosi. Oggi quel poco che offre il sin-  dacalismo dell’arte è dovuto per lo più al sindacalismo  futurista e, in parte, a quello fascista. Ma l'idea del mu-  tuo soccorso e della solidarietà del lavoro era già pre-  sente nella mentalità futurista, orientata sempre verso  giustizia (in questo caso, giustizia dell’arte). Il proleta-  riato delle rappresentanze artistiche è fatto ben noto, e  non da oggi: non ne furono esenti i futuristi, che anche  in questo senso furono rivoluzionari veri e propri, e cercatono comunque il rinnovamento. E vollero un’istituzio-  ne che li garantisse dalla loro precarietà, dalle loro dif-  ficoltà e dalla loro miseria.   La «Banca di Credito» per artisti fu iniziativa di  Marinetti, in seguito approvata e patrocinata dal « duce ».  Che così rispose per l’occasione all'amico futurista: « Mio  caro Marinetti, approvo cordialmente la tua iniziativa per  la costituzione di una Banca di Credito specialmente per  gli Artisti. Credo che saprai sormontare gli eventuali osta-  coli dei soliti misoneisti. Ad ogni modo questa lettera  può servirti di viatico. Ciao, con amicizia. Mussolini ».   Si trattava di una vera € propria forma di « assicu-  razione del denaro » che doveva favorire gli artisti, o sod-  disfare le loro necessità. Ma non solo Îa costituzione della  Banca di Credito chiedeva il manifesto del ’23, firmato  da Martinetti « per la direzione del movimento-futurista e  per tutti i gruppi futuristi italiani ». Si volevano anche  realizzare: 1) Difesa dei giovani artisti italiani novatori  in tutte le manifestazioni artistiche promosse dallo Stato,  dai Comuni e private... 2) Istituti di credito artistico ad  esclusivo beneficio degli artisti creatori italiani [dove si  propone l’apertura d’istituti di credito per la sovvenzio-  ne di artisti, manifestazioni artistiche ed Istituti d'arte.  Tali istituti si manterrebbero con la buona volontà degli  aderenti, se privati, o con imposte sui redditi di guerra,  pet esempio, se statali. Le opere d'arte depositate co-  stituirebbero valorizzazione fruttifera per l’artista medesi-  mo, ecc., n.d.r.]... 8) Agevolazioni agli artisti [tramite  il riconoscimento legale dei diritti d’autore, la riduzione  del 75% della tariffa per i viaggi degli artisti e il tra-  sporto delle loto opere, l'abolizione delle tasse doganali  nell’importazione ed esportazione delle opere d’atte, il  catico sull’assicuratore delle spese per lettere di cambio  o assicurazioni delle opere d’arte, ecc..., n.d.r.]. Come  si vede i futuristi guardavano sì al futuro, ma stavano  ben calati nel presente e cercavano di opetare e di agire  di; presente pet migliorare e per rendete più giusto il  uturo. Col « ritorno all’ordine », come si definisce dagli sto-  rici l'affermazione del fascismo e la sua lenta istituziona-  lizzazione in regime, si parla anche di modifica del futu-  rismo 0 di suo adeguamento ad una nuova realtà siste-  matica e organizzativa, conseguita al periodo rivoluziona-  rio; e si chiacchiera ancora di «secondo futurismo ».  Anche se il futurismo, primo o secondo che fosse, non  ha mai avuto a che fare con l'istituzionalizzazione del  l'arte nell’« ordine fascista ». Dice il critico Enrico Cri-  spolti in un suo saggio, e lo asserisce in modo catego-  rico e definitivo: « In questo senso è politicamente inam-  missibile e culturalmente scorretta una liquidazione del  Secondo Futurismo in quanto collusivo out court con  il fascismo »’.   Ma come si atriva a questa seconda definizione del  movimento? E poi eventualmente alla sua « demonizzazio-  ne » 0 « fascistizzazione » in senso politico?   Avevamo già visto nel ’24 Gerardo Dottori « prova-  re» le sue prime aeropitture. Nel frattempo i futuristi  continuano a scambiarsi esperienze ed a lavorare intensa-  mente. È ad esporre spesso e volentieri, anzi velocemen-  te e freneticamente, « alla futurista ». Nel 1926 vengono  invitati diversi futuristi italiani alla International Exhibi-  tion of Modern Art di New York. Nello stesso anno  alla IX Biennale d'Arte di Reggio Calabria espongono  Depero, Tato, Benedetto, Rizzo, Fillia e Dottori. A_Mi-  lano intanto al Palazzo della Permanente si allestisce la  seconda mostra, che abbiamo già visto, del Novecento,  ormai in auge e prossimo ad assurgere ai fasti della glo.  ria del potere. C'è anche la dichiarazione ufficiale del neo-  costituito « Gruppo 7» di architettura, composto da Ter-  ragni, Libera, Frette, Figini, Pollini, Rava e Larco.   Nel 1928 i futuristi partecipano finalmente alla XVI  Biennale di Venezia. A Torino, all'Esposizione Nazionale,       ? Enrico Crispolti, Appunti riguardanti i rapporti fra futurismo  e fascismo, in Arte e Fascismo in Italia e Gertania, Feltrinelli, Mi-  lano 1974, pag. 54. si allestisce un padiglione di architettura futurista, con  opere di Sant'Elia, Sartoris, Balla, Fillia, Prampolini e  Chiattone.   Nel 1929, 33 futuristi espongono ancora alla « Pesa:  ro » di Milano (Balla, Farfa, Benedetto, Lepore, Dottori,  Marasco, Tato e Prampolini). Azari pubblica il suo Primo  dizionario aereo; Balla, Fillia, Depero, Marinetti, Tato,  Somenzi, Benedetto, Rosso, Prampolini e Dottori lancia-  no il famoso Manifesto dell’Aeropittura. Terragni termi.  na 2 Como la costruzione di Novocomum, nuovo edificio  residenziale periferico. Marinetti è ‘accolto il 18 matzo  nell'Accademia d’Italia, insieme a Fermi e Pirandello, su  istanza personale di Mussolini.    Esce per le Edizioni di Augustea, Roma-Milano, il  volume Marinetti e il Futurismo, quarta ed ultima espres-  sione di letteratura politica del capo futurista. L’opera  ricalea in termini ancor più encomiastici e «di suppor-  to» il già « conciliante » Futuriszzo e fascismo (1924).  Il volume esce ancora dedicato « Al grande e caro Benito  Mussolini », definito questa volta già nella prima pagina  « temperamento esuberante, strapotente, veloce. Non è  un ideologo. Se fosse un ideologo, sarebbe incatenato  dalle idee che sono spesso lente, e dai libri che sono  sempre morti. Egli è invece libero, scatenatissimo. Fu  socialista e internazionalista, ma soltanto in teoria. Rivolu-  zionario sì, ma pacifista mai ». Il che equivale a dire  « futurista ».   Del socialismo di Mussolini abbiamo già parlato, e  della sua portata teorica, a questo punto effettivamente  e « praticamente » confermata. Del futurismo « fascista »  di Marinetti si sono scritti fiumi d’inchiostro e sproloqui  di parole. La dimostrazione più lampante della sua parte-  cipazione estetna al fascismo e della sua continua difesa  del futurismo e delle avanguardie è data dal rifiuto di  onorari e prebende: unica « accettazione » per  contto,  quella dell'Accademia d’Italia, che gli servì poi per di-  fendere il fututismo e per «lanciarlo » meglio in Italia  ed all’estero.    Nel 1930 Terragni realizza un monumento a Como su un disegno di Sant'Elia (che era stato totalmente rie-  laborato da Prampolini) in occasione delle « Onoranze  Nazionali all'architetto futurista Sant'Elia », che viene  commentato anche alla « Pesaro » di Milano. Marinetti  pubblica Futurismo e Novecentismo. Molti futuristi par-  tecipano alla IV Mostra delle Arti Decorative di Monza  ed alla XVII Biennale di Venezia. Nello stesso anno Ma.  rinetti pubblica a Torino sulla Gazzetta del Popolo i) Ma-  nifesto dell’Aeropoesia, che fa eco a quello dell'Aeropit-  tura del *29. E’ il « momento» dello sviluppo aereo e  dell’aeronautica: è giusto che il futurismo si muova nella  direzione del progresso e senta, ritragga e proietti la nuo-  va dimensione aerea dello spazio verso il futuro.    Nel 1931 esce a Roma il nuovo quotidiano L’'Impe-  to. Nel 1932 la Galleria « Pesaro » allestisce una mostra  vera e proptia, ed esclusiva, di « aeropittura ». Fortunato  Depero ottiene che gli venga concessa una sala « perso-  nale » alla XVII Biennale veneziana. Prampolini erige un  plastico a ricordo di Marconi a Roma per la Mostra della  Rivoluzione Fascista. La partecipazione futurista è segno  della nuova collaborazione politica. Ciò non toglie che  le realizzazioni esprimano intenti d'avanguardia. L’Istitu-  io Editoriale Italiano pubblica per la prima volta i Ma-  nifesti del Futurismo, in quattro volumi.    Fillia fa uscire il periodico Le Città Nuova e Sartoris  il volume sugli Elementi dell’Architettura funzionale;  Terragni comincia la costruzione della Casa del Fascio di  Como. Mino Somenzi fonda il nuovo periodico Futurismo,  definito «settimanale dell’artecrazia italiana ». Cambierà  poi titolo in Atfecrazia.    Nel 1933 Hitler sale al potere e sconfessa l’arte mo-  derna (l'espressionismo, nella fattispecie). Vasari organiz-  za con Marinetti una mostra futurista a Berlino nel ten-  tativo di promuovere, e di far recepire le avanguardie al  nuovo regime. Nel settembre dello stesso anno il Congres-  so nazista di Norimberga condannerà « al rogo » l’« arte  degenerata ». Esce la rivista Diamo futurista, diretta da  Depero; il periodico di architettura Casebella è invece di-  retto da Pagano, mentre Bardi e Bontempelli pubblicano  Quadrante. Prampolini progetta una stazione per aero-  porto civile al padiglione futurista della V Triennale di  Milano, mentre al Castello Sforzesco si organizzano le  onoranze nazionali a Boccioni, con la presenza di Paul  Klee, Piet Mondrian, Pablo Picasso, Vassily Kandinsky  ed Ezra Pound.    Nel 1934 Depero lancia un nuovo manifesto dell’Aero-  plastica, sempre sulla falsariga di quello dell’Aeropittu-  ra. Fillia e Prampolini pubblicano a Torino la nuova ri-  vista Stile futurista, dalle cui colonne Prampolini attacca  Hitler per le posizioni naziste sull’arte espresse a Norim-  berga. I futuristi partecipano ancora alla XIX Biennale  di Venezia. Ad Amburgo Ruggero Vasari e Marinetti di-  fendono l'avanguardia in occasione della mostra « Aero-  pittura futurista italiana », organizzata appositamente in  polemica alle censure naziste. A Lipsia ancora Vasari pub-  blica Aeropittura, arte moderna e reazione, che dimostra  la voce della nuova avanguatdia italiama improntata ai  progressi aeronautici ed in polemica contro i soliti passa-  tisti « censoti ».    Marinetti nel ’35 parte volontario per la guerra di  Etiopia. A Parigi viene organizzata una mostra futurista.  A Roma i futuristi partecipano alla II Quadriennale. Ma-  rinetti pubblica l’Aeropoema del Golfo della Spezia, che  ispirerà poi ancora molti aeropittori. Nel 1936 Prampalini realizza un salone da riunioni per municipio alla VI  Triennale di Milano. I futuristi partecipano alla XX  Biennale di Venezia. Muore Fillia esponente del « primo  futurismo ». Mussolini proclama l’Impero.    Nel giugno 1937 la mostra di Monaco attacca e de-  nuncia l’« arte degenerata » con esemplificazioni e « di-  mostrazioni ». Viene messa in luce per contro, o in risal-  to, l'arte « sana » nazista. Cominciano le polemiche e le  divisioni di fronti. Il fascismo ufficiale e « d'ordine » at-  tacca, e nuove violente polemiche scuotono l'avanguardia.  Il Popolo d'Italia e IL Perseo, diretto da A.F. Della Porta,  muovono guerra al futurismo. Quest'ultima rivista aveva  già polemizzato, insieme a Il regime fascista di Farinacci,  con l’architettura razionalista di Bardi e Terragni: « Noi siamo dell’opinione », si legge su Il Perseo del 15 giugno  1937, « che il Fascismo ha tutto da perdere da un’allean-  za col Futurismo e sia pure da una semplice connivenza ».  Risponde il periodico Artecrazia di Somenzi che contrattac-  ca in prima persona a sostenere l'avanguardia e il futu-  rismo. Difendo il Futurismo è la raccolta dei testi di So-  menzi pubblicati sulla rivista. Editi nel '37, sono l’opera  più coraggiosa e significativa della polemica per la lotta  dell’avanguardia.    14. Futurismo di destra e futurismo di sinistra    L’avanguardia, del resto, è sempre eterogenea e sfac-  cettata. Ecco perché si parla di « destra » e di « sinistra »  all'interno del futurismo nella fase della « maturità » (il  cosiddetto « secondo futurismo »). Destra e sinistra sono  termini abusati e « inflazionati », buoni per tutto. Se ne  fa spesso uso eccessivo ed improprio, semplicistico e gra-  tuito. D'altra parte, poiché avviene ancora e soprattutto  oggi, non si vede perché non dovesse avvenire allora,  quando anche si parlava, al tempo, di fascismo di « de-  stra » e di fascismo di « sinistra ».   Il « centro », almeno nelle avanguardie, non ha ten-  denze, o ne ha molto pache e solo per qualche momento.  Il « centro» ha poche tensioni, pochi impulsi vitali, di  rinnovamento. Il « centro », quindi, risulterebbe amorfo,  inutile, privo di idee 0 spirito di catatterizzazione. L’avan-  guardia allora sta a « destra » 0 a « sinistra »: non è mai  al « centro », o almeno è difficile che lo sia. Il futurismo  fu forse un’avanguardia di « destra » se intendiamo per  « destra » una certa qual spinta ideale d'impronta bergso-  niana o nietzschiana: poteva però essere anche di « sini-  stra » per le sue istanze sociali. O poteva essere al di  là della « destra » e della «sinistra », per ricalcare una  espressione del pensatore tedesco.   Sta di fatto che il futurismo non fu mai di « centro ».  Ma se si vuole dar credito a quello che comunemente si  intende otmai per « destra », si deve anche accogliere un    52    futurismo di « destra », o rivolto verso « destra »: se  è vero che a «destra » sta la conservazione, lo spirito  borghese, il richiamo all’ordine ecc. ecc. E se è vero per  contro che a « sinistra » sta la spontaneità o lo spontanei-  smo, la sincerità, la schiettezza, l'onestà e quindi anche  la miseria e la « rivoluzione »: ecco, allora, esiste anche  il futurismo di « sinistra ». Com'è possibile?    La polemica, anche se non sembra vero, fu proprio  di quegli anni. Comincia Bruno Corra con un « fondo »  di prima pagina su Futurismo, diretto dal Somenzi, n. 27  del 12 marzo del 1932, anno I e X dell’« Era Fascista ».  Il titolo è già sintomatico: No: futuristi di destra. Anche se  Corra aveva usato il termine « destra » con le attenua-  zioni del caso, affermava che «l'essenza del Futurismo è  e non può non essere rivoluzionaria ». E ancora, a spe-  cificare meglio il concetto: « ... Bisogna dire che nel no-  stro movimento i termini di sinistra e destra non si op-  pongono, perdono cioè il loto significato convenzionale.  La mentalità futurista supera il contrasto fra il sovvetti-  mento e la conservazione, in quanto si libera di continuo  in uno slancio creativo », tanto per la precisione dei ter-  mini e la puntualizzazione del linguaggio. E siccome il  linguaggio ci investe di una « sua » moralità, ecco che è  bene tenerne conto quando ancora il Corra così sottoli  nea: « Mi pare che qui si tratti, prima di tutto, di una  questione di moralità. Dare al Fututismo quel che al Fu-  tutismo appartiene: e non truccare il proprio ingegno con  un'etichetta di convenienza. Chi si dichiara avanguardi-  sta ma non futurista, sputa nel piatto dove ha man-  giato ». E fin qui è tutto chiaro e conseguenziale. Ma ve-  diamo come ancora il Corra continua: « Poi, lo stabilirci  questo principio; che il privilegio di poter restare nella  sfera magnetica del Futurismo pure affermando, nella pro-  pria opera un temperamento realizzatore di destra, debba  accordarsi soltanto a coloro che han dimostrato di sapere  essere — integralmente — futuristi. E reclamerei il diritto  di sedermi a destra, per mio conto, in nome della mia  effettiva collaborazione al Futurismo più rivoluzionario... ».  Insomma, essere stati di « sinistra » per poter essere poi di « destra », o aver fatto i rivoluzionari in gioventù,  per poter pai sedere tranquillamente sugli « scanni » del  concreto o nella comodità del reale (di quando, cioè,    x    si è « arrivati »).    Può darsi sia vero, pur se non proprio giusto 0 cor-  retto il ragionamento, ma concreto sì ed anche, che ci  piaccia o meno, realistico. La polemica inizia ed. è un  susseguirsi di botte e risposte. Fra tutte vediamo come  « replica » Paolo Buzzi su un altro «fondo» di prima  pagina dello stesso Futuriswo n. 30, anno II, del 2 aprile  1933. Il titolo è anche questa volta emblematico,  Estrema sinistra, puntualizzato poi meglio nell’« occhiello »:  Non c'è che un futurismo: quello di estrema sinistra. Dove  si sancisce la necessità dell'avanguardia a « sinistra », e  la «sinistra » del futurismo, l’unica possibile. « Questo,  e non altro, è il vero futurismo. Perché dovrei sedermi a  destra, proprio io? Mi sembrerebbe di tradire la causa di  Aeroplani, di Ellisse e la Spirale, di Cavalcata delle verti.  gini... ». E ancora: « Questo è futurismo: e di ultra estre-  ma sinistra. Le mie autonomie sintetiche di anime e di  sensi, le mie aeropitture di tipi e di paesaggi, i miei co-  smopolitismi spaziali e i miei intimismi votticosi, stanno  per una intransigenza etico-estetica che costituisce, or-  mai, la gioia (ed, un pochino, anche la gloria) della mia  lunga carriera di vomo che ha sempre fatto dell'Arte come  il sacerdote celebra messa. Aviatore sempre, adunque: fan-  te o stradino, non mai ». E conclude poi, con patole un  po’ altisonanti e troppo, forse, di effetto: «I giovani,  quelli veramente degni di questo nome primaverile, sanno  che al di fuori e al di sopra d'ogni inevitabile chiasso  letterario, la parola “futurismo” risponde alla sola unica  vera “idea forza” che oggi esista nella sfera ideale del  mondo: e che è in grazia di essa, unicamente di essa, se  oggi la Poesia della miracolosa Italia fascista vive e vi-  vrà ». Dove si dimostta ancota una volta, come se non ba-  stasse, il collegamento tra futurismo e fascismo, almeno  nella loro spinta « spontaneistica » e rivoluzionaria.    Dobbiamo comunque tenere conto del tempo della  pubblicazione di questi articoli, nel °32 e '33, in pieno ed affermato regime. Ecco, quindi, anche, il senso di una  « destra » e di una «sinistra », di un futurismo ancora  giovane ed esuberante, e di un altro futurismo per contro  già assiso sugli allori della gloria o sul comodo giaciglio  della meta raggiunta e della calma del riposo. Quando  cioè il fascismo, movimento politico rivoluzionario, eta di-  ventato « regime », ed aveva, per così dire, assunto le sue  caratteristiche sembianze (almeno fino a un certo punto).  Perché il futurismo, così come era sotto, in fondo si era  voluto mantenere. AI di là dei tentativi di conglobamento  o di «cattura » della sua entità esercitati dal regime o  da singole personalità fasciste, alcune delle quali, magari,  erano state futuriste o vicine al futurismo. Tuttavia era  e restava, il futurismo, in fondo, quello di sempre: solo  ed esclusivamente un movimento d'avanguardia.    15. Futurismo ed ebraismo    « Innumerevoli differenze separano il popolo russo dal  popolo italiano, oltre a quella tipica che distingue un po-  polo vinto e un popolo vincitore. I loro bisogni sono di-  vetsi e opposti. Un popolo vinto sente morire in sé il  suo patriottismo, si rovescia rivoluzionariamente e plagia  la rivoluzione del popolo vicino. Un popolo vincitore co-  me il nostro vuol fare la sua rivoluzione, come un aera-  nauta getta la zavorra per salire più in alto... Non esiste  in Italia antisemitismo. Non abbiamo dunque ebrei da re-  dimere, valutare o seguire », sosteneva Marinetti nel 1920:  e lo diceva nella sua opera già esaminata A! di là del Co-  munismo. Lo riportiamo non tanto per rilevare le diffe  renze fra rivoluzione futurista e rivoluzione bolscevica 0  spirito comunista, quanto per far rilevare quale era la  posizione di Marinetti nei confronti degli ebrei già nel  1920. Gli ebrei da « redimere, valutare o seguire » sono  evidenti: Marx ed Engels. Il problema invece si affaccia,  come tutti sappiamo, sul volgere del '38 e all'alba del  °39. Il Manifesto del Razzismo italiano, quello degli scien-  ziati del 14 luglio ’38, e la Carta della Razza del 6-7 ottabre dello stesso anno, cui fanno seguito le leggi razziali  del novembre sulla falsariga dell’antisemitismo tedesco,  danno buon gioco alla cultura dell’« ordine », quella più  direttamente sostenitrice o affiancatrice del regime.    Secondo Crispolti «il tentativo della cultura legata  alla destra reazionaria fascista di profittare della campa-  gna antisemita per promuovere un'edizione italiana della  operazione nazista dell’“arte degenerata” è un aspetto no-  tevole dell’azione pubblicistica che precedette e accompa-  gnò quei provvedimenti » ®. L'azione pubblicistica era con-  dotta da Telesio Interlandi in prima persona, che attacca-  va spesso e volentieri Marinetti, il futurismo e le avan-  guardie attraverso il suo periodico: dal Quadrivio, setti  manale romano ad impronta razzista, al quotidiano roma-  no Il Tevere, a La difesa della razza. Oltre a Interlandi  si distinguevano Giovanni Preziosi con il mensile La wite  italiana, e Roberto Farinacci con Il regimze fascista, quoti-  diano di Cremona.    « L'arte moderna è un tumore che deve essere tagliato  non che si debba esibire come una gloria nazionale sol  perché piace a Marinetti », aveva affermato I/ Tevere  del 24-25 novembre 1938, pubblicando un’antologia di  esempi d’« arte degenerata » italiana. Quadrivio aveva a  sua volta proposto un referendum contro l'arte moderna  considerata in blocco « bolscevizzante e giudaica », ma  senza alcun successo.    Marinetti rispondeva con una manifestazione indetta  il 3 dicembre 1938 da lui e Somenzi al Teatro delle Atti  di Roma. E Somenzi stesso lo accompagnava con un « fon-  do » polemico su Arfecrazia, n. 117 del 3 dicembre, dal  titolo Razzismo. Ad esso facevano seguito sul n. 118 del-  l'11 gennaio 1939 due articoli (Arte e... razzia, e Italianità  dell’arte moderna), ancora in posizione di attacco, aspro  e violento. Quest'ultimo, firmato « Artecrazia »  pottò a  determinare la chiusura stessa del giornale. Non è escluso       * Enrico Crispolti, Appunti riguardanti 1 rapporti fra futurismo  e fascismo, cit., pag. 58.    56    che lo avesse scritto proprio lo stesso Marinetti (con Somen-  zi). Il pretesto di voler colpire con l’antigiudaismo l’arte  moderna era messo all'indice dell'accusa. Si dimostra così  ancora una volta lo spirito d'avanguardia con cui il futu-  rismo e i futuristi operavano, sia pur sotto le bandiere del  regime, ma in fondo in opposizione a una cultura d’or-  dine e di conservazione, priva di spunti nuovi e originali,  o addirittura chiusa ai contatti e alle avanguardie europei  sotto il pretesto dell'antigiudaismo, che non poteva certo  essere aperto a nuove esperienze.   Nel 1940 entta in guerra l’Italia. Marinetti parla « Per  l’italianità dell’arte » e tiene un discorso al Teatro delle  Arti a Roma sulla « bellezza aeropoetica della guerra mec-  canizzata ». Intervengono Radice e Terragni a difendere  l’arte moderna. Declatmano Marinetti, Farfa, Scrivo, Mo-  nachesi e Berardi. La rivista Autori e Scrittori pubblica  il manifesto Nuova estetica della guerra. A Genova Mari.  netti parla su «La poesia e la guerra » nel Salone dei  Professionisti e degli Artisti, dove si declamano poesie  di Mazzotti e Balestreri.   Nel 1941 Renato Di Bosso lancia il nuovo Manifesto  dell’Aerosilografia. Nel 1942 Marinetti pubblica  Carto  eroi e macchine della guerra mussoliniana. Poi parte vo-  lontario a raggiungere le truppe italiane in Russia. Rien-  trerà nel ’43 malato, e già intaccato nella salute. Mussolini  cade il 25 luglio e Marinetti si trasferisce a Venezia, dopo  l'8 settembre. Il fascismo è finito, ma il futurismo an-  cora continua.    16. Il futurismo tra ieri e oggi    Dopo la morte di Terragni a Como (1943) per ma-  lattia contratta sul fronte russo, Marinetti aderisce nel  44 alla neo-costituita Repubblica Sociale Italiana. A_Ve-  nezia riceverà gli ultimi futuristi, rimastigli fedeli nono-  stante il « declino »: Crali (ancora vivente) e Andreoni  (recentemente scomparso). A loro vorrà consegnare il fu-  turismo perché non muoia con lui. Si trasferisce poi a  Cadenabbia sul lago di Como e muore a Bellagio nella  notte fra il 2 e il 3 di dicembre, per crisi cardiaca (i fu-  nerali di Stato porteranno le spoglie a Milano, al Cimitero  Monumentale). Postuma a lui e alla fine del fascismo  (repubblicano) si pubblicherà la sua ultima opera, che  così inizia: « Salite in autocarro aeropoeti... » Si tratta  del Quarto d'ora di poesia della X Mas, in cui l’invoca-  zione all'avanguardia alita uno strano ed inevitabile sen-  so di morte, violento ed inesorabile.   Ma l'avanguardia è, pare, ineliminabile, tant'è che il  futurismo continua come espressione artistica almeno, an-  che se ormai non più politica. I suoi epigoni lo sosten-  gono ancora, «con le parole e con le opere». Crali  Primo Conti a Milano e a Firenze, Sartoris a Losanna, Di  Bosso ed Anselmi a Verona, Enzo Benedetto a Roma  portano ancora avanti il suo programma d'avanguardia. Con  parole e con scritti, con opere e con progetti, col messag-  gio dell’arte sempre e comunque. I seguaci di Marinetti  si rifanno a lui e sostengono con vivacità e con brio la  vitalità di una prospettiva che si vuole sempre rinnovare.    Questo è ancora, malgrado tutto, il valore attuale del  futurismo. Quello di un'avanguardia italiana aperta alle  avanguardie europee, ma avanguardia comunque e  valo-  rizzatrice in ogni caso dell'arte. Che dev'essere libera e  moderna, nuova ed attuale, viva e presente ai suoi tempi.  Per questo deve ancora schiacciare le pastoie dei vecchiu-  mi « passatisti », deve smuovere il conservativo e assa-  lire i fantasmi di prolungamento di polverosi e sclerotici  retaggi. Deve insomma comunque essere avanguardia. Il  messaggio futurista, in questo senso, è ancora attuale. Ce  lo dicono Crali e Benedetto, fra gli altri, con le loto  testimonianze. Che ci aiutano a tivedere la « dimensio-  ne » del futurismo: una dimensione « presente » in tanta  odierna penuria di originalità nel moderno, presente al-  meno come forza dinamica nella prospettiva di migliori,  più aperti, e più geniali futuri.   ALBERTO SCHIAVO    58    SOFFICI, MARINETTI, BOCCIONI, RUSSOLO  SANT'ELIA, SIRONI, PIATTI    FUTURISMO E  « GUERRA SOLA IGIENE DEL MONDO. Ben presto si manifesta l'interesse dei futuristi per  la politica. Nel 1911 Marinetti pubblica giò un mani  festo « politica », che sarà la sua prima espressione di  intervento nelle cose pubbliche. «Tyripoli Italiana »  vuol dire presenza dell’Italia e primato dell’Italia;  vuol dire guerra ed espansione, allargamento del vita-  lismo italiano, e vittoria. Il « panitalianismo » si espri-  me e si dichiara apertamente, per la prima volta.  L'avanguardia politica deve accompagnare  l'avanguar-  dia artistica. E il primato italiano in arte st deve ma-  nifestare anche in politica, nella forza dell'espansione  del genio (al tempo, di arbizione coloniale).   Poco dopo la Libia, è la volta dell'Austria. L’amo-  re della guerra non può che portare a voler V'inter-  vento. Ci sembra significativa la penna di Soffici su  Lacerba del ‘14, dove si osa dire la verità e mettere  in luce la finzione del moderatismo neutralista (cat-  tolico o socialista che sia).    Il manifesto della fine del 1915, dedicato all'« or-  goglio italiano », è già un manifesto di guerra. Per  questo lo riportiamo interamente, a dimostrazione del-  la fiducia e dell’ottimismo degli artisti combattenti,  la loro convinzione della forza attiva e dello funzione  battagliera dell’arte    PER LA GUERRA    Valvola    Essere italiano (mi piace ripeter qui che adoro il  popolo italiano) non è in generale gran fatto entusia-  smante, in questa nostra epoca. Ìn questi ultimissimi tem-  pi, confesserò che per conto mio mi vergogno un poco  di portar questo nome. E’ un sentimento che si è andato  sviluppando leggendo i giornali, e posso anche ammettere  che una tale causa non meriterebbe di produrre un tale ef-  fetto; ma i giornali son tutta la nostra vita ormai e pur-  troppo. E. dai giornali italiani si alza e si propaga un tal  lezzo d'abbiezione e d’imbecillità che chi ha un po' di  cuore e di spirito non può fare a meno di sentirsene sof.  focato. E' una gara in cui corrispondenti, redattori ordina-  nati e straordinari, politicanti e governo fanno del loro  meglio per sorpassarsi a vicenda. Non che siano espliciti  nei loro articoli e nei loro comunicati, ma la bassezza tra  spare e offende. Sono reticenze abbiette, raccomandazioni  infami, voltafaccia vergognosi, silenzi più vergognosi anco:  ra. Si sente che il calcolo idiota comanda e regola tutti  questi spiriti subalterni. La guerra? Le mani in mano?  Questo enimma terribile non è affrontato a viso aperto,  ma una battaglia vinta o persa lontano detta il tono ed il  catattere (anche tipografico) della notizia, del commento  o della nota ufficiosa. Dà il là all’elucubrazione insulsa del  machiavello rimbastardito. La stampa italiana è opgi come  oggi l’indizio della più ripugnante psicologia e mentalità  che possa avere una nazione. Davanti al mondo che com-    Tralasciamo i paragrafi: Toccami il naso, Grandezzate, e Subli-  mità, che ci sembrano poco significativi dal punto di vista politico,  per riprendere con Socialismo, molta più denso e pregnante.    61    batte e soffre, accanto a una civiltà che difende le sue  — le nostre — ricchezze dal sacrilegio di un'orda senza  stotia, noi siamo il leguleio diseredato di viscere, solle-  cito della sua trippa mediocre che occhieggia le fortune  dei popoli, e risponde di sbieco o tace aspettando dietro  lo schermo della sua neutralità. Non hanno il coraggio  questi figuri di dirla una buona volta ta verità. Ditelo che  siete i più ignobili rappresentanti di un paese che è mise-  rabile perché non vi calpesta come cimici. Ditelo che vi  mancano il cuore e i testicoli. Ditelo che avete paura. O  confessate almeno che dietro la vostta prudenza c'è la  vostra impotenza, la verità che ci buttano in faccia i nostri  alleati quando fra una batosta e l'altra voglion levarsi il  gusto di pigliarci per il bavero. Che cioè l’Italia non ha  quattrini, non ha armi, non ha munizioni e che i suci  magazzini son vuoti come la badia di Spazzavento. E ci sono infine i socialisti. Io non ho un'esagerata  antipatia pet i socialisti. Trovo che la loro cravatta rossa,  il loro sol dell’avvenir, i loro discorsi in piazza, e gene-  ralmente tutto ciò che li caratterizza, così a occhio e  croce, sono un tantino ridicoli; ma le case popolari, l'au-  mento delle mercedi operaie e tutto ciò che il proleta-  riato deve loro di miglioramenti per la vita di tutti i  giorni sono cose ottime e sante. Ciò non toglie che una  cosa mi stupisce straordinariamente ogni volta l'intravedo  e mi stupirà in eterno: la loro mentalità. Si rivela spes-  sissimo in questi giorni, e sempre a proposito della neutra-  lità italiana. I socialisti l'’ammettono, non solo, ma la vo-  gliono perpetua. « Io sono e resto un fautore ogni giorno  più convinto della neutralità per la pace » ha dichiarato  in un referendum uno di loro. E voleva forse dire (giac-  ché è difficile immaginare una neutralità per la guerra)  che lui e il suo partito sono per la pace a ogni costo.  Giacché, ed eccoci alla mentalità di codesto partito, ogni  buon socialista non vede nella guerra, qualunque essa sia,    62    se non una lotta di capitalisti e banchieri contro capita-  listi e banchieri i quali si servono del proletariato per li-  quidare le loro partite. Ammettiamo che in ogni guerra ci  sia un sostrato d'interessi; ma non c'è altro? Per i so-  cialisti non c'è altro. L'idea che i socialisti si fanno del  mondo è questa: un capitalista borghese e sfruttatore alle  prese con un magro popolano sfruttato. La cultura, le  scienze, le arti, le delicatezze, l’eleganze, i raffinamenti,  le filosofie, la bellezza, i sentimenti, gli amori, le passioni  -— tutto ciò insomma che fa la vita così terribilmente com-  plessa, così colorita, così varia, multiforme, incoercibile non  è nulla per loro. Tutto è grigio, e l’universo intero una  specie di ragnatela squallida senza confini né orizzonti,  eterna, in mezzo alla quale un ragno cerca di succhiare  una mosca alla quale Karl Marx ha insegnato che non  deve lasciarsi succhiare.   Così, nella guerra presente, che cosa importa se intere  nazioni difendono una civiltà che è la nostra, le libertà  conquistate — le idee stesse dei socialisti — contro i nemici  che sono gli stessi nemici dei socialisti? Per i compagni  di Filippo Turati non si tratta che della solita altalena dei  capitali sulle povere spalle del popolano e bisogna aste-  nersi. E parlo espressamente degli « ufficiali » ex cattedra,  giacché agli altri, a quelli del colloquio coll’emissario tede-  sco, dobbiamo l’atto forse più nobile e generoso che si sia  compiuto in Italia in quest'ora di straordinaria bassezza.    Il trionfo della merda    La cieca incoscienza dei socialisti ufficiali e l’untuosa  malafede dei cattolici alla Meda (ecco un uomo cui manca  indicibilmente l’erre!) si possono anche capire in un mo-  mento come questo, chi consideri la speciale mentalità  di codesti gruppi e la messa in giuoco violenta dei prin-  cipî e degli interessi di tutti.   I primi, i socialisti, non d'altro solleciti che di vuote  teoriche malamente idealistiche, non possono vedere nella  guerra se non un fatto inquietante, uno di quei fatti che afferrando tutto l’uomo ne mettono in mato ogni energia  vitale il che è sempre a scapito certo delle ideologie uni-  laterali, e credono l’'opporvisi con tutte le loro energie  una coerente difesa dell’« idea » mentre non si tratta in  fondo che di un semplice istinto di conservazione. I se-  condi, i cattolici, sanno benissimo che un nostro interven-  to nel conflitto attuale favorendo il trionfo di popoli tut-  t'altro che asserviti alla secolare imbecillaggine papale, si-  gnificherebbe un indebolimento considerevole della loro  compagine, e maschetano di prudenza pattiottica il loro  desiderio di vedere ancora l’Italia ribadir con la sua neu-  tralità incondizionata i vincoli che la fanno setva e com-  plice del bigottismo e dell’inciviltà eutopea.    Contro gli uni e gli altri, se si può usar del disprezzo,  non sarebbe dunque logico indignarsi. Ma c’è una massa  dei nostri connazionali che nessuna collera, nessuna abo-  minazione potrà mai bollate con l’infamia che merita la  sua straordinaria abbiezione. E' Ja massa oscura, anemica  informe degli irresponsabili, dei disamorati, degli abulici:  dei parassiti della società e della vita. Non vedendo nulla  più di là della lora piccola tranquillità presente, del loro  affare meschino, del loro affetto senza energia; rincantuc-  ciati nel loro buco momentaneo al sicuro dalla burrasca  che gli sgomenta soltanto a intravederla nelle corrispon-  denze del loro mediocre giornale, essi credono che nulla  possa essere più profittevole del prolungare, sia pure a co-  sto di ogni mortificazione, questo stato d’incolumità rumi-  nativa nell'ombra e in margine alla storia. Chè se domani  la preponderanza in Europa di una razza di pachidermi  violenti, chiusi a ogni luce di vera intelligenza, conculcherà  ogni espressione geniale di vita; se i popoli cui si lega una  comunanza di cultura, di ricordi e di tradizioni, saranno  mortificati e asserviti a un’etica da ingegnere belligero e  spia; se le nostre stesse fortune intellettuali, morali e ma-  teriali saranno manomesse e asservite, che cosa importa  a questi miopi sdraiati nella loro flaccidezza quietoviven-  te? A costoro importa che l’oggi sia senza strepiti e senza  pericoli, che il tran tran dell’esistenza seguiti: felici se l'Ita-  lia potrà uscire dal rotto della cuffia — e sia magari verso    64    l'abisso. Così nessuno si affida con più sicurezza di loro  alle decisioni del nostro governo. Il govetno italiano che  fino ad oggi s'è dimostrato come la quintessenza di questa  materia fiscale, perché non d -*ebbe divenirne anche la  stella fatale? L’ospizio degl lidi della Consulta è il  faro naturale di questa marea ».ercoraria che monta. Poi  ché essa monta, trionfando. Ogni giorno che passa nella  passività, ogni occasione perduta, ogni ambizione abdi-  cata, ogni nuova difficoltà creata servono ottimamente al  suo incremento e alla sua propagazione. Siamo già a  buon punto. Dopo aver impedito con tutto il suo peso ri-  pugnante ogni movimento, questa massa pestifera ha già  una voce per dire che muoversi ora è troppo tardi. An-  cora poche settimane e sarà forse vero, e tutti saremo  sommersi per sempre.   Amici! Noi abbiamo parlato e scritto: abbiamo propu-  gnato tutto il calore delle nostre anime per oppotci alla  vigliaccheria inaudita di una bella parte dei nostri con-  cittadini. Credo che il momento di una lotta più diretta e  dura stia per giungere. Le armi della mente e del cuore  stanno per esaurirsi. Bisognerà ricorrere alle altre, se non  vogliamo che l’Italia piombi al livello della più vergognosa  fra le nazioni. Un paese che abbia per scrittori dei Pao-  lieri e la Nazione come giornale ufficiale.    Arvenco SOFFICI  [da: Lacerba, n. 18, 15, settembre 1914; e n. 19, 1° ottobre 1914]    L'ORGOGLIO ITALIANO    Il 13 Ottobre, nella prima perlustrazione fatta da me  agli ordini del capitano Monticelli e del sergente Visconti  in terreno nemico, a 6 Km. dalle nostre trincee, fra le  alte roccie a picco, nelle boscaglie e nelle pietraie dell'A]  tissimo, dopo esserci incontrati con una pattuglia austria    65    ca che ci voltò le spalle e fuggì, constatammo con gioia  la superiorità enorme della nostra artiglieria, i cui tiri  meravigliosi, passando su di noi e sul lago, sostenevano la  nostra avanzata in Val di Ledro. Nella seconda perlustrazione fatta da  me, dai miei amici futuristi Boccioni e Sant'Elia e dal  pittot  Recci, esplorando e occupando la trincea delle Tre  Piante, constatammo con quale gioconda disinvoltura dei  giovani pittori e poeti italiani possano trasformarsi in  audaci, rudi, instacabili alpini.   Durante l'avanzata, l'assalto e la presa di Dosso Ca-  sina, compiuta dai Volontari ciclisti lombardi e da un  battaglione di alpini, vedemmo le truppe austriache sgo-  minate dalla baldanza di pochi italiani diciassettenni e  cinquantenni, non allenati alla guerra in montagna. Dopo  aver matciato per 7 giorni in un foltissimo nebbione, con  vestiti quasi estivi malgrado la temperatura di 15 gradi  sotto zero, i Volontari ciclisti pernacchiavano allegramen-  te alle migliaia di sbrapne!s prodigati loro da 5 forti austria-  ci. I nuovi raccoglitori di bossoli e di schegge micidiali  facevano finalmente dimenticare gli stupidissimi e senti-  mentali raccoglitori di edelweiss.   Constatammo che degl'italiani, già operai, impiegati o  borghesi sedentarii, sapevano vincere in astuzia qualsiasi  pattuglia di Kazserjigers. Constatammo che un corpo di  300 valontati ciclisti improvvisati alpini sapeva strategi-  camente manovrare su per montagne ignote, con tale abi  lità che il nemico si credette accerchiato da migliaia d’uo-  mini. Constatammo che uno studente italiano, trasforma-  to in ufficiale, può comandare tutta l'artiglieria d'una zona  e sfondare coi suoi tiri 6 o 7 forti austriaci, scientificamen-  te preparati alla difesa in 20 o 30 anni. Constatammo  come il popolo italiano, sotto la direzione geniale di Ca-  dorna, abbia saputo improvvisare in pochi mesi la prima  artiglieria dei mondo e vincere di continuo nella più spa-  ventosa e difficile guerra che sia mai stata combattuta.  Singhiozzammo di gioia all’udire dalla viva voce di 20 o 30  giornalisti esteri, quali Jean Carrère e Serge Basset, che l'esercito capace di vincere e di avanzare sul Carso è si-  curamente il primo esercito del mondo.   Dopo aver visto il popolo italiano, « il più mobile di  tutti i popoli », liberarsi futuristicamente, con una scrol-  lata di spalle, dalla lurida vecchia camicia di forza giolit-  tiana, vediamo ora nelle vie milanesi fervide di lavoro,  come il popolo italiano, che sembrava avvelenato di paci-  fismo, sa guardare con fierezza questa nobile, utile e igie-  nica profusione di sangue italiano.   Tutto questo ci conferma una volta di più che nessun  popolo può uguagliare:   1. - il genio creatore del popolo italiano;   2. - l'elasticità improvvisatrice di cui sempre danno  prova gl’italiani;   3. - la forza, l’agilità e la resistenza fisica degl'’italiani;   4. - l'impeto, la violenza e l’accanimento con cui gli  italiani sanno combattere:   la pazienza, il metodo e il calcolo degl'italiani nel  fare una guetra;    6. - il firismo e la nobiltà morale della nazione italiana  nel nutrirla di sangue o denaro. ITALIANI! Voi dovete costruire l'Orgoglio italiano  sulla indiscutibile superiorità del popolo italiano în tutto.  Questo orgoglio fu uno dei principii essenziali dei nostri  manifesti futuristi dall’origine del nostto Movimento, cioè  da 6 anni fa, quando primi e soli (mentre l’irredentismo  agonizzava e il partito Nazionalista non era ancora nato)  invocammo violentemente, nei teatri e sulle piazze, la guer-  ra come unica igiene, unica morale educatrice, unico velo-  ce motore di progresso.   Eravamo allora sicuri di vincere l’Austria e di centu-  plicare il nostro valote e il nostro prestigio vincendola.  Eravamo soli convinti della prossima conflagrazione gene-  rale, che tutti giudicavano impossibile in nome di due  pseudo-fatalità: lo sciopero delle Banche e lo sciopero dei  proletariati. Eravamo convinti che coll’Inghilterra, la Fran-  cia, la Russia, noi dovevamo utilizzare le nostre inesauribili  forze di razza e il nostro genio improvvisatare, collabo-    67    rando allo strangolamento del teutonismo, fatto di balor-  daggine medioevale, di preparazione meticolosa e d’ogni  pedanteria professorale.   Apparve allora il mio Monoplan du Pape, visione pro-  fetica della nostra vittoriosa guerra contro l’Austria. Infat-  ti noi soli fummo profetici ed ispirati, perché, più giovani  di tutti, più poeti, più imprudenti, più lontani dalla poli-  tica opporttunistica e quietista, traemmo la visione del fu-  turo dal nostro temperamento formidabile, e pur consta-  tando intorno a noi la vecchia mediocrità italiana, credem-  mo fermamente nell’avvenite grande dell’Italia, semplice-  mente perché noi futuristi eravamo Italiani.    ITALIANI! Voi dovete manifestare dovunque questo  orgoglio italiano e imporlo in Italia e all'estero colla pa-  rola e colla violenza, come facemmo noi in Francia, nel  Belgio, in Russia, nelle nostre numerose conferenze bat-  tagliere.   Merita schiaffi, pugni e fucilate nella schiena l'italiano  che non si manifesta spavaldamente orgoglioso d’essere  italiano e convinto che l'Italia è destinata a dominare il  mondo col genio creatore della sua arte e la potenza del  suo esercito impareggiabile.   Merita schiaffi, pugni e fucilate nella schiena l'italiano  che manifesta in sé la più piccola traccia del vecchio pes-  simismo imbecille, denigratore e straccione che bha carat-  terizzata la vecchia Italia ormai sepolta, la vecchia Italia  di mediocristi antimilitari (tipo Giolitti), di professori pa-  cifisti (tipa Benedetto Croce, Claudio Treves, Entico Ferti,  Filippo Turati), di archeologhi, di eruditi, di poeti nostal-  gici, di conservatori di musei, di albergatori, di topi di  biblioteche e di città morte, tutti neutralisti e vigliacchi,  che noi, primi e soli in Italia, abbiamo denunciati, vilipesi  come nemici della patria, e veramente frustati con abbon-  danti e continue doccie di sputi.    Merita schiaffi, calci e fucilate nella schiena l’artista  o il pensatore italiano che si nasconde sotto il suo inge-  gno come fa lo struzzo sotto le sue penne di lusso e non  sa identificare il proprio cotgoglio coll’orgoglio militare  della sua razza. Merita schiaffi, calci e fucilate nella schiena l’artista o il pensatore italiano che vernicia di scuse la  sua viltà, dimenticando che creazione artistica è sinonimo  di eroismo morale e fisico. Merita schiaffi, calci e fucila-  re nella schiena l'artista o il pensatore italiano che, fisica-  mente valido, dimostrando la più assoluta assenza di va-  lore umano, si chiude nell’arte come in un sanatorio o in  un lazzaretto di colerosi e non offre la sua vita per ingi-  gantire l’Orgoglio italiano.   Mentre altri futuristi fanno il loro dovere nell’esercito  regolate, noi futuristi volontari del Battaglione lombardo,  dopo essere stati semplici soldati in 6 mesi di guerra, ed  aver preso cogli alpini la posizione austriaca di Dosso  Casina, aspettiamo ansiosamente il piacere di ritornare al  fuoco in altri corpi, poiché siamo più che mai convinti che  alle brevi parole devono subito seguire i pronti, fulminei  e decisivi fatti. La sensibilità e l'acume politico « d'avanguardia »  dei futuristi non potevano rimanere indifferenti di fron-  te ai loro avversari 0 alla «controparte » dell'avanguar-  dia, quella socialista. La reciprocità dell'opposizione al  potere liberalborghese, a « passatista» per dirla alla  Marinetti, era motivo di accostamento, forse, 0 per lo  meno di attenzione da ambo le parti. E sappiamo dal  De Felice che molti « proletari » o esponenti dei ceti  umili osservavano con attenzione e seguivano il movi  mento di Martinetti con calore di simpatia.    Marîo Carli, fra i più sensibili esponenti certo del  futurismo «d'assalto », si accorge della presenza di ele-  menti comuni nelle avanguardie, e lancia un appello da  Roma futurista # 13 /uglio del ’19 nel tentativo forse  di un avvicinamento. L'avvertimento della necessità di  rovesciare la classe dirigente corrotta e impreparata of-  fre una base comune all'intento di collaborazione per  il sostegno del proletariato, operaio od ex combattente  che sia. La polemica continua sulla stessa testata, nel  numero del 92 novembre dello stesso anno con un arti  colo di Giuseppe Bottai dal titolo Futurismo contro  Socialismo. L'immpossibilità di collaborazione è già vista  dal Bottai con tutta la sua evidenza, ed è vista per  ragioni squisitamente ideologiche, rifacentesi gi presup-  posti filosofici del socialismo e del socialismo italiano,  in particolare. Il 14 dicembre ancora del ’19, entra  nella polemica un socialista, certo Moannarese, cui ven-  gono aperte le colonne di Roma futurista @ fargli so-  stenere più o meno la stessa tesi di Bottai, anche se  vista da angolazione marxista, dogmatica e inequivoca  bile. L’impossibilità della collaborazione è data dalla  ostrattezza del futurismo secondo Manmarese, e dal suo  scarso od insufficientemente risaltante contenuto sociale,  che esula dall'unico e imprescindibile metodo possibile:  quello della lotta di classe. L'ultima battuta è ancora  del Bottai ed esce la settimana dopo, sul numero del  21 dicembre ‘19 dello stesso periodico. La puntualizza  zione degli argomenti e la precisazione dei temi e delle  tesi di pensiero son lutte protese a dimostrare lo sin-  cerità filo-popolare del futurismo e la falsità democra-  tica del socialismo per cui è quasi necessario essere  contro il socialismo, ed indispensabile, se si ama il po-  polo italiano, quello dei proletari arditi con cui anche  Bottai aveva combattuto nelle trincee al fronte della  prima guerra. « Noi siamo per l'elevazione del popolo,  e non per l'assolutismo demagogico di esto», sottoli  neava l'autore, concludendo a grandi caratteri « Contro  il socialismo non vuol dire contro il proletariato ». Ho esaminato seriamente l'ipotesi di una collaborazione  fra noi (futuristi, arditi, fascisti, combattenti, ecc.) e i  Partiti cosiddetti d'avanguardia: socialisti ufficiali, rifor-  misti, sindacalisti, repubblicani.   A parte il fatto che, in realtà, essi siano assai meno  precursori ed audaci di quanto a parale vogliano far cre-  dere, io mi sono preoccupato esclusivamente di cercare  il terreno comune nel quale si possa, noi e loro, associa-  re gli sforzi e marciare d'intesa verso lo stesso obiettivo.   Il terreno comune c'è. Ed è quanto di più nobile e  attraente possa offrirsi a degli spiriti sinceramente aman-  ti del progresso e della libertà. E' la lotta contro le at-  tuali classi dirigenti, grette, incapaci e disoneste, si chia-  mino borghesia o plutocrazia o pescecanismo o parlamen-  tarismo. Non è possibile lasciar loro più oltre la potenza  del denaro e il potere governativo e amministrativo; sono  una casta che deve cadere e cadrà. E’ questa caduta che  noi dobbiamo affrettare, con tutti i mezzi e con tutte le  fotze disponibili.   Or ora, l'esperimento del « caro-viveri » in tante città  d’Italia, ci ammonisce che di fronte a problemi gravi e  pressanti, non c’è odio di parte né antipatia sentimentale  che tenga. Noi possiamo ben dare (e l'abbiamo data) una  valida mano ai pussisti per impedire che il popolo sia  affamato. Non pottebbero i socialisti vedere nel nostro  gesto disinteressato e leale una prova della nostra sim-  patia per il popolo, si chiami combattente o si chiami  operaio, e riconoscere che la nostra azione tende, quanto  e più forse della loro, ad equiparare le classi sociali?   Esiste un Marifesto del Partito Futurista, ed un libro  di Marinetti dal titolo « Democrazia futurista », dove è  condensato quanto di più moderno, di più progredito,  di più spregiudicato, di più audace e rivoluzionario si  può oggi pensare nel campo politico. Ma i partiti pseudo-    75    avanguardisti e pseudo-rivoluzionari ostentano di ignora.  re e manifesto e libro, né mai hanno fatto il più timido  gesto di simpatia o d'interesse verso idee o remperamenti  ai quali dovrebbero sentirsi attratti per istinto! Perché?  Eppure noi siamo libertari quanto gli anarchici, demo-  cratici quanto i socialisti, repubblicani quanto i repubbli-  cani più accesi.   Si tratta dunque di mala fede? Pare di sì, perché, se  non fossero in mala fede, costoro dovrebbero inginoc-  chiarsi davanti a noi e chiamarci come loro capi. Se la  loro lotta politica fosse sincera e convinta (parlo special  mente dei pussisti), dovrebbero ammirate senza riserve  il nostro spirito rivoluzionario che, dopo aver schiantato  quella fetida cancrena del passatismo europeo che si chia-  mava Impero d’Asburgo e contribuito a umiliare il tra-  cotante militarismo tedesco, vuole oggi demolire a colpi  di bomba i vecchi sistemi, i regimi decrepiti, i focolai di  putredine che costituiscono la grande cloaca politica ita-  liana.   Se fossero in buona fede, dovrebbero riconoscere che  noi soli, uomini di guerra che non ignoriamo il piombo  e l’acciaio laceratore di carni, sapremo, a tempo debito,  scatenare e condurre una rivoluzione, non già dal Quartier  Generale di una qualsiasi Camera del Lavoro, ma alla  testa delle moltitudini in marcia.   Se fossero in buona fede, sapete che cosa dovrebbero  dire questi organizzatori di masse a scopi elettorali? Ci  direbbero — Venite qua, futuristi, arditi, fascisti, com-  battenti tutti: voi che siete più rivoluzionati di noi, più  audaci di noi, più liberi di noi, voi che amate il popolo  più sinceramente di noi! Venite qua, uomini d'azione e  di comando: a voi il guidare le masse verso la libertà e  la ricchezza! a voi il rovesciare i vecchi sistemi, i vecchi  dogmi e le vecchie tirannidi! noi ci ritiriamo nei ranghi.    Perché non lo fanno?    Perché questi falsi socialisti che scrivono in giornali  luridamente borghesi come Il! Tempo e La Stampa, per  ché pagano bene, si sfiatano a chiamarci reazionari della  borghesia, carabinieri più dei carabinieri, a diffamarci imbecillescamente? Perché hanno respirato di soddisfazione al-  l'avvento del reazionarissimo gabinetto Nitti e complici?   Perché hanno lanciato dalle colonne dell’Avanti pochi  giorni fa, un grido d'amote alla censura che se n’andava,  promettendole di richiamarla con tutti gli onori non ap-  pena il socialismo ufficiale fosse salito al potere?   Perché tentano di far credere ai soldati che gli uf-  ficiali combattenti costituiscono una « casta » borghese,  quando i soldati ricordano ancora il loro tenentino che  in trincea si adagiava nello stessa fango, mangiava nella  stessa gavetta, correva gli stessi rischi, buscava le stesse  ferite, come ciascuno di loto?   Perché non si decidono a riconoscere che la guerra  ha liberato il mondo dall'incubo dell'imperialismo germa-  nico e ha impresso alle conquiste ideali e materiali dei  popoli un ritmo di fantastica velocità, che, senza di essa,  non si sarebbe neppure sognato?   Perché seguitano a confondere guerra rivoluzionaria  con militarismo, socialismo con bolscevismo, popolo con  pagliacci tesserati?   Perché combattono gli Arditi, che pure sono usciti  dal popolo, e del popolo rappresentano la parte più vi-  gorosa e combattiva?   Perché si ostinano a ripetere con tediosa monotonia  che la guerra è stata voluta dalla borghesia, attribuendo  dunque a questa classe un vanto che certo non le spetta?   Ho lanciato l’invito.   Ho mostrato ai nostti avversari il terreno sul quale  potremmo intenderci, e le pregiudiziali antipatiche che  c’'impediscono un avvicinamento.   Sapranno essi spogliarsi di queste pregiudiziali che  sono altrettanti errori gravissimi?   Sapranno a loro volta dirci una patola onesta e schiet-  ta di simpatia disinteressata? Se capiranno che è assurdo  e bestiale continuare una campagna diffamatoria contro  una guerra che si è chiusa vittoriosamente e che, malgrado  tutto, ha giovato enormemente al proletariato, se capi-  ranno che noi pur amando fieramente l'Italia, non abbia-  mo nulla a che fare con i nazionalisti reazionari, codini    Fb)       e clericali, essi ci tenderanno la mano e ci aiuteranno a  spezzare tutte le schiavitù che ancora ci sovrastano.  Dopo, potremo tornare a divorarci, se sarà necessario.    Marro CARLI  {da: Roma futurista, 13 luglio 1919)  Bisogno, ad ogni sosta, di guardare attorno. Vedere  un po' come va la vita, la cui visione precisa, a volte,  si perde nel martellamento sanguigno della lotta. Misu-  rare i compagni e gli avversari. Riprendere le distanze.   Ci teniamo molto, via via che più si ingarbuglia il  fascio di forze e di tendenze del mondo politico italiano,  a rittovare i nostri contorni. Pulirli. Indurirli sì che si  rimbalzi sopra qualunque tentativo di penetrazione im-  pura.   La lotta di partiti, nel suo svolgimento poco netto,  si traduce rispetto a noi futuristi, assertori del predomi.  nio della genialità italiana, in un lavoro di isolamento.  Le scorie cadono. La marcia viene schizzata via dalle  contrazioni atletiche della nostra carne sana.   Solitudine splendida.   Nella costituzione organica dei vari aggregati di parte  noi siamo il cetvello possente che domina, e comanda  alle tre membra funzioni del tutto subordinate. In questa  immagine somatica, il partito socialista ufficiale rappre-  senta, rispetto a noi, l'intestino retto, maceratore e scari-  catore d'ogni feccia.   Un compito troppo importante, come bene ha detto  l’amico Settimelli, per poterlo disprezzare. Ci vuole.   Solamente è bene che non si dimentichi mai la sua  posizione assolutamente accessoria.   La nostra antipatia per il socialismo in genere, pet    76       il socialismo italiano in particolare, ha delle ragioni pro-  fonde balzanti dall'istinto della nostra razza di cui noi  siamo i rappresentanti più interiori, con tutti i suoi di-  fetti se si vuole, ma anche con tutte, t44te, le sue doti  di energia, di intelligenza, di ardimento. E distinguiamo  ciò che sempre si può giustificare nel quadro infinito della  vita, l'idea, da ciò che, appunto perché nella vita, si ha  il dovere di discutere e di espellere, quando ne arresti  il libero svolgimento.   Idee e uomini.   Socialismo e socialisti italiani.   Noi siamo contro il socialismo perché astrazione fi-  losofica senza possibilità di contatti vitali. Simbolo che  si agita nel mondo da secoli, e di cui mai si è trovata,  e mai si troverà la formula di traduzione in positivi svi-  luppi di masse sociali. Meditazioni di uomini respinti  dalla vita calda e vibrante, per un ingranaggio disgraziato  della loro mente incapace di aderire alla bellezza appas  sionante del mondo.   La riforma che l'idee socialiste propugnano, non na-  sce da noi, dalla nostra maniera di essere, dalla nostra  natura di uomini, dal nostro modo di riunirci e dividerci.  Cala dall'alto, da cieli metafisici. Ha l’impotenza caratte-  ristica di tutte le religioni meditate, ragionate, logiche,  e non create dallo slancio lirico di un'anima d'uomo.   Marx ed Engels hanno costituito delle sopra realtà  gigantesche che tutti hanno dichiarato magnifiche, ma  che nessuno ha avuto il coraggio di criticare, appunto  perché la critica umana non si può esercitare su delle con-  cezioni prive di umanità.   Boris d’Ysckull, uno di quei mistici slavi capaci di  bere ogni miscela più insipida, ha confessato di non aver  mai compreso quasi niente di simili esposizioni domma-  tiche, e di essere stato attirato solo per la loro oscurità  affascinante. Chi, italiano, può così rinunziare alla vulca-  nica e solate natura da itrigidirsi in questi mondi sen-  z'aria, non può che trovarsi nell’identica posizione del-  l’illustre imbecille  surricordato. Le prime utopie della  Città, mantenentesi allo studio di immaginose e dilettose    15;       invenzioni nei primitivi — Platone, Tommaso Moro  Campanella — passando a peggior vita nelle scatole cra.  niche dei tedeschi, si sono meccanizzate in modo da di  venire delle cose perfettamente anti-geniali, anti-latine e,  soprattutto anti-italiane.   Noi fututisti, che abbiamo violentato il vuoto e so-  gnante torpore italiano riempiendolo di idealità fatte di  vita, intessute di nervi sensibili, calde di sangue rossis-  simo, vogliamo una penetrazione a fondo nel blocco psi-  cologico della nazione: ivi è la direttiva unica delle tra-  sformazioni che il nostro destino esige.   Noi siamo contro l’idea socialista perché sosteniamo  la necessità della diseduguaglianza. Diseduguaglianza di  valori, che bisogna esaltate, lievitare, mantenere ad ogni  costo. Un piano uguale di esistenza, una distribuzione ar-  monica dei beni, una soppressione assoluta di privilegi  — ma su questo livellamento di condizioni materiali  l’esplicarsi diverso, individualissimo delle singole capacità.   II socialismo, pretendendo distruggere la molteplicità  innata di un popolo non può, in via logica, che discen-  dere dalla nazione alla città alla famiglia, dalla famiglia  all'individuo, e quindi alla creazione di tanti individui  identici, a stampo, senza differenze di tipi. Il comunismo,  ch'è la forma più in voga, non può tradursi, a meno di  negatsi, che in un monismo esasperante, monotono e inerte.   La Russia ce ne dà la prova: la massa oppone al ten-  tativo di numerazione, che offre appena una pallida idea,  per il carattere più pacato e passivo di quel popolo, di  ciò che avverrebbe da noi.   L'Italia è tutta un magnifico inno di incoerenza, dal  l'Alpi alla Sicilia. Follemente varia. Ogni provincia un  mondo. Popolazioni dolci come le sue pianure, laboriose  come i suoi fiumi, divampanti come i suoi vulcani.   Noi non possiamo pensare che tutto ciò si riduca a  un uniforme impasto. Noi futuristi opponiamo la neces-  sità assoluta di un decentramento che mantenga, esalti,  vivifichi fino al culmine ogni caratteristica, ogni genialità,  ogni attitudine delle singole regioni: l’unità italiana sarà  allora una valorizzazione completa di sufta i'Ttalia.    78    Siamo contto il socialismo perché idea generatrice di  vigliaccheria. Della gente che riuscisse davvero ad attuare  la distribuzione economica dello Stato socialista, dovreb-  be basarsi su un concetto di mutualità cooperativistica.   Cooperativa a mutuo soccorso vuol dire la sicurezza  matematica di non rimaner mai al verde quindi abolita  ogni situazione di Jotta, reso campletamente inutile lo  sviluppo e il gusto del rischio. Spatizione di coraggio.   Se ciò è immaginabile su piccola scala, perché gli ef-  fetti malefici sarebbero ridotti così al minimo da essere  cancellati dai vantaggi, non si può pensare cosa sarebbe  mai una nazione sottoposta a tale regime, soppressa ogni  difficoltà di cartiera, butocratizzata Ja conquista della vita,  scomparso ogni pericolo, ogni ansia, ogni tensione.   Non trovando nulla di vario nei suoi sirzili, non tro-  vando nulla di divertente nella sua esistenza logica, a ore,  a mansioni fisse, l'uomo socialista finirebbe col rientrare  in sé stesso. Cercare in sé l'interesse che il mondo non  gli offre. Alla forza di diffusione dei popoli geniali, si  sostituirebbe quella di egoismo egocentrico dei popoli cal  colatori.   Da simili mondi la generosità fugge taccapricciata, non  può distribuire i suoi insegnamenti di grandezza: è come  andare a vendere ombrelli in un paese dove non piove  mai — a che serve esser generosi con della gente che è  tutto misurato, tutto il necessario?...   La morale che tali ambienti possono produtre è ma-  rale di egoismo e di vigliaccheria.   Noi opponiamo la morale della generosità, lucidamen-  te affermata da Balilla Pratella, quotidianamente da noi  vissuta in una dedizione senza calcolo, in una aderenza  spontanea e intellipente alle tramutanti necessità della  Patria.    Queste le tre ragioni fondamentali che ci dividono  dal socialismo — idea —: la astrazione filosofica e inu-  mana della formula, la sua azione di parificazione moni-  stica, la derivazione logica di antigenerosità = vigliac-  cheria, egoismo. Altre ragioni particolari ci sono, che ci porterebbero  ad una disanima troppo lunga — ragioni, del resto, che  non sono specifiche della nostra differenza dal socialismo,  ma che possono essere anche di altri partiti. Esempi:  l'assurdità della soppressione dello Stato come potere cen-  trale, la sciocca concezione di una pace eterna, ecc. ecc.    * o *    I socialisti italiani.   Sono, indubbiamente, dei buoni socialisti perché han-  no già, in pieno regime borghese lo stadio mentale senza  calore e senza colore del socialista di domani. Non sen-  tiamo il bisogno di spenderci molte parole, né di pas-  sarli in rivista uno ad uno.    Dirigenti: dittatura di vomini che hanno la mira pre-  cisa di diventare qualche cosa, un'autorità, una persona  importante. Non c'è tra loro neppure un mistico esaltato  che interessi. Calcolatori. Cinici.    Seguaci: massa la cuì concezione più alta è questa:  bisogna distruggere il caroviveri. Gente che cerca di met-  tersi a posto. Invidia il horghese, quindi ha desiderio di  divenire il borghese.   Le loto qualità principali sono:    inintelligenza: non hanno ancora capito che il sociali  smo è diverso da popolo a popolo: commerciale  nel-  l'America del Nord, conservatore in Inghilterra, filosofico  in Germania, mistico in Russia. Non hanno capito che il  socialismo in Italia può, caso mai, balzare dalle nostre  istituzioni rurali;   inattualità: sano coerenti in una maniera fantastica,  tant'è vero che le idee invecchiano e loto seguitano ad  usarle. Credono d’essere all'avanguardia, e lo sono come  il gambero, il cui traguardo è sempre alle spalle, dietro:   vigliaccheria: oltre la vigliaccheria propria della idea  hanno una viltà tutta propria, personalissima, originale:  inutile parlarne: chi interviene ai comizi elettorali ne sa  qualcosa.    Il futurismo è il mondo più lontano dal socialismo.    80    Il futurismo è veramente il senso di una religione  nuova, che si dirige alle anime, agli spiriti, ai cervelli,  e non si interessa del corpo che per fortificarne i muscoli,  farne strumento di agilità audacissime e di voluttà sane.   Generato dal cervello di un attista ha tutta l'umanità  di una idea italiana, sempre profumata di buona terra fer-  tile anche quando si esalti fino ai più puri orizzonti.   Attività poliedrica, il futurismo è lo sfruttamento com-  pleto di tutte le penialità italiane, manuali e cerebrali.  Ridarà all'Italia i suoi magnifici artieri, maestri d'ogni  sotta di lavoro, come lo à dato e lo darà ai suoi artisti  più grandi. I suoi vomini non hanno deficienza: danno  la loro vita in una proteiforme attività prodigiosa. Poeti  e soldati, sogno e vigilanza, idea e azione.   Non c’è possibilità di contatto tra la nostra morale  e quella socialista, tra i nostri uomini e i loro.   E’ assurdo ogni pensiero di collaborazione.   FUTURISMO CONTRO SOCIALISMO. SEMPRE A  QUALUNQUE COSTO!   GiusePPE BOTTAI  {[da: Roma futurista.Noi e i borghesi    Non una polemica, ma una discussione calma e pa-  cata. Polemica no, per non arrivare fino a quella anima-  zione un po’ acre e impetuosa, che annebbia le idee e  deforma la realtà.   Ci tengo, a questa dichiarazione preliminare, perché  l'amico Mannarese, nel suo lucido articolo, pur mante-  nendosi in una linea di cortese serenità, devia in punta-  tine ironiche, che non èànno ragione di essere, se vera-    81       mente egli ci vuole aiutare, nella demarcazione esatta della  nostra individualità politica.   Trovo ad esempio molto strano, per un futurista, l'os-  servarsi che la mia formula (adopto la parola formula,  per attenermi alla dizione dell'amico, per quanto essa ab-  bia un senso storico, che mi ripugna) abbia potuto rin-  galluzzir di saverchio, con la sua violenza: “futurismo con-  tro sociglismo, sempre, a qualungue costo” qualche buon  borghesetto. Questo non mi preoccupa, e direi, anzi non  ci preoccupa. Noi esprimiamo liberamente le nostre idee,  le gettiamo nel mondo, tta la gente; e i casi sono due,  come sempre: o la gente non le capisce e allora non c’è  nulla da fare: o le capisce, le approva, ci si interessa, c  le apprezza nel giusto valore, e allora poco ci importa  che tale gente sia proletaria o borghese, destra o sinistra,  e, anche, ambidestra.   Noi non sosterremo mai, com'un certo avvocatino di  nostra conoscenza fece in una recente seduta del Fascio  di Combattimento romano, che la guerra ha distrutto agni  distinzione tra destra e sinistra; ma non vogliamo di tali  logiche e necessarie e salutari differenziazioni (?) fare il  nostro spaventacchio. Chè, pet questa via, si giunge alla  grossolana affermazione di Adriano Tilgher (Tempo, 7  dic., pag. 3, Piccoli borghesi al bivio): essere il furore  antisocialista degli atditi originato dall’appartenere costo-  ro, quasi tutti alle classi medie; e pensare che in parec-  chi mesi di convivenza con le fiamme nere mi son trovati  attorno solo contadini, operai, lavoratori-proletari!   Prima caratteristica del futurismo, è questa, libera,  sciolta sfrenata spregiudicatezza: e se il salumaio ci crede  oggi difensori dei suoi salami, delle sue salsicce, poco ma-  le! ciò potrà darci la prova della sua minchioneria, non  già infirmate l’esattezza del grido « futurismo contro so-  cialismo ».    Socialismo non è proletariato    L’amico Mannarese fa un’identificazione  pericolosissi-  ma, e non rispondente alla realtà positiva dei fatti. Egli    82       pone sullo stesso piano socialismo e proletariato, stabili-  sce senz'altro questa identità matematica: socialismo = pro-  letariato.   Ciò spiega perché tanto si accanisca contto la finale  del mio articolo. Alle parole « contro socialismo, sempre  a qualunque costo » è dato il valore di un'affermazione di  questo genere: « contro le aspirazioni del popolo, contro  i diritti dei poveri, ecc., ecc... ».   Orta, mi ribello assolutamente. Non in nome mio sol  tanto, ma di tutti i futnristi, e anche, di tutti i nostri  amici fascisti.   Distinguere bisogna.   Una cosa è quello che l'amico chiama: «/o sforzo vio-  lento, l’oscura irresistibile aspirazione della massa verso  un regime di maggior giustizia economica » e un'altra cosa  è il socialismo. Le aspirazioni proletatie sono fatto imma-  nente, istintivo, fatale, non pensato ma sorto da sé, il so-  cialismo è uno dei tanti sistemi, i quali, da che il mondo  è mondo, si accaniscono sulla disparità di condizioni delle  classi.   Se io mi pongo contro il socialismo o contro i socia-  listi, mi dichiaro contrario ad un sistema filosofico, giu-  ridico, economico, morale ed ai suoi sostenitori (filosofi,  demagoghi e procaccianti che siano), ma non è detto ch’io  voglia attaccare l’oggetto di tale sistema che è il prole-  tariato.   Non debbo, quindi, rettificare in nulla la mia incri-  minata frase, ch'era un grido, un appello conclusivo del  mio articolo, limitatosi ad una valutazione di idee, e non  aveva la pretesa d’essere un caposaldo, un domma, un  punto cardinale, ed altri simili paroloni che noi lasciamo  agli oratori da comizio.   L'affermazione: « Noi non siamo contro il socialismo,  ma contro gli uomini, i metodi e la filosofia socialista »  del Mannarese è un non-senso, perché appunto: socialismo  è flosofia sostenuta da wormini con determinati metodi.   Quella che il Mannarese chiama sostanza (eh! queste  parole che otribili titi giuocavano, a volte) ossia: «la  guerra per l'indipendenza economica dei poveri contro i    R3       ricchi » non è privativa assoluta del socialismo, è solo  l'obiettivo dei suoi studi, dei suoi tentativi, come essa  fu obbietto della favola di Menenio Agrippa, e delle  teorie di Fenelon, e della scuola di Saint Simon, e del  sistema di Grace Baboeuf e Roberto Qwen, e così pure  della filosofia di Marx ed Engels. Anche il nazionalismo,  anche il partito popolare, tutti anno affermazioni solenni:  « qui è l'unico infallibile specifico per il dolore del po-  palo » e io posso essere contro questi modi da cerratani  senza mai essere né contro il popolo né contro le sue  sacre e legittime aspirazioni economiche    I programmi economici    All'amico Mannarese è forse sfuggito nel mio articolo  questo periodo: « Un piano eguale di esistenza, una di-  stribuzione armonica di beni, una soppressione assoluta di  privilegi ma su questo livellamento di condizioni mate-  viali l’esplicarsi diverso, individualissimo delle singole ca-  pacità ».   Qui, evidentemente, si dice:  « noi passiamo essere  d'accordo nelle finalità economiche del socialismo ». Quelle  tre proposizioni del programma politico futurista di Ma-  tinetti, Carli e Sertimelli, che il Mannarese dice troppo  generiche, anno il merito di poter domani assorbire in sé,  senza contrasto, qualunque ardimento consono allo spi-  rito dei tempi.   Hanno un’intenzione pragmatista, che non deve sfug-  gite.   Il programma di riforme economiche, lanciato ai po-  poli come panacèa, è cosa vecchia di tutti i tempi e di  tutte le genti. Ogni scuola politica è per prima cosa inal-  berata questa insegna molto attraente. Tutti i programmi  ben definiti, schematizzati, rigidi, anno sempre atteso,  con grande pazienza, che le cose del mando si incanalas-  sero ne’ fossati, canali e zenelle da loro tracciati, ma le  cose del mondo anno dimostrato, a lume di storia, di  procedere per via di approssimazioni successive, le quali  avvengono non già pet magnetizzazione esetcitata cai suddetti programmi, ma per madificazioni addotte, nel blocco  fisiopsicologico di una collettività, dal sistema di educa-  zione, dalle idee di morale circolanti, dalla rinnovatasi  coscienza giuridico-sociale.   Se oggi, per ragioni ovvie, il problema economico è  venuto in primo piano, non bisogna dimenticare che la  parte veramente essenziale di un sistema politico non è  già il disegno di un futura assestamento economico, ma  è il metodo con cui saprà, attraverso uno studio positivo  dello stato presente e dei caratteri permanenti della so-  cietà in genere (meglio ancora di una data parte di so-  cietà) creare tutt'un’atmosfera spirituale intellettuale psi-  cologica, che renda possibile l’attuazione di quel dato or-  dinamento economico, che nel momento è bene limitarsi  a definire desiderabile.   I socialisti italiani sanno che il popolo italiano non  à neppure iniziata l'evoluzione sociale che permetta l’av-  vento, ad esempio, del comunismo. Ora essi, scavalcando  completamente ogni lavoro di educazione, sventagliano i  loro proclami di rivendicazioni economiche. Il popolo  risponde, è naturale: è Bengodi con i suoi meravigliosi  panorami. Ma ciò non significa aver creata una società  comunista, come non è fare un signore aristocratico d'un  villanzone qualsiasi il riempirgli le tasche di denaro.   Sotto il punto di vista della potenzialità vera di un  partito il valore di tali programmi è nullo. Hanno un  valore pratico di specchietto per gli allocchi, e se l'amico  Mannarese ci avesse detto che, abbondando gli allocchi,  è bene ch’anche noi abbiamo il nostro specchietto, gli  avremmo dato piena ragione.    Il nuovo imperialismo    Non ci deve, quindi, affligere di soverchio, la man-  canza di formulazioni teoriche, di programmi economici.  Noi futuristi non siamo mai stati assenti quando questio-  ni positive siano in tal senso nate. Né il trionfo socialista  deve farci perder la resta così da correr subito ai ripari.  No. La nostra posizione è netta, e possiamo guardarci    85    tranquillamente intorno: il germe della morte del socia-  lismo è appunto localizzato nel suo sistema di rivendica-  zioni economiche, aggravato dal fatto di essete così iso-  lato da ogni altra considerazione d'ordine superiore da  divenire il segno folle di un nuovo imperialismo.    Non è possibile nessun contatto tra due sistemi così  opposti come sono quello socialista e quello futurista.   E’ l’anima differente.   E' il cervello diverso.    Se anche noi potessimo conglobare per intero nel no-  stro ordine di idee ogni aspirazione economica del socia-  lismo, rimarrebbe la differenza profonda, incancellabile di  indole, di origine e di finalità.   Noi siamo per l'elevazione del popolo, e non pet l’as-  solutismo demagogico di essa.    Tirando le somme    E riassumiamo, perché la discussione non rimanga uno  sterile battibecco. L'amico Mannarese m’à offerto il modo  di delineare meglio la nostra situazione innanzi al socia.  lismo:    1) posizione di ostilità per indole spirituale diversa;    2) possibile comunanza di vedute economiche: il che  non implica nessuna fusione;    3) condivisione di alcune idee (come ad esempio il  divorzio ecc. ecc.) che non sono prerogativa socialista, €  che non possono, quindi, render omogenee due sostanze  diverse. CONTRO IL SOCIALISMO NON VUOL DIRE  CONTRO IL PROLETARIATO.   GiusePPE BOTTAI   [da: Roma futurista, 21 dicembre 1919]   La lentezza delle democrazie, le pastoie burocrati  che dei procedimenti parlamentari. il vecchiume paro-  laio dei barbuti senatori non possono essere ben visti  dai futuristi. La velocità, il dinamismo, la lotta, la  competizione, l’azione mal si addicono agli organismi  pingui e sclerotici delle democrazie, quella italiana in  particolare. Già nel 1910 Marinetti lo mette in rilie-  vo ed indica nel suo manifesto «Contro l'amore e 3  parlamentarismo », sintomo ed espressione di questa  sua antipatia e di guesta sua avversione Persino l'amo-  re e le donne in senso romantico sono indici e stru  menti di « rallentamento », e come tali da evitare tran-  ne che per una loro ben precisa ed organica funzione  vitale. Le donne andrebbero invece bene pei parlamen  ti, dove dovrebbero entrare con le loro chiacchiere e  la loro prodigiosa e altisonante facoltà di falsificazione.   Ma non è solo Marinetti a inveire contro il parla  mentarismo: c'è Tavolato che uddirittura « bestemmia  contro la democrazia » in un suo articolo apparso con  questo titolo su Lacerba del 1° febbraio 1914, ricco di  espressione e carico di colore linguistico e letterario.  I 30 dicembre dello stesso anno un altro futurista,  Volt, tuona dalle colonne di Roma fututista: Abolia-  mo il parlamento! In sua sostituzione si propongonna le  rappresentanze dei sindacati per la formazione dello  «Stato tecnico » futurista. E si entra nel merito della  personalità giuridica dei sindacati e della loro forza rap-  presentativa in base all'importanza della loro funzione  economica. Non in base numerica, per cui si rientrereb-  be nella concezione democratico-parlamentare. Non più  onorevoli quindi sulle assise delle due camere, ma la-  voratori. E sono tutti concetti che ritroveremo nella  concezione corporativa fascista e nella suu Carta del  Lavoro   Dopo la guerra Marinetti intervtene su Roma futu-  rista mel maggio del '19 per ribadire la sua.« concezione  futurista della democrazia », come s'intitola il suo scrit-  to, che era già apparso um mese prima, più 0 mena  analogo, su L'Ardito. Vi si sostiene la democrazia tipi  camente italiana dei geni: una sorta di minoranze di  individui superiori alla media, destinati a entrare. in  competizione con le altre, definite democrazie incoscien-  li, come prodotta numerico « d’inetti e di sconclusiona-  ti». La forza della nuova democrazia dovrà essere na-  turdimente violentissima data l'accelerazione e il ren  dimento degli individui geniali. La sua « conclusione »  sarà logica e conseguenziale: « La democrazia futurista  è ormai pronta ad agire, poiché sente vibrare tutte le  sue cellule vive ». L'azione sarà condotta da Mussolini,    ma il presupposto è già comunque e totalmente presente.    BESTEMMIA CONTRO LA DEMOCRAZIA    Tre spanne sotto il cervello io nutto un odio, un  odio contro la presunzione del lavoro, un odio contro il  puzzo cosciente, un odio contro l’imbecillita evoluta. Tre  spanne sotto il cervello si spenge ogni polemica. I de-  mocretini rinunzino alla discussione. I democretini s’ada-  gino sopra i loro luoghi comuni, perché il mio piede pos-  sa calpestarli.   Via, batbe comiziesche che mi nascondete il sole. Via,  mani a ventola e cravatte a bandiera. Fermati, passo de-  mocratico sotto cui trema la terra offesa. Arrestatevi, la-  mentele filamentose, voci incristianare, zuccherose o  pe-  pate. Via, spade di legno, trombe sfiatate, via, inesistenti  barricate. Smontate, uomini di paglia, uomini di stoppa  uomini di cartastraccia. Nascondetevi, ceffi di cera, ma-  scheratevi, faccie rinfisecchite, sparite, ghigne insolenti.  Sgonfiate, protobischeri pastori di popolo. Aria ci vuole,  e luce e calore e solidità, o anima mia. Abbasso la de-  mocrazia! Fumano d'orgoglio, le gran fave. Fumano, questi strac-  cioni e stronzoni, questi mangiasputi e fiutarutti, questi  tinconi, questi turabuchi, questi scotticapidocchi, questi  merdaioli, questi caconi, questi galoppini, questi pagnot-  tisti, questi biasciconi, questi lumaconi, questi minchioni,  questi balordi gonzi e gralli, questi coglioni appuzzoni e  cittulli, questi sussurroni caccoloni, questi satraponi vir-  tuosoni. Già tutto il paese fuma, smerdata com'è da que-  ste pecore matte. Pulizia, pulizia, pulizia! Abbasso la de-  mocrazia!    Bischeri sollevatissimi, bischeri smargiassi, bischeri  ventosi, bischeri girandoloni, bischeri soppiattoni, bische-  ri politicanti, bischeri economicizzanti, bischeri vani, bi-  scheri solenni, bischeri tronfi, bischeri crespi, bischeri cal.  losi, bischeri pensosi, bischeti pacifisti, bischeri leghisti, bischeri classisti, bischeri marxisti, bischeti riformisti, bi-  scheri collettivisti, bischeri revisionisti, bischeti comunisti,  bischeri credenti, bischeri fetenti, bischeri ufficiali, bische-  ri legali, bischeri di cartapecora, bischeri del braccio, bi-  scheri del cervello, bischeri antilibici, bischeri internazio-  nalisti, bischeri democratici — BISCHERI DI TUTTO  IL MONDO UNITEVI! La vostra individualità non ha  importanza. Unitevi! Amalgamatevi! Confondetevi in mel-  ma! Anche la melma dei bischeri, come ogni melma, s'in-  crosterà. E sotto le croste ci sarà il gelo della morte.  Così sia. Abbasso la democrazia!    Accidenti alla democrazia, impero delle bestie da so-  ma, regno degli schiavi, padronanza dei servi, supremazia  degli impiegati! Democrazia, sostegno degli sfiaccolati,  trionfo dei cimiciosi, glotia dei piattolosi, arma dei bro-  dolosi; democrazia, orchestra di miasmi, concerto di sputi,  convegno di sudori, sistema di muffe; democrazia, vitto-  ria dei muscoli e disfatta dei nervi, esautorazione dell’arte  e imposizione del mestiere, vita del debole e agonia del  forte; lurida, sudicia, tetra democrazia, cloaca dove affo-  gano fantasia, ingegno, energia, e tutte le soavità; pro-  terva asineria, fessa stivaletia: abbasso la democrazia!   E rovini Ia mediocrità!   Fuoco al tugurio dei democretini!   I democretini è la lanterne!    La libertà soltanto a chi sa cosa farsene, a chi sa vi-  verla.    Agli altri il giogo, la sferza e la schiavitù.    EVVIVA LA FORCA, o amici, per la libertà vostra  e per la libertà mia!    ABBASSO LA DEMOCRAZIA. TAVOLATO  [da: Lacerba,Firenze]   Aboliamo pure il Parlamento — si domandano mol-  îi — ma cosa metteremo al suo posto?    La risposta è pronta. Soszituiremo til Parlamento con  le rappresentanze dei sindacati agricoli industriali ed ope-    rai. La rappresentanza sindacale sarà la base dello « Stato  tecnico » futurista.    AI « collegio » elettorale, circoscrizione fittizia ed ar-  bitraria, entità che sembra creata apposta per l'esercizio  del broglio, sostituiremo il sindacato, espressione organica  delle forze economiche che danno effettivamente forma  alla società. AI posto dell’« onorevole » deputato, dema-  gogo costretto all’accattonaggio sistematico del voto e feu-  datario di una nuova feudalità peggiore dell'antica, man-  deremo a governare il paese ingegneri, commercianti ed  operai, gente che sa il suo mestiere e conosce i bisogni  reali della propria classe. Invece di un’Assemblea di in-  ttiganti, di chiacchieroni e di incompetenti, avremo un  corpo tecnico adatto allo scopo di dirigere, con conoscen-  za di causa, la grande azienda dello Stato.    In pratica l'idea della rappresentanza sindacale si tro-  va di fronte a difficoltà serie ma non insopportabili.    Vati problemi ci si presentano.    1) A quali sindacati concederà lo Stato la personalità  politica? Si tratterà di determinare le categorie di pto-  duttori che avranno diritto a una rappresentanza nel corpo  legislativo.  L'iscrizione ai sindacati sarà obbligatoria per tutti  i cittadini? A me sembta che sia più logico lasciare che  esercitino i diritti politici coloro che ne hanno la volontà  e coscienza.    Coloro che resteranno volontariamente fuori dei sin.  dacati cortisponderanno in parte alle masse degli astenuti  nelle odierne elezioni a suffragio universale. In base a quale criterio si misurerà il numero di voti da attribuirsi a ciascuna categoria di sindacati? E’ la  questione più scottante. Il criterio più semplice è quello  numerico. Ma così si ricade nell'atomismo individualistico  del suffragio universale.    Io credo che non si debba tener conto del numero  degli iscritti al sindacato, ma della importanza della fun-  zione economica che esso esercita nel Paese. Quindi un  sindacato di industriali metallurgici avrà una rappresen-  tanza eguale a quella di un sindacato di lavoratori del  ferro benché questi ultimi siano molto più numerosi.    E ciò perché l’importanza delle due funzioni si con-  trobilancerà nell'economia nazionale.    L'amico Settimelli dirà che questo è un criterio poco  democratico. Me ne infischio.    4) Quali saranno i limiti posti all'esercizio del potere  dell'assemblea eletta mediante la rappresentanza sindacale?  La competenza dell'assemblea dovrà essere limitata alle  questioni prevalentemente economiche, che sono del resto  le più importanti in politica.   Le questioni di famiglia, di politica estera ecc. dovran-  no esser risolte in parte mediante il « referendum »  popo-  lare diretto ed in parte attribuite alla competenza del po-  rere esecutivo.    Non ho fatro che accennare le principali questioni. In-  vito tutti i giovani futuristi ad inviarmi le loro soluzioni  ai quattro problemi che ho posta, senza avere la pretesa  di risolverli definitivamente. Ma mi sembra che la que-  stione sia matura per lo studio. E poi per noi futuristi  « studio » deve significare già un principio di esecuzione.  E’ l’ora di finirla col Parlamento. Abbiamo fatto la guerra  senza bisogno del Parlamento. Senza il Parlamento sapre-  mo fare la pace. E' ora di sbarazzare l’Italia dalle 508  incompetenze che spadroneggiano a Montecitorio.    VOLT  [da: Roma futurista, DEMOCRAZIA FUTURISTA    L’orgoglio italiano non deve essere, non è imperialismo  che spera imporre industrie, accaparrare commerci, inon-  dare di prodotti agricoli. Nai difettiamo di materie prime,  e siamo una potenza di ricchezza agricola mediocre.   Il nostro orgoglio italiano è basato sulla superiorità  nostta come quantità enorme di individui geniali. Voglia-  mo dunque creare una vera democrazia cosciente e audace  che sia la valutazione e Ja esaltazione del numero poiché  avrà il maggior numero di individui geniali. L’Italia rappresenta nel mondo una specie di minoran-  za genialissima tutta costruita di individui superioti alla  media umana per forza creatrice innovatrice improvvisatri-  ce. Questa democrazia entrerà naturalmente in competizio-  ne con la maggioranza formata dalle altre nazioni, per le  quali il numero significa invece massa più o meno cieca,  cioè democrazia incosciente.   Su 1000 slavi vi sono due o tre individui.    L'ultima fulminea nostra vittoria ha dimostrato che non  vi è gruppo di italiani (20, 30 o 40) che non contenga al-  meno 10 o 15 individui capaci di iniziativa e di direttiva  personale    Abbiamo ancora da sgombrare e da bonificare le zone  morte dell’analfabetismo. Questo compito molto arduo con un nemico minaccio-  so alle porte è oggi compito facile e senza pericoli per la  unità e indipendenza nazionale.    Nazione ricca di individui geniali, democrazia intelli-  gentissima. Quantità di personalità tipiche, massa di tipi  unici, democrazia che non vuole imporsi bancariamente,  industrialmente, colonialmente, ma può e deve dominare  il mondo e dirigerlo con la sua maggiore potenzialità ed  altezza di luce.    Noi crediamo che l'ora è venuta di tentare tutte le ri-  voluzioni per liberare il popolo italiano da tutti i pesi  morti e da tutti i ceppi (matrimonio e famiglia Cattolica soffocatrice, pedantismo professorale, elettoralismo, menta-  lità pessimistica, provinciale mediocrista e quietista).    Liberata dal giogo della vecchia famiglia tradizionale,  dal dogma dell'anzianità, l'Italia manifesterà finalmente la  sua potenza di 40 milioni d’individui italiani tutti intelli-  genti e capaci di autonomia.    Concezione assolutamente apposta alla cretinissima concezione germanofila che voleva svalutare i 40 milioni di  individui italiani per organizzarli meccanicamente.    Su] palcoscenico della razza italiana dobbiamo mette-  re in luce 40 milioni di ruoli diversi perché in questa luce  possa perfettamente svolgersi il valore tipico d'ognuno.(Censura) Noi non abbiamo la nevrastenica pigrizia, la neghittosi-  tà, il misticismo, il boiantismo ideologico, l’ossessione teo-  rificatrice della Russia. Siamo pieni di senso pratico, di  tenacia costruttrice, di ingeniosità inesauribile, di eroismo  bene impiegato. Possiamo dunque dare tutti i diritti di fare  c disfare al numero, alla quantità, alla massa poiché da noi  numero quantità e massa non saranno mai come in Germa-  nia e in Russia numero quantità o massa d’inetti e di sconclu-  sionati,   Arturo Labriola definisce la democrazia « come senti.  mento dei diritti concreti della massa sullo Stato e sulla  Economia ».    Noi futuristi consideriamo la democrazia non in astrat-  to ma bensì la « democrazia italiana ».   Parlare di democrazia in astratto è fare della retorica.  Vi sono numerose democrazie, ogni razza ha la sua de-  mocrazia, come ogni razza ba il suo femminismo.   Noi intendiamo la democrazia italiana come massa di  individui geniali, divenuta perciò facilmente cosciente del  suo diritto e naturalmente plasmatrice del suo divenire  statale.La sua forza è fatta di questo diritto acquisito, molti-  plicata dalla sua quantità valore, meno il peso delle cellule  malate (incoscienti, analfabeti). La democrazia italiana è per noi un corpo umano che  bisognerà liberare, scatenare, alleggerire, per accelerarne  la velocità e centuplicarne il rendimento.    La democrazia italiana si trova oggi nell'ambiente più  favorevole al suo sviluppo. Ambiente di rivoluzione-guerra  nel quale è costretta a risolvere tutti i suoi casi-problemi  insoluti, le cui soluzioni possono esercitare una influenza  sul suo avvenire. Necessità igienica di continua ginnastica  trasformattice, improvvisatrice.    Il governo si allarma oggi nel vedere formarsi innume-  revoli associazioni di combattenti. Se non fosse un governo  di miopi reazionari tremanti di paura accaglierebbe favo.  revolmente questo nuovo ritorno di vitalità italiana.    La guerra ha semplicemente svegliate le coscienze di 4  o 5 milioni di italiani che tornano oggi dalla guerra, atric-  chiti di una personalità politica.   E’ la prima volta nella storia che più di quattro mi.  ltoni di cittadini di una nazione hanno Ja fortuna di subire  in soli 4 anni un'educazione intensiva e completa con le-  zioni di fuoco, di eroismo e di morte.   Spettacolo meraviglioso di tutto un esercito partito per    la guetra quasi incosciente e ritornato politico e degno di  governare.    La democrazia futurista è ormai pronta ad agire, poiché  sente vibrare tutte le sue cellule vive.   Naturalmente ha un bisogno urgente di spalancare le  porte e di uscire all’aperto. I) governo si allarma, reprime  e trema, come la nonna leggendaria teme che il nipotino  pigli un raffreddore.   Fuori l’aria è frizzante e salubre. Il sole, spalancato, be-  ve il mare di liquido quasi solido saporito azzurro, tutto  spumante di raggi, tutto da bere fino all'ultimo sotso.    F.T. MARINETTI  fda: Roma futurista, un    EMILIO SETTIMELLI  F. T. MARINETTI    FUTURISMO E PRIMO FASCISMO    Emilio Settimelli commenta il Congresso di Firenze  su 1 nemici d'Italia (« settimanale antibolscevico diret  to da Armando Mazza ») del 10 ottobre del 1919. I  discorso di Meorinetti al congresso apparirà su L'Ardito  del 26 ottobre dello stesso anno, ma era già apparso  tre giorni prima su I nemici d’Italia (23 ottobre). Del  discorso e della «necessità dello svaticanamento »  ab-  biamo già parlato. Ma si postula anche l'ipotesi di un  eccilatorio di giovanissimi capaci di sostituire il semato  dei vecchi, ormai da abolire. Al suo posto un «consi  glio tecnico » andrebbe sollecitato e stimolato da gio  vani sotto i trent'anni, a moto continuo    Si parla poi di un proletariato dei geniali, quello  degli artisti d’Italia, più o meno a nascosti od esclusi »,  che andrebbero favoriti o promossi da iniziative pub.  bliche atte all'aiuto della loro espressione. L'origine  della proposta da parte di una «mente d'artista » ri.  sulta evidente. Marinetti è definito, al caso, « ardito  della poesia». La definizione è sempre di Settimeth,  che sostiene inoltre Marinetti sia «uscito » dal Con  gresso in «trinonmio» con Mussolini e D'Annunzio.  quello del « dopo Fiume »: un'alleanza politica mei fino  ad allora verificatasi.    Ed è ancora Settimelli, a questo proposito, a inneg-  giare ai due personaggi (Marinetti e Mussolini) in un  suo scritto, già pubblicato su I nemici d'Italia # 4 set  tembre 1919. Lo riportiamo perché ci sembra significa  tivo di un legame e di un rapporto. Non è vero che  l'arte debba essere estranea alla politica, vi si sostiene.  Anzi, è proprio l'artista a darle una sua interpretazione  od un suo connotato, un suo «travestimento », od usa  sua immagine fanto più nuova, quanto più ardimentose  ed « ardita». Mussolini è stato capace di recepirlo, e  il fascismo è un fenomeno nuovo praprin per questo,  e d'avanguardia.    La tesi di Settimelli è tipica del «futurismo delle  origini » o classica di un momento rivoluzionario, 0 di  rinnovamento. Ma anche Armando Mazza pubblica un  «fondo » il 30 Ottobre dello stesso anno sulla mede-  sima testata (I nemici d'Italia). L'articolo non è fir-  mato, ma è inserito sotto il titolo a quattro colonne:  Fascisti, a noi!, con un commento alle prospettive elet-  torali, un trafiletto in commemorazione della vittoria  nella’ ricorrenza annuale, e una colonna intestata: Ciò  che ci divide. Vi si spiegano 1 motivi di disaccordo e  distacco da tutte le altre forze politiche, quelle ew-neu  traliste e quelle del passatisma    MUSSOLINI E IL FASCISMO    Pensare col proprio cervello originale, liberare comple-  tamente il proprio temperamento, essere gli annunciatori  e i fondatori di una nuova mentalità: sofferenza di tutti i  momenti.   Mantenere la provria posizione di avanguardia, è cosa  da giganti.   Parteciparvi per qualche tempo è da tutti.   À un certo momento rimani quasi solo: la gran parte  degli amici si arrende, brutta e spregevole nella sua viltà  mascherata di scetticismo, oppure non crede più, sopraf-  fatta dalla vecchia e comoda mentalità. Disertano, perdono  ogni ritegno, ti attaccano. Si vendicano di averli resi —  sia pure per un anno — intelligenti, credono di poter me-  nomare la saldezza del tuo accizio, ti fanno recedere con i  loro atteggiamenti di commendatoria superiorità: cafoni ad-  domesticati, provinciali inguaribili.   Vivi in un ambiente pericoloso e stancante perché sen-  ti che è creato per l’« altra gente »1 mediocre, podagrosa.   Ti urti della continua ostilità.   Ti trovi dinanzi ad un avversario senza spirito, mono-  tono, insistente.   Un avversario indegno che ha la bruttezza goffa del  rinoceronte e il rompiscatolismo della zanzara.   Hai delle donne. Tentano di tutto per convincerle a  rinsavire e ti denigrano in mille modi cercando di portarle  a qualche mediocre ronzino o a qualche nobilissimo eunuco  lucroso 0 decorativo.   Lavori. Il tuo lavoro ba sempre qualche parte che  esorbita. Mai delle amicizie, ti seguono fino ad nn certo  punto. Non possono capirti a fondo.   Sei fatto per un mondo di eroismo, di forza, di bellez-  za, di temerità. Le tue grandi ali t’impediscono di cammi-  nare come il gabbiano di Baudelaire.    (eTe)    Tutto questo è atroce, ma di colpo una vittoria ti ripaga  di tutto.   Aver avuto ragione, aver visto lontano, aver costruito  un nuovo pezzo della vita, sia pure un piccolo pezzo, avere  anche per un attimo e per un millimetro contribuito allo  allargamento del mondo ti fa vibrare per la gioia dei ver-  tici.    Oggi ho questa gioia e la divido con quei pochi che  da dieci anni lavorano con me alla formazione di un am-  biente intellettuale italiano libero dai professori, dai tradi.  zionali, dai gottosi (non alludo ai seguaci del romanziere  Salvator!).   E Ia nostra gioia diviene frenetica quando constatiamo  che da un'altra parte, dalla politica ci veniva incontro un  uomo formidabile, nuovo come noi, libero come noi. E'  la gioia dei minatori che s'incontrano finalmente dopo aver  forata la montagna. Un «evviva », una manata di terra  sulle facce ebbre, sopra i sudori riganti e una stretia di  mano che è una prova del cuore e dei garretti.   Mentre con Marinetti e con gli altri amici lavoravamo  il campo artistico, dall'altro si muoveva Mussolini lavo-  rando il campo politico. Ci dovevamo incontrare. Un gi-  gante questo magnifico Mussolini! Con la forza ma anche  col peso di un grande ingegno, di un'anima vasta, di un  temperamento spaccafore, figlio di un fabbro ferraio si tira  su a suon di muscoli, di ingegno e di fegato. Supera la  più massacrante battaglia: quella contro la miseria, quella  che non potrà mai esser capita da chi non l’ha provata.  Chi è nato ricco non potrà mai essere completamente den-  tro la realtà e non avrà mai il collaudo delle sue energie.  Domina le folle, organizza, sbaraglia Turati, Treves, Rai-  mondo. Galvanizza il partito socialista. Scoppia la guerra,  capisce che la neutralità sarebbe contro il socialismo € per  il medioevo autocratico. Tenta di persuadere. I mediocri  ne approfittano per liberarsi della sua grandezza. Si forma  la imbecillocrazia dell’Avanzi! Mussolini lascia il partito che  rimane acefalo e si divincola in movimenti balordi e vili.  Intanto i piedi ridono soddisfatti per essersi liberati della    100    testa. Nasce così il Popolo d'Italia. Il primo quotidiano  veramente moderno e veramente italiano. Un ritrovo di  energie vive, spregiudicate, temerarie. Il lievito di questo  buon pane italiano nato dalla guerra. In esso tutti i vivi  si incontrano: Futurismo, Arditismo, D'Annunzio. E' una  punta sensibile e perforante, è l'effervescenza della grande  coppia italica, è il primo nucleo per una Italia nuova.   Ma il quotidiano non basta a Mussolini. Uomo d'azio-  ne ha bisogno di concretare, vuol raccogliere ciò che semi-  na giornalmente. Nasce il fascismo. Fenomeno degno della  più grande ammirazione e del più appassionante esame. Più  che un partito è una mentalità. Non si basa sulla promessa  di un certo paradiso futuro, si muove problematicamente  passo per passo alternando transigenza a intransigenza,  idealismo a realtà, arte a pratica concreta. Gli avversari del  Fascismo sono le vecchie anime che marciano solo dietro  promesse iperboliche e utopistiche, che scambiano incoe-  renza con duttilità, che non vivono dentro la vita vera e  vibrante, ma fra gli schemi arrugginiti di una mentalità  libera.   TI Fascismo raccoglie gli italiani più intelligenti e più  moderni con la sua ferrea ossatura di concretamento fa-  sciato da una atmosfera di sensibilità, di cordialità idea-  listica, di eleganza e di colore. Rende possibile la politica  anche per i temperamenti più contrari ad essa. Per esem-  pio gli artisti e gli ironici. L'Italia abbonda di artisti e di  ironici, anzi essi formano la sua parte migliore, intellettual.  mente.   Mussolini ha avuto il grande pregio di creare un’atmo-  sfera politica che non ripugna a questi scelti, a questi « mi.  gliori ».   L'intelligenza disinteressata si allontana dalla politica  quando essa s'imperna sulla falsa promessa di un paradiso  certo, sul settarismo, sulla gretteria animale.   Si sta preparando in Italia quella rinascita totale, ba-  sata sull’arte che tra le più feroci ironie e gli scetticismi  più assoluti amnnunciai nella « Inchiesta sulla vita italiana ».    SETTIMELLI  (da: 1 nemici d'Italia, Milano, SOGNO UN GOVERNO DI TECNICI,  ECCITATO DA UN'ASSEMBLEA »    Cari Fascisti! Cari Arditi!    V'invito ad acclamare un valoroso fascista assente, che  sarebbe qui con noi se il Governo anti-italiano di Nitti  non l’avesse condannato a tre mesi di fortezza    Mario Carli,  (Grida unanimi di: Viva Mario Carli! e applausi).    Il futurista Mario Carli è sfuggito alla polizia di Al-  bricci e gode l'atmosfera igienica di Fiume italiana. Ha  brillato così una volta di più l'elasticità veramente futu-  rista di questo poeta che sa tutti i viaggi più pericolosi  dello spirito, le esplorazioni più sottili della psicologia, i  razzi più colorati ed anche la strategia delle strade in  tumulto e il governo delle assemblee popolari. A Mario  Carli, poeta delle Notti filtrate, si deve la fondazione del  Fascio di combattimento romano, e, insieme con Setti-  melli, del Partito politico futurista, e del giornale Rome  futurista. Egli capeggiò tutte le dimostrazioni violente per  Fiume italiana, per la Dalmazia italiana e per la difesa  della vittoria, contro il bolscevismo rosso e nero, rinun-  ciatario e nittiano. V'invito a gridare ancora: Viva il fu-  turista Mario Carli! (Quazione, applausi).    Lo «svaticanamento ».    Io approvo incondizionatamente, in nome del futuri  smo e dei futuristi italiani, tutto il programma dei Fasci  di combattimento, che vi è stato esposto dal mio amico  Fabbri. Trovo però in questo programma delle lacune  gravi, sulle quali richiamo tutta la vostra attenzione.   Fascisti! Non c'è maggior pericolo, per l’Italia, del pe-  ricolo nero. Il popolo italiano, che ha saputo osare, vo-  lere e compiere l’immane sforzo eroico e vittorioso della    102    grande guerra, decidendo, con la sua vittoria, la vittoria  del futurismo elastico, geniale, sul passatismo teutonico,  cubico e professorale, fallirebbe alla sua missione se non  sapesse energicamente liberare la bella penisola, agile e  palpitante di vita, dalla lue mortale del papato. Noi dob-  biamo domandare, volere, imporre, l'espulsione del papato,  o meglio ancora, per usare una espressione più precisa, lo  « svaticanamento ». (Applausi, ovazione)    L'« Eccitatorio ».    Continuando nell'analisi del Programma dei Fasci di  combattimento, trovo l'abolizione del Senato, al quale si  sostituirebbe un Consiglio nazionale tecnico. Ebbene: io  vi dichiaro che il concetto di tecnicità è importantissimo,  ma non basta. Il Senato rappresenta nella storia dei po-  poli un costante ossequio alla saggezza dei vecchi, chiama-  ti intorno al potere per frenarlo, maturarne i propositi,  dirigerne le decisioni. La concezione del Senato, simile  a quella del coro nella tragedia greca, ha singolarmente  appesantito, imbrogliato, buroctatizzato e ritardato il pro-  gresso spirituale e materiale delle razze.    I legislatori hanno sempre sognato di frenare il pote-  re del Governo. Essi ignoravano dunque che potere si-  gnifica frenare. Essi ignaravano che un Governo è sem-  pre più o meno un carabiniere. Nulla di più assurdo che  il porre un carabiniere a sorvegliarne un altro. Mettiamo:  gli al fianco, piuttosto, un sovversivo, un rivoltoso, un  eccitante. Ed ecco nata la concezione dell’Eccitatorio, or-  gano animatore, semplificatore e acceleratore, che in una  razza come la nostta, piena di precoci geniali, sarà Ja mi-  glior difesa della gioventù e la migliore garanzia del pro-  gresso e di alta spiritualità. Io sogno in Italia un Gover-  no di tecnici eccitato da un’assemblea di giovanissimi, al  posto dell’attuale Parlamento di oratori incompetenti €  di dotti invalidi, che si fa moderare da un Senato di mo-  ribondi.   Il Consiglio tecnico che rimpiazzerà il Senato dovrà  dunque essere composto di giovanissimi, non ancora tren.    103    tenni. Insisto su ciò, poiché in Italia si usa invitare i gio-  vani al potere e si considera poi virile e giovanissimo un  uomo di 55 anni. Salandra grida: Avanti i giovani! Ma  tutti con lui temono i giovani, mettono in quarantena un  quarantenne come un coleroso, un cinquantenne come un  dinamitardo, e considerano un sessantenne come un au-  dace quasi maturo per il governo d’Italia!..   Occorre un Eccitatorio di giovanissimi, per evitare un  Consiglio tecnico di vecchi, che dopo aver tenuto inuti-  lizzato per molto rempo il loro ingegno tecnico non san-  no più che tecnicamente morire.   La vita italiana si riduce ancora ad una convivenza  cretina di quadri d'antenati senza autorità e senza presti-  gio, che spandono intorno, in una penombra tediosa, pes-  simisino, pedantismo, austerità professorale, verbalismo pa-  triottico e polvere di Roma antica, e in mezzo ai quali si  aggira sporca, taccagna, provinciale, brindellona, la ser-  vaccia che fa tutto male, tiene malissimo la casa, non  vuo! migliorare nulla, perde la giornata a verificare i con-  ti di cucina, ha sempre paura di spendere e di rovinarsi,  ed è tronfia perché sa fare una minestra non troppo sa-  lata che costa poco.   T quadri d’antenati si chiamano Boselli e Salandra: la  servaccia si chiama Giolitti o Nitti. (Quazione)   Contro i quadri d'antenati e la servaccia, poi propo  siamo un eccitatorio di studenti e di Arditi futuristi.    Arditismo. — Scuole di coraggio fisico e patriottismo.    Una terza lacuna io trovo nel programma dei Fasci  di combattimento, e riguarda la scuola. L'amico futuri  sta Fabbri ha precisato genialmente la grande e necessa  ria riforma completa della scuola.   To credo petò che tutto si potrebbe ottenere, e forse  anche un al di là meraviglioso che superi il tutto sogna.  ta, mediante un'imposizione assolutamente ferrea, dirò  meglio feroce, della ginnastica nelle scuole.   Si deve giungere anche presto, oltre che a tutte le for-  me d'insegnamento pratico e tecnico, nelle officine e nei    104    campi, alle scuole viaggianti, 0, per meglio dire, viaggi  d'istruzione, e a dei veri corsi o scuole di coraggio fisico  e di patriottismo.   Bisogna ogni giorno, nella giocondità di una vita al-  l'aria aperta, con un predominio assoluto del giuoco sul-  la lettura, parlare dell'Italia divina ai ragazzi italiani, in-  segnare loro, accanitamente, il coraggio fisico e il disprez-  zo del pericolo, e premiare dovunque l'audacia temeraria  e l'eroismo.   Le scuole di coraggio fisico e di patriottismo devono  rimpiazzare nelle scuole gli oramai preistorici e troglodi.  tici corsi di greco e di latino.   Noi futuristi siamo convinti di preparare così quel  tipo di cittadino eroico che saprà difendersi da sè, vera-  mente capace di libero pensiero e di libero cazzotto, e  che renderà assolutamente inutile l'esistenza delle polizie,  delle questure. dei carabinieri e dei preti.    Ferruccio Vecchi.    Il mio amico futurista Mario Carli, capitano degli Ar-  diti, e il capitano Vecchi, capi dell'Associazione degli Ar-  diti, hanno sentito come me, nascere dal futurismo e dal-  la guerra, l'Arditiswo, nuova sensibilità di patriottismo e-  roico e rivoluzionario. ]l giornale L'Ardito, diretto dal  capitano Vecchi, il celebre sfasciatore dell’Avanti! è un  forte giornale che si deve consigliare ai giovani italiani.  {Qvazioni)   Verrà forse un giorno in cui avremo in Italia quelle  scuole di pericoli che io proponevo dieci anni fa nei pri-  mi manifesti futuristi e che furopo realizzate durante la  guerra nelle esercitazioni quotidiane degli Arditi (avanza-  ta carponi sotto un tiro radente di mitragliatrici; aspetta-  re senza chiudere gli occhi il passaggio radente di una  trave sospesa sulla testa, ecc.). Il proletariato der geniali    Ed ora voglio colmare un'altra lacuna dei program-  ma, parlandovi del solo proletariato veramente dimenticato ed oppresso: l'importantissimo proletariato dei ge-  niali.   E’ indiscutibile che Ia nostra razza supera tutte Je raz-  ze per il numero stragrande di geniali che produce. Nel  più piccolo nucleo italiano, nel più piccolo villaggio, vi  sono sempre sette, otto giovani ventenni che, fremono  d’ansia creatrice, pieni di un orgoglio ambizioso che si  manifesta in volumi inediti di versi e in scoppi di elo-  quenza sulle piazze, nei comizi politici. Alcuni sono dei  veri illusi, ma sono pochi. Non potrebbero giungere al  vero ingegno. Sono però sempre dei temperamenti a fon-  do geniale, cioè suscettibili di sviluppo e utilizzabili per  accrescere l’intellettualità geniale di un paese.    Il movimento artistico futurista, da noi iniziato 11  anni fa, aveva precisamente per scopo di svecchiare bru-  talmente l'ambiente artistico-letterario, esautorarne e di-  struggerne la gerontocrazia, svalutare i criteri e i profes-  sori pedanti, incoraggiare tutti gli slanci temerari dell’in-  gegno giovanile, per preparare una atmosfera veramente  ossigenata di salute, incoraggiamento ed aiuto a tutti i  giovani geniali d'Italia. Incoraggiarli tutti, centuplicarne  l'orgoglio, aprire davanti a loro tutti i varchi, diminuire  al più presto, così, il numero dei geniali italiani falliti  e stroncati.    Il futurismo radunò molti di questi giovani geniali.  Fra di loro, nella vampa futurista, ingigantirono e brilla  rono: Boccioni, Russolo, Buzzi, Balla, Mazza, Sant'Elia,  Pratella, Folgore, Cangiullo, Mario Carli, Funi, Sironi,  Chiti, Jannelli, Nannetti, Cantarelli, Rosai, Baldassari, Gal-  li, Depero, Dudreville, Primo Conti, i geniali creatori del  Teatro Sintetico: Bruno Corra e Settimelli, e i valorosi  scrittori futuristi di Roma futurista, Rocca, Bottai, Fede-  rico Pinna, Volt e Rolzon, altissima bandiera d'’italianità  in America.   Con meravigliosa elasticità passando dall'arte all’azio-  ne politica, questi giovani furono con me dovunque nelle nostre primissime dimostrazioni contro l’Austria durante  la battaglia della Marna, in prigione per interventismo e  sui campi di battaglia.    Propongo che in ogni città siano costtuiti dei palazzi  che avranno una denominazione sul genere di questa:  Mostra libera dell'ingegno creatore. Tn tali palazzi:    1° Verrà esposta per un mese un’opera di pittura,  scultura, plastica in genere, disegni di architettura, dise-  gni di macchine, progetti di invenzioni. Verrà eseguita un’opera musicale, piccola o gran-  de, orchestrale o pianistica di qualsiasi genere, di qual:  siasi forma, di qualsiasi dimensione.    3" Verranno letti, esposti, declamati poemi, prose,  scritti di scienza di ogni genere, d'ogni forma, d'ogni di-  mensione.   4° Tutti i cittadini avranno diritto di esporre gratui-  tamente.  Le opere di qualsiasi genere o valore apparente  anche se apparentemente giudicate assurde, cretine, pazze,  immorali, saranno esposte o lette senza giuria.   Con queste mostre libere e gratuite del genio creatore,  noi futuristi ci opponiamo a un pericolo gravissimo: quel  lo di vedere nella marea delle ideologie che rissano intor-  ne alle formole del comunismo e della dittatura del pro-  lerariato, il naufragio dello spirito.    Difendiamo il cervello!    Vi sono fenomeni dovuti alla stanchezza prodotta dal  la guerra, alla manîa plagiaria, alla miopia provinciale,  alla verbosità giornalistica e alla vigliaccheria conservatrice.  Si tenta dovunque di divinizzare il lavoratore manuale e  d'innalzarlo al di sopra del lavoratore intellettuale,    No, italiani: il futurismo politico si opporrà accanita.  mente ad ogni volontà di livellamento. Tutto, tutto sia    107    concesso al proletariato manuale, salvo il sacrificio dello  spirito, del genio, della gran luce che guida. Alle classi  oppresse, ai lavoratori che stentano, sia sacrificata tutta  la plutocrazia parassitaria del mondo.    Voi fascisti interventisti sapete che la nostra grande  guerra rivoluzionaria è stata osata, voluta, imposta e te-  nacemente portata alla vittoria finale da una minoranza  di intellettuali. Erano i migliori, i meno tradizionali, i  più futuristi. Mentre tutto il popolo era ancora immerso  nella quiete pacifista, essi videro la necessità di guerra,  si separarono brutalmente da altri intellettuali, da quelli  che dello spirito altro non hanno che le qualità negative,  pedantesche, culturali, reazionatie, quietiste. Contro e so:  pra il piombo del vecchio intelletrualismo professorale e  vigliacco dei Benedetto Croce e dei Barzellotti, contro l’in-  tellettualismo cavilloso e avvocatesco dei Treves e dei Tu-  rati, si scagliarono gli spiriti veramente puri, lirici e crea-  tori, per segnare la via da seguire.   Fra questi, Gabriele D'Annunzio, che volò su Vienna  e regalò Fiume all'Italia. Fra questi Benito Mussolini, il  grande Fututista italiano, che impavido nel campo trince-  rato del suo Popolo d’Italia ha difeso alle spalle noi com-  battenti al fronte contro le ondate dei nemici interni, por-  tando le città italiane dal lurido episodio di Caporetto  alla storia ideale di Vittorio Veneto (Applausi).    Gli artisti faranno finalmente del governo un’arie di-  sinteressata, al posto di quello che è ora, cioè una pedan-  tesca scienza del furto e della vigliaccheria.    eri    Io credo che le istituzioni parlamentari siano fatalmen-  re destinate a perire. Credo anche che la politica italiana  sia destinata a un inevitabile fallimento, se non si nutrirà  di questa forza viva: gl’ingegneri creatori d’Italia, sbaraz-  zandosi di queste due malattie italiane: l'avvocato e il  professore.    Genio creatore, elasticità artistica, praticità sintetica,  velocità improvvisatrice ed entusiasmo fulmineo: ecco le  belle forze che spiegano la vittoria del 15 giugno sul Pia-  ve e quella di Vittorio Veneto (Applausi).    Artisticamente improvvisando tutto, e con genio crea-  tore, la mia bella autoblindata dell'ottava Squadriglia al  comando del capitano Raby guadava come una torpedi-  niera i torrenti gontiati. Poi si slanciava giù dalle monta.  gne carniche col tuffo frenetico fulmineo di un pugnale  d'Ardito nella smisurata pancia idropica dell'esercito au-  striaco disfatto, e schizzava fuori dalla schiera contro  Vienna.   Artisticamente, il genio creatore di D'Annunzio con-  quistò Fiume italiana.   In Fiume italiana, io provai recentemente il più acu-  to spasimo di guida della mia vita, nel gualcire un pacco  di corone austriache deprezzate a pochi centesimi dalla no-  stra vittoria.   Gioia forsennata di stritolare così finalmente il cuore  finanziario, militare, passatista del nemico ereditario, fra  le mie mani ancora frementi della vibrazione della mia  mitragliatrice di Vittorio Veneto! (Ovazione).  MARINETTI  [da: L’Ardito, MARINETTI  MARIO CARLI  MINO SOMENZI    « SECONDO FUTURISMO »  E FASCISMO-REGIME    ll 1923 è un po' l'anno di apertura del futurismo  — dopo la ritirata e il distacco dal fascismo del II  Congresso di Milano — al nascente fascismo-regime (se-  condo la definizione di De Felice), quello dell’assesta-  mento o dell'e ordine» (che si consoliderà il 3 gen  naio 1925). Marinetti si accosta in un certo senso al  nuovo governo con una richiesta in forma di « mani  festo al Governo Fascista» del 1° maggio 1923.   Col manifesto e con l'affermazione di un certo qual  futurismo «mussoliniano », 0 nel sottolineare la rea-  lizzazione di un « programma minimo » futurista da par-    te del fascismo, Marinetti cerca di porsi in buona luce  e di far accettare le sue proposte al governo fascista.  ll programma fu in linea di massima approvato da  Mussolini. Quel Mussolini che comincerà a venir illu-  strato e celebrato anche dai futuristi, forse molte volte  in buona fede per l'effettiva sua vicinanza alle tesi ed  al dinamismo tipico di Marinetti e delle sue teorie.  Tuttavia Mario Carli nel '26 pubblica nel suo li  bro Fascisma intransigente wn articolo a suo tempo se  questrato e che risuona echi di « sinistri miraggi ». S'in-  titola Natale senza luce e si riferisce probabilmente al  Natale del ‘21, dopo l'impresa di Fiume cui Carli aveva  ben ardentemente partecipato: si augurava inutilmente  il Carli che l'impresa di Mussolini (la marcia su Roma)  continuasse quella breve esplosione innovatrice della  nuova Italia della Vittoria (la marcia su Ronchi). Ma  le «vecchie pance» e le «vecchie barbe» tengono invece  «il canzpo della vita nazionale » e «la manovra parla  mentare domina ancora tutto il congegno di governo ».  Marinetti sul numero 9 del 2-11-1932 del « nuo-  vo » Futurismo, esprime aminirazione ed esalta lo spirito  rivoluzionario della Mostra nel decennale della Rivolu-  zione (svoltasi a Roma). Intitola Varticolo Stile futuri-  sta e vuole commemorare in certo senso uno stile degli  anni d'oro dello spirito interventista e rivaluzionario da  cui è nato il fascismo, quello così detta « antemarcia ».  Nel 1934 al 1° di febbraio, sul terzo numero di  SunWElia, che è secondo titolo di Futurismo, generoso  tuttavia di perticolare spazio cd attenzione at problemi  dell'architettura, Mino Somenzi intitola un suo pezzo  a IT Duce e il futurismo, e vi sostiene la necessità di  Mussolini, come capo del governo, di non essere né  futurista né passatista. Per il superiore equilibrio sulle  parti che la sua posizione richiede. Tuttavia le simpatie  di Mussolini non possono non andare ai futuristi, dice  Somenzi, quali novatori e sostenitori dell'arte d'avan-  guardia italiana. In questo sensa i futuristi non possono  non guardure a lui come ad un appoggio e ad un so-  stegno, come del resto egli medesima più volte si è di-  mostrato. E qui forse, in questa tesi, vediamo tutta la  posizione ed il carattere del « secondo futurismo ».  Ancora sulla stessa testata del 4 aprile ’34, n. 64.  un grande intervento centrale di prima pagina su Ven-  titre marzo futurfascista, mette in rilievo i caratteri co-  muni di futurismo e fascismo, anche quelli per cui  molti fascisti non st identificano con i futuristi ed anzi  simmedesimano nel loro contrario essendo dei « rimor-  chiati » che non hanno assorbito lo spirito diciannovi  sta e rivoluzionario delle « origini ». I DIRITTI ARTISTICI PROPUGNATI  DAI FUTURISTI ITALIANI    Manifesto al governo fascista    Mio caro Marinetti, approvo cordialmente la tuu  iniziativa per la costituzione di una Banca di Credito  specialmente per gli Artisti. Credo che saprai sor-  montare gli eventuali ostacoli dei soliti misoneisti.   Ad ogni modo questa lettera può servirti di via-  tico.   Ciao, con amicizia,    MUSSOLINI    Vittorio Veneto e l’avvento del Fascismo al potere co-  stituiscono la realizzazione del programma minimo futuri-  sta lanciato (con un programma massimo non ancora rag-  giunto) 14 anni or sono da un gruppo di giovani audaci  che si opposero con argomenti persuasivi all'intera Nazione  avvilita da un senilismo e da un mediocrismo paurosi dello  straniero.   Questo programma minimo propugnava l’orgoglio ita-  liano, la fiducia illimitata nell’avvenire degli italiani, la di-  struzione dell'impero austroungarico, l’eroismo quotidiano,  l’amore del pericolo, la violenza riabilitata come argomento  decisivo, la glorificazione della guerra sola igiene del mon-  do, la religione della velocità, della novità, dell’ottimismo e  dell’originalità, l'avvento dei giovani al potere contro lo spi-  rito parlamentare, burocratico, accademico e pessimista.   La nostra influenza in Italia e nel mondo è stata ed è  enorme. Il Futurismo italiano, tipicamente patriottico, che  ha generato innumerevoli futurismi esteri, non ha nulla a  che fare coi loro atteggiamenti politici, come quello bolsce-  vico del Futurismo russo divenuto arte di Stato.   Il Futurismo è un movimento schiettamente artistico e  ideologico. Interviene nelle lotte politiche soltanto nelle  ore di grave pericolo per la Nazione.   Fummo primi fra i primi interventisti; in carcere per interventismo a Milano durante la Battaglia della Marna;  in carcere con Mussolini nel 1919 a Milano per attentato  fascista alla sicurezza dello Stato e organizzazione di bande  armate.   Abbiamo creato le prime associazioni degli Arditi e  molti tra i primi Fasci di combattimento.   Divinatori e lontani preparatori della grande Italia di  oggi.   Noi futuristi siamo lieti di salutare nel non ancora qua-  rantenne Presidente del Consiglio un meraviglioso rempera-  mento futurista.   Da futurista, Mussolini ha parlato così ai giornalisti  esteri:    « Noi siamo un popolo giovane che vuole e deve crea  re e rifiuta d'essere un Sindacato di albergatori e di quar-  diani di museo. Il nostro passato artistico è ammirevole.  Ma, quanto a me, sarò entrato tutt'al più due volte in un  MIUSCO ».    Recentemente Mussolini ha pronunciato questo discor-  so tipicamente futurista:    « Il Governo che ho l'onore di presiedere è Governo  di velocità, nel senso che noi abbreviamo tutto ciò che  significa ristagno nella vita nazionale. Una volta la buro-  crazia si addormentava sulle pratiche emarginate. Oggi tut-  to deve procedere con la massima rapidità. Se tutti proce-  deremo con questo ritmo di forza e di volontà e di alle-  grezza, supereremo la crisi, la quale, del resto, è già in  parte superata. lo sono lieto di vedere il risveglio anche  di questa Roma che offre lo spettacolo di officine come  questa. lo atfermo che Roma può diventare centro indu-  striale. 1 romani devono essere i primi a disdegnare di  vivere soltanto sulle loro memorie. Il Colosseo, il Foro  romano sono glorie del passato: ma noi dobbiamo costrui-  re le glorie del presente e del domani Noi siamo la gene-  razione dei costruttori che col lavoro e con la disciplina  del braccio e intellettuale vogliono raggiungere il punto  estremo, la meta agognata della grandezza della Nazione  di domani, la quale sarà la Nazione di tutti i produttori  e non dei parassiti ». Con Mussolini il Fascismo ha ringiovanito l'Italia.   Spetta a Lui l'aiutarci nel rinnovamento dell’ambiente  artistico ove permangono uomini e cose nefaste.   La rivoluzione politica deve sostenere la rivoluzione  artistica, cioè il futurismo e tutte le avanguardie.    DOMANDIAMO:    1° DIFESA DEI GIOVANI ARTISTI ITALIANI  NOVATORI in tutte le manifestazioni artistiche promos-  se dallo Stato, dai Comuni e private. Esempi:    a) Alla Biennale di Venezia furono invitati avanguar-  disti e futuristi stranieri {Archipenko, Kokoschka, Campen-  donk), mentre non furono mai invitati i futuristi italiani  (creatori di tutti i futurismi). Bisogna sradicare questa igno-  bile antitalianità sistematica!    c) Al Teatro della Scala {che ha la funzione di rive-  lare, glorificandoli, i nuovi musicisti italiani) si danno ogni  anno due opere di Wagner e nessuna (o quasi nessuna)  di giovani italiani. Si preferiscono cantanti stranieri infe-  riori ai nostri, Bisogna sradicare questa ignobile antitalia-  nità sistematica!    d) Il Teatro di Siracusa non può essere riservato alla  gloria dei classici greci! Domandiamo che, alternativamente  alle rappresentazioni delle opere classiche, si svolga un con-  corso per un dramma moderno pittoresco adatto all'aria  aperta di un giovane siciliano da premiarsi e incoronarsi so-  lennemente nel teatro stesso. (Proposte Marinetti, Prampo-  lini, Jannelli, Nicastro, Carrozza, Russolo, Mario Carli, De-  pero, Cangiullo, Giuseppe Steiner, Volt, Somenzi, Azari,  Matasco, Dottori, Pannaggi, Tato, Caviglioni, Paladini Ra-  citi, Mario Shrapnel, Raimondi, G. Etna, Sportino-Bona,  Cimino, Soggetti, Rognoni, Masnata, Mortari, Piero Illari,  Rizzo, Soldi, Leskovic, Buzzi, Casavola, Clerici, Caprile, Scirocco),  ISTITUTI DI CREDITO ARTISTICO ad esclu-  sivo beneficio degli artisti creatori italiani.   Come si aprono delle Banche di credito a favore delia  industria e del commercio, similmente si dovranno creare    115    appositi Istituti che sovvenzionino manifestazioni artistiche  o Istituti d'arte industriale o anticipino denaro agli artisti  per il loro lavoro (manoscritti, quadri, statue, ecc.) i loto  viaggi di isttuzione o di propaganda.   Tali Istituti di credito potranno avere carattere pri-  vato (Società anonime per azioni) o governativo (enti e  fondazioni). Nel primo caso la nascita di tale Istituto è  legata alla maggiore o minore buona volontà e mumero  degli aderenti. Nel secondo caso il capitale necessario sa-  tebbe sicuramente e prontamente realizzabile solo che lo  Stato decretasse un'imposta od una ritenuta anche minima,  ma estesissima, sui redditi di guerra, sui patrimoni, ecc.,  o mediante una sottoscrizione nazionale ad iniziativa sta-  tale.   L'Istituto agirebbe poi come una Banca per gli artisti,  accetterebbe depositi di opere d'arte, e in base alla valuta-  zione reale darebbe sovvenzioni od aprirebbe crediti.   L’opera d’arte giacente costituirebbe un deposito frut-  tifero per il depositante e per l’Istituto stesso che promuo-  verebbe iniziative artistiche, vendite, ecc. Così l'artista e  l'opera d’arte sarebbero valorizzati.   Questi Istituti potrebbero intraprendere concessioni di  mutui a favore d’'industrie artistiche e ottenere l’uso di  palazzi per adibirli ad abitazioni di artisti, d’istituzioni arti-  stiche od aprirvi periodiche mostre. (Proposta Prampolini,  Marinetti, Russolo, Cangiullo, Depero, Settimelli, Mario  Carli, Buzzi, Matasco). DIFESA DELL’ITALIANITA'.  Italianizzazione obbligatoria immediata degli alberghi (tutte le diciture, insegne, liste delle vivande, conti, ecc.,  in lingua italiana), dei negozi e della corrispondenza commerciale. Mezzi automatici per propagare la lingua italiana  senza spese. (Proposta Marinetti, Russolo, Buzzi, Folgore,  Mario Carli, Settimelli, Depero, Cangiullo, Somenzi, Mara-  sco, Rognoni).    B) Italianizzazione della nuova architettura contro l'uso  sistematico di plagiare le architetture straniere. Cominciare  questa italianizzazione in tutti gli edifici statali, specialmen-  te nei paesi redenti. (Proposte Virgilio Marchi, Depeto,    116    Russolo, Buzzi, Somenzi, Azari, Marasco, Prampolini, Fol-  gore, Volt).    C) Italianizzazione obbligatoria delle edizioni e dei ca-  ratteri tipografici. (Proposta Frassinelli, Rampa-Rossi).  ABOLIZIONE DELLE ACCADEMIE (Istituti di    Atte e Scuole professionali).    Gli attuali sistemi d'insegnamento nan corrispondono al-  le esigenze estetiche dell'evoluzione dell’arte attraverso i  tempi. L'arte non si insegna. Gli attuali diplomati non sono  né tecnici competenti né artisti.    Abolizione delle Accademie di Belle Arti e Professio-  nali senz’altre sostituzioni. (Proposta Marasco).  PROPAGANDA ARTISTICA ITALIANA ALL'ESTERO mediante un Istituto Nazionale di propaganda ar-  tistica all’estero che tuteli glì interessi artistici ed econo-  mici degli artisti italiani.   Questo Istituto dovrà essere diretto da giovani artisti  stimati all’estero e che propugnino con italianità il genio  novatore italiano Avrà commissioni permanenti riguarda  ti le varie arti e uffici di corrispondenza nei principali  centri artistici esteri. Agirà mediante conferenze, concerti,  esposizioni e pubblicazioni periodiche di propaganda. (Pro-  posta Prampolini, Russolo, Buzzi, Volt, Marasco). CONCORSI LIBERI D'ARTE.    Utilizzare una parte del denaro che lo Stato spende  attualmente per l'arte in concorsi di poesia, plastica, ar-  chitettura, musica, riservati ai giovani non ancora venti-  cinquenni, da premiarsi mediante un referendum popo-  lare. (Proposta Balla, Marinetti, Marasco).  AFFIDARE L'ORGANIZZAZIONE DELLE FE.  STE NAZIONALI E COMUNALI (cortei, gare sportive,  ecc.) ai gruppi d’artisti d'avanguardia italiani, i quali han-  no ormai provato in modo incontestabile la loro genialità  innovatrice, fonte di quell’ottimismo che è indispensabi-  le alla salute della Patria. (Proposta Depero, Azari, Mari-  netti, Marasco).  AGEVOLAZIONI AGLI ARTISTI. Riconoscimento legale da parte del Governo dei  diritti d'autore per gli artisti delle arti plastiche, sul mag-  gior prezzo raggiunto dalle opere loro, attraverso le ven-  dite successive, mediante una istituzione simile alla « So-  cietà degli Autori ».    d) Abolizione delle tariffe doganali internazionali sia  riguardo le importazioni che le esportazioni delle opere  d’arte moderna. (Proposta Prampolini, Depero, Azari, Ma-  rasco, Marinetti, Volt).    9° CONSIGLI TECNICI CONSULTIVI formati da  artisti ed eletti fra artisti con una rappresentanza propor-  zionale delle tendenze d'avanguardia. Questi Consigli Tec-  nici consultivi avranno lo scopo di tutelare gl’interessi de-  gli artisti nei rapporti con le istituzioni statali, comunali,  private e gli artisti stessi. {Proposta Prampolini, Mara-  sco, Marinetti, Volt)  RAPPRESENTANZA PROPORZIONALE.    Le avanguardie artistiche italiane dovranno essere in-  vitate a partecipare con una rappresentanza proporzionale  a tutte le manifestazioni e cariche artistiche statali, co-  munali e private. (Proposta Prampolini, Marasco, Marinet-  ti, Volt). CONSORZIO INTERNAZIONALE per la tute.  la degli interessi artistici ed economici degli artisti d'avan-  guardia. Questo Consorzio dovrebbe proporsi l’accentra-  mento delle migliori istituzioni artistiche di avanguardia,  per la solidarietà, la difesa e la propaganda artistica ed  economica. (Proposta Prampolini, Marasco, Marinetti,  Volt).   Per la Direzione del Movimento Futurista  e per tutti i Gruppi Futuristi ltaliani   MARINETTI   NATALE SENZA LUCE  sequestrato).    Chi fu legionario di Fiume non potrà mai dimenti-  care le rosse giornate natalizie di quattro anni fa, con  le quali si conchiudeva tragicamente e desolatamente una  breve ma non ingloriosa epopea. Il ricordo ha poi un  valore particolare per chi lo avvicini al pensiero della  situazione politica odierna, che ha qualche vaga analogia  con quella che segnò la fine di un generoso sforzo della  nuova Italia.   Il sangue fraterno di quelle Cinque Giornate non è  stato ben vendicato. Pareva a molti di noi che la Marcia  su Roma dovesse continuare quella di Ronchi per dare  alla nostra grande Patria una nuova fisionomia di po-  tenza e per vivificarla di un nuovo afflusso di giovi-  nezza. Ma la spinta rinnovatrice della generazione di Vit-  torio Veneto si è, ahimé, fiaccata nel labirinto delle vec-  chie pance e vecchie barbe che tengono tuttora il campo  della vita nazionale. E sul tempo d’arresto che oggi fa  segnare il passo alle orgogliose avanguardie d'impero, la  sagoma «immortale » del cavalier Giolitti si profila —  come quattro anni fa — a rassicurare il mondo che l’Ita-  lia è ancora quella mediocre, umile nazioncella di molte  chiacchiere innacue ma di pochi fatti pericolosi, e che  agni tentativo di virilizzarsi e impennarsi in alati eroismi,  è destinato al più pietaso insuccesso.   Sembra — a ben considerare i più recenti avvenimen-  ti — che il sogno di una politica più alta, più rettilinea,  più forte, sia una morbosa fantasia di cervelli malati; e  che una sola specie di politica sia possibile: quella che  ha nome Giolitti. Vale a dire: quella basata sull’intrigo,  sul compromesso, sulla pattuizione, sull’arte di farsi ricat-  tare.   La manovra parlamentare domina ancora tutto il con-  gegno di governo. E’ pacifico che non si governa coi  parlamenti, poiché essi sono l’antigoverno per  eccellenza: ma è altrettanto pacifico che questo popolo italiano    119    rabbiosamente ingovernabile non vuol rinunciare al suo  bravo Parlamento, fonte di ogni male, serbatoio di ogni  decadenza.    Contro questa massima cloaca nazionale (parlo, s’in-  tende, dell'Istituto, non degli uomini) il Fascismo è an-  dato a impantanarsi pazzescamente. Il Fascismo ha com-  messo questo gravissimo errote iniziale: di non saltare  a pié pari il Parlamento. Viceversa vi si è sentito attratto,  ha voluto saggiarne le delizie, ha voluto conquistare que-  sta quota a colpi di scheda — mortificando la sua anima  guerriera — quando avrebbe dovuto farla saltare a colpi  di bomba. E certi errori sono troppo gravi perché non  si debbano scontare.    Tuttavia, non si potrà negare a noi irriducibili anti-  parlamentari, a noi rimasti fuori dell'aula per volontà pre-  meditata, e quindi immuni da interessi e da schiavitù  elettorali, it diritto di tener fede ai principi per quali s'ini-  ziò la battaglia, e soprattutto alla nostra accesa spiritua-  lità di italiani #4ovi: nuovi nella mente, nel tempera-  mento, nell’educazione, nella passione. Anche se tutto  crollasse attorno a noi, e il nostro sogno trilustre, perse-  guita con appassionata tensione di nervi e di cervello, do-  vesse ridursi in polvere di macerie, noi non rinunzierem-  mo ad essere quelli che fummo e che siamo: cittadini di  una Patria più grande, più eroica, più possente, più do-  minatrice.   Mai non rinunceremo — lo sappiano bene i nostri  nemici — alla nostra sete d’impero, alla nostra fiamma  di grandezza, che odia la vita democratica, l’egualitarismo  ipocrita, il pietismo umanitario, l’eunuco calamento di bra-  che. A noi conviene la formula maschia di Silla, che  per disciplinare la repubblica in dissoluzione e prepararla  all'impero, chiedeva tutti i poteri, il controllo sui tribu-  nali civili e militari, la giurisdizione eccezionale, la legi-  siazione di gabinetto da sovrapporre a tutte le leggi ante-  riori, il diritto di battere moneta, di convocare il popolo,  di sospendere e punire i funzionari dello Stato, e infine,  di mettere fuori della legge i cattivi cittadini. A noi piace  infinitamente Ja salutare ferocia di questo Dittatore-mo    120    dello, che, mentre il Senato discute se conferirgli o no  la potestà dittatoria, fa giungere nell'aula il fiero ululato  dei seimila prigionieri di Porta Collina, sgozzati al suo  segnale, e che incide sulla tabella i nomi dei Senatori  vetanti contro di lui, per ricordarsene a tempo e luogo.   Il Fascismo è venuto al potere più attraverso la spa  da di Silla che l’oratoria di Cicerone. Perché dimenti-  carsene? II Fascismo non ha nulla da sperare da una  sua politica di debolezza conciliatrice. I suoi nemici lo  vogliono polverizzato e disperso, e tale lo avranno se si  continuerà a ceder loro in ogni occasione. Dal 10 giugno  in poi, si può dire che l’Italia è stata governata dall'om-  bra dell’Aventino. Tutto questo è contro natura, contro  storia, contro giustizia. Non sono le ombre che possano  aver diritto al comando, bensì le energie luminose. Quan-  do ci scrolleremo di dosso tutte le ombre importune che  ci soffocano come ali di corvacci e di vampiri?    Mario CARLI  [da: Fascismo intransigente, Bemporad, Firenze 1926, pag. 253-256]   Con la Mostra della Rivoluzione si risolve finalmente,  e in modo favorevole, il grave problema della militariz-  zazione della fantasia creatrice mediante temi fissi da im-  porre agli artisti.   Molti fra i pittori, scultori e architetti, invitati a rea-  lizzare questa Mostra grandiosa, furono indubbiamente  turbati dal prestigio di queste gloriose parole che domi-  nano ormai nella nuova storia d’Italia: interventismo, Vit-  torio Veneto, Mussolini, e Popolo d'Italia, Diciannove,  battaglia di via Mercanti e incendio dell’Avanti!, covo di  via Paolo da Cannobio, Casa Rossa, Lodi, Palazzo Accur-  sio, Marcia su Roma. Legati tradizionalmente ai noti motivi idilliaci cittadi-  nì o rurali, tramonti melanconici e ritratti statici, que-  sti artisti sentirono subito la necessità di capovolgere il  loro spirito per disegnare nell'aria un tuffo perfetto nel  mare della novità.   Da tempo il Futurismo italiano, con il suo seguito di  avanguardie estere più o meno originali, gridava per in-  segnare l'invenzione a ogni costo. Quattro mesi fa il Du-  ce, con la sua bella parola imperiosa e veloce, ordinò che  si evitasse il passatismo della palandrana di Giolitti.   Suggestionati poi dal dinamismo aggressivo colorato e  tragico della Rivoluzione, essi abbandonarono la loro sta-  ticità e la classicità placida. Gli architetti incaricati di dare  una faccia nuova al vecchio e brutto Palazzo dell’Esposi-  zione, sentirono l’assurdità di qualsiasi decorativismo sim-  bolico, floreale, mitologico o grazioso.   Le loro prime linee gettate sulla carta, rizzandosi ascen-  sionalmente, presero lo slancio aggressivo, guerriero e mi-  naccioso di altissime torri di acciaio o ciminiere naviganti.   A me ricordano simpaticamente i geniali fasci di ascen-  sori dell'architettura di Antonio Sant'Elia, il grande e com-  pianto padre futurista dell’architettura moderna.    Logicamente andò determinandosi lo stile della Mostra  per virtù della Rivoluzione e del suo ritmo mobile ag-  gressivo. Si ricorda l’intero profilo d’uno squadrista. Un  dettaglio basta. Di quell’autocarro schiacciato dal peso  dei fascisti come un tino stracarico di giganteschi grappo-  li neri io ricordo soltanto il mosto rosso a terra e l’acu-  tissimo odore di benzina. Quindi sintesi, dinamismo e in-  tersecazioni di piani. Visibilità aggressività giocondità.  Questa Mostra della Rivoluzione, che tutti gli squadristi  augurano non effimera ma duratura, stabilisce la gloria  del Fascismo con uno stile rivoluzionario italiano che ha  avuto pet primi maestri Sant'Elia e Boccioni. E’, secondo  le parole di Edmondo Rossoni dettemi questa mattina, il  trionfo dell’arte futurista.   F.T MARINETTI  [du: Fuiuriszo, Nel fervore della polemica pro e contro il Futurismo  molti si chiedono: come la pensa il Duce? A questo in  terrogativo i nostri avversari rispondono arbitrariamente  come saremmo ugualmente arbitrari noi volendo asserire  l'opposto di ciò che loro affermano. Per la verità il Duce  non può essere dall’una o dall’altra parte (passatismo ©  futurismo) ma nella sua specifica qualità di Capo della  Nazione non può essere passatista e futurista nello stesso  tempo. Che Egli prediliga come certuni pretendono cor-  renti intermedie lo esclude il suo temperamento nemico  di tutti gli oscillamenti e di ogni mezzo termine. Prefe-  risce le posizioni diritte anche le più azzardate e non è  detto quindi che si compiaccia trattenersi ad ammirare le  varie denominazioni che si dànno alla strada nel corso  di così lungo e complicato cammino com'è quello dell'arte.  Egli tende alla meta: L’arte fine a se stessa. Passatismo  e Futurismo: due colossi che se non esistessero Musso-  lini li avrebbe creati apposta non fosse altro, per }a gioia  patriottica di vedere scaturire dal cozzo di queste mentalità  opposte, nuove faville di luminosa genialità italiana. I  piccoli mondi che rotolano ai margini di questa battaglia  sono frammenti o scorie staccatesi, nell’urto, dal corpo  dei titani: hanno una vita effimera e quelli che precipitan-  do come valanghe trascinano nella loro scia deboli detriti  superficiali, se sopravvivono, sono sempre alimentati dal-  l'atmosfera incandescente generosa che emana il corpo che  li ha creati. Passatismo e Futurismo rimangono inamo-  vibili l'uno di fronte all'altro: impossibile conciliare il  concetto conservatore tradizionale del primo col principio  rivoluzionario rinnovatore del secondo. Chi sia il più forte  non è facile stabilite: dipende da determinate condizioni  intellettuali e spirituali di tempo. Oggi però — in que-  sto secolo fascista — più che le biblioteche e i musei si  moltiplicano scuole avanguardiste, impressioniste, raziona-  liste, novecentisie, moderniste in genere, tutte volenti o  nolenti generate dal futurismo. Volenti o nolenti: non ha    123    valore il fatto che molti sconfessano la loto origine. E'  fatale; anzi vorremmo dire storico. Probabilmente tra cin-  quant’anni il mondo fascistizzato considererà Mussolini un  utopista e ogni nazione vanterà il merito di avere instau-  rato per prima il nuovo regime politico. Di queste infa-  mie la storia è... maestra; solo dopo qualche secolo si  rende giustizia alla verità. Tornando al nostro argomento,  è fuori dubbio che Mussolini, valotizzatore delle gloriose  conquiste del passato, sprona i capaci a superarle sul tra-  guardo del più fulgido domani. Quindi il futurismo rap-  presenta infatti quell’eroica generosa pattuglia d’assalto  che trascina l’esercito degli artisti alla conquista del nuo-  vo. Questo fatto in sé eloquente e inconfondibile, unico  nella storia dell’arte, ha rapporti precisi in campo poli-  tico con la gloriosa epopea mussoliniana. L'inesauribile  ottimismo futurista si identifica così con il concetto gene-  roso originale ardito del fascismo vittorioso. Senza citare  fatti e particolari di cui sono ricchi i nostri ricordi per-  sonali, in tema « Mussolini e il futurismo » basterà ri-  cordare giacché l'occasione è opportuna queste tre date  significative: Boccioni vi  avrà detto che tutte le mie simpatie sono, anche nel  dominio dell’arte, per i novatori e i distruttori e per i  futuristi... » Mussolini. 1924: «... presente adunata futu-  rista che sintetizza vent'anni di grandi battaglie artistiche  politiche spesso consacrate col sangue. Congresso deve  essere punto di partenza non punto d'artivo... » Mussolini. ...Dopo di avere concesso il suo alto patronato per le onoranze nazionali al futurista  Boccioni, Mussolini offre il PRIMO generoso contributo ma-  teriale per il trionfo della grande rassegna dell’arte futu-  rista italiana.   A questo punto, dopo quanto abbiamo detto, ulteriori  considerazioni sono superflue come sarebbe superfluo ri-  cordare ancora una volta l'influenza patriottica esercitata  dal futurismo sulla gioventù italiana prima durante e dopo  la guerra e il fattivo isolato contributo dei futuristi al  fascismo nel 1919 (...).   Mino SOMENZ2I  (da: Sant'Elia, n. 3, anno II, 1° febbraio 1934]  Allorché quindici anni or sono, nel palazzo di Piazza  San Sepolcro, Mussolini gettò le fondamenta di quello  edificio colossale che doveva essere il Fascismo, se nel  manipolo degli intervenuti individuò degli artisti, questi  erano soltanto ed esclusivamente artisti futuristi.   Appena creati i Fasci di combattimento, i primi gruppi  che cotseto ad ingrossare le schiere che cominciavano a  formarsi furono i gruppi politici futuristi, prima, e gli  arditi di guerra e i legionari fiumani, poi, sempre per me-  rito esclusivo dei futuristi.   Il nostro Movimento diede quindi al Fascismo un  apporto qualitativo e un apporto quantitativo: inoltre die-  de alla creazione mussoliniana un conttibuto gigantesco  di fede cieca, di entusiasmo eroico.    Vogliamo indagare il perché di questa spontanea sim-  patia, di questo irresistibile trasporto del Futurismo verso  il Fascismo; il perché della meravigliosa, totalitaria cor-  rispondenza fra una cemcezione eminentemente politica ed  una concezione eminentemente artistica?    Prima di tutto, troviamo che il Fascismo e il Futu-  rismo hanno alla loro origine dei germi comuni: l’amore  disperato alla propria terra, la necessità di moto e di  azione. Dell’intervento nella grande guerra uno fece il  punto di partenza per la sognata rivalorizzazione della  patria; l’altro, lo sbocco conclusivo di quei fatti e di quel-  le idee che possono riassumersi nei tre principii futuristi:  « Tutti 1 diritti, meno quello di esser vigliacchi ». « La  parola Italia deve prevalere sulla parola libertà ». « La  puerta, sola igiene del mondo »,   Dalle piazze affollate d'Italia si passò alle trincee in-  sanguinate d'Italia: interventisti intervenuti: identico en-  tusiasmo: identici sacrifici: identica volontà di far ger-  mogliare il bene della Patria dal martirio e dalla morte  dei suoi figli.   E questa è già molto per dimostrare la straordinaria    125    affinità sentimentale, di origine e di scopi esistente tra  Fascismo e Futurismo.   Ma v'è di più. Infatti, passando dal campo delle con-  cezioni teoretiche a quello delle espressioni pratiche, noi  vediamo il Fascismo disdegnoso di adagiarsi nei ricordi  del passato, ansioso di sciogliersi dai vincoli del presente,  protesa con gli spuardi e con tutte le energie alla conqui-  sta del domani. Avanti, avanti sempre, incita il Duce;  raggiunta una mèta, mille altre se ne profilano: occorre  raggiungere anche queste: ogni sosta è un tradimento:  ogni indugio è un delitto.   Non sona questi i principii stessi cui s’informa il  Futurismo?   E il Futurismo è tutto azione e vita: nelle sue schie-  re accoglie la più bella e sana gioventù d'Italia: gioven-  tù d'anni, ma anche di spiriti.   I suoi artisti creano con la stessa generosità, con lo  stesso dispregio di ogni premio e di ogni riconoscimento,  con i quali ! nostri soldati scattavano all’assalto: loro uni-  co orgoglio, lora unica aspirazione è di poter contribuire  a che il nome d’Italia sempre più alto e sonoro e sempre  niù in estensione squilli nel mondo.   E non è Fascismo, questa?   Ma non è soltanto ciò quello che ci spiega come, fatto  mai verificatosi nella storia dell'umanità, una concezione  esclusivamente morale ed artistica abbia potuto così bene  assorbire ed assorbirsi in una concezione esclusivamente  politica e sociale   Il fatto straordinario che oggi non può non riempirci  di legittima se pur meravigliata soddisfazione, è questo:  un colosso della politica che pensa, agisce, crea, con la  ispirazione e la chiaroveggenza luminosa di un poeta: un  poeta che vive la sua arte come una battaglia politica per  la gloria della Patria sua. Né le due espressioni, fino ad  oggi antitetiche, politica e arte, s'urtano o si contrastano:  anzi si può ben dire che esse hanno così informato di sé  medesime le due personalità che concepirle in diversi at-  teggiamenti spirituali ci sarebbe impossibile.    Come spiegare questo fatto così nuovo e così fuori    126    del comune, se non riferendoci ad una forza incoerci-  bile, misteriosa, ma che tuttavia sussiste, a quella for-  za cioè che crea in alcuni privilegiati quegli speciali stati  d'animo per cui il Genio, attraverso l'adamantina lumi-  nosità di un pensiero superiore, giganteggia e s’infutura?   E’ indubbiamente questa forza contro la quale noi  nulla possiamo che fa di Mussolini un futurista della  stessa tempra di Marinetti e di Marinetti un fascista, de-  gno seguace di Mussolini.   E' sempre questa forza che avvicinando i due crea-  tori, avvicina conseguentemente le loro due creature: è  perciò che come non potrebbe comprendersi un futurismo  non fascista così non si potrebbe concepire un fascismo  conservatore e passatista.   E’ perciò ancora che i futuristi e i fascisti, se veri  ambedue, s’intende, non possono distinguersi: l’italiano  nuovo è un miscuglio — nel valore che la chimica dì  a questa parola — di fascismo e di futurismo: essi costi-  tuiscono i due elementi inscindibili e insostituibili di un  tutto organico.   Chi ha detto ai nostri giovani di chiamarsi /uturfasci-  sti? Nessuno: eppure essi, generalmente, così amano de-  finirsi. Inconscio, spontaneo riconoscimento di una gran-  de verità che non può discutersi e non si distrugge.   Come altrettanto vero è che i fascisti autentici sono  ottimi futuristi. e non potrebbe essere diversamente data  l'essenza dinamica, generosa, novatrice, ottimista nella  quale il Duce vuole plasmati i nuovi italiani.   Ma come avviene, allora, che anche tra i fascisti sono  molti i contrati al Futurismo?   Perché molti sono i rimrorchiati che pur vestendo in  camicia nera e ostentando il distintivo, parlando (e pur-  troppo parlando solo) fascisticamente e mettendosi sem-  pre in prima fila nei cortei, han tuttavia conservato l’ani-  ma italiana di anteguerra, pavida, gretta, piccina.   Molti altri poi, pur sentendo nel loro intimo tutto  ciò che di bello e di buono ha il Futurismo, per un sen-  so invincibile di borghesisma, per timore di essere ridicolizzati e per desiderio di essere tenuti e rispettati quali  persone serie, dicono e non dicono, ammettono e smen-  tiscono, concedono e negano, opportunisti rammolliti, bor-  ghesi, vigliacchi.   Ma ciò che prima o poi capiterà a costoro, che noi  sentiamo di odiare profondamente, molta ma molto di  più dei nemici nostri aperti e leali, che almeno rispet-  tiamo, lo ha detto chiaramente il Duce nel suo recente  magnifico discorso all'Assemblea quinquennale. Per essi  non si tratta né di Fascismo né di Futurismo: si tratta di  vigliaccheria, e basta. Non han diritto neppure a chiamarsi  italiani.   Né escludiamo da questa ignominiosa schiera quei gio-  vani d'anni che han conservato intatta l’anima dei bisa-  voli: che gridano doversi l’arte rinnovare e si impuntano  come muli riottosi dinanzi al futurismo: che accettano e  sì prosternano ad ogni novità che ci proviene d'oltre  confine, anche se figlia di genitori futuristi italiani, e  fanno i disdegnosi, gl’incontentabili, i superuomini verso  il nostro movimento che gli stranieri stessi ammirano co-  me un’altra delle tante glorie italiane.    Anche questi così detti giovani non possono e non po-  tranno mai essere fascisti sul serio, giacché essi non  hanno del Fascismo né compreso né assimilato quelle ca-  ratteristiche di spiccato futurismo che sono il rinnovamen-  to, la velocità, il dinamismo, il continuo superarsi, la mat  cia ininterrotta verso la perenne conquista.    E lo stesso diciamo di quei critici che si fermano a  vivisezionare un'opera d’arte, isolandola dal vasto am-  biente donde essa ttae la sua ragione di vita; che fanno  l'anatomia di un nostro artista senza riflettere che esso è  soltanto un membro di un corpo gigantesco. Essi dimo-  strano di aver perduto o di non aver mai posseduto quella  somma virtù latina, fascista e futurista insieme, che è la  virtù della sintesi soffocata in loro dalla fredda pesantez-  za anglo-sassone dell’analisi. Ma costoro sono i compri-  matii, le comparse della nostra vita e abbiamo di già  concesso loro troppo onore di discussione.    Su tutto e su tutti restano le idee: nel campo politi    128    co-sociale, l'idea fascista; nel campo artistico-spirituale.  l’idea futurista.   Ambedue han detto al loro mondo una parola non an-  corta udita; ambedue hanno tracciato, ognuna nei propri  confini, la via nuova da seguire per giungere alla salvezza:  tanto l’una che l’altra si sono dimostrate possenti dina-  mo, generatrici di forza, di fiducia in noi stessi, dì ottimi-  smo. di passione, di entusiasmo.   L'una, nel campo politico, ha raccolto infiniti proseliti  ovunque, e ciò in relazione ai numerosi problemi d’indole  contingente di cui ha trovato o propone le soluzioni; l'al-  tra, nel campo più ristretto dell'arte, ha egualmente susci-  tato energie, ridestato gli addormentati, incitato i pigri,  rincuorato i pavidi, persuaso i dubbiosi.   Se qui dovesse attestarsi l’opera vitale sia dell'una  che dell'altra idea, già tutti i diritti esse avrebbero acqui-  stati per l'imperitura riconoscenza della civiltà.   Ma ambedue continuano nella loro marcia ascensio-  nale: e i critici che affermano essere il Futurismo supe-  rato ci fan lo stesso effetto di quei pochi e sparuti anti.  fascisti che affermano aver il Fascismo esaurito il suo  compito.   Idee come queste nostre non possono né sostare, né  esaurirsi, né esser superate: la loro essenza stessa di con-  tinua marcia, di continua ascesa, di continua conquista  non lo permette.   Un uomo, a idea, una opera potranno esser supe-  rati: ma non l'Uomo, non l’idea, non l’opera.   Ed ora che conclusione trarremo dalla dimostrata iden-  tica struttura spirituale del Fascismo e del Futurismo, dal-  la dimostrata perfetta corresponsione fra loro di scopi e  d’intenti?   La conclusione è la solita: ripetiamo ancora una volta  e confermiamo che il solo artista capace di riprodurre in  tutta la sua ampiezza, in tutta la sua luce e in tutta la  sua gloria la vita nuova dell’Italia di Mussolini è l'artista  futurista e che il Futurismo è la sola espressione d'arte  degna e capace di tramandare ai posteti la vitalità, la po-  tenza, la dinamicità dell’éra fascista. Questo diritto che noi accampiamo ci proviene da quel-  l'identità di spirito, di tendenze, di sensibilità che fa del  Fascismo e del Futurismo un unico, perfetto blocco e che  nessuna scuola, nessuna tendenza, nessun'altra forma di  arte può vantare   E noi teniama al riconoscimento di questo nostro di-  ritto: non perché ci spingano meschini interessi o poco  nobili ambizioni ma perché, forti di un infinito amore per  la patria nostra e di una dedizione cosciente e completa  di tutta la nostra spiritualità alla sovrumana potenza di  un'idea, al fascino gigantesco di un Genio universale, vo.  gliamo che non abbia soste il cammino trionfale che l’Ita-  lia rinnovata sta compiendo verso le sue più alte mète,  sotto il comando romano di Benito Mussolini.    FuTURISMO  [da Sant'Elia, n 64, anna III 4 aprile 1934]  La polemica accesasi negli Anni Trenta tra futuristi  rivoluzionari e futuristi sostanziali o di destra, è già  espressione di quel «secondo futurismo», che abbia  mo visto e detto essere momento collaterale del fa-  scismo-regime. O tentativo piuttosto di conservare la  avanguardia nell'ambito di un sistema che come tale  era più propenso ad un suo ordine intrinseco e im-  prescindibile da mantenere 0 da continuare. In questo  senso il futurismo «di destra», come lo definisce il  sansepolcrista Bruno Corra nel marzo del ‘32 su Fu-  turismo, vorrebbe un po’ essere quello degli « arri.  vati », di chi si asside sulle comode poltrone della  fine della carriera, pur cercando di mantenere uno  Spirito 4 precedente », giovanile e innovatore, che non  può essere venuto meno in chi ha giù combattuto e  si è esposto per una causa di rinnovamento. Gli fa  eco Corrado Gawvoni riprendendo il discorso e pun-  tualizzando il concetto stesso di futurismo, senza che  gli si debba o gli si voglia nulla rubare, come è staio  fatto da tutte le parti, e a riconoscergli invece la sua  portata e i suoi risultati.   Solo una settimana dopo ribatte Paolo Buzzi sul  numero del 26 marzo sempre di Futurismo con un  violento attacco ai «futuristi di destra » e il sostegno  4 un ritorno alle estrema sinistra », come già dice nel  titolo. L'’avanguardia, in quanto avanguardia e se vuol  rimanere avanguardia, non può che esercitare una  funzione di vottura per il rinnovamento ed il rivolgi-  meuto del vecchio e del passato. Come tale l'aver  guardia non può che essere e rimanere di « estrema  sinistra », sC il futurisito si ritiene ancora uvangaar  dia 0 vuole mantenersi e vivere. Resta però forse una  voce isolata quella del Buzzi, rincalzato ancora il 2  aprile, sul numero della settimana dopo, da Remo  Chiti che postula un futurismo sostanziale in cui tutto  si annulla, destra e sinistra, nel momento stesso in  cuni tt futurismo diviene ercativo e vu libera dvi con-  formismi e delle convenzioni.   Ancora «all'Avanguardia » dedicava un quinto ed  ultimo articolo Luciano Folgore, sempre su Futurismo  dello stesso anno (1933). Il futurismo di destra e  quello di sinistra st superano oramai nell'avanguardia  che ancora continua e sì muove nell'avanzata dell'en-  tusiasnio. E l'ottintismo continua in effetti fino al’ul-  timo, anche con la fine del fascismo, anche con la  morte di Marinetti, anche con la sconfitta nella guerra  « sola igiene del mondo », continua ancora nelle ulti  me gencrazioni e nel messaggio dell'ultimo manifesto,  quello del «futurismo-oggi », che vive e crea nel pre  sente.    NOI FUTURISTI DI DESTRA    Quando si riunirà in Roma il primo grande congresso  dei futuristi di tutto il mondo, io andrò a sedermi —  vicino a Buzzi, a Notari, a Folgore, a Govoni — ad un  banco dell’estrema destra. Ma esiste dunque, può esiste-  te un Futurismo di destra? I due termini non fanno a  pugni? Un movimento rivoluzionario può contenere in sé  tendenze conservative? E, infine, l’espressione « futuri-  sta di destra» non val quanto « futurista annacquato e  prudente » non s'identifica con l’ambigua parola « nove-  centista »?   Mi pare che qui si tratti, prima di tutto, di una que-  stione di moralità. Dare al Futurismo quel che al Futuri  smo appartiene: e non truccare il proprio ingegno con una  etichetta di convenienza. Chi si dichiara avanguardista ma  non futurista, sputa nel piatto dove ha mangiato. Poi, io  stabilirei questo principio: che il privilegio di poter restare  nella sfera magnetica del Futurismo pure affermando, nel-  la propria opera matura un remperamento realizzatore di  destra debba accordarsi soltanto a coloro che han dimo-  strato di saper essere « integralmente » futuristi. E recla-  merei il diritto di sedermi a destra, per mio conto, in no-  me della mia effettiva collaborazione al Futurismo più ri-  voluzionario: Teatro Sintetico; Cinema futurista; e due  opete di audacissima narrazione fututista (La donna ce  duta dal cieln — Sam Dunn è morto).   In realtà, fermo restando che l’essenza del Futurismo  è e non può non essere rivoluzionaria, bisogna dire che  nel nostro movimento i termini sinistra e destra non si  oppongono, perdono ciaè il loro significato convenzionale.  La mentalità futurista supera il contrasto fra il sovverti-  mento e la conservazione, in quanto si libera di continuo  in uno slancio creativa. Perciò un eventuale Congresso fu-  turista dovrebbe assumere una configurazione non oriz-  zontale ma verticale: fututisti di cima e futuristi di base,    133    aviazione e fanteria. E soltanto per ragioni di comodo, io  qui mi son servito della parola destra.   Ma diciamo pure i fanti, i pontieri, i costruttori di stra-  de del Futurismo, e avremo indicato il carattere e spiega-  to la necessità di questo settore nel nostro movimento:  l'aderenza al terreno pratico. Come l'architettura, come la  decorazione, l’arte narrativa adempie a una funzione in  gran parte pratica: da ciò l'obbligo per essa di equili-  brarsi tra il dovere del rinnovamento artistico e l’impe-  rativo degli scopi vitali ai quali la sua natura la destina.  Un romanzo illeggibile equivale a una casa senza finestre  per vederci o a una stazione dove i treni non possono cir-  colare. Ora il Futurismo vanta la proptia aderenza al tem-  po attuale anche nel senso della praticità. Le case futuriste  vogliono essere le più comode: la struttura delle città futu-  riste mira ad assicurare i massimi vantaggi alle moltitudi-  ni che devono abitarle. Allo stesso modo il narratore fu-  turista ambisce di garbare alle folle dei giovani, traendone  e in esse trasfondendo gli ideali tipici del nostro tempo,  per via di una tecnica intonata alla sensibilità moderna,  tutta nitidezza brevità sintetismo. Va da sé che il buon  narratore futurista dovrà ogni tanto lasciare la sua bisogna  terrestre, per collaudare ed eccitare nell’ebbrezza di un  volo lirico la propria tempra di novatore. Questa nota velo-  ce non intende di risolvere l'importante problema al qua-  le si riferisce: ma soltanto di proporre lo studio ai came-  rati futuristi.   Bruno CorRrA  Sansepolcrista  [da: Futurismo -- Con il suo articolo « Noi futuristi di destra » uscito  nell'ultimo numero di Futurismo, Bruno Corra ha oppor-  tunamente aperto una tempestiva discussione intorno al  movimento futurista che, secondo me, va allargata e approfondita da una serie di perentorie domande — argo-  menti che, investendone in pieno la vita e la vitalità, ri-  chiedono altrettante risposte urgenti e risolutive,   Quali sono le origini e le funzioni del movimento fu-  turista in Italia.   Quanti e quali sono i movimenti artistici e letterari  succedntisi in questi ultimi venti anni in Europa, che  accusano sinceramente una netta derivazione dal Futu-  rismo.   Individuazione dei movimenti artistici e letterari che  rappresentano una deviazione e una contraffazione del  Futurismo e dei movimenti che, o fingendo d’ignorarlo,  o ammettendolo furbescamente solo attraverso la propria  attenuazione, continuano a pompargli generoso sangue e  a servirsene di veicolo sull’allegro esempio della comoda  simbiosi di Bernardo l’Eremita.   Quali sono Je vere umane ragioni per cui elementi  di primissimo ordine si dispersero e si distaccarono dal  movimento futurista dopo averne fatto parte, o. dopo aver-  ne attraversata l’esperienza (cito alcuni nomi: Palazzeschi  e Carrà; Soffici e Papini).   In che cosa consista e came vada intesa il cosidetto  « contenuto polemico » che, seconda certa critica nostra-  na, costituirebbe il peso morto e il punto d'arresto del  Fututismo.   Quale fondamento abbia l'accusa spesso rivolta al Fu-  tutismo di essere un movimento difettoso e caduco per-  ché nato senza una dottrina estetica che lo giustifichi.   Espansione influenza e fortune del Futurismo in tut-  to il mondo e suo riconoscimento in Italia.   Sono tutte domande che hanno bisogno per una con-  veniente risposta, di lunghe e minuziose trattazioni.   Ed è più che naturale e logica la irresistibile tendenza  dei nostri connazionali a sbarazzarsene con una sola pa-  rola.   Questa parola la conosciamo troppo bene: Marinetti!   Ma conosciamo troppo bene anche il grossolano  trucco,    Si accarezza Marinetti (fino ad un certo punto, e il più nascostamente che sia possibile: è bene non compro-  mettersi troppo!), per negare poi il Futurismo e massacra-  re i futuristi.   Da troppo tempo si pratica ormai l'iniquo inganno  per non sperare che abbia finalmente a fruttare un ri-  sultato vittorioso e definitivo!   E’ il trucco indegno tentato dagli antifascisti contro  il fascismo quando si cercava di mettere in mora il fa-  scismo proclamando il Mussolinisma, nell’assurda cana-  gliesca mira di dividerli, per batterli poi con più comada  separatamente.   Mussolini anche a quei tempi era trappo Duce per  non avvertire la subdola insidia e sventarla.   Marinetti! Chi più di noi l’ha più fedelmente amato  ed ammirato?   Per conoscere quali prodigiosi tesori di amore e di  energia egli possieda, bisogna vederlo all'estero. Bisogna  sentire allora con che fuoco egli è capace di affrontare  i pubblici più paurosi per numero e distinzione, più ostili  ad ogni cosa che abbia la nostra impronta di quanto non  st creda, e per mentalità, per gelosia e furore d'inferiorità;  bisogna sentirlo dominare a poco a poco col suo impeto  irresistibile gli spiriti o avversi o diffidenti, e, mentre  fa giganteggiare nelle assemblee stipate l’ombra magnani-  ma del Duce, vederlo a trascinarle all’'entusiasmo e co-  stringerle a riconoscere la poesia italiana come una cosa  caduta dal cielo: bisogna, dico, vedere quest'Uomo straor-  dinario all’estero, per capire che instancabile affascinante  ambasciatore d'italianità nel mondo noi abbiamo in lui.   Se l’attività di Marinetti presenta una debolezza, que-  sto avviene proprio in casa nostra. E' una debolezza che  è forse il suo più alto titolo di gloria. E ritorneremo sul-  l'argomento.   Ma approfitrarsene come troppi fanno, è un mostruo-  so delitto.   Che cosa volete allora?, ci domanderà qualche impru-  dente con un sorriso allusivo.   No, no, non invidiamo il puzzo di benzina, state tran-  quilli: a questo volevate alludere. Ma troppe volte ricevia-    136    mo in faccia la cenciata dell'insolente puzzo di benzina  per non sentirci offesi e disgustati nella nostra rassegnata  povertà.   La ragione del nostro malcontento è che da troppo  tempo noi andiamo seminando e falciando per quelli che  ci seguono e allegramente raccolgono senza nemmeno ri-  volgerci un pensiero di ringraziamento.   Amici cari, se ci fermassimo un po’, se ci voltassimo  un pochino indietro anche noi? Se pensassimo anche noi  di raccogliere un pugno di quelle spighe, da portarcele a  casa se non altro per ricordo e testimonianza della lunga  fatica compiuta?   Ma se lasciamo ancora correre un poco, ho paura che  ci negheranno anche questo piccolo premio di consolazio-  ne; e se ci destineranno un posto {bontà loro!), questo  non sarà che per il museo, tra le mummie di coloro che  st prodigarono e sactificarono per una fede e un ideale  e che Alfredo Panzini già propose di raggruppate in una  sola classifica con la denominazione di collezione di fessi...    CorRrADO GovonI  [da: Futwrismo,  ESTREMA SINISTRA    E non vorrei altro aggiungere. Le distinzioni, «i pun-  ti fermi», Îe categorie anagrafiche non contano. Si sa  che, per taluni, l'età del « destino » futurista è passata da  un pezzo. Pure, quando la febbre della creazione non è  discesa e, soprattutto, quando il traguardo tremendamente  astrale della proptia Opera non è raggiunto, ci si sente,  ogni mattina, l'età — magari — di Vittoria, di Ala e di  Luce Marinetti...! Questo, e non altro, è il vero futurismo.  Perché dovrei sedermi a destra, proprio io? Mi sembre-  rebbe di tradire la causa di « Aeroplani », di « Ellisse €  la Spirale », di « Cavalcata delle vertigini », di « Popolo  canta così! » di « Dannazioni » e di tutto il mio Teatro  inedito, ma ultra violetto, che ha forse, a suo tempo, spa-  ventato anche i genii scenici sovversivi di Petrolini e di  Bragaglia.   Soprattutto, mi sembrerebbe di tradite le mie Opere  fantasticamente audaci di domani: « Beatitudini »  (affret-  tati mio caro Campitelli: perché l'aeroplano-razzo deve  partire per le stelle!). « Canto quotidiano », dove vedrete  il Poema attimistico del 1932 (la « Prora », lo sta stam-  pando); e «Nostra Signora degli Abissi »: dove, fina]  mente, la Motte sarà vinta e le onde cosmiche impaste-  ranno da pari loro la nuova genesi delle radiazioni inter-  planetari.    Questo è futurismo: e di ultra estrema sinistra.    Le mie anatomie sintetiche di anime e di sensi, le mie  aeropitture di tipi e di paesaggi, i miei cosmapolitismi spa-  ziali e i miei intimismi vorticosi stanno per una intransi-  genza etico estetica che costituisce, ormai, la gioia (ed, un  pochino, anche la gloria) della mia lunga carriera di uomo  che ha sempre fatto dell'Arte come il sacerdote celebra  messa. Aviatore sempre, adunque: fante e stradino, non  mai. Lo so che i miei romanzi (appunto perché sempre ed  esclusivamente poemi) non hanno trovato che editori san-  ti, martiri ed eroi. Ma anche questo è un segno nobile del-  le cose e degli uomini e degli eventi. In quanto alle mie  opere di Poesia pura, ho avuto la soddisfazione recente di  trovarmele analizzate e comprese e discusse ed evidente-  mente — quindi — amate da una Rivista di giovanissime  menti e di ardentissimi cuori: dico, la « Penna dei Ragaz-  zi » diretta da Vittorio Mussolini, edita in Roma.   I giovani, quelli veramente degni di questo nome pri-  maverile, sanno che, al di fuori e al di sopra d’ogni inevi-  tabile chiasso letterario, la parola « futurismo » risponde  alla solo unica vera «idea forza» che oggi esista nella  sfera ideale del Mondo: e che è in grazia di essa, unica-  mente di essa, se oggi la Poesia della miracolosa Italia  fascista vive e vivrà.   Naturalmente io dico ai giovani, anche e specie se    138    coronati dal casco d'alluminio in pieno cielo: « lavorate »  non accontentatevi di quattro parole intonate all’onoma-  topea del motore: la Poesia italiana ha ben altri diritti ed  impone ben altri doveri! guardate dalle finestre di Palazzo  Venezia, la Via dell'Impero! e cantate i nuovi « Carmi de-  gli Augusti e dei Consolari », se ne siete capaci! Il Duce  vi premierà.  PaoLo BUZZI  [da: Futurismo,  FUTURISMO SOSTANZIALE    « Non c’è che un futurismo: quello di estrema si-  nistra », ha affermato Paolo Buzzi. Ma questa generosa  intransigenza che parrebbe volere ammettere un unico  modo di manifestarsi — contro la premessa di Bruno Cor-  ra circa il riconoscimento o meno d'un futurismo di destra  « aderente al terreno pratico » — rimane una questione  poetica e individuale di fronte agli argomenti che le ter-  ranno dappresso:    1) Il futurismo non è formalista; non si crea né  si lascia creare barriere dalle definizioni; pago della pro-  pria influenza, lontano da ripulse d’ortodossia vendicati-  va, riconosce per suo anche quello che è tale sull’altro  name.   Del resto Corra aveva scritto: « fermo restando che  l’essenza del futurismo è e non può non essere rivolu-  zionaria, bisogna dire che nel nostro Movimento i termi-  ni sinistra e destra non sì oppongono, perdono cioè il loro  significato convenzionale. La mentalità futurista supera  il contrasto fra il sovvertimento e la conservazione, in  quanto si libera di continuo in uno slancio creativo ». Le centinaia di migliaia di aderenti al Movimen-  to non si compongono di un solo tipo di futurista. La convinzione può essere unica; ma l'ispirazione e i tem-  peramenti saranno naturalmente diversi. Così uno stesso  tema, di sentimento futurista, verrà espresso in stili di-  versi.   Si dovrebbe scartare i meno intensi? Fino a quel pun-  to? E come negarne la sostanza futurista?    3) La varietà di tipi, che documenta l’importanza  sociale del fenomeno futurista, è assoluta; e va dai poeti  ai militari, dai pittori agli industriali, ecc.   Bisogna presupporne quindi una gradazione di realiz.  zatori; gradazione intimamente connessa alle diverse si.  tuazioni ambientali o tecniche in cui i tipi si trovano. Non  si tratta qui di temperamento o di mentalità più o meno  ardenti. Si tratta di concezione e di azione che devono  spesso basarsi sul comune « campo pratico » dove s'in-  contrano il numero o la psicologia, cioè i mezzi materiali  negli scambi del pensiero e del lavoro (p. e, i giornalisti,  gl'ingegneri).   Io penso che Marinetti, quando parla nei convegni e  alle inaugurazioni, faccia — con istintiva attenuazione del-  la sua anima inquieta — del futurismo di destra. Perché  allora è sul terreno « pratico ».   E buon testimone potrebbe esserci Mino Somenzi stes-  so, uomo ardito, pittore d'incendi, cervello intransigente,  che pure fu l'organizzatore, modesto e alacre del I. Con-  gresso futurista a Milano, 1924, riuscendo con l'intelli-  gente accoglienza a dare alla manifestazione una luce  di concordia, rara nelle ancor più rare grandi adunate di  artisti e di caratteri spiccatissimi; Somenzi stesso che fon-  dò questo giornale indispensabile alle rivendicazioni di con-  quiste artistiche e ideali misconosciute ed alla continua-  zione della tenace opera di ringiovanimento, ed accolse  dopo, con larghezza d'intenti, l'ingegno d'ogni età e d'ogni  fama purché attratto da poli positivi.   Dunque, se si dovesse affermare l'essenza d’un solo  futurismo bisognerebbe dire: « futurismo sostanziale », che  è poi quello del 1909, di oggi e dell'avvenire: umano, illi-  mitato, ascendente.   Le idee vitali sono al disopra degli stessi uomini che le divinano e le dettano. Esse formano il « tempo », mi.  racolosamente, quasi contro tutte le volontà.    Corrado Govoni, a seguito della discussione aperta da  Bruno Corra, proponeva di riesaminare la posizione del  tuturismo fra le correnti nostrane ed estere. Dei sette que-  siti presentati, una richiamava l’attenzione su l'accusa mos-  sa dal culturalismo circa una pretesa assenza di dottrina  giustificante l'estetica futurista.    Anche il Fascismo fu accusato di assenza di dottrina: -  e non dai soli avversari.    Quale dottrina, quando la critica ufficiale vede attra-  verso la cultura, divenuta una seconda natura?    Remo CHITI  (da: Faturismo, n. 30, anno II, 2 aprile 1933] Mi ricordo che Umberto Boccioni propendeva per un  movimento chiuso e voleva che i giovani artisti, i quali  si dichiatavano futuristi e aspitavano ad entrare nel nostro  gruppo, subissero un lungo periodo di quarantena.   Secondo Boccioni non bastava proclamarsi novatore  per esserlo, in realtà; non era sufficiente una adesione più  o meno entusiastica per avere ingresso libero in un mo-  vimento che si proponeva di attuare nell'arte e nella vita  un nuovo ordine di cose.    Dal suo punto di vista, puramente artistico, il crea-  tore del « dinamismo plastico » non aveva torto. Il dono  della originalità non è largito che a pochi. Per superare  il già fatto, mettersi in armonia coi propri tempi e pre-  vedere i lineamenti estetici del futuro occorre un’intelli-  genza ardita, geniale e di largo respiro.    Ma contro l’esclusivismo boccioniano insorgeva la vi    141    brante liberalità di Marinetti, che più futurista di ogni  altro intuiva la necessità di creare un clima, di generaliz-  zare una tendenza, di suscitare una vasta atmosfera spiri-  tuale in cui si dovessero respirare continuamente il senso  e il desiderio della novità.   Ecco la ragione profonda del suo proselitismo, della  sua accettazione, quasi incondizionata nel movimento, di  tutti quei giovani e giovanissimi che avessero fede nel  futurismo.   Tale generosità non fu e non sarà mai faciloneria.   Nel fervore del diciottenne c'è sempre qualcosa di vivo  e di sacro che è impossibile trascurare. Ognuno di noi  sa per esperienza che è la primavera, anche con le sue  intemperanze, la stagione che prepara i germi e i frutti di  domani. E non bisogna aver paura che gli entusiasmi sbol-  liscano presto. Basta che la fiaccola timanga accesa e che  trascorra di mano in mano agitata e sollevata continua-  mente da qualcuno che ha fiducia nell’eterna giovinezza  della nostra arte e della nostra vita.   Futurismo di destra? Futurismo di sinistra? Non cre-  do che sia il caso di parlarne. In quanto alle benemerenze  e al sacrifici, talvolta eroici, dei primi banditori del futu-  tismo essi appartengono ormai alla storia.   L'amico Govoni vorrebbe che i futuristi della vigilia  fossero promossi al grado di santoni e avessero quel tribu-  to di applausi e di ricompense che essi giustamente meri-  tano. Ma ciò equivarrebbe a una giubilazione e noi ri-  schieremmo di diventare dei sopravvissuti.   Il piedistallo e l’altare non sono il nostro posto di  combattimento.   In prima linea sempre e all'avanguardia ad ogni co-  sto! Anche a costo di essere eternamente in contrasto con  il gusto del pubblico che è per sua natura ritardatario e  accetta soltanto il futurismo di seconda mano, addomesti-  cato dagli abili profittatori del nostro movimento.   Questo disprezzo del rendiconto e del caso personale,  questa ferma volontà di essere più giovani dei giovani è  un segno di vitalità e quindi di ottimismo. Di quell’otti-  mismo che molti pseudo-avanguardisti aborrono perché so-    142    no nati con la barba nel cervello, non hanno avuto mai  vent'anni e non arrivano a comprendere che soltanto nel-  l'entusiasmo assoluto e nella fede cosciente ma senza mez-  zi termini c'è il lievito di ogni grandezza futura e d’ogni  poesia nuova. Chi ha il torcicollo nostalgico non può guar-  dare dititto innanzi a sé e andare oltre speditamente.   Chi nega l'ottimismo nega lo slancio vitale che si per-  petua nel tempo e nello spazio perché ricco di speranze  istintive e fornito da madre natura del vero e genvino  senso dell'immortalità.   Avanti dunque coi giovani e giovanissimi. Il clima fu-  turista dev’essere sopratttuto un clima primaverile e  acerbo.   Luciano FOLGORE  [da: Futurismo, -- Abbiamo raccolto quattro testimonianze futuriste, è  sul futurismo. Una è di Alberto Sartoris, architetto,  una di Tullio Crali, pittore, una di Curto Belloli, eri-  tico d'arte, e una di Enzo Benedetto, pittore e giorna-  lista. Tre furono e sono futuristi: il quarto (Carlo Bel.  loli) è un esperto, studioso ed interprete del futurismo.  Ci sono sembrati interventi significativi e ittdispensa-  bili alla puntualizzazione dell'argomento, visto che si  tratta di personaggi viventi, che hanno partecipato al  futurismo e che ancora oggi lo sostengono e cercano  di dargli alito o di vivere futuristicamente a tutt'oggi  in un mondo, forse, ricaduto nel « passatismo ». Crali  con l'aeropittura e la sassintesi ha continuato l'avan-  guardia, cui aveva aderito col futurismo che sempre  l'aveva sostenuta, al di qua e al di là del fascismo.  Benedetto con un manifesto {Futurismo oggi) e poi    con un foglio periodico «operativo », capace di pro  porci il futurismo di ieri e anche quello di oggi. Sar  toris con un'ottività artistica professionale volta 4 con-  timuare, anche se in oltre direzioni n con altri strumen-  ti di vicerca, la prima avanguardia cui aveva aderito  entusiasta. Belloli puntualizza e sancisce criticamente  con la profondità dell’evperto certi. rapporti e certe  « colleganze », troppo spesso volutamente dimenticate 0  accantonate. La critica deve essere seria e intellettual.  mente, n «ideologicamente », corretta. E° quello che  abbiamo cercato di fare. Anche con la pubblicazione  di questo testimonianze    Carlo Belloli, critico, poeza « visuale » di sperimen  tazione futurista, e docente nelle università svizzere di  estetica {Basilca) e storia della critica d'arte (Strasbur-  go) Nato nel 1922, vive a Milano e Basilea. E' colla  boratore de La Martinella di Milano, già del Roma di  Napoli, e della rivista Les Arts di Parigi Organizza  come consulente le mostre di numerose gallerie d'arte    di Milano.    Enzo Benedetto, pittore e scrittore, futurista « da  sempre » (1923). E' nato a Reggio Calabria nel 1905,  vive a Roma, dove ha lo studio e pubblica Futurismo  aggi, che esce dal ‘69, bimestralmente, con saggi e ri  produzioni di opere futuriste. Fu anche autore del  l'omonimo manifesto nel dopoguerra (1967).    ‘Tullio Crali, pittore futurista e aeropittore. E' nato  nel 1910 a Igalo, in Dalmazia. Vive a Milano dove ha  lo studio e il più importante archivio del futurismo  attualmente esistente. Futurista dal '29 e creatore della  camicia anticravatta e della giacca antibavero (nel '33),  é firmatario nel ‘58 del manifesto futurista sulla « Sas-  sintesi ». Sarà uno degli ultimi a vedere Marinetti nel  ‘4d, prima della morte, a Venezia e e concordare can  lui la continuità del futurismo dapo la guerra    Alberto Sartoris, architeito e professore dll'Univer  sità di Losanna. Futurista e amico di Terragm e di Le  Corbusier, E' nato a Torino nel 1901. Vive a Cossonay  Ville, vicino a Losanna, Aderì al futurismo nel 1920 e  nel ‘28 sarà con Prampolini e Fillia nel gruppo torinese.  Nel ’36 fonda il gruppo degli astrattisti a Como, dove  collabora con Terragni nel progetto della città operaia  di Rebbio. ('39-40). Sua opera fondamentale è il li  bro Gli elementi dell’architettura funzionale (1932),  pilastro teorico del razionalismo architettonico italiano  (introdotto da Le Corbusier)    FUTURISMO-FASCISMO:  OSMOSI DI DUE MOVIMENTI DELL'ITALIA  CONTEMPORANEA    Dal futurismo confluirono al fascismo, o viceversa, al-  cuni letterati e pittori, qualche pensatore, di singolare auto-  nomia espressiva.   E' il caso di Mario Carli, Emilio Settimelli ed Arman-  do Mazza letterati e giornalisti di non trascurabile inci-  denza che dalla originaria militanza futurista estrassero  dialettica, argomentazioni autonome e maturazione spiri-  tuale, per assumere nel giornalismo fascista più avanzato  ruoli protagonisti.   Mario Carli, ufficiale degli Arditi nella prima guerra  mondiale e poi legionario fiumano, fondò con F.T. Ma-  rinetti l'Associazione degli Arditi d’Italia e il periodico  Roma Futurista dalle cui colonne trovarono sistematica  divulgazione il teatro sintetico, le pratiche parolibere dei  poeti futuristi e le prime prove versoliberiste di Giuseppe  Bottai che ne fu redattore.   In quel 1919 anche il generale Luigi Capello si avvi-  cinerà ai futuristi per esporre alcune tavole parolibere di  accertata ingegnosità, alla « Grande Esposizione Naziona-  le Futurista » nella galleria centrale d'arte di Palazzo Co-  va a Milano, mostra successivamente presentata a Firenze  e a Genova.   Mario Carli con la raccolta di versi liberi e parole  in libertà Caproni, pubblicata a Milano nel 1925, precorse  l’aeropoesia futurista degli Anni Trenta.    Alla prosa poetica, Carli, aveva dedicato Le notti fil-  trate, singolare repertorio lirico pubblicato nel 1918 e ri-  stampato a Roma, nel 1923 per i tipi di Giorgio Berlutti  che dirigerà quella Libreria del Littorio, editrice di mo:  numenti e documenti dell'era fascista. Il suo debutto di  prosatore era avvenuto nel 1909 con un seguito di novel-  le, Seduzioni, cui seguirà, nel 1915, il suo primo romanzo, Retroscena. All’attività letteraria e giornalistica Mario  Carli alternerà quella politica e diplomatica.    Nel 1926 pubblicherà a Firenze Fascismo Intransigente,  con prefazione di Roberto Farinacci, che inaugurerà la ten-  denza più oltranzista del fascismo.   Nel 1925 Carli era stato nominato Console d’Italia  in Brasile, per essere in seguito trasferito a Porto Alegre  nel 1927, anno in cui Bernardo Attolico assumerà la reg-  genza dell'Ambasciata d’Italia a Rio de Janeiro.   La tournée brasiliana del fondatore del futurismo a  Rio de Janeiro, Porto Alegre, San Paolo e Santos, nel  maggio del 1926, troverà Mario Carli a fianco di Mari-  netti per arginare le polemiche causate in Brasile dalla  aperta posizione fascista dell’inventore delle parole in li  bertà.   Dalla ribalta dei teatri brasiliani Carli prenderà la  parola con Marinetti ricordando che il fascismo dei-futu-  risti non aveva impedito di condurre ricerche nuove nelle  arti e nell'estetica alle quali la poetica futurista aveva  aperto liberi orizzonti precisamente influenzando il « mo-  dernismo » sudamericano.   Emilio Settimelli, poeta, scrittore di teatro e giorna-  lista, aveva debuttato nel gruppo futurista toscano nel  1915 e con F.T. Marinetti e Bruno Corra aveva curato  la prima antologia del Teatro Sintetico Futurista, edita da  Umberto Notati, a Milano in quel medesimo anno, nella  collezione dei « Breviari Intellettuali » del suo Istituto  Editoriale Italiano.   Nel 1917 Settimelli pubblicherà a Firenze Maschera-  te e, nel 1918, I capricci della Duchessa Pallore, edito a  Milano dalle Messaggerie Italiane. Settimelli risulta pre-  cursote di un periodare scarno e telegrafico, serrato e dia-  lettico, inttoducendo la pratica di neologismi sociopolitici  che avranno fortuna nel linguaggio governativo e giorna-  listico italiano degli Anni Venti e Trenta. Il teatro sin-  tetico di Settimelli si differenzia da quello degli altri auto-  ri futuristi per lucida imprevedibilità di azioni-stati d’ani-  mo simultanei. Nel fascismo anche Settimelli appartenne  alla corrente più revisionista e le sue Sassate, pubblicate    148    a Roma-Firenze nel 1926 dalla Casa Editrice Italiana, col:  piranno più di un gerarca in posizione moderata e con-  formista.   Filippo Tommaso Marinetti redigerà nel 1921 con Emi-  lio Settimelli e Mario Carli il manifesto Che cos'è il Futu-  rismo | Nozioni elementari, dove vengono considerati « fu-  turisti nella politica » coloro che amano il progresso del-  l'Italia più di loro stessi, quelli che vorranno liberare  l'Italia dal papato, dalla monarchia, dal senato, dal parla-  mento, dal matrimonio, precorrendo molti, successivi, pro-  positi del fascismo.   Così la volontà di perseguire un governo tecnico di  giovani, senza parlamento, « vivificato da un consiglio ec-  citatorio di giovanissimi », la determinazione di « espro-  priare gradualmente tutte le terre incolte e malcoltivate,  preparando la distribuzione della terra ai suoi lavoratori »  e l'abolizione di ogni forma di parassitisma burocratico,  industriale e capitalistico, diventeranno tipicamente na-  zionalfasciste e fasciorepubblicane.   Il manifesto considera, poi, « futurista nella vita » chi  « sa dare a tempo un cazzotto e uno schiaffo decisivo »,  chi « agisce con energia pronta e non esita per vigliacche-  ria », come chi « fra due decisioni da prendere preferisce  la più generosa e la più audace, sempre che sia legata al  maggiore perfezionamento e sviluppo dell'individuo e del-  la razza... »: medesima l'etica fascista di alcuni anni dopo.   Nel 1922 Emilio Settimelli aveva dedicato un saggio  critico all'opera di Marinetti, edito a Milano con | tipi  di Gaetano Facchi, che può essere considerato il primo ten-  tativo di analizzare la letteratura marinettiana al di sopra  del clamore scandalistico e della propaganda futurista.   Nel 1927 Settimelli pubblicherà a Roma, nelle Edizioni  d'Arte e di Critica, Come combatto che raccoglie i suoi  più polemici scritti apparsi sul quotidiano romano L’Irm-  pero, diretto con Mario Carli.   Verso la fine degli Anni Trenta, Settimelli, subirà al.  cuni anni di confino di polizia causati dalla sua intransi-  genza critica verso alcuni personaggi-chiave del regime.   Di Armando Mazza, che ci fu dato di personalmente    149    conoscere e frequentare, il futurismo si avvaleva per pre-  sentare le prime, contestate, serate propagandistiche nei  teatri della Penisola.   Eccellente declamatore di versi, tonante dicitore di  manifesti tecnici futuristi, Mazza possedeva un fisico atle-  tico di lottatore greco-romano. Marinetti affidava, quindi,  a Mazza la protezione della ribalta dagli attacchi passatisti,  mentre Îa sua voce tonante sovrastava i fischi e il vociare  degli oppositori.   Singolare poeta parolibero, Mazza, sarà il primo ad  organizzate un movimento anticomunista, fondando nel  1919 a Milano, il settimanale politico I wmemzici d'Italia,  organo antimarxista, nazionalista e prefascista. Nel 1918  Mazza aveva pubblicato dall'editore Gaetano Facchi di  Milano 10 Liriche d'Amore, seguito di altrettanti poemi  in versi liberi stampati come cartoline postali raccolte in  contenitore di carta crespata. Queste cartoline poetiche so-  no il primo esempio rilevabile e significativo di quella che  negli Anni Settanta verrà definita Ma:l Art, « Arte po-  stale », assegnando alla comunicazione poetica il canale  inabituale della spedizione a domicilio del messaggio este-  tico. Già nel 1917, Armando Mazza, aveva introdotto l’uso  delle « Cartoline Postali di Guerra », edite dallo Stabi-  limento Tipografico Taveggia di Milano, di cui Vedetta  (cm. 13,7 x 19) resta la più curiosa ed esteticamente de-  terminante. Ai poemi postali faranno seguito Due morti.  liriche pubblicate nel 1919.    Nel 1920 Mazza pubblica Firmamento / con una spie  gazione di F.T. Marinetti sulle Parole in Libertà, edito a  Milana dalle Edizioni Futuriste di Poesia. Si tratta di  una pregevole sequenza di parole in libertà dove la com-  ponente tipovisuale dialettizza le scelte semantiche, tal-  volta enfatiche ed irruenti con frequenti ricorsi ad ana-  logie non sempre depurate. Poi Mazza verrà totalmente  assorbito dal giornalismo e dall’attività politica    Sarà direttore di importanti periodici come La grande  Italia e di quotidiani: L'Arena di Verona, I! Giornale di  Genova, Il Resto del Carlino di Bologna.    Ricordiamo i grandi occhi azzurri di Armando Mazza    150    farsi ancora più liquidi e trasparenti quando ci parlava del  Manifesto dell’Antitradizione Futurista dalle righe del qua-  le Apollinaire gli inviava, nel 1913, fiori, « rose », riser-  vando « merde » ai conservatori e ai romantici. Mazza  aveva frequentato Guglielmo Apollinaire a Parigi e Grasa  Aranba a Rio de Janeiro, Benedetto Croce a Napoli, ai  tempi de La Diana e Giovanni Gentile a Milano, proprio  mentre il filosofo stava orientandosi verso il fascismo.  Amicissimo di Umberto Boccioni, che aveva aiutato nei  primi anni del soggiorno milanese, Mazza, era stato di-  pinto dal maestro futurista in un esemplare pastello di  rara fattura e di deflagrante cromaticità, che pubblicam-  mo nel 1977 fra le opere inedite di Boccioni.    Sarà Mazza a favorire l'attitudine di Boccioni per la  critica d'arte, presentandolo ad Umberto Notari, editore  del quotidiano, poi settimanale, Gli Avvenimenti dove il  pittore reggerà per qualche tempo la rubrica d'arte. Il  fascismo di Armando Mazza restò sempre moderato e la  sua coerenza politica gli causerà nel dopoguerra 1940-1945  il più completo ostracismo, impedendogli di continuare la  attività giornalistica di cui ebbe profonda nostalgia sino  agli ultimi giorni di vita.   Il forzoso silenzio pubblicistico ricondusse Mazza alla  poesia alla quale apporterà non trascurabili contributi in  versi liberi pubblicati, fra il 1948 e il 1959, presso editori  inadeguati. Fra i più importanti poeti del futurismo con-  fluiranno al fascismo, assumendovi incarichi di alta re-  sponsabilità, anche Auro d'Alba (Umberto Bottone) che,  a Roma, diventerà capo dell'ufficio stampa della M.V.S.N.  (Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale) e Paolo  Buzzi che, a Milano, assumerà la carica di Segretario Ge-  nerale della Deputazione Provinciale. Altri futuristi di  minore rilievo, come il poeta Federico Pinna-Berchet, au-  tore delle Liriche d’Assalto, pubblicate a Roma nel 1930,  il poeta parolibero giuliano Bruno Sambo e Ferruccio  Vecchi, prosatore e capitano degli Arditi, aderiranno al  fascismo svolgendovi ruoli anche decisivi. Sambo diventerà  federale di Addis Abeba, mentre Pinna-Berchet e Vecchi  ricopriranno alte cariche corporative. Così il genovese Bolzon, poeta-pittore futurista dal 1919 e battagliero  giornalista, sarà Sottosegretario alle Colonie nel 1928, poi  Consigliere di Stato e autore, fra il 1920 e il 1930, di  saggi di critica sociale e di teoria fascista pubblicati dalle  edizioni Alpes di Milano.   Anche il grande invalido di guerra Giuseppe Steiner,  piacentino, poeta parolibero e autore di quei fondamentali  Stati d'Animo disegnati, editi nel 1923, che precorsero la  « poesia grafica » di Pino Masnata e la « poesia visiva »  dei giovani fiorentini negli Anni Sessanta, sarà nominato  Consigliere Nazionale fascista. Dal futurismo si oriente-  ranno verso il fascismo anche il poeta-aviatore Guido Kel-  ler, legionario fiumano e autore del lancio aereo di un  pitale su Montecitorio a monito di Francesco Saverio Nitti,  il « cagoia » del « Natale di sangue » fiumano; e la Me-  daglia d'Oro ferrarese Olao Gaggioli, poeta parolibero fu-  turista e pluridecorato ufficiale del XXIII Battaglione di  Assalto dei Bersaglieri sul Podgora.    Nan va, infine, dimenticato il giornalista Ernesto Da-  quanno, poeta parolibero e cofondatore a Milano del pe-  riodico I Principe, organo fascista difensore della « Mo-  narchia integrale ». Daquanno, che nel 1925 aveva pub-  blicato Now c'è poesia, saggi sul risveglio dell’artigianato  italiano, diventerà nel 1927 capo ufficio stampa della  Federazione Fascista delle Comunità Artigiane.    Un riferimento, poi, al poeta parolibero e autore di  teatro sintetico Guglielmo Jannelli, messinese, che dai «Fa-  sci Futuristi », di cui era stato promotore nel 1918 con  Marinetti, passerà ai « Fasci di Combattimento Siciliani »  assumendovi compiti determinanti. Nel 1924 Jannelli pub-  blichetà a Messina, per i tipi delle Edizioni della Balza  Futurista un polemico saggio dedicato a La crisi del Fa-  scismo in Sicilia, dedicato in frontespizio « A Emilio Set-  timelli e Mario Carli, miei fratelli nella avanguardia arti-  stica e politica della nuova Italia e anime capaci di ren-  dere pienamente la sincerità che mi ha mosso a compiere  queste franche pagine obbiettive ».    Questo scritto di Jannelli conferma l’esistenza di una  autocritica nell’ambito del fascismo, di una volontà revt-   con 1acusaro adagio. «.., oDbDedienza pronta, cieca, aSS0-  luta... ». Così Jannelli vede il fascismo nel 1924: «... il  fascismo si è rotto in due pezzi: molta della parte più  buona è rimasta bloccata, impedita di agire; e l’altra par-  te trionfa esteriormente unita ma intimamente diversa, po-  co moderna, niente affatto veloce e qualche volta insi-    gnificante... ».    Anche Corrado Pavolini, poeta, autore teatrale, regi-  sta, critico d’arte e letterario, che si era avvicinato al mo-  vimento di Marinetti attraverso l’opera del pittore futuri-  sta fiorentino Primo Conti e aveva dedicato nel 1924 un  saggio monografico al fondatore del futurismo pet, infine,  pubblicare nel 1927, a Bologna per i tipi dello Zanichelli,  quel fondamentale Cubismo Futurismo Impressionisnio, ade-  rirà al fascismo assumendo importanti incarichi nel diret.  torio del partito e al Ministero della Cultura Popolare.  Dal fascismo perverrà, invece, al futurismo il filosofo Fran-  cesco Orestano, Accademico d’Italia, che negli Anni Tren-  ta dedica al movimento di Marinetti saggi di teoria este-  tica e di critica letteraria. Orestano aveva pubblicato nel  1907 quegli importanti Valori Umani la cui struttura teo-  retica aveva particolarmente influenzato il giovane Ma-  rinetti.”   Anche Paolo Orano, scrittore, storico della filosofia  e sindacalista sorelliano, che fu Deputato fascista per la  Sardegna alla XXVI legislatura e per la Toscana alla XXVII  e al quale venne affidata nel 1926 la prima cattedra di  storia del giornalismo nella facoltà di Scienze Politiche  dell’Università di Perugia, si orienterà verso il futurismo.  Nella raccolta di saggi critici I Contemporanei, pubblicata  a Milano da Mondadori nel 1928, Orano riserverà a Ma-  rinetti una esegesi determinante, del tutta favorevole al  futurismo considerato estetica nuova di apertura inter-  nazionale. Dalla pittura futurista si muove, invece, verso  il fascismo Antonio Marasco, senz'altro il più impegnato  e coerente politico fra tutti gli operatori plastici del futu-  rismo. Calabrese di nascita, Marasco, ebbe parte rilevante nelle squadre d'azione fasciste di Firenze dove si era tra-  sferito prima ancora di arruolarsi volontario per la guerra  1915-1918, in cui verrà gravemente colpito da gas di ipri-  te sul Piave e dopo essere stato promotore con Marinetti  dei « Fasci Futuristi ».    Nel 1914 Marasco aveva accompagnato Marinetti nel  suo secondo viaggio in Russia, a Mosca e a Pietroburgo,  dove avrà modo di conoscere Velimir Klebnikow e Wla-  dimir Mavakowsky e di dedicare fisiosintesi di estrema  inventività grafica al  medico-pittore Nicolaj Kulbin, al  pittore Nikolaj Burliuk, alla poetessa Elena Guro, al poe-  ta-aviatore Kamensky, al poeta-scrittore B. Livshits, al mu-  sicista A. V. Lurié e al regista Tairow. La pittura di Ma.  rasco presenterà sempre componenti sperimentali, non con-  dizionata da temi fascisti o da enfasi dell'aviazione mili-  tare e civile che, purtroppo, sviliranno molta parte della  neropittura futurista degli Anni Trenta. Antonia Matasco  precorre il cosiddetto « astrattismo » delineatosi nell’am-  bito della milanese Galleria del Milione dei fratelli Ghi-  ringhelli e può essere considerato uno dei pionieri del  costruttivismo e del concretismo internazionali.    Particolarmente affezionati a Marasco avevamo avuto  modo, negli Anni Sessanta, di presentare la sua prima  mostra personale a Milano, di carattere antologico, attra-  verso la quale il più vasto pubblico riuscì a scoprire le  sue ricerche preastratte e protoconcretiste realizzate a Fi-  renze fra il 1923 e il 1930    Marasco restò sempre legato al futurismo e il suo fa-  scismo ebbe coerenza di adesione alla Repubblica Sociale  Italiana dove ricoprì importanti incarichi nella rinnovata  Direzione Generale delle Belle Arti e dei Beni Culturali  del Ministero della Cultura Popolare. Questo magistrale  pittore svolse anche attività di scrittore e di critico d’arte  e un suo libro, pubblicato a Firenze nel 1935, Parrorami  allo Zenit, risulta anticipatore dell’attuale science-fiction.   Nell'ambito del movimento futurista, Marasco, pro-  mosse i « Gruppi Futuristi Indipendenti », attivi a Firen-  ze fra il 1925 e il 1958, che rivelarono personaggi della  importanza di Cesare Augusto Poggi, architetto razionalista, tecnologo del cemento armato e ideatore di singolari  costruzioni civili per la difesa bellica. Quando, nella se-  conda metà degli Anni Trenta, s'inasprirà la campagna fa-  scista contro il futurismo, accusato di difendere l'arte  « astratta » considerata « giudea e massonica », Matasco  sarà a fianco di Marinetti per chiarire i termini di indi-  pendenza dell’« astrattismo » plastico da ogni motivazio-  ne di razza, da qualsivoglia matrice israelitica o mura-  toria. Se disponessimo di maggiore spazio per analizzare  compiutamente questo pericoloso momento dei rapporti fu-  turismo-fascismo ne risulterebbe la conferma di una pre-  cisa interdipendenza di propositi e di azione fra i due  movimenti. Il futurismo non condizionò mai le proprie  libertà espressive, i propositi di rinnovamento, di costan-  te evoluzione spirituale, alle esigenze agiografiche del fa-  scismo che, del resto, non considerò il futurismo come  arte di Stato, riservando questo pericoloso privilegio al  movimento del Novecento, celebrarore di miti romanistici  e imperiali, istigarore del ritorno al neoclassicismo, pur  mascherato da un malcompreso funzionalismo.   Antonio Marasco morirà a Firenze, nel 1975, alla so-  glia degli ottant'anni.   Dopo un Jungo soggiorno romano aveva dipinto, sino  all'ultimo, cromostrutture dinamiche e inoggettive di auto-  noma soluzione cinevisuale. Puntualmente ci inviava let-  tere di accorata italianità, preziosi appunti di teoria pla-  stica che, un giorno, dovremo pur raccogliere e pubblicare  come contributi fondamentali alla storia del costruttivismo  e del concretismo internazionali. Noi giovanissimi non era-  vamo disposti ad anteporre la dogmatica della mistica fa-  scista alle libertà espressive promosse e favorite dal futu-  rismo, né ci si potrà accusare di aver posto le nostre pri-  me ricerche futuriste al servizio dell'apologia di regime.   Così le nostre Parole per la Guerra, pubblicate nel mar-  zo del 1944 dalle edizioni dî Futuristi in Armi, sovven-  zionate e dirette da F.T. Marinetti, non rinviano ai canoni  conformisti dell'aeropoesia futurista di guerra di quegli an-  ni ma anticipano, piuttosto, modalità di poesia concreta e visuale, come è stato ampiamente rilevato dalla critica  internazionale più obiettiva e attenta.    Il nostro poema Bimba / bomba, del 1943, può essere,  infatti, considerato il primo esempio esistente di poesia  concreta a struttura semantica reversibile e a susseguenza  ottica alternata, dove l'uso della parola-chiave è già seria-  listico.    Il nostro fascismo eta quindi disarticolato dalle pra-  tiche dell’estetica futurista, proprio come si era verificato  per gli iniziatori del futurismo: F.T. Marinetti, Paolo Buz-  zi, Armando Mazza, Auro d’Alba, Luciano Folgore. In-  fatti anche i nostri Testi-Poemzi Murali, pubblicati nel 1944  dalle Edizioni Etre (Repubblica) con un «collaudo » di  Martinetti, piuttosto di risolversi nell'abituale apologia  guetresca di quel periodo, introducono un modo nuovo di  poetare inaugurando le problematiche di quella « poesia  visuale » che, solo negli Anni Cinquanta, troverà consensi  internazionali sino a farsi scuola di poesia avanzata. L’ideo-  logia politica di Marinetti, le teorie del suo particolare na-  zionalismo « prefascista » sono raccolte in due volumi pub-  blicati in tempi diversi. Democrazia Futurista, edita a Mi-  lano nel 1919 da Gaetano Facchi, è la sintesi delle posi-  zioni politiche assunte da Marinetti nell'immediato dopo-  guerra 1915-1918.    Vi si ripercorre l'atmosfera in cui nel 1918, dopo Ca-  poretto, Marinetti fonda i « Fasci Politici Fututisti » con  Giuseppe Bottai, Emilio Settimelli, Mario Carli, Gugliel-  mo Jannelli, Antonio Marasco, i pittori Gino Galli, Gia-  como Balla, Ottone Rosai, Fattunato Depero, il poeta-pit-  tore cremonese Enzo Mainardi, lo scrittore Remo Chiti,  il poeta Luciano Nicastro, Massimo Bontempelli, il chirur-  go Giovanni Masnata, poi Senatore del Regno, padre del  poeta parolibero stradellino Pino Masnata, ai quali aderi-  Sta settanta intellettuali e uomini di varia estrazione cul-  turale.    I «Fasci Politici Futuristi » si trasformeranno, poi,  gradualmente in « Fasci di Combattimento » confluendo nel.  lo squadrismo fascista. Così, quando i fascisti partecipe-  ranno per Ja prima volta alle elezioni politiche del 1919,    156    rinetti, Piero Bolzon, il poeta-aviatore Giacomo Macchi,  Baseggio e Podrecca.   Futurismo e Fascismo, pubblicato da Franco Campi.  telli, editore in Foligno, nel 1924, indica, invece, la per-  sonale interpretazione della dottrina fascista praticata da  Marinetti e da molti artisti futuristi, come dai numerosi  affiancatori e propagandisti del movimento futurista. Con  il manifesto L'Impero Italiano / A Benito Mussolini - Ca-  po della Nuova Italia redatto nel 1922 da F.T. Marinetti,  Mario Carli ed Emilio Settimelli, il futurismo, già in que-  gli anni, istigherà il fascismo alla fondazione dell'Impero,  precorrendo una realtà che, negli Anni Trenta si concluderà  con la conquista dell'Etiopia.   Marinetti scriverà nel 1924: «... il Fascismo, naro  dall’interventismo e dal futurismo si nutrì di principi fu.  turisti... »   Una storia parallela dei due movimenti, ancora da scri-  vere, dovrà tener conto della mai rinunciata indipendenza  futurista che non condizionò le esigenze di libera ricerca  espressiva alla necessità della politica dominante. Innanzi tutto confesso che sono nato alla vita sociale  prima come fascista e dopo come futurista.   Avevo sedici anni quando nel 1921, proprio in corti.  spondenza del mio compleanno, sottoscrissi una domanda  di ammissione ai « Fasci di Combattimento ». La doman-  da fu avvallata da due miei amici di maggiore età, come  soci presentatori, i quali compirono coscientemente un pic-  colo falso alterando di due anni la mia data di nascita al fine di consentire la mia ammissione come socio ad ogni  effetto. Così diventai a pieno titolo uno dei pochi iscritti  della Sezione di Reggio Calabria dei « Fasci di Combat-  timento », che aveva allora sede in una baracchetta per i  bagni di mare, in disuso.   Perché questo sedicenne studente del Liceo aveva  ascoltato e risposto ad un richiamo politico certamente  pericoloso? A mio avviso, furono determinanti, l’amore  per la Patria, nato dentro durante fa guerra sull’esempio  di un avo materno che ne aveva avuto, forse, di troppo;  l'entusiasmo per la vittoria e la conseguente indignazione  per quanto accadde subito dopo con l’attività dei cosid-  detti progressisti del momento, ostili ai reduci, in con-  trasto con la spavalderia ed intraprendenza di questi ul-  timi.   Il mio apptoccio con il Futurismo avvenne, invece,  due anni dopo, con la scoperta di Zang iumb tuumm e  l’incontro con F.T. Marinetti    Questo essere prima fascista e poi futurista, mi sem-  brò una particolarità personale e la confessai un giotno —  dopo tantissimi anni -— a Mario Dessy, e lui mi disse che  gli era accaduto lo stesso benché avesse cinque anni più  di me. Comunque è chiaro che nel periodo fra il 1919 ed  il 1922 vi fu un rapporto di identità ideale fra queste  due forze, anche se vi furono dissensi spesso di carattere  costruttivo, E’ difficile — infatti — che possano andare  in tandem per lungo tempo movimenti di carattere poli-  tico e movimenti di carattere intellettuale o culturale. Le  ragioni mi sembrano evidenti: un movimento culturale,  anche se basa la propria forza nelle realtà della vita (come  il futurismo), ha il suo fulcro nella idea-base che difende  con ortodossia e non è disponibile per transazioni ideolo-  giche. Il movimento politico, invece, pet propria natura,  specie quando atrivi alla gestione del potere, diviene dut-  tile e transigente al fine di mantenere è consolidare la  proptia forza concreta, allargando la base dei consensi.    Il Futurismo prima della guerra mondiale si caratteriz-  za artisticamente con l'invenzione dei grandi temi di rin-  novamento nei settori di tutte le arti e, in veste politico-sociale, nell’esaltazione dell’Italia, fantasticando per que-  sta, una nuova organizzazione anti-demo-liberale ed anti-  clericale. Un nuovo mado di vivere. Uno Stato industriale  ed agricolo tecnicamente progredito, che si progettava  astrattamente, certamente irrealizzabile. Qui i tentativi di  un’azione politica che non aveva, però, un valido autonoma  sviluppo organizzativo. Come pretenderlo da poeti ed ar-  tisti?   Nel tempo in cui Marinetti iniziò il « Movimento »,  le forze che affermavano di voler realizzare un nuovo svi-  luppo sociale al fine di un miglioramento della situazione  economica delle classi più disagiate e trascurate, trovava-  no una sede formalmente appropriata nelle spinte del sa-  cialismo deamicisiano; ma tale situazione ebbe durata bre-  ve perché questo socialismo si sviluppò in senso interna-  zionalista apatriottico collettivista antindividualista e fu  sconfitto dagli eventi della prima guetra mondiale. Tanto  è vero che dal suo seno, a guerra conclusa, prosperarono  il comunismo ed altre scissioni e nacque il fascismo.    Sono noti e possono essere facilmente consultati i do-  cumenti delle manifestazioni spiccatamente politiche del  movimento futurista che precedettero la Fondazione dei  « Fasci di Combattimento ». Intendo rifetirmi al « Pro-  gramma Politico Futurista » dell'11 ottobre 1913, firma-  to da Marinetti Boccioni Carrà Russolo, all'azione politi-  ca svolta da La Balza Futurista fondata da Di Giacomo  Jannelli e Nicastro del 1915, e dei «Fasci Interventisti  Siciliani », di Roma Futurista e dei relativi gruppi, nati  nel 1917-18, del Partito Politico Futurista sempre del 1918  che concretizzava un suo programma nel libro Democrazia  Futurista di Marinetti, eccetera eccetera. Tutte queste for-  ze si concentrarono nel movimento fascista nel 1919, sia  aderendo direttamente all'assemblea di fondazione di Piaz-  za San Sepolcro in Milano, sia successivamente anche per  forza d'inerzia.   Il fatto è che — di solito — quando si parla di par-  tecipazione politica dei futuristi, ci si richiama soltanto  al ricordo dell’attività degli artisti che militarono con la  qualificazione di « futuristi ». Vale a dire dei poeti, scrittori, pittori, limitandosi ovviamente ad esaminare il con-  tributo di coloro che hanno raggiunto maggiore notorietà,  trascurando i « minori ». Ma questi ultimi erano in nu-  mero stragrande e molto attivi. Senza tenere inoltre conto  che i maggiori spesso presi del tutto da altre attività, non  erano altrettanto validi e disponibili in campo politico. In  verità, il « Futurismo » di quel tempo è stato un movi-  mento a larga partecipazione di giovani, di tantissimi gio-  vani. Non tutti poterono — ovviamente militare nel  campo dell'Arte e maturare tanta notorietà da essere ri-  cordati anche oggi. Ma tutti furono politicamente attivi e  furono a migliaia i militanti di futurismo che partecipa-  rono ad episodi fascisti negli anni precedenti, o appena suc-  cessivi, alla marcia su Roma.    Non credo di sbagliare se affermo che nelle cosiddet-  te schiere dello « squadrismo » molte furono le partecipa-  zioni futuriste. Azione lotta e coraggio erano proposizioni  futuriste. Basta ricordare la prima azione di Marinetti e  Ferruccio Vecchi nel 1919 (16 aprile: Piazza Mercanti Mi-  lano) e ricordare i tanti nomi dei militanti futuristi che  ebbero più spicco in campo politico che in quello dell’arte.    Alla fondazione dei Fasci, confluirono nel fiume che  diventò principale, molteplici rivoli di pensiero (come ho  già accennato) movimenti di ogni genere che avevano un  minimo comune denominatore nella volontà di rinnovare  in qualche modo l’Italia che, pur vittoriosa nella guerra,  si dimenava in serie difficoltà ed era incapace ad affron-  tare la svolta storica che la vittoria aveva aperto. Anche  i Fasci Interventisti Futuristi Siciliani, che avevano preso  forza dalla volontà di Jannelli e Nicastro (il prima con  capacità ed intendimenti politici ed il secondo come lette-  rato e poeta), ma dei quali non si è ancora scritta la  storia, né accertato la reale efficienza, vi aderirono. Come  aderì Marinetti con tanti altri futuristi che risultano elen-  cati nella schiera dei cosiddetti « sansepolcristi ».    In seguito, quando il fascismo andò al potere, ai futu-  risti sembrò che finalmente sarebbero stati realizzati nel-  l’arte gran parte dei propositi del futurismo. In questa  illusione fummo cullati da alcuni elementi: la impostazio-       160    ne altamente patriottica dei propositi, la valorizzazione del  combattentismo e del volontarismo, l'amore per il nuovo  ed il rischio, il pragmatismo attivo dimostrato immedia-  tamente con i primi atti di governo, eccetera. Va anche  rammentato ai giovani di oggi, frastornati da affermazioni  non rispondenti alla realtà di allora, che la personalità  di Mussolini era molto al di sopra non solo di quella dei  suoi collaboratori politici, ma sovrastava la media dei cer-  velli politici di quel periodo. Tanto è vero che furono ap-  punto gli avversari a votargli subito i « pieni poteri » che  gli consentirono l'avvio della prima gestione governativa.  Questo fatto rilevante, gli consentì di attrarre dapprima  le simpatie collettive ed — in seguito — a conquistare  una enorme fiducia, non solo da parte dei suoi sostenitori  di un tempo, ma anche da parte di ex avversari e simpa.  tizzanti e — nei periodi più floridi — perfino dai nemici  del sistema politico che egli cercava di sviluppare.   Quando il fascismo s’insediò al governo per realizzare  la rivoluzione {a dire dei fascisti), o perché chiamato dalla  debole monarchia (come dicono gli altri), subì dapprima  una sosta di aggiornamento dovuta alla urgenza de) pro-  blemi immediati dalla cui soluzione dipendeva il recupe-  ro dell'ordine econamico e politico. Per questo, Mussolini  non si sbarazzò immediatamente degli avversari che erano  troppi e in gran parte si erano dichiarati disponibili a  collaborare per il meglio, pur costituendo nello stessa  tempo zone di resistenza alle innovazioni    Così anche nei fatti dell’Arte ovviamente meno pres-  santi, ove non comparvero personalità « nuove » che aves-  sero seri propositi di rinnovamento e disponibili a rivolu-  zionare tutto, come i futuristi. I quali con a capo Mari.  netti e nella quasi totalità si convinsero che la « rivolu-  zione » potesse realizzarsi per pradi anche in Arte. Che  la forza del nuovo potesse penetrare per gradi nelle isti-  tuzioni d’Arte e trasfarmarle. Pura illusione. Illusione giu-  stificata sul momento non solo dal fascino personale di  Mussolini al quale ho già accennato, ma anche da certe  sue caratteristiche gestuali (come la particolare sintetica  e precisa oratotia che andava direttamente allo scopo in    161    modo esplicito) che lo presentavano come un congeniale  capo futurista. Se si aggiunge inoltre l'amicizia personale  fra Mussolini e Marinetti, vicini anche in altre precedenti  azioni politiche, si comprende come il movimento rivolu-  zionario rappresentato in arte dal Futurismo, rimase a fian-  co del Fascismo (esso stesso ancora tivoluzionario alla ba-  sel, anche se in via di adattamento, questo, alle esigenze  immediate dell'esercizio del potere su una nazione che di  rivoluzionari di qualsiasi tipo ne ha avuto — per la veri-  tà — sempre pochi, anche se gonfiati ad oltranza quando  occorre, in tutti i testi di storia antica e recente.   I futuristi costituirono una avanguardia nelle fila del  fascismo e vi rimasero nella quasi totalità. Basta citare i]  messaggio che concluse il Congresso futurista di Milano  (L'Impero, 27 novembre 1924):    « L'ultima riunione del congresso futurista è stata de-  dicata all'esame dell'attuale momento politico. Marinetti  espose alla numerosa assemblea una dichiarazione prece-  dentemente elaborata in accordo con i maggiori futuristi  politici, la lettura della dichiarazione fu entusiasticamente  approvata ed acclamata in ogni suo punto. Ecco Ja dichia  razione:    «“I futuristi italiani, primi fra i primi interventisti nella  piazza e sui campi di battaglia e primi fra i primi dician-  novisti più che mai devoti alle idee ed all'arte lontani dal  politicantismo, dicono al loro vecchio compagno Benito  Mussolini: Primo: con un gesto di forza ormai indispen-  sabile liberati del parlamento. Secondo: restituisci al fa-  scismo ed all'Italia la meravigliosa anima diciannovista di-  sinteressata ardita antisocialista anticlericale  antimonar-  chica. Tetzo: Concedi alla monarchia soltanto la sua prov-  visoria funzione unitaria, rifiutale quella di soffocare e  morfinizzare la più grande, più geniale, più giusta Italia  di domani. Quarto:- non imitare l’inimitabile Giolitti, imi-  ta il grande Mussolini del ’19. Quinto: Pensa sempre al-  l'Italia immortale ed al Carso divino. Sesto: Schiaccia la  opposizione socialista antitaliana di Turati e l'opposizione  mediocrista di Albertini con una ferrea dinamica aristocra-  zia di pensiero.«“Tu puoi e devi far ciò. Noi dobbiamo volerlo e lo vo-  gliamo. F.T. Marinetti - Capo del Movimento Futurista  Italiano”».   Sono inoltre innumerevoli le manifestazioni dei futu-  risti in tanie occasioni, con opere scritti ed anche con  la partecipazione concreta alle guerre di quel periodo. Vo-  glio ricordare, però, un solo scritto di Fillia (morto nel  1930 e che adesso cercano di passare per antifascista) il  quale nel 19527 in occasione della Quadriennale di Tori-  no, così scriveva sulla sua rivista Vetrina Futurista:    «... Bisogna, però, giungere a “convincere” il grosso  pubblico, ingannato a nostro riguardo dalle false inter  pretazioni. Perché il favore organizzativo che oggi ci cir-  conda, non basta: è assurdo riconoscere il futurismo come  manifestazione d'Arte ed ammettere contemporaneamente  le antiche manifestazioni. La vita può avere individual  mente, diverse interpretazioni, ma tutte devono essere in-  quadrate in una sola atmsofera sensibile, corrispondente  alla vita stessa. Non voglio con questo negare il diritto di  esistenza a intere categorie di pittori rimasti spititualmen-  te arretrati: ma è necessario preparare il pubblico alla loro  graduale eliminazione dalla vita artistica ufficiale, fino al  riconoscimento del Futurismo “arte di Stato” massimo ri-  conascimento che lo caratterizzerà nella sua importanza... ».   Purtroppo però le autorità artistiche avevano il so-  pravvento favorendo a vele spiegate l’architettura di Pia-  centini e gli enormi pupazzi della scultura e pittura no-  vecentista, effettivamente arte del regime. E noi futuristi  interpretavamo le isianze di rinnovamento dell’arte senza  alcun riconoscimento dal Regime che ritrovava sé stesso  nelle manifestazioni novecentiste.   Questo, non mi stanco di ripeterlo, negli Anni Venti.  E poi?   Poi nulla. Le vicende, le difficoltà personali, gli entu-  siasmi e le depressioni, gli alti e i bassi, il lavoro e la mag-  giore maturità. Ma non creda di sbagliare se affermo che  noi futuristi vivemmo quel tempo con spirito indipendente  e piena libertà fiduciosi che in fondo avremmo avuto ragione. Anche se spesso sopportati e negletti dalle autorità  artistiche e subiti obiorto collo quando necessario.   Poi andammo all'ultima guerra, che fu sconvolgente per  tutti. To ne vissi scrupolosamente la mia parte con coeren-  za. Fui costretto fuori a lungo. Pet un anno di guerra, ne  subii sei di prigionia e non conosco nei particolari ciò che  è avvenuto qui mentre ho già scritto delle mie esperienze.   AI ritorno, nel Natale del 1946, mi sembrò di sbarcare  in un altro mondo al quale non mi sono ancora completa-  mente assuefatto. Ma ripresi a vivere da zero e nell’aprile  del ‘47 cominciai la mia nuova personale battaglia per il  futurismo con la mostra alla « Galleria di Roma » inaugu-  rata da Benedetta c dedicata a F.T. Marinetti.   Continuai ancora e vado avanti con i futuristi soprav-  vissuti e con l'appoggio dei giovani che comprendono e non  disdegnano l’idea del futurismo che continua e si rinnova  attraverso le spiccate personalità dei suoi artisti. Crali, lei è pittore ed è futurista Uno dei pochis.  simi, oggi. Crede che il futurismo sia ancora attuale?  SÌ, ma non per merito dei futuristi. Ma ha una sua  attualità perché si è espresso, si è mosso, e ci parla ancora.  Ma non certo per chi ci ha mangiato sopra, per chi non è  mai stato futurista, ed ha espresso solamente « necrofilia »,  vera e propria « necrofilia ».Il futurismo di prima, quello per cui lei aderì  al movimento, o vi st convertì, come la investì per così  dire, o come la ispirò?    R. — Non mi sono affatto « convertito », perché non  c'era niente da convertite. Mi sono trovato di fronte al    164    futurismo come un’anima candida, che non sa e non è con-  sapevole di nulla. Mi sono ritrovato una simpatia incon-  scia per alcuni quadri riprodotti su Il Mazzino illustrato di  Napoli. Mi sono piaciuti, mentre ad un amico mio, che  la pensava diversamente da me, non piacevano. Cominciam-  mo a litigare, e per litigare ad approfondite l’argomenta  ecc. ecc. Così ho cominciato ad essere interessata al futu-  rismo. E sono partito senza avere una preparazione di me-  stiere. Ho fatto rutto da solo, senza imparare a dipingere  o disegnare, anche se poi una specie di grillo della coscienza  mi ha suggerito che dovevo imparare a dipingere, sia pure  da solo (anatomia, prospettive, ecc ). L’astratto e il figu-  rativo erano | temi o le prospettive dominanti. Ho cercato  una « terza via », che fosse tutta mia, tutta personale: una  ia di mezzo fra il figurativo e l'astratto. Poi ho lasciato il  figurativo per la mia pittura futurista. Credevo di dover  dire ciò che altri non avevano detto. Così mi sono accostata  a Marinetti nel '29, quando gli scrissi per aderire al movi.  mento. L'aeroplano era una macchina nuova, un congegno  del futuro, o, per allora, del « futuribile ». E fu una delle  realtà che mi diedero più spunti, più ispirazione (l'Idrovo-  lante italiano, D’'Annunzia e il volo su Vienna, e il campo  di atterraggio vicino a Zara, dove io sono nato, ecc.). Così  sono diventato acropittore. E lo sono rimasto, ancora oggi.  Marinetti, invece, per quello che lo frequentò  o poté essergli vicino, come lo considera? Forse l’unico vero  futurista, © forse solo un grande « maestro »?    R. — No, non lo considero un maestra, perché non ha  mai voluto essere un « maestro ». Ci ha sempre stimolato  e spinto a lare, senza mai dire però come dovevamo fare  Era contrario ad ogni gerarchia nel movimento del futuri.  smo. E si opponeva sempre a Boccioni e Prampolini, che  volevano imporre la loro pittura. Voleva che ognuno di  noi fosse libero e indipendente. Prampolini invece voleva  fare il caposcuola. Marinetti voleva solo che ognuno fosse  se stesso e non ha creato nessuna scuola. Amava la sua  libertà e la sua indipendenza a tal punto che non poteva  imporre insegnamenti. Fotse D'Annunzio lo aveva influen-  zato in questo senso, nella vita mandana libera, giovane e spregiudicata. Io lo ricordo e lo ricorderò sempre con rico-  noscenza. Quasi come un padre. O come un fratello map-  giore. E come l’unico vero futurista, come ho sempre de!  resto pensato. Gli altri hanno tutti « mollato ». Lui è an-  dato avanti fino all'ultimo. L'unico che può personificare  il futurismo è fui, l’unico che non ha rivestito patine di cul:  turame intellettvalistico, come hanno fatto invece molti al-  tri (Soffici, Conti, Palazzeschi, Papini, ecc.). Amava essere  futurista sempre e comunque, anche nel gusto del contra-  sto. Amava la luna, e scrisse un manifesto « contro il chia-  ro di Juna ». « Uccidiamo il chiaro di luna », vi si diceva,  forse contro i poeti. Ma non era poeta? Predicava la guer-  ra, anche se non avrebbe fatto male a nessuno. Amava la  madre e la donna in assoluto, e ciecamente. Ma combatté  la donna sul piano ideologico. In questo è veramente futu-  rista. E lo è solo lui. Gli altri non lo sono mai stati.  Il futurismo di Marinetti che accento o che an-  golazione aveva particolarmente: letteraria, artistica, filoso-  fica 0 piuttosto politica?    R. — Politica no, assolutamente e mai. Filosofica nean-  che, se non forse in senso attivo, ma allora « senza pen-  siero ». « Il futurismo entra in politica soltanto quando la  patria entra in pericolo », aveva detto Marinetti in un  momento cruciale della nostra storia nazionale. Il manifesto  politico del fuuttismo è conseguenza del fatto che esso sta  movimento d'arte e di vita, e come tale anche di vita poli-  tica, tout court. Il manifesto politico è del ’13. Dopo Ja  fine della guerra l'accostamento agli arditi o al fenomeno  dell’« arditismo » era inevitabile, e Marinetti si unisce in  vincolo d'amicizia, anche politica, con Mario Carli per esem-  pio (ardito) e con Mussolini. All’avvento del fascismo e allo  accostamento di Mussolini alla monarchia e alla chiesa Ma-  rinetti si stacca. Abbandona il partito e si ritrova pressoché  in miseria, con moglie e figli. Aveva grande ammirazione  ed amicizia per Mussolini, che non credo fosse ricambiata  per una certa forma di invidia-gelosia mussoliniana nei con-  fronti di Marinetti. Il regime gli offriva incarichi 0 preben-  de, che continuò a rifiutare. Mussolini arrivò ad offrirgli la  presidenza dell’Associazione dei grandi alberghi italiani, pro-    166    prio a lui che disprezzava l’industria del forestiero. Accer-  tò solamente, e sollecitato, la segreteria dell'Associazione  Italiana Autori ed Editori, altrimenti forse destinata al  solito « arraffone » di turno. Tuttavia si tenne sempre in  disparte e non fece mai politica attiva, non partecipò mai  direttamente al regime, che anzi forse osservava contrariato,  a parte solo qualche onesta e sincera manifestazione di sim-  patia per Mussolini.   Nel ’35 si oppose alla presa di posizione politica di Hit-  ler contro l’arte moderna e d'avanguardia, che si manifestò  e sfociò nella censura e nella repressione dell'arte. E nella  stesso momento organizzò a Berlino una mostra di aero-  pittura futurista che creò non pochi problemi e suscitò non  poche difficoltà anche diplomatiche fra i due governi ira  liano e tedesco. Oltre che produrre una situazione difficile  e imbarazzante per le posizioni o i movimenti artistici e in-  tellettuali della Germania dell’epoca. In Italia fu l’unico  in questa occasione a prendere posizione ed esprimersi con-  tra l’ingerenza politica e l'intervento del regime di Hitler  nella cultura e nell'arte.   Nel ‘43 ero da Marinetti a Roma: arrivava Marinotui  (presidente della Snia Viscosa) che era stato da Mussolini  insieme ad altri « consiglieri regionali » del regime. Ma-  rinotti si era accinto a raccontate a Marinetti che tutti i  consiglieri avevano « relazionato » Mussolini e che nessu-  no aveva avuto il coraggio di dirgli che le cose andavano  male, tranne uno, il consigliere sardo, che aveva sostenuto  la stanchezza della gente, la maldicenza, il tradimento...  Marinetti osservava che non era possibile che non si sa-  pesse... È Marinotti ribatté che lo si sapeva, ma che non  era possibile dirlo a Mussolini... Il giorno dopo ritornai da  lui e mi comunicò che il consigliere sardo era stato nomi-  nato da Mussolini ispettore generale per tutta l'Italia.   Nel ‘44 poi si mosse da Venezia e risalì verso la Lam-  bardia, perché non se la sentiva di starsene in disparte a  « far l’antifascista »... L'ultimo suo poemetto in versi, l'ul-  tima sua espressione letteraria s'intitola appunto: Musica  di sentimenti per la X Mas. E vi si dice: « Io sono fato    167    di aeropoesia fuori tempo e spazio ». E' già definizione  sintomatica e totale dell'opera.    D. — Ailora, Marinetti fu fascista? E se lo fu, lo fu  fino a che punto? O non lo fu, e fino a che punto non lo  fu per essere futurista?  Marinetti è stato sempre e comunque e saprattutto futurista. Questa è la mia impressione. Perché ha se-  guito la sua natura e la sua volontà. E nel suo essere futu-  rista non è mai entrata la faziosità di un genere che « entra  in politica ». Non fu mai fazioso. Una volta eravamo a  casa sua, in un gruppo di amici, a parlar di Majakowski  e di futurismo russo. Qualcuno obiettò: « Ma Majakowski  è un comunista ». Ed egli allora ribatté immediatamente:  « Non ha nessuna importanza. Perché Majakowski è prima  di tutto un grande poeta ». Nei suoi rapporti cal fasci-  smo si può considerare forse il fatto che fosse nato al  l’estero, che fosse educato in Egitto alla cultura francese,  spesso pesantemente sprezzante verso l'Italia. Sentì quindi  una specie di aspirazione all’Italia 0, più ancora, di nostal-  gia della patria. Poi, volle rivendicare il futurismo come  fatto classicamente e squisitamente italiano. Così s'inimicò  tutta la cricca culturale parigina, ma volle sprovincializzare  e dare un certo orgoglio e una certa autonomia alla cultu-  ra italiana. E pensò o vide che Mussolini potesse essere  l'uomo adatto per rifarla, l’Italia, e per darle una sua nuo-  va base, culturale ed artistica. Senza sapere, alle origini o  senza conoscere, quando era all’estero, ed anche a Parigi,  la furbizia, anche culturale degli Italiani. Lui fu in buona  fede. Dal fascismo ebbe l’Accademia d’Italia (con appan-  naggio onorario in un momento in cui era anche in disagi  economici), ed ebbe la Biennale di Venezia {come « una  riserva indiana »). Il suo è un fascismo di speranza o di  desiderio, nella speranza di poter vedere realizzato il suo  futurismo. E' contrario al « Novecento » e al classicismo  « romano » alla Piacentini, che Mussolini invece appoggia-  va. Forse tutti i regimi, quando si affermano, cercano di  eliminare le avanguardie. Il fascismo non le appoggiò, men-  tre il nazismo e il comunismo le stroncarono. Sta di fatto  che Marinetti appoggiava Terragni a Como, e non appoggiò mai Piacentini. Alla Biennale, a Venezia, il futurismo  è stato accettato sì, ma mon con la considerazione che  Marinetti si sarebbe aspettato, e che sarebbe davuta spet-  tare all'unico movimento d'avanguardia esistente allora in  Italia. E invece è stato accolto sì il futurismo, ma quasi  messo in disparte.    Nel ’26, all'inaugurazione della mostra, durante il di-  scorso di presentazione, Marinetti si alzò ed intervenne ad  alta voce, presente il Ministro dell'Educazione Nazionale,  lamentando l'ingiustizia per l'esclusione dell'unico  movi-  mento d'avanguardia dell'arte italiana. L'anno dopo Mus-  solini stesso gli concesse un padiglione di riserva, che do-  veva rimanere, ogni anno, a disposizione dei futuristi (la  « riserva indiana », già summenzionata).    D. — Mussolini invece, secondo lei, fu futurista?    R. — E' stato un politico ed ha appoggiato Marinetti  per avere il futurismo dalla sua parte. Anche se il futu-  rismo aveva contribuito, pure, alla sua formazione. Che  avesse jspirato un regime al ritorno verso l'antica Roma  nei suoi simboli e nei suoi modelli, vuol dire tuttavia che  era rimasto fuori dal futurismo.    D.— E allora il fascismo di Mussolini ed il futurismo  di Marinetti non hanno nessun punto in comune? O si  possono, secondo lei, mettere in relazione o in collega  mento, e fino a che punto ciò è possibile? Per Mussolini il fascismo è politica, per Mari-  netti il futurismo è poesia. Sono due posizioni completa-  mente diverse.    D. — Non si può quindi parlare di futurismo fascista,  nemmeno del primo, quello delle origini?    R. — Finché un movimento politico è in fase rivo-  luzionaria, le posizioni della « rivoluzione » culturale con  quelle politiche coincidono; poi però quando il movimento  politico diventa regime si burocratizza, e allora non può  non scontrarsi con la cultura che rimane sempre rivoluzio-  naria e che non può assimilare come tale le esigenze politi-  che di un «partito». Ecco perché esistono punti di contatro    169    o momenti di simbiosi tra affermazioni marinettiane e fa-  scismo politico dei primi anni, poi rallentati o rilasciati  quando si afferma l’« ordine romano », utile al regime, ma  speculare di un passatismo senza mezzi termini, e totale.  Marinetti tollera questa esigenza politica di Mussolini, ma  non la condivide od ammette in campo artistico e cultu-  rale. Tuttavia Marinetti era uomo che non confondeva ami-  cizia ed ideologia: poteva combattere con un amico per  principi ideologici, anche violentemente, senza però in-  taccare l'amicizia, che rimaneva sempre e comunque.    D. — Resta oggi il futurismo? E resta come realtà  artistica solamente, o anche politica, nella sua dimensione  d’espressione artistica? Senza fascismo, che è finito ovvia-  mente, e da tempo. Forse resta il futurismo, come ten-  sione di rinnovamento?    R. — Sì, il futurismo resta, credo, nella sua posizione  di rinnovamento, o di indicazione nella creazione di nuove  forme, e di nuove idee, o di valori nuovi. Oggi si contesta  per distruggere senza dire quello che si vuole proporre in  sostituzione. Il futurismo aveva invece dato i suoi mani-  festi. Volle distruggere, ma propose ciò che voleva rico-  struire. Anche oggi, per quel che resta, il futurismo cerca  un suo rinnovamento che si superi continuamente. Oggi  c'è molta saggistica, ma si vede poca poesia. Forse manca  l’entusiasmo, nonostante la grinta. Penso che esista an-  cora futurismo oggi, perché esiste ancora temperamento di  novità, e di rinnovamento. Perché esiste ancora una spinta  vitale di « ossigeno ». E l'opera deve avere un suo sangue,  se si tratta d’opera d’arte. Un sangue di cui deve vivere,  o un sangue per cui possa vivere. É l’ossigeno è un valore  assoluto che resta, non si toglie, perché è ineliminabile.  Anche in bottiglia, nella plastica, rarefatto 0 alla luce del  sole. Il futurismo è un po’ come l'ossigeno, o l'anima  o lo spirito del lavoro e dell’opera, o della vita: è un po'  il suo « entusiasmo ».  [Intervista u cura di Alberto Schiavo]    Per quanto riguarda lo svisceramento dei collegamenti  fra Je correnti del futurismo indipendente come movimen-  ro artistico e culturale ed il fascismo come movimento po-  litico e sociale, particolarmente per quel che si riferisce  al carattere autonomo del futurismo torinese e al fascismo  delle origini, è ovvio che i tapporti intercotsi fra di loro  furono lungi dall’essere quelli di un matrimonio d'amore.  Consistettero specificamente in taciti e necessari accordi  immaginati per pater dare vita a creazioni autentiche che  abbisognavano di un ambiente rispettoso dei motivi di una  vera rivoluzione (quella artistica e spirituale scatenata dal  futurismo), in un clima fascista che di rivoluzionario non  ebbe in seguito che la sola etichetta.   Il futurismo torinese, nel tentativo di operare in pie-  na italianità, condivise nelia sua giusta misura taluni prin  cipî che il primo fascismo stabili quando provò a inte-  grarsi nel campo difficile della moderna civiltà europea.  Alla stessa stregua e per raggiungere gli stessi fini il futu-  rismo piemontese trattò anche con l’anarchismo e il co-  munismo idealitario di Gramsci, sui quali ebbe una consi-  derevole influenza negli sviluppi dell’architettura.   Il senso altamente novatore di Fillia e la sua molte.  plice attività (stupefacente in una esistenza così breve) per:  sonificano le forme coerenti e concrete dei concetti più  originali e più saldi delle imprese del futurismo torinese.   Figura rappresentativa dell’essere istantaneo, Fillia non  temporeggiava mai, viveva come una ruota, partiva come  una freccia. Propugnatore di quel futurismo mistico che  per ordinarie ragioni razionali ed estetiche militava in  margine della Chiesa cattolica apostolica e romana di quel  l'epoca, egli affermava con rigare di logica e con argomen-  tazioni arditissime che la religione ha relazione di somi-  glianza con la geometria interna dell’arte. Misteri dottri.  nali da ricrearsi plastiicamente per dare forma concreta ai  nuovi concetti della pittura sacra erano per lui la Trinità,    171    la Redenzione e la Vergine. L’apostolato di Fillia s'imme-  desimava con quello del futurismo in cui si cercava una  forza di liberazione, e la trovava in quel movimento, cie-  camente.    Originati da una geometria astratta superiore, i suoi  dipinti possiedono quella qualità rara di non essere visà,  e perciò non ricavati dal vero, ma di sorgere senza sha-  vatura alcuna dal proprio io, e come se l'artista non vi  fosse per nulla, per cui aspettavamo ogni sua scoperta con  un senso di impazienza, di ansietà, perché Fillia non ces-  sava di inventare e di portare sempre più avanti i perfe-  zionamenti pittorici del futurismo. Tuttavia, una continui-  tà è discernibile nella sua arte che è, innanzitutto, di una  grande purezza, di una grande acconcezza, di una grande  serenità.    T colori si oppongono l'uno all'altro e si sovrappon-  gono con curve e frangie di corallo, macchie di cielo, fan-  tasticherie metafisiche, sogni astrusi. Opera di contempla-  tivo che accomuna sempre iutto e sempre con estrema  dolcezza, e dalla quale si spande una pace angelica che  sembra invalidare, apparentemente, taluni assiomi violen-  ti della dottrina futurista. Ma è invece la prova Iampante  che il dinamismo di questa scuola italiana non esclude  quello stato di grazia dove i conflitti diventano preghiere.  Si tratta di fermare il nemico per ritrovare Ja quiete, di  combattere ferocemente per amare di un più grande amo-  re. Tale atteggiamento è proprio l’antitesi del sentimenta-  lismo romantico, dell’ebetismo della debolezza: esso con-  voglia l’arte verso quell'alta sfera mitica e visionaria che  invade la mistica futurista.    Gli errori di pensiero che possono insinuarsi nella men-  te di un poeta come Fillia, che non può sempre ridurre  tutto al controllo della logica, non vanno interpretati nel  lo stretto senso letterale. Il movimento è irrefrenabile,  talvolta irresistibile, porta oltre la matura e si perde in  un mondo di realtà fantasmagoriche.    Nessuna amarezza, nessuna amarezza siatene cetti si  nascondeva in questa libertà concettuale e della riflessione:  vi era troppa gentilezza in questo cuore di pittore e di poeta, troppa felicità per i suoi amici, perché si possa at-  tribuire un significato ironico alle sue composizioni sacre  come non hanno mancato di fare borghesi indirozzabili e  bolsi dalle maniche troppo lunghe, dalla mente inceppata.   Ho buona speranza per Fillia, per questo artista pen-  satore che fu anche un provetto artigiano; non mi rat-  trista la sua morte prematura. Un suo misterioso paesag-  gio dell'ex raccolta Ferrari di Ginevra mi scopre un ci-  mitero e la scala rossa che lo vincolò in eterno con gli  eroi: quello stesso cimitero e quella stessa scala di Sant'E-  lia. Distinguo la luna bianca della sua grande dolcezza, e le  cose della terra non reggono, sono rovesciate su loro stesse.   Le pitture religiose di Fillia sono un richiamo allo  spirituale puro, degli abbozzi di Paradiso. S’intende che  un tentativo di tal fatta non deve giungere al disprezzo  della cosa creata, dell’Incarmazione: ma non è il caso di  Fillia le cui forme della sua arte si disegnano, si creano e  si distaccano dalla loro causa prima.   Tutto il lavoro dell’opera si riporta ad una giornata  ben definita della creazione dove gli uomini non sono  ancora che allo stato di abbozzo, ma dove la macchina  respira già, dove i fantasmi girano secondo una traietto-  ria circolare, dove l'arcobaleno annuncia la riconciliazione.   Una siffatta pittura è infinitamente rispettosa, il suo  pudore è un perpetuo tremita davanti alla bellezza; essa  sprigiona cdelicatezze insospettate, scrupoli inauditi e non-  dimeno una audacia che le viene soffiata dallo spirito.   Nonostante il suo atto di fede nella macchina, Fillia è  certamente un pittore spirituale. La bellezza intrinseca del.  le macchine corrispande ad un suo bisogno di esattezza  sovrumana, di perfezione nelle linee e negli spazi. E’ una  dimostrazione pratica che consente all'uomo di disinca-  gliare la vera vita, di ricercare quegli elementi universali  dell’arte che scaturiscono nei momenti fecondi ed imperiali  delle Nazioni e ne rendono lo spirito eierno.   Per non spappolarsi nella struttura, per non sgreto-  larsi alla radice, il futurismo è lui stesso alla ricerca del-  l'eterno. E’ ben vero che questa eternità non è sotto i  nostri passi, non è dietro di noi, ma davanti a noi, In  questo senso tutti i cristiani dovrebbero essere futuristi,  diceva Fillia, perché meno legati degli altri uomini al  passato e al presente, e più ferventi dell'avvenire. Questo  richiamo ad una tradizione spirituale, questo allenamento  {secondo la felice definizione di Marinetti) non ha nulla  di necroforo, non intralcia lo sviluppo dell'arte ma stimo-  la, spinge in avanti, crea. Non si dimentichi perciò il con-  tributo molto importante di quella autentica tradizione che  serve a ristabilire l'equilibrio normale. Infatti, all’inizio Je  forze novattici distruggono talvolta, svelano uno sprezzo  irragionevole del passato e di ciò che la vera tradizione  conserva pertanto di eternamente vivo. Un rifiuto non  controllato potrebbe anche andare a scapito del progresso  stesso e insabbiare per sempre l'incitamento che motiva  nuove conquiste. Non si negano gli elementi universali  dell’arte passata perché non si possono negare quelli del-  l’arte nuova.    L’opera di Fillia rivela una tendenza perpetua verso  il progresso nel senso più alto della definizione. Trasfor-  mandosi da una pitiura all’altra svolge senza contraddi-  zioni la sua sincerità primitiva. Un futurista non può  dunque negare la storia della sua opeta e tanto meno quel  la del suo movimento: egli porta il peso di un passato  inventato che non può rinnegare senza distruggersi.    Questo passato inventato risale certamente al di là  del futurismo — che costituisce una specie di dialettica  dello spirito — e affre l’unica possibilità capace di abbat-  tere gli ostacoli. Il fiume precipita giù dalla cascata come  se vi prendesse nascita; in realtà la sorgente è al ghiacciaio.  Il futurismo ha radici italiane ed europee: il tempo aiuta  a farle scoprire senza remissione.    Fillia è l'uomo intuitivo di una nuova era. Dalla sua  opera e dai suoi tentativi, come da quelli di Balla, di  Boccioni, di Prampolini, di Diulgheroff e di Benedetto,  si stacca un’arte pubblica universale che l'architettura fun-  zionale rivela, contribuendo efficacemente alla diffusione  delle idee futuriste di Antonio Sant'Elia e degli slanci del  purismo di Le Corbusier.   Nell’intento di realizzare ad ogni costo, Fillia si ap-  poggiò al Regime attraverso gli interventi efficaci di Ma-  rinetti. Però, non ho mai visto Fillia in camicia nera,  ne lo sentii mai parlare di politica nostrana. Parlava sol-  ranto dell’Italia che amava. Le due idee rispecchiano gli  scopi e i metodi creativi di quel movimento indipendente  di buona lega che fu il futurismo torinese.  SARTORIS   per conto dell'Editore Volpe   dalle Arti Grafiche Pedanesi Roma, Via Fontanesi, Luciano De Maria e Mauro Pedroni, Aggiornamenti bibliografici sul  futurismo, in Il Verri,  Maria Drudi Gambillo e Teresa Fiori, Archivi del futurismo, De Lu-  ca, Roma 1959-1962, due volumi.   Enrico Falqui, Bibliografia e iconografia del futurismo, Sansoni, Firenze,Futurismo, a cura di Umbro Apollonio, Mazzotta, Milano, I futuristi, a cura di Giuseppe Ravegnani, Nuova Accademia, Mi.  lano  I manifesti del futurismo, Edizioni di « Lacerha », Firenze.  I manifesti del futurismo, Istituto Editoriale Italiano, Milano s.d.  {1919), quattro volumi.   I nuovi poeti futuristi, Edizioni Futuriste di « Poesia », Roma  I poeti futuristi, Edizioni Futuriste di « Poesia », Milano Noi futuristi, Riccardo Quinteri Editore, Milano Per conoscere Marinetti e il futurismo, a cura di Luciano De Matia,  Oscar Mondadori, Milano 1973.   Piccola antologia di poeti futuristi, a cura di Vanni Scheiwiller, Al-  l'Insegna del Pesce d'Oro, Milano Poesia futurista italiana, a cura di Ruggero Jacobbi, Guarda, Parma  Sintesi del futurismo: storia e documsenti, a cura di Luigi Scrivo,  Bulzoni, Roma 1968,   Teatro italiano d'avanguardia: drammi e sintesi futuriste, a cura di  Mario Verdone, Officina Edizioni, Roma 1970.  L'arte nella società. 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Keywords: filosofia fascista, Bovio, Locke, senso, esperienza, il mito del realismo, la categoria dello spirito, animus e spiritus, filosofia italiana, storia della filosofia romana, l’ambasciata di Carneade a Roma, la antichissima sapienza degl’italici, la scuola di pitagora, sicilia e la magna grecia, geist, ghost, spirito, animo, spirito oggetivo, Bosanquet, testi di filosofia ad uso dei licei, aristotele, il principio logico, Cartesio, il problema di cartesio, senso ed esperienza, storia della filosofia, avvivamento alla filosofia, i grandi filosofi – mondatori – the great and the minor -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carlini” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Carmando – Roma – filosofia italiana (Roma). Charmander -- According to Seneca, Carmando wrote a book on comets.

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