Tuesday, May 14, 2024

Grice e Livio

 

Grice e Livio: la storia romana come fonte della morale romana – etica togata -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova) Filosofo italiano. Although famous as one of the great Roman historians, he is also a philosopher, who popularises the genre of the ‘dialogo filosofico.’ Pre-testo. DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA DI LIVIO di MACHIAVELLI, FIRENZE, G. BARBÈRA, EDITORE. MACHIAVELLI A ZANOBI BUONDELMONTI E COSIMO RUCELLÀI SALUTE. o  vi  mando  un  presente, il  quale  se non  corrisponde  agl’obblighi  clic io ho con  voi,  è tale  senza  dubbio,  quale  ha potuto Niccolò Machiavelli  mandarvi maggiore. Perchè in quello io ho espresso quanto io  so,  quanto  io ho imparato per una lunga  pratica  e continova lezione  delle  cose  del  mondo.  E non  porlendo  nè  voi  nè  altri  disiderare  da  me più,  non  vi  potete  dolere  se  io  non  vi ho  donato  più.  Bene  vi  può  incrcsccre della  povertà  dello  ingegno  mio,  quando siano  queste  mie  narrazioni  povere ; e della fallacia del  giudizio, quando  io in  molte  parli , discorrendo, m'inganni. Il che  essendo , won  so  quale  di  noi  si abbia  ad  esser  meno  obbligato  all’altro; o io  a voi , che  mi  avete  forzalo  a scrivere quello  ch’io  mai  per  me  medesimo non  arci  scritto;  o voi  a me,  quando scrivendo  non  abbi  soddisfatto. Pigliate, adunque,  questo  in  quello  modo  che  si pigliano  tulle  le  cose  degli  amici:  dove si considera  più  sempre  la  intenzione di chi  manda,  che  le  qualità  della  cosa che  è mandata.  E crediate  che  in  questo io  ho  una  salis fazione , quando  io penso  che,  sebbene  io  mi  fussi  ingannato in  molle  sue  circostanze,  in  questa sola  so  eh io  non  ho  preso  errore,  di avere  delti  voi,  ai  quali  sopra  tutti  gli altri  questi  miei  Discorsi  indirizzi : sì perché,  facendo  questo,  ini  pnre  aver mostro  qualche  gratitudine  de  benefizii ricevuti : si  perchè  e  mi  pare  esser uscito  fuora  dell’uso  comune  di  coloro che  scrivono , i quali  sogliono  sempre le  loro  opere  a qualche  principe  indirizzare ; e,  accecati  dall’ambizione  c dall’avarizia,  laudano  quello  di  tutte le  virtuose  qualitadi,  quando  di  ogni vituperevole  parte  doverrebbono  biasimarlo. Onde  io,  per  non  incorrere  in questo  errore,  ho  eletti  non  quelli  che sono  Principi,  ma  quelli  che  per  le  infinite buone  parti  loro  meriterebbono  di essere ; nè  quelli  che  polrebbono  di  gradi, di  onori  e di  ricchezze  riempiermi, ma  quelli  che,  non  polendo,  vorrebbono farlo.  Perchè  gli  uomini,  volendo  giudicare dirittamente,  hanno  a stimare quelli  che  sono , non  quelli  che  possono esser  liberali;  e così  quelli  che  sanno , non  quelli  che, senza  sapere,  possono governare  un  regno.  E gli  scrittori  laudano più  Icronc  Siracusano  quando  egli era  privato,  che  Perse  Macedone  quando egli  era  re:  perchè  a Icronc  a esser principe  non  mancava  altro  che  il  principato ; quell’altro  non  avera  parte alcuna  di  re,  altro  che  il  regno.  Godetevi, pertanto  quel  bene  o quel  male  che voi  medesimi  avete  voluto  : e se  voi  starete in  questo  errore,  che  queste  mie oppinioni  vi  siano  grate , non  mancherò di  seguire  il  resto  della  istoria,  secondo che  nel  principio  vi  promisi. Valete Ancouaciiè,  per  la  invida  natura  degli uomini,  sia  sempre  stato  pericoloso il  ritrovare  modi  ed  ordini  nuovi,  quanto il  cercare  acque  e terre  incognite,  per essere  quelli  più  pronti  a biasimare  che a laudare  le  azioni  d’ altri  ; nondimeno, spinto  da  quel  naturale  desiderio  che fu  sempre  in  me  di  operare,  senza  alcun rispetto,  quelle  cose  che  io  creda rechino  comune  benefìzio  a ciascuno,  ho deliberato  entrare  per  una  via,  la  quale, non  essendo  stata  per  ancora  da  alcuno pesta,  se  la  mi  arrecherà  fastidio e diffìcultù,  mi  potrebbe  ancora  arrecare  premio,  mediante  quelli  che  umanamente di  queste  mie  fatiche  conside-rassero. E se  T ingegno  povero,  la  pocoesperienza  delle  cose  presenti,  la  de-bole notizia  delle  antiche,  faranno  que-sto mio  conato  difettivo  e di  non  moltautilità  ; daranno  almeno  la  via  ad  al-cuno, che  con  più  virtù,  più  discorso  egiudizio,  potrà  a questa  mia  intenzionesatisfare:  il  che  se  non  mi  arrecheràlaude,  non  mi  dovrebbe  partorire  bia-simo. E quando  io  considero  quantoonore  si  attribuisca  all’antichità,  c comemolte  volte,  lasciando  andare  moltialtri  esempi,  un  frammento  d’ una  antica statua  sia  stato  comperato  granprezzo,  per  averlo  appresso  di  sè,  onorarne la  sua  casa,  poterlo  fare  imitareda  coloro  che  di  quella  arte  si  diletta-no; e come  quelli  poi  con  ogni  indu-stria si  sforzano  in  tutte  le  loro  opererappresentarlo:  e vcggendo,  dall’altrocanto,  le  virtuosissime  operazioni  che  leistorie  ci  mostrano,  che  sono  state  operate  da  regni  cda  repubbliche  auliche,dai  re,  capitani,  cittadini,  datori  di  leggi,ed  ultri  che  si  sono  per  la  loroatfaticati,  esser  più  presto  ammirate  cheimitate;  au/i  in  tanto  da  ciascuno  inogni  parte  fuggite,  che  di  quella  anticavirtù  non  ci  è rimaso  alcun  seguo:posso  fare  che  insieme  non  me  nelavigli  e dolga;  e tanto  più,  quantoveggio  nelle  differenze  che  intra  iladini  civilmente  nascono,  o nelle  inalattie  nelle  quali  gli  uomini  incorrono,essersi  sempre  ricorso  a quelli  giudiciio a quelli  rimedi  che  dagli  antichi  sonostati  giudicati  o ordinati.  Perchè  le  leggicivili  non  sono  altro  che  sentenzio  datedagli  antichi  iurcconsulti,  le  quali,  ri-dotte in  ordine,  a’ presenti  nostri  iure-consulti  giudicare  insegnano;  nè  ancorala  medicina  è altro  che  cspcrienzia  fattadagli  antichi  medici,  sopra  la  quale  fon-dano i medici  presenti  li  loro  giudicii. Nondimeno,  nello  ordinare  le  repubbli-che, nel  mantenere  gli  Stati,  nel  govcr-nai  e i regni,  nell’  ordinare  la  milizia  edamministrar  la  guerra,  nel  giudicare  isudditi,  nello  accrescere  lo  imperio,  nonsi  trova  uè  principi,  nè  repubbliche,  nècapitani,  nè  cittadini  che  agli  esempidegli  antichi  ricorra.  Il  che  mi  persuadoche  nasca  non  tanto  dalla  debolezzanella  quale  la  presente  educazione  hacondotto  il  mondo,  o da  quel  male  cheuno  ambizioso  ozio  ha  fatto  a molteprovincie  c città  cristiane,  quanto  dalnou  avere  vera  cognizione  delle  istorie,per  non  trarne,  leggendole,  quel  senso,nè  gustare  di  loro  quel  sapore  che  lehanno  in  sè.  Donde  nasce  che  infinitiche  leggono,  pigliano  piacere  di  udirequella  varietà  delli  accidenti  che  in  essesi  contengono,  senza  pensare  altrimeuted’ imitarle,  giudicando  la  imitazione  nonsolo  difficile  ma  impossibile:  come  se  ilcielo,  il  sole,  gli  elementi,  gli  uominifossero  variati  di  moto,  d’ordine  e dipotenza,  da  quello  eli’ egli  erano  antica-mente. Volendo,  pertanto,  trarre  gli  uo-mini  di  questo  errore,  ho  giudicalo  ne-cessario scrivere  sopra  tutti  quelli  libri di  LIVIO che  dalla  malignità  deitempi  non  ci  sono  stati  interrotti,  quelloche  io,  secondo  le  antiche  e modern cose,  giudicherò  esser  necessario  permaggiore  intelligenzia  d'essi;  acciocchécoloro  che  questi  miei  discorsi  legge-ranno, possino  trarne  quella  utilità  perla  quale  si  debbe  ricercare  la  cogni-zione della  istoria.  G benché  questa  im-presa sia  difficile,  nondimeno,  aiutato  dacoloro  che  mi  hanno  ad  entrare,  sotto  aquesto  peso  confortato,  credo  portarloin  modo,  che  ad  un  altro  resterà  brevecammino  a condurlo  al  luogo  destinato. I.  Quali  siano  stati  universal-mente i pr  incipit’  di  qualunque  città ,c quale  fosse  quello  di  ROMA. Coloro  che  leggeranno  qual  principio fosse  quello  della  città  di  ROMA,  e da quali  legislatori  e come  ordinato,  non
si  maraviglieranno  che  tanta  virtù  sisia  per  più  secoli  mantenuta  in  quella città;  e che  dipoi  ne  sia  nato  quello  im-perio, al  quale  quella  repubblica  ag-giunse. E volendo  discorrere  prima  il nascimento  suo,  dico  che  tutte  le  cittàsono  edificate  o dagli  uomini  natii  delluogo  dove  le  si  edificano,  o dai  fore-stieri. Il primo  caso  occorre  quandoagli  abitatori  dispersi  in  molte  e piccole parli  non  par  vivere  sicuri,  nonpotendo  ciascuna  per  sè,  e per  il  sitoe per  il  piccol  numero,  resistere  all’impeto di  chi  le  assaltasse;  e ad  unirsi  perloro  difensione,  venendo  il  nemico,  nonsono  a tempo;  o quando  fossero,  converrebbe loro  lnsciare  abbandonati  molti de’ loro  ridotti,  e cosi  verrebbero  ad  esser sùbita  preda  dei  loro  nemici:  talmente che,  per  fuggire  questi  pericoli, mossi  o da  loro  medesimi,  o da  alcunoche  sia  infra  di  loro  di  maggior  autorità, si  ristringono  ad  abitar  insieme  in luogo  eletto  da  loro,  più  comodo  a vi- vere  e più  facile  a difendere.  Di  queste,infra  molle  altre,  sono  state  Atene  e Vincaia. La  prima,  sotto  l’autorità  di  Teseo, fu  per simili  cagioni  dalli  abitatoridispersi  edificata;  l’altra,  sendosi  moltipopoli  ridotti  in  certe  isolette  che  eranonella  punta  del  mare  Adriatico,  per  fug-gire quelle  guerre  che  ogni  dì,  per  loavvenimento  di  nuovi  barbari,  dopo  ladeclinazione  dello  imperio  romano,  na-scevano in  ITALIA,  cominciarono  infra loro,  senza  altro  principe  particolareclic  gli  ordinassi,  a vivere  sotto  quelleleggi  che  parvono  loro  più  atte  a mantenerli. Il  che  successe  loro  felicemente per  il  lungo  ozio  che  il  sito  dette  loro, non  avendo  quel  mare  uscita,  e nonavendo  quelli  popoli  che  affliggevano ITALIA,  navigi  da  poterli  infestare:  talché ogni  picciolo  principio  li  potò  fare  ve-nire a quella  grandezza  nella  quale  sono. Il  secondo  caso,  quando  da  genti  forestiere è edificata  una  città,  nasce  o dauomini  liberi,  oche  dipendano  da  altri come  sono  le  colonie  mandate  o da  unarepubblica  o da  un  principe,  per  Sgra-vare le  . loro  terre  d’abitatori,  o per  di-fesa di  quel  paese  che,  di  nuovo  acqui-stato, vogliono  sicuramente  e senzaspesa  mantenersi;  delle  quali  città  IL POPOLO ROMANO ne  edificò  assai,  e pertutto  l’imperio  suo:  ovvero  le  sono  edi-ficate da  un  principe,  non  per  abitarvi,nia  per  sua  gloria;  come  la  città  di Alessandria  da  Alessandro.  E per  nonavere  queste  cittadl  la  loro  origine  libera,rade  volte  occorre  che  le  facciano  pro-gressi grandi,  e possinsi  intrai  capi  deiregni  numerare.  Simile  a queste  fu  V edificazione di  FIRENZE,  perchè  (fi  edificatada’ soldati  di  SILLA,  o,  a caso,  dagli  abitatori dei  monti  di  Fiesole,  i quali,  confi-datisi in  quella  lunga  pace  che  sotto  OTTAVIANO nacque  nel  mondo,  si  ridusseroad  abitare  nel  piano  sopra  Arno)  si  edi-ficò sotto  l’imperio  romano;  nè  potette,ne’  principii  suoi,  fare  altri  augumentiche  quelli  che  per  cortesia  del  principe li  erano  concessi.  Sono  liberi  li  edificatori delle  cittadi,  quando  alcuni  popoli,o sotto  un  principe  o da  per  sé,  sonocostretti,  o per  morbo  o per  fame  o perguerra,  od  abbandonare  il  paese  potrio,e cercarsi  nuova  sede  : questi  tali,  oegli  abitano  le  cittadi  elle  e’ trovano  neipaesi  eli’ egli  acquistano,  come  fece  Moisè;  o ne  edificano  di  nuovo,  come  fe ENEA.  In  questo  caso  è dove  si  conosce la  virtù  dello  edificatore,  e la  fortunadello  edificato:  la  quale  è più  o menomeravigliosa,  secondo  che  più  o menoè virtuoso  colui  che  ne  è stato  principio.La  virtù  del  quale  si  conosce  in  duoimodi:  il  primo  è nella  elezione  del  sito;F altro  nella  ordinazione  delle  leggi.  Eperchè  gli  uomini  operano  o per  necessità o per  elezione;  e perchè  si  vede quivi  esser  maggiore  virtù  dove  la  elezione ha  meno  autorità;  è da  considerare se  sarebbe  meglio  eleggere,  per  laedificazione  delle  cittadi,  luoghi  sterili,acciocché  gli  uomini,  costretti  ad  indù*striarsi,  meno  occupati  dall’ozio,  vives-sino  più  uniti,  avendo,  per  la  povertàdel  sito,  minore  cagione  di  discordie;come  intervenne  in  Raugia,  e in  moltealtre  cittadi  in  simili  luoghi  edificate:la  quale  elezione  sarebbe  senza  dubbiopiù  savia  e più  utile,  quando  gli  uo-  .mini  fossero  contenti  a vivere  delloro,e non  volcssino  cercare  di  comandarealtrui.  Pertanto,  non  potendo  gli  uominiassicurarsi  se  non  con  la  potenza,  ènecessario  fuggire  questa  sterilità  del
pnese,  e porsi  in  luoghi  fertilissimi  ;dove,  potendo  per  la  ubertà  del  sito  ampliare, possa  e difendersi  da  chi  l’ assaltasse, e opprimere  qualunque  alla  grandezza sua  si  opponesse.  G quanto  a quell’ozio  che  le  arrecasse  il  sito,  si debbe  ordinare  che  a quelle  necessitadi le  leggi  la  costringhino  che  ’l  sito  non la  costringesse;  ed  imitare  quelli  che sono  stati  savi,  ed  hanno  abitato  in  paesiamenissimi  e fertilissimi,  c alti  a pròdurre  uomini  oziosi  ed  inabili  ad  ogni
virtuoso  esercizio:  chè,  per  ovviare  aquelli  danni  i quali  l’amenità  del  paese,mediante  l’ozio,  arebbero  causati,  hannoposto  una  necessità  di  esercizio  a quelliche  avevano  a essere  soldati:  di  qualitàche,  per  tale  ordine,  vi  sono  diventatimigliori  soldati  che  in  quelli  paesi  i qualinaturalmente  sono  stati  aspri  e steriliIntra  i quali  fu  il  regno  degli  Egizi,  chenon  ostante  che  il  paese  sia  amenissi-mo, tanto  potette  quella  necessità  ordi-nata dalle  leggi,  che  vi  nacquero  uo-mini eccellentissimi;  e se  li  nomi  loronon  fussino  dalla  antichità  spenti,  sivedrebbe  come  meriterebbero  più  laudeche  Alessandro  Magno,  c molti  altri  deiquali  ancora*  è la  memoria  fresca.  E chiavesse  considerato  il  regno  del  Soldano,e l’ordine  de’Mammaluchi.  e di  quellaloro  milizia,  avanti  che  da  Sali,  GranTurco,  fusse  stata  spenta  ; arebbe  ve-duto ili  quello  molti  esercizi  circa  i sol-dati, ed  arebbe  in  fatto  conosciutoquanto  essi  temevano  quell’ozio  a cheIODEI  DISCORSIla  benignità  del  paese  gli  poteva  con-durre, se  non  vi  avessino  con  leggi  for-tissime ovviato.  Dico,  adunque,  esserepiù  prudente  elezione  porsi  in  luogofertile,  quando  quella  fertilità  con  leleggi  infra*  debili  termini  si  restringe.Ad  Alessandro  Magno,  volendo  edificareuna  città  per  sua  gloria,  venne  Dino-erate  architetto,  e gli  mostrò  come  eila  poteva  fare  sopra  il  monte  Albo;  ilquale  luogo,  oltre  allo  esser  forte,  po-trebbe ridursi  in  modo  che  a quellacittà  si  darebbe  forma  umana;  il  chesarebbe  cosa  meravigliosa  e raro,  e de-gna della  sua  grandezza:  e domandan-dolo Alessandro  di  quello  che  quelli  abi-tatori viverebbono,  rispose,  non  ci  averepensato:  di  che  quello  si  rise,  e lasciatostare  quel  monte,  edificò  Alessandria,dove  gli  abitatori  avessero  a stare  vo-lentieri per  la  grassezza  del  paese,  e perla  comodità  del  mare  e del  Nilo.  Chi  esa-minerò, adunque,  la  edificazione  di  Ro-ma, se  si  prenderà  Enea  per  suo  primoprogenitore,  sarà  di  quelle  citladi  edifi-cate da’  forestieri  ; se  Romolo,  di  quelleedificate  dagli  uomini  natii  del  luogo;ed  in  qualunciic  modo,  la  Vedrà  avereprincipio  libero,  senza  depcndere  da  al-cuno: vedrà  ancora,  come  di  sotto  sidirà,  a quante  necessitadi  le  leggi  fatteda  Romolo,  Numa,  e gli  altri,  la  costrin-gessino  ; talmente  clic  la  fertilità  del  sito,la  comodità  del  mare,  le  spesse  vittorie,la  grandezza  dello  imperio,  non  la  po-terono per  molti  secoli  corrompere,  e Ir»  -»  **mantennero  piena  di  tante  virtù,  djp^quante  mai  fusse  alcun’ altra  repubblicaornata.  E perchè  le  cose  operate  da  lejj,  ^e che  sono  da  Tito  Livio  celebrate,  sonoseguite  o per  pubblico  o per  privatoconsiglio,  o dentro  o fuori  della  cittade,io  comincerò  a discorrere  sopra  quellecose  occorse  dentro,  e per  consiglio  pub-blico, le  quali  degne  di  maggiore  an-notazione giudicherò,  aggiungendovi  tut-to quello  che  da  loro  dependessi  : coni quali  Discorsi  questo  primo  libro, ovvero  Questa  prima  parte,  si  terminerà. Cap.  II.  — Di  quante  spezie  sono  le  *epnbbtiche , e di  quale  fu  la  Repubblica Romana. Io  voglio  porre  da  parte  il  ragionare di  quelle  cittadi  clic  hanno  avuto  il  loro principio  sottoposto  ad  altri;  e parlerò di  quelle  che  hanno  avuto  il  principio 'ontano  do  ogni  servitù  esterna,  nia  si ; j sono  subito  governate  per  loro  arbitrio, o come  repubbliche  o come  principato: U quali  hanno  avuto,  come  diversi  principi, diverse  leggi  ed  ordini.  Perchè  ad alcune,  o nel  principio  d’esse,  o dopo non  molto  tempo,  sono  state  date  da  un
solo  le  leggi,  e ad  un  tratto  ; come  quelle che  furono  date  da  Licurgo  agli  Spartani: alcune  le  hanno  avute  a caso,  ed in  più  volte,  e secondo  li  accidenti,  come Roma.  Talché,  felice  si  può  chiamare quella  repubblica,  la  quale  sortisce  uno uomo  sì  prudente,  che  le  dia  leggi  ordinate in  modo,  che  senza  avere  bisogno di  correggerle,  possa  vivere  sicuramente sotto  quelle.  E si  vede  che  Sparta  le osservò  più  che  ottocento  anni  senza corromperle,  o senza  alcuno  tumulto  pericoloso: e,  pel  contrario,  tiene  qualche grado  d’  infelicità  quella  città,  che,  non si  sendo  abbattuta  ad  uno  ordinatore prudente,  è necessitata  da  sè  medesima riordinarsi:  e di  queste  ancora  è più infelice  quella  che  è più  discosto  dall’ordine; e quella  è più  discosto, con  suoi  ordini  è al  tutto  fuori  del  dritto cammino,  che  la  possi  condurre  al  perfetto e vero  fine:  perchè  quelle  clic  sonoiu  questo  grado,  è quasi  impossibile  che per  qualche  accidente  si  rassettino.  Quel le  altre  che,  se  le  non  hanno  V ordine perfetto,  hanno  preso  il  principio  buono,e atto  a diventare  migliori,  possono  perla  occorrenza  delli  accidenti  diventareperfette.  Ma  fia  ben  vero  questo, mai  non  si  ordineranno  senza  pericolo
perchè  li  assai  uomini  non  si  accordano mai  ad  una  legge  nuova  che  riguardi uno  nuovo  ordine  nella  cit tà,  se  non  è mostro  loro  da  una  necessità  che  bisogni farlo  ; e non  potendo  venire  questa necessità  senza  pericolo,  è facil  cosa  che quella  repubblica  rovini,  avanti  che  la si  sia  condotta  a una  perfezione  d’ or-dine. Di  che  ne  fa  fede  appieno  la  re-pubblica di  Firenze,  la  quale  fu  dalloaccidente  d’  Arezzo,  nel  11,  riordinata,  eda  quel  di  Prato,  nel  XII,  disordinata.Volendo,  adunque,  discorrere  quali  fu-rono li  ordini  della  città  di  Roma,  equali  accidenti  alla  sua  perfezione  lacondussero)  dico,  come  alcuui  che  hannoscritto  delle  repubbliche,  dicono  essere
in  quelle  uno  de'  tre  stati,  chiamati  daloro  Principato,  d’Ottimati  e Popolare; e come  coloro  che  ordinano  una  città, debbono  volgersi  ad  uno  di  questi,  secondo pare  loro  più  a proposito.  Alcuni altri,  e secondo  la  oppinione  di  molti più  savi,  hanno  oppinione  che  siano  di sei  ragioni  governi;  delti  quali  tre  ne siano  pessimi;  tre  altri  siano  buoni  in loro  medesimi,  ma  sì  focili  a corrompersi, che  vengono  ancora  essi  ad  essere perniziosi.  Quelli  che  sono  buoni, sono  i soprascritti  tre:  quelli  clic  sono rei,  sono  tre  altri,  i quali  da  questi  tre dependono;  c ciascuno  d’  essi  è in  modo simile  a quello  che  gli  è propinquo,  che facilmente  saltano  dall’  uno  all’  altro: perchè  il  Principato  facilmente  diventa tirannico;  li  Ottimati  con  facilità  diventano stato  di  pochi  ; il  Popolare  senza diflìcultà  in  licenzioso  si  converte.  Talmente che,  se  uno  ordinatore  di  repubblica ordina  in  una  città  uno  di  quelli tre  stati,  ve  lo  ordina  per  poco  tempo; perchè  nessuno  rimedio  può  farvi,  a far che  non  sdruccioli  nel  suo  contrario, per  la  similitudine  che  ha  in  questo caso  la  virtù  ed  il  vizio.  Nacquono  queste variazioni  di  governi  a caso  intra li  uomini:  perchè  nel  principio  del  mondo, sendo  li  abitatori  rari,  vissono  un tempo  dispersi,  a similitudine  delle  bestie; dipoi,  multiplicando  la  generazione, si  ragunorno  insieme,  e,  per  potersi meglio  difendere,  cominciorno  a riguardare fra  loro  quello  che  fusse  più  robusto c di  maggiore  cuore,  c fecionlo come  capo,  e lo  obedivano.  Da  questo nacque  la  cognizione  delle  cose  oneste e buone,  differenti  dalle  perniziose  e ree:  perchè,  veggendo  che  se  uno  noceva  al  suo  benefattore,  ne  veniva  odio e compassione  intra  gli  uomini,  biasimando li  ingrati  ed  onorando  quelli  che fusscro  grati,  e pensando  ancora  che quelle  medesime  ingiurie  potevano  esser fatte  a loro;  per  fuggire  simile  male,  si riducevano  a fare  leggi,  ordinare  punizioni a chi  contea  facesse:  donde  venne la  cognizione  della  giustizia.  La  qual cosa  faceva  che  avendo  dipoi  ad  eleggere un  principe,  non  andavano  dietro al  più  gagliardo,  ma  a quello  che  fussi più  prudente  c più  giusto.  Ala  come  di poi si  cominciò  a fare  il  principe  per successione,  e non  pei*  elezione,  subito cominciorno  li  eredi  a degenerare  dai loro  antichi  ; e lasciando  1’  opere  virtuose, pensavano  che  i principi  non avessero  a fare  altro  clic  superare  li  altri di  sontuosità  e di  lascivia  c d’  ogni  altra' qualità  deliziosa:  in  modo  che,  cominciando il  principe  ad  essere  odialo,  e per  tale  odio  a temere,  e passando  tosto dal  timore  all’  offese,  ne  nasceva presto  una  tirannide.  Da  questo  nacquero appresso  i principi»  delle  rovine,  c delle conspirazioni  e congiure  contea  i principi; non  fatte  da  coloro  clic  fussero  o timidi  o deboli,  ma  da  coloro  che  per genei'osità,  grandezza  d’  animo,  ricchezza e nobiltà,  avanzavano  gli  altri;  i quali non  potevano  sopportare  la  inonesta  vita di  quel  principe.  La  moltitudine,  adunque, seguendo  l’ autorità  di  questi  potenti, si  armava  contra  al  principe,  c quello  spento,  ubbidiva  loro  come  a suoi liberatori.  E quelli,  avendo  in  odio  il nome  d’  uno  solo  capo,  constituivano  di loro  medesimi  un  governo;  e nel  piincipio,  avendo  rispetto  alla  passata  tiratinide,  si  governavano  secondo  le  leggi ordinate  da  loro,  posponendo  ogni  loro comodo  alla  comune  utilità  ; e le  cose private  e le  pubbliche  con  somma  diligenzia  governavano  c conservavano.  Venuta  dipoi  questa  amministrazione  ai loro  figliuoli,  i quali,  non  conoscendo  la variazione  della  fortuna,  non  avendo mai  provato  il  male,  e non  volendo  stare contenti  alla  civile  equalità,  ma  rivoltisi alla  avarizia,  alla  ambizione,  alla  usurpazione delle  donne,  feciono  clic  d’  uno governo  d’  Ottimati  diventassi  un  governo di  pochi,  senza  avere  rispetto  ad alcuna  civiltà  : tal  che  in  breve  tempo intervenne  loro  come  al  tiranno;  perchè infastidita  da’  loro  governi  la  moltitudine, si  fe  ministra  di  qualunque  disegnassi in  alcun  modo  offendere  quelli governatori;  e cosi  si  levò  presto  alcuno che,  con  I’  aiuto  della  moltitudine, li  spense.  Ed  essendo  ancora  fresca  la memoria  del  principe  e delle  ingiurie ricevute  da  quello,  avendo  disfatto  lo Stato  de’  pochi  e non  volendo  rifare  quell del  principe,  si  volsero  allo  Stato  popolare; c quello  ordinarono  in  modo,  che nè  i pochi  potenti,  nè  uno  principe  vi avesse  alcuna  autorità.  E perchè  tutti gli  Stali  nel  principio  hanno  qualche  reverenza, si  mantenne  questo  Stato  popolare un  poco,  ma  non  molto,  massi-
me spenta  che  fu  quella  generazione  che l’aveva  ordinato;  perchè  subito  si  venne alla  licenzia,  dove  non  si  temevano nè  li  uomini  privati  nè  i pubblici;  di qualità  che,  vivendo  ciascuno  a suo  modo, si  facevano  ogni  di  mille  ingiurie:  talché, costretti  per  necessità,  o per  suggestione  d’ alcuno  buono  uomo,  o per fuggire  tale  licenzia,  si  ritorna  di  nuovo al  principato;  e da  quello,  di  grado  in grado,  si  riviene  verso  la  licenzia,  nei modi  e per  le  cagioni  dette.  E questo  è il  cerchio  nel  quale  girando  tutte  le  repubbliche si  sono  governate,  e si  governano:  ina  rade  volte  ritornano  nei governi  medesimi;  perchè  quasi  nessuna repubblica  può  essere  di  tanta  vita, che  possa  passare  molle  volte  per  queste mutazioni,  c rimanere  in  piede.  Ma bene  interviene  che,  nel  travagliare,  una repubblica,  mancandoli  sempre  consiglio e forze,  diventa  suddita  d'uno  Stato  propinquo, clic  sia  meglio  ordinato  di  lei  : ina  dato  che  questo  non  fusse,  sarebbe atta  una  repubblica  a rigirarsi  infinito tempo  in  questi  governi.  Dico,  adunque, che  lutti  i detti  modi  sono  pestiferi,  per la  brevità  della  vita  che  è ne’  tre  buoni, e per  la  malignità  che  è ne*  tre  rei.  Talché, avendo  quelli  che  prudentemente ordinano  leggi  conosciuto  questo  difetto, fuggendo  ciascuno  di  questi  modi  per se  stesso,  n’  elessero  uno  che  partieipasse  di  lutti,  giudicandolo  più  fermo  e più  stabile  ; perchè  l’  uno  guarda  l’altro, scudo  in  una  medesima  città  il  Principato, li  Ottimati  ed  il  Governo  Popolare. Infra  quelli  che  hanno  per  simili constituzioni  meritato  più  laude,  è Licurgo; il  quale  ordinò  in  modo  le  sue leggi  in  Sparta,  che  dando  le  parti  sue ai  He,  agli  Ottimali  e al  Popolo,  fece uno  Stato  che  durò  più  che  ottocento anni,  con  somma  laude  sua,  e quiete  di quella  città.  Al  contrario  intervenne  a Solone,  il  quale  ordinò  le  leggi  in  Atene che  per  ordinarvi  solo  lo  Stato  popolare lo  fece  di  sì  breve  vita,  che  avanti  morisse vi  vide  nata  la  tirannide  di  Pisistrato:  e benché  dipoi  anni  quaranta ne  fusscro  cacciati  gli  suoi  eredi,  c ritornasse Atene  in  libertà,  perchè  la  riprese lo  Stato  popolare,  secondo  gli  ordini di  Solone;  non  lo  tenne  più  cliccento  anni,  ancora  che  per  mantenerlo facesse  molte  constituzioni,  per le  quali  si  reprimeva  la  iusolenzia grandi  c la  licenzia  dell’  universale,  le quali  non  furou  da  Solonc  considerate nientedimeno,  perchè  la  non  le  mescolò con  la  potenzia  del  Principato  e con quella  dclli  Ottimali,  visse  Atene, spetto  di  Sparla,  brevissimo  tempo.  Ria vegniamo  a ROMA  ; la  quale  nonostante che  non  avesse  uno  Licurgo  che  la  ordinasse in  modo,  ilei  principio,  che  la  potesse vivere  lungo  tempo  libera,  nondimeno furon  tanti  gli  accidenti  che  in quella  nacquero,  per  la  disunione  che era  intra  la  Plebe  ed  il  Senato,  che quello  che  non  aveva  fatto  uno  ordinatore, lo  fece  il  caso.  Perchè,  se  ROMA non  sortì  la  prima  fortuna,  sortì  la  seconda; perchè  i primi  ordini  se  furono defettivi,  nondimeno  non  deviarono  dalla diritta  via  che  li  potesse  condurre  alla perfezione.  Perchè  ROMOLO  e tutti  gli  altri Re  fecero  molte  e buone  leggi,  conformi ancora  al  vivere  libero:  ma  perchè il  fine  loro  fu  fondare  un  regno  e non una  repubblica,  quando  quella  città  rimase libera,  vi  mancavano  molte  cose che  era  necessario  ordinare  in  favore della  libertà,  le  quali  non  erano  state da  quelli  Re  ordinate.  E avvengachè quelli  suoi  Re  perdessero  V imperio  per le  cagioni  e modi  discorsi;  nondimeno quelli  clic  li  cacciarono,  ordinandovi  subito duoi  Consoli,  che  stessino  nel  luogo del  Re,  vennero  a cacciare  di  Roma  il nome,  e non  la  potestà  regia:  talché, essendo  in  quella  Repubblica  i Consoli ed  il  Senato,  veniva  solo  ad  esser  mista di  due  qualità  delle  tre  soprascritte: cioè  di  Principato  e di  Ottimali.  Restavali  solo  a dare  luogo  al  Governo  Popolare: onde,  essendo  diventatala  Nobiltà romana  insolente  per  le  cagioni  che  di sotto  si  diranno,  si  levò  il  Popolo  contro di  quella  ; talché,  per  non  perdere il  tutto,  fu  costretta  concedere  al  Popolo la  sua  parte;  e,  dall’altra  parte,  il  Senato e i Consoli  restassino  con  tantaautorità,  che  potcssino  tenere  in  quella Repubblica  il  grado  loro.  E cosi  nacque la  creazione  de’  Tribuni  della  plebe  ; dopo la  quale  creazione  venne  a essere  più stabilito  lo  stato  di  quella  Repubblica,
avendovi  tutte  le  tre  qualità  di  governo la  parte  sua.  E tanto  li  fu  favorevole  la fortuna,  che  benché  si  passasse  dal  governo de’ Re  e delli  Ottimati  al  Popolo, per  quelli  medesimi  gradi  e per  quelle medesime  cagioni  che  di  sopra  si  sono discorse  : nondimeno  non  si  tolse  mai, per  dare  autorità  alli  Ottimati,  tutta l’autorità  alle  qualità  regie;  nè  si  diminuì l’autorità  in  tutto  alli  Ottimati,  per darla  al  Popolo;  ina  rimanendo  mista, fece  una  repubblica  perfetta  : alla  quale perfezione  venne  per  la  disunione  della Plebe  e del  Senato,  come  nei  duoi  prossimi seguenti  capitoli  largamente  si  dimostrerà. III.  — Quali  accidenti  facessino creare  in  Roma  i Tribuni  della  plebe ; il  che  fece  la  Repubblica  più  perfetta. Come  dimostrano  lutti  coloro  che  ragionano del  vivere  civile,  e come  ne  è piena  di  esempi  ogni  istoria,  è necessario a chi  dispone  una  repubblica,  ed ordina  leggi  in  quella,  presupporre  tuttigli  uomini  essere  cattivi,  e clic  li  abbinosempre  od  usure  la  malignità  dello  animo loro,  qualunchc  volta  ne  abbino  libera occasione:  e quando  alcuna  malignità sta  occulta  un  tempo,  procede  da una  occulta  cagione,  ebe,  per  non  si  essere veduta  esperienza  del  contrario, non  si  conosce;  ma  la  fa  poi  scoprire il  tempo,  il  quale  dicono  essere  padre d’ogni  verità.  Pareva  clic  fusse  in  Roma intra  la  Plebe  cd  il  Senato,  cacciati  I Tarquiili,  una  unione  grandissima;  e che  i Nobili,  avessino  deposta  quella  loro superbia,  c russino  diventati  d'animo popolare,  c sopportabili  da  qualuncbc, ancora  ebe  infimo.  Stette  nascoso  questo inganno,  nè  se  ne  vide  la  cagione, infino  ebe  i Tarquini  vissono;  de’ quali temendo  la  Nobiltà,  ed  avendo  paura che  la  Plebe  mal  trattata  non  si  accostasse loro,  si  portava  umanamente  con quella:  ma  come  prima  furono  morti  I Tarquini,  e die  a’ Nobili  fu  la  paura fuggita,  cominciarono  a sputare  contro Olla  Plebe  quel  veleno  che  si  avevàno tenuto  nel  petto,  ed  in  tutti  i modi  che potevano  la  offendevano:  la  qual  cosa  fa testimonianza  a quello  che  di  sopra  ho detto,  che  gli  uomini  non  operano  mai nulla  bene,  se  non  per  necessità;  ma dove  la  elezione  abbonda,  e che  vi  si può  usare  licenzia,  si  riempie  subito  ogni cosa  di  confusione  e di  disordine.  Però  si dice  che  la  fame  e la  povertà  fu  gli  uomini industriosi,  e le  leggi  gli  fanno buoni.  E dove  una  cosa  per  sè  medesima senza  la  legge  opera  bene,  non  è necessaria la  legge;  ma  quando  quella  buona consuetudine  manca,  è subito  la  legge necessaria.  Però,  mancati  i Tarqnini, che  con  la  paura  di  loro  tenevano  laNobiltà  a freno,  convenne  pensare  a unonuovo  ordine  ehe  facessi  quel  medesimoeffetto  che  facevano  i Tarquini  quandoerano  vivi.  E però,  dopo  molte  confu-sioni, romori  e pericoli  di  scandali,  chenacquero  intra  la  Plebe  c la  Nobiltà,  sivenne  per  sicurtà  della  Plebe  alla  creazionc  ile* Tribuni  ; e quelli  ordinaronocon  laute  preminenze  e tanta  riputa-zione, che  potcssino  essere  sempre  dipoi  mezzi  intra  la  Plebe  e il  Senato,  eovviare  alla  insolenzia  de’ Nobili. IV.  — Che  la  disunione  della  Plebe c del  Senato  romano  fece  libera  e polente  quella  Repubblica. H0U  njt  fil  ùi  òVvil  tf,  ; il  "iit* lo  non  voglio  mancare  di  discorrere sopra  questi  tumulti  che  furono  in  Roma dalla  morte  de’ Tarquini  alla  creazione de’  Tribuni;  e di  poi  alcune  cose contro  la  oppinionc  di  molti  clic  dicono. Roma  esser  stata  una  repubblica  tumultuaria, e piena  di  tanta  confusione,  clicse  la  buona  fortuna  c la  virtù  militare non  avesse  supplito  a’  loro  difetti,  sarebbe stata  inferiore  ad  ogni  altra  repubblica. Io  non  posso  negare  che  la fortuna  e la  milizia  non  fussero  cagioni dell’imperio  romano;  ma  e’ mi  pare bene,  che  costoro  non  si  avvegghino, clic  dove  è buona  milizia,  conviene  clic sia  buono  ordine,  e rade  volte  anco  occorre clic  non  vi  sia  buona  fortuna.  Ma vegniamo  all i altri  particolari  di  quella città.  Io  dico  clic  coloro  clic  dannano  I tumulti  intra  i Nobili  c la  Plebe,  mi pare  clic  biasimino  quelle  cose  che  furono prima  cagione  di  tenere  libera  Roma ; c clic  considerino  più  a’  romori  ed alle  grida  clic  di  tali  tumulti  nascevano, che  a’ buoni  effetti  clic  quelli  partorivano: e che  non  considerino  come  ei sono  in  ogni  repubblica  duoi  umori  diversi, quello  del  popolo,  c quello  dei grandi  ; c come  tutte  le  leggi  che  si  fanno in  favore  delia  libertà,  nascono  dalla disunione  loro,  come  facilmente  si  può vedere  essere  seguito  in  Roma:  perchè da’Tarquini  ai  Gracchi,  che  furono  più
di  trecento  anni,  i tumulti  di  Roma  rade volte  partorivano  esilio,  radissime  sangue. Nè  si  possono,  per  tanto,  giudicare questi  tumulti  nocivi,  nè  una  repubblica divisa,  che  in  tanto  tempo  per  le  sue differenze  non  mondò  in  esilio  più  che otto  o dieci  cittadini,  e ne  ammazzò  pochissimi, e non  molti  ancora  condennò in  danari.  Nè  si  può  chiamare  in  alcun modo,  con  ragione,  una  repubblica  inordinata, dove  siano  tanti  esempi  di  virtù; perchè  li  buoni  esempi  nascono  dalla buona  educazione;  la  buona  educazione dalle  buone  leggi  ; e le  buone  leggi  da quelli  tumulti  che  molti  inconsideratamente dannano:  perchè  chi  esaminerò bene  il  fine  d’essi,  non  troverà  ch’egliabbino  partorito  alcuno  esilio  o violenza in  disfavore  del  comune  bene,  ma  leggi ed  ordini  in  benefizio  della  pubblica  libertà. E se  alcuno  dicesse  : i modi  erano straordinari,  e quasi  efferati,  vedere  il Popolo  insieme  gridare  contro  il  Senato, il  Senato  contra  il  Popolo,  correre  tumultuariamente per  le  strade,  serrare  le botteghe,  partirsi  tutta  la  Plebe  di  Roma. le  quali  tutte  cose  spaventano,  nonclic  altro,  chi  legge;  dico  come  ogni città  debbe  avere  i suoi  modi,  con  i  quali  il  popolo  possa  sfogare  l’ambizione sua,  e massime  quelle  ciltadi  che uelle  cose  importanti  si  vogliono  valere del  popolo:  intra  le  quali  la  città di  Roma  aveva  questo  modo,  che  quando quel  Popolo  voleva  ottenere  una  legge, o e’  faceva  alcuna  delle  predette  cose, o e’  non  voleva  dare  il  nome  per andare  alla  guerra,  tanto  che  a placarlo bisognava  in  qualche  parte  satisfargli.  E i desiderò  de’  popoli  liberi,  rade  volle sono  perniziosi  alla  libertà,  perchè  e’na- seono  o da  essere  oppressi,  o da  suspizionc  di  avere  a essere  oppressi.  E quando queste  oppinioni  fussero  false,  e’  vi  è il rimedio  delle  concioni,  che  sorga  qualche uomo  da  bene,  che,  orando,  dimostri loro  come  c’  s’  ingannano:  e li  popoli, come  dice  Tullio CICERONE,  benché  siano  ignoranti, sono  capaci  della  verità,  e facilmente cedono,  quando  da  uomo  degno di  fede  è detto  loro  il  vero.  Debbesi, adunque,  più  parcamente  biasimare  il governo  romano,  e considerare  che  tanti buoni  effetti  quanti  uscivano  di  quella repubblica,  non  erano  causati  se  non  da ottime  cagioni.  E se  i tumulti  furono  cagione della  creazione  dei  Tribuni,  meritano somma  laude;  perchè,  oltre  al  dare la  parte  sua  all’ amministrazione  popolare, furono  constituiti  per  guardia  della libertà  romana,  come  nel  seguente  capitolo si  mostrerà. V.  Dove  più  sccurnmentc  si  ponga la  guardia  della  libertà , o nel Popolo  o ne * Grandi  ; c c/uali  hanno maggior  cagione  di  tumultuare , o chi vuole  acquistare  o chi  vuole  mantenere. Quelli  clic  prudentemente  hanno  constituita  una  repubblica,  intra  le  più necessarie  cose  ordinate  da  loro,  è stato constituire  una  guardia  alla  liberta:  e secondo  che  questa  è bene  collocala,dura  più  o meno  quel  vivere  libero.  Eperché  in  ogni  repubblica  sono  uomingrandi  e popolari,  si  è dubitato  nellemani  di  quali  sia  meglio  collocata  dettaguardia.  Ed  appresso  i Lacedemoni,  c,ne’  nostri  tempi,  appresso  de’  Viniziani,la  è stata  messa  nelle  mani  de’  Nobili  ;ma  appresso  de’ Romani  fu  messa  nellemani  della  Plebe.  Per  tanto,  è necessa-rio esaminare,  quale  di  queste  repub-bliche avesse  migliore  elezione.  E se  siandassi  dietro  alle  ragioni,  ci  è chedire  da  ogni  pajte:  ma  se  si  esaminassiil  fine  loro,  si  piglierebbe  la  partede’  Nobili,  per  aver  avuta  la  libertà  diSparla  c di  Vinegia  più  lunga  vita  chequella  di  Roma.  E venendo  alle  ragio-ni, dico,  pigliando  prima  la  parte  de’  Ro-mani, come  e’  si  debbe  mettere  in  guar-dia coloro  d’  una  cosa,  che  hanno  menoappetito  di  usurparla.  E senza  dubbio,se  si  considera  il  fine  de’  nobili  e deiliignobili,  si  vedrà  in  quelli  desideriogrande  di  dominare,  cd  in  questi  solodesiderio  di  non  essere  dominati;  e,  perconseguente,  maggiore  volontà  di  vivereliberi,  potendo  meno  sperare  d’ usurparla  che  non  possono  li  granili:  tal-ché, essendo  i popolani  preposti  a guar-dia d’ una  libertà,  ò ragionevole  neabbino  più  cura  : e non  la  putendo  occu-pare loro,  non  permettino  clic  altri  laoccupi.  Dall’  altra  parte,  chi  difendel’ordine  sparlano  e veneto,  dice  cliccoloro  che  mettono  la  guardia  in  inanode’  potenti,  fanno  due  opere  buone:I’  una,  che  satisfanno  più  all’  ambizionedi  coloro  che  avendo  più  parte  nellarepubblica,  per  avere  questo  bastone  inmano,  hanno  cagione  di  contentarsi  più;I’  altra,  clic  bevano  una  qualità  di  au-torità dagli  animi  inquieti  della  plebe,che  è cagione  d’ infinite  dissensioni  escandali  in  una  repubblica,  e alta  a ri-durre la  nobiltà  a qualche  disperazio-ne, che  col  tempo  faccia  cattivi  eliciti.E ne  danno  per  esempio  la  medesimaRoma,  che  per  avere  i Tribuni  dellaplebe  questa  autorità  nelle  mani,  nonbastò  loro  aver  un  Consolo  plcbeio,  chegli  vollono  avere  ambedue.  Da  questo,c*  voltano  la  Censura,  il  Pretore,  e tuttili  altri  gradi  dell’imperio  della  città:nè  bastò  loro  questo,  chè,  menati  dalmedesimo  furore,  cominciorno  poi,  coltempo,  a adorare  quelli  uomini  che  ve-devano atti  a battere  la  Nobiltà  ; dondenacque  la  potenza  di  Alarlo,  e la  rovinadi  Roma.  E veramente,  chi  discorressebene  I’  una  cosa  c l’ altra,  potrebbestare  dubbio,  quale  da  lui  fusse  elettoper  guardia  tale  di  libertà,  non  sapen-do quale  qualità  d’  uomini  sia  più  no-civa in  una  repubblica,  o quella  ohedesidera  acquistare  quello  che  non  ha,‘ o quella  che  desidera  mantenere  V ono-re già  acquistato.  Ed  in  fine,  chi  sot-tilmente esaminerà  tutto,  ne  farà  que-sta conclusione:  o tu  ragioni  d’  unarepubblica  che  vogli  fare  uno  imperio,come  Roma  ; o d’  una  che  li  basti  man-tenersi. Nel  primo  caso,  gli  è necessa-rio fare  ogni  cosa  come  Roma;  nel  se-condo, può  imitare  Yinegia  e Spartaper  quelle  cagioni,  e come  nel  seguente capitolo  si  dirà.  .Ma,  per  tornare  a di-scorrere quali  uomini  siano  in  una  re-pubblica piu  nocivi,  o quelli  clic  desi-derano d’acquistare,  o quelli  clic  te-mono di  perdere  lo  acquistato;  dicodie,  scudo  fatto  Marco  Meiiennio  ditta-tore, e Marco  Fulvio  maestro  de’ caval-li, tutti  duoi  plebei,  per  ricercare  certecongiure  clic  si  erano  falle  in  Capovaconlro  a Roma,  fu  dato  ancora  loro  au-torità dal  Popolo  di  poter  ricercare  chiin  Roma  per  ambizione  e modi  straor-dinari s’  ingegnasse  di  venire  al  con-solato, ed  agli  altri  onori  della  città.  Eparendo  alla  Nobiltà,  che  tale  autoritàfusse  data  al  Dittatore  contro  a lei,sparsero  per  Roma,  clic  non  i nobilierano  quelli  che  cercavano  gli  onoriper  ambizione  e modi  straordinari,  magl’  ignobili,  i quali,  non  confidatisi  nelsangue  e nella  virtù  loro,  cercavano  pervie  straordinarie  venire  a quelli  gradi;e particolarmente  accusavano  il  Ditta-tore. E tanto  fu  potente  questa  accusa, che  Mencnnio,  fatta  una  conclone  c do-lutosi deite  calunnie  dategli  da*  Nobilidepose  la  dittatura,  e sottomessesi  aigiudizio  che  di  lui  fussi  fatto  dal  Po*polo;  c dipoi,  agitala  la  causa  sua,  nefu  assoluto:  dove  si  disputò  assai,  qualesia  più  ambizioso,  o quel  che  vuolemantenere  o quel  che  vuole  acquistare;perchè  facilmente  1*  uno  e V altro  ap-petito può  essere  cagione  di  tumultigrandissimi.  Pur  nondimeno,  il  più  dellevolte  sono  causali  da  chi  possiede,  per-chè la  paura  del  perdere  genera  in  lorole  medesime  voglie  che  sono  in  quelliche  desiderano  acquistare;  perchè  nonpare  agli  uomini  possedere  sicuramente
quello  clic  P uomo  ha,  se  non  si  acqui-sta di  nuovo  dell’  altro.  E di  più  vi  è,che  possedendo  molto,  possono  con  mag-gior potenzia  c maggiore  moto  fare  alterazione. Ed  ancora  vi  è di  più,  che li  loro  scorretti  e ambiziosi  portamenti accendono  ne’  petti  di  chi  non  possiede voglia  di  possedere,  o per  vendicarsi  contro  di  loro  spogliandoli,  o per  potere ancora  loro  entrare  in  quella  ricchezza c in  quelli  onori  clic  veggono essere  male  usati  dagli  altri. VI.  — Se  in  1 ionia  si  poteva  ordinare uno  stalo  che  togliesse  via  le inimicizie  intra il  Popolo  ed  il  Senato. Noi  abbiamo  discorsi  di  sopra  gli  effetti che  facevano  le  controversie  intra il  Popolo  ed  il  Senato.  Ora,  sendo  quelle seguitate  in  fino  al  tempo  de’ Gracchi, dove  furono  cagione  della  rovina  del  vivere libero,  potrebbe  alcuno  desiderare che  Roma  avesse  fatti  gli  effetti  grandi  che la  fece,  senza  che  in  quella  fussino  tali inimicizie.  Però  mi  è parso  cosa  degna  di considerazione,  vedere  se  in  Roma  si  poteva ordinare  uno  stato  che  togliesse  via dette  controversie.  Ed  a volere  esaminare questo,  è necessario  ricorrere  a quelle repubbliche  le  quali  senza  tante  inimicizie c tumulti  sono  state  lungamente  libere,  e vedere  quale  stato  era  il  loro,  e se  si  poteva  introdurre  in  Roma.  In esempio  tra  lì  antichi  ci  è Sparta,  tra i moderni  Yinegia,  state  da  me  di  sopra uominate.  Sparla  fece  uno  Re,  con  unpicciolo  Senato,  che  la  governasse.  Vinegia  non  ha  diviso  il  governo  con  i nomi  ; ma,  sotto  una  appellazione,  lutti quelli  che  possono  avere  amministrazione si  chiamano  Gentiluomini.  Il  quale modo  lo  dette  il  caso,  più  che  la  prudenza di  elùdette  loro  le  leggi:  perchè, sendosi  ridotti  in  su  quegli  scogli  dove è ora  quella  città,  per  le  cagioni  dette di  sopra,  molti  abitatori;  come  furon cresciuti  in  tanto  numero,  che  a volere vivere  insieme  bisognasse  loro  far  leggi, ordinorono  una  forma  di  governo;  c convenendo  spesso  insieme  ne’  consigli  a deliberare  della  città,  quando  parve  loro essere  tanti  che  fussero  a sufficienza  ad un  vivere  politico,  chiusono  la  via  a tutti quelli  altri  che  vi  venissino  ad  abitare di  nuovo,  di  potere  convenire  ne’ loro governi:  e,  col  tempo,  trovandosi  in quel  luogo  assai  abitatori  fuori  del  governo, per  dare  riputazione  a quelli  clic governavano,  gli  chiamarono  Gentiluomini, e gli  altri  Popolani.  Potette  questo modo  nascere  e mantenersi  senza  tumulto, perchè  quando  e’  nacque,  qualunque allora  abitava  in  Vinegia  fu  fatto del  governo,  di  modo  che  nessuno  si  poteva dolere;  quelli  che.  dipoi  vi  vennero ad  abitare,  trovando  lo  Stato  fermo  c terminato,  non  avevano  cagione  nè  comodità di  fare  tumulto.  La  cagione  non y*  era,  perchè  non  era  stato  loro  tolto cosa  alcuna:  la  comodità  non  v’era, perché  chi  reggeva  gli  teneva  in  freno, c non  gli  adoperava  in  cose  dove  e’ potessino  pigliare  autorità.  Oltre  di  questo, quelli  che  dipoi  vennono  ad  abitare Vinegia,  non  sono  stali  molli,  c di  tanto numero,  che  vi  sia  disproporzione  da chi  gli  governa  a loro  che  sono  governati; perchè  il  numero  de’ Gentiluomini o egli  è eguale  a loro,  o egli  è superiore:  sicché,  per  queste  cagioni,  Vinegia  potette  ordinare  quello  Stalo,  e mantenerlo unito.  Sparta,  come  ho  detto,  essendo governata  da  un  Re  c da  una stretto  Senato,  potette  mantenersi  così lungo  tempo,  perchè  essendo  in  Sparta pochi  abitatori,  ed  avendo  tolta  la  via n chi  vi  venisse  ad  abitare,  ed  avendo prese  le  leggi  di  Licurgo  con  reputazione, le  quali  osservando,  levavano via  tutte  le  cagioni  de’  tumulti,  poterono vivere  uniti  lungo  tempo:  perchè Licurgo  con  le  sue  leggi  fece  in  Sparta più  cqualità  di  sustanze,  e meno  equalità  di  grado;  perchè  quivi  era  una eguale  povertà,  ed  i plebei  erano  manco ambiziosi,  perchè  i gradi  della  città  si distendevano  in  pochi  cittadini,  ed  erano tenuti  discosto  dalla  plebe,  uè  gli  nobili col  trattargli  male  dettero  mai  loro  desiderio di  avergli.  Questo  nacque  dai  Re spartani,  i quali  essendo  collocati  in quel  principato  e posti  in  mezzo  diquella  nobiltà,  non  avevano  maggiore  ri-medio  a tenere  fermo  la  loro  degnità,ehc  tenere  la  plebe  difesa  da  ogni  in-giuria : il  che  faceva  che  la  plebe  nontemeva,  c non  desiderava  imperio  ; e nonavendo  imperio  nè  temendo,  era  levatavia  la  gara  che  la  potessi  avere  con  !unobiltà,  c la  cagione  de’ tumulti;  e po-terono vivere  uniti  lungo  tempo.  Ma  duecose  principali  causarono  questa  unione:T una  esser  pochi  gli  abitatori  di  Sparta,e per  questo  poterono  esser  governatida  pochi;  l’altra,  che  non  accettandoforestieri  nella  loro  repubblica,  non  ave-vano occasione  nè  di  corrompersi,  nè  dicrescere  in  tanto  che  la  fusse  insoppor-tabile a quelli  pochi  che  la  governavano.Considerando,  adunque,  tutte  queste  cose ,si  vede  come  a’ legislatori  di  Roma  eranecessario  fare  una  delle  due  cose,  a vo-lere che  Roma  stessi  quieta  come  le  so-praddette repubbliche:  o non  adoperarela  plebe  in  guerra,  corne  i Viniziani;onon  aprire  la  via  a’ forestieri,  come  gliSpartani.  E loro  feceno  1’una  e l’altra; il  che  dette  alla  plebe  forza  ed  augu-mento,  ed  infinite  occasioni  di  tumul-tuare. E se  lo  stato  romano  veniva  adessere  più  quieto,  ne  seguiva  questo  in-conveniente, ch’egli  era  anco  più  debile,perchè  gli  si  troncava  la  via  di  poterevenire  a quella  grandezza  dove  ei  per-venne: in  modo  che  volendo  Roma  le-vare le  cagioni  de’  tumulti,  levava  ancole  cagioni  dello  ampliare.  Ed  in  tutte  lecose  umane  si  vede  questo,  chi  le  esa-minerà bene:  che  non  si  può  mai  can-cellare uno  inconveniente,  che  non  nesurga  un  altro.  Per  tanto,  se  tu  vuoifare  un  popolo  numeroso  ed  armato  perpotere  fare  un  grande  imperio,  lo  faidi  qualità  che  tu  non  lo  puoi  poi  ma-neggiare a tuo  modo:  se  tu  lo  mantienio piccolo  o disarmato  per  potere  ma-neggiarlo, se  egli  acquista  dominio,  nonlo  puoi  tenere,  o diventa  sì  vile,  che  tusei  preda  di  quaiunche  ti  assalta.  E però,in  ogni  nostra  deliberazione  si  debbeconsiderare  dove  sono  meno  inconve-nienti,  c pigliare  quello  per  migliorepartito:  perchè  tutto  netto,  tutto  senzasospetto  non  si  trova  mai.  Poteva,  adun-que, Roma  a similitudine  di  Sparta  fareun  Principe  a vita,  fare  un  Senato  pic-colo; ma  non  poteva,  come  quella,  noncrescere  il  numero  de’  cittadini  suoi,  vo-lendo fare  un  grande  imperio;  il  chefaceva  che  il-  Re  a vita  ed  il  picciol  nu-mero del  Senato,  quanto  alla  unione,  glisarebbe  giovato  poco.  Se  alcuno  volesse,per  tanto,  ordinare  una  repubblica  dinuovo,  arebbe  a esaminare  se  volessech’ella  ampliasse,  come  Roma,  di  domi-nio e di  potenza,  ovvero  ch’ella  stessedentro  a brevi  termini.  Nel  primo  caso,è necessario  ordinarla  come  Roma,  edare  luogo  a’ tumulti  e alle  dissensioniuniversali,  il  meglio  che  si  può;  perchèsenza  gran  numero  di  uomini,  e benearmati,  non  mai  una  repubblica  potràcrescere,  o se  la  crescerà,  mantenersi.Nel  secondo  caso,  la  puoi  ordinare  comeSparta  c come  Yinegia:  ma  perchè  l’anipitale  è il  veleno  di  simili  repubbliche, tlebbc,  in  tutti  quelli  modi  che  si  può,citi  le  ordina  proibire  loro  lo  acquistare;  perchè  tali  acquisti  fondati  sopra
una  repubblica  debole,  sono  al  tutto  la rovina  sua.  Come  intervenne  a Sparta ed  a Yinegia  : delle  quali  la  prima  avendosi sottomessa  quasi  tutta  la  Grecia, mostrò  in  su  uno  minimo  accidente  il debole  fondamento  suo  ; perchè,  seguita la  ribellione  di  Tebe,  causata  da  Pelopitia,  ribellandosi  V altre  cittadi,  rovinò al  tutto  quella  repubblica.  Similmente Yinegia,  avendo  occupato  gran  parte d’Italia,  e la  maggior  parte  non  con guerra  ma  con  danari  e con  astuzia, come  la  ebbe  a fare  prova  delle  forze sue,  perdette  in  una  giornata  ogni  cosa. Crederei  bene,  che  a fare  una  repubblica che  durasse  lungo  tempo,  fussi  il miglior  modo  ordinarla  dentro  come Sparla  o come  Yinegia  ; porla  in  luogo forte,  e di  tale  potenza,  che  nessuno  cre-desse poterla  subito  opprimere;  e dal-l’altra  parte,  non  fussi  si  grande,  che la  fussi  formidabile  a’  vicini  : c così  potrebbe  lungamente  godersi  il  suo  stato. Perchè,  per  due  cagioni  si  fa  guerra ad  una  repubblica:  Cuna  per  diventarne signore,  l’altra  per  paura  ch’ella non  ti  occupi.  Queste  due  cagioni  il  sopraddetto modo  quasi  in  tutto  toglie  via; perchè,  se  la  è difficile  ad  espugnarsi, come  io  la  presuppongo,  sendo  bene  ordinata alla  difesa,  rade  volte  accadere, o non  mai,  che  uno  possa  fare  disegno d’ acquistarla.  Se  la  si  starà  intra  i termini suoi,  e veggasi  per  esperienza,  che in  lei  non  sia  ambizione,  non  occorrerà mai  che  uno  per  paura  di  sè  gli  faccia guerra  : e tanto  più  sarebbe  questo,  se e’  fusse  in  lei  constituzione  o legge  che le  proibisse  l’ampliare.  E senza  dubbio credo,  clic  polendosi  tenere  la  cosa  bilanciata in  questo  modo,  che  e’ sarebbe il  vero  vivere  politico,  e la  vera  quiete di  una  città.  Ma  scudo  tutte  le  cose  degli uomini  in  moto,  c non  potendo  stare salde,  conviene  che  le  saglino  o clic  le scendino  ; e a molte  cose  che  la  ragione non  t' induce,  t’  induce  lo  necessità:  talmente che,  avendo  ordinata  una  repubblica atta  a mantenersi  non  ampliando, e la  necessità  la  conducesse  ad  ampliare, si  verrebbe  a torre  via  i fondamenti suoi,  ed  a farla  rovinare  più  presto. Così,  dall’altra  parte,  quando  il  Cielo  le fusse  si  benigno,  che  la  non  avesse  a fare  guerra,  ne  nascerebbe  che  l’olio  la farebbe  o effeminata  o divisa;  le  quali due  cose  insieme,  o ciascuna  per  sè, sorebbono  cagione  della  sua  rovina.  Pertanto, non  si  potendo,  come  io  credo, bilanciare  questa  cosa,  nò  mantenere questa  via  del  mezzo  a punto  ; bisogna, nello  ordinare  la  repubblica,  pensare alla  parte  più  onorevole;  ed  ordinaria in  modo,  che  quando  pure  la  necessità la  inducesse  ad  ampliare,  ella  potesse quello  ch’ella  avesse  occupato,  conservare. E,  per  tornare  al  primo  ragionamento, credo  che  sia  necessario  seguire l'ordine  romano,  e non  quello  dell’altre repubbliche;  perchè  trovare  un  modo, mezzo  infra  l’uno  e l’altro,  non  credosi  possa:  e quelle  inimicizie  che  intra  il popolo  ed  il  senato  nascessino,  tollerarle, pigliandole  per  uno  inconveniente necessario  a pervenire  alla  romana  grandezza. Perchè,  oltre  all’ altre  ragioni  allegate dove  si  dimostra  Y autorità  tribun zia  essere  stata  necessaria  per  la  guardia della  libertà,  si  può  facilmente  considerare il  benefizio  che  fa  nelle  repubbliche l’autorità  dello  accusare,  la  quale era  intra  gli  altri  commessa  a’  Tribuni  ; come  nel  seguente  capitolo  si  discorrerà. VII. Quanto  siano  necessarie  inuna  repubblica  le  accuse  per  mante-nere la  libertà.A coloro  che  in  una  città  sono  preposti per  guardia  della  sua  libertà,  non si  può  dare  autorità  più  utile  e necessaria, quanto  è quella  di  potere  accasare  i cittadini  ai  popolo,  o a qualunque magistrato  o consiglio,  quando  che pcccassino  in  alcuna  cosa  contea  allo stato  libero.  Questo  ordine  fa  duoi  effetti utilissimi  ad  una  repubblica.  Il primo  è che  i cittadini,  per  paura  di non  essere  accusati,  non  tentano  cose contro  allo  Stato:  e tentandole,  sono  incontinente e senza  rispetto  oppressi. 1/  altro  è che  si  dà  via  onde  sfogare  a quelli  umori  che  crescono  nelle  citladi, in  qualunque  modo,  contea  a qualunque cittadino:  e quando  questi  umori non  hanno  onde  sfogarsi  ordinariamente, ricorrono  a’  modi  straordinari,  che fanno  rovinare  in  tutto  una  repubblica. G non  è cosa  che  faccia  tanto  stabile  e ferma  una  repubblica,  quanto  ordinare quella  in  modo,  che  l’ alterazione  di questi  umori  che  la  agitano,  abbia  una via  da  sfogarsi  ordinata  dalie  leggi.  Il che  si  può  per  molti  esempi  dimostrare, e massime  per  quello  che  adduce Livio  di CORIOLANO,  dove  ei  dice, che  essendo  irritala  contro  alla  Plebe la  Nobiltà  romana,  per  parerle  che  l Plebe  avesse  troppa  autorità  mediante la  creazione  de’  Tribuni  che  la  difendevano; ed  essendo  Roma,  come  avviene, venuta  in  penuria  grande  di  vettovaglie, ed  avendo  il  Senato  mandato  per grani  in  Sicilia;  Coriolano,  nimico  alla fazione  popolare,  consigliò  come  egli era  venuto  il  tempo  da  potere  gastigare  la  Plebe,  e torte  quella  autorità die  ella  si  aveva  acquistata  c in  pregiudizio della  nobiltà  presa,  tenendola affamata,  c non  li  distribuendo  il  frumento; la  qual  sentenza  sendo  venuta alii  orecchi  del  Popolo,  venne  in  tanta indegnazione  contro  a Coriolano,  che allo  uscire  del  Senato  lo  arebbero  tumultuariamente morto,  se  gli  Tribuni non  1’  avessero  citato  a comparire  a difendere la  causa  sua.  Sopra  il  quale accidente,  si  nota  quello  che  di  sopra si  è detto, #quanto  sia  utile  e necessario che  le  repubbliche,  con  le  leggi  loro, diano  onde  sfogarsi  oli’  ira  clic  concepc la  universalità  contra  a uno  cittadino; perchè  quando  questi  modi  ordinari  non vi  siano,  si  ricorre  agli  estraordinari; c senza  dubbio  questi  fanno  molto  peggiori effetti  che  non  fanno  quelli.  Perchè, se  ordinariamente  uno  cittadino  è oppresso,  ancora  che  li  fusse  fatto  torto, ne  seguita  o poco  o nessuno  disordine in  la  repubblica:  perchè  la  esecuzione si  fa  senza  forze  private,  e senza forze  forestiere,  che  sono  quelle  che rovinano  il  vivere  libero;  ma  si  fa  con forze  ed  ordini  pubblici,  che  hanno  i termini  loro  particolari,  nè  trascendono a cosa  che  rovini  la  repubblica.  E quanto a corroborare  questa  oppinione  con gli  esempi,  voglio  che  degli  antichi  mi basti  questo  di  Coriolano;  sopra  il  quale ciascuno  consideri,  quanto  male  saria resultato  alla  repubblica  romana,  se tumultuariamente  ci  fussi  stato  morto; perchè  ne  nasceva  offesa  ila  privati  a privati,  la  quale  offesa  genera  paura; la  paura  cerca  difesa;  per  la  difesa  si procacciano  i partigiani;  dai  partigiani nascono  le  parti  nelle  cittadi;  dalle parti  la  rovina  di  quelle.  Ma  sendosi governata  la  cosa  mediante  chi  ne  aveva autorità,  si  vennero  a tór  via  tutti quelli  mali  che  ne  potevano  nascere  governandola con  autorità  privata.  Noi avemo  visto  ne’  nostri  tempi,  quale  novità ha  fatto  alla  repubblica  di  Firenze non  potere  la  moltitudine  sfogare  l’ nniino  suo  ordinariamente  contra  a un  suo cittadino;  come  accadde  nel  tempo  di VALORI,  clic  era  come  principe della  città  : il  quale  essendo  giudicalo ambizioso  da  molti,  e uomo  che volesse  con  la  sua  audacia  e animosità trascendere  il  vivere  civile;  e non  essendo nella  repubblica  via  a poterli  resistere se  non  con  una  setta  contraria
alla  sua  ; ne  nacque  che  non  avendo paura  quello,  se  non  di  modi  straordinari, si  cominciò  a fare  fautori  che  lo difendessino;  dall’  altra  parte,  quelli  clic lo  oppugnavano  non  avendo  via  ordinaria a reprimerlo,  pensarono  alle  vie straordinarie  : intanto  che  si  venne  alle armi.  E dove,  quando  per  l’ordinario si  fusse  potuto  opporseli,  sarebbe  la  sua autorità  spenta  con  suo  danno  solo; avendosi  a spegnere  per  lo  straordinario, seguì  con  danno  non  solamente suo,  ma  di  molti  altri  nobili  cittadini. Potrebbesi  ancora  allegare,  a fortificazione della  soprascritta  conclusione, l’ accidente  seguito  pur  in  Firenze  sopra SODERINI;  il  quale  al  tutto segui  per  non  essere  in  quella  Repubblica alcuno  modo  di  accuse  contra  alla ambizione  de’ potenti  cittadini:  perchè lo  accusare  un  potente  a otto  giudici in  una  repubblica,  non  basta  : bisogna che  i giudici  siano  assai,  perchè  pochi sempre  fanno  a modo  de’  pochi.  Tanfo che,  se  tali  modi  vi  fussono  stati,  o icittadini  lo  arebbono  accusato,  vivendo egli  male;  e per  tal  mezzo,  senza  far venire  l’ esercito  spagnuolo,  arebbono sfogato  l’animo  loro:  o non  vivendo male,  non  arebbono  avuto  ardire  operarli contra,  per  paura  di  non  essere accusati  essi  : e cosi  sarebbe  da  ogni parte  cessato  quello  appetito  che  fu  cagione di  scandalo.  Tanto  che  si  può concludere  questo,  che  qualunque  volta si  vede  che  le  forze  esterne  siano  chiamate da  una  parte  d’ uomini  che  vivono in  una  città,  si  può  credere  nasca da’  cattivi  ordini  di  quella,  per  non esser  dentro  a quello  cerchio,  ordine da  potere  senza  modi  islraordinari  sfogare i maligni  umori  che  nascono  nelli uomini:  a che  si  provvede  al  tutto  con ordinarvi  le  accuse  alii  assai  giudici,  e dare  riputazione  a quelle.  Li  quali  modi furono  in  Roma  sì  bene  ordinati,  che in  tante  dissensioni  della  Plebe  e del Senato,  mai  o il  Senato  o la  Plebe  o alcuno  particolare  cittadino  non  disegnò valersi  di  forze  esterne;  perche avendo  il  rimedio  in  casa,  non  erano necessitati  andare  per  quello  fuori.  E benché  gli  esempi  soprascritti  siano  assai sufficienti  a provarlo,  nondimeno ne  voglio  addurre  un  altro,  recitato  da L.  nella  sua  istoria:  il  quale riferisce  come,  scudo  stato  in  Chiusi, città  in  quelli  tempi  nobilissima  in  TOSCANA, da  uno  Lucumone  violata  una sorella  di  Aruntc,  c non  potendo  Arunte vendicarsi  per  la  potenia  del  violatore, se  n'andò  a trovare  i Franciosi,  che  allora regnavano  in  quello  luogo  che  oggi si  chiama  Lombardia;  e quelli  confortò a venire  con  annata  mano  a Chiusi, mostrando  loro  come  con  loro  utile  lo potevano  vendicare  della  ingiuria  ricevuta : che  se  Arunte  avesse  veduto  potersi vendicare  con  i modi  della  città, non  arebbe  cerco  le  forre  barbare.  Ma come  queste  accuse  sono  utili  in  una repubblica,  così  sono  inutili  e dannose le  calunnie  ; come  nel  capitolo  seguente discorreremo. Vili.  — Quanto  le  accuse  sono utili  alle  repubbliche,  tanto  sono  perniziose  le  calunnie.Non  ostante  che  la  virtù  di Cnmmillo,  poi  ch’egli  ebbe  libera  Roma dalla  oppressione  de’ Franciosi,  avesse fatto  che  tutti  i cittadini  romani, parer  loro  tòrsi  reputazione  o cedevano  a quello;  nondimeno  MAULIO Capitolino  non  poteva  sopportare  chegli  fusse  attribuito  tanto  onore  e tanta gloria;  parendogli,  quanto  alla  salute di  Roma,  per  avere  salvato  il  Campidoglio, aver  meritato  quanto  CAMMILLO; c quanto  all’  altre  belliche  laudi,  non essere  inferiore  a lui.  Di  modo  che,  carico d’  invidia,  non  potendo  quietarsi per  la  gloria  di  quello,  c veggendo  non potere  seminare  discordia  infra  i Padri, si  volse  alla  Plebe,  seminando  varie oppinioni  sinistre  intra  quelfb.  E intra V altre  cose  che  diceva,  era  come  il  tc-
soro  il  quale  si  era  adunato  insieme per  dare  ai  Franciosi,  e poi  non  dato loro,  era  stato  usurpalo  da  privati cittadini  ; e quando  si  riavesse,  si  poteva convertirlo  in  pubblica  utilità,  alleggerendo la  Plebe  da’  tributi,  o da qualche  privato  debito.  Queste  parole poterono  assai  nella  Plebe;  talché  cominciò avere  concorso,  ed  a fare  u sua  posta  tumulti  assai  nella  città:  la qual  cosa  dispiacendo  al  Senato,  e parendogli di  momento  e pericolosa,  creò uno  Dittatore,  perchè  ei  riconoscesse questo  caso,  e frenasse  lo  impeto  di MANLIO.  Onde  che  subito  il  Dittatore  lo fece  citare,  e eondussonsi  in  pubblico all’incontro  l’uno  dell’altro;  il  Dittatore in  mezzo  de’  Nobili,  e MANLIO  in mezzo  della  Plebe.  Fu  domandato  Manlio che  dovesse  dire,  appresso  a chi  fusse questo  tesoro  che  ei  diceva,  perchè  ne era  cosi  desideroso  il  Senato  d’ intenderlo come  la  Plebe:  a che  MANLIO  non rispondeva  particularmenfe;  ma,  andando  fuggendo,  diceva  come  non  era
necessario  dire  loro  quello  die  e’  si  sapevano: tanto  che  il  Dittatore  lo  fece mettere  in  carcere.  È da  notare  per questo  testo,  quanto  siano  nelle  città libere,  ed  in  ogni  altro  modo  di  vivere, detestabili  le  calunnie;  e come  per  reprimerle, si  debbe  non  perdonare  a ordine alcuno  che  vi  faccia  a proposito. Nè  può  essere  migliore  ordine  a torle via,  che  aprire  assai  luoghi  alle  accuse; perchè  quanto  le  accuse  giovano alle  repubbliche,  tanto  le  calunnie  nuocono:  e dall’ altra  parte  è questa  differenza, che  le  calunnie  non  hanno  bisogno di  testimone,  nè  di  alcuno  altro particulare  riscontro  a provarle,  in  modo che  ciascuno  da  ciascuno  può  essere calunniato;  ma  non  può  già  essere  accusato, avendo  le  accuse  bisogno  di  riscontri veri,  e di  circostanze,  che  mostrino la  verità  dell’  accusa.  Accusatisi gli  uomini  a’  magistrati,  a’ popoli,  a’ consigli ; calunniatisi  per  le  piazze  è per  le logge.  Usasi  più  questa  calunnia  dove si  usa  meno  1’  accusa,  c dove  le  città sono  meno  ordinate  a riceverle*  Però, uno  ordinatore  d’  una  repubblica  debbe ordinare  che  si  possa  in  quella  accusare ogni  cittadino,  senza  alcuna  paura o senza  alcuno  sospetto;  e fatto  questo e bene  osservato,  debbe  punire  aeremente  i calunniatori:  i quali  non  si possono  dolere  quando  siano  puniti, avendo  i luoghi  aperti  a udire  le  accuse di  colui  che  gli  avesse  per  le  logge calunniato.  E dove  non  è bene  ordinata questa  parte,  seguitano  sempre  disordini grandi  : perchè  le  calunnie  irritano, c non  castigano  i cittadini;  e gli irritali  pensano  di  valersi,  odiando  più presto,  che  temendo  le  cose  che  si  dicono contea  a loro.  Questa  parte,  come è detto,  era  bene  ordinata  in  Roma  ; ed  è stata  sempre  male  ordinala  nella nostra  città  di  FIRENZE.  E come  a Roma questo  ordine  fece  molto  bene,  a FIRENZE questo  disordine  fece  molto  male.
E chi  legge  le  istorie  di  questa  città, vedrà  quante  calunnie  sono  state  in ogni  tempo  date  a’  suoi  cittadini  che  si sono  adoperati  nelle  cose  importanti  di quella.  Dell’  uno  dicevano,  ch’egli  aveva rubati  danari  al  comune;  dell’  altro,  che non  aveva  vinto  una  impresa  per  essere stato  corrotto;  e che  quell’  altro per  sua  ambizione  aveva  fatto  il  tale  e tale  inconveniente.  Del  che  ne  nasceva che  da  ogni  parte  ne  surgeva  odio  : donde  si  veniva  alla  divisione;  dalla  di- visione alle  sètte;  dalle  sètte  alla  rovina. Che  se  fusse  stato  in  Firenze  ordine d’  accusare  i cittadini,  c punire  i calunniatori,  non  seguivano  infiniti  scandali che  sono  seguiti:  perchè  quelli  cittadini, o condennati  o assoluti  che  russino, non  arebbono  potuto  nuocere  alla città;  e sarebbono  stati  accusati  meno assai  clic  non  ne  erano  calunniali,  non si  potendo,  come  ho  detto,  accusare come  calunniare  ciascuno.  Ed  intra  l’ altre cose  di  clic  si  è valuto  alcuno  citadino  per  ventre  alla  grandezza  sua, sono  state  queste  calunnie:  le  quali  venendo conira  a’  cittadini  potenti  che allo  appetito  suo  si  opponevano,  facevano assai  per  quello;  perchè,  pigliando la  parte  del  Popolo,  e confirmandolo nella  mala  oppiatone  eh’  egli  aveva  di loro,  se  lo  fece  amico.  E benché  se  ne potesse  addurre  assai  esempi,  voglio essere  contento  solo  d’  uno.  Era  lo  esercito fiorentino  a campo  a Lucca,  coman- dato da  GUICCIARDINI (si veda), commissario  di  quello.  Vollono  o i cattivi suoi  governi,  o la  cattiva  sua  fortuna, che  Ja  espugnazione  di  quella città  non  seguisse.  Pur,  comunque  il caso  stesse,  ne  fu  incolpato  inesser  Giovanni, dicendo  com’  egli  era  stato  corrotto da’  Lucchesi:  la  quale  calunnia sendo  favorita  da’  nimici  suoi,  condusse messer  Giovanni  quasi  in  ultima  disperazione. E benché,  per  giustificarsi,  ei si  volessi  mettere  nelle  mani  del  Capitano; nondimeno  non  si  potette  mai
giustificare,  per  non  essere  modi  in quella  repubblica  da  poterlo  fare.  Di che  ne  nacque  assai  sdegno  intra  li amici  di  messer  Giovanni,  che  erano  la maggior  parte  delli  uomini  Grandi,  ed infra  coloro  che  desideravano  fare  novità in  Firenze.  La  qual  cosa,  e per queste  e per  altre  simili  cagioni,  tanto crebbe,  che  ne  seguì  la  rovina  di  quella repubblica.  Era  dunque  MANLIO  Capitolino calunniatore,  e non  accusatore*,  ed i Romani  mostrarono  in  questo  caso appunto,  come  i calunniatori  si  debbono punire.  Perchè  si  debbe  fargli  diventare accusatori;  e quando  1’  accusa  si  riscon- tri vera,  o premiarli,  o non  punirli  : ma  quando  la  non  si  riscontri  vera Uf»5  IX. Come  egli  è necessario  esser solo  a volere  ordinare  una  repubblica di  nuovo , o al  lutto  fuori  delti  antichi suoi  ordini  riformarla.
 E’ porrà  forse  ad  alcuno,-  che  io  sia troppo  trascorso  dentro  nella  istoria  romana, non  avendo  fatto  alcuna  menzione ancora  degli  ordinatori  di  quella  Repubblica, nè  di  quelli  ordini  che  o alla  religione o alla  milizia  riguardassero.  E però,  non  volendo  tenere  più  sospesi  gli animi  di  coloro  che  sopra  questu  parte volessino  intendere  alcune  cose;  dico, come  molti  per  avventura  giudicheranno di  cattivo  esempio,  che  uno  fondatore d’  un  vivere  civile,  quale  è  ROMOLO,  abbia prima  morto  un  suo  fratello,  dipoi consentito  alla  morte  di  Tito  TAZIO Sabino, eletto  da  lui  compagno  nel  regno; giudicando  per  questo,  che  gli  suoi  cittadini potessero  con  T autorità  del  loro principe,  per  ambizione  e desiderio  di comandare,  offendere  quelli  che  alla  loro autorità  si  opponessino.  La  quale  oppinionc  sarebbe  vera,  quando  non  si  considerasse che  line  l’avesse  indotto  a fare lai  OMICIDIO. E debbesi  pigliare  questo per  una  regola  generale:  clic  non  mai  o di  rado  occorre  che  alcuna  repubblica o regno  sia  da  principio  ordinato  bene,  o al  tutto  di  nuovo  fuori  delti  ordini  vecchi riformato,  se  non  è ordinato  da  uno;  anzi è necessario  che  uno  solo  sia  quello  clic dia  il  modo,  e dalla  cui  mente  dependa qualunque  simile  ordinazione.  Però,  uno prudente  ordinatore  d’ una  repubblica,  e che  abbia  questo  animo  di  volere  giovare non  a sé  ma  al  BENE COMUNE,  non alla  sua  propria  successione  ma  alla  comune patria,  debbe  ingegnarsi  di  avere l’autorità  solo;  nè  mai  uno  ingegno  savio riprenderà  alcuno  di  alcuna  azione istraordinaria,  che  per  ordinare  un  regno o constituire  una  repubblica  usasse. Conviene  bene,  che,  accusandolo  il  fallo, lo  effetto  lo  scusi  ; e quando  sia  buono,
come  quello  di  ROMOLO,  sempre  lo  scuserà: perchè  colui  che  è violento  per guastare,  non  quello  che  è per  racconciare, si  debbe  riprendere.  Debbe  bene in  tanto  esser  prudente  e virtuoso,  che quella  autorità  che  si  ha  presa,  non  la lasci  ereditaria  ad  un  altro  : perchè,  essendo gli  uomini  più  proni  al  male  che al  bene,  potrebbe  il  suo  successore  usare ambiziosamente  quello  che  da  lui  virtuosamente fusse  stato  usato.  Oltre  di questo,  se  uno  è atto  ad  ordinare,  uoti è la  cosa  ordinata  per  durare  molto, quando  la  rimanga  sopra  le  spalle  d’  uno; ma  si  bene,  quando  la  rimane  alla  cura di  molti,  e che  a molti  stia  il  mantenerla. Perchè,  cosi  come  molti  non  sono atti  ad  ordinare  una  cosa,  per  non  conoscere il  bene  di  quella,  causato  dalle diverse  oppinioni  che  sono  fra  loro; cosi  conosciuto  che  lo  hanno,  non  si accordano  a lasciarlo.  E che  ROMOLO fusse  di  quelli  che  NELLA MORTE DEL FRATELLO e del  compagno  meritasse  scusa; e che  quello  che  fece,  fusse  per  IL BENE COMUNE,  e non  per  ambizione  propria  ; lo  dimostra  lo  avere  quello  subito  ordinato uno  Senato,  con  il  quale  si  consigliasse, e secondo  l’oppinione  del  quale deliberasse.  E chi  considera  bene  P autorità che  ROMOLO  si  riserbò,  vedrà  non se  ne  essere  riserbata  alcun’  altra  che comandare  alli  eserciti  quando  si  era deliberata  la  guerra,  e di  ragunare  il Senato.  Il  che  si  vide  poi,  quando  Roma divenne  libera  per  la  cacciata  de’  Tarquini;  dove  da’  Romani  non  fu  innovato alcun  ordine  dello  antico,  se  non che  in  luogo  d’  uno  Re  perpetuo,  fussero  duoi  Consoli  annuali;  il  che  testifica, tutti  gli  ordini  primi  di  quella città  essere  stati  più  conformi  ad  uno vivere  civile  e libero,  che  ad  uno  assoluto e tirannico.  Polrebbesi  dare  in corroborazione  delle  cose  sopraddette infiniti  esempi;  come  Licurgo, Solonc,  ed  nitri  fondatori  di  regni  e di repubbliche,  i quali  poterono,  per  aversi attribuito  un’  autorità,  formare  leggi  a proposito  del  bene  comune;  ma  gli  voglio lasciare  indietro,  come  cosa  nota. Addurronne  solamente  • uno,  non  si  celebre,  ma  da  considerarsi  per  coloro che  desiderassero  essere  di  buone  leggi ordinatori:  il  quale  è,  che  desiderando Agide  re  di  Sparta  ridurre  gli  Spartani intra  quelli  termini  che  le  leggi  di Mcurgo  gli  avessero  rinchiusi,  parendoli che  per  esserne  in  parte  deviati, la  sua  città  avesse  perduto  assai  di quella  antica  virtù,  e,  per  conseguente, di  forze  e d’ imperio  ; fu  ne'  suoi  primi
principii  ammazzato  dalli  Efori  spartani, come  uomo  che  volesse  occupare  la tirannide.  .Ma  succedendo  dopo  lui  . nel regno  Cleomene  c nascendogli  il  medesimo desiderio  per  gli  ricordi  e scritti eh’  egli  aveva  trovati  di  Agide,  dove  si vedeva  quale  era  la  mente  ed  intenzione sua,  conobbe  non  potere  fare  questo bene  alla  sua  patria  se  non  diventava solo  di  autorità;  parendogli,  per  1*  arabizione  degli  uomini,  non  potere  fare utile  a molti  contra  alla  voglia  di  pochi:  e presa  occasione  conveniente,  fece ammazzare  tutti  gli  Efori,  e qualunque altro  gli  potesse  contrastare  ; dipoi  rinnovò in  tutto  le  leggi  di  Licurgo.  La quale  deliberazione  era  atta  a fare  risuscitare Sparta,  e dare  a Clcomcne quella  reputazione  che  ebbe  Licurgo, se  non  fussc  stato  la  potenza  de’  Macedoni e la  debolezza  delle  altre  repubbliche greche.  Perchè,  essendo  dopo tale  ordine  assaltato  da’  Macedoni,  e trovandosi per  sè  stesso  inferiore  di  forze, c non  avendo  a chi  rifuggire,  fu vinto;  e restò  quel  suo  disegno,  quantunque giusto  e laudabile,  imperfetto. Considerato  adunque  tutte  queste  cose, conchiudo,  come  a ordinare  una  repubblica è necessario  essere  solo;  c ROMOLO per  LA MORTE DI REMO E DI TAZIO meritare iscusa,  e non  biasmo. X.  — Quanto  sono  laudabili  * fondatori d*  una  repubblica  o dJ  uno  regno, tanto  quelli  dJ  una  tirannide sono  vituperabili. Intra  tutti  gli  uomini  laudati,  sono  i laudatissimi  quelli  die  sono  stati  capi e ordinatori  delle  religioni.  Appresso dipoi,  quelli  che  hanno  fondato  o repubbliche o regni.  Dopo  costoro,  sono celebri  quelli  che,  preposti  alti  esercìti,  hanno  ampliato  o il  regno  loro,  o quello  della  patria.  A questi  si  aggiungono gli  uomini  iilterati;  e perchè  questi  sono  di  più  ragioni,  sono  celebrati ciascuno  d’ essi  secondo  il  grado  suo. A qualunque  altro  uomo,  il  numero de’  quali  è infinito,  si  attribuisce  quut* che  parte  di  laude,  la  quale  gli  arreca l’ arte  e V esercizio  suo.  Sono,  per  lo contrario,  infumi  e detestabili  gli  uomini destruttori  delle  religioni,  dissipatori de’  regni  e delie  repubbliche,  ini-
mici  delle  virtù,  delle  lettere,  e d'ogni altra  arte  che  arrechi  utilità  ed  onore alla  umana  generazione;  come  sono  gli empii  e violenti,  gl*  ignoranti,  gli  oziosi, i vili,  e i dappochi.  E nessuno  sarà mai  sì  pazzo  o si  savio,  si  tristo  o si buono,  che,  propostogli  la  elezione  delle due  qualità  d’  uomini,  non  laudi  quella che  è da  laudare,  e Biasini  quella  che  è da  biasmare:  nientedimeno,  dipoi,  quasi tutti,  ingannati  da  un  falso  bene  e da una  falsa  gloria,  si  lasciano  andare, o voluntariamente  o ignorantemente, ne’ gradi  di  coloro  che  meritano  più  biasimo che  laude;  c potendo  fare,  con perpetuo  loro  onore,  o una  repubblica o un  regno,  si  volgono  alla  tirannide: nè  si  avveggono  per  questo  partito quanta  fama,  quanta  gloria,  quanto  onore, sicurtà,  quiete,  con  satisfazione  d’animo, e’fuggono;  e in  quanta  infamia, vituperio,  biasimo,  pericolo  e inquietudine incorrono.  Ed  è impossibile  che quelli  che  in  stato  privato  vivono  in  una repubblica,  o che  per  fortuna  o virtù ne  diventano  principi,  se  leggcssino l’ istorie,  e delle  memorie  delle  antiche cose  facessino  capitale,  che  non  volessero  quelli  tali  privati,  vivere  nella loro  patria  piuttosto  Soipioni  che  Cesari; e quelli  che  sono  principi,  piuttosto Agesilai,  Timolconi  e Dioni,  clic Nabidi,  Falari  e Dionisi  : perchè  vedrebbono  questi  essere  sommamente  vituperati, e quelli  eccessivamente  laudati. Vedrebbono  ancora  come  Timoleone  e gli  altri  non  ebbero  nella  patria  loro meno  autorità  che  si  avessiuo  Dionisio e Falari;  ma  vedrebbono  di  lungo  avervi avuto  più  sicurtà.  Nè  sia  alcuno  che  si inganni  per  la  gloria  di  Cesare,  sentendolo, massime,  celebrare  dagli  scrittori: perchè  questi  che  lo  laudano,  sono  corrotti dalla  fortuna  sua,  e spauriti  dalla lunghezza  dello  imperio,  il  quale  reggendosi sotto  quel  nome,  non  permetteva che  gli  scrittori  parlassero  liberamente  di  lui.  Ma  chi  vuole  conoscere quello  che  gli  scrittori  liberi  ne  direbbono,  vegga  quello  che  dicono  di  CATILINA. E tanto  è più  detestabile  GIULIO (si veda) CESARE , quanto  più  è da  biasimare  quello  che ha  fatto,  che  quello  che  ha  voluto  fare un  inule.  Vegga  ancora  con  quante  laudi celebrano  BRUTO (si veda);  talché,  non  potendo  biasimare  quello  per  la  sua  potenza,  e’ celebrano il  nemico  suo.  Consideri  ancora quello  eh’  è diventato  principe  in  una
repubblica,  quante  laudi,  poiché  ROMA fu  diventata  imperio,  meritarono  più quelli  imperadori  che  vissero  sotto  le leggi  e come  principi  buoni,  che  quelli che  vissero  al  contrario:  e vedrà  come a Tito,  Nerva,  Traiano,  ADRIANO,  Antonino e Marco,  non  erano  necessari  i soldati pretoriani  nè  la  moltitudine  delle legioni  a difenderli,  perchè  i costumi L loro,  la  benivolenza  del  Popolo,  lo  amore i del  Senato  gli  difendeva.  Vedrà  ancora come  a Caligola,  Nerone,  Vitellio,  ed  a tanti  altri  scellerati  imperadori,  non  bastarono gli  eserciti  orientali  ed  occidenItili  a salvarli  conira  a quelli  nemici,  che li  loro  rei  costumi,  la  loro  malvagia  vita aveva  loro  generati.  E se  la  istoria  di costoro  fusse  ben  considerata,  sarebbe assai  ammaestramento  a qualunque  priucipe,  a mostrargli  la  via  della  gloria  o del  biasmo,  e della  sicurtà  o del  timore suo.  Perchè,  di  ventisei  imperadori  che furono  da  Cesare  a Massimiuo,  sedici  ne furono  ammazzati,  dicci  morirono  ordinariamente; c se  di  quelli  che  furono morti  ve  ne  fu  alcuno  buono,  come Galba  e Pertinace,  fu  morto  da  quella corruzione  che  lo  antecessore  suo  aveva lasciata  nc’ soldati.  E se  tra  quelli  che morirono  ordinariamente  ve  ne  fu  alcuno scellerato, nome  Severo,  nacque  da una  sua  grandissima  fortuna  e virtù  ; le quali  due  cose  pochi  uomini  accompagnano. Vedrà  ancora,  per  la  lezione  di questa  istoria,  come  si  può  ordinare  un regno  buono:  perchè  tutti  gl' imperadori che  succederono  all*  imperio  per  eredità, eccetto  Tito,  furono  cattivi  ; quelli  che  per
adozione, furono  tutti  buoni,  come  furono quei  cinque  da  Nervo  a Marco:  e come P imperio  cadde  negli  eredi,  ei  ritornò nella  sua  rovina.  Pongasi,  adunque,  innanzi un  principe  i tempi  da  Nerva  a Marco,  e conferiscagli  con  quelli  che erano  stati  prima  e che  furono  poi;  edipoi  elegga  in  quali  volesse  essere  nato,o a quali  volesse  essere  preposto.  Per-chè in  quelli  governali  da’ buoni,  vedràun  principe  sicuro  in  mezzo  de’ suoi  si-curi cittadini,  ripieno  di  pace  e di  giu-stizia il  mondo:  vedrà  il  Senato  con  lasua  autorità,  i magistrati  con  i suoi  ono-ri ; godersi  i cittadini  ricchi  le  loro  ric-chezze ; la  nobiltà  c la  virtù  esaltata  :vedrà  ogni  quiete  ed  ogni  bene;  e,  dal-l’altra parte,  ogni  rancore,  ogni  licenza,corruzione  e ambizione  spenta:  vedrà  itempi  aurei,  dove  ciascuno  può  tenere  edifendere  quella  oppinione  che  vuole.  Ve-drà, in  fine,  trionfare  il  mondo;  pienodi  riverenza  e di  gloria  il  principe,d’  amore  e di  sveurilà  i popoli.  Se  con-sidererà,  dipoi,  tritamente  i tempi  deglialtri  imperadori,  gli  vedrà  atroci  per  leguerre,  discordi  per  le  sedizioni,  nellapace  e nella  guerra  crudeli:  tanti  prin-cipi morti  col  ferro,  tante  guerre  civili,tante  esterne  ; P Italia  afflitta,  e piena  dinuovi  infortunii  ; rovinate  e saccheggiatele  città  di  quella.  Vedrà  Roma  arsa,  ilCampidoglio  da’ suoi  cittadini  disfatto,desolati  gli  antichi  templi,  corrotte  lecerimonie,  ripiene  le  città  di  adulterii:vedrà  il  mare  pieno  di  esilii,  gli  scoglipieni  di  sangue.  Vedrà  in  Roma  seguireinnumerabili  crudeltadi  ; e la  nobiltà,  le ricchezze,  gli  onori,  e sopra  tutto  ia  virtùessere  imputata  a peccato  capitale.  Ve-drà premiare  li  accusatori,  essere  corrotti i sèrvi  contro  al  signore,  i liberi contro  al  padrone;  e quelli  a chi  fusscro  mancati  i nemici,  essere  oppressi dagli  amici.  E conoscerà  allora  benissimo quanti  obblighi  Roma,  Italia,  e il mondo  abbia  con  Cesare.  E senza,  dubbio, se  e*  sarà  nato  d’uomo,  si  sbigottirà I da  ogni  imitazione  dei  tempi  cattivi,  c accenderassi  d’uno  immenso  desiderio  di
seguire  i buoni.  E veramente,  cercando un  principe  la  gloria  del  mondo,  doverrebbe  desiderare  di  possedere  una  città corrotta,  non  per  guastarla  in  tutto  come Cesare,  ma  per  riordinarla  come  lloinolo.  E veramente  i cieli  non  possono dare  all i uomini  maggiore  occasione  di gloria,  nè  li  uomini  la  possono  maggiore desiderare.  E se,  a volere  ordinare  bene una  città,  si  avesse  di  necessità  n dcporrc  il  principato,  meriterebbe  quello clic  non  la  ordinasse,  per  non  cadere di  quel  grado,  qualche  scusa:  ma  potendosi tenere  il  principato  ed  ordinarla, non  si  merita  scusa  alcuna.  E in  somma, considerino  quelli  a chi  i cieli  danno tale  occasione,  come  sono  loro  proposte due  vie:  1’  una  che  gli  fa  vivere
sicuri,  e dopo  la  morte  gli  rende  gloriosi ; I’  altra  gli  fa  vivere  in  continove angustie,  e dopo  la  morte  lasciare  di  sè una  sempiterna  infamia. XI.  — Delta  religione  de*  Romani. Ancora  che  Roma  avesse  il  primo  suo ordinatore  ROMOLO,  e che  da  quello  abbia riconoscere  come  figliuola  il  nascimento e la  educazione  sua;  nondimeno, giudicando  i cieli  che  gli  ordini  di  ROMOLO non  bastavano  a tanto  imperio, niessono  nel  petto  del  Senato  romano  di eleggere  NUMA (si veda)  Pompilio  per  SUCCESSORE A ROMOLO,  acciocché  quelle  cose  che  da lui  fossero  state  lasciate  indietro,  fossero da  Numa  ordinate.  II  quale  trovando  un popolo  ferocissimo,  e volendolo  ridurre nelle  ubbidienze  civili  con  le  arti  della pace,  si  volse  alla  religione,  come  oosa al  tutto  necessaria  a volere  mantenere una  civiltà  ; e la  costituì  in  modo,  che per  più  secoli  non  fu  mai  tanto  timore di  Dio  quanto  in  quella  Repubblica  : ilche  facilitò  qualunque  impresa  che  ilSenato  o quelli  grandi  uomini  romanidisegnassero  fare.  E ehi  discorrerà  in-finite  azioni,  e del  popolo  di  Roma  lutto insieme,  e di  molli  de’ Romani  di  per  sé, vedrà  come  quelli  cittadini  temevano  più assai  rompere  il  giuramento  che  le  leggi  ; come  coloro  clic  stimavano  più  la  potenza di  Dio,  che  quella  degli  uomini: come  si  vede  manifestamente  per  gli esempi  di  SCIPIONE  e di  MANLIO TORQUATO. Perchè,  dopo  la  rotta  che  Annibale  aveva dato  a’ Romani  a Canne,  molti  cittadini si  erano  adunati  insieme,  c sbigottiti  e paurosi  si  erano  convenuti  abbandonare l’ITALIA,  e girsene  in  Sicilia:  il  che  sentendo SCIPIONE,  gli  andò  a trovare,  e col  ferro  ignudo  in  mano  gli  costrinse a giurare  di  non  abbandonare  la  patria. LUCIO MANLIO, padre di TITO MANLIO, che fu  dipoi  chiamato  Torquato,  era  stato accusato  da  MARCO POMPONIO,  Tribuno della  plebe  ; ed  innanzi  che  venissi  il di  del  giudizio,  Tito  andò  a trovare Marco,  e minacciando  d’ ammazzarlo  se non  giurava  di  levare  l’accusa  al  padre, lo  costrinse  al  giuramento  ; e quello,
per  timore  avendo  giurato,  gli  levò  t'accusa. E cosi  quelli  cittadini  i quali l'amore  della  patria  e le  leggi  di  quella non  ritenevano  in  ITALIA,  vi  furon  ritenuti da  un  giuramento  che  furono  forzati a pigliare;  e quel  Tribuno  pose  da parte  l'odio  che  egli  aveva  col  padre, la  ingiuria  che  gli  aveva  fatta  il  figliuolo, c i’  onore  suo,  per  ubbidire  al  giuramento preso:  il  che  non  nacque  da  altro, che  da  quella  religione  che  Numa aveva  introdotta  in  quella  città.  E vedesi,  chi  considera  bene  le  istorie  romane, quanto  serviva  la  religione  a comandare agli  eserciti,  a riunire  la  plebe, a mantenere  gli  uomini  buoni,  a fare vergognare  li  tristi.  Talché,  se  si  avesse a disputare  a quale  principe  Roma  fusse più  obbligata,  o a ROMOLO  o a Numa, credo  più  tosto  Numa  otterrebbe  il  primo grado:  perchè  dove  è religione,  facilmente si  possono  introdurre  l’armi; e dove  sono  l’armi  e non  religione,  con diflìcultà  si  può  introdurre  quella.  E si vede  che  a ROMOLO  per  ordinare  il  Senato, e per  fare  altri  ordini  civili  e militari, non  gli  fu  necessario  dell’ autorità di  Dio;  ma  fu  bene  necessario  a Numa, il  quale  simulò  di  avere  congresso  con una  Ninfa,  la  quale  lo  consigliava  di quello  ch’egli  avesse  a consigliare  il popolo  : e tutto  nasceva  perchè  voleva mettere  ordini  nuovi  ed  inusitati  in quella  città,  e dubitava  che  la  sua  autorità non  bastasse.  G veramente,  mai  non fu  alcuno  ordinatore  di  leggi  straordinarie in  uno  popolo,  che  non  ricorresse a Dio  ; perchè  altrimenlc  non  sarebbero accettate:  perchè  sono  molli  beni  conosciuti da  uno  prudente,  i quali  non hanno  in  sè  ragioni  evidenti  da  potergli persuadere  ad  altri.  Però  gli  uomini savi,  che  vogliono  torre  questa  diflìcultà, ricorrono  a Dio.  Cosi  fece  Licurgo,  cosi Solone,  cosi  molti  altri  che  hanno  avuto il  medesimo  fine  di  loro.  Ammirando, adunque,  il  popolo  romano  la  bontà  e la prudenza  sua,  cedeva  ad  ogni  sua  deliIterazione,  Ben  è vero  che  l’essere  quelli tempi  pieni  di  religione,  e quelli  uomini, con  i quali  egli  aveva  a travagliare, grossi,  gli  detlono  facilità  grande  a conseguire i disegni  suoi,  potendo  imprimere in  loro  facilmente  qualunche  nuova forma.  E senza  dubbio,  ehi  volesse  ne’presenti  tempi  fare  una  repubblica,  più  facilità troverebbe  negli  uomini  montanari, dove  non  è alcuna  civilità,  che  in quelli  che  sono  usi  a vivere  nelle  città, dove  la  civilità  è corrotta:  ed  uno  scultore trarrà  più  facilmente  una  bella  statua d’  uno  marmo  rozzo,  che  d’ uno  male abbozzato  d’altrui.  Considerato  adunque tutto,  conchiudo  che  la  religione introdotta  da  Piuma  fu  intra  le  primecagioni  della  felicità  di  quella  città:  perchè quella  causò  buoni  ordini;  i buoni ordini  fanno  buona  fortuna  ; e dalla buona  fortuna  nacquero  i felici  successi delle  imprese.  E come  la  osservanza  del culto  divino  è cagione  delia  grandezza delle  repubbliche,  cosi  il  dispregio  di
quella  è cagione  della  rovina  d’esse.  Perchè, dove  manca  il  timore  di  Dio,  conviene che  o quel  regno  rovini,  o che sia  sostenuto  dal  timore  d’  un  principe che  supplisca  a’ difetti  della  religione.  E perchè  i principi  sono  di  corta  vita, conviene  che  quel  regno  manchi  presto, secondo  che  manca  la  virtù  d’  esso.  Donde nasce  che  i regni  i quali  dependono solo  dalla  virtù  d’ uno  uomo,  sono  poco durabili,  perchè  quella  virtù  manca  con la  vita  di  quello  ; e rade  volte  accade che  la  sia  rinfrescata  con  la  successione, come  prudentemente  ALIGHIERI (si veda) dice: tt  Rade  volte  risurge  per  li  ramiL'umana  probitade:  e questo  vuoloQuel  che  la  dà,  perchè  da  lui  si  chiami.  „Non  è,  adunque,  la  salute  di  una  repubblica o d’uno  regno  avere  uno  principe che  prudentemente  governi  mentre  vive  ; ma  uno  che  l’ordini  in  modo,  clic,  morendo ancora,  la  si  mantenga.  E benché agli  uomini  rozzi  più  facilmente  si  persuade uno  ordine  o una  oppinione  nuova,  non  è per  questo  impossibile  persuaderla ancora  agli  uomini  civili,  e che si  presumono  non  essere  rozzi.  Al  popolo di  Firenze  non  pare  essere  nè  ignorante nè  rozzo:  nondimeno  da  frate  Girolamo Savonarola  fu  persuaso  che  parlava con  Dio.  lo  non  voglio  giudicare s’egli  era  vero  o no,  perchè  d’ un  tanto uomo  se  ne  debbe  parlare  con  reverenza : ma  io  dico  bene,  che  infiniti  lo credevano,  senza  avere  visto  cosa  nessuna istraordinaria  da  farlo  loro  credere; perchè  la  vita  sua,  la  dottrina,  il soggetto  che  prese,  erano  sufhzienti  a fargli  prestare  fede.  Non  sia,  pertanto, nessuno  che  si  sbigottisca  di  non  potere conseguire  quello  che  è stato  conseguito da  altri  ; perchè  gli  uomini,  come  nella Prefazione  nostra  si  disse,  nacquero, vissero  e morirono  sempre  con  un  medesimo ordine. XIF.  — Di  quanta  importanza  sia tenere  conto  della  religione j e come la  Italia  per  esserne  mancata  mediante la  Chiesa  romana y è rovinata. Quelli  principi,  o quelle  repubbliche, le  quali  si  vogliono  manienere  incorrotte, hanno  sopra  ogni  altra  cosa  a mantenere incorrotte  le  cerimonie  della  religione, e tenerle  sempre  nella  loro venerazione;  perchè  nissuno  maggiore indizio  si  puote  avere  della  rovina  d’una provincia,  che  vedere  dispregiato  il  culto divino.  Questo  è facile  a intendere,  conosciuto che  si  è in  su  che  sia  fondata la  religione  dove  V uomo  è nato;  perchè ogni  religione  ha  il  fondamento  della vita  sua  in  su  qualche  principale  ordine suo.  La  vita  della  religione  gentile  era fondata  sopra  i responsi  delti  oracoli e sopra  la  setta  delli  aridi  e delli aruspici:  tutte  le  altre  loro  cerimonie, sacrifìcii,  riti,  dependevano  da  questi; perchè  loro  facilmente  credevano  che quello  Dio  che  ti  poteva  predire  il  tuo futuro  bene  o il  tuo  futuro  male,  te lo  potessi  ancora  concedere.  Di  qui nascevano  i tempii,  di  qui  i sacrifici!, di  qui  le  supplicazioni,  ed  ogni  altra cerimonia  in  venerarli:  perchè  l’oracolo di  Deio,  il  tempio  di  GIOVE  Aminone,  ed altri  celebri  oracoli,  tenevano  il  mondo in  ammirazione,  e devoto.  Come  costoro cominciarono  dipoi  a parlare  n modo de’  potenti,  e questa  falsità  si  fu  scoperta ne’  popoli,  divennero  gli  uomini increduli,  ed  atti  a perturbare  ogni  ordine  buono.  Debbono,  adunque,  i Principi d’uria  repubblica  o d’un  regno,  i fondamenti  della  religione  che  loro  tengono, mantenerli;  e fatto  questo,  sarà loro  facil  cosa  a mantenere  la  loro  repubblica religiosa,  e,  per  conseguente, buona  ed  unita.  C debbono,  tutte  le cose  che  nascono  in  favore  di  quella, come  che  le  giudicassino  false,  favorirle ed  accrescerle;  e tanto  più  Io  debbonofare,  quanto  più  prudenti  sono,  e quanto più  conoscitori  delle  cose  naturali.  E perchè  questo  modo  c stato  osservato dagli  uomini  savi,  ne  è nata  l’oppinione dei  miracoli,  che  si  celebrano  nelle  religioni eziandio  false:  perchè  i prudenti gli  aumentano,  da  qualunche  principio e’ si  nascano;  e l’autorità  loro  dà  poi a quelli  fede  appresso  a qualunque.  Di questi  miracoli  ne  fu  a Roma  assai;  e intra  gli  altri  fu,  che  saccheggiando  i soldati  romani  la  città  de’ Veienti,  alcuni di  loro  entrarono  nel  tempio  di  Giunone, ed  accostandosi  alla  immagine  di quella,  e dicendole  vis  venire  Romani ,parve  od  alcuno  vedere  che  la  accennasse; ad  alcun  altro,  che  ella  dicesse di  si.  Perchè,  sendo  quelli  uomini  ripieni di  religione  (il  che  dimostra  L.  perchè  nell’entrare  nel  tempio,
vi  entrarono  senza  tumulto,  tutti  devoti e pieni  di  reverenza),  parve  loro  udire quella  risposta  che  alla  domanda  loro per  avventura  si  avevano  presupposta  : la  quale  oppiuione  e credulità,  da  Cammillo  e dagli  altri  principi  della  città  fu ni  tutto  favorita  ed  accresciuta.  La  quale religione  se  ne’ Principi  della  repubblica cristiana  si  fusse  mantenuta,  secondo  che dal  datore  d’ essa  ne  fu  ordinato,  sarebbero gli  stati  e le  repubbliche  cristiane più  unite  e più  felici  assai  ch’elle non  sono.  Nè  si  può  fare  altra  maggiore conieltura  della  declinazione  d’essa, quanto  è vedere  come  quelli  popoli  che sono  più  propinqui  alla  Chiesa  romana, capo  della  religione  nostra,  hanno  meno religione.  E chi  considerasse  i fondamenti suoi,  e vedesse  l’ uso  presente quanto  è diverso  da  quelli,  giudicherebbe esser  propinquo,  senza  dubbio,  o la  rovina  o il  flagello.  E perchè  sono alcuni  d’oppinione,  che  ’l  ben  essere delle  cose  d’ Italia  dipende  dalla  Chiesa di  Roma,  voglio  contro  ad  essa  discorrere quelle  ragioni  che  mi  occorrono  :e ne  allegherò  due  potentissime,  le  quali, secondo  me,  non  hanno  repugnanza.  La, prima  è,  che  per  gli  esempi  rei  di  quella i corte,  questa  provincia  ha  perduto  oguI divozione  ed  ogni  religione:  il  clic  si i lira  dietro  infiniti  inconvenienti  e infi-niti disordini;  perchè,  così  come religione  si  presuppone  ogni  bene, dove  ella  manca  si  presuppone  il  contrario. Abbiamo,  adunque,  con  la  Chiesa e con  i preti  noi  Italiani  questo  primo obbligo,  d’essere  diventati  senza  religione c cattivi:  ma  ne  abbiamo  ancora un  maggiore,  il  quale  è cagione  della rovina  nostra.  Questo  è die  la  Chiesa ha  tenuto  e tiene  questa  nostra  provincia divisa. E veramente,  alcuna  provincia non  fu  mai  unita  o felice,  se  la  non viene  tutta  alla  obedienza  d’  una  repubblica o d’uno  principe,  come  è avvenuto alla  Francia.  E la  cagione che  la  Italia  non  sia  in  quel  medesimo termine,  nè  abbia  aneli’  ella  o una  repubblica  o uno  principe  che  la governi,  è solamente  la  Chiesa  ; perchè, avendovi  abitalo  e tenuto  imperio  temponile,  non  è stata  sì  potente  nè  dì  tal virtù,  che  l'abbia  potuto  occupare  il  restante d’Italia,  e farsene  principe;  e non  è stata,  dall’altra  parte,  si  debile, che,  per  paura  di  non  perder  il  dominio delie  cose  temporali,  la  non  abbi potuto  convocare  uno  potente  che  la  difenda contra  a quello  che  in  Italia  fusse diventato  troppo  potente:  come  si  è veduto anticamente  per  assai  esperienze, quando  mediante  Carlo  Magno  la  ne  cacciò i Lombardi,  eh’ era  no  già  quasi  re di  tutta  Italia;  e quando  ne’ tempi  nostri ella  tolse  la  potenza  a’  Veneziani  con l’aiuto  di  Francia;  dipoi  ne  cacciò  i Franciosi  eoa  l’aiuto  de’ Svizzeri.  Non essendo,  dunque,  stata  la  Chiesa  potente da  potere  occupare  l’ Italia,  nè  avendo permesso  che  un  altro  la  occupi,  è stata cagione  che  la  non  è potuta  venire  sotto un  capo;  ma  è stata  sotto  più  principi e signori,  da’ quali  è nata  tanta  disunione e tanta  debolezza,  che  la  si  è condotta ad  essere  stata  preda,  non  solamelile  di  barbari  polenti,  ma  di  qualunque I*  assalta.  Di  clic  noi  altri  Italiani abbiamo  obbligo  con  la  Chiesa,  c non con  altri.  E chi  ne  volesse  per  esperienza certa  vedere  più  pronta  la  verità,  bisognerebbe che  fusse  di  tanta  potenza,  che mandasse  ad  abitare  la  corte  romana,  con l’autorità  che  l’ha  in  Italia,  in  le  terre de’ Svizzeri;  i quali  oggi  sono  quelli  soli popoli  che  vivono,  e quanto  alla  religione e quanto  agli  ordini  militari,  secondo  gli antichi  : e vedrebbe  che  in  poco  tempo furebbero  più  disordine  in  quella  provincia i costumi  tristi  di  quella  corte, che  qualunchc  altro  accidente  clic  in qualunche  tempo  vi  potessi  surgere. XIII.  — Come  t Romani  si  servirono della  religione  per  ordinare  la città,  e per  seguire  le  loro  imprese  e fermare  i tumulti.Ei  non  mi  pare  fuor  di  proposito  ad-durre alcuno  esempio  dove  i Romani  si
servirono  della  religione  per  riordinare la  cillà,  e per  seguire  l’imprese  loro;  e quantunque  in  L.  ne  siano  molti, nondimeno  voglio  essere  contento  a questi. Avendo  creato  il  Popolo  romano  i Tribuni,  di  potestà  consolare,  e,  fuorché uno,  tutti  plebei;  ed  essendo  occorso quello  anno  peste  c fame,  e venuti  certi prodigii  ; usorono  questa  occasione  i Nobili nella  nuova  creazione  de’  Tribuni, dicendo  che  li  Dii  erano  adirati  per  aver Roma  male  usata  la  maestà  del  suo  imperio, e che  non  era  altro  rimedio  a placare  gli  Dii,  che  ridurre  la  elezione de’ Tribuni  nel  luogo  suo:  di  che  nacque
che  la  Plebe,  sbigottita  da  questa  religione, creò  i Tribuni  tutti  nobili.  Vedesi ancora  nella  espugnazione  della  città de’  Ycienti,  come  i capitani  degli  eserciti si  valevano  della  religione  per  tenergli disposti  ad  una  impresa  : ehè  essendo  il lago  Albano,  quello  anno,  cresciuto  mirabilmente, ed  essendo  i soldati  romani  in fastiditi per  la  lunga  ossidione,  e volendo tornarsene  a Roma,  trovarono  i Romani, come  Apollo  e certi  altri  responsi  dicevano che  quell*  anno  si  espugnerebbe  la  città de’ Veienti,  che  si  derivasse  il  Ingo  Albano  : la  qual  cosa  fece  ai  soldati  sopportare  i fastidi  della  guerra  e della  ossidione, presi  da  questa  speranza  di  espugnare la  terra  ; e stettono  contenti  a seguire  la impresa,  tanto  che  Cammillo  fatto  Dittatore espugnò  detta  città,  dopo  dieci  anni che  l’era  stala  assediata.  E cosi  la  religione, usata  bene,  giovò  e per  la  espugnazione di  quella  città,  e per  la  restituzione dei  Tribuni  nella  Nobiltà:  chè senza  detto  mezzo  difficilmente  si  sarebbe condotto  e l’uno  e l’altro.  Non voglio  mancare  di  addurre  a questo proposito  un  altro  esempio.  Erano  nati in  Roma  assai  tumulti  per  cagione  di Terentillo  Tribuno,  volendo  lui  promulgare certa  legge,  per  le  cagioni  che  di sotto  nel  suo  luogo  si  diranno  ; e tra  i primi  rimedi  che  vi  usò  la  Nobiltà,  fu la  religione:  della  quale  si  servirono  i duo  modi.  Nel  primo  fecero  vedere  i li- bri Sibillini,  e rispondere,  come  alla città,  mediante  la  civile  sedizione,  soprastavano quello  anno  pericoli  di  non  perdere la  libertà  : la  qual  cosa,  ancora  che fusse  scoperta  da’ Tribuni,  nondimeno messe  tanto  terrore  ne*  petti  della  plebe, che  la  raffreddò  nel  seguirli.  L’altro modo  fu,  che  avendo  uno  APPIO ERDONIO,  con  una  moltitudine  di  sbanditi  e di  servi,  in  numero  di  quattromila  uomini, occupato  di  notte  il  Campidoglio, in  tanto  che  si  poteva  temere,  che  se gli  Equi  ed  i Volsci,  perpetui  nemici  al nome  romano,  ne  fossero  venuti  a Roma, la  arebbono  espugnata  ; e non  cessando i Tribuni  per  questo  di  insistere nella  pertinacia  loro  di  promulgare  la legge  Terentilla,  dicendo  che  quello  in- sulto era  fittizio  c non  vero:  uscì  fuori del  Senato  uno  Publio  Rubezio,  cittadino grave  e di  autorità,  con  parole  parte amorevoli,  parte  minacciatiti,  mostrandoli i pericoli  della  città,  e la  intempestiva  domanda  loro;  tanto  che  e’ constrinse la  Plebe  a giurare  di  non  si  partire dalla  voglia  del  Consolo:  onde  che la  Plebe  obediente,  per  forza  ricuperò il  Campidoglio.  Ma  essendo  in  tale  espu-gnazione morto  Publio  Valerio  consolo, subito  fu  rifatto  consolo  Tito  Quinzio;  il quale  per  non  lasciare  riposare  la  Plebe, nè  darle  spazio  a ripensare  alla  legge  Terentilla,  le  comandò  s’  uscissi  di  Roma per  andare  contra  a’  Volsci,  dicendo  che per  quel  giuramento  aveva  fatto  di  non abbandonare  il  Consolo,  era  obbligata  a seguirlo:  a che  i Tribuni  si  opponevano, dicendo  come  quel  giuramento s’era  dato  al  Consolo  morto,  e non  a lui.  Nondimeno  L.  mostra,  come la  Plebe  per  paura  della  religione  volle più  presto  obedire  al  Consolo,  che  credere a’ Tribuni;  dicendo  in  favore  della antica  religione  queste  parole:  Nondum htiDPj  quce  nunc  tenet  sceculum,  negligcntict  Dcùm  venerai , nec  interpretando sibi  quisque  jasjurandum  et  legcs  aplas■ a La  *faciebal.  Per  la  qual  cosa  dubitando  i Tribuni  di  non  perdere  allora  tutta  la lor  degnila,  si  accordarono  col  Consolo di  stare  alla  obedienza  di  quello;  e che per  uno  anno  non  si  ragionasse  della legge  Terentilla,  ed  i Consoli  per  uno anno  non  potessero  trarre  fuori  la  Plebe alla  guerra.  E cosi  la  religione  fece  al Senato  vincere  quella  diffìcultà,  che  senza essa  mai  non  arebbe  vinto. XIV.  I Romani  interpretavano gli  auspicii  secondo  la  necessità , con  la  prudenza  mostravano  di  osservare la  religione j quando  forzali  non V osservavano  ; c se  alcuno  (emwariamente  la  dispregiava , lo  punivano. Non  solamente  gli  auguri!,  come  di  sopra si  è discorso,  erano  il  fondamento in  buona  parte  dell'antica  religione de’ Gentili,  ma  ancora  erano  quelli  che erano  cagione  del  bene  essere  della  Repubblica romana.  Donde  i Romani  ne uvevano  più  cura  che  di  alcuno  altro  ordine di  quella;  ed  usavangli  ne’ comizi consolari,  nel  principiare  le  imprese, nel  trai*  fuori  gli  eserciti,  nel  fare  le giornate,  ed  in  ogni  azione  loro  importante, o civile  o militare;  nè  maisarebbono  iti  ad  una  espedizionc,  che  non avessino  persuaso  ai  soldati  che  gli  Dei
promettevano  loro  la  vittoria.  Ed  infra gli  altri  nuspicii,  avevano  negli  eserciti certi  ordini  di  aruspici,  che  e’ chiamavano Pollarii:  e qualunque  volta  eglino ordinavano  di  fare  la  giornata  col  nemico, volevano  che  i Pollarii  fucessino i loro  auspicii;  e beccando  i polli,  combattevano con  buono  augurio:  non  beccando, si  astenevano  dalla  zuffa.  Nondimeno, quando  la  ragione  mostrava  loro una  cosa  doversi  fare,  non  ostante  che gli  auspicii  fossero  avversi,  la  facevano in  ogni  modo;  ma  rivoltavanla  con termini  e modi  tanto  attamente,  che non  paresse  che  la  fucessino  con  dispregio dello  religione  : il  quale  termine  fu  usato  da  Papirio  consolo  in una  zuffa  clic  fece  importantissima  coi Sanniti,  dopo  la  quale  restorno  in  lutto deboli  ed  afflitti.  Perchè  sendo  Papirio in  su’  campi  rincontro  ai  Sanniti,  e parendogli avere  nella  zuffa  la  vittoria certa,  e volendo  per  questo  fare  la  giornata, comandò  ai  Pollarii  che  fucessino i loro  auspicii;  ma  non  beccando  i polli, e veggendo  il  principe  de’ Pollarii  la gran  disposizione  dello  esercito  di -combattere, e la  oppinione  che  era  nei  capitano cd  in  tutti  i soldati  di  vincere, per  non  torre  occasione  di  bene  operare a quello  esercito,  riferi  al  Consolo  come gli  auspicii  procedevano  bene:  talché Papirio  ordinando  le  squadre,  ed  essendo da  alcuni  de' Pollarii  detto  a certi soldati,  i polli  non  aver  beccato,  quelli lo  dissono  a Spurio  Papirio  nipote  del Consolo;  e quello  riferendolo  al  Consolo, rispose  subito,  eh’  egli  attendesse a fare  l’oflìzto  suo  bene,  e che  quanto a lui  ed  allo  esercito  gli  auspicii  erano rolli;  e se  il  Pollarlo  aveva  detto  le  bugie, ritornerebbono  in  pregiudicio  suo. E perchè  lo  effetto  corrispondesse  al pronostico,  comandò  ni  legati  clic  constituìssino  i Pollarii  nella  primo  fronte della  zuffa.  Onde  nacque  che,  andando contra  ai  nemici,  sendo  da  un  soldato romano  tratto  uno  dardo,  a caso  ammazzò il  principe  de’ Pollarii;  la  qual cosa  udita  il  Console,  disse  come  ogni cosa  procedeva  bene,  e col  favore  degli Dii;  perchè  lo  esercito  con  la  morte  di quel  bugiardo  si  era  purgato  da  ogni colpa,  e da  ogni  ira  che  quelli  avessino preso  contra  di  lui.  E cosi,  col  sapere bene  accomodare  t disegni  suoi agli  auspicii,  prese  partito  di  azzuffarsi, senza  clic  quello  esercito  si  avvedesse che  in  alcuna  parte  quello  avesse  negletti gli  ordini  della  loro  religione.  Al contrario  fece APPIO Pillerò  in  Sicilia, nella  prima  guerra  punica:  che  volendo azzuffarsi  con  P esercito  cartaginese,  fece fare  gli  auspicii  a’ Pollarii;  e referendogli  quelli,  come  i polli  non  beccavano, disse  : veggiamo  se  volessero  bere  ; e gli  fece  giUare  in  mare.  Donde  che,  azzuffandosi, perdette  la  giornata  : di  che egli  ne  fu  a Roma  condennato,  e Papirio onorato;  non  tanto  per  aver  V uno  vinto e P altro  perduto,  quanto  per  aver  1’  uno fatto  contra  agli  auspicii  prudentemente e l’altro  temerariamente.  Nè  ad  altro line  tendeva  questo  modo  dello  aruspicare, che  di  fare  i soldati  confidentemente ire  alla  zuffa  ; dalla  quale  confidenza quasi  sempre  uasce  la  vittoria.  La qual  cosa  fu  non  solamente  usala  dai Romani,  ma  dalli  esterni  : di  che  mi  pare di  addurre  uno  esempio  nel  seguente capitolo. XV. Come  i Sanniti,  per  estremo rimedio  alle  cose  loro  afflitte,  ricorsono  alla  religione. Avendo  i Sanniti  avute  più  rotte  dai Romani,  ed  essendo  stati  per  ultimo  distrutti  in  Toscana,  e morti  i loro  eserciti e gli  loro  capitani  ; ed  essendo  stali  vinti  i loro  compagni,  come  Toscani,  Franciosi ed  Umbri  ; ncc  suis,  nec  extcrnis  viribus  jam  slare  polcrant  : t amen  bello  non abstinebantj  adeo  ne  infeliciler  quidem defensae  libcrtatis  tcedcbalj  et  vinci > quarti  non  tentare  victorianij  malebant. Onde  deliberarono  far  ultima  prova:  e perché  ei  sapevano  che  a voler  vincere era  necessario  indurre  ostinazione  negli animi  de’ soldati,  c che  a indurla  non v’ era  miglior  mezzo  che  la  religione; pensarono  di  ripetere  uno  antico  loro  sacrifìcio, mediante  Ovio  Faccio,  loro  sacerdote. Il  quale  ordinarono  in  questa forma  : che,  fatto  il  sacrificio  solenne,  e fatto  intra  le  vittime  morte  e gli  altari accesi  giurare  lutti  i capi  dello  esercito, di  non  abbandonare  mai  la  zuffa,  citarono i soldati  ad  uno  ad  uno  ; ed  intra quelli  altari,  nel  mezzo  di  più  centurionicon  le  spade  nude  in  mano,  gli  face-vano prima  giurare  che  non  ridirebbono cosa  che  vedessino  o sentissino;  dipoi,con  parole  esecrabili  e versi  pieni  di  spa-vento, gli  facevano  giurare  e promettereagli  Dii,  d’essere  presti  dove  gli  impe-radori  gli  comandassino,  c di  non  si  fug-gire mai  dalla  zuffa,  e d’ ammazzarequalunque  vedessino  che  si  fuggisse:  laqual  cosa  non  osservata,  tornasse  soprail  capo  della  sua  famiglia  e della  sustirpe.  Ed  essendo  sbigottiti  alcuni  diloro,  non  volendo  giurare,  subito  da’ lorocenturioni  erano  morti;  talché  gli  altriche  succedevano  poi,  impauriti  dalla  fe-rocità dello  spettacolo,  giurarono  tutti.E per  fare  questo  loro  assembramentopiù  magnifico,  sendo  quarantamila  uo-mini, ne  vestirono  la  metà  di  pannibianchi,  con  creste  e pennacchi  sopra  lecelate  ; e così  ordinati  si  posero  pressoad  Aquilonia.  Contra  a costoro  vennePapirio;  il  quale,  nel  confortare  i suoisoldati,  disse:  Non  enim  crislas  vulnerafacere,  et  pietà  alque  aurata  scuta  tran-sirc  ttomanum  pileum.  E per  debilitarela  oppinione  clic  avevano  i suoi  soldatide’ nemici  per  i)  giuramento. preso,  disseche  quello  era  per  essere  loro  a timore,non  a fortezza;  perchè  in  quel  medesi-mo tempo  avevano  uvere  paura  de’ cit-tadini, degli  Dii,  c de*  nemici.  E venutial  conflitto,  furono  superati  i Sanniti;perchè  la  virtù  romana,  ed  il  timoreconccputo  per  le  passate  rotte,  superòqualunque  ostinazione  ei  potessino  averepresa  per  virtù  della  religione  e per  ilgiuramento  preso.  Nondimeno  si  vedecome  a lóro  non  parve  potere  avere  al-tro rifugio,  nè  tentare  altro  rimedio  apoter  pigliare  speranza  di  ricuperare  laperduta  virtù.  Il  che  testifica  appieno,quanta  confidcnzia  si  possa  avere  me-diante la  religione  bene  usata.  E benchéquesta  parte  piuttosto,  per  avventura,  sirichiederebbe  esser  posta  intra  le  coseestrinseche  ; nondimeno,  dependendo  dauno  ordine  de’  più  importanti  dellaRepubblica  di  Roma,  mi  è parso  dacommetterlo  in  questo  luogo,  per  nondividere  questa  materia,  cd  averci  aritornare  più  volte.Gap.  XVI.  — Un  popolo  uso  a vìveresotto  un  principe,  se  per  qualche  ac-cidente diventa  libero,  con  difficultàmantiene  la  libertà.Quanta  difficultà  sia  ad  uno  popolouso  a vivere  sotto  un  principe,  preser-vare dipoi  la  libertà,  se  per  alcuno  ac-cidente l’acquista,  come  l’acquistò  Ro-ma dopo  la  cacciala  de’Tarquini;  iodimostrano  infiniti  esempi  che  si  leggononelle  memorie  delle  antiche  istorie.  Etale  difficultà  è ragionevole;  perchè  quelpopolo  è non  altrimenti  che  uno  ani-male bruto,  il  quale,  ancora  che  di  fe-roce natura  e silvestre,  sia  stato  nu-drito  sempre  in  carcere  ed  in  servitù,che  dipoi  lasciato  a sorte  in  una  cam-pagna libero,  non  essendo  uso  a pa-scersi, nè  sappiendo  le  latebre  dove  siabbia  a rifuggire,  diventa  preda  delprimo  che  cerca  rincatenarlo.  Questo  me-desimo interviene  ad  uno  popolo,  il  qualesetido  uso  a vivere  sotto  i governi  d’al-tri, non  snppiendo  ragionare  nè  delledifese  o offese  pubbliche,  non  cogno-scendo  i principi  nè  essendo  conosciutoila  loro,  ritorna  presto  sotto  un  giogo,il  quale  il  più  delle  volte  è più  graveche  quello  che  per  poco  innanzi  si  avevalevato  d’ in  su  ’1  collo  : e trovasi  in  que-ste difficullà,  ancora  che  la  materia  nonsia  in  tutto  corrotta;  perchè  in  unopopolo  dove  in  lutto  è entrata  la  corru-zione, non  può,  non  che  picciol  tempo,ma  punto  vivere  libero,  come  di  sotto  sidiscorrerà:  e però  i ragionamenti  no-stri sono  di  quelli  popoli  dove  la  corru-zione non  sia  ampliata  assai,  c dove  siapiù  del  buono  che  del  guasto.  Aggiun-gesi  alla  soprascritta,  un’  altra  difficultò;la  quale  è,  che  lo  Stato  che  diventa  li-bero, si  fa  partigiani  nemici,  e nonpartigiani  amici.  Partigiani  nemici  glidiventano  tutti  coloro  che  dello  Stalo  ti-nodei  dìscorsi Tannico  si  prevalevano,  pascendosi  dellericchezze  del  principe;  a’ quali  sendotolta  la  facoltà  del  valersi,  non  possovivere  contenti,  e sono  forzati  ciascunodi  tentare  di  riassumere  la  tirannide,per  ritornare  nell’ autorità  loro.  Non  siacquista,  come  ho  detto,  partigiani  ami-ci ; perchè  il  vivere  libero  propone  onorie premii,  mediami  alcune  oneste  e de-. terminate  cagioni,  e fuori  di  quelle  nonpremia  nè  onora  alcuno;  e quando  unoha  quelli  onori  e quelli  utili  che  gli  paremeritare,  non  confessa  avere  obbligo  concoloro  che  lo  rimunerano.  Oltre  a que-sto, quella  comune  utilità  che  del  viverelibero  si  trae,  non  è da  alcuno,  mentreche  ella  si  possiede,  conosciuta:  la  qualeè di  potere  godere  liberamente  le  cosesue  senza  alcuno  sospetto,  non  dubitaredell’onore  delle  donne,  di  quel  de’ fi-gliuoli, non  temere  di  sè;  perchè  nis-suno  confesserà  mai  aver  obbligo  conuno  che  non  1’  offenda.  Però,  come  disopra  si  dice,  viene  ad  avere  lo  Statolibero  c che  «li  nuovo  surge,  partigianinon  partigiani  amici.  E vonemicilendo  rimediare  a questi  inconvenienti,c a quegli  disordini  che  le  soprascrittediflìculta  si  arrecherebbono  seco,  non  ciè più  potente  rimedio,  nè  più  valido,  nèpiù  sano,  nè  più  necessario,  che  am-mazzare i figliuoli  di  Bruto:  i quali,come  l’istoria  mostra,  non  furono  in-dotti, insieme  con  altri  gioveni  romani,n congiurare  contra  alla  patria  per  al-tro, se  non  perchè  non  si  potevano  va-lere straordinariamente  sotto  i Consoli,come  sotto  i Re;  in  modo  che  la  libertàdi  quel  popolo  pareva  che  fusse  diven-tata la  loro  servitù.  E chi  prende  a go-vernare una  moltitudine,  o per  via„dilibertà  o per  via  di  principato,  e non si  assicura  di  coloro  che  a quell’ ordine nuovo  sono  nemici,  fa  uno  Stato  di  poca vita.  Vero  è ch’io  giudico  infelici  quelli principi,  che  per  assicurare  lo  Stato  loro hanno  a tenere  vie  straordinarie,  avendo per.  nemici  la  moltitudine:  perchè  quello che  ha  per  nemici  i pochi,  facilmente e senza  molti  scandali,  si  assicura;  ma chi  ha  per  nemico  1’  universale,  non  si assicura  mai;  e quanta  più  crudeltà  usa, tanto  diventa  più  debole  il  suo  principalo.  Talché  il  maggior  rimedio  che  si abbia,  è cercare  di  farsi  il  popolo  amico. E benché  questo  discorso  sia  disformo dal  soprascritto,  parlando  qui  d’  un principe  e quivi  d’ una  repubblica  ; nondimeno, per  non  avere  a tornare  più  in su  questa  materia,  ne  voglio  parlare  bre-vemente. Volendo,  pertanto,  un  principe guadagnarsi  un  popolo  che  gli  fusse  nemico, parlando  di  quelli  principi  che sono  diventati  della  loro  patria  tiranni  ; dico  eh’ ci  debbe  esaminare  prima  quello che  il  popolo  desidera,  e troverà  sempre ch’ei  desidera  due  cose;  Y una  vendicarsi contro  a coloro  che  sono  cagione che  sia  servo;  l’altra  di  riavere  la  sua libertà.  Al  primo  desiderio  il  principe può  satisfare  in  tutto,  al  secondo  in parte.  Quanto  al  primo,  ce  n’  è lo  csempio  appunto.  Clearco,  tiranno  di  Eraelea,  scudo  in  esilio,  occorse  che,  per controversia  venuta  intra  il  popolo  e gli ottimati  di  Eraclea,  veggendosi  gli  ottimati inferiori,  si  volsono  a favorire Clearco,  c congiuratisi  seco  lo  missono, contea  alla  disposizione  popolare,  in Eraclea,  c toisono  la  libertà  al  popolo. In  modo  che,  trovandosi  Clearco  intra la  insolenzia  degli  ottimati,  i quali  non poteva  in  alcun  modo  nè  contentare  nè correggere,  c la  rabbia  de’  popolari,  che non  potevano  sopportare  lo  avere  perduta la  libertà,  deliberò  ad  un  tratto liberarsi  dal  fastidio  de’ grondi,  c guadagnarsi il  popolo.  E presa  sopra  questo conveniente  occasione,  tagliò  a pezzi tutti  gli  ottimali,  con  una  estrema  satisfazione  de’ popolari.  E così  egli  per  questa via  satisfece  ad  una  delle  voglie  che hanno  i popoli,  cioè  di  vendicarsi.  Ma quanto  all’altro  popolare  desiderio  di riavere  la  sua  libertà,  non  potendo  il principe  satisfargli,  debbe  esaminare quali  cagioni  sono  quelle  che  gli  fanno desiderare  d’essere  liberi;  e troverà  che una  piccola  parte  di  loro  desidera  d’essere libera  per  comandare;  ma  tutti  gli altri,  che  sono  infiniti,  desiderano  la  libertà per  vivere  securi.  Perchè  in  tutte le  repubbliche,  in  qualunque  modo  ordinate, ai  gradi  del  comandare  non  aggiungono mai  quaranta  o cinquanta  cittadini: e perchè  questo  è piccolo  numero, è facil  cosa  assicurarsene,  o con levargli  via*  o con  far  lor  parte  di  tanti onori,  che  secondo  le  condizioni  loro  essi abbino  in  buona  parte  a contentarsi. Quelli  altri,  ai  quali  basta  vivere  securi, si  satisfanno  facilmente,  facendo  ordini e leggi,  dove  insieme  con  la  potenza  sua si  comprenda  la  sicurtà  universale.  E quando  uno  principe  faccia  questo,  e che  il  popolo  vegga  che  per  accidente nessuno  ei  non  rompa  tali  leggi,  comincerà  in  breve  tempo  a vivere  sccuro  e contento.  In  esempio  ci  è il  regno  di Francia,  il  quale  non  vive  securo  per altro,  che  per  essersi  quelli  Re  obbligati ad  infinite  leggi,  nelle  quali  si  comprende la  securtn  di  tutti  i suoi  popoli. E chi  ordinò  quello  Stato,  volle  che  quelli Re,  dell’  arme  e del  danaio  facessino  a loro  modo,  ma  che  d’ogni  altra  cosa non  ne  potessino  altrimenti  disporre  che le  leggi  si  ordinassino.  Quello  principe, adunque,  o quella  repubblica  che  non si  assicura  nel  principio  dello  stato  suo, conviene  che  si  assicuri  nella  prima  occasione, come  fecero  i Romani.  Chi  lascia passare  quella,  si  pente  tardi  di  non aver  fatto  quello  che  doveva  fare.  Sendo, pertanto,  il  popolo  romano  ancora  non corrotto  quando  ci  recuperò  la  libertà, potette  mantenerla,  morti  i figliuoli  di BRUTO e spenti  i Tarquini,  con  tutti quelli  rimedi  ed  ordini  che  altra  volta si  sono  discorsi.  Ma  se  fussc  stato  quel popolo  corrotto,  nè  in  Roma  nè  altrove si  trovano  rimedi  validi  a mantenerla; come  nel  seguente  capitolo  mostreremo. XVII.  Uno  popolo  coitoIIo , venuto in  libertà,  si  può  con  difficullà ( grandissima  mantenere  libera. lo  giudico  che  gli  era  necessario,  o die  i Re  si  estinguessino  in  Roma,  o che Roma  in  brevissimo  tempo  divenissi  debole, e di  nessuno  valore:  perchè,  considerando a quanta  corruzione  erano venuti  quelli  Re,  se  l'ussero  seguitati così  due  o tre  successioni,  e che  quella corruzione  che  era  in  loro,  si  fossi  cominciata a distendere  per  le  membra; come  le  membra  fussino  state  corrotte, era  impossibile  mai  più  riformarla.  Ma perdendo  il  capo  quando  il  busto  era intero,  poterono  facilmente  ridursi  a vivere liberi  cd  ordinati.  E debbesi  presupporre per  cosa  verissima,  che  una città  corrotta  che  vive  sotto  un  principe, ancora  che  quel  principe  con  tutta la  sua  stirpe  si  spenga,  inai  non  si  può ridurre  libera;  anzi  conviene  che  Putì principe  spenga  l’ allro;  e senza  creazione d’un  nuovo  signore  non  si  posa mai,  se  già  la  bontà  d’  uno,  insieme  con la  virtù,  non  la  tenessi  libera  ; ma  durerà tanto  quella  libertà,  quanto  durerà la  vita  di  quello:  come  intervenne  a Siracusa di  Dione  e di  Timoleone,  la  virtù de’  quali  in  diversi  tempi,  mentre  vissero, tenne  libera  quella  città;  morti  clic furono,  si  ritornò  nell'antica  tirannide. Ma  non  si  vede  il  più  forte  esempio  che quello  di  Roma;  la  quale  cacciati  i Tarquini,  potette  subito  prendere  e mantenere quella  libertà:  ma  morto  Cesare, morto  Caligula,  morto  Nerone,  spenta tutta  la  stirpe  cesarea,  non  potette  inai, non  solamente  mantenere,  ma  pure  dare principio  alla  libertà.  Nè  tanta  diversità di  evento  in  una  medesima  città  nacqueda  altro,  se  non  da  non  essere  ne’ tempi de’Tarquini  il  popolo  romano  ancora corrotto;  ed  in  questi  ultimi  tempi  essere corrottissimo.  Perchè  allora,  a mantenerlo saldo  e disposto  a fuggire  i Re, bastò  solo  furio  giurare  che  non  eon sentirebbe  mai  che  a Roma  alcuno  regnasse; e negli  altri  tempi,  non  bastò T autorità  e severità  di  BRUTO,  con  tutte le  legioni  orientali,  a tenerlo  disposto  a volere  mantenersi  quella  libertà  che  esso, a similitudine  del  primo  BRUTO,  gli aveva  rendutu.  Il  che  nacque  da  quella corruzione  che  le  parli  mariane  avevano messa  nel  popolo;  delle  quali  essendo capo  Cesare  potette  accecare  quella  moltitudine, eh* ella  non  conobbe  il  giogo che  da  sè  medesima  si  metteva  in  sul collo.  E benché  questo  esempio  di  Roma sia  da  preporre  a qualunque  altro  esempio, nondimeno  voglio  a questo  proposito addurre  innanzi  popoli  conosciuti  ne*  nostri tempi.  Pertanto  dico,  che  nessuno  accidente, benché  grave  e violento,  potrebbe redurre  mai  Milano  o Napoli  libere,  per essere  quelle  membra  tutte  corrotte.  H che  si  vide  dopo  la  morte  di VISCONTI; che  volendosi  ridurre  Milano  alia libertà,  non  potette  e non  seppe  mantenerla.  Però,  fu  felicità  grande  quella di  Koma,  che  questi  Re  diventassero corrotti  presto,  acciò  ne  fussino  cacciati, cd  innanzi  che  la  loro  corruzione  fosse passata  nelle  viscere  di  quella  città:  la quale  incorruzione  fu  cagione  che  gl’ infiniti tumulti  che  furono  in  Roma,  avendo gli  uomini  il  fine  buono,  non  nocerouo, anzi  giovarono  alla  Repubblica.  E si  può fare  questa  conclusione,  che  dove  la materia  non  è corrotta,  i tumulti  cd altri  scandali  non  nuòcono:  dove  la  è corrotta,  le  leggi  bene  ordinate  non  giovano, se  già  le  non  son  mosse  da  uno che  con  una  estrema  forza  le  facci  osservare, tanto  che  la  materia  diventi buona.  Il  che  non  so  se  sie  mai  intervenuto, o se  fusse  possibile  ch’egli  intervenisse: perchè  c’  si  vede,  come  poco di  sopra  dissi,  che  una  città  venuta  in declinazione  per  corruzione  di  materia, se  mai  occorre  che  la  si  levi,  occorre per  la  virtù  d’ uno  uomo  eh’  è vivo  allora, non  per  la  virtù  dello  universale clic  sostengo  gli  ordini  buoni  ; c subito che  quei  tale  è morto,  la  si  ritorna  nei suo  pristino  abito;  come  intervenne  a Tebe,  la  quale  per  la  virtù  di  Epaminonda, mentre  lui  visse,  potette  tenere forma  di  repubblica  e di  imperio  ; ma morto  quello,  la  si  ritornò  ne’  primi  disordini suoi.  La  cagione  è,  che  non  può essere  un  uomo  di  tanta  vita,  che  ’l tempo  basti  ad  avvezzare  bene  una  città lungo  tempo  male  avvezza.  E se  unod’  una  lunghissima  vita,  o due  successioni virtuose  conlinove  non  la  dispongono; come  una  manca  di  loro,  come di  sopra  è detto,  subito  rovina,  se  già con  molti  pericoli  c molto  sangue  c’  non la  facesse  rinascere.  Perchè  tale  corruzione e poca  attitudine  olla  vita  libera, nasce  da  una  inequulità  che  è in  quella città:  e volendola  ridurre  equale,  è necessario usare  grandissimi  estraordinari; i quali  pochi  sanno  o vogliono usare,  come  in  altro  luogo  più  particolarmente si  dirà. XVIII.  — In  che  modo  «ci.c;  mi corrotte  si  potesse  mantenere  tino  stalo liòerOj  essendovi;  o non  essendovi , ordinartelo. Io  credo  clic  non  sia  fuori  di  proposito, nè  disformo  dal  soprascritto  discorso, considerare  se  in  una  città  corrotta si  può  mantenere  lo  stato  libero, scndovi  ; o quando  e’  non  vi  fosse,  se vi  si  può  ordinare.  Sopra  la  qual  cosa dico,  come  gli  è mollo  difficile  fare  o l’uno  o l' altro:  e benché  sia  quasi  impossibile darne  regola,  perchè  sarebbe necessario  procedere  secondo  i gradi della  corruzione;  nondimnneo,  essendo bene  ragionare  d’ogni  cosa,  non  voglio lasciare  questa  indietro.  E presuppongo una  città  corrottissima,  donde  verrò  ad accrescere  più  tale  difficoltà;  perché  non si  trovano  nè  leggi  nè  ordini  che  bastino a frenare  una  universale  corruzione. Perchè,  così  come  gli  buoni  costumf,  per  mantenersi,  hanno  bisogno delle  leggi;  cosi  le  leggi,  per  osservarsi, hanno  bisogno  de’  buoni  costumi.  Oltre di  questo,  gli  ordini  e le  leggi  fatte  in una  repubblica  nel  nascimento  suo, quando  erano  gli  uomini  buoni,  non  sono dipoi  più  a proposito,  divenuti  che  sono tristi.  E se  le  leggi  secondo  gli  accidenti in  una  città  variano,  non  variano  mai, 0 rade  volte,  gli  ordini  suoi:  il  che  fa che  le  nuove  leggi  non  bastano,  perchè gli  ordini,  che  stanno  saldi,  le  corrompono. E per  dare  ad  intendere  meglio questa  parte,  dico  come  in  Roma  era l’ordine  del  governo,  o vero  dello  Stato; c le  leggi  dipoi,  che  con  i magistrati frenavano  i cittadini.  L’ordine  dello Stato  era  l’ autorità  del  Popolo,  del  Senato, dei  Tribuni,  dei  Consoli,  il  modo di  chiedere  e del  creare  i magistrati, ed  il  modo  di  fare  le  leggi.  Questi  ordini poco  o nulla  variarono  nelii  accidenti. Variarono  le  leggi  che  frenavano 1 cittadini;  come  fu  la  legge  degli  adulferi!,  la  suntuaria,  quella  della  ambizione, e molte  altre  ; secondo  clic  di mano  in  mano  i cittadini  diventavano corrotti.  Ma  lenendo  fermi  gli  ordini dello  Stato,  che  nella  corruzione  non erano  più  buoni,  quelle  leggi  che  si  rinnovavano, non  bastavano  a mantenere gli  uomini  buoni;  ma  sarebbonn  bene giovate,  se  con  la  innovazione  delle  leggi si  fussero  rimutati  gli  ordini.  G che  sia il  vero  che  tali  ordini  nella-  città  corrotta non  fossero  buoni,  e’ si  vede espresso  in  due  capi  principali.  Quanto al  creare  i magistrati  e le  leggi,  non dava  il  Popolo  romano  il  consolato,  e gli altri  primi  gradi  della  città,  se  non  a quelli  che  lo  dimandavano.  Questo  ordine fu  nel  principio  buono,  perchè e’ non  gli  domandavano  se  non  quelli cittadini  che  se  ne  giudicavano  degni, ed  averne  la  repulsa  era  ignominioso; si  che,  per  esserne  giudicati  degni,  ciascuno operava  bene.  Diventò  questo modo,  poi,  nella  città  corrotta  perniziosissiiuo  ; perchè  non  quelli  che  avevano più  virtù,  ma  quelli  che  avevano  più potenza,  domandavano  i magistrali;  e gl’ impotenti,  comecché  virtuosi,  se  ne astenevano  di  domandargli  per  paura. Vcnnesi  a questo  inconveniente,  non  ad un  tratto,  ma  per  i mezzi,  come  si  cade in  tutti  gli  altri  iuconveiiienti  : perchè avendo  i Romani  domata  l’Affrica  e l’Asia, e ridotta  quasi  tutta  la  Grecia  a sua  ohidienza,  erano  divenuti  sicuri  della  libertà loro,  nè  pareva  loro  avere  più nimici  che  dovessero  fare  loro  paura. Questa  securtà  e questa  debolezza  de’  nemici fece  che  il  Popolo  romano,  nel  dare il  consolato,  non  riguardava  più  la  virtù, ma  la  grazia  ; tirando  a quel  grado quelli  che  meglio  sapevano  iutrattenere gli  uomini,  non  quelli  che  sapevano  meglio vincere  i nemici:  di  poi,  da  quelli che  avevano  più  grazia,  discesero  a dargli a quelli  che  avevano  più  potenza;talché  i buoni,  per  difetto  di  tale  ordine, ne  rimasero  al  tutto  esclusi.  Poteva uno  Tribuno,  e qualunque  altro  cittadino, proporre  al  Popolo  una  legge;  sopra la  quale  ogni  cittadino  poteva  parlare, o in  favore  o incontro,  innanzi  che la  si  deliberasse.  Era  questo  ordine  buono, quando  i cittadini  erano  buoni  ; per-
che sempre  fu  bene,  che  ciascuno  clic intende  uno  bene  per  il  pubblico,  lo possa  proporre;  ed  è bene  che  ciascuno sopra  quello  possa  dire  l’oppinione  sua, acciocché  il  Popolo,  inteso  ciascuno, possa  poi  eleggere  il  meglio.  Ma  diventati i cittadini  cattivi,  diventò  tale  ordine pessimo,  perchè  solo  i potenti  proponevano leggi,  non  per  la  comune  libertà, ina  perla  potenza  loro;ccontra a quelle  non  poteva  parlare  alcuno  per paura  di  quelli  : talché  il  Popolo  veniva o ingannato  o sforzato  a deliberare  la sua  rovina.  Ero  necessario,  pertanto,  a volere  che  Roma  nella  corruzione  si mantenesse  libera,  che,  cosi  come  aveva nel  processo  del  vivere  suo  fatte  nuove leggi,  l’avesse  fatti  nuovi  ordini:  per-«thè  altri  ordini  e modi  di  vivere  si debbe  ordinare  in  un  soggetto  cattivo, che  in  un  buono  ; nè  può  essere  la  forma simile  in  una  materia  al  tutto  contraria. Ma  perchè  questi  ordini,  o e’ si hanno  a rinnovare  tutti  ad  un  tratto, scoperti  che  sono  non  esser  più  buoni, o a poco  a poco,  in  prima  che  si  conoschiuo  per  ciascuno  ; dico  che  1*  una e l’altra  di  queste  due  cose  è quasi  impossibile. Perchè,  a volergli  rinnovare a poco  a poco,  conviene  che  ne  sia  cagione uno  prudente,  che  veggio  questo inconveniente  assai  discosto,  e quando e’ nasce.  Di  questi  tali  è facilissima  cosa che  in  una  città  non  ne  surga  mai  nessuno : e quando  pure  ve  ne  surgesse, non  potrebbe  persuadere  mai  ad  altrui quello  che  egli  proprio  intendesse;  perchè gli  uomini  usi  a vivere  in  un  modo, non  lo  vogliono  variare;  e tanto  più non  veggiendo  il  male  in  viso,  ma  avendo ad  essere  loro  mostro  per  con  letture. Quando  ad  innovare  questi  ordini  ad  un (ratio,  quando  ciascuno  conosce  clic  non sono  buoni,  dico  che  questa  inutilità, clic  facilmente  si  conosce,  è diffìcile  a ricorreggerla:  perchè  a fare  questo,  non basta  usare  termini  ordinari,  essendo  i modi  ordinari  cattivi;  ma  è necessario venire  allo  istraordinario,  come  è alla violenza  ed  all’ armi,  e diventare  innanzi  ad  ogni  cosa  principe  di  quella città,  e poterne  disporre  a suo  modo.  E perchè  il  riordinare  una  città  al  vivere politico  presuppone  uno  uomo  buono, ed  il  diventare  per  violenza  principe  di una  repubblica  presuppone  un  uomo cattivo;  per  questo  si  troverà  che  radis- sime volte  accaggia,  che  uno  uomo  buono voglia  diventare  principe  per  vie  cattive, ancoraché  il  fine  suo  fusse  buono;  e che uno  reo  divenuto  principe,  voglia  operare bene,  e che  gli  caggia  mai  nell’animo usare  quella  autorità  bene,  che  egli ha  male  acquistata.  Da  tutte  le  soprascritte  cose  nasce  la  diffìcultà,  o impossibilità, che  è nelle  città  corrotte,  a mantenervi  una  repubblica,  o a crearvela  di  nuovo.  E quando  pure  la  vi  si avesse  a creare  o a mantenere,  sarebbe necessario  ridurla  più  verso  lo  stato  regio, che  verso  lo  stato  popolare;  acciocché quelli  uomini  i quali  dalle  leggi,  per la  loro  insolenzia,  non  possono  essere corretti,  lusserò  da  una  podestà  quasi regia  in  qualche  modo  frenati.  Ed  a volergli fare  per  altra  via  diventare  buoni, sarebbe  o crudelissima  impresa,  o al  tutto  impossibile;  come  io  dissi  di  sopra che  fece  Cleomene;  il  quale  se,  per essere  solo,  ammazzò  gli  Efori;  e se  ROMOLO, per  le  medesime  cagioni, AMMAZZO IL FRATELLO E TITO TAZIO SABINO, e dipoi usarono  bene  quella  loro  autorità  ; nondimeno si  debbe  avvertire  che  V uno  e T altro  di  costoro  non  avevano  il  soggetto di  quella  corruzione  macchiato della  quale  in  questo  capitolo  ragioniamo, e però  poterono  volere  e,  volendo, colorire  il  disegno  loro. XIX. Dopo  uno  eccellente  principio si  può  mantenere  un  principe debole ; ma  dopo  un  debole,  non  si può  con  un  (diro  debole  mantenere alcun  regno. Considerato  la  virtù  ed  il  modo  del procedere  di ROMOLO, NUMA e TULIO, I PRIMI TRE RE ROMANI,  si  vede  come Roma  sortì  una  FORTUNA GRANDISSIMA, AVENDO IL PRIMO RE FEROCISSIMO E BELLICOSO, 1’  altro  quieto  e religioso,  il  terzo simile  di  ferocia  a Romolo,  e più  amatore della  guerra  che  della  pace.  Perchè in  Roma  era  necessario  che  surgesse ne’  primi  principii  suoi  un  ordinatore «lei  vivere  civile,  ina  era  bene  poi necessario  che  gli  altri  Re  ripigliassero LA VIRTU DI ROMOLO;  ALTRIMENTI QUELLA CITTA SAREBBE DIVENTATA EFFEMINATA, e preda  de’  suoi  vicini.  Donde  si  può notare,  che  uno  successore  non  di  tanta virtù  quanto  il  primo,  può  mantenere uno  Stato  per  la  virtù  di  colui  che  PImretto  innanzi,  e si  può  godere  te  sue fatiche:  ma  s’ egli  avviene  o che  sia  di lunga  vita,  o che  dopo  lui  non  surga
un  altro  che  ripigli  la  virtù  di  quel  primo, è necessitato  quel  regno  a rovinare. Cosi,  per  il  contrario,  se  due,  1*  uno  dopo P altro,  sono  di  gran  virtù,  si  vede  spess che  fanno  cose  grandissime,  e che  ne vanno  con  la  fama  in  fino  al  cielo.  Davit,  senza  dubbio,  fu  un  uomo  per  arme, per  dottrina,  per  giudizio  eccellentissimo; e fu  tanta  la  sua  virtù,  che,  avendo vinti  ed  abbattuti  tutti  i suoi  vicini,  lasciò a Salomone  suo  figliuolo  un  regno pacifico:  quale  egli  si  potette  con  le  arti «Iella  pace,  e non  della  guerra,  conservare; e si  potette  godere  felicemente  la virtù  di  suo  padre.  Ma  non  potette  già lasciarlo  a Roboan  suo  figliuolo;  il  quale non  essendo  per  virtù  simile  allo  avolo, nè  per  fortuna  simile  al  padre,  rimase con  fatica  erede  della  sesta  parte  del rt'guo.  Baisit,  sultan  de’ Turchi,  ancora die  fusse  più  amatore  della  pace  che della  guerra,  potette  godersi  le  fatiche di  Maumelto  suo  padre;  il  quale  avendo, come  Davit,  battuti  i suoi  vicini,  gli  lasciò un  regno  fermo,  e da  poterlo  con F arte  della  pace  facilmente  conservare. Ma  se  il  figliuolo  suo  Salì,  presente  signore, fusse  stalo  simile  al  padre,  c non all’avolo,  quel  regno  rovinava  : ma  e’ si vede  costui  essere  per  superare  la  gloria dell'avolo.  Dico  pertanto  con  questi esempi,  clic  dopo  uno  eccellente  principe si  può  mantenere  un  principe  debole; ma  dopo  un  debole  non  si  può  con  un altro  debole  mantenere  alcun  regno,  se già  e’  non  fusse  come  quello  di  Francia, che  gli  ordini  suoi  antichi  lo  mantenessero: e quelli  principi  sono  deboli,  che non  stanno  in  su  la  guerra.  Couchiudo pertanto  con  questo  discorso,  clic  LA VIRTU DI ROMOLO E TANTA che  la  potette dare  spazio  a Numa  Pompilio  di potere  molti  anni  con  1’  arte  della  pace reggere  Roma  : ma  dopo  lui  successe
Tulio,  il  quale  pei*  la  sua  ferocia  riprese la  reputazione  di  ROMOLO:  dopo il  quale  venne  Anco,  in  modo  dalla  natura dotato,  che  poteva  usare  la  pace, e sopportare  la  guerra.  E prima  si  dirizzò a volere  tenere  la  via  della  pace: ma  subito  conobbe  come  i vicini,  giudicandolo effeminato,  lo  stimavano  poco: talmente  che  pensò  che,  a voler  mantenere Roma,  bisognava  volgersi  alla  guerra, e somigliare  Romolo,  e non  Numa. Da  questo  piglino  esempio  tutti  i principi che  tengono  stato,  che  chi  somiglierà Numa,  lo  terrà  o non  terrà,  secondo ehe  i tempi  o la  fortuna  gli  girerà sotto:  ma  chi  somiglierà  Romolo,  e lui come  esso  armato  di  prudenza  e d’armi, lo  terrà  in  ogni  modo,  se  da  una  ostinata ed  eccessiva  forza  non  gli  è tolto. K certamente  si  può  stimare,  che  se Roma  sortiva  per  terzo  suo  Re  un  uomo che  non  sapesse  con  le  armi  renderle la  sua  reputazione,  non  arebbe  mai  poi, o con  grandissima  dilTìcultà,  potuto  pigliare  piede,  nè  fare  quelli  effetti  ch’ella fece.  E così,  in  mentre  eh’ ella  visse  sotto i Re,  la  portò  questi  pericoli  di  rovinare sotto  un  Re  o debole  o tristo.  Due  continove  successioni  di principi  virtuosi  fanno  grandi  effetti: c come  le  repubbliche  bene  ordinate hanno  di  necessità  virtuose  successioni: c però  gli  acquisti  ctl  auQumcnli loro  sono  grandi. Poi  che  Roma  ebbe  cacciati  i Re,  mancò di  quelli  pericoli  i quali  di  sopradetti  che  la  portava,  succedendo  in  lei uno  Re  o debole  o tristo.  Perchè  la somma  dello  imperio  si  ridusse  nc’  Consoli, i quali  non  per  eredità  o per  inganni o per  ambizione  violenta,  ma  per suffragi  liberi  venivano  a quello  imperio, ed  erano  sempre  uomini  eccellentissimi: de’quali  godendosi  Roma  la  virtù e la  fortuna  di  tempo  in  tempo,  potette venire  a quella  sua  ultima  grandezza  in
altrettanti  unni,  che  la  era  stata  sotto  i Re.  Perchè  si  vede,  come  due  coutinove successioni  di  principi  virtuosi  sono  suffìzienti  ad  acquistare  il  mondo:  come  furono Filippo  di  Macedonia  ed  Alessandro Magno,  il  clic  tanto  più  debbe  fare  una repubblica,  avendo  il  modo  dello  eleggere non  solamente  due  successioni,  ma infiniti  principi  virtuosissimi,  che  sono l’uno  dell'altro  successori:  la  quale  virtuosa successione  fia  sempre  in  ogni  repubblica bene  ordinata. Quanto  biasimo  meriti  quel principe  e quella  repubblica  che  manca d'armi  proprie. Debbono  i presenti  principi  c le  moderne repubbliche,  le  quali  circa  le  difese ed  offese  mancano  di  soldati  propri, vergognarsi  di  loro  medesime  j e pensare,  con  lo  esempio  di  Tulio,  tale difetto  essere  non  per  mancamento  d’uomini alti  alla  milizia,  ma  per  colpa  loro, che  non  hanno  saputo  fare  i loro  uomini militari.  Perchè  Tulio,  scudo  stata Roma  in  pace  quaranta  anni,  non  trovò, succedendo  lui  nel  regno,  uomo  che  fussc stato  mai  alla  guerra  : nondimeno,  disegnando lui  fare  guerra,  non  pensò  di valersi  nè  di  Sanniti,  nè  di  Toscani,  nè di  altri  che  fussero  consueti  stare  nell'armi;  ma  deliberò,  come  uomo  prudentissimo, di  valersi  de’ suoi.  E fu  tanta la  sua  virtù,  che  in  un  tratto  il  suo  governo gli  potè  fare  soldati  eccellentissimi. Ed  è più  vero  che  alcuna  altra  verità, che  se  dove  sono  uomini  non  sono soldati,  nasce  per  difetto  del  principe, e non  per  altro  difetto  o di  sito  o di natura  : di  che  ce  n’*è  uno  esempio  freschissimo. Perchè  ognuno  sa,  come ne’ prossimi  tempi  il  re  d’Inghilterra  assaltò il  regno  di  Francia,  nè  prese  altri soldati  clic  i popoli  suoi  ; e per  essere stato  quel  regno  più  clic  trenta  anni senza  far  guerra,  non  aveva  nè  soldato nè  capitano  che  avesse  mai  militato: nondimeno,  ei  non  dubitò  con  quelli  assaltare uno  regno  pieno  di  capitani  e di  buoni  eserciti,  i quali  erano  stati continovamcnte  sotto  l'armi  nelle  guerre d’Italia.  Tutto  nacque  da  essere  quel  re prudente  uomo,  e quel  regno  bene  ordinato; il  quale  nel  tempo  della  pace  non intermette  gli  ordini  della  guerra.  Pelopida  ed  Epaminonda  tebani,  poiché  gli ebbero  libera  Tebe,  e trattola  dalla  servitù dello  imperio  spartano;  trovandosi in  una  città  usa  a servire,  ed  in  mezzo di  popoli  effeminati  ; non  dubitarono, tanta  era  la  virtù  loro  ! di  ridurgli  sotto Parrai,  e con  quelli  andare  a trovare alla  campagna  gli  eserciti  spartani,  e vincergli  : e chi  he  scrive,  dice  come questi  due  in  breve  tempo  mostrarono, che  non  solamente  in  bacedemonia  nascevano gli  uomini  di  guerra,  ma  in  ogni altra  parte  dove  nascessino  uomini, pur  che  si  trovasse  chi  li  sapesse  indirizzare alla  milizia,  come  si  vede  che Tulio  seppe  indirizzare  i Romani.  E VIRGILIO non  potrebbe  meglio  esprimere questa  oppinione,  nè  con  altre  parole mostrare  di  aderirsi  a quella,  dove  dice: u ...  . Desidesque  movebit Tullus  in  arma  viros. Quello  che  sia  da  notare nel  caso  dei  tre  Orazi  romani , e dei Tulio,  re  di  Roma,  e Mezio,  re  di  Alba, convennero  che  quel  popolo  fusse  signore dell’ altro,  di  cui  i soprascritti  tre uomini  vincessero.  Furono  MORTI TUTTI I CURIAZI albani,  restò  vivo  uno  degli Orazi  romani;  e per  questo,  restò  Mezio, re  albaiio,  con  il  suo  popolo,  suggello ai  Romani.  E tornando  quello ORAZIO VINCITORI IN ROMA e scontrando  una sua  sorella,  che  era  ad  uno  de’ tre  Curiazi morti  maritata,  clic  PIANGEVA LA MORTE DEL MARITO, L’AMMAZZO. Donde quello  Orazio  per  questo  fallo  fu  messo' in  giudizio,  e dopo  molte  dispute  fu  libero,  più  per  li  prìeglii  del  padre,  clic per  li  suoi  meriti.  Dove  sono  da  notare Ire  cose:  una,  che  mai  non  si  debbe con  parte  delle  sue  forze  arrischiare tutta  la  sua  fortuna  ; l’ altra,  che  non mai  in  una  città  bene  ordinata  li  devmeriti  con  li  ineriti  si  ricompensano;  la terza,  che  non  mai  sono  i partiti  savi, dove  si  debba  o possa  dubitare  della inosservanza.  Perchè,  gl’  importa  tanto a una  città  lo  essere  serva,  che  mai  non si  doveva  credere  che  alcuno  di  quelli Re  o di  quelli  Popoli  stessero  contenti che  tre  loro  cittadini  gli  avessino  sotto* messi  ; come  si  vide  che  volle  fare  Mezio:  il  quale,  benché  subito  dopo  la  vittoria de’ Romani  si  confessassi  vinto,  e promettessi  la  obedienza  a Tulio;  nondimeno nella  prima  espedizione  che  egli ebbono  a convenire  contra  i Veienli,  si vide  come  ci  cercò  d’ ingannarlo  ; come quello  che  tardi  s’era  avveduto  della temerità  del  partito  preso  da  lui.  E perchè di  questo  terzo  notabile  se  n’’è  pnr luto  assai,  parleremo  solo  degli  altri  due ne’ seguenti  duoi  capitoli. Che  non  si  debbe  mettere a pericolo  tutta  la  fortuna  e non tutte  le  forze  ; c per  questo j spesso  il
guardare  i passi  è dannoso. Non  fu  mai  giudicato  partito  savio mettere  a pericolo  tutta  la  fortuna  tua, e non  tutte  le  forze.  Questo  si  fu  in  più modi.  L’uno  è facendo  come  Tulio  e Mezio,  quando  e’  commissouo  la  fortuna tutta  della  patria  loro,  e la  virtù  di tanti  uomini  quanti  avea  l’uno  e l’altro di  costoro  negli  eserciti  suoi,  alla  virtù  e fortuna  di  tre  de’loro  cittadini,  clic  veniva ad  essere  una  minima  parte  delle  forze di  ciascuno  di  loro.  Nè  si  avvidono,  come per  questo  partito  tutta  la  fatica  che avevano  durata  i loro  antecessori  nell’ ordinare  la  repubblica,  per  farla  vivere lungamente  libera  e per  fare  i suoi  cittadini difensori  della  loro  libertà,  era quasi  che  suta  vana,  stando  nella  potenza di  sì  pochi  a perderla.  La  qual  cosa da  quelli  Re  non  potè  esser  peggio  considerata. Cadesi  ancora  in  questo  incon-
veniente quasi  sempre  per  coloro,  che, venendo  il  nemico,  disegnano  di  tenere i luoghi  diffìcili,  e guardare  i passi:  perchè quasi  sempre  questa  deliberazione sarà  dannosa,  se  giù  in  quello  luogo diffìcile  comodamente  tu  non  potessi  tenere tutte  le  forze  tue.  In  questo  casotuie  partito  è da  prendere;  ma  scndo  il luogo  aspro,  e non  vi  potendo  tenere tutte  le  forze  tue,  il  partito  è dannoso. Questo  mi  fa  giudicare  cosi  lo  esempio di  coloro  che,  essendo  assaltati  da  un nemico  potente,  ed  essendo  il  paese  loro circondato  da’  monti  e luoghi  alpestri, noti  hanno  mai  tentato  di  combattere  il nemico  in  su’  passi  e in  su’  monti,  ma sono  iti  ad  incontrarlo  di  là  da  essi:  o, quando  non  hanno  voluto  far  questo,  lo hanno  aspettato  dentro  a essi  monti,  in luoghi  benigni  e non  alpestri.  E la  cugioite  ne  è suta  la  preallegata  : perchè, non  si  polendo  condurre  alla  guardia de’ luoghi  alpestri  molli  uomini,  sì  per non  vi  potere  vivere  lungo  tempo,  si per  essere  i luoghi  stretti  e capaci  di pochi;  non  è possibile  sostenere  un  nemico clic  venga  grosso  ad  urtarti:  ed  al nemico  è facile  il  venire  grosso,  perchè la  intenzione  sua  è passare,  e non  fermarsi; ed  a chi  l’ aspetta  è impossibile aspettarlo  grosso,  avendo  ad  alloggiarsi per  più  tempo,  non  sapendo  quando  il nemico  voglia  passare  in  luoghi,  com’  io ho  detto,  stretti  e sterili.  Perdendo, adunque,  quel  passo  che  tu  ti  avevi presupposto  tenere,  e nel  quale  i tuoi popoli  e lo  esercito  tuo  confidava,  entra il  più  delle  volte  ne’ popoli  e nel  residuo delle  genti  tue  tanto  terrore,  che  senza potere  esperimentare  la  virtù  di  esse, rimani  perdente;  c così  vieni  ad  avere perduta  tutta  la  tua  fortuna  con  parte delle  tue  forze.  Ciascuno  sa  con  quanta diftìcultà  Annibaie  passasse  r Alpi  che dividono  la  Lombardia  dalia  Francia,  e con  quanta  difficoltà  passasse  quelle  che dividono  la  Lombardia  dalla  Toscana  : nondimeno  i Romani  l’aspettarono  prima in  sul  Tesino,  e dipoi  uel  piano  d’Arezzo;  e vollon  più  tosto,  che  il  loro  esercito fusse  consumato  dal  nemico  nelli luoghi  dove  poteva  vincere,  che  condurlo su  per  l’Alpi  ad  esser  destrutto dalla  malignità  del  sito.  E chi  leggerà sensatamente  tutte  le  istorie,  troverà  pochissimi virtuosi  capitani  over  tentato di  tenere  simili  passi,  e per  le  ragioni dette,  e perchè  e'  non  si  possono  chiudere tutti;  sendo  i monti  come  campagne, ed  avendo  non  solamente  le  vie consuete  e frequentate,  ma  molte  altre, le  quali  se  non  sono  note  a’ forestieri, sono  note  a’ paesani  ; con  l’aiuto  de’quali sempre  sarai  condotto  in  qualunque  luogo, contra  alla  voglia  di  citi  ti  si  oppone. Di  che  se  ne  può  addurre  uno freschissimo  esempio,  nel  T 51 5 . Quando Francesco  re  di  Francia  disegnava  passare  in  Italia  per  lu  recuperatone  dello Stalo  di  Lombardia,  il  maggiore  fondamento clic  facevano  coloro  eli’ erano  alla sua  impresa  contrari,  era  che  gli  Svizzeri lo  terrebbono  a’ passi  in  su’ monti.  E, come  per  esperienza  poi  si  vide,  quel  loro fondamento  restò  vano:  perché,  lasciato quel  re  da  parte  due  o tre  luoghi  guardati da  loro,  se  ne  venne  per  un’  altra  via incognita  ; e fu  prima  in  Italia,  e loro  appresso, che  lo  avessino  presentilo.  Talché loro  isbigottiti  si  ritirarono  in  Milano,  e tutti  i popoli  di  Lombardia  si  aderiron alle  genti  franciose;  sendo  mancali  di quella  oppinione  avevano,  che  i Franciosi dovessino  essere  tenuti  su’ monti. Le  repubbliche  bene  ordinate costituiscono  premii  c pene aJ  loro  cittadini;  ne  compensano  mai r uno  con  l*  altro. Erano  stati I MERITI D’ORAZIO GRANDISSIMI, avendo  con  la  sua  virtù  VINTI I CURIAZIl. Era  stato  il  fallo  suo  atroce,
avendo  MORTO LA SORELLA: nondimeno  dispiacque tanto  tale  omicidio  ai  Romani, che  io  condussero  a disputare  della  vita, non  ostante  che  gli  meriti  suoi  fossero tanto  grandi  c sì  freschi.  La  qual  cosa a chi  superficialmente  la  considerasse, parrebbe  uno  esempio  d’ ingratitudine popolare:  nondimeno  chi  la  esaminerà meglio,  e con  migliore  considerazione ricercherà  quali  debbono  essere  gli  ordini delle  repubbliche,  biasimerà  quel popolo  più  tosto  per  averlo  assoluto, che  per  averlo  voluto  condeunare.  E la ragione  è questa,  che  nessuna  repubblica bene  ordinata,  non  mai  cancellò  i demeriti  con  gli  meriti  de’ suoi  cittadini; ma  avendo  ordinati  i preraii  ad una  buona  opera  e le  pene  ad  una  cattiva,  ed  avendo  premiato  uno  per  aver bene  operato,  se  quel  medesimo  opera
dipoi  male,  lo  gastica,  senza  avere  riguardo alcuno  alle  sue  buone  opere.  E quando  questi  ordini  sono  bene  osservati,  una  città  vive  libera  molto  tempo; altrimenti,  sempre  rovinerà  presto.  Perchè, se  ad  un  cittadino  che  abbia  fatto qualche  egregia  opera  per  la  città,  si aggiugne,  oltre  alla  riputazione  che quella  cosa  gli  arreca,  una  audacia  e confidenza  di  potere,  senza  temer  pena, fare  qualche  opera  non  buona  ; diventerà in  brievc  tempo  tanto  insolente,  che si  risolverà  ogni  civilità.  È ben  necessario, volendo  clic  sia  temuta  la  pena per  le  triste  opere,  osservare  i premii per  le  buone;  come  si  vede  che  fece Roma.  C benché  una  repubblica  sia  povera, e possa  dare  poco,  debbe  di  quel poco  non  astenersi;  perchè  sempre  ogni piccolo  dono,  dato  ad  alcuno  per  ricompenso di  bene  ancora  che  grande,  sarà stimato,  da  chi  lo  riceve,  onorevole  e grandissimo.  È notissima  la  istoria  di ORAZIO CODE e quella  di  MUZIO SCEVOLA: come  V uno  sostenne  i nemici  sopra  un ponte,  tanto  che  si  tagliasse:  l’altro  si arse  la  mano,  avendo  errato,  volendo
ammazzare  Porscna,  re  delli  Toscani.  A costoro  per  queste  due  opere  tanto  egregie, fu  donato  dal  pubblico  due  staiora di  terra  per  ciascuno.  È nota  ancora  la istoria  di  MANLIO  Capitolino.  A costui, per  aver  salvato  il  Campidoglio  da' Galli che  vi  erano  a campo,  fu  dato  da  quelli che  insieme  eon  lui  vi  erano  assediati dentro,  una  piccola  misura  di  farina,  il quale  premio,  secondo  la  fortuna  che  allora correva  in  Roma,  fu  grande;  e di qualità  che,  mosso  poi  Manlio,  o da  invidia o dalla  sua  cattiva  natura,  a far nascere  sedizione  in  Roma,  e cercando guadagnarsi  il  popolo,  fu,  senza  rispetto alcuno  de’ suoi  meriti,  gittato  precipite da  quello  Campidoglio  ch’egli  prima,  cou tanta  sua  gloria,  aveva  salvo.
Chi  vuole  riformare  uno stalo  antico  in  una  città  libera,  ritenga almeno  l’ombra  desmodi  antichi. Colui  che  desidera  o clic  vuole  riformare uno  stato  d’una  città,  a volere  elle sia  accetto,  e poterlo  con  satisfazione  di ciascuno  mantenere,  è necessitato  a ritenere l’ombra  almanco  de’ modi  antichi, acciò  che  a’ popoli  non  paia  avere mutato  ordine,  ancora  che  in  fatto  gli ordini  nuovi  fussero  al  tutto  alieni  dai passati;  perchè  lo  universale  degli  uomini si  pasce  così  di  quel  che  pare,  come di  quello  che  è;  anzi  molte  volte  si muovono  più  per  le  cose  che  paiono, che  per  quelle  clic  sono.  Per  questa  cagione i Romani,  conoscendo  nel  principio del  loro  vivere  libero  questa  necessità, avendo  in  cambio  d’ un  Re  creali duoi  Consoli,  non  vollono  ch’egli  avessino più  clic  dodici  littori,  per  non  passare  il  numero  di  quelli  che  ministravano ai  Re.  Olirà  di  questo,  facendosi in  Roma  uno  sacrifizio  anniversario,  il quale  non  poteva  esser  fatto  se  non dalla  persona  del  Re;  e volendo  i Romani che  quel  popolo  non  avesse  a desiderare per  la  assenzia  degli  Re  alcuna cosa  dell’  antiche j,  creorono  un  capo  di detto  sacrifìcio,  il  quale  loro  chiamorono  Re  Sacrifìcolo,  e lo  sottomessono  al sommo  Sacerdote  : talmentechè  quel  popolo per  questa  via  venne  a satisfarsi di  quel  sacrifizio,  e non  avere  mai  cagione, per  mancamento  di  esso,  di  desiderare la  tornata  dei  Re.  E questo  si debbe  osservare  da  tutti  coloro  che  vogliono scancellare  uno  antico  vivere  in una  città,  e ridurla  ad  uno  vivere  nuovo c libero.  Perchè  alterando  le  cose  nuove le  menti  degli  uomini,  ti  debbi  ingegnare che  quelle  alterazioni  ritenghino  più  del-r antico  sia  possibile;  e se  i magistrati variano  e di  numero  e d'autorità  e di tempo  dagli  antichi,  che  almeno  ritengliino  il  nome.  E questo,  come  ho  detto, debbe  osservare  colui  che  vuole  ordinare  una  potenza  assoluta,  o per  via  di repubblica  o di  regno:  ma  quello  che  vuol fare  una  potestà  assoluta,  quale  dagli autori  è chiamala  tirannide,  debbe  rinnovare ogni  cosa,  come  nel  seguente  capitolo si  dirò. Un  principe  nuovo , in
i ima  città  o provincia  presa  da  lui , 1 debbe  fare  ogni  cosa  nuova. Qualunque  diventa  principe  o d’  unacittà  o d’uno  Stato,  e tanto  più  quando i fondamenti  suoi  lussino  deboli,  c non si  volga  o per  via  di  regno  o di  repubblica alla  vita  civile;  il  mcgliore  rimedio che  egli  abbia  a tenere  quel  principato, è,  sendo  egli  nuovo  principe, fare  ogni  cosa  di  nuovo  in  quello  Stalo: come  è,  nelle  città  fare  nuovi  governi con  nuovi  nomi,  con  nuove  autorità,  con nuovi  uomini;  fare  i poveri  ricchi, fece  Davil  quando  ei  diventò  Re:  qui csuricnles  implevil  bonis,  et  divites  dimirti  inanes  ; edificare  oltra  di  questo nuove  città,  disfare  delie  fatte,  cambiare gli  abitatori  da  un  luogo  ad  un  altro;
ed  in  somma,  non  lasciare  cosa  niuna intatta  in  quella  provincia,  e che  non vi  sia  nè  grado,  nè  ordine,  nè  stato,  uè ricchezza,  che  chi  la  tiene  non  la  riconosca da  te;  c pigliare  per  sua  mira Filippo  di  Macedonia,  padre  di  Alessandro, il  quale  con  questi  modi,  di  piccolo Re,  diventò  principe  di  Grecia.  E chi  scrive  di  lui,  dice  che  tramutava  gl uomini  di  provincia  in  provincia,  come i mandriani  tramutano  le  mandrie  loro. Sono  questi  modi  crudelissimi,  e nemici d’ogni  vivere,  non  solamente  cristiano, ma  umano;  e debbegli  qualunche  uomo fuggire,  c volere  piuttosto  vivere  privato, che  Re  con  tanta  rovina  degli  uomini : nondimeno,  colui  che  non  vuole pigliare  quella  prima  via  del  bene, quando  si  voglia  mantenere,  convien die  entri  in  questo  male.  >la  gli  uomini pigliano  certe  vie  del  mezzo,  clic  sono dannosissime;  perchè  non  sanno  essere nè  tutti  buoni  nè  tutti  cattivi:  come  ne seguente  capitolo,  per  esempio,  si  mostrerà. Sanno  rarissime  volle gli  uomini  essere  al  lutto  tristi  o al fulto  buoni. Papa  Giulio  secondo,  andando  na Bologna  per  cacciare  di  quello  Stato la  casa  de’Bentivogli,  la  quale  aveva  tenuto il  principato  di  quella  città  cento anni,  voleva  ancora  trarre  Giovampagoto  Buglioni  di  Perugia,  della  quale  era tiranno,  come  quello  che  aveva  congiurato contro  a tutti  gli  tiranni  che  occupavano le  terre  della  Chiesa.  E pervenuto presso  a Perugia  con  questo  animo e deliberazione  nota  a ciascuno,  non
aspettò  di  entrare  in  quella  città  con  lo esercito  suo  che  lo  guardasse,  mn  % entrò  disarmato,  non  ostante  vi  fusse dentro  Giovampagolo  con  genti  assai, quali  per  difesa  di  sè  aveva  ragunate. Sicché,  portato  da  quel  furore  con  il quale  governava  tutte  le  cose,  con  la semplice  sua  guardia  si  rimesse  nelle mani  del  nemico  ; il  quale  dipoi  ne  menò seco,  lasciando  un  governadore  in  quella citta,  che  rendesse  ragione  per  la  Chiesa. Fu  notala  dagli  uomini  prudenti  che col  papa  erano,  la  temerità  del  papa  e la  viltà  di  Giovampagolo  ; uè  potevano stimare  donde  si  venisse  che  quello  noti avesse,  con  sua  perpetua  fama,  oppresso ad  un  tratto  il  nemico  suo,  e sè  arricchito di  preda,  sendo  col  papa  tutti  li cardinali,  con  tutte  le  lor  delizie.  Nè  si poteva  credere  si  fusse  astenuto  o per bontà,  o per  conscienza  che  lo  ritenesse; perchè  in  un  petto  d’ un  uomo  facinoroso, che  si  teneva  la  sorella,  che  aveva  morti i cugini  cd  i nepoti  per  regnare,  non poteva  scendere  alcuno  pietoso  rispetto: ina  si  conchiuse,  che  gli  uomini  no sanno  essere  onorevolmente  tristi,  o perfettamente buoni;  e come  una  tristizia ha  in  sè  grandezza,  o è in  alcuna  parte generosa,  eglino  non  vi  sanno  entrare. Cosi  Giovampagolo,  il  quale  non  stimava essere  incesto  e pubblico  parricida,  non seppe,  o,  a dir  meglio,  non  ardì,  avendon giusta  occasione,  fare  una  impresa, dove  ciascuno  avesse  ammirato  l’animo suo,  e avesse  di  sè  lasciato  memoria eterna;  sendo  il  primo  che  avesse  dimostro ai  prelati,  quanto  sia  da  stimar poco  chi  vive  c regna  come  loro;  ed avesse  fatto  una  cosa,  la  cui  grandezza avesse  superato  ogni  infamia,  ogni  pericolo, clic  da  quella  potesse  depeudere. Per  qual  cagione  i Romani furono  meno  ingrati  agli  loro cittadini  che  gli  Ateniesi. Qualunque  legge  le  cose  fatte  dalle repubbliche,  troverà  in  tutte  qualche spezie  di  ingratitudine  contro  a’  suoi  citladini;  ma  ne  troverà  meno  in  Roma che  in  Atene>  e per  avventura  in  qualunque altra  repubblica.  E ricercando  la cagione  di  questo,  parlando  di  Roma  c di  Atene,  credo  accadesse  perchè  i Romani avevano  meno  cagione  di  sospettare de’ suoi  cittadini,  che  gli  Ateniesi. Perchè  a Roma,  ragionando  di  lei  dalla cacciata  dei  Re  intino  a Siila  e Mario, non  fu  mai  tolta  la  libertà  da  alcuno .suo  cittadino:  in  modo  che  in  lei  non era  grande  cagione  di  sospettare  di  loro, e,  per  conseguente,  di  offendergli  inconsideratamente. intervenne  bene  ad  Atene il  contrario:  perché,  sendole  tolta  la  libertà da  Pisistrato  nel  suo  più  florido tempo,  e sotto  uno  inganno  di  bontà  ; come  prima  la  diventò  poi  libera,  ricordandosi delle  ingiurie  ricevute  e della passata  servitù,  diventò  acerrima  vendicatrice non  solamente  degli  errori,  ma delP  ombra  degli  errori  de' suoi  cittadini. Di  qui  nacque  l’esilio  e la  morte di  tanti  eccellenti  uomini;  di  qui  Pordine  dello  ostracismo,  ed  ogni  altra  violenza che  contra  i suoi  ottimati  in  vari tempi  da  quella  città  fu  fatta.  Ed  è verissimo quello  che  dicono  questi  scrit-
tori della  civiltà:  che  i popoli  mordono più  fieramente  poi  ch’egli  hanno  recuperala la  libertà,  che  poi  che  l’hanno conservala.  Chi  considerrà  adunque, quanto  è detto,  non  biasimerà  in  questo Atene,  nè  lauderà  Roma;  ma  ne  accuserà solo  la  necessità,  per  la  diversità degli  accidenti  che  in  queste  città  nacquero. Perchè  si  vedrà,  chi  considererà  le cose  sottilmente,  che  se  a Roma  fusse siila  tolta  la  libertà  come  a Atene,  non sarebbe  stata  Roma  più  pia  verso  i suoi cittadini,  che  si  fusse  quella.  Di  che  si può  fare  verissima  conieltura  per  quello che  occorse,  dopo  la  cacciata  dei  Re, contra  a Collatino  ed  a Publio  Valerio: de’ quali  il  primo,  ancora  elicsi  trovasse a liberare  Roma,  E MANDATO IN ESILIO NON PER ALTRA CAGIONE CHE PER TENERE IL NOME DE’ TARQUINI; P altro,  avendo  sol «lato  di  sè  sospetto  per  edificare  una casa  in  sul  monte  Celio,  fu  ancora  per essere  fatto  esule.  Talché  si  può  stimare, veduto  quanto  Roma  fu  in  questi due  sospettosa  e severa,  che  Farebbe usata  la  ingratitudine  come  Atene,  se da’suoi  cittadini,  come  quella  ne’ primi tempi  ed  innanzi  allo  augumento  suo, fosse  stata  ingiuriata.  G per  non  avere a tornare  più  sopra  questa  materia  della ingratitudine,  ne  dirò  quello  ne  occorrerà nel  seguente  capitolo. Quale  sia  più  ingrato , o un  popolo j o un  principe. Egli  mi  pare,  a proposito  della  soprascritta materia,  da  discorrere  quale usi  con  maggiori  esempi  questa  ingratitudine, 0 un  popolo,  o un  principe.  E per  disputare  meglio  questa  parte,  dico, come  questo  vizio  della  ingratitudine nasce  o dalla  avarizia,  o dal  sospetto. Perchè,  quando  o un  popolo  o un  priacipe  ha  mandato  fuori  un  suo  capitano in  una  cspedizione  importante,  dove quel  capitano,  vincendola,  ne  abbia acquistata  assai  gloria  ; quel  principe  o quel  popolo  è tenuto  allo  incontro  a premiarlo: e se,  in  cambio  di  premio,  o ei lo  disonora  o ei  T offende,  mosso  dalla avarizia,  non  volendo,  ritenuto  da  questa cupidità,  satisfarli;  fa  uno  errore che  non  ha  scusa,  anzi  si  tira  dietro una  infamia  eterna.  Pure  si  trovano  molti principi  che  ci  peccano.  E Cornelio TACITO  dice,  con  questa  sentenzia,  la  cagione: Proclivius  est  inj ur ite,  quarti  beneficio vicem  cxsolvcre,  quia  grafia  oneri, ultio  in  questu  fiabe  tur.  Ma  quando ei  non  lo  premia,  o,  a dir  meglio,  l’offende, non  mosso  da  avarizia,  ma  da  sospetto; allora  merita,  e il  popolo  e il principe,  qualche  scusa.  E di  queste  ingratitudini usate  per  tal  cagione,  se  ne legge  assai  : perchè  quello  capitano  il quale  virtuosamente  ha  acquistato  uno imperio  al  suo  signore,  superando  i ne-mici,  e riempiendo  sè  di  gloria  e gli suoi  soldati  di  ricchezze;  di  necessità,  e con  i soldati  suoi,  e con  i nemici,  e coi sudditi  propri  di  quel  principe  acquista tanta  reputazione,  che  quella  vittoria non  può  sapere  di  buono  a quel  signore che  lo  ha  mandato.  G perchè  la  natura degli  uomini  è ambiziosa  e sospettosa, e non  sa  porre  modo  a ntssuna  sua  fortuna, è impossibile  che  quel  sospetto  che subito  nasce  nel  principe  dopo  la  vittoria di  quel  suo  capitano,  non  sia  da quel  medesimo  accresciuto  per  qualche suo  modo  o termine  usato  insolentemente.  Talché  il  principe  non  può  peusare  ad  altro  che  assicurarsene;  e per fare  questo,  pensa  o di  farlo  morire,  o di  torgli  la  reputazione  che  egli  si  ha guadagnala  nel  suo  esercito  e ne’ suoi popoli:  e con  ogni  industria  mostrare che  quella  vittoria  è nata  non  per  la virtù  di  quello,  ma  per  fortuna,  o per viltà  dei  nemici,  o per  prudenza  degli altri  capitani  clic  sono  stati  seco  in  tale l’azione.  Poiché  Vespasiano,  sendo  in  Giudea fu  dichiarato  dal  suo  esercito  imperadore  ; Antonio  Primo,  che  si  trovava con  un  altro  esercito  in  llliria,  prese  le parti  sue,  e ne  venne  in  Italia  contea  a Vitellio  il  quale  regnava  a Roma,  e virluosissimamente  ruppe  due  eserciti  Vitelliani,  c occupò  Roma  ; talché  Muziano, mandato  da  Vespasiano,  trovò  per  la virtù  d’Antonio  acquistato  • il  tutto,  e vinta  ogni  di ffìcultà.  11  premio  che  Autonio  ne  riportò,  fu  che  Muziano  gli tolse  subito  la  ubidienza  dello  esercito, e a poco  a poco  io  ridusse  in  Roma senza  alcuna  autorità:  talché  Antonio  ne andò  a trovare  Vespasiano,  il  quale  era ancora  in  Asia;  dal  quale  fu  in  modo ricevuto,  che,  in  breve  tempo,  ridotto  in nessun  grado,  quasi  disperato  morì.  E di  questi  esempi  ne  sono  piene  le  istorie.  Ne’  nostri  tempi,  ciascuno  che  al presente  vive,  sa  con  quanta  industria e virtù  Consalvo  Ferrante,  militando  nel regno  di  Napoli  contra  a’ Franciosi  per Ferrando  Re  di  Ragona,  conquistasse  e vincesse  quel  regno;  e come,  per  pre-
mio di  vittoria,  ne  riportò  che  Ferrando si  parti  da  Ragona,  e,  venuto  a Napoli, in  prima  gli  levò  la  obedienza  delle genti  d’ arme,  c dipoi  gli  tolse  le  fortezze, ed  appresso  lo  menò  seco  in  Spagna; dove  poco  tempo  poi,  inonorato,  mori. È tanto,  dunque,  naturale  questo  sospetto ne’ principi,  che  non  se  ne  possono difendere;  ed  è impossibile  ch’egli usino  gratitudine  a quelli  che  con  vittoria hanno  fatto  sotto  le  insegne  loro grandi  acquisti.  E da  quello  che  non  si difende  un  principe,  non  è miracolo,  nè cosa  degna  di  maggior  considerazione, s.e  un  popolo  non  se  ne  difende.  Perchè, avendo  una  città  che  vive  libera,  duoi fini,  V uno  lo  acquistare,  l’altro  il  mantenersi libera  ; conviene  che  nell’  una cosa  e nell’  altra  per  troppo  amore  erri. Quanto  agli  errori  nello  acquistare,  se ne  dirà  nel  luogo  suo.  Quanto  agli  errori per  mantenersi  libera,  sono,  intra
gli  altri,  questi:  di  offendere  quei  cittadini elicla  doverrebbe  premiare;  aver sospetto  di  quelli  in  cui  si  doverrebbe confidare.  E benché  questi  modi  in  una repubblica  venuta  alla  corruzione  siano cagione  di  grandi  mali,  c che  molle volte  piuttosto  la  viene  alla  tirannide, come  intervenne  a Roma  di  Cesare,  che per  forza  si  tolse  quello  che  la  ingratitudine gli  negava;  nondimeno  in  una repubblica  non  corrotta  sono  cagione  di gran  beni,  e fanno  che  la  ne  vi\e  libera più,  mantenendosi  per  paura  ili punizione  gli  uomini  migliori,  e meno ambiziosi.  Vero  è che  infra  tutti  i popoli che  mai  ebbero  imperio,  per  le  cagioni di  sopra  discorse,  Roma  fu  la  meno ingrata  : perchè  della  sua  ingratitudine si  può  dire  che  non  ci  sia  altro  esempio che  quello  di  Scipione;  perchè  Coriolano  c Cammillo  fumo  fatti  esuli per  ingiuria  che  l’uno  e l’altro  aveva fatto  alla  Plebe.  Ma  all’  uno  non  fu  perdonato,  per  aversi  sempre  riserbato
contea  al  Popolo  l’animo  nemico;  Paiteo  non  solamente  fu  richiamato,  ma per  tutto  il  tempo  della  sua  vita  adorato  come  principe.  Ma  la  ingratitudine usata  a Scipione,  nacque  da  un  sospetto che  i cittadini  cominciorno  avere  di  lui, che  degli  altri  non  s’era  avuto:  il  quale nacque  dalla  grandezza  del  nemico  che Scipione  aveva  vinto;  dalla  reputazione che  gli  aveva  data  la  vittoria  di  sì  lunga e pericolosa  guerra;  dalla  celerità  di essa  ; dai  favori  che  la  gioventù,  la  prudenza,  e le  altre  sue  memorabili  virtuti gli  acquistavano.  Le  quali  cose  furono tante,  che,  non  che  altro,  i magistrati  di Roma  temevano  della  sua  autorità:  la qual  cosa  spiaceva  agli  uomini  savi, come  cosa  inconsueta  in  Roma.  E parve tanto  straordinario  il  vivere  suo,  che CATONE PRISCO, riputato  santo,  fu  IL PRIMO a fargli  contra  ; e a dire  che  una  città non  si  poteva  chiamare  libera,  dove  era un  cittadino  che  fusse  temuto  dai  magistrati. Talché,  se  il  popolo  di  Roma 1 seguì  in  questo  caso  L’OPINIONE DI CATONE, merita  quella  scusa  che  di  sopra ho  detto  meritare  quelli  popoli  e quelli principi  che  per  sospetto  sono  ingrati. Conchiudendo  adunque  questo  discorso, dico,  che  usandosi  questo  vizio  della  ingratitudine o per  avarizia  o per  sospetto, si  vedrà  come  i popoli  non  mai  per T avarizia  la  usorno,  e per  sospetto  assai i manco  che  i principi,  avendo  meno  cagione di  sospettare:  come  di  sotto  si dirà. Quali  modi  debbo  usare un  principe  o una  repubblica  per  fuggire questo  vizio  della  ingratitudine  : c quali  quel  capitano  o quel  cittadino per  non  essere  oppresso  da  quella. Un  principe,  per  fuggire  questa  necessità di  avere  a vivere  con  sospetto, o esser  ingrato,  debbe  personalmente andare  nelle  espedizioni;  come  facevano nel  principio  quelli  imperadori  romani, come  fu  ne’ tempi  nostri  il  Turco,  c come hanno  fatto  e fanno  quelli  che  sono virtuosi.  Perchè,  vincendo,  la  gloria  e lo acquisto  è tutto  loro;  e quando  non  vi sono,  sendo  la  gloria  d’altrui,  non  pare loro  potere  usare  quello  acquisto,  s’ ei non  spengono  in  altrui  quella  gloria  che loro  non  hanno  saputo  guadagnarsi,  e diventare  ingrati  ed  ingiusti  : e senza dubbio,  è maggiore  la  loro  perdita,  che il  guadagno.  Ma  quando,  o per  negligenza o per  poca  prudenza,  e’ si  rimangono a casa  oziosi,  c mandano  un  capitano; io  non  ho  che  precetto  dar  loro altro,  che  quello  che  per  lor  medesimi si  sanno.  .Ma  dico  bene  a quel  capitano, giudicando  io  che  non  possa  fuggire  i morsi  della  ingratitudine,  che  faccia  una delle  due  cose:  o subito  dopo  la  vittoria lasci  lo  esercito  c rimettasi  nelle  mani del  suo  principe,  guardandosi  da  ogni atto  insolente  o ambizioso;  acciocché quello,  spogliato  d’ogni  sospetto,  abbia cagione  o di  premiarlo  o di  non  lo  offendere  : o,  quando  questo  non  gli  paia di  fare,  prenda  animosamente  la  parte contraria,  e tenga  tutti  quelli  modi  per li  quali  creda  che  quello  acquisto  sia suo  proprio  e non  del  principe  suo,  facendosi benivoli  i soldati  ed  i sudditi; e faccia  nuove  amicizie  coi  vicini,  occupi con  li  suoi  uomini  le  fortezze,  corrompa i principi  del  suo  esercito,  e di quelli  che  non  può  corrompere  si.  assicuri; e per  questi  modi  cerchi  di  punire il  suo  signore  di  quella  ingratitudine che  esso  gli  userebbe.  Altre  vie non  ci  sono:  ma,  come  di  sopra  si  disse, gli  uomini  non  sanno  essere  nè  al  tutto tristi,  nè  al  tutto  buoni:  e sempre  interviene che,  subito  dopo  la  vittoria, lasciare  lo  esercito  non  vogliono,  portarsi modestamente  non  possono,  usare termini  violenti  e che  abbino  in  sè  Tonorevole,  non  sanno;  talché,  stando  ambigui, intra  quella  loro  dimora  ed  ambiguità, sono  oppressi.  Quanto  ad  una repubblica,  volendo  fuggire  questo  vizi dello  ingrato,  non  si  può  dare  il  medesimo rimedio  che  al  principe;  cioè  che vadia,  e non  mandi,  nelle  cspedizioni sue,  sendo  necessitate  a mandare  un  suo cittadino.  Conviene,  pertanto,  che  pei*rimedio  io  le  dia,  che  la  tenga  i medesimi modi  che  tenne  la  repubblica  romana, ad  esser  meno  ingrata  che  l’altre: il  che  nacque  dai  modi  del  suo  governo. Perchè,  adoperandosi  tutta  la  città,  e gli nobili  e gli  ignobili,  nella  guerra,  surgeva sempre  in  Roma  in  ogni  età  tanti uomini  virtuosi,  ed  ornati  di  varie  vittorie, che  il  popolo  non  avea  cagione  di dubitare  di  alcuno  di  loro,  sendo  assai, c guardando  P uuo  Patirò.  E in  tanto si  mantenevano  interi,  e respettivi  di non  dare,  ombra  di  alcuna  ambizione, uè  cagione  al  popolo,  come  ambiziosi, d*  offendergli  ; che  venendo  alla  dittatura, quello  maggior  gloria  ne  riportava, che  più  tosto  la  deponeva.  E cosi,  non potendo  simili  modi  generare  sospetto, non  generavano  ingratitudine.  In  modo che,  una  repubblica  che  nott  voglia avere  cagione  d’essere  ingrata,  si  debbo governare  come  Roma  ; c uno  cittadino che  voglia  fuggire  quelli  suoi  morsi, debbc  osservare  i termini  osservati  dai cittadini  romani. Che  » capitani  romani per  errore  commesso  ?io«  furono  mai istraordinariamcnlc  puniti;  nè  furono mai  ancora  puniti  quando,  per  la ignoranza  loro  o tristi  partiti  presi da  loro,  ne  fissino  seguiti  danni  alla repubblica. 1 Romani,  non  solamente,  come  di  sopra avemo  discorso,  furono  manco  ingrati die  V altre  repubbliche,  ma  furono ancora  più  pii  e più  respctlivi  nella  punizione de’ loro  capitani  degli  eserciti, che  alcune  altre.  Perchè,  se  il  loro  errore fussc  stato  per  malizia,  e’  lo  gastigavano  umanamente;  se  gli  era  per ignoranza,  non  che  lo  punissino,  e’ lo premiavano  ed  onoravauo.  Questo  modo del  procedere  era  bene  considerato  da -loro:  perchè  e' giudicavano  che  fusse  di tanta  importanza  a quelli  che  governavano  gli  eserciti  loro,  lo  avere  l’animo libero  ed  espedito,  e senza  altri  estrinsechi rispetti  nel  pigliare  i parliti,  che non  volevano  aggiugnere  ad  una  cosa per  sè  stessa  difficile  e pericolosa,  nuove difficultà  c pericoli  ; pensando  che  aggiugttendovcli,  nessuno  potesse  essere che  operasse  mai  virtuosamente.  Verbigrazia,  e’ mandavano  uno  esercito  in Grecia  contra  a Filippo  di  Macedonia,  o in  Italia  contra  ad  Annibale,  o contro  a quelli  popoli  che  vinsono  prima.  Era questo  cupitano  clic  era  preposto  a tale espedizione,  angustiato  da  tutte  quelle cure  che  si  arrecavano  dietro  quelle faccende,  le  quali  sono  gravi  e importantissime. Ora,  se  a tali  cure  si  fus»sino  aggiunti  più  esempi  di  Romani ch’eglino  avessino  crucifissi  o altrimenti morti  quelli  che  avessino  perdute  le giornale,  egli  era  impossibile  che  quello capitano  intra  tanti  sospetti  potesse  deliberare strenuamente.  Però,  giudicando essi  che  a questi  tali  fusse  assai  pena la  ignominia  dello  avere  perduto,  non gli  vollono  con  altra  maggior  pena  sbigottire. Uno  esempio  ci  è,  quanto  allo errore  commesso  non  per  ignoranza. Erono  Sergio  e Virginio  a campo  a Veio, ciascuno  preposti  ad  una  parte  dello esercito;  de’ quali  Sergio  era  all’incontro donde  potevano  venire  i Toscani,  c Virginio  dall’  altra  parte.  Occorse  che sendo  assaltato  Sergio  dai  Falisci  e da altri  popoli,  sopportò  d’  essere  rotto  c fugato  prima  che  mandare  per  aiuto  a Virginio.  E dall’altra  parte,  Virginio aspettando  che  si  umiliasse,  volle  piuttosto vedere,  il  disonore  della  patria  sua,
e la  rovina  di  quello  esercito,  clic  soccorrerlo. Caso  veramente  esemplare  e tristo,  c da  fare  non  buona  coniettura della  Repubblica  romana,  se  1’  uno  c l’altro non  fusscro  stati  gasligali.  Vero  è che,  dove  un’altra  repubblica  gli  a r ebbe puniti  di  pena  capitale,  quella  gli  punì in  danari.  II  che  nacque  non  perchè  i peccali  loro  non  meritassino  maggior punizione,  ma  perchè  -gli  Romani  voiiono  in  questo  caso,  per  le  ragioni  già dette,  mantenere  gli  antichi  costumi  loro. E quanto  agii  errori  per  ignoranza,  non ci  è il  più  bello  esempio  che  quello  di VARRRONE (si veda):  per  la  temerità  del  quale  sendo rotti  i Romani  a Canne  da  Annibaie, dove  quella  Repubblica  portò  pericolo della  sua  libertà;  nondimeno,  perchè  vi fu  ignoranza  e non  malizia,  non  solamente  non  lo  gastigorno  ma  lo  onororno,  e gli  andò  incontro  nella  tornata sua  in  Roma  tutto  l’Ordine  senatorio; e non  lo  potendo  ringraziare  della  zuffa, Io  ringraziarono  eh’  egli  era  tornato  in Roma,  c non  si  era  disperato  delle  cose romane.  Quando  Papirio  Cursore  volevu fare  morire  Fabio,  per  avere  contea  al suo  comandamento  combattuto  coi  Sanniti; intra  le  altre  ragioni  che  dal  patire  di  Fabio  erano  assegnale  conira  alla ostinazione  del  Dittatore,  era  che  il  Popolo romano  in  alcuna  perdita  de’ suoi Capitani  non  aveva  fatto  mai  quello  che Papirio  nella  vittoria  voleva  fare. XXXII. Una  repubblica  o uno principe  non  < lebbe  differire  a beneficare gli  uomini  nelle  sue  necessitati. Ancora  che  ai  Romani  succedesse  felicemente essere  liberali  al  Popolo,  sopravvenendo il  pericolo,  quando  Porsena  venne  ad  assaltare  Roma  per rimettere  i Tarquini  ; dove  il  Senato  dubitando della  Plebe,  che  non  volesse  piuttosto accettare  i Re  che  sostenere  la guerra,  per  assicurarsene  la  sgravò  delle gabelle  del  sale,  e d’ogni  gravezza  ; dicendo come  i poveri  assai  operavano  in benefizio  pubblico  se  ci  nutrivano  i lorofigliuoli  ; e che  per  questo  benefizio  quel Popolo  si  esponesse  a sopportare  ossidione,  fame  e guerra:  non  sia  alcuno
che,  confidatosi  in  questo  esempio,  differisca ne’tempi  de’  pericoli  a guadagnarsi il  Popolo;  perchè  mai  gli  riuscirà  quello che  riuscì  ni  Romani.  Perchè  lo  universale giudicherà  non  avere  quel  bene  date,  ma  dogli  avversari  tuoi;  e dovendo temere  che,  passata  la  necessità,  tu  ritolga loro  quello  che  hai  forzatamente loro  dato,  non  arà  tcco  obbligo  alcuno. E la  cagione  perchè  ai  Romani  tornò bene  questo  partilo,  fu  perchè  lo  Stato era  nuovo,  e non  per  ancora  fermo;  ed aveva  veduto  quel  Popolo,  come  innanzi si  erano  fatte  leggi  in  benefizio  suo, come  quella  delia  appellagione  alla  Plebe; in  modo  che  ei  potette  persuadersi  che quel  bene  gli  era  fatto,  non  era  tanto causato  dalla  venuta  dei  nemici,  quanto dalla  disposizione  del  Senato  in  beneficarli. Olirà  di  questo,  la  memoria  dei Re  era  fresca;  dai  quali  erano  stati  in molti  modi  vilipesi  ed  ingiuriati.  E per-chè simili  cagioni  accaggiono  rade  volte, occorrerà  ancora  rade  volte  che  simil remedi  giovino.  Però,  debbe  qualunque tiene  stato,  cosi  repubblica  come  principe, considerare  inuanzi,  quali  tempi gli  possono  venire  addosso  contrari,  c di  quali  uomini  ne’ tempi  avversi  si  può avere  di  bisogno;  e dipoi  vivere  con loro  in  quel  modo  che  giudica,  sopravvegnente  qualunque  caso,  essere  necessitato vivere.  E quello  che  altrimenti  si governa,  o principe  o repubblica,  e massime un  principe;  e poi  in  sul  fatto crede,  quando  il  pericolo  sopravviene, coi  benefìzii  riguadagnarsi  gli  uomini; se  ne  inganna  : perchè  non  solamente non  se  ne  assicura,  ma  accelera  la  sua rovina. Quando  uno  inconveniente è cresciuto  o in  uno  Stalo  o con  tra  ad  uno  Stato  , è più  salutifero partito  temporeggiarlo  che  urtarlo. Crescendo  In  Repubblica  romana  in reputazione,  forze  ed  imperio,  i vicini,  i quali  prima  non  avevano  pensato  quanto quella  nuova  Repubblica  potesse  arrecare loro  di  danno,  coniinciorno,  ma tardi,  a conoscere  lo  errore  loro  ; e volendo rimediare  a quello  che  prima  non avevano  rimediato,  conspirorno  ben  quaranta popoli  contra  a Roma  : donde  i Romani,  intra  gli  altri  rimedi  soliti  farsi da  loro  negli  urgenti  pericoli,  si  volsono a creare  il  Dittatore  ; cioè  dare  potestà ad  uno  uomo  che  senza  alcuna  consulta potesse  deliberare,  e senza  alcuna  appellagione  potesse  eseguire  le  sue  deliberazioni. Il  quale  rimedio  come  allora fu  utile,  e fu  cagione  che  vincessero gl*  imminenti  pericoli,  cosi  fu  sempre utilissimo  in  tutti  quelli  accidenti  che,
nello  augumento  dello  imperio,  in  qualunque tempo  surgessino  contra  alla  Repubblica. Sopra  il  qual  accidente  è da discorrere  prima,  come  quando  uno  inconveniente che  surga,  o in  una  repubblica o contra  ad  una  repubblica,  causato  da  cagione  intrinseca  o estrinseca, è diventalo  lauto  grande  clic  e’ comincia far  paura  a ciascuno;  è mollo  più  sicuro partilo  temporeggiarsi  con  quello, che  tentare  di  estinguerlo.  Perchè,  quasi sempre  coloro  che  tentano  di  ammorzarlo, fanno  le  sue  forze  maggiori,  e fanno  accelerare  quel  male  che  da  quello si  suspettava.  E di  questi  simili  accidenti ne  nasce  nella  repubblica  più spesso  per  cagione  intrinseca,  che  estrinseca : dove  molte  volte,  o e’ si  lascia  pigliare ad  uno  cittadino  più  forze  che non  è ragionevole,  o e’  si  comincia  a corrompere  uua  legge,  la  quale  è il  nervo e la  vita  del  vivere  libero;  e lasciasi trascorrere  questo  errore  in  tanto,  che gli  è più  dannoso  partito  il  volervi  rimediare, che  lasciarlo  seguire.  E tanto più  è difficile  il  conoscere  questi  inconvenienti quando  e’ nascono,  quanto  e’pare  più  naturale  agli  uomini  favorire sempre  i principii  delle  cose.  E tali  favori possono,  più  che  in  alcuna  altra cosa,  nelle  opere  che  paiono  che  abbino in  sè  qualche  virtù,  e siano  operale da’ giovani:  perchè,  se  in  una  rcpubblica  si  vede  surgere  un  giovane  nobile, quale  abbia  in  sè  virtù  istraordinaria, lutti  gli  occhi  de’  cittadini  si  cominciano a voltare  verso  di  lui,  e concorrono senza  alcuno  rispetto  ad  onorarlo  ; in modo  che,  se  in  quello  è punto  d*  ambizione, accozzati  i favori  che  gli  dà  la natura  e questo  accidente,  viene  subito in  luogo,  che  quando  i cittadini  si  avveggono dell'errore  loro,  hanno  pochi rimedi  ad  ovviarvi;  e volendo  quelli tauti  ch’egli  hanno,  operarli,  non  fanno altro  che  accelerare  la  potenza  sua.  Di questo  se  ne  potrebbe  addurre  assai esempi,  ma  io  ne  voglio  dare  solamente uno  della  citta  nostra.  Cosimo  de’ MEDICI, dal  quale  la  casa  de’  Medici  in  la  nostra città  ebbe  il  principio  della  sua  grandezza, venne  in  tanta  reputazione  col favore  che  gli  dette  la  sua  prudenza  e la  ignoranza  degli  altri  cittadini,  che  ei cominciò  a fare  paura  allo  Stato;  in modo  clic  gli  altri  cittadini  giudicavano l’offenderlo  pericoloso,  ed  il  lasciarlo stare  cosa  pericolosissima.  Ma  vivendo in  quei  tempi  Niccolò  da  Uzzano,'  il quale  nelle  cose  civili  era  tenuto  uomo espertissimo,  ed  avendo  fatto  il  primo errore  di  non  conoscere  i pericoli  clic dalla  reputazione  di  Cosimo  potevano nascere;  mentre  che  visse,  non  permesse mai  clic  si  facesse  il  secondo,  cioè  che si  tentasse  di  volerlo  spegnere,  giudicando tale  tentazione  essere  al  tutto  la rovina  dello  Stato  loro;  come  si  vide  in fatto  clic  fu,  dopo  la  sua  morte  : perchè, non  osservando  quelli  cittadini  che  rimasono,  questo  suo  consiglio,  si  feciono forti  contra  a Cosimo,  e lo  cacciorno  da Firenze.  Donde  ne  nacque  che  la  sua parte,  per  questa  ingiuria  risentitasi, poco  dipoi  lo  chiamò,  e lo  fece  principe della  repubblica:  al  quale  grado  senza quella  manifesta  opposizione  non  sarebbe mai  potuto  ascendere.  Questo  medesimo intervenne  a Roma  con  Cesare;  chè  favorita  da  Pompeio  e dagli  altri  quella sua  virtù,  si  convertì  poco  dipoi  quel favore  in  paura:  di  che  fa  testimonio CICERONE,  dicendo  che  Pompeio  aveva tardi  cominciato  a temer  Cesare.  La qual  paura  fece  che  pensorono  ai  rimedi ; e gli  rimedi  che  feciono,  accelerorno  la  rovina  della  loro  Repubblica. Dico  adunque,  che  dipoi  che  gii  è difficile conoscere  questi  mali  quando  e’surgono,  causata  questa  difficultà  da  uno inganno  che  ti  fanno  le  cose  in  principio ; è più  savio  partito  il  temporeggiarle poiché  le  si  conoscono,  che  l’oppugnarle : perchè  temporeggiaudole,  o per  lor  medesime  si  spengono,  o almeno il  male  si  differisce  in  più  lungo tempo.  E in  tutte  le  cose  debbono  aprir gli  occhi  i principi  che  disegnano  cancellarle, o alle  forze  ed  impeto  loro  opporsi; di  non  dare  loro,  in  cambio  di detrimento,  augumento  ; e credendo  sospingere una  cosa,  tirarsela  dietro,  ovvero soffocare  una  pianta  con  anuaffiarla.  Ma  si  debbe  considerare  bene  le forze  del  malore,  c quando  ti  vedi  suffizientc  a sanarlo,  mettervili  senza  rispetto: altrimenti,  lasciarlo  stare,  nò  in alcun  modo  tentarlo.  Perchè  interverrebbe, come  di  sopra  si  discorre,  e come  intervenne  a’ vicini  di  Roma:  ai quali,  poiché  Roma  era  cresciuta  in tanta  potenza,  era  più  salutifero  con gli  modi  della  pace  cercare  di  placarla c ritenerla  addietro,  che  coi  modi della  guerra  farla  pensare  a nuovi  ordini e nuove  difese.  Perchè  quella  loro congiura  non  fece  altro  che  farli  più uniti,  più  gagliardi,  e pensare  a modi nuovi,  medinoti  i quali  in  più  breve tempo  ampliorono  la  potenza  loro.  Intra’quali  fu  la  creazione  del  Dittatore; per  lo  quale  nuovo  ordine  non  solamente superorono  gli  imminenti  pericoli, ma  fu  cagione  di  ovviare  a infiniti mali , ne’  quali  senza  quello  rimedio quella  repubblica  sarebbe  incorsa, v-.j.  ;•  vk'u Urlimi*  llìl  tòt* XXXIV.  — l/autorità  dittatoria  fece bene , c non  danno , alla  repubblica romana:  c come  le  autorità  che  i cittadini si  tolgono s non  quelle  che  sono loro  dai  suffragi  liberi  date , sono  alla vita  civile  perniciose. E’  sono  stati  dannati  da  alcuno  scrittore quelli  Romani  che  trovorono  in quella  città  il  modo  di  creare  il  Dittatore, come  cosa  che  fusse  cagione,  col tempo,  della  tirannide  di  Roma;  allegando, come  il  primo  tiranno  che  fusse in  quella  città,  la  comandò  sotto  questo titolo  dittatorio;  dicendo  che  se  non  vi fusse  stato  questo,  Cesare  non  arebbe potuto  sotto  alcuno  titolo  pubblico  adonestare la  sua  tirannide.  La  qual  cosa  non fu  bene  da  colui  che  tenne  questa  oppinione  esaminala,  e fu  fuori  d’ogni  ragione creduta.  Perchè,  e’  non  fu  il  nome nè  il  grado  del  Dittatore  che  facesse serva  Roma,  ma  fu  l’ autorità  presa  dai cittadini  per  ia  diuturnità  dello  imperio: c se  in  Roma  fusse  mancato  il  nome dittatorio,  ne  arebbon  preso  un  altro; perchè  e’  sono  le  forze  che  facilmente s’acquistano  i nomi,  non  i nomi  le  forze. si  vedde  che  ’1  Dittatore,  mentre che  fu  dato  secondo  gli  ordini  pubblici, c non  per  autorità  propria,  fece  sempre bene  alla  città.  Perchè  e’  nuocono  alle repubbliche  i magistrati  che  si  fanno  e l’autoritati  che  si  danno  per  vie  istraor-dinarie;  non  quelle  che  vengono  per  vieordinarie:  come  si  vede  che  segui  inRoma  in  tanto  progresso  di  tempo,  chemai  alcuno  Dittatore  fece  se  non  benealla  Repubblica.  Di  che  ce  ne  sono  ra-gioni evidentissime.  Prima,  perchè  a vo-lere che  un  cittadino  possa  offendere  epigliarsi  autorità  istraordinaria,  convienech’egli  abbia  molte  qualità  le  quali  inuna  repubblica  non  corrotta  non  puòmai  avere:  perchè  gli  bisogna  esserericchissimo,  ed  avere  assai  aderenti  epartigiani,  i quali  non  può  avere  dovele  leggi  si  osservano;  e quando  pure  vgli  avesse,  simili  uomini  sono  in  modoformidabili,  che  i suffragi  liberi  nonconcorrono  in  quelli.  Oltra  di  questo,il  Dittatore  era  fatto  a tempo,  e nonin  perpetuo,  e per  ovviare  solamente  quella  cagione  mediante  la  quale  eracreato  ; e la  sua  autorità  si  estendevain  potere  deliberare  per  sè  stesso  circai modi  di  quello  urgente  pericolo,  e fareogni  cosa  senza  consulta,  e punire  cia-scuno senza  appellagione:  ma  non  po-teva far  cosa  che  fusse  in  diminuzionedello  Stato;  come  sarebbe  stato  torreautorità  al  Senato  o al  Popolo,  disfaregli  ordini  vecchi  della  città,  e farnede’  nuovi.  In  modo  che,  raccozzato  ilbreve  tempo  della  sua  dittatura,  c l’ autorità limitata  che  egli  aveva,  ed  il  po-polo romano  non  corrotto;  era  impos-sibile ch’egli  uscisse  de’ termini  suoi,  enoccsse  alla  città:  e per  esperienza  sivede  che  sempre  mai  giovò.  E veramen-te, infra  gli  altri  ordini  romani,  questoè uno  che  merita  esser  consideralo,  econnumerato  infra  quelli  che  furono  ca-gione della  grandezza  di  tanto  imperio;perchè  senza  un  simile  ordine  le  cittàcon  difficoltà  usciranno  degli  accidentiistra ordinari  : perchè  gli  ordini  consuetinelle  repubbliche  hanno  il  moto  tardo(non  potendo  alcuno  consiglio  nè  alcunomagistrato  per  sè  stesso  operare  ognicosa,  ma  avendo  in  molle  cose  bisognol’uno  dell’altro),  e perchè  nel  raccozzareinsieme  questi  voleri  va  tempo,  sono  irimedi  loro  pericolosissimi,  quando  eglihanno  a rimediare  a una  cosa  che  nonaspetti  tempo.  E però  le  repubblichedebbono  intra’  loro  ordini  avere  un  sl-mile modo  : e la  Repubblica  veneziana,la  quale  intra  le  moderne  repubblicheè eccellente,  ha  riservato  autorità  a pa-chi  cittadini,  che  ne’  bisogni  urgenti,senza  maggiore  consulta,  tutti  d’accordopossino  deliberare.  Perchè  quando  inuna  repubblica  manca  un  simil  modo
è necessario,  o servando  gli  ordini  ro-vinate,  o per  non  rovinare  rompergli.Ed  in  una  repubblica  non  vorrebbe  maiaccader  cosa,  che  coi  modi  estraordinaris’ avesse  a governare.  Perchè,  ancorache  il  modo  istraordinario  per  allorafacesse  bene,  nondimeno  lo  esempio  famale  ; perchè  si  mette  una  usanza  dirompere  gli  ordini  per  bene  che  poisotto  quel  colore  si  rompono  per  male.Talché  mai  Ha  perfetta  una  repubblica,se  con  le  leggi  sue  non  ha  provvisto  atutto,  e ad  ogni  accidente  posto  ti  ri*medio,  e dato  il  modo  a governarlo.  Eperò,  conchiudendo,  dico  che  quelle  re-pubbliche le  quali  negli  urgenti  pericolinon  hanno  rifugio  o al  Dittatore  o asimili  autoritati,  sempre  ne’  gravi  acci-denti rovineranno.  È da  notare  in  que-sto nuovo  ordine,  il  modo  dello  elegger-lo, quanto  dai  Romani  fu  saviamenteprovvisto.  Perchè,  sendo  la  creazionedel  Dittatore  con  qualche  vergogna  deiConsoli,  avendo,  di  capi  della  città,  avenire  sotto  una  ubidienza  come  gli  al-  tri  ; e presupponendo  che  di  questoavesse  a nascere  isdegno  fra  i cittadini; vollono  che  l' autorità  dello  eleggerlo fusse  nei  Consoli:  pensando  che  quando V accidente  venisse,  che  Roma  avesse bisogno  di  questa  regia  potestà,  e’  lo avessino  a fare  volentieri;  e facendolo loro,  che  dolessi  lor  meno.  Perchè  le ferite  ed  ogni  altro  male  che  Y uomo  si fa  da  sè  spontaneamente  e per  elezione, dolgono  di  gran  lunga  tneuo,  che  quelle che  ti  sono  fatte  da  altri.  Ancora  che poi  negli  ultimi  tempi  i Romani  usassino,  in  cambio  del  Dittatore,  di  dare tale  autorità  al  Cousole,  con  queste  parole: Videat  Constila  ne  Respublica  quiddetrimenti  captai . E per  tornare  alla materia  nostra,  conchiudo,  come  i vicini di  Roma  cercando  opprimergli,  gli  fcciono  ordinare,  non  solamente  a potersi difendere,  ma  a potere,  con  più  forza, più  consiglio  e più  autorità,  offender loro. XXXV.- — La  cagione  perchè  in Roma  la  creazione  del  decemvirato  fa nociva  alla  libertà  di  quella  repubblicaj  non  ostante  che  fosse  creato po'  suffragi  pubblichi  e liberi. E’ pare  contrario  a quel  clic  di  sopra è discorso;  che  quella  autorità  che  si occupa  con  violenza,  non  quella  eh’ è data  con  gli  suffragi,  nuoce  alle  repubbliche; la  elezione  dei  dicci  cittadini  creati dal  Popolo  romano  per  fare  le  leggi  in Roma:  i quali  ne  diventorno  col  tempo tiranni,  e senza  alcun  rispetto  occuporno  la  libertà  di  quella.  Dove  si  debbe considerare  i modi  del  dare  {'autorità, ed  il  tempo  perchè  la  si  dà.  E quando e’ si  dia  autorità  libera,  col  tempo  lungo, chiamando  il  tempo  lungo  un  anno,  o più;  sempre  fia  pericolosa;  e farà  gli effetti  o buoni  o tristi,  secondo  che  fieno tristi  o buoni  coloro  a chi  la  sarà  data. E se  si  considera  l’autorità  che  ebber i Dicci,  e quella  che  avevano  i Dittalori,  si  vedrò  senza  comparazione  quella de’ Dieci  maggiore.  Perchè,  creato  il  Dittatore, rimanevano  i Tribuni,  i Consoli, il  Senato,  con  la  loro  autorità  ; nò  il Dittatore  la  poteva  torre  loro:  e s* egli avesse  potuto  privare  uno  del  consolato, uno  del  senato,  ei  non  poteva  annullare l’ordine  senatorio,  e fare  nuove leggi.  In  modo  che  il  Senato,  i Consoli ed  i Tribuni,  restando  con  l’autorità loro,  venivano  ad  essere  come  sua  guardia, a farlo  non  uscire  della  via  diritta. Ma  nella  creazione  dei  Dieci  occorse tutto  il  contrario  ; perchè  gli  annullorno i Consoli  cd  i Tribuni,  dettono  loro  autorità di  fare  leggi,  ed  ogni  altra  cosa, come  il  Popolo  romano.  Talché,  trovandosi soli,  senza  Consoli,  senza  Tribuni, senza  appcllagionc  al  Popolo  ; e per questo  non  venendo  ad  avere  chi  osscrvassegli,  ei  poterono,  il  secondo  anno, mossi  dall’  ambizione  di  Appio,  diventare insolenti.  E per  questo  si  debbo  notare, che  quando  e’ si  è detto  che  una  autorità  data  da’  suffragi  liberi,  non  offese mai  alcuna  repubblica;  si  presuppone che  un  popolo  non  si  conduca inai  a darla,  se  non  con  le  debite  circonstanzie,  e ne’ debiti  tempi:  ma quando,  o per  essere  ingannato,  o per qualche  altra  cagione  che  lo  accecasse, e’ si  conducesse  a darla  imprudentemente, e nel  modo  che  ’l  Popolo  romano  la dette  a’  Dieci,  gl’  interverria  sempre  come a quello.  Questo  si  prova  facilmente, considerando  quali  cagioni  mantenessero i Dittatori  buoni,  e quali  facessero  i Dieci  cattivi;  e considerando  ancora, come  hanno  fatto  quelle  repubbliche  che sono  state  tenute  bene  ordinate,  nel  dare 1*  autorità  per  lungo  tempo;  come  davano gli  Spartani  agli  loro  Re,  e come  danno i Veniziani  ai  loro  Duci:  perchè  si  vedrà, all*  uno  ed  all’  altro  modo  di  costoro esser  poste  guardie,  che  facevano  che  i Re  non  potevano  usare  male  quella  autorità. Nè  giova  in  questo  caso,  che  la materia  non  sia  corrotta;  perchè  una autorità  assoluta,  in  brevissimo  tempo corrompe  la  materia,  c si  fa  amici  c partigiani.  Nè  gli  nuoce  o esser  povero, o non  avere  parenti;  perché  le  ricchezze cd  ogni  altro  favore  subito  gli  corre dietro:  come  particolarmente  nella  creazione de’ detti  Dieci  discorreremo. XXXVI.  — Pioti  debbono  i cittadini che  hanno  avuti  » maggiori  onori, sdegnarsi  de*  minori. Avevano  i Romani  fatti  Marco  Fabio e G.  Manilio  consoli,  e vinta  una  gloriosissima giornata  contea  a’  Veicnti  e gli Etruschi;  nella  quale  fu  morto  Quinto Fabio,  fratello  del  consolo,  quale  Io  anno davanti  era  stato  consolo.  Dove  si  debbe  considerare,  quanto  gli  ordini  di quella  città  erano  atti  a farla  grande; c quanto  le  altre  repubbliche  che  si  discostano dai  modi  suoi,  s’ingannano. Perchè,  ancora  che  i Romani  fussino amatori  grandi  della  gloria,  nondimeno
non  stimavano  cosa  disonorevole  ubbidire ora  a chi  altra  volta  essi  avevano comandato,  e trovarsi  a servire  in  quello esercito  del  quale  erano  stati  principi. 11  qual  costume  è contrario  alla  oppinione,  ordini  e modi  de’  cittadini  de’tempi nostri:  ed  in  Vinegia  è ancora  questo errore,  che  uno  cittadino  avendo  avuto un  grado  grande,  si  vergogni  di  accettare uno  minore;  e la  citta  gli  consente che  se  ne  possa  discostare.  La  qual  cosa, quando  fusse  onorevole  per  il  privato, è al  tutto  inutile  per  il  pubblico.  Perchè più  speranza  debbe  avere  una  repubblica, e più  confidare  in  uno  cittadino che  da  un  grado  grande  scenda  a governare  uno  minore,  che  in  quello clic  da  uno  minore  salga  a governare  un maggiore.  Perchè  a costui  non  può  ragionevolmente credere,  se  non  li  vede uomini  intorno,  i qiiali  siano  di  tanta riverenza  o di  tanta  virtù,  che  la  novità di  colui  possa  essere  con  il  consiglio  ed autorità  loro  moderata.  E quando  in Roma  fosse  stata  la  consuetudine  quale in  Vinegia,  e nell'  altre  repubbliche  c regni  moderni,  che  chi  era  stato  una volta  Consolo,  non  volesse  mai  più  andare negli  eserciti  se  non  consolo;  ne sarebbono  nate  infinite  cose  in  disfavore del  viver  libero;  e per  gli  errori  che arebbono  fatti  gli  uomini  nuovi,  e per P ambizione  che  loro  arebbono  potuto usare  meglio,  non  avendo  uomini  intorno, nel  conspetto  de’ quali  ei  temessino errare;  e cosi  sarebbero  venuti  ad  essere più  sciolti  : il  che  sarebbe  tornato tutto  in  detrimento  pubblico. XXXVII.  — Quali  scandali  partorì in  Roma  la  legge  agraria  : e come fare  una  logge  in  una  repubblica  che risguardi  assai  indietro > e sia  conira ad  una  consuetudine  antica  della  città , è scandalosissimo. Egli  è sentenza  degli  antichi  scrittori, come  gli  uomini  sogliono  affliggersi  nel male  c stuccarsi  nel  benej  e come  dul1’  una  e dall*  altra  di  queste  due  passioni nascono  i medesimi  effetti.  Perchè,  qualunque volta  è tolto  agli  uomini  il  combattere per  necessità,  combattono  per ambizione:  la  quale  è tanto  potente  ne’ petti  umani,  che  mai,  a qualunque  grado si  salgano,  gli  abbandona.  La  cagione  è, perchè  la  natura  ha  creati  gli  uomini in  modo,  che  possono  desiderare  ogni cosa,  e non  possono  conseguire  ogni cosa  : talché,  essendo  sempre  maggiore il  desiderio  che  la  potenza  dello  acquistare, ne  risulta  la  mala  contentezza  di quello  che  si  possiede,  e la  poca  satisfazionc  di  esso.  Da  questo  nasce  il  variare della  fortuna  loro:  perchè  desiderando gli  uomini,  parte  di  avere  più, parte  temendo  di  non  perdere  lo  acquistato, si  viene  alle  inimicizie  ed  alla guerra  ; dalla  quale  nasce  la  rovina  di quella  provincia,  e la  esaltazione  di  quel1’  altra.  Questo  discorso  ho  fatto  perchè alla  Plebe  romana  non  bastò  assicurarsi de’  Nobili  per  la  creazione  de’  Tribuni, al  quale  desiderio  fu  constretta  per  necessità ; che  lei  subito,  ottenuto  quello, cominciò  a combattere  per  ambizione, e volere  con  la  Nobiltà  dividere  gli  onori e le  sustanze,  come  cosa  stimata  più dagli  uomini.  Da  questo  nacque  il  morbo che  partorì  la  contenzione  della  legge agraria,  ed  in  (ine  fu  causa  della  distruzione della  Repubblica  romana.  E perchè le  repubbliche  bene  ordinate  hanno a tenere  ricco  il  pubblico,  e li  loro  cittadini poveri  ; convenne  che  fusse  nella città  di  Roma  difetto  in  questa  legge: la  quale  o non  fusse  fatta  nel  principio in  modo  che  la  non  si  avesse  ogni  di  a ritrattare;  o che  la  si  differisse  tanto in  farla,  che  fusse  scandotoso  il  riguardarsi indietro;  o sendo  ordinata  bene da  prima,  era  stata  poi  dall’  uso  corrotta; talché,  in  qualunque  modo  si  fusse, mai  non  si  parlò  di  questa  legge  in Roma,  che  quella  città  non  andasse  sottosopra. Aveva  questa  legge  duoi  capi principali.  Ter  l’ uno  si  disponeva  clic non  si  potesse  possedere  per  alcun  cittadino più  che  tanti  iugeri  di  terra; per  V altro,  che  i campi  di  che  si  privavano i nimici,  si  dividessino  intra  il popolo  romano.  Veniva  pertanto  a fare di  duoi  sorte  offese  ai  Nobili:  perchè quelli  che  possedevano  più  beni  non permetteva  la  legge  (quali  erano  la  maggior  parte  de’  Nobili),  ne  avevano  ad  esser privi  ; e dividendosi  intra  la  Plebe i beni  de’  nimici,  si  toglieva  a quelli  la via  dello  arricchire.  Sicché,  venendo  ad essere  queste  offese  contra  ad  uomini potenti,  e che  pareva  loro,  contrastandola, difendere  il  pubblico;  qualunque volta,  com’ è detto,  si  ricordava,  andava sottosopra  quella  città  : ed  i Nobili  con pazienza  ed  industria  la  temporeggiavano, o con  trac  fuora  un  esercito,  o che a quel  Tribuno  che  la  proponeva  si  opponesse uno  altro  Tribuno;  o talvolta cederne  parte;  ovvero  mandare  una  colonia in  quel  luogo  che  si  avesse  a distribuire:  come  intervenne  del  contado di  Anzio,  per  il  quale  surgendo  questa disputa  della  legge,  si  mandò  in  quel luogo  una  colonia  traila  di  Roma,  alla quale  si  consegnasse  detto  contado.  Dove L.  usa  un  termine  notabile, dicendo  clic  con  ditTìcultà  si  trovò  in Roma  eli i desse  il  nome  per  ire  in  detta colonia:  tanto  era  quella  Plebe  più  pronta a volere  desiderare  le  cose  in  Homa, che  a possederle  in  Anzio  ! Andò  questo umore  di  questa  legge  così  travagliandosi un  tempo,  tanto  che  i Romani  cominciarono a condurre  le  loro  armi  nelle estreme  parti  di  Italia,  o fuori  di  Italia; dopo  al  qual  tempo  parve  che  la  restasse. Il  che  nacque  perchè  i campi  che  possedevano i nimici  di  Roma  essendo  discosti dagli  occhi  della  Plebe,  cd  in  luogo dove  non  gli  era  facile  il  coltivargli, veniva  meno  ad  esserne  desiderosa:  ed ancora  i Romani  erano  meno  punitori tic’ loro  nemici  in  siinil  modo;  e quando pure  spogliavano  alcuna  terra  del  suo contado,  vi  distribuivano  colonia.  Tanto che  per  tali  cagioni  questa  legge  stette come  addormentata  inOno  a’  Gracchi: da’  quali  essendo  poi  svegliata,  rovinò al  tutto  la  libertà  romana;  perchè  la trovò  raddoppiata  la  potenza  de’  suoi avversari,  e si  accese  per  questo  tante odio  intra  la  Plebe  ed  il  Senato,  che  si venne  all’  armi  ed  al  sangue,  fuor  d’ogni modo  e costume  civile.  Talché,  non  potendo i pubblici  magistrati  rimediarvi, nè  sperando  più  alcuna  delle  fazioni  in quelli,  si  ricorse  a’ rimedi  privati,  e ciascuna delle  parti  pensò  di  farsi  uno  capo che  la  difendesse.  Pervenne  in  questo scandalo  e disordine  la  Plebe,  e volse  la sua  riputazione  a Mario,  tanto  che  la  lo fece  quattro  volte  Consolo;  ed  in  tanto continuò  con  pochi  intervalli  il  suo  consolato, che  si  potette  per  sè  stesso  far Consolo  tre  altre  volte.  Contra  alla  qual peste  non  avendo  la  Nobiltà  alcuno  rimedio, si  volse  a favorir  Siila;  e fatto quello  capo  della  parte  sua,  vennero  alle guerre  civili  * e dopo  molto  sangue  e variar  di  fortuna,  rimase  superiore  la Nobiltà.  Risuscitorono  poi  questi  umori a tempo  di  Cesare  c di  Pompeo;  perchè, fattosi  Cesare  capo  della  parte  di  Mario, c Pompeo  di  quella  di  Siila,  venendo alle  mani  rimase  supcriore  GIULIO CESARE: IL QUALE E IL PRIMO TIRANNO IN ROMA, TALCHE MAI E POI LIBERA QUELLA CITTA. Tale,  adunque, principio  e fine  ebbe  la  legge  agraria. E benché  noi  mostrassimo  altrove, come  le  inimicizie  di  Roma  intra  il  Senato c la  Plebe  mantenessero  libera  Roma, per  nascerne  da  quelle  leggi  in  favore della  libertà  ; e per  questo  paia disforme  a tale  conclusione  il  fine  di questa  legge  agraria  ; dico  come,  per questo,  io  non  mi  rimuovo  da  tale  oppinionc:  perchè  egli  è tanta  P ambizione de’  grandi,  che  se  per  varie  vie  ed in  vari  modi  la  non  ò in  una  città  sbattuta, tosto  riduce  quella  città  alla  rovina sua.  In  modo  che,  se  la  contenzione  della legge  agraria  penò  trecento  anni  a fare Roma  serva,  si  sarebbe  condotta,  per avventura,  molto  più  tosto  iti  servitù, quando  la  Plebe,  e con  questa  legge  c con  altri  suoi  appetiti,  non  avesse  sempre frenato  la  ambizione  de’  Nobili.  Vedasi per  questo  ancora,  quanto  gli  uomini stimano  più  la  roba  che  gli  onori. Perchè  la  Nobiltà  romana  sempre  negli onori  eedè  senza  scandali  istraordinari alla  Plebe;  ma  come  si  venne  alla  roba, fu  tanta  la  ostinazione  sua  nel  difenderla, che  la  Plebe  ricorse,  per  Sfo-gare 1’  appetito  suo,  a quelli  istraordinari che  di  sopra  si  discorrono.  Del  quale disordine  furono  motori  i Gracchi; de’  quali  si  dcbbe  laudare  più  la  intenzione che  la  prudenza.  Perchè,  a voler
levar  via  uno  disordine  cresciuto  in  una repubblica,  e per  questo  fare  una  legge che  riguardi  assai  indietro,  è partito male  considerato;  e,  come  di  sopra  largamente si  discorse,  non  si  fa  altro  che accelerare  quel  male  a che  quel  disordine ti  conduce  : ma  temporeggiandolo, o il  male  viene  più  tardo,  o per  sè  medesimo col  tempo,  avanti  che  venga  al fine  suo,  si  spegne. XXXVIII.  — Le  repubbliche  deboli sono  male  risolute , e non  si  sanno deliberare  ; c se  le  pigliano  mai  alcuno partito j nasce  più  da  necessità che  da  elezione. Essendo  in  Roma  una  gravissima  pestilenza, e parendo  per  questo  agli  Volaci ed  agli  Equi  che  fusse  venuto  il tempo  di  potere  oppressar  Roma;  fatti questi  due  popoli  uno  grossissimo  esercito, assalirono  gli  Latini  e gli  Ernici, e guastando  il  loro  paese,  furono  constretti gli  Latini  c gli  Ernici  farlo  intendere a Roma,  c pregare  che  fussero difesi  da' Romani:  ai  quali,  sendo  i Romani gravati  dal  morbo,  risposero  che pigliassero  partito  di  difendersi  da  loro medesimi  e con  le  loro  armi,  perchè essi  non  li  potevano  difendere.  Dove  si conosce  la  generosità  e prudenza  di quel  Senato,  e come  sempre  in  ogni  fortuna volle  essere  quello  che  fusse  principe delle  deliberazioni  che  avessero  a pigliare  i suoi;  nè  si  vergognò  mai  deliberare una  cosa  che  fusse  contraria al  suo  modo  di  vivere  o ad  altre  deliberazioni fatte  da  lui,  quando  la  necessità gliene  comandava.  Questo  dico  perchè altre  volte  il  medesimo  Senato  aveva vietato  ai  detti  popoli  l’armarsi  e difendersi ; talché  ad  uno  Senato  meno prudente  di  questo,  sarebbe  parso  cadere del  grado  suo  a concedere  loro tale  difensione.  Ma  quello  sempre  giudicò le  cose  come  si  debbono  giudicare, e sempre  prese  il  meno  reo  partilo  per migliore;  perchè  male  gli  sapeva  non potere  difendere  i suoi  sudditi;  male gli  sapeva  che  si  armassino  senza  loro, per  le  ragioni  dette,  e per  molte  altre che  si  intendono:  nondimeno,  conoscendo che  si  sarebbono  armati,  per  necessità, a ogni  modo,  avendo  il  nimico  addosso;  prese  la  parte  onorevole,  e volle che  quello  clic  gli  avevano  a fare,  lo facessino  con  licenzia  sua,  acciocché avendo  disubbidito  per  necessità,  non si  avvezzassino  a disubbidire  per  elezione. E benché  questo  paia  partito  che da  ciascuna  repubblica  dovesse  esser preso;  nientedimeno  le  repubbliche  deboli e male  consigliate  non  gli  sanno pigliare,  nè  si  sanno  onorare  di  simili necessità.  Aveva  il  duca  Valentino  presa Faenza,  e fatto  calare  Bologna  agli  accordi suoi.  Dipoi,  volendosene  tornare  a Roma  per  la  Toscana,  mandò  in  Firenze uno  suo  uomo  a domandare  il passo  per  sé  e per  il  suo  esercito.  Consultossi  in  Firenze  come  si  avesse  a governare questa  cosa,  nè  fu  mai  consigliato per  alcuno  di  concedergliene.  In che  non  si  seguì  il  modo  romano:  perchè, sendo  il  Duca  armatissimo,  ed  i Fiorentini  in  modo  disarmati  che  non gli  potevano  vietare  il  passare,  era  molto piu  onore  loro,  che  paresse  che  passasse con  permissione  di  quelli,  che  a forza; perchè,  dove  vi  fu  al  tutto  il  loro  vituperio, sarebbe  stato  in  parie  minore quando  I*  avessero  governata  altrimenti. Ma  la  più  cattiva  parte  che  abbino  le repubbliche  deboli,  è essere  irresolute; in  modo  che  lutti  i partili  che  le  pigliano, gli  pigliano  per  forza;  e se  vieti loro  fatto  alcuno  bene,  lo  fanno  forzato, c non  per  prudenza  loro.  Io  voglio  dare di  questo  duoi  altri  esempi,  occorsi ne*  tempi  nostri  nello  stato  della  nostra città,  nel  mille  cinquecento.  Ripreso  che il  re  Luigi  XII  di  Francia  ebbe  Milauo, desideroso  di  rendergli  Pisa,  per  aver cinquanta  mila  ducati  che  gli  erano  stati promessi  da’  Fiorentini  dopo  tale  restituzione, mandò  gli  suoi  eserciti  verso Pisa,  capitanati  da  monsignor  Beaumonte;  benché  francese,  nondiraanco uomo  in  cui  i Fiorentini  assai  confidavano. Condussesi  questo  esercito  e questo capitano  intra  Cascina  e Pisa,  per andare  a combattere  le  mura;  dove  dimorando  alcuno  giorno  per  ordinarsi alla  espugnazione,  vennero  oratori  Pisani a Beaumonte,  e gli  offerirono  di dare  la  città  allo  esercito  francese  con questi  patti:  che,  sotto  la  fede  del  re, promettesse  non  la  mettere  in  mano de’  Fiorentini,  prima  che  dopo  quattro mesi.  Il  qual  partito  fu  dai  Fiorentini al  tutto  rifiutato,  in  modo  che  si  seguì nello  andarvi  a campo,  e partissene  con vergogna.  Nè  fu  rifiutato  il  partito  per altra  cagione,  che  per  diffidare  dellafede  del  re;  come  quelli  che  per  debolezza di  consiglio  si  erano  per  forza messi  nelle  mani  sue:  e dall’altra  parte, non  se  ne  fidavano,  nè  vedevano quanto  era  meglio  che  il  re  potesse  rendere loro  Pisa  sendovi  dentro,  e non  la rendendo  scoprire  P animo  suo,  che  non la  avendo,  poterla  loro  promettere,  e loro  essere  forzati  comperare  quelle promesse.  Talché  molto  più  utilmente arebbono  fatto  a consentire  che  Beaumonlc  V avesse,  sotto  qualunque  pròmessa,  presa:  come  se  ne  vide  la  espcrienza  dipoi,  die  essendosi ribellato  Arezzo,  venne  a’  soccorsi  de*  Fiorentini mandato  dal  re  di  Francia  monsignor Imbalt  con  gente  francese;  il qual  giunto  propinquo  ad  Arezzo,  dopo poco  tempo  cominciò  a praticare  accordo con  gli  Aretini,  i quali  sotto  certa fede  volevano  dare  la  terra,  a similitudine de’ Pisani.  Fu  rifiutato  in  Firenze tale  partito  ; il  che  veggendo  monsignor Imbalt,  e parendogli  come  i Fiorentini se  ne  inlendessino  poco,  cominciò  a tenere le  pratiche  dello  accordo  da  se, senza  participazione  de’  Commessaci  : tanto  che  e’  io  conchiuse  a suo  modo,  e sotto  quello  con  le  sue  genti  se  ne  entrò in  Arezzo,  facendo  intendere  a’  Fiorentini come  egli  erano  matti,  e non  si intendevano  delle  cose  del  mondo:  che se  volevano  Arezzo,  lo  fucessino  intendere al  re,  il  quale  lo  poteva  dar  loro molto  meglio,  avendo  le  sue  genti  in quella  città,  che  fuori.  Non  si  restava  in  Firenze  di  lacerare  e biasimare  detto Imbalt;  nè  si  restò  mai,  infino  a tanto che  si  conobbe  che  se  Beaumonte  fusse stato  simile  a Imbalt,  si  sarebbe  avuto Pisa  come  Arezzo.  E cosi,  per  tornare a proposito,  le  repubbliche  irresolute non  pigliano  mai  partiti  buoni,  se  non per  forza,  perchè  la  debolezza  loro  non le  lascia  mai  deliberare  dove  è alcuno dubbio;  e se  quel  dubbio  non  è cancellalo da  una  violenza,  che  le  sospinga, stanno  sempre  mai  sospese. XXXIX.  — In  diversi  popoli si  veggono  spesso  i medesimi  accidenti. E’  si  conosce  facilmente  per  chi  considera le  cose  presenti  e le  antiche,  come in  tutte  le  città  ed  in  tutti  i popoli sono  quelli  medesimi  desiderii  e quelli medesimi  umori,  e come  vi  furono  sempre : in  modo  che  gli  è facil  cosa  a chi esamina  con  diligenza  le  cose  passate, prevedere  in  ogni  repubblica  le  future, c farvi  quelli  rimedi  che  dagli  antichi sono  stati  usati  ; o non  ne  trovando  degli usati,  pensarne  de’ nuovi,  per  la  similitudine degli  accidenti.  Ma  perchè queste  considerazioni  sono  neglette,  o non  intese  da  chi  legge  ; o se  le  sono intese,  non  sono  conosciute  da  chi  governa ; ne  seguita  che  sempre  sono  i medesimi  scandali  in  ogni  tempo.  Avendo la  città  di  Firenze perduto parte  dello  imperio  suo,  come  Pisa  ed altre  terre,  fu  necessitata  a fare  guerra* a coloro  che  le  occupavano.  E perchè chi  le  occupava  era  potente,  ne  seguiva che  si  spendeva  assai  nella  guerra,  senza alcun  frutto  ; dallo  spendere  assai  ne risultava  assai  gravezze  ; dalle  gravezze, infinite  querele  del  popolo  ; e perchè questa  guerra  era  amministrata  da  uno magistrato  di  dieci  cittadini  che  si  chiamavano i Dieci  della  guerra,  1*  universale cominciò  a recarselo  in  dispetto, come  quello  che  fusse  cagione  della guerra  e delle  spese  di  essa;  e corniliciò  a persuadersi  che  tolto  via  detto magistrato,  fusse  tolto  via  la  guerra  : tanto  che  avendosi  a rifare,  non  se  gli fecero  gli  scambi  ; e lasciatosi  spirare, si  commisero  le  azioni  sue  alla  Signoria. La  qual  deliberazione  fu  tanto  perniziosa,  che  non  solamente  non  levò  la  guerra, come  lo  universale  si  persuadeva  ; ma  tolto  via  quelli  uomini  che  con  prudenza la  amministravano,  ne  seguì  tanto disordine,  die,  oltre  a Pisa,  si  perde Arezzo  e molti  altri  luoghi:  in  modo che,  ravvedutosi  il  popolo  dello  errore suo,  e come  la  cagione  del  male  era  la febbre  e non  il  medico,  rifece  il  magistrato de’  Dieci.  Questo  medesimo  umore si  levò  in  Roma  conira  al  nome  de’ Consoli : perchè,  veggendo  quello  Popolo  nascere 1’  una  guerra  dall'  altra,  e non  poter mai  riposarsi  ; dove  e'  dovevano pensare  che  la  nascesse  dalla  ambizione de’ vicini  che  gli  volevano  opprimere; pensavano  nascesse  dall’  ambizione  dei Nobili,  che  non  potendo  dentro  in  Roma gastigar  la  Plebe  difesa  dalla  potestà  tribunizia, la  volevano  condurre  fuori  di Roma  sotto  i Consoli,  per  opprimerla dove  non  aveva  aiuto  alcuno.  E pensarono per  questo,  che  fusse  necessario  o levar  via  i Consoli,  o regolare  in  modo la  loro  potestà,  che  e*  non  avessino  autorità sopra  il  popolo,  nè  fuori  nè  in casa.  11  primo  che  tentò  questa  legge,  fu uno  Terentillo  tribuno  ; il  quale  proponeva che  si  dovessero  creare  cinque uomini  che  dovessino  considerare  la  potenza de*  Consoli,  e limitarla.  II  che  alterò assai  la  Nobiltà,  parendoli  che  la maiestà  dell’  imperio  fusse  al  tutto  declinata, talché  alla  Nobiltà  non  restasse più  alcuno  grado  in  quella  Repubblica. Fu  nondimeno  tanta  la  ostinazione  dei Tribuni,  che  il  nome  consolare  si  spense ; e furono  in  fine  contenti,  dopo qualche  altro  ordine,  piuttosto  creare Tribuni  con  potestà  consolare,  che  i Consoli : tanto  avevano  più  in  odio  il  nome che  le  autorità  loro.  E cosi  seguitorno lungo  tempo,  infino  che  conosciuto  io errore  loro,  còme  i Fiorentini  ritornorno ai  Dieci,  così  loro  ricreorno  i Consoli. XL. La  creazione  del DECEMVIRATO in  Roma,  e quello  che  in  essa  è da notare:  dove  si  considera , intra  molte altre  cose,  come  si  può  salvare  per simile  accidente,  o oppressore  una  repubblica. Volendo  discorrere  particolarmente sopra  gli  accidenti  che  nacquero  in  Roma per  la  creazione  del  decemvirato, non  mi  pare  soperchio  narrare  prima tutto  quello  che  segui  per  simile  creazione, e dipoi  disputare  quelle  porti  che sono  in  esse  azioni  notabili  : le  quali  sono molte,  e di  grande  considerazione,  cosi per  coloro  che  vogliono  mantenere  una repubblica  libera,  come  per  quelli  che disegnassino  sommetterla.  Perchè  in  tale discorso  si  vedranno  molti  errori  fatti dal  Senato  e dalla  Plebe  in  disfavore della  libertà;  e molli  errori  fatti  da  APPIO,  capo  del  decemvirato;  in  disfavore di  quella  tirannide  che  egli  si  aveva  pre-supposto stabilire  in  Roma.  Dopo  molte deputazioni  c contenzioni  seguite  intra il  Popolo  e la  Nobiltà  per  fermare  nuove leggi  in  Roma,  per  le  quali  e’  si  stabilisse più  la  libertà  di  quello  stato;  mandarono, d’  accordo,  Spurio  Postumio  con duoi  altri  cittadini  ad  Atene  per  gli  essenti di  quelle  leggi  che  Solone  dette  a quella  città,  acciocché  sopra  quelle  potessero fondare  le  leggi  romane.  Andati e tornati  costoro,  si  venne  alla  creazione degli  uomini  eh’  avessino  ad  esaminare e fermare  de.tte  leggi;  e ercorno  dieci cittadini  per  un  anno,  tra  i quali  fu creato  APPIO CLAUDIO,  il primo filosofo romano, uomo  sagace  ed inquieto.  E perchè  e'  potessimo  senza  alcuno rispetto  creare  tali  leggi,  si  levarono di  Roma  tutti  gli  altri  magistrati, ed  in  particolare  i Tribuni  e i Consoli, e levossi  lo  appello  al  Popolo  ; in  modo che  tale  magistrato  veniva  ad  essere  al tulio  principe  di  Roma.  Appresso  ad APPIO  si  ridusse  tutta  1’  autorità  degli altri  suoi  compagni,  per  gli  favori  clic gli  faceva  la  Plebe  : perché  egli  s’ era fatto  in  modo  popolare  con  le  dimostrazioni, che  pareva  meraviglia  eh’  egli  avesse preso  sì  presto  una  nuova  natura  c uno  nuovo  ingegno,  essendo  stato  tenuto innanzi  a questo  tempo  un  crudele persecutore  della  Plebe.  Governaronsi  questi  Dieci  assai  civilmente,  non tenendo  più  che  dodici  littori,  i quali andavano  davanti  a quello  ch’era  infra loro  preposto.  E bench’egli  avessino 1’ autorità  assoluta,  nondimeno  avendosi a punire  un  cittadino  romano  per  omicidio, lo  citorno  nel  conspelto  del  Popolo, e da  quello  lo  fecero  giudicare. Scrissero  le  loro  leggi  in  dicci  tavole, ed  avanti  che  le  confirmassero,  le  messono  in  pubblico,  acciocché  ciascuno  le potesse  leggere  c disputarle;  acciocché si  conoscesse  se  vi  era  alcuno  difetto, per  poterle  binanti  alla  confirmazionc loro  emendare.  Fece,  in  su  questo,  Appio nascere  un  rornorc  per  Bomn,  che se  a queste  dieci  tavole  se  n’  aggiungcssiuo  due  altre,  si  darebbe  a quelle  la loro  perfezione  ; talché  questa  oppinionc dette  occasione  al  Popolo  di  rifare  i Dieci per  uno  altro  anno:  a che  il  Popolo  si  accordò volentieri;  si  perchè i Consoli  non  si rifacessino;  sì  perchè  speravano  loro  potere stare  senza  Tribuni,  sendo  loro  giudici delle  cause,  come  di  sopra  si  disse. Preso,  adunque,  partito  di  rifargli,  tutta la  Nobiltà  si  mosse  a cercare  questi  onori, ed  intra  i primi  era  Appio;  ed  usava tanta  umanità  verso  la  Plebe  nel  domandarla, che  la  cominciò  ad  essere  sospetta a suoi  compagni  : credebant  cnim  liaud gratuitam  in  lanla  superbia  comilatcmfore.  E dubitando  di  opporsegli  apertamente, diliberarono  farlo  con  arte;  e benché  e’  fusse  minore  di  tempo  di  tutti, dettono  a lui  autorità  di  proporre  i futuri Dieci  al  popolo,  credendo  eh*  egli osservasse  i termini  degli  altri  di  non
proporre  sè  medesimo,  sendo  cosa  inusitata e ignominiosa  in  Roma,  Me  vero imprdimentum  prò  occasione  arripuit ; e nominò  sè  intra  i primi,  con meraviglia  e dispiacere  di  tutti  i Nobili: nominò  poi  nove  altri  al  suo  proposito. La  qual  nuova  creazione  fatta  per  uu altro  anno,  cominciò  a mostrare  al  Popolo cd  alla  Nobiltà  lo  error  suo.  Perchè subito  Appio:  finem  fedi  ferenda aliena  persona  ; e cominciò  a mostrare la  innata  sua  superbia,  ed  in  pochi  dì riempiè  di  suoi  costumi  i suoi  compagni. E per  Sbigottire  il  Popolo  ed  il  Senato, in  scambio  di  dodici  littori,  ne  feciono  cento  venti.  Stette  la  paura  eguale qualche  giorno  ; ma  cominciarono  poi ad  intrattenere  il  Senato,  e battere  la Plebe:  e s’ alcuno  battuto  dall*  uno,  appellava ali’  altro,  era  peggio  trattalo  nelP appeltagione  che  nella  prima  causa.  In modo  che  la  Plebe,  conosciuto  lo  errore suo,  cominciò  piena  di  afflizione  a riguardare in  viso  i Nobili;  et  inde  libcrtatis captare  a urani , linde  servitutem  tiinendoj in  cum  s taluni  rempublicam  adduxerant. E alla  Nobiltà  era  grata  questa  loro  afflizione, ut  ipsij  teedio  prcesenliunij  Consules  desiderar ent.  Vennero  i di  clic terminavano  l’anno:  le  due  tavole  delle leggi  erano  fatte,  ma  non  pubblicate.  Da questo  i Dicci  presono  occasione  di  continovare  nel  magistrato,  c cominciorono a tenere  con  violenza  lo  Stato,  e farsi satelliti  della  gioventù  nobile,  alla  quale davano  i beni  di  quelli  che  loro  condannavano. Quibus  donis  Juventus  coirumpebatur , et  malebat  liccnliam  suoni , i quatn  omnium  liberlatcm.  Nacque  in  questo tempo,  che  i Sabini  ed  i Volsci  mossero guerra  a’ Romani:  in  su  la  qual paura  cominciarono  i Dieci  a vedere  la debolezza  dello  Stato  loro;  perchè  senza il  Senato  non  potevano  ordinare  la  guerra, e ragunando  il  Senato  pareva  loro perdere  lo  Stato.  Pure,  necessitati,  presono questo  ultimo  partito:  e ragunali i Senatori  insieme,  molti  de’ Senatori parlorono  contro  alla  superbia  de’Dieci, ed  in  particolare  Valerio  ed  Orazio  : e la  autorità  loro  si  sarebbe  al  tutto  spenta, se  non  che  il  Senato,  per  invidia della  Plebe,  non  volle  mostrare  l’autorità sua,  pensando  che  se  i Dieci  deponevano  il  magistrato  voluntarii,  che  potesse essere  che  i Tribuni  della  plebe non  si  rifacessero.  Dcliberossi  adunque la  guerra;  uscissi  fuori  con  due  eserciti guidati  da  parte  di  detti  Dieci;  APPIO rimase  a governare  la  città.  Donde nacque  che  si  innamorò  di  Virginia,  e che  volendola  torre  per  forza,  il  padre VIRGINIO, PER LIBERARLA, L’AMMAZZO:  donde seguirono  i tumulti  di  Roma  e degli eserciti  ; i quali  ridottisi  insieme  con  il rimanente  della  Plebe  romana,  se  ne  andarono nel  Monte  Sacro,  dove  stettero tanto  clic  i Dieci  deposono  il  magistrato, e che  furono  creali  i Tribuni  ed  i Consolide ridotta  Roma  nella  forma  della antica  sua  libertà.  Notasi,  adunque,  per questo  testo,  in  prima  esser  nato  in  Roma  questo  inconveniente  di  creare  questa tirannide,  per  quelle  medesime  cagioni che  nascono  la  maggiore  parte delie  tirannidi  nelle  città:  e questo  è da  troppo  desiderio  del  popolo  d* esser libero,  e da  troppo  desiderio  de’  nobili di  comandare.  E quando  c’  non  convengono a fare  una  legge  in  favore  della libertà,  ma  gettasi  qualcuna  delle  parti a favorire  uno,  allora  è che  subito  la tirannide  surge.  Convennono  il  Popolo ed  i Nobili  di  Poma  a creare  i Dieci,  e crearli  con  tanta  autorità,  per  desiderio che  ciascuna  delle  parti  aveva,  1’  una  di spegnere  il  nome  consolare,  l’altra  il tribunizio.  Creati  che  furono,  parendo alla  Plebe  che  Appio  fusse  diventato popolare  c battesse  la  Nobiltà,  si  volse il  Popolo  a favorirlo.  E quando  un  popolo si  conduce  a far  questo  errore  di dare  riputazione  ad  uno  perchè  balta quelli  che  egli  ha  in  odio,  e che  quello uno  sia  savio,  sempre  interverrà  che  diventerà tiranno  di  quella  città.  Perchè egli  attenderà,  insieme  con  il  favore  del popolo,  a spegnere  la  nobiltà  ; e non  si volterà  inai  alla  oppressione  del  popolo, se  non  quando  ei  V arà  spenta;  nel  qual tempo  conosciutosi  il  popolo  essere  servo, non  abbi  dove  rifuggire.  Questo  modo hanno  tenuto  tutti  coloro  che  hanno  fondato tirannidi  in  le  repubbliche:  c se questo  modo  avesse  tenuto  APPIO,  quella sua  tironnide  arebbe  preso  più  vita,  e non  sarebbe  mancata  si  presto.  Ma  ei fece  tutto  il  contrario,  nè  si  potette  governare più  imprudentemente;  cliè  per tenere  la  tirannide,  c’si  fece  inimico  di coloro  che  glie  T avevano  data  c che gliene  potevano  mantenere,  ed  amico  di quelli  che  non  erano  concorsi  a dargliene e che  non  gliene  arebbono  potuta mantenere;  e perdèssi  coloro  che  gli erano  amici,  e cercò  di  avere  amici  quelli che  non  gli  potevano  essere  amici.  Perchè, ancora  che  i nobili  desiderino  tiranneggiare, quella  parte  della  nobiltà che  si  truova  fuori  della  tirannide,  è
sempre  inimica  al  tiranno;  nè  quello  se la  può  mai  guadagnare  tutta,  per  l’ambizione grande  e grande  avarizia  che  .è in  lei,  non  polendo  il  tiranno  avere  nè tante  ricchezze  nè  tanti  onori,  che  a tutta
satisfaccia.  E così  Appio,  lasciando  il Popolo  ed  accostandosi  a’ Nobili,  fece  uno errore  evidentissimo,  e per  le  ragioni dette  di  sopra,  e perchè  a volere  con violenza  tenere  una  cosa,  bisogna  che sia  più  potente  chi  sforza,  che  chi  è sforzato.  Donde  nasce  che  quelli  tiranni che  hanno  amico  lo  universale  ed  mimici i grandi,  sono  più  sicuri;  per  essere la  loro  violenza  sostenuta  da  maggior forze,  che  quella  di  coloro  che  hanno per  inimico  il  popolo  ed  amica  la  nobiltà. Perchè  con  quello  favore  bastano a conservarsi  le  forze  intrinseche;  come bastorno  a Nabide  tiranno  di  Sparta, quando  tutta  Grecia  ed  il  popolo  romano lo  assaltò  : il  quale  assicuratosi  di  pochi nobili,  avendo  amico  il  popolo,  con  quello si  difese;  il  che  non  arebbe  potuto  fare
avendolo  inimico.  In  quello  nitro  grado per  aver  pochi  amici  dentro,  non  bastano le  forze  intrinseche,  ma  gli  conviene  cercare di  fuora.  Ed  hanno  ad  essere  di tre  sorti:  1’ una  satelliti  forestieri,  die li  guardino  la  persona;  l’altra  armare il  contado,  che  faccia  quell’  oflìzio  che arebbe  a fare  la  plebe;  la  terza  aderirsi co’  vicini  potenti,  che  li  difendino*  Chi tiene  questi  modi  e gli  osserva  bene, ancora  ch’egli  avesse  per  inimico  il  popolo, potrebbe  in  qualche  modo  salvarsi. Ma  APPIO non  poteva  far  questo  di  guadagnarsi il  contado,  scudo  una  medesima cosa  il  contado  e Roma;  c quel  che  poteva fare,  non  seppe:  talmente  che  rovinò nc’  primi  principii  suoi.  Fecero  il Senato  ed  il  Popolo  in  questa  creazione del  decemvirato  errori  grandissimi  : perchè ancora  che  di  sopra  si  dica,  in  quel discorso  che  si  fa  del  Dittatore,  che quelli  magistrati  che  si  fanno  da  per loro,  non  quelli  che  fa  il  popolo,  sono nocivi  alla  libertà;  nondimeno  il  popolo debbe,  quando  egli  ordina  i magistrali, fargli  in  modo  che  gli  abbino  avere  qualche rispetto  a diventare  tristi.  E dove e’ si  debbe  proporre  loro  guardia  per mantenergli  buoni,  i Romani  lalevorono, facendolo  solo  magistrato  in  Roma,  ed annullando  tutti  gli  altri,  per  la  eccessiva voglia  (come  di  sopra  dicemmo)  che il  Senato  aveva  di  spegnere  i Tribuni, e la  Plebe  di  spegnere  i Consoli;  la  quale gli  accecò  in  modo,  che  concorsono  in tale  disordine.  Perchè  gli  uomini,  come diceva  il  re  Ferrando,  spesso  fanno  come certi  minori  uccelli  di  rapina  ; ne’ quali  è tanto  desiderio  di  conseguire la  loro  preda,  a che  la  natura  gli  incita, che  non  sentono  un  altro  maggior  uccello che  sia  loro  sopra,  per  ammazzargli. Conoscesi,  adunque,  per  questo  discorso, come  nel  principio  proposi,  lo errore  del  Popolo  romano,  volendo  salvare la  libertà  ; e gli  errori  di  APPIO, volendo  occupare  la  tirannide.  XLI.  — Sahare  dalla  Umilila  alla superbia j dalla  pietà  alta  crudeltà senza  debiti  mezzij  è cosa  imprudente ed  inutile. Oltre  agli  altri  termini  male  usati  da APPIO  per  mantenere  la  tirannide,  non fu  di  poco  momento  saltare  troppo  presto da  una  qualità  ad  un’altra.  Perchè la  astuzia  sua  nello  ingannare  la  Plebe, simulando  d’essere  uomo  popolare,  fu bene  usata;  furono  ancora  bene  usati  i termini  che  tenue  perchè  i Dieci  si avessino  a rifare;  fu  ancora  bene  usata quella  audacia  di  creare  sè  stesso  contra  alla  oppinione  della  Nobiltà;  fu bene  usato  creare  colleghi  a suo  proposito: ma  non  fu  già  bene  usato,  come egli  ebbe  fatto  questo,  secondo  che  di sopra  dico,  mutare  in  un  subito  natura; e di  amico,  mostrarsi  nimico  alla Plebe;  di  umano,  superbo;  di  facile, difficile;  e farlo  tanto  presto,  che  senza
scusa  veruna  ogni  uomo  avesse  a conoscer  la  fallacia  dello  animo  suo.  Perchè chi  è paruto  buono  un  tempo,  e vuole a suo  proposito  diventar  tristo,  io  debbe  fare  per  gli  debiti  mezzi  ; ed  in  modo condurvisi  con  le  occasioni,  che  innanzi che  la  diversa  natura  ti  tolga  de’ favori vecchi,  la  te  ne  ubbia  dati  tanti  degli nuovi,  che  tu  non  venga  a diminuire  la tua  autorità:  altrimenti,  trovandoti  scoperto e senza  amici,  rovini. XL1I.  — Quanto  gli  uomini facilmente  si  possono  corrompere. Notasi  ancora  in  questa  materia  del decemvirato,  quanto  facilmente  gli  uomini si  corrompono,  e fatinosi  diventare di  contraria  natura,  ancora  che  buoni e bene  educati;  considerando  quanto quella  gioventù  che  Appio  si  aveva eletta  intorno,  cominciò  ad  essere  amica della  tirannide  per  uno  poco  d’utilità che  gliene  conseguiva  ; e come Quinto  Fabio,  uno  del  numero  de’ secondi Dieci,  sendo  uomo  oliimo,  accecalo da  un  poco  di  ambizione,  e persuas dulia  malignità  di  APPIO,  mutò  i suoi  buoni  costumi  in  pessimi,  e diventò simile  a lui.  Il  che  esaminato  bene, farà  tanto  più  pronti  i legislatori  delle repubbliche  o de’ regni  a frenare  gli appetiti  umani,  c torre  loro  ogni  speranza di  potere  impune  errare. XLIII.  — Quelli  che  combattono  per la  gloria  propria,  sono  buoni  e fedeli soldati. Considerasi  ancora  per  il  soprascritto trattato,  quanta  differenza  è da  uno esercito  contento  e che  combatte  per  la gloria  sua,  a quello  che  è male  disposto e che  combatte  per  la  ambizione  d’  altri. Perchè,  dove  gli  eserciti  romani  solevano sempre  essere  vittoriosi  sotto  i Consoli, sotto  i Decemviri  sempre  perderono.  Da questo  essempio  si  può  conoscere  parte delle  cagioni  della  inutilità  de’ soldati mercenurii;  i quali  non  hanno  altra  cagione clic  li  tenga  fermi,  che  un  poco di  stipendio  che  tu  dai  loro.  La  qual cagione  non  è nè  può  essere  bastante  a fargli  fedeli,  nè  tanto  tuoi  amici,  che voglino  morire  per  le.  Perchè  in  quelli eserciti  che  non  è una  affezione  verso di  quello  per  chi  e’  combattono,  che  gli facci  diventare  suoi  partigiani,  non  mai vi  potrà  essere  tanta  virtù  che  basti  a resistere  ad  uno  nimico  un  poco  virtuoso. G perchè  questo  amore  non  può nascere,  nè  questa  gara,  da  altro  che da’ sudditi  tuoi;  è necessario  a volere tenere  uno  stato,  a volere  mantenere una  repubblica  o uno  regno,  armarsi de’  sudditi  suoi  : come  si  vede  che  hanno fatto  tutti  quelli  che  con  gli  eserciti hanno  fatti  grandi  progressi.  Avevano gli  eserciti  romani  sotto  i Dieci  quella medesima  virtù;  ma  perchè  in  loro  non era  quella  medesima  disposizione,  non facevano  gli  usilati  loro  effetti.  Ma  com prima  il  magistrato  de’  Dieci  fu  spento, e che  loro  come  liberi  cominciorno  amilitare,  ritornò  in  loro  il  medesimo animo;  e per  conscguente,  le  loro  imprese avevano  il  loro  fine  felice,  secondo la  antica  consuetudine  loro. XLIV.  — Una  moltitudine  senza capo,  è inutile:  e non  si  debbo  minacciare prima,  c poi  chiedere  l'autorità. Era  la  Plebe  romana  per  lo  accidente di  Virginia  ridotta  armata  nel  Monte Sacro.  Mandò  il  Senato  suoi  ambasciadori  a dimandare  con  quale  autorità egli  avevano  abbandonati  i loro  capitani, e ridottisi  nel  Monte.  E tanta  era stimata  l’autorità  del  Senato,  che  non avendo  la  Plebe  intra  loro  capi,  ninno si  ardiva  a rispondere.  E L. dice,  ohe  e’  non  mancava  loro  materia a rispondere,  ma  mancava  loro  chi  facesse la  risposta.  La  qual  cosa  dimonstra  appunto  la  inutilità  d’  una  moltitudine  senza  capo.  Il  qual  disordinefu conosciuto  da  Virginio,  e per  suo  ordine si  creò  venti  Tribuni  militari,  che fussero  loro  capo  a rispondere  e convenire col  Senato.  Ed  avendo  chiesto  che si  mandasse  loro  Valerio  ed  Orazio,  ai quali  loro  direbbono  la  voglia  loro,  non vi  volsono  andare  se  prima  i Dieci  non deponevano  il  magistrato:  ed  arrivati sopra  il  Monte  dove  era  la  Plebe,  fu domandato  loro  da  quella,  che  volevano che  si  creassero  i Tribuni  della  plebe, e che  si  avesse  ad  appellare  al  Popolo da  ogni  magistrato,  e che  si  dessino loro  tutti  i Dieci,  chè  gli  volevano  ardere vivi.  Laudarono  Valerio  cd  Orazio le  prime  loro  domande;  biasimorono P ultima  come  impia,  dicendo  : Crude - litatcm  dannatisj  in  crudclitaiem  ruitis ; e consigliamogli  che  dovessino  lasciare il  fare  menzione  de’ Dieci,  e ch’egli  attendessino  a pigliare  V autorità  e potestà loro:  dipoi  non  mancherebbe  loro modo  a satisfarsi.  Dove  apertamente  si conosce  quanta  stultizia  c poca  prudenza è domandare  una  cosa,  e dire prima:  io  voglio  far  male  con  essa; perchè  non  si  debbo  mostrare  l’animo suo,  ma  vuoisi  cercare  d’ottenere  quel suo  desiderio  in  ogni  modo.  Perchè e’  basta  a dimandare  a uno  le  armi, senza  dire:  io  ti  voglio  ammazzare  con esse;  potendo  poi  che  tu  bai  l’arme  in mano,  satisfare  allo  appetito  tuo. XLV.  — E cosa  di  malo  esempio | non  osservare  una  legge  falla , c massime  dallo  autore  d'essa:  e rinfre- scare  ogni  di  nuove  ingiurie  in  una t città,  è a chi  la  governa  dannosis-i simo. Seguito  lo  accordo,  e ridotta  Roma  in la  antica  sua  forma,  Virginio  citò  Appio innanzi  al  Popolo  a difendere  la  sua causa.  Quello  comparse  accompagnato da  molti  Nobili.  Virginio  comandò  che fussc  messo  in  prigione.  Cominciò  Appio a gridare,  ed  appellare  al  Popolo.  Virginio diceva  che  non  era  degno  di  avere quella  nppellagionc  che  egli  aveva distrutta,  ed  avere  per  difensore  quel Popolo  che  egli  aveva  offeso.  Appio  replicava, come  e’  non  aveano  a violare quella  appellagionc  ch'egli  avevano  con tanto  desiderio  ordinata.  Pertanto  egli fu  INCARCERATO ED AVANTI AL DI DEL GIUDIZIO AMMAZZO SE STESSO. E benché  la scellerata  vita  di  Appio  meritasse  ogni supplicio,  nondimeno  fu  cosa  poco  civile violare  le  leggi,  e tanto  più  quella  che era  fatta  allora.  Perchè  io  non  credo che  sia  cosa  di  più  cattivo  esempio  in una  repubblica,  che  fare  una  legge  e non  la  osservare;  e tanto  più,  quanto la  non  è osservata  da  chi  l’ ha  falla. Essendo  Firenze stala riordinala  nel  suo  stato  con  l'aiuto  di frate  Girolamo  Savonarola,  gli  scritti
del  quale  mostrano  la  dottrina,  la  prudenza, la  virtù  dello  animo  suo  ; ed avendo  intra  P altre  conslituzioni  per assicurare  i cittadini,  fatto  fare  una legge,  che  si  potesse  appellare  al  popolo dalle  sentenze  che,  per  caso  di  Stato, gli  Otto  c la  Signoria  dessino;  la  qual legge  persuase  più  tempo,  e con  difficoltà grandissima  ottenne:  occorse  che, poco  dopo  la  confirmazicne  d’essa,  furono condcunati  a morte  dalla  Signoria per  conto  di  Stato  cinque  cittadini;  e volendo  quelli  appellare,  non  furono lasciati,  e non  fu  osservata  la  legge.  Il che  tolse  più  riputazione  a quel  frate, che  nessun  altro  accidente:  perchè,  se quella  appellagione  era  utile,  ei  doveva farla  osservare;  s’ ella  non  era  utile, non  doveva  farla  vincere.  E tanto  più fu  notato  questo  accidente,  quanto  che il  frate  in  tante  predicazioni  che  fece poi  clic  fu  rotta  questa  legge,  non  mai o dannò  chi  P aveva  rotta,  o lo  scusò  ; come  quello  che  dannare  non  voleva, come  cosa  che  gli  tornava  a proposito  ; e scusare  non  la  poteva.  Il  che  avendo scoperto  l’animo  suo  ambizioso  e paitigiano,  gii  tolse  riputazione,  e dettegli assai  carico.  Offende  ancora  uno  Stato assai,  rinfrescare  ogni  dì  nello  animo de’  tuoi  cittadini  nuovi  umori,  per  nuove ingiurie  ebe  a questo  e quello  si fucciano  : come  intervenne  a Roma  dopo il  decemvirato.  Perché  tutti  i Dieci,  ed altri  cittadini,  in  diversi  tempi  furono accusati  e condannati:  in  modo  che  gli era  uno  spavento  grandissimo  in  tutta la  Nobiltà,  giudicando  che  e’ non  si  avesse mai  a porre  fine  a simili  condennagioni,  fino  a tanto  che  tutta  la  Nobiltà non  fusse  distrutta.  Ed  arebbe  generato in  quella  città  grande  inconveniente,  se da  Marco  Duellio  tribuno  non  vi  fusse stato  provveduto;  il  qual  fece  uno  edit-to, che  per  uno  anno  non  fusse  lecito ad  alcuno  citare  o accusare  alcuno  cittadino contano  : il  che  rassicurò  tutta la  Nobiltà.  Dove  si  vede  quanto  sia  dannoso ad  una  repubblica  o ad  un  principe, tenere  con  le  continove  pene  ed offese  sospesi  e paurosi  gli  animi  dei sudditi.  E senza  dubbio,  non  si  può  tenere il  più  pernicioso  ordine:  perchè  gli uomini  che  cominciano  a dubitare  di avere  a capitar  male,  in  ogni  modo  si assicurano  ne’ pericoli,  e diventano  più audaci,  e meno  rispettivi  a tentare  cose nuove.  Però  è necessario,  o non  offendere mai  alcuno,  o fare  le  offese  ad  un tratto;  e dipoi  rassicurare  gli  uomini, e dare  loro  cagione  di  quietare  e fermare l’animo. XLVI.  — Gli  uomini  salgono  da una  ambizione  ad  unJ  altra  ; c prima si  cerca  non  essere  offeso t dipoi  di offendere  altrui. Avendo  il  Popolo  romano  ricuperala la  libertà,  ritornato  nel  suo  primo  grado, ed  in  tanto  maggiore,  quanto  si erano  fatte  dimolte  leggi  nuove  In  corroborazione della  sua  potenza  ; pareva ragionevole  che  Roma  qualche  volta  quictasse.  Nondimeno,  per  esperienza  si  vide il  contrario;  perchè  ogni  di  vi  surgeva nuovi  tumulti  e nuove  discordie.  E perchè Tito  Livio  prudentissimamente  rende la  ragione  donde  questo  nasceva,  non mi  pare  se  non  a proposito  riferire  appunto le  sue  parole,  dove  dice  che  sempre o il  Popolo  o la  Nobiltà  insuperbiva, quanto  V altro  si  umiliava  ; e stando la  Plebe  quieta  intra  i termini  suoi,  cominciarono i giovani  nobili  ad  ingiuriarla ; ed  i Tribuni  vi  potevano  farepochi  rimedi,  perchè  ancora  loro  erano
violati.  La  Nobiltà,  dalP  altra  parte,  ancora che  gli  paresse  che  la  sua  gioventù fusse  troppo  feroce,  nondimeno  aveva  a caro  che  avendosi  a trapassare  il  modo, lo  trapassassino  i suoi,  e non  la  Plebe. E cosi  il  desiderio  di  difendere  la  libertà faceva  che  ciascuno  tanto  si  prevaleva, eh’  egli  oppressava  l’ altro.  E V ordine di  questi  accidenti  è,  che  mentre clic  gli  uomini  cercano  di  non  temere, cominciano  a far  temere  altrui;  e quell ingiuria  ch’egli  scacciano  da  loro,  la pongono  sopra  un  altro:  come  se  fussc necessario  offendere,  o essere  offeso.  Vedesi,  per  questo,  in  quale  modo,  fra  gli altri,  le  repubbliche  si  risolvono;  e in che  modo  gli  uomini  salgono  da  una ambizione  ad  un’  altra  ; e come  quella sentenza  salustiaua  posta  in  bocca  di Cesare,  è verissima  : quod  omnia  mala exempla  bonis  mitiis  orla  sunt.  Cercano, come  di  sopra  è detto,  quelli  cittadini clie  ambiziosamente  vivono  in  una repubblica,  la  prima  cosa  di  non  potere essere  offesi,  non  solamente  dai  privati, ma  eziam  da’  magistrali  : cercano,  per potere  fare  questo,  amicizie  ; e quelle acquistano  per  vie  in  apparenza  oneste, o con  sovvenire  di  danari,  o con  difendergli da’  potenti  : e perchè  questo  pare virtuoso,  s’ inganna  facilmente  ciascuno, c per  questo  non  vi  si  pone  rimedio  ; intanto  che  egli  senza  ostacolo  perseverando, diventa  di  qualità,  che  i privati cittadini  ne  hanno  paura,  ed  i magistrati gli  hanno  rispetto.  E quando  egli  è saJito  a questo  grado,  c non  si  sia  prima ovvialo  alla  sua  grandezza,  viene  od  essere in  termine,  che  volerlo  urtare  è pericolosissimo,  per  le  ragioni  che  io dissi  di  sopra  del  pericolo  che  è nello urtare  uno  inconveniente  che  abbi  di  già fatto  augumento  in  una  città:  tanto  che la  cosa  si  riduce  in  termine,  che  bisogna  o cercare  di  spegnerlo  con  pericolo  di  una subita  rovina  j o lasciandolo  fare,  entrare in  una  servitù  manifesta,  se  morte  o qualche accidente  non  te  ne  libera.  Perchè, venuto  a’soprascrilti  termini,  che  i cittadini ed  i magistrati  abbino  paura  ad  offender lui  e gli  amici  suoi,  non  dura  dipoi molta  fatica  a fare  che  giudichino  ed  offendino  a suo  modo.  Donde  una  repubblica intra  gli  ordini  suoi  debbe  avere  questo, di  vegghiarc  che  i suoi  cittadini  sotto ombra  di  bene  non  possino  far  male  ; e di’  egli  abbino  quella  riputazione  che giovi,  e non  nuoca,  alla  libertà:  come nel  suo  luogo  da  noi  sarà  disputato.  XLVII.  — Gli  nomini j ancora  clic si  ingannino  ncJ  generali j nei  particolari non  si  ingannano. Essendosi  il  Popolo  romano,  come  di sopra  si  dice,  recato  a noia  il  nome consolare,  e volendo  che  potessiao  esser fatti  Consoli  uomini  plebei,  o che  fusse limitata  la  loro  autorità  ; la  Nobiltà,  per non  deonestare  l’ autorità  consolare  nè con  Tuna  nè  con  1’  altra  cosa,  prese  una via  di  mezzo,  e fu  contenta  che  si  creassino  quattro  Tribuni  con  potestà  consolare,  i quali  potcssino  essere  cosi  plebei come  nobili.  Fu  contenta  a questo  la Plebe,  parendogli  spegnere  il  consolato, ed  avere  in  questo  sommo  grado  la  parte sua.  Nacquene  di  questo  un  caso  notabile  : che  venendosi  alla  creazione  di questi  Tribuni,  e potendosi  creare  tutti plebei,  furono  dal  Popolo  romano  creati tutti  fiobiii.  Onde  L.  dice  queste parole:  Quorum  comitiorum  eoenlus  docuit,  alias  animo s in  contcntione  l ib erta ti  s et  honoris,  alios  secundum  deposita certamina  in  incorrupto  judicio esse.  Ed  esaminando  donde  possa  procedere questo,  credo  proceda  che  gii  uomini nelle  cose  generali  s’ ingannano assai,  nelle  particolari  non  tanto.  Pareva generalmente  alla  Plebe  romana  di  meritare il  consolato,  per  avere  più  parte in  la  città,  per  portare  più  pericolo  nelle guerre,  per  esser  quella  che  con  le  braccia sue  manteneva  Roma  libera,  e la  faceva potente.  E parendogli,  come  è detto, questo  suo  desiderio  ragionevole,  volse ottenere  questa  autorità  in  ogni  modo. Ma  come  la  ebbe  a fare  giudizio  degli uomini  suoi  particolarmente,  conobbe  la debolezza  di  quelli,  e giudicò  che  nessuno di  loro  meritasse  quello  che  tutta  insieme gli  pareva  meritare.  Talché  vergognatasi di  loro,  ricorse  a quelli  che  Io meritavano.  Della  quale  deliberazione meravigliandosi  meritamente  L., dice  queste  parole  : /lane  modestiam , aquila IcmquCj  et  allitudinem  animi,  ubi moie  in  uno  inveneris , qua:  lune  populi universi  fuit  ? In  corroborazione  di  questo, se  ne  può  addurre  un  altro  notabile essempio,  seguito  in  Capova  da  poi  che Annibaie  ebbe  rotti  i Romania  Canne; per  la  qual  rotta  sendo  tutta  sollevata Italia,  Capova  stava  ancora  per  tumultuare, per  P odio  eli’  era  intra  il  Popolo ed  il  Senato;  e trovandosi  in  quel  tempo nel  supremo  magistrato  Pacuvio  Calano, e conoscendo  il  pericolo  che  portava quella  città  di  tumultuare,  disegnò  con suo  grado  riconciliare  la  Plebe  con  la Nobiltà  ; e fatto  questo  pensiero,  fece ragunare  il  Senato,  c narrò  loro  Podio che  M popolo  aveva  contra  di  loro,  ed  i pericoli  che  portavano  di  essere  ammazzati da  quello,  e data  la  città  ad  Annibaie, sendo  le  cose  de’  Romani  afflitte  : dipoi  soggiunse,  che  se  volevano  lasciaregovernare  questa  cosa  a lui,  farebbe  in modo  che  si  unirebbono  insieme  ; ma  gli voleva  serrare  dentro  al  palazzo,  e co fare  potestà  al  popolo  di  potergli  gastigare,  salvargli.  Cederono  a questa  sua oppinione  i Senatori,  e quello  chiamò  il Popolo  a coocione,  avendo  rinchiuso  in palazzo  il  Senato  ; e disse  com’  egli  era venuto  il  tempo  di  potere  domare  la  superbia  della  Nobiltà,  e vendicarsi  delle ingiurie  ricevute  da  quella,  avendogli rinchiusi  tutti  sotto  la  sua  custodia  : ma perchè  credeva  che  loro  non  volessino che  la  loro  città  rimanesse  senza  gover-
no, era  necessario,  volendo  ammazzare i Senatori  vecchi,  crearne  de*  nuovi. E per  tanto  aveva  messo  tutti  gli  nomi degli  Senatori  in  una  borsa,  e comincierebbe a trargli  in  loro  presenza  j ed egli  farebbe  i tratti  di  mano  in  mano morire,  come  prima  loro  avessino  tro-
vato il  successore.  E cominciato  a trarne uno,  fu  al  nome  di  quello  levato  un  rumore grandissimo,  chiamandolo  uomo superbo,  crudele  ed  arrogante  : e chiedendo Paeuvio  che  facessino  lo  scambio, si  racchetò  tutta  la  conclone  ; c dopo alquanto  spazio,  fu  nominato  uno  della plebe  ; al  nome  del  quale  chi  cominciò a fischiare,  chi  a ridere,  chi  a dirne male  in  uno  modo,  e chi  in  un  altro: o così  seguitando  di  mano  in  mano,  tutti quelli  che  furono  nominati,  gli  giudicavano indegni  del  grado  senatorio.  In modo  che  Pacuvio,  presa  sopra  questo occasione,  disse:  Poiché  voi  giudicate  che qucslu  città  stia  male  senza  Senato,  ed a fare  gii  scambi  a’  Senatori  vecchi  non vi  accordate,  io  penso  che  sia  bene  che voi  vi  riconciliate  insieme  ; perchè  questa paura  in  la  quale  i Senatori  sono stati,  gli  arà  fatti  in  modo  raumiliare, che  quella  umanità  che  voi  cercavate  altrove, troverete  in  loro.  Ed  accordatisi a questo,  ne  segui  la  unione  di  questo ordine  ; e quello  inganno  in  che  egli erano  si  scoperse,  come  e’  furono  constretti venire  a’  particolari.  Ingannansi, olirà  di  questo,  i popoli  generalmente nel  giudicare  le  cose  e gli  accidenti  di esse  j le  quali  dipoi  si  conoscono  particolamento,  si  avveggono  di  tale  inganno. Sendo  stati  i principi della  città  cacciati  da  Firenze,  e non  vi essendo  alcuno  governo  ordinato,  ma piuttosto  una  certa  licenza  ambiziosa,  ed andando  le  cose  pubbliche  di  inale  in peggio  ; molti  popolari  veggiendo  la  rovina della  città,  e non  ne  intendendo  altra cagione,  ne  accusavano  la  ambizione di  qualche  potente  che  nutrisse  i disordini, per  poter  fare  uno  Stato  a suo  proposito, c torre  loro  la  libertà  : c stavano questi  tali  per  le  logge  c per  le  piazze, dicendo  male  di  molti  cittadini,  e minacciandoli che  se  mai  si  trovassero  de’ Signori, scoprirebbono  questo  loro  inganno, e gli  gastigarebbono.  Occorreva spesso  che  de’  simili  ne  ascendeva  al supremo  magistrato;  e come  egli  era salilo  in  quel  luogo,  e che  e*  vedeva  le  i cose  più  dappresso,  conosceva  i disordini donde  nascevano,  ed  i pericoli  che soprastavano,  e la  difficoltà  del  rimecitarvi.  C veduto  come  i tempi,  e no gli  uomini,  causavano  il  disordine,  diventava subito  d’ un  altro  animo,  c di un’  altra  fatta  ; perché  la  cognizione  delle cose  particolari  gli  toglieva  via  quello inganno  che  nel  considerare  generalmente si  aveva  presupposto.  Dimodoché,  quelli che  lo  avevano  prima,  quando  era  privato, sentito  parlare,  e vedutolo  poi  nel supremo  magistrato  stare  quieto,  credevano che  nascesse,  non  per  più  vera  cognizione delle  cose,  ma  perchè  fusse  stalo aggirato  e corrotto  dai  grandi.  Ed  accadendo questo  a molti  uomini  c molte volte,  ne  nacque  tra  loro  un  proverbio, che  diceva  : Costoro  hanno  uno  animo in  piazza,  cd  uno  in  palazzo.  Considerando, dunque,  tutto  quello  si  è discorso, si  vede  come  e’  si  può  fare  tosto aprire  gli  occhi  a’  popoli,  trovando  modo, veggendo  che  uno  generale  gl’  inganna, ch’egli  abbino  a descenderc  ai particolari  ; come  fece  Pacuvio  in  Capova,  ed  il  --Senato  in  Roma.  Credo  ancora, che  si  possa  conchiudere,  che  mai  un uomo  prudente  non  debbe  fuggire  il giudizio  popolare  nelle  eo9e  particolari, circa  le  distribuzioni  de' gradi  e delle dignità  : perchè  solo  in  questo  il  popolo non  si  inganna  ; e se  si  inganna  qualche volta,  Ha  sì  raro,  che  s’ inganneranno più  volte  i pochi  uomini  che  avessino  a fare  simili  distribuzioni.  Nè  mi  pare  superfluo mostrare  nel  seguente  capitolo, P ordine  che  teneva  il  Senato  per  isgannare  il  popolo  nelle  distribuzioni  sue. XLYIII.  — Chi  vuole  che  uno  magistrato non  sia  dato  ad  un  vile  o ad un  tristo j lo  facci  domandare  o ad un  troppo  vile  e troppo  tristo , o ad uno  troppo  nobile  c troppo  buono. Quando  il  Senato  dubitava  che  i Tribuni con  potestà  consolare  non  fussino fatti  d’  uomini  plebei,  teneva  uno  de’duoi modi:  o egli  faceva  domandare  ai  più riputati  uomini  di  Roma;o  veramente, per  i debiti  mezzi,  corrompeva  qualche plebcio  sordido  ed  ignobilissimo,  che  mescolati con  i plebei  che,  di  miglior  qualità, per  T ordinario  lo  domandavano, anche  loro  lo  domandassino.  Questo  ul-
timo modo  faceva  che  la  Plebe  si  vergognava a darlo  ; quel  primo  faceva  che la  si  vergognava  a torlo,  li  che  tutto  torna a proposito  del  precedente  discorso, dove  si  mostra  che  il  popolo  se  s’ inganna de’  generali,  de’particolari  non  s’inganna. XLIX.  — Se  quelle  città  che  hanno avuto  il  principio  libcrOj  come  Romaj hanno  diffìcultà  a trovare  leggi  che le  mantenghino ; quelle  che  lo  hanno immediate  servo , ne  hanno  quasi  una impossibilità. Quanto  sia  difficile,  nello  ordinare  una  repubblica,  provvedere  a tutte  quelle leggi  che  la  mantenghino  libera,  lo  dimostra assai  bene  il  processo  della  Repubblica romana:  dove  non  ostante  che fussino  ordinate  di  molte  leggi  da  ROMOLO  prima,  dipoi  da  Nuraa,  da  Tulio Ostilio  e Servio,  ed  ultimamente  dai dieci  cittadini  creali  a simile  opera  ; nondimeno sempre  nel  maneggiare  quella città  si  scoprivano  nuove  necessità,  ed era  necessario  creare  nuovi  ordini:  come intervenne  quando  crearono  i Censori, i quali  furono  uno  di  quelli  provvedimenti che  aiutarono  tenere  Roma libera,  quel  tempo  che  la  visse  in  libertà. Perchè,  diventati  arbitri  de’ costumi  di Roma,  furono  cagione  potissima  che  i Romani  diflerissino  più  a corrompersi. Feciono  bene  nel  principio  della  creazione di  tal  magistrato  uno  errore,  creando quello  per  cinque  anni;  ma,  dipoi non  molto  tempo,  fu  corretto  dalla  prudenza di  Mamereo  dittatore,  il  qual  per nuova  legge  ridusse  detto  magistrato  a diciolto  mesi.  Il  che  i Censori  che  vegghiavano,  ebbono  tanto  per  male,  che privorno  Mamcrco  del  senato:  la  qual cosa  e dalla  Plebe  c dai  Padri  fu  assai biasimata.   perchè  la  istoria  non  ino*stra  che  Mamerco  se  ne  potesse  difen-dere, conviene  o che  lo  istorico  sia  di-fettivo, o gli  ordini  di  Roma  in  questa parte  non  buoni  : perchè  non  è bene  che
una  repubblica  sia  in  modo  ordinata, ebe  un  cittadino  per  promulgare  una legge  conforme  al  vivere  libero,  ne  possa essere  senza  alcuno  rimedio  offeso.  Ma tornando  al  principio  di  questo  discorso, dico  che  si  dehbe,  per  la  creazione  di questo  nuovo  magistrato,  considerare, che  se  quelle  città  che  hanno  avuto  il principio  loro  libero,  e che  per  se  medesimo si  è retto,  come  Roma,  hanno difHcultà  grande  a trovar  leggi  buone per  mantenerle  libere  ; non  è meraviglia che  quelle  città  che  hanno  avuto  il principio  loro  immediate  servo,  abbino, non  che  dilfìcultà,  ma  impossibilità  ad. ordinarsi  mai  in  modo  che  le  possino vivere  civilmente  e quietamente.  Come si  vede  che  è intervenuto  alla  città  di Firenze;  la  quale,  per  avere  avuto  il principio  suo  sottoposto  allo  imperio  ro-
mano,  ed  essendo  vivuta  sempre  sotto governo  d* altri,  stette  un  tempo  soggetta, e senza  pensare  a sè  medesima: dipoi,  venuta  la  occasione  di  respirare, cominciò  a fare  suoi  ordini;  i quali  sendo
mescolati  con  gli  antichi,  che  erano  tristi, non  poterono  essere  buoni:  e così è ita  maneggiandosi  per  dugento  anni che  si  lia  di  vera  memoria,  senza  avere mai  avuto  stato  per  il  quale  ella  possa veramente  essere  chiamata  repubblica. E queste  diflicultà  che  sono  state  in  lei, sono  state  sempre  in  tutte  quelle  città che  hanno  avuto  i principii  simili  a lei. E benché  molte  volte,  per  suffragi  pubblici e liberi,  si  sia  dato  ampia  autorità a pochi  cittadini  di  potere  riformarla; non  pertanto  mai  l’ hanno  ordinata  a comune  utilità,  ma  sempre  a proposito della  parte  loro  : il  che  ha  fatto  non ordine,  ma  maggiore  disordine  in  quella città.  E per  venire  a qualche  essempio particolare,  dico  come  intra  le  altre  cose che  si  hanno  a considerare  da  uno  ordinatore  d’  una  repubblica,  è esaminare nelle  mani  di  quali  uomini  ci  ponga 1’  autorità  del  sangue  coutra  de’  suoi cittadini.  Questo  era  bene  ordinato  in Roma,  perchè  e’  si  poteva  appellare  al Popolo  ordinariamente  : e se  pure  fussc occorsa  cosa  importante,  dove  il  differire la  esecuzione  mediante  la  appellagione fusse  pericoloso,  avevano  il  refugio  del Dittatore,  il  quale  eseguiva  immediate; al  qual  rimedio  non  rifuggivano  mai,  se non  per  necessità.  Ma  Firenze,  c Y altre città  nate  nel  modo  di  lei,  sendo  serve, avevano  questa  autorità  collocata  in  un forestiero,  il  quale  mandato  dal  principe faceva  tale  uffizio.  Quando  dipoi  vennono  in  libertà,  mantennero  questa  autorità in  un  forestiero,  il  quale  chiamavano Capitano:  il  che,  per  potere  essere facilmente  corrotto  da’  cittadini  potenti, era  cosa  perniciosissima.  Ma  dipoi,  mu-
randosi per  la  mutazione  degli  Stati  questo ordine,  creorno  otto  cittadini  che  facessino  V uffizio  di  quel  Capitano.  Il  quale ordine,  di  cattivo,  diventò  pessimo,  per le  cagioni  che  altre  volte  sono  dette: che  i pochi  furono  sempre  ministri  dc’po-ehi,  e de*  più  potenti.  Da  che  si  è guardata la  città  di  Vinegia;  la  quale  ha dieci  cittadini,  che  senza  appello  possono punire  ogni  cittadino.  E perchè  e*  non basterebbono  a punire  i potenti,  ancora die  ne  nvessino  autorità,  vi  hanno  constituito  le  Quarnntie:  c di  più,  hanno voluto  che  il  Consiglio  de’ Pregai,  elicè il  Consiglio  maggiore,  possa  gastigargli; In  modo  che  non  vi  mancando  lo  accusatore, non  vi  manca  il  giudice  a tener gli  uomini  potenti  a freno.  Non  è dunque meraviglia,  reggendo  come  in  Roma, ordinata  da  sè  medesima  e da  tanti uomini  prudenti,  surgevano  ogni  di nuove  cagioni  per  le  quali  si  aveva  a fare  nuovi  ordini  in  favore  del  viver  libero j se  nelle  altre  città  che  hanno più  disordinalo  principio,  vi  surgono tuli  difficoltà,  che  le  non  si  possino  riordinar mai. L.  — iVon  dcbbc  uno  consiglio  o uno  magistrato  potere  fermare  le  azioni della  città. tirano  consoli  in  Roma  Tito  Quinzio Cincinnato  c Gneo  Giulio  Mento,  i quali sendo  disuniti,  avevano  ferme  tutte  le azioni  di  quella  Repubblica.  11  che  veggcndo  il  Senato,  gli  confortava  a creare il  Dittatore,  per  fare  quello  che  per  le discordie  loro  non  poteva  fare.  Ma  i Consoli discordando  in  ogni  altra  cosa,  solo in  questo  erano  d’accordo,  di  non  voler creare  il  Dittatore.  Tanto  che  il  Senato, non  avendo  altro  rimedio,  ricorse  allo aiuto  de’ Tribuni;  i quali,  con  l’autorità del  Senato,  sforzarono  i Consoli  ad  ubbidire. Dove  si  ba  a notare,  in  prima, la  utilità  del  tribunato;  il  quale  non  era solo  utile  a frenare  l’ ambizione  che  i potenti  usavano  contra  alla  Plebe,  ma quella  ancora  ch’egli  usavano  infra  loro: 1’  altra,  che  mai  si  debba  ordinare  in una  città,  che  i pochi  possino  tenere  alcuna deliberazione  di  quelle  che  ordinariamente sono  necessarie  a mantenere la  repubblica.  Yerbigrazia,  se  tu  dai  una autorità  nd  uno  consiglio  di  fare  una distribuzione  di  onori  c di  utile,  o ad uno  magistrato  di  amministrare  una  faccenda; conviene  o imporgli  una  necessità perchè  ei  l’ abbia  a fare  in  ogni modo;  o ordinare,  quando  non  la  voglia fare  egli,  che  la  possa  e debba  fare  un altro:  altrimenti,  questo  ordine  sarebbe difettivo  e pericoloso;  come  si  vedeva che  era  in  Roma,  se  alla  ostinazione  di quelli  Consoli  non  si  poteva  opporre P autorità  de’ Tribuni.  Nella  Repubblica veneziana  il  Consiglio  grande  distribuisce gli  onori  e gli  utili.  Occorreva  alle volte  che  P universalità,  per  isdegno  o per  qualche  falsa  suggestione,  non  creava i successori  ai  magistrati  della  città, ed  a quelli  che  fuori  amministravano  lo imperio  loro.  Il  che  era  disordine  grandissimo: perchè  in  un  tratto,  e le  terre suddite  e la  città  propria  mancavano de’ suoi  legittimi  giudici;  nè  si  poteva ottenere  cosa  alcuna,  se  quella  universalità  di  quel  Consiglio  non  si  satisfaceva, o non  s’ingannava.  Ed  avrebbe ridotta  questo  inconveniente  quella  città a mal  termine,  se  dagli  cittadini  prudenti non  vi  si  fusse  provveduto:  i quali, presa  occasione  conveniente,  fecero  una legge,  che  tutti  i magistrati  che  sono  o fussino  dentro  e fuori  della  città,  mai vacassero,  se  non  quando  fussino  fatti gli  scambi  e i successori  loro.  E cosi  si tolse  la  comodità  a quel  Consiglio  di  potere, con  pericolo  della  repubblica,  fermare le  azioni  pubbliche. LI.  Una  repubblica  o uno  principe debbe  mostrare  di  fare  per  liberalità quello  a che  la  necessità  lo  consiringe. Gli  uomini  prudenti  si  fanno  grado sempre  delle  cose,  in  ogni  loro  azione, ancora  che  la  necessità  gli  constringesse a farle  in  ogni  modo.  Questa  prudenza fu  usata  bene  dal  Senato  romano,  quando ei  deliberò  che  si  desse  lo  stipendio del  pubblico  agli  uomini  che  militavano, essendo  consueti  militare  del  loro  proprio. Ma  veggendo  il  Senato  come  in quel  modo  non  si  poteva  fare  lungamente guerra,  e per  questo  non  potendo nè  assediare  terre,  uè  condurre  gli  eserciti discosto;  e giudicando  essere  necessario potere  fare  1*  uno  e 1’  altro  ; deliberò che  si  dessino  detti  stipendi;  ina lo  feciono  in  modo,  che  si  fecero  grado di  quello  a che  la  necessità  gli  constringeva; e fu  tanto  accetto  alla  Plebe  questo presente,  che  Roma  andò  «sottosopra per  la  allegrezza,  parendole  uno  benefizio grande,  quale  mai  speravano  di avere,  e quale  mai  per  loro  medesimi arebbono  cerco.  E benché  i Tribuni  s*  ingegnassero di  cancellare  questo  grado, mostrando  come  ella  era  cosa  che  aggravava, non  alleggeriva,  la  Plebe,  scodo necessario  porre  i tributi  per  pagare questo  stipendio  ; nientedimeno  non  potevano fare  tanto  che  la  Plebe  non  lo avesse  accetto:  il  che  fu  ancora  augumentalo  dal  Senato  per  il  modo  che  distribuivano i tributi;  perchè  i più  gravi ed  i maggiori  furono  quelli  chVposono alla  Nobiltà,  e gli  primi  che  furono  pagati.  LII.  — A reprimere  la  insolenza  di uno  che  surga  in  una  repubblica  potente , non  vi  c più  securo  e meno  scandaloso modo , che  preoccuparli  quelle vie  per  le  quali  e*  viene  a quella  potenza. Yedesi  per  il  soprascritto  discorso, quanto  credito  acquistasse  la  Nobiltà  con la  Plebe  per  le  dimostrazioni  fatte  in benefizio  suo,  sì  del  stipendio  ordinato, si  ancora  del  modo  del  porre  i tributi. Nel  quale  ordine  se  la  Nobiltà  si  fosse mantenuta,  si  sarebbe  levato  via  ogni tumulto  in  quella  città,  e sarebbesi  tolto ai  Tribuni  quel  credito  che  egli  avevano con  la  Plebe,  e,  per  conseguente,  quella autorità.  E veramente,  non  si  può  in una  repubblica,  e massime  in  quelle  che sono  corrotte,  con  miglior  modo,  meno scandaloso  e più  facile,  opporsi  alla  ambizione di  alcuno  cittadino,  che  preoccuparli quelle  vie,  per  le  quali  si  vede che  esso  cammina  per  arrivare  al  grado che  disegna,  li  qual  modo  se  fusse  stalo usato  contra  Cosimo  de’ Medici,  sarebbe stato  miglior  partito  assai  per  gli  suoi avversari,  che  cacciarlo  da  Firenze:  perchè, se  quelli  cittadini  che  gareggiavano seco,  avessino  preso  lo  stile  suo  di  favorire il  popolo,  gli  venivano  senza  tumulto e senza  violenza  a trarre  di  mano quelle  arme  di  che  egli  si  valeva  più. SODERINI si  aveva  fatto  riputazione nella  città  di  Firenze  con  questo  solo,  di favorire  l’universale:  il  che  nello  universale gli  dava  riputazione,  come  amatore della  libertà  della  città.  E veramente, a quelli  cittadini  che  portavano  invidia alla  grandezza  sua,  era  molto  più  facile ed  era  cosa  molto  più  onesta,  meno  pericolosa, e meno  dannosa  per  la  repubblica, preoccupargli  quelle  vie  con  le quali  si  faceva  grande,  che  volere  contrapporsegli,  acciocché  con  la  rovina  sua rovinasse  tutto  il  resto  della  repubblica: perchè,  se  gli  avessero  levate  di  mano quelle  armi  con  le  quali  si  faceva  gagliardo (il  che  potevano  fare  facilmente), arebbono  potuto  in  lutti  i consigli,  e in tutte  le  deliberazioni  pubbliche,  opporsegli  senza  sospetto,  e senza  rispetto  alcuno. E se  alcuno  replicasse,  che  se  i cittadini  che  odiavano  Piero,  feciono  errore a non  gli  preoccupare  le  vie  con le  quali  ei  si  guadagnava  riputazione nel  popolo,  Piero  ancora  venne  a fare errore,  a non  preoccupare  quelle  vie  per le  quali  quelli  suoi  avversari  lo  facevano temere;  di’ che  Piero  merita  scusa,  si perchè  gli  era  difficile  il  farlo,  sì  perchè le  non  erano  oneste  a lui  : imperocché le  vie  con  le  quali  era  offeso, ciano  il  favorire  i Medici;  con  li  quali favori  essi  io  battevano,  e alla  fine  !o rovinorno.  Non  poteva,  pertanto,  Piero onestamente  pigliare  questa  parte,  per non  potere  distruggere  con  buona  fama quella  libertà  alla  quale  egli  era  stato preposto  a guardia  : dipoi,  non  potendo questi  favori  farsi  segreti  e ad  uno  tratto, erano  per  Piero  pericolosissimi;  perchè comunelle  ei  si  fusse  scoperto  amico de’ Medici,  sarebbe  diventato  sospetto  ed odioso  al  popolo;  donde  ai  nimici  suoi nasceva  molto  più  comodità  di  opprimerlo, che  non  avevano  prima.  Debbono, pertanto,  gli  uomini  in  ogni  partito  considerare i difetti  ed  i pericoli  di  quello, e non  gli  prendere,  quando  vi  sia  più del  pericoloso  che  dell’  utile  ; nonostante che  ne  fusse  stata  data  sentenza  conforme alla  deliberazion  loro.  Perchè,  facendo altrimenti,  in  questo  caso  interverrebbe a quelli  come  intervenne  a Tullio;  il  quale  volendo  torre  i favori  a Marc’  Antonio,  gliene  accrebbe.  Perchè, sondo  Marc’ Antonio  stato  giudicalo  inimico del  Senato,  ed  avendo  quello  grande esercito  insieme  adunato,  in  buona  parte, dei  soldati  che  avevano  seguitato  la  parte di  Cesare;  Tullio,  per  torgli  questi  soldati, confortò  il  Senato  a dare  riputazione ad  Ottaviano,  e mandarlo  con  lo esercito  e con  i Consoli  contra  a Marc' Antonio: allegando,  che  subito  che  i soldati che  seguitavano  Marc’  Antonio,  scntissino  il  nome  di  Ottaviano  nipote  di Cesare,  e che  si  faceva  chiamar  Cesare, lascerebbono  quello,  c si  aceosterebbono a costui  ; e così  restato  Marc’  Antouio ignudo  di  favori,  sarebbe  facile  lo  opprimerlo. La  qual  cosa  riuscì  tutta  al  contrario; perchè  Marc’ Antonio  si  guadagnò Ottaviano;  e lasciato  Tullio  ed  il  Senato, si  accostò  a lui.  La  qual  cosa  fu  al  tutto la  destruzione  della  parte  degli  Ottimati. 11  che  era  facile  a conietturare:  nè  si doveva  credere  quel  che  si  persuase  Tullio, ma  tener  sempre  conto  di  quel  nome che  con  tanto  gloria  aveva  spenti  i nimici  suoi,  ed  acquistatosi  il  principato in  Roma;  nè  si  dovea  credere  mai  potere, o da  suoi  eredi  o da  suoi  fautori,  avere cosa  che  fusse  conforme  al  nome  libero. LUI.  — Il  popolo  molte  volte  desidera la  rovina  sua j ingannato  da  una falsa  spezie  di  bene  : e come  le  grandi speranze  e gagliarde  promesse  facilmente lo  muovono. Espugnata  che  fu  la  città  de’  Veienti, entrò  nel  Popolo  romano  una  oppinione, che  fusse  cosa  utile  per  la  città  di  Roma,  che  la  metà  de’  Romani  andasse  ad abitare  a Veio  ; argomentando  che,  per essere  quella  città  ricca  di  contado, piena  di  edifizii  e propinqua  a Roma,  si poteva  arricchire  la  metà  de’  cittadini romani,  e non  turbare  per  la  propinquità del  sito  nessuna  azione  civile.  La qual  cosa  parve  al  Senato  ed  a’  più  savi Romani  tanto  inutile  e tanto  dannosa, che  liberamente  dicevano,  essere  piuttosto  per  patire  la  morte,  che  consentire ad  una  tale  deliberazione.  In  modo che,  venendo  questa  cosa  in  disputa,  si accese  tanto  la  Plebe  contra  al  Senato, che  si  sarebbe  venuto  alle  armi  cd  al sangue,  se  il  Senato  non  si  fusse  fatto scudo  di  alcuni  vecchi  e stimati  cittadini ; la  riverenza  dc’quali  frenò  la  Plebe, che  la  non  procede  più  avanti  con la  sua  insolenza.  Qui  si  hanno  a notare due  cose.  La  prima,  che  ’l  popolo  molte volte,  ingannato  da  una  falsa  immagine di  bene,  desidera  la  rovina  sua  ; e se non  gli  è fatto  capace,  come  quello  sia male,  e quale  sia  il  bene,  da  alcuno  in chi  esso  abbia  fede,  si  pone  in  le  repubbliche infiniti  pericoli  c danni.  E quando  la  sorte  fu  che  il  popolo  non abbi  fede  in  alcuno,  come  qualche  volta occorre,  sendo  stato  ingannato  per  lo addietro  o dalle  cose  o dagli  uomini; si  viene  alla  rovina  di  necessità.  Ed ALIGHIERI (si veda) dice  a questo  proposito,  nel  discorso  suo che  fa  De  Monarchia > che  il  popolo  molte  volte  grida  viva  la  sua  morie j C muoia la  sua  vita.  Da  questa  incredulità  nasce, che  qualche  volta  in  le  repubbliche  i buoni  partiti  non  si  pigliano  : come  di sopra  si  disse  de’  Veneziani,  quando  assaltati da  tanti  inimici  non  poterono prendere  partito  di  guadagnarsene  alcuno con  la  restituzione  delle  cose  tolte ad  altri  (per  le  quali  era  mosso  loro  la 'guerra,  e fatta  la  congiura  de’  principi loro  contro),  avanti  che  la  rovina  venisse. Pertanto,  considerando  quello  che è facile  o quello  che  è diffìcile  persuadere ad  un  popolo,  si  può  fare  questa distinzione:  o quel  che  tu  hai  a persuadere rappresenta  in  prima  fronte guadagno,  o perdita  ; o veramente  pare partito  animoso,  o vile:  e quando  nelle cose  che  si  mettono  innanzi  ai  popolo, si  vede  guadagno,  ancora  che  vi  sia  nascosto sotto  perdila;  e quando  e* paia animoso,  ancora  che  vi  sia  nascosto  sotto la  rovina  della  repubblica,  sempre  sarà facile  persuaderlo  alla  moltitudine:  e così  fia  sempre  difficile  persuadere  quelli partiti  dove  apparisce  o viltà  o perdita, ancoraché  vi  fusse  nascosto  sotto  salute e guadagno.  Questo  che  io  ho  detto,  si conferma  con  infiniti  esempi,  romani  e forestieri,  moderni  ed  antichi.  Perchè  da questo  nacque  la  malvagia  opinione  che surse  in  Roma  di  Fabio  Massimo,  il  quale non  poteva  persuadere  al  Popolo  romano, che  fusse  utile  a quella  Repubblica procedere  lentamente  in  quella  guerra, e sostenere  senza  azzuffarsi  V impeto  di Annibaie;  perchè  quel  Popolo  giudicava questo  partito  vile,  c non  vi  vedeva  dentro quella  utilità  vi  era  ; nè  Fabio  aveva ragioni  bastanti  a dimostrarla  loro:  c tanto  sono  i popoli  accecati  in  queste oppinioni  gagliarde,  che  benché  il  Popolo romano  avesse  fatto  quello  errore di  dare  autorità  al  Maestro  de’ cavalli  di Fabio  di  potersi  azzuffare,  ancora  che Fabio  non  volesse;  e che  per  tale  autorità il  campo  romano  fusse  per  esser rotto,  se  Fabio  con  la  sua  prudenza  non vi  rimediava;  non  gli  bastò  questa  esperienza, che  fece  dipoi  consolo  VARRONE (si veda), non  per  altri  suoi  meriti  che  per  avere, per  tutte  le  piazze  e tutti  i luoghi  pubblici di  Roma,  promesso  di  rompere  Annibaie, qualunque  volta  gliene  fusse  data autorità.  Di  che  ne  nacque  la  zuffa  e rotta  di  Canne,  e presso  che  la  rovina di  Roma.  Io  voglio  addurre  a questo proposito  ancora  uno  altro  essempio  romano. Era  stato  Annibaie  in  Italia  otto o dieci  anni,  aveva  ripieno  di  occhione de’  Romani  tutta  questa  provincia, quando  venne  in  Senato  Marco  Centenio Penula,  uomo  vilissimo  (nondimanco aveva  avuto  qualche  grado  nella  milizia), ed  offersegli,  che  se  gli  davano  autorità di  potere  fare  esercito  di  uomini  volutitari  in  qualunque  luogo  volesse  in  Italia, ei  darebbe  loro,  in  brevissimo  tempo, preso  o morto  Annibaie.  Al  Senato  parve la  domanda  di  costui  temeraria;  nondimeno ei  pensando  che  s’ ella  se  gli negasse,  e nel  popolo  si  fusse  dipoi  sapula  la  sua  chiesta,  che  non  ne  nascesse qualche  tumulto,  invidia  e mal  grado  contro all’ordine  senatorio,  gliene  concessono  : volendo  più  tosto  mettere  a pericolo tutti  coloro  che  lo  seguitassino,  che  fare surgere  nuovi  sdegni  nel  Popolo;  sappiendo  quanto  simile  partito  fusse  per essere  accetto,  e quanto  fusse  difficile il  dissuaderlo.  Andò,  adunque,  costui con  una  moltitudine  inordinata  ed  incomposita  a trovare  Annibaie;  e non gli  fu  prima  giunto  all*  incontro,  che  fu con  tutti  quelli  che  lo  seguitavano  rotto e morto.  In  Grecia,  nella  città  di  Atene, non  potette  mai  Nicia,  uomo  gravissimo e prudentissimo,  persuadere  a quel  popolo, che  non  fusse  bene  andare  ad  assaltare Sicilia:  talché,  presa  quella  deliberazione contra  alla  voglia  de’  savi, ne  seguì  al  tutto  la  rovina  di  Atene.  Scipione quando  fu  fatto  consolo,  e che desiderava  la  provincia  di  Affrica,  promettendo al  tutto  la  rovina  di  Cartagine; a che  non  si  accordando  il  Senato per  la  sentenza  di  Fabio  Massimo,  minacciò di  proporla  nel  Popolo,  come quello  clic  conosceva  benissimo  quanto simili  deliberazioni  piaccino  a’  popoli. Potrebbesi  a questo  proposito  dare  esempi della  nostra  città  : come  fu  quando messere  Ercole  Bentivogli,  governadore delle  genti  fiorentine,  insieme  con  Antonio Giacomini,  poiché  ebbono  rotto llartolommeo  d’  Alviano  a San  Vincenti, andarono  a campo  a Pisa  ; la  qual  impresa fu  deliberata  dal  popolo  in  su  le promesse  gagliarde  di  messcr  Ercole, ancora  che  molti  savi  cittadini  la  biasimassero: nondimeno  non  vi  ebbero rimedio,  spinti  da  quella  universale  volutila, la  qual  era  fondata  in  su  le  promesse gagliarde  del  governadore.  Dico, adunque,  come  non  è la  più  facile  via a fare  rovinare  una  repubblica  dove  il popolo  abbia  autorità,  che  metterla' in imprese  gagliarde  : perchè,  dove  il  popolo sia  di  alcuno  momento,  sempre  fieno accettale;  nè  vi  arà,  chi  sarà  d’  altra
oppinione,  alcuno  rimedio.  Ma  se  di  questo nasce  la  rovina  della  città,  ne  nasce ancora,  e più  spesso,  la  rovina  particolare de*  cittadini  che  sono  preposti  a simili  imprese  : perchè,  avendosi  il  popolo presupposto  la  vittoria,  eomee’vienc la  perdita,  non  ne  accusa  nè  la  fortuna, nè  la  impotenza  di  chi  ha  governato, ma  la  tristizia  e la  ignoranza  sua;  e quello  il  più  delle  volte  o ammazza,  o imprigiona,  o confina:  come  intervenne  a infiniti  capitani  Cartaginesi,  ed  a molti Ateniesi.  Nè  giova  loro  alcuna  vittoria che  per  lo  addietro  avessino  avuta,  perchè tutto  la  presente  perdita  cancella  : come  intervenne  ad  Antonio  Giacomini nostro,  il  quale  non  avendo  espugnata Pisa,  come  il  popolo  aveva  presupposto ed  egli  promesso,  venne  in  tanta  disgrazia popolare,  che  non  ostante  infinite sue  buone  opere  passate,  visse  più  per umanità  di  coloro  che  ne  avevano  autorità, che  per  alcun’  altra  cagione  che nel  popolo  lo  difendesse. liv#  — Quanta  autorità  abbia  uno uomo  grande  a frenare  una  moltitudine  concitata. Il  secondo  notabile  sopra  il  testo  nel superiore  capitolo  allegato,  è,  che  veruna cosa  è tanto  atta  a frenare  una moltitudine  concitata,  quanto  è la  riverenza di  qualche  uomo  grave  e di  autorità, che  se  le  faccia  incontro  j nè  senza cagione  dice  VIRGILIO (si veda): “Tutn  vietate  graverà  ac  meritis  si  forte  virum Conspexere , sileni , arrectisque  aur^®n^ci* Per  tanto,  quello  che  è proposto  a uno esercito,  o quello  che  si  trova  in  una città,  dove  nascesse  tumulto,  debbe  rappresentarsi in  su  quello  con  maggior grazia  e piu  onorevolmente  che  può,  mettendosi intorno  le  insegne  di  quel  grado che  tiene,  per  farsi  più  reverendo.  Era, pochi  anni  sono,  Firenze  diviso  in  due fazioni,  Fratesche  ed  Arrabbiate,  che  cosi si  chiamavano;  e venendo  ali’ arme,  ed essendo  superati  i Frateschi,  intra  i quali era  Pagolantonio  Soderini,  assai  in  quelli tempi  riputato  cittadino;  cd  andandogli
in  quelli  tumulti  il  popolo  armato  a casa per  saccheggiarla;  messer  Francesco  suo fratello,  allora  vescovo  di  Volterra,  ed oggi  cardinale,  si  trovava  a sorte  in  casa  : il  quale,  subito  sentito  il  romore  e veduta la  turba,  messosi  i più  onorevoli panni  indosso,  e di  sopra  il  rocchetto episcopale,  si  fece  incontro  a quelli  armati, e con  la  persona  e con  le  parole gli  fermò  ; la  qual  cosa  fu  per  tutta  la città  per  molti  giorni  notata  e celebrata. Conchiudo,  adunque,  come  e’ non  è il più  fermo  nè  il  più  necessario  rimedio a frenare  una  moltitudine  concitata,  che la  presenza  d’  uno  uomo  che  per  presenza paia  e sia  reverendo.  Vedesi,  adunque, per  tornare  al  preallegato  testo, con  quanta  ostinazione  la  Plebe  romana accettava  quel  partito  d’  andare  a Yeio, perchè  Io  giudicava  utile,  nè  vi  conosceva  sotto  il  danno  vi  era  ? e come  nascendone assai  tumulti,  ne  sarebbero nati  scandali,  se  il  Senato  con  uomini gravi  e pieni  di  riverenza  non  avesse frenato  il  loro  furore. lv.  — Quanto  facilmente  si  conduellino  le  cose  in  quella  città  dove la  moltitudine  non  è corrotta:  e che dove  è e qualità , non  si  può  fare principato  / e dove  la  non  èj  non  si può  far  repubblica. Ancora  clie  di  sopra  si  sia  discorso assai  quello  sia  da  temere  o sperare delle  città  corrotte;  nondimeno  non  mi pare  fuori  di  proposito  considerare  una deliberazione  del  Senato  circa  il  voto ehe  Cammillo  aveva  fatto  di  dare  la decima  parte  ad  Apolline  della  preda de’  Veienti  : la  qual  preda  sendo  venuta nelle  mani  della  Plebe  romana,  nè  se  ne potendo  altrimenti  riveder  conto,  fece il  Senato  uno  editto,  che  ciascuno  dovesse  rappresentare  al  pubblico  la  decima parte  di  quello  gli  aveva  predalo. E benché  tale  deliberazione  non  avesse luogo,  avendo  dipoi  il  Senato  preso  altro modo,  c per  altra  via  satisfatto  ad Àpolliue  in  satisfazione  della  Plebe;  nondimeno si  vede  per  tali  deliberazioni quanto  quel  Senato  confidasse  nella  bontà di  quella,  e come  e’  giudicava  che  nessuno fusse  per  non  rappresentare  appunto tutto  quello  che  per  tale  editto gli  era  comandato.  E dall’  altra  parte  si vede,  come  la  Plebe  non  pensò  di  fraudare in  alcuna  parte  lo  editto  con  il dare  meno  che  non  doveva,  ma  di  liberarsi da  quello  con  il  mostrarne  aperte indignazioni.  Questo  essempio,  con  molti altri  che  di  sopra  si  sono  addotti,  mostrano quanta  bontà  e quanta  religione fusse  in  quel  Popolo,  e quanto  bene fusse  da  sperare  di  lui.  E veramente, dove  non  è questa  bontà,  non  si  può sperare  nulla  di  bene;  come  non  si  può sperare  nelle  provincic  che  in  questitempi  si  veggono  corrotte:  come  è la Italia  sopra  tutte  le  altre;  ed  ancora  la Francia  di  tale  corruzione ritengono  parte.  E se  in  quelle  provincie  non  si  vede  tanti  disordini  quanti nascono  in  Italia  ogni  di,  deriva  non tanto  dalla  bontà  de'  popoli,  la  quale  ìh buona  parte  è mancata;  quanto  dallo avere  uno  re  che  gli  mantiene  uniti, non  solamente  per  la  virtù  sua,  ma  per l’ordine  di  quelli  regni,  che  ancora  non sono  guasti.  Vedesi  bene  nella  provincia della  Magna,  questa  bontà  e questa religione  ancora  in  quelli  popoli  esser grande;  la  qual  fa  che  molte  repubbliche vi  vivono  libere,  ed  in  modo  osservano le  loro  leggi,  che  nessuno  di  fuori nè  di  dentro  ardisce  occuparle.  E che sia  vero  che  in  loro  regni  buona  parte di  quella  antica  bontà,  io  nc  voglio  dare uno  essempio  simile  a questo  detto di  sopra  del  Senato  e della  Plebe  romana. Usano  quelle  repubbliche,  quando gli  occorre  loro  bisogno  di  avere  a spendere  alcuna  quantità  di  danari  per  conto pubblico,  che  quelli  magistrati  o consigli che  ne  hanno  autorità,  ponghino  a tutti  gli  abitanti  della  città  uno  per  cento, o dua,  di  quello  che  ciascuno  ha  di valsente.  E fatta  tale  deliberazione  secondo 1’  ordine  della  terra,  si  rappresenta ciascuno  dinanzi  agli  esecutori  di tale  imposta;  e,  preso  prima  il  giuramento di  pagare  la  conveniente  somma, getta  in  una  cassa  a ciò  deputata  quello clic  secondo  la  conscienza  sua  gli  pare dover  pagare:  del  qual  pagamento  non è testimonio  alcuno,  se  non  quello  che paga.  Donde  si  può  conictturare,  quanta bontà  e quanta  religione  sia  ancora  in quelli  uomini.  E debbesi  stimare  che ciascuno  paghi  la  vera  somma:  perchè, quando  la  non  si  pagasse,  non  pitterebbe la  imposizione  quella  quantità che  loro  disegnassero  secondo  le  antiche che  fussino  usitate  riscuotersi;  e non  gitlando,  si  conoscerebbe  la  fraude; e conoscendosi,  arebbon  preso  altro  modo che  questo.  La  quale  bontà  è tanto  più da  ammirare  in  questi  tempi,  quanto ella  è più  rara  : anzi  si  vede  essere  rimasa  sola  in  quella  provincia.  Il  che nasce  da  due  cose  : Y una,  non  avere avuti  commerzi  grandi  co’ vicini;  perchè nè  quelli  sono  ili  a casa  loro,  nè essi  sono  iti  a casa  altrui;  perchè  sono stati  eontenli  di  quelli  beni,  e vivere  di quelli  cibi,  vestire  di  quelle  lane  che  dà il  paese:  d’onde  è stata  tolta  via  la cagione  d’ogni  conversazione,  ed  il  principio di  ogni  corruttela;  perchè  non hanno  possuto  pigliare  i costumi  nè franciosi  nè  spagnuoli  nè  italiani,  le quali  nazioni  tutte  insieme  sono  la  corruttela del  mondo.  L’ altra  cagione  è, che  quelle  repubbliche  dove  si  è mantenuto il  vivere  politico  ed  incorrotto, non  sopportano  che  alcuno  loro  cittadino nè  sia  nè  viva  ad  uso  di  gentiluomo: anzi  mantengono  infra  loro  una pari  equalità,  ed  a quelli  signori  e gentiluomini che  sono  in  quella  provincia, sono  inimicissimi  ; c se  per  caso  alcuni pervengono  loro  nelle  mani,  come  priacipi  di  corruttela  e cagione  di  ogni  scandalo, gli  ammazzano.  E'  per  chiarire questo  nome  di  gentiluomini  quale  e’  sia. dico  che  gentiluomini  sono  chiamali quelli  che  ociosi  vivono  de’  proventi delle  loro  possessioni  abbondantemente, senza  avere  alcuna  cura  o di  coltivare, o di  alcuna  altra  necessaria  fatica  a vivere.  Questi  tali  sono  perniciosi  in ogni  repubblica  ed  in  ogni  provincia; ma  più  perniciosi  sono  quelli  che,  oltre alle  predette  fortune,  comandano  a ca- stella, ed  hanno  sudditi  che  ubbidiscono a loro.  Di  queste  due  sorti  di  uomini ne  sono  pieni  il  regno  di  Napoli,  terra di  Roma,  la  Romagna  e la  Lombardia. Di  qui  nasce  che  in  quelle  provincie non  è mai  stata  alcuna  repubblica,  nè alcuno  vivere  politico;  perchè  tali  generazioni di  uomini  sono  al  tutto  nemici di  ogni  civiltà.  Ed  a volere  in  provincie fatte  in  simil  modo  introdurre una  repubblica,  non  sarebbe  possibile: ma  a volerle  riordinare,  se  alcuno  ne fusse  arbitro,  non  arebbe  altra  via  che farvi  un  regno.  La  ragione  è questa, che  dove  è tanto  la  materia  corrotta che  le  leggi  non  bastino  a frenarla,  vi bisogna  ordinare  insieme  con  quelle maggior  forza  ; la  quale  è una  mano regia,  che  con  la  potenza  assoluta  ed eccessiva  ponga  freno  alla  eccessiva  ambizione e corruttela  de’  potenti.  Verificasi questa  ragione  cou  lo  esempio  di Toscana  : dove  si  vede  in  poco  spazio di  terreno  stale  longamente  tre  repubbliche, Firenze,  Siena  e Lucca  ; e le  altre città  di  quella  provincia  essere  in modo  serve,  che,  con  l’ animo  e con T ordine,  si  vede  o che  le  mantengono, o che  le  vorrebbono  mantenere  la  loro libertà.  Tutto  è nato  per  non  essere  in quella  provincia  alcun  signore  di  castella, c nessuno  o pochissimi  gentiluomini ; ma  esservi  tanta  equalità,  che facilmente  da  uno  uomo  prudente,  e che
delle  antiche  civilità  avesse  cognizione, vi  si  introdurrebbe  un  viver  civile.  Ma lo  infortunio  suo  è stato  tanto  grande, che  infino  a questi  tempi  non  ha  sortito alcuno  uomo  che  lo  abbia  potuto o saputo  fare.  Trassi  adunque  di  questo discorso  questa  conclusione:  che  colui che  vuole  fare  dove  sono  assai  gentiluomini una  repubblica,  non  la  può fare  se  prima  non  gli  spegne  tutti:  e che  colui  che  dove  è assai  equalità  vuole fare  uno  regno  o uno  principato,  non lo  potrà  mai  fare  se  non  trae  di  quella «qualità  molti  di  animo  ambizioso  ed inquieto,  e quelli  fa  gentiluomini  in  fatto, e non  in  nome,,  donando  loro  castella e possessioni,  c dando  loro  favore di  sustanze  e d’uomini  ; acciocché, posto  in  mezzo  di  loro,  mediante  quelli mantenga  la  sua  potenza  ; cd  essi, mediante  quello,  la  loro  ambizione;  e gli  altri  siano  constretti  n sopportare quel  giogo  che  la  forza,  e non  altro mai,  può  far  sopportare  loro.  Ed  essendo  per  questa  via  proporzione  da  chi sforza  a chi  è sforzato,  stanno  fermi gli  uomini  ciascuno  nello  ordine  loro. E perchè  il  fare  d’  una  provincia  atta ad  essere  regno  una  repubblica,  c d’ una atta  ad  essere  repubblica  farne  un  regno, è materia  da  uno  uomo  che  per cervello  e per  autorità  sia  raro;  sono stati  molti  che  Io  hanno  voluto  fare,  e pochi  che  lo  abbino  saputo  condurre. Perchè  la  grandezza  della  cosa  parte sbigottisce  gli  uomini,  parte  in  modo gli  ’mpedisce,  che  ne’ primi  principii mancano.  Credo  che  a questa  mia  oppiatone, che  dove  sono  gentiluomini  non si  possa  ordinare  repubblica,  parrà  contraria la  esperienza  della  Repubblica veneziana,  nella  quale  non  usano  avere alcuno  grado  se  non  coloro  che  sono gentiluomini.  A che  si  risponde,  come questo  essempio  non  ci  fa  alcuna  oppugnazione, perchè  i gentiluomini  in quella  Repubblica  sono  piu  in  nome  che in  fatto;  perchè  loro  non  hanno  grandi entrate  di  possessioni,  sendo  le  loro ricchezze  grandi  fondate  in  sulla  mercanzia e cose  mobili;  e di  più,  nessuno di  loro  tiene  castella,  o ha  alcuna  iurisdizione  sopra  gli  uomini:  ma  quel  nome di  gentiluomo  in  loro  è nome  di degnila  e di  riputazione,  senza  essere fondato  sopra  alcuna  di  quelle  cose  che fa  che  nell’  altre  città  si  chiamano  i gentiluomini.  E come  le  altre  repubbliche hanno  tutte  le  loro  divisioni  sotto vari  nomi,  così  Vinegia  si  divide  in gentiluomini  e popolari  ; e vogliono  che quelli  abbino,  ovvero  possino  avere,  tutti gli  onori;  quelli  altri  ne  sieno  al  tutto esclusi.  Il  che  non  fa  disordine  in  quella terra,  per  le  ragioni  altra  volta  dette. Gonstituisca,  adunque,  una  repubblica colui  dove  è,  o è fatta  una  grande  egualità; ed  alP  incontro  ordini  un  principato dove  è grande  inequalità  : altrimenti farà  cosa  senza  propprzione,  e poco  durabile.  LYI.  — Innanzi  che  segnino  i grandi  accidenti  in  una  città  o in  una provincia , vengono  segni  che  gli  pròìioslicanOj  o uomini  che  gli  predicono. Donde  e*  si  nasca  io  non  so,  ina  si vede  pei*  gli  antichi  e per  gli  moderni essempi,  che  mai  non  venne  alcuno  grave accidente  in  una  città  o in  una  provincia, che  non  sia  stato,  o da  indovini  o da  revelazioni  o da  prodigi,  o da  altri segni  celesti,  predetto.  E per  non  mi  discostare da  casa  nei  provare  questo,  saciascuno  quanto  da  frate  Girolamo  Savonarola fusse  predetta  innanzi  la  venuta del  re  Carlo  Vili  di  Francia  in  Italia; e come,  olirà  di  questo,  per  tutta  Toscana si  disse  esser  sentite  in  aria  e vedute genti  d’ arme,  sopra  Arezzo,  che  si azzuffavano  insieme.  Sa  ciascuno  olirà di  questo,  come  avanti  la  morte  di  Lorenzo de’  Medici  vecchio  fu  percosso  il duomo  nella  sua  più  alta  parte  con  una saetta  celeste,  con  l'ovina  grandissima di  quello  edilìzio.  Sa  ciascuno  ancora,, come  poco  innanzi  che  Soderini, quale  era  stato  fatto  gonfaloniere  a vita dal  popolo  fiorentino,  fosse  cacciato  e privo  del  suo  grado,  fu  il  palazzo  medesimamente da  un  fulgore  percosso.  Potrcbbesi,  olirà  di  questo,  addurre  più essempi,  i quali  per  fuggire  il  tedio  lascerò.  Narrerò  solo  quello  che  L.,  innanzi  alla  venuta  de’  Franciosi in  Roma  : cioè,  come  uno  Marco Cedizio  plebeio,  riferì  al  Senato  avere udito  di  mezza  notte,  passando  per  la Via  Nuova,  una  voce  maggiore  che  umana, la  quale  lo  ammoniva  che  riferisse ai  magistrati,  come  i Franciosi  venivano a Roma.  La  cagione  di  questo  credo  sia da  essere  discorsa  ed  interpretata  da uomo  che  abbia  notizia  delle  cose  naturali e soprannaturali:  il  che  non  abbiamo noi.  Pure,  potrebbe  essere  che,  sendo questo  aere,  come  vuole  alcuno  filosofo, pieno  d’ intelligenze  ; le  quali  per  naturale  virtù  prevedendo  le  cose  future, ed  avendo  compassione  agli  uomini,  acciò si  possino  preparare  alle  difese,  gli avvertiscono  con  simili  segni.  Pure,  comunelle si  sia,  si  vede  cosi  essere  la verità;  e che  sempre  dopo  tali  accidenti sopravvengono  cose  istraordinarie  e nuove alle  provincie.  L VII.  — La  plebe  insieme  è gagliarda; di  per  se  è debole. Erano  molti  Romani,  scudo  seguita per  la  passata  de*  Franciosi  la  rovina della  lor  patria,  andati  ad  abitare  a Yeio, contea  alla  constituzione  ed  ordine  del Senato:  il  quale,  per  rimediare  a questo disordine,  comandò  per  i suoi  editti pubblici  che  ciascuno,  infra  certo  tempo e sotto  certe  pene,  tornasse  ad  abitare a Roma.  De’quali  editti,  da  prima  per coloro  contea  a chi  e*  venivano,  si  fu fatto  beffe;  dipoi,  quando  si  appressò  il tempo  dello  ubbidire,  tutti  ubbidirono. E Tito  Livio  dice  queste  parole  : Ex  fcrocibus  universtSj  singtili  metti  suo  obedienfes  fuere.  E veramente,  non  si  può mostrare  meglio  la  natura  d’ una  moltitudine in  questa  parte,  che  si  dimostri in  questo  testo.  Perchè  la  moltitudine  è audace  nel  parlare  molte  volte  contra alle  deliberazioni  del  loro  principe;  dipoi, come  veggono  la  pena  in  viso,  non si  fidando  Y uno  dell’  altro,  corrono  ad ubbidire.  Talché  si  vede  certo,  che  di quel  che  si  dica  uno  popolo  circa  la mala  o buona  disposizion  sua,  si  debbe tenere  non  gran  conto,  quando  tu  sia ordinato  in  modo  da  poterlo  mantenere, s’ egli  è ben  disposto;  s’ egli  è mal  disposto, da  poter  provvedere  che  non  ti offenda.  Questo  s’intende  per  quelle  male disposizioni  che  hanno  i popoli,  nate  da qualunque  altra  cagione,  che  o per  avere perduto  la  libertà,  o il  loro  principe stato  amato  da  loro,  e che  ancora  sia vivo;  perchè  le  male  disposizioni  che nascono  da  queste  cagioni,  sono  sopra ogni  cosa  formidabili,  e che  hanno  bisogno di  grandi  rimedi  a frenarle  : 1'  altre sue  indisposizioni  fieno  facili,  quando ci  non  abbia  capi  a chi  rifuggire.  Perchè non  ci  è cosa,  dall’  un  canto,  più formidabile  che  una  moltitudine  sciolta e senza  capo;  e,  dall’  altra  parte,  non  è cosa  più  debole  : perchè,  quantunque  ella abbi  1’  armi  in  mano,  fia  facile  ridurla, purché  tu  abbi  ridotto  da  potere  fuggire il  primo  impeto;  perchè  quando  gli animi  sono  un  poco  raffreddi,  e che  ciascuno vede  di  aversi  a tornare  a casa sua,  cominciano  a dubitare  di  loro  medesimi, e pensare  alla  salute  loro,  o con fuggirsi  o con  l’accordarsi.  Però  una moltitudine  così  concitata,  volendo  fuggire questi  pericoli,  ha  subito  a fare  infra sè  medesima  un  capo  che  la  corregga, tenghila  unita  e pensi  alla  sua  difesa ; come  fece  la  Plebe  romana,  quando dopo  la  morte  di  Virginia  si  partì  da Roma,  e per  salvarsi  feciono  infra  loro venti  Tribuni:  e non  facendo  questo,  interviene  loro  scmj)re  quel  che  dice  L.  nelle  soprascritte  parole,  che  tutti insieme  sono  gagliardi;  e quando  ciascuno poi  comincia  a pensare  al  proprio pericolo,  diventa  vile  e debole. LVIIL  — ì.a  moltitudine  è più  savia e più  costante  che  un  principe. Nessuna  cosa  essere  più  vana  e più inconstante  che  la  moltitudine:  cosi  L.  nostro,  come  tutti  gli  altri  istorici affermano.  Perchè  spesso  occorre, nel  narrare  le  azioni  degli  uomini,  vedere la  moltitudine  avere  condannato alcuno  a morte,  e quel  medesimo  di  poi pianto  e sommamente  desiderato:  come si  vede  avere  fatto  il  Popolo  romano  di Manlio  Capitolino,  il  quale  avendo  CONDENNATO A MORTE,  sommamente  dipoi  desiderava. E le  parole  dell*  autore  son queste:  Populum  brevi,  posteaquam  ab co  periculum  nullum  eral , dcsidcrium rjus  tenuit.  Ed  altrove,  quando  mostra gli  accidenti  che  nacquero  in  Siracusa dopo  la  morte  di  Girolamo  nipote  di  Ierone,  dice:  Hcec  natura  mulliludinis  est : aut  umiliter  servii , aut  superbe  domi • natur.  Io  non  so  se  io  mi  prenderò  una provincia  dura,  e piena  di  tanta  difficoltà, che  mi  convenga  o abbandonarla con  vergogna,  o seguirla  con  carico; volendo  difendere  una  cosa,  la  quale, come  ho  detto,  da  tutti  gli  scrittori  è accusata.  Ma,  comunehc  si  sia,  io  non giudico  nè  giudicherò  mai  essere  difetto difendere  alcune  oppinioni  con  le  ragioni, senza  volervi  usare  o la  autorità  o la forza.  Dico  adunque,  come  di  quello  difetto di  che  accusano  gli  scrittori  la moltitudine,  se  ne  possono  accusare  tutti gli  uomini  particolarmente,  e massime i principi;  perchè  ciascuno  che  non  sia regolato  dalle  leggi,  farebbe  quelli  medesimi errori  che  la  moltitudine  sciolta. E questo  si  può  conoscere  facilmente, perchè  e’  sono  c sono  stati  assai  principi, e de’ buoni  e de’ savi  ne  sono  stati pochi;  io  dico  de’ principi  che  hanno potuto  rompere  quel  freno  che  gli  può correggere;  intra  i quali  non  sono  quegli re  che  nascevano  in  Egitto,  quando in  quella  antichissima  antichità  si  governava quella  provincia  con  le  leggi; nè  quelli  che  nascevano  in  Sparta;  nè quelli  che  a’  nostri  tempi  nascono  in Francia:  il  quale  regno  è moderato  più dalle  leggi,  che  alcuno  altro  regno  di che  ne’ nostri  tempi  si  abbi  notizia.  E questi  re  che  nascono  sotto  tali  constituzioni,  non  sono  da  mettere  in  quel numero,  donde  si  abbia  a considerare la  natura  di  ciascuno  uomo  per  sè,  e vedere  se  egli  è simile  alla  moltitudine: perchè  a rincontro  loro  si  debbe  porre una  moltitudine  medesimamente  regolata dalle  leggi  come  sono  loro;  e si  troverà in  lei  essere  quella  medesima  bontà  che noi  veggiamo  essere  in  quelli,  e vedrassi quella  nè  superbamente  dominare  nè umilmente  servire:  come  era  il  Popolo romano,  il  quale  mentre  durò  la  Repubblica  incorrotta,  non  servì  mai  umilmente nè  mai  dominò  superbamente; anzi  con  li  suoi  ordini  e magistrati  tenne il  grado  suo  onorevolmente.  E quando era  necessario  insurgerc  contra  a uno potente,  lo  faceva;  come  si  vede  in  Manlio, ne’  Dieci,  ed  in  altri  che  cercorno opprimerla  : e quando  era  necessario ubbidire  a’  Dittatori  ed  a’ Consoli  per  la salute  pubblica,  lo  faceva.  E se  il  Popolo romano  desiderava  Manlio  Capitolino morto,  non  è meraviglia;  perchè e*  desiderava  le  sue  virtù,  le  quali  erano state  tali,  che  la  memoria  di  esse  recava compassione  a ciascuno;  cd  arebbono avuto  forza  di  fare  quel  medesimo  effetto in  un  principe,  perchè  1*  è sentenza di  tutti  li  scrittori,  come  la  virtù  si lauda  e si  ammira  ancora  negli  inimici suoi:  e se  Manlio,  infra  tanto  desiderio, fusse  risuscitato,  il  Popolo  di  Roma  arebbe dato  di  lui  il  medesimo  giudizio,  come ei  fece,  tratto  che  lo  ebbe  di  prigione, che  poco  di  poi  lo  condennò  a morte; nonostante  die  si  vegga  di  principi  tenuti savi,  i quali  hanno  fatto  morire qualche  persona,  e poi  sommamente  desideratala : come  Alessandro,  Clito  ed altri  suoi  amici  ; ed  Erode,  Marianne.  Ma quello  che  lo  istorico  nostro  dice  della natura  della  moltitudine,  non  dice  di quella  che  è regolata  dalle  leggi,  come era  la  romana;  ma  della  sciolta,  come era  la  siracusana:  la  quale  fece  quelli errori  che  fanno  gli  uomini  infuriati  e sciolti,  come  fece  Alessandro  magno,  ed Erode,  ne’ casi  detti.  Però  non  è più  da incolpare  la  natura  della  moltitudine  che de’ principi,  perchè  tutti  egualmente  errano, quando  tutti  senza  rispetto  possono errare.  Di  che,  oltre  a quello  che ho  detto,  ci  sono  assai  essempi,  ed  intra gli  imperadori  romani,  ed  intra  gli altri  tiranni  e , principi;  dove  si  vede tanta  incostanza  e tanta  variazione  di vita,  quanta  mai  non  si  trovasse  in  alcuna moltitudine.  Conchiudo,  adunque, contea  olla  comune  oppimene,  la  qual dice  come  i popoli,  quando  sono  principi,  sono  vari,  mutabili,  ingrati;  affermando che  in  loro  non  sono  altrimente
questi  peccati  che  si  siano  ne’  principi particolari.  Ed  accusando  alcuni  i popoli ed  i principi  insieme,  potrebbe  dire  il vero;  ma  traendone  i principi,  s’inganna; perchè  un  popolo  che  comanda  e sia bene  ordinato,  sarà  stabile,  prudente  e grato  non  altrimenti  che  un  principe,  o meglio  che  un  principe,  eziandio  stimato savio:  e dall’altra  parte,  un  priucipe sciolto  dalle  leggi,  sarà  ingrato,  vario ed  imprudente  più  che  uno  popolo.  E che la  variazione  del  procedere  loro  nasce non  dalla  natura  diversa,  perchè  in  tutti è ad  un  modo:  e se  vi  è vantaggio  di bene,  è nei  popolo;  ma  dallo  avere  più o meno  rispetto  alle  leggi,  dentro  alle quali  l’uno  e l’altro  vive.  E chi  considerrà  il  Popolo  romano,  lo  vedrà  essere stato  per  quattrocento  anni  iuimico  del nome  regio,  ed  amatore  della  gloria  e del  bene  comune  della  sua  patria:  vedrà tanti  essempi  usati  da  lui,  clic  testiiuoniauo  1’  una  cosa  e V altra.  £ se  alcuno mi  allegasse  la  ingratitudine  eh7  egli  usò centra  a Scipione,  rispondo  quello  die di  sopra  lungamente  si  discorse  in  questa  materia,  dove  si  mostrò  i popoli  essere  meno  iugraii  de’ principi.  Ma  quanto alla  prudenza  ed  alla  stabilità,  dico,  come uno  popolo  è più  prudente,  più  stabile e di  miglior  giudicio  che  un  principe. E uon  senza  cagione  si  assomiglia la  voce  d7  un  popolo  a quella  di  Dio; perchè  si  vede  una  oppinioue  universale fare  effetti  meravigliosi  ne’ pronostichi suoi:  talché  pare  che  per  occulta virtù  e’ prevegga  il  suo  male  ed  il  suo bene.  Quanto  al  giudicare  le  cose,  si vede  rarissime  volte,  quando  egli  ode due  concionanti  che  tendino  in  diverse parti,  quando  e’ sono  di  egual  virtù,  che non  pigli  *ia  oppinione  migliore,  e che non  sia  capace  di  quella  verità  ch’egli  ode. £ se  nelle  cose  gagliarde,  o che  paiano utili,  come  di  sopra  si  dice, egli  erra  ; molte  volte  erra  ancora  uri  principe  nelle  sue proprie  passioni,  le  quali  sono  molle  più che  quelle  de’  popoli.  Yedesi  ancora,  nelle sue  elezioni  ai  magistrati,  fare  di lunga  migliore  elezione  che  uno  principe; nè  mai  si  persuaderà  ad  un  popolo, che  sia  bene  tirare  alla  degnila uno  uomo  infame  e di  corrotti  costumi: il  che  facilmente  e per  mille  vie  si  persuade ad  un  principe.  Yedesi  un  popolo cominciare  ad  avere  in  orrore  una  cosa, e molti  secoli  stare  in  quella  oppinione: il  che  non  si  vede  in  uno  principe.  E dell’  una  e dell’  altra  di  queste  due  cose voglio  mi  basti  per  testimone  il  Popolo romano:  il  quale,  in  tante  centinaia d’anni,  in  tante  elezioni  di  Consoli  e di Tribuni,  non  fece  quattro  elezioni  di  che quello  si  avesse  a pentire.  Ed  ebbe,  come ho  detto,  tanto  in  odio  il  nome  regio, che  nessuno  obbligo  di  alcuno  suo  cittadino, che  tentasse  quel  nome,  potette fargli  fuggire  le  debite  pene.  Yedesi, oltra  di  questo,  le  città  dove  i popoli sono  principi,  fare  in  brevissimo  tempo augumenti  eccessivi,  e molto  maggiori che  quelle  che  sempre  sono  state  sotto un  principe  ! come  fece  Roma  dopo  la cacciata  de’  re,  ed  Atene  da  poi  che  la si  liberò  da  Pisistrato.  11  che  non  può nascere  da  altro,  se  non  che  sono  migliori governi  quelli  de*  popoli  che  quelli de*  principi.  Nè  voglio  che  si  opponga  a questa  mia  oppinione  tutto  quello  che lo  istorico  nostro  ne  dice  nel  preallcgato testo,  ed  in  qualunque  altro;  perchè,  se si  discorreranno  tutti  i disordini  de’popoli,  tutti  i disordini  de*  principi,  tutte le  glorie  de*  popoli,  tutte  quelle  de’ principi, si  vedrà  il  popolo  di  bontà  e di gloria  essere  di  lunga  supcriore.  E se  i principi  sono  superiori  a*  popoli  nello ordinare  leggi,  formare  vite  civili, ordinare  statuti  ed  ordini  nuovi  ; i popoli  sono  tanto  superiori  nel  mantenere le  cose  ordinate,  eh’  egli  aggiungono senza  dubbio  alla  gloria  di  coloro che  l’ordinano.  Ed  in  somma,  per  epilegare  questa  materia,  dico  come  hanno durato  assai  gli  stati  de’ principi,  hanno durato  assai  gli  stati  delle  repubbliche, e l’uno  e l’  altro  ha  avuto  bisogno  d’essere regolato  dalle  leggi  : perchè  un  principe che  può  fare  ciò  che  vuole,  è pazzo; un  popolo  che  può  fare  ciò  che  vuole, non  è savio.  Se,  adunque,  si  ragionerà d' un  principe  obbligato  alle  leggi,  ed’  un  popolo  incatenalo  da  quelle,  si  vedrà più  virtù  nel  popolo  che  nel  principe: se  si  ragionerà  dell’ uno  e dell’altro sciolto,  si  vedrà  • meno  errori  nel popolo  che  nei  principe;  e quelli  minori, ed  aranno  maggiori  rimedi.  Perchè  ad un  popolo  licenzioso  e tumultuario,  gli può  da  un  uomo  buono  esser  parlato, e facilmente  può  essere  ridotto  nella  via buona  : ad  un  principe  cattivo  non  è alcuno che  possa  parlare,  nè  vi  è altro rimedio  che  il  ferro.  Da  che  si  può  far coniettura  della  importanza  della  malattia dell’uno  e dell’altro:  chè  se  a curare la  malattia  del  popolo  bastano  le parole,  ed  a quella  del  principe  bisogna il  ferro,  non  sarà  mai  alcuno  che  non giudichi,  che  dove  bisogna  maggior  cura, siano  maggiori  errori.  Quando  un  popolo è bene  sciolto,  non  si  temono  le  pazzie che  quello  fa,  nè  si  ha  paura  del  mal presente,  ma  di  quello  che  ne  può  nascere, potendo  nascere  infra  tanta  confusione un  tiranno.  Ma  ne’ principi  tristi interviene  il  contrario:  che  si  teme il  male  presente,  e nel  futuro  si  spera; persuadendosi  gli  uomini  che  la  sua  cattiva vita  possa  far  surgere  una  libertà. Sì  che  vedete  la  differenza  dell’  uno  e dell’  altro,  la  quale  è quanto  dalle  cose che  sono,  a quelle  che  hanno  ad  essere. Le  crudeltà  della  moltitudine  sono  contra  a chi  ei  temono  clic  occupi  il  ben comune  : quelle  d’  un  principe  sono  contro a chi  ci  temono  che  occupi  il  bene proprio.  Ma  la  oppiti  ione  contro  ai  popoli nasce  perchè  de’  popoli  ciascuno dice  male  senza  paura  e liberamente, ancora  mentre  che  regnano:  de’  principi si  parla  sempre  con  mille  paure  e mille rispetti.  Nè  mi  pare  fuor  di  proposito, poiché  questa  materia  mi  vi  tira,  disputare nel  seguente  capitolo  di  quali  confederazioni altri  si  possa  più  fidare,  o di  quelle  falle  con  una  repubblica,  o di quelle  fatte  con  ui>  principe. LIX.  — Di  quali  confederazioni , o lega,  altri  si  può  più  fidare  ; o di quella  fatta  con  una  repubblica , o di quella  fatta  con  uno  principe. Perchè  ciascuno  dì  occorre  che  P uno principe  con  l’altro,  o V una  repubblica con  l’altra,  fanno  lega  ed  amicizia  insieme ; ed  ancora  similmente  si  contrae confederazione  ed  accordo  intra  una  repubblica  ed  uno  principe  mi  pare  di esaminare  qual  fede  è più  stabile,  e di quale  si  debba  tenere  più  conto,  o di quella  d’  una  repubblica,  o di  quella d’ uno  principe,  lo,  esaminando  tutto, credo  che  in  molti  casi  e’ siano  simili. ed  in  alcuni  vi  sia  qualche  disformità. Credo  per  tanto,  che  gli  accordi  fatti  per forza  non  ti  saranno  nè  da  un  principe nè  da  una  repubblica  osservali;  credo che  quando  la  paura  dello  stato  venga, l'uno  e l'altro,  per  non  lo  perdere,  ti romperà  la  fede,  e ti  userà  ingratiludine.  Demetrio,  quel  che  fu  chiamato espugnatore  delle  cittadi,  aveva  fatto  agli Ateniesi  infiniti  benefici!  : occorse  dipoi, che  sendo  rotto  da’ suoi  inimici,  e rifuggendosi in  Atene,  come  in  città  amica ed  a lui  obbligata,  non  fu  ricevuto  da quella  : il  che  gli  dolse  assai  più  che non  aveva  fatto  la  perdita  delle  genti  e dello  esercito  suo.  Pompeio,  rotto  che fu  da  Cesare  in  Tessaglia,  si  rifuggì  in Egitto  a Tolomeo,  il  quale  era  per  lo addietro  da  lui  stato  rimesso  nel  regno; e fu  da  lui  morto.  Le  quali  cose  si  vede che  ebbero  le  medesime  cagioni;  nondimeno  fu  più  umanità  usata  e meno  •ingiuria  dalla  repubblica,  che  dal  principe. Dove  è,  pertanto,  la  paura,  si  troverà  in  fallo  la  medesima  fede.  E se  si troverà  o una  repubblica  o uno  principe, che  per  osservarti  la  fede  aspetti di  rovinare,  può  nascere  questo  ancora da  simili  cagioni.  E quanto  al  principe, può  molto  bene  occorrere  che  egli  sia amico  d’  un  principe  potente,  che  se bene  non  ha  occasione  allora  di  difenderlo, ei  può  sperare  che  col  tempo  e*  lo restituisca  nel  principato  suo;  o veramente che,  avendolo  seguito  come  partigiano, ei  non  creda  trovare  nè  fede nè  accordi  con  il  nimico  di  quello.  Di questa  sorte  sono  stati  quelli  principi del  reame  di  Napoli  che  hanno  seguite le  parti  franciose.  E quanto  alle  repubbliche, fu  di  questa  sorte  Sagunto  in Ispagna,  che  aspettò  la  rovina  per  seguire le  parti  romane;  e di  questa  Firenze, per  seguire  nel  4512  le  parti franciose.  E credo,  computata  ogni  cosa, che  in  questi  casi,  dove  è il  pericolo urgente,  si  troverà  qualche  stabilità  più nelle  repubbliche,  che  ne’  principi.  Perche,  sebbene  le  repubbliche  avessino quel  medesimo  animo  e quella  medesima voglia  che  un  principe,  lo  avere  il  moto loro  tardo,  farà  che  le  porranno  sempre  più  a risolversi  che  il  principe,  e per  questo  porranno  più  a rompere  la fede  di  lui.  Romponsi  le  confederazioni per  lo  utile.  In  questo  le  repubbliche sono  di  lunga  più  osservanti  degli  accordi, che  i principi.  E potrebbesi  addurre essempi,  dove  uno  miuinio  utile ha  fatto  rompere  la  fede  ad  uno  principe, e dove  una  grande  utilità  non  ha fatto  rompere  la  fede  ad  una  repubblica  : come  fu  quello  partito  che  propose  Temistocle agli  Ateniesi,  a’ quali  nella  conclone disse  che  aveva  uno  consiglio  da fare  alla  loro  patria  grande  utilità  ; ma non  lo  poteva  dire  per  non  lo  scoprire, perchè  scoprendolo  si  toglieva  la  occasione del  farlo.  Onde  il  popolo  di  Atene elesse  Aristide,  al  quale  si  comunicasse la  cosa,  e secondo  dipoi  che  paresse  a lui  se  ne  deliberasse:  al  quale  Temistode  mostrò  come  I*  armata  di  tutta  Grecia, ancora  che  stesse  sotto  la  fede  loro, era  in  lato  che  facilmente  si  poteva  guadagnare o distruggere;  il  che  faceva  gli Ateniesi  al  tutto  arbitri  di  quella  provincia. Donde  Aristide  riferì  ai  popolo, il  partito  di  Temistocle  essere  utilissimo, ma  disonestissimo  : per  la  qual  cosa il  popolo  al  tutto  lo  ricusò.  II  che  non arebbe  fatto  Filippo  Macedone,  e gli  altri principi  che  più  utile  hanno  cerco e più  guadagnato  con  il  rompere  la  fede, che  con  verun  altro  modo.  Quanto  a rompere  i patti  per  qualche  cagione  di inosservanza,  di  questo  io  non  parlo come  di  cosa  ordinaria;  ma  parlo  dì quelli  che  si  rompono  per  cagioni  istrasordinarie:  dove  io  credo,  per  le  cose (lette,  che  il  popolo  facci  minori  errori che  il  principe,  e per  questo  si  possa Fidar  più  di  lui  che  del  principe. LX.  — Come  il  consolato  e qualungue  altro  magistrato  in  Roma  si  (lava senza  rispetto  di  età. E’  si  vede  per  V ordine  della  istoria, come  la  Repubblica  romana,  poiché  ’i consolato  venne  nella  Plebe,  concesse quello  ai  suoi  cittadini  senza  rispetto  di età  o di  sangue;  ancora  cbe  il  rispetto della  età  mai  non  fusse  in  Roma,  ma sempre  si  andò  a trovare  la  virtù,  o in giovane  o in  vecchio  cbe  la  fusse.  Il  che si  vede  per  il  testimone  di  Valerio  Corvino, che  fu  fatto  Consolo  nell!  Ventitré anni:  e Valerio  detto,  parlando  ai  suoi soldati,  disse  come  il  consolato  crai  prcetnium  virfulisj,  non  sanguinis.  La  qual cosa  se  fu  bene  considerata,  o no,  sarebbe da  disputare  assai.  E quanto  al  sangue,  fu concesso  questo  per  necessità  ; e quella  necessità che  fu  in  Roma,  sarebbe  in  ogni città  che  volesse  fare  gli  effetti  che  fece Roma,  come  altra  volta  si  è detto:  per-  i! chè  e’  non  si  può  dare  agli  uomini  disagio senza  premio,  nè  si  può  torre  la SPERANZA di  conseguire  il  premio  senza pericolo.  E però  a buona  ora  convenne che  la  Plebe  avesse  speranza  di  avere il  consolato  ; e di  questa  SPERANZA  si nutrì  un  tempo  senza  averlo.  Dipoi  non bastò  la  speranza,  che  e’ convenne  che si  venisse  allo  effetto.  Ma  la  città  che non  adopera  la  sua  plebe  ad  alcuna  cosa gloriosa,  la  può  trattare  a suo  modo, come  altrove  si  disputò:  ma  quella  elle vuole  fare  quel  che  fe  Roma,  non  ha  a fare  questa  distinzione.  E dato  che  così sia,  quella  del  tempo  non  ha  replica  ; anzi  è necessaria  : perchè  nello  eleggere uno  giovane  in  uno  grado  che  abbi  bisogno d’ una  prudenza  di  vecchio,  conviene, avendovelo  ad  eleggere  la  moltitudine, che  a quel  grado  lo  facci  pervenire qualche  sua  nobilissima  azione. E quando  un  giovane  è di  tanta  virtù, che  si  sia  fatto  in  qualche  cosa  notabile conoscere  ; sarebbe  cosa  dannosissima che  la  città  non  se  «e  potesse  valere  allora, e che  la  avesse  ad  aspettare  che fusse  invecchiato  con  lui  quel  vigore deir  animo,  quella  prontezza,  della  quale in  quella  età  la  patria  sua  si  poteva  valere : come  si  valse  Roma  di  Valerio  Corvino, di  Scipione,  di  Pompeio  e di  molti altri  che  trionfarono  giovanissimi. Laudano  sempre  gli  uomini,  ma  noti sempre  ragionevolmente,  gli  antichi  tempi, e gli  presenti  accusano:  ed  in  modo sono  delle  cose  passate  partigiani,  che non  solamente  celebrano  quelle  etadi che  da  loro  sono  state,  per  la  memoria che  ne  hanno  lasciata  gli  scrittori,  conosciute ; ma  quelle  ancora  che,  sendo già  vecchi,  si  ricordano  nella  loro  giovanezza avere  vedute.  E quando  questa loro  oppinionc  sia  falsa,  come  il  più delle  volte  è,  mi  persuado  varie  essere le  cagioni  che  a questo  inganno  gli  conducono. E la  prima  credo  sia,  che  delle cose  antiche  non  s’intenda  al  tutto  lu verità;  e che  di  quelle  il  più  delle  vollesi  nasconda  quelle  cose  che  recherebbono  a quelli  tempi  infamia;  e quelle altre  che  possono  partorire  loro  gloria, si  remlino  magnifiche  ed  amplissime. Però  che  i più  degli  scrittori  in  modo  * alla  fortuna  de’  vincitori  ubbidiscono, che  per  fare  le  loro  vittorie  gloriose, non  solamente  accrescono  quello  che  da loro  è virtuosamente  operato,  ma  ancora le  azioni  de’  nimici  in  modo  illustrano, che  qualunque  nasce  dipoi  in qualunque  delle  due  provincie,  o nella vittoriosa  o nella  vinta,  ha  cagione  di maravigliarsi  di  quelli  uomini  e di  quelli tempi,  ed  è forzato  sommamente  laudargli ed  amargli.  Olirà  di  questo, odiando  gli  uomini  le  cose  o per  timore o per  invidia,  vengono  ad  essere spente  due  potentissime  cagioni  delP odio  nelle  cose  passate,  non  ti  potendo quelle  offendere,  e non  ti  dando cagione  d’  invidiarle.  Ma  al  contrario interviene  di  quelle  cose  che  si  maneggiano e veggono  ; le  quali,  pei*  la  intera cognizione  di  esse,  non  ti  essendo  in alcuna  parte  nascoste*  e conoscendo  in quelle  insieme  con  il  bene  molte  altre cose  che  ti  dispiacciono,  sei  forzato  giudicarle alle  antiche  molto  inferiori,  ancora  che  in  verità  le  presenti  molto  più di  quelle  di  gloria  e di  fama  meritassero: ragionando  non  delie  cose  pertinenti alle  arti,  le  quali  hanno  tanta chiarezza  in  sè,  che  i tempi  possono torre  o dar  loro  poco  più  gloria  che per  loro  medesime  si  meritino  ; ma  parlando di  quelle  pertinenti  alla  vita  e costumi  degli  uomini,  delle  quali  non se  ne  veggono  sì  chiari  testimoni.  Replico, pertanto,  essere  vera  quella  consuetudine del  laudare  e biasimare  soprascritta ; ma  non  essere  già  sempre vero  che  si  erri  nel  farlo.  Perchè  qualche volta  è necessario  che  giudichino la  verità  ; perchè  essendo  le  cose  umane sempre  in  molo,  o le  salgono,  o lescendono.  E vedesi  una  città  o una  provincia essere  ordinata  al  vivere  politico da  qualche  uomo  eccellente;  ed,  un  tempo, per  la  virtù  di  quello  ordinatore, andare  sempre  in  augumento  verso  il meglio.  Chi  nasce  allora  in  tale  stato, ed  ei  laudi  più  li  antichi  tempi  che  i moderni,  s’ inganna  ; ed  è causato  il  suo inganno  da  quelle  cose  che  di  sopra  si sono  dette.  Ma  coloro  che  nascono  dipoi, in  quella  città  o provincia,  che  gli  è venuto  il  tempo  che  la  scende  verso  la parte  più  rea,  allora  non  s’  ingannano. E pensando  io  come  queste  cose  procedino,  giudico  il  mondo  sempre  essere stalo  ad  un  medesimo  modo,  ed  in  quello esser  stato  tanto  di  buono  quanto  di tristo  ; ma  variare  questo  tristo  e questo buono  di  provincia  in  provincia: come  si  vede  per  quello  si  ha  notizia  di quelli  regni  antichi  che  variavano  dall’uno all’altro  per  la  variazione  de’ costumi; ma  il  mondo  restava  quel  medesimo. Solo  vi  era  questa  differenza, che  dove  quello  aveva  prima  collocata la  sua  virtù  in  Assiria,  la  collocò  in Media,  dipoi  in  Persia,  tanto  che  la  ne venne  in  Italia  ed  a Roma:  e se  dopo 10  imperio  romano  non  è seguito  imperio che  sia  durato,  nè  dove  il  mondo abbia  ritenuta  la  sua  virtù  insieme;  si vede  nondimeno  essere  sparsa  in  di molte  nazioni  dove  si  viveva  virtuosamente; come  era  il  regno  de’  Franchi, 11  regno  de’ Turchi,  quel  del  Soldano; ed  oggi  i popoli  della  Magna  ; e prima quella  setta  Saracina  che  fece  tante  gran cose,  ed  occupò  tanto  mondo,  poiché  la distrusse  lo  imperio  romano  orientale. In  tutte  queste  provincie,  adunque,  poiché i Romani  rovinorono,  ed  in  tutte queste  sètte  è stata  quella  virtù,  ed  è ancora  in  alcuna  parte  di  esse,  che  si desidera,  e che  con  vera  laude  si  lauda. E chi  nasce  in  quelle,  e lauda  i tempi passati  più  che  i presenti,  si  potrebbe ingannare;  ma  chi  nasce  in  Italia  ed  in Grecia,  e non  sia  divenuto  o in  Italia oltramontano  o in  Grecia  turco,  ha  ragione di  biasimare  i tempi  suoi,  e laudare gli  altri  : perchè  in  quelli  vi  sono assai  cose,  che  gli  fanno  meravigliosi  ; in  questi  non  è cosa  alcuna  che  gli  ricomperi da  ogni  estrema  miseria,  infamia e vituperio:  dove  non  è osservanza di  religione,  non  di  leggi,  non  di  milizia; ma  sono  maculati  d’ ogni  ragione bruttura.  E tanto  sono  questi  vizi  più detestabili,  quanto  ei  sono  più  in  coloro che  seggono  prò  tribunali,  comandano a ciascuno,  e vogliono  essere  adorati. .Ha  tornando  al  ragionamento  nostro, dico  che  se  il  giudicio  degli  uomini  è corrotto  in  giudicare  quale  sia  migliore, o il  secolo  presente  o l’antico,  in  quelle cose  dove  per  l’antichità  ei  non  ha  possuto  avere  perfetta  cognizione  come  egli ha  de’  suoi  tempi  ; non  doverrebbe  corrompersi ne’  vecchi  nel  giudicare  i lempi  della  gioventù  e vecchiezza  loro,  avendo quelli  e questi  egualmente  conosciuti e visti.  La  qual  cosa  sarebbe  vera,  se gli  uomini  per  tutti  i tempi  della  lor vita  l'ussero  del  medesimo  giudizio,  ed avessero  quelli  medesimi  appetiti  : ma variando  quelli,  ancora  che  i tempi  nou variino,  non  possono  parere  agli  uomini quelli  medesimi,  avendo  altri  appetiti, altri  diletti,  altre  considerazioni  nella vecchiezza,  che  nella  gioventù.  Perchè, mancando  gli  uomini  quando  li  invecchiano di  forze,  e crescendo  di  giudizio e di  prudenza;  è necessario  che  quelle cose  che  in  gioventù  parevano  loro  sopportabili e buone,  ineschino  poi  invecchiando insopportabili  e cattive  ; e dove quelli  ne  doverrebbono  accusare  il  giudicio  loro,  ne  accusano  i tempi.  Sendo. ultra  di  questo,  gli  appetiti  umani  insaziabili, perchè  hanno  dalla  natura  di potere  e voler  desiderare  ogni  cosa,  e dalla  fortuna  di  potere  conseguirne  poche; ne  risulta  continuamente  una  mala contentezza  nelle  menti  umane,  ed  un fastidio  delle  cose  che  si  posseggono:  il che  fa  biasimare  i presenti  tempi,  laudare  i passati,  e desiderare  i futuri  ; ancora  che  a fare  questo  non  fussino mossi  da  alcuna  ragionevole  cagione.  Non so,  adunque,  se  io  meriterò  d’ essere numerato  tra  quelli  che  si  ingannano, se  in  questi  mia  discorsi  io  lauderò troppo  i tempi  degli  antichi  Romani,  e biasimerò  i nostri.  E veramente,  se  la virtù  che  allora  regnava,  ed  il  vizio  che ora  regna,  non  fussino  più  chiari  che il  sole,  andrei  col  parlare  più  rattenuto, dubitando  non  incorrere  in  quello inganno  di  che  io  accuso  alcuni.  Ma  essendo la  cosa  si  manifesta  che  ciascuno la  vede,  sarò  animoso  in  dire  manifestamente quello  che  intenderò  di  quelli e di  questi  tempi;  acciocché  gli  animi de’  giovani  che  questi  mia  scritti  leggeranno, possino  fuggire  questi,  e prepararsi ad  imitar  quegli,  qualunque  volta la  fortuna  ne  dessi  loro  occasione.  Perchè gli  è offizio  di  uomo  buono,  quel bene  che  per  la  malignità  de’  tempi  e della  fortuna  tu  non  hai  potuto  operare. insegnarlo  nd  altri,  acciocché  sendone molti  capaci,  alcuno  di  quelli,  più  amato dal  Cielo,  possa  operarlo.  Ed  avendo ne’  discorsi  del  superior  libro  parlato delle  deliberazioni  fatte  da*  Romani  pertinenti al  di  dentro  della  città,  in  questo parleremo  di  quelle,  che  ’\  Popolo romano  fece  pertinenti  allo  augumento dello  imperio  suo. I.  — Quale  fu  più  cagione  dello imperio  che  acquistarono  i Romani , o la  virtùj  o la  fortuna. Molti  hanno  avuta  oppinione,  intra  i quali  è Plutarco,  gravissimo  scrittore, che  ’1  Popolo  romano  nello  acquistare lo  imperio  fusse  più  favorito  dalla  fortuna che  dalla  virtù.  Ed  intra  le  altre ragioni  che  ne  adduce,  dice  che  per  confessione di  quel  popolo  si  dimostra, quello  avere  riconosciute  dalla  fortuna tutte  le  sue  vittorie,  avendo  quello  edificati più  templi  alla  Fortuna,  che  ad alcun  altro  Dio.  E pare  che  a questa oppinione  si  accosti  Livio;  perchè  rade volte  è che  facci  parlare  ad  alcuno  Romano, dove  ei  racconti  della  virtù,  che non  vi  aggiunga  la  fortuna.  La  qual cosa  io  non  voglio  confessare  in  alcun modo,  nè  credo  ancora  si  possa  sostenere. Perchè,  se  non  si  è trovato  mai repubblica  che  abbi  fatti  i progressi  che Roma,  è nato  che  non  si  è trovata  mai repubblica  che  sia  stata  ordinata  a potere acquistare  come  Roma.  Perchè  la virtù  degli  eserciti  gli  feciono  acquistare Io  imperio;  e l’ordine  del  procedere, ed  il  modo  suo  proprio,  e trovato dal  suo  primo  legislatore,  gli  fece mantenere  lo  acquistato:  come  di  sotto largamente  in  più  discorsi  si  narrerà. Dicono  costoro,  che  non  avere  mai  ac*» cozzate  due  potentissime  guerre  in  uno medesimo  tempo,  fu  fortuna  e non  virtù del  Popolo  romano  ; perchè  e’  non ebbero  guerra  con  i Latini,  se  non quando  egli  ebbero  non  tanto  battuti i Sanniti,  quanto  che  la  guerra  fu  da*  Romani fatta  in  difensione  di  quelli  ; non combatterono  con  i Toscani,  se  prima non  ebbero  soggiogati  i Latini,  ed  enervati con  le  spesse  rotte  quasi  in  tutto i Sanniti:  che  se  due  di  queste  potenze intere  si  fussero,  quando  erano  fresche, accozzate  insieme,  senza  dubbio  si  può facilmente  conietturare  che  ne  sarebbe seguito  la  rovina  della  romana  Repubblica. Ma,  comunelle  questa  cosa  nascesse, mai  non  intervenne  che  eglino  avessino due  potentissime  guerre  in  un medesimo  tempo:  anzi  parve  sempre, o nel  nascere  dell’ una,  l’altra  si  spegnesse; o nel  spegnersi  dell’ una,  l’altra nascesse.  11  che  si  può  facilmente  vedere per  T ordine  delle  guerre  fatte  da loro:  perchè,  lasciando  stare  quelle  che feciono  prima  che  Roma  fusse  presa dai  Franciosi,  si  vede  che,  mentre  che combatterno  con  gli  Equi  e con  i Volsci,  mai,  mentre  questi  popoli  furono potenti,  non  si  levarono  contro  di  lor uitre  genti.  Domi  costoro,  nacque  la guerra  contea  ai  Sanniti;  e benché  innanzi che  finisse  tal  guerra  i popoli latini  si  ribellassero  da’  Romani,  nondimeno quando  tale  ribellione  segui,  i Sanniti  erano  in  lega  con  Roma,  e con il  loro  esercito  aiutorono  i Romani  domare la  insolenza  latina.  I quali  domi, risurse  la  guerra  di  Sannio.  Battute  per molte  rotte  date  a’  Sanniti  le  loro  forze, nacque  la  guerra  de’ Toscani;  la  qual composta,  si  rilevarono  di  nuovo  i Sanniti per  la  passata  di  Pirro  in  Italia. Il  quale  come  fu  ribattuto,  e rimandato in  Grecia,  appiccarono  la  prima  guerra con  i Cartaginesi:  nè  {ìrima  fu  tal  guerra finita,  che  tutti  i Franciosi,  e di  là e di  qua  dall’ Alpi,  congiurarono  conti  a i Romani;  tanto  che  intra  Popolonia  e Pisa,  dove  è oggi  la  torre  a San  Vincenti, furono  con  massima  strage  superati. Finita  questa  guerra,  per  ispazio di  venti  anni  ebbero  guerra  di  non molta  importanza;  perchè  non  eombatterono  con  altri  che  con  i Liguri,  c con quel  rimanente  de’  Franciosi  che  era  in Lombardia.  E così  stettero  tanto  che nacque  la  seconda  guerra  cartaginese, la  qual  per  sedici  anni  tenne  occupata Italia.  Finita  questa  con  massima  gloria, nacque  la  guerra  macedonica  ; la  quale tìnita,  venne  quella  d’ Antioco  e d’ Asia. Dopo  la  qual  vittoria,  non  restò  in  tutto il  mondo  nè  principe  nè  repubblica  che, di  per  sè,  o tutti  insieme,  si  potessero opporre  alle  forze  romane.  Ma  innanzi a quella  ultima  vittoria,  chi  considerrà l’ ordine  di  queste  guerre,  ed  il  modo del  . procedere  loro,  vedrà  dentro  mescolate con  la  fortuna  una  virtù  e prudenza  grandissima.  Talché,  chi  esaminasse la  cagione  di  tale  fortuna,  la  ritroverebbe facilmente:  perchè  gli  è cosa certissima,  che  come  un  principe  e un popolo  viene  in  tanta  riputazione,  che ciascuno  principe  e popolo  vicino  abbia di  per  sè  paura  ad  assaltarlo,  e ne  tema, sempre  interverrà  che  ciascuno  d essi  mai  lo  assalterà,  se  non  necessitato ; in  modo  che  e’  sarà  quasi  come nella  elezione  di  quel  polente,  far  guerra con  quale  di  quelli  suoi  vicini  gli parrà,  e gii  altri  con  la  sua  industria quietare.  I quali,  parte  rispetto  alla  potenza suo,  parte  ingannati  da  quei  modi che  egli  terrà  per  nddormentargli,  si quietano  facilmente;  e gli  altri  potenti che  sono  discosto,  e che  non  hanno coinmerzio  seco,  curano  la  cosa  come cosa  longinqua,  e che  non  appartenga loro.  Nel  quale  errore  stanno  tanto  che questo  incendio  venga  loro  presso  : il quale  venuto,  non  hanno  rimedio  a spegnerlo se  non  con  le  forze  proprie;  le quali  dipoi  non  bastano,  sendo  colui diventato  potentissimo.  Io  voglio  lasciare andare,  come  i Sanniti  stettero  a vedere vincere  dal  Popolo  romano  i Yolsci  e gli  Equi;  e per  non  essere  troppo  prolisso, mi  farò  da’  Cartaginesi  : i quali erano  di  gran  potenza  c di  grande  estimazione quando  i Romani  combattevano con  i Sanniti  e con  i Toscani  ; perchè tii  già  tenevano  tutta  1’  Affrica,  tenevano ia  Stintigna  e la  Sicilia,  avevano  dominio in  parte  della  Spagna.  La  quale  polenza  loro,  insieme  con  V esser  discosto ne’ confini  dal  Popolo  romano,  fece  che non  pensarono  mai  di  assaltare  quello, nè  di  soccorrere  i Sanniti  e Toscani: anzi  fecero  come  si  fa  nelle  cose  che crescono,  più  tosto  in  lor  favore  collegandosi con  quelli,  e cercando  l’amicizia loro.  Nè  si  avviddono  prima  del1’  errore  fatto,  che  i Romani,  domi  tutti i popoli  mezzi  infra  loro  ed  i Cartaginesi, cominciarono  a combattere  insieme dello  imperio  di  Sicilia  e di  Spagna. Intervenne  questo  medesimo  a’  Franciosi che  a’ Cartaginesi,  e cosi  a Filippo  re de’ Macedoni,  e ad  Antioco;  e ciascuno di  loro  credea,  mentre  che  il  Popolo  romano era  occupato  con  l’altro,  che quell’  altro  lo  superasse,  ed  essere  a tempo,  o con  pace  o con  guerra,  difendersi da  lui.  In  modo  che  io  credo  che la  fortuna  che  ebbono  in  questa  parte i Romani,  1’  arebbono  tutti  quelli  principl  che  procedessero  come  i Romani,  c fussero  di  quella  medesima  virtù  che loro.  Sarebbeci  da  mostrare  a questo proposito  il  modo  tenuto  dal  Popolo romano  nello  entrare  nelle  provincie d’  altri,  se  nei  nostro  trattato  de’  principati  non  ne  avessimo  parlato  a lungo  ; perchè  in  quello  questa  materia  è diffusamente disputata.  Dirò  solo  questo  brevemente, come  sempre  s’ingegnarono avere  nelle  provincie  nuove  qualche  amico che  fusse  scala  o porta  a salirvi  o entrarvi,  o mezzo  a tenerla  : come  si vede  che  per.  il  mezzo  de’ Capovani  entrarono in  Sannio,  de’ Camertini  in  Toscana, de’  Mamertini  in  Sicilia,  de’  Saguntini  in  Spagna,  di  Massinissa  iti Affrica,  degli  Eloli  in  Grecia,  di  Eumene ed  altri  principi  in  Asia,  de’ Massiliensi e deili  Edui  in  Francia.  E così  non  mancarono mai  di  simili  appoggi,  per  potere facilitare  le  imprese  loro,  e nello acquistare  le  provincie  e nel  tenerle.  Il che  quelli  popoli  che  osserveranno,  vedranno avere  meno  bisogno  della  fortuna, che  quelli  che  ne  saranno  non buoni  osservatori.  E perchè  ciascuno possa  meglio  conoscere,  quanto  potè  più la  virtù  che  la  fortuna  loro  ad  acquistare quello  imperio  ; noi  discorreremo nel  seguente  capitolo  di  che  qualità  furono quelli  popoli  con  i quali  egli  ebbero a combattere,  e quanto  erano  ostinati a difendere  la  loro  libertà. 11.  — Con  quali  popoli  i Romani  ebbero a combattere , e come  ostinatamente quelli  difendevano  la  loro  libertà. Nessuna  cosa  fece  più  faticoso  a*  Romani superare  i popoli  d*  intorno,  c parte  delle  provincie  discosto,  quanto  lo amore  che  in  quelli  tempi  molti  popoli avevano  alla  libertà;  la  quale  tanto  ostinatamente difendevano,  che  mai  se  non da  una  eccessiva  virtù  sarebbono  stati * soggiogati.  Perchè,  per  molti  essempi  si conosce  a quali  pericoli  si  mettessino per  mantenere  o ricuperare  quella  ; quali  vendette  e’  facessino  contra  a coloro che  V avessino  loro  occupata.  Conoscesi  ancora  nelle  lezioni  delle  istorie, quali  danni  i popoli  e le  città  riccvino per  la  servitù.  E dove  in  questi  tempi ci  è solo  una  provincia  la  quale  si  possa dire  che  abbia  in  sè  città  libere,  ne*  tempi antichi  in  tutte  le  provincie  erano  assai popoli  liberissimi.  Vedesi  come  in  quelli tempi  de’  quali  noi  parliamo  al  presente, in  Italia,  dall’  Alpi  che  dividono  ora  la Toscana  dalla  Lombardia,  insino  alla punta  d’Italia,  erano  molti  popoli  liberi; com’erano  i Toscani,  i Romani,  i Sanniti, e molti  altri  popoli  che  in  quel  resto d’ Italia  abitavano.  Nè  si  ragiona  mai che  vi  fusse  alcuno  re,  fuora  di  quelli che  regnarono  in  Roma,  e Porsena  re di  Toscaua;  la  stirpe  del  quale  come  si estinguesse,  non  ne  parla  la  istoria.  Ma si  vede  bene,  come  in  quelli  tempi  che  i . Romani  andarono  a campo  a Veio,  la Toscana  era  libera  : e tanto  si  godea della  sua  libertà,  e tanto  odiava  il  nome del  principe,  che  avendo  fatto  i Veienti per  loro  difensione  un  re  in  Veio,  e domandando  aiuto  a' Toscani  contra  ai Romani  ; quelli,  dopo  molte  consulte  fatte, deliberarono  di  non  dare  aiuto  a’Veienti, infino  a tanto  che  vivessino  sotto  ’1  re; giudicando  non  esser  bene  difendere  la patria  di  coloro  che  V avevano  di  già sottomessa  ad  altrui.  E facil  cosa  è conoscere donde  nasca  ne’  popoli  questa affezione  del  vivere  libero;  perchè  si  vede per  esperienza,  le  cittadi  non  avere  mai ampliato  nè  di  domiuio  nè  di  ricchezza, se  non  mentre  sono  state  in  libertà.  E veramente  meravigliosa  cosa  è a considerare, a quanta  grandezza  venne  Atene per  ispazio  di  cento  anni,  poiché  la  si liberò  dalla  tirannide  di  Pisistrato.  Ma sopra  tutto  meravigliosissima  cosa  è a considerare,  a quanta  grandezza  venne Roma,  poiché  la  si  liberò  da’  suoi  Re. La  cagione  è facile  ad  intendere;  perchè  non  il  bene  particolare,  ma  il  bene comune  è quello  che  fa  grandi  le  città.
E senza  dubbio,  questo  bene  comune  non è osservato  se  non  nelle  repubbliche; perchè  lutto  quello  che  fa  a proposito suo,  si  eseguisce;  e quantunque  e’ torni in  danno  di  questo  o di  quello  privato, e’  sono  tanti  quelli  per  chi  detto  bene fa,  che  lo  possono  tirare  innanzi  contra alla  disposizione  di  quelli  pochi  che  ne fussino  oppressi.  Al  contrario  interviene quando  vi  è uno  principe;  dove  il  più delle  volte  quello  che  fa  per  lui,  offende la  città;  e quello  che  fa  per  la  città, offende  lui.  Dimodoché,  subito  che  nasce una  tirannide  sopra  un  viver  libero,  il manco  male  che  ne  resulti  a quelle  città, è non  andare  più  innanzi,  nè  crescere più  in  potenza  o in  ricchezze  ; ma  il  più delle  volte,  anzi  sempre,  interviene  loro, che  le  tornano  indietro.  E se  la  sorte facesse  che  vi  surgesse  un  tiranno  virtuoso, il  quale  , per  animo  e per  virtù d’  arme  ampliasse  il  dominio  suo,  non ne  risulterebbe  alcuna  utilità  a quella repubblica,  ma  a lui  proprio:  perchè e’  non  può  onorare  nessuno  di  quelli cittadini  che  siano  valenti  c buoni,  che egli  tiranneggia,  non  volendo  avere  ad avere  sospetto  di  loro.  Non  può  ancora le  città  che  egli  acquista,  sottometterle o farle  tributarie  a quella  città  di  che egli  è tiranno:  perchè  il  farla  potente non  fa  per  lui;  ma  per  lui  fa  tenere  lo Stato  disgiunto,  e che  ciascuna  terra  e ciascuna  provincia  riconosca  lui.  Talché di  suoi  acquisti,  solo  egli  ne  profitta,  e non  la  sua  patria.  E chi  volesse  confermare questa  oppinione  con  infinite  altre ragioni,  legga  Senofonte  nel  suo  trattato che  fa  De  Tirannide.  Non  è meraviglia adunque,  che  gli  antichi  popoli con  tanto  odio  perseguitassino  i tiranni, ed  nmassiiio  il  vivere  libero,  e che  il nome  della  libertà  fusse  tanto  stimato da  loro:  come  intervenne  quando  Girolamo nipote  di  lerone  siracusano  fu morto  in  Siracusa,  che  venendo  le  novelle della  sua  morte  in  nel  suo  esercito, che  non  era  molto  lontano  da  Siracusa,  cominciò  prima  a tumultuare,  e pigliare  1’  armi  contro  agli  ucciditori  di quello;  ma  come  ei  sentì  che  in  Siracusa si  gridava  libertà,  allettato  da  quel nome,  si  quietò  tutto,  pose  giti  V ira contra  a’  tirannicidi,  e pensò  come  iti quella  città  si  potesse  ordinare  un  viver libero.  Non  è meraviglia  ancora,  che  i popoli  faccino  vendette  istraordinaric contra  a quelli  che  gli  hanno  occupata la  libertà.  Di  che  ci  sono  stali  assai esempi,  de’ quali  ne  intendo  referire  solo uno,  seguilo  in  Coreica,  città  di  Grecia, ne’ tempi  della  guerra  peloponnesiaca; «love  sendo  divisa  quella  provincia  in due  fazioni,  delle  quali  1’  una  seguitava gli  Ateniesi,  V altra  gli  Spartani,  ne  nasceva che  di  molte  città,  che  erano  infra loro  divise,  T una  parte  seguiva  F amicizia di  Sparta,  l’altra  di  Atene:  ed  essendo occorso  clic  nella  detta  città  prcvalessino  i nobili,  e togliessino  la  libertà al  popolo,  i popolari  per  mezzo  degli Ateniesi  ripresero  le  forze,  e posto  le mani  addosso  a tutta  la  nobiltà,  gli  rinchiusero in  una  prigione  capace  di  tutti loro;  donde  gli  traevano  ad  otto  o dieci per  volta,  sotto  titolo  di  mandargli  in esilio  iti  diverse  parli,  e quelli  con  molti crudeli  essempi  facevauo  morire.  Di  che sendosi  quelli  che  restavano  accorti,  deliberarono, in  quanto  era  a loro  possibile, fuggire  quella  morte  ignominiosa  ; ed  armatisi  di  quello  potevano,  combattendo con  quelli  vi  volevano  entrare,  la entrata  della  prigione  difendevano;  di modo  che  il  popolo,  a questo  romore fatto  concorso,  scoperse  la  parte  superiore di  quel  luogo,  e quelli  con  quelle rovine  sufìbeorno.  Seguirono  ancora  in delta  provincia  molti  altri  simili  casi orrendi  e notabili  : talché  si  vede  esser vero,  che  con  maggiore  impeto  si  vendica una  libertà  che  ti  è suta  tolta,  che quella  che  li  è voluta  torre.  Pensando dunque  donde  possa  nascere,  che  in  quelli tempi  antichi,  i popoli  fussero  più  amatori della  libertà  che  in  questi;  credo nasca  da  quella  medesima  cagione  che fa  ora  gli  uomini  manco  forti  : la  quale credo  sia  la  diversità  della  educazione nostra  dalla  antica,  fondata  nella  diversità della  religione  nostra  dalla  antica. Perchè  avendoci  la  nostra  religione mostra  la  verità  e la  vera  via, ci  fa  stimare  meno  l’onore  del  mondo: onde  i Gentili  stimandolo  assai, ed  avendo  posto  in  quello  il  sommo  bene, erano  nelle  azioni  loro  più  feroci. Il  che  si  può  considerare  da  molte  loro constituzioni,  cominciandosi  dalla  magnificenza de’  sacrificii  loro,  alla  umilila de’  nostri  ; dove  è qualche  pompa  più dilicata  che  magnifica,  ma  nessuna  azione feroce  o gagliarda.  Quivi  non  mancava la  pompa  nè  la  magnificenza  delle  cerimonie, ma  vi  si  aggiungeva  1*  azione del  sacrificio  pieno  di  sangue  e di  ferocia, ammazzandovisi  moltitudine  di  animali  :
il  quale  aspetto  sendo  terribile,  rendeva gli  uomini  simili  a lui.  La  religione  antica, oltre  di  questo,  non  beatificava  se non  gli  uomini  pieni  di  mondana  gloria: come  erano  capitani  di  eserciti,  e principi di  repubbliche.  La  nostra  religione ha  glorificato  più  gli  uomini  umili  e contemplativi,  che  gli  attivi.  Ha  dipoi posto  il  sommo  bene  nella  umilila,  abiezione, nello  dispregio  delle  cose  umane: quell’  altra  lo  poneva  nella  grandezza dello  animo,  nella  fortezza  del  corpo,  ed in  tutte  le  altre  cose  atte  a fare  gli  uomini fortissimi.  E se  la  religione  nostra richiede  che  abbi  in  te  fortezza,  vuole che  tu  sia  atto  a patire  più  che  a fare una  cosa  forte.  Questo  modo  di  vivere, adunque,  pare  che  abbi  rendutoil  mondo debole,  e datolo  in  preda  agli  uomini scellerati;  i quali  sicuramente  lo  possono maneggiare,  veggendo  come  la  università degli  uomini,  per  andare  in  paradiso, pensa  più  a sopportare  le  sue battiture,  che  a vendicarle.  E benché  paia che  si  sia  effeminato  il  mondo,  e disarmato il  cielo,  nasce  più  senza  dubbio dalla  viltà  degli  uomini,  che  hanno  interpretato la  nostra  religione  secondo l’  ozio,  e non  secondo  la  virtù.  Perchè, se  considerassino  come  la  permette  la esultazione  e la  difesa  della  patria,  vedrebbono  come  la  vuole  che  noi  l’amiaino  ed  onoriamo,  e prepariamoci  ad  esser tali  che  noi  la  possiamo  difendere. Fanno  adunque  queste  educazioni,  e si false  interpretazioni,  che  nel  mondo  non si  vede  tante  repubbliche  quante  si  vedeva aulicamente;  nè,  per  conscguente, si  vede  ne’  popoli  tanto  amore  alla  libertà quanto  allora  : ancora  che  io  creda  piuttosto essere  cagione  di  questo,  che  lo imperio  romano  con  le  sue  arme  e sua grandezza  spense  tutte  le  repubbliche  e lutti  i viveri  civili  E benché  poi  tal  imperio si  sia  risoluto,  non  si  sono  potute le  città  ancora  rimettere  insieme  nè  riordinare alla  vita  civile,  se  non  in  pochissimi luoghi  di  quello  imperio.  Pure, comunelle  si  fusse,  i Romani  in  ogni minima  parte  del  mondo  trovarono  una congiura  di  repubbliche  armatissime,  ed ostinatissime  atia  difesa  della  libertà  loro. Il  che  mostra  che  '1  Popolo  romano  senza una  rara  ed  estrema  virtù  mai  non  le arebbe  potute  superare.  E per  darne esseinpio  di  qualche  membro,  voglio  mi basti  lo  essempio  de’  Sanniti  : i quali pare  cosa  mirabile,  e Tito  Livio  lo  confessa, che  fussero  sì  potenti,  e 1’  arme loro  si  valide,  che  potessero  infino  al tempo  di  Papirio  Cursore  consolo,  figliuolo del  primo  Papirio,  resistere  a’  Romani (che  fu  uno  spazio  di  XLVI  anni),  dopo tante  rotte,  rovine  di  terre,  e tante  stragi ricevute  nel  paese  loro;  massime  veduto ora  quel  paese  dove  erano  tante  cittadi e tanti  uomini,  esser  quasi  che  disabitato : ed  allora  vi  era  tanto  ordine,  e tanta  forza,  eh’  egli  era  insuperabile, se  da  una-  virtù  romana  non  fusse  stato assaltato.  E facil  cosa  è considerare  donde nasceva  quello  ordine,  c donde  proceda questo  disordine;  perchè  tutto  viene  dal viver  libero  allora,  ed  ora  dal  viver  servo. Perchè  tutte  le  terre  e le  provincie  che vivono  libere  in  ogni  parte,  come  di  sopra dissi,  fanno  i progressi  grandissimi. Perchè  quivi  si  vede  maggiori  popoli, per  essere  i matrimoni  più  liberi,  e più desiderabili  dagli  uomini  : perchè  ciascuno procrea  volentieri  quelli  figliuoli che  crede  potere  nutrire,  non  dubitando che  il  patrimonio  gli  sia  tolto;  thè  eT conosce non  solamente  che  nascono  liberi e non  schiavi,  ma  che  possono  mediante la  virtù  loro  diventare  principi.  Veggonvisi  le  ricchezze  multiplicare  in  maggiore numero,  e quelle  che  vengono  dalla cultura,  e quelle  che  vengono  dalle  arti. Perchè  ciascuno  volentieri  multiplica  in quella  cosa,  e cerca  di  acquistare  quei beni,  che  crede  acquistati  potersi  godere. Onde  ne  nasce  che  gli  uomini  a gara  pensano ai  privati  ed  a’ pubblici  comodi;  e l’ uno  e l’altro  viene  meravigliosamente  a crescere.  II  contrario  di  tutte  queste  cosesegue  in  quelli  paesi  che  vivono  scivi; c tanto  più  mancano  del  consueto  bene, quanto  è più  dura  la  servitù.  E di  tutte" le  servitù  dure,  quella  è durissima  che li  sottomette  ad  una  repubblica  : E una, perchè  la  è più  durabile,  e manco  si  può sperare  d’  uscirne;  Y altra,  perchè  il  fine della  repubblica  è enervare  ed  indebolire. per  accrescere  il  corpo  suo,  tutti gli  altri  corpi.  11  che  non  la  un  principe che  ti  sottometta,  quando  quel principe  non  sia  qualche  principe  barbaro, destruttore  de’  paesi,  e dissipatore di  tutte  le  civilità  degli  uomini,  come sono  i principi  orientali.  Ma  s’ egli  ha in  sè  ordini  umani  ed  ordinari,  il  più delle  volte  ama  le  città  sue  soggette egualmente,  ed  a loro  lascia  T arti  tutte, e quasi  lutti  gli  ordini  antichi.  Talché, se  le  non  possono  crescere  come  libere, elle  non  rovinano  anche  come  serve;  intendendosi della  servitù  in  quale  vengono le  città  servendo  ad  un  forestiero, perchè  di  quella  d’ uno  loro  cittadino
ne  parlai  di  sopra.  Chi  considerrù,  adunque, tutto  quello  che  si  è detto,  non  si meraviglierà  della  potenza  che  i Sanniti avevano  sendo  liberi,  e della  debolezza in  che  e’ vennero  poi  servendo:  e L.  ne  fa  fede  in  più  luoghi,  e massime nella  guerra  d’ Annibaie,  dove  ei mostra  che  essendo  i Sanniti  oppressi da  una  legione  d’  uomini  che  era  in  Nola, mandorono  oratori  ad  Annibale,  a pregarlo che  gli  soccorresse;  i quali  nel parlar  loro  dissono,  che  avevano  per cento  anni  combattuto  con  i Romani  con i propri  loro  soldati  e propri  loro  capitani, e molte  volte  avevano  sostenuto duoi  eserciti  consolari  e duoi  consoli;  e che  allora  a tanta  bassezza  erano  venuti, che  non  si  potevano  a pena  difendere da  una  piccola  legione  romana  che  era. III.  — Roma  divenne  grande  città  rovinando le  città  circonvicine , e ricevendo i forestieri  facilmente  aJ  suoi  onori. Crescit  inlerea  Roma  Albce  ruinis. Quelli  che  disegnano  che  una  città  faccia grande  imperio,  si  debbono  con  ogni industria  ingegnare  di  farla  piena  di abitatori  ; perchè  senza  questa  abbondanza di  uomini,  mai  non  riuscirà  di fare  grande  una  città.  Questo  si  fa  in duoi  modi;  per  amore,  e per  forza. Per  amore,  tenendo  le  vie  aperte  e secure  a’  forestieri  che  disegnassero  venire ad  abitare  in  quella,  acciocché  ciascuno vi  abiti  volentieri  : per  forza,  disfacendo le  città  vicine,  e mandando  gli abitatori  di  quelle  ad  abitare  nella  tua città.  Il  che  fu  tanto  osservato  in  Roma, che  nel  tempo  del  sesto  Re  in  Roma abitavano  ottantamila  uomini  da  portare armi.  Perchè  i Romani  vollono  fare  ad uso  del  buono  cultivatore;  il  quale,  perche  una  pianta  ingrossi,  e possa  pròdurre  e maturare  i fruiti  suoi,  gli  taglia i primi  rami  che  la  mette,  acciocché, rimasa  quella  virtù  nel  piede  di  quella pianta,  possino  col  tempo  nascervi  più verdi  e più  fruttiferi.  E che  questo  modo tenuto  per  ampliare  e fare  imperio, fusse  necessario  e buono,  lo  dimostra Io  essempio  di  Sparta  e di  Atene  : le quali  essendo  due  repubbliche  armatissime, ed  ordinate  di  ottime  leggi,  nondimeno non  si  condussono  alla  grandezza dello  imperio  romano;  e Roma pareva  più  tumultuaria,  e non  tanto bene  ordinata  quanto  quelle.  Di  che non  se  ne  può  addurre  altra  cagione, che  la  preallegata:  perchè  Roma,  per avere  ingrossato  per  quelle  due  vie  il corpo  della  sua  città,  potette  di  già mettere  in  arme  dugentottantamila  uomini; e Sparta  ed  Atene  non  passarono mai  ventimila  per  ciascuna.  Il  che  nacque, non  da  essere  il  sito  di  Roma  più benigno  che  quello  di  coloro,  ma  solamente  da  diverso  modo  di  procedere. Perché  Licurgo,  fondatore  della  repubblica spartana , considerando  nessuna cosa  potere  più  facilmente  risolvere  le sue  leggi  che  la  commistione  di  nuovi abitatori,  fece  ogni  cosa  perchè  i forestieri non  avessino  a conversarvi:  ed, oltre  al  non  gli  ricevere  ne’ matrimoni, alla  civiltà,  ed  alle  altre  conversazioni che  fanno  convenire  gli  uomini  insieme, ordinò  che  in  quella  sua  repubblica  si spendesse  monete  di  cuoio,  per  tor  via a ciascuno  il  desiderio  di  venirvi  per portarvi  mercanzie,  o portarvi  alcuna arte;  di  qualità  che  quella  città  non potette  mai  ingrossare  di  abitatori.  E perchè  tutte  le  azioni  nostre  imitano  la natura,  non  è possibile  nè  naturale  che uno  pedale  sottile  sostenga  un  ramo grosso.  Però  una  repubblica  piccola  non può  occupare  città  nè  regni  che  siano più  validi  nè  più  grossi  di  lei;  e se  pure gli  occupa,  gP  interviene  come  a quello albero  che  avesse  più. grosso  il  ramo
che  ’l  piede,"  che  sostenendolo  con  fatica, ogni  piccolo  vento  lo  fiacca:  come si  vede  che  intervenne  a Sparla,  la  quale avendo  occupate  tutte  le  città  di  Grecia, non  prima  se  gli  ribellò  Tebe,  che  tutte P altre  cittadi  se  gli  ribellarono,  e rimase i!  pedale  solo  senza  rami.  Il  che non  potette  intervenire  a Roma,  avendo il  piè  si  grosso,  che  qualunque  ramo poteva  facilmente  sostenere.  Questo  modo adunque  di  procedere,  insieme  con gli  altri  che  di  sotto  si  diranno,  fece Roma  grande  e potentissima.  Il  che  dimostra L.  in  due  parole,  quando disse:  Crcscit  intcrea  Roma  Albce  ruinis. IV.  — Le  repubbliche  hanno  tentili tre  modi  circa  lo  ampliare. Chi  ha  osservato  le  antiche  istorie, Iruova  come  le  repubbliche  hanno  tre modi  circa  lo  ampliare.  L*  uno  è stato quello  che  osservorono  i Toscani  antichi, di  essere  una  lega  di  più  repubbliche  insieme,  dove  non  sia  alcuna  che avanzi  l’ altra  nè  di  autorità  nè  di  grado; e nello  acquistare,  farsi  1’ altre  città compagne,  in  simil  modo  come  in  questo tempo  fanno  i Svizzeri,  e come  nei tempi  antichi  feciono  in  Grecia  gli  Achei e gli  Etoli.  E perchè  gli  Romani  feciono assai  guerra  con  i Toscani,  per  mostrar meglio  la  qualità  di  questo  primo  modo, ini  distenderò  in  dare  notizia  di  loro particolarmente.  In  Italia,  innanzi  allo imperio  romano,  furono  i Toscani  per mare  e per  terra  potentissimi:  e benché delle  cose  loro  non  ce  ne  sia  particolare istoria,  pure  c’è  qualche  poco di  memoria,  e qualche  segno  della  grandezza  loro;  e si  sa  come  e*  mandarono una  colonia  in  su  ’l  mare  di  sopra,  la quale  chiamarono  Adria,  che  fu  si  nobile, che  la  dette  nome  a quel  mare  che ancora  i Latini  chiamano  Adriatico.  Intendesi  ancora,  come  le  loro  arme  furono ubbidite  dal  Tevere  per  infìno  ai piè  dell’  Alpi,  che  ora  cingono  il  grosso di  Italia;  non  ostante  che  dugento  anni innanzi  che  i Romani  crescessino  in molte  forze,  detti  Toscani  perderono  lo imperio  di  quel  paese  che  oggi  si  chiama la  Lombardia;  la  quale  provincia  fu occupata  da’ Franciosi  : i quali  mossi  o da  necessità,  o dalla  dolcezza  dei  frutti, e massime  del  viuo,  vennono  in  Italia sotto  Bellovcso  loro  duce;  e rotti  e cacciati i provinciali,  si  posono  in  quel luogo,  dove  edificarono  di  molte  cittadi, e quella  provincia  chiamarono  Gallia, dal  nome  che  tenevano  allora  ; la  quale tennono  fino  che  da’  Romani  fussero domi.  Vivevano,  adunque,  i Toscani  con quella  equalità , e procedevano  nello ampliare  in  quel  primo  modo  che  di sopra  si  dice:  e furono  dodici  città,  tra le  quali  era  Chiusi,  Yeio,  Fiesole,  Arezzo, Volterra,  e simili:  i quali  per  via di  lega  governavano  lo  imperio  loro; nè  poterono  uscir  d’Italia  con  gli  acquisti ; e di  quella  ancora  rimase  intatta gran  parte,  per  le  cagioni  che  di  sotto
si  diranno.  V altro  modo  è farsi  compagni j non  tanto  però  che  non  ti  rimanga il  grado  del  comandare,  la  sedia dello  imperio  ed  il  titolo  delle  imprese  : il  quale  modo  fu  osservato  da’  Romani. 11  terzo  modo  è farsi  immediate  sudditi, e non  compagni;  come  fecero  gli Spartani  e gli  Ateniesi.  De'  quali  tre modi,  questo  ultimo  è al  tutto  inutile; come  c’  si  vide  che  fu  nelle  sopraddette due  repubbliche:  le  quali  non  rovinarono per  altro,  se  non  per  avere  acquistato quel  dominio  che  le  non  potevano tenere.  Perchè,  pigliar  cura  di  avere  a governare  città  con  violenza,  massime quelle  che  tassino  consuete  a viver  libere, è una  cosa  diffìcile  e faticosa.  E se  tu  non  sei  armato  e grosso  d’  armi, non  le  puoi  nè  comandare  nè  reggere. Ed  a voler  esser  così  fatto,  è necessario farsi  compagni  che  ti  aiutino  ingrossare la  tua  città  di  popolo.  E perchè queste  due  città  non  feciono  nè1’  uno  nè  I’  altro,  il  modo  del  procedere loro  fu  inutile.  E perché  Roma,  la  quale è nello  esempio  del  secondo  modo,  fece l’uno  e T altro;  però  salse  a tanta  eccessiva potenza.  E perchè  la  è stata  sola a vivere  cosi,  è stata  ancora  sola  a diventar tanto  potente  : perchè,  avendosi ella  fatti  di  molti  compagni  per  tutta Italia,  i quali  in  di  molte  cose  con  eguali leggi  vivevano  seco;  e dall’ altro  canto» come  di  sopra  è detto,  sendosi  riservato sempre  la  sedia  dello  imperio  ed il  titolo  del  comandare;  questi  suoi  com-pagni venivano,  che  non  se  ne  avvedevano, con  le  fatiche  e con  il  sangue loro  a soggiogar  sè  stessi.  Perchè,  come cominciorono  a uscire  con  gli  eserciti di  Italia,  e ridurre  i regni  in  provincie,  e farsi  soggetti  coloro  che  per esser  consueti  a vivere  sotto  i Re,  non si  curavano  d*  esser  soggetti;  ed  avendo governadori  romani,  ed  essendo  stati vinti  da  eserciti  con  ii  titolo  romano  ; non  riconoscevano  per  superiore  altro che  Roma.  Di  modo  che  quelli  compagni  di  Roma  che  erano  in  Italia,  si  trovarono in  un  tratto  cinti  da’  sudditi romani,  cd  oppressi  da  una  grossissima città  come  era  Roma  ; e quando  e’  si avviddono  dello  inganno  sotto  i!  quale erano  vissuti,  non  furono  a tempo  a rimediarvi:  tanta  autorità  aveva  presa Roma  con  le  provincie  esterne,  e tanta forza  si  trovava  in  seno,  avendo  la  sua città  grossissima  ed  armatissima.  E benché quelli  suoi  compagni,  per  vendicarsi delle  ingiurie,  gli  congiurassino  contea, furono  in  poco  tempo  perditori  della guerra,  peggiorando  le  loro  condizioni; perchè  di  compagni,  diventarono  ancora loro  sudditi.  Questo  modo  di  procedere, come  è detto,  è stato  solo  osservato da’  Romani:  nè  può  tenere  altro modo  una  repubblica  che  voglia  ampliare; perchè  la  esperienza  non  te  ne ha  mostro  nessuno  più  certo  o più vero.  11  modo  preallegato  delle  leghe, come  viverono  i Toscani,  gii  Achei  e gli  Etoli,  e come  oggi  vivono  i Svizzeri,  è dopo  a quello  de’  Romani  il miglior  modo;  perchè  non  si  potendo con  quello  ampliare  assai,  ne  seguitano duoi  beni:  l’  uno,  che  facilmente  non  ti tiri  guerra  addosso;  l’altro,  che  quel tanto  che  tu  pigli,  lo  tieni  facilmente. La  cagione  del  non  potere  ampliare,  è lo  essere  una  repubblica  disgiunta,  e posta  in  varie  sedi:  il  che  fa  che  difficilmente possono  consultare  e deliberare. Fa  ancora  che  non  sono  desiderosi  di dominare:  perchè  essendo  molte  comunità a*  participarc  di  quel  dominio,  non istimano  tanto  tale  acquisto,  quanto  fa una  repubblica  sola,  che  spera  di  goderselo tutto.  Governansi,  oltra  di  questo, per  concilio,  c conviene  che  siano più  tardi  ad  ogni  deliberazione,  che quelli  che  abitano  dentro  ad  un  medesimo cerchio.  Vedesi  ancora  per  esperienza, che  simile  modo  di  procedere  ha un  termine  fisso,  il  quale  non  ci  è esempio che  mostri  che  si  sia  trapassato:  e questo  è di  aggiugnere  a dodici  o quattordici  comunità  ; dipoi  non  cercare di  andare  più  avanti  : percliè  sendo giunti  al  grado  che  par  loro  potersi  difendere da  ciascuno,  non  cercano  maggiore dominio  ; sì  perchè  la  necessità non  gli  stringe  di  avere  piò  potenza; si  per  non  conoscere  utile  negli  acquisti, per  le  cagioni  dette  di  sopra.  Perchè gli  arebbono  a fare  una  delle  due cose;  o seguitare  di  farsi  compagni,  e questa  moltitudine  farebbe  confusione; o gli  arebbono  a farsi  sudditi  : e perchè e’  veggono  in  questo  difficultà,  e non  molto  utile  nel  tenergli,  non  lo  stimano. Pertanto,  quando  e’  sono  venuti a tanto  numero  che  paia  loro  vivere sicuri,  si  voltano  a due  cose:  P una  a ricevere  raccomandati,  e pigliare  protezioni ; c per  questi  mezzi  trarre  da ogni  parte  danari,  i quali  facilmente intra  loro  si  possono  distribuire:  1*  altra è militare  per  altrui,  e pigliar  stipendio da  questo  e da  quello  principe che  per  sue  imprese  gli  soldo  ; come  si vede  che  fanno  oggi  i Svizzeri,  e come si  legge  che  facevano  i preallegati.  Di che  il*  è testimone  Tito  Livio,  dove  dice che,  venendo  a parlamento  Filippo  re di  Macedonia  con  Tito  Quinzio  Flamminio,  e ragionando  d'accordo  alla  presenza d’  un  pretore  degli  Etoli  ; in  venendo a parole  detto  pretore  con  Filippo, gli  fu  da  quello  rimproverato  la avarizia  e la  infidelità,  dicendo  che  gli Etoli  non  si  vergognavano  militare  con uno,  e poi  mandare  loro  uomini  ancora al  servigio  del  nimico  ; talché  molte volte  intra  dnoi  contrari  eserciti  si  vedevano le  insegne  di  Etolia.  Conoscesi, pertanto,  come  questo  modo  di  procedere per  leghe,  è stato  sempre  simile, ed  ha  fatto  simili  effetti.  Vedesi  ancora, che  quel  modo  di  fare  sudditi  è stato sempre  debole,  ed  avere  fatto  piccoli profitti;  e quando  pure  egli  hanno  passato il  modo,  essere  rovinati  tosto.  E se questo  modo  di  fare  sudditi  è inutile nelle  repubbliche  armate,  in  quelle  che sono  disarmate  è inutilissimo:  come  sono state  ne’  nostri  tempi  le  repubbliche  di Italia.  Conoseesi,  pertanto,  essere  vero modo  quello  che  tennono  i Romani  5 il quale  è tanto  più  mirabile,  quanto  e’  non ee  il’  era  innanzi  a Roma  essempio,  e dopo Roma  non  è stalo  alcuno  elio  gli abbi  imitati.  E quanto  alle  leghe,  si trovano  solo  i Svizzeri  e la  lega  di  Svevia  che  gli  imita.  E,  come  nel  fine  di questa  materia  si  dirà,  tanti  ordini  osservati da  Roma,  così  pertinenti  alle cose  di  dentro  come  a quelle  di  fuora, non  sono  ne*  presenti  nostri  tempi  non solamente  imitati,  ma  non  n’è  tenuto alcuno  conto  ; giudicandoli  alcuni  non veri,  alcuni  impossibili,  alcuni  non  a proposito  ed  inutili  : tanto  che  standoci con  questa  ignoranza,  siamo  preda  di qualunque  ha  voluto  correre  questa  provincia. E quando  la  imitazione  de’  Romani paresse  difficile,  non  doverrebhe parere  cosi  quella  degli  antichi  Toscani, massime  a’  presenti  Toscani.  Perchè,  se quelli  non  poterono,  per  le  cagioni  dette, fare  uno  imperio  simile  a quel  di  Roma, poterono  acquistare  in  Italia  quella  potenza che  quel  modo  del  procedere  concesse loro.  11  che  fu  per  un  gran  tempo securo,  con  somma  gloria  d’ imperio  e d’arme,  e massima  laude  di  costumi  e di  religione.  La  qual  potenza  e gloria fu  prima  diminuita  da’  Franciosi,  dipoi spenta  da’ Romani;  e fu  tanto  spenta, che,  ancora  che  duemila  anni  fa  la  potenza de’  Toscani  fusse  grande,  al  presente non  ce  n’  è quasi  memoria.  La qual  cosa  mi  ha  fatto  pensare  donde nasca  questa  oblivione  delle  cose:  come  '
nel  seguente  capitolo  si  discorrerà. V.  — Che  la  variazione  delle  sèlle e delle  lingue insieme  con  l'accidente de'  diluvi  o delle  pesti  j spegno  la  memoria  delle  cose. A quelli FILOSOFI che  hanno  voluto  che’l mondo  sia  stato  eterno,  credo  che  si potesse  reificare,  che  se  tanta  antichità fusse  vera,  e’ sarebbe  ragionevole  che ci  fusse  memoria  di  più  che  cinque mila  anni;  quando  e’  non  si  vedesse  come queste  memorie  de*  tempi  per  diverse cagioni  si  spengano:  delle  quali parte  vengono  dagli  nomini,  parte  dal cielo.  Quelle  che  vengono  dagli  uomini, sono  LE VARIAZIONI DELLE SETTE E DELLE LINGUE. Perchè  quando  surge  una  setta nuova,  cioè  una  religione  nuova,  il  primo studio  suo  è,  per  darsi  reputazione, estinguere  la  vecchia;  e quando  egli  occorre che  gli  ordinatori  delia  nuova setta  siano  di  lingua  diversa,  la  spengono facilmente.  La  qual  cosa  si  conosce considerando  i modi  che  ha  tenuti la  religione  cristiana  contra  alla  SETTA GENTILE;  la  quale  ha  cancellati  tutti  gli ordini,  tutte  le  ceremonie  di  quella,  e spenta  ogni  memoria  di  quella  antica teologia.  Vero  è che  non  gli  è riuscito spegnere  in  tutto  la  notizia  delle  cose fatte  dagli  uomini  eccellenti  di  quella  : il  die  è nato  per  AVERE QUELLA MANTENUTA LA LINGUA LATINA; il  che  fecero forzatamente,  avendo  a scrivere  questa legge  nuova  con  essa.  Perchè,  se  V avessino potuta  scrivere  con  nuova  lingua, considerato  le  altre  persecuzioni  gli  feciono,  non  ci  sarebbe  ricordo  alcuno delle  cose  passate.  E chi  legge  i modi tenuti  da  san  Gregorio  e dagli  altri capi  della  religione  cristiana,  vedrà  con quanta  ostinazione  e’  perseguitarono tutte  le  memorie  antiche,  ardendo  P opere  de*  poeti  e delli  istorici,  minando le  immagini,  e guastando  ogni  altra  cosa che  rendesse  alcun  segno  della  antichità. Talché,  se  a questa  persecuzione  egli avessino  aggiunto  una  nuova  lingua,  si sarebbe  veduto  in  brevissimo  tempo ogni  cosa  dimenticare.  È da  credere, pertanto,  che  quello  che  ha  voluto  fare la  religione  cristiana  contra  alla  setta gentile,  la  gentile  abbi  fatto  contra  u quella  che  era  innanzi  a lei.  E perchè queste  sètte  in  cinque  o in  seimila  anni variarono  due  o tre  volle,  si  perdè  in memoria  delle  cose  fatte  innanzi  a quel tempo.  E se  pure  ne  resta  alcun  segno, si  considera  come  cosa  favolosa,  e non è prestato  loro  fede  : come  interviene alla  istoria  di  Diodoro  Siculo,  che  benché e’  renda  ragione  di  quaranta  o cinquanta mila  anni,  nondimeno  è riputata, come  io  credo  che  sia,  cosa  mendace. Quanto  alle  cause  che  vengono  dal  cielo, sono  quelle  che  spengono  la  umana generazione,  e riducono  a pochi  gli  abitatori di  parte  del  mondo.  E questo viene  o per  peste  o per  fame  o per  una inondazione  d*  acque  : e la  più  importante è questa  ultima,  sì  perchè  la  è più  universale,  sì  perchè  quelli  che  si salvano  sono  uomini  tutti  montanari  e rozzi,  i quali  non  avendo  notizia  di  alcuna antichità,  non  la  possono  lasciare a’  posteri.  E se  infra  loro  si  salvasse alcuno  che  ne  avesse  notizia,  per  farsi riputazione  e nome,  la  nasconde,  e la perverte  a suo  modo  ; talché  ne  resta solo  a*  successori  quanto  ei  ne  ha  voluto scrivere,  e non  altro.  E che  queste inondazioni,  pesti  e fami  venghino,  non credo  sia  da  dubitarne;  sì  perchè  ne sono  piene  tutte  le  istorie,  sì  perchè  si vede  questo  effetto  della  oblivione  delle cose,  sì  perchè  e’  pare  ragionevole  che sia:  perchè  la  natura,  come  ne’ corpi semplici,  quando  vi  è ragunato  assai materia  superflua,  muove  per  sè  medesima molte  volte,  e fa  una  purgazione, la  quale  è salute  di  quel  corpo  ; così interviene  in  questo  corpo  misto  della umana  generazione,  che  quando  tutte  le provincie  sono  ripiene  di  abitatori,  in modo  che  non  possono  vivere,  nè  possono andare  altrove,  per  esser  occupati e pieni  tutti  i luoghi;  e quando  la  astuzia e malignità  umana  è venuta  dove la  può  venire,  conviene  di  necessità  che il  mondo  si  purghi  per  uno  de’  tre  modi ; acciocché  gli  uomini  essendo  divenuti pochi  e battuti,  vivano  più  comodamente, e diventino  migliori.  Era adunque,  come  di  sopra  è detto,  già  tu Toscana  potente,  piena  di  religione  e di  virtù  ; aveva  i suoi  costumi  e la  sua LINGUA PATRIA:  il  che  tutto  è stato  spento dalla  potenza  romana.  Talché,  come  si è detto,  di  lei  ne  rimane  solo  la  memoria del  nome. Vi.  — Come  i Romani  procedevano nel  fare  la  guerra. Avendo  discorso  come  i Romani  procedevano nello  ampliare,  discorreremo ora  come  e’  procedevano  nel  fare  la guerra  ; ed  in  ogni  loro  azione  si  vedrà con  quanta  prudenza  ei  diviarono dal  modo  universale  degli  altri,  per  fa-
cilitarsi la  via  a venire  a una  suprema grandezza.  La  intenzione  di  chi  fa guerra  per  elezione,  o vero  per  ambizione, è acquistare  e mantenere  lo  acquistato; e procedere  in  modo  con  esso, che  I’  arricchisca  c non  impoverisca  il paese  e la  patria  sua.  È necessario  dunquc,  e nello  acquistare  e nel  mantenere,  pensare  di  non  spendere;  anzi  far ogni  cosa  con  utilità  del  pubblico  suo. Chi  vuol  fare  tutte  queste  cose,  conviene che  tenga  lo  stile  e modo  romano: il  quale  fu  in  prima  di  fare  le  guerre, come  dicono  i Franciosi,  corte  e grosse; perchè,  venendo  in  campagna  con eserciti  grossi,  tutte  le  guerre  eh’  egli ebbono  co’  Latini,  Sanniti  e Toscani  le espedirono  in  brevissimo  tempo.  E se si  noteranno  tutte  quelle  che  feciono  dal principio  di  Roma  infino  alla  ossidione de’  Yeienti,  tutte  si  vedranno  espedite, quale  in  sei,  quale  in  dieci,  quale  inventi  di.  Perchè  l’uso  loro  era  questo: subito  che  era  scoperta  la  guerra,  egli uscivano  fuori  con  gli  eserciti  all’  incontro del  nimico,  e subito  facevano  la giornata.  La  quale  vinta,  i nimici,  perchè non  fussc  guasto  loro  il  contado affatto,  venivano  alle  condizioni;  ed  i Romani  gli  condennavano  in  terreni:  i quali  terreni  gli  convertivano  in  privati comodi,  o gli  consegnavano  ad  una  colonia; la  quale  posta  in  su  le  frontiere di  coloro,  veniva  ad  esser  guardia  de’  confini romani,  con  utile  di  essi  coloni,  che avevano  quelli  campi,  e con  utile  del pubblico  di  Roma,  che  senza  spesa  teneva quella  guardia.  Nè  poteva  questo modo  esser  più  seeuro,  o più  forte,  o piu  utile:  perchè  mentre  che  i nimici non  erano  in  su  i campi,  quella  guardia bastava  : come  e’ fussino  usciti  fuori grossi  per  opprimere  quella  colonia, ancora  i Romani  uscivano  fuori  grossi, e venivano  a giornata  con  quelli;  e fatta e vinta  la  giornata,  imponendo  loro  più gravi  condizioni,  si  tornavano  in  casa. Così  venivano  ad  acquistare  di  mano in  mano  riputazione  sopra  di  loro,  e forze  in  sè  medesimi.  E questo  modo vennono  tenendo  infino  che  mutorno modo  di  procedere  in  guerra:  il  che  fu dopo  la  ossidione  de’  Veienti  ; dove,  pei*potere  fare  guerra  lungamente,  gli  ordinarono di  pagare  i soldati,  che  prima,  per  non  essere  necessario,  essendo le  guerre  brevi,  non  gli  pagavano.  E benché  i Rotflani  dessino  il  soldo,  e che per  virtù  di  questo  ei  potessino  fare  le guerre  più  lunghe,  e per  farle  più  discosto la  necessità  gli  tenesse  più  in su’  campi  ; nondimeno  non  variarono mai  dal  primo  ordine  di  finirle  presto, secondo  il  luogo  ed  il  tempo;  nè  variarono mai  dal  mandare  le  colonie.  Perchè nel  primo  ordine  gli  tenne,  circa il  fare  le  guerre  brevi,  olirà  il  loro  naturale uso,  T ambizione  de’  Consoli  ; i quali  avendo  a stare  un  anno,  e di quello  anno  sei  mesi  alle  stanze,  volevano finire  la  guerra  per  trionfare.  Nel mandare  le  colonie,  gli  tenne  1’  utile  e la  comodità  grande  che  ne  risultava. Variarono  bene  alquanto  circa  le  prede, delie  quali  non  erano  cosi  liberali  come erano  stati  prima  ; sì  perchè  e*  non  pareva loro  tanto  necessario,  avendo  i soldati lo  stipendio;  sì  perchè  essendo  le prede  maggiori,  disegnavano  d*  ingrassaie  di  quelle  in  modo  il  pubblico,  che non  lussino  constretti  a fare  le  imprese con  tributi  della  città.  li  * quale  ordine in  poco  tempo  fece  il  loro  erario  ricchissimo. Questi  duoi  modi,  adunque,  e circa  il  distribuire  la  preda,  e circa  il mandar  le  colonie,  feciono  che  Roma  arricchiva della  guerra  j dove  gli  altri principi  e repubbliche  non  savie  ne impoveriscono.  E ridusse  la  cosa  in  termine, che  ad  un  Consolo  non  pareva poter  trionfare,  se  non  portava  col  suo trionfo  assai  oro  ed  argento,  e d’ ogni altra  sorte  preda,  nello  erario.  Cosi  i Romani  con  i soprascritti  termini,  e coti il  finire  le  guerre  presto,  sendo  contenti con  lunghezza  straccare  i nemici, e con  rotte  e con  le  scorrerie  e con accordi  a loro  avvantaggi,  diventarono sempre  più  ricchi  e più  potenti. VII  — Quanto  terreno  i Romani davano  per  colono. Quanto  terreno  i Romani  distribuiisino  per  colono,  credo  sia  molto  diffìcile trovarne  la  verità.  Perchè  io  credo  ne dessino  più  o manco,  secondo  i luoghi dove  e*  mandavano  le  colonie.  E giudicasi che  ad  ogni  modo  ed  in  ogni  luogo la  distribuzione  fusse  parca  : prima,  per poter  mandare  più  uomini,  sendo  quelli diputati  per  guardia  di  quel  paese;  dipoi perchè  vivendo  loro  poveri  a caso, non  era  ragionevole  che  volessino  che  I loro  uomini  abbondassino  troppo  fuora.  E Tito  Livio  dice,  come  preso  Veio e’  vi  mandorno  una  colonia,  e distribuirono a ciascuno  tre  iugeri  e sette  once di  terra;  che  sono  al  modo  nostro. Perchè,  oltre  alle  cose soprascritte,  e’  giudicavano  che  non  lo assai  terreno,  ma  il  bene  coltivato  bastasse. È necessario  bene,  che  tutta  la colonia  abbi  campi  pubblici  dove  ciascuno possa  pascere  il  suo  bestiame,  e selve  dove  prendere  del  legname  per  ardere ; senza  le  quali  cose  non  può  una colonia  ordinarsi. Vili.  — La  cagione  perchè  i popoli si  partono  da * luoghi  patriij  cd inondano  il  paese  altrui. Poiché  di  sopra  si  è ragionato  del modo  nel  procedere  della  guerra  osservato da’  Romani,  c come  i Toscani  furono assaltati  da*  Franciosi  ; non  mi  pare alieno  dalla  materia  discorrere,  come  e’  si fanno  di  due  generazioni  guerre.  L’una è fatta  per  ambizione  de*  principi  o delle repubbliche,  che  cercano  di  propagare lo  imperio;  come  furono  le  guerre  che fece  Alessandro  Magno,  e quelle  che  feciono  i Romani,  e quelle  che  fanno  ciascuno di,  1*  una  potenza  con  F altra.  Le quali  guerre  sono  pericolose,  ma  non cacciano  al  tutto  gli  abitatori  d*  una  provincia  ; perchè  e’  basta  al  vincitore  solo la  ubbidienza  de’  popoli,  e il  più  delle volte  gli  lascia  vivere  con  le  loro  leggi, e sempre  con  le  loro  case,  e ne’  loro beni.  L’altra  generazione  di  guerra  è, quando  un  popolo  intero  con  tutte  le sue  famiglie  si  beva  d’  uno  luogo,  necessitato o dalla  fame  o dalla  guerra,  e va  a cercare  nuova  sede  e nuova  provincia; non  per  comandarla,  come  quelli di  sopra,  ma  per  possederla  tutta  particolarmente, e cacciarne  o ammazzare gli  abitatori  antichi  di  quella.  Questa guerra  è crudelissima  e paventosissima. E di  queste  guerre  ragiona  Salustio  nel fine  dell’  Iugurtiuo,  quando  dice  che  vinto lugurta,  si  senti  il  moto  de’  Franciosi  che venivano  in  Italia  : dove  e’  dice  che  ’l Popolo  romano  con  tutte  le  altre  genti combattè  solamente  per  chi  dovesse  comandare, ma  con  i Franciosi  si  combattè sempre  per  la  salute  di  ciascuno. Perchè  ad  un  principe  o una  repub-
spegnere  solo  coloro  che  comandano  ; ma a queste  popolazioni  conviene  spegnere ciascuno,  perchè  vogliono  vivere  di  quello che  altri  viveva.  I Romani  ebbero  tre di  queste  guerre  pericolosissime.  La  prima fu  quella  quando  Roma  fu  presa,  la  quale fu  occupata  da  quei  Franciosi  che  avevano tolto,  come  di  sopra  si  disse,  la Lombardia  a’ Toscani,  e fattone  loro  sedia; della  quale  L.  ne  allega  due cagioni:  la  prima,  come  di  sopra  si  disse, che  furono  allettati  dalla  dolcezza delle  frutte,  c del  vino  di  Italia,  delle quali  mancavano  in  Francia;  la  seconda che,  essendo  quel  regno  francioso moltiplicato  in  tanto  di  uomini,  che  non vi  si  potevano  più  nutrire,  giudicarono i principi  di  quelli  luoghi,  che  fusse  necessario che  una  parte  di  loro  andasse a cercare  nuova  terra;  e fatta  tale  deliberazione, elcssono  per  capitani  di quelli  che  si  avevano  a partire,  Belloveso  e Sicoveso,  duoi  re  de’  Franciosi  : de’  quali  Belloveso  venne  in  Italia,  e Si» coveso  passò  in  Ispagna.  Dalla  passata del  quale  Belloveso,  nacque  la  occupazione di  Lombardia,  c quindi  la  guerra che  prima  i Franciosi  fecero  a Roma. Dopo  questa,  fu  quella  che  fecero  dopo la  prima  guerra  cartaginese,  quando  tra Piombino  e Pisa  ammazzarono  più  che dugentomila  Franciosi.  La  terza  fu  quando i Todeschi  e Cimbri  vennero  in  Italia  : i quali  avendo  vinti  più  eserciti  romani, furono  vinti  da  Mario.  Vinsero  adunque i Romani  queste  tre  guerre  pericolosissime. Ne  era  necessario  minore  virtù  a vincerle;  perchè  si  vede  poi,  come  la virtù  romana  mancò,  e che  quelle  arme perderono  il  loro  antico  valore,  fu  quello imperio  distrutto  da  simili  popoli  : i quali furono  Goti,  Vandali  c simili,  che  occuparono tutto  lo  imperio  occidentale. Escono  tali  popoli  de*  paesi  loro,  rome di  sopra  si  disse,  cacciati  dalla  necessitò: e la  necessitò  nasce  o dalla  fame, o da  una  guerra  ed  oppressione  clic ne’ paesi  propri  è loro  fatta;  talché  e’ sono  constretti  cercare  nuove  terre.  E questi  tali,  o e’  sono  grande  numero  ; ed  allora  con  violenza  entrano  ne'  paesi altrui,  ammazzano  gli  abitatori,  posseggono i loro  beni,  fanno  uno  nuovo  regno, mutano  il  nome  della  provincia: come  fece  Moisè,  e quelli  popoli  che  occuparono lo  imperio  romano.  Perchè  questi nomi  nuovi  che  sono  nella  Italia  e nelle altre  provincie,  non  nascono  da  altro  che da  essere  state  nomate  così  da’  nuovi occupatoci  : come  è la  Lombardia,  che si  chiamava  Gallia  Cisalpina:  la  Francia si  chiamava  Gallia  Transalpina,  ed  ora è nominata  da’  Franchi,  chè  cosi  si  chiamavano quelli  popoli  che  la  occuparono: la  Schiavoniu  si  chiamava  Illiria,  l’Ungheria Pannonia;  l’Inghilterra  Britannia:  c molte  altre  provincie  che  hanno mutato  nome,  le  quali  sarebbe  tedioso raccontare.  Moisè  ancora  chiamò  Giudea quella  parte  di  Soria  occupata  da  lui. E perchè  io  ho  detto  di  sopra,  che  qualche volta  tali  popoli  sono  cacciati  della propria  sede  per  guerra,  donde  -sono constretti  cercare  nuove  terre;  ne  voglio addurre  lo  essempio  de’  Maurusii, popoli  anticamente  in  Soria  : i quali,  sentendo  venire  i popoli  ebraici,  e giudicando non  poter  loro  resistere,  pensarono essere  meglio  salvare  loro  medesimi,  t* lasciare  il  paese  proprio,  che  per  volere salvare  quello,  perdere  ancora  loro;  e levatisi  con  loro  famiglie,  se  ne  andarono in  Affrica,  dove  posero  la  loro  sedia, cacciando  via  quelli  abitatori  che  in quelli  luoghi  trovarono.  G così  quelli  che non  avevano  potuto  difendere  il  loro paese,  poterono  occupare  quello  d’  altrui. E Procopio,  che  scrive  la  guerra  che fece  Bellisario  co’ Vandali  occupatori  della Affrica,  riferisce  aver  letto  lettere  scritte in  certe  colonne  ne’  luoghi  dove  questi Maurusii  abitavano,  le  quali  dicevano  : S os  Maurusii , qui  fugimus  a facie  Jesu latronis  filii  flava.  Dove  apparisce  In cagione  della  partita  loro  di  Soria.  Sono, pertanto,  questi  popoli  formidolosissimi, sendo  cacciati  da  una  ultima  necessità  ; e s’  egli  non  riscontrano  buone  armi,  non saranno  mai  sostenuti.  Ula  quando  quelli che  sono  constretti  abbandonare  la  loro patria  non  sono  molti,  non  sono  sì  pericolosi come  quelli  popoli  di  chi  si  è ragionato;  perchè  non  possono  usare tanta  violenza,  ma  conviene  loro  con arte  occupare  qualche  luogo,  e,  occupatolo, mantenervisi  per  via  di  amici  e di confederali  : come  si  vede  che  fece  ENEA, Didone,  i Massiliesi  e simili  ; i quali  lutti, per  consentimento  de’  vicini,  dove  e’ posorno,  poterono  mantenervisi.  Escono  i popoli  grossi,  e sono  usciti  quasi  tutti de’  paesi  di  Scizia  ; luoghi  freddi  e poveri: dove,  per  essere  assai  uomini,  cd il  paese  di  qualità  da  non  gli  potere  nutrire, sono  forzati  uscire,  avendo  molte cose  che  gli  cacciano,  e nessuna  che  gli ritenga.  E se  da  cinquecento  anni  in  qua, non  è occorso  che  alcuni  di  questi  popoli abbino  inondato  alcuno  paese,  è nato per  più  cagioni.  La  prima,  la  grande evacuazione  che  fece  quel  paese  nella declinazione  dello  imperio;  donde  uscirono più  di  trenta  popolazioni.  La  seconda è che  la  Magna  e 1’  Ungheria,  donde ancora  uscivano  di  queste  genti,  hanno ora  il  loro  paese  bonificato  in  modo,  che vi  possono  vivere  agiatamente;  talché non  sono  necessitati  di  mutare  luogo. Dall’  altra  parte,  sendo  loro  uomini  bellicosissimi, sono  come  uno  bastione  a tenere  che  gli  Sciti,  i quali  con  loro  confinano, non  presumino  di  potere  vincergli o passargli.  E spesse  volte  occorrono movimenti  grandissimi  da’ Tartari,  che sono  dipoi  dagli  Ungheri  e da  quelli  di Polonia  sostenuti;  e spesso  si  gloriano, che  se  non  fussino  1’  arme  loro,  la  Italia e la  Chiesa  arebbe  molle  volle  sentito  il peso  degli  eserciti  tartari.  E questo  voglio basti  quanto  a’  prefati  popoli. IX.  Quali  cagioni  comunemente faccino  nascere  le  guerre  intra  i polenti. La  cagione  che  fece  nascere  guerra intra  i Romani  ed  i Sanniti,  che  erano stati  in  lega  gran  tempo,  è una  cagione comune  che  nasce  infra  tutti  i principati potenti.  La  qual  cagione  o la  viene a caso,  o la  è fatta  nascere  da  colui  che desidera  muovere  la  guerra.  Quella  che nacque  intra  i Romani  ed  i Sanniti,  fu a caso;  perchè  la  intenzione  de’ Sanniti non  fu,  muovendo  guerra  a’Sidicini,  e dipoi  a’  Campani,  muoverla  ai  Romani. .\Ia  sendo  i Campani  oppressati,  e ricorrendo a Roma  fuora  della  oppinione de’  Romani  e de’  Sanniti,  furono  forzati, dandosi  i Campani  ai  Romani,  come  cosa loro  difendergli,  e pigliare  quella  guerra che  a loro  parve  non  potere  con  loro onore  fuggire.  Perchè  e’pareva  benea’Romani  ragionevole  non  potere  difendere i Campani  come  amici,  eontra  ai  Sanuiti  amici,  ma  pareva  ben  loro  vergogna non  gli  difendere  come  sudditi,  ovvero raccomandali;  giudicando,  quando e’  non  avessino  presa  tal  difesa,  torre la  via  a tutti  quelli  che  disegnassino  venire sotto  la  potestà  loro.  Ed  avendo Roma  per  fine  lo  imperio  e la  gloria,  e non  la  quiete,  non  poteva  ricusare  questa impresa.  Questa  medesima  cagione dette  principio  alla  prima  guerra  conira a’  Cartaginesi,  per  la  difensione  che  i Romani  presono  de*  Messinesi  in  Sicilia: la  quale  fu  ancora  a caso.  Ma  non  fu
già  a caso  di  poi  la  seconda  guerra  che nacque  infra  loro;  perchè  Annibaie  capitano Cartaginese  assaltò  i Saguntini amici  de’  Romani  in  Ispagna,  non  per offendere  quelli,  ma  per  muovere  l’arme romane,  ed  avere  occasione  di  combatterli, c passare  in  Italia.  Questo  modo nello  appiccare  nuove  guerre  è stato sempre  consueto  intra  i potenti,  e che si  hanno  e della  fede,  e d’altro,  qualche rispetto.  Perchè,  se  io  voglio  fare guerra  con  uno  principe,  ed  infra  noi siano  fermi  capitoli  per  un  gran  tempo oservati,  con  altra  giustificazione  e con altro  colore  assalterò  io  un  suo  amico che  lui  proprio  5 sappiendo  massime,  che nello  assaltare  lo  amico,  o ci  si  risentirà, ed  io  arò  V intento  mio  di  fargli guerra  ; o non  si  risentendo,  si  scuoprirà  la  debolezza  o la  infidelità  sua  di non  difendere  un  suo  raccomandato.  E 1’  una  e I'  altra  di  queste  due  cose  è per torgli  riputazione,  e per  fare  più  facili i disegni  miei.  Debbesi  notare,  adunque, e per  la  dedizione  de' Campani,  circa  il muovere  guerra,  quanto  di  sopra  si  è detto;  e di  più,  qual  rimedio  abbia  una città  che  non  si  possa  per  sè  stessa  difendere, e voglisi  difendere  in  ogni  modo da  quel  clic  l'assalta:  il  quale  è darsi Uberamente  a quello  che  tu  disegni  che ti  difenda;  come  feciono  i Capovani  ai Romani,  ed  i Fiorentini  al  ré  Roberto di  Napoli  : il  quale  non  gli  volendo  difendere come  amici,  gli  difese  poi  come sudditi  contra  alle  forze  di  Castruceio da  Lucca,  die  gli  opprimeva. X.  — I danari  non  sono  il  nervo della  guerra j secondo  che  è la  comune oppi  ninne. Perchè  ciascuno  può  cominciare  una guerra  a sua  posta,  ma  non  finirla,  debbe uno  principe,  avanti  che  prenda  una  impresa, misurare  le  forze  sue,  e secondo quelle  governarsi.  Ma  debbe  avere  tanta prudenza,  che  delle  sue  forze  ei  non s’inganni;  ed  ogni  volta  s’ingannerà, quando  le  misuri  o dai  danari,  o dal sito,  o dalla  benivoienza  degli  uomini, mancando  dall’  altra  parte  d’  arme  proprie. Perchè  le  cose  predette  ti  accrescono bene  le  forze,  ma  le  non  te  ne danno  ; e per  sè  medesime  sono  nulla  ; e non  giovano  alcuna  cosa  senza  l’arme fedeli.  Perchè  i danari  assai,  non  ti  bastano senza  quelle;  non  ti  giova  la  fortezza de!  paese;  e la  fede ‘e  benivoienza
degli  uomini  non  dura,  perchè  questi non  ti  possono  essere  fedeli,  non  gli  potendo difendere.  Ogni  monte,  ogni  lago, ogni  luogo  inaccessibile  diventa  piano, dove  i forti  difensori  mancano.  I danari ancora  non  solo  non  ti  difendono,  ina ti  fanno  predare  più  presto.  Nè  può  essere più  falsa  quella  comune  oppinione che  dice  che  i danari  sono  il  nervo  della guerra.  La  quale  sentenza  è detta  da Quinto  Curzio  nella  guerra  che  fu  intra A'ntipatro  macedone  c il  re  spartano: dove  narra,  che  per  difetto  di  danari  il re  di  Sparta  fu  necessitato  azzuffarsi, e fu  rotto;  che  se  ei  differiva  la  zuffa pochi  giorni,  veniva  la  nuova  in  Grecia della  morte  di  Alessandro,  donde  e*  sarebbe rimaso  vincitore  senza  combattere. Ma  mancandogli  i danari,  e dubitando che  lo  esercito  suo  per  difetto  di  quelli non  Io  abbandonasse,  fu  constretto  tentare la  fortuna  della  zuffa:  talché  Quinto Curzio  per  questa  cagione  afferma,  i danari essere  il  nervo  della  guerra.  La qual  sentenza  è allegata  ogni  giorno,  v da’  principi  non  tanto  prudenti  che  basti, seguitata.  Perchè,  fondatisi  sopra quella,  credono  che  basti  loro  a difendersi avere  tesori  assai,  e non  pensano che  se  ’1  tesoro  bastasse  a vincere,  che Dario  arebbe  vinto  Alessandro,  i Greci nrebbon  vinti  i Romani;  ne’ nostri  tempi il  duca  Carlo  arebbe  vinti  i Svizzeri; e pochi  giorni  sono,  il  Papa  ed  i Fiorentini insieme  non  arebbono  avuta  difficultà  in  vincere  Francesco  Maria,  nipote di  papa  Giulio  II,  nella  guerra  di Urbino.  Ma  tutti  i soprannominali  furono vinti  da  coloro  che  non  il  danaro, ma  i buoni  soldati  stimano  essere  il  nervo della  guerra.  Intra  le  altre  cose  che Creso  re  di  Lidia  mostrò  a Solone  ateniese, fu  un  tesoro  innumerabile  ; c domandando quel  che  gli  pareva  della  potenza sua,  gli  rispose  Solone,  che  per quello  non  lo  giudicava  più  potente;  perchè la  guerra  si  faceva  col  ferro  e non con  P oro,  e che  poteva  venire  uno  che avesse  piu  ferro  di  lui,  e torgliene.  Olir’ a questo,  quando,  dopo  la  morte  di Alessandro  Magno,  una  moltitudine  di Franciosi  passò  in  Grecia,  e poi  in  Asia; e mandando  i Franciosi  oratori  al  re  di Macedonia  per  trattare  certo  accordo  ; quel  re,  per  mostrare  la  potenza  sua  e per  {sbigottirli,  mostrò  loro  oro  ed  argento assai:  donde  quelli  Franciosi  che di  già  avevano  come  ferma  la  pace,  la j uppono  ; tanto  desiderio  in  loro  crebbe di  torgli  quell’oro:  e cosi  fu  quel  re spogliato  per  quella  cosa  che  egli  aveva per  sua  difesa  accumulata.  1 Yeniziani, pochi  anni  sono,  avendo  ancora  lo  erario loro  pieno  di  tesoro,  perderono  tutto lo  Stato,  senza  potere  essere  difesi  da quello.  Dico  pertanto,  non  l’ oro,  come grida  la  comune  oppinione,  essere  il nervo  della  guerra,  ma  i buoni  soldati  : perchè  1’  oro  non  è suflìzienle  a trovare i buoni  soldati,  ma  i buoni  soldati  son ben  sutlìzienti  a trovare  l’ oro.  Ai  Romani, s’egli  avessero  voluto  fare  la  guerra più  con  i danari  che  con  ii  ferro,  non sarebbe  bastato  avere  tutto  il  tesoro  del  mondo,  considerato  le  grandi  imprese che  fcciono,  e le  difficoltà  che  vi  ebbono dentro.  Ma  facendo  le  loro  guerre  con il  ferro,  non  patirono  mai  carestia  dell' oro;  perchè  da  quelli  cheli  temevano era  portato  Toro  infino  ne’ campi.  E se quel  re  spartano  per  carestia  di  danari ebbe  a tentare  la  fortuna  della  /uffa, intervenne  a lui  quello,  per  conto  de’danari,  che  molte  volte  è intervenuto  per altre  cagioni;  perchè  si  è veduto  che, mancando  ad  uno  esercito  le  vettovaglie, ed  essendo  necessitati  o a morire  di fame  o azzuffarsi,  si  piglia  il  partito sempre  di  azzuffarsi,  per  essere  più  ono*revole,  e dove  la  fortuna  ti  può  in  qualche modo  favorire.  Ancora  è intervenuto molte  volte,  che  veggendo  uno capitano  al  suo  esercito  nimico  venire soccorso,  gli  conviene  o azzuffarsi  con quello  e tentare  la  fortuna  della  zuffa  ; o aspettando  eh’  egli  ingrossi,  avere  a combattere  in  ogni  modo,  con  mille  suoi disavvantaggi.  Ancora  si  è visto  (come intervenne  ad  Asdrubale  quando  nella Marca  fu  assaltato  da  Claudio  Verone, insieme  con  l’altro  Consolo  romano), che un  capitano  che  è necessitato  o a fuggirsi o a combattere,  come  sempre  elegge il  combattere  ; parendogli  in  questo  partito, ancora  che  dubbiosissimo,  potere vincere;  ed  in  quello  altro,  avere  a perdere in  ogni  modo.  Sono,  adunque,  molte necessitati  che  fanno  a uno  capitano  fuor della  sua  intenzione  pigliare  partito  di azzuffarsi;  intra  le  quali  qualche  volta può  essere  la  carestia  de’  danari  : nè  per questo  si  debbono  i danari  giudicare essere  il  nervo  della  guerra,  più  che  le altre  cose  che  inducono  gli  uomini  n simile  necessità.  Non  è,  adunque,  replicandolo di  nuovo.  1’  oro  il  nervo  della guerra;  ma  i buoni  soldati.  Son  bene necessari  i danari  in  secondo  luogo,  ina è una  necessità  che  i soldati  buoni  per sè  medesimi  la  vincono;  perchè  è inipossibile  che  a’  buoni  soldati  manchino i danari,  come  che  i denari  pei*  loro medesimi  truovino  i buoni  soldati.  Mostra questo  che  noi  diciamo  essere  vero, ogni  istoria  in  mille  luoghi;  non  ostante che  Pericle  consigliasse  gli  Ateniesi  a fare  guerra  con  tutto  il  Peloponneso, mostrando  che  e*  potevano  vincere  quella guerra  con  la  industria  e con  la  forza del  danaio.  E benché  in  tale  guerra  gli Ateniesi  prosperassino  qualche  volta,  in ultimo  la  perderono;  e valsoti  più  il  consiglio e gli  buoni  soldati  di  Sparta,  che la  industria  ed  il  danaio  di  Atene.  Ma L.  è di  questa  oppinione  più  vero testimone  che  alcuno  altro,  dove  discorrendo se  Alessandro  Magno  fusse  venuto in  Italia,  s’ egli  avesse  vinto  i Romani, mostra  esser  tre  cose  necessarie  nella guerra  ; assai  soldati  e buoni,  capitani prudenti,  e buona  fortuna  : dove  esaminando quali  o i Romani  o Alessandro prevalessino  in  queste  cose,  fa  dipoi  la sua  conclusione  senza  ricordare  mai  i danari.  Doverono  i Capovani,  quando furono  ricfiiesti  da’  Sidicini  che  prendessino  T arme  per  loro  contea  ai  Sanniti, misurare  la  potenza  loro  dai  danari,  c non  dai  soldati:  perchè,  preso  ch’egli ebbero  partito  di  aiutarli,  dopo  due  rotte furono  constretti  farsi  tributari  de’  Romani, se  si  vollono  salvare. Non  è partito  prudente  fare amicizia  con  un  principe  che  abbia più  oppinionc  che  forze. Volendo  Tito  Livio  mostrare  lo  errore de’  Sidicini  a fidarsi  dello  aiuto de’  Campani,  e lo  errore  de’  Campani  a credere  potergli  difendere,  non  lo  potrebbe dire  con  più  vive  parole,  dicendo: Campani  magie  nomen  in  auxilium Sidicinorunij  quam  vires  ad  prcesidium atlulcrunl.  Dove  si  debbe  notare,  che  le leghe  si  fanno  co’ principi  che  non  abbino o comodità  di  aiutarti  per  la  distanzia del  sito,  o forze  di  farlo  per  suo
disordine  o altra  sua  cagione,  arrecano più  fama  che  aiuto  a coloro  ehe  se  ne fidano:  come  intervenne  ne’ dì  nostri a*  Fiorentini,  quando,  nel  147£t,  il  papa ed  il  re  di  Napoli  gli  assaltarono;  che essendo  amici  del  re  di  Francia,  trassono di  quella  amicizia  magis  nomcn , r/nam  praesidium  : come  interverrebbe ancora  a quel  principe,  che  confidatosi di  Massimiliano  imperatore,  facesse  qualche impresa;  perchè  questa  è una  di quelle  amicizie  che  arrecherebbe  a chi la  facesse  magis  nomcn 9 quam  prassi -ditinij  come  si  dice  in  questo  testo,  che arrecò  quella  de’ Capovani  ai  Sidicini. Errarono,  adunque,  in  questa  parte  i Capovani,  per  parere  loro  avere  più forze  che  non  avevano.  E così  fa  la poca  prudenza  delti  uomini  qualche  volta, che  non  sappiendo  nè  potendo  difendere sè  medesimi,  vogliono  prendere imprese  di  difendere  altrui  : come  fecero ancoro  i Tarentini,  i quali,  sendo  gli eserciti  romani  allo  Incontro  dello  esercito  de’ Sanniti,  mandorono  ambasciadori al  Consolo  romano,  a fargli  intendere come  ci  volevano  pace  intra  quelli  duoi popoli,  e come  erano  per  fare  guerra centra  a quello  che  dalla  pace  si  discostasse*, talché  il  Consolo,  ridendosi di  questa  proposta,  alla  presenza  di detti  ambasciadori  fece  sonare  a battaglia, ed  al  suo  esercito  comandò  che andasse  a trovare  il  nimico,  mostrando ai  Tarentini  con  1’  opera,  e non  con  le parole,  di  che  risposta  essi  erano  degni. Ed  avendo  nel  presente  capitolo ragionato  dei  parliti  che  pigliano  i principi al  contrario  per  la  difesa  d’  altrui, voglio  nel  seguente  parlare  di  quelli  che si  pigliano  per  la  difesa  propria.  XII.  — Scegli  è meglio , temendo di  essere  assaltalo > inferire , o aspettare la  guerra. lo  lio  sentito  da  uomini  assai  pratichi nelle  cose  della  guerra  qualche  volta disputare,  se  sono  duoi  principi  quasi di  eguali  forze,  se  quello  più  gagliardo abbi  bandito  la  guerra  contra  a quello altro,  quale  sia  miglior  partito  per  Poltro; o aspettare  il  nimico  dentro  ai  confini suoi,  o andarlo  a trovare  in  casa, ed  assaltare  lui:  e ne  fio  sentito  addurre ragioni  da  ogni  parte.  E chi  difende lo  andare  assaltare  altrui,  nc  allega il  consiglio  che  Creso  dette  a Ciro, quando  arrivato  in  su*  confini  de’  Massageli  per  fare  lor  guerra,  la  lor  regina Tarniri  gli  mandò  a dire,  che  eleggesse quale  de'  duoi  partiti  volesse;  o entrare  nel  regno  suo,  dovè  essa  Ip aspetterebbe;  o volesse  che  ella  venisse a trovar  lui.  E venuta  la  cosa  in  disputazionc,  Creso,  contra  alla  oppinione degli  altri,  disse  che  si  andasse  a trovar lei  ; allegando  che  se  egli  la  vincesse discosto  al  suo  regno,  che  non  gli torrebbe  il  regno,  perchè  ella  arebbe tempo  a rifarsi;  pia  se  la  vincesse  dentro a’ suoi  confini,  potrebbe  seguirla  in su  la  fuga,  e non  le  dando  spazio  a rifarsi,  torli  io  Stato.  Allegane  ancora  il consiglio  che  dette  Annibaie  ad  Antioco, quando  quel  re  disegnava  fare  guerra ai  Romani:  dove  ei  mostrò  come  i Romani non  si  potevano  vincere  se  non in  Italia,  perchè  quivi  altri  si  poteva valere  delle  arme  e delle  ricchezze  e degli  amici  loro  ; chi  gli  combatteva fuora  d’ Italia,  e lasciava  loro  la  Italia libera,  lasciava  loro  quella  fonte,  che mai  li  mancava  vita  a somministrare forze  dove  bisogna  ; e conchiuse  che  ai Romani  si  poteva  prima  torre  Roma che  lo  imperio;  prima  la  Italia  che  le altre  provincie.  Allega  ancora  Agatocle. che  non  potendo  sostenere  la  guerra  di casa,  assaltò  i Cartaginesi  clic  glieuc facevano,  e gli  ridusse  a domandare pace.  Allega  Scipione,  che  per  levare  la guerra  d’  Italia,  assaltò  la  Affrica.  Chi parla  al  contrario  dice,  che  chi  vuole fare  capitare  male  uno  nimico,  lo  discosti da  casa.  Allegane  gli  Ateniesi, che  mentre  che  feciono  la  guerra  comoda alla  casa  loro,  restarono  superiori; e come  si  discostarono,  ed  andarono con  gli  eserciti  in  Sicilia,  perderono la  libertà.  Allega  le  favole  poetiche,  dove si  mostra  che  Anteo,  re  di  Libia,  assaltato da  Ercole  Egizio,  fu  insuperabile mentre  che  Io  aspettò  dentro  a*  confini del  suo  regno;  ma  come  e’ se  ne  discosto per  astuzia  di  Ercole,  perdè  lo  Stalo e la  vita.  Onde  è dato  luogo  alla  favola di  Anteo,  che  sendo  in  terra  ripigliava le  forze  da  sua  madre,  che  era  la  Terra; e che  Ercole  avvedutosi  di  questo, lo  levò  in  alto,  e discostollo  dalla  terra. Allegane  ancora  i giudizi  moderni.  Ciascuno sa  come  Ferrando  re  di  .Napoli fu  ne’  suoi  tempi  tenuto  uno  savissimo principe:  e venendo  la  fama,  duoi  anni avanti  la  sua  morte,  come  il  re  di  Francia Carlo  Vili  voleva  venire  ad  assaltarlo, avendo  fatte  assai  preparazioni, ammalò;  e venendo  a morte,  intra  gli altri  ricordi  che  lasciò  ad  Alfonso  suo figliuolo,  fu  che  egli  aspettasse  il  nimico dentro  al  regno;  e per  cose  del mondo  non  traesse  forze  fuori  dello Stato  suo,  ma  lo  aspettasse  dentro  aisuoi  confini  tutto  intero;  il  che  non  fuosservato  da  quello;  ma  mandato  uno esercito  in  Romagna,  senza  combattere perdè  quello  c lo  Stato.  Le  ragioni  che, oltre  alle  cose  dette,  da  ogni  parte  si adducono,  sono  : che  chi  assalta  viene con  maggiore  animo  che  chi  aspetta,  il che  fa  più  confidente  lo  esercito;  toglie, oltra  di  questo,  molte  comodità  al  nimico di  potersi  valere  delle  sue  cose, non  si  potendo  valere  di  quei  sudditi che  sieno  saccheggiati;  e per  avere  il nimico  in  casa,  è constretto  il  signore avere  più  rispetto  a trarre  da  loro  danari ed  affaticargli  : sicché  e’  viene  a seccare  quella  fonte,  come  dice  Annibaie, che  fa  che  colui  può  sostenere  la guerra.  Oltre  di  questo,  i suoi  soldati, per  trovarsi  ne*  paesi  d’  altrui,  sono  più necessitati  a combattere;  e quella  nccessila  fa  virtù,  come  più  volte  abbiamo detto.  Dall’  altra  parte  si  dice  ; come aspettando  il  nimico,  si  aspetta  con  assai vantaggio,  perchè  senza  disagio alcuno  tu  puoi  dare  a quello  molti  disagi di  vettovaglia,  e d’  ogni  altra  cosa che  abbia  bisogno  uno  esercito  : puoi meglio  impedirli  i disegni  suoi,  per  la notizia  del  paese  cheta  hai  più  di  lui: puoi  con  più  forze  incontrarlo,  per  poterle facilmente  tutte  unire,  ma  non  potere già  tutte  discostarle  da  casa:  puoi sendo  rotto  rifarti  facilmente;  sì  perchè del  tuo  esercito  se  ne  salverà  assai, per  avere  i rifugi  propinqui;  si  perchè il  supplemento  non  ha  a venire  discosto: tanto  che  tu  vieni  arrischiare  tutte le  forze,  e non  tutta  la  fortuna  ; e discostandoti, arrischi  tutta  la  fortuna,  e non  tutte  le  forze.  Ed  alcuni  sono  stati che  per  indebolire  meglio  il  suo  nimico, Io  lasciano  entrare  parecchie  giornate in  su  il  paese  loro,  e pigliare  assai terre;  acciò  che  lasciando  i presidii  in tutte,  indebolisca  il  suo  esercito,  e possiulo  dipoi  combattere  più  facilmente. Ma,  per  dire  ora  io  quello  che  io  ne intendo,  io  credo  che  si  abbia  a fare  questa distinzione:  o io  ho  il  mio  paese armato,  come  i Romani,  o come  hanno i Svizzeri;  o io  l’ho  disarmato,  come avevano  i Cartaginesi,  o come  Y hanno  i re  di  Francia  e gli  Italiani.  In  questo caso,  si  debbe  tenere  il  nimico  discosto a casa;  perchè  scudo  la  tua  virtù  nel danaio  e non  negli  uomini,  qualunque volta  ti  è impedita  la  via  di  quello,  tu sei  spacciato;  nè  cosa  veruna  te  lo  impedisce quanto  la  guerra  di  casa.  In  essempi  ci  sono  i Cartaginesi;  i quali mentre  che  ebbero  la  casa  loro  libera, poterono  con  le  rendite  fare  guerra  con i Romani;  e quando  la  avevano  assaltata, non  potevano  resistere  ad  Agatoeie.  I Fiorentini  non  avevano  rimedio ulcuuo  con  Castruccio  signore  di  Lucca, perchè  ci  faceva  loro  la  guerra  in  casa; tanto  che  gli  ebbero  a darsi,  per  essere difesi,  al  re  Roberto  di  Napoli.  Ma  morto Castruccio,  quelli  medesimi  Fiorentini ebbero  animo  di  assaltare  il  duca  di Milano  in  casa,  ed  operare  di  torgli  il regno:  tanta  virtù  monstrarono  nelle guerre  louginque,  e tanta  viltà  nelle propinque.  Ma  quando  i regni  sono  armati, come  era  armata  Roma  e come sono  i Svizzeri,  sono  più  difficili  a vincere quanto  più  ti  appressi  loro:  perchè questi  corpi  possono  unire  più  forze  a resistere  ad  uno  impeto,  che  non  possono ad  assaltare  altrui.  Nè  mi  muove in  questo  caso  I’  autorità  di  Annibaie, perchè  la  passione  e Y utile  suo  gli  faceva cosi  dire  ad  Antioco.  Perchè,  se  i Romani  avessino  avute  in  tanto  spazio di  tempo  quelle  tre  rotte  in  Francia* ch’egli  ebbero  in  .Italia  da  Annibaie, senza  dubbio  erano  spacciati:  perchè non  si  sarebbono  valuti  de’ .residui  degli eserciti,  come  si  valsono  in  Italia; non  arebbono  avuto  a rifarsi  quelle  comodità; nè  potevano  con  quelle  forze resistere  ai  nimico,  che  poterono.  Non si  trova  che,  per  assaltare  una  provincia, loro  mandassino  mai  fuora  eserciti clic  passassino  cinquantamila  persone; ma  per  difendere  la  casa  ne  misono  in arme  conira  ai  Franciosi,  dopo  la  prima guerra  punica,  diciotto  centinaia  di  migliaia. Nè  arebbono  potuto  poi  romper quelli  in  Lombardia,  come  gli  ruppono in  Toscana;  perchè  contro  a tanto  numero  di  ninnici  non  arebbono  potuto condurre  tante  forze  sì  discosto,  nè  combattergli con  quella  comodità.  I Cimbri ruppono  uno  esercito  romano  in  la  Magna, nè  vi  ebbono  i Romani  rimedio. Ma  come  egli  arrivorono  in  Italia,  e che poterono  mettere  tutte  le  loro  forze  insieme, gli  spacciarono.  I Svizzeri  è facile vincergli  fuori  di  casa,  dove  e’  non possono  mandare  più  che  un  trenta  o quarantamila  uomini;  ma  vincergli  in casa,  dove  e’  ne  possono  raccozzare  centomila, è difficilissimo.  Conchiuggo  adunque di  nuovo,  che  quel  principe  che  ha i suoi  popoli  armati  ed  ordinali  alla guerra,  aspetti  sempre  in  casa  una guerra  potente  e pericolosa,  e non  la vadia  a rincontrare:  ma  quello  che  ha i suoi  sudditi  disarmati,  ed  il  paese inusitato  della  guerra,  se  la  discosti
sempre  da  casa  il  più  che  può.  E così r uno  e l*  altro,  ciascuno  nel  suo  grado, si  difenderà  meglio. XIII.  — Che  si  viene  di  bassa  a gran  fortuna  più  con  la  fraude,  che con  la  forza. Io  stimo  essere  cosa  verissima,  che rado,  o non  mai,  intervenga  che  gli uomini  di  piccola  fortuna  venghino  a gradi  grandi,  senza  la  forza  e senza  la fraude;  purché  quel  grado  al  quale  altri è pervenuto,  non  ti  sia  o donalo,  o lasciato  per  eredità.  Xè  credo  si  truovi mai  che  la  forza  sola  basti,  ma  si  troverà bene  che  la  fraude  sola  basterà: còme  chiaro  vedrà  colui  che  leggerà  la vita  di  Filippo  di  Macedonia,  quella  di Agatocle  siciliano,  e di  molti  altri  simili, che  d’ infima  ovvero  di  bassa  fortuna, sono  pervenuti  o a regno  o ad  imperi grandissimi.  Mostra  Senofonte,  nella  sua vita  di  Ciro,  questa  necessità  delio  ingannare; consideralo  che  la  prima  ispedizione  che  fa  fare  a Ciro  contea  il  re di  Armenia,  è piena  di  fraude,  e come con  inganno,  e non  con  forza,  gli  fa  occupare il  suo  regno;  e non  conchiude altro  per  tale  azione,  se  non  che  ad  un principe  che  voglia  fare  gran  cose,  è necessario  imparare  a ingannare.  Fagli, olirà  di  questo,  ingannare  Ciassare,  re de’  .Medi,  suo  zio  materno,  in  più  modi; senza  la  quale  fraude  mostra  che  Ciro non  poteva  pervenire  a quella  grandezza che  venne.  Nè  credo  che  si  truovi mai  alcuno  constiluito  in  bassa  fortuna, pervenuto  a grande  imperio  solo  con la  forza  aperta  ed  ingenuamente,  ma  sì bene  solo  con  la  fraude  : come  fece  Giovanni Galeazzo  per  tor  lo  Stato  e lo imperio  di  Lombardia  a messer  Bernabò suo  zio.  E quei  che  sono  necessitati  fare i principi  ne’  principi!  degli  augumenti loro,  sono  ancora  necessitate  a fare  le repubbliche,  infimo  che  le  sieno  diventate potenti,  e che  basti  la  forza  sola. E perchè  Roma  tenne  in  ogni  parte,  o per  sorte  o per  elezione,  tutti  i modi necessari  a venire  a grandezza,  non mancò  ancora  di  questo.  Nè  potè  usare, nel  principio,  il  maggiore  inganno,  che pigliare  il  modo  di  sopra  discorso  da noi,  di  farsi  compagni  ; perchè  sotto questo  nome  se  li  fece  servi:  come  furono i Latini,  ed  altri  popoli  all’  intorno. Perchè  prima  si  valse  dell*  arme  loro in  domare  i popoli  convicini,  e pigliare la  riputazione  dello  Stato:  dipoi,  domatogli, venne  in  tanto  augumento,  che  la poteva  battere  ciascuno.  Ed  i Latini  non si  avviddono  mai  di  essere  al  tutto  servi, se  non  poi  che  viddono  dare  due  rotte ni  Sanniti,  e costrettigli  ad  accordo.  La (piale  vittoria,  come  ella  accrebbe  gran riputazione  ai  Romani  eoi  principi  longinqui,  clic  mediante  quella  sentirono  il nome  romano  e non  l’armi;  così  generò invidia  e sospetto  in  quelli  che vedevano  e sentivano  l’armi,  intra  i quali  furono  i Latini.  E tanto  potè  questa invidia  e questo  timore,  che  non solo  i Latini,  ma  le  colonie  che  essi  avevano in  Lazio,  insieme  con  i Campani, stati  poco  innanti  difesi,  congiurarono contra  al  nome  romano.  E mossono  questa guerra  i Latini  nel  modo  che  si  dice di  sopra,  che  si  muovono  la  maggior parte  delle  guerre,  assaltando  non  i Romani, ma  difendendo  i Sidicini  contra ai  Sanniti;  a’ quali  i Sanniti  facevano guerra  con  licenza  de’  Romani.  E che  sia vero  che  i Latini  si  movessino  per  avere conosciuto  questo  inganno,  lo  dimostra L.  nello  bocca  di  Annio  Setiuo pretore  latino,  il  quale  nel  consiglio  loro disse  queste  parole  : Nam,  si  ctìam  mine sub  umbra  feederis  cequi  servilutem  pati possumus  ctc.  Yedesi  pertanto  i Romani ne’ primi  augumenti  loro  non  essere mancati  eziam  della  fraude;  la  quale fu  sempre  necessaria  ad  usare  a coloro che  di  piccoli  principii  vogliono  a sublimi gradi  salire  : la  quale  è meno  vituperabile quanto  è più  coperta,  come fu  questa  de’  Romani. XIV.  — Ingannatisi  molte  volle  gli uomini j credendo  con  la  umilila  vincere la  superbia. Vedesi  molle  volte  come  la  umilila  non solamente* non  giova,  ma  nuoce,  massimamente usandola  con  gli  uomini  insolenti, che,  o per  invidia  o per  altra cagione,  hanno  concetto  odio  teco.  Di che  ne  fa  fede  lo  istorico  nostro  in  questa cagione  di  guerra  intra  i Romani ed  i Latini.  Perchè,  dolendosi  i Sanniti con  i Romani,  che  i Latini  gli  avevano assaltati,  i Romani  non  vollono  proibire ai  Latini  tal  guerra,  desiderando  non gli  irritare:  il  che  non  solamente  non gli  irritò,  ma  gli  fece  diventare  più  animosi contro  a loro,  e si  scopersono  più presto  inimici.  Di  che  ne  fanno  fede  le parole  usate  da!  prefato  Annio  pretore
latino  nel  medesimo  concilio,  dove  dice: Tentaslis  patientiam  negando  mililem: (jais  dubitai  cxarsisse  eos ? Pcrtulerunt (amen  hunc  dolorem.  Excrcitus  nos  parare adversus  Snmnilcs  feederatos  suos audierunl,  ncc  mnverunt  se  ab  urbe. I Inde  hcec  illis  tanta  modestia j,  ni  si  a eonscienlia  virium , et  n os trarum , et suarum?  Conoscesi,  pertanto,  chiarissimo per  questo  testo,  quanto  la  pazienza de’ Romani  accrebbe  P arroganza de’  Latini.  E però,  mai  uno  principe debbe  volere  mancare  del  grado  suo,  e non  debbe  mai  lasciare  alcuna  cosa  d’accordo, volendola  lasciare  onorevolmente, se  non  quando  e’  la  può,  o e’  si  crede che  la  possa  tenere  : perchè  gli  è meglio quasi  sempre,  sendosi  condotta  la cosa  in  termine  che  tu  non  la  possa  lasciare nel  modo  detto,  lasciarsela  torre con  le  forze,  che  con  la  paura  delle forze.  Perchè  se  tu  la  lasci  con  In  paura, lo  fai  per  levarli  la  guerra,  ed  il  più delle  volte  non  te  la  lievi:  perche  colui a chi  tu  arai  con  una  viltà  scoperta concesso  quella,  non  starà  saldo,  rao  ti vorrà  torre  delle  altre  cose,  e si  accenderà più  contra  di  te,  stimandoti  meno; e dall'altra  parte,  in  tuo  favore  troverai i difensori  più  freddi,  parendo  loro che  tu  sia  o debole,  o vile:  ma  se  tu, subito  scoperta  la  voglia  dello  avversario, prepari  le  forze,  ancoraché  le  siano inferiori  a lui.  quello  ti  comincia  a stimare; stimanti  più  gli  altri  principi allo  intorno;  ed  a tale  viene  voglia  di aiutarti,  sendo  in  su  P arme,  che  abbandonandoti non  ti  aiuterebbe  mai. Questo  si  intende  quando  tu  abbia  uno inimico;  ma  quando  ne  avessi  più,  rendere delle  cose  che  tu  possedessi  ad  al  •euno  di  loro  per  riguadagnarselo,  ancoraché fusse  di  già  scoperta  la  guerra, e per  smembrarlo  dagli  altri  confederati  tuoi  inimici,  fia  sempre  partito  prudente. XV.  — Gli  Stati  deboli  sempre fieno  ambigui  nel  risolversi : e sempre le  deliberazioni  lente  sono  nocive.
in  questa  medesima  materia,  ed  in questi  medesimi  principi!  di  guerra  intra i Latini  ed  i Romani,  si  può  notare come  in  ogni  consulta  è bene  venire  allo individuo  di  quello  die  si  ha  a deliberare, e non  stare  sempre  in  ambiguo, nè  in  su  lo  incerto  della  cosa.  Il  che  si vede  manifesto  nella  consulta  che  feciono  i Latini,  quando  c’pensavano  alienarsi da’  Romani.  Perchè  avendo  presentito questo  cattivo  umore  che  ne’  popoli latini  era  entrato,  i Romani,  per  eertificarsi  della  cosa,  c per  vedere  se  potevano senza  mettere  mano  all’arme  riguadagnarsi quelli  popoli,  fecero  loro intendere,  come  e’  mandassero  a Roma otto  cittadini,  perchè  avevano  a consullare  con  loro.  I Latini,  inteso  questo  ed avendo  conscienza  di  molte  cose  fatte centra  alla  voglia  de’  Romani,  fcciono consiglio  per  ordinare  chi  dovesse  ire a Roma,  e dargli  commissione  di  quello ch’egli  avesse  a dire.  E stando  nel  consiglio in  questa  disputa,  Annio  loro  pretore disse  queste  parole:  Ad  sumiuam veruni  nostrarum  pertinerc  arbitrar , ut vogilctis  magis , quid  agendum  nobis, quam  quid  loqucndum  sii.  Facile  crii, cxphcatis  consiliis j accommodarc  rebus nerba.  Sono,  senza  dubbio,  queste  parole verissime,  e debbono  essere  da  ogni principe  e da  ogni  repubblica  gustate  : perchè  nella  ambiguità  e nella  incertit udine  di  quello  che  altri  voglia  fare, non  si  sanno  accomodare  le  parole;  ma fermo  una  volta  1’  animo,  e deliberalo quello  sia  da  eseguire,  è facil  cosa  trovarvi le  parole,  lo  ho  notato  questa parte  più  volentieri,  quanto  io  ho  molte volte  conosciuto  tale  ambiguità  avere nociuto  alle  pubbliche  azioni,  con  danno i*  con  vergogna  della  repubblica  nostra. E sempre  mai  avverrà,  che  ne*  partiti ilubbii,  e dove  bisogni  animo  a deliberargli, sarà  questa  ambiguità,  quando abbino  ad  esser  consigliati  e deliberati da  uomini  deboli.  Non  sono  meno  nocive ancora  le  deliberazioni  lente  e tarde, che  ambigue  ; massime  quelle  che  si hanno  a deliberare  in  favore  di  alcuno amico  : perchè  con  la  lentezza  loro  non si  aiuta  persona,  e nuocesi  a sè  mede- simo. Queste  deliberazioni  così  fatte  procedono o da  debolezza  di  animo  e ili forze,  o da  malignità  di  coloro  che  hanno a deliberare;  i quali,  mossi  dalla  passimi propria  di  volere  rovinare  lo  Stato o adempire  qualche  suo  desiderio,  non lasciano  seguire  la  deliberazione,  ma  la impediscono  e la  attraversano.  Perchè  i buoni  cittadini,  ancora  che  vegghino  una foga  popolare  voltarsi  alla  parte  perniciosa, mai  impediranno  il  deliberare, massime  di  quelle  cose  che  non  aspettano tempo.  Morto  che  fu  Girolamo  liranno  in  Siracusa,  essendo  la  guerra grande  intra  i Cartaginesi  ed  i Romani, vennono  i Siracusani  in  disputa  se  dovevano seguire  V amicizia  romana  o la cartaginese.  E tanto  era  lo  ardore  delle parti,  che  la  cosa  stava  ambigua,  uè  se ne  prendeva  alcuno  partito;  insino  a tanto  che  Apollonide,  uno  de’  primi  in Siracusa,  con  una  sua  orazione  piena di  prudenza,  mostrò  come  non  era  da biasmare  chi  teneva  E oppinione  ili  aderirsi ai  Romani,  nè  quelli  che  volevano seguire  la  parte  cartaginese;  ma  era bene  da  detestare  quella  ambiguità  e tardità  di  pigliare  il  partito,  perchè  vedeva al  tutto  in  tale  ambiguità  la  rovina della  repubblica;  ma  preso  che  si fusse  il  partito,  qualunque  e’  si  fosse,  si poteva  sperare  qualche  bene.  Nè  potrebbe mostrare  più  Tito  Livio  che  si faccia  in  questa  parte,  il  danno  che  si tira  dietro  lo  stare  sospeso.  Dimostralo ancora  in  questo  caso  de’  Latini  : perchè, sendo  i Latini  ricerchi  da  loro gli  stessine  neutrali,  e che  il  re  venendo in  Italia  gli  avesse  a mantenere nello  Stato  e ricevere  in  proiezione:  e dette  tempo  un  mese  alla  città  a ratificarlo. Fu  differita  tale  ratificazione  da chi  per  poca  prudenza  favoriva  le  cose di  Lodovico:  intantoehè,  il  re  già  sendo in  su  la  vittoria,  e volendo  poi  i Fiorentini ratificare , non  fu  la  ratificazione accettata  ; come  quello  che  conobbe i Fiorentini  essere  venuti  forzati,  e non voluntari  nella  amicizia  sua.  Il  che  costò alla  città  di  Firenze  assai  danari,  e fu per  perdere  lo  Stato  : come  poi  altra volta  per  simile  causa  li  intervenne.  E tanto  più  fu  dannabile  quel  partito,  perchè non  si  servi  ancora  il  duca  Lodovico;  il  quale  se  avesse  vinto,  arebbe mostri  molti  più  segni  di  inimicizia  conira ai  Fiorentini,  che  non  fece  il  re.  E benché  del  male  che  nasce  alle  repubbliche di  questa  debolezza  se  ne  sia  di sopra  in  uno  altro  capitolo  discorso; nondimeno,  avendone  di  nuovo  occasione per  un  nuovo  accidente,  ho  voluto  replicarne', parendomi,  massime,  materia che  debba  esser  dalie  repubbliche  simili alla  nostra  notala. XVI.  — Quanto  i soldati  ne’  nostri tempi  si  disformino  dalli  anttcht  ordini. ha  più  importante  giornata  che  fu  mai fatta  in  alcuna  guerra  con  alcuna  nazione dal  Popolo  romano,  fu  questa  che ei  fece  con  i popoli  latini,  nel  consolato di  Torquato  e di  Decio.  Perchè  ogni  ragione vuole,  che  cosi  come  i Latini  per averla  perduta  diventarono  servi,  così sarebbono  stati  servi  i Romani,  quando non  la  avessino  vinta.  E di  questa  oppinone è L.;  perchè  in  ogni parte  fa  gli  eserciti  pari  di  ordine,  di virtù,  di  ostinazione  c di  numero  : solo vi  fa  differenza,  che  i capi  dello  esercito romano  furono  più  virtuosi  che  quelli dello  esercito  latino.  Yedesi  ancora  come nel  maneggio  di  questa  giornata  nacquero duoi  accidenti  non  prima  nati,  e che dipoi  hanno  rari  esempi:  che  de’ duoi Consoli,  per  tenere  fermi  gli  animi de’ soldati,  ed  ubbidienti  al  comandamento loro,  e diliberati  al  combattere, 1’  uno  ammazzò  sè  stesso,  e I’  altro  il figliuolo.  La  parità,  che L.  dice essere  in  questi  eserciti,  era  che,  per avere  militato  gran  tempo  insieme,  erano pari  di  lingua,  d’  ordine  e d’  arme:  perchè nello  ordinare  la  zuffa  tenevano  uno modo  medesimo  $ e gli  ordini  ed  i capi degli  ordini  avevano  medesimi  nomi. Era  dunque  necessario,  sondo  di  pari forze  e di  pari  virtù,  che  nascesse  qualche cosa  istraordinaria,  che  fermasse  e facesse  più  ostinati  gli  animi  dell’  uno che  dell’altro:  nella  quale  ostinazione consiste,  come  altre  volte  si  è detto,  la vittoria;  perchè,  mentre  che  la  dura ne’  petti  di  quelli  che  combattono,  mai non  danno  volta  gli  eserciti.  E perchè la  durasse  più  ne’  petti  de’  Romani  che de’  Latini,  parte  la  sorte,  parte  la  virtù de’  Consoli  fece  nascere,  che  Torquato ebbe  ad  ammazzare  il  figliuolo,  e Decio sè  stesso.  Mostra  Tito  Livio,  nel  mostrare questa  purililà  di  forze,  tutto l’ ordine  che  tenevano  i Romani  nelli eserciti  e nelle  zuffe.  Il  quale  esplicando egli  largamente,  non  replicherò  altrimenti; ma  solo  discorrerò  quello  che  io vi  giudico  notabile,  e quello  che  per  essere negletto  da  tutti  i capitani  di  questi tempi,  ha  fatto  negli  eserciti  e nelle zuffe  di  molti  disordini.  Dico,  adunque, che  per  il  testo  di  Livio  si  raccoglie, come  lo  esercito  romano  aveva  tre  divisioni principali,  le  quali  toscanamente si  possono  chiamare  tre  schiere;  e nominavano la  prima  astati,  la  seconda principi,  la  terza  triarii:  e ciascuna  di queste  aveva  i suoi  cavalli.  Nello  ordinare una  zuffa,  ei  mettevano  gli  astatiinnanzi  ; nel  secondo  luogo,  per  diritto,
dietro  alle  spalle  di  quelli,  ponevano  i principi  ; nel  terzo,  pure  nel  mede»imo filo,  collocavano  i triadi.  I cavalli  di tulli  questi  ordini  gli  ponevano  a destra ed  a sinistra  di  queste  tre  battaglie;  le schiere  de’  quali  cavalli,  dalla  forma  loro e dal  luogo,  si  chiamavano  alce , perchè parevano  come  due  alie  di  quel  corpo. Ordinavano  la  prima  schiera  delli  astati, che  era  nella  fronte,  serrata  in  modo insieme  che  la  potesse  spignere  e sostenere il  nimico.  La  seconda  schiera de’  principi,  perchè  non  era  la  prima a combattere,  ma  bene  le  conveniva  soccorrere alla  prima  quando  fusse  battuta o urtata,  non  la  facevano  stretta,  ma mantenevano  i suoi  ordini  radi,  e di qualità  che  la  potesse  ricevere  in  sè senza  disordinarsi  la  prima,  qualunque volta,  spinta  dal  nimico,  fusse  necessitata ritirarsi.  La  terza  schiera  de*  triadi aveva  ancora  gli  ordini  più  radi  che  la seconda,  per  potere  ricevere  in  sè,  bisognando, le  due  prime  schiere  de’  principi e degli  astati.  Collocate,  dunque, queste  schiere  in  questa  forma,  appiccavano  la  zuffa  : e se  gli  astati  erano sforzati  o vinti,  si  ritiravano  nella  ra-dila degli  ordini  de’  principi  ; e tuttiinsieme  uniti,  fatto  di  due  schiere  un J corpo,  rappiccavano  la  zuffa:  se  questi ancora  erano  ributtati  e sforzati,  si  ritiravano tutti  nella  radila  degli  ordini de*  trioni;  e tutte  tre  le  schiere  diventate un  corpo,  rinnovavano  la  zuffa  : dove  essendo  superati,  per  non  avere più  da  rifarsi,  perdevano  la  giornata. E perchè  ogni  volta  che  questa  ultima schiera  de’  triarii  si  adoperava,  lo  esercito era  in  pericolo,  ne  nacque  quel  proverbio: Res  redacta  est  ad  triarios  ; che ad  uso  toscano  vuol  dire:  Noi  abbiamo messo  I’  ultima  posta.  I capitani  dei  nostri tempi,  come  egli  hanno  abbandonato tutti  gli  altri  ordini,  e della  antica disciplina  ei  non  ne  osservano  parte  alcuna, cosi  hanno  abbandonata  questa parte,  la  quale  non  è di  poca  importanza: perchè  chi  si  ordina  da  potersi nelle  giornate  rifare  tre  volte,  ha  ad avere  tre  volte  inimica  la  fortuna  a volere perdere,  ed  ha  ad  avere  per  riscontro una  virtù  che  sia  atta  tre  volte  a vincerlo.  Ma  chi  non  sta  se  non  in  su  M primo  urto,  come  stanno  oggi  gli  eserciti cristiani,  può  facilmente  perdere  ; perchè  ogni  disordine,  ogni  mezzana virtù  gli  può  torre  la  vittoria.  Quello che  fa  agli  eserciti  nostri  mancare  di potersi  rifare  tre  volte,  è lo  avere  perduto il  modo  di  ricevere  I*  una  schiera uelP  altra.  Il  che  nasce  perchè  al  presente sf  ordinano  le  giornate  con  uno di  questi  duoi  disordini:  o ei  mettono le  loro  schiere  a spalle  P una  delP  altra, e fanno  la  loro  battaglia  larga  per traverso,  e sottile  per  diritto;  il  che  la fa  più  debole,  per  aver  poco  dal  petto alle  schiene.  E quando  pure,  per  farla più  forte,  ei  riducono  le  schiere  per  il verso  de’  Romani,  se  la  prima  fronte  è rotta,  non  avendo  ordine  di  essere  ricevuta dalla  seconda,  s’ ingarbugliano insieme  tutte,  e rompono  sè  medesime: perché  se  quella  dinanzi  è spinta,  ella urta  la  seconda;  se  la  seconda  si  vuol far  innanzi,  ella  è impedita  dalla  prima  : donde  che  urlando  la  prima  la  seconda, e la  seconda  la  terza,  ne  nasce  tanta confusione,  che  spesso  uno  minimo  accidente rovina  uno  esercito.  Gli  eserciti spagnuoli  e franciosi  nella  zuffa  di  Ravenna, dove  mori  monsignor  de  Pois, capitano  delle  genti  di  Prandi  (la  quale fu,  secondo  i nostri  tempi,  assai  bene combattuta  giornata)  s’  ordinarono  con uno  de’ soprascritti  modi;  cioè  clic  l’uno e 1’ altro  esercito  venne  con  tutte  le  sue genti  ordinate  a spalle  : in  modo  che non  venivano’  avere  nè  1’  uno  nè  1’  altro se  non  una  fronte,  ed  erano  assai  più per  il  traverso  cìie  per  il  diritto.  E questo avviene  loro  sempre  dove  egli  hanno la  campagna  grande,  come  gli  avevano a Ravenna  : perché,  conoscendo  il  disordine che  fanno  nel  ritirarsi,  mettendosi per  un  filo,  lo  fuggouo  quando  e’  possono col  fare  la  fronte  larga,  coni’  t detto  ; ma  quando  il  paese  gli  ristringe, si  stanno  nel  disordine  soprascritto, senza  pensare  il  rimedio.  Con  questo medesimo  disordine  cavalcano  per  il paese  inimico,  o se  e’  predano,  o se e’  fanno  altro  maneggio  di  guerra.  Ed a santo  Regolo  in  quel  di  Pisa,  ed  altrove, dove  i Fiorentini  furono  rotti da' Pisani  ne’ tempi  della  guerra  che  fu tra  i Fiorentini  e quella  città,  per  la  sua ribellione  dopo  la  passata  di  Carlo  re di  Francia  in  Italia,  non  nacque  tal  rovina d’ altronde,  clic  dalla  cavalleria amica;  la  quale  sendo  davanti  e ributtata da’  nimici,  percosse  nella  fanteria
fiorentina,  e quella  ruppe  : donde  tutto il  restante  delle  genti  dierono  volta  : e messcr  Ciriaco  dal  Borgo,  capo  antico delle  fanterie  fiorentine,  ha  affermato alla  presenza  mia  molte  volle,  non  essere mai  stato  rotto  se  non  dalla  cavalleria degli  amici.  1 Svizzeri,  che  sono  i maestri  delle  moderne  guerre,  quando ei  militano  coi  Franciosi,  sopra  tulle  le cose  hanno  cura  di  mettersi  in  lato,  che la  cavalleria  amica,  se  fusse  ributtata, non  gli  urti.  E benché  queste  cose paiano  facili  ad  intendere,  e facilissime a farsi;  nondimeno  non  si  è trovato  ancora alcuuo  de’  nostri  contemporanei  capitani, che  gli  antichi  ordini  imiti,  e gli  moderni  corregga.  E benché  gli  abbino ancora  loro  tripartito  lo  esercito, chiamando  1’  una  parte  antiguardo,  l’altra battaglia  e l’altra  retroguardo;  non se  ne  servono  ad  altro  che  a comandargli nelli  alloggiamenti:  ma  nello  adoperargli, rade  volte  è,  come  di  sopra  è detto,  che  a tutti  questi  corpi  non  faccino correre  una  medesima  fortuna.  E perchè  molti,  per  scusare  la  ignoranza loro,  allegano  che  la  violenza  delle  artiglierie non  patisce  che  in  questi  tempi si  usino  molti  ordini  degli  antichi,  vo-glio disputare  nel  seguente  capitolo  que-sta materia,  ed  esaminare  se  le  artiglierie impediscono  che  non  si  possa usare  l’ antica  virtù. XVII.  — Quanto  si  debbino  sii inave  dagli  eserciti  ne'  presenti  tempi le  artiglierie;  e se  quella  oppiatone che  se  ne  ha  in  universale j è vera. Considerando  io,  oltre  alle  cose  soprascritte, quante  zuffe  campali  (chiamate ne’  nostri  tempi,  con  vocabolo francioso,  giornate,  e dagl’  Italiani  fatti d’arme)  furono  fatte  dai  Romani  in  diversi tempi  ; mi  è venuto  in  considerazione la  oppinione  universale  di  molti,  che vuole  che  se  in  quelli  tempi  fussino state  le  artiglierie,  non  sarebbe  stato lecito  a’  Romani,  nè  sì  facile,  pigliare le  provincie;  farsi  tributari  i popoli, come  e’  feciono  ; nè  arebbono  in  alcuno modo  fatti  si  gagliardi  acquisti.  Dicono aiTcora,  che  mediante  questi  instrumenti de’  fuochi,  gli  uomini  non  possono  usare nè  mostrare  la  virtù  loro,  come  e’ potevano anticamente.  E soggiungono  una terza  cosa  : che  si  viene  con  piu  diflìeultà  alle  giornale  che  non  si  veniva allora,  nè  vi  si  può  tenere  dentro  quegli ordini  di  quelli  tempi  ; talché  la guerra  si  ridurrà  col  tempo  in  su  le artiglierie.  E giudicando  non  fuora  di proposito  disputare  se  tali  oppiuioui sono  vere,  e quanto  le  artiglierie  abbino cresciuto  o diminuito  di  forze  agli eserciti,  e se  le  tolgano  o danno  occasione ai  buoni  capitani  di  operare  virtuosamente ; comiucerò  a parlare  quanto alla  prima  loro  oppinione  : che  gli  eserciti antichi  romani  non  arebbono  fatto gli  acquisti  che  feciono,  se  le  artiglierie lussino  state.  Sopra  che,  rispondendo, dico:  come  e’si  fa  guerra  o per  difendersi, o per  offendere;  donde  si  ha  prima ad  esaminare  a quale  di  questi  duoi modi  di  guerra  le  faccino  più  utile,  o più  danno.  E benché  sia  che  dire  fla ogni  parte,  nondimeno  io  credo  che senza  comparazione  faccino  più  danno a chi  si  difende,  che  a chi  offende.  La ragione  che  io  ne  dico  è,  che  quel  che si  difende,  o egli  è dentro  a una  terra, o egli  è in  su’  campi  dentro  ad  uno  steccato. S*  egli  è dentro  ad  una  terra,  o questa  terra  è piccola,  come  sono  la maggior  parte  delle  fortezze,  o la  è grande:  nel  primo  caso,  chi  si  difende è al  tutto  perduto,  perchè  P impeto  delle artiglierie  è tale,  che  non  trova  muro, ancoraché  grossissimo,  che  in  pochi giorni  ei  non  abbatta;  e se  chi  è dentro non  ha  buoni  spazi  da  ritirarsi  c con fossi  e con  ripari,  si  perde;  nè  può  sostenere 1*  impeto  del  nimico  che  volesse dipoi  entrare  per  la  rottura  del  muro, nè  a questo  gli  giova  artiglieria  che avesse:  perchè  questa  è una  massima, che  dove  gli  uomini  in  frotta  e con  impeto possono  andare,  le  artiglierie  non gli  sostengono.  Però  i furori  oltramontani nella  difesa  delle  terre  non  sono sostenuti:  sou  bene  sostenuti  gli  assalti italiani,  i quali  non  in  frolla,  ma  spicciolati si  conducono  alle  battaglie,  le quali  loro,  per  nome  mollo  proprio,
chiamano  scaramuccio.  E qucsli  che vanno  con  questo  disordine  e questa freddezza  ad  una  rottura  d’  un  muro dove  sia  artiglierie,  vanno  ad  una  manifesta morte,  c conira  a loro  le  artiglierie vogliono:  ma  quelli  clic  in  frotta condensati,  e che  runo  spinge  l’altro, vengono  ad  una  rottura,  se  non  sono sostenuti  o da  fossi  o da  ripari,  entrano in  ogni  luogo,  c le  artiglierie  non gli  tengono;  e se  ne  muore  qualcuno, non  possono  essere  tanti  che  gl’  impedischino  la  vittoria.  Questo  esser  vero, si  è conosciuto  in  molte  espugnazioni fatte  dagli  oltramontani  in  Italia,  e mas-
sime in  quella  di  Brescia  : perchè,  sendosi  quella  terra  ribellata  da’  Franciosi, e tenendosi  ancora  per  il  re  di  Francia la  fortezza,  avevano  i Veneziani,  per  sostenere V impeto  che  ila  quella  potesse venire  nella  terra,  munita  tutta  la  strada di  artiglierie  che  dalla  fortezza  alla  città scendeva,  e postane  a fronte  e ne’  fianchi, ed  in  ogni  altro  luogo  opportuno. Delle  quali  monsignor  di  Fois  non  fece alcuno  conto  ; anzi  quello  con  il  suo squadrone,  disceso  a piede,  passando  per il  mezzo  di  quelle,  occupò  la  città,  nè per  quelle  si  sentì  eli’  egli  avesse  ricevuto alcuno  memorabile  danno.  Talché, chi  si  difende  in  una  terra  piccola,  conte è detto,  c trovisi  le  mura  in  terra,  e non  abbia  spazio  di  ritirarsi  con  r ripari e con  fossi,  ed  abbiasi  a fidare  in su  le  artiglierie,  si  perde  subito.  Se  tu difendi  tuta  terra  gronde,  e che  tu  abbia comodità  di  ritirarti,  sono  nondiinanco  senza  comparazione  più  utili  le artiglierie  a chi  è di  fuori,  che  a chi  è dentro.  Prima,  perchè  a volere  che  una artiglieria  nuoca  a quelli  che  sono  di fuora,  tu  sei  necessitato  levarti  con  essa dal  piano  della  terra;  perchè,  stando in  sul  piano,  ogni  poco  di  argine  e di riparo  che  il  nimico  faccia,  rimane  sicuro, e tu  non  gli  puoi  nuocere.  Tanto che  avendoti  ad  alzare,  e tirarti  sul  corridoio delle  mura,  o in  qualunque  modo levarti  da  terra,  tu  ti  tiri  dietro  due difficoltà:  la  prima,  che  non  puoi  condurvi artiglieria  della  grossezza  e della potenza  che  può  trarre  colui  di  fuora, non  si  potendo  ne’  piccoli  spazi  maneggiare le  cose  grandi  ; I’  altra,  che  quando bene  tu  ve  la  potessi  condurre,  tu  non puoi  fare  quelli  ripari  fedeli  e sicuri, per  salvare  detta  artiglieria,  che  possono fare  quelli  di  fuora,  essendo  in  su  M terreno,  ed  avendo  quelle  comodità  e quello  spazio  che  loro  medesimi  vogliono: talmentechè,  gli  è impossibile  a chi difende  una  terra,  tenere  le  artiglierie ne’  luoghi  alti,  quando  quelli  che  soli  di fuora  abbino  assai  artiglierie  e polenti; e se  egli  hanno  a venire  con  essa  ne’ luoghi bassi,  ella  diventa  in  buona  parte inutile,  come  è detto.  Talché  la  difesa della  città  si  ha  a ridurre  a difenderla con  le  braccia,  come  anticamente  si  faceva, e con  la  artiglieria  minuta  : di che  se  si  trae  un  poco  di  utilità  rispetto a quella  artiglieria  minuta,  se  ne  cava incomodità  che  contrappesa  alia  comodità della  artiglieria  ; perchè,  rispetto a quella,. si  riducono  le  mura  delle  terre, basse  e quasi  sotterrate  ne’ fossi:  talché, com’e’  si  viene  alle  battaglie  di mano,  o per  essere  battute  le  mura  o per  essere  ripieni  i fossi,  ha  chi  è dentro molti  più  disavvantaggi  che  non aveva  allora,  E però,  come  di  sopra  si disse,  giovano  questi  instrumenti  molto più  a chi  campeggia  le  terre,  che  a chi è campeggiato.  Quanto  alla  terza  cosa, di  ridursi  in  uno  campo  dentro  ad  uno steccato  per  non  fare  giornata,  se  non a tua  comodità  o vantaggio;  dico  che in  questa  parte  tu  non  hai  più  rimedio ordinariamente  a difenderti  di  non  combattere, che  si  avessino  gli  antichi;  e qualche  volta,  per  conto  delle  artiglierie, hai  maggiore  disavvantaggio.  Per- chè, se  il  nimico  ti  giunge  addosso,  ed abbia  un  poco  di  vantaggio  del  paese, come  può  facilmente  intervenire;  e truovìsi  più  alto  di  te;  oche  nello  arrivare alio  tu  non  abbi  ancora  fatti  i gini,  e copertoli  bene  con  que luto,  e senza  che  tu  abbi  alcun ti  disalloggia,  e sei  forzato  usci fortezze  tue,  e venire  alla  zuffa intervenne  agli  Spagnuoli  nel nata  di  Ravenna*  i quali  essent nili  tra  il  fiume  del  Ronco  ed gine,  per  non  lo  avere  tirato  U che  bastasse,  e per  avere  i Frai poco  il  vantaggio  del  terreno, constretti  dalle  artiglierie  usci fortezze  loro,  e venire  alla  zi dato,  come  il  più  delle  volte  de sere,  che  il  luogo  che  tu  avess con  il  campo  fusse  più  eminenti altri  all’  incontro,  c che  gli  ar; sino  buoni  e sicuri,  tale  che,  r il  sito  e 1’  altre  tue  preparazio miro  non  ardisse  di  assaltarti; in  questo  caso  a quelli  modi  c cainente  si  veniva,  quando  uno il  suo  esercito  in  lato  da  non  pi sere  offeso:  i quali  sono,  co paese,  pigliare  o campeggiare  le  terre tue  amiche,  impedirti  le  vettovaglie; tanto  che  tu  sarai  forzato  da  qualche necessità  a disalloggiare,  e venire  a giornata ; dove  le  artiglierie,  come  di  sotto si  dirà,  non  operano  molto.  Considerato, adunque,  di  quali  ragioni  guerre  feciono i Romani,  e reggendo  come  ei  feciono quasi  tutte  le  lor  guerre  per  offendere altrui,  e non  per  difender  loro;  si  vedrà, quando  sieno  vere  le  cose  dette  di sopra,  come  quelli  arebbono  avuto  più
vantaggio,  e piu  presto  arebbono  fatto i loro  acquisti,  se  le  fussino  state  in quelli  tempi.  Quanto  alla  seconda  cosa, che  gli  uomini  non  possono  mostrare la  virtù  loro,  come  ei  potevano  anticamente, mediante  la  artiglieria  ; dico eh’  egli  è vero,  che  dove  gli  uomini spicciolati  si  hanno  a mostrare,  eh’  e’ portano  più  pericoli  che  allora,  quandoavessino  a scalare  una  terra,  o fare  simili assalti,  dove  gli  uomini  non  ristretti insieme,  ma  di  per  sè  1’  uno  dall’  altro avessiuo  a comparire.  E vero die  gli  capitoni  e capi  degli stanno  sottoposti  più  al  perii! morte  che  allora,  potendo  esser con  le  artiglierie  in  ogni  lu giova  loro  lo  essere  nelle  ultii «Ire,  e muniti  di  uomini  fortissi dimeno  si  vede  che  P uno  c P questi  duoi  pericoli  fanno  ra danni  istraordinari  : perchè munite  bene  non  si  scalano,  i con  assalti  deboli  ad  assaltarh volerle  espugnare,  si  riduce  la una  ossidionc,  come  anticamen ceva.  Ed  in  quelle  clic  pure  pe si  espugnano,  non  sono  molto i pericoli  che  allora:  perchè  n cavano  anche  in  quel  tempo  a fendeva  le  terre,  cose  da  trarre se  non  erano  si  furiose,  facevam all’ ammazzare  gli  uomini,  *il  s fello.  Quanto  alla  morte  de’ci de’  condottieri,  ce  ne  sono,  in  v tro  anni  che  sono  state  le  guerre simi  tempi  in  Italia,  meno  esempi,  che non  era  in  dieci  anni  di  tempo  appresso agii  antichi.  Perchè,  dal  conte  Lodovico della  Mirandola,  che  morì  a Ferrara quando  i Veniziani  pochi  anni  sono  as- saltarono quello  Stato,  ed  il  Duca  di Nemors,  che  morì  alla  Ciriguuola,  in fuori;  non  è occorso  che  d’artiglierie ne  sia  morto  alcuno;  percdiè  monsignor di  Pois  a Ravenna  mori  di  ferro,  e non di  fuoco.  Tanto  che,  se  gli  uomini  non dimostrano  particolarmente  la  loro  virtù, nasce  non  dalle  artiglierie,  ma  dai  cattivi ordini,  e dalla  debolezza  degli  eserciti; i quali,  mancando  di  virtù  nel tutto,  non  la  possono  dimostrare  nella parte.  Quanto  alla  terza  cosa  detta  da costoro,  che  non  si  possa  venire  alle mani,  fc  che  la  guerra  si  condurrà  tutta in  su  P artiglierie,  dico  questa  oppinione essere  al  tutto  falsa;  e così  ila  sempre tenuta  da  coloro  che  secondo  P antica virtù  vorranno  adoperare  gli  eserciti loro.  Perchè,  chi  vuole  fare  uno  esercito buono,  gli  conviene,  con  eser<o veri,  assuefare  gli  uomini  scostarsi  al  nimico,  e venire  cmenare  della  spada,  e al  pig
il  petto;  e si  debbe  fondare  ile  fanterie  clic  in  su’  cavagli, gioni  che  di  sotto  si  diranno, si  fondi  in  su  i fanti  ed  in  i predetti,  diventano  al  tutto  le inutili;  perchè  con  più  facilit terie  nello  accostarsi  al  nimict fuggire  il  colpo  delle  artiglieri) potevano  anticamente  fuggire degli  elefanti,  de’ carri  falcati riscontri  inusitati,  clic  le  farmane  riscontrarono  ; contra sempre  trovarono  il  rimedio: più  facilmente  lo  arebbono  tr<tra  a queste,  quanto  egli  è pi tempo  nel  quale  le  artiglierie  i nuocere,  che  non  era  quello potevano  nuocere  gli  elefanti  < Perchè  quelli  nel  mezzo  delb disordinavano;  queste  solo  in zuffa  (i  Spediscono:  il  quale  impedìmento  facilmente  le  fanterie  fuggono,  o con  andare  coperte  dalla  natura  del  sito, o con  abbassarsi  in  su  la  terra  quando le  tirano.  11  che  unclie  per  esperienza si  è visto  non  essere  necessario,  massime per  difendersi  dalle  artiglierie grosse  ; le  quali  non  si  possono  in  modo bilanciare,  o che  se  le  vanno  alte  le  non ti  truovino,  o che  se  le  vanno  basse  le non  ti  arrivino.  Venuti  poi  gli  eserciti alle  mani,  questo  è più  chiaro  che  la luce,  che  nè  le  grosse  nè  le  piccole  ti possono  poi- offendere:  perchè,  se  quello che  ha  1’  artiglierie  è davanti,  diventa tuo  prigione;  s’ egli  è dietro,  egli  offende prima  1’  amico  che  te;  a spalle ancora  non  ti  può  ferire  in  modo  che tu  non  lo  possa  ire  a trovare,  e ne  viene a seguitare  l’effetto  detto.  Nè  questo ha  molta  disputa  ; perchè  se  ne  è visto l’essempio  de’ Svizzeri,  i quali  a Novara, nel  4513,  senza  artiglierie  e senza cavagli,  andarono  a trovare  lo  esercito francioso  munito  di  artiglierie alle  fortezze  sue,  e Io  ruppon aver  alcuno  impedimento  da  q la  ragione  è,  oltre  alle  cose sopra,  clic  l’artiglieria  ha  biso sere  guardata,  a volere  che  la da  mura  o da  fossi  o da  argini gli  manca  una  di  queste  guani prigione,  o la  diventa  inutile  : interviene  quando  la  si  ha  a e con  gli  uomini;  il  che  gli  ii nelle  giornate  e zuffe  campali.  P le  non  si  possono  adoperare,  s quel  modo  che  adoperavano  gl gli  instrumenti  da  trarre;  che levano  fuori  delle  squadre,  p comhatlessino  fuori  dell i ordini volta  che  o da  cavalleria  o erano  spinti,  il  refugio  loro  er alle  legioni.  Chi  altrimenti  ne  ! non  la  intende  bene,  e fidasi  s< cosa  che  facilmente  lo  può  in E se  il  Turco,  mediante  l’ ar conila  al  Sofi  ed  il  Soldauo  h vittoria,  è nato  non  per  altra  virtù  di quella,  che  per  lo  spavento  elle  lo  inusitato roraore  messe  nella  cavalleria  loro. Conchiuggo  pertanto,  venendo  al  fine  di questo  discorso,  l’  artiglieria  essere  utile in  uno  esercito  quando  vi  sia  mescolata l’antica  virtù;  ma  senza  quella,  contea a uno  esercito  virtuoso  è inutilissima. XVIII.  — Come  per  V autorità  de’ Romani j c per  lo  cssempio  della  antica milizia,  si  debbe  stimare  più  lè  fanterie che  i cavagli.
E’  si  può  per  molte  ragioni  e per  molti essempi  dimostrare  chiaramente,  quanto i Romani  in  tutte  le  militari  azioni  stimassino  più  la  milizia  a piè  che  a cavallo, e sopra  quella  fondassino  tutti  i disegni  delle  forze  loro:  come  si  vede per  molti  essempi,  ed  infra  gli  altri, quando  si  azzuffarono  con  i Latini  appresso il  lago  Regiilo;  dove  già  essendo inclinato  lo  esercito  romano,  per  soccorrere  ai  suoi  fecero  discenti uomini  da  cavallo  a piede,  e f via,  rinnovata  la  zuffa,  ebbon< toria.  Dove  si  vede  manifeste Romani  avere  più  confidato  in scudo  a piede,  che  manleneiu vallo.  Questo  medesimo  termini in  molte  altre  zuffe,  e sempre rono  ottimo  rimedio  in  gli  lort Nè  si  opponga  a questo  la  < di  Annibaie,  il  quale  veggendo  i nata  di  Canne,  che  i Consoli fatto  discendere  a piè  gli  loro facendosi  belle  di  simile  parti Quatti  tnallem  vinclos  milii cquilcs  ; cioè:  io  arci  più  car gli  dessino  legati.  La  quale  < ancoraché  la  sia  stata  in  bo uomo  eccellentissimo,  nondimt ha  a ire  dietro  alla  autorità, più  credere  ad  una  Repubblicf e a tanti  Capitani  eccellentissin rono  in  quella,  che  ad  uno  s<baie:  ancoraché  senza  le  auto siano  ragioni  manifeste.  Perchè  1’  uomo
a piede  può  andare  in  molti  luoghi,  dove uon  può  andare  il  cavallo;  puossi  insegnarli servare  1'  ordine,  e turbato  che fusse,  come  e’ lo  abbia  a riassumere: a’ cavagli  è diffìcile  fare  servare  l’ordine, ed  impossibile,  turbati  che  sono, riordinargli.  Olirà  di  questo,  si  trova, come  negli  uomiui,  de’  cavagli  che  kanno poco  animo,  e di  quelli  che  ne  hanno assai:  e molte  volte  interviene  che  un cavallo  animoso  è cavalcato  da  un  uomo vile,  ed  uno  cavallo  vile  da  uno  animoso; ed  in  qualunque  modo  che  segua questa  disparità,  ne  nasce  inutilità  e di- sordine. Possono  le  fanterie  ordinate  facilmente rompere  i cavagli,  e difficilmente esser  rotte  da  quelli.  La  quale oppinione  è corroborata,  oltre  a molti essempi  antichi  e moderni,  dalla  autorità di  coloro  che  danno  delle  cose  civili regola  : dove  mostrano  come  in  prima le  guerre  si  cominciarono  a fare con  i cavagli,  perchè  non  era  ancora 1’ onlinc  delle  fanterie;  ma  coi si  ordinarono,  si  conobbe  subi loro  erano  più  utili,  che  quell per  questo  però  che  i cavalli  i necessari  negli  eserciti,  e per perle,  e per  scorrere  e predai per  seguitare  i nimici  quando in  fuga,  c per  essere  ancora una  opposizione  ai  cavagli  dej. sari:  ma  il  fondamento  e il  n l’esercito,  c quello  chesi  debl mare,  debbono  essere  le  fan infra  i peccali  de* principi  ita1 hanno  fatto  Italia  serva  de’  I n q ii  ci  è il  maggiore,  clic  ave poco  conto  di  questo  ordine, volto  tutta  la  loro  cura  alla cavallo.  Il  quale  disordine  è na malignità  de* capi,  e per  la  ign coloro  che  tenevano  stato.  Pere dosi  ridotta  la  milizia  italiana, ticinque  anni  indietro,  in  uo non  avevano  stato,  ma  erano  < pitali!  di  ventura,  pcusorono  s me  polessino  mantenersi  la  riputazione stando  armati  loro,  e disarmati  i principi. E perchè  uno  numero  grosso  di fanti  non  poteva  loro  essere  continuamente pagato,  e non  avendo  sudditi  da poter  valersene,  ed  uno  piccolo  numero non  dava  loro  riputazione,  si  volgono  a tenere  cavagli  : perchè  dugcnto  o trecento cavalli  che  erano  pagati  ad  uno condottiere,  lo  mantenevano  riputato;  ed il  pagamento  non  era  tale,  che  dagli uomini  che  tenevano  stato  non  potesse essere  adempiuto.  E perchè  questo  seguisse più  facilmente,  e per  mantenersi più  in  riputazione,  levarono  tutta  l’ affezione e la  riputazione  da’  fanti,  e ridussonla  in  quelli  loro  cavalli:  e in  tanto crebbono  questo  disordine,  che  in  qualunque grossissimo  esercito  era  una  minima parte  di  fanteria.  La  quale  usanza fece  in  modo  debole,  insieme  con  molti altri  disordini  che  si  mescolarono  con quella,  questa  milizia  italiana,  che  questa provincia  è stata  facilmente  calpesta  (ia  tutti  gii  oltramontani.  >più  apertamente  questo  errore, mare  più  i cavalli  che  le  fantei uno  altro  essempio  romano.  E Romani  a campo  a Sora,  ed  i usciti  fuori  della  terra  una  tu cavalli  per  assaltare  il  campo, fece  all’  incontro  il  Maestro  de romano  con  la  sua  cavalleria,  e di  petto,  la  sorte  dette  che  nel scontro  i capi  dell’  uno  e dell’ alti
cito  morirono;  e restali  gli  alti*governo,  e durando  nondimeno  I i Romani  per  superare  più  fac lo  inimico,  scesono  a piede,  e cc sono  i cavalieri  nimici,  se  si  voi fendere,  a fare  il  simile:  e co questo,  i Romani  ne  riportarom toria.  Non  può  esser  questo  eì maggiore  in  dimostrare  quanto virtù  nelle  fantericche  ne’ cavag che  se  nelle  altre  fazioni  i Con cevano  discendere  i cavalieri  i era  per  soccorrere  alle  fanterie  i tivano,  e che  avevano  bisogno  ili  aiuto; ma  in  questo  luogo  e’  discesono,  non  per soccorrere  alle  fanterie  nè  per  eombattere  con  uomini  a piè  de’  nimici,  ma combattendo  a cavallo  co’ cavalli,  giudicareno,  non  potendo  superargli  a cavallo, potere  scendendo  più  facilmente vincergli.  Io  voglio  adunque  conchiudere,  che  una  fanteria  ordinata  non  possa senza  grandissima  diffìcultà  esser  superata,  se  non  da  una  altra  fanteria. Crasso  e Marc’  Antonio  romani  corsone per  il  dominio  de’  Parti  molte  giornate con  pochissimi  cavalli  ed  assai  fanteria, ed  all’  incontro  avevano  innumerabili cavalli  de’  Parti.  Crasso  vi  rimase  con parte  dello  esercito  morto.  Marc’  Antonio virtuosamente  si  salvò.  Nondimanco, in  queste  afflizioni  romane  si  vede  quanto le  fanterie  prevalevano  ai  cavalli  : perchè essendo  in  un  paese  largo,  dove  i monti  son  radi,  ed  i fiumi  radissimi,  le marine  longinque,  e discosto  da  ogni  comodità; nondimanco  Marc’ Antonio,  al giudicio  de’  Parti  medesimi, mente  si  salvò;  nè  mai  ebbe tutta  la  cavalleria  pnrtica  te ordini  dello  esercito  suo.  Se rimase,  chi  leggerà  bene  le  s vedrà  come  e’  vi  fu  piuttosto che  forzato:  nè  mai,  in  tutti sordini,  i Parti  ardirono  di  uri sempre  andando  costeggiando pedendogli  le  vettovaglie,  prò gli  e non  gli  osservando,  lo  et od  una  estrema  miseria.  Io avere  a durare  più  fatica  in  p quanto  la  virtù  delle  fanterie lente  ebe  quella  de’ cavalli,  : fussino  assai  moderni  essenv rendono  testimonianza  pieniss è veduto  novemila  Svizzeri  i da  noi  di  sopra  allegata,  and frontale  diecimila  cavalli  ed fanti,  e vincergli:  perchè  i cf li  potevano  offendere:  i fanti,  ] gente  in  buona  parte  guascoi ordinata,  stimavano  poco.  Yi ventiseimila  Svizzeri  andare  a trovare sopra  Milano  Francesco  re  di  Francia, che  aveva  seco  ventimila  cavalli,  qua-♦ rantamila  fanti  e cento  carra  d’artiglieria ; e se  non  vinsono  la  giornata come  a Novara,  combatterono  due  giorni virtuosamente;  e dipoi,  rotti  che  furono, la  metà  di  loro  si  salvarono.  Presunse Marco  Regolo  Attilio,  non  solo  con  la  fanteria sua  sostenere  i cavalli,  ma  gli  elefanti; e se  il  disegno  non  gli  riuscì, non  fu  però  che  la  virtù  della  sua  fanteria non  fusse  tanta,  che  ei  non  confidasse tanto  in  lei  che  credesse  superare quella  difficoltà.  Replico,  pertanto, che  a voler  superare  i fanti  ordinati,  è necessario  opporre  loro  fanti  meglio  ordinati di  quelli:  altrimenti,  si  va  ad  una perdita  manifesta.  Ne’ tempi  di  Filippo Visconti,  duca  di  Milano,  scesouo  ili Lombardia  circa  sedicimila  Svizzeri: donde  il  Duca  avendo  per  capitano  allora il  Carmignuola,  lo  mandò  con  circa mille  cavalli  e pochi  fanti  allo  incontro loro.  Costui  non  sappiendo  1*  01 combatter  loro,  ne  andò  ad  inc< con  i suoi  cavalli,  presu  me  nd( subito  rompere.  Ma  trovatogli  i avendo  perduti  molti  de’  suoi  u ritirò  : ed  essendo  valentissimo sappiendo  negli  accidenti  nuovi nuovi  partiti,  rifattosi  di  gente a trovare;  e venuto  loro  all’i fece  smontare  a piè  tutte  le  s d’  arme,  e fatto  testa  di  quelle fanterie,  andò  ad  investire  i S quali  non  ebbono  alcun  rimet chè,  sendo  le  genti  d’arme  de gnuola  a piè  e bene  armate, facilmente  entrare  infra  gli  01 Svizzeri,  senza  patire  alcuna  lei entrati  tra  questi,  poterono-  fu offendergli:  talché  di  tutto  il  ni quelli,  ne  rimase  quella  parte per  umanità  del  Carmignuola servata.  Io  credo  che  molti  co questa  differenza  di  virtù  che I’  uno  e 1’  altro  di  questi  ordir: tanta  la  infelicità  di  questi  tempi,  che nè  gli  essempi  antichi  nè  i moderni,  nè la  confessione  dello  errore  è sufficiente a fare  che  i moderni  principi  si  rav-vegghino  ; e pensino  che  a volere  ren-dere riputazione  alla  milizia  d’  una  pro-vincia o d’  uno  Stato,  sia  necessario  ri-suscitare questi  ordini,  tenergli  appresso,dar  loro  riputazione,  dar  loro  vita,  ac-ciocché a lui  e vita  c riputazione  ren-dino.  E come  e’diviano  da  questi  modi,così  diviano  dagli  altri  modi  detti  disopra  : onde  ne  nasce  che  gli  acquistisono  a danno,  non  a grandezza  d’uno Stato,  come  di  sotto  si  dirà.Cap.  XIX.  — Che  gli  acquisii  nelle  re-pubbliche non  bene  ordinate  e che
secondo  la  romana  virtù  non  procedono, sono  a rovina,  non  a esalta-
zione di  esse. Queste  contrarie  oppinioni  alla  verità, fondale  in  su’  mali  essempi  che  da  que-sti  nostri  corrotti  secoli  sono  stati  in-trodotti, fanno  che  gli  uomini  non  pen-sano a limare  dai  consueti  modi.  Quandosi  sarebbe  potuto  persuadere  a uno  ita-liano da  trenta  anni  in  dietro,  che  die-cimila fanti  potessino  assaltare  in  uiipiano  diecimila  cavalli  ed  altrettanli, fanti, e con  quelli  non  solamente  combattere,ina  vincergli;  come  si  vede  per  lo  essempio  da  noi  più  volle  allegato,  a Novara? E benché  le  istorie  ne  siano  piene, /amen  non  ci  arebbero  prestato  fede; e se  ci  avessero  prestato  fede,  arebbero detto  che  in  questi  tempi  s’arma meglio,  e che  una  squadra  d’  uomini d’arme  sarebbe  atta  ad  urtare  uno  scoglio, non  che  una  fanteria:  e così  conqueste  false  scuse  corrompevano  il  giudizio loro;  nè  arebbero  considerato,  che Lucullo  con  pochi  fanti  ruppe  cento  cinquanta mila  cavalli  di  Tigrane;  e che tra  quelli  cavalieri  era  una  sorte  di  cavalleria simile  al  tutto  agii  uomini  d’arme nostri:  c così  questa  fallacia  è stata  scoperla  dallo  essempio  delle  genti  oltramontane. E come  e’ si  vede  per  quello essere  vero,  quanto  alla  fanteria,  quello che  nelle  istorie  si  narra;  così  doverrebbero  credere  esser  veri  ed  utili  tutti  gli altri  ordini  antichi.  E quando  questo  fusse credulo,  le  repubbliche  ed  i principi  er rerebbero meno;  sariano  più  forti  ad  op-porsi ad  uno  impeto  che  venisse  loro  ad-dosso; non  spererebbero  nella  fuga:  e quelli  che  avessino  nelle  mani  un  vivere civile,  Io  saperebbero  meglio  indirizzare, o per  la  via  dello  ampliare,  o per  la via  del  mantenere;  e crederebbero  che lo  accrescere  la  città  sua  d’  abitatori, farsi  compagni  e non  sudditi,  mandare colonie  a guardare  i paesi  acquistati, far  capitale  delle  prede,  domare  il  nimico con  le  scorrerie  e con  le  giornate e non  con  le  ossidioni,  tenere  ricco  il pubblico,  povero  il  privato,  mantenere con  sommo  studio  li  esercizi  militari, sono  le  vie  a fhre  grande  una  repubblica, ed  acquistare  imperio.  E quando questo  modo  dello  ampliare  non  gli  piacesse, penserebbe  che  gli  acquisti  per ogni  altra  via  sono  la  rovina  delle  repubbliche, e porrebbe  freno  ad  ogni ambizione;  regolando  bene  la  sua  città dentro  con  le  leggi  e co’ costumi,  proi- bendogli r acquistare  e solo  pensando  a difendersi,  e le  difese  tenere  ordinate bene:  come  fanno  le  repubbliche  della Magna,  le  quali  in  questi  modi  vivono e sono  vi v ute  libere  un  tempo.  Nondi- meno, come  altra  volta  dissi  quando  di- scorsi la  differenza  che  era  da  ordinarsi per  acquistare  a ordinarsi  per  mante- nere; è impossibile  che  ad  una  repubblica riesca  lo  stare  quieta,  c godersi  la sua  libertà  e gli  pochi  confini:  perchè, se  lei  non  molesterà  altrui,  sarà  molestata ella  ; e dallo  essere  molestata  le nascerà  la  voglia  e la  necessità  dello acquistare;  c quando  non  avesse  il  nimico fuora,  lo  troverebbe  in  casa  : come pare  necessario  intervenga  a tutte  le grandi  cittadi.  b se  le  repubbliche  della Magna  possono  vivere  loro  in  quel  modo, ed  hanno  potuto  durare  un  tempo; nasce  da  certe  condizioni  che  sono  in quel  paese,  le  quali  non  sono  altrove, - senza  le  quali  non  potrebbero  tenere  simil  modo  di  vivere.  Era  quella  parte della  Magna  di  che  io  parlo,  sottoposta allo  imperio  romano  come  la  Francia  e la  Spagna:  ma  venuto  dipoi  in  declinazione 1*  imperio,  e ridottosi  il  titolo  di tale  imperio  in  quella  provincia,  comin-ciarono quelle  ciltadi  più  potenti,  se-condo la  viltà  o necessità  degFimpera-dori,  a farsi  libere,  ricomperandosi  dallo imperio,  con  riservargli  un  piccolo  censo annuario;  tanto  che,  a poco  a poco, tutte  quelle  cittadi  che  erano  immediate dello  imperadore,  e non  erano  soggette ad  alcuno  principe,  si  sono  in  simil  modo ricomperate.  Occorse  in  questi  medesi- mi tempi  che  queste  cittadi  si  ricomperavano, che  certe  comunità  sottoposte  al duca  d’Austria  si  ribellarono  da  lui;  tra le  quali  fu  Filiborgo,  c Svizzeri,  e si- mili  ; le  quali  prosperando  nel  principio, pigliarono  a poco  a poco  tanto  augumento,  che,  non  che  e’sieno  tornati  sotto il  giogo  d’  Austria,  sono  in  timore  a tutti  i loro  vicini:  e questi  sono  quelli che  si  chiamano  Svizzeri.  É,  adunque, questa  provincia  compartita  in  Svizzeri, repubbliche  (che  chiamano  terre  franche), principi  ed  imperadore.  E la  cagione che,  intra  tante  diversità  di  vivere, non  vi  nascono,  o,  se  le  vi  nascono,  non vi  durano  molto  le  guerre,  è quel  segno dell’ imperadore  ; il  quale,  avvenga  che non  abbi  forze,  nondimeno  ha  fra  loro tanta  riputazione,  eli’  egli  è uno  loro
conciliatore,  e con  T autorità  sua,  interponendosi come  mezzano,  spegne  subito ogni  scandalo.  E le  maggiori  e le  più lunghe  guerre  vi  siano  state,  sono  quelle che  sono  seguite  intra  i Svizzeri  ed  il duca  d’Austria;  e benché  da  molti  anni in  qua  lo  imperadore  ed  il  duca  d’Austria  sia  una  cosa  medesima,  non  per tanto  non  ha  mai  potuto  superare  l’audacia  ilei  Svizzeri,  dove  non  è mai  stato modo  d’accordo,  se  non  per  forza.  Nè il  resto  della  Magna  gli  ha  porti  molti aiuti;  sì  perchè  le  comunità  non  sanno offendere  chi  vuole  vivere  libero  come loro  ; sì  perchè  quelli  principi,  parte non  possono  per  esser  poveri,  parte  non vogliono  per  avere  invidia  alla  potenza sua.  Possono  vivere,  adunque,  quelle comunità  contente  del  piccolo  loro  dominio, per  non  avere  cagione,  rispetto aii’dulorità  imperiale,  di disiderarlo  maggiore: possono  vivere  unite  dentro  alle mura  loro,  per  aver  il  nimico  propinquo, e.  che  piglierebbe  1’  occasione  d’-oc-euparle,  qualunque  volta  le  discordassino. Che  se  quella  provincia  fusse  condizionata altrimenti,  converrebbe  loro  cercare d’  ampliare  e rompere  quella  loro quiete.  E perchè  altrove  non  sono  tali condizioni,  non  si  può  prendere  questo modo  di  vivere;  e bisogna  o ampliare per  via  di  leghe,  o ampliare  come  i Romani. E ehi  si  governa  altrimenti,  cerca non  la  sua  vila,  ma  la  sua  morte  e rovina: perchè  in  mille  modi  e per  molte cagioni  gli  acquisii  sono  dannosi;  perchè gli  sta  molto  bene  insieme  acquistare imperio,  c non  forze;  e chi  acquista imperio  e non  forze  insieme,  conviene che  rovini.  Non  può  acquistare  forze  chi impoverisce  nelle  guerre,  ancora  che  sia vittorioso;  che  ei  mette  più  che  non trae  degli  acquisti:  come  hanno  fatto  i Veniziani  ed  i Fiorentini,  i quali  sono stati  molto  più  deboli,  quando  V uno aveva  la  Lombardia  e V altro  la  Toscana, che  non  erano  quando  1’  uno  era  contento del  mare,  e V altro  di  sei  .miglia di  confini.  Perchè  tutto  è nato  da  avere voluto  acquistare,  e non  avere  saputo pigliare  il  modo;  e tanto  più  meritano biasimo,  quanto  egli  hanno  meno  scusa, avendo  veduto  il  modo  hanno  tenuto  i Romani,  ed  avendo  potuto  seguitare  il loro  essempio,  quando  i Romani,  senza alcuno  essempio,  per  la  prudenza  loro, da  loro  medesimi  lo  seppono  trovare. Fanno,  oltra  di  questo,  gli  acquisti  qualche volta  non  mediocre  dauuo  ad  ogni bene  ordinata  repubblica,  quando  e’ si acquista  una  città  o una  provincia  piena di  delizie,  dove  si  può  pigliare  di  quelli costumi  per  la  conversazione  che  si  ha con  quelli:  come  intervenne  a Roma, prima,  nello  acquisto  di  Capova;  e dipoi, ad  Annibale.  E se  Capova  fusse stata  più  longinqua  dalla  città,  che  lo errore  de*  soldati  non  avesse  avuto  il rimedio  propinquo;  o che  Roma  fusse stata  in  alcuna  parte  corrotta;  era  senza dubbio  quello  acquisto  la  rovina  della Repubblica  romana.  E L.  fa  fede di  questo  con  queste  parole:  Jam  lune minime  salubris  militari  disciplina  Capita j instrumentum  omnium  nolupta- tunij  dclinitos  militimi  animos  avertit  a memoria  patria,  E veramente,  simili città  o provincie  si  vendicano  contra  al vincitore  senza  zuffa  e senza  sangue  ; perchè,  riempiendoli  de’  suoi  tristi  co- stumi, gli  espongono  ad  essere  vinti  da
 qualunque  gli  assalta.  E Iuvenale  non potrebbe  meglio,  nelle  sue  salire,  aver considerata  questa  parte,  dicendo:  thè nei  petti  romani  per  gli  acquisti  delle terre  peregrine  erano  intrati  i costumi peregrini  ; ed  in  cambio  di  parsimonia e di  altre  eccellentissime  virtù,  gala  et luxuria  incubuitj  victumque  ulciscìtur orbem.  Se,  adunque,  V acquistare  fu  per esser  perniziosi  ai  Romani  nei  tempi che  quelli  con  tanta  prudenza  e tanta virtù  procedevano,  che  sarà  adunque  a quelli  che  discosto  dai  modi  loro  pro- cedono ? e che,  oltre  agli  altri  errori che  fanno,  di  che  se  ne  è di  sopra  di- scorso assai,  si  vagliono  dei  soldati  o mercenari  o ausiliari  ? Donde  ne  risulta loro  spesso  quei  danni  di  che  nel  se- guente capitolo  si  farà  menzione. Gap.  XX.  — Quale  pericolo  porti  quel principe  o quella  repubblica  che  si vale  della  milizia  ausiliare  o merce- naria. Se  io  non  avessi  lungamente  trattato in  altra  mia  opera,  quanto  sia  inutile la  milizia  mercenaria  ed  ausiliare,  e quanto  utile  la  propria,  io  mi  disten-derei in  questo  discorso  assai  più  clic non  farò  ; ma  avendone  altrove  parlato a lungo,  sarò  in  questa  parte  brieve. Nè  mi  è paruto  in  tutto  da  passarla, avendo  trovato  in  L.,  quanto  ai soldati  ausiliari,  sì  largo  essempio  ; per- chè  soldati  ausiliari  sono  quelli  che  un principe  o una  repubblica  manda,  capitanati c pagati  da  lei,  in  tuo  aiuto. E venendo  al  testo  di  L.,  dico che,  avendo  i Romani,  in  diversi  luoghi, rotti  due  eserciti  de’  Sanniti  con  li  eserciti loro,  i quali  avevano  mandati  al  soccorso de*  Capovani;  e per  questo  liberi i Capovani  da  quella  guerra  ehe  i Sanniti facevano  loro;  e volendo  ritornare verso  Roma;  ed  acciò  che  i Capovani, spogliati  di  presidio,  non  diventassino di  nuovo  preda  dei  Sanniti;  lasciarono due  legioni  nel  paese  di  Capova,  che  gli difendesse.  Le  quali  legioni  marcendo nell*  ozio,  cominciarono  a dilettarsi  in quello;  tanto  che,  dimenticata  la  patria e la  riverenza  del  Senato,  pensarono  di- prendere T armi,  ed  insignorirsi  di  quel paese  che  loro  con  la  loro  virtù  avevano difeso,  parendo  loro  che  gli  abitatori non  fussino  degni  di  possedere  quelli beni  che  non  sapevano  difendere.  La qual  cosa  presentita,  fu  dai  Romani  op- pressa e corretta:  come,  dove  noi  par- leremo delle  congiure,  largamente  si mostrerà.  Dico  pertanto  di  nuovo,  come di  tutte  V altre  qualità  di  soldati,  gli ausiliari  sono  i più  dannosi.  Perchè  in essi  quel  principe  o quella  repubblica che  gli  adopera  in  suo  aiuto,  non  ha autorità  alcuna,  ma  vi  ha  solo  V autorità colui  che  li  manda.  Perchè  i soldati  au- siliari sono  quelli  che  ti  sono  mandati da  un  principe,  come  ho  detto,  sotto suoi  capitani,  sotto  sue  insegne  e pagati da  lui:  come  fu  questo  esercito  che  i Romani  mandarono  a Capova.  Questi tali  soldati,  vinto  eh’  egli  hanno,  il  piùdelle  volte  predano  così  colui  che  gli  hacondotti,  come  colui  contea  a chi  e’  sonocondotti  ; e lo  fanno  o per  malignità  delprincipe  che  gli  manda,  o per  ambizionloro.  E benché  la  intenzione  de’ Romaninon  fusse  di  rompere  1’  accordo  e leconvenzioni  che  avevano  fatte  coi  Capo-vani; nondimeno  la  facilità  che  parevaa quelli  soldati  di  opprimergli  fu  tanta,che  gli  potette  persuadere  a pensare  ditorre  ai  Capovani  la  terra  e lo  stato.Potrebbesi  di  questo  dare  assai  essempi;ma  voglio  mi  basti  questo,  e quello  deiRegini,  ai  quali  fu  tolto  la  vita  e laterra  da  una  legione  che  i Romani  viavevano  messa  in  guardia.  Debbe,  adun-que, un  principe  o una  repubblica  pi-gliare  prima  ogni  altro  partilo,  che  ri-correre a conti  aì  re  nello  Stato  suo  persua  difesa  genti  nusiliarie,  quando  eis’ abbia  a fidare  sopra  quelle  ; perchèogni  patto,  ogni  convenzione,  ancora  chedarà,  di’  egli  arà  col  nemico,  gli  saràpiù  leggieri  che  tal  partito.  E se  si  leg-geranno bene  le  cose  passate,  c diseor-rerannosi  le  presenti,  si  troverà,  peruno  che  n’abbia  avuto  buon  fine,  infi-niti esser  rimasi  ingannati.  Ed  uno  prin-cipe o una  repubblica  ambiziosa  nonpuò  avere  la  maggiore  occasione  di  oc-cupare una  città  o una  provincia,  cheesser  richiesto  che  mandi  gli  esercitisuoi  alla  difesa  di  quella.  Pertanto,  co-lui che  è tanto  ambizioso  che,  non  so-lamente per  difendersi  ma  per  offenderealtri,  chiama  simili  aiuti,  cerca  d’acqui-stare quello  che  non  può  tenere,  e cheda  quello  che  gliene  acquista  gli  puòfacilmente  esser  tolto.  Ma  l’ ambizionedell’  uomo  è tanto  grande,  che  per  ca-varsi una  presente  voglia,  non  pensa  almale  che  è in  brieve  tempo  per  risul-targliene. Nè  lo  muovono  gli  antichi  es-sempi,  cosi  in  questo  come  nell’  altrecose  discorse;  perchè,  se  e’  fussino  mossida  quelli,  vedrebbero  come  quanto  piùsi  mostra  la  liberalità  coi  vicini,  e d’es-sere più  alieno  da  occupargli,  tanto  piùti  si  gettano  in  grembo:  come  di  sotto,per  lo  essempio  de’  Capovani,  si  dirà.Gap.  XXI.  — Il  primo  Pretore  che  i Ro-mani mandarono  in  alcun  luogoj  fua Capova,  dopo  quattrocento  anni  chZcominciarono  a far  guerra. Quanto  i Romani  nei  modo  del  pro- cedere loro  circa  Y acquistare  fossero differenti  da  quelli  che  ne’  presenti  tempi ampliano  la  iuri&dUionc  loro,  si  è assai di  sopra  discorso;  e come  e’ lasciavano quelle  terre,  che  non  disfacevano,  vivere con  le  leggi  loro,  eziandio  quelle  che non  come  compagne,  ma  come  soggette si  arrendevano  loro;  ed  in  esse  non  lu- sciavano  alcun  segno  d’  imperio  per  il Popolo  romano,  ma  Y obbligavano  ad alcune  condizioni,  le  quali  osservando, le  mantenevano  nello  stato  e dignità loro.  E conoscesi  questi  modi  esser  stati osservati  infino  che  gli  uscirono  d’ Ita- lia, e che  cominciarono  a ridurre  i re- gni e gli  Stati  in  provincie.  Di  questo ne  è chiarissimo  essempio,  che  il  primo
Pretore  che  fusse  mandato  da  loro  in alcun  luogo,  fu  a Capova:  il  quale  vi mandarono,  non  per  loro  ambizione,  ma perchè  e’  ne  furono  ricerchi  dai  Capo-vani; i quali,  essendo  intra  loro  discordia, giudicarono  esser  necessario  avere dentro  nella  città  un  cittadino  romano che  gli  riordinasse  e riunisse.  Da  questo essempio  gli  Anziati  mossi,  e constretti dalla  medesima  necessità,  domandarono ancora  loro  un  Prefetto;  e Tito  Livio dice  in  su  questo  accidente,  ed  in  6U questo  nuovo  modo  d’ imperare,  quod /aro  non  solttm  arma j sed  jura  romana pollebant.  Yedesi,  pertanto,  quanto  qu$- sto  modo  facilitò  I’  augumento  romano. Perché  quelle  città,  massime,  che  sono use  a viver  libere,  o consuete  governarsi per  suoi  provinciali,  con  altra  quiete stanno  contente  sotto  uno  dominio  che non  veggono,  ancora  eli’  egli  avesse  in sè  qualche  gravezza,  che  sotto  quello che  veggendo  ogni  giorno,  pare  loro che  ogni  giorno  sia  rimproverata  loro la  servitù.  Appresso,  ne  seguita  un  al-tro bene  per  il  principe:  che  non  avendo i suoi  ministri  in  mano  i giudizi,  ed  i magistrati  che  civilmente  o criminal- mente rendono  ragione  in  quelle  cittadi, non  può  nascere  mai  sentenza  con  ca- rico o infamia  del  principe;  e vengono per  questa  via  a mancare  molte  cagioni «li  calunnia  e d’  odio  verso  di  quello.  E che  questo  sia  il  vero,  oltre  agli  antichi esscinpi  che  se  ne  potrebbono  addurre, ee  n’  è uno  essempio  fresco  in  Italia. Perchè,  come  ciascuno  sa,  scudo  Genova stata  più  volte  occupata  da’  Franciosi, sempre  quel  re,  eccetto  che  ne’  presenti tempi,  vi  ha  mandato  un  governatore francioso  che  in  suo  nome  la  governi. Al  presente  solo,  non  per  elezione  del re,  ma  perchè  cosi  ha  ordinato  la  ne- cessità, ha  lasciato  governarsi  quella città  per  sè  medesima,  e da  un  gover- natore genovese.  E senza  dubbio,  chi ricercasse  quali  di  questi  duoi  modi rechi  più  sicurtà  al  re  dell*  imperio  di essa,  e più  contentezza  a quelli  popolari, senza  dubbio  approverebbe  questo  ultimo modo.  Oltra  di  questo,  gli  uomini  tanto più  ti  si  gettano  in  grembo,  quanto  più tu  pari  alieno  dallo  occupargli  ; e tanto meno  ti  temono  per  conto  della  loro  li- bertà, quanto  più  sei  umano  e dome- stico con  loro.  Questa  dimestichezza  e liberalità  fece  i Capovani  correre  a chie- dere il  Pretore  ai  Romani  : che  se  dai Romani  si  fusse  mostro  una  minima voglia  di  mandarvelo,  subito  sarebbono ingelositi,  c si  sarebbono  discostati  da loro.  Ma  che  bisogna  ire  per  gli  essempi a Capova  ed  a Roma,  avendone  in  Fi-lenze  ed  in  Toscana?  Ciascuno  sa  quanto tempo  è che  la  città  di  Pistoia  venne volontariamente  sotto  V imperio  fioren-tino. Ciascuno  ancora  sa  quanta  inimi-cizia è stata  intra  i Fiorentini,  ed  i Pi-sani, Lucchesi  e Sanesi  : e questa  diver-sità d’animo  non  è nata  perchè  i Pi-stoiesi non  prezzino  la  loro  libertà come  gli  altri,  e non  si  giudichino  da quanto  gli  altri;  ma  per  essersi  i Fio-rentini portoti  con  loro  sempre  come fratelli,  e con  gli  altri  come  nimici. Questo  ha  fatto  clic  i Pistoiesi  sono  corsi volontari  sotto  F imperio  loro  : gli  altri hanno  fatto  e fanno  ogni  forza  per  non vi  pervenire.  E senza  dubbio,  i Fioren- tini se,  o per  vie  di  leghe  o di  aiuto, avessero  dimesticati  e non  inselvatichiti i suoi  vicini,  a quest’ora  sarebbero  si-gnori di  Toscana.  Non  è per  questo  che io  giudichi  che  non  si  abbia  ad  operare l’armi  e le  forze;  ma  si  debbono  riser- vare in  ultimo  luogo,  dove  e quando  gli altri  modi  non  bastino. Cap.  XXII.  — Quanto  siano  false  molte volte  le  oppinioni  degli  uomini  nel giudicare  le  cose  grandi. Quanto  siano  false  molte  volle  le  op-
pinioui  degli  uomini,  1’  hanno  visto  e veggono  coloro  che  si  trovano  testimoni delle  loro  deliberazioni:  le  quali  molle volte,  se  non  sono  deliberate  da  uomini eccellenti,  sono  contrarie  ad  ogni  verità. E perchè  gli  eccellenti  uomini  nelle repubbliche  corrotte,  nei  tempi  quieti massime,  e per  invidia  c per  altre  ambiziose cagioni,  sono  inimicati;  si  va dietro  a quello  che  da  uno  comune  in- ganno è giudicato  bene,  o da  uomini
che  più  presto  vogliono  i favori  che  il bene  deir  universale,  è messo  innanzi.  Il quale  inganno  dipoi  si  scuopre  nei  tempi avversi,  e per  necessità  si  rifugge  a quelli  che  nei  tempi  quieti  erano  come dimenticati  : come  nel  suo  luogo  in  questa parte  appieno  si  discorrerà.  Nascono  an cora  certi  accidenti,  dove  facilmente  sono ingannali  gli  uomini  che  non  hanno grande  Esperienza  delle  cose,  avendo  in sè  quello  accidente  che  nasce  molti  ve* risimili,  atti  a far  credere  quello  die gli  uomini  sopra  tal  caso  si  persuadono. Queste  cose  si  sono  dette  per  quello  che Numicio  pretore,  poiché  i Latini  furono rotti  dai  Romani,  persuase  loro;  e per
quello  che  pochi  anni  sono  si  credeva per  molti,  quando  Francesco  1 re  di Francia  venne  ali’  acquisto  di  Milano, che  era  difeso  dai  Svizzeri.  Dico  per- tanto, che,  essendo  morto  Luigi  XII,  e succedendo  nel  regno  di  Francia  Fran- cesco d’  Angolem,  c desiderando  resti- tuire al  regno  il  ducato  di  Milano,  stato pochi  anni  innanzi  occupato  dai  Sviz- zeri mediante  il  conforto  di  Papa  Giu-lio II,  desiderava  aver  aiuti  in  Italia  che gli  facilitassero  l’ impresa  ; cd  oltre  ni Veniziani,  che  il  re  Luigi  s’aveva  rigua- dagnati, tentava  i Fiorentini  e Papa Leone  X ; parendogli  la  sua  impresa  più fucile  qualùnque  volta  s’  avesse  riguada-gnati costoro,  per  essere  le  genti  del  re di  Spagna  in  Lombardia,  ed  altre  forze dello  imperadore  in  ^Verona.  Non  cede Papa  Leone  alle  voglie  del  re,  ma  fu persuaso  da  quelli  che  lo  consigliavano (secondo  si  disse),  si  stesse  neutrale, mostrandogli  in  questo  partito  consistere la  vittoria  certa:  perchè  per  la  Chiesa non  si  faceva  avere  potenti  in  Italia  nè il  re  nè  i Svizzeri;  ma  volendola  ridurre nell’antica  libertà,  era  necessario  liberarla dalla  servitù  dell’  uno  e dell’altro. E perchè  vincere  1’  uno  e 1’  altro,  o di per  sè  o tutti  due  insieme,  non  era  possibile 'r  conveniva  che  superassino  1’  uno l’altro,  e che  la  Chiesa  con  gli  amici suoi  urlasse  quello  poi  che  rimanesse vincitore.  Ed  era  impossibile  trovare migliore  occasione  che  la  presente,  sen-do  1’  uno  e 1’  altro  in  su’  campi,  ed  aven-do il  Papa  le  sue  forze  ad  ordine  da potere  rappresentarsi  in  sui  confini  di Lombardia,  e propinquo  all’  uno  e l’altro esercito,  sotto  colore  di  voler  guardare le  cose  sue,  e quivi  tanto  stare  che  ve- nissero alla  giornata;  la  quale  ragione- volmente, sendo  Y uno  e V altro  esercito virtuoso,  doverrebbe  esser  sanguinosa per  tutte  due  le  parti,  e lasciare  in  modo debilitato  il  vincitore,  che  fusse  al  Papa facile  assaltarlo  e romperlo:  e cosi  ver- rebbe con  sua  gloria  a rimanere  signore di  Lombardia,  ed  arbitro  di  tutta  Italia. E quanto  questa  oppiuione  fusse  falsa, si  vide  per  lo  evento  della  cosa:  perchè, sendo  dopo  una  lunga  zuffa  sufi  supe- rati i Svizzeri,  non  che  le  genti  del  Papa c di  Spagna  presumessero  assaltare  i vincitori,  ma  si  prepararono  alla  fuga  ; la quale  ancora  non  sarebbe  loro  giovata, se  non  fusse  stato  o la  umanità  o la freddezza  del  re,  che  non  cercò  la  seconda vittoria,  ma  gli  bastò  fare  accordo con  la  Chiesa.  Ha  questa  oppinione  certe ragioni  che  discosto  paiono  vere,  ma sono  al  tutto  aliene  dalla  verità.  Perchè, rade  volte  accade  che  M vincitore  perda assai  suoi  soldati:  perchè  de5 vincitori  ne muore  nella  zuffa,  non  nella  fuga  ; e nello ardore  del  combattere,  quando  gli  uo- mini hanno  volto  il  viso  1*  uno  all*  altro, ne  cade  pochi,  massime  perchè  la  dura poco  tempo  il  più  delle  volte;  e quando pur  durasse  assai  tempo,  e de’ vincitori ne  morisse  assai,  è tanta  la  riputazione che  si  tira  dietro  la  vittoria,  ed  il  ter- rore che  la  porta  seco,  che  di  lunga avanza  il  danno  che  per  la  morte  de'suoi soldati  avesse  sopportato.  Talché,  se  uno esercito  il  quale,  in  su  la  oppinione  che e*  fusse  debilitato,  andasse  a trovarlo, si  troverebbe  ingannato;  se  già  non  fusse l’esercito  tale,  che  d’ogni  tempo,  e to- nanti alla  vittoria  e poi,  potesse  com- batterlo. In  questo  caso  e’  potrebbe,  se- condo la  sua  fortuna  e virtù,  vincere e perdere;  ma  quello  clic  si  fusse  az- zuffato prima,  ed  avesse  vinto,  arebbe piuttosto  vantaggio  dall’altro.  11  che  si conosce  certo  per  la  esperienza  de’  Lati- ni e per  la  fallacia  che  Nummo  pretore prese,  e per  il  danno  che  ne  riportorno quelli  popoli  che  gli  crederono:  il  quale, vinto  che  i Romani  ebbero  i Latini,  gri-dava per  tutto  il  paese  di  Lazio,  che allora  era  tempo  assaltare  i Romani  de- bilitati per  la  zuffa  avevano  fatta  con loro;  e che  solo  appresso  i Romani  era rimaso  il  nome  della  vittoria,  ma  tutti gli  altri  danni  avevano  sopportati  come se  fussino  stati  vinti;  c che  ogni  poco di  forza  che  di  nuovo  gli  assaltasse,  era per  spacciargli.  Donde  quelli  popoli  che gli  crederono,  fecero  nuovo  esercito,  e su- bito furono  rotti,  e patirono  quel  danno che  patiranno  sempre  coloro  che  ter- ranno simili  oppinioni. Gap.  XXIIL  — Quanto  i Romani  nel giudicare  i sudditi  per  alcuno  acci- dente che  necessitasse  tal  giudizio j fuggivano  la  via  del  mezzo.
Jam  Laiio  is  status  crai  rerum  * ut ncque  pacem , ncque  bcllum  pati  possnnt. Di  tutti  gli  stati  infelici,  è infelicissimo quello  d’  un  principe  o d’  una  repub- blica clic  è ridotto  in  termine  che  non
può  ricevere  la  pace,  o sostenere  la guerra  : a che  si  riducono  quelli  che sono  dalie  condizioni  della  pace  troppo offesi  ; e dall’  altro  canto,  volendo  far guerra,  convien  loro  o gittarsi  in  preda di  chi  gli  aiuti,  o rimanere  preda  del nimico.  Ed  a tutti  questi  termini,  si viene  per  cattivi  consigli,  e cattivi  pala- titi, da  non  avere  misuralo  bene  le  forze sue,  come  di  sopra  si  disse.  Perchè quella  repubblica  o quei  principe  che bene  le  misurasse,  con  difficultà  si  cou- durrebbe  nel  termine  si  condussono  i Latini:  i quali  quando  non  dovevano accordare  con  i Romani,  accordarono; e quando  non  dovevano  rompere  loro guerra,  la  ruppono:  e così  seppono  fare in  modo,  che  la  inimicizia  ed  amicizia dei  Romani  fu  loro  ugualmente  danno- sa. Erano,  adunque,  vinti  i Latini  ed  al tutto  afflitti,  prima  da  Manlio  Torquato, e dipoi  da  Cammillo:  il  quale  avendogli costretti  a darsi  e rimettersi  nelle  brac- cia de’ Romani,  ed  avendo  messo  la  guar- dia per  tutte  le  terre  di  Lazio,  e preso da  tutte  gli  staticità  ; tornato  in  Roma, riferì  al  Senato  come  tutto  Lazio  era nelle  mani' del  Popolo  romano.  E per- chè questo  giudizio  è notabile,  e ineritad’  essere  osservato,  per  poterlo  imitare
quando  simili  occasioni  sono  date  a’  principi, io  voglio  addurre  le  parole  di  Li- vio poste  in  bocca  di  Cammillo;  le  quali fanno  fede  e del  modo  che  i Romani tennono  in  ampliare,  e come  ne’ giudizi di  Stato  sempre  fuggirono  la  via  del mezzo,  e si  volsono  agli  estremi:  perchè un  governo  non  è altro  che  tenere  in modo  i sudditi,  che  non  ti  possano  o debbano  offendere.  Questo  si  fu  o con assicurarsene  in  tutto,  togliendo  loro ogni  via  da  nuocerti;  o con  beneficargli in  modo,  che  non  sia  ragionevole  ch’egli- no abbino  a desiderare  di  mutar  fortuna. li  che  tutto  si  comprende,  e prima per  la  proposta  di  Cammillo,  c poi  per il  giudizio  dato  dal  Senato  sopra  quella. Le  parole  sue  furono  queste:  Dii  im- mortale s ita  vos  potentcs  hujus  constiti fecerunl,  ut  sit  Lalium,  an  non  sii , in vostra  manu  posuerint.  Jtaque  pacctn vobiSj  quod  ad  Lalinos  allinei,  parare in  perpeluum,  vcl  scevicndo,  vel  ig na- scendo potestis.  Vultis  crudeliter  consti- leve  in  dedilos,  viclosque  ? licei  delere omno  I. aduni.  Vultis,  exemplo  majorum, auqcrc  rem  romanam , viclos  in  civita- lem  accipiendo  ? materia  crescendi  per summam  gloriam  suppeditat.  Certe  id fìrmissimum  imperium  est,  quo  obedien- tes  gaudenl.  Illorum  igitur  anirnos , dum cxpcctatione , slupenl,  seti  pana,  seu benefìcio  prceoccupari  opportet.  A questa proposta  successe  la  deliberazione  del Senato:  la  quale  fu,  secondo  le  parole del  Consolo,  che  recatosi  innanzi,  terra per  terra,  tutti  quelli  eh’  erano  di  mo- mento, o gli  beneficarono  o gli  spenso- no  ; facendo  ai  beneficati  esenzioni,  pri vilegi,  donando  loro  la  città,  e da  ogni parte  assicurandogli  ; di  quelli  altri  dis- fecero le  terre,  mandaronvi  colonie,  ri- dussongli  in  Roma,  dissiparongli  tal- mente che  con  \9  arme  e con  il  consiglio non  potevano  più  nuocere.  Nè  usorno mai  la  via  neutrale  in  quelli,  come  ho detto,  di  momento.  Questo  giudizio  deb- bono i principi  imitare.  A questo  do- vevano accostarsi  i Fiorentini,  quando nel  1502  si  ribellò  Arezzo,  e tutta  la Val  di  Chiana  : il  che  se  avessino  fatto, nrebbero  assicurato  l’ imperio  loro,  e fatta  grandissima  la  città  di  Firenze,  e datogli  quelli  campi  che  per  vivere  gli mancano.  Ma  loro  usarono  quella  via del  mezzo,  la  quale  è perniziosissima nel  giudicare  gli  uomini;  e parte  degli Aretini  ne  confinarono,  parte  ne  con- dennarono;  a tutti  tolsono  gli  onori  e gli  loro  antichi  gradi  nella  città;  e la- sciarono la  città  intera.  E se  alcuno  cit- tadino nelle  deliberazioni  consigliava  che Arezzo  si  disfacesse  ; a quelli  che  pareva esser  più  savi,  dicevano  come  sarebbe poco  onore  della  repubblica  disfarla, perchè  parrebbe  che  Firenze  mancasse di  forze  di  tenerla.  Le  quali  ragioni  sono di  quelle  che  paiono  e non  sono  vere; perchè  con  questa  medesima  ragione  non si  arebbe  ad  ammazzare  uno  parricida, uno  scellerato  e scandaloso,  sendo  vergogna di  quel  principe  mostrare  di  non aver  forze  da  poter  frenare  uno  uomo solo.  E non  veggono  questi  tali  che hanno  simili  oppinioni,  come  gii  uomini particolarmente,  ed  una  città  tutta  in-sieme pecca  talvolta  contra  ad  uno Stato,  che  per  esempio  agli  altri,  per sicurtà  di  sé,  non  ha  altro  rimedio  un principe  che  spengerla.  E l’onore  con-siste nel  sapere  e potere  castigarla  ; non nel  potere  con  mille  pericoli  tenerla: perchè  quel  principe  che  non  castiga  chi erra,  in  modo  che  non  possa  più  errare, è tenuto  o ignorante  o vile.  Questo giudizio  che  i Romani  dettero,  quanto sia  necessario  si  conferma  ancora  per la  sentenza  che  dettero  de’  Privernati.
Dove  si  debbe,  per  ii  testo  di  Livio,  no-tare due  cose:  1’  una,  quello  che  di  so-pra si  dice,  che  i sudditi  si  debbono  o beneficare  o spengere:  Poltra,  quanto la  generosità  dell’  animo,  quanto  il  par- lare il  vero  giovi,  quando  egli  è detto uel  conspetto  degli  uomini  prudenti.  Era ragunato  ii  Senato  romano  per  giudicare de’ Privernati,  i quali  sendosi  ribellati, erano  di  poi  per  forza  ritornati  sotto la  ubbidienza  romana.  Erano  mandati dal  popolo  di  Priverno  molti  cittadini per  impetrare  perdono  dal  Senato;  ed essendo  venuti  al  conspetto  di  quello, fu  detto  ad  un  di  loro  da  un  de’  Sena- tori, quam  pcenam  merilos  Privernales censeret.  Al  quale  Privernate  rispose  : E am  y quam  merentur  qui  se  libevtale dignos  ccnsent.  Al  quale  il  Consolo  re- plicò : Quid  si  pcenam  remiltimus  vobis, qualcm  nos  pacati i vobiscum  habituros speremus  ? A che  quello  rispose:  Si  bo~m tm  dederitis , et  fidelem  et  perpetuarli  ; si  malam , haud  diuturna  m.  Donde  la più  savia  parte  del  Senato,  ancora  che molli  se  n’  alterassino,  disse:  se  audi •visse  vocem  el  liberi  et  viri  ; nec  credi posse  Uhm  popolum , aul  hominem,  de nique  in  ea  condilione  cujus  eum  pestìi -teat,  diutius  quam  nccesse  sii,  mansu rum.  ibi  pacem  esse  fidam , ubi  volun-tarii  pacati  svit , ncque  eo  loco  ubi  scr-vitutem  esse  velini , / idem  sperandovi esse.  Ed  in  su  queste  parole,  deliberorno che  i Privcrnati  fussero  ciltadini  roma- ni, e de’  privilegi  della  civililà  gli  ono- rarono, dicendo  : eos  demum  qui  nihil prceterquam  de  liberiate  cogitant,dignos esse , qui  Romani  fiant.  Tanto  piacque agli  animi  generosi  questa  vera  e ge- nerosa risposta;  perchè  ogni  altra  ri- sposta sarebbe  stata  bugiarda  e vile.  E coloro  che  credono  degli  uomini  altri- menti, massime  di  quelli  che  sono  usi o ad  essere  o a parere  loro  essere  li- beri, se  n’ingannano;  e sotto  queslo inganno  pigliano  partiti  non  buoni  per  sé,  e da  non  satisfare  a loro.  Di  che nascono  le  spesse  ribellioni  e le  rovine degli  Stati.  Ma  per  tornare  al  discorso nostro,  conchiudo,  e per  questo  e per quello  giudizio  dato  dai  Latini:  quando si  ha  a giudicare  cittadi  potenti,  e che sono  use  a vivere  libere,  conviene  o * spegnerle  o carezzarle  ; altrimenti,  ogni giudizio  è vano.  E debbesi  fuggir  al tutto  la  via  del  mezzo,  la  quale  è pcr-niziosn,  come  la  fu  a’  Sanniti  quando avevano  rinchiuso  i Romani  alle  forche Caudine;  quando  non  volleno  seguire  il parere  di  quel  vecchio,  che  consigliò che  i Romani  si  lasciassero  andare  ono-rati, o che  s’  ammazzassero  tutti  ; ma pigliando  una  via  di  mezzo  disarman- dogli c mettendogli  sotto  il  giogo,  gli lasciarono  andare  pieni  d’ ignominia  e di  sdegno.  Talché  poco  dipoi  conobbero con  lor  danno  la  sentenza  di  quel  vec- chio essere  stata  utile,  e la  loro  dili-berazione dannosa;  come  nel  suo  luogo più  appieno  si  discorrerà..  XXIV.  — Le  fortezze  generalmente sono  molto  più  dannose  che  utili.
Parrà  forse  a questi  savi  de*  nostri tempi  cosa  non  bene  considerata,  che  i Romani  nel  volere  assicurarsi  dei  popoli di  Lazio  e della  città  di  Priverno,  non pensassino  di  edificarvi  qualche  fortezza, la  qual  fusse  un  freno  a tenergli  in  fe- de; sendo,  massime,  un  detto  in  Firenze, allegato  da*  nostri  savi,  che  Pisa  e P al- tre simili  città  si  debbono  tenere  con  le fortezze.  E veramente,  se  i Romani  fus- sino  stati  fatti  come  loro,  egli  arebbero pensato  di  edificarle;  ma  perchè  egli erano  d*  altra  virtù,  d’ altro  giudizio, d’  altra  potenza,  e’  non  le  edificarono. E mentre  che  Roma  visse  libera,  e che la  seguì  gli  ordini  suoi  e le  sue  vir- tuose constiluzioni,  mai  n’edificò  per tenere  o città  o provincie;  ma  salvò bene  alcune  delle  edificate.  Donde  ve- duto il  modo  del  procedere  de’ Romani
in  questa  parte,  e quello  eie’  prìncipi de’  nostri  tempi,  mi  pare  da  mettere  in considerazione,  se  gli  è bene  edificare fortezze,  se  le  fanno  danno  o utile  a quello  che  I’  edifica.  Dehbesi,  adunque, considerare  come  le  fortezze  si  fanno  o per  difendersi  da’nimici,  o per  difen- dersi da’  soggetti.  Nel  primo  caso  le non  sono  necessarie;  nel  secondo  dan- nose. E cominciando  a render  ragione perchè  nel  secondo  ^caso  le  siano  dan- nose, dico  che  quel  principe  o quella repubblica  che  ha  paura  de’  suoi  sud- diti e delta  ribellione  loro,  prima  con- viene che  tal  paura  nasca  da  odio  che abbiano  i suoi  sudditi  seco;  l’odio, da’ mali  suoi  portamenti  ; i mali  porta-menti nascono  o da  poter  credere  te-nergli con  forza,  o da  poca  prudenza  di
chi  gli  governa  : ed  una  delle  cose  clic fa  credere  potergli  forzare,  è l’  avere loro  addosso  le  fortezze;  perchè  i mali trattamenti,  clic  sono  cagione  dell’  odio, nascono  in  buona  parte  per  avere  quel principe,  o quella  repubblica,  le  fortez- ze: le  quali,  quando  sia  vero  questo,  di gran  lunga  sono  più  nocive,  che  utili. Perchè  in  prima,  come  è detto,  le  ti fanno  essere  più  audace  e più  violento nei  sudditi;  dipoi,  non  ci  è quella  si- curtà che  tu  ti  persuadi  : perchè  tutte le  forze,  tutte  le  violenze  che  si  usano per  tenere  un  popolo,  sono  nulla  eccetto che  due;  o che  tu  abbia  sempre  da  met- tere in  campagna*  un  buono  esercito, come  avevano  i Romani;  o che  gli  dis- sipi, spenga,  disordini,  disgiunga,  in modo  che  non  possino  convenire  ad  of- fenderti. Perchè  se  tu  gP  impoverisci, spoliatis  arma  supersunt  : se  tu  gli  di- sarmi, furor  arma  ministrai:  se  tu ammazzi  i capi,  e gli  altri  segui  d’ ingiu- riare, rinascono  i capi,  come  quelli  det- P idra:  se  tu  fai  le  fortezze,  le  sono utili  ne’ tempi  di  pace,  perchè  ti  danno più  animo  a far  loro  male;  ma  ne’ tempi di  guerra  sono  inutilissime,  perchè  le  so- no assaltate  dal  nimico  e da’  sudditi,  nè  è possibile  che  le  faccino  resistenza  ed all’uno  ed  all’altro.  E se  inai  furono disutili,  sono  ne’  tempi  nostri  rispetto alle  artiglierie  ; per  il  furore  delle  quali i luoghi  piccoli,  e dove  altri  non  si  possa ritirare  con  li  ripari,  è impossibile  di- fendere, come  di  sopra  discorremmo.  Io voglio  questa  materia  disputarla  più tritamente.  0 tu,  principe,  vuoi  con  que- ste fortezze  tenere  in  freno  il  popolo delia  tua  città;  o tu,  principe,  o tu,  re- pubblica, vuoi  frenare  una  città  occu-pata per  guerra.  Io  ini  voglio  voltare al  principe,  e gli  dico:  che  tal  fortezza per  tenere  in  freno  i suoi  cittadini  non può  essere  più  inutile  di  quello  eh’ ella è,  per  le  cagioni  dette  di  sopra  ; perchè la  ti  fa  più  pronto  c men  rispettivo  ad oppressateli  ; e quella  oppressione  gli fa  si  esposti  alla  tua  roviua,  e gli  ac-cende in  modo,  che  quella  fortezza  che ne  è cagione,  non  ti  può  poi  difendere. Tanto  che  un  principe  savio  e buono, per  mantenersi  buono,  per  non  dare cagione  nè  ardire  a’ figliuoli  di  diven-tare tristi,  mai  non  farà  fortezza,  ac-ciocché quelli  non  in  su  le  fortezze,  ina in  su  la  benivolenza  degli  uomini  si fondino.  E se  il  conte  Francesco  Sforza, diventato  duca  di  Milano,  fu  riputato savio,  e nondimeno  fece  in  Milano  una fortezza  ; dico  che  iti  questo  caso  ei  non fu  savio,  e V effetto  ha  dimostro,  come tal  fortezza  fu  a danno,  e non  a sicurtà de’  suoi  eredi.  Perchè  giudicando  me-diante quella  viver  sicuri,  e potere  of-fendere gli  cittadini  e sudditi  loro,  non perdonarono  ad  alcuna  generazione  di violenza;  talché  diventati  sopra  modo odiosi,  perderono  quello  Stato  come prima  il  nimico  gli  assaltò:  nè  quella fortezza  gli  difese,  nè  fece  loro  nella guerra  utile  alcuno,  e nella  pace  avea loro  fatto  danno  assai.  Perchè  se  non avessiuo  avuto  quella,  e se  per  poca prudenza  avessino  maneggiati  agramente i loro  cittadini,  arebbero  scoperto  il  pe- ricolo più  presto,  e sarebbonsene  riti- rati;  ed  orebbero  poi  potuto  più  ani-mosamente resistere  all’  impeto  franciosoco’  sudditi  amici  senza  fortezza,  die  con quelli  inimici  con  la  fortezza:  le  quali non  ti  giovano  in  alcuna  parte;  perchè, o le  si  perdono  per  frali  de  di  chi  le guarda,  o per  violenza  di  chi  I’  assalta, o per  fame.  E se  tu  vuoi  che  le  ti  gio- vino, e ti  aiutino  a ricuperare  uno  Stato perduto,  dove  ti  sia  solo  rimaso  la  for- tezza ; ti  conviene  avere  uno  esercito,  con il  quale  tu  possa  assaltare  colui  che t’ha  cacciato:  e quando  tu  abbia  questo esercito,  tu  riavesti  lo  Stato  in  ogni  mo- do, eziandio  che  la  fortezza  non  \i  fusse  ; c tanto  più  facilmente,  quanto  gli  uomini ti  fussiuo  più  amici  che  non  ti  erano avendogli  mal  trattati  per  l’orgoglio della  fortezza.  E per  isperienzn  s’  è vi- sto, come  questa  fortezza  di  Milano,  nè agli  Sforzeschi  nè  a’  Franciosi,  ne’ tempi avversi  dell’  uno  e dell’  altro,  non  ha fatto  a alcunb  di  loro  utile  alcuno;  anzi a tutti  ha  recato  danni  e rovine  assai. non  avendo  pensato  mediante  quella  a più  onesto  modo  di  tenere  quello  Stato. Guido  Ubaldo  duca  di  Urbiuo,  figliuolo di  Federigo,  che  fu  ne’  suoi  tempi  tanto stimato  capitano,  sendo  cacciato  da  Ce* sarc  Borgia,  figliuolo  di  papa  Alessan- dro VI,  dello  stato;  come  dipoi,  per  uno accidente  nato,  vi  ritornò,  fece  rovinare tutte  le  fortezze  clic  erano  in  quella  pro- vincia, giudicandole  dannose.  Perchè, sendo  quello  amato  dagli  uomini,  per rispetto  di  loro  non  le  voleva  ; e per conto  de’  nimici,  vedeva  non  le  poter  di- fendere, avendo  quelle  bisogno  d’  uno esercito  in  campagna,  che  le  difendesse; talché  si  volse  a rovinarle.  Papa  Iulio, cacciati  i Bentivogli  di  Bologna,  fece  in quella  città  una  fortezza  ; e dipoi  faceva assassinare  quel  popolo  da  un  suo  go- vernatore : talché  quel  popolo  si  ribellò, e subito  perde  la  fortezza  ; e cosi  non gli  giovò  la  fortezza  e 1*  offese,  intanto clic  portandosi  altrimenti,  gli  arebbe giovato.  Niccolò  da  Castello,  padre  de’  Yi teili,  tornato  nella  sua  patria  donile  era esule,  subito  disfece  due  fortezze  vi aveva  edificale  papa  Sisto  IV,  giudican- do, non  la  fortezza,  ma  la  benivolenza del  popolo  l’avesse  a tenere  in  quello stato.  Ma  di  tutti  gli  altri  essempi  il più  fresco,  il  più  notabile  in  ogni  parte, ed  atto  a mostrare  la  inutilità  dello  edi- ficarle e 1’  utilità  del  disfarle,  è quello di  Genova,  seguito  ne’  prossimi  tempi. Ciascuno  sa  come,  nel  1507,  Genova  si ribellò  da  Luigi  XII  re  di  Francia,  il quale  venne  personalmente  e con  tutte le  forze  sue  a racquietarla  ; e ricuperata che  1’  ebbe,  fece  una  fortezza,  fortissima di  tutte  l’ altre  delle  quali  al  presente si  avesse  notizia:  perchè  era  per  silo  e per  ogni  altra  circonstanza  inespugna-) bile,  posta  in  su  una  punta  di  colle  che si  distende  nel  mare,  chiamato  dai  Ge- novesi Codefa  ; e per  questo  batteva  tutto il  porto,  e gran  parte  della  terra  di  Ge- nova. Occorse  poi,  nel  1512,  che  sendo cacciate  le  genti  franciose  d’ Italia,.  Gc- novo,  nonostante  la  fortezza,  si  ribellò; e prese  lo  stalo  di  quella  Ottaviano  Fre-  *goso,  il  quale  con  ogni  industria,  in termine  di  sedici  mesi,  per  fame  la espugnò.  E ciascuno  credeva  e da  molti» n*  era  consigliato,  che  la  conservasse  per suo  rifugio  in  ogni  accidente:  ma  esso, come  prudentissimo,  conoscendo  che  non le  fortezze,  ma  la  volontà  degli  uomini mantenevano  i principi  in  stato,  la  ro-vinò. E cosi,  senza  fondare  lo  stato  suo in  su  la  fortezza,  ma  in  su  la  virtù  e prudenza  sua,  lo  ha  tenuto  e tiene.  E dove  a variare  lo  stato  di  Genova  sole- vano bastare  mille  fanti,  gli  avversari suoi  l’ hanno  assaltato  con  diecimila,  e non  T hanno  potuto  offendere.  Vedesi adunque  per  questo,  come  il  disfare  la fortezza  non  ha  offeso  Ottaviano,  ed  il farla  non  difese  il  re  di  Francia.  Per- chè, quando  e’  potette  venire  in  Italia con  l’  esercito,  e’  potette  ricuperare  Ge- nova, non  vi  avendo  fortezza;  ma  quando e’  non  potette  venire  in  Italia  con  l’cser-cito,  e*  non  potette  tenere  Genova,  aven-dovi la  fortezza.  Fu,  adunque,  di  spesa al  re  di  farla,  e vergognoso  il  perderla; a Ottaviano  glorioso  il  racquistarla,  ed utile  il  rovinarla.  Ma  vegnamo  alle  re- pubbliche che  fanno  le  fortezze  noli nella  patria,  ma  nelle  terre  che  le  acqui- stano. Ed  a mostrare  questa  fallacia, quando  e’  non  bastasse  V essempio  detto di  Francia  e di  Genova,  voglio  mi  basti Firenze  e Pisa  : dove  i Fiorentini  fecero le  fortezze  per  tenere  quella  città  ; e non conobbero  che  una  città  stata  sempre inimica  del  nome  fiorentino,  vissuta  li- bera, e che  ha  alla  ribellione  per  rifu- gio la  libertà,  era  necessario,  volendola tenere,  osservare  il  modo  romano;  o farsela  compagna,  o disfarla.  Perchè  la virtù  delle  fortezze  si  vidde  nella  venula del  re  Carlo;  al  quale  si  dettono  o per poca  fede  di  chi  le  guardava,  o per  ti- more di  maggior  male:  dove,  se  le  non fussino  state,  i Fiorentini  non  arcbbero fondato  11  potere  tenere  Pisa  sopra  quelle,  e quel  re  non  arebbe  potuto  per quella  via  privare  i Fiorentini  di  quella città;  e gli  modi  con  li  quali  si  fussi mantenuta  fino  a quel  tempo,  sarebbero stati  per  avventura  sufficienti  a conser- varla, e senza  dubbio  non  arebbero  fatto più  cattiva  pruova  che  le  fortezze.  Con- chiudo dunque,  che  per  tenere  la  patria propria,  la  fortezza  è dannosa  ; per  te- nere le  terre  che  si  acquistano,  le  for- tezze sono  inutili:  e voglio  mi  basti I’  autorità  de’  Romani,  i quali  nelle  terre che  volevano  tenere  con  violenza,  smu- ravano, e non  muravano.  E chi  contra questa  oppinione  n’allegassi  negli  anti- chi tempi  Taranto,  e ne’  moderni  Bre- scia, i quali  luoghi  mediante  le  fortezze furono  ricuperati  dalla  ribellione  dei sudditi  ; rispondo  che  alla  ricuperazione di  Taranto,  in  capo  d’ uno  anno,  fu mandato  Fabio  Massimo  con  tutto  lo esercito,  il  quale  sarebbe  stato  alto  a ricuperarlo  eziandio  se  non  vi  fusse stata  la  fortezza;  e se  Fabio  usò  quella via,  quando  la  non  vi  fusse  stata  dareb- be usata  un’altra,  che  arebbe  fatto  il medesimo  effetto.  Ed  io  non  so  di  che utilità  sia  una  fortezza  che,  a renderti la  terra,  abbia  bisogno,  per  la  ricupe-razione d’  essa  d*  uno  esercito  consolare, e d’  un  Fabio  Massimo  per  capitano.  E che  i Romani  1*  avessino  ripresa  in  ogni modo,  si  vide  per  V essempio  di  Capova  ; dove  non  era  fortezza,  e per  virtù  dello
esercito  la  riacquistarono.  Ma  vegliamo  a Brescia.  Dico,  come  rade  volte  occorre quello  che  è occorso  in  quella  ribellione, clic  la  fortezza  che  rimane  nelle  forze tue,  sendo  ribellata  la  terra,  abbia  uno esercito  grosso  e propinquo,  coiti’  era quel  de’  Franciosi  : perchè,  essendo  mon- signor di  Fois,  capitano  del  re,  con l’esercito  a Bologna,  intesa  la  perdita di  Brescia,  senza  differire  ne  andò  a quella  volta,  ed  in  tre  giorni  arrivato a Brescia,  per  la  fortezza  riebbe  la terra.  Ebbe,  pertanto,  ancora  la  fortezza di  Brescia,  a volere  clic  la  giovasse,  bi-sogno  d’ un  monsignor  di  Fois,  c d’  un esercito  francioso  che  in  tre  dì  la  soc- corresse. Sì  clic  F esscmpio  di  questo, all’  incontro  degli  essempi  contrari,  non basta  ; perchè  assai  fortezze  sono  state, nelle  guerre  de’  nostri  tempi,  prese  e riprese  con  la  mcdesimu  fortuna  che  si è ripresa  e presa  la  campagna,  non  so- lamente in  Lombardia,  ma  in  Romagna, nel  regno  di  Napoli,  c per  tutte  le  parti d’ Italia.  Ma,  quanto  allo  edificar  for- tezze per  difendersi  da’  n inaici  di  fuora, dico  che  le  non  sono  necessarie  a quelli popoli  nè  a quelli  regni  che  hanno  buoni eserciti;  ed  a quelli  che  non  hanno  buoni eserciti,  sono  inutili:  perchè  i buoni eserciti  senza  le  fortezze  sono  sufficienti a difendersi  ; le  fortezze  senza  i buoni eserciti  non  ti  possono  difendere.  E que-sto si  vede  per  isperienza  di  quelli  che sono  stati  e nei  governi  e nell*  altre cose  tenuti  eccellenti;  comesi  vede  dei Romani  e degli  Spartani:  che  se  i Ro- mani non  edificavano  fortezze,  gli  Spar-tani  non  solamente  si  astenevano  da quelle,  ma  non  permettevano  d’ aver mura  alla  loro  città;  perchè  volevano che  la  virtù  dell*  uomo  particolare,  non .altro  difensivo,  gli  difendesse.  Dondechè, essendo  domandato  uno  Spartano  da uno  Ateniese,  se  le  mura  d’  Atene  gli parevano  belle,  gli  rispose:  Si,  se  le fussino  abitate  da  donne.  Quel  principe, adunque,  che  abbi  buoni  eserciti,  quan- do in  sulle  marine  alla  fronte  dello Stato  suo  abbia  qualche  fortezza  che possa  qualche  dì  sostenere  lo  inimico infino  che  sia  a ordine,  sarebbe  qualche volta  cosa  utile,  ma  la  non  è necessaria. Ma  quando  il  principe  non  ha  buono esercito,  avere  le  fortezze  per  il  suo Stato  o alle  frontiere,  gli  sono  o dan- nose o inutili  : dannose,  perchè  facil- mente le  perde,  e perdute  gli  fanno guerra  ; o se  pur  le  fussino  sì  forti  che  M nimico  non  le  potesse  occupare,  sono lasciate  indietro  dallo  esercito  nimico,  evennono  ad  essere  di  nessuno  frutto:
perchè  i buoni  eserciti,  quando  non  hanno gagliardissimo  riscontro,  entrano  neipaesi  nitnici  senza  rispetto  di  città  o di fortezza  che  si  lascino  indietro;  come si  vede  nell*  antiche  istorie,  e come  si vede  fece  Francesco  Maria,  il  quale ne’ prossimi  tempi  per  assaltare  Urbino si  lasciò  indietro  dieci  città  ni  miche, senza  alcuno  rispetto.  Quel  principe, adunque,  che  può  fare  buono  esercito, può  fare  senza  edificare  fortezza;  quello che  non  ha  V esercito  buono,  non  debbe edificare.  Debbe  bene  afforzare  la  città dove  abita,  e tenerla  munita,  e ben  di- sposti i cittadini  di  quella,  per  poter sostenere  tanto  un  impelo  nimico,  o che accordo,  o che  aiuto  esterno  lo  liberi. Tutti  gli  altri  disegni  sono  di  spesa ne’  tempi  di  pace,  ed  inutili  ne’  tempi di  guerra.  E così,  chi  considererà  tutto quello  ho  detto,  conoscerà  i Romani, come  savi  in  ogni  altro  loro  ordine, cosi  furono  prudenti  in  questo  giudizio dei  Latini  e de’  Privernati  ; dove,  non pensando  a fortezze,  con  più  virtuosi modi  e più  savi  se  ne  assicurarono. Gap.  XXV.  — Che  lo  assaltare  una  città disunita,  per  occuparla  mediante  la sua  disunione,  è partito  contrario. Era  tanta  disunione  nella  Repubblica romana  intra  la  Plebe  e la  Nobiltà,  clic i Veienti  insieme  con  gli  Etrusci,  me- diante tale  disunione,  pensarono  potere estinguere  il  nome  romano.  Ed  avendo fatto  esercito,  e corso  sopra  i campi  di Roma,  mandò  il  Senato  loro  contra  Gii. Manlio  e 2M.  Fabio;  i quali  avendo  con- dotto il  loro  esercito  propinquo  allo  eser- cito de’ Veienti,  non  cessavano  i Veien- ti, e con  assalti  e con  obbrobri,  offendere e vituperare  il  nome  romano:  e fu  tanta la  loro  temerità  ed  insolenza,  che  i Ro- mani di  disuniti  diventarono  uniti;  e venendo  alla  zuffa,  gli  ruppono  e vin- sono.  Vedesi  pertanto,  quanto  gli  uomini s’ ingannano,  come  di  sopra  discorrem-  mo,  nel  pigliare  de’  parliti;  c come  molte volte  credono  guadagnare  una  cosa,  e la  perdono.  Credeltono  i Veienti  assal- tando i Romani  disuniti,  vincergli;  c quello  assalto  fu  cagione  della  unione di  quelli,  e della  rovina  loro.  Perchè  la cagione  della  disunione  delle  repubbli- che il  più  delle  volte  è P ozio  e la  pace; la  cagione  della  unione  è la  paura  e la guerra.  E però,  se  i Veienti  fussiuo  stati savi,  eglino  arebbono,  quanto  più  disu- nita vedevano  Roma,  tanto  più  tenuta da  loro  la  guerra  discosto,  e con  Parti della  pace  cerco  d’oppressargli.  Il  modo  è cercare  di  diventare  confidente  di  quella città  ciré  disunita;  ed  infino  che  non vengono  alP  arme,  come  arbitro,  maneg- giarsi intra  le  parli.  Venendo  alParme, dare  lenti  favori  alla  parte  più  debole; si  per  tenergli  più  in  su  la  guerra,  e fargli  consumare;  si  perchè  le  assai forze  non  gli  facessero  tutti  dubitare  che tu  volessi  opprimergli,  e diventar  loro principe.  E quando  questa  parte  è go-vernata  bene,  interverrà  quasi  sempre che  Y ara  quel  fine  che  tu  hai  presup- posto. La  città  di  Pistoia,  come  in  altro discorso  e ad  altro  proposito  dissi, non  venne  alla  Repubblica  di  Firenze con  altra  arte  che  con  questa;  perchè, sendo  quella  divisa,  c favorendo  i Fio- rentini or  Furia  parte  or  l’altra, senza carico  dell’  una  e dell’  altra,  la  condus- sono  in  termine,  che,  stracca  di  quel suo  vivere  tumultuoso,  venne  sponta- neamente a gittarsi  nelle  braccia  di  Fi- renze. La  città  di  Siena  non  ha  mai  mu- tato stato  col  favore  de’ Fiorentini,' se non  quando  i favori  sono  stati  deboli  e pochi.  Perchè,  quando  e’ sono  stali  assai e gagliardi,  hanno  fatto  quella  città  unita alla  difesa  di  quello  stato  che  regge.  Io voglio  aggiungere  ai  soprascritti  un  al- tro essempio.  Filippo  Visconti,  duca  di Milano,  più  volte  mosse  guerra  ai  Fio- rentini, fondatosi  sopra  le  disunioni  loro, e sempre  ne  rimase  perdente;  talché gli  ebbe  a dire,  dolendosi  delle  sue  imprese,  come  le  pazzie  de’ Fiorentini  gli avevano  fatto  spendere  inutilmente  due milioni  d’  oro.  Restarono,  adunque,  co- me di  sopra  si  dice,  ingannati  i Veienli e gli  Toscani  da  questa  oppinione,  e fu- rono alfine  in  una  giornata  superati  dai Romani.  IT  così  per  Io  avvenire  ne  re- sterà ingannato  qualunque  per  simile via  e per  simile  cagione  crederà  oppres- sore un  popolo. Cai».  XXVI.  — Il  vilipendio  e V impro-perio genera  odio  conira  a coloro  che r usano j senza  alcuna  loro  utilità. lo  eredo  che  sta  una  delle  grandi  pru-denze che  usino  gli  uomini,  astenersi  o dal  minacciare,  o dallo  ingiuriare  alcuno con  le  parole:  perchè  1’  una  cosa  e l’al- tra non  tolgono  forze  al  nimico;  ma l’una  lo  fa  più  cauto;  l’altra  gli  fa avere  maggiore  odio  contra  di  te,  e pensare  con  maggiore  industria  di  of-fenderti. Yedesi  questo  per  lo  essempio de*  Veienti,  de’ quali  nel  capitolo  supe-riore si  è discorso;  i quali  alla  ingiu-ria della  guerra  aggiunsono,  contra  ai Romani,  l’obbrobrio  delle  parole:  dal quale  ogni  capitano  prudente  debbe  fare astenere  i suoi  soldati  ; perchè  le  son cose  che  infiammano  ed  accendono  il nimico  alla  vendetta,  ed  in  uessuna  parte lo  impediscono,  come  è detto,  alla  offesa; tanto  che  le  sono  tutte  arme  che  ven- gono contra  a te.  Di  che  ne  seguì  già uno  essempio  notabile  in  Asia:  dove Gabade,  capitano  de’ Persi,  essendo  stato a campo  ad  Amida  più  tempo,  ed  avendo diliberato,  stracco  dal  tedio  della  ossi- dione,  partirsi;  levandosi  già  col  campo, quelli  della  terra  venuti  tutti  in  su  le mura,  insuperbiti  della  vittoria,  non perdonarono  a nessuna  qualità  d’ ingiu- ria, vituperando,  accusando,  rimprove-rando la  viltà  e la  poltroneria  del  ni-mico. Da  che  Gabade  irritato,  mutò consiglio;  e ritornato  alla  ossidione,  tan-ta fu  la  indegnazione  della  ingiuria,  che in  pochi  giorni  gli  prese  e saccheggiò. E questo  medesimo  intervenne  a’Veienti: a’  quali,  coni’  è detto,  non  bastando  il far  guerra  a’  Romani,  ancora  con  le  pa- role gli  vituperarono;  ed  andando  in- iìno  in  su  lo  steccato  del  campo  a dir loro  ingiuria,  gl’ irritarono  molto  più con  le  parole  che  con  P arme  : e quelli soldati  che  prima  combattevano  mal  vo- lentieri, costrinsero  i Consoli  ad  appic- care la  zuffa;  talché  i Veienti  portarono la  pena,  come  gli  antedetti,  della  con-tumacia loro.  Hanno  adunque  i buoni principi  di  esercito,  ed  i buoni  governa-tori di  repubblica,  a far  ogni  opportuno
l imedio,  che  queste  ingiurie  e rimproveri non  si  usino  o nella  città  o nello  eser- cito suo,  nè  infra  loro,  nè  contra  il  ni-mico: perchè  usati  contra  al  nimico,  ne nascono  gli  inconvenienti  soprascritti; infra  loro,  farebbono  peggio  non  vi  si riparando,  come  vi  hanno  sempre  gli uomini  prudenti  riparato.  Avendo  le  le-gioni romane  state  lasciate  a Capova congiurato  conil  a a’ Capovani,  come  nel
suo  luogo  si  narrerà;  ed  essendone  di questa  congiura  nata  sedizione,  la  quale fu  poi  da  Valerio  Corvino  quietata  ; in- tra all*  altre  conslituzioni  che  nella  con- venzione si  fecero,  ordinarono  pene  gra-vissime a coloro  che  improverassino  mai ad  alcun  di  quelli  soldati  tale  sedizione. Tiberio  Gracco,  fatto  nella  guerra  di  An- nibaie capitano  sopra  certo  numero  di servi  che  i Romani,  per  carestia  d’uo- mini, avevano  armati,  ordinò,  intra  le prime  cose,  pena  capitale  a qualunque rimproverasse  la  servitù  di  alcuno  di loro.  Tanto  fu  stimato  dai  Romani,  co- me di  sopra  s’è  detto,  cosa  dannosa  il vilipendere  gli  uomini,  ed  il  rimprove- rare loro  alcuna  vergogna;  perchè  non è cosa  che  accenda  tanto  gli  animi  loro, nè  generi  maggiore  sdegno,  o da  vero o da  beffe  che  si  dica  : ISam  facetice aspcrcCj  quando  nimium  ex  vero  traxe rc,  acretn  sui  memorianx  relinquunt. Cap.  XXVII.  — Ai  principi  e repubbli-che prudenti  debbe  bastare  vincere;perchè  il  più  delle  volle j quando  non basti j si  perde. Lo  usare  parole  contra  al  nimico  pocoonorevoli,  nasce  il  più  delle  volte  dauna  insolenza  che  ti  dà  o la  vittoria  ola  falsa  speranza  della  vittoria;  la  qualefalsa  speranza  fa  gli  uomini ‘non  sola-mente errare  nel  dire,  ma  ancora  nellooperare.  Perchè  questa  speranza,  quandola  entra  ne’  petti  degli  uomini,  fa  loropassare  il  segno,  e perdere  il  più  dellevolte  quella  occasione  d’  avere  un  benecerto,  sperando  d’  avere  un  meglio  in-certo. E perchè  questo  è un  terminedie  merita  considerazione,  ingannando-cisi  dentro  gli  uomini  molto  spesso,  econ  danno  dello  stato  loro;  e’ mi  pareda  dimostrarlo  particolarmente  con  es-sempi  antichi  e moderni,  non  si  potendocon  le  ragioni  così  distintamente  dimo-Digitized  by  Googlestrare.  Annibaie,  poi  ch’egli  ebbe  rottii Romani  a Canne,  mandò  suoi  oratoria Cartagine  a significare  la  vittoria,  echiedere  sussidi.  Disputossi  nel  senatodi  quello  s’ avesse  a fare.  ConsigliavaAnnone,  un  vecchio  e prudente  cittadinocartaginese,  che  si  usasse  questa  vitto-ria saviamente  in  far  pace  coi  Romani,potendola  avere  con  condizioni  onesteavendo  vinto;  e non  s’aspettasse  d’averlaa fare  dopo  la  perdita:  perchè  la  in-tenzione de’  Cartaginesi  doveva  essere,mostrare  ai  Romani  come  e’ bastavan
a combattergli  ; ed  avendosene  avutovittoria,  non  si  cercasse  di  perderla  perla  speranza  d’ una  maggiore.  Non  fupreso  questo  partito;  ma  fu  bene  poidal  senato  cartaginese  conosciuto  savio,quando  1’  occasione  fu  perduta.  AvendoAlessandro  Magno  già  preso  tutto  l’orien-te, la  repubblica  di  Tiro,  nobile  in  quellitempi  e potente  per  avere  la  loro  cittàin  acqua  come  i Veniziani,  veduta  lagrandezza  d’  Alessandro,  gli  mandaronooratori  a dirgli,  come  volevano  esseresuoi  buoni  servitori  e dargli  quella  ub-bidienza voleva,  ma  che  non  erano  giàper  accettare  nè  lui  nè  le  sue  genti  nellaterra  : donde  sdegnato  Alessandro  cheuna  città  gli  volesse  chiudere  quelleporte  che  tutto  il  mondo  gli  aveva  aper-te, gli  ributtò,  e non  accettate  le  condi-zioni loro,  vi  mandò  a campo.  Era  laterra  in  acqua,  e benissimo  di  vettova-glie e d’  altre  munizioni  necessarie  alladifesa  munita:  tanto  che  Alessandro  do-po quattro  mesi  s*  avvide,  che  una  cittàgli  toglieva  quel  tempo  alla  sua  gloriache  non  gli  avevano  tolti  molti  altriacquisti  ; e diliberò  di  tentare  1*  accordo,e concedere  loro  quello  che  per  loromedesimi  avevano  domandato.  Ma  quellidi  Tiro  insuperbiti,  non  solamente  nonvolsero  accettare  l*  accordo,  ina  ammaz-zorono  chi  venne  a praticarlo.  Di  cheAlessandro  sdegnato,  con  tanta  forza  simise  alla  espugnazione,  che  la  prese  edisfece,  ed  ammazzò  e fece  schiavi  gliuomini.  Venne,  nel  4512,  uno  esercitospagnuolo  in  su  'I  dominio  fiorentinoper  rimettere  i Medici  in  Firenze,  e ta-glieggiare la  città,  condotti  da’ cittadinid’ entro,  i quali  avevano  dato  loro  spranza, che  subito  fussero  in  su  ’1  domi-nio fiorentino,  piglierebbono  V arme  inloro  favore;  ed  essendo  entrati  nel  piano,e non  si  scoprendo  alcuno,  ed  avendocarestia  di  vettovaglie,  tentarono  V ac-cordo: di  che  insuperbito  il  popolo  dFirenze,  non  lo  accettò-;  donde  ne  nacquela  perdita  di  Prato,  e la  rovina  di  quelloStato.  Non  possono,  pertanto,  i principiche  sono  assaltati  far  il  maggiore  errore,quando  1*  assalto  è fatto  da  uomini  digran  lunga  più  potenti  di  loro,  che  ri-cusare ogni  accordo,  massime  quandogli  è offerto:  perchè  non  sarà  mai  of-ferto si  basso,  che  non  vi  sia  dentro  inqualche  parte  il  bene  essere  di  coluiche  io  accetta,  e vi  sarà  parte  della  suavittori?.  Perchè  e’  doveva  bastare  al  po-polo di  Tiro,  clic  Alessandro  accettasse  quelle  condizioni  che  egli  aveva  prima rifiutate;  ed  era  assai  vittoria  la  loro, quando  con  Y armi  in  mano  avevano fatto  condiscendere  un  tanto  uomo  alla voglia  loro.  Doveva  bastare  ancora  al popolo  fiorentino,  e gli  era  assai  vittoria, se  lo  esercito  spagnuolo  cedeva  a qual- cuna delle  voglie  di  quello,  e le  sue  non adempieva  tutte:  perchè  la  intenzione di  quello  esercito  era  mutare  lo  stato in  Firenze,  e levarlo  dalla  devozione  di Francia,  e trarre  da  lui  danari.  Quando di  tre  cose  e’  ne  avesse  avute  due,  che son  1’ ultime;  ed  al  popolo  ne  fusse  re* stata  una,  che  era  la  conservazione  dello stato  suo;  ci  aveva  dentro  ciascuno  qual- che onore  e qualche  satisfazione,  nè  si doveva  il  popolo  curare  delle  due  cose, rimanendo  vivo  ; nè  doveva,  quando  bene egli  avesse  veduta  maggiore  vittoria,  e quasi  certa,  voler  mettere  quella  in  al- cuna parte  a discrezione  della  fortuna, andandone  Y ultima  posta  sua:  la  quale qualunque  prudente  mai  arrischierà  se non  necessitato.  Annibaie  partito  iT  Ita-lia, dove  era  stato  sedici  anni  glorioso, richiamato  da’  suoi  Cartaginesi  a soc- correre la  patria,  trovò  rotto  Asdrubale e Siface;  trovò  perduto  il  regno  di  Nu- midia; ristretta  Cartagine  intra  i termini delle  sue  mura,  alla  quale  non  restava altro  rifugio,  che  esso  e T esercito  suo  : e conoscendo  come  quella  era  1’  ultima posta  della  sua  patria,  non  volle  prima metterla  a rischio,  di’  egli  ebbe  ten- tato ogni  altro  rimedio;  e non  si  ver- gognò di  domandare  la  pace,  giudicando se  alcuno  rimedio  aveva  la  sua  patria, era  in  quella,  e non  nella  guerra:  quale sendogli  poi  negata,  non  volle  mancare, dovendo  perdere,  di  combattere;  giudi- cando potere  pur  vincere  ; o perdendo, perdere  gloriosamente.  E se  Annibaie, il  quale  era  tanto  virtuoso  ed  aveva  il suo  esercito  intero,  cercò  prima  la  pace che  la  zuffa,  quando  ci  vide  che  per- dendo quella,  la  sua  patria  diveniva  ser-va ; che  debbe  fare  un  altro  di  manco virtù  e di  manco  isperienza  di  lui?  Ma gli  uomini  fanno  questo  errore:  che  non sanno  porre  termini  alle  speranze  loro, ed  in  su  quelle  fondandosi,  senza  mi*surarsi  altrimenti,  rovinano.Cap.  XXVIII.  — Quanto  sia  pericoloso
ad  una  repubblica  o ad  uno  principe non  vendicare  una  ingiuria  falla  con-tro al  pubblico  o conira  al  privalo. Quello  che  facciano  fare  agli  uomini gli  sdegni,  facilmente  si  conosce  per quello  che  avvenne  ai  Romani,  quando e’  mandarono  i tre  Fabi  oratori  ai  Fran- ciosi, che  erano  venuti  ad  assaltare  la Toscana,  ed  in  particolare  Chiusi.  Per- chè, avendo  mandato  il  popolo  di  Chiusi per  aiuto  a Roma,  i Romani  mandarono ambasciatori  a’  Franciosi,  che  in  nome del  Popolo  romano  significassero  a quelli, si  astenessino  di  far  guerra  ai  Toscani. I quali  oratori,  sendo  in  su  M luogo,  e più  atti  a fare  che  a dire,  venendo  i Franciosi  c i Toscani  alla  zuffa,  si  mi- sero intra  i primi  a combattere  contra a quelli  : onde  ne  nacque  che  essendo conosciuti  da  loro,  tutto  lo  sdegno  che avevano  contra  a’  Toscani,  volsero  con- tea ai  Romani.  11  quale  sdegno  diventò maggiore,  perchè,  avendo  i Franciosi per  loro  ambasciadori  fatto  querela  con il  Senato  romano  di  tale  ingiuria,  e do- mandato che  in  satisfazione  del  danno fussino  dati  loro  i soprascritti  Fabi; non  solamente  non  furono  consegnati loro,  o in  altro  modo  castigati;  ma  ve- nendo i comizi,  furono  fatti  Tribuni  con potestà  eousolare.  Talché,  veggendo  i Franciosi  quelli  onorati  che  dovevano esser  puniti,  ripresono  tutto  esser  fatto in  loro  dispregio  ed  ignominia;  ed  ac- cesi d’  ira  e di  sdegno,  vennero  ad  as- saltare Roma,  e quella  presero,  eccetto il  Campidoglio.  La  quale  rovina  nacque a*  Romani  solo  per  la  inosservanza  della
giustizia;  perchè  avendo  peccato  i loro ambasciatori  conira  jus  gcntiunij  e do-
vendo  esser  gastigati,  furono  onorati. Però  è da  considerare  quanto  ogni  re- pubblica ed  ogni  principe  debbe  tenere conto  di  fare  simile  ingiuria,  non  sola- mente contra  ad  una  universalità,  ma ancora  contra  ad  uno  particolare.  Per- chè, se  uno  uomo  è offeso  grandemente o dal  pubblico  o dal  privato,  e non  sia
vendicato  secondo  la  satisfazione  sua; se  e’  vive  in  una  repubblica,  cerca  an- cora con  la  rovina  di  quella  vendicarsi  ; se  e’  vive  sotto  un  principe,  ed  abbia in  sè  alcuna  generosità,  non  si  acquieta mai,  in  fino  che  in  qualunque  modo  si vendichi  contra  di  lui,  ancora  che  egli vi  vedesse  dentro  il  suo  proprio  male. Per  verificare  questo,  non  ci  è il  più bello  nè  il  più  vero  essemrpio  che  quello di  Filippo  di  Macedonia,  padre  di  Ales- sandro. Aveva  costui  in  la  sua  corte Pausania,  giovine  bello  e nobile,  del quale  era  innamorato  Aitalo;  uno  de' pri- mi uomini  che  fusse  presso  a Filippo; cd  a\endolo  più  volte  ricerco  che  dovesse  consentirgli,  e trovandolo  alieno  da  si- mili cose,  deliberò  di  avere  con  inganno e per  forza  quello  che  per  altro  verso vedeva  non  potere  avere.  E fatto  un  so- lenne convito,  nel  quale  Pausania  e molti altri  nobili  baroni  convennero,  fece,  poi- ché ciascuno  fu  pieno  di  vivande  e di vino,  prendere  Pausania  ; e condottolo allo  stretto,  non  solamente  per  forza sfogò  la  sua  libidine,  ma  ancora,  per maggiore  ignominia,  lo  fece  da  molti degli  altri  in  simile  modo  vituperare. Della  quale  ingiuria  Pausania  si  dolse più  volte  con  Filippo  ; il  quale,  avendolo tenuto  un  tempo  in  speranza  di  vendi- carlo, non  solamente  non  lo  vendicò, ma  prepose  Attalo  al  governo  d’ una provincia  di  Grecia.  Donde  Pausania, vedendo  il  suo  nimico  onorato  e non gastigato,  volse  tutto  lo  sdegno  suo  non contra  a quello  che  gli  aveva  fatto  in-giuria, ma  conira  a Filippo  che  non P aveva  vendicato:  ed  una  mattina  so- lenne, in  su  le  nozze  della  figliuola  di Filippo  maritata  ad  Alessandro  di  Epiro, andando  Filippo  al  tempio  a celebrarle, in  mezzo  di  due  Alessandri,  genero  e figliuolo,  l’ammazzò.  Il  quale  essempio è molto  simile  a quello  de’  Romani,  no- tabile a qualunque  governa:  che  mai non  debba  tanto  poco  stimare  un  uomo, che  e’  creda,  aggiungendo  ingiuria  sopra ingiuria,  che  colui  che  è ingiuriato  non pensi  di  vendicarsi  con  ogni  .suo  peri-colo e particolar  danno. Cap.  XXIX.  — La  fortuna  accieca  gli animi  degli  uominij  quando  la  non imolc  che  quelli  si  opponghino  a*  di-segni suoi. Se  e’  si  considerrà  bene  come  proce-dono le  cose  umane,  si  vedrà  molte  volte nascere  cose  e venire  accidenti  a’ quali i cieli  al  tutto  non  hanno  voluto  che  si provvegga.  E quando  questo  eh’  io  dico intervenne  a Roma,  «love  era  tanta  virtù, tanta  religione  e tanto  ordine;  non  è meraviglia  che  gli  intervenga  molto  più spesso  in  una  città  o in  una  provincia che  manchi  delle  cose  sopradette.  E per-chè questo  luogo  è notabile  assai  a di-mostrare la  potenza  del  cielo  sopra  le cose  umane,  Tito  Livio  largamente  e con  parole  efficacissime  lo  dimostra  ; di-cendo come,  volendo  il  cielo  a qualche fine,  che  i Romani  conoscessono  la  po-tenza sua,  fece  prima  errare  quelli  Fa-bi  che  andarono  oratori  a’  Franciosi, e mediante  F opera  loro  gli  concitò  a far  guerra  a Roma:  dipoi  ordinò,  che per  reprimere  quella  guerra  non  si  fa-cesse in  Roma  cosa  alcuna  degna  del Popolo  romano;  avendo  prima  ordinato che  Camillo,  il  quale  poteva  essere  solo unico  rimedio  a tanto  male,  fusse  man- dato in  esilio  ad  Ardea:  dipoi  venendo i Franciosi  verso  Roma,  coloro  che  per rimediare  allo  impeto  de’Volsci,  ed  altri finitimi  loro  inimici,  avevano  creato  molte volte  un  Dittatore,  venendo  i Franciosi non  lo  crearono.  Ancora,  nel  fare  la elezione  de’  soldati,  la  feciono  debole  e senza  alcuna  istraordinaria  diligenza;  e furono  tanto  pigri  a pigliare  l’  arme, che  a fatica  furono  a tempo  a scontrare  i Franciosi  sopra  il  fiume  d’ Allia,  disco* sto  a Roma  dieci  miglia.  Qui  i Tribuni posero  il  loro  campo,  senza  alcuna  con* sueta  diligenza  ; non  provvedendo  il luogo  prima,  nou  si  circondando  con fossa  e con  steccato,  non  usando  alcuno rimedio  umauo  o divino  ; e nello  ordi- nare la  zuffa,  fecero  gli  ordini  rari  e deboli:  in  modo  che  nè  i soldati  uè  i capitani  fecero  cosa  degna  della  romana disciplina.  Combattessi  poi  senza  alcuno sangue;  perchè  e’ fuggirono  prima  che fussiuo  assaltati,  e la  maggior  parte  se ne  andò  a Veio,  1’  altra  si  ritirò  a Ro- ma; i quali  senza  entrare  altrimenti nelle  case  loro,  se  ne  entrarono  in  Cam-
pidoglio; in  modo  che  il  Senato,  senza peusare  di  difender  Roma,  non  chiuse, non  che  altro,  le  porte;  e parte  se  ne fuggi,  parte  con  gli  altri  se  ne  entra- rono  in  Campidoglio  Pure,  nel  difender quello  usarono  qualche  ordine  non  tu-multuario; perchè  e’  non  lo  aggravarono di  genti  inutili;  messonvi  tutti  i fru-menti che  poterono,  acciocché  potessino sopportare  1’  ossidione  j e della  turba inutile  de’  vecchi  e delle  donne  e de’ fan-ciulli, la  maggior  parte  se  ne  fuggi  nelle
terre  circunvicine,  il  rimanente  restò  in Roma  in  preda  de’  Franciosi.  Talché,  chi avesse  letto  le  cose  fatte  da  quel  popolo tanti  anni  innanzi,  e leggesse  dipoi  quelli tempi,  non  potrebbe  a nessun  modo  cre- dere che  fusse  stato  un  medesimo  po- polo. E detto  che  Tito  Livio  ha  tutti  i sopraddetti  disordini,  conchiude:  Adeo obcoecat  animo»  fortuna , cum  vini  suam ingruentem  refringi  non  vult.  Nè  può essere  -43ÌÙ  vera  «{«està  conclusione:  on- de gli  uomini  che  vivono  ordinariamente nelle  grandi  avversità  0 prosperità,  me- ritano manco  laude  0 manco  biasimo. Perchè  il  più  delle  volte  si  vedrà  quelli ad  una  rovina  e ad  una  grandezza  es-  scr  stati  condotti  da  una  comodità  grande che  gli  hanno  fatto  i cieli,  dandogli  oc-casione, o togliendoli  di  potere  operare virtuosamente.  Fa  bene  la  fortuna  que-sto, che  la  elegge  uno  uomo,  quando  la voglia  condurre  cose  grandi,  di  tanto spirito  e di  tanta  virtù,  che  e’ conosca quelle  occasioni  che  la  gli  porge.  Cosi medesimamente,  quando  la  voglia  con- durre grandi  rovine,  la  vi  prepone  uo-mini che  aiutino  quella  rovina.  E se alcuno  fusse  che  vi  potesse  ostare,  o la lo  ammazza,  o la  lo  priva  di  tutte  le facultà  da  potere  operare  alcun  bene. Conoscesi  questo  benissimo  per  questo testo,  come  la  fortuna  per  far  maggiore Roma,  e condurla  a quella  grandezza venne,  giudicò  fusse  necessario  batterla (come  a lungo  nel  principio  del  seguente libro  discorreremo),  ma  non  volle  già in  tutto  rovinarla.  E per  questo  si  vede che  la  fece  esulare,  e non  morire,  Cam- mino; fece  pigliare  Roma,  e non  il  Cam-pidoglio ; ordinò  che  i Romani,  per  ri parare  Roma,  non  pensassino  alcuna cosa  buona;  per  difendere  il  Campido-glio, non  mancarono  di  alcuno  buono  or-dine. Fece,  perchè  Roma  fusse  presa, che  la  maggior  parte  de’ soldati  che  fu-rono rotti  ad  Allia,  se  n’  andarono  a Veio;  e così,  per  la  difesa  della  città  di Roma,  tagliò  tutte  le  vie.  E nell’ ordinar questo,  preparò  ogni  cosa  alla  sua  ricupe- razione ; avendo  condotto  uno  esercito romano  intero  a Veio,  e Cammillo  ad Ardea,  da  poter  fare  grossa  testa,  sotto un  capitano  non  maculato  d’  alcuna  igno- minia per  la  ' perdita,  ed  intero  nella sua  riputazione,  per  la  ricuperazione della  patria  sua.  Sarebbeci  da  addurre in  confirmazione  delle  cose  delle  qual- che essempio  moderno;  ma  per  non  gli giudicare  necessari,  potendo  questo  a qualunque  satisfare,  gli  lascerò  indietro. Affermo  bene  di  nuovo,  questo  essere verissimo,  secondo  che  per  tutte  ì’islo- rie  si  vede,  che  gli  uomini  possono  se- condare la  fortuna  e non  opporsegli; possono  tessere  gli  orditi  suoi,  e non rompergli.  Debbono  bene  non  si  abban- donare mai  ; perchè  non  sappiendo  il fine  suo,  ed  andando  quella  per  vie  tra- verse ed  incognite,  hanno  sempre  a spe-rare, e sperando  non  si  abbandonare  in qualunque  fortuna  ed  in  qualunque  tra-vaglio si  trovino.
Cap.  XXX.  — Le  repubbliche  c gli  prin-cipi veramente  polenti  non  comperano l*  amicizie  con  danari,  ma  con  la virtù  e con  la  riputazione  delle  forze. Erano  i Romani  assediati  nel  Campi-doglio, ed  ancoraché  gli  aspettassino  il soccorso  da  Veio  e da  Cammillo,  sendo cacciati  dalla  fame,  vennono  a compo- sizione con  i Franciosi  di  ricomperarsi certa  quantità  d'oro;  e sopra  tale  con-venzione pesandosi  di  già  l’oro,  so-pravvenne Cammillo  con  V esercito  suo  :il  che  fece,  dice  lo  istorico,  la  fortuna,ut  Romani  auro  redempti  non  vivcrent.
La  qual  cosa  non  solamente  è notabile in  questa  parte,  ma  cziam  nel  processo delle  azioni  di  questa  Repubblica  ; dove si  vede  che  mai  acquistarono  terre  con danari,  mai  feciono  pace  con  danari, ma  sempre  con  la  virtù  delle  armi:  il che  non  credo  sia  mai  intervenuto  ad alcuna  altra  repubblica.  Ed  intra  gli altri  segni  per  i quali  si  conosce  la  po-tenza d’  uno  Stato,  è vedere  come  e'  vive con  gli  vicini  suoi.  E quando  e’  si  go- verna in  modo  che  i vicini,  per  averlo amico,  siano  suoi  pensionari,  allora  è certo  segno  che  quello  Stato  è potente: ma  quando  detti  vicini,  ancoraché  in- feriori a lui,  traggono  da  quello  danari, allora  è segno  grande  di  debolezza  di quello.  Legghinsi  tutte  le  istorie  romane, e vedrete  come  i Massiliensi,  gli  Edui, Rodiani,  lerone  siracusano,  Eumene  e Massinissa  regi,  i quali  tutti  erano  vi- cini ai  confini  dello  imperio  romano, per  avere  l’amicizia  di  quello,  concor- revano a spese  ed  a tributi  ne’  bisogni d’  esso,  non  cercando  da  lui  altro  pre- mio che  lo  essere  difesi.  Al  contrario
si  vedrà  negli  Stati  deboli:  e comin- ciandosi dal  nostro  di  Firenze,  ne’  tempi passati,  nella  sua  maggior  riputazione, non  era  signorotto  in  Romagna  che  non avesse  da  quello  provvisione;  e di  più la  dava  ai  Perugini,  ai  Castellani,  e a tutti  gli  altri  suoi  vicini.  Che  se  questa città  fusse  stata  armata  e gagliarda,  sa- rebbe tutto  ito  per  contrario:  perchè tutti,  per  avere  la  protezione  di  essa, arebbero  dato  danari  a lei,  e cereo  non di  vendere  la  loro  amicizia,  ma  di  com-perare la  sua.  Nè  sono  in  questa  viltà vissuti  soli  i Fiorentini,  ma  i Yiniziani, ed  il  re  di  Francia;  il  quale,  con  uno tanto  regno,  vive  tributario  de’ Svizzeri
e del  re  d’ Inghilterra.  Il  che  tutto  na-sce dallo  avere  disarmali  i popoli  suoi, ed  avere  piuttosto  voluto,  quel  re  e gli altri  prenominati,  godersi  un  presente
utile  di  potere  saccheggiare  i popoli,  e fuggire  uno  immaginato  piuttosto  che vero  pericolo,  che  fare  cose  che  gli  as- sicurino, e faccino  i loro  Stati  felici  in perpetuo.  li  quale  disordine  se  parto- risce qualche  tempo  qualche  quiete,  è cagione  col  tempo  di  necessità,  di  danni e rovine  irrimediabili.  E sarebbe  lungo raccontare  quante  volte  i Fiorentini,  Ve- niziani,  e questo  regno,  si  sono  ricom- perati in  su  le  guerre  ; e quante  volte si  sono  sottomessi  ad  una  ignominia,  che i-  Romani  furono  una  sola  volta  per sottomettersi.  Sarebbe  lungo  raccontare quante  terre  i Fiorentini  e Veniziatri hanno  comperate;  di  che  si  è veduto poi  ii  disordine,  e come  le  cose  che si  acquistano  con  1’  oro,  non  si  sanno difendere  col  ferro.  Osservarono  i Ro- mani questa  generosità  e questo  modo di  vivere,  mentre  che  vissono  liberi; ma  poiché  egli  entrarono  sotto  gli  im- peradori,  e che  gli  imperadori  comin- ciarono ad  esser  cattivi,  ed  amore  più P ombra  che  il  sole,  cominciarono  an- cora essi  a ricomperarsi,  ora  dai  Parti, ora  dai  Germani,  ora  da  altri  popoli convicitty:  il  che  fu  principio  della  ro- vina di  tanto  imperio.  Procedevano,  per- tanto, simili  inconvenienti  dallo  avere disarmati  i suoi  popoli:  di  che  ne  re- sulta un  altro  maggiore,  che  quanto  il nimico  più  ti  s’  appressa,  tanto  ti  trova più  debole.  Perchè  chi  vive  ne’  modi delti  di  sopra,  traila  male  quelli  sud- diti che  sono  dentro  all’  imperio  suo, per  avere  uomini  ben  disposti  a tenere il  nimico  discosto.  Di  questo  nasce,  che per.  tenerlo  più  discosto,  ei  dà  provvi- sione a questi  signori  e popoli  che  sono propinqui  ai  confini  suoi.  Donde  nasce che  questi  Stati  così  fatti  fanno  uu  poco di  resistenza  in  sui  confini,  ma  comeii nimico  gli  ha  passati,  ei  non  hanno  ri- medio alcuno.  E non  si  avveggono,  co- me questo  modo  del  loro  procedere  è conila  ad  ogni  buono  ordine.  Perchè  il cuore  c le  parti  vitali  d*  uu  corpo  si hanno  a tenere  armate,  e non  l’ estre- mità d’esso;  perchè  senza  quelle  si  vive, ed  offeso  quello  si  muore  : c questi  Stati tengono  il  cuore  disarmato,  e le  maui c li  piedi  armati.  Quello  che  abbia  fatto questo  disordine  a Firenze,  si  è veduto, e vedesi  ogni  di:  chè  come  uno  eser- cito passa  i confini,  e che  gli  entrano propinquo  al  cuore,  non  ritrova  più alcuno  rimedio.  De’  Veniziani  si  vidde pochi  anni  fono  la  medesima  pruova; c se  la  lorp  città  non  era  fasciata  dal- P acque,  se  ne  sarebbe  veduto  it  fine. Questa  isperienza  non  si  è vista  sì  spesso in  Francia,  per  essere  quello  sì  gran regno,  eh*  egli  ha  pochi  nimici  supe-riori. Nondimeno,  quando  gli  Inghilesi, nel  1513,  assaltarono  quel  regno,  tremò tutta  quella  provincia;  ed  il  re  mede- simo, e ciascuno  altro,  giudicava  che una  rotta  sola  gli  potesse  torre  lo  Stato. Ai  Romani  interveniva  il  contrario;  per- chè quanto  più  il  nimico  si  appressava a Roma,  tanto  più  trovava  quella  città potente  a resistergli.  E si  vidde  nella ventila  d’ Annibaie  in  Italia,  che  dopo tre  rotte,  c dopo  tante  morti  di  capi- tani e di  soldati,  ei  poterono  non  solo sostenere  il  nimico,  ma  vincere  la  guerra. Tutto  nacque  dallo  avere  bene  armato il  cuore,  e delle  estremità  tenere  poco conto.  Perchè  il  fondamento  dello  stato suo  era  il  popolo  di  Roma,  il  nome  la-tino, e V altre  terre  compagne  in  Italia, e le  loro  colonie;  donde  e' traevano  tanti soldati,  che  furono  suftmenti  con  quelli a combattere,  e tenere  il  mondo.  E che sia  vero,  si  vede  per  la  domanda  che fece  Annone  cartaginese  a quelli  oratori d’ Annibaie  dopo  la  rotta  di  Canne:  i quali  avendo  magnificato  le  cose  fatte da  Annibaie,  furono  domandali  da  An-none, se  del  popolo  romano  alcuno  era venuto  a domandar  pace,  e se  del  nome latino  e delle  colonie  alcuna  terra  si  era ribellata  dai  Romani;  e negando  quelli l’ una  e l’altra  cosa,  replicò  Annone: Questa  guerra  è ancora  intera  come prima.  Vedesi,  pertanto,  e per  questo discorso,  e per  quello  che  più  volte  ab bianio  altrove  detto,  quanta  diversità sia  dal  modo  del  procedere  delle  repub-bliche presenti,  a quello  delle  antiche. Vedesi  ancora  per  questo  ogni  di  mira- colose perdite  e miracolosi  acquisti.  Per- chè, dove  gli  uomini  hanno  poca  virtù, la  fortuna  dimostra  assai  la  potenza  sua; e perchè  la  è varia,  variano  le  repubbliche e gli  Stati  spesso;  e varieranno sempre,  iniino  che  non  surga  qualcuno
che  sia  dell’  antichità  tanto  amatore,  che la  regoli  in  modo,  che  la  non  abbi  ca-gione di  dimostrare  ad  ogni  girare  di sole  quanto  ella  puote. Cap.  XXXI.  — Quanto  sia  pericoloso credere  agli  sbandili. E’  non  mi  pare  fuori  di  proposito  ra-gionare, intra  questi  altri  discorsi,  quanto sia  cosa  pericolosa  credere  a quelli  che sono  cacciati  della  patria  sua,  essendo cose  che  ciascuno  di  si  hanno  a prati- care da  coloro  che  tengono  Stati:  po- tendo,  massime,  dimostrare  questo  con uno  memorabile  essempio  detto  da  Tito Livio  nelle  sue  istorie,  ancora  che  sia  foo-  x ra  di  proposito  suo.  Quando  Alessandro Magno  passò  con  Y esercito  suo  in  Asia, Alessandro  di  Epiro,  cognato  e zio  di quello,  venne  con  genti  in  Italia,  chia- mato dagli  sbanditi  Lucani,  i quali  gli dettono  speranza  che  potrebbe  mediatiti loro  occupare  tutta  quella  provincia. Donde  che  quello,  sotto  la  lode  e spe-ranza loro,  venuto  in  Italia,  fu  morto da  quelli;  sendo  loro  promesso  Hi  ritor-nata nella  patria  dai  loro  cittadini,  se 10  ammazzavano.  Debbesi  considerare, pertanto,  quanto  sia  vana  e la  fede  e le promesse  di  quelli  che  si  trovano  privi della  loro  patria.  Perchè,  quanto  alla fede,  si  ha  ad  estimare  che  qualunque volta  possono  per  altri  mezzi  che  per 11  tuoi  rientrare  nella  patria  loro,  che iasceranno  te  ed  aceosterannosi  ad  altri, nonostante  qualunque  promessa  ti  aves- sino fatta.  E quanto  alla  vana  promessa
e speranza,  egli  è tanta  la  voglia  estrema die  è in  loro  di  ritornare  in  casa,  che e’ credono  naturalmente  molte  cose  che sono  false,  e molte  ad  arte  ne  aggiun- gono:  talché,  tra  quello  che  credono  e quello  che  dicono  di  credere,  ti  riem- piono di  speranza }.  tulmentechè  fonda-toti in  su  quella,  tu  fai  una  spesa  in vano,  o tu  fai  una  impresa  dove  tu  ro-vini. Io  voglio  per  cssempio  mi  basti Alessandro  predetto,  e di  più  Temisto- cle ateniese;  il  quale  essendo  fatto  ri- bello, se  ne  fuggi  in  Asia  a Dario,  dove gli  promisse  tanto,  quando  ei  volesse assaltare  la  Grecia,  che  Dario  si  volse alla  impresa.  Le  quali  promesse  non  gli potendo  poi  Temistocle  osservare,  o per vergogna  o per  tema  di  supplicio,  av- velenò sè  stesso.  E se  questo  errore  fu fatto  da  Temistocle,  nomo  eccellentissi- mo, si  debbe  stimare  che  tanto  più  vi errino  coloro  che,  per  minor  virtù,  si lasceranno  più  tirare  dalla  voglia  e dalla passione  loro.  Debbe,  adunque,  un  prin-cipe  andare  adagio  a pigliare  imprese sopra  la  relazione  d’ un  confinato,  per- chè il  più  delle  volle  se  ne  resta  o con vergogna,  o con  danno  gravissimo.  E perchè  ancora  rade  volle  riesce  il  pi- gliare le  terre  di  furto,  e per  intelli- genza che  altri  avesse  in  quelle,  non  mi pare  fuor  di  proposito  discorrerne  nel seguente  capitolo;  aggiungendovi  con quanti  modi  i Romani  le  acquistavano. Cap.  XXXII.  — In  quanti  modi  i Romani occupavano  le  terre. Essendo  i Romani  tutti  volti  alla  guer- ra, fecero  sempre  mai  quella  con  ogni vantaggio,  e quanto  alla  spesa,  e quanto ad  ogni  altra  cosa  che  in  essa  si  ricerca. Da  questo  nacque  che  si  guardarono  dal pigliare  le  terre  per  ossidione  ; perchè giudicavano  questo  modo  di  tanta  spesa e di  tanto  scomodo,  che  superasse  di gran  lunga  la  utilità  che  dello  acquisto si  potesse  trarre:  e per  questo  pensa-rono  che  fusse  meglio  e più  utile  sog-giogare le  len  e per  ogni  altro  modo  che assediandole;  donde  in  tante  guerre  ed in  tanti  anni  ci  sono  pochissimi  essem- pi  di  ossidioni  fatte  da  loro.  I modi, adunque,  con  i quali  gli  acquistavano le  città,  erano  o per  espugnazione,  o per  dedizione.  La  espugnazione  era  o per  forza  e per  violenza  aperta,  o per forza  mescolata  con  fraude.  La  violenza aperta  era  o con  assalto,  senza  percuo- tere le  mura  (il  che  loro  chiamavano aggredì  urbem  coronaj  perchè  con  tutto l’ esercito  circondavano  la  città,  e da tutte  le  parti  la  combattevano;  e molte volte  riuscì  loro  che  in  uno  assalto  piglia-rono una  città,  ancora  che  grossissima,
come  quando  Scipione  prese  Cartagine nuova  in  (spaglia)  : o,  quando  questo assalto  non  bastava,  si  dirizzavano  a rompere  le  mura  con  arieti,  o con  al- tre loro  macchine  belliche:  o e’ facevano una  cava,  e per  quella  entravano  nella città  (nel  qual  modo  presono  la  città de’  Veìenti)  : o,  per  essere  eguali  a quelli che  difendevano  le  mura,  facevano  torri di  legname,  o facevano  argini  di  terra appoggiati  alle  mura  di  fuori,  per  ve-nire all’  altezza  di  esse  sopra  quelli. Contea  questi  assalti,  chi  difendeva  le terre,  nel  primo  caso  circa  lo  essere assaltato  intorno  intorno,  portava  più subito  pericolo,  ed  avea  più  dubbi  rime-di: perchè  bisognandoli  in  ogni  loco avere  assai  difensori,  o quelli  ch’egli aveva  non  erano  tanti  che  potessero  o supplire  per  tutto,  o cambiarsi  ; o se potevano,  non  erano  tutti  di  eguale  ani- mo a resistere,  e da  una  parte  che  fusse inclinata  la  zuffa,  si  perdevano  tutti. Però  occorse,  come  io  ho  detto,  che molte  volte  questo  modo  ebbe  felice  suc-cesso. Ma  quando  non  riusciva  al  primo, non  lo  ritentavano  molto,  per  esser  mo-do pericoloso  per  lo  esercito  : perchè difendendosi  in  tanto  spazio,  restava  per tutto  debile  a potere  resistere  ad  una eruzione  che  quelli  di  dentro  avessino fatta,  ed  anche  si  disordinavano  e strac-cavano i soldati;  ma  per  una  volta  ed allo  improvviso  tentavano  tal  modo. Quanto  alla  rottura  delle  mura,  sì  op-
ponevano, come  re’ presenti  tempi,  con ripari.  E per  resistere  alle  cave,  face-vano una  contraccava,  e per  quella  si opponevano  al  nimico,  o con  le  armi  o con  altri  ingegni:  intra  i quali  era  que- sto, che  egli  empivano  dogli  di  penne, nelle  quali  appiccavano  il  fuoco,  ed  ac- cesi gli  mettevano  nella  cava,  i quali con  il  fumo  e con  il  puzzo  impedivano l'entrata  a'  nimici.  E se  con  le  torri  gli assaltavano,  s' ingegnavano  con  il  fuoco rovinarle.  E quanto  agli  argini  di  terra, rompevano  il  muro  da  basso,  dove  l'ar- gine s'appoggiava,  tirando  dentro  la  ter- ra che  quelli  di  fuori  vi  ammontavano; talché  ponendosi  di  fuori  la  terra,  e le- vandosi di  dentro,  veniva  a non  cre-scere 1'  argine.  Questi  modi  di  espugna-zione non  si  possono  lungamente  tentare: ma  bisogna  o levarsi  da  campo,  e cer-care  per  altri  modi  vincere  la  guerra; come  fece  Scipione,  quando  entrato  in
Affrica,  avendo  assaltato  litica  e non  gli riuscendo  pigliarla,  si  levò  dal  campo, e cercò  di  rompere  gii  eserciti  cartagi-nesi: ovvero  volgersi  alla  ossidione; come  feciono  a Vcio,  Capova,  Cartagine e lerusalem  e simili  terre,  che  per  os-sidione occuparono.  Quanto  allo  acqui-
stare le  terre  per  violenza  furtiva,  oc-corre come  intervenne  di  Palepoli,  cheper  trattato  di  quelli  di  dentro  i Romani la  occuparono.  Di  questa  sorte  espugna-zione dai  Romani  c da  altri  ne  sono state  tentate  molte,  e poche  ne  sono  riu-scite : la  ragione  è che  ogni  minimo impedimento  rompe  il  disegno,  e gli impedimenti  vengono  facilmente.  Perchè, o la  congiura  si  scuopre  innanzi  che  si venga  all’atto  : e scuopresi  non  con  molta diftìcultà,  sì  per  la  infedelità  di  coloro con  chi  la  è comunicata,  sì  per  la  diffì- cullù  del  praticarla,  avendo  a convenire con  nimici,  e con  chi  non  ci  è licito,  se  non  sotto  qualche  colore,  parlare.  Ma quando  la  congiura  non  si  scoprisse  nel
maneggiarla,  vi  surgono  poi  nel  met-terla in  atto  mille  dilYicultà.  Perchè,  o se  tu  vieni  innanzi  al  tempo  disegnato, o se  tu  vieni  dopo,  si  guasta  ogni  cosa  : se  si  lieva  un  rumore  furtivo,  come 1’  oche  del  Campidoglio  : se  si  rompe uno  ordine  consueto  : ogni  minimo  erro-re ed  ogni  minima  fallacia  che  si  piglia, rovina  la  impresa.  Aggiungonsi  a que- sto le  tenebre  della  notte;  le  quali  met- tono più  paura  a chi  travaglia  in  quelle cose  pericolose.  Ed  essendo  la  maggior parte  degli  uomini  che  si  conducono  a simili  imprese,  inesperti  del  sito  del paese  e de’  luoghi,  dove  ei  sono  menati, si  confondono,  inviliscono,  ed  implicano per  ogni  minimo  e fortuito  accidente; ed  ogni  immagine  falsa  è per  fargli  met-tere in  volta.  Nè  si  trovò  mai  alcuno che  fusse  più  felice  in  queste  espedizioni
fraudolente  c notturne,  che  Arato  Sicio-neo;  il  quale  quanto  valeva  in  queste,tanto  nelle  diurne  ed  aperte  fazioni  era pusillanime:  il  che  si  può  giudicare fusse  più  tosto  per  una  occulta  virtù  clic era  in  lui,  che  perchè  in  quelle  natu- ralmente dovesse  essere  più  felicità.  Di questi  modi,  adunque,  se  ne  praticano assai,  pochi  se  ne  conducono  alla  pruova,-
e pochissimi  ne  riescono.  Quanto  allo acquistare  le  terre  per  dedizione,  o le si  danno  volontarie,  o forzate.  La  vo-lontà nasce  o per  qualche  necessità  estrin-seca che  gli  costringe  a rifuggirsi  sotto; come  fece  Capova  ai  Romani;  o per  de-siderio di  esser  governati  bene,  sendo allettati  dal  governo  buono  che  quel  prin-cipe tiene  in  coloro  che  se  gli  sono  vo-lontari rimessi  in  grembo  ; come  fcrono i Rodiani,  i Massiliensi  ed  altri  simili cittadini,  che  si  deltono  al  Popolo  ro-'mano.  Quanto  alla  dedizione  forzata,  o tale  forza  nasce  da  una  lunga  ossidione, come  di  sopra  si  è detto;  o la  nasce  da una  continua  oppressione  di  correrie, depredazioni,  ed  altri  mali  trattamenti,  i quali  volendo  fuggire,  una  città  si  arren- de. Di  tutti  i modi  detti,  ì Romani  usa- rono più  questo  ultimo  che  nessuno;  ed attesono  più  che  quattrocento  cinquanta anni  a straccare  i vicini  con  le  rotte  e con le  scorrerie,  e pigliare  mediani!  gli  accor- di riputazione  sopra  di  loro,  come  altre volte  abbiamo  discorso.  E sopra  tal  modo si  fondarono  sempre,  ancora  che  gli  ten-tassino  tutti;  ma  negli  altri  trovarono cose  o pericolose,  o inutili.  Perchè  nella ossidione  è la  lunghezza  e la  spesa; nella  espugnazione,  dubbio  e pericolo; nelle  congiure,  la  incerlitudine.  E vid-dono  che  con  una  rotta  d’esercito  ini-mico acquistavano  un  regno  in  un  gior-no; e nel  pigliare  per  ossidione  una città  ostinata,  consumavano  molti  anni. XXXUI.  — Come  i Romani  davano agli  loro  capitani  degli  eserciti  le commissioni  libere. lo  stimo  che  sia  da  considerare,  leg-gendo questa  liviana  istoria,  volendone far  profitto,  tutti  i modi  del  procedere del  Popolo  e Senato  romano.  E infra P altre  cose  che  meritano  considerazione, sono  : vedere  con  quale  autorità  ei  man-davano fuori  i loro  Consoli,  Dittatori ed  altri  Capitani  degli  eserciti  ; de’  quali si  vede  V autorità  essere  stata  grandis-
sima, ed  il  Senato  non  si  riservare  al-tro che  P autorità  di  muovere  nuove guerre,  e di  confirmare  le  paci;  tutte P altre  cose  rimetteva  nell’  arbitrio  e potestà  del  Consolo.  Perchè,  deliberata
eh*  era  dal  Popolo  e dal  Senato  una guerra,  verbigrazia  contra  ai  Latini, tutto  il  resto  rimettevano  nelP  arbitrio del  Consolo;  il  quale  poteva  o fare  uua giornata  o non  la  fare,  e campeggiare questa  o quell*  altra  terra,  come  a lui pareva.  Le  quali  cose  si  verificano  per molti  essempi,  e massime  per  quello  che occorse  in  una  ispedizione  contra  ai Toscani.  Perchè,  avendo  Fabio  Consolo vinto  quelli  presso  a Sutri,  e disegnando con  P esercito  dipoi  passare  la  selva Cimino,  ed  andare  in  Toscana;  non  so-lamente non  si  consigliò  col  Senato, raa  non  gli  ne  dette  alcuna  notizia,  an-cora che  la  guerra  fusse  per  aversi  a fare  in  paese  nuovo,  dubbio  e pericoloso. Il  che  si  testifica  ancora  per  la  dilibe-razione che  all’  incontro  di  questo  fu fatta  dal  Senato  : il  quale  avendo  inteso la  vittoria  che  Fabio  aveva  avuta,  du-bitando che  quello  non  pigliasse  partitodi  passare  per  le  dette  selve  in  Tosca-na, giudicando  che  fusse  bene  non  ten-tare quella  guerra  e correre  quel  peri-colo, mandò  a Fabio  due  Legati  u far-gli intendere  non  passasse  in  Toscana;
i quali  arrivarono  che  vi  era  già  pas-sato, ed  aveva  avuta  la  vittoria,  ed  in cambio  di  impeditoci  della  guerra,  tor-narono ambasciadori  dello  acquisto  e della  gloria  avuta.  E chi  considera  bene questo  termine,  lo  vedrà  prudentissima-mente  usato  : perchè,  se  il  Senato  avesse
voluto  che  un  Consolo  procedesse  nella guerra  di  mano  in  mano,  secondo  che quello  gli  commelteva,  lo  faceva  meno circunspetlo  e più  lento;  perchè  non gli  sarebbe  parato  che  la  gloria  della vittoria  fusse  tutta  sua,  ma  che  ne  participasse  il  Senato  con  il  consiglio  del quale  ei  si  fusse  governato.  Oltra  di questo,  il  Senato  si  obbligava  a voler consigliare  una  cosa  che  non  se  ne  po-teva intendere;  perchè,  nonostante  che in  quello  fussino  tutti  uomini  esercita-tissimi nella  guerra,  nondimeno  non essendo  in  sul  luogo,  e non  sappiendo infiniti  particolari  che  sono  necessari sapere  a voler  consigliar  bene,  areb-bono,  consigliando,  fatti  infiniti  errori. E per  questo  e’  volevano  che  ’1  Consolo per  sè  facesse,  e che  la  gloria  fusse tutta  sua;  lo  amore  della  quale  giudica- vano che  fusse  freno  e regola  a farlo operar  bene.  Questa  parte  si  è più  vo- lentieri notata  da  me,  perchè  io  veggio che  le  repubbliche  de’  presenti  tempi, come  è la  veneziana  e fiorentina,  la intendono  altrimenti  ; e se  gli  loro  ca-pitani,  provveditori  o commissari  hanno a piantare  una  artiglieria,  lo  vogliono
intendere,  e consigliare.  Il  quale  modo merita  quella  laude  che  meritano  gli altri,  i quali  tutti  insieme  I’  hanno  con- dotte ne’  termini  che  al  presente  si truovano. .LIBRO  TERZO.  I.  — A volere  che  una  sella  o una repubblica  viva  lungamente , è neces-sario ritirarla  spesso  verso  il  suo principio. Egli  è cosa  verissima,  come  tutte  le cose  del  mondo  hanno  il  termine  della vita  loro.  Ma  quelle  vanno  tutto  il  corso che  è loro  ordinato  dal  cielo  general- mente, che  non  disordinano  il  corpo loro,  ma  tengonlo  in  modo  ordinato,  o che  non  altera,  o s' egli  altera,  è a sa-lute, e non  a danno  suo.  E perchè  io parlo  de’  corpi  misti,  come  sono  le  re-pubbliche e le  sètte,  dico  clic  quelle  al-(eruzioni  sono  u salute,  che  le  riducono verso  i principi!  loro.  E però  quelle
sono  meglio  ordinate,  ed  hanno  più  lunga vita,  che  mediatiti  gli  ordini  suoi  si  pos sono  spesso  rinnovare;  ovvero  che  per accidente,  fuori  di  detto  ordine,  vengono a detta  rinnovazione.  Ed  è cosa  più  chiara che  la  luce,  che  non  si  rinnovando  que- sti corpi,  non  durano.  Il  modo  del  rin- novargli è,  come  è detto,  ridurgli  verso i principii  suoi.  Perchè  tutti  i pri  nei  pi  i delle  sètte,  e delle  repubbliche,  e dei regni,  conviene  che  abbino  in  sè  qual- che bontà,  mediante  la  quale  ripiglino la  prima  riputazione,  ed  il  primo  augu- mento  loro.  E perchè  nel  processo  del tempo  quella  bontà  si  corrompere  non interviene  cosa  che  la  riduca  al  segno, ammazza  di  necessità  quel  corpo.  E que- sti dottori  di  medicina  dicono,  parlando dei  corpi  degli  uomini,  quoti  quolidie aggregatur  aliquidj  quod  quandoque indiget  curalione.  Questa  riduzione  verso  il  principio,  parlando  delle  repubbliche, si  fa  o per  accidente  estrinseco,  o per prudenza  intrinseca.  Quanto  al  primo, si  vede  come  gli  era  necessario  che  Roma fusse  presa  dai  Franciosi,  a volere  che la  rinascesse;  e rinascendo,  ripigliasse nuova  vita  e nuova  virtù;  e ripigliasse la  osservanza  della  religione  e della  giu-
stizia, le  quali  in  lei  cominciavano  a macularsi.  Il  che  benissimo  si  comprende per  l’istoria  di,  Livio,  dove  ei  mostra che  nel  trar  fuori  1’  esercito  contra  ai Franciosi,  e nel  creare  i Tribuni  con potestà  consolare,  non  osservarono  al- cuna religiosa  cerimonia.  Così  medesi-mamente, non  solamente  non  privarono i tre  Fabi  i quali  conira  jus  gcntium avevano  combattuto  contra  i Franciosi, ma  gli  crearono  Tribuni.  E debbesi  fa- cilmente presupporre,  che  dell’ altre  con stituzioni  buone  ordinate  da  Romolo,  e ila  quelli  altri  principi  prudenti,  si  co- minciasse a tenere  meno  conto  che  non era  ragionevole  e necessario  a tenere  il vivere  libero.  Veline,  adunque,  questa
battitura  estrinseca,  acciocché  tutti  gii ordini  di  quella  città  si  ripigliassero; e si  mostrasse  a quel  popolo,  non  so- lamente essere  necessario  mantenere  la religione  e la  giustizia,  ma  ancora  sti- mare i suoi  buoni  cittadini,  e far  più conto  della  loro  virtù,  che  di  quelli  co- modi che  e’  paresse  loro  mancare  me-diante 1’  opere  loro.  Il  che  si  vede  che successe  appunto;  perchè,  subito  Ripresa Roma,  rinnovarono  tutti  gli  ordini  del 1’  antica  religione  loro;  punirono  quelli Fabi  die  avevano  combattuto  conira jus  genfìum  ; ed  oppresso  stimarono tanto  la  virtù  e bontà  di  Cammillo,  che posposto,  il  Senato  e gli  altri,  ogni  in- vidia, rimettevano  in  lui  tutto  il  pondo di  quella  Repubblica.  È necessario,  adun- que, come  è detto,  che  gli  uomini  che vivono  insieme  in  qualunque  ordine, spesso  si  riconoschino,  o per  questi  ac-cidenti estrinsechi  o per  gli  intrinsechi. E quanto  a questi,  conviene  che  nasca o da  una  legge  la  quale  spesso  rivegga il  conto  agii  uomini  che  sono  in  quel corpo;  o veramente  da  uno  uomo  buono che  nasca  fra  loro,  il  quale  con  gli  suoi essempi  e con  le  sue  opere  virtuose, faccia  il  medesimo  effetto  che  l’ordine. Surge,  adunque,  questo  bene  nelle  re- pubbliche, o per  virtù  d’un  uomo  o per virtù  d’  uno  ordine.  E quanto  a questo ultimo,  gli  ordini  che  ritirarono  la  Re-pubblica romana  verso  il  suo  principio, furono  i Tribuni  della  plebe,  i Censori, e tutte  1’  altre  leggi  che  venivano  con tra  all’ambizione  ed  alla  insolenza  degli uomini.  I quali  ordini  hanno  bisogno d’ esser  fatti  vivi  dalla  virtù  d’  un  cit- tadino, il  quale  animosamente  concorra ad  eseguirli  contra  alla  potenza  di  quelli che  gli  trapassano.  Delle  quali  esecu- zioni, innanzi  alla  presa  di  Roma  dai Franciosi,  furon  notabili,  la  morte  de’ figliuoli  di  Bruto,  la  morte  de’  dieci  cit-tadini, quella  di  Melio  Frumentario:  dopo la  presa  di  Roma,  fu  la  morte  di  Man-lio Capitolino,  la  morte  del  figliuolo  di Manlio  Torquato,  la  esecuzione  di  Papi-rio Cursore  conira  a Fabio  suo  maestro
de’ Cavalieri,  la  accusa  degli  Scipioni. Le  quali  cose,  perchè  erano  eccessive  e notabili,  qualunque  volta  ne  nasceva  una, facevano  gli  uomini  ritirare  verso  il  se- gno: e quando  le  cominciarono  ad  es-ser più  rare,  cominciarono  ancora  a dare più  spazio  agii  uomini  di  corrompersi, e farsi  con  maggiore  pericolo  e più  tu- multo. Perchè  dalP  una  all’altra  di  simili esecuzioni  non  vorrebbe  passare,  il  più, dieci  anni:  perchè,  passato  questo  tempo, gli  uomini  cominciano  a variare  co’  co-stumi, e trapassare  le  leggi  ; e se  non nasce  cosa  per  la  quale  si  riduca  loro a memoria  la  pena,  e ritruovisi  negli animi  loro  la  paura,  concorrono  tosto tanti  delinquenti,  che  non  si  possono più  punire  senza  pericolo.  Dicevano,  a questo  proposito,  quelli  che  hanno  go-vernato lo  Stato  di  Firenze  dal  1434 infino  al  1494,  come  egli  era  necessario ripigliare  ogni  cinque  anni  lo  Stato; altrimenti,  era  difficile  mantenerlo  : e chiamavano  ripigliare  lo  Stato,  mettere quel  terrore  e quella  paura  negli  uo- mini che  vi  avevano  messo  nel  pigliarlo, avendo  in  quel  tempo  battuti  quelli  che avevano,  secondo  quel  modo  di  vivere, male  operato.  Ma  come  di  quella  batti- tura la  memoria  si  spegne,  gli  uomini prendono  ardire  di  tentare  cose  nuove, e di  dir  male;  c però  è necessario  prov-vedervi, ritirando  quello  verso  i suoi principii.  Nasce  ancora  questo  ritira-mento delle  repubbliche  verso  il  loro principio  dalle  semplici  virtù  d’un  uomo, senza  dipendere  da  alcuna  legge  che  ti stimoli  ad  alcuna  esecuzione:  nondiman co  sono  di  tanta  riputazione  e di  tanto essempio,  che  gli  uomini  buoni  dispe-rano imitarle,  e gli  tristi  si  vergognano a tenere  vita  contraria  a quelle.  Quelli che  in  Roma  particolarmente  feciono questi  buoni  effetti,  furono  Orazio  Code, Scevola,  Fabrizio,*  i duoi  Deci,  Regolo Attilio,  ed  alcuni  altri  ; i quali  con  i loro essempi  rari  e virtuosi  facevano  in  Roma quasi  il  medesimo  effetto  che  si  faces-sino  le  leggi  e gli  ordini.  E se  le  ese-cuzioni soprascritte,  insieme  con  questi particolari  essempi,  fussino  almeno  se-guite ogni  dieci  anni  in  quella  città,  ne seguiva  di  necessità  che  la  non  si  sarebbe mai  corrotta:  ma  coinè  e’ cominciarono  a diradare  1’  una  e V altra  di  queste  due cose,  cominciarono  a moltiplicare  le  cor- ruzioni. Perchè  dopo  Marco  Regolo  non vi  si  vidde  alcun  simile  essempio:  e ben- ché in  Roma  surgessino  i duoi  Catoni, fu  tanta  distanza  da  quello  a loro,  ed intra  loro  dall’  uno  all’  altro,  e rimasono sì  soli,  che  non  potettono  con  gli  es- sempi  buoni  fare  alcuna  buona  opera; e massime  P ultimo  Catone,  il  quale  tro- vando in  buona  parte  la  città  corrotta, non  potette  con  lo  essempio  suo  fare che  i cittadini  diventassino  migliori.  E questo  basti  quanto  alle  repubbliche.  Ma quanto  alle  sètte,  si  vede  ancora  queste rinnovazioni  essere  necessarie  per  lo  essempio  della  nostra  religione;  la  quale se  non  fusse  stata  ritirata  verso  il  suo principio  da  san  Francesco  c da  san  Do- menico, sarebbe  al  lutto  spenta.  Perchè questi,  con  la  povertà  e con  ressempio della  vita  di  Cristo,  la  ridussono  nella mente  degli  uomini,  che  già  vi  era  spen- ta : e furono  sì  potenti  gli  ordini  loro nuovi,  cli’ei  sono  cagione  che  la  diso- nestà de’  prelati  e de’  capi  della  reli- gione non  la  rovini;  vivendo  ancora  po- veramente, ed  avendo  tanto  credito  nelle confessioni  con  i popoli  e nelle  predi- cazioni, che  c’  danno  loro  ad  intendere come  egli  è male  a dir  male  del  male, e che  sia  bene  vivere  sotto  1*  ubbidienza loro,  e se  fanno  errori,  lasciargli  gasli gare  a Dio:  e così  quelli  fanno  il  peg- gio che  possono,  perchè  non  temono quella  punizione  che  non  veggono  e non credono.  Ha,  adunque,  questa  rinnova- zione mantenuto,  e mantiene  questa  re- ligione. Hanno  ancora  i regni  bisogno di  rinnovarsi,  e ridurre  le  leggi  di  quelli
verso  il  suo  principio.  E si  vede  quanto buono  effetto  fa  questa  parte  nel  regno di  Francia;  il  quale  regno  vive  sotto  le leggi  e sotto  gli  ordini  più  clic  alcuno altro  regno  Delle  quali  leggi  ed  ordini ne  sono  mnntenitori  i parlamenti,  c mas- sime quel  di  Parigi  ; le  quali  sono  da lui  rinnovate  qualunque  volta  e’  fa  una esecuzione  contra  ad  uno  principe  di quel  regno,  e che  ei  condanna  il  re nelle  sue  sentenze.  Ed  infino  a qui  si  è mantenuto  per  essere  stato  uno  ostinato esecutore  contra  a quella  nobiltà  : ma qualunque  volta  e’  ne  lasciasse  alcuna impunita,  c che  le  venissino  a multi- plicare, senza  dubbio  ne  nascerebbe  o che  le  si  arebbono  a correggere  con disordine  grande,  o che  quel  regno  si
risolverebbe.  Conchiudesi,  pertanto,  non esser  cosa  più  necessaria  in  un  vivere comune,  o setta  o regno  o repubblica che  sia,  che  rendergli  quella  riputazione ch’egli  aveva  ne’  princi pii  suoi;  ed  in-gegnarsi che  siano  ol  gli  ordini  buoni O i buoni  uomini  che  facciano  questo effetto,  e non  l’ abbia  a fare  una  for/.a estrinseca.  Perchè,  ancora  che  qualche volta  la  sia  ottimo  rimedio,  come  fu  a Roma,  ella  è tanto  pericolosa,  che  non è in  modo  alcuno  da  disperarla.  E per dimostrare  a qualunque,  quanto  le  azioni degli  uomini  particolari  facessino  grande Roma,  e causassimo  in  quella  città  molti buoni  effetti,  verrò  alla  narrazione  e is- corso  di  quelli:  intra  i termini  de  qua I. questo  terzo  libro  ed  ultima  parte  d. questa  prima  Deca  si  conchiudera.  E benché  le  azioni  degli  re  bissino  grand, e notabili,  nondimeno,  dichiarandole  la istoria  diffusamente,  le  lasceremo  indie- tro; nè  parleremo  altrimenti  di  loro, eccetto  che  di  alcuna  cosa  che  «vessino operata  appartenente  alti  loro  privat, comodi  ; e coniincierenci  da  BiutOj  pa drc  della  romana  libertà. FI.  — Come  gli  è cosa  sapientissima simulare  in  tempo  la  pazzia. Non  fu  alcuno  mai  tanto  prudenti1,  -nè  tanto  stimato  savio,  per  alcuna  sua egregia  operazione,  quanto  merita  d’ es- ser tenuto  lunio  Bruto  nella  sua  simu- lazione della  stultizia.  Ed  ancora  che Tito  Livio  non  esprima  altro  che  una cagione  che  Io  inducesse  a tale  simula- zione, quale  fu  di  potere  più  sicura- mente vivere,  e mantenere  il  patrimonio suo;  nondimanco,  considerato  il  suo modo  di  procedere,  si  può  credere  che simulasse  ancora  questo  per  essere  man- co osservato,  ed  avere  più  comodità  di opprimere  i re  e di  liberare  la  sua  pa- tria, qualunque  volta  gliene  fussc  data occasione.  E che  pensasse  a questo,  si vide,  prima,  nello  interpretare  l’oracolo di  Apolline,  quando  simulò  cadere  per baciare  la  terra,  giudicando  per  quello aver  favorevoli  gli  Dii  ai  pensieri  suoi; e dipoi,  quando  sopra  la  moria  Lucre-zia, inira  il  padre  ed  il  marito  ed  altri parenti  di  lei,  ei  fu  il  primo  a trarle  il coltello  dalla  ferita,  e far  giurare  ai circonstanli,  che  mai  sopporterebbono che  per  lo  avvenire  alcuno  regnasse  in Roma.  Dallo  essempio  di  cgsIuì  hanno ad  imparare  tutti  coloro  che  sono  mal- contenti d’  uno  principe;  e debbono  pri- ma misurare  e pesare  le  forze  loro,  e se  sono  si  potenti  che  possino  scoprirsi suoi  nimici  e fargli  apertamente  guerra, debbono  entrare  per  questa  via,  come manco  pericolosa  e più  onorevole.  Ma se  sono  di  qualità  che  a fargli  guerra aperta  le  forze  loro  non  bastino,  deb- bono con  ogni  industria  cercare  di  far- segli  amici  ; cd  a questo  effetto,  entrare per  tutte  quelle  vie  che  giudicano  esser necessarie,  seguendo  i piaceri  suoi,  e pigliando  diletto  di  tutte  quelle  cose  che veggono  quello  dilettarsi.  Questa  dipie- sticliezza,  prima,  ti  fa  vivere  sicuro;  e, senza  portare  alcun  pericolo,  ti  fa  go-derc  la  buona  fortuna  di  quel  principe insieme  con  esso  lui,  e ti  arreca  ogni comodità  di  satisfare  all*  animo  tuo.  Vero è ebe  alcuni  dicono  che  si  vorrebbe  con gli  principi  non  stare  sì  presso  che  la rovina  loro  ti  coprisse,  nè  sì  discosto che  rovinando  quelli  tu  non  fussi  a tempo  a salire  sopra  la  rovina  loro:  la qual  via  del  mezzo  sarebbe  la  più  vera, quando  si  potesse  conservare;  ma  per- chè io  credo  che  sia  impossibile,  con- viene ridursi  ai  duoi  modi  soprascritti, cioè  di  allargarsi  o di  stringersi  con loro.  Chi  fa  altrimenti,  e sia  uomo  per le  qualità  sue  notabile,  vive  in  conti* novo  pericolo.  Nè  basta  dire:  io  non  mi curo  d’ alcuna  cosa,  non  desidero  nè onori  nè  utili,  io  mi  voglio  vivere  quie- tamente e senza  briga;  perchè  queste scuse  sono  udite  e non  accettate  : nè possono  gii  uomini  che  hanno  qualità eleggere  lo  starsi,  quando  bene  lo  eleg- gessino  veramente  e senza  alcuna  am- bizione, perchè  non  è loro  creduto  ; tal chè  se  si  vogliono  star  loro,  non  sono lasciati  stare  da  altri.  Conviene  adun- que fare  il  pazzo,  come  Bruto  ; ed  assai si  fa  il  matto,  laudando,  parlando,  veg- gendo,  faccendo  cose  eontra  all*  animo tuo,  per  compiacere  al  principe.  E poi- ché noi  abbiamo  parlato  della  prudenza di  questo  uomo  per  ricuperare  la  li- bertà di  Roma,  parleremo  ora  della  sua severità  in  mantenerla. Cap.  HI.  — Come  egli  è necessariOj  a voler  mantenere  una  libertà  acquistata di  nuovo 9 ammazzare  i figliuoli  di Bruto. Non  fu  meno  necessaria  che  utile  la severità  di  Bruto  nel  mantenere  in  Roma quella  libertà  che  egli  vi  aveva  acqui-stala ; la  quale  è di  un  essempio  raro in  tutte  le  memorie  delle  cose:  vedere il  padre  sedere  prò  tribunali,  e non solamente  condennare  i suoi  figliuoli  a morte,  ma  esser  presente  alla  morte loro.  E sempre  si  conoscerà  questo  per coloro  che  le  cose  antiche  leggeranno: come  dopo  una  mutazione  di  Stato,  o da  repubblica  in  tirannide  o da  tiran- nide in  repubblica,  è necessaria  una esecuzione  memorabile  contra  a’  nimici delle  condizioni  presenti.  E chi  piglia una  tirannide  e non  ammazza  Bruto,  e chi  fa  uno  Stato  libero  e non  ammazza i figliuoli  di  Bruto,  si  mantiene  poco tempo.  E perchè  di  sopra  è discorso questo  luogo  largamente,  mi  rimetto  a quello  che  allora  se  ne  disse:  solo  ci addurrò  uno  essempio  stato  ne’  dì  no- stri, e nella  nostra  patria  memorabile. E questo  è Piero  Soderini,  il  quale  si credeva  con  la  pazienza  e bontà  sua superare  quello  appetito  che  era  ne’  fi- gliuoli di  Bruto  di  ritornare  sotto  un altro  governo,  e se  ne  ingannò.  E ben- ché quello,  per  la  sua  prudenza,  cono- scesse questa  necessità  J e che  la  sorte e la  ambizione  di  quelli  che  lo  urtava- no, gli  desse  occasione  a spegnerli  ; non-dimeno  non  volse  mai  Y animo  a farlo. Perchè,  oltre  al  credere  di  potere  con la  pazienza  e con  la  bontà  estinguere  i mali  umori,  e con  i premi  verso  qual- cuno consumare  qualche  sua  inimicizia; giudicava  (e  molte  volle  ne  fece  con  gli amici  fede)  che  a volere  gagliardamente urtare  le  sue  opposizioni,  e battere  i suoi  avversari,  gli  bisognava  pigliare straordinaria  autorità,  e rompere  con le  leggi  la  civile  equalità  : la  qualcosa, ancora  che  dipoi  non  fusse  da  lui  usata tirannicamente,  arebbe  tanto  sbigottito I’  universale,  che  non  sarebbe  mai  poi concorso  dopo  la  morte  di  quello  a ri-fare un  gonfaloniere  a vita;  il  quale ordine  egli  giudicava  fusse  bene  uugu-mentarc  c mantenere.  Il  quale  rispetto era  savio  e buono  : nondimeno,  e’  non si  debbe  mai  lasciare  scorrere  un  male rispetto  ad  un  bene,  quando  quel  bene facilmente  possa  essere  da  quel  male oppressalo.  E doveva  credere  che,  aven- dosi a giudicare*  Y opere  sue  c la  intenzione  sua  dal  One,  quando  la  fortuna e la  vita  lo  avesse  accompagnato,  che poteva  certificare  ciascuno,  come  quello aveva  fatto,  era  per  salute  della  patria, e non  per  ambizione  sua  ; e poteva  re- golare le  cose  in  mòdo,  che  un  suo  suc- cessore non  potesse  fare  per  male  quello che  egli  avesse  fatto  per  bene.  Ma  lo ingannò  la  prima  oppinione,  non  cono- scendo che  la  malignità  non  è doma  da tempo,  nè  placata  da  alcun  dono.  Tanto che,  per  non  sapere  somigliare  Bruto, ei  perde,  insieme  con  la  patria  sua,  lo Stato  e la  riputazione.  E come  egli  è cosa  difficile  salvare  uno  Stato  libero, cosi  è difficile  salvarne  un  regio;  come nel  seguente  capitolo  si  mostrerà. Cap.  IV.  - — Non  vive  sicuro  un  prin-cipe in  un  principato,  mentre  vivono coloro  che  ne  sono  stati  spogliali. La  morte  di  Tarquinio  Prisco  causata
dai  figliuoli  di  Anco,  e la  morte  di  Ser-vio  Tulio  causata  da  Tarquinio  Super-bo, mostra  quanto  difficile  sia  e peri-coloso spogliar  uno  del  regno,  e quello lasciar  vivo,  ancora  che  cercasse  con meriti  guadagnarselo.  E vedesi  come Tarquinio  Prisco  fu  ingannato  da  pa-rergli possedere  quel  regno  giuridica-mente, essendogli  stato  dato  dal  Popolo, e confermato  dal  Senato:  nè  credette che  nei  figliuoli  di  Anco  potesse  tanto lo  sdegno,  che  non  avessino  a conten- tarsi di  quello  che  si  contentava  tutta Roma.  E Servio  Tulio  s’ ingannò,  cre- dendo potere  con  nuovi  meriti  guada-gnarsi i figliuoli  di  Tarquinio.  Dimodo- ché, quanto  al  primo,  si  può  avvertire ogni  principe,  che  non  viva  mai  sicuro del  suo  principato,  finché  vivono  coloro che  ne  sono  stati  spogliati.  Quanto  al secondo,  si  può  ricordare  ad  ogni  po- tente, che  mai  le  ingiurie  vecchie  non furono  cancellate  da’ benefizi  nuovi;  e tanto  meno,  quanto  il  benefizio  nuovo è minore  che  non  è stata  l’ingiuria.  E
senza  dubbio,  Servio  Tulio  fu  poco  pru-dente a credere  che  i figliuoli  di  Tar quinio  fussino  pazienti  ad  esser  generi di  colui  di  chi  e’ giudicavano  dovere  es-sere re.  E questo  appetito  del  regnare è tanto  grande,  che  non  solamente  en-tra nei  petti  di  coloro  a chi  s’  aspetta il  regno,  ma  di  quelli  a chi  non  s’  aspet- ta: come  fu  nella  moglie  di  Tarquinio giovine,  figliuola  di  Servio;  la  quale, mossa  da  questa  rabbia,  coutra  ogni pietà  paterna,  mosse  il  marito  contro  al padre  a torgli  la  vita  ed  il  regno:  tanto stimava  più  essere  regina,  che  figliuola di  re  ! Se,  adunque,  Tarquinio  Prisco  e Servio  Tulio  perdettono  il  regno  per non  si  sapere  assicurare  di  coloro  a chi  ei  l avevano  usurpato,  Tarquinio Superbo  lo  perdè  per  non  osservare  gli ordini  degli  antichi  re;  come  nel  se- guente capitolo  si  mostrerà.
V.  — Quello  che  fa  perdere  uno regno  ad  uno  re  che  sia  ereditario di  quello. Avendo  Tarquinio  Superbo  morto  Ser-vio Tulio,  e di  lui  non  rimanendo  eredi, veniva  a possedere  il  regno  sicuramen-te, non  avendo  a temere  di  quelle  cose che  avevano  offeso  i suoi  antecessori.  E benché  il  modo  dell’  occupare  il  regno fusse  stato  istraordinario  ed  odioso;nondimeno,  quando  egli  avesse  osservato gli  antichi  ordini  degli  altri  re,  sarebbestato  comportato,  nè  si  sarebbe  conci-tato il  Senato  e la  Plebe  contra  di  lui
per  torgli  lo  Stato.  Non  fu,  adunque, costui  cacciato  per  aver  Sesto  suo  figliuo-lo stuprata  Lucrezia,  ma  per  aver  rotte le  leggi  del  regno,  e governatolo  tiran-nicamente; avendo  tolto  al  Senato  ogni autorità,  e ridottola  a sé  proprio;  e quelle  faccende  che  nei  luoghi  pubblici con  satisfazione  del  Senato  romano  si facevano,  le  ridusse  a fare  nel  palazzo suo  con  carico  ed  invidia  suo  ; talché in  breve  tempo  egli  spogliò  Roma  di tutta  quella  libertà  cl»’  ella  aveva  sotto gli  altri  Re  mantenuta.  Nò  gli  bastò farsi  nimici  i Padri,  che  si  concitò  an- cora contra  la  Plebe,  affaticandola  in cose  meccaniche,  e tutte  aliene  da  quelloa che  P avevano  adoperata  i suoi  ante-cessori: talché,  avendo  ripiena  Roma  di
essempi  crudeli  e superbi,  aveva  dispo-sti già  gli  animi  di  tutti  i Romani  allaribellione,  qualunque  volta  ne  avessino occasione.  E se  lo  accidente  di  Lucrezianon  fusse  venuto,  come  prima  ne  fussc nato  un  altro,  arebbe  partorito  il  me-desimo effetto.  Perchè,  se  Tarquinio fusse  vissuto  come  gli  altri  Re,  e Sestosuo  figliuolo  avesse  fatto  quello  errore, sarebbero  Bruto  e Collatino  ricorsi  aTarquinio  per  la  vendetta  contru  a Se-sto, e non  al  Popolo  romano.  Soppino
adunque  i principi,  come  a quella  ora e*  cominciano  a perdere  lo  Stato,  eh’  eicominciano  a rompere  le  leggi,  e quelli modi  e quelle  consuetudini  che  sonoantiche,  e sotto  le  quali  gli  uomini  lungo tempo  sono  vivuti.  E se  privati  di’  eisono  dello  Stato,  e'  diventassino  mai tanto  prudenti,  che  conoscessino  conquanta  facilità  i principati  si  tenghino da  coloro  che  saviamente  si  consiglia-no; dorrebbe  molto  più  loro  tal  perdi-ta, ed  a maggiore  pena  si  condanne-rebbono,  che  da  altri  fussino  condan-nati. Perchè  egli  è molto  più  facile  es-sere amato  da’  buoni  che  dai  cattivi,  ed ubbidire  alle  leggi  che  volere  comandareloro.  E volendo  intendere  il  modo  aves-sino a tenere  a fare  questo,  non  hannoa durare  altra  fatica  che  pigliare  per loro  specchio  la  vita  dei  principi  buo-ni; come  sarebbe  Tiinoleone  Corintio, Arato  Sicioneo,  e simili:  nella  vitade’  quali  ei  troveranno  tanta  sicurtà  e tanta  «atisfazione  di  chi  regge  e di  chiè retto,  che  doverrebbe  venirgli  voglia di  imitargli,  potendo  facilmente,  per  leragioni  dette,  farlo.  Perchè  gli  uomini, quando  sono  governati  bene,  non  cer-cano  uè  vogliono  altra  libertà  : come intervenne  ai  popoli  governati  dai  duoiprenominati  ; che  gli  costrinsono  ad  es-sere principi  mentre  che  vissono,  ancorache  da  quelli  più  volte  fusse  tentato  di ridursi  in  vita  privata.  E perchè  in  que-sto, e ne'  duoi  antecedenti  capitoli,  si  è ragionato  degli  umori  concitati  contraa'  principi,  e delle  congiure  fatte  dai figliuoli  di  Bruto  contra  alla  patria,  edi  quelle  fatte  contra  a Tarquinio  Pri-sco ed  a Servio  Tulio;  non  mi  parecosa  fuori  di  proposito,  nel  seguente capitolo,  parlarne  diffusamente,  sendomateria  degna  di  essere  notata  dai  prin-cipi e dai  privati. Cap.  VI.  — Delle  congiure.E'  non  mi  è parso  da  lasciare  indie-tro il  ragionare  delle  congiure,  essendocosa  tanto  pericolosa  ai  principi  ed  ai privali  ; perché  si  vede  per  quelle  mollipiù  principi  aver  perduta  la  vita  e lo Stato,  die  per  guerra  aperta.  Perchè  ilpoter  fare  aperta  guerra  con  un  prin-cipe, è conceduto  a pochi  ; il  poterglicongiurar  contra,  è conceduto  a ciascuno' DalP  altra  parte,  gli  uomini  privati  nonentrano  in  impresa  più  pericolosa  nè più  temeraria  di  questa;  perchè  la  èdifficile  e pericolosissima  in  ogni  sua parte.  Donde  ne  nasce,  che  molte  se  netentano,  e pochissime  hanno  il  line  de-siderato. Acciocché,  adunque,  i principi imparino  a guardarsi  da  questi  pericoli, e che  i privati  più  timidamente  vi  siniellino;  anzi  imparino  ad  esser  contenti a vivere  sotto  quello  imperio  che  dallasorte  è stato  loro  preposto;  io  ne  par- lerò diffusamente,  non  lasciando  indietroalcun  caso  notabile  in  documento  del-1’  uno  e dell’  altro.  E veramente,  quellasentenza  di  Cornelio  Tacito  è aurea, che  dice:  che  gli  uomini  hanno  ad  ono-rare le  cose  passate,  ed  ubbidire  alle  presenti  ; e debbono  desiderare  i buoniprincipi,  e comunque  si  siano  fatti  tol-lerargli. E veramente  chi  fa  altrimenti,il  più  delle  volte  rovina  sè  e la  sua patria.  Dobbiamo,  adunque,  entrandonella  materia,  considerare  prima  contra a chi  si  fanno  le  congiure;  e troveremofarsi  o contra  alla  patria,  o contra  ad uno  principe;  delle  quali  due  voglioche  al  presente  ragioniamo;  perchè  di quelle  che  si  fanno  per  dare  una  terraai  nimici  che  la  assediano,  o che  abbino per  qualunque  cagione  similitudine  conquesta,  se,  n’  è parlato  di  sopra  a suf- ficienza. E tratteremo  in  questa  primaparte  di  quelle  contra  al  principe,  e pri-ma esamineremo  le  cagioni  di  esse:  lequali  sono  molte;  ma  una  ne  è impor-tantissima più  che  tutte  V altre.  E que-sta è l’essere  odiato  dall’universale; perchè  quel  principe  che  si  è concitatoquesto  universale  odio,  è ragionevole che  abbi  de’  particolari  i quali  da  luisiano  stati  più  offesi,  e che  desiderino vendicarsi.  Questo  desiderio  è accresciutoloro  da  quella  mala  disposizione  univer- sale, che  veggono  essergli  concitata  con-tra.  Debbe,  adunque,  un  principe  fug-gire questi  carichi  pubblici  : e come  egliabbia  a fare  a fuggirli,  avendone  altrove trattato,  non  ne  voglio  parlare  qui;  per-chè guardandosi  da  questo,  le  semplici offese  particolari  gli  faranno  meno  guer-ra. L’ una,  perchè  si  riscontra  rade  volte in  uomini  che  stimino  tanto  una  ingiu-rio, che  si  menino  a tanto  pericolo  per vendicarla;  l’altra,  che  quando  pur  eilussino  d’animo  e di  potenza  da  farlo, sono  ritenuti  da  quella  benivolenza  uni-versale, che  veggono  avere  ad  uno  prin-cipe. Le  ingiurie,  conviene  che  sianonella  roba,  nel  sangue,  o nell’onore.  Di quelle  del  sangue  sono  più  pericolose  leminacce  che  la  esecuzione;  anzi,  le  mi-nacce sono  pericolosissime,  e nella  ese-cuzione non  vi  è pericolo  alcuno:  perchè chi  è morto,  non  può  pensare  alla  ven-detta; quelli  che  rimangono  vivi,  il  più delle  volte  ne  lasciano  il  pensiero  almorto.  Ma  colui  che  è minacciato,  e che si  vede  constretto  da  una  necessità  o difare  o di  patire,  diventa  un  uomo  pe-ricolosissimo per  il  principe:  come  nelsuo  luogo  particolarmente  diremo.  Fuora di  queste  necessità,  la  roba  e l’onoresono  quelle  due  cose  che  offendono  più gii  uomiui  che  alcun’ altra  offesa,  e dallequali  il  principe  si  debbe  guardare  : per-chè e’  non  può  mai  spogliare  uno  tanto,che  non  gli  resti  un  coltello  da  vendi-carsi: non  può  mai  tanto  disonorareuno,  che  non  gli  resti  un  animo  ostinato alla  vendetta.  E degli  onori  che  si  tol-gono agli  uomini,  quello  delle  donne importa  più:  dopo  questo,  il  vilipendiodella  sua  persona.  Questo  armò  Pausa-sania  contro  a Filippo  di  Macedonia;questo  ha  armato  molti  altri  contra  a molti  altri  principi:  e nei  nostri  tempiIulio  Belanti  non  si  mosse  a congiurare contra  Pandolfo  tiranno  di  Siena,  se  nonper  avergli  quello  data,  e poi  tolta  per moglie  una  sua  figliuola  ; come  nel  suoluogo  diremo.  La  maggior  cagione  che fece  che  i Pazzi  congiurarono  conteaa’  Medici,  fu  l’eredità  di  Giovanni  Bon- romei,  la  quale  fu  loro  tolta  per  ordinedi  quelli.  Un’altra  cagione  ci  è,  e gran-dissima, che  fu  gli  uomini  congiurarecontro  al  principe;  la  quale  è il,  disi-derio  di  liberare  la  patria  stata  daquello  occupata.  Questa  cagione  mosse Bruto  e Cassio  contro  a Cesare;  questaha  mosso  molti  altri  contro  ai  Palali, Dionisi,  ed  altri  oceupatori  della  patrialoro.  Nè  può  da  questo  umore  alcuno tiranno  guardarsi,  se  non  con  diporrela  tirannide.  E perchè  non  si  truovu alcuno  che  faccia  questo,  si  truovauo pochi  che  non  capitino  male;  donde nacque  quel  verso  di  Iuvenale:« Adgcnerum  Cereria  sineccedeet  vulnere  parici Descendunt  reges,  et  sicca  morte  tiranni.  »1 pericoli  che  si  portano,  come  io  dissi di  sopra,  nelle  congiure,  sono  grandi, portandosi  per  lutti  i tempi;  perchè  in tali  casi  si  coire  pericolo  nel  maneg-giarli, nello  eseguirli,  ed  eseguiti  che sono.  Quelli  che  congiurano,  o e’sonouno,  o e’  sono  più.  Uno  non  si  può  dire che  sia  congiura,  ma  è una  ferma  dispo-sizione nata  in  un  uomo  d’  ammazzare il  principe.  Questo  solo  dei  tre  pericoliche  si  corrono  nelle  congiure,  manca del  primo;  perchè  innanzi  alla  esecu-zione non  porta  alcun  pericolo,  non avendo  altri  il  suo  segreto,  nè  portandopericolo  che  torni  il  disegno  suo  all*  orec-chie del  principe.  Questa  diliberazionecosi  fatta  può  cadere  in  qualunque  uomo, di  qualunque  sorte,  piccolo,  grande,  no-bile, ignobile,  famigliare  e non  famiglia-re al  principe;  perchè  ad  ognuno  è le-cito qualche  volta  parlargli;  ed  a chi  è lecito  parlare,  è lecito  sfogare  T animosuo.  Pausanio,  del  quale  altre  volte  si  è parlato,  ammazzò  Filippo  di  Macedoniache  andava  al  tempio,  con  mille  armati d*  intorno,  ed  in  mezzo  intra  il  figliuoloed  il  genero:  ma  costui  fu  nobile  e co- gnito  al  principe.  Uno  Spagnuolo  poveroed  abietto,  dette  una  coltellata  in  su  M collo  al  re  Ferrante,  re  di  Spagna  : nonfu  la  ferita  mortale,  ma  per  questo  si vidde  che  colui  ebbe  animo  e comoditàa farlo.  Uno  dervis,  sacerdote  turchesco, trasse  d’  una  scimitarra  a Baisit,  padredel  presente  Turco:  non  lo  ferì,  ma  ebbe pur  animo  e comodità  a volerlo  fare.Di  questi  animi  «fatti  cosi,  se  ne  truo- vano,  credo,  assai  che  lo  vorrebbonofare,  perchè  nel  volere  non  è pena  uè pericolo  alcuno  ; ma  pochi  che  lo  facci-no. Ma  di  quelli  che  lo  fanno,  pochis- simi o nessuno  che  non  siano  ammaz-zati in  sul  fatto:  però  non  si  truova  chi voglia  andare  ad  una  certa  morte.  Malasciamo  andare  queste  uniche  volontà, e veniamo  alle  congiure  intra  i più.Dico,  trovarsi  nelle  istorie,  tutte  le  con-giure esser  fatte  da  uomini  grandi,  ofamigliarissimi  de!  principe:  perchè  gli altri,  se  non  sono  matti  affatto,  non  pos-sono congiurare  ; perchè  gli  uomini  de-boli,  e non  famiglial  i al  principe,  man-cano di  tutte  quelle  speranze  e di  tutte quelle  comodità  che  si  richiede  alla  ese-cuzione d’  una  congiura.  Prima,  gli  uo-mini deboli  non  possono  trovare  riscon-tro di  chi  tenga  lor  fede;  perchè  uno non  può  consentire  alla  volontà  loro,sotto  alcuna  di  quelle  speranze  che  fa entrare  gli  uomini  ne’ pericoli  grandi;in  modo  che,  come  e’  si  sono  allargati in  due  o in  tre  persone,  e’  trovano  loaccusatore  c rovinano:  ma  quando  pure ei  fussino  tanto  felici  che  mancassinodi  questo  accusatore,  sono  nella  esecu-zione intorniati  da  tale  difficultà,  pernon  aver  V entrata  facile  al  principe, che  gli  è impossibile  che  in  essa  ese-cuzione ei  non  rovinino.  Perchè,  se  gli uomini  grandi,  e che  hanno  Y entratafacile,  sono  oppressi  da  quelle  difficultà. che  di  sotto  si  diranno,  conviene  che  incostoro  quelle  difficultà  senza  fine  crc-schino.  Pertanto  gli  uomini  (perchè  dovene  va  la  vita  e la  roba  non  sono  al  tutto insani),  quando  si  veggono  deboli,  se  neguardano;  e quando  egli  hanno  a noia un  principe,  attendono  a biastemmarlo,cd  aspettano  che  quelli  che  hanno  mag-giore qualità  di  loro,  gli  vendichino.  Ese  pure  si  trovasse  che  alcuno  di  que-sti simili  avesse  tentato  qualche  cosa,  sidebbe  laudare  in  loro  la  intenzione,  e non  la  prudenza.  Vedesi,  pertanto,  quelliche  hanno  congiurato,  essere  stali  tutti uomini  grandi,  o famiglial  i del  princi-pe; de’ quali  molti  hanno  congiuralo, mossi  cosi  da  troppi  benefìzi,  comedalle  troppe  ingiurie:  come  fu  Peren-nio  contra  a Commodo,  Plauziano  con-tro a Severo,  Sciano  contra  a Tiberio. Costoro  tutti  furono  dai  loro  imperadoricon stituiti  in  tanta  ricchezza,  onore  e grado,  che  non  pareva  che  mancasseloro  alla  perfezione  della  potenza  altro che  l’ imperio;  e di  questo  non  volendomancare,  si  missono  a congiurare  con- ila al  principe:  ed  ebbono  le  loro  con-giure tutte  quel  fine  che  meritava  la loro  ingratitudine;  ancora  che  di  que-ste simili  ne’  tempi  più  freschi  ne  avesse buon  fine  quella  di  Iacopo  d’Appianocontra  a messer  Piero  Gambacorti,  prin-cipe di  Pisa  : il  quale  Iacopo,  allevato  enutrito  e fatto  riputato  da  lui,  gli  tolse poi  lo  Stato.  Fu  di  queste  quella  delCoppola,  ne’  nostri  tempi,  contra  al  re Ferrando  d' Aragona  ; il  quale  Coppolavenuto  a tanta  grandezza  che  non  gli pareva  gli  mancasse  se  non  il  regno,per  volere  ancora  quello,  perde  la  vita. E veramente,  se  alcuna  congiura  contraa’ principi  fatta  da  uomini  grandi  do-vesse avere  buon  fine,  doverrebbé  es-sere questa;  essendo  fatta  da  un  altro re,  si  può  dire,  e da  chi  ha  tanta  co-modità di  adempire  il  suo  desiderio: ma  quella  cupidità  del  dominare  chegli  accieca,  gli  accieca  ancora  nel  ma-neggiare questa  impresa  ; perchè,  sesapessino  fare  questa  cattività  con  pru-denza, sarebbe  impossibile  non  riuscisseloro.  Debbe,  adunque,  un  principe  che si  vuole  guardare  dalie  congiure,  temerepiù  coloro  a chi  egli  ha  fatto  troppi piaceri,  che  quelli  a chi  gli  avesse  fattetroppe  ingiurie.  Perchè  questi  mancano di  comodità,  quelli  ne  abbondano;  e lavoglia  è simile,  perchè  gli  è così  grande o maggiore  il  desiderio  del  dominare,che  non  è quello  della  vendetta.  Deb-bono, pertanto,  dare  tanta  autorità  agliloro  amici,  che  da  quella  al  principato sia  qualche  intervallo,  e che  vi  sia  inmezzo  qualche  cosa  da  disiderare:  al-trimenti, sarà  coso  rara  se  non  inter-verrà loro  come  ai  principi  soprascritti. .Ma  torniamo  all’  ordine  nostro.  Dico,che  avendo  ad  esser  quelli  che  congiu-rano uomini  grandi,  e che  abbino  l’aditofacile  al  principe,  si  ha  a discorrere  i successi  di  queste  loro  imprese  qualisiano  stati,  e vedere  la  cagione  che  gli  «ha  fatti  essere  felici  ed  infelici.  E comeio  dissi  di  sopra,  ci  si  trovano  dentro in  tre  tempi,  pericoli:  prima,  in  su  ’lfatto,  e poi.  Però  se  ne  trovano  poche che  abbiano  buono  esito,  perchè  gli  èimpossibile  quasi  passargli  tutti  felice-mente. E cominciando  a discorrere  ipericoli  di  prima,  che  sono  i più  impor-tanti; dico,  come  e’  bisogna  essere  moltoprudente,  ed  avere  una  gran  sorte,  che nel  maneggiare  una  congiura  la  non  siscuopra.  E si  scuoprono  o per  relazio-ne, o per  coniettura.  La  relazione  nasceda  trovare  poca  fede,  o poca  prudenza, negli  uomini  con  chi  tu  la  comunichi.La  poca  fede  si  truova  facilmente,  per-chè tu  non  puoi  comunicarla  se  noncon  tuoi  fidati,  che  per  tuo  amore  si mettino  alla  morte,  o con  uomini  chesiano  malcontenti  del  principe.  De’  fidati se  ne  potrebbe  trovare  uno  o due;  macome  tu  Li  distendi  in  molti,  è impos-sibile gli  truovi:  dipoi,  c’bisogna  beneche  la  benevolenza  che  ti  portano  sia grande,  a volere  che  non  paia  loro  mag-giore il  pericolo  e la  paura  della  pena. Dipoi  gli  uomini  s' ingannano  il  piùdelle  volte  dello  amore  che  tu  giudichi che  un  uomo  ti  porti,  nè  le  ne  puoimai  assicurare,  se  tu  non  ne  fai  espe- rienza: e farne  esperienza  in  questo  èpericolosissimo:  e sebbene  he  avessi  fatto esperienza  in  qualche  altra  cosa  perico-losa dove  e’ ti  fussono  stali  fedeli,  non puoi  da  quella  fede  misurare  questa,passando  questa  di  gran  lunga  ogni  al-tra qualità  di  pericolo.  Se  misuri  la  fededalla  mala  contentezza  che  uno  abbia del  principe,  in  questo  tu  ti  puoi  facil-mente ingannare:  perchè  subito  che  tu hai  manifestato  a quel  malcontento  l’ani-mo  tuo,  tu  gli  dai  materia  di  conten- tarsi, e convien  bene  o che  1’  odio  siagrande,  o che  1’  autorità  tua  sia  gran-dissima a mantenerlo  in  fede.  Di  quinasce  che  assai  ne  sono  rivelate  ed oppresse  ne’  primi  principii  loro;  e chequando  una  è stata  infra  molti  uomini segreta  lungo  tempo,  è tenuta  cosa  mi-racolosa: come  fu  quella  di  Pisone  con-tea a Nerone,  e ne' nostri  tempi  quellade’  Pazzi  conira  a Lorenzo  e Giuliano de'  Medici;  delle  quali  erano  consapevolipiù  clic  cinquanta  uomini,  c condus- sonsi  alla  esecuzione  a scoprirsi.  Quantoa scoprirsi  per  poca  prudenza,  nasce quando  uno  congiurato  ne  parla  pococauto,  in  modo  che  un  servo  o altra terza  persona  intenda;  come  intervenneai  figliuoli  di  Bruto,  che  nel  maneggiare la  cosa  con  i legali  di  Tarquinio,  fu-rono intesi  da  un  servo,  che  gli  accusò: ovvero  quando  per  leggerezza  ti  vienecomunicala  a donna  o a fanciullo  che tu  ami,  o a simile  leggieri  persona  ;come  fece  Dinno,  uno  de*  congiurati  con Filota  centra  ad  Alessandro  Magno,  ilquale  comunicò  la  congiura  a Nicomaco fanciullo  amato  da  lui,  il  quale  subito lo  disse  a Ciballino  suo  fratello,  e Ci-bullino  al  re.  Quanto  a scoprirsi  perconieltura,  ce  tf  è in  essempio  la  con-giura Pisoniana  conira  a Nerone;  nellaquale  Scevino,  uno  de’  congiurati,  il  dì dinanzi  eh’  egli  aveva  ad  ammazzareNerone,  fece  testamento,  ordinò  che  Me-lichio  suo  liberto  facesse  arrotare  unsuo  pugnale  vecchio  e rugginoso,  liberò tutti  i suoi  servi  e dette  loro  danarifece  ordinare  fasciature  da  legare  ferite: per  le  quali  conietture  accertatosi  .Meli-chio  della  cosa,  lo  accusò  a Nerone.  Fu preso  Scevino,  e con  lui  Natale,  un  altrocongiurato,  i quali  erano  stati  veduti parlare  a lungo  e di  segreto  insieme  ildi  davanti;  e non  si  accordando  del ragionamento  avuto,  furono  forzati  aconfessare  il  vero;  talché  la  congiura fu  scoperta,  con  rovina  di  tutti  i con-giurati. Da  queste  cagioni  dello  scoprire le  congiure  è impossibile  guardarsi,  cheper  malizia,  per  imprudenza  o per  leg- gerezza, la  non  si  scuopra,  qualunquevolta  i conscii  d’essa  passano  il  numero di  tre  o di  quattro.  E come  e’  ne  è presopiù  che  uno,  è impossibile  non  riscon- trarla, perchè  due  non  possono  esserconvenuti  insieme  di  tutti  i ragiona- menti loro.  Quando  e’  sia  preso  solouno  che  sia  uomo  forte,  può  egli  con  la fortezza  dello  animo  tacere  i congiurati;ina  conviene  che  i congiurati  non  ab-bino meno  animo  di  lui  a star  saldi,e non  si  scoprire  con  la  fuga  : perchè da  una  parte  che  P animo  manca,  o dachi  è sostenuto  o da  chi  è libero,  la congiura  è scoperta.  Ed  è raro  lo  es-sempio  addotto  da  Tito  Livio  nella  con-giura fatta  contra  a Girolamo  re  diSiracusa  ; dove,  sendo  Teodoro  uno  de’congiurati  preso,  celò  con  una  virtùgrande  tutti  i congiurati,  ed  accusò  gli amici  del  re;  e dall’altra  parte,  tulli  icongiurati  confidarono  tanto  nella  virtù di  Teodoro,  che  nessuno  si  parti  diSiracusa,  o fece  alcuno  segno  di  timore. Passasi,  adunque,  per  tutti  questi  peri-coli nel  maneggiare  una  congiura  in-nanzi che  si  venga  alla  esecuzioned'essa:  i quali  volendo  fuggire,  ci  sono questi  rimedi.  Il  primo  ed  il  più  vero,anzi  a dir  meglio,  unico,  è non  dare tempo  ai  congiurati  di  accusarti;  eperciò  comunicare  loro  la  cosa  quando tu  ia  vuoi  fare,  e non  prima:  quelliche  hanno  fatto  cosi,  fuggono  al  certo  i pericoli  che  sono  nel  praticarla,  e il  piùdelle  volte  gli  altri  ; anzi  hanno  tutte avuto  felice  fine:  e qualunque  prudentearebbe  comodità  di  governarsi  in  que-sto modo,  lo  voglio  che  mi  basti  ad-durre due  essempi.  Nelemato,  non  po-tendo sopportare  la  tirannide  di  Ari-slotimo  tiranno  di  Epiro,  ragunò  in  casa sua  molti  parenti  ed  amici,  e conforta-togli a liberare  la  patria,  alcuni  di  loro chiesono  tempo  a deliberarsi  ed  ordi-narsi; donde  Nelemato  fece  a’  suoi  servi serrare  la  casa,  ed  a quelli  che  essoaveva  chiamati,  disse:  0 voi  giurerete di  andare  ora  a fare  questa  esecuzione,o io  vi  darò  tutti  prigioni  ad  Aristoti-mo.  Dalle  quali  parole  mossi  coloro,giurarono;  ed  andati  senza  intermissio-ne di  tempo,  felicemente  l’ ordine  diNelemato  eseguirono.  Avendo  un  Mago, per  inganno,  occupato  il  regno  de’Persi,ed  avendo  Orlano,  uno  de’grandi  uomini del  regno,  intesa  e scoperta  la  fraude,lo  conferì  con  sei  altri  principi  di  quello Stato,  dicendo  come  egli  era  da  vendi-care il  regno  dalla  tirannide  di  quel Mago;  e domandando  alcuno  di  lorotempo,  si  levò  Dario,  uno  de’  sei  chia- mati da  Orlano,  e disse:  0 noi  andre-mo ora  a far  questa  esecuzione,  o io  vi andrò  ad  accusar  tutti.  E così  d’ac-cordo levatisi,  senza  dar  tempo  ad  al- cuno di  pentirsi,  eseguirono  felicementei disegni  loro.  Simile  a questi  duoi essempi  ancora  è il  modo  che  gli  Etolitennero  ad  ammazzare  Nabide,  tiranno spartano  ; i quali  mandarono  Alessame-no  loro  cittadino,  con  trenta  cavalli  e dugento  fanti,  a Nabide,  sotto  colore  dimandargli  aiuto;  ed  il  segreto  solamente comunicarono  ad  Alessameno;  ed  agli altri  imposono  che  lo  ubbidissino  in ogni  e qualunque  cosa,  sotto  pena  diesilio.  Andò  costui  in  Sparta,  e non  co-municò mai  la  commissione  sua  se  nonquando  ei  la  voile  eseguire:  donde  gli riusci  d’  ammazzarlo.  Costoro,  adunque,per  questi  modi  hanno  fuggiti  quelli pericoli  che  si  portano  ne!  maneggiarele  congiure  ; e chi  imiterà  loro,  sempre gli  fuggirà.  E che  ciascuno  possa  farecome  loro,  io  ne  voglio  dare  lo  essein- pio  di  Pisone,  preallegato  di  sopra.  EraPisone  grandissimo  e riputatissimo uomo,  e famigliare  di  Nerone,  e in  chiegli  confidava  assai.  Andava  Nerone ne’  suoi  orli  spesso  a mangiare  seco.Poteva,  adunque,  Pisone  farsi  amici uomini  d’animo,  di  cuore,  e di  dispo-sizione atti  ad  una  tale  esecuzione  (il che  ad  uno  uomo  grande  è facilissimo);e quando  Nerone  fusse  stato  ne*  suoi orti,  comunicare  loro  la  cosa,  e conparole  convenienti  inanimirli  a far  quello che  loro  non  avevano  tempo  a ricusa-re, e che  era  impossibile  che  non  riu- scisse. E cosi,  se  si  esamineranno  tutte1’  altre,  si  troverà  poche  non  esser  po- tute condursi  nel  medesimo  modo:  magli  uomini  per  lo  ordinario  poco  inten-denti  delie  azioni  del  mondo,  spessofanno  errori  grandissimi,  e tanto  mag-giori in  quelle  che  hanno  più  dello istraordinario,  come  è questa.  Debbesi, adunque,  non  comunicare  mai  la  cosase  non  necessitato  ed  in  sul  fatto;  e se  pure  la  vuoi  comunicare,  comunicalaad  un  solo,  del  quale  abbi  fatto  lun-ghissima isperienza,  o che  sia  mossodalle  medesime  cagioni  che  tu.  Tro-varne uno  così  fatto  è molto  più  facileche  trovarne  più,  e per  questo  vi  è meno  pericolo;  dipoi,  quando  pure  eiti  ingannasse,  vi  è qualche  rimedio  a difendersi,  che  non  è dove  siano  con-giurati assai:  perchè  da  alcuno  prudente ho  sentito  dire  che  con  uno  si  può  par-lare ogni  cosa,  perchè  tanto  vale,  se  tu non  ti  lasci  condurre  a scrivere  di  tuamano,  il  sì  dell*  uno  quanto  il  no  del- l’altro; e dallo  scrivere  ciascuno  debbeguardarsi  come  da  uno  scoglio,  perchè non  è cosa  che  più  facilmente  ti  con-vinca, che  lo  scritto  di  tua  mano.  Plau- ziano  volendo  fare  ammazzare  Severoimperadore  ed  Antonino  suo  figliuolo, commise  la  cosa  a Saturnino  tribuno;il  quale  volendo  accusarlo  e non  ubbi- dirlo,  e dubitando  che  venendo  alla  ac-cusa non  fusse  più  creduto  a Plauziano che  a lui,  gli  chiese  una  cedola  di  suamano,  che  facesse  fede  di  questa  cora-missione  ; la  quale  Plauziano , acce-cato dalla  ambizione,  gli  fece:  donde seguì  che  fu  dal  tribuno  accusato  econvinto  ; e senza  quella  cedola,  e certi  altri  contrassegni,  sarebbe  statoPlauziano  superiore  : tanto  audacemente negava.  Truovasi,  adunque,  nella  accusad’uno  qualche  rimedio,  quando  tu  non puoi  esser  da  una  scrittura,  o altricontrassegni,  convinto:  da  che  uno  si debbe  guardare.  Era  nella  congiura  Pi-soniana  una  femmina  chiamata  Epicari, 9tata  per  lo  addietro  amica  di  Nerone;la  quale  giudicando  che  fusse  a propo-sito mettere  tra  i congiurati  uno  capi-tano di  alcune  triremi  che  Nerone  teneva per  sua  guardia,  gli  coipunicò  la  con-giura, ma  non  i congiurati.  Donde,  rom-pendogli quel  capitano  la  fede  ed  accu-sandola a Nerone,  fu  tanta  l’ audacia  di Epicari  nel  negarlo,  che  Nerone,  rimasoconfuso,  non  la  condennò.  Sono,  adun-que, nel  comunicare  la  cosa  ad  un  solodue  pericoli  : l’ uno,  che  non  ti  accusi  in pruova;  l’altro,  che  non  ti  accusi  con-vinto e constretto  dalla  pena,  sendo  egli preso  per  qualche  sospetto  o per  qual-che indizio  avuto  di  lui.  Ma  nell’  uno  e nell’altro  di  questi  duoi  pericoli  è qual-che rimedio,  potendosi  uegare  l’uno  al- legandone l’odio  che  colui  avesse  teco,e negare  l’altro  allegandone  la  forza che  lo  costringesse  a dire  le  bugie.  E,adunque,  prudenza  non  comunicare  la cosa  a nessuno,  ma  fare  secondo  quelliessenipi  soprascritti;  o quando  pure  la comunichi,  non  passare  uno,  dove  se  èqualche  più  pericolo,  ve  n’è  meno  assai che  comunicarla  con  molti.  Propinquo a questo  modo  è quando  una  necessità ti  constringa  a fare  quello  al  principeche  tu  vedi  che  '1  principe  vorrebbe fare  a te,  la  quale  sia  tanto  grande  chenon  ti  dia  tempo  se  non  a pensare  d’as* sicurarti.  Questa  necessità  conduce  quasisempre  la  cosa  al  (ine  disiderato:  ed  a provarlo  voglio  bastino  duoi  essempi.Aveva  Commodo,  imperadore,  Leto  ed Eletto,  capi  de’ soldati  pretoriani,  intrai primi  amici  e famigliaci  suoi,  ed  aveva Marzia  intra  le  sue  prime  concubine  edamiche;  e perchè  egli  era  da  costoro qualche  volta  ripreso  de' modi  con  iquali  maculava  la  persona  sua  e lo  im-perio, deliberò  di  fargli  morire,  e scrissein  su  una  lista:  Marzia,  Leto  ed  Eletto, ed  alcuni  altri  che  voleva  la  notte  se-guente far  morire;  e questa  lista  messe sotto  il  capezzale  del  suo  letto.  Ed  essen-do ito  a lavarsi,  un  fanciullo  favorito di  lui  scherzando  per  camera  e su  pelletto,  gli  venne  trovata  questa  lista,  ed uscendo  fuora  con  essa  in  mano,  ri-scontrò Marzia;  la  quale  gliene  tolse, e lettola,  e veduto  il  contenuto  d’essa,subito  mandò  per  Leto  ed  Eletto;  e co-nosciuto tutti  tre  il  pericolo  in  qualeerano,  diliberarono  prevenire;  e,  senza metter  tempo  in  mezzo,  la  notte  seguenteammazzarono  Commodo.  Era  Antonino Caracalla,  imperadore,  con  gli  esercitisuoi  in  Mesopotamia,  ed  aveva  per  suo prefetto  Macrino,  uomo  più  civile  chearmigero;  e,  come  avviene  che.  i prin- cipi non  buoni  temono  sempre  che  altrinon  operi  contra  di  loro  quello  che  par loro  meritare,  scrisse  Antonino  a Ma-terniano  suo  amico  a Roma,  che  inten-desse dagli  astrologi,  se  gli  era  alcunoche  aspirasse  allo  imperio,  e gliene  av-visasse. Donde  Materniano  gli  riscrisse,come  Macrino  era  quello  che  vi  aspira-• va;  e pervenuta  la  lettera,  prima  allemani  di  Macrino  che  dello  imperadore,e per  quella  conosciuta  la  necessità  od’ammazzare  lui  prima  che  nuova  let-tera venisse  da  Roma,  o di  morire,commise  a Marziale  centurione,  suo  fida-lo,  ed  a chi  Antonino  aveva  morto  pochigiorni  innanzi  un  fratello,  che  lo  am-mazzasse: il  che  fu  eseguito  da  lui  fe-licemente. Vedesi,  adunque,  che  questa necessità  che  non  dà  tempo,  fa  quasiquel  medesimo  effetto  che  ’l  modo  da me  sopraddetto  che  tenne  Nelemato  diEpiro.  Vedesi  ancora  quello  che  io  dissi quasi  nel  principio  di  questo  discorso,come  le  minacce  offendono  più  gii  prin- cipi, e sono  cagione  di  più  efficaci  con-giure che  le  offese  : da  che  un  principe si  debbe  guardare;  perchè  gli  uomini si  hanno  o a carezzare,  o assicurarsi  di loro,  e non  gli  ridurre  mai  in  termineche  gli  abbino  a pensare  che  bisogni loro  o morire,  o far  morire  altrui.Quanto  ai  pericoli  che  si  corrono  in  su la  esecuzione,  nascono  questi  o da  va-riare l’ordine,  o da  mancare  V animo a colui  che  eseguisce,  o da  errore  chelo  esecutore  faccia  per  poca  prudenza, o per  non  dar  perfezione  alla  cosa,  ri-manendo vivi  parte  di  quelli  che  si  di- segnavano  ammazzare.  Dico,  adunque,come  e'  non  è cosa  alcuna  che  faccia tanto  sturbo  o impedimento  a tutte  leazioni  degli  uomini,  quanto  è in  uno instante,  senza  aver  tempo,  avere  a va-riare un  ordine,  e pervertirlo  da  quello che  si  era  ordinato  prima.  E se  questavariazione  fa  disordine  in  cosa  alcuna, lo  fa  nelle  cose  della  guerra,  ed  in  cosesimili  a quelle  di  che  noi  parliamo;  per-chè in  tali  azioni  non  è cosa  tanto  ne-cessaria a fare,  quanto  che  gli  uomini fermino  gli  animi  loro  ad  eseguire  quellaparte  che  tocca  loro;  e se  gli  uomini hanno  volto  la  fantasia  per  più  giorniad  un  modo  e ad  uno  ordine,  e quello subito  varii,  è impossibile  che  non  siperturbino  tutti,  e non  rovini  ogni  co-sa; in  modo  ch'egli  è meglio  assai  ese-guire una  cosa  secondo  l' ordine  dato, ancora  che  vi  si  vegga  qualche  incon-veniente, che  non  è,  per  voler  cancellare quello,  entrare  in  mille  inconvenienti.Questo  interviene  quando  e’  non  si  ha tempo  a riordinarsi;  perchè  quando  siha  tempo,  si  può  1’  uomo  governare  a suo  modo.  La  congiura  de’ Pazzi  contraa Lorenzo  e Giuliano  de’  Medici,  è nota. L’ ordine  dato  era,  che  dessino  desinareal  cardinale  di  San  Giorgio,  ed  a quel desinare  ammazzargli:  dove  si  era  di-stribuito chi  aveva  a ammazzargli,  chi aveva  a pigliare  il  palazzo,  e chi  correrela  città  e chiamare  il  popolo  alla  libertà. Accadde  che  essendo  nella  chiesa  catte-drale in  Firenze  i Pazzi,  i Medici  ed  il Cardinale  ad  uno  offizio  solenne,  s’in-tese come  Giuliano  la  mattina  non  vi desinava  : il  che  fece  che  i congiuratis’adunarono  insieme,^  quello  che  gli avevano  a far  in  casa  i Medici,  dilibe-rarono di  farlo  in  chiesa.  Il  che  venne a perturbare  tutto  l’ordine;  perchè  Gio-vambatista  da  Montesecco  non  volle  con-correre all’  omicidio,  dicendo  non  lo  co-lere fare  in  chiesa:  talché  gli  ebbono  a“mutare  nuovi  ministri  in  ogni  azione;  iquali,  non  avendo  tempo  a fermare  l’ani-mo,  feci ono  tali  errori,  che  in  essa  ese-cuzione furono  oppressi.  Manca  l’animo a chi  eseguisce,  o per  riverenza,  o perpropria  viltà  dello  esecutore,  lì)  tanta  la maestà  e la  riverenza  che  si  tira  dietrola  presenza  d’uno  principe,  eh’  egli  è fa-cil  cosa  o che  mitighi  o ch’egli  sbigot-tisca uno  esecutore.  A Mario,  essendo preso  da’  Minturnesi,  fu  mandato  uno  ser-vo che  lo  ammazzasse  ; il  quale  spaventato dalla  presenza  di  quello  uomo  e dalla  me-moria del  nome  suo  divenuto  vile,  per-de ogni  forza  ad  ucciderlo.  E se  que-sta potenza  è in  uno  uomo  legato  e prigione,  ed  affogato  in  la  mala  fortuna,quanto  si  può  temere  che  la  sia  mag-giore in  un  principe  sciolto,  con  lamaestà  degli  ornamenti,  della  pompa  c della  comitiva  sua?  talché  ti  può  questapompa  spaventare,  o vero  con  qualche grata  accoglienza  raumiliare.  Congiura-rono alcuni  contro  a Sitalce  re  di  Tra- cia; deputarono  il  dì  della  esecuzione;convennono  al  luogo  deputato,  dov’ era il  principe;  nessuno  di  loro  si  mosseper  offenderlo:  Unto  che  si  partirono senza  aver  tentato  alcuna  cosa  e senzasapere  quello  che  se  gli  avesse  impediti; ed  incolpavano  1’  uno  1’  altro.  Caddonoin  tale  errore  più  volte  ; tanto  che  sco-pertasi la  congiura,  portarono  pena  diquel  male  che  poterono  e non  volleno fare.  Congiurarono  contra  Alfonso  ducadi  Ferrara  due  suoi  fratelli,  ed  usarono mezzano  Giennes  prete  e cantore  delduca;  il  quale  più  volte  a loro  richiesta, condusse  il  duca  fra  loro,  talché  gliavevano  arbitrio  di  ammazzarlo.  Nondi-meno, mai  nessuno  di  loro  non  ardì  difarlo;  tanto  che  scoperti,  portarono  la pena  della  cattività  e poca  prudenzaloro.  Questa  negligenza  non  potette  na-scere da  altro,  se  non  che  convenne  oche  la  presenza  gli  sbigottisse  o che qualche  umanità  del  principe  gli  umi-liasse. Nasce  in  tali  esecuzioni  inconve-niente o errore  per  poca  prudenza,  oper  poco  animo;  perchè  V una  e 1’  altra di  queste  due  cose  ti  ’nvasa,  e,  portatoda  quella  confusione  di  cervello,  ti  fa dire  e fare  quello  che  tu  non  debbi.  Eche  gli  uomini  invasino  e si  confondino, non  lo  può  meglio  dimostrare  Tito  Livioquando  descrive  d’  Alessameno  elolo, quando  ei  volse  ammazzare  Nabide  spar-tano^ di  che  abbiamo  di  sopra  parlato; che,  venuto  il  tempo  della  esecuzione,scoperto  che  egli  ebbe  a’  suoi  quello che  af  aveva  a fare,"  dice  Tito  Livioqueste  parole:  Collegi!  et  i psc  animunij confusimi  tanice  cogilatione  rei.  Perchègli  è impossibile  eh*  alcuno,  àncora  che di  animo  fermo,  ed  uso  alla  morte  de-gli uomini  e ad  operare  il  ferro,  non si  confonda.  Però  si  debbe  eleggere  uo-mini sperimentati  in  tali  maneggi,  ed  a nessun  altro  credere,  ancora  che  tenutoanimosissimo.  Perchè,  dello  animo  nelle cose  grandi,  senza  avere  fatto  isperien-za,  non  sia  alcuno  che  se  ne  prometta cosa  certa.  Può,  adunque,  questa  con-fusione o farti  cascare  Panni  di  mano, o farti  dire  cose  che  faccino  il  medesi-mo effetto.  Lucilla,  sorella  di  Commodo, ordinò  che  Quinziano  lo  ammazzasse.Costui  aspettò  Commodo  nella  entrata dello  anfiteatro,  c con  un  pugnale  ignudoaccosta ndosegli,  gridò:  Questo  ti  manda il  Senato:  le  quali  parole  fecero  che  fuprima  preso  eh’  egli  avesse  calato  il braccio  per  ferire.  Messer  Antonio  daVolterra,  diputato,  come  di  sopra  si disse,  ad  ammazzare  Lorenzo  de*  Medici,nello  accostategli,  disse:  Ah  traditore! la  qual  voce  fu  la  salute  di  Lorenzo,  ela  rovina  di  quella  congiura.  Può  non si  dare  perfezione  alla  cosa,  quando  sicongiura  contro  ad  un  capo,  per  le  ca-gioni delle:  ma  facilmente  non  se  le  dàperfezione  quando  si  congiura  contro  a due  capi;  anzi  è tanto  difficile,  che  gliè quasi  impossibile  eli»  la  riesca.  Per-chè fare  una  simile  azione  in  un  mede-simo tempo  in  diversi  luoghi,  è quasi impossibile;  perchè  in  diversi  tempinon  si  può  fare,  non  volendo  che  l’una guasti  1’  altra.  In  modo  clic,  se  il  con-giurare contro  ad  uu  principe  è cosa dubbia,  pericolosa  e poco  prudente  ;congiurare  contro  a due,  è al  tutto  vana e leggieri.  E se  non  fusse  la  riverenzadello  istorieo,  io  non  crederei  mai  che fusse  possibile  quello  che  Erodiano  dicedi  Plauziano,  quando  ei  commise  a Sa-turnino centurione,  che  egli  solo  am-mazzasse Severo  ed  Antonino,  abitanti in  diversi  luoghi:  perchè  la  è cosa  tantodiscosto  dal  ragionevole,  che  altro  che questa  autorità  non  me  lo  farebbe  cre-dere. Congiurarono  certi  giovani  ateniesi contra  a Diocle  ed  Ippia,  tiranni  diAlene.  Ammazzarono  Diocle;  ed  Ippia che  rimase,  Io  vendicò.  Chione  e Leo-nide, eradensi  e discepoli  di  Platone, congiurarono  contro  a Clearco  e Satiro,tiranni:  ammazzarono  Clearco;  e Satiro che  restò  vivo,  lo  vendicò.  Ai  Pazzi,  piuvolte  da  noi  allegati,  non  successe  di ammazzare  se  non  Giuliano.  In  modoche,  di  simili  congiure  contro  a più  capi se  ne  dcbbe  astenere  ciascuno,  perchènon  si  fa  bene  nè  a sè  nè  olla  patria nè  ad  alcuno:  anzi  quelli  che  riman-gono , diventano  più  insopportabili  c più  acerbi;  come  sa  Firenze,  Ateneed  Eraclea,  state  da  ine  preallegate. È vero  che  la  congiura  clic  Pelopidafece  per  liberare  Tebe  sua  patria , ebbe  tutte  le  diffìcultù;  nondimenoebbe  felicissimo  fine:  perchè  Pelopida non  solamente  congiurò  contra  a duetiranni,  ma  contra  a dieci;  non  sola-mente non  era  confidente  e non  gli  erafacile  1’  entrata  ai  tiranni,  ma  era  ri-bello: nondimeno  ei  potè  venire  iti  Te-be, ammazzare  i tiranni,  e liberare  la patria.  Pur  nondimeno  fece  lutto,  conI’  aiuto  d’  uno  Carione,  consigliere  de’ ti-ranni, dal  quale  ebbe  1’  entrata  fucilealla  esecuzione  sua.  Non  sia  alcuno,  non-dimeno, che  pigli  lo  essempio  da  co-stui : perchè  come  la  fu  impresa  impos-sibile, e cosa  maravigliosa  a riuscire,cosi  fu  ed  è tenuta  dagli  scrittori  i quali  la  celebrano  come  cosa  rara,  equasi  senza  essempio.  Può  essere  inter-rotta tale  esecuzione  da  una  falsa  im-maginazione, o da  uno  accidente  im-provviso che  nasca  in  su  M fatto.  Lamattina  che  Bruto  e gli  altri  congiurati volevano  ammazzare  Cesare,  accadde,  chequello  parlò  a lungo  con  Gneo  Popiiio Cenate,  uno  de’ congiurati  ; e vedendogli  altri  questo  lungo  parlamento,  du-bitarono che  detto  Popiiio  non  rivelassea Cesare  la  congiura.  Furono  per  ten-tare d*  ammazzare  Cesare  quivi,  e nonaspettare  che  fusse  in  Senato;  ed  areb-bonlo  fatto,  se  non  che  il  ragionamentofini,  e visto  non  fare  a Cesare  moto alcuno  straordinario,  si  rassicurarono.Sono  queste  false  immaginazioni  da  con-siderarle, ed  avervi  con  prudenza  ri-spetto ; e tanto  più,  quanto  egli  è facile ad  averle.  Perchè  chi  ha  la  sua  con-scienza  macchiata,  facilmente  crede  che si  parli  di  lui:  puossi  sentire  una  pa-rola detta  ad  un  altro  fine,  che  ti  fac-eia  perturbare  t’  animo,  e credere  cheia  sia  detta  sopra  il  caso  tuo;  e farti o con  la  fuga  scoprire  la  congiura  date,  o confondere  I'  azione  con  accelerarla fuora  di  tempo.  E questo  tanto  più  fa-cilmente nasce,  quanto  ei  sono  molti  ad esser  consci  della  congiura.  Quanto  agliaccidenti,  perchè  sono  insperati,  non  si può  se  non  con  gli  essempi  mostrargli,e fare  gli  uomini  cauti  secondo  quelli, lulio  Belanti  da  Siena,  del  quale  di  so-pra abbiamo  futto  menzione,  per  lo sdegno  aveva  contra  a Pandolfo,  che  gliaveva  tolta  la  figliuola  che  prima  gli aveva  data  per  moglie,  deliberò  d’  am-mazzarlo, ed  elesse  questo  tempo.  An-dava Pandolfo  quasi  ogni  giorno  a vi-sitare un  suo  parente  infermo,  e nello andarvi  passava  dalle  case  di  lulio.  Co-stui adunque,  veduto  questo,  ordinò d*  avere  i suoi  congiurali  in  casa  ad ordine  per  ammazzare  Pandolfo  nel  pas-sare ; e messisi  dentro  alP  uscio  armati,teneva  uno  alla  fenestra,  che,  passando Pandolfo,  quando  ci  fosse  slato  pressoall’  uscio,  facesse  un  cenno.  Accadde  che venendo  Pandolfo,  ed  avendo  fallo  coluiil  cenno,  riscontrò  uno  amico  che  Io fermò;  ed  alcuni  di  quelli  che  erano  conlui,  vennero  a trascorrere  innanti,  e veduto  e sentito  il  rornore  d’arme,  sco-persono  l’agguato;  in  modo  che  Pan- dolfo si  salvò,  e tulio  coi  compagni  s’ eh*bono  a fuggire  di  Siena.  Impedì  quello accidente  di  quello  scontro  quella  azione,e fece  a Iulio  rovinare  la  sua  impresa. Ai  quali  accidenti,  perchè  ei  sono  rari,non  si  può  fare  alcuno  rimedio.  È ben necessario  esaminare  tutti  quelli  chepossono  nascere,  e rimediarvi.  Restaci, al  presente,  solo  a disputare  de’  pericoliche  si  corrono  dopo  la  esecuzione  : i quali  sono  solamente  uno;  e questo  è,quando  e’  rimane  alcuno  che  vendichi il  principe  morto.  Possono  rimanere,adunque,  suoi  fratelli,  o suoi  figliuoli,  o altri  aderenti,  a chi  s’  aspetti  il  prin-cipato; e possono  rimanere  o per  tua. negligenza,  o per  le  cagioni  dette  di  so-pra, che  faccino  questa  vendetta:  come intervenne  a Giovannandrea  da  Lampo-gnano,  il  quale,  insieme  con  i suoi  con-giurati, avendo  morto  il  duca  di  Mi-lano, ed  essendo  rimaso  uno  suo  figliuolo c due  suoi  fratelli,  furono  a tempo  avendicare  il  morto.  E veramente,  in questi  casi  i congiurati  sono  scusati,perchè  non  ci  hanno  rimedio;  ma  quando ei  ne  ripiene  vivo  alcuno  per  poca  pru-denza, o per  loro  negligenza,  allora  è che  non  meritano  scusa.  Ammazzaronoalcuni  congiurati  Forlivesi  il  conte  Gi-rolamo loro  signore,  presono  la  moglie,cd  i suoi  figliuoli,  che  erano  piccoli  ; e non  parendo  loro  poter  vivere  sicuri  senon  si  insignorivano  della  fortezza,  e non  volendo  il  castellano  darla  loro,Madonna  Caterina  (che  così  si  chiamava la  contessa)  promise  a’  congiurati,  se  lalasciavano  entrare  in  quella,  di  farla consegnare  loro,  e che  ritenessino  ap-presso di  loro  i suoi  figliuoli  per  ista- ticiii.  Costoro  sotto  questa  fede  ve  la  la-sciarono entrare  ; la  quale  come  fu  den-tro dalie  mura  rimproverò  loro  la  mortedel  marito,  e minacciógli  d’ ogni  qua-lità di  vendetta.  B per  mostrare  chede’ suoi  figliuoli  non  si  curava,  mostrò loro  le  membra  genitali,  dicendo  cheaveva  ancora  il  modo  a rifarne.  Cosi costoro,  scarsi  di  consiglio  e tardi  av-vedutisi del  loro  errore,  con  uno  per-petuo esilio  patirono  pene  della  pocaprudenza  loro.  Ma  di  tutti  i pericoli  che possono  dopo  la  esecuzione  avvenire,non  ci  è il  più  certo,  nè  quello  che  sia più  da  temere,  che  quando  il  popolo  èamico  del  principe  che  tu  hai  morto: perchè  a questo  i congiurati  non  hannorimedio  alcuno,  perchè  e’  non  se  ne  pos- sono mai  assicurare.  In  essempio  ci  èCesare,  il  quale  per  avere  il  popolo  di Roma  amico,  fu  vendicato  da  lui;  per-chè avendo  cacciati  i congiurati  di  Ro-ma, fu  cagione  che  furono  tutti  in  varitempi  e in  vari  luoghi  ammazzati.  Le congiure  che  si  fanno  contro  alla  patriasono  meno  pericolose  per  coloro  che  le fanno,  che  non  sono  quelle  che  si  fannocontro  ai  principi:  perchè  nel  maneg-giarle vi  sono  meno  pericoli  che  inquelle;  nello  eseguirle  vi  sono  quelli medesimi;  dopo  la  esecuzione,  non  veli*  è alcuno.  Nel  maneggiarle  non  vi  è pericoli  molti:  perchè  un  cittadino  puòordinarsi  alia  potenza  senza  manifestare l’animo  e disegno  suo  ad  alcuno; e sequelli  suoi  ordini  non  gli  sono  inter- rotti; seguire  felicemente  I*  impresa  sua;se  gli  sono  interrotti  con  qualche  legge, aspettar  tempo,  ed  entrare  per  altra  via.Questo  s’ intende  in  una  repubblica  dove è qualche  parte  di  corruzione;  perchèiu  una  non  corrotta,  non  vi  avendo luogo  nessuno  principio  cattivo,  nonpossono  cadere  in  un  suo  cittadino  que- sti pensieri.  Possono,  adunque,  i cittadiniper  molti  mezzi  e molte  vie  aspirare  al principato,  dove  ei  non  portano  peri-colo d’  essere  oppressi:  si  perchè  le  re-pubbliche  sono  più  tarde  che  uno  prin-cipe, dubitano  meno,  e per  questo  sono manco  caute;  sì  perchè  hanno  più  ri-spetto  ai  loro  cittadini  grandi,  e per questo  quelli  sono  più  audaci  e più animosi  a far  loro  contro.  Ciascuno  ha letto  la  congiura  di  Catilina  scritta  daSalustio,  e sa  come  poi  che  la  congiura fu  scoperta,  Catilina  non  solamente  stettein  Roma,  ma  venne  in  Senato,  e disse villania  al  Senato  ed  al  Consolo:  tantoera  il  rispetto  che  quella  città  aveva  ai suoi  cittadini.  E partito  che  fu  di  Roma,e eh’  egli  era  di  già  in  su  gli  eserciti, non  si  sarebbe  preso  Lentolo  e quellialtri,  se  non  si  fussero  avute  lettere  di lor  mano  che  gli  accusavano  manifesta-mente. Annone,  grandissimo  cittadino in  Cartagine,  aspirando  alla  tirannide,aveva  ordinato  nelle  nozze  d’ una  sua figliuola  di  avvelenare  tutto  il  Senato,e dipoi  farsi  principe.  Questa  cosa  in- tesasi, non  vi  fece  il  Senato  altra  prov-visione che  d’  una  legge,  la  quale  po- neva  termine  alle  spese  de’ conviti  edelle  nozze:  tanto  fu  il  rispetto  die  gli ebbero  alle  qualità  sue.  È ben  vero,  chenello  eseguire  una  congiura  contra  alla patria,  Vi  è più  difficoltà  e maggioripericoli;  perchè1  rade  volte  è che  ba- stino le  tue  forze  proprie  conspirandocontra  u tanti;  e ciascuno  non  è prin-cipe d’  uno  esercito,  come  era  Cesare  oAgatocle  o Cleomene  e simili,  che  hanno ad  un  tratto  e con  la  forza  occupata  lapatria.  Perchè  a simili  è la  via  assai facile,  ed  assai  sicura;  ma  gli  altri  chenon  hanno  tante  aggiunte  di  forze,  con-viene che  faccino  la  cosa  o con  ingannoed  arte,  o con  forze  forestiere.  Quanto allo  inganno  ed  all’arte,  avendo  Pisi-strato  ateniese  vinti  i Megarensi,  e per questo  acquistata  grazia  nel  popolo,  uscìuna  mattina  fuori  ferito,  dicendo  che la  nobiltà  per  invklia  P aveva  ingiuria-to, e domandò  di  poter  menare  armati seco  per  guardia  sua.  Da  questa  auto-rità facilmente  salse  a tanta  grandezza, che  diventò  tiranno  d’ Alene.  PandolfoPetrucci  tornò  con  altri  fuorusciti  in Siena,  e gli  fu  data  la  guardia  dellapiazza  in  governo,  come  cosa  meccanica, e che  gli  altri  rifiutarono;  nondiinaneoquelli  armati,  con  il  tempo,  gli  dierono tanta  riputazione,  che  in  poco  tempone  diventò  principe.  Molti  altri  hanno tenute  altre  industrie  ed  altri  modi,  econ  ispazio  di  tempo  e senza  pericolo vi  si  sono  condotti.  Quelli  che  con  forzaloro,  o con  eserciti  esterni,  hanno  con-giurato per  occupare  la  patria,  hannoavuti  vari  eventi,  secondo  la  fortuna. Catilina  preallegato  vi  rovinò  sotto.  An-none, di  chi  di  sopra  facemmo  men- zione, non  essendo  riuscito  il  veleno,armò  di  suoi  partigiani  molte  migliaia di  persone,  e loro  ed  eglino  furono  mor-ti. Alcuni  primi  cittadini  di  Tebe  per farsi  tiranni  chiamarono  in  aiuto  unoesercito  spartano,  e presono  la  tirannide di  quella  città.  Tanto  che,  esaminatetutte  le  congiure  fatte  contro  alla  pa-Iria,  non  ne  troverai  alcuna,  o poche,che  nel  maneggiarle  siano  oppresse; ma  tutte  q sono  riuscite,  o sono  rovi-nate nella  esecuzione.  Eseguite  che  le sono,  ancora  non  portano  altri  pericoli,che  si  porti  la  natura  del  principato  in sé:  perchè  divenuto  che  uno  è tiranno,ha  i suoi  naturali  ed  ordinari  pericoli che  gli  arreca  la  tirannide,  alli  qualinon  ha  altri  rimedi  che  di  sopra  si siano  discorsi.  Questo  è quanto  mi  èoccorso  scrivere  delle  congiure;  e se  io ho  ragionato  di  quelle  che  si  fanno  conil  ferro,  e non  col  veleno,  nasce  che P hanno  tutte  un  medesimo  ordine.  Veroè che  quelle  del  veleno  sono  più  pe-ricolose, per  esser  più  incerte:  per-chè non  si  ha  comodità  per  ognuno; e bisogna  conferirlo  con  chi  la  ha  ; equesta  necessità  del  conferire  ti  fa  pe-ricolo. Dipoi,  per  molte  cagioni,  un  be-veraggio di  veleno  non  può  esser  mor-tale: come  intervenne  a quelli  che  am-mazzarono Commodo,  che,  avendo  quello ributtato  il  veleno  che  gli  avevano  dato,furono  forzati  a strangolarlo,  se  volleno che  morisse.  Non  hanno,  pertanto,  iprincipi  il  maggiore  nimico  che  la  con* giura  ; perchè  fatta  che  è una  congiuraloro  conira,  o la  gli  ammazza,  o la  gli infama.  Perchè,  se  la  riesce,  e’  muoio-no; se  la  si  scopre,  e loro  ammazzino i congiurati,  si  crede  sempre  che  lusia  stata  invenzione  di  quel  principe, per  isfogarc  1*  avarizia  e la  crudeltà  suaconira  al  sangue  ed  alla  roba  di  quelli eh’  egli  ha  morti.  Non  voglio  però  man-care di  avvertire  quel  principe  o quella repubblica  contra  a chi  fusse  congiu-rato, che  abbino  avvertenza,  quando una  congiura  si  manifesta  loro,  innanziche  faccino  impresa  di  vendicarla,  di cercare  ed  intendere  molto  bene  la  qua-lità di  essa,  e misurino  bene  le  condi- zioni de’ congiurati  e le  loro  ; c quandola  truovino  grossa  e potente,  non  la scuoprino  mai,  infimo  a tanto  che  sisiano  preparati  con  forze  sufficienti  ad opprimerla:  altrimenti  facendo,  scopri-rebbono  la  loro  rovina.  Però  debbono con  ogni  industria  dissimularla,  perchèi congiurati  veggendosi  scoperti,  cac-ciati da  necessità,  operano  sema  ris-petto. In  esseinpio  ci  sono  i Romani; i quali  aveudo  lasciate  due  legioni  disoldati  a guardia  de’  Capovani  contra ai  Sanniti,  come  altrove  dicemmo,  con-giurarono quelli  capi  delle  legioni  in-sieme di  opprimere  i Capovani:  la  qualcosa  intesasi  a Roma,  commessono  a Rutilio  nuovo  consolo  che  vi  provve-desse: il  quale,  per  addormentare  i con-giurali, pubblicò  come  il  Senato  avevaraffermo  le  stanze  alle  legioni  capovane. Il  che  credendosi  quelli  soldati,  e pa-rendo loro  aver  tempo  ad  eseguire  il disegno  loro,  non  cercarono  di  accele-rare la  cosa  ; e così  stettono  infino  che cominciarono  a vedere  che  il  Consologli  separava  1’  uno  dull’  altro  ; la  qual cosa  generato  in  loro  sospetto,  fece  chesi  scopersono,  e mandarono  ad  esecu-zionc  la  voglia  loro.  Nè  può  esserequesto  maggiore  essempio  nell’  una  e nel-Y altra  parte:  perchè  per  questo  si  vede,quanto  gli  uomini  sono  lenti  nelle  cose dove  ei  credono  avere  tempo;  e quantoei  sono  presti  dove  la  necessità  gli  cac-cia. Nè  può  uno  principe  o una  repub-blica, che  vuole  differire  lo  scoprire  una congiura  a suo  vantaggio,  usare  ter-mine migliore  che  offerire  di  prossimo occasione  con  arte  ai  congiurati,  accioc-ché aspettando  quella,  o parendo  loro aver  tempo,  diano  tempo  a quello  o aquella  a castigargli.  Chi  ha  fatto  altri-menti, ha  accelerato  la  sua  rovina:come  fece  il  duca  di  Atene  e Guglielmo de*  Pazzi.  Il  duca,  diventato  tiranno  diFirenze,  ed  intendendo  essergli  congiu-rato contro,  fece,  senza  esaminare  altri-menti la  cosa,  pigliare  uno  de’  congiu-rali: il  che  fece  subito  pigliare  V anniagli  altri  e torgli  lo  Stato.  Guglielmo, sendo  commessario  in  Val  di  Chiananel  1501,  ed  avendo  inteso  come  in Arezzo  erti  congiura  in  favore  de*  Vi-telli per  tórre  quella  terra  ai  Fiorentini, subito  se  uè  andò  in  quella  città,  esenza  pensare  alle  forze  de’ congiurati o alle  sue,  e senza  prepararsi  di  alcunaforza,  con  il  consiglio  del  Vescovo  suo figliuolo,  fece  pigliare  uno  de’ congiu-rati: dopo  la  qual  presura,  gli  altri subito  presono  1’  armi  e tolseno  In  ter-ra ai  Fiorentini;  e Guglielmo,  di  com-tnessario,  diventò  prigione.  Ma  quandole  congiure  sono  deboli,  si  possono  e debbono  senza  rispetto  opprimere.  Nonè ancora  da  imitare  in  alcun  modo  duoi termini  usati,  quasi  contrari  1’  uno  al-I’  altro  ; 1’  uno  dal  prenominato  duca d’  Atene,  il  quale,  per  mostrare  di  cre-dere d’  avere  la  benivolenza  de’  cittadini fiorentini,  fece  morire  uno  che  gli  ma-nifestò una  congiura:  l’altro  da  Dione siracusano,  il  quale,  per  tentare  1’  animodi  alcuno  ch’egli  aveva  a sospetto,  con-sentì a Callippo,  nel  quale  ei  confidava,che  mostrasse  di  fargli  una  congiura  contra.  E tutti  due  questi  capitaronomale:  perchè  l’uno  tolse  l’animo  agli accusatori,  e dettelo  a chi  volse  congiu-rare: l’altro  dette  la  via  fucile  alta morte  sua,  anzi  fu  egli  proprio  capodella  sua  congiura;  come  per  isperienza gli  intervenne,  perchè  Callippo  potendosenza  rispetto  praticare  contra  a Dione, praticò  tanto,  che  gli  tolse  lo  Stato  ela  vita. Cap.  VII.  — Donde  nasce  che  le  muta-zioni dalla  libertà  alla  servitù , e dallaservitù  alla  libertàj  alcuna  n'  è senza sangue , alcuna  n*  è piena.Dubiterà  forse  alcuno  donde  nasca che  molte  mutazioni  che  si  fanno  dallavita  libera  alla  tirannica  e per  contra-rio, alcuna  se  ne  faccia  con  sangue,  al-cuna senza  ; perchè,  come  per  le  istorie si  comprende,  in  simili  variazioni  alcunavolta  sono  stali  morti  infiniti  uomini, alcuna  volta  non  è stato  ingiurialo  al-cimo:  come  intervenne  nella  mutazione clic  fece  Roma  dai  Re  ai  Consoli,  dovenon  furono  cacciati  altri  die  i Tarquini, fuora  delia  offensione  di  qualunque  altro.Il  che  dipende  da  questo:  perchè  quello stato  che  si  muta,  nacque  con  violenza,o non  ; e perchè  quando  e’  nasce  con violenza,  conviene  nasca  con  ingiuria  dimolti,  è necessario  poi,  nella  rovina  sua, che  gl’ ingiuriati  si  vogliono  vendicare;e da  questo  disiderio  di  vendetta  nasce il  sangue  e la  morte  degli  uomini.  Maquando  quello  stato  è causato  da  uno comune  consenso  di  una  universalitàche  lo  lia  fatto  grande,  non  ha  cagione poi,  quando  rovina  detta  universalità,di  offendere  altri  che  il  capo.  E di  que-sta sorte  fu  lo  stato  di  Roma  e la  cac-ciata de*  Tarquini;  come  fu  ancora  in Firenze  lo  stato  de* Medici,  che  poi  nellerovine  loro  nel  1494,  non  furono  offesi altri  che  loro.  E così  tali  mutazioni  nonvengono  ad  esser  molto  pericolose  : ma son  bene  pericolosissime  quelle  che  sonofatte  da  quelli  che  si  hanno  a vendica-re; le  quali  furono  sempre  mai  di  sorte,da  fare,  non  che  altro,  sbigottire  chi le  legge.  E perchè  di  questi  essempi  ne-son  piene  l’ istorie,  io  le  voglio  lasciare indietro.Cap.  Vili.  — Chi  vuole  alterare  una  re-pubblicaj  debbo  considerare  il  sogget-to di  quella. E’  si  è di  sopra  discorso,  come  un  tri-sto cittadino  non  può  male  operare  in una  repubblica  clic  non  sia  corrotta  : laquale  conclusione  si  fortifica,  oltre  alle ragioni  che  allora  si  dissono,  con  l’es*sempio  di  Spurio  Cassio  e di  Manlio Capitolino.  11  quale  Spurio  sendo  uomoambizioso,  e volendo  pigliare  autorità istraordinaria  in  Roma,  e guadagnarsila  Plebe  con  il  fargli  molti  benefizi,  come era  di  vendergli  quelli  campi  che  i Ro-mani avevano  tolti  alt i Ernici;  fu  sco-perta dai  Padri  questa  sua  ambizione,ed  in  tanto  recata  a sospetto,  r:lie  par-lando egli  al  Popolo,  ed  offerendo  dìdargli  quelli  danari  che  s’  erano  ritratti de’  grani  che  il  pubblico  aveva  fatti  ve-nire di  Sicilia,  al  tutto  gli  recusò,  pa-rendo a quello  che  Spurio  volesse  dareloro  il  pregio  della  loro  libertà.  Ma  se tal  Popolo  fusse  stato  corrotto,  non  areb-be  recusato  detto  prezzo,  e gli  arebbe aperta  alla  tirannide  quella  via  che  glichiuse.  Fa  molto  maggiore  essempio  di questo,  Manlio  Capitolino  ; perchè  me-diante costui  si  vede  quanta  virtù  d’ani- mo e di  corpo,  quante  buone  opere  fattein  favore  della  patria,  cancella  dipoi una  brutta  cupidità  di  regnare:  la  quale,come  si  vede,  nacque  in  costui  per  la invidia  che  lui  aveva  degli  onori  eranofatti  a Cammillo;  e venne  in  tanta  cecità di  niente,  che  nou  pensando  al  mododel  vivere  della  città,  non  esaminando il  soggetto  quale  esso  aveva,  non  attoa ricevere  ancora  trista  forma,  si  mise a fare  tumulti  in  Roma  contra  al  Se-nato  e con  tra  alle  leggi  patrie.  Dove si  conosce  la  perfezione  di  quella  città,e la  bontà  della  materia  sua  : perchè nel  caso  suo  nessuno  della  Nobiltà,  an-cora che  fussino  acerrimi  difensori  l’uno deli’  altro,  si  mosse  a favorirlo  ; nessunode’ parenti  fece  impresa  in  suo  favore: e con  gli  altri  accusati  solevano  com-parire sordidati,  vestiti  di  nero,  tutti mesti,  per  cattare  misericordia  in  fa-vore dello  accusato;  e con  Manlio  non se  ne  vide  alcuno.  I Tribuni  della  plebe,che  solevano  sempre  favorire  le  cose che  pareva  venissino  in  benefizio  delPopolo  ; e quanto  erano  più  contra  ai Nobili,  tanto  piu  le  tiravano  innanzi;  inquesto  caso  si  unirono  coi  Nobili,  per opprimere  una  comune  peste.  Il  Popolodi  Roma,  disiderosissimo  dello  utile  pro-prio, ed  amatore  delle  cose  che  veniva-no contra  alla  Nobiltà,  avvenga  clic facesse  a Manlio  assai  favori;  nondi-meno, come  i Tribuni  lo  citarono,  e che rimessono  la  causa  sua  al  giudizio  delPopolo,  quel  Popolo,  diventalo  di  difen*sore  giudice,  sema  rispetto  alcuno  locondennò  a morte.  Pertanto  io  non  credo che  sia  essempio  in  questa  istoria  piùatto  a mostrare  la  bontà  di  tutti  gli ordini  di  quella  Repubblica,  quanto  èquesto  ; veggendo  che  nessuno  di  quella città  si  mosse  a difendere  un  cittadinopieno  d’  ogni  virtù,  e che  pubblicamente e privatamente  aveva  fatte  moltissimeopere  laudabili.  Perchè  in  tutti  loro  potè più  T amore  della  patria,  che  nessuno-altro  rispetto;  e considerarono  molto più  ai  pericoli  presenti  che  da  lui  di-pendevano, che  ai  meriti  passati:  tanto che  con  la  morte  sua  e’  si  liberarono..E  Tito  Livio  dice:  Hunc  ex  itimi  habuìt vii',  nisi  in  libera  civilate  natus  esset,memorabili Dove  sono  da  considerare due  cose:  P una,  che  per  altri  modis’  ha  a cercare  gloria  in  una  città  cor-rotta, che  in  una  che  ancora  viva  poli-ticamente; V altra  (che  è quasi  quel  me-desimo che  la  prima) , che  gli  uomini nel  proceder  loro,  e tanto  più  nelle azioni  grandi,  debbono  considerare  itempi,  ed  accomodarsi  a quelli.  E coloro cbe,  per  cattiva  elezione  o per  naturaleinclinazione,  si  discordano  dai  tempi, vivono  il  più  delle  volte  infelici,  ed  hannocattivo  esito  razioni  loro;  al  contrario Y hanno  quelli  cbe  si  concordano  coltempo.  E senza  dubbio,  per  le  parole preallegate  dello  istorico  si  può  con-chiudere, che  se  Manlio  fusse  nato  ne’ tempi  di  Mario  e di  Siila,  dove  già  lamateria  era  corrotta  e dove  esso  arebbe potuto  imprimere  la  forma  dell’  ambi-zione sua,  arebbe  avuti  quelli  medesimi seguiti  e successi  cbe  Mario  e Siila,  egli  altri  poi,  che  dopo  loro  alla  tiran-nide aspirarono.  Così  medesimamente,se  Siila  e Mario  fussino  stati  ne’  tempi di  Manlio,  sarebbero  stati  intra  le  primeloro  imprese  oppressi.  Perchè  un  uomo può  bene  cominciare  con  suoi  modi  econ  suoi  tristi  termini  a corrompere  un popolo  di  uno  città,  ma  gli  è impossi-bile  che  la  vita  d*  uno  basti  a corrom- perla in  modo  che  egli  medesimo  nepossa  trai*  frutto;  e quando  bene  e’fusse  - possibile  con  lunghezza  di  tempo  che  lofacesse,  sarebbe  impossibile  quanto  al modo  del  procedere  degli  uomini,  chesono  impazienti,  e non  possono  lunga- mente differire  una  loro  passione.  Ap-presso, s’ ingannano  nelle  còse  loro,  ecl in  quelle,  massime,  che  disiderano  assai:talché,  o per  poca  pazienza  o per  in-gannarsene, entrerebbero  in  impresacontea  a tempo,  e capiterebbero  male.Però  è bisogno,  a voler  pigliare  auto-rità in  una  repubblica  e mettervi  trista forma,  trovare  la  materia  disordinatadal  tempo,  e che  a poco  a poco,  e di generazione  in  generazione,  si  sia  con-dotta al  disordine:  la  quale  vi  si  con-duce di  necessità,  quando  la  non  sia,come  di  sopra  si  discorse,  spesso  rin-frescata di  buoni  essempi,  o con  nuoveleggi  ritirata  verso  i principii  suoi.  Sa- rebbe, adunque,  stato  Manlio  un  uomoraro  e memorabile,  se  lusso  nato  in  una città  corrotta.  E però  debbono  i citta-dini che  nelle  repubbliche  fanno  alcuna impresa  o in  favore  della  libertà  o infavore  della  tirannide,  considerare  il soggetto  che  eglino  hanno,  e giudicareda  quello  la  dilficultà  delle  imprese  loro. Perchè  tanto  è diffìcile  e pericoloso  volerfare  libero  un  popolo  che  voglia  viver servo,  quanto  è voler  fare  servo  un  po-polo che  voglia  viver  libero.  E perchè di  sopra  si  dice,  che  gli  uomini  nellooperare  debbono  considerare  la  qualità de’  tempi  e procedere  secondo  quelli,  neparleremo  a lungo  nel  seguente  capi- tolo. Cap.  IX.  — Come  conviene  variare  coitempi , volendo  sempre  aver  buona fortuna.Io  ho  considerato  più  volte  come  la cagione  della  trista  e della  buona  for-tuna degli  uomini  è riscontrare  il  modo del  procedere  suo  coi  tempi:  perché  e’ sivede  che  gli  uomini  nell’  opere  loro  pro-cedono alcuni  con  impeto,  alcuni  conrispetto  e con  cauzione.  E perchè  nel-l’uno e nell’  altro  di  questi  modi  si  pas-sano i termini  convenienti,  non  si  po-tendo osservare  la  vera  via,  nell’uno  enell’  altro  si  erra.  Ma  quello  viene  ad errar  meno,  ed  avere  la  fortuna  pro-spera, che  riscontra,  come  io  ho  detto, con  il  suo  modo  il  tempo,  e sempre  maisi  procede,  secondo  ti  sforza  la  natura. Ciascuno  sa  come  Fabio  Massimo  proce-deva con  lo  esercito  suo  rispettivamente c cautamente,  discosto  da  ogni  impetoe da  ogni  audacia  romana;  e la  buona fortuna  fece,  che  questo  suo  modo  ris-contrò bene  coi  tempi.  Perchè,  sendo venuto  Annibaie  in  Italia,  giovine  e conuna  fortuna  fresca;  ed  avendo  già  rotto il  popolo  romano  due  volte;  ed  essendoquella  repubblica  priva  quasi  della  sua buona  milizia,  e sbigottita  ; non  potettesortire  miglior  fortuna,  che  avere  un capitano  il  quale,  con  la  sua  tardità  ecauzione,  tenesse  a bada  il  nimico.  Nè ancora  Fabio  potette  riscontrare  tempipiù  convenienti  ai  modi  suoi:  di  che nacque  che  fu  glorioso.  E che  Fabiofacesse  questo  per  natura  e non  per elezione,  si  vede,  che  volendo  Scipionepassare  in  Affrica  con  quelli  eserciti per  ultimare  la  guerra,  Fabio  la  con-tradisse assai,  come  quello  che  non  si poteva  spiccare  dai  suoi  modi  e dallaconsuetudine  sua;  talché,  se  fosse  stato, a lui,  Annibaie  sarebbe  ancora  in  Italia,come  quello  che  non  si  avvedeva  che gli  erano  mutati  i tempi,  e che  bisogna-va mutar  modo  di  guerra.  E se  Fabio fusse  stato  re  di  Roma,  poteva  facil-mente perdere  quella  guerra  : perchè non  arebbe  saputo  variare  col  proce-dere suo,  secondo  che  variavano  i tempi  : ma  sendo  nato  in  una  repubblica  doveerano  diversi  cittadini  e diversi  umori, come  la  ebbe  Fabio,  che  fu  ottimo  ne’tempi  debiti  a sostenere  la  guerra,  cosi ebbe  poi  Scipione  ne’  tempi  atti  a vin-cerla. Di  qui  nasce,  che  una  repubblica ha  maggior  vita,  ed  ha  più  lungamentebuona  fortuna  che  un  principato;  per-chè la  può  meglio  accomodarsi  alla  di-versità de’  temporali,  per  la  diversità de’ cittadini  che  sono  in  quella,  che  nonpuò  un  principe.  Perchè  un  uomo  che sia  consueto  a procedere  in  un  modo,non  si  muta  mai,  come  è detto;  e con-viene di  necessità,  quando  si  mutano  itempi  disformi  a quel  suo  modo,  che rovini.  Piero  Soderini,  altre  volte  preal-legato,  procedeva  in  tutte  le  cose  sue con  umanità  e pazienza.  Prosperò  eglie la  sua  patria  mentre  che  i tempi  fu-rono conformi  al  modo  del  procedersuo:  ma  come  vennero  dipoiìempi  dove bisognava  rompere  la  pazienza  e 1’  umi-lila, non  lo  seppe  fare;  talché  insieme con  la  sua  patria  rovinò.  Papa  lulio  11procedette  in  tutto  il  tempo  del  suo  pon- tificato con  impeto  e con  furia  ; e per-chè i tempi  l’accompagnarono  bene,  gli riuscirono  le  sue  imprese  tulle.  Ma  sefossero  venuti  altri  tempi  che  avessero ricerco  altro  consiglio,  di  necessità  ro-vinava; perchè  non  arebbe  mutato  nè modo  nè  ordine  nel  maneggiarsi.  E clicnoi  non  ci  possiamo  mutare,  ne  sono cagione  due  cose:  V una,  che  noi  non  cipossiamo  opporre  a quello  a che  c’  in-clina la  natura  ; 1*  altra,  che  avendo  unocon  un  modo  di  procedere  prosperato assai,  non  è possibile  persuadergli  chepossa  far  bene  a procedere  altrimenti: donde  ne  nasce  che  in  uno  uomo  la  for-tuna varia,  perchè  ella  varia  i tempi, ed  egli  non  varia  i modi.  Nascene  an-cora la  rovina  della  città,  per  non si  variare  gli  ordini  delle  repubblicheco’  tempi  ; come  lungamente  di  sopra  dis-corremmo : ma  sono  più  tarde,  perchèle  penano  più  a variare,  perchè  biso-gna che  venghino  tempi  che  commovinotutta  la  repubblica;  a che  un  solo  col variare  il  modo  del  procedere  non  ba-sta. E perchè  noi  abbiamo  fatto  inenzione  di  Fabio  Massimo  che  tenne  a badaAnnibale,  mi  pare  da  discorrere  nel  ca-pitolo seguente,  se  un  capitano,  volendofar  la  giornata  in  ogni  modo  col  nimico, può  essere  impedito  da  quello,  che  nonla  faccia. Cap.  X.  — Che  un  capitano  non  puòfuggire  la  giornata , quando  V av-versario la  vuol  fare  in  ogni  moda.Cncus  Sulpitius  Diclator  advcrsus  Gal-lo s bcllum  trahcbal,  nolens  se  fot  tuncecoturni  Nere  ad  versus  hostentj  qucm  lem-pus  dcteriorcm  in  dieSj  et  locus  alte-rnisi faccrct.  Quando  e’ seguita  uno  er-rore dove  lutti  gli  uomini  o la  maggiorparte  s' ingannino,  io  non  credo  che  sia male  molte  volle  riprovarlo.  Pertanto,ancora  che  io  abbia  di  sopra  più  volte mostro,  quanto  le  azioni  circa  le  cosegrandi  siano  disformi  a quelle  degli antichi  tempi,  nondimeno  non  mi  parsuperfluo  al  presente  replicarlo.  Perchè, se  in  alcuna  parte  si  devia  dagli  anti-chi ordini,  si  devia  massime  nelle  azioni militari,  dove  al  presente  non  è osser-vata alcuna  di  quelle  cose  che  dagli  an-tichi erano  stimate  assai.  Ed  è natoquesto  inconveniente,  perchè,  le  repub-bliche ed  i principi  hanno  imposta  que-sta cura  ad  altrui;  e per  fuggire  i pe-ricoli, si  sono  discostati  da  questo  eser-cizio: e se  pure  si  vede  qualche  volta un  re  de’  tempi  nostri  andare  in  per  -sona, non  si  crede  però  che  da  lui  na- scano altri  modi  clic  meritino  più  laude.Perchè  quello  esercizio,  quando  pure  Io fanno,  lo  fanno  a * pompa,  e non  peralcuna  altra  laudabile  cagione.  Pure, questi  fatino  minori  errori  rivedendo  iloro  eserciti  qualche  volta  in  viso,  te-nendo appresso  di  loro  il  titolo  del-V imperio,  che  non  fanno  le  repubbli-che, e massime  le  italiane;  le  quali,  *fidandosi  d’  altrui,  nè  s’ intendendo  in alcuna  cosa  di  quello  che  appartengaalla  guerra;  e dall’  altro  canto,  volendo, per  parere  d* essere  loro  il  principe,diliberarne,  fanno  in  tale  diliberazione mille  errori.  E benché  d’  alcuno  ne  abbidiscorso  altrove,  voglio  al  presente  non ne  tacere  uno  importantissimo.  Quandoquesti  principi  ociosi,  o repubbliche  ef-feminate, mandano  fuori  un  loro  capi-tano,  la  più  savia  commissione  che  paia loro  darli,  è quando  gl*  impongono  cheper  alcun  modo  non  venga  a giornata, anzi  sopra  ogni  cosa  si  guardi  dallazuffa  ; e parendo  loro  in  questo  imitare la  prudenza  di  Fabio  Massimo,  clic  dif-ferendo il  combattere  salvò  lo  Stato a’  Romani,  non  intendono  che  la  mag-giore parte  delle  volte  questa  commis-sione è nulla  o è dannosa.  Perchè  sidebbe  pigliare  questa  conclusione:  che un  capitano  che  voglia  stare  alla  cam-pagna, non  può  fuggire  la  giornata qualunche  volta  il  nimico  la  vuole  farein  ogni  modo.  E non  è altro  questa commissione  che  dire  : fa*  la  giornata  aposta  del  nimico,  e non  a tua.  Perchè a volere  stare  in  campagna,  e non  farla  giornata,  non  ci  è altro  rimedio  si-curo che  porsi  cinquanta  miglia  almenodiscosto  al  nimico;  e dipoi  tenere  buonespie,  che  venendo  quello  verso  di  te,tu  abbi  tempo  a discostarti.  Uno  altropartito  ci  è;  rinchiudersi  in  una  città:e P uno  e P altro  di  questi  due  partitè dannosissimo.  Nel  primo  si  lascia  inpreda  il  paese  suo  al  nimico  ; ed  unoprincipe  valente  vorrà  più  tosto  tentarela  fortuna  della  zuffa,  che  allungare  la- guerra  con  tanto  danno  de’  sudditi.  Nelsecondo  partito  è la  perdita  manifesta;perchè  conviene  che,  riducendoti  conuno  esercito  in  una  città,  tu  venga  adessere  assediato,  ed  in  poco  tempo  pa-tir fame,  e venire  a dedizione.  Talchéfuggire  la  giornata  per  queste  due  vie,è dannosissimo.  Il  modo  che  tenne  Fa-bio Massimo  di  stare  ne’  luoghi  forti,  èbuono  quando  tu  hai  si  virtuoso  eser-cito, che  il  nimico  non  abbia  ardire  divenirti  a trovare  dentro  a’  tuoi  vantag-gi.  Nè  si  può  dire  che  Fabio  Ila  giornata,  ma  più  tosto  che  lafare  a suo  vantaggio.  Perchè  sbuie  fusse  ilo  a trovarlo,  Fabio  1aspettato,  e fatto  giornata  seAnnibale  non  ardi  mai  di  concon  lui  a modo  di  quello.  Tantigiornata  fu  fuggita  cosi  da  Acome  da  Fabio:  ma  se  unol’ avesse  voluta  fare  in  ogni  moIrò  non  vi  aveva  se  non  unorimedi;  cioè  i due  sopraddettigirsi.  Clic  questo  eh’  io  dico  sisi  vede  manifestamente  con  nsempi,  e massime  nella  guerraRomani  feciono  con  Filippo  dinia,  padre  di  Perse:  perchèseudo  assaltato  dai  Romani,non  venire  alla  zuffa;  e per  ncnire,  volle  fare  prima  come  aveFabio  Massimo  in  Italia;  e si  ;suo  esercito  sopra  la  sommilmonte,  dove  si  afforzò  assai,  giuche  i Romani  non  avessero  ardiiilare  a trovarlo.  Ma  andativi  c combat-tutolo, lo  cacciarono  di  quel  monte;  edegli  non  potendo  resistere,  si  fuggì  conla  maggior  parte  delle  genti.  E quelche  lo  salvò,  che  non  fu  consumato  intutto,  fu  la  iniquità  del  paese,  qual  feceche  i Romani  non  poterono  seguirlo.Filippo,  adunque,  non  volendo  azzuf-farsi, ed  essendosi  posto  con  il  campopresso  ai  Romani,  si  ebbe  a fuggire;ed  avendo  conosciuto  per  questa  espe-rienza, come  non  volendo  combattere,non  gli  bastava  stare  sopra  i monti,  enelle  terre  non  volendo  rinchiudersi,diliberò  pigliare  l’altro  modo,  di  starediscosto  molte  miglia  al  campo  romano.Donde,  se  i Romani  erano  in  una  pro-vincia, ei  se  ne  andava  nell’altra;  ecosì  sempre  donde  i Romani,  partivano,esso  entrava.  E veggendo,  al  fine,  comenello  allungare  la  guerra  per  questavia,  le  sue  condizioni  peggioravano,  eche  i suoi  soggetti  ora  da  lui  ora  daiminici  erano  oppressi,  diliberò  di  ten- lare  la  fortuna  della  zu(¥coi  Romani  ad  una  gioriutile,  adunque,  non  comigli  eserciti  hanno  questeaveva  1’  esercito  di  Fabicquello  di  Caio  Sulpizio:esercito  sì  buono,  che  ildisca  venirti  a trovare  <tezze  tue  ; e che  il  nimhtua  senza  avere  preso  irei  patisca  necessità  delquesto  caso  il  partito  utgioni  che  dice  Tito  Li'far lance  commi lieve  adìquem  lempus  deterioraticus  alicnuSj  faccret.  Matermine  non  si  può  fuggse  non  con  tuo  disonoreche  fuggirsi,  come  feceessere  rotto;  e con  più  vimeno  s’  è fatto  prova  dese  a lui  riuscì  salvarsi,  iad  un  altro  che  non  fuspaese  come  egli.  Che  Annmaestro  di  guerra,  nessuno  mai  non  iodirà  ; ed  essendo  allo  ’neontro  di  Sèi- pione  in  Affrica,  s’egli  avesse  vedutovantaggio  in  allungare  la  guerra,  eiFarebbe  fatto;  e per  avventura,  sendolui  buon  capitano,  ed  avendo  buonoesercito,  lo  arebbe  potuto  fare,  comefece  Fabio  in  Italia:  ma  non  l’avendofatto,  si  debbe  credere  che  qualche  ca-gione importante  lo  movesse.  Perchè  unprincipe  che  abbi  uno  esercito  messoinsieme,  e vegga  che  per  difetto  di  da-  !> nari  o di  amici  ei  non  può  tenere  lun-gamente tale  esercito,  è matto  al  tuttose  non  tenta  la  fortuna  innanzi  che  taleesercito  si  abbia  a risolvere:  perchèaspettando,  ei  perde  al  certo;  tentando,potrebbe  vincere.  Un’altra  cosa  ci  èancora  da  stimare  assai  : la  quale  è,che  si  debbe,  eziandio  perdendo,  volereacquistar  gloria;  e più  gloria  si  ha  adesser  vinto  per  forza,  che  per  altro  in-conveniente che  t’abbia  fatto  perdere.Sì  che  Annibaie  doveva  essere  constretto«la  queste  necessità.  E dìScipione,  quando  Anuibaferita  la  giornata,  e nonstalo  l’animo  andarlo  a tghi  forti,  non  pativa,  pevinto  Siface,  e acquistateAffrica,  che  vi  poteva  stacomodità  come  in  Italia,terveniva  ad  Annibaie,  qV incontro  di  Fabio  ; nèciosi,  che  erano  all’  inctzio.  Tanto  meno  ancoragiornata  colui  che  con  l’il  paese  altrui  ; perchè,trare  nel  paese  del  niiviene  quando  il  nimico  scontro,  azzuffarsi  seco;  <campo  ad  una  terra,  si più  alla  zuffa:  come  ne’  ttervenne  al  duca  Carlo  di sendo  a campo  a Moratto,zeri,  fu  da’  Svizzeri  assa come  intervenne  all’  eseeia,  che  campeggiando  P desimamentc  da’  SvizzeriCap.  XI.  — Che  chi  ha  a fare  con  assaij ancora  che  sia  inferiore,  purché  possasostenere  i primi  impeli,  vince. La  potenza  de’ Tribuni  della  plebe  nellacittà  di  Roma  fu  grande,  e fu  necessaria, come  molte  volte  da  noi  è stato  discorso;perchè  altrimenti  non  si  sarebbe  potuto por  freno  all’ambizione  della  Nobiltà,  la({«ale  arebbe  molto  tempo  innanzi  corrot-ta quella  Repubblica,  che  la  non  si  cor-ruppe. Nondimeno,  perchè  in  ogni  cosa, come  altre  volte  si  è detto,  è nascosoqualche  proprio  male, che  fa  surgere  nuo-vi accidenti,  è necessario  a questi  connuovi  ordini  provvedere.  Essendo,  per-tanto, divenuta  l’autorità  tribunizia  in-solente e formidabile  alla  Nobiltà  ed  a tutta  Roma,  e’  ne  sarebbe  nato  qualcheinconveniente  dannoso  alla  libertà  ro-mana, se  da  Appio  Claudio  non  fossestato  mostro  il  modo  con  il  quale  si avevano  a difendere  contro  all’ ambizionede’ Tribuni:  il  quale  fu sempre  infra  loro  qualci pauroso,  o corruttibile, comun  bene  ; talmenteebèad  opporsi  alla  volontà che  volessino  tirare  inn liberazione  contro  alla  i nato.  Il  quale  rimediotemperamento  a tanta  f molti  tempi  giovò  a Ron ha  fatto  considerare,volta  e’ sono  molli  poter ad  un  altro  potente,  an insieme  siano  molto  più nondimanco  si  debbpiù  in  quello  solo  ■, che  in  quelli  assai,gliardissimi.  Perchè,»  1 ulte  quelle  cose  delle  q più  die  molti  previ infinite),  sempre  occorripotrà,  usando  un  poco sunire  gli  assai,  e quel gagliardo,  far  debole.  liquesto  addurre  antichi  essempi,  che  ce ne  sarebbono  assai  j ma  voglio  mi  ba-stino  i moderni,  seguiti  ne’  tempi  no-stri. Congiurò  net  1484  tutta  Italia  con-  .tra  a’  Vinizianij  e poiché  loro  al  tutto erano  persi,  e non  potevano  stare  piùcon  1’  esercito  in  campagna,  corruppono il  signor  Lodovico  che  governava  Mi*lano;  e per  tale  corruzione  feciono  uno accordo,  ne!  quale  non  solamente  deb-bono le  terre  perse,  ma  usurparono parte  dello  Stato  di  Ferrara.  E cosi  co-loro che  perdevano  nella  guerra,  resta-rono superiori  nella  pace.  Pochi  annisono  congiurò  contea  a Francia  tutto  il mondo:  nondimeno,  avanti  che  si  ve-desse  il  fine  della  guerra,  Spagna  si ribellò  da’  confederati,  e fece  accordoseeo;  in  modo  che  gli  altri  confederati furono  constretti  poco  dipoi  ad  accor-darsi  ancora  essi.  Talché,  senza  dubbio, si  debbe  sempre  mai  fare  giudizio,quando  e’  si  vede  una  guerra  mossa  da molti  contea  ad  uno,  che  quello  unoabbia  a restar  superio»di  tale  virtù,  che  possa  se impeti,  e col  temporeggtempo.  Perchè  quando  e’ porterebbe  mille  perieoi venne  ai  Viniziani  nclPavessero  potuto  tempori esercito  francioso,  ed  i guadagnarsi  alcuni  dierano  collegati  contra,  ai quella  rovina;  ma  non  i armi  da  potere  temporegc per  questo  non  aventi a separarne  alcuno,  rovi si  vidde  che  il  papa,  1ebbe  le  cose  sue,  si  fece così  Spagna  : e molto  v e V altro  di  questi  duebono  salvato  loro  lo  Stai contea  a Francia,  per  i grande  in  Italia,  se  gli  ;Potevano,  adunque,  i parte  per  salvare  il  resti avessino  fatto  in  tempola  non  fusse  stata  necessità,  ed  innanzi ai  moti  della  guerra,  era  savissimo  par-tito; ma  in  su’ moti  era  vituperoso,  e per  avventura  di  poco  profitto.  Ma  in-uanzi  a tali  moti,  pochi  in  Yinegia de’ cittadini  potevano  vedere  il  pericolo,pochissimi  vedere  il  rimedio,  e nessuno consigliarlo.  Ma,  per  tornare  al  princi-pio di  questo  discorso,  conchiudo:  che  così  come  il  Senato  romano  ebbe  rime-dio per  la  salute  della  patria  contra  al-1'  ambizione  de’  Tribuni,  per  essere  mol-ti; così  arà  rimedio  qualunque  principe che  sia  assaltato  da  molti,  qualunquevolta  ei  sappia  con  prudenza  usare  ter- mini convenienti  a disunirgli.Cap.  XII.  — Come  un  capitano  prudente debbo  imporre  ogni  necessità  di  com-battere ai  suoi  soldati,  e a quelli delti  ninnici  torta.Altre  volte  abbiamo  discorso  quanto sia  utile  alle  umane  azioni  la  necessità,ed  a qual  gloria  siano  sul da  quella;  c come  da  alcunisofi  è slato  scritto,  le  mani degli  uomini,  due  nobilissimi  ia nobilitarlo,  non  arcbbero  o fellamente,  nè  condotte  l’opa quella  altezza  si  veggono  < dalla  necessità  non  fussero  spconosciuto,  adunque,  dagli  a talli  degli  eserciti  la  virtù  c sita,  e quanto  per  quellade’  soldati  diventavano  ostini battere;  facevano  ogni  oper soldati  loro  fussino  costrettiE dall’altra  parte,  usavano stria,  perchè  gli  nimiei  se sino:  e per  questo  molte  volial  nimico  quella  via  che  lor vano  chiudere  ; ed  a’  suoi  s< pri  chiusono  quella  che  pcsciare  aperta.  Quello,  adì disidera  o che  una  città  si  di natamente,  o che  uno  esercìpaglia  ostinatamente  comba sopra  ogni  altra  cosa,  ingegnarsi  dimettere  ne’  petti  di  chi  ha  a combat- lere,  tale  necessità.  Onde,  un  capitanopi  udente,  che  avesse  ad  andare  ad  una espugnazione  d’  una  città,  debbe  misu-rai e la  facilità  o la  difficultà  ilell’ espu- gnarla dal  conoscere  e considerare  qualenecessità  costringa  gli  abitatori  di  quella a difendersi:  e quando  vi  trovi  assainecessità  che  gli  constringa  alla  difesa, giudichi  la  ispugnazioue  difficile;  altri-menti la  giudichi  facile.  Di  qui  nasce che  le  terre  dopo  la  ribellione  sono  piùdifficili  ad  acquistare,  che  le  non  sono nel  primo  acquisto:  perchè  nel  princi-pio non  avendo  cagione  di  temer  di pena,  per  non  avere  offeso,  si  arrendonofacilmente;  ma  parendo  loro,  scndosi dipoi  ribellate,  avere  offeso,  e per  que- sto temendo  la  pena,  diventano  difficili ad  essere  ispugnate.  Nasce  ancora  taleostinazione  dai  naturali  odii  che  hanno i principi  vicini  e repubbliche  vicinel’uno  con  l’altro:  il  che  procede  da ambizione  di  dominare,  e gelosia  delloro  Stato,  massimamente  se  le  sono repubbliche,  come  interviene  in  Tosca-na • la  quale  gara  c contenzione  ha  fatto e farà  sempre  difficile  la  espugnatonep una  dell’  altra.  Pertanto,  chi  considerila bene  i vicini  della  città  di  Firenze  ed  ivicini  della  città  di  Yincgia,  non  si  me- ra viglierà,  come  molti  fanno,  che  Firenzeabbia  più  speso  nelle  guerre,  ed  acqui-stato meno  di  Yinegia:  perchè  tuttonasce  da  non  avere  avuto  i NmUiani  le terre  vicine  si  ostinate  alla  difesa,  quantoha  avuto  Firenze,  per  esser  state  tutte le  ciltadi  finitime  a Yinegia  use  a vi-vere sotto  un  principe,  e non  libere;  c quelli  che  sono  consueti  a servire,  sti-mano molte  volle  poco  il  mutare  pa-drone, anzi  molte  volte  lo  desiderano.Talché  Yinegia,  benché  abbia  avuti  i vicini  più  potenti  che  Firenze,  per  averetrovate  le  terre  meno  ostinate,  le  ha potute  piu  tosto  vincere,  che  non  hafatto  quella  scudo  circundala  da  tutte città  libere.  Debbe  adunque  un  capitano,per  tornare  al  primo  discorso,  quando egli  assalta  una  terra,  con  ogni  dili-genza ingegnarsi  di  levare  a*  difensori di  quella  tale  necessità,  e per  conse-guenza tale  ostinazione;  promettendo perdono,  se  gli  hanno  paura  della  pe-na ; c se  gli  avessino  paura  della  li- bertà, mostrare  di  non  andare  contraal  comune  bene,  ma  contra  a pochi ambiziosi  della  città:  la  quale  cosa  moltevolte  ha  facilitato  V imprese  e 1’  espu-gnazioni delle  terre.  E benché  simili  co-lori siano  facilmente  conosciuti,  e mas-sime dagli  uomini  prudenti;  nondimenovi  sono  spesso  ingannati  i popoli,  i quali,  cupidi  della  presente  pace,  chiug-gono  gli  occhi  a qualunque  altro  laccio che  sotto  le  larghe  promesse  si  ten-desse. E per  questa  via  infinite  città sono  diventale  serve:  come  intervennea Firenze  nei  prossimi  tempi;  e come intervenne  a Crasso  ed  allo  esercito  suo,il  quale  ancora  che  conoscesse  le  vane promesse  de’  Parti,  le  quper  tor  via  la  necessità  \del  difendersi,  nondimam tenerli  ostinati,  accecatidella  pace  che  erano  fall nimici:  come  si  vnde  p leggendo  la  vita  di  queltanto,  che  avendo  i Sano convenzione  dello  accordo zionc  di  pochi  corso  e picampi  de’ confederali  Rom dipoi  mandati  ambasciati chieder  pace,  offerendo  dcose  predate,  c di  dare  p tori  de’  tumulti  e della  \ributtati  dai  Romani:  e rinio  senza  speranza  d’ acc Ponzio,  capitano  allora de’  Sanniti,  con  una  suazionc  mostrò,  come  i Roi in  ogni  modo  guerra;  e l)<si  desiderasse  la  pace,  lafaceva  seguire  la  guerra  ; sic  parole  : Juslum  est  bi necessariuitij  et  pia  arma , quibus  ni  siin  armis  spes  est : sopra  la  qual  ne- cessità egli  fondò  con  gli  suoi  soldatila  speranza  della  vittoria.  E per  non avere  a tornare  più  sopra  questa  ma-teria, mi  pare  da  addurvi  quelli  essempiromani  che  sono  più  degni  (E  annota-zione.  Era  Caio  Manilio  con  lo  esercito alP  incontro  dei  Vcienti;  ed  essendoparte  dello  esercito  veicolano  entrato dentro  agii  steccati  di  Manilio,  corseManilio  con  una  banda  al  soccorso  di quelli;  e perchè  i Vcienti  non  potessinosalvarsi,  occupò  tutti  gli  aditi  del  cam-po: donde  veggendosi  i Veienti  rin-chiusi, cominciarono  a combattere  con tanta  rabbia,  eh’  egli  ammazzarono  Ma-nilio; ed  arebbero  tutto  il  resto  dei Romani  oppressi,  se  dalla  prudenzad*  uno  Tribuno  non  fusse  stato  loro aperta  la  via  ad  andarsene.  Dove  si  ve-de, come  mentre  la  necessità  costrinse i Veienti  a combattere,  e*  combatteronoferocissiraamente;  ma  quando  videro aperta  la  via,  pensarono  |elio  a combattere.  Erano  < sci  egli  Equi  con  gli nc*  confini  romani.  MandiI’  incontro  i Consoli.  Talcl gliare  la  zuffa,  lo  esercito del  quale  era  capo  Vettitrovò  ad  un  tratto  rinchit steccati  suoi  occupali  da P altro  esercito  romano;eome  gli  bisognava  o mor via  col  ferro,  disse  ai  suo ste  parole:  Ile  mecum  ; n< valium , armati  arinatis  obi pareSj  qii(e  ullùnum  ac  ma est,  necessitate  super ioresquesta  necessitò  è chiama vio  ultimum  ac  maximum millo  prudentissimo  di  tuiromani,  sendo  già  dentro  i Yeienti  con  il  suo  esercito, il  pigliare  quella  e torre  iultima  necessità  di  difende in  modo  che  i Yeienti  udir suno  offendesse  quelli  che  fussino  disar-mati; talché,  gittate  Tarmi  in  terra,  si prese  quella  città  quasi  senza  sangue.Il  quale  modo  fu  dipoi  da  molli  capi- tani osservato.Gap.  XIII.  — Dove  sia  più  da  confidare , o in  uno  buono  capitano  che  abbial*  esercito  debole,  o in  uno  buono esercito  che  abbia  il  capitano  debole.Essendo  diventato  Coriolano  esule  di Roma,  se  ne  andò  ai  Volsci,  dove  con-tratto uno  esercito  per  vendicarsi  con-tro ai  suoi  cittadini,  se  ne  venne  a Ro-ma ; donde  dipoi  si  parti,  più  per  pietà della  sua  madre,  che  per  le  forze  deiRomani.  Sopra  il  quale  luogo  Tito  Li-vio dice,  essersi  per  questo  conosciuto,come  la  Repubblica  romana  crebbe  più per  la  virtù  dei  Capitani,  che  de’  sol-dati; considerato  come  i Volsci  per  lo addietro  erano  stati  vinti,  e solo  poiavevano  vinto  che  Coriolano  fu  loro Capitano.  E benché  Liviopinionc,  nondimeno  si  v luoghi  della  sua  istoria  I; dati  senza  capitano  avergliose  pruove,  ed  esser  sta e più  feroci  dopo  la  nr soli  loro,  che  innanzi  clcome  occorse  nello  esercì mani  avevano  in  Ispagna pioni  ; il  quale,  morti  i <potè  con  la  virtù  sua  n salvare  sè  stesso,  ma  vin e conservare  quella  provipubblica.  Talché,  discorre troverà  molli  essempi,  dov dei  soldati  ara  vinto  lamolti  altri,  dove  solo  la pitan i ara  fatto  il  medesi modo  che  si  può  giudicarbisogno  dell’  altro,  e V a Ecci  bene  da  considerare sia  più  da  temere,  o d’  uicito  male  capitanato,  o capitano  accompagnato  d cito.  E seguendo  in  questo  1’  oppinioucdi  Cesare,  si  debbe  stimare  poco  l’uno e l’altro.  Perchè  andando  egli  in  Ispa-gna  contra  ad  Afranio  e Petreio,  che avevano  un  buono  esercito,  disse  chegli  stimava  poco,  quia  ibat  ad  exercitum sino  duce,  mostrando  la  debolezza  deicapitani.  Al  contrario,  quando  andò  in Tessaglia  conira  Pompeo,  disse:  Vadoad  ducem  sine  exerciiu.  Puossi  consi-derare un’  altra  cosa  : a quale  è più  fa-cile, o ad  uno  buono  capitano  fare  un buono  esercito,  o ad  uno  buono  eser-cito fare  un  buono  capitano.  Sopra  che dico,  che  tale  questione  pare  decisa  ;perchè  più  facilmente  molti  buoni  tro-veranno o inslruiranno  uno,  tanto  chediventi  buono,  che  non  farà  uno  molti. Lucullo,  quando  fu  mandato  contra  aMitridate,  era  al  tutto  inesperto  della guerra;  uondimanco  quel  buono  eser-cito, dove  erano  assai  ottimi  capi,  lo feciono  tosto  un  buon  capitano.  Arma-rono i Komani,  per  difetto  d’ uomini, assai  servi,  o gli  dieronon Sempronio  Gracco,  il  qi tempo  fece  un  buono  eseri ed  Epaminonda,  come  alt r<poich’egli  ebbero  tratta  T trio  della  servitù  degli  Spa: tempo  feciono  de’conladindati  ottimi,  che  poterono  n sostenere  la  milizia  spartii cerla.  Sì  clic  la  cosa  èV uno  buono' può  trovare dimeno,  un  esercito  buoni buono  suole  diventare  insricoloso;  come  diventò  l’e cedonia  dopo  la  morte  di come  erano  i soldati  velerancivili.  Tanto  che  io  credo da  confidare  assai  in  uno abbi  tempo  a instruire  utdità  di  armargli,  che  in insolente,  con  uno  capo fatto  da  lui.  Però  è da  diiria  e la  laude  a quelli  caj solamente  hanno  avuto  a mieo,  ma  prima  che  venghino  alle  manicon  quello,  è convenuto  loro  instruire l’esercito  loro  e farlo  buono:  perchèin  questi  si  mostra  doppia  virtù,  e tanto  rara,  che  se  tale  fatica  fusse  statadata  a molti,  ne  sarebbero  stimati  e ri- putati meno  ussai  che  non  sono.Cap.  XIV.  — Le  invenzioni  nuove  che appariscono  nel  mezzo  della  zuffa,  ele  voci  nuove  che  si  odono,  quali  ef-fetti faccino.Di  quanto  momento  sia  ne*  conflitti  e nelle  zuffe  un  nuovo  occidente  che  na-sca per  cosa  che  di  nuovo  si  vegga  o oda,  si  dimostra  in  assai  luoghi,  e mas-sime per  questo  essempio  che  occorse nella  zuffa  che  i Romani  fecero  coi  Vol-sci  ; dove  Quinzio  veggendo  inclinare uno  de’  corni  del  suo  esercito,  cominciòa gridare  forte,  che  gli  stessino  saldi, perchè  1’  altro  corno  dello  esercito  era vittorioso:  con  la  qual  parola,  avendo dato  animo  a’  suoi  e sinimici,  vinse.  E se  tali  ve cito  bene  ordinato  fanno in  uno  tumultuario  e ni;fanno  grandissimi,  pere mosso  da  siinil  vento.  Io durre  uno  cssenipio  ncne’  nostri  tempi.  Era  la  ( pochi  anni  sono  divisa Oddi  e Buglioni  Questi  realtri  erano  esuli:  i qua elianti  loro  amici,  ragun ridottisi  iu  alcuna  loro  ta Perugia  con  il  favor una  notte  entrarono  in senza  essere  scoperti,  sper  pigliare  la  piazza.  F città  iu  su  tutti  i cani catene  che  la  tengono  sb;le  genti  oddesche  davani una  mazza  ferrata  romjr di  quelle,  acciocché  i C£passare;  e restandogli  i quella  che  sboccava  iu  pi;già  levato  il  romore  all7  armi,  ed  essen- do colui  che  rompeva  oppresso  dallaturba  che  gli  veniva  dietro,  nè  potendo per  questo  alzare  bene  le  braccia  perrompere  per  potersi  maneggiare  gli venne  detto:  Fatevi  indietro:  la  qualvoce  andando  di  grado  in  grado  dicendo addietro,  cominciò  a far  fuggire  gliultimi,  e di  mano  in  mano  gii  altri, con  tanta  furia,  che  per  loro  medesimisi  ruppono;  e cosi  restò  vano  il  disegno degli  Oddi,  per  cagione  di  sì  debole  acci-dente. Dove  è da  considerare,  che  non tanto  gli  ordini  in  uno  esercito  sononecessari  per  potere  ordinatamente  com- battere, quanto  perchè  ogni  minimoaccidente  non  ti  disordini.  Perchè,  non per  altro  le  moltitudini  popolari  sonodisutili  per  la  guerra,  se  non  perchè ogni  rumore,  ogni  voce,  ogni  strepitogli  altera,  e fagli  fuggire.  E però  un buon  capitano  intra  gli  altri  suoi  ordinidebbe  ordinare  chi  sono  quelli  che  ab- bino a pigliare  la  sua  voce  e rimetterlaad  altri,  ed  assuefare  i suoi  soldati  che non  credino  se  non  a quelli  suoi  capi,che  non  dichino  se  non  quel  che  da  lui è commesso  ; perchè,  non  osservata  benequesta  parte,  si  è visto  molte  volte avere  fatti  disordini  grandissimi.  Quantoal  vedere  cose  nuove,  debbe  ogni  capi-tano ingegnarsi  di  farne  apparire  al-cuna, mentre  che  gli  eserciti  sono  alle mani,  che  dia  animo  agli  suoi  e tolgaloagli  nimici;  perchè,  intra  gli  accidenti che  ti  diano  la  vittoria,  questo  è effica-cissimo. Di  che  se  ne  può  addurre  per testimone  Caio  Sulpizio  dittatore  roma-no; il  quale  venendo  a giornata  con  i Franciosi,  ormò  tutti  i saccomanni  egente  vile  del  campo;  e quelli  fatti  sa- lire sopra  i muli  ed  altri  somieri  conarmi  ed  insegne  da  parere  gente  a ca- vallo, gli  mise  dietro  a un  colle,  e co-mandò che  ad  un  segno  dato,  nel  tempo che  la  zuffa  fusse  più  gagliarda,  si  sco-prissero e mostrassiusi  a*  nimici.  La qual  cosa  così  ordinata  e fatta,  dettetanto  terrore  ai  Franciosi,  che  perita-rono la  giornata.  E però  un  buon  ca-pitano debbo  fare  due  cose:  1*  una,  di vedere  con  alcune  di  queste  nuove  in-venzioni di  sbigottire  il  nimico;  1’  altra, di  stare  preparato  che  essendo  fattedal  nimico  contro  di  lui,  le  possa  sco- prire, c fargliene  tornar  vane:  comefece  il  re  d’india  a Semiramis;  la  quale veggendo  come  quel  re  aveva  buon  nu-mero d’elefanti,  per  sbigottirlo,  e per mostrargli  che  ancora  essa  n’  era  co-piosa, ne  formò  assai  con  cuoia  di  bu-fali e di  vacche,  e quelli  messi  sopra  icammelli,  gli  mandò  davanti;  ma  cono- sciuto dal  re  1’  inganno,  gli  tornò  nonsolamente  quel  suo  disegno  vano,  ma dannoso.  Era  Mamerco  dittatore  conteaa’  Fidenati,  i quali,  per  isbigott ire  lo esercito  romano,  ordinarono  che  in  sul-P ardore  della  zuffa  uscisse  fuora  di  Fi-ttane numero  di  soldati  con  fuochi  insulle  lance,  acciocché  i Romani  occupati dalla  novità  della  cosa,  rompessino  in-Ira  lóro  gli  ordini.  Sopra  clic  è da  no-tare, che  quando  tali  invenzioni  hannopiù  del  vero  che  del  fìnto,  si  può  bene allora  rappresentarle  agli  uomini,  per-chè avendo  assai  del  gagliardo,  non  si può  scoprire  così  presto  la  debolezzaloro:  ma  quando  Y hanno  pjp  del  fìnto che  del  vero,  è bene  o non  le  fare,  o,facendole,  tenerle  discosto,  di  qualità  clic le  non  possino  essere  così  presto  sco-perte; come  fece  Caio  Sulpizio  de*  mu- lattieri. Perchè  quando  vi  è dentro  de-bolezza, appressandosi,  le  si  scuoprono tosto,  e ti  fanno  danno,  e non  favore;come  feciono  gii  elefanti  a Semiramis, e a’ Fidenali  i fuochi:  i quali  benchénel  principio  turbassino  un  poco  l’eser- cito; nondimeno  come  e’ sopravvenne  ilDittatore,  e cominciò  a sgridargli,  di- cendo che  non  si  vergognavano  a fug-gire il  fumo  come  le  pecchie,  e che  do- vessino  rivoltarsi  a loro,  gridando:  Suisflammit  deletc  FidenaSj  qnas  veslris  bc -nefìctts  placare  non  potuistis  ; tornòquello  trovato  ai  Fidenati  inutile,  e re-starono perditori  della  zuffa.Cap.  XV.  — Come  uno  c non  molti  sia-no preposti  ad  uno  esercito , e coinèi più  comandatovi  offendono. Essendosi  ribellati  i Fidenati,  ed  aven-do morto  quella  colonia  che  i Romani avevano  mandata  in  Fidene,  crearono  iRomani,  per  rimediare  a questo  insulto, quattro  Tribuni  con  potestà  consolare;de’ quali  lasciatone  uno  alla  guardia  di Roma,  ne  mandarono  tre  contro  ai  Fi-denati  ed  i Veienti:  i quali  per  esser divisi  intra  loro  e disuniti,  ne  riporta-rono disonore,  e non  danno.  Perchè  del disonore,  ne  furono  cagione  loro;  delnon  ricevere  danno,  ne  fu  cagione  la virtù  de*  soldati.  Donde  i Romani,  veu-gendo  questo  disordine,  ricorsono  alla creazione  del  Dittatore,  acciocché  unsolo  riordinasse  quello  che  tre  avevano disordinato.  Donde  si  conosce  la  inuti-lilà  di  molti  comandatoci  in  uno  eser-cito, o in  una  terra  die  s’abbia  a di-fendere; e Tito  Livio  11011  lo  può  più chiaramente  dire  che  con  le  infrascritteparole!  Tres  Tribuni  potcsUitc  consil- iari documento  fucre , quam  pluriumimperium  bello  inutile  esscl  ; tendendo ad  sua  quisque  consilia , cutn  aht  ali  advidereluvj  aperuerunt  ad  occasionem  lo- cum  hosti.  E beneliè  questo  sia  assaicsscmpio  a provare  il  disordine  che fanno  nella  guerra  i più  comandatori,ne  voglio  addurre  alcuno  altro,  e mo-derno ed  antico,  per  maggiore  dichia-razione. Nel  1500,  dopo  la  ripresa  che fece  il  re  di  Trancia  Luigi  XII  di  Mi-lano, mandò  le  sue  genti  a Pisa  per restituirla  ai  Fiorentini;  dove  furonomandali  commessaci  Giovambatista  Ri- dolfi  e Luca  iV  Antonio  degli  Albizi.  Eperchè  Giovambatista  era  uomo  di  ri- putazione, e di  più  tempo,  Luca  lasciavaal  tutto  governare  ogni  cosa  a lui:  e se  egli  non  dimostrava  la  sua  ambizionecon  opporseli,  la  dimostrava  col  ta- cere, e con  lo  stracurare  e vilipendereogni  cosa  in. modo,  che  non  aiutava  le azioni  dei  campo  nè  coll’  opere  nè  colconsiglio,  come  se  fosse  stato  uomo  di nessuno  momento.  Ma  si  vidde  poi  tuttoil  contrario  quando  Giovambatista,  per certo  accidente  seguito,  se  n*  ebbe  a tor-nare a Firenze;  dove  Luca,  rimasto  solo, dimostrò  quanto  con  V animo,  con  laindustria  e con  il  consiglio  valeva  : le quali  tutte  cose  mentre  vi  fu  la  com-pagnia erano  perdute.  Voglio  di  nuovo addurre  in  confirmazione  di  questo  leparole  di  Tito  Invio;  il  quale  referendo come  essendo  mandato  dai  Romani  con-tro agli  Equi  Quinzio  cd  Agrippa  suo collega,  Agrippa  volle  che  tutta  1*  am-ministrazione della  guerra  fusse  ap-presso a Quinzio,  e’  dice:  Suluberri -mum  in  adminislralione  magnarum  re-rum eilj  summam  imperii  apud  unumesse.  Il  che  è contrario  a quello  che oggi  fanno  queste  nostre  repubbliche  cprincìpi,  (li  mandare  ne’  luoghi,  per  mi- nistrargli meglio,  più  d’  un  commessa-rio e più  d’ un  capo:  il  che  fa  una inestimabile  confusione.  E se  si  cercassela  cagione  della  rovina  degli  eserciti italiani  e franciosi  ne’  nostri  tempi,  sitroverebbe  la  potissima  cagione  essere stata  questa.  E puossi  conchiudere  ve-ramente, come  gli  è meglio  mandare  in una  espedizione  un  uomo  solo  di  co-munale prudenza,  che  duoi  valentissimi uomini  insieme  con  la  medesima  au- torità.Cap  XVf.  — Che  la  vera  viriti  si  va ne ' tempi  difficili  a trovare  ; e ne3 tem-pi facili  non  gli  uomini  virtuosi , ma quelli  che  per  ricchezze  o per  paren-tado prcvaglionO;  hanno  più  grazia. Egli  fu  sempre,  e sempre  sarà,  chegli  uomini  grandi  e rari  in  una  repub-blica nei  tempi  pacifichi  sono  negletti  ;perchè  per  la  invidia  che  s’  ha  tiratodietro  la  riputazione  che  la  virtù  d’essi ha  dato  loro,  si  truova  in  tali  tempiassai  cittadini  che  vogliono,  non  che esser  loro  eguali,  ma  esser  loro  supe-riori. E di  questo  n’  è un  luogo  buono in  Tucidide  istorico  greco;  il  quale  mo-stra come  sendo  la  repubblica  ateniese rimusa  superiore  in  la  guerra  pelopon-nesiaca, ed  avendo  frenato  l’ orgoglio degli  Spartani,  e quasi  sottomessa  tuttala  Grecia,  satse  in  tanta  riputazione, che  la  disegnò  d’ occupare  la  Sicilia.Venne  questa  impresa  in  disputa  in Atene.  Alcibiade  e qualche  altro  citta-dino consigliavano  che  la  si  facesse, come  quelli  che  pensando  poco  al  benepubblico,  pensavano  all’  onor  loro,  di-segnando esser  capi  di  tale  impresa.Ma  Micia,  che  era  il  primo  intra  i ri- putati d’  Atene,  la  dissuadeva;  e la  mag-gior ragione  che  nel  concionare  al  po-polo, perchè  gli  fusse  prestato  fede,adducesse,  fu  questa:  clic  consigliando esso  che  non  si  facesse  questa  guerra,ci  consigliava  cosa  che  non  faceva  per lui;  perchè  stando  Atene  in  pace,  sa-peva come  v’  erano  infiniti  cittadini  che gli  volevano  andare  innanzi;  ma  facen-dosi guerra,  sapeva  che  nessuno  citta-dino gli  sarebbe  superiore,  o eguale.Vedesi,  pertanto,  come  nelle  repubbliche è questo  disordine,  di  fare  poca  stimade’  valentuomini  ne’  tempi  quieti.  La qua)  cosa  gli  fa  indeguare  in  due  modi:I’  uno  per  vedersi  mancar  del  grado loro;  l’altro  per  vedersi  fare  compagnie superiori  uomini  indegni  e di  manco sufficienza  di  loro.  11  quale  disordinenelle  repubbliche  ha  causato  di  molte rovine;  perchè  quelli  cittadini  che  ini-meritamenle  si  veggono  sprezzare,  e co- noscono clic  e’  ne  sono  cagione  i tempifacili  c non  pericolosi,  s’  ingegnano  di turbargli,  movendo  nuove  guerre  inpregiudizio  della  repubblica.  E pensan-do quali  potessino  essere  i rimedi,  cene  trovo  due:  l’uno,  mantenere  i cit-tadini poveri,  acciocché  con  le  ricchezze senza  virtù  non  potessino  corrompere ni  loro  nò  altri;  l’altro,  eli  ordinarsiin  modo  alla  guerra,  die  sempre  si  po-tesse far  guerra,  e sempre  s’avesse  bi-sogno di  cittadini  riputati,  come  fe  Ro-ma ne’  suoi  primi  tempi.  Perchè  te-nendo fuori  quella  città  sempre  eserciti, sempre  v’  era  luogo  alla  virtù  degli  uo-mini ; nè  si  poteva  torre  il  grado  .ad uno  che  lo  meritasse,  e darlo  ad  unoaltro  che  non  lo  meritasse.  Perchè  se pure  lo  faceva  qualche  volta  per  er-rore, o per  provare,  ne  seguiva  tosto tanto  suo  disordine  e pericolo,  che  laritornava  subito  nella  vera  via.  Ma  le altre  repubbliche  che  non  sono  ordinatecome  quella,  e che  fanno  solo  guerra quando  la  necessità  le  constringe,  nonsi  possono  difendere  da  tale  inconve- niente: anzi  sempre  vi  correranno  den-tro; e sempre  ne  nascerà  disordine, quando  quel  cittadino  negletto  e vir-tuoso, sia  vendicativo,  ed  abbia  nella città  qualche  riputazione  e aderenza.  E se  la  città  (ti  Roma  un  tempo  se  ne difese,  a quella  ancora,  poiché  la  ebbevinto  Cartagine  cd  Antioco  (come  al-trove si  disse),  non  temendo  più  diguerra,  pareva  poter  commettere  gli eserciti  a qualunque  la  voleva  ; non  ri-guardando tanto  alla  virtù,  quanto  alle altre  qualità  che  gli  dessino  grazia  nelpopolo.  Perchè  si  vede  che  Paulo  Emi-lio ebbe  più  volte  la  repulsa  nel  con-solato, nò  fu  prima  fatto  Consolo  che surgesse  la  guerra  macedonica  ; la  qualegiudicandosi  pericolosa,  di  consenso  di tutta  la  città  fu  commessa  a lui.  Sendonella  città  nostra  di  Firenze  seguite dopo  il  1494  di  molte  guerre,  ed  aven-do fatto  i cittadini  fiorentini  tutti  una cattiva  pruova,  si  riscontrò  la  città,  asorte,  in  uno  che  mostrò  in  che  ma-niera s’aveva  a comandare  agli  eser-citi; il  quale  fu  Antonio  Giacomini:  e mentre  che  si  ebbe  a far  guerre  peri-colose, tutta  P ambizione  degli  altri  cit-tadini cessò,  e nella  elezione  del  Com-messa  rio  e capo  degli  eserciti  non  aveva competitore  alcuno  ; ma  come  s’  ebbe  ufare  una  guerra  dove  non  era  dubbio alcuno,  ed  assai  onore  e grado,  ei  vitrovò  tanti  competitori,  che  avendosi  ad eleggere  tre  Commessa  ri  per  campeg-giar  Pisa,  fu  lasciato  indietro.  E benché e*  non  si  vedesse  evidentemente  che male  ne  seguisse  al  pubblico  per  non v’avere  inandato  Antonio,  nondimenose  ne  potette  fare  facilissima  coniettura; perchè  non  avendo  più  i Pisani  da  di-fendersi nè  da  vivere,  se  vi  fusse  stalo Antonio,  sarebbero  stati  tanto  innanzistretti,  che  si  sarebbero  dati  a discre-zione de’ Fiorentini.  Ma  sendo  loro  as-sediati da  capi  che  non  sapevano  nè stringerli  nè  sforzarli,  furono  tanto  in-trattenuti, che  la  città  di  Firenze  gli comperò,  dove  la  gli  poteva  avere  aforza.  Convenne  che  tale  sdegno  potesse assai  in  Antonio;  e bisognava  che  fussebene  paziente  e buono,  a non  dispe- rare di  vendicarsene  o con  la  rovinadella  città,  potendo,  ocon  i*  ingiuria d’  alcuno  particolare  cittadino;  da  chesi  debbe  una  repubblica  guardare;  come nel  seguente  capitolo  si  discorrerà.Cap.  XVII.  — Che  non  si  offenda  uno, e poi  quel  medesimo  si  mandi  in  am-ministrazione e governo  d*  impor-tanza. Debbe  una  repubblica  assai  conside-rare di  non  preporre  alcuno  ad  alcuna importantè  amministrazione,  al  qualesia  stato  fatto  da  altri  alcuna  notabile ingiuria.  Claudio  Nerone,  il  quale  si  part  ìdallo  esercito  che  lui  aveva  a fronte  ad Annibaie,  e con  parte  d’esso  n’andònella  Marca  a trovare  1*  altro  Consolo per  combattere  con  Asdrubale  avanti  chesi  congiungesse  con  Annibaie  ; s’ era trovato  per  lo  addietro  in  Ispagna  afronte  d’  Asdrubale,  ed  avendolo  serrato in  luogo  con  lo  esercito,  che  bisognavao che  Asdrubale  combattesse  con  suo disavvantaggio,  o si  morisse  di  fame,fu  da  Asdrubale  astutamente  tanto  in*trattenuto  con  certe  pratiche  d*  accordo,che  gli  usci  di  sotto,  e totsegli  quella occasione  d’ oppressarlo.  La  qual  cosasaputa  a Roma,  gli  dette  carico  grande appresso  al  Senato  ed  al  Popolo,  e dilui  fu  parlato  inonestamente  per  tutta quella  città,  non  senza  suo  grande  di-sonore ed  isdegno.  Ma  sendo  poi  fatto Consolo,  e inandato  all*  incontro  d’  An-nibale, prese  il  soprascritto  partito:  il quale  fu  pericolosissimo;  talmente  cheRoma  stette  tutta  dubbia  c sollevata, infino  a tanto  che  vennono  le  nuovedella  rotta  d’  Asdrubale.  Ed  essendo  do- mandato poi  Claudio  per  qual  cagioneavesse  preso  si  pericoloso  partito,  dove senza  una  estrema  necessità  egli  avevagiocata  quasi  la  libertà  di  Roma  ; ri- spose che  V aveva  fatto  perchè  sapevache,  se  gli  riusciva,  riacquistava  quella gloria  che  s'aveva  perduta  in  Ispagua;e se  non  gli  riuscivo,  e che  questo  suo partito  avesse  avuto  contrario  fine,  sa-peva come  ei  si  vendicava  contra  a (jucila  città  ed  a quelli  cittadini  clicTavevano  tanto  ingratamente  ed  indi-scretamente offeso.  E quando  questepassioni  di  tali  offese  possono  tanto  in un  cittadino  romano,  e in  quelli  tempiche  Roma  ancora  era  incorrotta,  si debbe  pensare  quanto  elle  possino  in  uncittadino  d’  una  città  che  non  sia  fatta come  era  allora  quella.  E perchè  a si-mili disordini  che  nascono  nelle  repub- bliche non  si  può  dare  certo  rimedio,ne  seguita  che  gli  è impossibile  ordi-nare una  repubblica  perpetua,  perchèper  mille  inopinate  vie  si  causa  la  sua rovina.Cip.  XVIII.  — Nessuna  cosa  è più  de-gna d*  un  capitano che  presentire  «parlili  del  nimico. Diceva  Epaminonda  tebano,  nessunacosa  esser  più  necessaria  c più  utile  ad un  capitano,  che  conoscere  le  ^libera-zioni e partiti  del  nimico.  E perchè  tale cognizione  è diffìcile,  merita  tanto  piùlaude  quello  che  adopera  in  modo  che le  conicttura.  E non  tanto  è diffìcile  in-tendere gli  disegni  del  nimico,  eh’  egli è qualche  volta  diffìcile  intendere  leazioni  sue  ; e non  tanto  le  azioni  sue che  per  lui  si  fanno  discosto,  quanto  lepresenti  e le  propinque.  Perché  molte volte  è accaduto,  che  sendo  durala  unazuffa  infino  a notte,  chi  ha  vinto  crede aver  perduto,  e chi  ha  perduto  credeaver  vinto.  11  quale  errore  ha  fatto  di- liberare cose  contrarie  alla  salute  di  co-lui che  ha  diliberato:  come  intervenne  a Bruto  e Cassio,  i quali  per  questo  er-rore perderono  la  guerra;  perchè,  aven-do vinto  Bruto  dal  corno  suo,  credetteCassio,  che  aveva  perduto,  che  tutto 1’  esercito  fusse  rotto  ; e disperatosi  perquesto  errore  della  salute,  ammazzò  «è stesso.  Nei  nostri  tempi,  nella  giornata che  fece  in  Lombardia  a Santa  Cecilia Francesco  re  di  Francia  con  i Svizzeri,sopravvenendo  la  notte,  credetleno  quella parte  dei  Svizzeri  che  erano  rimasti  in-teri aver  vinto,  non  sappiendo  di  quelli che  erano  stati  rotti  e morti:  il  qualeerrore  fece  che  loro  medesimi  non  si salvarono,  aspettando  di  ricombatterela  mattina  con  tanto  loro  disavvantag-gio ; e fecero  ancora  errare,  e per  taleerrore  presso  che  rovinare,  F esercito del  papa  e di  Spagna,  il  quale  in  sula  falsa  nuova  della  vittoria  passò  il Po,  e se  procedeva  troppo  innanzi,  re-stava prigione  de’  Franciosi  che  erano vittoriosi.  Questo  simile  errore  occorsene’  campi  romani  e in  quelli  delli  Equi. Dove,  sendo  Sempronio  consolo  conl’esercito  all’ incontro  degli  inimici,  ed appiccandosi  la  zuffa,  si  travagliò  quellagiornata  infino  a sera  con  varia  fortuna dell’  uno  e dell’altro:  e venuta  la  notte,sendo  l’ uno  e l’ altro  esercito  mezzo rotto,  non  ritornò  alcuno  di  loro  ne’ suoialloggiamenti;  anzi  ciascuno  si  ritrasse uc’  prossimi  colli,  dove  credevano  esserpiù  sicuri;  e l’esercito  romano  si  di-vise in  due  parti  : 1’  una  n’  andò  colConsolo,  1’  altra  con  un  Teinpanio  cen-turione, per  la  virtù  del  quale  1’  eser-cito romano  quel  giorno  non  era  stato rotto  interamente.  Venuta  la  mattina,il  Consolo  romano  senza  intendere  altro de’  nimici  si  tirò  verso  Roma  ; il  similefece  l’esercito  degli  Equi:  perchè  cia- scuno di  questi  credeva  che  il  nimicoavesse  vinto,  c però  ciascuno  si  ritrasse senza  curare  di  lasciare  i suoi  allog-giamenti in  preda.  Accadde  che  Tempa-nio,  eh’  era  col  resto  dello  esercito  ro-mano, ritirandosi  ancora  esso,  intese da  certi  feriti  degli  Equi,  come  i capi-tani loro  s’ erano  partiti,  cd  avevano abbandonati  gli  alloggiamenti:  dondeche  egli,  in  su  questa  nuova,  se  ne  en-trò negli  alloggiamenti  romani,  c salvò-gli;  e dipoi  saccheggiò  quelli  degli  Equi, e se  ne  tornò  a Roma  vittorioso.  Laqual  vittoria,  come  si  vede,  consistè  solo in  chi  prima  di  loro  intese  i disordinidel  nimico.  Dove  si  debbe  considerare, come  e’  può  spesso  occorrere  che  i ducieserciti  che  siano  a fronte  V uno  del-P altro,  siano  nel  medesimo  disordine,e patischino  le  medesime  necessità;  e che  quello  resti  poi  vincitore  che  è ilprimo  a intendere  le  necessità  dell’  al-tro. Io  voglio  dare  di  questo  un  essem-pio  domestico  e moderno.  Nel  1498, quando  i Fiorentini  avevano  uno  eser-cito grosso  in  quel  di  Pisa,  e stringe- vano forte  quella  città;  della  qualeavendo  presa  i Viniziani  la  protezione, non  veggeudo  altro  modo  a salvarla,diliberarono  di  divertire  quella  guerra, assaltando  da  un’altra  banda  il  domi-nio di  Firenze;  e fatto  uno  esercito  po-tente, entrarono  per  la  Val  di  Lamona,ed  occuparono  il  borgo  di  Marradi,  ed assediarono  la  ròcca  di  Castiglione,  cheè in  sul  colle  di  sopra.  Il  che  sentendo i Fiorentini,  diliberarono  soccorrer  Mar-radi, e non  diminuire  le  forze  avevano in  quel  di  Pisa;  e fatte  nuove  fanterie,ed  ordinale  nuove  genti  a cavallo,  le mandarono  a quella  volta:  delle  qualine  furono  capi  Iacopo  quarto  d’ Appiano signore  di  Piombino,  ed  il  conte  Rinuc-cio  da  Marciano.  Sendosi,  adunque,  con* dotte  queste  genti  in  sul  colle  sopraMarradi,  si  levarono  i ninnici  di  ’ntorno a Castiglione,  e ridussonsi  tutti  nel  bor-go: ed  essendo  stato  P uno  e P altro  di questi  due  eserciti  a fronte  qualchegiorno,  pativa  P uno  e l’altro  assai  di vettovaglie  e d’ogni  altra  cosa  neces-saria : e non  avendo  ardire  P uno  d*  af-frontare P altro,  nè  sappiendo  i disor-dini P uno  dell’altro,  diliberarono  in una  sera  medesima  P uno  e P altro  dilevare  gli  alloggiamenti  la  mattina  ve-gnente, e ritirarsi  in  dietro;  il  Mili-ziano verso  Berzighella  e Faenza,  il Fiorentino  verso  Casaglia  e il  Mugello.  Ve-nula adunque  la  mattina,  ed  avendo  cia-scuno de’ campi  cominciato  ad  avviare*i suoi  impedimenti;  a caso  una  donna si  partì  dal  borgo  di  Ùarradi,  e venneverso  il  campo  fiorentino,  secura  per  la vecchiezza  e per  la  povertà,  disiderosadi  vedere  certi  suoi  che  erano  in  quel campo:  dalla  quale  intendendo  i capitanidelle  genti  fiorentine,  come  il  campo  vi-niziano  partiva,  si  fecero  in  su  questanuova  gagliardi;  e mutato  consiglio, come  se  gli  avessino  disalloggiati  i ni-nnici, ne  andarono  sopra  di  loro,  e scris-sero a Firenze  avergli  ributtati,  e vintala  guerra.  La  qual  vittoria  non  nacque da  altro,  che  dallo  aver  inteso  primadei  nemici,  come  e’ se  ne  andavano:  la quale  notizia  se  fusse  prima  venuta  dal-r altra  parte,  arebbe  fatto  conira  ai  no-stri il  medesimo  effetto.Cap.  XIX.  — Se  a reggere  una  molti-tudine è più  necessario  lo  ossequioche  la  pena. Era  la  Repubblica  romana  sollevata per  le  inimicizie  de’ Nobili  e de’ Plebei: nondimeno,  soprastando  loro  la  guerra, mandarono  fuori  con  gli  eserciti  Quin-zio ed  Appio  Claudio.  Appio,  per  essere crudele  e rozzo  nel  comandare,  fu  maleubbidito  da’ suoi;  tanto  che  quasi  rotto si  fuggì  della  sua  provincia.  Quinzio,per  esser  benigno  e di  umano  ingegno, ebbe  i suoi  soldati  ubbidienti,  e ripor-to mie  la  vittoria.  Donde  e’  pare  elle  sia meglio,  a governare  una  moltitudine,essere  umano  che  superbo,  pietoso  che crudele.  Nondimeno,  Cornelio  Tacito,  alquale  molti  altri  scrittori  acconsentono, in  una  sua  sentenza  couchiude  il  con-trario, quando  dice  : In  molliludine regenda  plus  pana,  quam  obsequiumvaici.  E considerando  come  si  possa  sal- vare I’ una  e l’altra  di  queste  oppinio-ni,  dico:  o clic  tu  bai  a reggere  uomini che  ti  sono  per  l’ordinario  compagni,o uomini  che  ti  sono  sempre  soggetti. Quando  ti  sono  compagni,  non  si  puòinteramente  usare  la  pena,  nè  quella  se- verità di  che  ragiona  Cornelio:  e perchèla  Plebe  romana  aveva  in  Roma  eguale imperio  con  la  Nobiltà,  non  poteva  unoche  ne  diventava  principe  a tempo,  con crudeltà  e rozzezza  maneggiarla.  £ moltevolle  si  vide  che  miglior  frutto  feciono i Capitani  romani  che  si  facevano  amaredagli  eserciti,  e che  con  ossequio  gli maneggiavano,  che  quelli  che  si  face-vano straordinariamente  temere;  se  già e’ non  erano  accompagnati  da  una  ec-cessiva virtù,  come  fu  Manlio  Torquato. Ma  chi  comanda  ai  sudditi,  de’  qualiragiona  Cornelio,  acciocché  non  diven- tino insolenti,  e che  per  troppa  tua  fa-cilità non  ti  calpestino,  debbe  volgersi più  tosto  alla  pena  che  allo  ossequio.Ma  questa  ancora  debbe  esser  iu  modo moderata,  che  si  fugga  l’odio;  perchèfarsi  odiare  non  torna  mai  bene  ad  al- cuno principe.  Il  modo  del  fuggirlo  èlasciar  stare  la  roba  de’ sudditi:  perchè del  sangue,  quando  non  vi  sia  sottoascosa  la  rapina,  nessuno  principe  ne è disideroso  se  non  necessitato,  c que-sta  necessità  viene  rare  volte;  ma  seti» dovi  mescolata  la  rapina,  viene  sempre,nè  mancano  mai  le  cagioni  ed  il  disi* derio  di  spargerlo:  come  in  altro  trat-tato sopra  questa  materia  s’ è larga- mente discorso.  Meritò,  adunque,  piùlaude  Quinzio  che  Appio  ; e la  sentenza di  Cornelio  dentro  ai  termini  suoi,  cnon  ne*  casi  osservati  da  Appio,  merita d*  essere  approvata.  E perchè  noi  ab-biamo parlato  della  pena  e dello  osse- quio, non  mi  pare  superfluo  mostrare,come  uno  essempio  d’  umanità  potè  ap- presso ai  Falisci  più  che  V armi.Cap.  XX.  — Uno  essempio  df  umanità appresso  ai  Falisci  potette  più  d*  ogniforza  romana.Essendo  Cammillo  con  V esercito  in-torno alla  città  de*  Falisci,  e quella  as-sediando,un  maestro  di  scuola  de’  più nobili  fanciulli  di  quella  città,  pensandodi  gratificarsi  Cammillo  ed  il  Popolo romano,  sotto  colore  di  esercizio  usciendocon  quelli  fuora  della  città  gli  con-dusse lutti  nel  campo  innanzi  a Cani-inilio,  e,  presentatigli,  disse,  come  me-diami loro  quella  terra  si  darebbe  nellesue  mani.  Il  quale  preseute  non  sola-mente non  fu  accettato  da  Cammillo,ma  fatto  spogliare  quel  maestro,  c lega-togli le  mani  di  dietro,  e dato  a cia-scuno di  quelli  fanciulli  una  verga  in inano,  lo  fece  da  quelli  con  di  molte  bat-titure accompagnare  nella  terra.  La  qual cosa  intesa  da  quelli  cittadini,  piacquetanto  loro  l’ umanità  ed  integrità  di Cammillo,  che  senza  voler  più  difendersi,diliberarono  di  dargli  la  terra.  Dove  è da  considerare,  con  questo  vero  essem-pio,  quanto  qualche  volta  possa  più nelli  animi  degli  uomini  un  atto  umanoe pieno  di  carità,  che  un  atto  feroce  e violento;  e come  molte  volte  quelle  pro-vincie  e quelle  città  che  le  armi,  gl’  instru- menti bellici  ed  ogni  altra  umana  forzanon  ha  potuto  aprire,  uno  essempio ti*  umanità  c di  pietà,  di  castità  o diliberalità,  ha  aperte.  Di  che  ne  sono nelle  istorie,  oltre  a questo,  molti  altriessempi.  E vedesi  come  1*  armi  romane non  potevano  cacciare  Pirro  d’ Italia,  ene  lo  cacciò  la  liberalità  di  Fabrizio, quando  li  manifestò  Y offerta  die  avevafatta  ai  Romani  quel  suo  famigliare, d’avvelenarlo.  Vedesi  ancora,  come  a Sci-pione Afifricano  non  dette  tanta  riputa-zione in  Ispagna  la  espugnazione  diCartagine  nuova,  quanto  gli  dette  quello essempio  di  castità,  d’  aver  fenduta  lamoglie  giovine,  bella  ed  intatta  al  suo marito;  la  fuma  della  quale  azione  glifece  amica  tutta  l’Ispagna.  Vedesi  ancora questa  parte  quanto  la  sia  disideratadai  popoli  negli  uomini  grandi,  c quanto sia  laudata  dagli  scrittori  ; e da  quelliche  descrivono  la  vita  dei  principi,  e da  quelli  che  ordinano  come  debbonovivere.  Intra  i quali  Senofonte  s'  affatica assai  in  dimostrare  quanti  onori,  quantevittorie,  quanta  buona  fama  arrecasse  a Ciro  l’essere  umano  ed  affabile;  c nondare  alcuno  essempio  di  sè  nè  di  su-perbo, nè  di  crudele,  nè  di  lussurioso,nè  di  nessuno  altro  vizio  che  macelli la  vita  degli  uomini.  Pur  nondimeno,veggendo  Annibaie  con  modi  contrari a questi  avere  conseguito  gran  fama  egrandi  vittorie,  mi.  pare  da  discorre* re  nel  seguente  capitolo,  donde  questonacque.Cap.  XXI.  — Donde  nacque  che  Annibaie con  diverso  modo  dì  procedere  daScipionCj  fece  quelli  medesimi  effetti in  Italia  che  quello  in  I spugna.Io  stimo  che  alcuni  si  potrebbono meravigliare  veggendo  qualche  capitano,nonostante  eh’  egli  abbia  tenuta  contra-ria via,  aver  nondimeno  fatti  simili  ef-fetti a coloro  che  sono  vissuti  nel  modo soprascritto  : talché  pare  che  la  cagionedelle  vittorie  non  dipenda  dalle  predette cause;  anzi  pare  che  quelli  modi  nonfi  rechino  nè  più  forza  nè  più  fortuna, potendosi  per  contrari  modi  acquistaregloria  e riputazione.  E per  non  mi  par-tire dagli  uomini  soprascritti,  e perchiarir  meglio  quello  che  io  ho  voluto dire;  dico  come  e’  si  vede  Scipioneentrare  in  Ispagna,  c con  quella  sua umanità  e pietà  subito  farsi  amica  quellaprovincia,  e adorare  ed  ammirare  dai popoli.  Vedesi,  all*  incontro,  entrare  An-nibaie in  balia,  e con  modi  tutti  con-trari, cioè  con  violenza  e crudeltà  erapina  ed  ogni  ragione  d’ infedeltà,  fa-re il  medesimo  effetto  che  aveva  fattoScipione  in  Ispagna;  perchè  ad  Annibaie si  ribellarono  tutte  le  città  d’ Italia,  tuttii popoli  lo  seguirono.  E pensando  donde questa  cosa  possa  nascere,  ci  si  veggonodentro  più  ragioni.  La  prima  è,  che  gli uomini  sono  disiderosi  di  cose  nuove;in  tanto  che  cosi  desiderano  il  più  delle volte  novità  quelli  che  stanno  bene,  comequelli  che  stanno  male  : perchè  come  altra volta  si  disse,  ed  è il  vero,  gli  uomini  sistuccano  nel  bene,  e nel  male  s’  afflig-gono. Fu,  adunque,  questo  disiderio  apri-re le  porle  a ciascuno  che  in  una  pro-vincia si  fa  capo  d’  una  innovazione;  es’  egli  è forestiero,  gli  corrono  dietro; s’  egli  è provinciale,  gli  sono  intorno,angumentanlo  e favoriscono:  lalmente- cliè,  in  qualunque  modo  che  egli  pro-ceda, gli  riesce  il  fare  progressi  grandi in  quelli  luoghi.  Oltre  a questo,  gliuomini  sono  spinti  da  due  cose  princi-pali ; o dallo  amore,  o dal  timore:  tal-ché cosi  gli  comanda  chi  si  fa  amare, come  colui  che  si  fa  temere;  anzi,  ilpiù  delle  volte  è seguito  ed  ubbidito  più chi  si  fa  temere,  che  chi  si  fa  amare.Imporla,  pertanto,  poco  ad  un  capitano, per  quaiunehe  di  queste  vie  ei  si  cam-mini, purché  sia  uomo  virtuoso,  e che quella  virtù  lo  faccia  riputato  intra  gliuomini.  Perchè,  quando  la  è grande, come  la  fu  in  Annibaie  ed  in  Scipione,ella  cancella  tutti  quelli  errori  che  si fanno  per  farsi  troppo  amare,  o perfarsi  troppo  temere.  Perchè  dell’  uno  c delP  altro  di  questi  duoi  modi  possono nascere  inconvenienti  grandi,  ed  atti a far  rovinare  un  principe  : perchè  co-lui che  troppo  disidera  esser  amato, ogni  poco  che  si  parte  dalla  vera  via,diventa  disprezzabile:  quell’ altro  che disidera  troppo  d’ esser  temuto,  ognipoco  ch’egli  eccede  il  modo,  diventa odioso.  E tenere  la  via  del  mezzo,  nonsi  può  appunto,  perchè  la  nostra  natura non  ce  io  consente:  ma  è necessarioqueste  cose  che  eccedono  mitigare  con una  eccessiva  virtù,  come  faceva  Anni-baie  e Scipione.  Nondimeno  si  vede  co-me l’  uno  e l’ altro  furono  offesi  da  questiloro  modi  di  vivere,  e così  furono  es-saltati.  La  essudazione  di  tutti  due  s’èdetta.  La  offesa  quanto  a Scipione  fu, che  gl»  suoi  soldati  in  Ispagna  se  gliribellarono  insieme  con  pai*te  degli  suoi amici:  la  qual  cosa  non  nacque  da  altroche  da  non  lo  temere;  perchè  gli  uomini sono  tanto  inquieti,  che  ogni  poco  diporta  clic  si  apra  loro  all’ambizione, dimenticano  subito  ogni  amore  ch’egliavessero  posto  al  principe  per  la  umanità sua;  come  fecero  i soldati  ed  amicipredetti:  tanto  che  Scipione,  per  rime- diare a questo  inconveniente,  fu  con-stretto usare  parte  di  quella  crudeltà che  egli  aveva  fuggita.  Quanto  ad  Au-nihaie,  non  ci  è essempio  alcuno  parti- colare, dove  quella  sua  crudeltà  e pocafede  gli  nocesse:  ma  si  può  bene  pre- supporre che  Napoli  e molte  altre  terre,che  stettero  in  fede  del  Popolo  romano, stessero  per  paura  di  quella.  Vedcsibene  questo,  che  quel  suo  modo  di  vi- vere impio,  lo  fece  più  odioso  al  Popoloromano,  che  alcuno  altro  nimico  che avesse  mai  quella  Repubblica:  in  modoche  dove  a Pirro,  mentre  che  egli  era con  lo  esercito  in  Italia,  manifestaronoquello  che  lo  voleva  avvelenare,  ad  An- nibaie mai,  ancora  che  disarmalo  edisperso,  perdonarono,  tanto  che  lo  fe- ciono  morire.  Nacquero,  dunque,  adAnnibaie,  per  essere  tenuto  impio  e rom-pitore  di  fede  e crudele,  queste  incomo-dità; ma  gliene  risultò  all’ incontro  una comodità  grandissima,  la  quale  è am-mirata da  tutti  gli  scrittori:  clic  nel suo  esercito,  ancoraché  composto  divarie  generazioni  d’ uomini,  non  nacque mai  alcuna  dissensione,  nè  infra  loromedesimi,  nè  contra  di  lui.  Il  che  non potette  derivare  da  altro,  che  dal  ter-rore che  nasceva  dalla  persona  sua:  il quale  era  tanto  grande,  mescolato  conla  riputazione  che  gli  dava  la  sua  vir-tù, che  teneva  gli  suoi  soldati  quieti  eduniti.  Conchiudo,  adunque,  come  e’  non importa  molto  in  qual  modo  un  capi-tano si  proceda,  purché  in  esso  sia  virtù grande,  che  condisca  bene  l’uno  e l’al-tro modo  di  vivere:  perchè,  come  è detto,  nell’uno  e nell’ altro  è difetto  epericolo,  quando  da  una  virtù  istraor- dinaria  non  sia  corretto.  C se  Annibaiee Scipione,  l’uno  con  cose  laudabili, l’altro  con  detestabili,  feciono  il  mede-simo  effetto;  non  mi  pare  ila  lasciar indietro  il  discorrere  ancora  di  duoicittadini  romani,  che  conseguirono  con diversi  modi,  ma  tutti  duoi  laudabili,una  medesima  gloria. Cap.  XXII.  — Come  la  durezza  di  Man-lio Torquato  e T umanità  di  Valerio' Corvino  acquistò  a ciascuno  la  mede-sima gloria. E*  furono  in  Roma  in  un  medesimotempo  due  capitani  eccellenti,  Manlio Torquato  e Valerio  Corvino:  i quali  dipari  virtù,  di  pari  trionfi  e gloria,  vis-sono  in  Roma;  e ciascuno  di  loro,  inquanto  s’ apparteneva  al  nimico,  con pari  virtù  l’acquistarono;  ma  quantos’apparteneva  agli  eserciti  ed  agl’ in-trattenimenti de’  soldati,  diversissima-mente procederono:  perchè  Manlio  con ogni  generazione  di  severità,  senza  in-termettere ai  suoi  soldati  o fatica,  o pe-na, gli  comandava:  Valerio,  dall’ altraparte,  con  ogni  modo  e termine  umano, e pieno  d’ una  famigliare  dimestichezzagl’ intratteneva.  Perchè  si  vede,  che  per aver  1’  ubbidienza  dei  soldati,  1’  uno  ani'mazzo  il  figliuolo,  e 1’  altro  non  offese mai  alcuno.  Nondimeno,  in  tanta  diver-sità di  procedere,  ciascuno  fece  il  me-desimo frutto,  e contro  a’  nimici,  ed  infavore  della  Repubblica  e suo.  Perchè nessuno  soldato  non  mai  o detratto  lazuffa,  o si  ribellò  da  loro,  o fu  in  alcuna parte  discrepante  dalla  voglia  di  quel! i ;quantunque  gl’  imperii  di  Manlio  fussino si  aspri,  che  tutti  gii  altri  imperii  cheeccedevano  il  modo,  erano  chiamati  man liana  imperia.  Dove  è da  considerareprima  donde  nacque  che  Manlio  fu  co- stretto procedere  sì  rigidamente;  l’al-tro, donde  avvenne  che  Valerio  potette procedere  si  umanamente;  l’altro,  qualcagione  fe  che  questi  diversi  modi  faces-sero il  medesimo  effetto;  ed  in  ultimo,quale  sia  di  loro  meglio  e più  utile  imita-re. Se  alcuno  considera  bene  la  natura  diManlio  dall’ora  che  Tilo  Livio  nc  comin-cia a far  menzione,  lo  vedrà  uomo  fortissi-mo, pietoso  verso  il  padre  e verso  la  pa-tria, e reverentissimo  a’  suoi  maggiori.Queste  cose  si  conoscono  dalla  morte  di quel  Francioso;  dalla  difesa  del  padrecontea  al  Tribuno; e come  avanti  ch'egli andasse  alla  zuffa  del  Francioso,  ein’andò  al  Consolo  con  queste  parole: Injussu  tuo  adversus  hoslem  nunquampugnalo,  non  si  ccrtam  victoriam  vi- dcam.  Venendo,  adunque,  un  uomo  cosìfatto  a grado  che  comandi,  desidera  di trovare  tutti  gli  uomini  simili  a sè;  e l’animo  suo  forte  gli  fa  comandare  cose forti;  e quel  medesimo,  comandate  chele  sono,  vuole  si  osservino.  Ed  è una regola  verissima,  che  quando  si  coman-da cose  aspre,  conviene  con  asprezza farle  osservare:  altrimenti,  te  ne  tro-veresti ingannato.  Dove  è da  notare, clic  a voler  essere  ubbidito,  è necessariosaper  comandare  : e coloro  sanno  co- mandare, che  fanno  comparazione  dellaqualità  loro  a quelle  ili  dii  ha  a ubbi- dire; e quando  vi  veggnino  proporzio-ne, allora  comandino;  quando  spropor-zione, se  ne  astenghino.  E però  dicevaun  uomo  prudente,  che  a tenere  una repubblica  con  violenza,  conveniva  fusseproporzione  da  chi  sforzava  a quel  ch’ero sforzato.  E qualunque  volta  questa  pro-porzione v’  era,  si  poteva  credere  che quella  violenza  fusse  durabile:  ma  quan-do il  violentato  era  più  forte  del  violen-tante, si  poteva  dubitare  che  ogni  giornoquella  violenza  cessasse.  Ma  tornando  al discorso  nostro,  dico  che  a comandarele  cose  forti,  conviene  esser  forte;  e quello  che  è df  questa  fortezza  e che  lecomanda,  non  può  poi  con  dolcezza  farle osservare.  Ma  chi  non  è di  questa  for-tezza d’animo,  si  debbe  guardare  da-gl’imperii  istraordinari,  e negli  ordi-nari può  usare  la  sua  umanità:  perchè le  punizioni  ordinarie  non  sono  impu-tate al  principe,  ma  alle  leggi  ed  agli ordini.  Debbesi,  adunque,  credere  che Manlio  fosse  costretto  procedere  si  ri-gidamente dagli  istraordinari  suoi  im-perii, ai  fjuali  lo  inclinava  la  sua  natu-ra: i quali  sono  utili  in  una  repubblica,perchè  e’  riducono  gli  ordini  di  quella verso  il  principio  loro,  e nella  sua  an-tica virtù.  E se  una  repubblica  fussc  si felice,  eh*  ella  avesse  spesso,  come  disopra  dicemmo,  citi  con  io  esseinpio  suo le  rinnovasse  le  leggi;  e non  solo  la  ri-tenesse che  la  non  corresse  alla  rovi-na, ma  la  ritirasse  indietro;  la  sarebbeperpetua.  Si  che  Manlio  fu  uno  di  quelli che  con  l’asprezza  de’ suoi  i inperii  ri-- tenne  la  disciplina  mUitarc  in  Roma, constretto  prima  dalla  natura  sua,  dipoidal  desiderio  che  aveva  s’ osservasse quello  che  il  suo  naturale  appetito  giiaveva  fatto  ordinare.  Dall’  altro  canto, Valerio  potette  procedere  umanamente,come  colui  a cui  bastava  s’  osservassino le  cose  consuete  osservarsi  negli  esercitiromani.  La  qual  consuetudine,  perchè era  buona,  bastava  ad  onorarlo,  c nonera  faticosa  ad  osservarla,  e non  neces-sitava Valerio  a punire  i transgressori;si  perchè  e’ non  ve  n’  erano;  sì  perchè quando  e*  ve  ne  Tassino  stati,  imputa-vano, come  è detto,  la  punizione  loro agli  ordini,  c non  alla  crudeltà  del  prin-cipe. In  modo  che,  Valerio  poteva  far nascere  da  lui  ogni  umanità,  dalla  qualeei  potesse  acquistare  grado  con  i solda-ti, e la  contentezza  loro.  Donde  nacque,che  avendo  l’uno  e l’altro  la  medesima ubbidienza,  poterono,  diversamente  ope-rando, fare  il  medesimo  effetto.  Possono quelli  che  volessero  imitar  costoro,  ca-dere in  quelli  vizi  di  dispregio  e d*  odio che  io  dico  di  sopra  d’ Annibaie  e diScipione:  il  che*  si  fugge  con  una  virtù eccessiva  che  sia  in  te,  e non  altrimenti.Resta  ora  considerare  quale  di  questi modi  di  procedere  sia  più  laudabile.  Ilche  credo  sia  disputabile,  perchè  gli scrittori  lodano  l’ un  modo  e l’ altro.Nondimeno,  quelli  che  scrivono  come un  principe  s’ abbia  a governare,  siaccostano  piu  a Valerio  che  a Manlio  ; c Senofonte,  preallegato  da  me,  dandodi  molti  essempi  della  umanità  di  Ciro, si  conforma  assai  con  quello  che  dicedi  Valerio  Tito  Livio.  Perchè,  sendo  fatto Consolo  contro  i Sanniti,  e venendo  ildì  che  doveva  combattere,  parlò  ai  suoi soldati  con  quella  umanità  con  la  qualeei  si  governava  ; e dopo  tal  parlare, Tito  Livio  dice  queste  parole:  Nonalias  militi  familiarior  dux  fuit , inter infimos  militimi  omnia  hauti  gravatemunia  obcuntlo.  In  ludo  praterea  mili-tari, cum  velocitatis  viriumquc  in  ter  secequales  cer lamina  ineuntj  comiler  faci-lis vincere  ac  vinci,  nulla  eodcm  ; necqucmquam  aspcrnari  parem  qui  se  offer-ret  ; factis  benignus  prò  re;  clic  ti  shauti  minus  libertalis  aliena  , quam  sua dignilatis  memor  ; et  (quo  nihil  popu-lariit8  est)  quibus  artibus  pelierat  magi-strati^, iisdem  gerebat.  Parla  medesi-mamente di  Manlio  Tito  Livio  onorévol-mente, mostrando  che  la  sua  severitànella  mol  te  del  figliuolo  fece  tanto  ub-bidiente l' esercito  al  Consolo,  che  fucagione  delia  vittoria  che  il  Popolo  ro-mano ebbe  contro  ai  Latini  ; ed  in  tantoprocede  in  laudarlo,  che  dopo  tal  vit-toria, descritto  eh’  egli  ha  tutto  1’  ordinedi  quella  zuffa,  e mostri  tutti  i pericoli che  ’1  Popolo  romano  vi  corse,  e le  dif-ficoltà che  vTTurono  a vincere,  fa  questa conclusione:  che  solo  la  virtù  di  Manliodette  quella  vittoria  ai  Romani.  E facen-do comparazione  delle  forze  dell’ uno  .edell’  altro  esercito,  afferma  come  quella parte  arebbe  vinto  che  avesse  avuto  perConsolo  Manlio:  talché,  considerato  tutto quello  che  gli  scrittori  ne  parlano,  sa-rebbe difficile  giudicarne.  Nondimeno, per  non  lasciare  questa  parte  indecisa,dico,  come  in  un  cittadino  che  viva sotto  le  leggi  d’  una  repubblica,  credosia  piu  laudabile  c meno  pericoloso  il procedere  di  Manlio;  perchè  questo  modotutto  è in  favore  del  pubblico,  e non risguarda  in  alcuna  parte  all’  ambizioneprivata;  perchè  per  tale  modo  non  si può  acquistare  partigiani,  mostrandosisempre  aspro  a ciascuno,  ed  amando solo  il  ben  comune;  perchè  chi  fa  que-sto, non  s’ acquista  particolari  amici, quali  noi  chiamiamo,  come  di  soprasi  disse,  partigiani.  Talmentechè,  simil modo  di  procedere  non  può  esser  piùutile  nè  più  desiderabile  in  una  repubblica; non  mancando  in  quello  l’ utilitàpubblica,  e non  vi  potendo  essere  alcun sospetto  della  potenza  privata.  Ma  nelmodo  di  procedere  di  Valerio  è il  con-trario: perchè  se  bene  in  quanto  alpubblico  si  fanno  i medesimi  effetti, nondimeno  vi  surgono  molte  dubitazioni,per  la  particolar  benivolenza  che  colui s’  acquista  con  i soldati,  da  fare  in  unlungo  imperio  cattivi  effetti  contra  alla libertà.  E se  in  Publicola  questi  cattivieffetti  non  nacquero,  ne  fu  cagione  non essere  ancora  gli  animi  dei  Romani  cor-rottile quello  non  esser  stato  lun-gamente e continovamente  al  governoloro.  Ma  se  noi  abbiamo  a considerare un  principe,  come  considera  Senofonte,noi  ci  accosteremo  al  tutto  a Valerio,  e lasceremo  Manlio;  perchè  un  principedebbe  cercare  nei  soldati  e nei  sudditi 1*  ubbidienza  e 1’  amore.  1/  ubbidienzagli  dà  lo  essere  osservatore  degli  ordini, Tesser  tenuto  virtuoso:  lo  amore  glidà  P affabilità,  P umanità,  la  pietà  e quell'  altre  parli  che  erano  in  Valerio,e che  Senofonte  scrive  essere  state  in Ciro.  Perchè  lo  essere  un  principe  ben^voluto  particolarmente,  ed  avere  lo  eser-cito suo  partigiano,  si  conforma  contutte  P altre  parti  dello  Stato  suo:  ma in  un  cittadino  che  abbia  P esercito  suopartigiano,  non  si  conforma  già  questa parte  con  P altre  sue  parti,  che  P hannoa far  vivere  sotto  le  leggi,  ed  ubbidire ai  magistrali.  Leggesi  intra  le  cose  an-tiche della  Repubblica  viniziana,  come essendo  le  galee  viniziane  tornate  inVinegia,  e venendo  certa  differenza  intra quelli  delle  galee  ed  il  popolo,  dondesi  venne  al  tumulto  ed  all’ armi;  nè  si potendo  la  cosa  quietare  nè  per  forzadi  ministri,  nè  per  reverenza  de’  citta-dini, nè  timore  di  magistrati;  subitoche  a quelli  marinari  apparve  innanzi un  gentiluomo  che  era  1’  anno  davantistato  capitano  loro,  per  amore  di  quello si  partirono  e lasciarono  la  zuffa.  Laqual  ubbidienza  generò  tanta  sospizioue al  Senato,  che  poco  tempo  dipoi  i Vini-ziani,  o per  prigione  o per  morte,  se ne  assicurarono.  Conchiudo  pertanto,  ilprocedere  di  Valerio  essere  utile  in  uno principe,  e pernizioso  in  un  cittadino;non  solamente  alia  patria,  ma  a sè:  a lei,  perchè  quelli  modi  preparano  la  viaalla  tirannide;  a sè,  perchè  in  sospet-tando la  sua  città  del  modo  del  proce-dere suo  è costretta  assicurarsene  con suo  danno.  E così,  per  il  contrario,  af-fermo il  procedere  di  Manlio  in  un  prin-cipe esser  dannoso,  ed  in  uno  cittadinoutile,  e massime  alla  patria:  ed  aneora rare  volte  offende;  se  già  questo  odioclic  ti  tira  dietro  la  tua  severità  non  è accresciuto  da  sospetto  che  1’  altre  tuevirtù  per  la  gran  riputazione  ti  arrecas-sino:  come  di  sotto  di  Cammillo  si  di-scorrerà. Cap.  XXIH.  — Per  quale  cagione  Cammillo fosse  cacciato  di  Roma.Noi  abbiamo  conchiuso  di  sopra,  come procedendo  come  Valerio,  si  nuoce  allapatria  ed  a sè;  c procedendo  come Manlio,  si  giova  alia  patria,  e nuocesiqualche  volta  a sè.  Il  che  si  pruova  assai bene  per  lo  essempio  di  Cammillo,il  quale  nel  procedere  suo  simigliava più.  tosto  Manlio  che  Valerio.  DondeTito  Livio,  parlando  di  lui,  dice,  come ejus  virlutem  mililes  odorante  et  mira-banlur . Quello  che  lo  faceva  tenere  me-raviglioso, era  la  sollicitudine,  la  pru-denza, la  grandezza  dell’  animo,  il  buono ordine  che  lui  servava  nello  adoperarsie nel  comandare  agli  eserciti:  quello che  lo  faceva  odiare,  era  essere  piu  se-vero nel  gastigargli,  che  liberale  nel  ri-munerargli. G Tito  Livio  ne  adduce  diquesto  odio  queste  cagioni:  la  prima, che  i danari  che  si  trassero  de*  benidei  Veienti  che  si  venderono,  esso  gli applicò  al  pubblico,  e non  gli  divise  conla  preda  : V altra,  che  nel  trionfo  ei  fece tirare  il  suo  carro  trionfale  da  quattrocavagli  bianchi,  dove  essi  dissero  che per  superbia  ei  s’  era  voluto  agguagliareal  sole  : la  terza,  che  fece  voto  di  dare ad  Apolline  la  decima  parte  della  predadei  Veienti,  la  quale,  volendo  satisfare al  voto,  s’  aveva  a trarre  dalle  mani  deisoldati  che  l’ avevano  di  già  occupata. Dove  si  notano  bene  e facilmente  quellecose  che  fanno  un  principe  odioso  appresso il  popolo;  delle  quali  la  princi-pale è privarlo  d’  uno  utile.  La  qual  co-sa è di  importanza  assai;  perchè  le  coseche  hanno  in  sè  utilità,  quando  I’  uomo n*  è privo,  non  le  dimentica  mai,  edogni  minima  necessità  te  ne  fa  ricorda-re;  e perchè  le  necessità  vengono  ognigiorno,  tu  te  ne  ricordi  ogni  giorno. L’altra  cosa  è lo  apparire  superbo  edenfiato;  il  che  non  può  essere  più  odioso ai  popoli,  e massime  ai  liberi.  E ben-ché da  quella  superbia  e da  quel  fasto non  ne  nascesse  loro  alcuna  incomodi-tà, nondimeno  hanno  in  odio  chi  l’usa: da  che  un  principe  si  debbe  guardarecome  da  uno  scoglio;  perchè  tirarsi odio  addosso  senza  suo  profitto,  è altutto  partito  temerario  e poco  pru-dente. Cap.  XXIV.  — La  prolungazionedegl*  imperi  fece  serva  Roma. Se  si  considera  bene  il  procederedella  Repubblica  romana,  si  vedrà  due cose  essere  state  cagione  della  resolu-zione di  quella  Repubblica:  l’una  fu-rono le  contenzioni  che  nacquero  dallalegge  agraria;  l’altra  la  prolungazione degli  imperi:  le  quali  cose  se  fussinostale  conosciute  bene  da  principio,  e fattivi  debiti  rimedi,  sarebbe  stato  il  vi-ver libero  più  lungo,  e per  avventura più  quieto.  C benché,  quanto  alia  pro-lungazione dello  imperio,  non  si  vegga che  in  Roma  nascesse  mai  alcuno  tu-multo; nondimeno  si  vedde  in  fatto, quanto  noce  alla  città  quella  autoritàche  i cittadini  per  tali  diliberazioni  pre-sono. E se  gli  altri  cittadini  a chi  eraprorogato  il  magistrato,  fussino  stali savi  e buoni  come  fu  Lucio  Quinzio,non  si  sarebbe  incorso  in  questo  incon-veniente. La  bontà  del  quale  è d’  unoessempio  notabile;  perchè,  sendosi  fatto intra  la  Plebe  ed  il  Senato  convenzioned’  accordo,  ed  avendo  la  Plebe  prolun-gato in  uno  anno  V imperio  ai  Tribuni,giudicandogli  atti  a poter  resistere  al-l’ambizione dei  Nobili,  volle  il  Senato,per  gara  della  Plebe  e per  non  parere da  meno  di  lei,  prolungare  il  consolatoa Lucio  Quinzio:  il  quale  al  tutto  negò questa  diliberazionc,  dicendo  che  i cat-livi  essempi  si  volevano  cereare  ili  spe-gnergli, non  di  accrescergli  con  uno  al-tro più  cattivo  essempio;  e volle  si  fa-cessino  nuovi  Consoli.  La  qual  bontà  eprudenza  se  fusse  stata  in  tutti  i citta-dini romani,  non  arebbe  lasciata  intro-durre quella  consuetudine  di  prolungare i magistrati,  e da  quella  non  si  sarebbevenuto  alla  prolungazione  delti  imperi: la  qua!  cosa,  col  tempo,  rovinò  quellaRepubblica.  Il  primo  a eli i fu  proro-gato l’imperio,  fu  Publio  Pilone;  ilquale  essendo  a campo  alla  città  di  Pa-lepoli,  e venendo  la  line  del  suo  conso-lato, e parendo  al  Senato  ch’egli  avesse in  mano  quella  vittoria,  non  gli  manda-rono il  successore,  ma  lo  fecero  Procon-solo; talché  fu  il  primo  Proconsolo.  Laqual  cosa,  ancora  che  mossa  dal  Senato per  utilità  pubblica,  fu  quella  che  conil  tempo  fece  serva  Roma.  Perchè,  quanto più  i Romani  si  discostaron  con  le  ar-mi, tanto  più  pareva  loro  tale  proroga-zione necessaria,  e più  P usarono.  Laqual  cosa  fece  due  inconvenienti:  l’uno che  meno  numero  di  uomini  si  eserci-tarono negl’imperi;  e si  venne  per questo  a ristringere  la  reputazione  inpochi:  l’altro,  che  stando  un  cittadino assai  tempo  comandatole  d’  uno  eserci-to, se  lo  guadagnava,  e facevaselo  par-tigiano; perchè  quello  esercito  col  tem-po dimenticava  il  Senato,  e riconosceva quello  capo.  Per  questo  Siila  e Mario  po-terono trovare  soldati  che  contea  al  bene pubblico  gli  seguitassino  : per  questo  Ce-sare potette  occupare  la  patria.  Che  se mai  i Romani  non  avessiuo  prolungati  imagistrati  e gli  imperi,  se  non  venivano si  tosto  a tanta  potenza,  e se  fussinostati  più  tardi  gli  acquisti  loro,  sarebbe-ro ancora  venuti  più  tardi  nella  servitù.Cap.  XXV.  — Della  povertà  di  Cincinnato , e di  molti  cittadini  romani.; Noi  abbiamo  ragionato  altrove,  come la  più  ulil  cosa  che  si  ordini  in  un  vi-ver  libero  è che  si  mantenghino  i citta-dini poveri.  E benché  iti  Roma  non  ap-parisca quale  ordine  fusse  quello  che facesse  questo  effetto,  avendo,  massime,la  legge  agraria  avuta  tanta  oppugna-zione; nondimeno  per  esperienza  si  vid-de,  ' che  dopo  quattrocento  anni  che Roma  era  stata  edificata,  v’era  una  gran-dissima povertà  ;**nè  si  può  credere  che altro  ordine  maggiore  facesse  questo  ef-fetto, che  vedere  come  per  la  povertà non  t’ era  impedita  la  via  a qualunquegrado  ed  a qualunque  onore,  e come s’  andava  a trovare  la  virtù  in  qualun-que casa  l'abitasse.  11  qual  modo  di vivere  faceva  manco  disperabili  le  ric-chezze. Questo  si  vede  manifesto;  per-chè essendo  Minuzio  consolo  assediatocon  lo  esercito  suo  dagli  Equi,  si  empiè di  paura  Roma,  che  quello  esercito  nonsi  perdesse;  tanto  che  ricorsero  a creare il  Dittatore,  ultimo  rimedio  nelle  lorocose  afflitte.  E crearono  Lucio  Quinzio Cincinnato,  il  quale  allora  si  trovava«ella  sua  piccola  villa,  la  quale  lavora-va di  sua  mano.  La  qual  cosa  con  pa-role auree  è celebrala  da  Tito  Livio,  di-cendo: Opera  precium  est  audire,  quiomnia  prue  divifiis  Humana  spera  uni,ncque  honori  magno  locum,  neque  tir-tuli  putanl  esse,  nisi  effuse  affluant opes.  Arava  Cincinnato  la  sua  piccolavilla,  la  quale  non  trapassava  il  termi-ne di  quattro  iugeri,  quando  da  Romavennero  i Legati  del  Senato  a signifi*Carli  la  elezione  della  sua  dittatura,  eda mostrarli  in  quale  pericolo  si  trovava la  romana  Repubblica.  Egli,  presa  la  suatoga,  venuto  in  Roma  e ragunato  uno esercito,  n’andò  a liberar  Minuzio;  edavendo  rotti  e spogliati  i nimici,  e libe-rato quello,  non  volle  che  1’  esercito  as-sediato fusse  partecipe  della  preda,  di-cendogli queste  parole:  Io  non  voglioche  tu  participi  della  preda  di  coloro de’ quali  tu  sei  stato  per  essere  preda;— e privò  Minuzio  del  consolato,  e fe-eclo  Legato,  dicendogli:  Starai  tanto  inquesto  grado,  che  tu  impari  a sapere essere  Consolo.  — Aveva  fatto  suo  Maestrode’  cavalli  Lucio  Tarquiuio,  il  quale  per la  povertà  militava  a piede.  Notasi,  co-me è detto,  T onore  che  si  faceva  in Roma  alla  povertà;  e come  ad  uno  uo-mo buono  e valente,  quale  era  Cincin-nato, quattro  iugeri  di  terra  bastavanoa nutrirlo.  La  quale  povertà  si  vede  co-me era  ancora  nei  tempi  di  Marco  Re-golo; perchè  sendo  in  Affrica  con  gli eserciti,  domandò  licenzia  al  Senato  perpoter  tornare  a custodire  la  sua  villa, la  quale  gli  era  guasta  da’ suoi  lavora-tori. Dove  si  vede  due  cose  notabilissi-me : 1*  una  la  povertà,  e come  vi  sta-vano dentro  contenti,  e come  bastava  a quelli  cittadini  trarre  della  guerra  ono-re, e l’ utile  tutto  lasciavano  al  pub-blico. Perchè,  s’ egli  avessero  pensatod’arricchire  della  guerra,  gli  sarebbe dato  poca  briga,  che  i suoi  campi  fus-sino  stati  guasti.  L’  altra  è,  considerare la  generosità  dell’ animo  di  quelli  citta-dini,  i quali  preposti  ad  uno  esercito, saliva  la  grandezza  dell’animo  loro  so-pra ogni  principe;  non  stimavano  i re, non  le  repubbliche  ; non  gli  sbigottivanè  spaventava  cosa  alcuna;  e tornati dipoi  privati,  diventavano  parchi,  umili,curatori  delle  piccole  facultà  loro,  ubbi-dienti ai  magistrati,  reverenti  alti  loromaggiori:  talché  pure  impossibile  che uno  medesimo  animo  patisca  tanta  mu-tazione. Durò  questa  povertà  ancora  to-sino ai  tempi  di  Paulo  Emilio,  che  fu-rono quasi  gli  ultimi  felici  tempi  di quella  Repubblica,  dove  un  cittadino  checol  trionfo  suo  arricchì  Roma,  nondi-meno mantenne  povero  sè.  E cotanto  sistimava  ancora  la  povertà,  che  Paulo nell’  onorare  chi  s’ era  portato  benenella  guerra,  donò  a un  suo  genero  una tazza  d’ oriento,  il  quale  fu  il  primooriento  che  fusse  nella  sua  casa.  E potrebbesi  con  un  lungo  parlare  mostrarequanti  migliori  frutti  produca  la  po-vertà che  la  ricchezza,  e come  V una  haonorato  le  città,  le  provincia,  le  sètte; c l’altra  V ha  rovinate;  se  questa  ma-teria nou  fusse  stata  molte  volte  da  al-tri uomini  celebrata.C\p.  XXVI.  — Come  per  cagione di  femmine  si  rovina  uno  Slato.Nacque  nella  città  d’ Ardea  intra  i pa-trizi e i plebei  una  sedizione  per  ca-gione d’  un  parentado,  dove  avendosi  a maritare  una.  femmina  erede,  la  doman-darono parimente  un  plebeo  ed  un  nobile; e non  avendo  quella  padre,  i tu-tori la  volevano  congiugnere  al  plebeo, la  madre  al  nobile:  di  che  nacque. tantotumulto,  che  si  venne  all’  armi  ; dove tutta  la  Nobiltà  s’ armò  in  favore  delnobile,  e tutta  la  Plebe  in  favore  del plebeo.  Talché  essendo  superata  la  Ple-be, s’  uscì  d’  Ardea,  e mandò  ai  Yolsci per  aiuto:  i nobili  mandarono  a Roma.Furono  prima  i Volsci,  e,  giunti  intorno ad  Ardea,  s’accamparono.  Sopravvenne-ro  i Romani,  e rinchiusone  i Volsci  in- fra ia  terra  e loro;  tanto  che  gli  co;slrinsono,  essendo  stretti  dalla  fame,  a darsi  a discrezione.  Ed  entrati  i Romaniin  Ardea,  e morti  lutti  i capi  della  se-dizione, composono  le  cose  di  quellacittà.  Sono  in  questo  testo  più  cose  da notare.  Prima  si  vede,  come  le  donnesono  state  cagioni  di  molte  rovine,  ed hanno  fatti  gran  danni  a quelli  che  go-vernano una  città,  ed  hanno  causato  di molte  divisioni  in  quella  : e,  come  si  èveduto  in  questa  nostra  istoria,  V eccesso fatto  contra  a Lucrezia  tolse  lostato  ai  Tarquini;  quell’ altro  fatto  contra a Virginia  privò  i Dieci  dell’  auto-rità loro.  Ed  Aristotele  intra  le  prime cose  che  mette  della  rovina  dei  tiranni,è V avere  ingiuriato  altrui  per  conto  di donne,  o con  stuprarle,  o con  violarle,o corrompere  i matrimoni  ; come  di  questa parte,  nel  capitolo  dove  noi  trat-tammo delle  congiure,  largamente  si parlò.  Dico,  adunque,  come  i principiassoluti  ed  i governatot  i delle  repubbliche  non  hanno  a tenere  poco  contodi  questa  parte  ; ma  debbono  considerare i disordini  clic  per  tuie  accidentepossono  nascere,  e rimediarvi  in  tempo che  il  rimedio  non  sia  con  danno  e vi-tuperio delio  Stato  loro  o della  loro  re? pubblica:  come  intervenne  agli  Ardenti,i quali  per  avere  lasciato  crescere  quella gara  intra  i loro  cittadini,  si  condusso-tio  a dividersi  infra  loro;  e volendo  riunirsi, ebbono  a mandare  per  soccorsiesterni  : il  che  è un  gran  principio  d’una propinqua  servitù.  Ma  vegniamo  all’ al-tro notabile  del  modo  del  riunire  le  città, del  quale  nel  futuro  capitolo  parleremo.C*r.  XXVII.  — Come  e*  si  ha  a unire una  città  divisa  ; c come  quella  oppi-nionc  non  è vera , che  a tenere  le  città bisogna  tenerle  disunite.Per  lo  essempio  dei  Consoli  romani che  riconciliarono  insieme  gli  Ardeati,si  nota  il  modo  come  si  debbe  comporre una  citta  divisa:  il  quale  non  è altro,nè  altrimenti  si  debbe  medicare,  clic ammazzare  i capi  de’  tumulti.  Perchégli  è necessario  pigliare  uno  de’  tre modi  : o ammazzargli,  come  fecero  co-storo ; o rimuovergli  della  città;  o far loro  far  pace  insieme,  sotto  obblighi  dinon  si  offendere.  Di  questi  tre  modi, questo  ultimo  è più  dannoso,  men  cer-to e più  inutile.  Perchè  gli  è impossibile, dove  sia  corso  assai  sangue,  o al-tre simili  ingiurie,  che  una  pace  fatta per  forza  duri,  riveggendosi  ogni  di  in-sieme in  viso;  ed  è difficile  che  si  asten-gano dallo  ingiuriare  V uno  V altro,  po-tendo nascere  infra  loro  ogni  dì,  per  la conversazione,  nuove  cagioni  di  querele.Sopra  che  non  si  può  dare  il  migliore essempio  che  la  città  di  Pistoia.  Era  di-visa quella  città,  come  è ancora,  quin-dici anni  sono,  in  Panciatichi  e Cancel-lieri ; ma  allora  era  in  sull’  orme,  ed oggi  V ha  posate.  E dopo  molte  disputeinfra  loro,  vennero  al  sangue,  alla  rovina delle  case,  al  predarsi  la  roba,  ead  ogni  altro  termine  di  nimico.  Ed  i Fiorentini,  che  gli  avevano  a comporre,sempre  vi  usarono  quel  terzo  modo;  e sempre  ne  nacquero  maggiori  tumultic maggiori  scandali:  tanto  che,  strac-chi, si  venne  al  secondo  modo,  di  ri-muovere i capi  delle  parli;  de’ quali  al-cuni messono  in  prigione,  alcuni  altriconfinarono  in  vari  luoghi:  tanto  che 1’  accordo  fatto  potette  stare,  ed  è statoinfino  a oggi.  Ma  senza  dubbio  più  si-curo saria  stato  il  primo.  Ma  perchèsimili  esecuzioni  hanno  il  grande  ed  il generoso,  una  repubblica  debole  non  lesa  fare,  ed  ènne  tanto  discosto,  che  a fatica  la  si  conduce  al  rimedio  secondo.E questi  sono  di  quelli  errori  che  io dissi  nel  principio,  che  fanno  i principidei  nostri  tempi,  che  hanno  a giudicare le  cose  grandi;  perchè  doverebbouo  vo-ler vedere,  come  si  sono  governati  co-loro che  hanno  avuto  a giudicare  auti-canìcole  simili  casi.  Ma  la  debolezza de’  presenti  uomini,  causala  dalla  deboleeducazione  loro  e dalla  poca  notizia delle  cose,  fa  che  si  giudichino  i giudiziantichi  parte  inumani,  parte  impossibili. Ed  hanno  certe  loro  moderne  oppinionidiscoste  al  tutto  dal  vero;  corn’è  quella che  dicevano  i savi  della  nostra  città,un  tempo  è:  che  bisognava  tener  Pistoia con  le  parti j e Pisa  con  le  fortezze ; e non  s’avveggono,  quanto  runa e l’ altra  di  queste  due  cose  è inutile. Io  voglio  lasciare  le  fortezze,  perchè  di sopra  ne  parlammo  a lungo;  e vogliodiscorrere  la  inutilità  che  si  trae  dai tenere  le  terre,  che  tu  hai  iu  governo,divise.  In  prima,  c impossibile  che  tu  ti mantenga  tutte  due  quelle  parti  amicheo principe  o repubblica  che  le  governi. Perchè  dalla  natura  è dato  agli  uominipigliar  parte  in  qualunque  cosa  divisa, e piacergli  più  questa  che  quella.  Tal-ché, avendo  una  parte  di  quella  terra malcontenta,  fa  che  lu  prima  guerra  cheviene,  tu  la  perdi  ; perchè  gli  è impos-sibile guardare  una  città  che  abbia  ini  mici  fuori  e dentro.  Se  la  è una  re-pubblica che  la  governi,  non  ci  è il  piùbel  modo  a far  cattivi  i tuoi  cittadini cd  a far  dividere  la  tua  città,  clic  averein  governo  una  città  divisa;  perchè  cia-scuna parte  cerca  d’aver  favori,  ciascu-na si  fa  amici  con  varie  corruttele  : tal-ché ne  nasce  due  grandissimi  inconve-nienti; l’uno,  che  tu  non  to  gli  fai  mai amici,  per  non  gli  poter  governar  bene,variando  il  governo  spesso,  ora  con l’uno,  ora  con  l’altro  umore;  l’altro,clic  tale  studio  di  parte  divide  di  neces-sità la  tua  repubblica.  Ed  il  Biondo,parlando  dei  Fiorentini  c de’  Pistoiesi, ne  fa  fede,  dicendo:  Mentre  che  i Fio-ventini  disegnavano  di  riunir  PistoiaJ divisano  se  medesimi.  Pertanto,  si  puòfacilmente  considerare  il  male  che  da questa  divisione  nasca.  Nel  1501,  quan-do si  perdè  Arezzo,  c tutto  Val  di  Tevere e Val  di  Chiana,  occupatoci  daiVitelli  e dal  duca  Valentino,  venne  un monsignor  di  Lant,  mandato  dal  re  diFrancia  a fare  restituire  ai  Fiorentini tutte  quelle  terre  perdute;  e trovandoLant  in  ogni  castello  uomini  die,  nel visitarlo,  dicevano  che  erano  della  partedi  Marzocco,  biasimò  assai  questa  divi-sione: dicendo,  che  se  in  Francia  uuodi  quelli  sudditi  del  re  dicesse  d’essere della  parte  del  re,  sarebbe  gastigato,perchè  tal  voce  non  significherebbe  al-tro, se  non  che  in  quella  terra  fussegente  nimica  del  re  ; e quel  re  vuole che  le  terre  tutte  siano  sue  amiche,  uni-te, e senza  parti.  Ma  tutti  questi  modi e queste  oppinioni  diverse  dalla  veritànascono  dalla  debolezza  di  chi  sono  si-gnori; i quali,  veggendo  di  non  potertenere  gli  Stati  con  forza  e con  virtà,  si voltano  a simili  industrie:  le  quali  qual-che volta  nei  tempi  quieti  giovano  qual-che cosa;  ma  come  e’  vengono  l’avver-sità ed  i tempi  forti,  le  mostrano  la fallacia  loro. Gap.  XXVIII.  — Che  si  debbe  por  mentealle  opere  de*  cittadini , perchè  molte volte  sotto  un'opera  pia  si  nascondeun  principio  di  tirannide. Essendo  la  città  di  Roma  aggravata dalla  fame,  e non  bastando  le  provvi-sioni pubbliche  a cessarla,  prese  animo uno  Spurio  Melio,  essendo  assai  riccosecondo  quelli  tempi,  di  far  provvisione di  frumento  privatamente,  e pascernecon  suo  grado  la  Plebe.  Per  la  qual  cosa egli  ebbe  tanto  concorso  di  popolo  insuo  favore,  che  ’l  Senato  pensando  al-P inconveniente  che  di  quella  sua  libe-ralità poteva  nascere,  per  opprimerla avanti  che  la  pigliasse  più  forze,  glicreò  un  Dittatore  addosso,  e fecelo  morire. Qui  è da  notare,  come  molle  volteP opere  che  paiono  pie  c da  non  le  potere ragionevolmente  dannare,  diventanocrudeli,  e per  una  repubblica  sono  pericolosissime, quando  non  siano  a buo-n*  oi  a corrette.  E per  discorrere  questa cosa  più  particolarmente,  dico  che  unarepubblica  senza  cittadini  riputati  non può  stare,  nè  può  governarsi  in  alcunmodo  bene.  Dall’  altro  canto,  la  ripu-tazione de’  cittadini  è cagione  della  ti-rannide delle  repubbliche.  E volendo  re-golare questa  cosa,  bisogna  talmenteordinarsi,  che  i cittadini  sieno  riputati di  riputazione  che  giovi,  c non  nuoca,alla  città  ed  alla  libertà  di  quella.  E però  si  debbe  esaminare  i modi  con  iquali  ei  pigliano  riputazione  j che  sono in  effetto  due:  o pubblici  o privati.  Imodi  pubblici  sono,  quando  uno  consi-gliando bene,  e operando  meglio  in  be-nefìzio comune,  acquista  riputazione.  A questo  onore  si  debbe  aprire  la  via  aicittadini,  e proporre  prèmi  ed  ai  con- sigli ed  all’ opere,  talché  se  n’abbinoad  onorare  e satisfare.  E quando  queste riputazioni  prese  per  queste  vie,  sianoschiette  e semplici,  non  saranno  mai pericolose:  ina  quando  le  sono  preseper  vie  private,  che  è l’altro  modo  preal-legato, sono  pericolosissime  ed  in  tuttonocive.  Le  vie  private  sono,  facendo  be-nefizio a questo  ed  a quell’ altro  privato,con  prestargli  danari,  maritargli  le  fi-gliuole, difendendolo  dai  magistrali,  efacendogli  simili  privati  favori,  i quali si  fanno  gli  uomini  partigiani,  e dannoanimo  a chi  è cosi  favorito  di  poter corrompere  il  pubblieoe  sforzar  le  leggi.Debbe,  pertanto,  una  repubblica  bene ordinata  aprire  le  vie,  come  è detto,  achi  cerca  favori  per  vie  pubbliche,  e chiuderle  a chi  li  cerca  per  vie  private;come  si  vede  che  fece  Roma:  perchè  in premio  di  chi  operava  bene  per  il  pubbli-co, ordinò  i trionfi  c tutti  gli  altri  onori che  la  dava  ai  suoi  cittadini  ; ed  in  dannodi  chi  sotto  vari  colori  per  vie  private cercava  di  farsi  grande,  ordinò  l’accuse;e quando  queste  non  bastassero,  per èssere  accecato  il  popolo  da  una  speziedi  falso  bene,  ordinò  il  Dittatore,  il  quale con  il  braccio  regio  facesse  tornare  den-tro  al  seguo  chi  ne  fusse  uscito,  come la  fece  pei*  punir  Spurio  Melio.  Ed  unache  di  queste  cose  si  lasci  impunita,  è atta  a rovinare  una  repubblica;  perchèdifficilmente  con  quello  essempio  si  ri-duce dipoi  in  la  vera  via.Cap.  XXIX.  — Che  gli  peccali  dei  popoli nascono  dai  principi.Non  si  dolghino  i principi  d’ alcuno peccato  che  faccino  i popoli  €11’  egli  ab-biano in  governo  ; perchè  tali  peccali conviene  che  naschino  o per  sua  negli-genza, o per  esser  lui  macchialo  di  simili errori.  E chi  discorrerà  i popoliche  nei  nostri  tempi  sono  stati  tenuti pieni  di  ruberie  e di  simili  peccati,  ve-drà che  sarà  al  tutto  nato  da  quelli  che gli  governavano,  che  erano  di  similenatura.  La  Romagna,  innanzi  che  in quella  fossero  spenti  da  papa  Alessan-dro \ 1 quelli  signori  che  la  comanda-vano, era  uno  essempio  d’ ogni  seclle-ratissima  vita,  perchè  quivi  si  vedeva per  ogni  leggiere  cagione  seguire  occi-sioni  e rapine  grandissime.  Il  che  na-sceva dalla  tristizia  di  quei  principi  $non  dalla  natura  trista  degli  uomini, come  loro  dicevano.  Perchè  sendo  quelliprincipi  poveri,  e volendo  vivere  da  ric-chi, erano  forzati  volgersi  a molte  ra-pine, e quelle  per  vari  modi  usare.  Ed intra  Poltre  disoneste  vie  che  e’ tene-vano, facevano  leggi,  e proibivano  alcuna azione;  dipoi  erano  i primi  che  davanocagione  della  inosservanza  d’ esse,  nè inai  punivano  gli  inosservanti,  se  nonpoi  quando  vedevano  esser  incorsi  assai in  simile  pregiudizio;  ed  allora  si  vol-tavano alla  punizione,  non  per  zelo  della legge  fatta,  ma  per  cupidità  di  riscuo-ter la  pena.  Donde  nascevano  molti  inconvenienti, e sopra  tutto  questo:  che  ipopoli  si  impoverivano,  e non  si  cor-reggevano; e quelli  che  erano  impove-riti, s’ ingegnavano  contra  ai  meno  po-tenti di  loro  prevalersi.  Donde  surgevanotutti  questi  mali  che  di  sopra  si  dicono, de’  quali  era  cagione  il  principe.  E chequesto  sia  vero,  lo  mostra  Tito  Livio quando  ei  narro,  che  portando  i Legatiromani  il  dono  della  preda  dei  Veienti ad  Apolline,  furono  presi  dai  corsari  di Lipari  in  Sicilia,  e condotti  in  quella terra  : ed  inteso  Timasiteo  loro  principe che  dono  era  questo,  dove  egli  andavae chi  lo  mandava,  si  portò,  quantunque nato  a Lipari,  come  uomo  romano,  emostrò  al  popolo  quanto  era  impio  oc-cupare simil  dono;  tanto  che,  con  il  con-senso dell*  universale,  ne  lasciò  andare i Legati  con  tutte  le  cose  loro.  E le  pa-role dello  istorieo  sono  queste:  Tima-sitheus  muhitudinem  religione  impleviljguoe  seniper  regenti  est  similis.  E Lorenzo dei  Medici,  a con  Orinazione  di  questasentenza,  dice  :u E quel  che  fa  il  signor,  fanno  poi  molti  ; Chè  nel  signor  son  tutti  gli  occhi  volti.  „Cap.  XXX.  — Ad  uno  cittadino  che  t co-glia nella  sua  repubblica  far  di  suaautorità  alcuna  opera  buona , è neces-sario prima  spegnere  /*  invidia:  c co-me, venendo  il  nimico j s'  ha  a ordi-nare la  difesa  dJ  una  città. Intendendo  il  Senato  romano  come  laToscana  tutta  aveva  fatto  nuovo  deletto per  venire  a' danni  di  Roma;  e corne iLatini  e gli  Ernici,  stati  per  lo  addietro amici  del  Popolo  romano,  s’  erano  acco-stati coi  Volaci,  perpetui  nimici  di  Roma ; giudicò  questa  guerra  dovere  esserpericolosa.  E trovandosi  Cnnimilio  tribuno di  potestà  consolare,  pensò  che  sipotesse  fare  senza  creare  il  Dittatore, quando  gli  altri  Tribuni  suoi  collegllivolessino  cedergli  la  somma  dello  imperio. Il  che  detti  Tribuni  fecero  volonta-riamente: nec  quicquam  (dice  Tito  Livio) de  majestate  sua  delractum  crcdcbant,rjund  ma j està  li  ejus  concessissent.  Onde Cammillo,  presa  a parole  questa  ubbi-dienza, comandò  che  si  scrivessino  tre eserciti.  Del  primo  volse  esser  capo  lui,per  ire  eontra  i Toscani.  Del  secondo fece  capo  Quinto  Servilio,  il  quale  vollestesse  propinquo  a Roma,  per  ostare  ai Latini  ed  agli  Ernici,  se  si  movessino.Al  terzo  esercito  prepose  Lucio  Quinzio, il  quale  scrisse  per  tenere  guardata  lacittà,  e difese  le  porte  e la  curia,  in ogni  caso  che  nascesse.  Oltre  a questoordinò  che  Orazio,  uno  de’ suoi  colleglli, provvedesse  1*  arme,  ed  il  frumento,  el’ altre  cose  che  richieggono  i tempi della  guerra.  Prepose  Cornelio,  ancorasuo  collega,  al  Senato  ed  al  pubblico consiglio,  acciocché  potesse  consigliarele  azioni  che  giornalmente  s’  avevano  a fare  ed  eseguire.  Iu  questo  modo  furo-no quelli  Tribuni,  in  quelli  tempi,  per la  salute  della  patria  disposti  a coman-dare e ad  ubbidire.  Notasi  per  questo testo,  quello  che  faccia  uno  uomo  buonoe savio,  e di  quanto  bene  sia  cagione, c quanto  utile  ei  possi  fare  alla  sua  pa-tria, quando,  mediante  la  sua  bontà  e virtù,  egli  ba  spenta  l’ invidia  ; la  qualeè molte  volte  cagione  che  gli  uomini rton  possono  operar  bene,  non  permet-tendo detta  invidia  che  gli  abbino  quella autorità  la  quale  è necessaria  averenelle  cose  d’ importanza.  Spegnesi  questa invidia  in  duoi  modi:  o per  qualcheaccidente  forte  e difficile,  dove  ciascuno veggendosi  perire,  posposta  ogni  ambi-zione, corre  volontariamente  ad  ubbidire a colui  che  crede  che  con  la  suavirtù  lo  possa  liberare:  come  intervenne a Cammillo;  il  quale  avendo  dato  disè  tanti  saggi  d’  uomo  eccellentissimo, ed  essendo  stato  tre  volte  Dittatore,  edavendo  amministrato  sempre  quel  grado ad  utile  pubblico,  e non  a propria  uti-lità, aveva  fatto  che  gli  uomini  non  te-mevano della  grandezza  sua  ; e per  essertanto  grande  e tanto  ripututo,  non  sti-mavano cosa  vergognosa  essere  inferio-re a lui.  E però  dice  Tito  Livio  saviamente  quelle  parole:  JSep  quicquam  eie.In  un  altro  modo  si  spegne  l’invidia, quando  o per  violenza  o per  ordine  na-turale muoiono  coloro  che  sono  stati tuoi  concorrenti  nel  venire  a qualcheriputazione  ed  a qualche  grandezza  ; i quali  veggendoti  riputato  più  di  loro,  èimpossibile  che  mai  acquieschino,  e stiano pazienti.  E quando  sono  uomini  eh»siano  usi  a vivere  in  una  citta  corrotta, dove  la  educazione  non  abbia  fattoin  loro  alcuna  bontà,  è impossibile  che per  accidente  alcuno  mai  si  indichino;e per  ottenere  la  voglia  loro,  e satisfare alla  loro  perversità  d’animo,  sarebberocontenti  vedere  la  rovina  della  loro  patria. A vincer  questa  invidia  non  ci  èaltro  rimedio  che  la  morte  di  coloro che  l’hanno;  e quando  la  fortuna  ètanto  propizia  a quell’  uomo  virtuoso, che  si  muoiano  ordinariamente,  diventasenza  scandalo  glorioso,  quando  senza ostacolo  e senza  offesa  ei  può  mostrarela  sua  virtù:  ma  quando  ei  non  abbi questa  ventura,  gli  conviene  pensare  perogni  via  torsegli  dinanzi;  e prima  che ei  facci  cosa  alcuna,  gli  bisogna  teneremodi  eli*  ei  vinca  questa  difTìcultà.  E chi legge  la  Bibbia  sensatamente,  vedràMoisè  essere  stato  sforzato,  a volere  che le  sue  leggi  e gli  suoi  ordini  andasseroinnanzi,  ad  ammazzare  infiniti  uomini, ì quali,  non  mossi  da  altro  che  da  in-vidia, si  opponevano  a*  disegni  suoi. Questa  necessità  conosceva  benissimofrate  Girolamo  Savonarola;  conoscevala ancora  Pietro  Soderini,  gonfaloniere  diFirenze.  V uno  non  potette  vincerla,  per non  avere  autorità  a poterlo  fare  (chefu  il  frate),  e per  non  essere  inteso  be-ne da  coloro  che  lo  seguitavano,  che  nearebbono  avuto  autorità.  Nondimeno  per lui  non  rimase,  e le  sue  prediche  sonopiene  d’  accuse  dei  savi  del  mondo,  e di invettive  contro  a loro;  perchè  chiama-va così  questi  invidi,  e quelli  che  si  opponevano agli  ordini  suoi.  Quell’ altrocredeva  col  tempo,  con  la  bontà,  con  la fortuna  sua,  con  beneficarne  alcuno,  spe-gner questa  invidia  ; vedendosi  d*  assai fresca  età,  e con  tanti  nuovi  favori  chegli  arrecava  il  modo  del  suo  procedere, che  credeva  poter  superare  quelli  tantiche  per  invidia  se  gli  opponevano,  senza alcuno  scandalo,  violenza  e tumulto  : enon  sapeva  che  M tempo  non  si  può aspettare,  la  bontà  non  basta,  la  fortu-na varia,  e la  malignità  non  trova  dono che  la  plachi.  Tanto  che  V uno  e l’altrodi  questi  due  rovinarono,  e la  rovina loro  fu  causata  da  non  aver  saputo  opotuto  vincere  questa  invidia.  1/  altro notabile  è 1’  ordine  che  Cammillo  dettedentro  e fuori  per  la  salute  di  Roma. E veramente,  non  senza  cagione,  gli  isto-rici buoni,  com’ è questo  nostro,  metto-no particolarmente  e distintamente  certicasi,  acciocché  i posteri  imparino  come gli  abbino  in  simili  accidenti  a difen-dersi. E debbesi  in  questo  testo  notare, che  non  è la  più  pericolosa  nè  la  piùinutile  difesa,  che  quella  che  si  fa  tu-multuariamente  e senza  ordine.  E que-sto si  mostra  per  quello  terzo  esercito che  Carminilo  fece  scrivere  per  lasciarloin  Roma  a guardia  della  città  : perchè molti  arebbero  giudicato  e giudichereb-bono  questa  parte  superflua,  scudo  quel popolo  per  1’  ordinario  armato  e belli-coso; e per  questo,  che  non  gli  biso-gnasse di  scriverlo  altrimente,  ma  ba-stasse farlo  armare  quando  il  bisogno venisse.  Ma  Cammillo,  e qualunche  fussesavio  come  era  esso,  la  giudica  altri-mente;  perchè  non  permette  mai  cheuna  moltitudine  pigli  1’  arme,  se  non  cou certo  ordine  e certo  modo.  E però,  iusu  questo  essempio,  uno  che  sia  preposto a guardia  d’  una  città,  debbe  fug-gire come  uno  scoglio  il  fare  armare gli  uomini  tumultuosamente;  ma  dcbbcprima  avere  scritti  e scelti  quelli  che voglia  s’  armino,  chi  gli  abbino  a ubbi-dire, dove  a convenire,  dove  andare;  ed a quelli  che  non  sono  scritti,  comanda-re che  stiano  ciascuno  alle  case  sue  a guardia  di  quelle.  Coloro  che  terrannoquesto  ordine  in  uiia  città  assaltata,  fa-cilmente si  potranno  difendere:  chi  faràaltrimenti,  non  imiterà  Cammillo,  e non si  difenderà.Gap.  XXXI.  — Le  repubbliche  forti  e gli uomini  eccellenti  ritengono  in  ognifortuna  il  medesimo  animo  e la  loro medesima  dignità.Intra  1*  altre  magnifiche  cose  che  il nostro  istorico  fa  dire  e fare  a Cammil-lo, per  mostrare  come  debbo  esser  fatto un  uomo  eccellente,  gii  mette  in  boccaqueste  parole:  iSec  mi  hi  diclattira  ani mo8  fecilj  nec  exilium  ademil.  Per  lequali  parole  si  Yede,  come  gli  uomini grandi  sono  sempre  io  ogni  fortunaquelli  medesimi  ; e se  la  varia,  ora  con esaltargli  ora  con  opprimergli,  quellinon  variano,  ma  tengono  sempre  P ani- mo fermo,  ed  in  tal  modo  congiuntocon  il  modo  del  vivere  loro,  che  fncil-mente  si  conosce  per  ciascuno,  la  for-tuna non  aver  potenza  sopra  di  loro. Altrimenti  si  governano  gli  uomini  de-boli; perchè  invaniscono  ed  inebriano nella  buona  fortuna,  attribuendo  tuttoil  bene  che  gli  hanno  a quelle  virtù  che' non  conobbero  mai.  D’onde  nasce  chediventano  insopportabili  ed  odiosi  a tutti coloro  che  gli  hanno  intorno.  Da  chepoi  dipende  la  subita  variazione  della sorte;  la  quale  come  veggono  in  viso,caggiono  subito  nell’  altro  difetto,  e diventano vili  ed  abietti.  Di  qui  nasce  chei principi  così  fatti  pensano  nella  avversità più  a fuggirsi  che  a difendersi,come  quelli  che  per  aver  male  usata  la buona  fortuna,  sono  ad  ogni  difesa  im-preparati. Questa  virtù  e questo  vizio, eh’  io  dico  trovarsi  in  uno  uomo  solo,  sitrova  ancora  in  una  repubblica:  ed  in fessempio  ci  sono  i Romani  ed  i Vini-ziani.  Quelli  primi,  nessuna  cattiva  sorte gli  fece  mai  divenire  abietti,  nè  nessu-na buona  fortuna  gli  fece  mai  essere  in-solenti;  come  si  vidde  manifestamentedopo  la  rotta  eli’  egli  ebbouo  a Canile, e dopo  la  vittoria  eli’  egli  ebbono  con-tea ad  Antioco;  perchè  per  quella  rot-ta, ancora  che  gravissima  per  esserstata  la  terza,  non  invilirono  mai;  e mandarono  fuori  eserciti;  non  vollenoriscattare  i loro  prigioni  contra  agli  or-dini loro;  non  mandarono  ad  Annibaieo a Cartagine  a chiedere  pace  : ma,  la-sciate stare  tutte  queste  cose  abiette  in-dietro, pensarono  sempre  alla  guerra  ; armando,  per  carestia  d’  uomini,  i vec-chi ed  i servi  loro.  La  qual  cosa  conosciuta da  Annoile  cartaginese,  come  disopra  si  disse,  mostrò  a quel  Senato quanto  poco  conto  s’ aveva  a teneredella  rotta  di  Canne.  E così  si  vidde come  i tempi  difficili  non  gli  sbigottiro-no, nè  gli  renderono  umili.  Dall’  altra parte,  i tempi  prosperi  non  gli  feceroinsolenti;  perchè  mandando  Antioco  oratori a Scipione  a chiedere  accordo,avanti  che  fussino  venuti  alla  giornata, e eh'  egli  avesse  perduto,  Scipione  glidelle  certe  condizioni  della  pace;  quali erano  che  si  ritirasse  dentro  alla  Siria,ed  il  resto  lasciasse  nello  arbitrio  de’ Romani. Il  quale  accordo  ricusando  Antio-co, e venendo  alla  giornata,  e perdendola, rimandò  ambasciadori  a Scipione,con  commissione  che  pigliassero  tutte quelle  condizioni  erano  date  loro  da)vincitore:  ai  quali  non  propose  altri patti  che  quelli  s’avesse  offerti  innanziche  vincesse;  soggiungendo  queste  parole: quod  Romani j si  vincunluVj  nonminuunlur  animi s ; ncc  si  vincimi insolescere  solent.  Al  contrario  appunto  diquesto  s’è  veduto  fare  ai  Yiniziani:  i quali  nella  buona  fortuna,  parendo  loroaversela  guadagnata  con  quella  virtù  che non  avevano,  erano  venuti  a tanta  inso-lenza, che  chiamavano  il  re  di  Francia figliuolo  di  San  Marco;  non  stimavanola  Chiesa  ; non  capivano  in  modo  alcuno in  Italia;  e avevansi  presupposto  nel-1’  animo  d’ aver  a fare  una  monarchia simile  alla  romana.  Dipoi,  come  la  buo-na  sorte  gli  abbandonò,  e eli’  egli  eb*bero  una  mezza  rotta  a Vaila  dal  re  diFrancia,  pcrderono  non  solamente  tutto lo  Stato  loro  per  ribellione,  ma  buonaparte  ne  dettero  ed  al  papa  ed  al  redi Spagna  per  viltà  ed  abiezione  d’animo;ed  in  tanto  invilirono,  che  mandarono nmbasciadori  allo  imperadore  a farsi(libatori;  e scrissono  al  papa  lettere piene  di  viltà,  e di  sommissione  permuoverlo  a compassione.  Alla  quale  in* felicità  pervennero  in  quattro  giorni,  edopo  una  mezza  rotta:  perchè  avendo combattuto  il  loro  esercito,  nel  ritirarsivenne  a combattere  ed  essere  oppresso circa  la  metà;  in  modo  che,  l’uno  de’provveditori  che  si  salvò,  arrivò  a Verona con  più  di  venticinquemila  soldati,intra  piè  e cavallo.  Talmentechè,  se  a Vinegia  e negli  ordini  loro  fusse  stataalcuna  qualità  di  virtù,  facilmente  si  po-tevano rifare,  e dimostrare  di  nuovo  ilviso  alla  fortuna  ed  essere  a tempo  o a vincere,  o a perdere  più  gloriosamente,o ad  avere  accordo  più  onorevole.  Ma  la viltà  dell’  animo  loro,  causata  dalla  qualità de’  loro  ordini  non  buoni  nelle  cose della  guerra,  gli  fece  ad  un  tratto  per-dere lo  Stato  e 1’  animo.  E sempre  intervewà  così  a qualunque  si  governi come  loro.  Perchè  questo  diventare  in-solente nella  buona  fortuna  ed  abiettonella  cattiva,  nasce  dal  modo  del  proceder tuo,  e dalla  educazione,  nella  qualetu  sei  nudrito:  la  quale  quando  è debole c vana,  ti  rende  simile  a sè:  quan-do-è stata  altrimenti,  ti  rende  ancora d’  un’  altra  sorte;  e facendoli  miglioreconoscitore  del  mondo,  ti  fa  meno  rallegrare del  bene,  e meno  rattristare  delmale.  E quello  che  si  dice  d’  un  solo,  si dice  di  molti  che  vivono  in  una  repubblica medesima;  i quali  si  fanno  di quella  perfezione,  che  ha  il  modo  del vivere  di  quella.  E benché  altra  volta  sisia  detto,  come  il  fondamento  di  tutti gli  Stali  è la  buona  milizia  ; e come  dove  non  è questa,  non  possono  essere  nè leggi  buone,  nè  alcuna  altra  cosa  buona ; non  mi  pare  superfluo  replicarlo  : perchè  ad  ogni  punto  nel  leggere  questa istoria  si  vede  apparire  questa  necessità; e si  vede  come  la  milizia  nonpuote  essere  buona,  se  la  non  è «ecci-tata; e come  la  non  si  può  esercitare,se  la  non  è composta  di  tuoi  sudditi. Perchè  sempre  non  si  sta  in  guerra,  nèsi  può  starvi  ; però  conviene  poterla  cser-, citare  a tempo  di  pace:  e con  altri  checon  sudditi  non  si  può  fare  questo  esercizio, rispetto  alla  spesa.  Era  Cammilloandato,  come  di  sopra  dicemmo,  con l’esercito  conira  ai  Toscani;  ed  avendoi suoi  soldati  veduto  la  grandezza  dello esercito  dei  nimici,  s’  erano  tutti  sbigot-titi, parendo  loro  essere  tanto  inferio-ri da  non  poter  sostenere  l’ impeto  diquelli.  E pervenendo  questa  mala  dispo-sizione del  campo  agli  orecchi  di  Cam-millo, si  mostrò  fuora,  ed  andando  par-lando per  il  campo  a questi  ed  a quellisoldati,  trasse  loro  del  capo  quella  op-pinione;  e nell’ultimo,  senza  ordinarealtrimenti  il  campo,  disse:  Quod  qinsque didicit,  aiti  consucvilj  facict.  E chi  con-sidererà bene  questo  termine,  e le  pa-role disse  loro,  per  inanimarli  a ire  con-tro al  nimici,  considererà  come  e’  non si  poteva  nè  dire  nè  far  fare  alcuna  diquelle  cose  ad  uno  esercito  che  prima non  fusse  stalo  ordinato  ed  esercitatoed  in  pace  ed  in  guerra.  Perchè  di  quelli soldati  che  non  hanno  imparato  a farcosa  alcuna,  non  può  un  capitano  fidar-si. e credere  che  faccino  alcuna  cosa  chestia  bene;  e se  gli  comandasse  un  nuo-vo Annibaie,  vi  rovinerebbe  sotto.  Per-chè, non  potendo  un  capitano  essere mentre  si  fa  la  giornata  in  ogni  parte,se  non  ha  prima  in  ogni  parte  ordinato di  potere  avere  uomini  che  abbino  lospirito  suo,  e bene  gli  ordini  ed  i modi del  procedere  suo,  conviene  di  necessitàche  ci  rovini.  Se,  adunque,  una  città sarà  armata  ed  ordinata  come  Roma;  cche  ogni  dì  ai  suoi  cittadini,  ed  in  par*ticolare  ed  in  pubblico,  tocchi  a fareisperienza  c della  virtù  loro,  e delia  po-tenza della  fortuna;  interverrà  sempreche  in  ogni  condizione  di  tempo  e’  siano dei  medesimo  animo,  e manterranno  lamedesima  loro  degnila:  ma  quaudo  e’  sia-no disarmati,  e che  si  appoggerannosolo  olii  impeti  della  fortuna,  e non  alla propria  virtù,  varieranno  col  variare  diquella,  e daranno  sempre  di  loro  quello essempio  che  hanno  dato  i Viniziani.Gap.  XXXII.  — Quali  modi  hanno  tentili alcuni  a turbare  una  pace.Essendosi  ribellate  dal  Popolo  romano Circe»  e V elitre,  due  sue  colonie,  sottosperanza  d’ esser  difese  dai  Latini;  ed essendo  dipoi  vinti  i Latini,  e mancandodi  quelle  speranze;  consigliavano,  assai cittadini  che  si  dovesse  mandare  a Romaoratori  a raccomandarsi  al  Senato  : il qual  partilo  fu  turbato  da  coloro  cheerano  stali  autori  della  ribellione,  i quali temevano  che  tutta  la  pena  non  si  vol- tasse sopra  le  teste  loro.  E per  tor  via ogni  ragionamento  di  pace,  incitarono la  moltitudine  ad  armarsi,  ed  a correr sopra  i confini  romani.  E veramente,quando  alcuno  vuole  o che  uno  popolo o un  principe  levi  al  tutto  1’  animo  dauno  accordo,  non  ci  è altro  modo  più vero  nè  più  stabile,  che  fargli  usarequalche  grave  scelleratezza  contro  a co-lui con  il  quale  tu  non  vuoi  che  l’ac-cordo si  faccia  : perchè  sempre  lo  terrà discosto  quella  paura  di  quella  pena  chea lui  parrà  per  lo  errore  commesso aver  meritata.  Dopo  la  prima  guerrache  i Cartaginesi  ebbono  coi  Romani, quelli  soldati  che  dai  Cartaginesi  eranostati  adoperati  in  quella  guerra  in  Si*cilia  ed  in  Sardigna,  fatta  che  fu  la  pa-ce, se  ne  andarono  in  Affrica;  dovè  non essendo  satisfatti  del  loro  stipendio,  mos-sono  l’armi  contra  ai  Cartaginesi;  e fatti  di  loro  due  capi,  Nato  e Spendio,occuparono  molte  terre  ai  Cartaginesi, e molte  ne  saccheggiarono.  I Cartagine-si, per  tentare  prima  ogni  altra  via  che la  zuffa,  mandarono  a quelli  ainbascia-dore  Asdrubale  loro  cittadino,  il  quale pensavano  avesse  alcuna  autorità  conquelli,  essendo  stato  per  lo  addietro  lor capitano.  Ed  arrivato  costui,  e volendoSpendio  e .Muto  obbligare  tutti  quelli  sol-dati a non  sperare  d’  aver  mai  più  pacecoi  Cartaginesi,  e per  questo  obbligarli alla  guerra;  persuasono  loro,  ch’egliera  meglio  ammazzare  costui,  con  lutti i cittadini  cartaginesi,  quali  erano  ap-presso loro  prigioni.  Donde,  non  sola-mente gli  ammazzarono,  ma  con  millesupplizii  in  prima  gli  straziarono  ; ag-giungendo a questa  scelleratezza  unoeditto,  che  tutti  i Cartaginesi  che  per  lo avvenire  si  pigliassino,  si  dovessino  insimil  modo  oecidere.  La  qual  dilibera-zione ed  esecuzione  fece  quello  esercitocrudele  ed  ostinato  contra  ai  Cartagi-nesi. Gap.  XXXlll.  — Egli  è necessario , a vo-ler vincere  una  giornalaj  fare  lJ  eser-cito confidente  ed  infra  lorOj  e con  ilcapitano. A volere  che  uno  esercito  vinca  una giornata,  è necessario  farlo  confidente,in  modo  che  creda  dovere  in  ogni  modo vincere.  Le  cose  che  lo  fanno  confi-dente sono:  che  sia  armato  ed  ordinato bene;  conoschinsi  l’uno  1’ altro.  Nè  puònascer  questa  confidenza  o questo  ordi-ne, se  non  in  quelli  soldati  che  sononati  e vissuti  insieme.  Conviene  che  ’l capitano  sia  stimato,  di  qualità  che  con-fidino nella  prudenza  sua:  e sempre confideranno,  quando  lo  vegghino  ordi-nato, sollecito  ed  animoso,  e che  tenga bene  e con  riputazione  la  maestà  del grado  suo:  c sempre  la  manterrà,  quan-do gli  punisca  degli  errori,  e non  gli affatichi  invano;  osservi  loro  le  promes- se; mostri  facile  la  via  del  vincere; quelle  cose  che  discosto  potessino  mo-strare i pericoli,  le  nasconda,  le  alleggerisca. Le  quali  cose  osservate  bene,  sonocagione  grande  che  P esercito  confida,  e confidando  vince.  Usavano  i Romani  difar  pigliare  agli  eserciti  loro  questa  confidenza per  via  di  religione:  donde  na-sceva, che  con  gli  augurii  ed  auspizii creavano  i Consoli,  facevano  il  dcletto,partivano  con  li  eserciti,  e venivano  alla giornata:  e senza  aver  fatto  alcuna  diqueste  cose,  non  inai  arebbe  un  buon capitano  e savio  tentata  alcuna  fazione,giudicando  d’  averla  potuta  perdere  facilmente, se  i suoi  soldati  non  avesseroprima  inteso  gli  dii  essere  dalla  parte loro.  E quando  alcuno  Consolo,  o altroloro  capitano,  avesse  combattuto  contra agli  auspizii,  P arebbero  punito;  comee*  punirono  Claudio  Pulero.  E benché questa  parte  in  tutte  P istorie  romanesi  conosca,  nondimeno  si  pruova  più certo  per  le  parole  che  Livio  usa  nellabocca  di  Appio  Claudio;  il  quale,  dolen-dosi  col  popolo  della  insolenza  de’ Tri-buni della  plebe,  e mostrando  che  me-diatiti quelli,  gli  auspizii  e 1’ altre  cosepertinenti  alla  religione  si  corrompeva-no, dice  così  : Etudaut  nttnc  licet  reli -gionem.  Quid  cnim  interest , si  pulii  non pasccnlur , si  ex  cavea  tardine  rxierint ,si  occinuerit  avis  ? Parva  sunt  hcec ; sed parva  isla  non  contemnendoj  major  e*nostri  maximam  Itane  Rcmpublicam  fe-cerunt.  Perchè  in  queste  cose  piccole  èquella  forza  di  tenere  uniti  e confidenti i soldati:  la  qual  cosa  è prima  cagioned’  ogni  vittoria.  Nondi  manco,  conviene con  queste  cose  sia  accompagnata  lavirtù:  altrimenti,  le  non  vogliono.  I Pre- nestini,  avendo  contra  ai  Romani  fuoriil  loro  esercito,  se  n*  andarono  ad  al-loggiare in  sul  fiume  d’  Allia,  luogo  do-ve i Romani  furono  vinti  da*  Franciosi  ; il  che  fecero  per  metter  fiducia  nei  lorosoldati,  e sbigottire  i Romani  per  la fortuna  del  luogo.  E benché  questo  loropartito  fusse  probabile,  per  quelle  ra-gioni  che  di  sopra  si  sono  discorse  ;nientedimeno  il  (ine  della  cosa  mostrò, che  la  vera  virtù  non  teme  ogni  mini-mo accidente.  Il  che  l’ istorico  benissi-mo dice  con  queste  parole,  in  bocca  po-ste del  Dittatore,  che  parla  così  al  suo Maestro  de’  cavagli  : Vides  tu,  fortunaillos  fvelos  ad  Alliam  conscdisse  ; al  tu, frelus  armis  animisque,  invade  medianiacietn.  Perchè  una  vera  virtù,  un  ordi-ne buono,  una  sicurtà  presa  da  tantevittorie,  non  si  può  con  cose  di  poco momento  spegnere;  nè  una  cosa  vanafa  lor  paura,  nè  un  disordine  gli  offen-de: come  si  vede  certo,  che  essendo  dueManlii  consoli  contra  ai  Volsci,  per  aver mandato  temerariamente  parte  del  cam-po a predare,  ne  seguì  che  in  un  tem-po e quelli  che  erano  iti,  e quelli  cheerano  rimasti,  si  trovarono  assediati; dal  qual  pericolo  non  la  prudenza  deiConsoli,  ma  la  virtù  de’ propri  soldati gli  liberò.  Dove  Tito  Livio  dice  questeparole:  Militimi,  etiam  sine  reclorc , sta -bilia  virtus  lutala  est.  Non  voglio  lascia-re indietro  un  termine  usato  da  Fabio, sendo  entrato  di  nuovo  con  V esercitoin  Toscana,  per  farlo  confidente;  giudi-cando quella  tal  fidanza  esser  più  ne-cessaria per  averlo  condotto  in  paese nuovo,  e contra  a ninnici  nuovi  : che,parlando  avanti  la  zuffa  ai  soldati,  e detto  eli*  ebbe  molte  ragioni,  mediantele  quali  e’  potevano  sperare  la  vittoria, disse  che  potrebbe  ancora  loro  dire  certecose  buone,  e dove  e’  vedrebbono  la  vit-toria certa,  se  non  fusse  pericoloso  il  ma-nifestarle. Il  qual  modo  come  fu  savia-mente usato,  così  merita  d’essere  imitato. XXXIV.  — Quale  fama  o voce  o oppiatone  fa  che  il  popolo  comincia a favorire  un  cittadino:  e se  ei  di-stribuisce i magistrati  con  maggior prudenza  che  un  principe. Altra  volta  parlammo  come  Tito  Manlio, clic  fu  poi  detto  Torquato,  salvò  Lu-ciò  Manlio  suo  padre  da  una  accusa  clic gli  aveva  fatta  Marco  Pomponio  tribuno della  plebe.  E benché  il  modo  del  salvarlo fusse  alquanto  violento  ed  istraor-dinario,  nondimeno  quella  Oliale  pietà verso  del  padre  fu  tanto  grata  all’uni-versale, che  non  solamente  non  nc  furipreso,  ma  avendosi  a fare  i Tribuni delle  legioni,  fu  fatto  Tito  Manlio  nelsecondo  luogo.  Per  il  quale  successo, credo  che  sia  bene  considerare  il  modoche  tiene  il  popolo  a giudicare  gli  uo-mini nelle  distribuzioni  sue;  e che  perquello  noi  veggiamo,  se  egli  è vero  quanto di  sopra  si  conchiuse,  che  il  popolo  siamigliore  distributore  che  un  principe. Dico,  adunque,  come  il  popolo  nel  suodistribuire  va  dietro  a quello  che  si  dice d’uno  per  pubblica  voce  e fama,  quandoper  sue  opere  note  non  lo  conosce  al-trimenti; o per  presunzione  o oppinioneche  s’ ha  di  1 ni.  Le  quali  due  cose  sono causate  o dai  padri  di  quelli  tali,  cheper  esser  stati  grandi  uomini  e valenti nelle  città,  si  crede  che  i figliuoli  deb-bino esser  simili  a loro,  infino  a tanto che  per  l’ opere  di  quelli  non  s’intendeil  contrario;  o la  è causata  dai  modi che  tiene  quello  di  chi  si  parla.  I modimigliori  che  si  possono  tenere,  sono  : avere compagnia  d’uomini  gravi,  di  buoni  co-stumi, e riputati  savi  da  ciascuno.  E per-chè nessuno  indizio  si  può  aver  mag-giore d’uii  uomo,  che  le  compagnie  con quali  egli  usa;  meritamente  uno  che  usacon  compagnia  onesta,  acquista  buon nome,  perchè  è impossibile  che  non  ab-bia qualche  similitudine  con  quella.  0 veramente  s’  acquista  questa  pubblicafama  per  qualche  azione  istraordinaria e notabile,  ancora  che  privata,  la  qualeti  sia  riuscita  onorevolmente.  E di  tutte tre  queste  cose  che  danno  nel  principiobuoua  riputazione  ad  uno,  nessuna  la dà  maggiore  che  questa  ultima  : perchèquella  prima  de’  parenti  e de’  padri  è sì  fallace,  che  gli  uomini  vi  vanno  arilento  ; ed  in  poco  si  consuma,  quando la  virtù  propria  di  colui  che  ha  ad  es-sere giudicato  non  I’  accompagna.  La seconda  che  ti  fa  conoscere  per  via  dellepratiche  tue,  è miglior  della  prima,  ma è mollo  inferiore  alla  terza  ; perchè,  in-fino a tanto  che  non  si  vede  qualche segno  che  nasca  da  te,  sta  la  riputa-zione tua  fondata  in  su  V oppili  ione,  la quale  è facilissima  a cancellarla.  Maquella  terza,  essendo  principiata  e fon-data in  su  le  opere  lue,  ti  dà  nel  prin-cipio tanto  nome,  che  bisogna  bene  che tu  operi  poi  molte  cose  contrarie  a questo, volendo  annullarla.  Debbono,  adun-que, gli  uomini  che  nascono  in  unarepubblica  pigliare  questo  verso,  ed  in- gegnarsi con  qualche  operazione  istraor-dinaria  cominciare  a rilevarsi.  Il  che molti  a Roma  in  gioventù  feciono  o conil  promulgare  una  legge  che  venisse  in comune  utilità  ; o con  accusare  qualchepytente  cittadino  come  transgressore delle  leggi;  o col  fare  simili  cose  nota-bili c nuove,  di  che  s’  avesse  a parlare. Nè  solamente  sono  necessarie  simili  coseper  cominciare  a darsi  riputazione,  ma sono  ancora  necessarie  per  mantenerlaed  accrescerla.  Ed  a voler  fare  questo, bisogna  rinnovarle;  come  per  tutto  iltempo  della  sua  vita  fece  Tito  Manlio: perchè,  difeso  eh’  egli  ebbe  il  padretanto  virtuosamente  e straordinariamen-te, e per  questa  azione  presa  la  primareputazione  sua,  dopo  certi  anni  com-battè con  quel  Francioso,  e morto  glitrasse  quella  collana  d’oro  che  gli  dette il  nome  di  Torquato.  Non  bastò  questo,che  dipoi,  già  in  età  matura,  ammazzò il  figliuolo  per  aver  combattuto  senzalicenza,  ancora  ch’egli  avesse  superato il  nimico.  Le  quali  tre  azioni  allora  glidettono  più  nome  e per  tutti  i secoli  lo fanno  più  celebre,  che  non  lo  fece  alcunotrionfo,  alcuna  vittoria,  di  che  egli  fu  or-natoquanto alcun  altro  Romano.  E la  ca-gione è perchè  in  quelle  vittorie  Manlio ebbe  moltissimi  simili;  in  queste  partico-lari azioni  n’ebbe  o pochissimi  o nessuno.  A Scipione  maggiore  non  arrecaronotanta  gloria  tutti  i suoi  trionfi,  quanto gli  dette  l'avere,  ancora  giovinetto,  insul  Tesino  difeso  il  padre;  e l’aver,  dopo la  rotta  di  Canne,  animosamente  con  laspada  sguainata  fatto  giurare  più  gio-veni  romani,  che  ei  non  abbandonerei)-bono  Italia,  come  di  già  intra  loro  ave-vano diliberato:  le  quali  due  azioni  fu-rono principio  alla  riputazione  sua,  e gli  fecero  scala  ai  trionfi  della  Spagnae dell’  Affrica.  La  quale  oppinione  da  lui fu  ancora  accresciuta,  quando  ei  ri-mandò la  figliuola  al  padre  e la  moglie al  marito  in  Ispagna.  Questo  modo  delprocedere  non  è necessario  solamente a quelli  cittadini  che  vogliono  acqui-star fama  per  ottenere  gli  onori  nella loro  repubblica,  ma  è ancora  necessa-rio ai  principi  per  mantenersi  la  riputazione nel  principato  loro  : perchè nessuna  cosa  gli  fa  tanto  stimare,  quanto dare  di  sè  rari  esempi  con  qualche fatto  o detto  raro,  conforme  al  bene comune,  il  quale  mostri  il  signore  o magnanimo  o liberale  o giusto,  e che sia  tale  che  si  riduca  come  in  proverbio intra  i suoi  soggetti.  Ma,  per  tornare donde  noi  cominciammo  questo discorso,  dico  come  il  popolo  quando ei  comincia  a dare  un  grado  ad  un  suo cittadino,  fondandosi  sopra  quelle  tre cagioni  soprascritte,  non  si  fonda  male; ma  quando  poi  gli  assai  essempi  de’  buoni portamenti  d’uno  lo  fanno  più  noto, si  fonda  meglio,  perchè  in  tal  caso  non può  essere  che  quasi  mai  s’ inganni,  lo parlo  solamente  di  quelli  gradi  che  si danno  agli  uomini  nel  principio,  avanti che  per  ferma  isperienza  siano  conosciuti, o che  passano  da  una  azione  ad un’altra  dissimile:  dove,  e quanto  alia falsa  oppinione,  e quanto  alla  corruzione, sempre  fanno  minori  errori  che i principi.  E perchè  e’  può  essere  che  i popoli  s’  ingannerebbono  della  fama, della  oppinione  e delle  opere  d’  uno uomo  stimandole  maggiori  che  in  verità non  sono;  il  che  non  interverrebbe  aduno  principe,  perchè  gli  sarebbe  detto, e sarebbe  avvertito  da  chi  lo  consiglias-se : perchè  ancora  i popoli  non  manchino di  questi  consigli,  i buoni  ordi-natori delle  repubbliche  hanno  ordinalo che,  avendosi  a creare  i supremi  gradinelle  città,  dove  fusse  pericoloso  mettervi uomini  insufficienti,  e reggendosila  voglia  popolare  esser  diritta  a creare alcuno  che  fusse  insuffiziente,  sia  lecitoad  ogni  cittadino,  e gli  sia  imputato  a gloria,  di  pubblicare  nelle  concioni  i di-fetti di  quello,  acciocché  il  popolo,  non mancando  della  sua  conoscenza,  possameglio  giudicare.  E che  questo  si  usasse a Roma,  ne  rende  testimonio  la  ora-zione di  Fabio  Massimo,  la  quale  ei  fece al  Popolo  nella  seconda  guerra  punica,quando  nella  creazione  dei  Consoli  i favori  si  volgevano  a creare  Tito  Otta-cilio;e  giudicandolo  Fabio  insuffiziente a governare  in  quelli  tempi  il  consolato, gli  parlò  contro,  mostrando  la  insuffi*ziciua  sua  ; tanto  che  gli  tolse  quel  grado, e volse  i favori  del  Popolo  a chi più  lo  meritava  che  lui.  Giudicano,  adunque, i popoli  nella  elezione  a’ magistrati secondo  quei  contrassegni  che  degli  uo- mini si  possono  aver  più  veri;  e quando ei  possono  esser  consigliati  come  i principi, errano  meno  che  i principi;  e quel cittadino  che  voglia  cominciare  ad  avere i favori  del  popolo,  debbe  con  qualche fatto  notabile,  come  fece  Tito  Manlio, guadagnarseli. XXXV.  — Quali  perìcoli  si  portino nel  farsi  capo  a consigliare  una  cosa  ;e quanto  ella  ha  più  dello  straordinario,  maggiori  pericoli  vi  si  corrono. Quanto  sia  cosa  pericolosa  farsi  capo d’  una  cosa  nuova  che  appartenga  a molti,  e quanto  sia  difficile  trattarla  ed a condurla  ; e condotta,  a mantenerla, sarebbe  troppo  lunga  e troppo  alta  maleria  a discorrerla:  però,  riserbandola a luogo  più  conveniente,  parlerò  solo  di quelli  pericoli  che  portano  i cittadini,  o quelli  che  consigliano  uno  principe  a farsi  capo  d’ una  diliberazione  grave  ed importante,  in  modo  che  tutto  il  consi-glio d’  essa  sia  imputato  a lui.  Perchè, giudicando  gli  uomini  le  cose  dal  fine, tutto  il  male  che  ne  risulta,  s’ imputa all’autore  del  consiglio;  e se  ne  risulta bene,  ne  è commendato:  ma  di  lunga  il premio  non  contrappesa  il  danno.  Il  pre-sente Sultan  Sali,  dello  Gran  Turco,  essendosi preparato  (secondo  che  uè  ri- feriscono alcuni  che  vengono  de’  suoi paesi)  di  fare  l’ impresa  di  Soria  e di Egitto,  fu  confortato  da  un  suo  Rascia, quale  ei  teneva  ai  confini  di  Persia,  d’an-dare contea  al  Sofi:  dal  quale  consiglio mosso,  andò  con  esercito  grossissimo  a quella  impresa;  ed  arrivando  in  paese larghissimo,  dove  sono  assai  deserti  e le  fiumare  rade,  e trovandovi  quelle diflìculta  che  già  fecero  rovinare  molli eserciti  romani,  fu  in  modo  oppressalo da  quelle,  che  vi  perdè  per  fame  e per peste,  ancora  che  nella  guerra  fusse  superiore, gran  parte  delle  sue  genti  : tal- ché irato  contro  all’autore  del  consiglio, l’ammazzò.  Leggesi,  assai  cittadini  stati confortatori  d’  una  impresa,  e per  avere avuto  quella  tristo  fine,  essere  stati  man- dati in  esilio.  Fecionsi  capi  alcuni  cittadini romani,  che  si  facesse  in  Roma il  Consolo  plebeo.  Occorse  che  il  primo che  uscì  fuori  con  gli  eserciti,  fu  rotto  ; onde  a quelli  consigliatori  sarebbe  avvenuto qualche  danno,  se  non  fusse  stata tanto  gagliarda  quella  parte,  in  onore della  quale  tale  diliberazione  era  venuta. È cosa  adunque  certissima,  che  quelli che  consigliano  una  repubblica,  e quelli che  consigliano  un  principe,  sono  posti intra  queste  angustie,  che  se  non  con-sigliano le  cose  che  paiono  loro  utili,  o per  la  città  o per  il  principe,  senza  ri-spetto, ei  mancano  dell’ uffìzio  loro;  se le  consigliano,  egli  entrano  nel  pericolo della  vita  e dello  Stato:  essendo  lutti gli  uomini  in  questo  ciechi,  di  giudi-care i buoni  e cattivi  consigli  dal  fine. E pensando  in  che  modo  ei  potessino fuggire  o questa  infamia  o questo  pericolo, non  ci  veggo  altra  via  che  pi- gliar le  cose  moderatamente,  e non  ne prendere  alcuna  per  sua  impresa,  e dire V oppinione  sua  senza  passione,  e senza passione  con  modestia  difenderla  : in  modo che,  se  la  città  o il  principe  la  segue, (die  la  segua  volontario,  e non  paia  che vi  venga  tirato  dalla  tua  importunità. Quando  tu  faccia  così,  non  è ragione- vole che  un  principe  ed  un  popolo  del tuo  consiglio  ti  voglia  male,  non  essendo seguito  contra  alla  voglia  di  molti  : perchè quivi  si  porta  pericolo  dove  molti  han- no contradetto,  i quali  poi  nello  infelice fine  concorrono  a farti  rovinare.  E se in  questo  caso  si  manca  di  quella  gloria che  si  acquista  nell’  esser  solo  contra molti  a consigliare  una  cosa,  quando ella  sortisce  buon  fine,  ci  sono  al  riucontro  due  beni  : il  primo,  di  mancare del  pericolo  ; il  secondo,  che  se  tu  con- sigli una  cosa  modestamente,  e per  la contradizione  il  tuo  consiglio  non  sia preso,  e per  il  consiglio  d’altrui  ne  seguiti qualche  rovina,  ne  risulta  a te grandissima  gloria.  E benché  la  gloria che  s’acquista  de’ mali  che  abbia  o la tua  città  o il  tuo  principe,  non  si  possa godere,  nondimeno  è da  tenerne  qualcheconto.  Altro  consiglio  non  credo  si  possa dare  agli  uomini  in  questa  parte:  per-chè consigliandogli  che  tacessino,  e non dicessino  I’  oppinione  loro,  sarebbe  cosainutile  alla  repubblica  o ai  loro  principi, e non  fuggirebbono  il  pericolo  ; perchèin  poco  tempo  diventerebbono  sospetti: e ancora  potrebbe  loro  intervenire  co-me a quelli  amici  di  Perse  re  dei  Macedoni, il  quale  essendo  stato  rotto  daPaulo  Emilio,  c fuggendosi  con  pochi amici,  accadde  che  nel  replicar  le  cosepassate,  uno  di  loro  cominciò  a dire  a Perse  molti  errori  fatti  da  lui,  che  eranostati  cagione  della  sua  rovina;  al  quale Perse  rivoltosi,  disse:  Traditore,  si  chetu  hai  indugiato  a dirmelo  ora  ch’io non  ho  più  rimedio;  e sopra  queste  pa-role, di  sua  mano  l’ammazzò.  E cosi colui  portò  la  pena  d’essere  stato  chetoquando  ci  doveva  parlare,  e d’aver  parlato quando  ei  doveva  tacere;  nè  fuggiil  pericolo  per  non  avere  dato  il  consiglio. Però  credo  che  sia  da  tenere  edosservare  i termini  soprascritti.   XXXVI.  — La  cagione  perchè  « Fran-ciosi sono  stali  e sono  ancora  giudicati nelle  zuffe  da  principio  più  cheuomini j e dipoi  meno  che  femmine. La  ferocità  di  quel  Francioso  che  pro-vocava qualunque  Romano  appresso  al Piume  Aniene  a combatter  seco,  dipoila  zuffa  falla  intra  lui  e Tito  Manlio, mi  fa  ricordare  di  quello  che  Tito  Liviopiù  volte  dice,  che  i Franciosi  sono  ne principio  della  zuffa  più  che  uomini,  enel  successo  di  combattere  riescono  poi meno  che  femmine.  E pensando  dondequesto  nasca,  si  crede  per  molti  che  sia la  natura  loro  così  fatta:  il  che  credosia  vero;  ma  non  è per  questo,  che questa  loro  natura  che  gli  fa  feroci  nelprincipio,  non  si  potesse  in  modo  con I*  arte  ordinare,  che  la  gli  mantenesseferoci  infino  nell’  ultimo.  Ed  a voler provare  questo,  dico  come  e’  sono  di  treragioni  eserciti:  V uno  dove  è furore  ed ordine;  perchè  dall’  ordine  nasce  il  furo-re e la  virtù,  come  era  quello  dei  Romani: perchè  si  vede  in  tutte  l’ istorie,clic  in  quello  esercito  era  uno  ordine buono,  che  v’  aveva  introdotto  una  di-sciplina militare  per  lungo  tempo.  Perchè in  uno  esercito  bene  ordinato,  nes-suno debbe  fare  alcuna  opera  se  non regolato:  e si  troverà  per  questo,  chenello  esercito  romano,  dal  quale,  avendo egli  vinto  il  mondo,  debbono  prendereessempio  tutti  gli  altri  eserciti,  non  si mangiava,  non  si  dormiva,  non  si  mer-calava,  non  si  faceva  alcuna  azione  o militare  o domestica  senza  l'ordine  delconsolo.  Perchè  quelli  eserciti  che  fanno altrimenti,  non  sono  veri  eserciti;  c sefanno  alcuna  pruova,  la  fanno  per  furore e per  impeto,  non  per  virtù.  Mudove  è la  virtù  ordinata,  usa  il  furore suo  coi  modi  e co’ tempi;  nè  diflicultàveruna  lo  invilisce,  nè  gli  fa  mancare l'animo:  perchè  gli  ordini  buoni  glirinfrescano  l’ animo  ed  il  furore,  nutriti dalla  speranza  del  vincere;  la  qualemai  non  manca,  infìno  a tanto  che  gli ordini  stanno  saldi.  Al  contrario  inter-viene in  quelli  eserciti  dove  è furore  c non  ordine,  come  erano  i franciosi  : iquali  tuttavia  nel  combattere  mancavano; perchè  non  riuscendo  loro  col  primoimpeto  vincere,  e non  essendo  sostenuto da  una  virtù  ordinata  quello  loro  furorenel  quale  egli  speravano,  nè  avendo  fuori di  quello  cosa  in  la  quale  ei  confidassi-no,  come  quello  era  raffreddo,  mancavano. Al  contrario  i Romani,  dubitandomeno  dei  pericoli  per  gli  ordini  loro buoni,  non  diffidando  della  vittoria,  fer-mi ed  ostinali  combattevano  col  medesimo animo  e con  la  medesima  virtùnel  fine  che  nel  principio:  anzi,  agitati dall’  arme,  sempre  s’ accendevano.  Laterza  qualità  d’eserciti,  è,  dove  non  è furore  naturale,  nè  ordine  accidentale:come  sono  gli  eserciti  nostri  italiani de’  nostri  tempi,  i quali  sono  al  tuttoinutili;  e se  non  si  abbattono  ad  uno esercito  che  per  qualche  accidente  sifugga,  mai  non  vinceranno.  E senza  addurne altri  essempi,  si  vede  ciascunodi  come  ei  fanno  pruove  di  non  avere alcuna  virtù.  E perchè  con  il  testimonio di  Tito  Livio  ciascuno  intenda  come debbe  esser  fatta  la  buona  milizia,e come  è fatta  la  rea;  io  voglio  addurre le  parole  di  Papirio  Cursore,  quando  eivoleva  punire  Fabio  maestro  de’ cavalli, quando  disse:  Nano  hominum y nanoDeorum  verecundiam  hubcat  ; non  cdù da  impcralorum^  non  auspicio,  obser-ventar:  sine  commenta , vagì  tnililcs  in pacato , in  hostico  errcnt;  immcmoressacramenti , se  ubi  velini  exauctorenl /infrequentia  deserant  tigna ; ncque  con -veniant  ad  edictum,  nec  discernant  interdiuj  nodo  ; (equo,  iniquo  loco,  jussu,injussu  imperatorie  pugncnt  ; et  non sigila,  non  ordines  serventi  lalroctntimodo,  cieca  et  fortuita,  prò  solcami  et sacrala  rnilitia  sit.  Puossi  per  questotesto,  adunque,  facilmente  vedere,  se  la milizia  de’  nostri  tempi  è cieca  e fortuita,o sacrata  e solenne  j e quanto  le  manca  ad esser  simile  a quella  die  si  può  chiamarmilizia  ; e quanto  ella  è discosto  da. essere furiosa  ed  ordinala  come  la  roma-na, o furiosa  solo  come  la  franciosa. XXXVII.  — Se  le  piccole  battaglieinnanzi  alla  giornata  sono  necessarie, e come  si  debbe  fare  a conoscere  unnimico  nuovo , volendo  fuggire  quelle. E’  pare  che  nelle  azioni  degli  uomini,come  altre  volte  abbiamo  discorso,  si tvuovi,  oltre  all’  altre  diftìcultà,  nel  vo-ler condurre  la  cosa  olla  sua  perfezione, che  sempre  propinquo  al  bene  siaqualche  male,  il  quale  con  quel  bene  sì facilmente  nasce,  che  pare  impossibilepoter  mancare  dell’  uno  volendo  I’  altro. E questo  si  vede  in  tutte  le  cose  chegli  uomini  operano.  E però  s’  acquista il  bene  con  diftìcultà,  se  dalla  fortunatu  non  se’  aiutato  in  modo,  che  ella  con la  sua  forza  vinca  questo  ordinario  enaturale  inconveniente.  Di  questo  mi  ha fatto  ricordare  la  zuffa  di  Manlio  Tor-quato e dei  Fraucioso,  dove  Tito  Livio dice:  Tanti  ca  dimicatio  ad  universibelli  eventtim  momenti  fuitj  ut  Gallorum excrciluSj  relictis  trepide  castri s,in  Tiburlem  agrum , inox  in  Campaniam transierit.  Perchè  io  considero  dall’  uncanto,  che  un  buon  capitano  debbe  fuggire al  tutto  di  operare  alcuna  cosa  che,essendo  di  poco  momento,  possa  fare cattivi  effetti  nel  suo  esercito:  perchècominciare  una  zuffa  dove  non  si  opel ino  tutte  le  forze  e vi  si  arrisichi  tuttala  fortuna,  è cosa  al  tutto  temeraria; come  io  dissi  di  sopra,  quando  io  dan-nai il  guardare  de’  passi.  Dall’  altra  parte io  considero  come  capitani  savi,  quandoei  vengono  all’  incontro  d’  un  nuovo  nimico, e che  sia  riputato,  ei  sono  neces-sitati, prima  che  venghino  alia  giornata, far  provare  con  leggieri  zuffe  ai  lorosoldati  tali  nimici;  acciocché  cominciandogli a conoscere  c maneggiare,  perdinoquel  terrore  che  la  fama  e la  riputazione aveva  dato  loro.  E questa  partein  un  capitano  è importantissima  ; perchè ella  ha  in  sé  quasi  una  necessità  cheti  constringe  a farla,  parendoti  andare ad  una  manifesta  perdita,  senza  averprima  fatto  con  piccole  isperienze  deporre ai  tuoi  soldati  quello  terrore  chela  riputazione  del  nimico  aveva  messo negli  animi  loro.  Fu  Valerio  Corvinomandato  dai  Romani  con  gli  eserciti contro  ai  Sanniti,  nuovi  nimici,  e cheper  lo  addietro  mai  non  avevano  provate  1*  arme  1’  uno  dell’  altro;  dove  diceTito  Livio,  che  Valerio  fece  fare  ai  Romani coi  Sanniti  alcune  leggieri  zuffe:jV©  eos  novum  bellutn , ne  novus  hoslis . lerreret.  Nondimeno  è pericolo  grandis-simo, che  restando  i tuoi  soldati  in  quelle battaglie  vinti,  la  paura  e la  viltà  noncresca  loro,  e ne  conseguitino  contrari effetti  ai  disegni  tuoi;  cioè  che  tu  glisbigottisca,  avendo  disegnalo  d’  assicurarli: tanto  che  questa  è una  di  quellecose  che  ha  il  male  sì  propinquo  al  bene, e tanto  sono  congiunti  insieme,  che  gliè facil  cosa  prendere  l’ uno  credendo pigliar  P altro.  Sopra  che  io  dico,  che• un  buon  capitano  debbo  osservare  con ogni  diligenza,  che  non  surga  alcunacosa  che  per  alcuno  accidente  possa  torre Panimo  alP  esercito  suo.  Quello  che  glipuò  torre  P animo  è cominciare  a perdere; e però  si  debbe  guardare  dallezuffe  piccole,  e non  le  permettere  se non  con  grandissimo  vantaggio  e concerta  speranza  di  vittoria  ; non  debbo fare  impresa  di  guardar  passi,  dovenon  possa  tenere  tutto  l’esercito  suo: non  debbe  guardare  terre,  se  non  quelleche  perdendole  di  necessità  ne  seguisse la  rovina  sua;  e quelle  che  guar-da, ordinarsi  in  modo,  e con  le  guardie d’  esse  e con  l’esercito,  clic  trat-tandosi della  espugnazione  di  esse,  ei possa  adoperare  tutte  le  forze  sue;P altre  debbe  lasciare  indifese.  Perchè ogni  volta  che  si  perde  una  cosa  che  siabbandoni,  e P esercito  sia  ancora  insieme, e’  non  si  perde  la  riputazione  dellaguerra,  nè  la  speranza  di  vincerla:  ma quando  si  perde  una  cosa  che  tu  haidisegnata  difendere,  e ciascuno  crede  che tu  la  difenda,  allora  è il  danno  e la  per-dita ; ed  hai  quasi,  come  i Franciosi,  con una  cosa  di  piccolo  momento  perduta  laguerra.  Filippo  di  Macedonia  padre  di Perse,  uomo  militare  e di  gran  condizione ne’  tempi  suoi,  essendo  assaltato dai  Romani;  assai  de’  suoi  paesi,  i qualiei  giudicava  non  potere  guardare,  abbandonò  e guastò  scoine  quello  che,  peressere  prudente,  giudicava  più  pernicioso perdere  la  riputazione  col  non  potere difendere  quello  che  si  metteva  a difendere,  che  lasciandolo  in  preda  alnimico,  perderlo  come  cosa  negletta.  I Romani,  quando  dopo  la  rotta  di  Cannele  cose  loro  erano  afflitte,  negarono  a molti  loro  raccomandati  e sudditi  li  aiuti,commettendo  loro  che  si  difendessino  il meglio  potessino.  I quali  partiti  sonomigliori  assai,  che  pigliare  difese,  e poi non  le  difendere:  perchè  in  questo  par-tito si  perde  amici  e forze;  in  quello, amici  solo.  Ma  tornando  alle  piccole  zuffe, dico  che  se  pure  un  capitano  è costretto per  la  novità  del  nimico  far  qualche  zuffa, debbe  farla  con  tanto  suo  vantaggio,  che non  vi  sia  alcun  pericolo  di  perderla  : o veramente  far  come  Mario  (il  che  è migliore  partito),  il  quale  andando  contro ai  Cimbri,  popoli  ferocissimi,  che venivano  e predare  Italia,  e venendo  con uno  spavento  grande  per  la  ferocità  e moltitudine  loro,  e per  avere  di  già  vinto un  esercito  romano  ; giudicò  Mario  esser necessario,  innanzi  che  venisse  alla  zuffa, operare  alcuna  cosa  per  la  quale  l’ esercito suo  deponesse  quel  terrore  che  la paura  del  nimico  gli  aveva  dato;  e,  come prudentissimo  capitano,  più  che  una volta  collocò  l’esercito  suo  in  luogo  donde i Cimbri  con  1*  esercito  loro  dovessino passare.  E così,  dentro  alle  fortezze  del suo  campo,  volle  che  i suoi  soldati  gli vedessino,  ed  assuefacessino  gli  occhi alla  vista  di  quello  nimico  ; acciochè,  vedendo una  moltitudine  inordinata,  piena di  impedimenti,  con  arme  inutili,  e parte disarmati,  si  rassicurussino,  e diventassino  disiderosi  della  zuffa.  11  quale  partito come  fu  da  Mario  saviamente  preso, così  dagli  altri  debbe  essere  diligentemente imitato,  per  non  incorrere  in quelli  pericoli  che  io  di  sopra  dico,  e non  avere  a fare  come  i Franciosi,  qui ob  rem  parvi  ponderis  trepidi iti  Tiburietn  agrum  et  in  Campaniam  transierunt.  E perchè  noi  abbiamo  allegato in  questo  discorso  Valerio  Corvino,  voglio, mediatiti  le  parole  sue,  nel  seguente capitolo,  come  debbe  esser  fatto  un  capitano, dimostrare.  XXXVIII.  — Come  debbe  esser  fatto un  capitano  nel  quale  V esercito  suo possa  confidare. Era,  come  di  sopra  dicemmo,  Valerio Corvino  con  1’  esercito  contea  ai  Sanniti,  *nuovi  nimici  del  Popolo  romano:  donde che,  per  assicurare  i suoi  soldati,  e per fargli  conoscere  i nimici,  fece  fare  ai suoi  certe  leggieri  zuffe  j nè  gli  bastando questo,  volle  avanti  alla  giornata  parlar loro,  e mostrò  con  ogni  efficacia  quanto e'  dovevano  stimare  poco  tali  nimici,  al-legando la  virtù  de’ suoi  soldati  e la  propria. Dove  si  può  notare,  per  le  parole che  Livio  gli  fa  dire,  come  debbe  essere fatto  un  capitano  in  chi  I’  esercito  abbia a confidare  j le  quali  parole  sono  queste: Tutti  ctiam  intuerì  cujtis  ductu  auspi- cioque  ineunda  pugna  sii:  ulritm  qui audtcndus  dumlaxat  magnifìcus  adhor- tator  sit,  ver  bis  tantum  ferox , operimi mililarium  expers  ; an  qui,  et  ipsc  tela frodare,  procedere  ante  signa,  versavi media  in  mole  pugna  sciai.  Facla  mea, non  dieta  vos  militcs  sequi  volo  ; nec disciplinavi  modo,  sed  cxcmplum  ctiam a me  potere , qui  hac  dextra  tnihi  tres consulalus,  summamque  laudem  pepcri. Le  quali  parole  considerate  bene,  insegnano a qualunque,  come  ei  debbe  procedere a voler  tenere  il  grado  del  capitano : e quello  che  sarà  fatto  altrimenti, troverà,  con  il  tempo,  quel  grado,  quando per  fortuna  o per  ambizione  vi  sia  con- dotto, torgli  e non  dargli  riputazione; perchè  non  i titoli  illustrano  gli  uomini, ma  gli  uomini  i titoli.  Debbesi  ancora dal  principio  di  questo  discorso  consi-derare, che  se  i capitani  grandi  hanno usato  termini  istraordinari  a fermare gli  animi  d’uno  esercito  veterano  quando coi  nimici  inconsueti  debbe  affrontarsi  ; quanto  maggiormente  si  abbia  ad  usare l’ industria  quando  si  comandi  uno  esercito  nuovo,  che  non  abbia  mai  veduto il  nimico  in  viso.  Perchè,  se  lo  inusitato nimico  allo  esercito  vecchio  dà  terrore, tanto  maggiormente  lo  debbe  dare  ogni nimico  ad  uno  esercito  nuovo.  Pure,  s’ò veduto  molte  volte  dai  buoni  capitani tutte  queste  diflìcultù  con  somma  pru- denza esser  vinte:  come  fece  quel  Gracco romano,  ed  Epaminonda  tebano,  de’quali altra  volta  abbiamo  parlato,  che  con eserciti  nuovi  vinsono  eserciti  veterani ed  esercitatissimi.  I modi  che  tenevano, erano:  parecchi  mesi  esercitargli  in  bat-taglie fìnte;  assuefargli  alla  ubbidienza ed  all’ ordine:  e da  quelli  dipoi,  con massima  confidenza,  nella  vera  zuffa  gli adoperavano.  Non  si  debbe,  adunque, diffidare  alcuno  uomo  militare  di  non poter  fare  buoni  eserciti,  quando  non gli  manchi  uomini  ; perchè  quel  principe che  abbonda  d’  uomini  e manca  disoldati,  debbe  solamente,  non  della  viltà degli  uomini,  ma  della  sua  pigrizia  e e poca  prudenza  dolersi. XXXIX.  — Che  un  capitano debbe  esser  conoscitore  dei  eiti. Intra  1’  altre  cose  che  sono  necessarie ad  un  capitano  d’ eserciti,  è la  cognizione dei  sili  e de’ paesi;  perchè  senza questa  cognizione  generale  e particolare, un  capitano  d’  eserciti  non  può  be-ne operare  alcuna  cosa.  E perchè  tutte le  scienze-  vogliono  pratica  a voler  per- fettamente possederle,  questa  è una  che ricerca  pratica  grandissima.  Questa  pratica, ovvero  questa  particolare  cognizione, s’ acquista  più  mediatiti  le  cacce, che  per  verun  altro  esercizio.  Però  gli antichi  scrittori  dicono,  che  quelli  ^roi che  governarono  nel  loro  tempo  il  mondo, si  nutrirono  nelle  selve  e nelle  cac- ce; perchè  la  caccia,  oltre  a questa  cognizione, ti  insegna  infìttile  cose  che sono  nella  guerra  necessarie.  E Senofonte,  nella  vita  di  Ciro,  mostra  che andando  Ciro  od  assaltare  il  re  d’  Armenia, nel  divisare  quella  fazione,  ricordòa quelli  suoi,  che  questa  non  era  altro che  una  di  quelle  cacce  le  quali  mollevolte  avevano  fatte  seco.  E ricordava  a quelli  che  mandava  in  aguato  su  i monti, che  gli  erano  simili  a quelli  eh’ andavano a tendere  le  reti  in  su  i gioghi;  eda quelli  che  scorrevano  per  il  piano,  che erano  simili  a quelti  che  andavano  a levare  del  suo  covile  la  fera,  acciocché, cacciata,  desse  nelle  reti.  Questo  si  dice per  mostrare  come  le  cacce,  secondo  che Senofonte  appruova,  sono  una  immagine d’  una  guerra:  e per  questo  agli  uomini grandi  tale  esercizio  è onorevole  e necessario. Non  si  può  ancora  imparare questa  cognizione  de’  paesi  in  altro  comodo modo  che  per  via  di  caccia;  perchè la  caccia  fa  a colui  che  1’  usa  sapere come  sta  particolarmente  quel  paese dove  ei  1*  esercita.  E fatto  che  uno  s’  è familiare  bene  una  regione,  con  facilità comprende  poi  tulli  i paesi  nuovi  j per-chè ogni  paese  ed  ogni  membro  di  quelli hanno  insieme  qualche  conformità,  in modo  clic  dalla  cognizione  d’  uno  facilmente si  passa  alla  cognizione  dell’  altro. Ma  chi  non  ne  ha  ancora  bene  pratico uno,  con  difficoltà,  anzi  non  mai  se non  con  un  lungo  tempo,  può  conoscer 1’  altro.  E chi  ha  questa  pratica,  in  unvoltar  d’ occhio  sa  come  giace  quel  piano, come  surge  quel  monte,  dove  arriva quella  valle,  e tutte  l*  altre  simili  cose, di  che  ei  ha  per  lo  addietro  fatto  una ferma  scienza.  E che  questo  sia  vero,  ce lo  mostra  Tito  Livio  con  lo  essempio di  Publio  Decio;  il  quale  essendo  Tribuno de’  soldati  nello  esercito  che  Cornelio consolo  conduceva  contro  ai  Sanniti, ed  essendosi  il  Consolo  ridotto  in una  valle,  dove  l’ esercito  dei  Romani poteva  dai  Sanniti  esser  rinchiuso,  evedendosi  in  tanto  pericolo,  disse  al  Consolo : Vtdes  tuj  Aule  Corneli,  cacume»iilud  supra  hostcm ? arx  ilici  est  spei salutisquc  nostra,  si  eam  fquoniam  caarcliquerc  SamnitesJ  impigre  capimus.  Ed innanzi  a queste  parole  dette  da  Decio,Tito  Livio  dice:  Publtus  Dcctus,  tribùnus  militimi , unum  editum  in  saltu  collenij  immincnteni  hostium  castns , adilu arduum  impedito  agmini,  expeditis  hauddifficilcm.  Donde,  essendo  stato  mandatosopra  esso  dal  Consolo  con  tremila  soldati,ed  avendo  salvo  l’esercito  romano  j e dise-gnando, venendo  la  notte,  di  partirsi  e sal-vare ancora  sè  ed  i suoi  soldati,  gii  fa  direqueste  parole:  Ite  niecum,  ut  dum  lucisaliquid  superest,  quibus  locts  hostesprcesidia ponant,  qua  palcat  hinc  exitus,exploremus.  Hcec  ornnta  sagulo  militariamiclus,  ne  ducem  circuire  hostes  no-larentj  perlustrarli.  Chi  considererà,adunque,  tutto  questo  testo,  vedrà  quantosia  utile  e necessario  ad  un  capitanosapere  la  natura  de’ paesi:  perché  seDecio  non  gli  avesse  saputi  e conosciuti,non  arebbe  potuto  giudicare  qual  utilefaceva  pigliare  quel  colle  allo  esercitoromano;  uè  arebbe  potuto  conoscere  didiscosto,  se  quel  colle  era  accessibile  ono  ; e condotto  che  si  fu  poi  sopra  esso,volendosene  partire  per  ritornare  al  Con-solo, avendo  i nimici  intorno,  non  arebbedal  discosto  potuto  speculare  le  vie  delloandarsene,  e li  luoghi  guardati  dai  ni-mici. Tanto  che,  di  necessità  conveniva,che  Decio  avesse  tale  cognizione  per-fetta: la  qual  fece  che  con  il  pigliarequel  colle,  ei  salvò  l’esercito  romano;dipoi  seppe,  scndo  assedialo,  trovare  lavia  a salvare  sè  e quelli  che  erano  statiseco.Cap.  XL.  — Come,  usare  la  fraudenel  maneggiare  la  guerra  è cosa  gloriosa.Ancoraché  usare  la  fraude  in  ogniazione  sia  detestabile,  nondimanco  nelmaneggiar  la  guerra  è cosa  laudabile  egloriosa;  e parimente  è laudato  coluiche  con  fraude  supera  il  nimico,  comequello  che  M supera  con  le  forze.  E ve-desi  questo  pei*  il  giudizio  che  ne  fannocoloro  che  scrivono  le  vite  degli  uominigrandi,  i quali  lodano  Annibaie  e gli* altri  che  sono  stati  notabilissimi  in  si-mili modi  di  procedere.  Di  che  per  leg-gersi assai  essempi,  non  ne  replicheròalcuno.  Dirò  solo  questo,  che  io  nonintendo  quella  fraudo  essere  gloriosa,che  ti  fa  rompere  la  fede  data  ed  i pattifatti;  perchè  questa,  ancora  che  la  tiacquisti  qualche  volta  stalo  e regno,  co-me di  sopra  si  discorse,  la  non  ti  acqui-sterà mai  gloria.  Ma  parlo  di  quella  fraudoche  si  usa  con  quel  nimico  che  non  sifida  di  te,  e che  consiste  proprio  nelmaneggiare  la  guerra  : come  fu  quellad’Annibale,  quando  in  sul  lago  di  Peru-gia simulò  la  fuga  per  rinchiudere  ilConsolo  e lo  esercito  romano;  e quando,per  uscire  di  mano  di  Pabio  Massimo,accese  le  corna  dello  armento  suo.  Allequali  fraudi  fu  simile  questa  che  usòPonzio  capitano  dei  Sanniti,  per  rin-chiudere  1’  esercito  romano  dentro  alleforche  Caudine-.  i(  quale  avendo  messolo  esercito  suo  a' ridosso  dei  monti,  mandòpiù  suoi  soldati  sotto  vesti  di  pastori  conassai  armento  per  il  piano;  i quali  sen--do  presi  dai  Romani,  e domandati  doveera  l’esercito  dei  Sanniti,  convennerotutti,  secondo  1’  ordine  dato  da  Ponzio,a dire  come  egli  era  allo  assedio  di  No-terà. La  qual  cosa  creduta  dai  Consoli,fece  eh’  ei  si  rinchiusero  dentro  ai  balzicaudini;  dove  entrati,  furono  subito  as-sediati dai  Sanniti.  E sarebbe  stata  que-sta vittoria,  avuta  per  fraude,  glorio-sissima a Ponzio,  se  egli  avesse  seguitatii consigli  del  padre  ; il  quale  voleva  chei Romani  o si  salvassino  liberamente,  osi  ammazzassino  tutti,  e che  non  si  pi-gliasse la  via  del  mezzo,  qu ce  neque  ami-co* parai , ncque  inimicos  tollil.  La  qualvia  fu  sempre  perniziosa  nelle  cose  diStato;  come  di  sopra  in  altro  luogo  sidiscorseC*p.  XLi.  — Che  la  patria  si  debbo  di-fendere o con  ignominia  o con  glo-ria; ed  in  qualunque  modo  è ben  di-fesa.Era,  come  di  sopra  s’è  dello,  il  Con-solo e l’esercito  romano  assedialo  daiSanniti:  i quali  avendo  proposto  ai  Ro-mani condizioni  ignominiosissime;  comeera,  volergli  mettere  sotto  il  giogo,  edisarmati  mandargli  a Roma:  e per  que-sto stando  i Consoli  come  attoniti,  e tuttol’esercito  disperato;  Lucio  Lentolo  le-gato romano  disse,  che  non  gli  parevache  fusse  da  fuggire  qualunque  partitoper  salvare  la  patria:  perchè,  consisten-do la  vita  di  Roma  nella  vita  di  quelloesercito,  gli  pareva  da  salvarlo  in  ognimodo;  e che  la  patria  è ben  difesa  inqualunque  modo  la  si  difende,  o conignominia,  o con  gloria  : perchè  salvandosiquello  esercito,  Roma  era  a tempo  a cancel-lare l’ignominia:  non  si  salvando,  ancorache  gloriosamente  morisse,  era  perdutaKoma  e la  libertà  sua.  E così  fu  segui-tato il  suo  consiglio.  La  qual  cosa  me-rita d’  esser  notata  ed  osservata  da  qua-lunque cittadino  si  truova  a consigliarela  patria  sua:  perchè  dove  si  diliberaal  tutto  della  salute  della  patria,  nonvi  debbe  cadere  alcuna  considerazionenè  di  giusto  nè  di  ingiusto,  nè  di  pie-toso, nè  di  crudele,  nè  di  laudabile,  nèdi  ignominioso;  anzi,  posposto  ogni  al-tro rispetto,  seguire  al  tutto  quel  par-tito che  li  salvi  la  vita,  e mantenghile  lalibertà.  La  qualcosa  è imitata  con  i detti  econ  i fatti  dai  Franciosi,  per  difendere  lamaestà  del  loro  re  e la  potenza  del  lororegno;  perchè  nessuna  voce  odono  piùimpazientemente  che  quella  che  dicesse:il  tal  partito  è ignominioso  per  il  re;perchè  dicono  che  il  loro  re  non  puòpatire  vergogna  in  qualunque  sua  dili-berazione, o in  buona  o in  avversa  for-tuna: perchè  se  perde  o se  vince,  tuttodicono  esser  cosa  da  re.Cap.  XLII.  — Che  le  promesse  fatteper  forza  non  si  debbono  osservare.♦ »Tornati  i Consoli  con  1’  esercito  di-sarmato e con  la  ricevuta  ignominia  aRoma,  il  primo  che  in  Senato  disseche  la  pace  fatta  a Cuudo  non  si  do-veva osservare,  fu  il  consolo  Spurio  Po-stumio;  dicendo,  come  il  Popolo  romanonon  era  obbligato,  ma  eh’  egli  era  beneobbligato  esso,  e gli  altri  che  avevanopromesso  la  pace  : e però  il  Popolo  vo-lendosi liberare  da  ogni  obbligo,  avevaa dar  prigione  nelle  mani  dei  Sannitilui  e tutti  gli  altri  che  V avevano  pro-messa. E con  tanta  ostinazione  tenne  questa conclusione,  che  il  Senato  ne  fu  contento; e mandando  prigioni  lui  e gli altri  in  Sannio,  protestarono  ai  Sanniti,la  pace  non  valere.  E tanto  fu  in  questo caso  a Postumio  favorevole  la  fortuna, che  i Sanniti  non  lo  ritennero;  e ritornato  in  Roma,  fu  Postumio  appresso.ai  Romani  più  glorioso  per  avere  perduto, che  non  fu  l’onzio  appresso  ai  Sanniti per  aver  vinto.  Dove  sono  da  no-tare due  cose  ; 1*  una,  che  in  qualunque azione  si  può  acquistar  gloria,  perchènella  vittoria  s’  acquista  ordinariamente; nella  perdita  s’  acquista  o col  mostrare tal  perdita,  non  esser  venuta  per  tua colpa,  o per  far  subito  qualche  azione virtuosa  che  la  cancelli  : 1’  altra  è,  che non  è vergognoso  non  osservare  quelle promesse  che  ti  sono  state  fatte  promettere per  forza  ; e sempre  le  promesseforzate  che  riguardano  il  pubblico,  quando e’  manchi  la  forza,  si  romperanno, e fia  senza  vergogna  di  chi  le  rompe. Di  che  si  leggono  in  tutte  l’ istorie  variessempi,  e ciascuno  dì  ne’  presenti  tempi se  ne  veggono.  E non  solamente  non  siosservano  intra  i principi  le  promesse forzate,  quando  e*  manca  la  forza  ; ma non  si  osservano  ancora  tutte  \*  altre promesse,  quando  e’  mancano  le  cagioni che  le  fanno  promettere.  Il  che  se  è cosa laudabile  o no,  o se  da  un  principe  si debbono  osservare  simili  modi  o no, largamente  è disputato  da  noi  nel  nostro trattato  del  Principe;  però  al  presente lo  taceremo. XLIII.  — Che  gli  uomini  che  nascono in  una  provincia , osservano  per lutti  i tempi  quasi  quella  medesima natura.Sogliono  dire  gli  uomini  prudenti,  e non  a caso  nè  immeritamente,  che  cbi vuol  veder  quello  che  ha  ad  essere,  consideri quello  che  è stato;  perchè  tutte  le cose  del  mondo,  in  ogni  tempo,  hanno il  proprio  riscontro  con  gli  antichi  tempi. Il  che  nasce  perchè  essendo  quelle operate  dagli  uomini  che  hanno  ed  ebbero sempre  le  medesime  passioni,  conviene di  necessità  che  le  sortischino  il medesimo  effetto.  Vero  è,  che  le  sono P opere  loro  ora  in  questa  provincia  più virtuose  che  in  quella,  ed  in  quella  più che  in  questa,  secondo  la  forma  delia educazione  nella  quale  quelli  popoli  hanno preso  il  modo  del  viver  loro.  Fa  ancorafacilità  il  conoscere  le  cose  future  per le  passate;  vedere  una  nazione  lungo tempo  tenere  i medesimi  costumi,  essendo o continovamente  avara, o continovamente  fraudolenta,  o avere  alcun  altro  si* mile  vizio  o virtù.  E chi  leggerà  le  cose passale  della  nostra  città  di  Firenze,  e considererà  ancora  quelle  che  sono  ne*prossimi  tempi  occorse,  troverà  i popoli tedeschi  e franciosi  pieni  d’ avarizia,  disuperbia,  di  ferocia  e di  infcdelità;  perchè tutte  queste  quattro  cose  in  diversi tempi  hanno  offeso  molto  la  nostra  città. E quanto  alla  poca  fede,  ognuno  sa  quante volte  si  dette  danari  al  re  Carlo  Vili,  ed egli  prometteva  rendere  le  fortezze  di Pisa,  c non  mai  le  rendè.  In  che  quel re  mostrò  la  poca  fede,  e la  assai  avarizia sua.  Ma  lasciamo  andare  queste cose  fresche.  Ciascuno  può  avere  inteso quello  che  segui  nella  guerra  che  feceil  popolo  fiorentino  contea  ai  Visconti duchi  di  Milano;  che  essendo  Firenze privo  degli  altri  espedienti,  pensò  dicondurre  T iroperadore  in  Italia,  il  quale con  la  riputazione  e forze  sue  assaltassela  Lombardia.  Promise  l’ imperadore  venire con  assai  gente,  e far  quella  guerra contra  ai  Visconti,  e difendere  Firenze dalla  potenza  loro,  quando  i Fiorentini gli  dessino  centomila  ducati  per  levarsi, e centomila  poi  che  fusse  in  Italia.  Ai quali  patti  consentirono  i Fiorentini;  e pagatogli  i primi  danari,  e dipoi  i secondi, giunto  che  fu  a Verona,  se  ne  tornò indietro  senza  operare  alcuna  cosa,  causando esser  restato  da  quelli  che  non avevano  osservato  le  convenzioni  erano fra  loro.  In  modo  che,  se  Firenze  non fusse  stata  o constretla  dalla  necessitào vinta  dalla  passione,  ed  avesse  letti  e conosciuti  gli  antichi  costumi  de’borbari,non  sarebbe  stata  nè  questa  nè  molte altre  volte  ingannata  da  loro;  essendoloro  stati  sempre  a un  modo,  ed  avendo in  ogni  parte  e con  ognuno  usati  i me-desimi termini.  Come  e' si  vede  eh’ e’ fecero anticamente  ai  Toscani  ; i qualiessendo  oppressi  dui  Romani,  per  essere stati  da  loro  più  volte  messi  in  fuga  erotti;  e veggendo  mediami  le  loì*  forze non  poter  resistere  aìr  impeto  di  quelli;convennero  con  i Franciosi  che  di  qua dall'  Alpi  abitavano  in  Italia,  di  dar  lorosomma  di  danari,  e che  fussino  obbligati congiugnere  gli  eserciti  con  loro,ed  andare  contea  ai  Romani:  donde  ne seguì  che  i Franciosi,  presi  i danari,non  volleno  dipoi  pigliare  l’ arme  per loro,  dicendo  averli  avuti  non  per  farguerra  coi  loro  nimici,  ma  perchè  s’astenessino  di  predare  il  paese  toscano.  E così  i popoli  toscani,  per  l’ avarizia  e poca  fede  dei  Franciosi,  rimasono  ad  untratto  privi  de'  loro  danari,  e degli  aiuti che  gli  speravano  da  quelli.  Talché  sivede  per  questo  essempio  dei  Toscani antichi,  e per  quello  de’  Fiorentini,  iFranciosi  avere  usati  i medesimi  termini;  e per  questo  facilmente  si  può  con-ielturare,  quanto  i principi  si  possono fidare  di  loro. XLIV.  — E'  si  ottiene  con  V impetoc con  lJ  audacia  molte  volte  quello  che con  modi  ordinari  non  si  otterrebbe mai. Essendo  i Sanniti  assaltati  dallo  esercito di  Roma,  e non  polendo  con  l’esercito loro  stare  alla  campagna  a petto ai  Romani,  diliberarono,  lasciate  guardate le  terre  in  Sannio,  di  passare  con tutto  V esercito  loro  in  Toscana,  la  qualeera  in  triegua  coi  Romani;  e vedere  permtal  passata,  se  ei  potevano  con  la  presenza dello  esercito  loro  indurre  i Toscani a ripigliar  1’  arme  ; il  che  avevano fregato  ai  loro  ambasciadori.  E nel  parlare che  feeiono  i Sanniti  ai  Toscani, nel  mostrar,  massime,  qual  cagione  gli aveva  indotti  a pigliar  1*  arme,  usarono un  termine  notabile,  dove  dissono  : Rebollasse j quod  pax  sci'vicnlibus  gravior t quam  liboris  bcllum  esset.  E cosi,  parie con  le  persuasioni,  parte  con  la  presenza dello  esercito  loro,  gli  indussono a pigliar  1*  arme.  Dove  è da  notare,  che quando  un  principe  disidera  d’ ottenere una  cosa  da  un  altro,  debbe,  se  l’ occasione lo  patisce,  non  gli  dare  spazio a diliberarsi,  e fare  in  modo  ch’ei  vegga la  necessità  della  presta  diliberazione: la  quale  è quando  colui  che  è domandato vede  che  dal  negare  o dal  differirene  nasca  una  subita  e pericolosa  inde-gnazione.  Questo  termine  s’  è vedutobene  usare  nei  nostri  tempi  da  papalulio  con  i Franciosi,  eda  monsignordi  Fois  capitano  del  re  di  Francia  colmarchese  di  Mantova  : perchè  papa  luliovolendo  cacciare  i Bentivogli  di  Bologna,e giudicando  per  questo  aver  bisognodelle  forze  franciose,  e che  i Yinizianistessino  neutrali  j ed  uvendone  ricercoF uno  e I’  altro,  e traendo  da  loro  ri-sposta dubbia  e varia  j diliberò  col  nondare  lor  tempo  far  venire  I’  uno  e l’al-tro nella  sentenza  sua  : e,  partitosi  daRoma  con  quelle  tante  genti  cli’ei  potòraccozzare,  n’  andò  verso  Bologna,  eda’Viniziani  inandò  a dire  che  stessinoneutrali,  ed  ai  re  di  Francia  che  glimandasse  le  forze.  Talché,  rimanendotutti  ristretti  dal  poco  spazio  di  tempo,e veggeudo  come  nel  papa  doveva  na-scere una  manifesta  indegnazione  difle-rendo  o negando,  cederono  alle  vogliesue;  ed  il  re  gli  mandò  aiuto,  ed  i Vi*uiziani  si  steltono  neutrali.  Monsignordi  Fois,  ancora,  essendo  con  l’esercitoili  Bologna,  ed  avendo  intesa  la  ribel-lione di  Brescia,  e volendo  ire  alla  ri-cuperazione di  quella,  aveva  due  vie  ;F una  per  il  dominio  del  re,  lunga  etediosa;  l’altra  brievc  per  il  dominiodi  Mantova:  e non  solamente  era  neces-sitato passare  per  il  dominio  di  quelmarchese,  ina  gli  conveniva  entrare  percerte  chiuse  intra  paludi  e laghi,  di  cheè piena  quella  regione,  le  quali  con  for-II  acuì  avelli,  Discorsi.  — 1.  49lezzo  cd  altri  modi  erano  serrate  c guar-dale da  lui.  Onde  che  Pois,  diliberalod*  andare  }>er  la  più  corta,  e per  vin-cere ogni  di  (Tic  ulta  nè  dar  tempo  al  mar-chese a diliberarsi,  ad  un  tratto  mossele  sue  genti  per  quella  via,  cd  al  mar-chese significò  gli  mandasse  le  chiavi  diquel  passo.  Talché  il  marchese,  occu-pato da  questa  subita  diliberazione,  glimandò  le  chiavi:  le  quali  mai  gli  arebbemandate  se  Pois  più  lepidamente  si  fusscgovernato,  essendo  quel  marchese  in  legaeoi  papa  e coi  Viniziani,  ed  avendo  uusuo  figliuolo  nelle  mani  del  papa;  lequali  cose  gli  davano  molte  oneste  scusea negarle.  Ma  assaltato  dal  subito  par-tito, per  le  cagioni  che  di  sopra  si  di-cono, le  concesse.  Cosi  feciono  i Toscanieoi  Sanniti,  avendo  per  la  presenza  del-T esercito  di  Sannio  preso  quelle  armeche  gli  avevano  negato  per  altri  tempipigliare.Cap.  XLV.  — Qual  sia  miglior  partitonelle  giornale , o sostenere  lf  impetode*  nimicij  c sostenuto  urtargli  ; ov-vero dapprima  con  furia  assaltargli.Erano  Decio  e Fabio,  consoli  romani,con  due  eserciti  all’  incontro  degli  eser-citi dei  Sanniti  e dei  Toscani;  e venendoalla  zuffa  ed  alla  giornata  insieme,  è danotare  in  tal  fazione,  quale  di  due  di-versi modi  di  procedere  tenuti  dai  dueConsoli  sia  migliore.  Perchè  Decio  conogni  impeto  e cor»  ogni  suo  sforzo  as-saltò il  nimico;  Fabio  solamente  lo  so-stenne, giudicando  V assalto  lento  es-sere più  utile,  riserbando  l' impeto  suonell’  ultimo,  quando  il  nimico  avesseperduto  il  primo  ardore  del  combat-tere, e come  noi  diciamo,  la  sua  foga.Dove  si  vede,  per  il  successo  della  eosa,che  a Fabio  riuscì  molto  meglio  il  di-segno che  a Decio  : il  quale  si  straccònei  primi  impeti  ; in  modo  che,  veden-do  la  banda  sua  piuttosto  in  volta  diealtrimenti,  per  acquistare  con  la  mortequella  gloria  alla  quale  con  la  vittorianon  aveva  potuto  aggiungere,  ad  imita-zione del  padre  sacrificò  sè  stesso  perle  romane  legioni.  La  qual  cosa  intesada  Fabio,  per  non  acquistare  manco  ono-re vivendo,  che  s’avesse  il  suo  collegaacquistato  morendo,  spinse  innanzi  tuttequelle  forze  che  s’  aveva  a tale  necessitàriservate  ; donde  ne  riportò  una  felicis-sima vittoria.  Di  qui  si  vede  che  ’l  mododel  procedere  di  Fubio  è più  sicuro  epiù  imitabile. Cap.  XLVI.  — Donde  nasce  che  una  fa-mìglia iìi  una  città  tiene  un  tempo  imedesimi  costumi. E’  pare  clic  non  solamente  1’  una  cittàdall*  altra  abbi  certi  modi  ed  institutidiversi,  e procrei  uomini  o più  duri  opiù  effeminati;  ma  nella  medesima  cittàsi  vede  tal  differenza  esser  nelle  fumi-glie  I’  una  dall’  altra.  H che  si  riscontraessere  vero  in  ogni  città,  e nella  cittàili  Roma  se  ne  leggono  assai  essempi  :perché  e’  si  vede  i Manlii  essere  statiduri  ed  ostinati,  i Pubi icoli  uomini  be-nigni ed  amatori  del  popolo,  gli  Appiiambiziosi  e ni  mici  della  Plebe:  e cosimolte  altre  famiglie  avere  avute  ciascunale  qualità  sue  spartite  dall’  altre.  La  qualcosa  non  può  nascere  solamente  dal  san-gue, perchè  e’ conviene  eh’ ei  varii  me-diante la  diversità  dei  matrimoni;  maè necessario  venga  dalla  diversa  educa-zione che  ha  una  famiglia  dall’  altra.Perchè  gl’  importa  assai  che  un  giova-netto dai  teneri  anni  cominci  a sentirdire  bene  o male  di  una  cosa;  perchèconviene  che  di  necessità  ne  faccia  im-pressione, e da  quella  poi  regoli  il  mododel  procedere  in  tutti  i tempi  della  vitasua.  E se  questo  non  fosse,  sarebbe  im-possibile che  tutti  gli  Appii  avessinoavuta  la  medesima  voglia,  c Rissino  statiagitati  dalle  medesime  passioni,  comenota  Tilo  Livio  in  molti  di  loro:  e perultimo,  essendo  uno  di  loro  fatto  Censore, ed  avendo  il  suo  collega  alla  finede*  diciotto  mesi,  come  ne  disponeva  lalegge,  deposto  il  magistrato,  Àppio  nonlo  volle  deporre,  dicendo  che  lo  potevatenere  cinque  anni  secondo  la  primalegge  ordinata  dai  Censori.  E benchésopra  questo  se  ne  facessero  assai  con-cioni, e se  ne  generassino  assai  tumulti,non  pertanto  ci'  fu  mai  rimedio  che  vo-lesse deporlo,  conira  alla  volontà  delPopolo  e della  maggior  parte  del  Senato.E chi  leggerà  P orazione  che  gli  fececontro  Publio  Sempronio  tribuno  dellaplebe,  vi  noterà  tutte  l’ insolenze  oppiane,e tulle  le  bontà  ed  umanità  usale  da  in-finiti cittadini  per  ubbidire  alle  leggi  edagli  auspicii  della  loro  patria.Cap.  XLVII.  < — Che  un  buon  cittadinoper  amore  della  patria  debbo  dimen-ticare l*  ingiurie  private.Era  Manlio  consolo  con  l’esercito  con-ira ai  Sanniti*  ed  essendo  stato  in  unazuffa  ferito,  e per  questo  portando  legenti  sue  pericolo,  giudicò  il  Senato  es-ser necessario  mandarvi  Papirio  Cur-sore dittatore,  per  sopplire  ai  difetti  delConsolo.  Ed  essendo  necessario  che  ’lDittatore  fusse  nominato  da  Fabio,  ilquale  era  con  gli  eserciti  in  Toscana;  edubitando,  per  essergli  nimico,  che  nonvolesse  nominarlo;  gli  mandarono  i Se-natori due  ambasciadori  a pregarlo,  che,posti  da  parte  gli  privati  odii,  dovesseper  benefìzio  pubblico  nominarlo.  Il  cheFabio  fece,  mosso  dalla  carità  della  pa-tria; ancora  che  col  tacere  e con  mol-ti altri  modi  facesse  segno  che  talenominazione  gli  premesse.  Dal  qualedebbono  pigliare  essempio  tutti  quelli,che  cercano  d*  essere  tenuti  buoni  cit-tadini.Cap.  XLVJII.  — Quando  si  vede  fareuno  errore  grande  ad  un  nimico ,si  debbe  credere  che  vi  sia  sono  in-ganno.Essendo  rintaso  Fulvio  Legato  nelloesercito  che  i Romani  avevano  in  To-scana, per  esser  ito  il  Consolo  per  al-cune cerimonie  a Roma;  i Toscani,  pervedere  se  potevano  avere  quello  allatratta,  posono  un  aguato  propinquo  aicampi  romani,  e mandarono  alcuni  sol-dati con  veste  di  pastori  con  assai  ar-mento, e gli  feciono  venire  alla  vista dello  esercito  romano:  i quali  così  tra-vestiti si  accostarono  allo  steccato  delcampo;  onde  il  Legato  meravigliandosidi  questa  loro  presunzione,  non  gli  pa-tendo ragionevole,  tenne  modo  ch’egliscoperse  la  fraude;  e cosi  restò  il  di*>igno  de  Toscani  rotto.  Qui  si  può  co-moramente  notare,  che  un  capitano  dieserciti  non  debbe  prestar  fede  ad  unoerrore  che  evidentemente  si  vegga  fareal  nimico:  perchè  sempre  vi  sarà  sottofronde,  non  sendo  ragionevole  che  gliuomini  siano  tanto  incauti.  Ma  spesso  ildisiderio  del  vincere  acceca  gli  animidegli  uomini,  che  non  veggono  altro  chequello  pare  facci  per  loro.  I Franciosi avendo  vinti  i Romani  ad  Allia,  e venendo a Roma,  e trovando  le  porte  aperte e senza  guardia,  stettero  tutto  quel  giorno e la  notte  senza  entrarvi,  temendo  di fraude,  e non  potendo  credere  clic  fusse tanta  viltà  c tanto  poco  consiglio  ne’ petti  romani,  che  gli  nbbandonassino  la patria.  Quando  nel  4508  s’andò  per  gli Fiorentini  a Risa  a campo,  Alfonso  del Mutolo,  cittadino  pisano,  si  trovava  prigione dei  Fiorentini,  e promise  che  s’egli era  libero,  darebbe  una  porta  di  Pisa all’esercito  fiorentino.  Fu  costui  libero.Dipoi,  per  praticare  la  cosa,  venne  molte volte  a parlare  coi  mandati  dc’commissari;  e veniva  non  di  nascosto,  ma  scoperto, ed  accompagnato  da’ Pisani;  i quali  lasciava  da  parte,  quando  parlava eoi  Fiorentini.  Talmentechè  si  poteva conietturare  il  suo  animo  doppio  ; perchè non  era  ragionevole,  se  la  pratica fussc  stata  fedele,  eh’  egli  1’  avesse  trattata sì  alla  scoperta.  .Ma  il  disiderio  che s*  aveva  d’  aver  Pisa,  accecò  in  modo  i Fiorentini,  che  condottisi  con  l’ ordine suo  alla  porta  a Lucca,  vi  lasciarono più  loro  capi  ed  .altre  genti  con  disonore loro,  per  il  tradimento  doppio  che fece  detto  Alfonso. Una  repubblica,  a volerla mantenere  libera,  ha  ciascuno  di  bisogno di  nuovi  provvedimenti  ; e per guali  meriti  Quinto  Fabio  fu  chiamato Massimo.  E di  necessità,  come  altre  volte  s’  è «letto,  che  ciascuno  dì  in  una  città  grande 'taschino'  accidenti  che  abbino  bisogno elei  medico  ; e secondo  che  gli  importano più,  conviene  trovare  il  medico  più  savio. E se  in  alcune  città  nacquero  mai  simili accidenti,  nacquero  in  t\oma  e strani ed  insperati;  come  fu  quello  quando  e’parve  cha  tutte  le  donne  romane  avessino congiurato  contra  ai  loro  maritid’  ammazzargli  :  tante  se  ne  trovò  clicgli  avevano  avvelenati,  e tante  eh’  ave-vano preparato  il  veleno  per  avvelenar-gli. Come  fu  ancora  quella  congiura  de’Baccanali,  clic  si  scopri  nel  tempo  dellaguerra  macedonica,  dove  erano  già  in-viluppati molti  migliaia  d’  uomini  e didonne;  e se  la  non  si  scopriva,  sarebbestata  pericolosa  per  quella  città  ; o sep-pure i Romani  non  fussino  stati  con-sueti a gasligare  le  muititudiui  degli  uo-mini erranti:  perchè,  quando  e’  non  sivedesse  per  altri  infiniti  segni  la  gran-dezza di  quella  Repubblica,  e la  potenzadelle  esecuzioni  sue,  si  vede  per  la  qua-lità della  pena  che  la  imponeva  a chi errava.  Nè  dubitò  far  morire  per  via  digiustizia  una  legione  intera  per  volta,ed  una  città  tutta;  e di  confinare  ottoo diecimila  uomini  con  condizioni  straor-dinarie, da  non  essere  osservate  da  unsolo,  non  che  da  tanti:  come  intervennea quelli  soldati  che  infelicemente  ave-vano combattuto  a Canne,  i quali  con-finò in  Sicilia,  c impose  loro  che  nonalkergassino  in  terre,  e che  mangias-sino  ritti.  Ma  di  tutte  1’  altre  esecuzioniera  terribile  il  decimare  gli  eserciti,  dovea scorte  da  tutto  uno  esercito  era  mortod’ogni  dieci  uno.  Nè  si  poteva,  a gasli-gare  una  multit udine,  trovare  più  spa-ventevole punizione  di  questa.  Perchè quando  una  moltitudine  erra,  dove  nonsia  1’  autore  certo,  tutti  non  si  possonogastigare,  per  esser  troppi;  punirneparte  e parte  lasciare  impuniti,  si  fa-rebbe torto  a quelli  che  si  punissino,  egli  impuniti  arebbono  animo  di  errareun’  altra  volta.  Ma  ammazzare  la  decimaparte  a sorte,  quando  lutti  la  meritano,0,1  ' è punito  si  duole  della  sorte;  ehinon  è punito,  ha  paura  che  un’  altravolta  non  tocchi  a lui,  c guardasi  di  er-rare. Furono  punite,  adunque,  le  vene-fiche e le  baccanali  secondo  che  meri-tavano i peccali  loro.  K. benché  questi morbi  in  una  repubblica  faccino  cattivieffetti,  non  sono  a morte,  perchè  semprequasi  s’  ha  tempo  a correggerli  : ma  nons’  ha  già  tempo  in  quelli  che  riguardanolo  Stato,  i quali  se  non  sono  da  un  pru-dente corretti,  rovinano  la  città.  Eranoin  Roma,  per  la  liberalità  che  i Romaniusavano  di  donare  la  civilità  a’ forestieri,nate  tante  genti  nuove,  che  le  comin-ciavano avere  tanta  parte  ne’ suffragi,che  ’l  governo  cominciava  a variare,  epartivasi  da  quelle  cose  e da  quelli  uo-mini dove  era  consueto  andare.  Di  cheaccorgendosi  Quinto  Fabio  che  era  Cen-sore, messe  tutte  queste  genti  nuoveda  chi  dipendeva  questo  disordine  sot-to quattro  Tribù,  acciocché  non  potessino,  ridotte  in  si  piccioli  spazi,corrompere  tutta  Roma.  Fu  questa  cosaben  conosciuta  da  Fabio,  e postovi  sen*za  alterazione  conveniente  rimedio;  ilquale  fu  tanto  accetto  a quella  civi-lità,  che  meritò  d’esser  chiamato  Mas*sirno.FI .v  E. INDICE.Niccolò  Machiavelli  a Zanobi  Buondel-monti  e Cosimo  Rucellai  salute.  Pag.  1Libro  Primo.  .I.  Quali  siano  stati  universalmente  iprincipii  di  qualunque  città,  e qualefosse  quello  di  Roma 9II.  Di  quanto  spezie  sono  le  repubbliche,e di  quale  fu  la  Repubblica  Romana.  1$III.  Quali  accidenti  facessino  creare  inRoma  i Tribuni  della  plebe;  il  chefece  la  Repubblica  più  perfetta  ...  30IY.  Che  la  disunione  della  Plebe  e delSenato  romano'  fece  libera  e potentequella  Repubblica ; . . . 33Y.  Dove  più  securamente  si  ponga  laguardia  della  libertà,  o nel  Popolo  one’ Grandi;  e quali  hanno  maggiorecagione  di  tumultuare,  o chi  vuoleacquistare  o chi  vuole  mantenere.  . . 37VI.  Se  in  Roma  si  poteva  ordinare  unoStato  che  togliesse  via  le  inimicizieintra  il  Popolo  ed  il  Senato 43VII.  Quanto  siano  necessarie  in  una  Re-pubblica le  accuse  per  mantenere  lalibertàPag.  53Vili.  Quanto  lo  accuse  sono  utili  allerepubbliche,  tanto  sono  perniziose  lecalunnie.  hiIX.  Come  egli  ènecessario  esser  soloavolere  ordinare  una  repubblica  dinuovo,  oal  tutto  fuori  delli  antichisuoi  ordini  riformarla 68X.  Quanto  sono  laudabili  i fondatorid’una  repubblica  o d’uno  regno,  tantoquelli  d’ una  tirannide  sono  vitupera-bili  74XI.  Della  religione  de’  Romani 8*2XII.  Di  quanta  importanza  sia  teneroconto  della  religione,  e come  la  Italiaper  esserne  mancata  mediante  la  Chie-sa romana,  è rovinata 89XIII.  Come  i Romani  si  servirono  dellareligione  per  ordinare  la  città,  e per seguire  le  loro  imprese  e fermare  itumulti . . 9.~>XIV.  I Romani  interpretavano  gli  auspicii  secondo  la  necessità,  o con  la prudenza  mostravano  di  osservare  la religione,  quando  forzati  non  1‘  osser-vavano; e se  alcuno  temerariamentela  dispregiava,  lo  punivano 100dio  alle  cose  loro  afflitte,  ricorsonoalla  religione ~Un  popolo  USO  a vivere  sotto  unprincipe,  se  per  qualche  accidente  diventa libero,  con  difficult-à  mantienela  libertà.  . ^ag.  ^XVII.  Uno  popolo  corrotto,  venuto  in  li-bertà, si  può  con  dit'ticnltà  grandissima mantenere  libero LLHXVIII.  In  che  modo  nelle  città  corrotte si  potesse  mantenere  uno  Stato  libero,essendovi;  o non  essendovi,  ordinarveloXIX. Dopo  uno  eccellente  principe  si  puòmantenere  un  principe  debole;  madopo  un  debole,  non  si  può  con  unaltro  debole  mantenere  alcun  regno.  1*20XX.  Due  continove  successioni  di  principi virtuosi  fanno  grandi  effettivecome  le  repubbliche  bene  ordinatehanno  di  necessità  virtuose  successioni: e però  gli  acquisti  ed  augu-menti  loro  sono  grandi ~ •XXI.  Quanto  biasimo  meriti  quel  prin-cipe e quella  repubblica  che  mancad"armi  proprieXXII.  Quello  che  sia  da  notare  nel  casodei  tre  Orazi  romani,  e dei  tre  CuriazalbaniXXIII.  Che  non  si  debbe  mettere  a pericolo tutta  la  fortuna  e non  tutte le  forze;  e per  questo,  spesso  il  guardare i passi  è dannoso  Le  repubbliche  bene  ordinatecostituiscono  premii  e pene  a'  loro cittadini,  nè  compensano  mai  P uno con  r altro Pag.  143XXV.  Chi  mole  riformare  nno  Stato antico  in  una  città  libera,  ritenga  almeno V ombra  desmodi  antichi  Un  principe  nnoro,  in  nna  cittào provincia  presa  da  Ini,  debbo  faro ogni  cosa  nnova  ♦ . 14yXXVII.  Sanno  rarissime  volte  gli  nomi-ni essere  al  tutto  tristi  o al  tatto buoni.  IniXXVIII.  Per  qual  cagione  i Romani  fu-rono meno  ingrati  agli  loro  cittadini che  gli  Ateniesi 153XXIX.  Quale  sia  più  ingrato,  o un  po-polo, o un  principe Quali  modi  debbe  usare  un  prìncipe o nna  repubblica  per  fuggirò  questo vizio  della  ingratitudine;  e qnali quel  capitano  o quel  cittadino  per  non essere  oppresso  da  quella Che  i capitani  romani  per  errore commesso  non  furono  mai  istraordi- nariamente  puniti;  nè  furono  inai  an-cora puniti  quando,  per  la  ignoranza loro  o tristi  partiti  presi  da  loro»  ne fussino  seguiti  danni  alla  repubblica,  lfil Una  repubblica  o nno  principenon  dobbe  differire  a beneficare  gli uomini  nelle  sue  necessitati.  Quando  uno  inconveniente  è cresciuto  o in  uno  Stato  o contra  ad uno  Stato,  è più  salutifero  partito  temporeggiarlo che  urtarlo P&g» XXXIV.  L'autorità  dittatoria  fece  tene,e non  danno,  alla  repubblica  romana  :o come  lo  autorità  che  i cittadini  si  toPgono,  non  quelle  che  sono  loro  dai suffragi  liberi  date,  sono  alla-  vita  ci^vile  pernicioseXXXV.  La  cagione  perchè  in  Roma  la creazione  del  decemvirato  fu  nociva alla  libertà  di  quella  repubblica,  non ostante  che  fosse  creato  per  suffragi pubblichi  e liberi Non  debbono  i cittadini  che hanno  avuti  i maggiori  onori,  sdegnarside'  minoriXXXVII.  Quali  scandali  partorì  in  Roma la  legge  agraria:  e come  fare  una legge  in  una  repubblica  che  risguardi assai  indietro,  e sia  contra  ad  unaconsuetudine  antica  della  città,  èscandolosissimoXXXVIII.  Le  repubbliche  deboli  sonomale  risolute,  e non  si  sanno  delibe-rare; e se  le  pigliano  mai  alcuno  par-tito, nasce  più  da  necessità  che  daelezioneXXXIX.  In  diversi  popoli  si  veggonospesso  i medesimi  accidenti . . rrr~.  mXL.  La  creazione  del  decemvirato  inRoma,  e quello  che  in  essa  è da  no-tare:  dove  si  considera,  intra  moltealtre  cose,  come  si  può  salvare  persimile  accidente,  o oppressare  una  re-pubblica  Pag.  200XLI.  Saltare  dalla  urailità  alla  superbia, dalla  pietà  alla  crudeltà,  senza  debiti mezzi,  è cosa  imprudente  ed  inutile. Quanto  gli  uomini  facilmente  si possono  corrompere . Quelli  che  combattono  per  la  gloria propria,  sono  buoni  e fedeli  soldati  Una  moltitudine  senza  capo  èinutile:  e non  si  debbe  minacciare prima,  e poi  chiedere  P autorità  È cosa  di  malo  esempio  non  osservare una  legge  fatta,  e massimedallo  autore  d'essa:  e rinfrescare  ogni dì  nuove  ingiurie  in  una  città,  è a chi  la  governa  dannosissimo Gli  uomini  salgono  da  un'  ambizione ad  un'altra;  e prima  si  cercanon  essere  offeso,  dipoi  di  offendere altrui Gli  uomini,  ancora  che  si  ingannino ne’ generali,  nei  particolari  non si  ingannano XLYIII.  Chi  vuolo  che  uno  magistrato non  sia  dato  ad  un  vile  o ad  un  tristo, lo  facci  domandare  o ad  un troppo  vile  e troppo  tristo,  o ad  uno troppo  nobile  e troppo  buono XLIX.  Se  quelle  città  che  hanno  avuto il  principio  libero,  come  Roma,  hanno difficoltà  a trovare  leggi  che  le  mantenghino;  quelle  che  lo  hanno  immediate servo,  ne  hanno  quasi  una impossibilita L.  Non  debbo  uno  consiglio  o uno  magistrato potere  fermare  le  azioni  della città LT.  Una  repubblica  o uno  principe  debbo mostrare  di  fare  per  liberalità  quello a che  la  necessità  lo  constringe  LII.  A reprimere  la  insolenza  di  uno che  sorga  in  una  repubblica  potente, non  vi  è piu  securo  e meno  scando- loso  modo,  che  preoccuparli  quelle  vie per  lo  quali  o’vieno  a quella  potenza.  LIII.  Il  popolo  molte  volto  desidera  la rovina  sua,  ingannato  da  una  falsa spezie  di  bene  : e come  le  grandi  speranze e gagliardo  promesse  facilmente lo  muovono 25S LIV.  Quanta  autorità  abbia  uno  uomo grande  a frenare  una  moltitudine LY.  Quanto  facilmente  si  conduchino  le cose  in  quella  città  dove  la  moltitu-dine non  è corrotta:  e che  dove  è eqnalità,  non  si  può  faro  principato;e dove  la  non  è,  non  si  può  far  re-pubblica   26SLVI.  Innanzi  che  seguino  i grandi  acci-denti in  una  città  o in  una  provin-eia,  vengono  segui  che  gli  pronosti-cano, o Domini  che  gli  predicono.  Pag.  279LV1I.  La  plebe  insieme  è gagliarda;  diper  se  è debole 260LVIII.  La  moltitudine  è più  savia  e piùcostante  che  un  principe 283altri  si  può  più  fidare;  o di  quellafatta  con  una  repubblica,  o di  quellafatta  con  nno  principe 294LX.  Come  il  consolato  o qualunque  altro magistrato  in  Roma  si  dava  senzarispetto  di  età 299Libro  Secondo.I.  Quale  fu  più  cagione  dello  imperioche  acquistorono  i Romani,  o la  virtù,o la  fortuna 310  .II.  Con  quali  popoli  i Romani  ebbero  acombattere,  e come  ostinatamentequelli  difendevano  la  loro  libertà.  . . 31SIII.  Roma  divenne  grande  città  rovi-nando le  città  circonvicine,  e rice-vendo i forestieri  facilmente  a'  suoionori 333IV.  Le  repubbliche  hanno  tenuti  tre  modicirca  lo  ampliare 335lingue,  insieme  con  1~ accidente  de-1  diluvi o delle  pesti,  spegno  la  memo-ria dello  cose,  . 34.r>VI.  Come  i Romani  procedevano  nel  farela  guerra Pag.  350VII.  Quanto  terreno  i Romani  davanoper  colono 355Vili.  La  cagione  perchè  i popoli  si  par-tono da’ luoghi  patrii,  ed  inondano  ilpaose  altrui 356IX.  Quali  cagioni  comunemente  faccinoX.  I danari non sono  il  nervo  dellaguerra,  secondo  elio  è la  comune  op-pinone  367 XI.  Non  è partito  prudento  fare  amici-zia con  un  principe  che  abbia  piùoppinione  che  forze 374assaltato,  inferire,  o aspettare  laguerra 37fiXIII.  Che  si  viene  (li  bassa  a gran  for-tuna più  con  la  fraude,  che  con  laforza t 385XIV.  Ingannansi  molte  volto  gli  uomini,credendo  con  la  nmilità  vincere  la  su-perbia   389XV.  Gli  Stati  deboli  sempre  fieno  ambi-gui nel  risolversi:  e sempre  le  deli-berazioni lente  sono  nocive 392XVI.  Quanto  i soldati  ne’  nostri  tempi si  disformino  dalli  antichi  ordini  . 398XVII.  Quanto  si  debbino  stimare  daglieserciti  ne’  presenti  tempi  le  artiglie-rie  ; e se  quella  oppinione  che  se  neha  in  universale,  è vera Pag.  iiLZXYIII.  Come  per  I’  autorità  de*  Romani,e per  lo  essempio  della  antica  mili-zia, si  debbe  stimare  più  le  fanterieche  i cavagli . 421XIX.  Che  gli  acquisti  nelle  repubbli-che non  bene  ordinate  e che  secondola  romana  virtù  non  procedono,  sonoa rovina,  non  a esaltazione  di  esse  . 431XX.  Quale  pericolo  porti  quel  principeo quella  repubblica  che  si  vale  dellamilizia  ausiliare  a mercenaria  . . . . 441XXI.  Il  primo  Pretore  che  i Romanimandarono  in  alcun  luogo,  fu  a Capo-va,  dopo  quattrocento  anni  che  co-minciarono a far  guerra 445XXII.  Quanto  siano  false  molte  volte  leoppinioni  degli  uomini  nel  giudicarele  cose  grandi 450XXIII.  Quanto  i Romani  nel  giudicarei sudditi  per  alcuno  accidente  che  ne-cessitasse tal  giudizio,  fuggivano  lavia  del  mezzo  455XXIY.  Le  fortezze  generalmente  sonomolto  più  dannose  che  utili 464XXV.  Che  Io  assaltare  una  città  disu-nita,  per  occuparla  mediante  la  suadisunione,  è partito  contrario.  . . . .479XVI.  Il  vilipendio  e l’improperio  ge-nera odio  contra  a coloro  che  l’usa-no, senza  alcuna  loro  utilità 482XXVII.  Ai  principi  e repubbliche  pru-denti debbe  bastare  vincere  ; perchè  ilpiù  delle  volte,  quando  non  basti,  siperde  Pag.  4S0*XXVIII.  Quanto  sia  pericoloso  ad  unarepubblica  o ad  uno  principe  non  ven-dicare una  ingiuria  fatta  contra  alpubblico  o contra  al  privato 492XXIX.  La  fortuna  accieca  gli  animi  de-gli uomini,  quando  la  non  vuole  chequelli  si  opponghino  a’  disegni  suoi . 49(5XXX.  Le  repubbliche  e gli  principi  ve-ramente potenti  non  comperano  l' ami-cizie con  danari,  ma  con  la  virtù  econ  la  riputazione  delle  forzo  ....  502XXXI.  Quanto  sia  pericoloso  credere  agli sbanditi 509XXXII.  In  quanti  modi  i Romani  occu-pavano le  terre 512XXXIII.  Come  i Romani  davano  agliloro  capitani  degli  eserciti  le  commis-sioni libere 519Libro  Terzo. I.  A volere  che  una  setta  o una  repub-blica viva  lungamente,  è necessarioritirarla  spesso  verso  il  suo  principio.  524II.  Come  gli  è cosa  sapientissima  simu-lare in  tempo  la  pazzia 535III.  Come  egli  è necessario,  a volermantenere  una  libertà  acquistata  dinuovo,  ammazzare  i figliuoli  di  Bru-to   Pag-  538IV.  Non  vive  sicuro  un  principe  in  unprincipato,  mentre  vivono  coloro  chene  sono  stati  spogliati 541V.  Quello  che  fa  perdere  uno  regno  aduno  re  che  sia  ereditario  di  quello  . 544VI.  Delle  congiure 547VII.  Donde  nasce  che  le  mutazioni  dallalibertà  alla  servitù,  e dalla  servitùalla  libertà,  alcuna  n1  è senza  sangue,alcuna  n"  è piena 595Vili.  Chi  vuole  alterare  una  repubbli-ca, debbo  considerare  il  soggetto  diquella 591IX.  Come  conviene  variare  coi  tempi,volendo  sempre  aver  buona  fortuna  . 603X.  Che  uu  capitano  non  può  fuggire  lagiornata,  quando  1’  avversario  la  vuolfare  in  ogni  modo 608XI.  Che  chi  ha  a fare  con  assai,  an-cora Che  sia  inferiore,  purché  possasostenere  i primi  impeti,  vince.  . . . 617XTI.  Come  un  capitano  prudente  debboimporre  ogni  necessità  di  combattereai  suoi  soldati,  e a quelli  delli  minicitorla golP0Ye  8*a  Più  confidare,  o innuo  buono  capitano  che  abbia  l;eser-cp°  debole,  o in  uno  buono  esercitoche  abbia  il  capitano  debole  . XIV  Le  invenzioni  nuove  che  appari-scono nel  mezzo  della  zuffa,  e le  vocinuove  che  si  odono,  quali  effetti  fac-cino   Pag.  633XV.  Come  uno  e non  molti  siano  pre-posti ad  uno  esercito,  o come  i piùcomandatori  offendono 630XVI.  Che  la  vera  virtù  si  va  ne' tempidifficili  a trovare;  e ne*  tempi  facilinon  gli  uomini  virtuosi,  ma  quelliche  per  ricchezze  o per  parentado  pre-vagliono,  hanno  più  grazia 642XVII  Che  non  si  offenda  uno,  e poiquel  medesimo  si  mandi  in  ammini-strazione e governo  d’ importanza  . . 648XVIII.  Nessuna  cosa  è più  degna  d' uncapitano,  che  presentire  i partiti  delnimico 650 XIX.  Se  a reggere  una  moltitudine  èpiù  necessario  lo  ossequio  che  la  pena.  656XX.  Uno  essempio  d'umanità  appresso ai  Falisci  potette  più  d' ogni  forza romana XXI.  Donde  nacque  che  Annibaie  condiverso  modo  di  procedere  da  Sci  pio-ne,  fece  quelli  medesimi  effetti  inItalia  che  quello  in  IspagnaXXII.  Come  la  durezza  di  Manlio  Tor-quato e l’umanità  di  Valerio  Corvinoacquistò  a ciascuno  la  medesimagloria.  . 669XXIII.  Per  quale  cagione  Cammillo  fnssecacciato  di  Roma  .......  Pag^  679XXIV.  La  prolungazione  degl1  imperifece  serva  Roma  . ....  . 7 681XXV.  Della  povertà  di  Cincinnato,  e dimolti  cittadini  romani 681XXVI.  Come  per  cagione  di  femmine  sirovina  uno  Stato  . 689XXVII.  Come  e'  si  ha  a nnire  una  cittàdivisa;  e come  quella  oppinione  nonè vera,  che  a tenere  le  città  bisognatenerle  disunite XXVIII.  Che  si  debbe  por  mente  alle opere  de’  cittadini,  perchè  molte  volte sotto  un’opera  pia  si  nasconde  un  principio di  tirannide XXIX.  Che  gli  peccati  dei  popoli  nascono dai  principi. XXX.  Ad  uno  cittadino  che  voglia  nella sua  repubblica  far  di  sua  autorità  alcuna opera  buona,  è necessario  prima spegnere  T invidia:  e come,  venendo il  nimico,  s’ha  a ordinare  la  difesad’  una  città XXXI.  Le  repubbliche  forti  o gli  uomini eccellenti  ritengono  in  ogni  fortuna il  medesimo  animo  e la  loro  medesima dignità  710XXXII.  Quali  modi  hanno  tenuti  alcuni a turbare  una  paco XXXIII.  Egli  è necessario,  a voler  vincere una  giornata,  fare  T esercito  conattente  ed  infra  loro,  e con  il  capittano  XXXIV.  Quale  fama  o voce  o oppinione fa  che  il  popolo  comincia  a favorire un  cittadino:  e se  ei  distribuisce  I magistrati  con  maggior  prudenza  che un  principe, XXXV.  Quali  pericoli  si  portino  nel  farsi capo  a consigliare  una  cosa  ; e quanto ella  ha  più  dello  straordinario,  maggiori pericoli  vi  si  corrono  . XXXVI.  La  cagione  perchè  i Franciosi sono  stati  e sono  ancora  giudicati nelle  zuffe  da  principio  più  che  uomini, e dipoi  meno  che  femmine  . XXXVII.  Se  le  piccolo  battaglie  innanzi alla  giornata  sono  necessarie,  e come si  debbo  fare  a conoscere  un  nimico nuovo,  volendo  fuggire  quelle  . XXXVIII.  Come  debbe  esser  fatto  un  capitano nel  quale  1’  esercito  suo  possa confidare XXXIX.  Che  un  capitano  debbe  esser conoscitore  dei  siti XL.  Come  usare  la  fraudo  nel  maneggiare la  guerra  è cosa  gloriosa.  . .XLI.  Che  la  patria  si  debbe  difendere o con  ignominia  o con  gloria;  ed  in qualunque  modo  è ben  difesa XLII.  Che  le  promesse  fatte  per  forza non  si  debbono  osservare XLIII.  Clie  gli  uomini  che  nascono  in una  provincia,  osservano  per  tutti  I tempi  quasi  quella  medesima  natura  XL1Y.  E’  si  ottiene  con  l'impeto  e con 1’  audacia  molte  volte  quello  che  con modi  ordinari  non  si  otterrebbe  mai . XLV . Qual  sia  miglior  partito  nelle  gior-nate, o sostenere  l'impeto  de'  nimici, e sostenuto  urtargli;  ovvero  dapprima con  furia  assaltargli  XLVI.  Donde  nasce  che  una  famiglia  in una  città  tiene  un  tempo  i medesimi costumi XLYII.  Che  un  buon  cittadino  per  amore della  patria  debbe  dimenticare  P ingiurie private  XLVIII.  Quando  si  vede  fare  uno  errore  , grande  ad  un  nimico,  si  debbe  credere die  vi  sia  sotto  inganno. XLIX.  Una  repubblica,  a volerla  mantenere libera,  ha  ciascuno  di  bisogno di  nuovi  provvedimenti;  e per  qualimeriti  Quinto  Fabio  fu  chiamato  Massimo  
Tito Livio.

 

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