Grice
e Livio: la storia romana come fonte della morale romana – etica togata -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova) Filosofo italiano. Although famous as one of the
great Roman historians, he is also a philosopher, who popularises the genre of
the ‘dialogo filosofico.’ Pre-testo. DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA
DI LIVIO di MACHIAVELLI, FIRENZE, G. BARBÈRA, EDITORE. MACHIAVELLI A ZANOBI BUONDELMONTI
E COSIMO RUCELLÀI SALUTE. o vi mando un presente,
il quale se non corrisponde agl’obblighi clic io
ho con voi, è tale senza dubbio, quale ha potuto Niccolò Machiavelli
mandarvi maggiore. Perchè in quello io ho espresso
quanto io so, quanto io ho imparato
per una lunga pratica e continova lezione
delle cose del mondo. E non porlendo
nè voi nè altri disiderare da me più,
non vi potete dolere se io non vi ho
donato più. Bene vi può incrcsccre della
povertà dello ingegno mio, quando siano
queste mie narrazioni povere ; e della fallacia del
giudizio, quando io in molte parli , discorrendo, m'inganni. Il che
essendo , won so quale di noi si abbia
ad esser meno obbligato all’altro; o io a voi ,
che mi avete forzalo a scrivere quello ch’io
mai per me medesimo non arci scritto; o
voi a me, quando scrivendo non abbi soddisfatto.
Pigliate, adunque, questo in quello modo
che si pigliano tulle le cose degli
amici: dove si considera più sempre la
intenzione di chi manda, che le qualità
della cosa che è mandata. E crediate che in
questo io ho una salis fazione , quando io penso
che, sebbene io mi fussi ingannato in
molle sue circostanze, in questa sola so eh
io non ho preso errore, di avere
delti voi, ai quali sopra tutti gli altri
questi miei Discorsi indirizzi : sì perché,
facendo questo, ini pnre aver mostro
qualche gratitudine de benefizii ricevuti : si
perchè e mi pare esser uscito fuora dell’uso
comune di coloro che scrivono , i quali sogliono
sempre le loro opere a qualche principe
indirizzare ; e, accecati dall’ambizione c dall’avarizia,
laudano quello di tutte le virtuose
qualitadi, quando di ogni vituperevole parte
doverrebbono biasimarlo. Onde io, per non
incorrere in questo errore, ho eletti non
quelli che sono Principi, ma quelli che
per le infinite buone parti loro
meriterebbono di essere ; nè quelli che
polrebbono di gradi, di onori e di
ricchezze riempiermi, ma quelli che, non polendo,
vorrebbono farlo. Perchè gli uomini, volendo
giudicare dirittamente, hanno a stimare quelli che sono
, non quelli che possono esser liberali; e
così quelli che sanno , non quelli che,
senza sapere, possono governare un regno. E
gli scrittori laudano più Icronc Siracusano
quando egli era privato, che Perse Macedone
quando egli era re: perchè a Icronc a esser principe
non mancava altro che il principato ; quell’altro
non avera parte alcuna di re, altro
che il regno. Godetevi, pertanto quel bene
o quel male che voi medesimi avete voluto :
e se voi starete in questo errore, che
queste mie oppinioni vi siano grate , non
mancherò di seguire il resto della istoria,
secondo che nel principio vi promisi. Valete Ancouaciiè,
per la invida natura degli uomini, sia
sempre stato pericoloso il ritrovare modi
ed ordini nuovi, quanto il cercare acque e
terre incognite, per essere quelli più
pronti a biasimare che a laudare le azioni d’
altri ; nondimeno, spinto da quel naturale
desiderio che fu sempre in me di
operare, senza alcun rispetto, quelle cose
che io creda rechino comune benefìzio a
ciascuno, ho deliberato entrare per una
via, la quale, non essendo stata per
ancora da alcuno pesta, se la mi
arrecherà fastidio e diffìcultù, mi potrebbe
ancora arrecare premio, mediante quelli che
umanamente di queste mie fatiche conside-rassero. E
se T ingegno povero, la pocoesperienza
delle cose presenti, la de-bole notizia
delle antiche, faranno que-sto mio conato
difettivo e di non moltautilità ; daranno
almeno la via ad al-cuno, che con più
virtù, più discorso egiudizio, potrà a
questa mia intenzionesatisfare: il che se
non mi arrecheràlaude, non mi dovrebbe
partorire bia-simo. E quando io considero
quantoonore si attribuisca all’antichità, c
comemolte volte, lasciando andare moltialtri
esempi, un frammento d’ una antica statua
sia stato comperato granprezzo, per averlo
appresso di sè, onorarne la sua casa,
poterlo fare imitareda coloro che di
quella arte si diletta-no; e come quelli
poi con ogni indu-stria si sforzano in
tutte le loro opererappresentarlo: e vcggendo,
dall’altrocanto, le virtuosissime operazioni che
leistorie ci mostrano, che sono state
operate da regni cda repubbliche
auliche,dai re, capitani, cittadini, datori
di leggi,ed ultri che si sono per
la loroatfaticati, esser più presto
ammirate cheimitate; au/i in tanto da
ciascuno inogni parte fuggite, che di
quella anticavirtù non ci è rimaso alcun
seguo:posso fare che insieme non me
nelavigli e dolga; e tanto più, quantoveggio
nelle differenze che intra iladini
civilmente nascono, o nelle inalattie nelle
quali gli uomini incorrono,essersi sempre
ricorso a quelli giudiciio a quelli rimedi che
dagli antichi sonostati giudicati o ordinati.
Perchè le leggicivili non sono altro
che sentenzio datedagli antichi iurcconsulti,
le quali, ri-dotte in ordine, a’ presenti
nostri iure-consulti giudicare insegnano; nè
ancorala medicina è altro che cspcrienzia
fattadagli antichi medici, sopra la quale
fon-dano i medici presenti li loro giudicii. Nondimeno,
nello ordinare le repubbli-che, nel mantenere
gli Stati, nel govcr-nai e i regni, nell’
ordinare la milizia edamministrar la
guerra, nel giudicare isudditi, nello
accrescere lo imperio, nonsi trova uè
principi, nè repubbliche, nècapitani, nè
cittadini che agli esempidegli antichi
ricorra. Il che mi persuadoche nasca
non tanto dalla debolezzanella quale la
presente educazione hacondotto il mondo, o
da quel male cheuno ambizioso ozio ha
fatto a molteprovincie c città cristiane, quanto
dalnou avere vera cognizione delle
istorie,per non trarne, leggendole, quel
senso,nè gustare di loro quel sapore
che lehanno in sè. Donde nasce che
infinitiche leggono, pigliano piacere di
udirequella varietà delli accidenti che in
essesi contengono, senza pensare altrimeuted’
imitarle, giudicando la imitazione nonsolo
difficile ma impossibile: come se ilcielo,
il sole, gli elementi, gli uominifossero
variati di moto, d’ordine e dipotenza, da
quello eli’ egli erano antica-mente. Volendo,
pertanto, trarre gli uo-mini di questo
errore, ho giudicalo ne-cessario scrivere sopra
tutti quelli libri di LIVIO che dalla
malignità deitempi non ci sono stati
interrotti, quelloche io, secondo le
antiche e modern cose, giudicherò esser
necessario permaggiore intelligenzia d'essi;
acciocchécoloro che questi miei discorsi
legge-ranno, possino trarne quella utilità perla
quale si debbe ricercare la cogni-zione
della istoria. G benché questa im-presa sia
difficile, nondimeno, aiutato dacoloro che
mi hanno ad entrare, sotto aquesto
peso confortato, credo portarloin modo, che
ad un altro resterà brevecammino a condurlo
al luogo destinato. I. Quali siano stati
universal-mente i pr incipit’ di qualunque città ,c
quale fosse quello di ROMA. Coloro che
leggeranno qual principio fosse quello della
città di ROMA, e da quali legislatori e
come ordinato, non
si maraviglieranno che tanta virtù sisia
per più secoli mantenuta in quella città; e
che dipoi ne sia nato quello im-perio,
al quale quella repubblica ag-giunse. E volendo
discorrere prima il nascimento suo, dico
che tutte le cittàsono edificate o dagli
uomini natii delluogo dove le si
edificano, o dai fore-stieri. Il primo caso
occorre quandoagli abitatori dispersi in
molte e piccole parli non par vivere
sicuri, nonpotendo ciascuna per sè, e per
il sitoe per il piccol numero, resistere
all’impeto di chi le assaltasse; e ad
unirsi perloro difensione, venendo il
nemico, nonsono a tempo; o quando fossero,
converrebbe loro lnsciare abbandonati molti de’ loro
ridotti, e cosi verrebbero ad esser sùbita
preda dei loro nemici: talmente che, per
fuggire questi pericoli, mossi o da loro
medesimi, o da alcunoche sia infra di
loro di maggior autorità, si ristringono ad
abitar insieme in luogo eletto da loro,
più comodo a vi- vere e più facile a
difendere. Di queste,infra molle altre,
sono state Atene e Vincaia. La prima, sotto
l’autorità di Teseo, fu per simili cagioni
dalli abitatoridispersi edificata; l’altra,
sendosi moltipopoli ridotti in certe
isolette che eranonella punta del mare
Adriatico, per fug-gire quelle guerre che
ogni dì, per loavvenimento di nuovi
barbari, dopo ladeclinazione dello imperio
romano, na-scevano in ITALIA, cominciarono infra loro,
senza altro principe particolareclic gli
ordinassi, a vivere sotto quelleleggi che
parvono loro più atte a mantenerli. Il che
successe loro felicemente per il lungo ozio
che il sito dette loro, non avendo
quel mare uscita, e nonavendo quelli popoli
che affliggevano ITALIA, navigi da poterli
infestare: talché ogni picciolo principio li
potò fare ve-nire a quella grandezza nella
quale sono. Il secondo caso, quando da
genti forestiere è edificata una città, nasce o
dauomini liberi, oche dipendano da altri come
sono le colonie mandate o da unarepubblica
o da un principe, per Sgra-vare le . loro
terre d’abitatori, o per di-fesa di quel
paese che, di nuovo acqui-stato, vogliono
sicuramente e senzaspesa mantenersi; delle quali
città IL POPOLO ROMANO ne edificò assai, e
pertutto l’imperio suo: ovvero le sono
edi-ficate da un principe, non per
abitarvi,nia per sua gloria; come la
città di Alessandria da Alessandro. E per
nonavere queste cittadl la loro origine
libera,rade volte occorre che le facciano
pro-gressi grandi, e possinsi intrai capi
deiregni numerare. Simile a queste fu V
edificazione di FIRENZE, perchè (fi edificatada’
soldati di SILLA, o, a caso, dagli
abitatori dei monti di Fiesole, i quali,
confi-datisi in quella lunga pace che sotto
OTTAVIANO nacque nel mondo, si ridusseroad
abitare nel piano sopra Arno) si edi-ficò sotto
l’imperio romano; nè potette,ne’ principii
suoi, fare altri augumentiche quelli che
per cortesia del principe li erano
concessi. Sono liberi li edificatori delle
cittadi, quando alcuni popoli,o sotto un
principe o da per sé, sonocostretti, o per
morbo o per fame o perguerra, od
abbandonare il paese potrio,e cercarsi nuova
sede : questi tali, oegli abitano le
cittadi elle e’ trovano neipaesi eli’ egli
acquistano, come fece Moisè; o ne edificano
di nuovo, come fe ENEA. In questo
caso è dove si conosce la virtù dello
edificatore, e la fortunadello edificato: la
quale è più o menomeravigliosa, secondo che
più o menoè virtuoso colui che ne è stato
principio.La virtù del quale si conosce
in duoimodi: il primo è nella elezione
del sito;F altro nella ordinazione delle
leggi. Eperchè gli uomini operano o per
necessità o per elezione; e perchè si vede quivi
esser maggiore virtù dove la elezione ha
meno autorità; è da considerare se sarebbe
meglio eleggere, per laedificazione delle
cittadi, luoghi sterili,acciocché gli uomini,
costretti ad indù*striarsi, meno occupati
dall’ozio, vives-sino più uniti, avendo,
per la povertàdel sito, minore cagione
di discordie;come intervenne in Raugia, e
in moltealtre cittadi in simili luoghi
edificate:la quale elezione sarebbe senza
dubbiopiù savia e più utile, quando gli
uo- .mini fossero contenti a vivere delloro,e
non volcssino cercare di comandarealtrui.
Pertanto, non potendo gli uominiassicurarsi
se non con la potenza, ènecessario
fuggire questa sterilità del
pnese, e porsi in luoghi fertilissimi
;dove, potendo per la ubertà del sito
ampliare, possa e difendersi da chi l’ assaltasse, e
opprimere qualunque alla grandezza sua si
opponesse. G quanto a quell’ozio che le
arrecasse il sito, si debbe ordinare che a
quelle necessitadi le leggi la costringhino
che ’l sito non la costringesse; ed
imitare quelli che sono stati savi, ed
hanno abitato in paesiamenissimi e fertilissimi,
c alti a pròdurre uomini oziosi ed inabili
ad ogni
virtuoso esercizio: chè, per ovviare
aquelli danni i quali l’amenità del
paese,mediante l’ozio, arebbero causati,
hannoposto una necessità di esercizio a
quelliche avevano a essere soldati: di
qualitàche, per tale ordine, vi sono
diventatimigliori soldati che in quelli
paesi i qualinaturalmente sono stati aspri e
steriliIntra i quali fu il regno degli
Egizi, chenon ostante che il paese
sia amenissi-mo, tanto potette quella necessità
ordi-nata dalle leggi, che vi nacquero uo-mini
eccellentissimi; e se li nomi loronon
fussino dalla antichità spenti, sivedrebbe come
meriterebbero più laudeche Alessandro Magno, c
molti altri deiquali ancora* è la memoria
fresca. E chiavesse considerato il regno
del Soldano,e l’ordine de’Mammaluchi. e di
quellaloro milizia, avanti che da Sali,
GranTurco, fusse stata spenta ; arebbe ve-duto
ili quello molti esercizi circa i sol-dati,
ed arebbe in fatto conosciutoquanto essi
temevano quell’ozio a cheIODEI DISCORSIla
benignità del paese gli poteva con-durre,
se non vi avessino con leggi for-tissime
ovviato. Dico, adunque, esserepiù prudente
elezione porsi in luogofertile, quando
quella fertilità con leleggi infra* debili
termini si restringe.Ad Alessandro Magno,
volendo edificareuna città per sua gloria,
venne Dino-erate architetto, e gli mostrò
come eila poteva fare sopra il monte
Albo; ilquale luogo, oltre allo esser
forte, po-trebbe ridursi in modo che a
quellacittà si darebbe forma umana; il
chesarebbe cosa meravigliosa e raro, e de-gna
della sua grandezza: e domandan-dolo Alessandro
di quello che quelli abi-tatori viverebbono,
rispose, non ci averepensato: di che
quello si rise, e lasciatostare quel monte,
edificò Alessandria,dove gli abitatori avessero a
stare vo-lentieri per la grassezza del
paese, e perla comodità del mare e del
Nilo. Chi esa-minerò, adunque, la edificazione
di Ro-ma, se si prenderà Enea per suo
primoprogenitore, sarà di quelle citladi
edifi-cate da’ forestieri ; se Romolo, di
quelleedificate dagli uomini natii del
luogo;ed in qualunciic modo, la Vedrà
avereprincipio libero, senza depcndere da
al-cuno: vedrà ancora, come di sotto
sidirà, a quante necessitadi le leggi
fatteda Romolo, Numa, e gli altri, la
costrin-gessino ; talmente clic la fertilità
del sito,la comodità del mare, le
spesse vittorie,la grandezza dello imperio,
non la po-terono per molti secoli
corrompere, e Ir» -» **mantennero piena di
tante virtù, djp^quante mai fusse alcun’
altra repubblicaornata. E perchè le cose
operate da lejj, ^e che sono da Tito
Livio celebrate, sonoseguite o per pubblico o
per privatoconsiglio, o dentro o fuori della
cittade,io comincerò a discorrere sopra
quellecose occorse dentro, e per consiglio
pub-blico, le quali degne di maggiore
an-notazione giudicherò, aggiungendovi tut-to quello
che da loro dependessi : coni quali
Discorsi questo primo libro, ovvero Questa
prima parte, si terminerà. Cap. II. — Di
quante spezie sono le *epnbbtiche , e di
quale fu la Repubblica Romana. Io voglio
porre da parte il ragionare di quelle
cittadi clic hanno avuto il loro principio
sottoposto ad altri; e parlerò di quelle
che hanno avuto il principio 'ontano do
ogni servitù esterna, nia si ; j sono
subito governate per loro arbitrio, o come
repubbliche o come principato: U quali hanno
avuto, come diversi principi, diverse leggi
ed ordini. Perchè ad alcune, o nel
principio d’esse, o dopo non molto tempo,
sono state date da un
solo le leggi, e ad un tratto ; come
quelle che furono date da Licurgo agli
Spartani: alcune le hanno avute a caso, ed in
più volte, e secondo li accidenti, come Roma.
Talché, felice si può chiamare quella
repubblica, la quale sortisce uno uomo sì
prudente, che le dia leggi ordinate in
modo, che senza avere bisogno di
correggerle, possa vivere sicuramente sotto
quelle. E si vede che Sparta le osservò
più che ottocento anni senza corromperle, o
senza alcuno tumulto pericoloso: e, pel
contrario, tiene qualche grado d’ infelicità
quella città, che, non si sendo abbattuta
ad uno ordinatore prudente, è necessitata da
sè medesima riordinarsi: e di queste ancora è più
infelice quella che è più discosto dall’ordine; e
quella è più discosto, con suoi ordini è al
tutto fuori del dritto cammino, che la
possi condurre al perfetto e vero fine:
perchè quelle clic sonoiu questo grado, è
quasi impossibile che per qualche accidente
si rassettino. Quel le altre che, se
le non hanno V ordine perfetto, hanno preso
il principio buono,e atto a diventare migliori,
possono perla occorrenza delli accidenti
diventareperfette. Ma fia ben vero questo, mai
non si ordineranno senza pericolo
perchè li assai uomini non si accordano mai
ad una legge nuova che riguardi uno
nuovo ordine nella cit tà, se non è mostro
loro da una necessità che bisogni farlo ; e
non potendo venire questa necessità senza
pericolo, è facil cosa che quella repubblica
rovini, avanti che la si sia condotta a
una perfezione d’ or-dine. Di che ne fa
fede appieno la re-pubblica di Firenze, la
quale fu dalloaccidente d’ Arezzo, nel
11, riordinata, eda quel di Prato,
nel XII, disordinata.Volendo, adunque, discorrere
quali fu-rono li ordini della città di
Roma, equali accidenti alla sua perfezione
lacondussero) dico, come alcuui che
hannoscritto delle repubbliche, dicono essere
in quelle uno de' tre stati, chiamati
daloro Principato, d’Ottimati e Popolare; e come coloro
che ordinano una città, debbono volgersi ad
uno di questi, secondo pare loro più a
proposito. Alcuni altri, e secondo la oppinione
di molti più savi, hanno oppinione che
siano di sei ragioni governi; delti quali
tre ne siano pessimi; tre altri siano
buoni in loro medesimi, ma sì focili a
corrompersi, che vengono ancora essi ad essere
perniziosi. Quelli che sono buoni, sono i
soprascritti tre: quelli clic sono rei,
sono tre altri, i quali da questi tre dependono;
c ciascuno d’ essi è in modo simile a
quello che gli è propinquo, che facilmente
saltano dall’ uno all’ altro: perchè il
Principato facilmente diventa tirannico; li
Ottimati con facilità diventano stato di pochi
; il Popolare senza diflìcultà in licenzioso
si converte. Talmente che, se uno
ordinatore di repubblica ordina in una
città uno di quelli tre stati, ve lo
ordina per poco tempo; perchè nessuno
rimedio può farvi, a far che non sdruccioli
nel suo contrario, per la similitudine che
ha in questo caso la virtù ed il
vizio. Nacquono queste variazioni di governi a
caso intra li uomini: perchè nel principio
del mondo, sendo li abitatori rari, vissono
un tempo dispersi, a similitudine delle bestie;
dipoi, multiplicando la generazione, si ragunorno
insieme, e, per potersi meglio difendere,
cominciorno a riguardare fra loro quello che
fusse più robusto c di maggiore cuore, c fecionlo
come capo, e lo obedivano. Da questo nacque
la cognizione delle cose oneste e buone,
differenti dalle perniziose e ree: perchè,
veggendo che se uno noceva al suo
benefattore, ne veniva odio e compassione intra
gli uomini, biasimando li ingrati ed
onorando quelli che fusscro grati, e pensando
ancora che quelle medesime ingiurie potevano
esser fatte a loro; per fuggire simile
male, si riducevano a fare leggi, ordinare
punizioni a chi contea facesse: donde venne la
cognizione della giustizia. La qual cosa
faceva che avendo dipoi ad eleggere un
principe, non andavano dietro al più
gagliardo, ma a quello che fussi più
prudente c più giusto. Ala come di poi si
cominciò a fare il principe per successione, e
non pei* elezione, subito cominciorno li
eredi a degenerare dai loro antichi ; e lasciando
1’ opere virtuose, pensavano che i principi non avessero
a fare altro clic superare li altri di
sontuosità e di lascivia c d’ ogni altra' qualità
deliziosa: in modo che, cominciando il
principe ad essere odialo, e per tale
odio a temere, e passando tosto dal timore
all’ offese, ne nasceva presto una
tirannide. Da questo nacquero appresso i
principi» delle rovine, c delle conspirazioni e
congiure contea i principi; non fatte da
coloro clic fussero o timidi o deboli, ma
da coloro che per genei'osità, grandezza d’
animo, ricchezza e nobiltà, avanzavano gli altri;
i quali non potevano sopportare la inonesta vita di
quel principe. La moltitudine, adunque, seguendo
l’ autorità di questi potenti, si armava
contra al principe, c quello spento,
ubbidiva loro come a suoi liberatori. E quelli,
avendo in odio il nome d’ uno solo
capo, constituivano di loro medesimi un
governo; e nel piincipio, avendo rispetto
alla passata tiratinide, si governavano
secondo le leggi ordinate da loro,
posponendo ogni loro comodo alla comune
utilità ; e le cose private e le pubbliche
con somma diligenzia governavano c conservavano.
Venuta dipoi questa amministrazione ai loro
figliuoli, i quali, non conoscendo la variazione
della fortuna, non avendo mai provato il
male, e non volendo stare contenti alla
civile equalità, ma rivoltisi alla avarizia,
alla ambizione, alla usurpazione delle donne,
feciono clic d’ uno governo d’ Ottimati
diventassi un governo di pochi, senza avere
rispetto ad alcuna civiltà : tal che in
breve tempo intervenne loro come al
tiranno; perchè infastidita da’ loro governi
la moltitudine, si fe ministra di qualunque
disegnassi in alcun modo offendere quelli governatori;
e cosi si levò presto alcuno che, con
I’ aiuto della moltitudine, li spense. Ed
essendo ancora fresca la memoria del
principe e delle ingiurie ricevute da quello,
avendo disfatto lo Stato de’ pochi e non
volendo rifare quell del principe, si
volsero allo Stato popolare; c quello ordinarono
in modo, che nè i pochi potenti, nè
uno principe vi avesse alcuna autorità. E
perchè tutti gli Stali nel principio hanno
qualche reverenza, si mantenne questo Stato popolare
un poco, ma non molto, massi-
me spenta che fu quella generazione che l’aveva
ordinato; perchè subito si venne alla
licenzia, dove non si temevano nè li
uomini privati nè i pubblici; di qualità
che, vivendo ciascuno a suo modo, si
facevano ogni di mille ingiurie: talché,
costretti per necessità, o per suggestione d’
alcuno buono uomo, o per fuggire tale
licenzia, si ritorna di nuovo al
principato; e da quello, di grado in grado,
si riviene verso la licenzia, nei modi e
per le cagioni dette. E questo è il
cerchio nel quale girando tutte le
repubbliche si sono governate, e si governano:
ina rade volte ritornano nei governi
medesimi; perchè quasi nessuna repubblica può
essere di tanta vita, che possa passare
molle volte per queste mutazioni, c rimanere
in piede. Ma bene interviene che, nel
travagliare, una repubblica, mancandoli sempre
consiglio e forze, diventa suddita d'uno Stato
propinquo, clic sia meglio ordinato di lei
: ina dato che questo non fusse, sarebbe atta
una repubblica a rigirarsi infinito tempo in
questi governi. Dico, adunque, che lutti i
detti modi sono pestiferi, per la brevità
della vita che è ne’ tre buoni, e per
la malignità che è ne* tre rei. Talché,
avendo quelli che prudentemente ordinano leggi
conosciuto questo difetto, fuggendo ciascuno di
questi modi per se stesso, n’ elessero
uno che partieipasse di lutti, giudicandolo
più fermo e più stabile ; perchè l’
uno guarda l’altro, scudo in una medesima
città il Principato, li Ottimati ed il
Governo Popolare. Infra quelli che hanno
per simili constituzioni meritato più laude, è
Licurgo; il quale ordinò in modo le sue leggi
in Sparta, che dando le parti sue ai
He, agli Ottimali e al Popolo, fece uno
Stato che durò più che ottocento anni,
con somma laude sua, e quiete di quella
città. Al contrario intervenne a Solone, il
quale ordinò le leggi in Atene che
per ordinarvi solo lo Stato popolare lo
fece di sì breve vita, che avanti
morisse vi vide nata la tirannide di
Pisistrato: e benché dipoi anni quaranta ne fusscro
cacciati gli suoi eredi, c ritornasse Atene
in libertà, perchè la riprese lo Stato
popolare, secondo gli ordini di Solone; non
lo tenne più cliccento anni, ancora
che per mantenerlo facesse molte constituzioni,
per le quali si reprimeva la iusolenzia grandi
c la licenzia dell’ universale, le quali
non furou da Solonc considerate nientedimeno,
perchè la non le mescolò con la
potenzia del Principato e con quella dclli
Ottimali, visse Atene, spetto di Sparla,
brevissimo tempo. Ria vegniamo a ROMA ; la
quale nonostante che non avesse uno Licurgo
che la ordinasse in modo, ilei principio,
che la potesse vivere lungo tempo libera,
nondimeno furon tanti gli accidenti che in quella
nacquero, per la disunione che era intra
la Plebe ed il Senato, che quello che
non aveva fatto uno ordinatore, lo fece
il caso. Perchè, se ROMA non sortì la
prima fortuna, sortì la seconda; perchè i
primi ordini se furono defettivi, nondimeno
non deviarono dalla diritta via che li
potesse condurre alla perfezione. Perchè ROMOLO e
tutti gli altri Re fecero molte e buone
leggi, conformi ancora al vivere libero: ma
perchè il fine loro fu fondare un
regno e non una repubblica, quando quella
città rimase libera, vi mancavano molte cose che
era necessario ordinare in favore della
libertà, le quali non erano state da
quelli Re ordinate. E avvengachè quelli suoi
Re perdessero V imperio per le cagioni e
modi discorsi; nondimeno quelli clic li
cacciarono, ordinandovi subito duoi Consoli, che
stessino nel luogo del Re, vennero a
cacciare di Roma il nome, e non la
potestà regia: talché, essendo in quella
Repubblica i Consoli ed il Senato, veniva
solo ad esser mista di due qualità
delle tre soprascritte: cioè di Principato e
di Ottimali. Restavali solo a dare luogo
al Governo Popolare: onde, essendo diventatala
Nobiltà romana insolente per le cagioni che
di sotto si diranno, si levò il
Popolo contro di quella ; talché, per non
perdere il tutto, fu costretta concedere al
Popolo la sua parte; e, dall’altra parte,
il Senato e i Consoli restassino con
tantaautorità, che potcssino tenere in quella Repubblica
il grado loro. E cosi nacque la creazione
de’ Tribuni della plebe ; dopo la quale
creazione venne a essere più stabilito lo
stato di quella Repubblica,
avendovi tutte le tre qualità di governo la
parte sua. E tanto li fu favorevole la fortuna,
che benché si passasse dal governo de’ Re e
delli Ottimati al Popolo, per quelli
medesimi gradi e per quelle medesime cagioni
che di sopra si sono discorse : nondimeno
non si tolse mai, per dare autorità
alli Ottimati, tutta l’autorità alle qualità
regie; nè si diminuì l’autorità in tutto
alli Ottimati, per darla al Popolo; ina
rimanendo mista, fece una repubblica perfetta :
alla quale perfezione venne per la
disunione della Plebe e del Senato, come
nei duoi prossimi seguenti capitoli largamente
si dimostrerà. III. — Quali accidenti facessino creare
in Roma i Tribuni della plebe ; il che
fece la Repubblica più perfetta. Come
dimostrano lutti coloro che ragionano del
vivere civile, e come ne è piena di
esempi ogni istoria, è necessario a chi dispone
una repubblica, ed ordina leggi in quella,
presupporre tuttigli uomini essere cattivi, e
clic li abbinosempre od usure la
malignità dello animo loro, qualunchc volta
ne abbino libera occasione: e quando alcuna
malignità sta occulta un tempo, procede da una
occulta cagione, ebe, per non si essere
veduta esperienza del contrario, non si
conosce; ma la fa poi scoprire il
tempo, il quale dicono essere padre d’ogni
verità. Pareva clic fusse in Roma intra
la Plebe cd il Senato, cacciati I Tarquiili,
una unione grandissima; e che i Nobili,
avessino deposta quella loro superbia, c russino
diventati d'animo popolare, c sopportabili da
qualuncbc, ancora ebe infimo. Stette nascoso
questo inganno, nè se ne vide la cagione, infino
ebe i Tarquini vissono; de’ quali temendo la
Nobiltà, ed avendo paura che la Plebe
mal trattata non si accostasse loro, si
portava umanamente con quella: ma come
prima furono morti I Tarquini, e die a’
Nobili fu la paura fuggita, cominciarono a
sputare contro Olla Plebe quel veleno che
si avevàno tenuto nel petto, ed in
tutti i modi che potevano la offendevano:
la qual cosa fa testimonianza a quello che
di sopra ho detto, che gli uomini non
operano mai nulla bene, se non per
necessità; ma dove la elezione abbonda, e
che vi si può usare licenzia, si
riempie subito ogni cosa di confusione e di
disordine. Però si dice che la fame e
la povertà fu gli uomini industriosi, e le
leggi gli fanno buoni. E dove una cosa
per sè medesima senza la legge opera
bene, non è necessaria la legge; ma quando
quella buona consuetudine manca, è subito la
legge necessaria. Però, mancati i Tarqnini, che
con la paura di loro tenevano
laNobiltà a freno, convenne pensare a unonuovo
ordine ehe facessi quel medesimoeffetto che
facevano i Tarquini quandoerano vivi. E però,
dopo molte confu-sioni, romori e pericoli di
scandali, chenacquero intra la Plebe c la
Nobiltà, sivenne per sicurtà della Plebe
alla creazionc ile* Tribuni ; e quelli
ordinaronocon laute preminenze e tanta riputa-zione,
che potcssino essere sempre dipoi mezzi
intra la Plebe e il Senato, eovviare
alla insolenzia de’ Nobili. IV. — Che la
disunione della Plebe c del Senato romano
fece libera e polente quella Repubblica. H0U
njt fil ùi òVvil tf, ; il "iit* lo
non voglio mancare di discorrere sopra
questi tumulti che furono in Roma dalla
morte de’ Tarquini alla creazione de’ Tribuni; e
di poi alcune cose contro la oppinionc
di molti clic dicono. Roma esser stata
una repubblica tumultuaria, e piena di tanta
confusione, clicse la buona fortuna c la
virtù militare non avesse supplito a’ loro
difetti, sarebbe stata inferiore ad ogni
altra repubblica. Io non posso negare che
la fortuna e la milizia non fussero cagioni dell’imperio
romano; ma e’ mi pare bene, che costoro
non si avvegghino, clic dove è buona
milizia, conviene clic sia buono ordine, e
rade volte anco occorre clic non vi
sia buona fortuna. Ma vegniamo all i altri
particolari di quella città. Io dico clic
coloro clic dannano I tumulti intra i
Nobili c la Plebe, mi pare clic biasimino
quelle cose che furono prima cagione di
tenere libera Roma ; c clic considerino più
a’ romori ed alle grida clic di tali
tumulti nascevano, che a’ buoni effetti clic
quelli partorivano: e che non considerino come ei
sono in ogni repubblica duoi umori diversi,
quello del popolo, c quello dei grandi ; c
come tutte le leggi che si fanno in
favore delia libertà, nascono dalla disunione
loro, come facilmente si può vedere essere
seguito in Roma: perchè da’Tarquini ai
Gracchi, che furono più
di trecento anni, i tumulti di Roma rade volte
partorivano esilio, radissime sangue. Nè si
possono, per tanto, giudicare questi tumulti
nocivi, nè una repubblica divisa, che in
tanto tempo per le sue differenze non
mondò in esilio più che otto o dieci
cittadini, e ne ammazzò pochissimi, e non molti
ancora condennò in danari. Nè si può
chiamare in alcun modo, con ragione, una
repubblica inordinata, dove siano tanti esempi
di virtù; perchè li buoni esempi nascono
dalla buona educazione; la buona educazione dalle
buone leggi ; e le buone leggi da quelli
tumulti che molti inconsideratamente dannano:
perchè chi esaminerò bene il fine d’essi,
non troverà ch’egliabbino partorito alcuno
esilio o violenza in disfavore del comune
bene, ma leggi ed ordini in benefizio
della pubblica libertà. E se alcuno dicesse : i
modi erano straordinari, e quasi efferati, vedere
il Popolo insieme gridare contro il Senato, il
Senato contra il Popolo, correre tumultuariamente
per le strade, serrare le botteghe,
partirsi tutta la Plebe di Roma. le
quali tutte cose spaventano, nonclic altro,
chi legge; dico come ogni città debbe
avere i suoi modi, con i quali il
popolo possa sfogare l’ambizione sua, e massime
quelle ciltadi che uelle cose importanti si
vogliono valere del popolo: intra le quali
la città di Roma aveva questo modo,
che quando quel Popolo voleva ottenere una
legge, o e’ faceva alcuna delle predette cose, o
e’ non voleva dare il nome per andare
alla guerra, tanto che a placarlo bisognava
in qualche parte satisfargli. E i desiderò
de’ popoli liberi, rade volle sono
perniziosi alla libertà, perchè e’na- seono o
da essere oppressi, o da suspizionc di
avere a essere oppressi. E quando queste
oppinioni fussero false, e’ vi è il rimedio
delle concioni, che sorga qualche uomo da
bene, che, orando, dimostri loro come c’
s’ ingannano: e li popoli, come dice Tullio
CICERONE, benché siano ignoranti, sono capaci
della verità, e facilmente cedono, quando da
uomo degno di fede è detto loro il
vero. Debbesi, adunque, più parcamente biasimare
il governo romano, e considerare che tanti buoni
effetti quanti uscivano di quella repubblica,
non erano causati se non da ottime
cagioni. E se i tumulti furono cagione della
creazione dei Tribuni, meritano somma laude;
perchè, oltre al dare la parte sua all’
amministrazione popolare, furono constituiti per
guardia della libertà romana, come nel
seguente capitolo si mostrerà. V. Dove più
sccurnmentc si ponga la guardia della libertà , o
nel Popolo o ne * Grandi ; c c/uali hanno maggior
cagione di tumultuare , o chi vuole acquistare o
chi vuole mantenere. Quelli clic prudentemente
hanno constituita una repubblica, intra le
più necessarie cose ordinate da loro, è stato constituire
una guardia alla liberta: e secondo che
questa è bene collocala,dura più o meno
quel vivere libero. Eperché in ogni
repubblica sono uomingrandi e popolari, si è
dubitato nellemani di quali sia meglio
collocata dettaguardia. Ed appresso i Lacedemoni,
c,ne’ nostri tempi, appresso de’
Viniziani,la è stata messa nelle mani de’ Nobili
;ma appresso de’ Romani fu messa nellemani
della Plebe. Per tanto, è necessa-rio esaminare,
quale di queste repub-bliche avesse migliore
elezione. E se siandassi dietro alle
ragioni, ci è chedire da ogni pajte:
ma se si esaminassiil fine loro, si
piglierebbe la partede’ Nobili, per aver
avuta la libertà diSparla c di Vinegia
più lunga vita chequella di Roma. E
venendo alle ragio-ni, dico, pigliando prima
la parte de’ Ro-mani, come e’ si debbe
mettere in guar-dia coloro d’ una cosa,
che hanno menoappetito di usurparla. E
senza dubbio,se si considera il fine
de’ nobili e deiliignobili, si vedrà in
quelli desideriogrande di dominare, cd in
questi solodesiderio di non essere
dominati; e, perconseguente, maggiore volontà
di vivereliberi, potendo meno sperare d’
usurparla che non possono li granili:
tal-ché, essendo i popolani preposti a guar-dia d’ una
libertà, ò ragionevole neabbino più cura : e
non la putendo occu-pare loro, non
permettino clic altri laoccupi. Dall’ altra
parte, chi difendel’ordine sparlano e veneto,
dice cliccoloro che mettono la guardia
in inanode’ potenti, fanno due opere
buone:I’ una, che satisfanno più all’
ambizionedi coloro che avendo più parte
nellarepubblica, per avere questo bastone
inmano, hanno cagione di contentarsi più;I’
altra, clic bevano una qualità di au-torità
dagli animi inquieti della plebe,che è
cagione d’ infinite dissensioni escandali in
una repubblica, e alta a ri-durre la nobiltà a
qualche disperazio-ne, che col tempo faccia
cattivi eliciti.E ne danno per esempio la
medesimaRoma, che per avere i Tribuni
dellaplebe questa autorità nelle mani,
nonbastò loro aver un Consolo plcbeio,
chegli vollono avere ambedue. Da questo,c*
voltano la Censura, il Pretore, e tuttili
altri gradi dell’imperio della città:nè bastò
loro questo, chè, menati dalmedesimo
furore, cominciorno poi, coltempo, a adorare
quelli uomini che ve-devano atti a battere
la Nobiltà ; dondenacque la potenza di Alarlo,
e la rovinadi Roma. E veramente, chi
discorressebene I’ una cosa c l’ altra,
potrebbestare dubbio, quale da lui fusse
elettoper guardia tale di libertà, non
sapen-do quale qualità d’ uomini sia più
no-civa in una repubblica, o quella ohedesidera
acquistare quello che non ha,‘ o quella che
desidera mantenere V ono-re già acquistato. Ed
in fine, chi sot-tilmente esaminerà tutto,
ne farà que-sta conclusione: o tu ragioni
d’ unarepubblica che vogli fare uno
imperio,come Roma ; o d’ una che li
basti man-tenersi. Nel primo caso, gli è
necessa-rio fare ogni cosa come Roma; nel
se-condo, può imitare Yinegia e Spartaper quelle
cagioni, e come nel seguente capitolo si
dirà. .Ma, per tornare a di-scorrere quali
uomini siano in una re-pubblica piu nocivi,
o quelli clic desi-derano d’acquistare, o quelli
clic te-mono di perdere lo acquistato;
dicodie, scudo fatto Marco Meiiennio ditta-tore,
e Marco Fulvio maestro de’ caval-li, tutti duoi
plebei, per ricercare certecongiure clic si
erano falle in Capovaconlro a Roma, fu
dato ancora loro au-torità dal Popolo di
poter ricercare chiin Roma per ambizione e
modi straor-dinari s’ ingegnasse di venire
al con-solato, ed agli altri onori della città.
Eparendo alla Nobiltà, che tale
autoritàfusse data al Dittatore contro a
lei,sparsero per Roma, clic non i
nobilierano quelli che cercavano gli onoriper
ambizione e modi straordinari, magl’ ignobili, i
quali, non confidatisi nelsangue e nella
virtù loro, cercavano pervie straordinarie
venire a quelli gradi;e particolarmente accusavano
il Ditta-tore. E tanto fu potente questa
accusa, che Mencnnio, fatta una conclone c
do-lutosi deite calunnie dategli da* Nobilidepose
la dittatura, e sottomessesi aigiudizio che
di lui fussi fatto dal Po*polo; c
dipoi, agitala la causa sua, nefu
assoluto: dove si disputò assai, qualesia
più ambizioso, o quel che vuolemantenere o
quel che vuole acquistare;perchè facilmente
1* uno e V altro ap-petito può essere cagione
di tumultigrandissimi. Pur nondimeno, il
più dellevolte sono causali da chi
possiede, per-chè la paura del perdere
genera in lorole medesime voglie che
sono in quelliche desiderano acquistare;
perchè nonpare agli uomini possedere sicuramente
quello clic P uomo ha, se non si
acqui-sta di nuovo dell’ altro. E di più
vi è,che possedendo molto, possono con
mag-gior potenzia c maggiore moto fare alterazione.
Ed ancora vi è di più, che li loro
scorretti e ambiziosi portamenti accendono ne’
petti di chi non possiede voglia di
possedere, o per vendicarsi contro di loro
spogliandoli, o per potere ancora loro entrare
in quella ricchezza c in quelli onori clic
veggono essere male usati dagli altri. VI. —
Se in 1 ionia si poteva ordinare uno
stalo che togliesse via le inimicizie intra
il Popolo ed il Senato. Noi abbiamo
discorsi di sopra gli effetti che facevano
le controversie intra il Popolo ed il
Senato. Ora, sendo quelle seguitate in fino
al tempo de’ Gracchi, dove furono cagione
della rovina del vivere libero, potrebbe
alcuno desiderare che Roma avesse fatti gli
effetti grandi che la fece, senza che
in quella fussino tali inimicizie. Però mi
è parso cosa degna di considerazione, vedere
se in Roma si poteva ordinare uno
stato che togliesse via dette controversie.
Ed a volere esaminare questo, è necessario
ricorrere a quelle repubbliche le quali senza
tante inimicizie c tumulti sono state lungamente
libere, e vedere quale stato era il
loro, e se si poteva introdurre in
Roma. In esempio tra lì antichi ci è
Sparta, tra i moderni Yinegia, state da me
di sopra uominate. Sparla fece uno Re,
con unpicciolo Senato, che la governasse.
Vinegia non ha diviso il governo con
i nomi ; ma, sotto una appellazione, lutti quelli
che possono avere amministrazione si chiamano
Gentiluomini. Il quale modo lo dette il
caso, più che la prudenza di elùdette
loro le leggi: perchè, sendosi ridotti in
su quegli scogli dove è ora quella città,
per le cagioni dette di sopra, molti
abitatori; come furon cresciuti in tanto
numero, che a volere vivere insieme bisognasse
loro far leggi, ordinorono una forma di
governo; c convenendo spesso insieme ne’
consigli a deliberare della città, quando
parve loro essere tanti che fussero a
sufficienza ad un vivere politico, chiusono
la via a tutti quelli altri che vi
venissino ad abitare di nuovo, di potere
convenire ne’ loro governi: e, col tempo,
trovandosi in quel luogo assai abitatori
fuori del governo, per dare riputazione a
quelli clic governavano, gli chiamarono Gentiluomini, e
gli altri Popolani. Potette questo modo
nascere e mantenersi senza tumulto, perchè quando
e’ nacque, qualunque allora abitava in
Vinegia fu fatto del governo, di modo
che nessuno si poteva dolere; quelli che.
dipoi vi vennero ad abitare, trovando lo
Stato fermo c terminato, non avevano
cagione nè comodità di fare tumulto. La
cagione non y* era, perchè non era
stato loro tolto cosa alcuna: la comodità
non v’era, perché chi reggeva gli teneva
in freno, c non gli adoperava in cose
dove e’ potessino pigliare autorità. Oltre
di questo, quelli che dipoi vennono ad
abitare Vinegia, non sono stali molli, c di
tanto numero, che vi sia disproporzione da chi
gli governa a loro che sono governati;
perchè il numero de’ Gentiluomini o egli è eguale
a loro, o egli è superiore: sicché, per
queste cagioni, Vinegia potette ordinare
quello Stalo, e mantenerlo unito. Sparta, come
ho detto, essendo governata da un Re c
da una stretto Senato, potette mantenersi così lungo
tempo, perchè essendo in Sparta pochi abitatori,
ed avendo tolta la via n chi vi
venisse ad abitare, ed avendo prese le
leggi di Licurgo con reputazione, le quali
osservando, levavano via tutte le cagioni
de’ tumulti, poterono vivere uniti lungo
tempo: perchè Licurgo con le sue leggi
fece in Sparta più cqualità di sustanze, e
meno equalità di grado; perchè quivi
era una eguale povertà, ed i plebei erano
manco ambiziosi, perchè i gradi della città si distendevano
in pochi cittadini, ed erano tenuti
discosto dalla plebe, uè gli nobili col
trattargli male dettero mai loro desiderio
di avergli. Questo nacque dai Re spartani,
i quali essendo collocati in quel principato e
posti in mezzo diquella nobiltà, non
avevano maggiore ri-medio a tenere fermo la
loro degnità,ehc tenere la plebe difesa
da ogni in-giuria : il che faceva che
la plebe nontemeva, c non desiderava
imperio ; e nonavendo imperio nè temendo,
era levatavia la gara che la potessi
avere con !unobiltà, c la cagione de’
tumulti; e po-terono vivere uniti lungo tempo.
Ma duecose principali causarono questa unione:T
una esser pochi gli abitatori di Sparta,e
per questo poterono esser governatida
pochi; l’altra, che non accettandoforestieri
nella loro repubblica, non ave-vano occasione
nè di corrompersi, nè dicrescere in
tanto che la fusse insoppor-tabile a quelli
pochi che la governavano.Considerando, adunque,
tutte queste cose ,si vede come a’
legislatori di Roma eranecessario fare una
delle due cose, a vo-lere che Roma stessi
quieta come le so-praddette repubbliche: o non
adoperarela plebe in guerra, corne i
Viniziani;onon aprire la via a’ forestieri,
come gliSpartani. E loro feceno 1’una e
l’altra; il che dette alla plebe forza
ed augu-mento, ed infinite occasioni di
tumul-tuare. E se lo stato romano veniva
adessere più quieto, ne seguiva questo
in-conveniente, ch’egli era anco più debile,perchè
gli si troncava la via di
poterevenire a quella grandezza dove ei
per-venne: in modo che volendo Roma le-vare
le cagioni de’ tumulti, levava ancole
cagioni dello ampliare. Ed in tutte
lecose umane si vede questo, chi le
esa-minerà bene: che non si può mai
can-cellare uno inconveniente, che non nesurga
un altro. Per tanto, se tu vuoifare
un popolo numeroso ed armato perpotere
fare un grande imperio, lo faidi
qualità che tu non lo puoi poi
ma-neggiare a tuo modo: se tu lo mantienio
piccolo o disarmato per potere ma-neggiarlo, se
egli acquista dominio, nonlo puoi tenere, o
diventa sì vile, che tusei preda di
quaiunche ti assalta. E però,in ogni nostra
deliberazione si debbeconsiderare dove sono
meno inconve-nienti, c pigliare quello per
migliorepartito: perchè tutto netto, tutto
senzasospetto non si trova mai. Poteva,
adun-que, Roma a similitudine di Sparta fareun
Principe a vita, fare un Senato pic-colo;
ma non poteva, come quella, noncrescere
il numero de’ cittadini suoi, vo-lendo fare
un grande imperio; il chefaceva che
il- Re a vita ed il picciol nu-mero
del Senato, quanto alla unione, glisarebbe
giovato poco. Se alcuno volesse,per tanto,
ordinare una repubblica dinuovo, arebbe a
esaminare se volessech’ella ampliasse, come
Roma, di domi-nio e di potenza, ovvero
ch’ella stessedentro a brevi termini. Nel
primo caso,è necessario ordinarla come Roma,
edare luogo a’ tumulti e alle
dissensioniuniversali, il meglio che si
può; perchèsenza gran numero di uomini, e
benearmati, non mai una repubblica
potràcrescere, o se la crescerà, mantenersi.Nel
secondo caso, la puoi ordinare comeSparta c
come Yinegia: ma perchè l’anipitale è il
veleno di simili repubbliche, tlebbc, in
tutti quelli modi che si può,citi le
ordina proibire loro lo acquistare; perchè
tali acquisti fondati sopra
una repubblica debole, sono al tutto la rovina
sua. Come intervenne a Sparta ed a Yinegia :
delle quali la prima avendosi sottomessa
quasi tutta la Grecia, mostrò in su
uno minimo accidente il debole fondamento
suo ; perchè, seguita la ribellione di
Tebe, causata da Pelopitia, ribellandosi V
altre cittadi, rovinò al tutto quella
repubblica. Similmente Yinegia, avendo occupato
gran parte d’Italia, e la maggior parte non
con guerra ma con danari e con astuzia, come
la ebbe a fare prova delle forze sue,
perdette in una giornata ogni cosa. Crederei
bene, che a fare una repubblica che durasse
lungo tempo, fussi il miglior modo
ordinarla dentro come Sparla o come Yinegia ;
porla in luogo forte, e di tale potenza,
che nessuno cre-desse poterla subito opprimere; e
dal-l’altra parte, non fussi si grande, che
la fussi formidabile a’ vicini : c così
potrebbe lungamente godersi il suo stato. Perchè,
per due cagioni si fa guerra ad una
repubblica: Cuna per diventarne signore, l’altra
per paura ch’ella non ti occupi. Queste
due cagioni il sopraddetto modo quasi in
tutto toglie via; perchè, se la è difficile
ad espugnarsi, come io la presuppongo,
sendo bene ordinata alla difesa, rade volte
accadere, o non mai, che uno possa fare
disegno d’ acquistarla. Se la si starà
intra i termini suoi, e veggasi per esperienza,
che in lei non sia ambizione, non occorrerà
mai che uno per paura di sè gli
faccia guerra : e tanto più sarebbe questo, se e’
fusse in lei constituzione o legge che le
proibisse l’ampliare. E senza dubbio credo, clic
polendosi tenere la cosa bilanciata in
questo modo, che e’ sarebbe il vero vivere
politico, e la vera quiete di una città.
Ma scudo tutte le cose degli uomini
in moto, c non potendo stare salde,
conviene che le saglino o clic le scendino
; e a molte cose che la ragione non t'
induce, t’ induce lo necessità: talmente
che, avendo ordinata una repubblica atta a
mantenersi non ampliando, e la necessità la
conducesse ad ampliare, si verrebbe a torre
via i fondamenti suoi, ed a farla rovinare
più presto. Così, dall’altra parte, quando
il Cielo le fusse si benigno, che la
non avesse a fare guerra, ne nascerebbe
che l’olio la farebbe o effeminata o divisa;
le quali due cose insieme, o ciascuna per
sè, sorebbono cagione della sua rovina. Pertanto,
non si potendo, come io credo, bilanciare
questa cosa, nò mantenere questa via del
mezzo a punto ; bisogna, nello ordinare la
repubblica, pensare alla parte più onorevole;
ed ordinaria in modo, che quando pure
la necessità la inducesse ad ampliare, ella
potesse quello ch’ella avesse occupato, conservare.
E, per tornare al primo ragionamento, credo
che sia necessario seguire l'ordine romano, e
non quello dell’altre repubbliche; perchè trovare
un modo, mezzo infra l’uno e l’altro, non
credosi possa: e quelle inimicizie che
intra il popolo ed il senato nascessino,
tollerarle, pigliandole per uno inconveniente necessario
a pervenire alla romana grandezza. Perchè, oltre
all’ altre ragioni allegate dove si dimostra Y
autorità tribun zia essere stata necessaria
per la guardia della libertà, si può
facilmente considerare il benefizio che fa
nelle repubbliche l’autorità dello accusare, la
quale era intra gli altri commessa a’
Tribuni ; come nel seguente capitolo si
discorrerà. VII. Quanto siano necessarie inuna
repubblica le accuse per mante-nere la libertà.A
coloro che in una città sono preposti
per guardia della sua libertà, non si
può dare autorità più utile e necessaria,
quanto è quella di potere accasare i
cittadini ai popolo, o a qualunque magistrato o
consiglio, quando che pcccassino in alcuna
cosa contea allo stato libero. Questo
ordine fa duoi effetti utilissimi ad una
repubblica. Il primo è che i cittadini, per
paura di non essere accusati, non tentano
cose contro allo Stato: e tentandole, sono
incontinente e senza rispetto oppressi. 1/ altro è
che si dà via onde sfogare a quelli
umori che crescono nelle citladi, in
qualunque modo, contea a qualunque cittadino: e
quando questi umori non hanno onde sfogarsi
ordinariamente, ricorrono a’ modi straordinari, che fanno
rovinare in tutto una repubblica. G non è
cosa che faccia tanto stabile e ferma
una repubblica, quanto ordinare quella in
modo, che l’ alterazione di questi umori
che la agitano, abbia una via da
sfogarsi ordinata dalie leggi. Il che si
può per molti esempi dimostrare, e massime
per quello che adduce Livio di CORIOLANO,
dove ei dice, che essendo irritala contro
alla Plebe la Nobiltà romana, per parerle
che l Plebe avesse troppa autorità mediante la
creazione de’ Tribuni che la difendevano;
ed essendo Roma, come avviene, venuta in
penuria grande di vettovaglie, ed avendo il
Senato mandato per grani in Sicilia; Coriolano,
nimico alla fazione popolare, consigliò come egli
era venuto il tempo da potere
gastigare la Plebe, e torte quella autorità die
ella si aveva acquistata c in pregiudizio
della nobiltà presa, tenendola affamata, c non
li distribuendo il frumento; la qual
sentenza sendo venuta alii orecchi del
Popolo, venne in tanta indegnazione contro a
Coriolano, che allo uscire del Senato lo
arebbero tumultuariamente morto, se gli Tribuni non
1’ avessero citato a comparire a difendere la
causa sua. Sopra il quale accidente, si
nota quello che di sopra si è detto,
#quanto sia utile e necessario che le
repubbliche, con le leggi loro, diano onde
sfogarsi oli’ ira clic concepc la
universalità contra a uno cittadino; perchè
quando questi modi ordinari non vi siano,
si ricorre agli estraordinari; c senza dubbio
questi fanno molto peggiori effetti che non
fanno quelli. Perchè, se ordinariamente uno
cittadino è oppresso, ancora che li fusse
fatto torto, ne seguita o poco o nessuno
disordine in la repubblica: perchè la esecuzione
si fa senza forze private, e senza forze
forestiere, che sono quelle che rovinano il
vivere libero; ma si fa con forze ed
ordini pubblici, che hanno i termini loro
particolari, nè trascendono a cosa che rovini
la repubblica. E quanto a corroborare questa
oppinione con gli esempi, voglio che degli
antichi mi basti questo di Coriolano; sopra
il quale ciascuno consideri, quanto male saria resultato
alla repubblica romana, se tumultuariamente ci
fussi stato morto; perchè ne nasceva offesa
ila privati a privati, la quale offesa
genera paura; la paura cerca difesa; per
la difesa si procacciano i partigiani; dai
partigiani nascono le parti nelle cittadi; dalle parti
la rovina di quelle. Ma sendosi governata
la cosa mediante chi ne aveva autorità,
si vennero a tór via tutti quelli mali
che ne potevano nascere governandola con
autorità privata. Noi avemo visto ne’
nostri tempi, quale novità ha fatto alla
repubblica di Firenze non potere la
moltitudine sfogare l’ nniino suo ordinariamente
contra a un suo cittadino; come accadde nel
tempo di VALORI, clic era come principe
della città : il quale essendo giudicalo
ambizioso da molti, e uomo che volesse con
la sua audacia e animosità trascendere il
vivere civile; e non essendo nella repubblica
via a poterli resistere se non con una
setta contraria
alla sua ; ne nacque che non avendo paura
quello, se non di modi straordinari, si
cominciò a fare fautori che lo difendessino;
dall’ altra parte, quelli clic lo
oppugnavano non avendo via ordinaria a
reprimerlo, pensarono alle vie straordinarie :
intanto che si venne alle armi. E dove,
quando per l’ordinario si fusse potuto
opporseli, sarebbe la sua autorità spenta
con suo danno solo; avendosi a spegnere per
lo straordinario, seguì con danno non solamente suo,
ma di molti altri nobili cittadini. Potrebbesi
ancora allegare, a fortificazione della soprascritta
conclusione, l’ accidente seguito pur in Firenze
sopra SODERINI; il quale al tutto segui per
non essere in quella Repubblica alcuno modo
di accuse contra alla ambizione de’ potenti
cittadini: perchè lo accusare un potente a
otto giudici in una repubblica, non basta :
bisogna che i giudici siano assai, perchè pochi sempre
fanno a modo de’ pochi. Tanfo che, se
tali modi vi fussono stati, o icittadini
lo arebbono accusato, vivendo egli male; e
per tal mezzo, senza far venire l’ esercito
spagnuolo, arebbono sfogato l’animo loro: o non
vivendo male, non arebbono avuto ardire operarli
contra, per paura di non essere accusati
essi : e cosi sarebbe da ogni parte cessato
quello appetito che fu cagione di scandalo.
Tanto che si può concludere questo, che
qualunque volta si vede che le forze
esterne siano chiamate da una parte d’
uomini che vivono in una città, si
può credere nasca da’ cattivi ordini di
quella, per non esser dentro a quello
cerchio, ordine da potere senza modi
islraordinari sfogare i maligni umori che nascono
nelli uomini: a che si provvede al tutto
con ordinarvi le accuse alii assai giudici,
e dare riputazione a quelle. Li quali modi furono
in Roma sì bene ordinati, che in
tante dissensioni della Plebe e del Senato,
mai o il Senato o la Plebe o alcuno
particolare cittadino non disegnò valersi di
forze esterne; perche avendo il rimedio in
casa, non erano necessitati andare per quello
fuori. E benché gli esempi soprascritti
siano assai sufficienti a provarlo, nondimeno ne
voglio addurre un altro, recitato da L.
nella sua istoria: il quale riferisce come,
scudo stato in Chiusi, città in quelli
tempi nobilissima in TOSCANA, da uno
Lucumone violata una sorella di Aruntc, c
non potendo Arunte vendicarsi per la
potenia del violatore, se n'andò a trovare i
Franciosi, che allora regnavano in quello
luogo che oggi si chiama Lombardia; e
quelli confortò a venire con annata mano a
Chiusi, mostrando loro come con loro utile
lo potevano vendicare della ingiuria ricevuta :
che se Arunte avesse veduto potersi
vendicare con i modi della città, non
arebbe cerco le forre barbare. Ma come
queste accuse sono utili in una repubblica,
così sono inutili e dannose le calunnie ;
come nel capitolo seguente discorreremo. Vili. —
Quanto le accuse sono utili alle
repubbliche, tanto sono perniziose le
calunnie.Non ostante che la virtù di Cnmmillo,
poi ch’egli ebbe libera Roma dalla
oppressione de’ Franciosi, avesse fatto che tutti
i cittadini romani, parer loro tòrsi reputazione
o cedevano a quello; nondimeno MAULIO Capitolino
non poteva sopportare chegli fusse
attribuito tanto onore e tanta gloria;
parendogli, quanto alla salute di Roma, per
avere salvato il Campidoglio, aver meritato
quanto CAMMILLO; c quanto all’ altre belliche
laudi, non essere inferiore a lui. Di modo
che, carico d’ invidia, non potendo quietarsi per
la gloria di quello, c veggendo non potere
seminare discordia infra i Padri, si volse
alla Plebe, seminando varie oppinioni sinistre
intra quelfb. E intra V altre cose che
diceva, era come il tc-
soro il quale si era adunato insieme per
dare ai Franciosi, e poi non dato loro,
era stato usurpalo da privati cittadini ; e
quando si riavesse, si poteva convertirlo
in pubblica utilità, alleggerendo la Plebe
da’ tributi, o da qualche privato debito.
Queste parole poterono assai nella Plebe;
talché cominciò avere concorso, ed a fare u sua
posta tumulti assai nella città: la qual
cosa dispiacendo al Senato, e parendogli di
momento e pericolosa, creò uno Dittatore, perchè
ei riconoscesse questo caso, e frenasse lo
impeto di MANLIO. Onde che subito il
Dittatore lo fece citare, e eondussonsi in
pubblico all’incontro l’uno dell’altro; il Dittatore
in mezzo de’ Nobili, e MANLIO in mezzo
della Plebe. Fu domandato Manlio che
dovesse dire, appresso a chi fusse questo
tesoro che ei diceva, perchè ne era
cosi desideroso il Senato d’ intenderlo come
la Plebe: a che MANLIO non rispondeva
particularmenfe; ma, andando fuggendo, diceva
come non era
necessario dire loro quello die e’ si
sapevano: tanto che il Dittatore lo fece mettere
in carcere. È da notare per questo testo,
quanto siano nelle città libere, ed in
ogni altro modo di vivere, detestabili le
calunnie; e come per reprimerle, si debbe
non perdonare a ordine alcuno che vi faccia
a proposito. Nè può essere migliore ordine a
torle via, che aprire assai luoghi alle
accuse; perchè quanto le accuse giovano alle
repubbliche, tanto le calunnie nuocono: e dall’
altra parte è questa differenza, che le
calunnie non hanno bisogno di testimone, nè
di alcuno altro particulare riscontro a provarle,
in modo che ciascuno da ciascuno può essere
calunniato; ma non può già essere accusato,
avendo le accuse bisogno di riscontri veri,
e di circostanze, che mostrino la verità
dell’ accusa. Accusatisi gli uomini a’
magistrati, a’ popoli, a’ consigli ; calunniatisi per
le piazze è per le logge. Usasi più
questa calunnia dove si usa meno 1’
accusa, c dove le città sono meno ordinate
a riceverle* Però, uno ordinatore d’ una
repubblica debbe ordinare che si possa in
quella accusare ogni cittadino, senza alcuna
paura o senza alcuno sospetto; e fatto questo e
bene osservato, debbe punire aeremente i
calunniatori: i quali non si possono dolere
quando siano puniti, avendo i luoghi aperti a
udire le accuse di colui che gli
avesse per le logge calunniato. E dove non
è bene ordinata questa parte, seguitano sempre
disordini grandi : perchè le calunnie irritano, c
non castigano i cittadini; e gli irritali pensano
di valersi, odiando più presto, che temendo
le cose che si dicono contea a loro.
Questa parte, come è detto, era bene
ordinata in Roma ; ed è stata sempre
male ordinala nella nostra città di FIRENZE.
E come a Roma questo ordine fece molto
bene, a FIRENZE questo disordine fece molto male.
E chi legge le istorie di questa città, vedrà
quante calunnie sono state in ogni tempo
date a’ suoi cittadini che si sono adoperati
nelle cose importanti di quella. Dell’ uno
dicevano, ch’egli aveva rubati danari al
comune; dell’ altro, che non aveva vinto
una impresa per essere stato corrotto; e
che quell’ altro per sua ambizione aveva
fatto il tale e tale inconveniente. Del
che ne nasceva che da ogni parte ne
surgeva odio : donde si veniva alla
divisione; dalla di- visione alle sètte; dalle
sètte alla rovina. Che se fusse stato
in Firenze ordine d’ accusare i cittadini, c
punire i calunniatori, non seguivano infiniti
scandali che sono seguiti: perchè quelli
cittadini, o condennati o assoluti che russino, non
arebbono potuto nuocere alla città; e sarebbono
stati accusati meno assai clic non ne
erano calunniali, non si potendo, come ho
detto, accusare come calunniare ciascuno. Ed
intra l’ altre cose di clic si è valuto
alcuno citadino per ventre alla grandezza
sua, sono state queste calunnie: le quali
venendo conira a’ cittadini potenti che allo
appetito suo si opponevano, facevano assai
per quello; perchè, pigliando la parte del
Popolo, e confirmandolo nella mala oppiatone eh’
egli aveva di loro, se lo fece amico.
E benché se ne potesse addurre assai
esempi, voglio essere contento solo d’ uno.
Era lo esercito fiorentino a campo a Lucca,
coman- dato da GUICCIARDINI (si veda), commissario di
quello. Vollono o i cattivi suoi governi, o la
cattiva sua fortuna, che Ja espugnazione di
quella città non seguisse. Pur, comunque il caso
stesse, ne fu incolpato inesser Giovanni,
dicendo com’ egli era stato corrotto da’
Lucchesi: la quale calunnia sendo favorita
da’ nimici suoi, condusse messer Giovanni
quasi in ultima disperazione. E benché, per
giustificarsi, ei si volessi mettere nelle
mani del Capitano; nondimeno non si potette
mai
giustificare, per non essere modi in quella
repubblica da poterlo fare. Di che ne nacque
assai sdegno intra li amici di messer
Giovanni, che erano la maggior parte delli
uomini Grandi, ed infra coloro che
desideravano fare novità in Firenze. La
qual cosa, e per queste e per altre simili
cagioni, tanto crebbe, che ne seguì la
rovina di quella repubblica. Era dunque MANLIO
Capitolino calunniatore, e non accusatore*, ed i Romani
mostrarono in questo caso appunto, come i
calunniatori si debbono punire. Perchè si
debbe fargli diventare accusatori; e quando 1’
accusa si riscon- tri vera, o premiarli, o non
punirli : ma quando la non si
riscontri vera Uf»5 IX. Come egli è
necessario esser solo a volere ordinare una
repubblica di nuovo , o al lutto fuori delti
antichi suoi ordini riformarla.
E’ porrà forse ad alcuno,- che io sia
troppo trascorso dentro nella istoria romana,
non avendo fatto alcuna menzione ancora
degli ordinatori di quella Repubblica, nè
di quelli ordini che o alla religione o
alla milizia riguardassero. E però, non
volendo tenere più sospesi gli animi di
coloro che sopra questu parte volessino
intendere alcune cose; dico, come molti per
avventura giudicheranno di cattivo esempio, che
uno fondatore d’ un vivere civile, quale è
ROMOLO, abbia prima morto un suo fratello,
dipoi consentito alla morte di Tito TAZIO Sabino,
eletto da lui compagno nel regno; giudicando
per questo, che gli suoi cittadini potessero
con T autorità del loro principe, per
ambizione e desiderio di comandare, offendere
quelli che alla loro autorità si
opponessino. La quale oppinionc sarebbe
vera, quando non si considerasse che line
l’avesse indotto a fare lai OMICIDIO. E debbesi
pigliare questo per una regola generale:
clic non mai o di rado occorre che
alcuna repubblica o regno sia da principio
ordinato bene, o al tutto di nuovo
fuori delti ordini vecchi riformato, se non
è ordinato da uno; anzi è necessario che
uno solo sia quello clic dia il modo,
e dalla cui mente dependa qualunque simile
ordinazione. Però, uno prudente ordinatore d’ una
repubblica, e che abbia questo animo di
volere giovare non a sé ma al BENE COMUNE,
non alla sua propria successione ma alla
comune patria, debbe ingegnarsi di avere l’autorità
solo; nè mai uno ingegno savio riprenderà
alcuno di alcuna azione istraordinaria, che
per ordinare un regno o constituire una
repubblica usasse. Conviene bene, che,
accusandolo il fallo, lo effetto lo scusi ;
e quando sia buono,
come quello di ROMOLO, sempre lo scuserà:
perchè colui che è violento per guastare,
non quello che è per racconciare, si debbe
riprendere. Debbe bene in tanto esser
prudente e virtuoso, che quella autorità che
si ha presa, non la lasci ereditaria
ad un altro : perchè, essendo gli uomini
più proni al male che al bene,
potrebbe il suo successore usare ambiziosamente
quello che da lui virtuosamente fusse stato
usato. Oltre di questo, se uno è atto
ad ordinare, uoti è la cosa ordinata per
durare molto, quando la rimanga sopra le
spalle d’ uno; ma si bene, quando la
rimane alla cura di molti, e che a molti
stia il mantenerla. Perchè, cosi come molti
non sono atti ad ordinare una cosa,
per non conoscere il bene di quella,
causato dalle diverse oppinioni che sono
fra loro; cosi conosciuto che lo hanno,
non si accordano a lasciarlo. E che ROMOLO fusse
di quelli che NELLA MORTE DEL FRATELLO e del
compagno meritasse scusa; e che quello che
fece, fusse per IL BENE COMUNE, e non per
ambizione propria ; lo dimostra lo avere
quello subito ordinato uno Senato, con il
quale si consigliasse, e secondo l’oppinione del
quale deliberasse. E chi considera bene P autorità
che ROMOLO si riserbò, vedrà non se
ne essere riserbata alcun’ altra che comandare
alli eserciti quando si era deliberata la
guerra, e di ragunare il Senato. Il che
si vide poi, quando Roma divenne libera
per la cacciata de’ Tarquini; dove da’
Romani non fu innovato alcun ordine dello
antico, se non che in luogo d’ uno
Re perpetuo, fussero duoi Consoli annuali;
il che testifica, tutti gli ordini primi
di quella città essere stati più conformi
ad uno vivere civile e libero, che ad
uno assoluto e tirannico. Polrebbesi dare in corroborazione
delle cose sopraddette infiniti esempi; come
Licurgo, Solonc, ed nitri fondatori di
regni e di repubbliche, i quali poterono, per
aversi attribuito un’ autorità, formare leggi a proposito
del bene comune; ma gli voglio lasciare
indietro, come cosa nota. Addurronne solamente •
uno, non si celebre, ma da
considerarsi per coloro che desiderassero essere
di buone leggi ordinatori: il quale è,
che desiderando Agide re di Sparta ridurre
gli Spartani intra quelli termini che le
leggi di Mcurgo gli avessero rinchiusi, parendoli
che per esserne in parte deviati, la
sua città avesse perduto assai di quella
antica virtù, e, per conseguente, di forze
e d’ imperio ; fu ne' suoi primi
principii ammazzato dalli Efori spartani, come
uomo che volesse occupare la tirannide. .Ma
succedendo dopo lui . nel regno Cleomene c
nascendogli il medesimo desiderio per gli
ricordi e scritti eh’ egli aveva trovati di
Agide, dove si vedeva quale era la
mente ed intenzione sua, conobbe non potere
fare questo bene alla sua patria se
non diventava solo di autorità; parendogli,
per 1* arabizione degli uomini, non
potere fare utile a molti contra alla
voglia di pochi: e presa occasione
conveniente, fece ammazzare tutti gli Efori, e
qualunque altro gli potesse contrastare ; dipoi
rinnovò in tutto le leggi di Licurgo. La quale
deliberazione era atta a fare risuscitare Sparta,
e dare a Clcomcne quella reputazione che ebbe
Licurgo, se non fussc stato la potenza
de’ Macedoni e la debolezza delle altre
repubbliche greche. Perchè, essendo dopo tale
ordine assaltato da’ Macedoni, e trovandosi per
sè stesso inferiore di forze, c non avendo
a chi rifuggire, fu vinto; e restò quel suo
disegno, quantunque giusto e laudabile, imperfetto. Considerato
adunque tutte queste cose, conchiudo, come a
ordinare una repubblica è necessario essere solo;
c ROMOLO per LA MORTE DI REMO E DI TAZIO meritare iscusa, e
non biasmo. X. — Quanto sono laudabili *
fondatori d* una repubblica o dJ uno regno, tanto
quelli dJ una tirannide sono vituperabili. Intra
tutti gli uomini laudati, sono i laudatissimi
quelli die sono stati capi e ordinatori
delle religioni. Appresso dipoi, quelli che
hanno fondato o repubbliche o regni. Dopo costoro,
sono celebri quelli che, preposti alti
esercìti, hanno ampliato o il regno loro, o
quello della patria. A questi si aggiungono
gli uomini iilterati; e perchè questi sono
di più ragioni, sono celebrati ciascuno d’
essi secondo il grado suo. A qualunque
altro uomo, il numero de’ quali è infinito,
si attribuisce quut* che parte di laude,
la quale gli arreca l’ arte e V esercizio
suo. Sono, per lo contrario, infumi e
detestabili gli uomini destruttori delle
religioni, dissipatori de’ regni e delie
repubbliche, ini-
mici delle virtù, delle lettere, e d'ogni altra
arte che arrechi utilità ed onore alla
umana generazione; come sono gli empii e
violenti, gl* ignoranti, gli oziosi, i vili, e i
dappochi. E nessuno sarà mai sì pazzo o si
savio, si tristo o si buono, che,
propostogli la elezione delle due qualità
d’ uomini, non laudi quella che è da
laudare, e Biasini quella che è da
biasmare: nientedimeno, dipoi, quasi tutti,
ingannati da un falso bene e da una
falsa gloria, si lasciano andare, o
voluntariamente o ignorantemente, ne’ gradi di coloro
che meritano più biasimo che laude; c
potendo fare, con perpetuo loro onore, o
una repubblica o un regno, si volgono alla
tirannide: nè si avveggono per questo partito quanta
fama, quanta gloria, quanto onore, sicurtà,
quiete, con satisfazione d’animo, e’fuggono; e in
quanta infamia, vituperio, biasimo, pericolo e
inquietudine incorrono. Ed è impossibile che quelli
che in stato privato vivono in una repubblica,
o che per fortuna o virtù ne diventano
principi, se leggcssino l’ istorie, e delle
memorie delle antiche cose facessino capitale,
che non volessero quelli tali privati,
vivere nella loro patria piuttosto Soipioni
che Cesari; e quelli che sono principi, piuttosto
Agesilai, Timolconi e Dioni, clic Nabidi, Falari
e Dionisi : perchè vedrebbono questi essere
sommamente vituperati, e quelli eccessivamente laudati. Vedrebbono
ancora come Timoleone e gli altri non
ebbero nella patria loro meno autorità che
si avessiuo Dionisio e Falari; ma vedrebbono
di lungo avervi avuto più sicurtà. Nè
sia alcuno che si inganni per la
gloria di Cesare, sentendolo, massime, celebrare
dagli scrittori: perchè questi che lo
laudano, sono corrotti dalla fortuna sua, e
spauriti dalla lunghezza dello imperio, il
quale reggendosi sotto quel nome, non permetteva
che gli scrittori parlassero liberamente di
lui. Ma chi vuole conoscere quello che
gli scrittori liberi ne direbbono, vegga
quello che dicono di CATILINA. E tanto è
più detestabile GIULIO (si veda) CESARE , quanto più è
da biasimare quello che ha fatto, che
quello che ha voluto fare un inule.
Vegga ancora con quante laudi celebrano BRUTO (si
veda); talché, non potendo biasimare quello
per la sua potenza, e’ celebrano il nemico
suo. Consideri ancora quello eh’ è diventato
principe in una
repubblica, quante laudi, poiché ROMA fu
diventata imperio, meritarono più quelli
imperadori che vissero sotto le leggi e
come principi buoni, che quelli che vissero
al contrario: e vedrà come a Tito, Nerva,
Traiano, ADRIANO, Antonino e Marco, non erano
necessari i soldati pretoriani nè la moltitudine
delle legioni a difenderli, perchè i costumi L loro,
la benivolenza del Popolo, lo amore i del
Senato gli difendeva. Vedrà ancora come a
Caligola, Nerone, Vitellio, ed a tanti
altri scellerati imperadori, non bastarono gli
eserciti orientali ed occidenItili a salvarli
conira a quelli nemici, che li loro rei
costumi, la loro malvagia vita aveva loro
generati. E se la istoria di costoro fusse
ben considerata, sarebbe assai ammaestramento a
qualunque priucipe, a mostrargli la via
della gloria o del biasmo, e della sicurtà
o del timore suo. Perchè, di ventisei
imperadori che furono da Cesare a Massimiuo,
sedici ne furono ammazzati, dicci morirono
ordinariamente; c se di quelli che furono morti
ve ne fu alcuno buono, come Galba e
Pertinace, fu morto da quella corruzione
che lo antecessore suo aveva lasciata nc’
soldati. E se tra quelli che morirono
ordinariamente ve ne fu alcuno scellerato, nome
Severo, nacque da una sua grandissima
fortuna e virtù ; le quali due cose pochi
uomini accompagnano. Vedrà ancora, per la
lezione di questa istoria, come si può
ordinare un regno buono: perchè tutti gl'
imperadori che succederono all* imperio per
eredità, eccetto Tito, furono cattivi ; quelli
che per
adozione, furono tutti buoni, come furono quei
cinque da Nervo a Marco: e come P imperio
cadde negli eredi, ei ritornò nella sua
rovina. Pongasi, adunque, innanzi un principe i
tempi da Nerva a Marco, e conferiscagli con
quelli che erano stati prima e che furono
poi; edipoi elegga in quali volesse
essere nato,o a quali volesse essere preposto.
Per-chè in quelli governali da’ buoni, vedràun
principe sicuro in mezzo de’ suoi si-curi
cittadini, ripieno di pace e di giu-stizia
il mondo: vedrà il Senato con lasua
autorità, i magistrati con i suoi ono-ri ;
godersi i cittadini ricchi le loro ric-chezze ;
la nobiltà c la virtù esaltata :vedrà
ogni quiete ed ogni bene; e, dal-l’altra
parte, ogni rancore, ogni licenza,corruzione e
ambizione spenta: vedrà itempi aurei, dove
ciascuno può tenere edifendere quella
oppinione che vuole. Ve-drà, in fine,
trionfare il mondo; pienodi riverenza e di
gloria il principe,d’ amore e di sveurilà i
popoli. Se con-sidererà, dipoi, tritamente i tempi
deglialtri imperadori, gli vedrà atroci per
leguerre, discordi per le sedizioni,
nellapace e nella guerra crudeli: tanti prin-cipi
morti col ferro, tante guerre civili,tante
esterne ; P Italia afflitta, e piena dinuovi
infortunii ; rovinate e saccheggiatele città di
quella. Vedrà Roma arsa, ilCampidoglio da’
suoi cittadini disfatto,desolati gli antichi
templi, corrotte lecerimonie, ripiene le
città di adulterii:vedrà il mare pieno
di esilii, gli scoglipieni di sangue.
Vedrà in Roma seguireinnumerabili crudeltadi ; e
la nobiltà, le ricchezze, gli onori, e
sopra tutto ia virtùessere imputata a
peccato capitale. Ve-drà premiare li accusatori,
essere corrotti i sèrvi contro al signore, i
liberi contro al padrone; e quelli a chi
fusscro mancati i nemici, essere oppressi dagli
amici. E conoscerà allora benissimo quanti
obblighi Roma, Italia, e il mondo abbia con
Cesare. E senza, dubbio, se e* sarà nato
d’uomo, si sbigottirà I da ogni imitazione
dei tempi cattivi, c accenderassi d’uno
immenso desiderio di
seguire i buoni. E veramente, cercando un
principe la gloria del mondo, doverrebbe
desiderare di possedere una città corrotta,
non per guastarla in tutto come Cesare,
ma per riordinarla come lloinolo. E
veramente i cieli non possono dare all i uomini maggiore
occasione di gloria, nè li uomini la
possono maggiore desiderare. E se, a volere
ordinare bene una città, si avesse di
necessità n dcporrc il principato, meriterebbe
quello clic non la ordinasse, per non
cadere di quel grado, qualche scusa: ma
potendosi tenere il principato ed ordinarla, non
si merita scusa alcuna. E in somma,
considerino quelli a chi i cieli danno tale
occasione, come sono loro proposte due vie:
1’ una che gli fa vivere
sicuri, e dopo la morte gli rende gloriosi
; I’ altra gli fa vivere in continove angustie,
e dopo la morte lasciare di sè una
sempiterna infamia. XI. — Delta religione de*
Romani. Ancora che Roma avesse il primo suo
ordinatore ROMOLO, e che da quello abbia
riconoscere come figliuola il nascimento e la
educazione sua; nondimeno, giudicando i cieli che
gli ordini di ROMOLO non bastavano a tanto
imperio, niessono nel petto del Senato
romano di eleggere NUMA (si veda) Pompilio per SUCCESSORE
A ROMOLO, acciocché quelle cose che da lui
fossero state lasciate indietro, fossero da
Numa ordinate. II quale trovando un popolo
ferocissimo, e volendolo ridurre nelle ubbidienze
civili con le arti della pace, si
volse alla religione, come oosa al tutto
necessaria a volere mantenere una civiltà ; e la
costituì in modo, che per più secoli
non fu mai tanto timore di Dio quanto
in quella Repubblica : ilche facilitò
qualunque impresa che ilSenato o quelli
grandi uomini romanidisegnassero fare. E ehi
discorrerà in-finite azioni, e del popolo
di Roma lutto insieme, e di molli de’
Romani di per sé, vedrà come quelli
cittadini temevano più assai rompere il
giuramento che le leggi ; come coloro
clic stimavano più la potenza di Dio,
che quella degli uomini: come si vede
manifestamente per gli esempi di SCIPIONE e
di MANLIO TORQUATO. Perchè, dopo la rotta che
Annibale aveva dato a’ Romani a Canne, molti
cittadini si erano adunati insieme, c sbigottiti
e paurosi si erano convenuti abbandonare l’ITALIA,
e girsene in Sicilia: il che sentendo SCIPIONE,
gli andò a trovare, e col ferro ignudo
in mano gli costrinse a giurare di non
abbandonare la patria. LUCIO MANLIO, padre di TITO MANLIO, che fu
dipoi chiamato Torquato, era stato accusato
da MARCO POMPONIO, Tribuno della plebe ; ed
innanzi che venissi il di del giudizio,
Tito andò a trovare Marco, e minacciando d’
ammazzarlo se non giurava di levare
l’accusa al padre, lo costrinse al
giuramento ; e quello,
per timore avendo giurato, gli levò
t'accusa. E cosi quelli cittadini i quali l'amore
della patria e le leggi di quella non
ritenevano in ITALIA, vi furon ritenuti da
un giuramento che furono forzati a pigliare; e
quel Tribuno pose da parte l'odio che
egli aveva col padre, la ingiuria che
gli aveva fatta il figliuolo, c i’ onore
suo, per ubbidire al giuramento preso: il
che non nacque da altro, che da
quella religione che Numa aveva introdotta
in quella città. E vedesi, chi considera
bene le istorie romane, quanto serviva la
religione a comandare agli eserciti, a riunire la
plebe, a mantenere gli uomini buoni, a fare vergognare
li tristi. Talché, se si avesse a disputare
a quale principe Roma fusse più obbligata, o a ROMOLO
o a Numa, credo più tosto Numa otterrebbe
il primo grado: perchè dove è religione,
facilmente si possono introdurre l’armi; e dove
sono l’armi e non religione, con diflìcultà
si può introdurre quella. E si vede che a ROMOLO
per ordinare il Senato, e per fare altri
ordini civili e militari, non gli fu
necessario dell’ autorità di Dio; ma fu
bene necessario a Numa, il quale simulò di
avere congresso con una Ninfa, la quale
lo consigliava di quello ch’egli avesse a
consigliare il popolo : e tutto nasceva perchè
voleva mettere ordini nuovi ed inusitati in quella
città, e dubitava che la sua autorità non
bastasse. G veramente, mai non fu alcuno
ordinatore di leggi straordinarie in uno
popolo, che non ricorresse a Dio ; perchè
altrimenlc non sarebbero accettate: perchè sono
molli beni conosciuti da uno prudente, i
quali non hanno in sè ragioni evidenti
da potergli persuadere ad altri. Però gli
uomini savi, che vogliono torre questa
diflìcultà, ricorrono a Dio. Cosi fece Licurgo,
cosi Solone, cosi molti altri che hanno
avuto il medesimo fine di loro. Ammirando, adunque,
il popolo romano la bontà e la prudenza
sua, cedeva ad ogni sua deliIterazione, Ben
è vero che l’essere quelli tempi pieni di
religione, e quelli uomini, con i quali egli
aveva a travagliare, grossi, gli detlono facilità
grande a conseguire i disegni suoi, potendo imprimere
in loro facilmente qualunche nuova forma. E
senza dubbio, ehi volesse ne’presenti tempi
fare una repubblica, più facilità troverebbe
negli uomini montanari, dove non è alcuna
civilità, che in quelli che sono usi a
vivere nelle città, dove la civilità è
corrotta: ed uno scultore trarrà più
facilmente una bella statua d’ uno marmo
rozzo, che d’ uno male abbozzato d’altrui.
Considerato adunque tutto, conchiudo che la
religione introdotta da Piuma fu intra le
primecagioni della felicità di quella
città: perchè quella causò buoni ordini; i buoni ordini
fanno buona fortuna ; e dalla buona fortuna
nacquero i felici successi delle imprese. E come
la osservanza del culto divino è cagione
delia grandezza delle repubbliche, cosi il
dispregio di
quella è cagione della rovina d’esse. Perchè,
dove manca il timore di Dio, conviene
che o quel regno rovini, o che sia
sostenuto dal timore d’ un principe che
supplisca a’ difetti della religione. E perchè i
principi sono di corta vita, conviene che
quel regno manchi presto, secondo che manca
la virtù d’ esso. Donde nasce che i
regni i quali dependono solo dalla virtù d’
uno uomo, sono poco durabili, perchè quella
virtù manca con la vita di quello ; e
rade volte accade che la sia rinfrescata
con la successione, come prudentemente ALIGHIERI (si
veda) dice: tt Rade volte risurge per li
ramiL'umana probitade: e questo vuoloQuel che
la dà, perchè da lui si chiami.
„Non è, adunque, la salute di una
repubblica o d’uno regno avere uno principe che
prudentemente governi mentre vive ; ma uno
che l’ordini in modo, clic, morendo ancora,
la si mantenga. E benché agli uomini rozzi
più facilmente si persuade uno ordine o una
oppinione nuova, non è per questo
impossibile persuaderla ancora agli uomini
civili, e che si presumono non essere
rozzi. Al popolo di Firenze non pare
essere nè ignorante nè rozzo: nondimeno da
frate Girolamo Savonarola fu persuaso che parlava
con Dio. lo non voglio giudicare s’egli
era vero o no, perchè d’ un tanto uomo
se ne debbe parlare con reverenza : ma
io dico bene, che infiniti lo credevano,
senza avere visto cosa nessuna istraordinaria
da farlo loro credere; perchè la vita
sua, la dottrina, il soggetto che prese,
erano sufhzienti a fargli prestare fede.
Non sia, pertanto, nessuno che si
sbigottisca di non potere conseguire quello
che è stato conseguito da altri ; perchè
gli uomini, come nella Prefazione nostra si
disse, nacquero, vissero e morirono sempre con
un medesimo ordine. XIF. — Di quanta importanza
sia tenere conto della religione j e come la
Italia per esserne mancata mediante la
Chiesa romana y è rovinata. Quelli principi, o quelle
repubbliche, le quali si vogliono manienere
incorrotte, hanno sopra ogni altra cosa a
mantenere incorrotte le cerimonie della religione, e
tenerle sempre nella loro venerazione; perchè
nissuno maggiore indizio si puote avere
della rovina d’una provincia, che vedere
dispregiato il culto divino. Questo è facile a
intendere, conosciuto che si è in su che
sia fondata la religione dove V uomo è
nato; perchè ogni religione ha il
fondamento della vita sua in su qualche
principale ordine suo. La vita della
religione gentile era fondata sopra i responsi
delti oracoli e sopra la setta delli aridi
e delli aruspici: tutte le altre loro cerimonie, sacrifìcii,
riti, dependevano da questi; perchè loro
facilmente credevano che quello Dio che ti
poteva predire il tuo futuro bene o il
tuo futuro male, te lo potessi ancora
concedere. Di qui nascevano i tempii, di
qui i sacrifici!, di qui le supplicazioni,
ed ogni altra cerimonia in venerarli:
perchè l’oracolo di Deio, il tempio di GIOVE
Aminone, ed altri celebri oracoli, tenevano
il mondo in ammirazione, e devoto. Come costoro cominciarono
dipoi a parlare n modo de’ potenti, e questa
falsità si fu scoperta ne’ popoli,
divennero gli uomini increduli, ed atti a
perturbare ogni ordine buono. Debbono,
adunque, i Principi d’uria repubblica o d’un
regno, i fondamenti della religione che
loro tengono, mantenerli; e fatto questo, sarà loro
facil cosa a mantenere la loro repubblica
religiosa, e, per conseguente, buona ed
unita. C debbono, tutte le cose che nascono
in favore di quella, come che le
giudicassino false, favorirle ed accrescerle; e tanto
più Io debbonofare, quanto più prudenti
sono, e quanto più conoscitori delle cose
naturali. E perchè questo modo c stato osservato dagli
uomini savi, ne è nata l’oppinione dei
miracoli, che si celebrano nelle religioni
eziandio false: perchè i prudenti gli aumentano,
da qualunche principio e’ si nascano; e
l’autorità loro dà poi a quelli fede
appresso a qualunque. Di questi miracoli ne
fu a Roma assai; e intra gli altri
fu, che saccheggiando i soldati romani la
città de’ Veienti, alcuni di loro entrarono
nel tempio di Giunone, ed accostandosi alla
immagine di quella, e dicendole vis venire Romani
,parve od alcuno vedere che la accennasse;
ad alcun altro, che ella dicesse di
si. Perchè, sendo quelli uomini ripieni di
religione (il che dimostra L. perchè
nell’entrare nel tempio,
vi entrarono senza tumulto, tutti devoti e
pieni di reverenza), parve loro udire quella
risposta che alla domanda loro per
avventura si avevano presupposta : la quale
oppiuione e credulità, da Cammillo e dagli
altri principi della città fu ni tutto
favorita ed accresciuta. La quale religione
se ne’ Principi della repubblica cristiana si
fusse mantenuta, secondo che dal datore d’
essa ne fu ordinato, sarebbero gli stati e
le repubbliche cristiane più unite e più
felici assai ch’elle non sono. Nè si
può fare altra maggiore conieltura della
declinazione d’essa, quanto è vedere come quelli
popoli che sono più propinqui alla Chiesa
romana, capo della religione nostra, hanno meno religione.
E chi considerasse i fondamenti suoi, e vedesse l’
uso presente quanto è diverso da quelli,
giudicherebbe esser propinquo, senza dubbio, o la
rovina o il flagello. E perchè sono alcuni
d’oppinione, che ’l ben essere delle cose
d’ Italia dipende dalla Chiesa di Roma,
voglio contro ad essa discorrere quelle
ragioni che mi occorrono :e ne allegherò
due potentissime, le quali, secondo me, non
hanno repugnanza. La, prima è, che per
gli esempi rei di quella i corte, questa
provincia ha perduto oguI divozione ed ogni
religione: il clic si i lira dietro
infiniti inconvenienti e infi-niti disordini; perchè,
così come religione si presuppone ogni bene, dove
ella manca si presuppone il contrario.
Abbiamo, adunque, con la Chiesa e con i
preti noi Italiani questo primo obbligo,
d’essere diventati senza religione c cattivi: ma
ne abbiamo ancora un maggiore, il quale è
cagione della rovina nostra. Questo è die
la Chiesa ha tenuto e tiene questa nostra
provincia divisa. E veramente, alcuna provincia non fu
mai unita o felice, se la non viene
tutta alla obedienza d’ una repubblica o
d’uno principe, come è avvenuto alla Francia. E
la cagione che la Italia non sia in
quel medesimo termine, nè abbia aneli’ ella
o una repubblica o uno principe che la governi,
è solamente la Chiesa ; perchè, avendovi abitalo
e tenuto imperio temponile, non è stata sì
potente nè dì tal virtù, che l'abbia
potuto occupare il restante d’Italia, e farsene
principe; e non è stata, dall’altra parte,
si debile, che, per paura di non
perder il dominio delie cose temporali, la
non abbi potuto convocare uno potente che
la difenda contra a quello che in Italia
fusse diventato troppo potente: come si è veduto
anticamente per assai esperienze, quando mediante
Carlo Magno la ne cacciò i Lombardi, eh’
era no già quasi re di tutta Italia;
e quando ne’ tempi nostri ella tolse la
potenza a’ Veneziani con l’aiuto di
Francia; dipoi ne cacciò i Franciosi eoa
l’aiuto de’ Svizzeri. Non essendo, dunque, stata
la Chiesa potente da potere occupare l’
Italia, nè avendo permesso che un altro
la occupi, è stata cagione che la non è
potuta venire sotto un capo; ma è stata
sotto più principi e signori, da’ quali è nata
tanta disunione e tanta debolezza, che la
si è condotta ad essere stata preda, non
solamelile di barbari polenti, ma di
qualunque I* assalta. Di clic noi altri
Italiani abbiamo obbligo con la Chiesa, c non con
altri. E chi ne volesse per esperienza certa
vedere più pronta la verità, bisognerebbe
che fusse di tanta potenza, che mandasse
ad abitare la corte romana, con l’autorità
che l’ha in Italia, in le terre de’
Svizzeri; i quali oggi sono quelli soli popoli
che vivono, e quanto alla religione e quanto
agli ordini militari, secondo gli antichi : e
vedrebbe che in poco tempo furebbero più
disordine in quella provincia i costumi tristi
di quella corte, che qualunchc altro
accidente clic in qualunche tempo vi
potessi surgere. XIII. — Come t Romani si
servirono della religione per ordinare la città,
e per seguire le loro imprese e fermare i
tumulti.Ei non mi pare fuor di
proposito ad-durre alcuno esempio dove i Romani
si
servirono della religione per riordinare la
cillà, e per seguire l’imprese loro; e quantunque
in L. ne siano molti, nondimeno voglio
essere contento a questi. Avendo creato il
Popolo romano i Tribuni, di potestà
consolare, e, fuorché uno, tutti plebei; ed
essendo occorso quello anno peste c fame, e
venuti certi prodigii ; usorono questa occasione
i Nobili nella nuova creazione de’ Tribuni, dicendo
che li Dii erano adirati per aver Roma
male usata la maestà del suo imperio, e
che non era altro rimedio a placare
gli Dii, che ridurre la elezione de’
Tribuni nel luogo suo: di che nacque
che la Plebe, sbigottita da questa
religione, creò i Tribuni tutti nobili. Vedesi ancora
nella espugnazione della città de’ Ycienti,
come i capitani degli eserciti si valevano
della religione per tenergli disposti ad
una impresa : ehè essendo il lago Albano,
quello anno, cresciuto mirabilmente, ed essendo i
soldati romani in fastiditi per la lunga
ossidione, e volendo tornarsene a Roma, trovarono i
Romani, come Apollo e certi altri responsi
dicevano che quell* anno si espugnerebbe la
città de’ Veienti, che si derivasse il Ingo
Albano : la qual cosa fece ai soldati
sopportare i fastidi della guerra e della
ossidione, presi da questa speranza di espugnare la
terra ; e stettono contenti a seguire la impresa,
tanto che Cammillo fatto Dittatore espugnò
detta città, dopo dieci anni che l’era
stala assediata. E cosi la religione, usata
bene, giovò e per la espugnazione di quella
città, e per la restituzione dei Tribuni nella
Nobiltà: chè senza detto mezzo difficilmente
si sarebbe condotto e l’uno e l’altro. Non voglio
mancare di addurre a questo proposito un
altro esempio. Erano nati in Roma assai
tumulti per cagione di Terentillo Tribuno,
volendo lui promulgare certa legge, per le
cagioni che di sotto nel suo luogo si
diranno ; e tra i primi rimedi che vi
usò la Nobiltà, fu la religione: della
quale si servirono i duo modi. Nel
primo fecero vedere i li- bri Sibillini, e
rispondere, come alla città, mediante la
civile sedizione, soprastavano quello anno pericoli
di non perdere la libertà : la qual
cosa, ancora che fusse scoperta da’ Tribuni,
nondimeno messe tanto terrore ne* petti
della plebe, che la raffreddò nel seguirli.
L’altro modo fu, che avendo uno APPIO ERDONIO,
con una moltitudine di sbanditi e di
servi, in numero di quattromila uomini,
occupato di notte il Campidoglio, in tanto
che si poteva temere, che se gli Equi
ed i Volsci, perpetui nemici al nome
romano, ne fossero venuti a Roma, la
arebbono espugnata ; e non cessando i Tribuni per
questo di insistere nella pertinacia loro
di promulgare la legge Terentilla, dicendo
che quello in- sulto era fittizio c non
vero: uscì fuori del Senato uno Publio
Rubezio, cittadino grave e di autorità, con
parole parte amorevoli, parte minacciatiti, mostrandoli
i pericoli della città, e la intempestiva
domanda loro; tanto che e’ constrinse la
Plebe a giurare di non si partire dalla
voglia del Consolo: onde che la Plebe
obediente, per forza ricuperò il Campidoglio.
Ma essendo in tale espu-gnazione morto
Publio Valerio consolo, subito fu rifatto
consolo Tito Quinzio; il quale per non
lasciare riposare la Plebe, nè darle spazio
a ripensare alla legge Terentilla, le
comandò s’ uscissi di Roma per andare
contra a’ Volsci, dicendo che per quel
giuramento aveva fatto di non abbandonare
il Consolo, era obbligata a seguirlo: a che
i Tribuni si opponevano, dicendo come quel
giuramento s’era dato al Consolo morto, e
non a lui. Nondimeno L. mostra, come la
Plebe per paura della religione volle più
presto obedire al Consolo, che credere a’
Tribuni; dicendo in favore della antica
religione queste parole: Nondum htiDPj quce
nunc tenet sceculum, negligcntict Dcùm venerai ,
nec interpretando sibi quisque jasjurandum et
legcs aplas■ a La *faciebal. Per la qual
cosa dubitando i Tribuni di non perdere
allora tutta la lor degnila, si accordarono
col Consolo di stare alla obedienza di
quello; e che per uno anno non si
ragionasse della legge Terentilla, ed i Consoli
per uno anno non potessero trarre fuori
la Plebe alla guerra. E cosi la religione
fece al Senato vincere quella diffìcultà,
che senza essa mai non arebbe vinto. XIV. I
Romani interpretavano gli auspicii secondo la
necessità , con la prudenza mostravano di
osservare la religione j quando forzali non V
osservavano ; c se alcuno (emwariamente la
dispregiava , lo punivano. Non solamente gli
auguri!, come di sopra si è discorso, erano
il fondamento in buona parte dell'antica
religione de’ Gentili, ma ancora erano quelli che
erano cagione del bene essere della
Repubblica romana. Donde i Romani ne uvevano più
cura che di alcuno altro ordine di
quella; ed usavangli ne’ comizi consolari, nel
principiare le imprese, nel trai* fuori gli
eserciti, nel fare le giornate, ed in
ogni azione loro importante, o civile o militare;
nè maisarebbono iti ad una espedizionc,
che non avessino persuaso ai soldati che
gli Dei
promettevano loro la vittoria. Ed infra gli
altri nuspicii, avevano negli eserciti certi
ordini di aruspici, che e’ chiamavano Pollarii: e
qualunque volta eglino ordinavano di fare
la giornata col nemico, volevano che i
Pollarii fucessino i loro auspicii; e beccando i
polli, combattevano con buono augurio: non
beccando, si astenevano dalla zuffa. Nondimeno,
quando la ragione mostrava loro una cosa
doversi fare, non ostante che gli auspicii
fossero avversi, la facevano in ogni modo;
ma rivoltavanla con termini e modi tanto
attamente, che non paresse che la fucessino
con dispregio dello religione : il quale
termine fu usato da Papirio consolo in una
zuffa clic fece importantissima coi Sanniti,
dopo la quale restorno in lutto deboli
ed afflitti. Perchè sendo Papirio in su’
campi rincontro ai Sanniti, e parendogli avere
nella zuffa la vittoria certa, e volendo
per questo fare la giornata, comandò ai
Pollarii che fucessino i loro auspicii; ma
non beccando i polli, e veggendo il principe de’
Pollarii la gran disposizione dello esercito di
-combattere, e la oppinione che era nei capitano
cd in tutti i soldati di vincere, per
non torre occasione di bene operare a
quello esercito, riferi al Consolo come gli
auspicii procedevano bene: talché Papirio
ordinando le squadre, ed essendo da alcuni
de' Pollarii detto a certi soldati, i polli non
aver beccato, quelli lo dissono a Spurio
Papirio nipote del Consolo; e quello riferendolo
al Consolo, rispose subito, eh’ egli attendesse a
fare l’oflìzto suo bene, e che quanto a lui
ed allo esercito gli auspicii erano rolli;
e se il Pollarlo aveva detto le bugie,
ritornerebbono in pregiudicio suo. E perchè lo
effetto corrispondesse al pronostico, comandò ni
legati clic constituìssino i Pollarii nella
primo fronte della zuffa. Onde nacque che,
andando contra ai nemici, sendo da un
soldato romano tratto uno dardo, a caso ammazzò
il principe de’ Pollarii; la qual cosa
udita il Console, disse come ogni cosa
procedeva bene, e col favore degli Dii;
perchè lo esercito con la morte di quel
bugiardo si era purgato da ogni colpa, e
da ogni ira che quelli avessino preso
contra di lui. E cosi, col sapere bene
accomodare t disegni suoi agli auspicii, prese
partito di azzuffarsi, senza clic quello
esercito si avvedesse che in alcuna parte
quello avesse negletti gli ordini della
loro religione. Al contrario fece APPIO Pillerò
in Sicilia, nella prima guerra punica: che
volendo azzuffarsi con P esercito cartaginese, fece fare
gli auspicii a’ Pollarii; e referendogli quelli,
come i polli non beccavano, disse : veggiamo
se volessero bere ; e gli fece giUare
in mare. Donde che, azzuffandosi, perdette
la giornata : di che egli ne fu a
Roma condennato, e Papirio onorato; non tanto
per aver V uno vinto e P altro perduto, quanto
per aver 1’ uno fatto contra agli
auspicii prudentemente e l’altro temerariamente. Nè
ad altro line tendeva questo modo dello
aruspicare, che di fare i soldati confidentemente
ire alla zuffa ; dalla quale confidenza
quasi sempre uasce la vittoria. La qual
cosa fu non solamente usala dai Romani,
ma dalli esterni : di che mi pare di
addurre uno esempio nel seguente capitolo. XV. Come
i Sanniti, per estremo rimedio alle cose
loro afflitte, ricorsono alla religione. Avendo i
Sanniti avute più rotte dai Romani, ed
essendo stati per ultimo distrutti in
Toscana, e morti i loro eserciti e gli loro
capitani ; ed essendo stali vinti i loro
compagni, come Toscani, Franciosi ed Umbri ;
ncc suis, nec extcrnis viribus jam
slare polcrant : t amen bello non abstinebantj
adeo ne infeliciler quidem defensae libcrtatis
tcedcbalj et vinci > quarti non tentare
victorianij malebant. Onde deliberarono far
ultima prova: e perché ei sapevano che a
voler vincere era necessario indurre ostinazione
negli animi de’ soldati, c che a indurla non v’
era miglior mezzo che la religione; pensarono
di ripetere uno antico loro sacrifìcio,
mediante Ovio Faccio, loro sacerdote. Il
quale ordinarono in questa forma : che,
fatto il sacrificio solenne, e fatto intra
le vittime morte e gli altari accesi
giurare lutti i capi dello esercito, di non
abbandonare mai la zuffa, citarono i soldati
ad uno ad uno ; ed intra quelli
altari, nel mezzo di più centurionicon
le spade nude in mano, gli face-vano
prima giurare che non ridirebbono cosa
che vedessino o sentissino; dipoi,con parole
esecrabili e versi pieni di spa-vento, gli
facevano giurare e promettereagli Dii, d’essere
presti dove gli impe-radori gli
comandassino, c di non si fug-gire mai dalla
zuffa, e d’ ammazzarequalunque vedessino che si
fuggisse: laqual cosa non osservata,
tornasse soprail capo della sua famiglia e
della sustirpe. Ed essendo sbigottiti
alcuni diloro, non volendo giurare, subito
da’ lorocenturioni erano morti; talché gli
altriche succedevano poi, impauriti dalla
fe-rocità dello spettacolo, giurarono tutti.E per
fare questo loro assembramentopiù magnifico,
sendo quarantamila uo-mini, ne vestirono la
metà di pannibianchi, con creste e
pennacchi sopra lecelate ; e così ordinati
si posero pressoad Aquilonia. Contra a
costoro vennePapirio; il quale, nel
confortare i suoisoldati, disse: Non enim
crislas vulnerafacere, et pietà alque
aurata scuta tran-sirc ttomanum pileum. E
per debilitarela oppinione clic avevano i
suoi soldatide’ nemici per i) giuramento. preso,
disseche quello era per essere loro a
timore,non a fortezza; perchè in quel medesi-mo
tempo avevano uvere paura de’ cit-tadini, degli
Dii, c de* nemici. E venutial conflitto,
furono superati i Sanniti;perchè la virtù
romana, ed il timoreconccputo per le passate
rotte, superòqualunque ostinazione ei potessino
averepresa per virtù della religione e per
ilgiuramento preso. Nondimeno si vedecome a
lóro non parve potere avere al-tro rifugio,
nè tentare altro rimedio apoter pigliare
speranza di ricuperare laperduta virtù. Il
che testifica appieno,quanta confidcnzia si
possa avere me-diante la religione bene
usata. E benchéquesta parte piuttosto, per
avventura, sirichiederebbe esser posta intra
le coseestrinseche ; nondimeno, dependendo dauno
ordine de’ più importanti dellaRepubblica
di Roma, mi è parso dacommetterlo in
questo luogo, per nondividere questa
materia, cd averci aritornare più
volte.Gap. XVI. — Un popolo uso a
vìveresotto un principe, se per qualche
ac-cidente diventa libero, con difficultàmantiene la
libertà.Quanta difficultà sia ad uno
popolouso a vivere sotto un principe, preser-vare
dipoi la libertà, se per alcuno ac-cidente
l’acquista, come l’acquistò Ro-ma dopo la
cacciala de’Tarquini; iodimostrano infiniti
esempi che si leggononelle memorie delle
antiche istorie. Etale difficultà è ragionevole;
perchè quelpopolo è non altrimenti che uno
ani-male bruto, il quale, ancora che di
fe-roce natura e silvestre, sia stato nu-drito
sempre in carcere ed in servitù,che
dipoi lasciato a sorte in una cam-pagna
libero, non essendo uso a pa-scersi, nè
sappiendo le latebre dove siabbia a rifuggire,
diventa preda delprimo che cerca
rincatenarlo. Questo me-desimo interviene ad uno
popolo, il qualesetido uso a vivere sotto i
governi d’al-tri, non snppiendo ragionare nè
delledifese o offese pubbliche, non cogno-scendo
i principi nè essendo conosciutoila loro,
ritorna presto sotto un giogo,il quale
il più delle volte è più graveche
quello che per poco innanzi si
avevalevato d’ in su ’1 collo : e trovasi
in que-ste difficullà, ancora che la
materia nonsia in tutto corrotta; perchè
in unopopolo dove in lutto è entrata
la corru-zione, non può, non che picciol
tempo,ma punto vivere libero, come di
sotto sidiscorrerà: e però i ragionamenti no-stri
sono di quelli popoli dove la corru-zione
non sia ampliata assai, c dove siapiù
del buono che del guasto. Aggiun-gesi
alla soprascritta, un’ altra difficultò;la
quale è, che lo Stato che diventa
li-bero, si fa partigiani nemici, e nonpartigiani
amici. Partigiani nemici glidiventano tutti
coloro che dello Stalo ti-nodei dìscorsi Tannico
si prevalevano, pascendosi dellericchezze del
principe; a’ quali sendotolta la facoltà
del valersi, non possovivere contenti, e
sono forzati ciascunodi tentare di
riassumere la tirannide,per ritornare nell’
autorità loro. Non siacquista, come ho
detto, partigiani ami-ci ; perchè il vivere
libero propone onorie premii, mediami alcune
oneste e de-. terminate cagioni, e fuori di
quelle nonpremia nè onora alcuno; e quando
unoha quelli onori e quelli utili che
gli paremeritare, non confessa avere
obbligo concoloro che lo rimunerano. Oltre
a que-sto, quella comune utilità che del
viverelibero si trae, non è da alcuno,
mentreche ella si possiede, conosciuta: la
qualeè di potere godere liberamente le
cosesue senza alcuno sospetto, non
dubitaredell’onore delle donne, di quel de’
fi-gliuoli, non temere di sè; perchè
nis-suno confesserà mai aver obbligo conuno
che non 1’ offenda. Però, come
disopra si dice, viene ad avere lo
Statolibero c che «li nuovo surge,
partigianinon partigiani amici. E vonemicilendo
rimediare a questi inconvenienti,c a quegli disordini
che le soprascrittediflìculta si arrecherebbono
seco, non ciè più potente rimedio, nè
più valido, nèpiù sano, nè più
necessario, che am-mazzare i figliuoli di Bruto:
i quali,come l’istoria mostra, non furono in-dotti,
insieme con altri gioveni romani,n congiurare
contra alla patria per al-tro, se non
perchè non si potevano va-lere straordinariamente
sotto i Consoli,come sotto i Re; in modo
che la libertàdi quel popolo pareva
che fusse diven-tata la loro servitù. E chi
prende a go-vernare una moltitudine, o per
via„dilibertà o per via di principato, e non si
assicura di coloro che a quell’ ordine nuovo
sono nemici, fa uno Stato di poca vita.
Vero è ch’io giudico infelici quelli principi,
che per assicurare lo Stato loro hanno a
tenere vie straordinarie, avendo per. nemici
la moltitudine: perchè quello che ha per nemici
i pochi, facilmente e senza molti scandali, si
assicura; ma chi ha per nemico 1’
universale, non si assicura mai; e quanta
più crudeltà usa, tanto diventa più debole
il suo principalo. Talché il maggior
rimedio che si abbia, è cercare di farsi
il popolo amico. E benché questo discorso
sia disformo dal soprascritto, parlando qui
d’ un principe e quivi d’ una repubblica ;
nondimeno, per non avere a tornare più in su
questa materia, ne voglio parlare bre-vemente.
Volendo, pertanto, un principe guadagnarsi un
popolo che gli fusse nemico, parlando di
quelli principi che sono diventati della
loro patria tiranni ; dico eh’ ci debbe
esaminare prima quello che il popolo
desidera, e troverà sempre ch’ei desidera due
cose; Y una vendicarsi contro a coloro che
sono cagione che sia servo; l’altra di
riavere la sua libertà. Al primo desiderio
il principe può satisfare in tutto, al
secondo in parte. Quanto al primo, ce
n’ è lo csempio appunto. Clearco, tiranno
di Eraelea, scudo in esilio, occorse
che, per controversia venuta intra il
popolo e gli ottimati di Eraclea, veggendosi
gli ottimati inferiori, si volsono a favorire Clearco,
c congiuratisi seco lo missono, contea alla
disposizione popolare, in Eraclea, c toisono la
libertà al popolo. In modo che, trovandosi
Clearco intra la insolenzia degli ottimati, i
quali non poteva in alcun modo nè contentare
nè correggere, c la rabbia de’ popolari, che non
potevano sopportare lo avere perduta la
libertà, deliberò ad un tratto liberarsi
dal fastidio de’ grondi, c guadagnarsi il popolo.
E presa sopra questo conveniente occasione,
tagliò a pezzi tutti gli ottimali, con una
estrema satisfazione de’ popolari. E così egli
per questa via satisfece ad una delle
voglie che hanno i popoli, cioè di
vendicarsi. Ma quanto all’altro popolare
desiderio di riavere la sua libertà, non
potendo il principe satisfargli, debbe esaminare quali
cagioni sono quelle che gli fanno desiderare
d’essere liberi; e troverà che una piccola
parte di loro desidera d’essere libera per
comandare; ma tutti gli altri, che sono
infiniti, desiderano la libertà per vivere
securi. Perchè in tutte le repubbliche, in
qualunque modo ordinate, ai gradi del
comandare non aggiungono mai quaranta o cinquanta
cittadini: e perchè questo è piccolo numero, è facil
cosa assicurarsene, o con levargli via* o con
far lor parte di tanti onori, che
secondo le condizioni loro essi abbino in
buona parte a contentarsi. Quelli altri, ai
quali basta vivere securi, si satisfanno
facilmente, facendo ordini e leggi, dove insieme
con la potenza sua si comprenda la
sicurtà universale. E quando uno principe
faccia questo, e che il popolo vegga
che per accidente nessuno ei non rompa
tali leggi, comincerà in breve tempo a
vivere sccuro e contento. In esempio ci è
il regno di Francia, il quale non
vive securo per altro, che per essersi
quelli Re obbligati ad infinite leggi,
nelle quali si comprende la securtn di
tutti i suoi popoli. E chi ordinò quello
Stato, volle che quelli Re, dell’ arme e
del danaio facessino a loro modo, ma
che d’ogni altra cosa non ne potessino
altrimenti disporre che le leggi si
ordinassino. Quello principe, adunque, o quella
repubblica che non si assicura nel
principio dello stato suo, conviene che si
assicuri nella prima occasione, come fecero i
Romani. Chi lascia passare quella, si pente
tardi di non aver fatto quello che
doveva fare. Sendo, pertanto, il popolo
romano ancora non corrotto quando ci
recuperò la libertà, potette mantenerla, morti i
figliuoli di BRUTO e spenti i Tarquini, con tutti quelli
rimedi ed ordini che altra volta si
sono discorsi. Ma se fussc stato quel popolo
corrotto, nè in Roma nè altrove si
trovano rimedi validi a mantenerla; come nel
seguente capitolo mostreremo. XVII. Uno popolo
coitoIIo , venuto in libertà, si può con
difficullà ( grandissima mantenere libera. lo giudico
che gli era necessario, o die i Re si
estinguessino in Roma, o che Roma in
brevissimo tempo divenissi debole, e di nessuno
valore: perchè, considerando a quanta corruzione erano venuti
quelli Re, se l'ussero seguitati così due o
tre successioni, e che quella corruzione che
era in loro, si fossi cominciata a
distendere per le membra; come le membra
fussino state corrotte, era impossibile mai
più riformarla. Ma perdendo il capo quando
il busto era intero, poterono facilmente
ridursi a vivere liberi cd ordinati. E debbesi
presupporre per cosa verissima, che una città
corrotta che vive sotto un principe, ancora
che quel principe con tutta la sua
stirpe si spenga, inai non si può ridurre
libera; anzi conviene che Putì principe
spenga l’ allro; e senza creazione d’un nuovo
signore non si posa mai, se già la
bontà d’ uno, insieme con la virtù,
non la tenessi libera ; ma durerà tanto
quella libertà, quanto durerà la vita di
quello: come intervenne a Siracusa di Dione e
di Timoleone, la virtù de’ quali in
diversi tempi, mentre vissero, tenne libera
quella città; morti clic furono, si ritornò
nell'antica tirannide. Ma non si vede il
più forte esempio che quello di Roma;
la quale cacciati i Tarquini, potette
subito prendere e mantenere quella libertà: ma
morto Cesare, morto Caligula, morto Nerone,
spenta tutta la stirpe cesarea, non potette
inai, non solamente mantenere, ma pure dare principio
alla libertà. Nè tanta diversità di evento
in una medesima città nacqueda altro,
se non da non essere ne’ tempi de’Tarquini
il popolo romano ancora corrotto; ed in
questi ultimi tempi essere corrottissimo. Perchè
allora, a mantenerlo saldo e disposto a fuggire i Re, bastò
solo furio giurare che non eon sentirebbe
mai che a Roma alcuno regnasse; e negli
altri tempi, non bastò T autorità e severità
di BRUTO, con tutte le legioni orientali, a
tenerlo disposto a volere mantenersi quella
libertà che esso, a similitudine del primo BRUTO,
gli aveva rendutu. Il che nacque da quella corruzione
che le parli mariane avevano messa nel
popolo; delle quali essendo capo Cesare
potette accecare quella moltitudine, eh* ella non
conobbe il giogo che da sè medesima
si metteva in sul collo. E benché questo
esempio di Roma sia da preporre a qualunque
altro esempio, nondimeno voglio a questo proposito addurre
innanzi popoli conosciuti ne* nostri tempi.
Pertanto dico, che nessuno accidente, benché
grave e violento, potrebbe redurre mai Milano o
Napoli libere, per essere quelle membra
tutte corrotte. H che si vide dopo la
morte di VISCONTI; che volendosi ridurre
Milano alia libertà, non potette e non
seppe mantenerla. Però, fu felicità grande
quella di Koma, che questi Re diventassero corrotti
presto, acciò ne fussino cacciati, cd
innanzi che la loro corruzione fosse passata
nelle viscere di quella città: la quale
incorruzione fu cagione che gl’ infiniti tumulti
che furono in Roma, avendo gli uomini
il fine buono, non nocerouo, anzi giovarono
alla Repubblica. E si può fare questa
conclusione, che dove la materia non è
corrotta, i tumulti cd altri scandali non
nuòcono: dove la è corrotta, le leggi
bene ordinate non giovano, se già le
non son mosse da uno che con una
estrema forza le facci osservare, tanto che
la materia diventi buona. Il che non
so se sie mai intervenuto, o se fusse
possibile ch’egli intervenisse: perchè c’ si
vede, come poco di sopra dissi, che
una città venuta in declinazione per
corruzione di materia, se mai occorre che
la si levi, occorre per la virtù d’
uno uomo eh’ è vivo allora, non per
la virtù dello universale clic sostengo gli
ordini buoni ; c subito che quei tale è
morto, la si ritorna nei suo pristino
abito; come intervenne a Tebe, la quale
per la virtù di Epaminonda, mentre lui
visse, potette tenere forma di repubblica e
di imperio ; ma morto quello, la si
ritornò ne’ primi disordini suoi. La
cagione è, che non può essere un uomo
di tanta vita, che ’l tempo basti ad
avvezzare bene una città lungo tempo male
avvezza. E se unod’ una lunghissima vita, o
due successioni virtuose conlinove non la
dispongono; come una manca di loro, come di
sopra è detto, subito rovina, se già con
molti pericoli c molto sangue c’ non la
facesse rinascere. Perchè tale corruzione e poca
attitudine olla vita libera, nasce da una
inequulità che è in quella città: e volendola
ridurre equale, è necessario usare grandissimi
estraordinari; i quali pochi sanno o vogliono usare,
come in altro luogo più particolarmente si
dirà. XVIII. — In che modo «ci.c; mi corrotte
si potesse mantenere tino stalo liòerOj
essendovi; o non essendovi , ordinartelo. Io credo
clic non sia fuori di proposito, nè
disformo dal soprascritto discorso, considerare
se in una città corrotta si può
mantenere lo stato libero, scndovi ; o quando
e’ non vi fosse, se vi si può
ordinare. Sopra la qual cosa dico, come
gli è mollo difficile fare o l’uno o l'
altro: e benché sia quasi impossibile darne
regola, perchè sarebbe necessario procedere
secondo i gradi della corruzione; nondimnneo, essendo bene
ragionare d’ogni cosa, non voglio lasciare
questa indietro. E presuppongo una città
corrottissima, donde verrò ad accrescere più
tale difficoltà; perché non si trovano nè
leggi nè ordini che bastino a frenare una
universale corruzione. Perchè, così come gli
buoni costumf, per mantenersi, hanno bisogno delle
leggi; cosi le leggi, per osservarsi, hanno
bisogno de’ buoni costumi. Oltre di questo,
gli ordini e le leggi fatte in una
repubblica nel nascimento suo, quando erano
gli uomini buoni, non sono dipoi più a
proposito, divenuti che sono tristi. E se
le leggi secondo gli accidenti in una
città variano, non variano mai, 0 rade
volte, gli ordini suoi: il che fa che
le nuove leggi non bastano, perchè gli
ordini, che stanno saldi, le corrompono. E
per dare ad intendere meglio questa parte,
dico come in Roma era l’ordine del
governo, o vero dello Stato; c le leggi
dipoi, che con i magistrati frenavano i
cittadini. L’ordine dello Stato era l’ autorità
del Popolo, del Senato, dei Tribuni, dei
Consoli, il modo di chiedere e del creare i
magistrati, ed il modo di fare le
leggi. Questi ordini poco o nulla variarono
nelii accidenti. Variarono le leggi che frenavano
1 cittadini; come fu la legge degli
adulferi!, la suntuaria, quella della ambizione,
e molte altre ; secondo clic di mano in
mano i cittadini diventavano corrotti. Ma lenendo
fermi gli ordini dello Stato, che nella
corruzione non erano più buoni, quelle
leggi che si rinnovavano, non bastavano a
mantenere gli uomini buoni; ma sarebbonn bene giovate,
se con la innovazione delle leggi si
fussero rimutati gli ordini. G che sia il
vero che tali ordini nella- città corrotta
non fossero buoni, e’ si vede espresso in
due capi principali. Quanto al creare i
magistrati e le leggi, non dava il Popolo
romano il consolato, e gli altri primi
gradi della città, se non a quelli
che lo dimandavano. Questo ordine fu nel
principio buono, perchè e’ non gli domandavano
se non quelli cittadini che se ne
giudicavano degni, ed averne la repulsa era
ignominioso; si che, per esserne giudicati
degni, ciascuno operava bene. Diventò questo modo,
poi, nella città corrotta perniziosissiiuo ;
perchè non quelli che avevano più virtù,
ma quelli che avevano più potenza,
domandavano i magistrali; e gl’ impotenti, comecché
virtuosi, se ne astenevano di domandargli
per paura. Vcnnesi a questo inconveniente, non ad
un tratto, ma per i mezzi, come si
cade in tutti gli altri iuconveiiienti : perchè avendo
i Romani domata l’Affrica e l’Asia, e ridotta
quasi tutta la Grecia a sua ohidienza,
erano divenuti sicuri della libertà loro,
nè pareva loro avere più nimici che
dovessero fare loro paura. Questa securtà e
questa debolezza de’ nemici fece che il
Popolo romano, nel dare il consolato, non
riguardava più la virtù, ma la grazia ;
tirando a quel grado quelli che meglio
sapevano iutrattenere gli uomini, non quelli
che sapevano meglio vincere i nemici: di
poi, da quelli che avevano più grazia,
discesero a dargli a quelli che avevano più
potenza;talché i buoni, per difetto di tale
ordine, ne rimasero al tutto esclusi. Poteva uno
Tribuno, e qualunque altro cittadino, proporre al
Popolo una legge; sopra la quale ogni
cittadino poteva parlare, o in favore o incontro,
innanzi che la si deliberasse. Era questo
ordine buono, quando i cittadini erano buoni ;
per-
che sempre fu bene, che ciascuno clic intende
uno bene per il pubblico, lo possa
proporre; ed è bene che ciascuno sopra
quello possa dire l’oppinione sua, acciocché
il Popolo, inteso ciascuno, possa poi
eleggere il meglio. Ma diventati i cittadini
cattivi, diventò tale ordine pessimo, perchè
solo i potenti proponevano leggi, non per
la comune libertà, ina perla potenza loro;ccontra
a quelle non poteva parlare alcuno per paura
di quelli : talché il Popolo veniva o
ingannato o sforzato a deliberare la sua rovina.
Ero necessario, pertanto, a volere che Roma
nella corruzione si mantenesse libera, che,
cosi come aveva nel processo del vivere
suo fatte nuove leggi, l’avesse fatti nuovi
ordini: per-«thè altri ordini e modi di
vivere si debbe ordinare in un soggetto
cattivo, che in un buono ; nè può
essere la forma simile in una materia
al tutto contraria. Ma perchè questi
ordini, o e’ si hanno a rinnovare tutti ad
un tratto, scoperti che sono non esser
più buoni, o a poco a poco, in prima che
si conoschiuo per ciascuno ; dico che
1* una e l’altra di queste due cose è
quasi impossibile. Perchè, a volergli rinnovare a poco
a poco, conviene che ne sia cagione uno
prudente, che veggio questo inconveniente assai
discosto, e quando e’ nasce. Di questi tali è
facilissima cosa che in una città non
ne surga mai nessuno : e quando pure ve
ne surgesse, non potrebbe persuadere mai ad
altrui quello che egli proprio intendesse; perchè
gli uomini usi a vivere in un modo,
non lo vogliono variare; e tanto più non
veggiendo il male in viso, ma avendo ad
essere loro mostro per con letture. Quando
ad innovare questi ordini ad un (ratio,
quando ciascuno conosce clic non sono
buoni, dico che questa inutilità, clic
facilmente si conosce, è diffìcile a ricorreggerla:
perchè a fare questo, non basta usare
termini ordinari, essendo i modi ordinari
cattivi; ma è necessario venire allo
istraordinario, come è alla violenza ed all’
armi, e diventare innanzi ad ogni cosa
principe di quella città, e poterne disporre a
suo modo. E perchè il riordinare una
città al vivere politico presuppone uno
uomo buono, ed il diventare per violenza
principe di una repubblica presuppone un uomo cattivo;
per questo si troverà che radis- sime volte
accaggia, che uno uomo buono voglia
diventare principe per vie cattive, ancoraché
il fine suo fusse buono; e che uno
reo divenuto principe, voglia operare bene, e
che gli caggia mai nell’animo usare quella
autorità bene, che egli ha male acquistata.
Da tutte le soprascritte cose nasce
la diffìcultà, o impossibilità, che è nelle città
corrotte, a mantenervi una repubblica, o a
crearvela di nuovo. E quando pure la
vi si avesse a creare o a mantenere, sarebbe necessario
ridurla più verso lo stato regio, che
verso lo stato popolare; acciocché quelli
uomini i quali dalle leggi, per la loro
insolenzia, non possono essere corretti, lusserò
da una podestà quasi regia in qualche
modo frenati. Ed a volergli fare per altra
via diventare buoni, sarebbe o crudelissima
impresa, o al tutto impossibile; come io
dissi di sopra che fece Cleomene; il
quale se, per essere solo, ammazzò gli
Efori; e se ROMOLO, per le medesime
cagioni, AMMAZZO IL FRATELLO E TITO TAZIO SABINO, e dipoi usarono
bene quella loro autorità ; nondimeno si
debbe avvertire che V uno e T altro di
costoro non avevano il soggetto di quella
corruzione macchiato della quale in questo capitolo
ragioniamo, e però poterono volere e, volendo, colorire
il disegno loro. XIX. Dopo uno eccellente
principio si può mantenere un principe debole ;
ma dopo un debole, non si può con
un (diro debole mantenere alcun regno. Considerato
la virtù ed il modo del procedere di
ROMOLO, NUMA e TULIO, I PRIMI TRE RE ROMANI, si vede come Roma
sortì una FORTUNA GRANDISSIMA, AVENDO IL PRIMO RE FEROCISSIMO E
BELLICOSO, 1’ altro quieto e religioso, il terzo simile
di ferocia a Romolo, e più amatore della
guerra che della pace. Perchè in Roma
era necessario che surgesse ne’ primi
principii suoi un ordinatore «lei vivere
civile, ina era bene poi necessario che
gli altri Re ripigliassero LA VIRTU DI ROMOLO; ALTRIMENTI
QUELLA CITTA SAREBBE DIVENTATA EFFEMINATA, e preda de’ suoi
vicini. Donde si può notare, che uno
successore non di tanta virtù quanto il
primo, può mantenere uno Stato per la
virtù di colui che PImretto innanzi, e
si può godere te sue fatiche: ma s’
egli avviene o che sia di lunga vita, o
che dopo lui non surga
un altro che ripigli la virtù di
quel primo, è necessitato quel regno a rovinare. Cosi,
per il contrario, se due, 1* uno dopo
P altro, sono di gran virtù, si vede
spess che fanno cose grandissime, e che ne vanno
con la fama in fino al cielo.
Davit, senza dubbio, fu un uomo per
arme, per dottrina, per giudizio eccellentissimo; e
fu tanta la sua virtù, che, avendo vinti
ed abbattuti tutti i suoi vicini, lasciò a
Salomone suo figliuolo un regno pacifico:
quale egli si potette con le arti «Iella
pace, e non della guerra, conservare; e si
potette godere felicemente la virtù di suo
padre. Ma non potette già lasciarlo a
Roboan suo figliuolo; il quale non essendo
per virtù simile allo avolo, nè per
fortuna simile al padre, rimase con fatica
erede della sesta parte del rt'guo. Baisit,
sultan de’ Turchi, ancora die fusse più
amatore della pace che della guerra,
potette godersi le fatiche di Maumelto suo
padre; il quale avendo, come Davit, battuti
i suoi vicini, gli lasciò un regno fermo, e
da poterlo con F arte della pace facilmente
conservare. Ma se il figliuolo suo Salì,
presente signore, fusse stalo simile al
padre, c non all’avolo, quel regno rovinava :
ma e’ si vede costui essere per superare
la gloria dell'avolo. Dico pertanto con questi esempi,
clic dopo uno eccellente principe si può
mantenere un principe debole; ma dopo un
debole non si può con un altro debole
mantenere alcun regno, se già e’ non
fusse come quello di Francia, che gli
ordini suoi antichi lo mantenessero: e quelli
principi sono deboli, che non stanno in
su la guerra. Couchiudo pertanto con questo
discorso, clic LA VIRTU DI ROMOLO E TANTA che la
potette dare spazio a Numa Pompilio di potere
molti anni con 1’ arte della pace reggere
Roma : ma dopo lui successe
Tulio, il quale pei* la sua ferocia
riprese la reputazione di ROMOLO: dopo il
quale venne Anco, in modo dalla natura
dotato, che poteva usare la pace, e
sopportare la guerra. E prima si dirizzò a
volere tenere la via della pace: ma
subito conobbe come i vicini, giudicandolo
effeminato, lo stimavano poco: talmente che
pensò che, a voler mantenere Roma, bisognava
volgersi alla guerra, e somigliare Romolo, e non
Numa. Da questo piglino esempio tutti i principi
che tengono stato, che chi somiglierà Numa,
lo terrà o non terrà, secondo ehe i tempi o
la fortuna gli girerà sotto: ma chi
somiglierà Romolo, e lui come esso armato
di prudenza e d’armi, lo terrà in ogni
modo, se da una ostinata ed eccessiva
forza non gli è tolto. K certamente si può
stimare, che se Roma sortiva per terzo
suo Re un uomo che non sapesse con
le armi renderle la sua reputazione, non
arebbe mai poi, o con grandissima dilTìcultà,
potuto pigliare piede, nè fare quelli
effetti ch’ella fece. E così, in mentre eh’
ella visse sotto i Re, la portò questi
pericoli di rovinare sotto un Re o debole o
tristo. Due continove
successioni di principi virtuosi fanno grandi
effetti: c come le repubbliche bene ordinate hanno
di necessità virtuose successioni: c però gli
acquisti ctl auQumcnli loro sono grandi. Poi
che Roma ebbe cacciati i Re, mancò di
quelli pericoli i quali di sopradetti che
la portava, succedendo in lei uno Re o
debole o tristo. Perchè la somma dello
imperio si ridusse nc’ Consoli, i quali non
per eredità o per inganni o per ambizione
violenta, ma per suffragi liberi venivano a
quello imperio, ed erano sempre uomini
eccellentissimi: de’quali godendosi Roma la virtù e
la fortuna di tempo in tempo, potette venire
a quella sua ultima grandezza in
altrettanti unni, che la era stata
sotto i Re. Perchè si vede, come due
coutinove successioni di principi virtuosi sono
suffìzienti ad acquistare il mondo: come
furono Filippo di Macedonia ed Alessandro Magno,
il clic tanto più debbe fare una repubblica,
avendo il modo dello eleggere non solamente
due successioni, ma infiniti principi
virtuosissimi, che sono l’uno dell'altro
successori: la quale virtuosa successione fia
sempre in ogni repubblica bene ordinata. Quanto
biasimo meriti quel principe e quella repubblica
che manca d'armi proprie. Debbono i presenti
principi c le moderne repubbliche, le quali
circa le difese ed offese mancano di
soldati propri, vergognarsi di loro medesime j e pensare,
con lo esempio di Tulio, tale difetto
essere non per mancamento d’uomini alti
alla milizia, ma per colpa loro, che
non hanno saputo fare i loro uomini militari.
Perchè Tulio, scudo stata Roma in pace
quaranta anni, non trovò, succedendo lui
nel regno, uomo che fussc stato mai
alla guerra : nondimeno, disegnando lui fare
guerra, non pensò di valersi nè di
Sanniti, nè di Toscani, nè di altri
che fussero consueti stare nell'armi; ma
deliberò, come uomo prudentissimo, di valersi de’
suoi. E fu tanta la sua virtù, che in
un tratto il suo governo gli potè
fare soldati eccellentissimi. Ed è più vero
che alcuna altra verità, che se dove sono
uomini non sono soldati, nasce per difetto
del principe, e non per altro difetto o di
sito o di natura : di che ce n’*è uno
esempio freschissimo. Perchè ognuno sa, come ne’
prossimi tempi il re d’Inghilterra assaltò
il regno di Francia, nè prese altri soldati
clic i popoli suoi ; e per essere stato
quel regno più clic trenta anni senza
far guerra, non aveva nè soldato nè
capitano che avesse mai militato: nondimeno,
ei non dubitò con quelli assaltare uno
regno pieno di capitani e di buoni
eserciti, i quali erano stati continovamcnte
sotto l'armi nelle guerre d’Italia. Tutto
nacque da essere quel re prudente uomo, e
quel regno bene ordinato; il quale nel
tempo della pace non intermette gli ordini
della guerra. Pelopida ed Epaminonda
tebani, poiché gli ebbero libera Tebe, e
trattola dalla servitù dello imperio spartano;
trovandosi in una città usa a servire, ed
in mezzo di popoli effeminati ; non dubitarono, tanta
era la virtù loro ! di ridurgli sotto Parrai,
e con quelli andare a trovare alla campagna
gli eserciti spartani, e vincergli : e chi
he scrive, dice come questi due in
breve tempo mostrarono, che non solamente
in bacedemonia nascevano gli uomini di
guerra, ma in ogni altra parte dove
nascessino uomini, pur che si trovasse chi
li sapesse indirizzare alla milizia, come
si vede che Tulio seppe indirizzare i
Romani. E VIRGILIO non potrebbe meglio esprimere questa
oppinione, nè con altre parole mostrare di
aderirsi a quella, dove dice: u ... . Desidesque
movebit Tullus in arma viros. Quello che
sia da notare nel caso dei tre Orazi
romani , e dei Tulio, re di Roma, e Mezio,
re di Alba, convennero che quel popolo
fusse signore dell’ altro, di cui i soprascritti
tre uomini vincessero. Furono MORTI TUTTI I CURIAZI albani,
restò vivo uno degli Orazi romani; e per
questo, restò Mezio, re albaiio, con il
suo popolo, suggello ai Romani. E tornando quello
ORAZIO VINCITORI IN ROMA e scontrando una sua sorella,
che era ad uno de’ tre Curiazi morti
maritata, clic PIANGEVA LA MORTE DEL MARITO, L’AMMAZZO. Donde quello
Orazio per questo fallo fu messo' in
giudizio, e dopo molte dispute fu libero,
più per li prìeglii del padre, clic per
li suoi meriti. Dove sono da notare Ire
cose: una, che mai non si debbe con
parte delle sue forze arrischiare tutta la
sua fortuna ; l’ altra, che non mai in
una città bene ordinata li devmeriti
con li ineriti si ricompensano; la terza,
che non mai sono i partiti savi, dove
si debba o possa dubitare della inosservanza.
Perchè, gl’ importa tanto a una città lo
essere serva, che mai non si doveva
credere che alcuno di quelli Re o di
quelli Popoli stessero contenti che tre
loro cittadini gli avessino sotto* messi ;
come si vide che volle fare Mezio:
il quale, benché subito dopo la vittoria
de’ Romani si confessassi vinto, e promettessi
la obedienza a Tulio; nondimeno nella prima
espedizione che egli ebbono a convenire contra i
Veienli, si vide come ci cercò d’
ingannarlo ; come quello che tardi s’era
avveduto della temerità del partito preso
da lui. E perchè di questo terzo notabile
se n’’è pnr luto assai, parleremo solo
degli altri due ne’ seguenti duoi capitoli. Che
non si debbe mettere a pericolo tutta la
fortuna e non tutte le forze ; c per questo j
spesso il
guardare i passi è dannoso. Non fu mai
giudicato partito savio mettere a pericolo tutta
la fortuna tua, e non tutte le forze.
Questo si fu in più modi. L’uno è
facendo come Tulio e Mezio, quando e’
commissouo la fortuna tutta della patria
loro, e la virtù di tanti uomini quanti
avea l’uno e l’altro di costoro negli
eserciti suoi, alla virtù e fortuna di
tre de’loro cittadini, clic veniva ad
essere una minima parte delle forze di
ciascuno di loro. Nè si avvidono, come
per questo partito tutta la fatica che avevano
durata i loro antecessori nell’ ordinare la
repubblica, per farla vivere lungamente libera e
per fare i suoi cittadini difensori della
loro libertà, era quasi che suta vana,
stando nella potenza di sì pochi a
perderla. La qual cosa da quelli Re
non potè esser peggio considerata. Cadesi
ancora in questo incon-
veniente quasi sempre per coloro, che, venendo
il nemico, disegnano di tenere i luoghi
diffìcili, e guardare i passi: perchè quasi
sempre questa deliberazione sarà dannosa, se giù
in quello luogo diffìcile comodamente tu
non potessi tenere tutte le forze tue.
In questo casotuie partito è da prendere;
ma scndo il luogo aspro, e non vi
potendo tenere tutte le forze tue, il
partito è dannoso. Questo mi fa giudicare
cosi lo esempio di coloro che, essendo
assaltati da un nemico potente, ed essendo
il paese loro circondato da’ monti e luoghi
alpestri, noti hanno mai tentato di
combattere il nemico in su’ passi e in
su’ monti, ma sono iti ad incontrarlo
di là da essi: o, quando non hanno
voluto far questo, lo hanno aspettato
dentro a essi monti, in luoghi benigni e
non alpestri. E la cugioite ne è suta
la preallegata : perchè, non si polendo
condurre alla guardia de’ luoghi alpestri molli
uomini, sì per non vi potere vivere
lungo tempo, si per essere i luoghi stretti
e capaci di pochi; non è possibile sostenere
un nemico clic venga grosso ad urtarti:
ed al nemico è facile il venire grosso,
perchè la intenzione sua è passare, e non
fermarsi; ed a chi l’ aspetta è impossibile aspettarlo
grosso, avendo ad alloggiarsi per più
tempo, non sapendo quando il nemico voglia
passare in luoghi, com’ io ho detto,
stretti e sterili. Perdendo, adunque, quel passo
che tu ti avevi presupposto tenere, e nel
quale i tuoi popoli e lo esercito tuo
confidava, entra il più delle volte ne’
popoli e nel residuo delle genti tue tanto
terrore, che senza potere esperimentare la
virtù di esse, rimani perdente; c così
vieni ad avere perduta tutta la tua
fortuna con parte delle tue forze. Ciascuno
sa con quanta diftìcultà Annibaie passasse r
Alpi che dividono la Lombardia dalia
Francia, e con quanta difficoltà passasse
quelle che dividono la Lombardia dalla
Toscana : nondimeno i Romani l’aspettarono prima in
sul Tesino, e dipoi uel piano d’Arezzo; e
vollon più tosto, che il loro esercito
fusse consumato dal nemico nelli luoghi
dove poteva vincere, che condurlo su per
l’Alpi ad esser destrutto dalla malignità
del sito. E chi leggerà sensatamente tutte
le istorie, troverà pochissimi virtuosi capitani
over tentato di tenere simili passi, e per
le ragioni dette, e perchè e' non si
possono chiudere tutti; sendo i monti come
campagne, ed avendo non solamente le vie consuete
e frequentate, ma molte altre, le quali se
non sono note a’ forestieri, sono note a’
paesani ; con l’aiuto de’quali sempre sarai
condotto in qualunque luogo, contra alla
voglia di citi ti si oppone. Di che
se ne può addurre uno freschissimo esempio,
nel T 51 5 . Quando Francesco re di Francia
disegnava passare in Italia per lu
recuperatone dello Stalo di Lombardia, il
maggiore fondamento clic facevano coloro eli’
erano alla sua impresa contrari, era che
gli Svizzeri lo terrebbono a’ passi in su’
monti. E, come per esperienza poi si
vide, quel loro fondamento restò vano:
perché, lasciato quel re da parte due o
tre luoghi guardati da loro, se ne
venne per un’ altra via incognita ; e fu
prima in Italia, e loro appresso, che lo avessino
presentilo. Talché loro isbigottiti si ritirarono
in Milano, e tutti i popoli di Lombardia
si aderiron alle genti franciose; sendo
mancali di quella oppinione avevano, che i
Franciosi dovessino essere tenuti su’ monti. Le
repubbliche bene ordinate costituiscono premii c pene aJ
loro cittadini; ne compensano mai r uno con
l* altro. Erano stati I MERITI D’ORAZIO GRANDISSIMI,
avendo con la sua virtù VINTI I CURIAZIl. Era
stato il fallo suo atroce,
avendo MORTO LA SORELLA: nondimeno dispiacque tanto
tale omicidio ai Romani, che io condussero
a disputare della vita, non ostante che gli
meriti suoi fossero tanto grandi c sì
freschi. La qual cosa a chi superficialmente
la considerasse, parrebbe uno esempio d’ ingratitudine popolare:
nondimeno chi la esaminerà meglio, e con
migliore considerazione ricercherà quali debbono
essere gli ordini delle repubbliche, biasimerà
quel popolo più tosto per averlo assoluto, che
per averlo voluto condeunare. E la ragione è
questa, che nessuna repubblica bene ordinata,
non mai cancellò i demeriti con gli
meriti de’ suoi cittadini; ma avendo ordinati i
preraii ad una buona opera e le pene
ad una cattiva, ed avendo premiato
uno per aver bene operato, se quel
medesimo opera
dipoi male, lo gastica, senza avere
riguardo alcuno alle sue buone opere. E quando
questi ordini sono bene osservati, una
città vive libera molto tempo; altrimenti,
sempre rovinerà presto. Perchè, se ad un
cittadino che abbia fatto qualche egregia
opera per la città, si aggiugne, oltre
alla riputazione che quella cosa gli
arreca, una audacia e confidenza di potere,
senza temer pena, fare qualche opera non
buona ; diventerà in brievc tempo tanto
insolente, che si risolverà ogni civilità. È
ben necessario, volendo clic sia temuta la
pena per le triste opere, osservare i premii per
le buone; come si vede che fece Roma.
C benché una repubblica sia povera, e possa
dare poco, debbe di quel poco non
astenersi; perchè sempre ogni piccolo dono,
dato ad alcuno per ricompenso di bene
ancora che grande, sarà stimato, da chi
lo riceve, onorevole e grandissimo. È notissima
la istoria di ORAZIO CODE e quella di MUZIO SCEVOLA: come
V uno sostenne i nemici sopra un ponte,
tanto che si tagliasse: l’altro si arse
la mano, avendo errato, volendo
ammazzare Porscna, re delli Toscani. A costoro
per queste due opere tanto egregie, fu
donato dal pubblico due staiora di terra
per ciascuno. È nota ancora la istoria di MANLIO
Capitolino. A costui, per aver salvato il
Campidoglio da' Galli che vi erano a campo,
fu dato da quelli che insieme eon lui
vi erano assediati dentro, una piccola
misura di farina, il quale premio, secondo
la fortuna che allora correva in Roma,
fu grande; e di qualità che, mosso poi
Manlio, o da invidia o dalla sua cattiva
natura, a far nascere sedizione in Roma, e
cercando guadagnarsi il popolo, fu, senza
rispetto alcuno de’ suoi meriti, gittato precipite da
quello Campidoglio ch’egli prima, cou tanta
sua gloria, aveva salvo.
Chi vuole riformare uno stalo antico in
una città libera, ritenga almeno l’ombra
desmodi antichi. Colui che desidera o clic
vuole riformare uno stato d’una città, a
volere elle sia accetto, e poterlo con
satisfazione di ciascuno mantenere, è necessitato a
ritenere l’ombra almanco de’ modi antichi, acciò
che a’ popoli non paia avere mutato ordine,
ancora che in fatto gli ordini nuovi
fussero al tutto alieni dai passati; perchè
lo universale degli uomini si pasce così
di quel che pare, come di quello che
è; anzi molte volte si muovono più
per le cose che paiono, che per
quelle clic sono. Per questa cagione i
Romani, conoscendo nel principio del loro
vivere libero questa necessità, avendo in
cambio d’ un Re creali duoi Consoli, non
vollono ch’egli avessino più clic dodici
littori, per non passare il numero di
quelli che ministravano ai Re. Olirà di
questo, facendosi in Roma uno sacrifizio
anniversario, il quale non poteva esser
fatto se non dalla persona del Re; e
volendo i Romani che quel popolo non avesse
a desiderare per la assenzia degli Re alcuna cosa
dell’ antiche j, creorono un capo di detto
sacrifìcio, il quale loro chiamorono Re
Sacrifìcolo, e lo sottomessono al sommo Sacerdote
: talmentechè quel popolo per questa via
venne a satisfarsi di quel sacrifizio, e non
avere mai cagione, per mancamento di esso,
di desiderare la tornata dei Re. E questo
si debbe osservare da tutti coloro che
vogliono scancellare uno antico vivere in una
città, e ridurla ad uno vivere nuovo c
libero. Perchè alterando le cose nuove le
menti degli uomini, ti debbi ingegnare che
quelle alterazioni ritenghino più del-r antico
sia possibile; e se i magistrati variano e di
numero e d'autorità e di tempo dagli antichi,
che almeno ritengliino il nome. E questo,
come ho detto, debbe osservare colui che
vuole ordinare una potenza assoluta, o per
via di repubblica o di regno: ma quello
che vuol fare una potestà assoluta, quale
dagli autori è chiamala tirannide, debbe rinnovare
ogni cosa, come nel seguente capitolo si
dirò. Un principe nuovo , in
i ima città o provincia presa da lui , 1
debbe fare ogni cosa nuova. Qualunque
diventa principe o d’ unacittà o d’uno
Stato, e tanto più quando i fondamenti suoi
lussino deboli, c non si volga o per via
di regno o di repubblica alla vita civile;
il mcgliore rimedio che egli abbia a tenere
quel principato, è, sendo egli nuovo principe, fare
ogni cosa di nuovo in quello Stalo: come
è, nelle città fare nuovi governi con
nuovi nomi, con nuove autorità, con nuovi
uomini; fare i poveri ricchi, fece Davil
quando ei diventò Re: qui csuricnles
implevil bonis, et divites dimirti inanes ;
edificare oltra di questo nuove città,
disfare delie fatte, cambiare gli abitatori
da un luogo ad un altro;
ed in somma, non lasciare cosa niuna intatta
in quella provincia, e che non vi sia
nè grado, nè ordine, nè stato, uè ricchezza,
che chi la tiene non la riconosca da
te; c pigliare per sua mira Filippo di
Macedonia, padre di Alessandro, il quale
con questi modi, di piccolo Re, diventò
principe di Grecia. E chi scrive di
lui, dice che tramutava gl uomini di
provincia in provincia, come i mandriani
tramutano le mandrie loro. Sono questi modi
crudelissimi, e nemici d’ogni vivere, non
solamente cristiano, ma umano; e debbegli
qualunche uomo fuggire, c volere piuttosto vivere
privato, che Re con tanta rovina degli
uomini : nondimeno, colui che non vuole pigliare
quella prima via del bene, quando si
voglia mantenere, convien die entri in
questo male. >la gli uomini pigliano
certe vie del mezzo, clic sono dannosissime;
perchè non sanno essere nè tutti buoni
nè tutti cattivi: come ne seguente
capitolo, per esempio, si mostrerà. Sanno
rarissime volle gli uomini essere al lutto
tristi o al fulto buoni. Papa Giulio secondo,
andando na Bologna per cacciare di quello
Stato la casa de’Bentivogli, la quale aveva
tenuto il principato di quella città cento anni,
voleva ancora trarre Giovampagoto Buglioni
di Perugia, della quale era tiranno, come
quello che aveva congiurato contro a tutti
gli tiranni che occupavano le terre della
Chiesa. E pervenuto presso a Perugia con questo
animo e deliberazione nota a ciascuno, non
aspettò di entrare in quella città
con lo esercito suo che lo guardasse,
mn % entrò disarmato, non ostante vi fusse dentro
Giovampagolo con genti assai, quali per
difesa di sè aveva ragunate. Sicché,
portato da quel furore con il quale
governava tutte le cose, con la semplice
sua guardia si rimesse nelle mani del
nemico ; il quale dipoi ne menò seco,
lasciando un governadore in quella citta,
che rendesse ragione per la Chiesa. Fu
notala dagli uomini prudenti che col papa
erano, la temerità del papa e la
viltà di Giovampagolo ; uè potevano stimare
donde si venisse che quello noti avesse,
con sua perpetua fama, oppresso ad un
tratto il nemico suo, e sè arricchito di
preda, sendo col papa tutti li cardinali,
con tutte le lor delizie. Nè si poteva
credere si fusse astenuto o per bontà, o
per conscienza che lo ritenesse; perchè in
un petto d’ un uomo facinoroso, che si
teneva la sorella, che aveva morti i cugini
cd i nepoti per regnare, non poteva
scendere alcuno pietoso rispetto: ina si
conchiuse, che gli uomini no sanno essere
onorevolmente tristi, o perfettamente buoni; e come
una tristizia ha in sè grandezza, o è in
alcuna parte generosa, eglino non vi sanno
entrare. Cosi Giovampagolo, il quale non stimava essere
incesto e pubblico parricida, non seppe, o, a
dir meglio, non ardì, avendon giusta
occasione, fare una impresa, dove ciascuno
avesse ammirato l’animo suo, e avesse di sè
lasciato memoria eterna; sendo il primo che
avesse dimostro ai prelati, quanto sia da
stimar poco chi vive c regna come loro; ed avesse
fatto una cosa, la cui grandezza avesse
superato ogni infamia, ogni pericolo, clic
da quella potesse depeudere. Per qual
cagione i Romani furono meno ingrati agli loro cittadini
che gli Ateniesi. Qualunque legge le cose
fatte dalle repubbliche, troverà in tutte qualche
spezie di ingratitudine contro a’ suoi
citladini; ma ne troverà meno in Roma che
in Atene> e per avventura in qualunque
altra repubblica. E ricercando la cagione di
questo, parlando di Roma c di Atene,
credo accadesse perchè i Romani avevano meno
cagione di sospettare de’ suoi cittadini, che gli
Ateniesi. Perchè a Roma, ragionando di lei dalla cacciata
dei Re intino a Siila e Mario, non fu
mai tolta la libertà da alcuno .suo
cittadino: in modo che in lei non era
grande cagione di sospettare di loro, e,
per conseguente, di offendergli inconsideratamente.
intervenne bene ad Atene il contrario:
perché, sendole tolta la libertà da
Pisistrato nel suo più florido tempo, e
sotto uno inganno di bontà ; come
prima la diventò poi libera, ricordandosi
delle ingiurie ricevute e della passata servitù,
diventò acerrima vendicatrice non solamente degli
errori, ma delP ombra degli errori de' suoi
cittadini. Di qui nacque l’esilio e la morte di
tanti eccellenti uomini; di qui Pordine
dello ostracismo, ed ogni altra violenza
che contra i suoi ottimati in vari tempi
da quella città fu fatta. Ed è verissimo
quello che dicono questi scrit-
tori della civiltà: che i popoli mordono più
fieramente poi ch’egli hanno recuperala la
libertà, che poi che l’hanno conservala.
Chi considerrà adunque, quanto è detto, non
biasimerà in questo Atene, nè lauderà Roma;
ma ne accuserà solo la necessità, per
la diversità degli accidenti che in queste
città nacquero. Perchè si vedrà, chi
considererà le cose sottilmente, che se a
Roma fusse siila tolta la libertà come a
Atene, non sarebbe stata Roma più pia
verso i suoi cittadini, che si fusse
quella. Di che si può fare verissima
conieltura per quello che occorse, dopo la
cacciata dei Re, contra a Collatino ed a
Publio Valerio: de’ quali il primo, ancora
elicsi trovasse a liberare Roma, E MANDATO IN ESILIO NON PER
ALTRA CAGIONE CHE PER TENERE IL NOME DE’ TARQUINI; P altro, avendo
sol «lato di sè sospetto per edificare una casa
in sul monte Celio, fu ancora per essere
fatto esule. Talché si può stimare, veduto
quanto Roma fu in questi due sospettosa e
severa, che Farebbe usata la ingratitudine
come Atene, se da’suoi cittadini, come
quella ne’ primi tempi ed innanzi allo
augumento suo, fosse stata ingiuriata. G per
non avere a tornare più sopra questa
materia della ingratitudine, ne dirò quello
ne occorrerà nel seguente capitolo. Quale sia
più ingrato , o un popolo j o un principe. Egli
mi pare, a proposito della soprascritta materia,
da discorrere quale usi con maggiori esempi
questa ingratitudine, 0 un popolo, o un principe.
E per disputare meglio questa parte, dico, come
questo vizio della ingratitudine nasce o dalla
avarizia, o dal sospetto. Perchè, quando o un
popolo o un priacipe ha mandato fuori
un suo capitano in una cspedizione
importante, dove quel capitano, vincendola, ne
abbia acquistata assai gloria ; quel principe o quel
popolo è tenuto allo incontro a premiarlo: e se,
in cambio di premio, o ei lo disonora o
ei T offende, mosso dalla avarizia, non
volendo, ritenuto da questa cupidità, satisfarli;
fa uno errore che non ha scusa, anzi
si tira dietro una infamia eterna. Pure
si trovano molti principi che ci peccano. E
Cornelio TACITO dice, con questa sentenzia,
la cagione: Proclivius est inj ur ite, quarti
beneficio vicem cxsolvcre, quia grafia oneri,
ultio in questu fiabe tur. Ma quando ei
non lo premia, o, a dir meglio, l’offende,
non mosso da avarizia, ma da sospetto;
allora merita, e il popolo e il principe,
qualche scusa. E di queste ingratitudini usate
per tal cagione, se ne legge assai :
perchè quello capitano il quale virtuosamente
ha acquistato uno imperio al suo signore,
superando i ne-mici, e riempiendo sè di
gloria e gli suoi soldati di ricchezze; di
necessità, e con i soldati suoi, e con i
nemici, e coi sudditi propri di quel
principe acquista tanta reputazione, che quella
vittoria non può sapere di buono a quel
signore che lo ha mandato. G perchè la
natura degli uomini è ambiziosa e sospettosa, e non
sa porre modo a ntssuna sua fortuna, è
impossibile che quel sospetto che subito
nasce nel principe dopo la vittoria di
quel suo capitano, non sia da quel
medesimo accresciuto per qualche suo modo o
termine usato insolentemente. Talché il
principe non può peusare ad altro che
assicurarsene; e per fare questo, pensa o di
farlo morire, o di torgli la reputazione
che egli si ha guadagnala nel suo
esercito e ne’ suoi popoli: e con ogni industria
mostrare che quella vittoria è nata non per
la virtù di quello, ma per fortuna, o per viltà
dei nemici, o per prudenza degli altri capitani
clic sono stati seco in tale l’azione.
Poiché Vespasiano, sendo in Giudea fu
dichiarato dal suo esercito imperadore ;
Antonio Primo, che si trovava con un
altro esercito in llliria, prese le parti
sue, e ne venne in Italia contea a Vitellio
il quale regnava a Roma, e virluosissimamente
ruppe due eserciti Vitelliani, c occupò
Roma ; talché Muziano, mandato da Vespasiano,
trovò per la virtù d’Antonio acquistato •
il tutto, e vinta ogni di ffìcultà. 11
premio che Autonio ne riportò, fu che
Muziano gli tolse subito la ubidienza dello
esercito, e a poco a poco io ridusse in Roma senza
alcuna autorità: talché Antonio ne andò a
trovare Vespasiano, il quale era ancora in
Asia; dal quale fu in modo ricevuto,
che, in breve tempo, ridotto in nessun
grado, quasi disperato morì. E di questi
esempi ne sono piene le istorie. Ne’
nostri tempi, ciascuno che al presente
vive, sa con quanta industria e virtù
Consalvo Ferrante, militando nel regno di
Napoli contra a’ Franciosi per Ferrando Re
di Ragona, conquistasse e vincesse quel
regno; e come, per pre-
mio di vittoria, ne riportò che Ferrando si
parti da Ragona, e, venuto a Napoli, in
prima gli levò la obedienza delle genti d’
arme, c dipoi gli tolse le fortezze, ed
appresso lo menò seco in Spagna; dove
poco tempo poi, inonorato, mori. È tanto,
dunque, naturale questo sospetto ne’ principi,
che non se ne possono difendere; ed è
impossibile ch’egli usino gratitudine a quelli
che con vittoria hanno fatto sotto le
insegne loro grandi acquisti. E da quello
che non si difende un principe, non è
miracolo, nè cosa degna di maggior
considerazione, s.e un popolo non se ne
difende. Perchè, avendo una città che vive
libera, duoi fini, V uno lo acquistare,
l’altro il mantenersi libera ; conviene che
nell’ una cosa e nell’ altra per troppo
amore erri. Quanto agli errori nello
acquistare, se ne dirà nel luogo suo.
Quanto agli errori per mantenersi libera,
sono, intra
gli altri, questi: di offendere quei
cittadini elicla doverrebbe premiare; aver sospetto
di quelli in cui si doverrebbe confidare. E
benché questi modi in una repubblica venuta
alla corruzione siano cagione di grandi
mali, c che molle volte piuttosto la viene
alla tirannide, come intervenne a Roma di
Cesare, che per forza si tolse quello
che la ingratitudine gli negava; nondimeno
in una repubblica non corrotta sono cagione
di gran beni, e fanno che la ne vi\e
libera più, mantenendosi per paura ili punizione
gli uomini migliori, e meno ambiziosi. Vero è
che infra tutti i popoli che mai ebbero
imperio, per le cagioni di sopra discorse,
Roma fu la meno ingrata : perchè della
sua ingratitudine si può dire che non
ci sia altro esempio che quello di
Scipione; perchè Coriolano c Cammillo fumo
fatti esuli per ingiuria che l’uno e
l’altro aveva fatto alla Plebe. Ma all’
uno non fu perdonato, per aversi
sempre riserbato
contea al Popolo l’animo nemico; Paiteo
non solamente fu richiamato, ma per tutto
il tempo della sua vita adorato come
principe. Ma la ingratitudine usata a Scipione,
nacque da un sospetto che i cittadini
cominciorno avere di lui, che degli altri
non s’era avuto: il quale nacque dalla
grandezza del nemico che Scipione aveva
vinto; dalla reputazione che gli aveva data
la vittoria di sì lunga e pericolosa
guerra; dalla celerità di essa ; dai favori
che la gioventù, la prudenza, e le
altre sue memorabili virtuti gli acquistavano.
Le quali cose furono tante, che, non
che altro, i magistrati di Roma temevano
della sua autorità: la qual cosa spiaceva
agli uomini savi, come cosa inconsueta in
Roma. E parve tanto straordinario il vivere
suo, che CATONE PRISCO, riputato santo, fu IL PRIMO a
fargli contra ; e a dire che una città non
si poteva chiamare libera, dove era un
cittadino che fusse temuto dai magistrati.
Talché, se il popolo di Roma 1 seguì
in questo caso L’OPINIONE DI CATONE, merita
quella scusa che di sopra ho detto
meritare quelli popoli e quelli principi che
per sospetto sono ingrati. Conchiudendo adunque
questo discorso, dico, che usandosi questo
vizio della ingratitudine o per avarizia o per
sospetto, si vedrà come i popoli non mai
per T avarizia la usorno, e per sospetto assai i
manco che i principi, avendo meno cagione
di sospettare: come di sotto si dirà. Quali
modi debbo usare un principe o una
repubblica per fuggire questo vizio della
ingratitudine : c quali quel capitano o quel
cittadino per non essere oppresso da quella. Un
principe, per fuggire questa necessità di
avere a vivere con sospetto, o esser ingrato,
debbe personalmente andare nelle espedizioni;
come facevano nel principio quelli imperadori
romani, come fu ne’ tempi nostri il Turco,
c come hanno fatto e fanno quelli che sono virtuosi.
Perchè, vincendo, la gloria e lo acquisto è
tutto loro; e quando non vi sono, sendo
la gloria d’altrui, non pare loro potere
usare quello acquisto, s’ ei non spengono
in altrui quella gloria che loro non
hanno saputo guadagnarsi, e diventare ingrati
ed ingiusti : e senza dubbio, è maggiore la
loro perdita, che il guadagno. Ma quando, o
per negligenza o per poca prudenza, e’ si
rimangono a casa oziosi, c mandano un capitano;
io non ho che precetto dar loro altro,
che quello che per lor medesimi si
sanno. .Ma dico bene a quel capitano, giudicando
io che non possa fuggire i morsi
della ingratitudine, che faccia una delle
due cose: o subito dopo la vittoria lasci
lo esercito c rimettasi nelle mani del suo
principe, guardandosi da ogni atto insolente o
ambizioso; acciocché quello, spogliato d’ogni
sospetto, abbia cagione o di premiarlo o di
non lo offendere : o, quando questo
non gli paia di fare, prenda animosamente
la parte contraria, e tenga tutti quelli
modi per li quali creda che quello
acquisto sia suo proprio e non del principe
suo, facendosi benivoli i soldati ed i sudditi; e
faccia nuove amicizie coi vicini, occupi
con li suoi uomini le fortezze, corrompa i
principi del suo esercito, e di quelli che
non può corrompere si. assicuri; e per
questi modi cerchi di punire il suo
signore di quella ingratitudine che esso
gli userebbe. Altre vie non ci sono:
ma, come di sopra si disse, gli
uomini non sanno essere nè al tutto tristi,
nè al tutto buoni: e sempre interviene che,
subito dopo la vittoria, lasciare lo
esercito non vogliono, portarsi modestamente non
possono, usare termini violenti e che abbino
in sè Tonorevole, non sanno; talché,
stando ambigui, intra quella loro dimora ed
ambiguità, sono oppressi. Quanto ad una repubblica,
volendo fuggire questo vizi dello ingrato,
non si può dare il medesimo rimedio che
al principe; cioè che vadia, e non mandi,
nelle cspedizioni sue, sendo necessitate a
mandare un suo cittadino. Conviene, pertanto,
che pei*rimedio io le dia, che la
tenga i medesimi modi che tenne la
repubblica romana, ad esser meno ingrata
che l’altre: il che nacque dai modi
del suo governo. Perchè, adoperandosi tutta
la città, e gli nobili e gli ignobili,
nella guerra, surgeva sempre in Roma in
ogni età tanti uomini virtuosi, ed ornati
di varie vittorie, che il popolo non
avea cagione di dubitare di alcuno di
loro, sendo assai, c guardando P uuo Patirò. E
in tanto si mantenevano interi, e respettivi di non
dare, ombra di alcuna ambizione, uè cagione
al popolo, come ambiziosi, d* offendergli ;
che venendo alla dittatura, quello maggior
gloria ne riportava, che più tosto la
deponeva. E cosi, non potendo simili modi
generare sospetto, non generavano ingratitudine.
In modo che, una repubblica che nott voglia
avere cagione d’essere ingrata, si debbo governare
come Roma ; c uno cittadino che voglia
fuggire quelli suoi morsi, debbc osservare i
termini osservati dai cittadini romani. Che »
capitani romani per errore commesso ?io«
furono mai istraordinariamcnlc puniti; nè furono mai
ancora puniti quando, per la ignoranza loro
o tristi partiti presi da loro, ne fissino
seguiti danni alla repubblica. 1 Romani, non
solamente, come di sopra avemo discorso,
furono manco ingrati die V altre repubbliche,
ma furono ancora più pii e più respctlivi
nella punizione de’ loro capitani degli eserciti, che
alcune altre. Perchè, se il loro errore
fussc stato per malizia, e’ lo gastigavano
umanamente; se gli era per ignoranza, non
che lo punissino, e’ lo premiavano ed
onoravauo. Questo modo del procedere era
bene considerato da -loro: perchè e' giudicavano
che fusse di tanta importanza a quelli che
governavano gli eserciti loro, lo avere
l’animo libero ed espedito, e senza altri
estrinsechi rispetti nel pigliare i parliti, che non
volevano aggiugnere ad una cosa per sè
stessa difficile e pericolosa, nuove difficultà c pericoli
; pensando che aggiugttendovcli, nessuno potesse
essere che operasse mai virtuosamente.
Verbigrazia, e’ mandavano uno esercito in Grecia
contra a Filippo di Macedonia, o in Italia
contra ad Annibale, o contro a quelli
popoli che vinsono prima. Era questo
cupitano clic era preposto a tale espedizione,
angustiato da tutte quelle cure che si
arrecavano dietro quelle faccende, le quali
sono gravi e importantissime. Ora, se a tali
cure si fus»sino aggiunti più esempi
di Romani ch’eglino avessino crucifissi o altrimenti morti
quelli che avessino perdute le giornale,
egli era impossibile che quello capitano
intra tanti sospetti potesse deliberare
strenuamente. Però, giudicando essi che a questi
tali fusse assai pena la ignominia dello
avere perduto, non gli vollono con altra
maggior pena sbigottire. Uno esempio ci è,
quanto allo errore commesso non per ignoranza. Erono
Sergio e Virginio a campo a Veio, ciascuno
preposti ad una parte dello esercito; de’
quali Sergio era all’incontro donde potevano
venire i Toscani, c Virginio dall’ altra
parte. Occorse che sendo assaltato Sergio
dai Falisci e da altri popoli, sopportò d’
essere rotto c fugato prima che mandare
per aiuto a Virginio. E dall’altra parte,
Virginio aspettando che si umiliasse, volle
piuttosto vedere, il disonore della patria sua,
e la rovina di quello esercito, clic
soccorrerlo. Caso veramente esemplare e tristo, c
da fare non buona coniettura della
Repubblica romana, se 1’ uno c l’altro non
fusscro stati gasligali. Vero è che, dove
un’altra repubblica gli a r ebbe puniti di
pena capitale, quella gli punì in danari.
II che nacque non perchè i peccali
loro non meritassino maggior punizione, ma
perchè -gli Romani voiiono in questo
caso, per le ragioni già dette, mantenere
gli antichi costumi loro. E quanto agii
errori per ignoranza, non ci è il più
bello esempio che quello di VARRRONE (si veda):
per la temerità del quale sendo rotti i
Romani a Canne da Annibaie, dove quella
Repubblica portò pericolo della sua libertà;
nondimeno, perchè vi fu ignoranza e non
malizia, non solamente non lo gastigorno
ma lo onororno, e gli andò incontro
nella tornata sua in Roma tutto l’Ordine
senatorio; e non lo potendo ringraziare della
zuffa, Io ringraziarono eh’ egli era
tornato in Roma, c non si era disperato
delle cose romane. Quando Papirio Cursore volevu fare
morire Fabio, per avere contea al suo
comandamento combattuto coi Sanniti; intra le
altre ragioni che dal patire di Fabio
erano assegnale conira alla ostinazione del
Dittatore, era che il Popolo romano in
alcuna perdita de’ suoi Capitani non aveva
fatto mai quello che Papirio nella vittoria
voleva fare. XXXII. Una repubblica o uno principe
non < lebbe differire a beneficare gli uomini
nelle sue necessitati. Ancora che ai Romani
succedesse felicemente essere liberali al Popolo,
sopravvenendo il pericolo, quando Porsena venne
ad assaltare Roma per rimettere i Tarquini ;
dove il Senato dubitando della Plebe, che
non volesse piuttosto accettare i Re che
sostenere la guerra, per assicurarsene la
sgravò delle gabelle del sale, e d’ogni
gravezza ; dicendo come i poveri assai operavano
in benefizio pubblico se ci nutrivano i
lorofigliuoli ; e che per questo benefizio quel Popolo
si esponesse a sopportare ossidione, fame e
guerra: non sia alcuno
che, confidatosi in questo esempio, differisca
ne’tempi de’ pericoli a guadagnarsi il Popolo;
perchè mai gli riuscirà quello che riuscì
ni Romani. Perchè lo universale giudicherà
non avere quel bene date, ma dogli
avversari tuoi; e dovendo temere che, passata
la necessità, tu ritolga loro quello che
hai forzatamente loro dato, non arà tcco
obbligo alcuno. E la cagione perchè ai
Romani tornò bene questo partilo, fu perchè
lo Stato era nuovo, e non per ancora
fermo; ed aveva veduto quel Popolo, come
innanzi si erano fatte leggi in benefizio
suo, come quella delia appellagione alla Plebe; in
modo che ei potette persuadersi che quel
bene gli era fatto, non era tanto causato
dalla venuta dei nemici, quanto dalla
disposizione del Senato in beneficarli. Olirà
di questo, la memoria dei Re era
fresca; dai quali erano stati in molti
modi vilipesi ed ingiuriati. E per-chè simili
cagioni accaggiono rade volte, occorrerà ancora
rade volte che simil remedi giovino. Però,
debbe qualunque tiene stato, cosi repubblica
come principe, considerare inuanzi, quali tempi gli
possono venire addosso contrari, c di quali
uomini ne’ tempi avversi si può avere di
bisogno; e dipoi vivere con loro in quel
modo che giudica, sopravvegnente qualunque
caso, essere necessitato vivere. E quello che
altrimenti si governa, o principe o repubblica, e
massime un principe; e poi in sul fatto crede,
quando il pericolo sopravviene, coi benefìzii
riguadagnarsi gli uomini; se ne inganna :
perchè non solamente non se ne assicura,
ma accelera la sua rovina. Quando uno
inconveniente è cresciuto o in uno Stalo o con
tra ad uno Stato , è più salutifero partito
temporeggiarlo che urtarlo. Crescendo In
Repubblica romana in reputazione, forze ed
imperio, i vicini, i quali prima non
avevano pensato quanto quella nuova Repubblica
potesse arrecare loro di danno, coniinciorno, ma tardi,
a conoscere lo errore loro ; e volendo rimediare
a quello che prima non avevano rimediato,
conspirorno ben quaranta popoli contra a Roma :
donde i Romani, intra gli altri rimedi
soliti farsi da loro negli urgenti
pericoli, si volsono a creare il Dittatore ;
cioè dare potestà ad uno uomo che
senza alcuna consulta potesse deliberare, e senza
alcuna appellagione potesse eseguire le sue
deliberazioni. Il quale rimedio come allora fu
utile, e fu cagione che vincessero gl*
imminenti pericoli, cosi fu sempre utilissimo
in tutti quelli accidenti che,
nello augumento dello imperio, in qualunque
tempo surgessino contra alla Repubblica. Sopra
il qual accidente è da discorrere prima,
come quando uno inconveniente che surga, o
in una repubblica o contra ad una
repubblica, causato da cagione intrinseca o
estrinseca, è diventalo lauto grande clic e’ comincia
far paura a ciascuno; è mollo più sicuro
partilo temporeggiarsi con quello, che tentare
di estinguerlo. Perchè, quasi sempre coloro
che tentano di ammorzarlo, fanno le sue
forze maggiori, e fanno accelerare quel
male che da quello si suspettava. E di
questi simili accidenti ne nasce nella
repubblica più spesso per cagione intrinseca,
che estrinseca : dove molte volte, o e’ si
lascia pigliare ad uno cittadino più forze
che non è ragionevole, o e’ si comincia a corrompere
uua legge, la quale è il nervo e la
vita del vivere libero; e lasciasi trascorrere
questo errore in tanto, che gli è più
dannoso partito il volervi rimediare, che
lasciarlo seguire. E tanto più è difficile il
conoscere questi inconvenienti quando e’ nascono,
quanto e’pare più naturale agli uomini
favorire sempre i principii delle cose. E tali
favori possono, più che in alcuna altra cosa,
nelle opere che paiono che abbino in
sè qualche virtù, e siano operale da’ giovani:
perchè, se in una rcpubblica si vede
surgere un giovane nobile, quale abbia in
sè virtù istraordinaria, lutti gli occhi
de’ cittadini si cominciano a voltare verso
di lui, e concorrono senza alcuno rispetto
ad onorarlo ; in modo che, se in
quello è punto d* ambizione, accozzati i favori
che gli dà la natura e questo accidente,
viene subito in luogo, che quando i
cittadini si avveggono dell'errore loro, hanno
pochi rimedi ad ovviarvi; e volendo quelli tauti
ch’egli hanno, operarli, non fanno altro
che accelerare la potenza sua. Di questo
se ne potrebbe addurre assai esempi, ma
io ne voglio dare solamente uno della
citta nostra. Cosimo de’ MEDICI, dal quale
la casa de’ Medici in la nostra città
ebbe il principio della sua grandezza, venne
in tanta reputazione col favore che gli
dette la sua prudenza e la ignoranza
degli altri cittadini, che ei cominciò a
fare paura allo Stato; in modo clic
gli altri cittadini giudicavano l’offenderlo
pericoloso, ed il lasciarlo stare cosa
pericolosissima. Ma vivendo in quei tempi
Niccolò da Uzzano,' il quale nelle cose
civili era tenuto uomo espertissimo, ed
avendo fatto il primo errore di non
conoscere i pericoli clic dalla reputazione di
Cosimo potevano nascere; mentre che visse,
non permesse mai clic si facesse il
secondo, cioè che si tentasse di volerlo
spegnere, giudicando tale tentazione essere al
tutto la rovina dello Stato loro; come
si vide in fatto clic fu, dopo la
sua morte : perchè, non osservando quelli
cittadini che rimasono, questo suo
consiglio, si feciono forti contra a Cosimo, e
lo cacciorno da Firenze. Donde ne nacque
che la sua parte, per questa ingiuria
risentitasi, poco dipoi lo chiamò, e lo
fece principe della repubblica: al quale
grado senza quella manifesta opposizione non
sarebbe mai potuto ascendere. Questo medesimo intervenne
a Roma con Cesare; chè favorita da
Pompeio e dagli altri quella sua virtù, si
convertì poco dipoi quel favore in paura:
di che fa testimonio CICERONE, dicendo che
Pompeio aveva tardi cominciato a temer Cesare. La
qual paura fece che pensorono ai rimedi ; e
gli rimedi che feciono, accelerorno la
rovina della loro Repubblica. Dico adunque,
che dipoi che gii è difficile conoscere
questi mali quando e’surgono, causata
questa difficultà da uno inganno che ti
fanno le cose in principio ; è più savio
partito il temporeggiarle poiché le si
conoscono, che l’oppugnarle : perchè temporeggiaudole,
o per lor medesime si spengono, o almeno il
male si differisce in più lungo tempo. E
in tutte le cose debbono aprir gli
occhi i principi che disegnano cancellarle, o
alle forze ed impeto loro opporsi; di
non dare loro, in cambio di detrimento,
augumento ; e credendo sospingere una cosa,
tirarsela dietro, ovvero soffocare una pianta
con anuaffiarla. Ma si debbe considerare
bene le forze del malore, c quando ti
vedi suffizientc a sanarlo, mettervili senza
rispetto: altrimenti, lasciarlo stare, nò in alcun
modo tentarlo. Perchè interverrebbe, come di
sopra si discorre, e come intervenne a’
vicini di Roma: ai quali, poiché Roma
era cresciuta in tanta potenza, era più
salutifero con gli modi della pace cercare
di placarla c ritenerla addietro, che coi modi della
guerra farla pensare a nuovi ordini e nuove
difese. Perchè quella loro congiura non
fece altro che farli più uniti, più
gagliardi, e pensare a modi nuovi, medinoti i
quali in più breve tempo ampliorono la
potenza loro. Intra’quali fu la creazione
del Dittatore; per lo quale nuovo ordine
non solamente superorono gli imminenti pericoli,
ma fu cagione di ovviare a infiniti mali ,
ne’ quali senza quello rimedio quella
repubblica sarebbe incorsa, v-.j. ;• vk'u Urlimi*
llìl tòt* XXXIV. — l/autorità dittatoria fece bene , c
non danno , alla repubblica romana: c come le
autorità che i cittadini si tolgono s non quelle
che sono loro dai suffragi liberi date ,
sono alla vita civile perniciose. E’ sono
stati dannati da alcuno scrittore quelli
Romani che trovorono in quella città il
modo di creare il Dittatore, come cosa
che fusse cagione, col tempo, della
tirannide di Roma; allegando, come il primo
tiranno che fusse in quella città, la
comandò sotto questo titolo dittatorio; dicendo
che se non vi fusse stato questo,
Cesare non arebbe potuto sotto alcuno
titolo pubblico adonestare la sua tirannide.
La qual cosa non fu bene da colui
che tenne questa oppinione esaminala, e fu
fuori d’ogni ragione creduta. Perchè, e’
non fu il nome nè il grado del
Dittatore che facesse serva Roma, ma fu l’
autorità presa dai cittadini per ia
diuturnità dello imperio: c se in Roma
fusse mancato il nome dittatorio, ne
arebbon preso un altro; perchè e’ sono
le forze che facilmente s’acquistano i nomi,
non i nomi le forze. si vedde che ’1
Dittatore, mentre che fu dato secondo gli
ordini pubblici, c non per autorità propria,
fece sempre bene alla città. Perchè e’
nuocono alle repubbliche i magistrati che si
fanno e l’autoritati che si danno per
vie istraor-dinarie; non quelle che vengono
per vieordinarie: come si vede che
segui inRoma in tanto progresso di
tempo, chemai alcuno Dittatore fece se
non benealla Repubblica. Di che ce ne
sono ra-gioni evidentissime. Prima, perchè a vo-lere che
un cittadino possa offendere epigliarsi
autorità istraordinaria, convienech’egli abbia
molte qualità le quali inuna repubblica
non corrotta non puòmai avere: perchè
gli bisogna esserericchissimo, ed avere
assai aderenti epartigiani, i quali non può
avere dovele leggi si osservano; e quando
pure vgli avesse, simili uomini sono
in modoformidabili, che i suffragi liberi
nonconcorrono in quelli. Oltra di questo,il
Dittatore era fatto a tempo, e nonin
perpetuo, e per ovviare solamente quella
cagione mediante la quale eracreato ; e la
sua autorità si estendevain potere
deliberare per sè stesso circai modi di
quello urgente pericolo, e fareogni cosa
senza consulta, e punire cia-scuno senza
appellagione: ma non po-teva far cosa che
fusse in diminuzionedello Stato; come
sarebbe stato torreautorità al Senato o al
Popolo, disfaregli ordini vecchi della
città, e farnede’ nuovi. In modo che,
raccozzato ilbreve tempo della sua
dittatura, c l’ autorità limitata che egli aveva,
ed il po-polo romano non corrotto; era
impos-sibile ch’egli uscisse de’ termini suoi,
enoccsse alla città: e per esperienza
sivede che sempre mai giovò. E veramen-te,
infra gli altri ordini romani, questoè uno
che merita esser consideralo, econnumerato
infra quelli che furono ca-gione della
grandezza di tanto imperio;perchè senza un
simile ordine le cittàcon difficoltà usciranno
degli accidentiistra ordinari : perchè gli ordini
consuetinelle repubbliche hanno il moto
tardo(non potendo alcuno consiglio nè
alcunomagistrato per sè stesso operare
ognicosa, ma avendo in molle cose
bisognol’uno dell’altro), e perchè nel
raccozzareinsieme questi voleri va tempo,
sono irimedi loro pericolosissimi, quando
eglihanno a rimediare a una cosa che
nonaspetti tempo. E però le repubblichedebbono
intra’ loro ordini avere un sl-mile modo :
e la Repubblica veneziana,la quale intra le
moderne repubblicheè eccellente, ha riservato
autorità a pa-chi cittadini, che ne’
bisogni urgenti,senza maggiore consulta, tutti
d’accordopossino deliberare. Perchè quando inuna
repubblica manca un simil modo
è necessario, o servando gli ordini ro-vinate, o
per non rovinare rompergli.Ed in una
repubblica non vorrebbe maiaccader cosa,
che coi modi estraordinaris’ avesse a governare.
Perchè, ancorache il modo istraordinario
per allorafacesse bene, nondimeno lo
esempio famale ; perchè si mette una
usanza dirompere gli ordini per bene
che poisotto quel colore si rompono
per male.Talché mai Ha perfetta una
repubblica,se con le leggi sue non ha
provvisto atutto, e ad ogni accidente posto
ti ri*medio, e dato il modo a governarlo.
Eperò, conchiudendo, dico che quelle re-pubbliche
le quali negli urgenti pericolinon hanno
rifugio o al Dittatore o asimili autoritati,
sempre ne’ gravi acci-denti rovineranno. È da
notare in que-sto nuovo ordine, il modo
dello elegger-lo, quanto dai Romani fu
saviamenteprovvisto. Perchè, sendo la
creazionedel Dittatore con qualche vergogna
deiConsoli, avendo, di capi della città,
avenire sotto una ubidienza come gli
al- tri ; e presupponendo che di
questoavesse a nascere isdegno fra i cittadini; vollono
che l' autorità dello eleggerlo fusse nei
Consoli: pensando che quando V accidente venisse,
che Roma avesse bisogno di questa regia
potestà, e’ lo avessino a fare volentieri; e
facendolo loro, che dolessi lor meno.
Perchè le ferite ed ogni altro male
che Y uomo si fa da sè spontaneamente e
per elezione, dolgono di gran lunga tneuo,
che quelle che ti sono fatte da
altri. Ancora che poi negli ultimi tempi i
Romani usassino, in cambio del Dittatore,
di dare tale autorità al Cousole, con
queste parole: Videat Constila ne Respublica
quiddetrimenti captai . E per tornare alla materia
nostra, conchiudo, come i vicini di Roma
cercando opprimergli, gli fcciono ordinare,
non solamente a potersi difendere, ma a potere,
con più forza, più consiglio e più
autorità, offender loro. XXXV.- — La cagione perchè in Roma
la creazione del decemvirato fa nociva alla
libertà di quella repubblicaj non ostante
che fosse creato po' suffragi pubblichi e liberi.
E’ pare contrario a quel clic di sopra è
discorso; che quella autorità che si occupa
con violenza, non quella eh’ è data con
gli suffragi, nuoce alle repubbliche; la
elezione dei dicci cittadini creati dal
Popolo romano per fare le leggi in Roma:
i quali ne diventorno col tempo tiranni, e
senza alcun rispetto occuporno la libertà
di quella. Dove si debbe considerare i modi
del dare {'autorità, ed il tempo perchè
la si dà. E quando e’ si dia autorità
libera, col tempo lungo, chiamando il tempo
lungo un anno, o più; sempre fia
pericolosa; e farà gli effetti o buoni o tristi,
secondo che fieno tristi o buoni coloro a
chi la sarà data. E se si considera
l’autorità che ebber i Dicci, e quella che
avevano i Dittalori, si vedrò senza
comparazione quella de’ Dieci maggiore. Perchè,
creato il Dittatore, rimanevano i Tribuni, i Consoli, il
Senato, con la loro autorità ; nò il Dittatore
la poteva torre loro: e s* egli avesse
potuto privare uno del consolato, uno del
senato, ei non poteva annullare l’ordine
senatorio, e fare nuove leggi. In modo che
il Senato, i Consoli ed i Tribuni, restando
con l’autorità loro, venivano ad essere
come sua guardia, a farlo non uscire della
via diritta. Ma nella creazione dei Dieci
occorse tutto il contrario ; perchè gli
annullorno i Consoli cd i Tribuni, dettono loro
autorità di fare leggi, ed ogni altra cosa,
come il Popolo romano. Talché, trovandosi
soli, senza Consoli, senza Tribuni, senza
appcllagionc al Popolo ; e per questo non
venendo ad avere chi osscrvassegli, ei
poterono, il secondo anno, mossi dall’
ambizione di Appio, diventare insolenti. E per
questo si debbo notare, che quando e’ si è
detto che una autorità data da’
suffragi liberi, non offese mai alcuna
repubblica; si presuppone che un popolo non
si conduca inai a darla, se non con
le debite circonstanzie, e ne’ debiti tempi: ma quando,
o per essere ingannato, o per qualche altra
cagione che lo accecasse, e’ si conducesse a
darla imprudentemente, e nel modo che ’l
Popolo romano la dette a’ Dieci, gl’
interverria sempre come a quello. Questo si
prova facilmente, considerando quali cagioni
mantenessero i Dittatori buoni, e quali facessero i Dieci
cattivi; e considerando ancora, come hanno fatto
quelle repubbliche che sono state tenute
bene ordinate, nel dare 1* autorità per
lungo tempo; come davano gli Spartani agli
loro Re, e come danno i Veniziani ai loro
Duci: perchè si vedrà, all* uno ed
all’ altro modo di costoro esser poste
guardie, che facevano che i Re non
potevano usare male quella autorità. Nè
giova in questo caso, che la materia
non sia corrotta; perchè una autorità
assoluta, in brevissimo tempo corrompe la
materia, c si fa amici c partigiani. Nè
gli nuoce o esser povero, o non avere
parenti; perché le ricchezze cd ogni altro
favore subito gli corre dietro: come particolarmente
nella creazione de’ detti Dieci discorreremo. XXXVI. —
Pioti debbono i cittadini che hanno avuti »
maggiori onori, sdegnarsi de* minori. Avevano i
Romani fatti Marco Fabio e G. Manilio
consoli, e vinta una gloriosissima giornata
contea a’ Veicnti e gli Etruschi; nella
quale fu morto Quinto Fabio, fratello del
consolo, quale Io anno davanti era stato
consolo. Dove si debbe considerare, quanto
gli ordini di quella città erano atti a
farla grande; c quanto le altre repubbliche
che si discostano dai modi suoi, s’ingannano. Perchè,
ancora che i Romani fussino amatori grandi
della gloria, nondimeno
non stimavano cosa disonorevole ubbidire ora a
chi altra volta essi avevano comandato, e
trovarsi a servire in quello esercito del
quale erano stati principi. 11 qual costume
è contrario alla oppinione, ordini e modi
de’ cittadini de’tempi nostri: ed in
Vinegia è ancora questo errore, che uno cittadino
avendo avuto un grado grande, si vergogni
di accettare uno minore; e la citta gli
consente che se ne possa discostare. La
qual cosa, quando fusse onorevole per il
privato, è al tutto inutile per il
pubblico. Perchè più speranza debbe avere
una repubblica, e più confidare in uno cittadino
che da un grado grande scenda a governare
uno minore, che in quello clic da uno
minore salga a governare un maggiore. Perchè a
costui non può ragionevolmente credere, se
non li vede uomini intorno, i qiiali siano
di tanta riverenza o di tanta virtù, che
la novità di colui possa essere con
il consiglio ed autorità loro moderata. E
quando in Roma fosse stata la consuetudine
quale in Vinegia, e nell' altre repubbliche c regni
moderni, che chi era stato una volta
Consolo, non volesse mai più andare negli
eserciti se non consolo; ne sarebbono nate
infinite cose in disfavore del viver
libero; e per gli errori che arebbono fatti
gli uomini nuovi, e per P ambizione che
loro arebbono potuto usare meglio, non
avendo uomini intorno, nel conspetto de’ quali
ei temessino errare; e cosi sarebbero venuti
ad essere più sciolti : il che sarebbe
tornato tutto in detrimento pubblico. XXXVII. —
Quali scandali partorì in Roma la legge
agraria : e come fare una logge in una
repubblica che risguardi assai indietro > e sia
conira ad una consuetudine antica della città , è
scandalosissimo. Egli è sentenza degli antichi
scrittori, come gli uomini sogliono affliggersi
nel male c stuccarsi nel benej e come dul1’
una e dall* altra di queste due passioni nascono
i medesimi effetti. Perchè, qualunque volta è
tolto agli uomini il combattere per
necessità, combattono per ambizione: la quale è
tanto potente ne’ petti umani, che mai, a
qualunque grado si salgano, gli abbandona.
La cagione è, perchè la natura ha
creati gli uomini in modo, che possono
desiderare ogni cosa, e non possono conseguire
ogni cosa : talché, essendo sempre maggiore il
desiderio che la potenza dello acquistare,
ne risulta la mala contentezza di quello
che si possiede, e la poca satisfazionc
di esso. Da questo nasce il variare
della fortuna loro: perchè desiderando gli
uomini, parte di avere più, parte temendo
di non perdere lo acquistato, si viene
alle inimicizie ed alla guerra ; dalla
quale nasce la rovina di quella provincia,
e la esaltazione di quel1’ altra. Questo
discorso ho fatto perchè alla Plebe romana
non bastò assicurarsi de’ Nobili per la
creazione de’ Tribuni, al quale desiderio
fu constretta per necessità ; che lei
subito, ottenuto quello, cominciò a combattere
per ambizione, e volere con la Nobiltà
dividere gli onori e le sustanze, come cosa
stimata più dagli uomini. Da questo nacque
il morbo che partorì la contenzione della
legge agraria, ed in (ine fu causa
della distruzione della Repubblica romana. E perchè le
repubbliche bene ordinate hanno a tenere ricco
il pubblico, e li loro cittadini poveri ;
convenne che fusse nella città di Roma
difetto in questa legge: la quale o non
fusse fatta nel principio in modo che
la non si avesse ogni di a ritrattare;
o che la si differisse tanto in farla,
che fusse scandotoso il riguardarsi indietro; o
sendo ordinata bene da prima, era stata
poi dall’ uso corrotta; talché, in
qualunque modo si fusse, mai non si
parlò di questa legge in Roma, che
quella città non andasse sottosopra. Aveva
questa legge duoi capi principali. Ter l’
uno si disponeva clic non si potesse
possedere per alcun cittadino più che tanti
iugeri di terra; per V altro, che i campi
di che si privavano i nimici, si
dividessino intra il popolo romano. Veniva
pertanto a fare di duoi sorte offese ai Nobili:
perchè quelli che possedevano più beni non permetteva
la legge (quali erano la maggior
parte de’ Nobili), ne avevano ad esser
privi ; e dividendosi intra la Plebe i beni
de’ nimici, si toglieva a quelli la via
dello arricchire. Sicché, venendo ad essere
queste offese contra ad uomini potenti, e
che pareva loro, contrastandola, difendere il
pubblico; qualunque volta, com’ è detto, si
ricordava, andava sottosopra quella città : ed i
Nobili con pazienza ed industria la
temporeggiavano, o con trac fuora un esercito, o
che a quel Tribuno che la proponeva si
opponesse uno altro Tribuno; o talvolta cederne
parte; ovvero mandare una colonia in quel
luogo che si avesse a distribuire: come
intervenne del contado di Anzio, per il
quale surgendo questa disputa della legge,
si mandò in quel luogo una colonia
traila di Roma, alla quale si consegnasse
detto contado. Dove L. usa un termine
notabile, dicendo clic con ditTìcultà si
trovò in Roma eli i desse il nome per
ire in detta colonia: tanto era quella
Plebe più pronta a volere desiderare le
cose in Homa, che a possederle in Anzio !
Andò questo umore di questa legge così
travagliandosi un tempo, tanto che i Romani
cominciarono a condurre le loro armi nelle estreme
parti di Italia, o fuori di Italia; dopo
al qual tempo parve che la restasse. Il
che nacque perchè i campi che possedevano i
nimici di Roma essendo discosti dagli occhi
della Plebe, cd in luogo dove non gli
era facile il coltivargli, veniva meno ad
esserne desiderosa: ed ancora i Romani erano
meno punitori tic’ loro nemici in siinil
modo; e quando pure spogliavano alcuna terra
del suo contado, vi distribuivano colonia. Tanto che
per tali cagioni questa legge stette come
addormentata inOno a’ Gracchi: da’ quali
essendo poi svegliata, rovinò al tutto la
libertà romana; perchè la trovò raddoppiata
la potenza de’ suoi avversari, e si accese
per questo tante odio intra la Plebe
ed il Senato, che si venne all’ armi
ed al sangue, fuor d’ogni modo e costume
civile. Talché, non potendo i pubblici magistrati
rimediarvi, nè sperando più alcuna delle
fazioni in quelli, si ricorse a’ rimedi
privati, e ciascuna delle parti pensò di
farsi uno capo che la difendesse. Pervenne
in questo scandalo e disordine la Plebe, e
volse la sua riputazione a Mario, tanto che
la lo fece quattro volte Consolo; ed
in tanto continuò con pochi intervalli il
suo consolato, che si potette per sè
stesso far Consolo tre altre volte. Contra
alla qual peste non avendo la Nobiltà
alcuno rimedio, si volse a favorir Siila; e fatto
quello capo della parte sua, vennero alle guerre
civili * e dopo molto sangue e variar di
fortuna, rimase superiore la Nobiltà.
Risuscitorono poi questi umori a tempo di
Cesare c di Pompeo; perchè, fattosi Cesare
capo della parte di Mario, c Pompeo di
quella di Siila, venendo alle mani rimase
supcriore GIULIO CESARE: IL QUALE E IL PRIMO TIRANNO IN ROMA, TALCHE MAI
E POI LIBERA QUELLA CITTA. Tale, adunque, principio e fine
ebbe la legge agraria. E benché noi
mostrassimo altrove, come le inimicizie di
Roma intra il Senato c la Plebe
mantenessero libera Roma, per nascerne da
quelle leggi in favore della libertà ; e per
questo paia disforme a tale conclusione il
fine di questa legge agraria ; dico come,
per questo, io non mi rimuovo da tale
oppinionc: perchè egli è tanta P ambizione de’
grandi, che se per varie vie ed in
vari modi la non ò in una città
sbattuta, tosto riduce quella città alla rovina sua.
In modo che, se la contenzione della legge
agraria penò trecento anni a fare Roma
serva, si sarebbe condotta, per avventura,
molto più tosto iti servitù, quando la Plebe,
e con questa legge c con altri suoi
appetiti, non avesse sempre frenato la
ambizione de’ Nobili. Vedasi per questo
ancora, quanto gli uomini stimano più la
roba che gli onori. Perchè la Nobiltà
romana sempre negli onori eedè senza
scandali istraordinari alla Plebe; ma come
si venne alla roba, fu tanta la
ostinazione sua nel difenderla, che la
Plebe ricorse, per Sfo-gare 1’ appetito suo,
a quelli istraordinari che di sopra si discorrono.
Del quale disordine furono motori i Gracchi; de’
quali si dcbbe laudare più la intenzione
che la prudenza. Perchè, a voler
levar via uno disordine cresciuto in una repubblica,
e per questo fare una legge che riguardi
assai indietro, è partito male considerato; e,
come di sopra largamente si discorse, non
si fa altro che accelerare quel male a
che quel disordine ti conduce : ma
temporeggiandolo, o il male viene più tardo, o
per sè medesimo col tempo, avanti che
venga al fine suo, si spegne. XXXVIII. — Le
repubbliche deboli sono male risolute , e non si
sanno deliberare ; c se le pigliano mai alcuno
partito j nasce più da necessità che da elezione.
Essendo in Roma una gravissima pestilenza, e
parendo per questo agli Volaci ed agli
Equi che fusse venuto il tempo di
potere oppressar Roma; fatti questi due
popoli uno grossissimo esercito, assalirono gli
Latini e gli Ernici, e guastando il loro
paese, furono constretti gli Latini c gli
Ernici farlo intendere a Roma, c pregare che
fussero difesi da' Romani: ai quali, sendo i
Romani gravati dal morbo, risposero che pigliassero
partito di difendersi da loro medesimi e
con le loro armi, perchè essi non li
potevano difendere. Dove si conosce la
generosità e prudenza di quel Senato, e come
sempre in ogni fortuna volle essere quello
che fusse principe delle deliberazioni che
avessero a pigliare i suoi; nè si vergognò
mai deliberare una cosa che fusse contraria al
suo modo di vivere o ad altre deliberazioni
fatte da lui, quando la necessità gliene
comandava. Questo dico perchè altre volte
il medesimo Senato aveva vietato ai detti
popoli l’armarsi e difendersi ; talché ad uno
Senato meno prudente di questo, sarebbe
parso cadere del grado suo a concedere loro tale
difensione. Ma quello sempre giudicò le
cose come si debbono giudicare, e sempre
prese il meno reo partilo per migliore;
perchè male gli sapeva non potere difendere
i suoi sudditi; male gli sapeva che si
armassino senza loro, per le ragioni dette,
e per molte altre che si intendono:
nondimeno, conoscendo che si sarebbono armati,
per necessità, a ogni modo, avendo il
nimico addosso; prese la parte onorevole, e
volle che quello clic gli avevano a fare,
lo facessino con licenzia sua, acciocché avendo
disubbidito per necessità, non si avvezzassino a
disubbidire per elezione. E benché questo paia
partito che da ciascuna repubblica dovesse esser preso;
nientedimeno le repubbliche deboli e male
consigliate non gli sanno pigliare, nè si
sanno onorare di simili necessità. Aveva il
duca Valentino presa Faenza, e fatto calare
Bologna agli accordi suoi. Dipoi, volendosene
tornare a Roma per la Toscana, mandò
in Firenze uno suo uomo a domandare il passo
per sé e per il suo esercito.
Consultossi in Firenze come si avesse a
governare questa cosa, nè fu mai consigliato
per alcuno di concedergliene. In che non
si seguì il modo romano: perchè, sendo
il Duca armatissimo, ed i Fiorentini in
modo disarmati che non gli potevano vietare
il passare, era molto piu onore loro,
che paresse che passasse con permissione di
quelli, che a forza; perchè, dove vi fu
al tutto il loro vituperio, sarebbe stato
in parie minore quando I* avessero
governata altrimenti. Ma la più cattiva
parte che abbino le repubbliche deboli, è
essere irresolute; in modo che lutti i
partili che le pigliano, gli pigliano per
forza; e se vieti loro fatto alcuno bene,
lo fanno forzato, c non per prudenza loro.
Io voglio dare di questo duoi altri
esempi, occorsi ne* tempi nostri nello
stato della nostra città, nel mille
cinquecento. Ripreso che il re Luigi XII
di Francia ebbe Milauo, desideroso di
rendergli Pisa, per aver cinquanta mila
ducati che gli erano stati promessi da’
Fiorentini dopo tale restituzione, mandò gli
suoi eserciti verso Pisa, capitanati da
monsignor Beaumonte; benché francese, nondiraanco uomo
in cui i Fiorentini assai confidavano. Condussesi
questo esercito e questo capitano intra Cascina e
Pisa, per andare a combattere le mura; dove
dimorando alcuno giorno per ordinarsi alla
espugnazione, vennero oratori Pisani a Beaumonte, e
gli offerirono di dare la città allo
esercito francese con questi patti: che,
sotto la fede del re, promettesse non
la mettere in mano de’ Fiorentini, prima
che dopo quattro mesi. Il qual partito
fu dai Fiorentini al tutto rifiutato, in modo
che si seguì nello andarvi a campo, e
partissene con vergogna. Nè fu rifiutato il
partito per altra cagione, che per
diffidare dellafede del re; come quelli
che per debolezza di consiglio si erano
per forza messi nelle mani sue: e
dall’altra parte, non se ne fidavano, nè
vedevano quanto era meglio che il re
potesse rendere loro Pisa sendovi dentro, e
non la rendendo scoprire P animo suo, che
non la avendo, poterla loro promettere, e loro
essere forzati comperare quelle promesse. Talché
molto più utilmente arebbono fatto a consentire
che Beaumonlc V avesse, sotto qualunque
pròmessa, presa: come se ne vide la
espcrienza dipoi, die essendosi ribellato Arezzo,
venne a’ soccorsi de* Fiorentini mandato
dal re di Francia monsignor Imbalt con
gente francese; il qual giunto propinquo ad
Arezzo, dopo poco tempo cominciò a praticare
accordo con gli Aretini, i quali sotto certa fede
volevano dare la terra, a similitudine de’
Pisani. Fu rifiutato in Firenze tale
partito ; il che veggendo monsignor Imbalt, e
parendogli come i Fiorentini se ne inlendessino
poco, cominciò a tenere le pratiche dello
accordo da se, senza participazione de’
Commessaci : tanto che e’ io conchiuse a
suo modo, e sotto quello con le sue
genti se ne entrò in Arezzo, facendo
intendere a’ Fiorentini come egli erano
matti, e non si intendevano delle cose del
mondo: che se volevano Arezzo, lo fucessino
intendere al re, il quale lo poteva
dar loro molto meglio, avendo le sue
genti in quella città, che fuori. Non
si restava in Firenze di lacerare e
biasimare detto Imbalt; nè si restò mai,
infino a tanto che si conobbe che se
Beaumonte fusse stato simile a Imbalt, si
sarebbe avuto Pisa come Arezzo. E cosi, per
tornare a proposito, le repubbliche irresolute non
pigliano mai partiti buoni, se non per
forza, perchè la debolezza loro non le
lascia mai deliberare dove è alcuno dubbio; e
se quel dubbio non è cancellalo da una
violenza, che le sospinga, stanno sempre
mai sospese. XXXIX. — In diversi popoli si
veggono spesso i medesimi accidenti. E’ si
conosce facilmente per chi considera le
cose presenti e le antiche, come in tutte
le città ed in tutti i popoli sono
quelli medesimi desiderii e quelli medesimi
umori, e come vi furono sempre : in modo
che gli è facil cosa a chi esamina con
diligenza le cose passate, prevedere in
ogni repubblica le future, c farvi quelli
rimedi che dagli antichi sono stati usati ;
o non ne trovando degli usati, pensarne de’
nuovi, per la similitudine degli accidenti.
Ma perchè queste considerazioni sono neglette, o non
intese da chi legge ; o se le sono intese,
non sono conosciute da chi governa ; ne
seguita che sempre sono i medesimi scandali
in ogni tempo. Avendo la città di Firenze perduto
parte dello imperio suo, come Pisa ed altre
terre, fu necessitata a fare guerra* a coloro
che le occupavano. E perchè chi le occupava
era potente, ne seguiva che si spendeva
assai nella guerra, senza alcun frutto ;
dallo spendere assai ne risultava assai
gravezze ; dalle gravezze, infinite querele del
popolo ; e perchè questa guerra era amministrata
da uno magistrato di dieci cittadini che
si chiamavano i Dieci della guerra, 1* universale
cominciò a recarselo in dispetto, come quello
che fusse cagione della guerra e delle
spese di essa; e corniliciò a persuadersi
che tolto via detto magistrato, fusse tolto
via la guerra : tanto che avendosi a
rifare, non se gli fecero gli scambi ; e
lasciatosi spirare, si commisero le azioni
sue alla Signoria. La qual deliberazione fu
tanto perniziosa, che non solamente non
levò la guerra, come lo universale si
persuadeva ; ma tolto via quelli uomini
che con prudenza la amministravano, ne
seguì tanto disordine, die, oltre a Pisa,
si perde Arezzo e molti altri luoghi: in
modo che, ravvedutosi il popolo dello errore suo,
e come la cagione del male era la febbre
e non il medico, rifece il magistrato de’
Dieci. Questo medesimo umore si levò in
Roma conira al nome de’ Consoli : perchè,
veggendo quello Popolo nascere 1’ una
guerra dall' altra, e non poter mai
riposarsi ; dove e' dovevano pensare che la
nascesse dalla ambizione de’ vicini che gli
volevano opprimere; pensavano nascesse dall’
ambizione dei Nobili, che non potendo
dentro in Roma gastigar la Plebe difesa
dalla potestà tribunizia, la volevano condurre
fuori di Roma sotto i Consoli, per opprimerla dove
non aveva aiuto alcuno. E pensarono per
questo, che fusse necessario o levar via i
Consoli, o regolare in modo la loro
potestà, che e* non avessino autorità sopra
il popolo, nè fuori nè in casa. 11
primo che tentò questa legge, fu uno
Terentillo tribuno ; il quale proponeva che
si dovessero creare cinque uomini che
dovessino considerare la potenza de* Consoli, e
limitarla. II che alterò assai la Nobiltà,
parendoli che la maiestà dell’ imperio
fusse al tutto declinata, talché alla
Nobiltà non restasse più alcuno grado in
quella Repubblica. Fu nondimeno tanta la
ostinazione dei Tribuni, che il nome
consolare si spense ; e furono in fine
contenti, dopo qualche altro ordine, piuttosto
creare Tribuni con potestà consolare, che i
Consoli : tanto avevano più in odio il nome
che le autorità loro. E cosi seguitorno lungo
tempo, infino che conosciuto io errore
loro, còme i Fiorentini ritornorno ai Dieci,
così loro ricreorno i Consoli. XL. La creazione
del DECEMVIRATO in Roma, e quello che in
essa è da notare: dove si considera , intra molte
altre cose, come si può salvare per simile
accidente, o oppressore una repubblica. Volendo
discorrere particolarmente sopra gli accidenti
che nacquero in Roma per la creazione
del decemvirato, non mi pare soperchio
narrare prima tutto quello che segui per
simile creazione, e dipoi disputare quelle porti
che sono in esse azioni notabili : le
quali sono molte, e di grande considerazione,
cosi per coloro che vogliono mantenere una repubblica
libera, come per quelli che disegnassino
sommetterla. Perchè in tale discorso si
vedranno molti errori fatti dal Senato e
dalla Plebe in disfavore della libertà; e
molli errori fatti da APPIO, capo del
decemvirato; in disfavore di quella tirannide
che egli si aveva pre-supposto stabilire in
Roma. Dopo molte deputazioni c contenzioni
seguite intra il Popolo e la Nobiltà per
fermare nuove leggi in Roma, per le
quali e’ si stabilisse più la libertà
di quello stato; mandarono, d’ accordo,
Spurio Postumio con duoi altri cittadini ad
Atene per gli essenti di quelle leggi
che Solone dette a quella città, acciocché
sopra quelle potessero fondare le leggi
romane. Andati e tornati costoro, si venne
alla creazione degli uomini eh’ avessino ad
esaminare e fermare de.tte leggi; e ercorno dieci cittadini
per un anno, tra i quali fu creato APPIO
CLAUDIO, il primo filosofo romano, uomo sagace ed inquieto.
E perchè e' potessimo senza alcuno rispetto
creare tali leggi, si levarono di Roma
tutti gli altri magistrati, ed in
particolare i Tribuni e i Consoli, e levossi lo
appello al Popolo ; in modo che tale
magistrato veniva ad essere al tulio
principe di Roma. Appresso ad APPIO si
ridusse tutta 1’ autorità degli altri suoi
compagni, per gli favori clic gli faceva
la Plebe : perché egli s’ era fatto in
modo popolare con le dimostrazioni, che
pareva meraviglia eh’ egli avesse preso sì
presto una nuova natura c uno nuovo
ingegno, essendo stato tenuto innanzi a questo
tempo un crudele persecutore della Plebe.
Governaronsi questi Dieci assai civilmente, non tenendo
più che dodici littori, i quali andavano
davanti a quello ch’era infra loro preposto. E
bench’egli avessino 1’ autorità assoluta, nondimeno
avendosi a punire un cittadino romano per
omicidio, lo citorno nel conspelto del Popolo, e
da quello lo fecero giudicare. Scrissero le
loro leggi in dicci tavole, ed avanti
che le confirmassero, le messono in
pubblico, acciocché ciascuno le potesse leggere c
disputarle; acciocché si conoscesse se vi
era alcuno difetto, per poterle binanti
alla confirmazionc loro emendare. Fece, in
su questo, Appio nascere un rornorc per
Bomn, che se a queste dieci tavole se
n’ aggiungcssiuo due altre, si darebbe a
quelle la loro perfezione ; talché questa
oppinionc dette occasione al Popolo di
rifare i Dieci per uno altro anno: a che
il Popolo si accordò volentieri; si perchè i
Consoli non si rifacessino; sì perchè
speravano loro potere stare senza Tribuni,
sendo loro giudici delle cause, come di
sopra si disse. Preso, adunque, partito di
rifargli, tutta la Nobiltà si mosse a
cercare questi onori, ed intra i primi era
Appio; ed usava tanta umanità verso la
Plebe nel domandarla, che la cominciò ad
essere sospetta a suoi compagni : credebant cnim
liaud gratuitam in lanla superbia comilatcmfore.
E dubitando di opporsegli apertamente, diliberarono
farlo con arte; e benché e’ fusse
minore di tempo di tutti, dettono a lui
autorità di proporre i futuri Dieci al
popolo, credendo eh* egli osservasse i termini
degli altri di non
proporre sè medesimo, sendo cosa inusitata e
ignominiosa in Roma, Me vero imprdimentum
prò occasione arripuit ; e nominò sè intra i
primi, con meraviglia e dispiacere di tutti i
Nobili: nominò poi nove altri al suo
proposito. La qual nuova creazione fatta
per uu altro anno, cominciò a mostrare al
Popolo cd alla Nobiltà lo error suo. Perchè
subito Appio: finem fedi ferenda aliena
persona ; e cominciò a mostrare la innata sua
superbia, ed in pochi dì riempiè di
suoi costumi i suoi compagni. E per Sbigottire
il Popolo ed il Senato, in scambio di
dodici littori, ne feciono cento venti.
Stette la paura eguale qualche giorno ; ma
cominciarono poi ad intrattenere il Senato, e
battere la Plebe: e s’ alcuno battuto dall*
uno, appellava ali’ altro, era peggio
trattalo nelP appeltagione che nella prima
causa. In modo che la Plebe, conosciuto
lo errore suo, cominciò piena di afflizione
a riguardare in viso i Nobili; et inde libcrtatis
captare a urani , linde servitutem tiinendoj in
cum s taluni rempublicam adduxerant. E alla
Nobiltà era grata questa loro afflizione,
ut ipsij teedio prcesenliunij Consules desiderar
ent. Vennero i di clic terminavano l’anno:
le due tavole delle leggi erano fatte,
ma non pubblicate. Da questo i Dicci
presono occasione di continovare nel
magistrato, c cominciorono a tenere con violenza
lo Stato, e farsi satelliti della gioventù
nobile, alla quale davano i beni di quelli
che loro condannavano. Quibus donis Juventus
coirumpebatur , et malebat liccnliam suoni , i quatn
omnium liberlatcm. Nacque in questo tempo,
che i Sabini ed i Volsci mossero guerra a’
Romani: in su la qual paura cominciarono i
Dieci a vedere la debolezza dello Stato
loro; perchè senza il Senato non potevano
ordinare la guerra, e ragunando il Senato pareva
loro perdere lo Stato. Pure, necessitati, presono
questo ultimo partito: e ragunali i Senatori
insieme, molti de’ Senatori parlorono contro alla
superbia de’Dieci, ed in particolare Valerio
ed Orazio : e la autorità loro si
sarebbe al tutto spenta, se non che
il Senato, per invidia della Plebe, non
volle mostrare l’autorità sua, pensando che
se i Dieci deponevano il magistrato
voluntarii, che potesse essere che i Tribuni della
plebe non si rifacessero. Dcliberossi adunque la
guerra; uscissi fuori con due eserciti
guidati da parte di detti Dieci; APPIO
rimase a governare la città. Donde nacque
che si innamorò di Virginia, e che
volendola torre per forza, il padre VIRGINIO, PER
LIBERARLA, L’AMMAZZO: donde
seguirono i tumulti di Roma e degli eserciti ; i
quali ridottisi insieme con il rimanente
della Plebe romana, se ne andarono nel
Monte Sacro, dove stettero tanto clic i
Dieci deposono il magistrato, e che furono
creali i Tribuni ed i Consolide ridotta Roma
nella forma della antica sua libertà.
Notasi, adunque, per questo testo, in prima
esser nato in Roma questo inconveniente
di creare questa tirannide, per quelle
medesime cagioni che nascono la maggiore parte delie
tirannidi nelle città: e questo è da troppo
desiderio del popolo d* esser libero, e da
troppo desiderio de’ nobili di comandare. E
quando c’ non convengono a fare una legge
in favore della libertà, ma gettasi
qualcuna delle parti a favorire uno, allora è
che subito la tirannide surge. Convennono
il Popolo ed i Nobili di Poma a creare i
Dieci, e crearli con tanta autorità, per
desiderio che ciascuna delle parti aveva,
1’ una di spegnere il nome consolare,
l’altra il tribunizio. Creati che furono, parendo
alla Plebe che Appio fusse diventato popolare
c battesse la Nobiltà, si volse il Popolo a
favorirlo. E quando un popolo si conduce a
far questo errore di dare riputazione ad
uno perchè balta quelli che egli ha
in odio, e che quello uno sia savio,
sempre interverrà che diventerà tiranno di
quella città. Perchè egli attenderà, insieme
con il favore del popolo, a spegnere la
nobiltà ; e non si volterà inai alla
oppressione del popolo, se non quando ei V
arà spenta; nel qual tempo conosciutosi il
popolo essere servo, non abbi dove
rifuggire. Questo modo hanno tenuto tutti
coloro che hanno fondato tirannidi in le
repubbliche: c se questo modo avesse tenuto APPIO,
quella sua tironnide arebbe preso più vita,
e non sarebbe mancata si presto. Ma ei fece
tutto il contrario, nè si potette governare
più imprudentemente; cliè per tenere la
tirannide, c’si fece inimico di coloro che
glie T avevano data c che gliene potevano
mantenere, ed amico di quelli che non
erano concorsi a dargliene e che non gliene
arebbono potuta mantenere; e perdèssi coloro che
gli erano amici, e cercò di avere amici
quelli che non gli potevano essere amici.
Perchè, ancora che i nobili desiderino tiranneggiare,
quella parte della nobiltà che si truova
fuori della tirannide, è
sempre inimica al tiranno; nè quello se la
può mai guadagnare tutta, per l’ambizione
grande e grande avarizia che .è in lei,
non polendo il tiranno avere nè tante
ricchezze nè tanti onori, che a tutta
satisfaccia. E così Appio, lasciando il Popolo
ed accostandosi a’ Nobili, fece uno errore
evidentissimo, e per le ragioni dette di
sopra, e perchè a volere con violenza tenere
una cosa, bisogna che sia più potente
chi sforza, che chi è sforzato. Donde
nasce che quelli tiranni che hanno amico
lo universale ed mimici i grandi, sono più
sicuri; per essere la loro violenza
sostenuta da maggior forze, che quella di
coloro che hanno per inimico il popolo
ed amica la nobiltà. Perchè con quello
favore bastano a conservarsi le forze
intrinseche; come bastorno a Nabide tiranno di
Sparta, quando tutta Grecia ed il popolo
romano lo assaltò : il quale assicuratosi
di pochi nobili, avendo amico il popolo,
con quello si difese; il che non
arebbe potuto fare
avendolo inimico. In quello nitro grado per
aver pochi amici dentro, non bastano le
forze intrinseche, ma gli conviene cercare
di fuora. Ed hanno ad essere di tre
sorti: 1’ una satelliti forestieri, die li
guardino la persona; l’altra armare il
contado, che faccia quell’ oflìzio che arebbe
a fare la plebe; la terza aderirsi co’
vicini potenti, che li difendino* Chi tiene
questi modi e gli osserva bene, ancora
ch’egli avesse per inimico il popolo,
potrebbe in qualche modo salvarsi. Ma APPIO
non poteva far questo di guadagnarsi il
contado, scudo una medesima cosa il contado
e Roma; c quel che poteva fare, non seppe:
talmente che rovinò nc’ primi principii
suoi. Fecero il Senato ed il Popolo
in questa creazione del decemvirato errori
grandissimi : perchè ancora che di sopra si
dica, in quel discorso che si fa del
Dittatore, che quelli magistrati che si
fanno da per loro, non quelli che fa
il popolo, sono nocivi alla libertà;
nondimeno il popolo debbe, quando egli
ordina i magistrali, fargli in modo che gli
abbino avere qualche rispetto a diventare tristi.
E dove e’ si debbe proporre loro guardia per mantenergli
buoni, i Romani lalevorono, facendolo solo
magistrato in Roma, ed annullando tutti gli
altri, per la eccessiva voglia (come di
sopra dicemmo) che il Senato aveva di
spegnere i Tribuni, e la Plebe di spegnere i
Consoli; la quale gli accecò in modo,
che concorsono in tale disordine. Perchè
gli uomini, come diceva il re Ferrando,
spesso fanno come certi minori uccelli di
rapina ; ne’ quali è tanto desiderio di
conseguire la loro preda, a che la natura
gli incita, che non sentono un altro
maggior uccello che sia loro sopra, per
ammazzargli. Conoscesi, adunque, per questo discorso,
come nel principio proposi, lo errore del
Popolo romano, volendo salvare la libertà ; e
gli errori di APPIO, volendo occupare la
tirannide. XLI. — Sahare
dalla Umilila alla superbia j dalla pietà alta
crudeltà senza debiti mezzij è cosa imprudente ed
inutile. Oltre agli altri termini male
usati da APPIO per mantenere la tirannide,
non fu di poco momento saltare troppo
presto da una qualità ad un’altra. Perchè la
astuzia sua nello ingannare la Plebe, simulando
d’essere uomo popolare, fu bene usata;
furono ancora bene usati i termini che
tenue perchè i Dieci si avessino a rifare;
fu ancora bene usata quella audacia di
creare sè stesso contra alla oppinione
della Nobiltà; fu bene usato creare colleghi
a suo proposito: ma non fu già bene
usato, come egli ebbe fatto questo, secondo
che di sopra dico, mutare in un
subito natura; e di amico, mostrarsi nimico alla Plebe;
di umano, superbo; di facile, difficile; e
farlo tanto presto, che senza
scusa veruna ogni uomo avesse a conoscer
la fallacia dello animo suo. Perchè chi è
paruto buono un tempo, e vuole a suo
proposito diventar tristo, io debbe fare
per gli debiti mezzi ; ed in modo condurvisi
con le occasioni, che innanzi che la
diversa natura ti tolga de’ favori vecchi,
la te ne ubbia dati tanti degli nuovi,
che tu non venga a diminuire la tua
autorità: altrimenti, trovandoti scoperto e senza
amici, rovini. XL1I. — Quanto gli uomini facilmente
si possono corrompere. Notasi ancora in
questa materia del decemvirato, quanto facilmente
gli uomini si corrompono, e fatinosi diventare di
contraria natura, ancora che buoni e bene
educati; considerando quanto quella gioventù che
Appio si aveva eletta intorno, cominciò ad
essere amica della tirannide per uno poco
d’utilità che gliene conseguiva ; e come Quinto
Fabio, uno del numero de’ secondi Dieci,
sendo uomo oliimo, accecalo da un poco
di ambizione, e persuas dulia malignità di APPIO,
mutò i suoi buoni costumi in pessimi, e
diventò simile a lui. Il che esaminato bene, farà
tanto più pronti i legislatori delle repubbliche
o de’ regni a frenare gli appetiti umani, c torre
loro ogni speranza di potere impune errare. XLIII.
— Quelli che combattono per la gloria
propria, sono buoni e fedeli soldati. Considerasi
ancora per il soprascritto trattato, quanta
differenza è da uno esercito contento e che
combatte per la gloria sua, a quello che è
male disposto e che combatte per la
ambizione d’ altri. Perchè, dove gli
eserciti romani solevano sempre essere vittoriosi
sotto i Consoli, sotto i Decemviri sempre
perderono. Da questo essempio si può
conoscere parte delle cagioni della inutilità de’
soldati mercenurii; i quali non hanno altra
cagione clic li tenga fermi, che un poco di
stipendio che tu dai loro. La qual cagione
non è nè può essere bastante a fargli
fedeli, nè tanto tuoi amici, che voglino
morire per le. Perchè in quelli eserciti
che non è una affezione verso di quello
per chi e’ combattono, che gli facci
diventare suoi partigiani, non mai vi potrà
essere tanta virtù che basti a resistere
ad uno nimico un poco virtuoso. G perchè
questo amore non può nascere, nè questa
gara, da altro che da’ sudditi tuoi; è
necessario a volere tenere uno stato, a volere
mantenere una repubblica o uno regno, armarsi de’
sudditi suoi : come si vede che hanno
fatto tutti quelli che con gli eserciti hanno
fatti grandi progressi. Avevano gli eserciti
romani sotto i Dieci quella medesima virtù; ma
perchè in loro non era quella medesima
disposizione, non facevano gli usilati loro
effetti. Ma com prima il magistrato de’
Dieci fu spento, e che loro come liberi
cominciorno amilitare, ritornò in loro il
medesimo animo; e per conscguente, le loro
imprese avevano il loro fine felice, secondo
la antica consuetudine loro. XLIV. — Una
moltitudine senza capo, è inutile: e non si
debbo minacciare prima, c poi chiedere l'autorità. Era
la Plebe romana per lo accidente di
Virginia ridotta armata nel Monte Sacro.
Mandò il Senato suoi ambasciadori a
dimandare con quale autorità egli avevano
abbandonati i loro capitani, e ridottisi nel
Monte. E tanta era stimata l’autorità del
Senato, che non avendo la Plebe intra
loro capi, ninno si ardiva a rispondere. E L. dice,
ohe e’ non mancava loro materia a
rispondere, ma mancava loro chi facesse la
risposta. La qual cosa dimonstra appunto
la inutilità d’ una moltitudine senza
capo. Il qual disordinefu conosciuto da
Virginio, e per suo ordine si creò venti
Tribuni militari, che fussero loro capo a
rispondere e convenire col Senato. Ed avendo
chiesto che si mandasse loro Valerio ed
Orazio, ai quali loro direbbono la voglia
loro, non vi volsono andare se prima i
Dieci non deponevano il magistrato: ed arrivati sopra
il Monte dove era la Plebe, fu domandato
loro da quella, che volevano che si
creassero i Tribuni della plebe, e che si
avesse ad appellare al Popolo da ogni
magistrato, e che si dessino loro tutti i
Dieci, chè gli volevano ardere vivi.
Laudarono Valerio cd Orazio le prime loro
domande; biasimorono P ultima come impia, dicendo
: Crude - litatcm dannatisj in crudclitaiem ruitis ; e
consigliamogli che dovessino lasciare il fare
menzione de’ Dieci, e ch’egli attendessino a
pigliare V autorità e potestà loro: dipoi non
mancherebbe loro modo a satisfarsi. Dove
apertamente si conosce quanta stultizia c poca
prudenza è domandare una cosa, e dire prima: io
voglio far male con essa; perchè non
si debbo mostrare l’animo suo, ma vuoisi
cercare d’ottenere quel suo desiderio in
ogni modo. Perchè e’ basta a dimandare a
uno le armi, senza dire: io ti voglio
ammazzare con esse; potendo poi che tu
bai l’arme in mano, satisfare allo appetito
tuo. XLV. — E cosa di malo esempio | non osservare
una legge falla , c massime dallo autore
d'essa: e rinfre- scare ogni di nuove
ingiurie in una t città, è a chi la governa
dannosis-i simo. Seguito lo accordo, e ridotta
Roma in la antica sua forma, Virginio
citò Appio innanzi al Popolo a difendere la
sua causa. Quello comparse accompagnato da molti
Nobili. Virginio comandò che fussc messo in
prigione. Cominciò Appio a gridare, ed appellare
al Popolo. Virginio diceva che non era
degno di avere quella nppellagionc che egli
aveva distrutta, ed avere per difensore quel Popolo
che egli aveva offeso. Appio replicava,
come e’ non aveano a violare quella
appellagionc ch'egli avevano con tanto desiderio
ordinata. Pertanto egli fu INCARCERATO ED AVANTI AL DI DEL
GIUDIZIO AMMAZZO SE STESSO. E benché la scellerata vita
di Appio meritasse ogni supplicio, nondimeno
fu cosa poco civile violare le leggi, e
tanto più quella che era fatta allora.
Perchè io non credo che sia cosa di
più cattivo esempio in una repubblica, che
fare una legge e non la osservare; e
tanto più, quanto la non è osservata da
chi l’ ha falla. Essendo Firenze stala riordinala
nel suo stato con l'aiuto di frate
Girolamo Savonarola, gli scritti
del quale mostrano la dottrina, la
prudenza, la virtù dello animo suo ; ed avendo
intra P altre conslituzioni per assicurare i
cittadini, fatto fare una legge, che si
potesse appellare al popolo dalle sentenze
che, per caso di Stato, gli Otto c la
Signoria dessino; la qual legge persuase
più tempo, e con difficoltà grandissima ottenne:
occorse che, poco dopo la confirmazicne
d’essa, furono condcunati a morte dalla Signoria per
conto di Stato cinque cittadini; e volendo
quelli appellare, non furono lasciati, e non
fu osservata la legge. Il che tolse
più riputazione a quel frate, che nessun
altro accidente: perchè, se quella appellagione
era utile, ei doveva farla osservare; s’
ella non era utile, non doveva farla
vincere. E tanto più fu notato questo
accidente, quanto che il frate in tante
predicazioni che fece poi clic fu rotta
questa legge, non mai o dannò chi P aveva
rotta, o lo scusò ; come quello che
dannare non voleva, come cosa che gli
tornava a proposito ; e scusare non la
poteva. Il che avendo scoperto l’animo suo
ambizioso e paitigiano, gii tolse riputazione, e
dettegli assai carico. Offende ancora uno Stato assai,
rinfrescare ogni dì nello animo de’ tuoi
cittadini nuovi umori, per nuove ingiurie
ebe a questo e quello si fucciano : come
intervenne a Roma dopo il decemvirato. Perché
tutti i Dieci, ed altri cittadini, in
diversi tempi furono accusati e condannati: in
modo che gli era uno spavento grandissimo
in tutta la Nobiltà, giudicando che e’ non
si avesse mai a porre fine a simili
condennagioni, fino a tanto che tutta la
Nobiltà non fusse distrutta. Ed arebbe generato in
quella città grande inconveniente, se da
Marco Duellio tribuno non vi fusse stato
provveduto; il qual fece uno edit-to, che
per uno anno non fusse lecito ad alcuno
citare o accusare alcuno cittadino contano : il
che rassicurò tutta la Nobiltà. Dove si
vede quanto sia dannoso ad una repubblica o
ad un principe, tenere con le continove
pene ed offese sospesi e paurosi gli animi
dei sudditi. E senza dubbio, non si può
tenere il più pernicioso ordine: perchè gli uomini
che cominciano a dubitare di avere a capitar
male, in ogni modo si assicurano ne’
pericoli, e diventano più audaci, e meno
rispettivi a tentare cose nuove. Però è
necessario, o non offendere mai alcuno, o fare
le offese ad un tratto; e dipoi rassicurare
gli uomini, e dare loro cagione di quietare
e fermare l’animo. XLVI. — Gli uomini salgono da una
ambizione ad unJ altra ; c prima si cerca
non essere offeso t dipoi di offendere altrui. Avendo
il Popolo romano ricuperala la libertà,
ritornato nel suo primo grado, ed in
tanto maggiore, quanto si erano fatte
dimolte leggi nuove In corroborazione della
sua potenza ; pareva ragionevole che Roma
qualche volta quictasse. Nondimeno, per
esperienza si vide il contrario; perchè
ogni di vi surgeva nuovi tumulti e nuove
discordie. E perchè Tito Livio prudentissimamente rende
la ragione donde questo nasceva, non mi
pare se non a proposito riferire appunto le
sue parole, dove dice che sempre o il
Popolo o la Nobiltà insuperbiva, quanto V altro
si umiliava ; e stando la Plebe quieta
intra i termini suoi, cominciarono i giovani
nobili ad ingiuriarla ; ed i Tribuni vi
potevano farepochi rimedi, perchè ancora
loro erano
violati. La Nobiltà, dalP altra parte,
ancora che gli paresse che la sua gioventù fusse
troppo feroce, nondimeno aveva a caro che
avendosi a trapassare il modo, lo trapassassino i
suoi, e non la Plebe. E cosi il desiderio
di difendere la libertà faceva che ciascuno
tanto si prevaleva, eh’ egli oppressava l’
altro. E V ordine di questi accidenti è,
che mentre clic gli uomini cercano di
non temere, cominciano a far temere altrui; e
quell ingiuria ch’egli scacciano da loro, la pongono
sopra un altro: come se fussc necessario
offendere, o essere offeso. Vedesi, per
questo, in quale modo, fra gli altri,
le repubbliche si risolvono; e in che modo
gli uomini salgono da una ambizione ad
un’ altra ; e come quella sentenza salustiaua
posta in bocca di Cesare, è verissima :
quod omnia mala exempla bonis mitiis orla
sunt. Cercano, come di sopra è detto,
quelli cittadini clie ambiziosamente vivono in
una repubblica, la prima cosa di non potere
essere offesi, non solamente dai privati, ma
eziam da’ magistrali : cercano, per potere
fare questo, amicizie ; e quelle acquistano per
vie in apparenza oneste, o con sovvenire di
danari, o con difendergli da’ potenti : e perchè
questo pare virtuoso, s’ inganna facilmente ciascuno, c
per questo non vi si pone rimedio ; intanto
che egli senza ostacolo perseverando, diventa
di qualità, che i privati cittadini ne
hanno paura, ed i magistrati gli hanno
rispetto. E quando egli è saJito a questo
grado, c non si sia prima ovvialo alla
sua grandezza, viene od essere in termine,
che volerlo urtare è pericolosissimo, per
le ragioni che io dissi di sopra del
pericolo che è nello urtare uno inconveniente
che abbi di già fatto augumento in
una città: tanto che la cosa si
riduce in termine, che bisogna o cercare
di spegnerlo con pericolo di una subita
rovina j o lasciandolo fare, entrare in una
servitù manifesta, se morte o qualche accidente
non te ne libera. Perchè, venuto
a’soprascrilti termini, che i cittadini ed i
magistrati abbino paura ad offender lui e
gli amici suoi, non dura dipoi molta
fatica a fare che giudichino ed offendino a
suo modo. Donde una repubblica intra gli
ordini suoi debbe avere questo, di
vegghiarc che i suoi cittadini sotto ombra
di bene non possino far male ; e di’
egli abbino quella riputazione che giovi, e
non nuoca, alla libertà: come nel suo
luogo da noi sarà disputato. XLVII. — Gli nomini j ancora
clic si ingannino ncJ generali j nei particolari
non si ingannano. Essendosi il Popolo
romano, come di sopra si dice, recato a
noia il nome consolare, e volendo che
potessiao esser fatti Consoli uomini plebei, o
che fusse limitata la loro autorità ; la
Nobiltà, per non deonestare l’ autorità consolare
nè con Tuna nè con 1’ altra cosa,
prese una via di mezzo, e fu contenta
che si creassino quattro Tribuni con
potestà consolare, i quali potcssino essere
cosi plebei come nobili. Fu contenta a
questo la Plebe, parendogli spegnere il
consolato, ed avere in questo sommo grado
la parte sua. Nacquene di questo un
caso notabile : che venendosi alla
creazione di questi Tribuni, e potendosi creare
tutti plebei, furono dal Popolo romano creati tutti
fiobiii. Onde L. dice queste parole: Quorum
comitiorum eoenlus docuit, alias animo s in
contcntione l ib erta ti s et honoris, alios
secundum deposita certamina in incorrupto judicio esse.
Ed esaminando donde possa procedere questo,
credo proceda che gii uomini nelle cose
generali s’ ingannano assai, nelle particolari
non tanto. Pareva generalmente alla Plebe
romana di meritare il consolato, per avere
più parte in la città, per portare
più pericolo nelle guerre, per esser quella
che con le braccia sue manteneva Roma
libera, e la faceva potente. E parendogli, come è
detto, questo suo desiderio ragionevole, volse ottenere
questa autorità in ogni modo. Ma come
la ebbe a fare giudizio degli uomini suoi
particolarmente, conobbe la debolezza di quelli,
e giudicò che nessuno di loro meritasse
quello che tutta insieme gli pareva
meritare. Talché vergognatasi di loro, ricorse a
quelli che Io meritavano. Della quale
deliberazione meravigliandosi meritamente L., dice
queste parole : /lane modestiam , aquila IcmquCj
et allitudinem animi, ubi moie in uno
inveneris , qua: lune populi universi fuit ? In
corroborazione di questo, se ne può addurre
un altro notabile essempio, seguito in
Capova da poi che Annibaie ebbe rotti i
Romania Canne; per la qual rotta sendo
tutta sollevata Italia, Capova stava ancora
per tumultuare, per P odio eli’ era intra
il Popolo ed il Senato; e trovandosi in
quel tempo nel supremo magistrato Pacuvio Calano,
e conoscendo il pericolo che portava quella
città di tumultuare, disegnò con suo grado
riconciliare la Plebe con la Nobiltà ; e
fatto questo pensiero, fece ragunare il
Senato, c narrò loro Podio che M popolo
aveva contra di loro, ed i pericoli
che portavano di essere ammazzati da quello,
e data la città ad Annibaie, sendo le
cose de’ Romani afflitte : dipoi soggiunse,
che se volevano lasciaregovernare questa
cosa a lui, farebbe in modo che si
unirebbono insieme ; ma gli voleva serrare
dentro al palazzo, e co fare potestà al
popolo di potergli gastigare, salvargli.
Cederono a questa sua oppinione i Senatori, e
quello chiamò il Popolo a coocione, avendo
rinchiuso in palazzo il Senato ; e disse
com’ egli era venuto il tempo di potere
domare la superbia della Nobiltà, e
vendicarsi delle ingiurie ricevute da quella,
avendogli rinchiusi tutti sotto la sua
custodia : ma perchè credeva che loro non
volessino che la loro città rimanesse senza
gover-
no, era necessario, volendo ammazzare i Senatori
vecchi, crearne de* nuovi. E per tanto
aveva messo tutti gli nomi degli Senatori
in una borsa, e comincierebbe a trargli in
loro presenza j ed egli farebbe i tratti di
mano in mano morire, come prima loro
avessino tro-
vato il successore. E cominciato a trarne uno, fu
al nome di quello levato un rumore
grandissimo, chiamandolo uomo superbo, crudele ed
arrogante : e chiedendo Paeuvio che facessino lo scambio,
si racchetò tutta la conclone ; c dopo alquanto
spazio, fu nominato uno della plebe ; al
nome del quale chi cominciò a fischiare,
chi a ridere, chi a dirne male in uno
modo, e chi in un altro: o così seguitando
di mano in mano, tutti quelli che
furono nominati, gli giudicavano indegni del
grado senatorio. In modo che Pacuvio, presa
sopra questo occasione, disse: Poiché voi
giudicate che qucslu città stia male senza
Senato, ed a fare gii scambi a’ Senatori
vecchi non vi accordate, io penso che
sia bene che voi vi riconciliate insieme ;
perchè questa paura in la quale i Senatori
sono stati, gli arà fatti in modo
raumiliare, che quella umanità che voi
cercavate altrove, troverete in loro. Ed
accordatisi a questo, ne segui la unione di
questo ordine ; e quello inganno in che egli erano
si scoperse, come e’ furono constretti
venire a’ particolari. Ingannansi, olirà di
questo, i popoli generalmente nel giudicare le
cose e gli accidenti di esse j le quali
dipoi si conoscono particolamento, si
avveggono di tale inganno. Sendo stati i principi
della città cacciati da Firenze, e non vi essendo
alcuno governo ordinato, ma piuttosto una
certa licenza ambiziosa, ed andando le cose
pubbliche di inale in peggio ; molti
popolari veggiendo la rovina della città, e
non ne intendendo altra cagione, ne
accusavano la ambizione di qualche potente che
nutrisse i disordini, per poter fare uno
Stato a suo proposito, c torre loro la
libertà : c stavano questi tali per le
logge c per le piazze, dicendo male di
molti cittadini, e minacciandoli che se mai
si trovassero de’ Signori, scoprirebbono questo
loro inganno, e gli gastigarebbono. Occorreva spesso
che de’ simili ne ascendeva al supremo
magistrato; e come egli era salilo in quel
luogo, e che e* vedeva le i cose più
dappresso, conosceva i disordini donde nascevano,
ed i pericoli che soprastavano, e la difficoltà
del rimecitarvi. C veduto come i tempi, e no gli
uomini, causavano il disordine, diventava subito
d’ un altro animo, c di un’ altra fatta ;
perché la cognizione delle cose particolari
gli toglieva via quello inganno che nel
considerare generalmente si aveva presupposto.
Dimodoché, quelli che lo avevano prima,
quando era privato, sentito parlare, e vedutolo
poi nel supremo magistrato stare quieto,
credevano che nascesse, non per più vera
cognizione delle cose, ma perchè fusse stalo aggirato
e corrotto dai grandi. Ed accadendo questo a
molti uomini c molte volte, ne nacque tra
loro un proverbio, che diceva : Costoro
hanno uno animo in piazza, cd uno in
palazzo. Considerando, dunque, tutto quello si è
discorso, si vede come e’ si può fare
tosto aprire gli occhi a’ popoli, trovando
modo, veggendo che uno generale gl’ inganna,
ch’egli abbino a descenderc ai particolari ; come
fece Pacuvio in Capova, ed il
--Senato in Roma. Credo ancora, che si
possa conchiudere, che mai un uomo prudente
non debbe fuggire il giudizio popolare
nelle eo9e particolari, circa le distribuzioni
de' gradi e delle dignità : perchè solo in
questo il popolo non si inganna ; e se
si inganna qualche volta, Ha sì raro,
che s’ inganneranno più volte i pochi uomini
che avessino a fare simili distribuzioni.
Nè mi pare superfluo mostrare nel seguente
capitolo, P ordine che teneva il Senato per
isgannare il popolo nelle distribuzioni sue. XLYIII.
— Chi vuole che uno magistrato non sia
dato ad un vile o ad un tristo j lo
facci domandare o ad un troppo vile e
troppo tristo , o ad uno troppo nobile c troppo
buono. Quando il Senato dubitava che i Tribuni
con potestà consolare non fussino fatti d’
uomini plebei, teneva uno de’duoi modi: o
egli faceva domandare ai più riputati
uomini di Roma;o veramente, per i debiti
mezzi, corrompeva qualche plebcio sordido ed
ignobilissimo, che mescolati con i plebei che,
di miglior qualità, per T ordinario lo
domandavano, anche loro lo domandassino. Questo
ul-
timo modo faceva che la Plebe si vergognava
a darlo ; quel primo faceva che la si
vergognava a torlo, li che tutto torna a
proposito del precedente discorso, dove si
mostra che il popolo se s’ inganna de’
generali, de’particolari non s’inganna. XLIX. —
Se quelle città che hanno avuto il
principio libcrOj come Romaj hanno diffìcultà a
trovare leggi che le mantenghino ; quelle che
lo hanno immediate servo , ne hanno quasi una impossibilità.
Quanto sia difficile, nello ordinare una
repubblica, provvedere a tutte quelle leggi che
la mantenghino libera, lo dimostra assai
bene il processo della Repubblica romana:
dove non ostante che fussino ordinate di
molte leggi da ROMOLO prima, dipoi da
Nuraa, da Tulio Ostilio e Servio, ed
ultimamente dai dieci cittadini creali a simile
opera ; nondimeno sempre nel maneggiare quella città
si scoprivano nuove necessità, ed era
necessario creare nuovi ordini: come intervenne
quando crearono i Censori, i quali furono uno
di quelli provvedimenti che aiutarono tenere Roma
libera, quel tempo che la visse in
libertà. Perchè, diventati arbitri de’ costumi di Roma,
furono cagione potissima che i Romani
diflerissino più a corrompersi. Feciono bene nel
principio della creazione di tal magistrato
uno errore, creando quello per cinque anni;
ma, dipoi non molto tempo, fu corretto
dalla prudenza di Mamereo dittatore, il
qual per nuova legge ridusse detto
magistrato a diciolto mesi. Il che i
Censori che vegghiavano, ebbono tanto per
male, che privorno Mamcrco del senato: la
qual cosa e dalla Plebe c dai Padri fu
assai biasimata. perchè
la istoria non ino*stra che Mamerco
se ne potesse difen-dere, conviene o che lo
istorico sia di-fettivo, o gli ordini di
Roma in questa parte non buoni : perchè
non è bene che
una repubblica sia in modo ordinata, ebe
un cittadino per promulgare una legge
conforme al vivere libero, ne possa essere
senza alcuno rimedio offeso. Ma tornando al
principio di questo discorso, dico che si
dehbe, per la creazione di questo nuovo
magistrato, considerare, che se quelle città
che hanno avuto il principio loro libero, e
che per se medesimo si è retto, come
Roma, hanno difHcultà grande a trovar leggi buone
per mantenerle libere ; non è meraviglia che
quelle città che hanno avuto il principio
loro immediate servo, abbino, non che
dilfìcultà, ma impossibilità ad. ordinarsi mai
in modo che le possino vivere civilmente e
quietamente. Come si vede che è intervenuto
alla città di Firenze; la quale, per
avere avuto il principio suo sottoposto
allo imperio ro-
mano, ed essendo vivuta sempre sotto governo
d* altri, stette un tempo soggetta, e senza
pensare a sè medesima: dipoi, venuta la
occasione di respirare, cominciò a fare suoi
ordini; i quali sendo
mescolati con gli antichi, che erano
tristi, non poterono essere buoni: e così è ita
maneggiandosi per dugento anni che si lia
di vera memoria, senza avere mai avuto
stato per il quale ella possa veramente essere
chiamata repubblica. E queste diflicultà che sono
state in lei, sono state sempre in
tutte quelle città che hanno avuto i
principii simili a lei. E benché molte volte,
per suffragi pubblici e liberi, si sia dato
ampia autorità a pochi cittadini di potere
riformarla; non pertanto mai l’ hanno ordinata a comune
utilità, ma sempre a proposito della parte
loro : il che ha fatto non ordine, ma
maggiore disordine in quella città. E per
venire a qualche essempio particolare, dico come
intra le altre cose che si hanno a
considerare da uno ordinatore d’ una
repubblica, è esaminare nelle mani di quali
uomini ci ponga 1’ autorità del sangue
coutra de’ suoi cittadini. Questo era bene
ordinato in Roma, perchè e’ si poteva
appellare al Popolo ordinariamente : e se pure
fussc occorsa cosa importante, dove il differire la
esecuzione mediante la appellagione fusse
pericoloso, avevano il refugio del Dittatore,
il quale eseguiva immediate; al qual
rimedio non rifuggivano mai, se non per
necessità. Ma Firenze, c Y altre città nate
nel modo di lei, sendo serve, avevano
questa autorità collocata in un forestiero,
il quale mandato dal principe faceva tale
uffizio. Quando dipoi vennono in libertà,
mantennero questa autorità in un forestiero,
il quale chiamavano Capitano: il che, per
potere essere facilmente corrotto da’ cittadini
potenti, era cosa perniciosissima. Ma dipoi, mu-
randosi per la mutazione degli Stati questo
ordine, creorno otto cittadini che
facessino V uffizio di quel Capitano. Il
quale ordine, di cattivo, diventò pessimo, per le
cagioni che altre volte sono dette: che i
pochi furono sempre ministri dc’po-ehi, e
de* più potenti. Da che si è guardata
la città di Vinegia; la quale ha dieci
cittadini, che senza appello possono punire
ogni cittadino. E perchè e* non basterebbono a
punire i potenti, ancora die ne nvessino
autorità, vi hanno constituito le
Quarnntie: c di più, hanno voluto che il
Consiglio de’ Pregai, elicè il Consiglio
maggiore, possa gastigargli; In modo che
non vi mancando lo accusatore, non vi
manca il giudice a tener gli uomini potenti
a freno. Non è dunque meraviglia, reggendo come
in Roma, ordinata da sè medesima e da tanti
uomini prudenti, surgevano ogni di nuove
cagioni per le quali si aveva a fare
nuovi ordini in favore del viver libero j
se nelle altre città che hanno più
disordinalo principio, vi surgono tuli
difficoltà, che le non si possino riordinar
mai. L. — iVon dcbbc uno consiglio o uno
magistrato potere fermare le azioni della città. tirano
consoli in Roma Tito Quinzio Cincinnato c
Gneo Giulio Mento, i quali sendo disuniti,
avevano ferme tutte le azioni di quella
Repubblica. 11 che veggcndo il Senato,
gli confortava a creare il Dittatore, per
fare quello che per le discordie loro
non poteva fare. Ma i Consoli discordando
in ogni altra cosa, solo in questo
erano d’accordo, di non voler creare il
Dittatore. Tanto che il Senato, non avendo
altro rimedio, ricorse allo aiuto de’ Tribuni; i
quali, con l’autorità del Senato, sforzarono i
Consoli ad ubbidire. Dove si ba a notare,
in prima, la utilità del tribunato; il
quale non era solo utile a frenare l’
ambizione che i potenti usavano contra alla
Plebe, ma quella ancora ch’egli usavano
infra loro: 1’ altra, che mai si
debba ordinare in una città, che i pochi
possino tenere alcuna deliberazione di quelle
che ordinariamente sono necessarie a mantenere la
repubblica. Yerbigrazia, se tu dai una autorità
nd uno consiglio di fare una distribuzione
di onori c di utile, o ad uno magistrato
di amministrare una faccenda; conviene o imporgli
una necessità perchè ei l’ abbia a fare in
ogni modo; o ordinare, quando non la voglia fare
egli, che la possa e debba fare un altro:
altrimenti, questo ordine sarebbe difettivo e
pericoloso; come si vedeva che era in
Roma, se alla ostinazione di quelli Consoli
non si poteva opporre P autorità de’ Tribuni.
Nella Repubblica veneziana il Consiglio grande
distribuisce gli onori e gli utili. Occorreva
alle volte che P universalità, per isdegno o per
qualche falsa suggestione, non creava i
successori ai magistrati della città, ed a
quelli che fuori amministravano lo imperio
loro. Il che era disordine grandissimo:
perchè in un tratto, e le terre suddite e
la città propria mancavano de’ suoi legittimi
giudici; nè si poteva ottenere cosa alcuna,
se quella universalità di quel Consiglio
non si satisfaceva, o non s’ingannava. Ed avrebbe
ridotta questo inconveniente quella città a mal
termine, se dagli cittadini prudenti non vi
si fusse provveduto: i quali, presa occasione
conveniente, fecero una legge, che tutti i
magistrati che sono o fussino dentro e
fuori della città, mai vacassero, se non
quando fussino fatti gli scambi e i successori
loro. E cosi si tolse la comodità a quel
Consiglio di potere, con pericolo della
repubblica, fermare le azioni pubbliche. LI. Una
repubblica o uno principe debbe mostrare di
fare per liberalità quello a che la
necessità lo consiringe. Gli uomini prudenti
si fanno grado sempre delle cose, in
ogni loro azione, ancora che la necessità
gli constringesse a farle in ogni modo.
Questa prudenza fu usata bene dal Senato
romano, quando ei deliberò che si desse
lo stipendio del pubblico agli uomini che
militavano, essendo consueti militare del loro
proprio. Ma veggendo il Senato come in quel
modo non si poteva fare lungamente guerra,
e per questo non potendo nè assediare
terre, uè condurre gli eserciti discosto; e
giudicando essere necessario potere fare 1*
uno e 1’ altro ; deliberò che si dessino
detti stipendi; ina lo feciono in modo,
che si fecero grado di quello a che
la necessità gli constringeva; e fu tanto
accetto alla Plebe questo presente, che
Roma andò «sottosopra per la allegrezza,
parendole uno benefizio grande, quale mai
speravano di avere, e quale mai per loro
medesimi arebbono cerco. E benché i Tribuni s*
ingegnassero di cancellare questo grado, mostrando
come ella era cosa che aggravava, non
alleggeriva, la Plebe, scodo necessario porre i
tributi per pagare questo stipendio ;
nientedimeno non potevano fare tanto che la
Plebe non lo avesse accetto: il che
fu ancora augumentalo dal Senato per
il modo che distribuivano i tributi; perchè i
più gravi ed i maggiori furono quelli chVposono alla
Nobiltà, e gli primi che furono pagati. LII. — A reprimere la
insolenza di uno che surga in una
repubblica potente , non vi c più securo e
meno scandaloso modo , che preoccuparli quelle vie
per le quali e* viene a quella potenza. Yedesi
per il soprascritto discorso, quanto credito
acquistasse la Nobiltà con la Plebe per
le dimostrazioni fatte in benefizio suo, sì
del stipendio ordinato, si ancora del modo
del porre i tributi. Nel quale ordine se
la Nobiltà si fosse mantenuta, si sarebbe
levato via ogni tumulto in quella città, e
sarebbesi tolto ai Tribuni quel credito che
egli avevano con la Plebe, e, per
conseguente, quella autorità. E veramente, non si
può in una repubblica, e massime in quelle
che sono corrotte, con miglior modo, meno scandaloso
e più facile, opporsi alla ambizione di
alcuno cittadino, che preoccuparli quelle vie,
per le quali si vede che esso cammina
per arrivare al grado che disegna, li
qual modo se fusse stalo usato contra
Cosimo de’ Medici, sarebbe stato miglior partito
assai per gli suoi avversari, che cacciarlo
da Firenze: perchè, se quelli cittadini che
gareggiavano seco, avessino preso lo stile
suo di favorire il popolo, gli venivano
senza tumulto e senza violenza a trarre di mano quelle
arme di che egli si valeva più. SODERINI si
aveva fatto riputazione nella città di
Firenze con questo solo, di favorire
l’universale: il che nello universale gli
dava riputazione, come amatore della libertà
della città. E veramente, a quelli cittadini che
portavano invidia alla grandezza sua, era
molto più facile ed era cosa molto
più onesta, meno pericolosa, e meno dannosa
per la repubblica, preoccupargli quelle vie
con le quali si faceva grande, che
volere contrapporsegli, acciocché con la
rovina sua rovinasse tutto il resto della
repubblica: perchè, se gli avessero levate
di mano quelle armi con le quali si
faceva gagliardo (il che potevano fare
facilmente), arebbono potuto in lutti i consigli,
e in tutte le deliberazioni pubbliche, opporsegli
senza sospetto, e senza rispetto alcuno. E se
alcuno replicasse, che se i cittadini che
odiavano Piero, feciono errore a non gli
preoccupare le vie con le quali ei si
guadagnava riputazione nel popolo, Piero ancora
venne a fare errore, a non preoccupare quelle
vie per le quali quelli suoi avversari
lo facevano temere; di’ che Piero merita
scusa, si perchè gli era difficile il
farlo, sì perchè le non erano oneste a
lui : imperocché le vie con le quali
era offeso, ciano il favorire i Medici; con
li quali favori essi io battevano, e alla
fine !o rovinorno. Non poteva, pertanto, Piero onestamente
pigliare questa parte, per non potere
distruggere con buona fama quella libertà
alla quale egli era stato preposto a
guardia : dipoi, non potendo questi favori
farsi segreti e ad uno tratto, erano per
Piero pericolosissimi; perchè comunelle ei si
fusse scoperto amico de’ Medici, sarebbe
diventato sospetto ed odioso al popolo;
donde ai nimici suoi nasceva molto più
comodità di opprimerlo, che non avevano
prima. Debbono, pertanto, gli uomini in
ogni partito considerare i difetti ed i pericoli
di quello, e non gli prendere, quando vi
sia più del pericoloso che dell’ utile ;
nonostante che ne fusse stata data sentenza
conforme alla deliberazion loro. Perchè, facendo
altrimenti, in questo caso interverrebbe a quelli
come intervenne a Tullio; il quale volendo
torre i favori a Marc’ Antonio, gliene
accrebbe. Perchè, sondo Marc’ Antonio stato
giudicalo inimico del Senato, ed avendo
quello grande esercito insieme adunato, in
buona parte, dei soldati che avevano
seguitato la parte di Cesare; Tullio, per
torgli questi soldati, confortò il Senato a
dare riputazione ad Ottaviano, e mandarlo con lo esercito
e con i Consoli contra a Marc' Antonio: allegando,
che subito che i soldati che seguitavano
Marc’ Antonio, scntissino il nome di
Ottaviano nipote di Cesare, e che si faceva
chiamar Cesare, lascerebbono quello, c si
aceosterebbono a costui ; e così restato Marc’ Antouio ignudo
di favori, sarebbe facile lo opprimerlo. La
qual cosa riuscì tutta al contrario; perchè
Marc’ Antonio si guadagnò Ottaviano; e lasciato
Tullio ed il Senato, si accostò a lui.
La qual cosa fu al tutto la
destruzione della parte degli Ottimati. 11
che era facile a conietturare: nè si doveva
credere quel che si persuase Tullio, ma
tener sempre conto di quel nome che
con tanto gloria aveva spenti i nimici
suoi, ed acquistatosi il principato in
Roma; nè si dovea credere mai potere, o
da suoi eredi o da suoi fautori, avere cosa
che fusse conforme al nome libero. LUI. —
Il popolo molte volte desidera la rovina
sua j ingannato da una falsa spezie di bene
: e come le grandi speranze e gagliarde promesse
facilmente lo muovono. Espugnata che fu la
città de’ Veienti, entrò nel Popolo romano
una oppinione, che fusse cosa utile per
la città di Roma, che la metà
de’ Romani andasse ad abitare a Veio ;
argomentando che, per essere quella città
ricca di contado, piena di edifizii e
propinqua a Roma, si poteva arricchire la
metà de’ cittadini romani, e non turbare
per la propinquità del sito nessuna azione
civile. La qual cosa parve al Senato
ed a’ più savi Romani tanto inutile e
tanto dannosa, che liberamente dicevano, essere
piuttosto per patire la morte, che
consentire ad una tale deliberazione. In modo che,
venendo questa cosa in disputa, si accese
tanto la Plebe contra al Senato, che
si sarebbe venuto alle armi cd al sangue,
se il Senato non si fusse fatto scudo
di alcuni vecchi e stimati cittadini ; la
riverenza dc’quali frenò la Plebe, che la
non procede più avanti con la sua
insolenza. Qui si hanno a notare due cose.
La prima, che ’l popolo molte volte,
ingannato da una falsa immagine di bene,
desidera la rovina sua ; e se non gli è
fatto capace, come quello sia male, e quale
sia il bene, da alcuno in chi esso
abbia fede, si pone in le repubbliche
infiniti pericoli c danni. E quando la
sorte fu che il popolo non abbi fede
in alcuno, come qualche volta occorre,
sendo stato ingannato per lo addietro o
dalle cose o dagli uomini; si viene alla
rovina di necessità. Ed ALIGHIERI (si veda) dice a
questo proposito, nel discorso suo che fa
De Monarchia > che il popolo molte volte
grida viva la sua morie j C muoia la sua
vita. Da questa incredulità nasce, che
qualche volta in le repubbliche i buoni
partiti non si pigliano : come di sopra
si disse de’ Veneziani, quando assaltati da
tanti inimici non poterono prendere partito
di guadagnarsene alcuno con la restituzione
delle cose tolte ad altri (per le
quali era mosso loro la 'guerra, e fatta
la congiura de’ principi loro contro),
avanti che la rovina venisse. Pertanto,
considerando quello che è facile o quello che è
diffìcile persuadere ad un popolo, si può
fare questa distinzione: o quel che tu hai
a persuadere rappresenta in prima fronte guadagno, o
perdita ; o veramente pare partito animoso, o
vile: e quando nelle cose che si mettono
innanzi ai popolo, si vede guadagno, ancora
che vi sia nascosto sotto perdila; e quando
e* paia animoso, ancora che vi sia nascosto
sotto la rovina della repubblica, sempre sarà facile
persuaderlo alla moltitudine: e così fia
sempre difficile persuadere quelli partiti dove
apparisce o viltà o perdita, ancoraché vi fusse
nascosto sotto salute e guadagno. Questo che
io ho detto, si conferma con infiniti
esempi, romani e forestieri, moderni ed
antichi. Perchè da questo nacque la
malvagia opinione che surse in Roma di
Fabio Massimo, il quale non poteva
persuadere al Popolo romano, che fusse
utile a quella Repubblica procedere lentamente in
quella guerra, e sostenere senza azzuffarsi V
impeto di Annibaie; perchè quel Popolo giudicava questo
partito vile, c non vi vedeva dentro quella
utilità vi era ; nè Fabio aveva ragioni
bastanti a dimostrarla loro: c tanto sono i
popoli accecati in queste oppinioni gagliarde,
che benché il Popolo romano avesse fatto
quello errore di dare autorità al Maestro
de’ cavalli di Fabio di potersi azzuffare,
ancora che Fabio non volesse; e che per
tale autorità il campo romano fusse per
esser rotto, se Fabio con la sua
prudenza non vi rimediava; non gli bastò
questa esperienza, che fece dipoi consolo VARRONE
(si veda), non per altri suoi meriti che
per avere, per tutte le piazze e tutti i
luoghi pubblici di Roma, promesso di
rompere Annibaie, qualunque volta gliene fusse
data autorità. Di che ne nacque la
zuffa e rotta di Canne, e presso che
la rovina di Roma. Io voglio addurre a
questo proposito ancora uno altro essempio
romano. Era stato Annibaie in Italia otto o
dieci anni, aveva ripieno di occhione de’
Romani tutta questa provincia, quando venne
in Senato Marco Centenio Penula, uomo
vilissimo (nondimanco aveva avuto qualche grado
nella milizia), ed offersegli, che se gli
davano autorità di potere fare esercito di
uomini volutitari in qualunque luogo
volesse in Italia, ei darebbe loro, in
brevissimo tempo, preso o morto Annibaie. Al
Senato parve la domanda di costui
temeraria; nondimeno ei pensando che s’ ella
se gli negasse, e nel popolo si fusse
dipoi sapula la sua chiesta, che non
ne nascesse qualche tumulto, invidia e mal
grado contro all’ordine senatorio, gliene
concessono : volendo più tosto mettere a pericolo
tutti coloro che lo seguitassino, che fare surgere
nuovi sdegni nel Popolo; sappiendo quanto
simile partito fusse per essere accetto, e
quanto fusse difficile il dissuaderlo. Andò,
adunque, costui con una moltitudine inordinata
ed incomposita a trovare Annibaie; e non gli
fu prima giunto all* incontro, che fu con
tutti quelli che lo seguitavano rotto e
morto. In Grecia, nella città di Atene, non
potette mai Nicia, uomo gravissimo e
prudentissimo, persuadere a quel popolo, che non
fusse bene andare ad assaltare Sicilia:
talché, presa quella deliberazione contra alla
voglia de’ savi, ne seguì al tutto la
rovina di Atene. Scipione quando fu fatto
consolo, e che desiderava la provincia di
Affrica, promettendo al tutto la rovina di
Cartagine; a che non si accordando il Senato per
la sentenza di Fabio Massimo, minacciò di
proporla nel Popolo, come quello clic
conosceva benissimo quanto simili deliberazioni
piaccino a’ popoli. Potrebbesi a questo proposito
dare esempi della nostra città : come fu
quando messere Ercole Bentivogli, governadore delle
genti fiorentine, insieme con Antonio Giacomini,
poiché ebbono rotto llartolommeo d’ Alviano a
San Vincenti, andarono a campo a Pisa ; la
qual impresa fu deliberata dal popolo in
su le promesse gagliarde di messcr Ercole, ancora
che molti savi cittadini la biasimassero:
nondimeno non vi ebbero rimedio, spinti da
quella universale volutila, la qual era
fondata in su le promesse gagliarde del
governadore. Dico, adunque, come non è la
più facile via a fare rovinare una repubblica
dove il popolo abbia autorità, che metterla' in imprese
gagliarde : perchè, dove il popolo sia di
alcuno momento, sempre fieno accettale; nè
vi arà, chi sarà d’ altra
oppinione, alcuno rimedio. Ma se di questo
nasce la rovina della città, ne nasce ancora,
e più spesso, la rovina particolare de*
cittadini che sono preposti a simili
imprese : perchè, avendosi il popolo presupposto
la vittoria, eomee’vienc la perdita, non ne
accusa nè la fortuna, nè la impotenza
di chi ha governato, ma la tristizia e
la ignoranza sua; e quello il più
delle volte o ammazza, o imprigiona, o confina:
come intervenne a infiniti capitani Cartaginesi,
ed a molti Ateniesi. Nè giova loro alcuna
vittoria che per lo addietro avessino
avuta, perchè tutto la presente perdita
cancella : come intervenne ad Antonio Giacomini nostro,
il quale non avendo espugnata Pisa, come
il popolo aveva presupposto ed egli promesso,
venne in tanta disgrazia popolare, che non
ostante infinite sue buone opere passate,
visse più per umanità di coloro che
ne avevano autorità, che per alcun’ altra
cagione che nel popolo lo difendesse. liv# —
Quanta autorità abbia uno uomo grande a
frenare una moltitudine concitata. Il secondo
notabile sopra il testo nel superiore
capitolo allegato, è, che veruna cosa è
tanto atta a frenare una moltitudine concitata,
quanto è la riverenza di qualche uomo grave
e di autorità, che se le faccia incontro j
nè senza cagione dice VIRGILIO (si veda): “Tutn
vietate graverà ac meritis si forte virum Conspexere
, sileni , arrectisque aur^®n^ci* Per tanto, quello
che è proposto a uno esercito, o quello che
si trova in una città, dove nascesse
tumulto, debbe rappresentarsi in su quello
con maggior grazia e piu onorevolmente che
può, mettendosi intorno le insegne di quel
grado che tiene, per farsi più reverendo.
Era, pochi anni sono, Firenze diviso in due
fazioni, Fratesche ed Arrabbiate, che cosi si
chiamavano; e venendo ali’ arme, ed essendo
superati i Frateschi, intra i quali era
Pagolantonio Soderini, assai in quelli tempi
riputato cittadino; cd andandogli
in quelli tumulti il popolo armato a casa per
saccheggiarla; messer Francesco suo fratello,
allora vescovo di Volterra, ed oggi
cardinale, si trovava a sorte in casa : il
quale, subito sentito il romore e veduta la
turba, messosi i più onorevoli panni indosso, e
di sopra il rocchetto episcopale, si fece
incontro a quelli armati, e con la persona e
con le parole gli fermò ; la qual
cosa fu per tutta la città per molti
giorni notata e celebrata. Conchiudo, adunque,
come e’ non è il più fermo nè il più
necessario rimedio a frenare una moltitudine
concitata, che la presenza d’ uno uomo
che per presenza paia e sia reverendo.
Vedesi, adunque, per tornare al preallegato
testo, con quanta ostinazione la Plebe romana accettava
quel partito d’ andare a Yeio, perchè Io
giudicava utile, nè vi conosceva sotto
il danno vi era ? e come nascendone assai
tumulti, ne sarebbero nati scandali, se il
Senato con uomini gravi e pieni di
riverenza non avesse frenato il loro furore. lv.
— Quanto facilmente si conduellino le cose
in quella città dove la moltitudine non è
corrotta: e che dove è e qualità , non si può
fare principato / e dove la non èj non si può
far repubblica. Ancora clie di sopra si
sia discorso assai quello sia da temere o
sperare delle città corrotte; nondimeno non mi pare
fuori di proposito considerare una deliberazione
del Senato circa il voto ehe Cammillo
aveva fatto di dare la decima parte
ad Apolline della preda de’ Veienti : la
qual preda sendo venuta nelle mani della
Plebe romana, nè se ne potendo altrimenti
riveder conto, fece il Senato uno editto,
che ciascuno dovesse rappresentare al
pubblico la decima parte di quello gli
aveva predalo. E benché tale deliberazione non
avesse luogo, avendo dipoi il Senato preso
altro modo, c per altra via satisfatto ad Àpolliue
in satisfazione della Plebe; nondimeno si
vede per tali deliberazioni quanto quel
Senato confidasse nella bontà di quella, e
come e’ giudicava che nessuno fusse per
non rappresentare appunto tutto quello che
per tale editto gli era comandato. E dall’
altra parte si vede, come la Plebe
non pensò di fraudare in alcuna parte
lo editto con il dare meno che non
doveva, ma di liberarsi da quello con
il mostrarne aperte indignazioni. Questo
essempio, con molti altri che di sopra
si sono addotti, mostrano quanta bontà e
quanta religione fusse in quel Popolo, e
quanto bene fusse da sperare di lui. E
veramente, dove non è questa bontà, non si
può sperare nulla di bene; come non
si può sperare nelle provincic che in
questitempi si veggono corrotte: come è la Italia
sopra tutte le altre; ed ancora la Francia
di tale corruzione ritengono parte. E se in
quelle provincie non si vede tanti
disordini quanti nascono in Italia ogni di,
deriva non tanto dalla bontà de' popoli,
la quale ìh buona parte è mancata; quanto
dallo avere uno re che gli mantiene uniti, non
solamente per la virtù sua, ma per l’ordine
di quelli regni, che ancora non sono
guasti. Vedesi bene nella provincia della
Magna, questa bontà e questa religione ancora
in quelli popoli esser grande; la qual
fa che molte repubbliche vi vivono libere,
ed in modo osservano le loro leggi,
che nessuno di fuori nè di dentro
ardisce occuparle. E che sia vero che in
loro regni buona parte di quella antica
bontà, io nc voglio dare uno essempio
simile a questo detto di sopra del Senato e
della Plebe romana. Usano quelle repubbliche,
quando gli occorre loro bisogno di avere a
spendere alcuna quantità di danari per
conto pubblico, che quelli magistrati o consigli
che ne hanno autorità, ponghino a tutti
gli abitanti della città uno per cento, o
dua, di quello che ciascuno ha di valsente.
E fatta tale deliberazione secondo 1’ ordine
della terra, si rappresenta ciascuno dinanzi
agli esecutori di tale imposta; e, preso prima
il giuramento di pagare la conveniente somma, getta
in una cassa a ciò deputata quello clic
secondo la conscienza sua gli pare dover
pagare: del qual pagamento non è testimonio
alcuno, se non quello che paga. Donde
si può conictturare, quanta bontà e quanta
religione sia ancora in quelli uomini. E
debbesi stimare che ciascuno paghi la vera
somma: perchè, quando la non si pagasse,
non pitterebbe la imposizione quella quantità che
loro disegnassero secondo le antiche che
fussino usitate riscuotersi; e non gitlando,
si conoscerebbe la fraude; e conoscendosi,
arebbon preso altro modo che questo. La
quale bontà è tanto più da ammirare in
questi tempi, quanto ella è più rara : anzi
si vede essere rimasa sola in quella
provincia. Il che nasce da due cose : Y
una, non avere avuti commerzi grandi co’
vicini; perchè nè quelli sono ili a casa
loro, nè essi sono iti a casa altrui;
perchè sono stati eontenli di quelli beni,
e vivere di quelli cibi, vestire di quelle
lane che dà il paese: d’onde è stata
tolta via la cagione d’ogni conversazione,
ed il principio di ogni corruttela; perchè
non hanno possuto pigliare i costumi nè franciosi
nè spagnuoli nè italiani, le quali nazioni
tutte insieme sono la corruttela del mondo.
L’ altra cagione è, che quelle repubbliche
dove si è mantenuto il vivere politico ed
incorrotto, non sopportano che alcuno loro
cittadino nè sia nè viva ad uso di
gentiluomo: anzi mantengono infra loro una pari
equalità, ed a quelli signori e gentiluomini che
sono in quella provincia, sono inimicissimi ; c
se per caso alcuni pervengono loro nelle
mani, come priacipi di corruttela e cagione
di ogni scandalo, gli ammazzano. E' per
chiarire questo nome di gentiluomini quale
e’ sia. dico che gentiluomini sono chiamali quelli
che ociosi vivono de’ proventi delle loro
possessioni abbondantemente, senza avere alcuna
cura o di coltivare, o di alcuna altra
necessaria fatica a vivere. Questi tali
sono perniciosi in ogni repubblica ed in
ogni provincia; ma più perniciosi sono
quelli che, oltre alle predette fortune,
comandano a ca- stella, ed hanno sudditi che
ubbidiscono a loro. Di queste due sorti di
uomini ne sono pieni il regno di
Napoli, terra di Roma, la Romagna e la
Lombardia. Di qui nasce che in quelle
provincie non è mai stata alcuna repubblica, nè alcuno
vivere politico; perchè tali generazioni di
uomini sono al tutto nemici di ogni
civiltà. Ed a volere in provincie fatte in
simil modo introdurre una repubblica, non
sarebbe possibile: ma a volerle riordinare, se
alcuno ne fusse arbitro, non arebbe altra
via che farvi un regno. La ragione è
questa, che dove è tanto la materia corrotta che
le leggi non bastino a frenarla, vi bisogna
ordinare insieme con quelle maggior forza ;
la quale è una mano regia, che con la
potenza assoluta ed eccessiva ponga freno
alla eccessiva ambizione e corruttela de’
potenti. Verificasi questa ragione cou lo
esempio di Toscana : dove si vede in poco
spazio di terreno stale longamente tre
repubbliche, Firenze, Siena e Lucca ; e le altre
città di quella provincia essere in modo
serve, che, con l’ animo e con T ordine, si
vede o che le mantengono, o che le
vorrebbono mantenere la loro libertà. Tutto è
nato per non essere in quella provincia
alcun signore di castella, c nessuno o pochissimi
gentiluomini ; ma esservi tanta equalità, che facilmente
da uno uomo prudente, e che
delle antiche civilità avesse cognizione, vi
si introdurrebbe un viver civile. Ma lo
infortunio suo è stato tanto grande, che
infino a questi tempi non ha sortito alcuno
uomo che lo abbia potuto o saputo fare.
Trassi adunque di questo discorso questa
conclusione: che colui che vuole fare dove
sono assai gentiluomini una repubblica, non la
può fare se prima non gli spegne
tutti: e che colui che dove è assai
equalità vuole fare uno regno o uno
principato, non lo potrà mai fare se
non trae di quella «qualità molti di
animo ambizioso ed inquieto, e quelli fa
gentiluomini in fatto, e non in nome,,
donando loro castella e possessioni, c dando loro
favore di sustanze e d’uomini ; acciocché, posto
in mezzo di loro, mediante quelli mantenga
la sua potenza ; cd essi, mediante quello,
la loro ambizione; e gli altri siano
constretti n sopportare quel giogo che la
forza, e non altro mai, può far sopportare
loro. Ed essendo per questa via
proporzione da chi sforza a chi è sforzato,
stanno fermi gli uomini ciascuno nello
ordine loro. E perchè il fare d’ una
provincia atta ad essere regno una
repubblica, c d’ una atta ad essere repubblica
farne un regno, è materia da uno uomo
che per cervello e per autorità sia raro;
sono stati molti che Io hanno voluto
fare, e pochi che lo abbino saputo
condurre. Perchè la grandezza della cosa parte sbigottisce
gli uomini, parte in modo gli ’mpedisce,
che ne’ primi principii mancano. Credo che a
questa mia oppiatone, che dove sono
gentiluomini non si possa ordinare repubblica,
parrà contraria la esperienza della Repubblica veneziana,
nella quale non usano avere alcuno grado
se non coloro che sono gentiluomini. A che
si risponde, come questo essempio non ci
fa alcuna oppugnazione, perchè i gentiluomini in quella
Repubblica sono piu in nome che in
fatto; perchè loro non hanno grandi entrate
di possessioni, sendo le loro ricchezze
grandi fondate in sulla mercanzia e cose
mobili; e di più, nessuno di loro tiene
castella, o ha alcuna iurisdizione sopra
gli uomini: ma quel nome di gentiluomo
in loro è nome di degnila e di riputazione,
senza essere fondato sopra alcuna di quelle
cose che fa che nell’ altre città si
chiamano i gentiluomini. E come le altre
repubbliche hanno tutte le loro divisioni sotto vari
nomi, così Vinegia si divide in gentiluomini
e popolari ; e vogliono che quelli abbino, ovvero
possino avere, tutti gli onori; quelli
altri ne sieno al tutto esclusi. Il
che non fa disordine in quella terra,
per le ragioni altra volta dette. Gonstituisca,
adunque, una repubblica colui dove è, o è
fatta una grande egualità; ed alP incontro
ordini un principato dove è grande inequalità :
altrimenti farà cosa senza propprzione, e poco
durabile. LYI. — Innanzi
che segnino i grandi accidenti in una
città o in una provincia , vengono segni che
gli pròìioslicanOj o uomini che gli predicono. Donde
e* si nasca io non so, ina si vede
pei* gli antichi e per gli moderni essempi,
che mai non venne alcuno grave accidente
in una città o in una provincia, che
non sia stato, o da indovini o da
revelazioni o da prodigi, o da altri segni
celesti, predetto. E per non mi discostare
da casa nei provare questo, saciascuno
quanto da frate Girolamo Savonarola fusse
predetta innanzi la venuta del re Carlo
Vili di Francia in Italia; e come, olirà
di questo, per tutta Toscana si disse
esser sentite in aria e vedute genti d’
arme, sopra Arezzo, che si azzuffavano
insieme. Sa ciascuno olirà di questo, come
avanti la morte di Lorenzo de’ Medici
vecchio fu percosso il duomo nella sua
più alta parte con una saetta celeste,
con l'ovina grandissima di quello edilìzio.
Sa ciascuno ancora,, come poco innanzi che
Soderini, quale era stato fatto gonfaloniere a
vita dal popolo fiorentino, fosse cacciato e privo
del suo grado, fu il palazzo medesimamente
da un fulgore percosso. Potrcbbesi, olirà
di questo, addurre più essempi, i quali per
fuggire il tedio lascerò. Narrerò solo
quello che L., innanzi alla venuta
de’ Franciosi in Roma : cioè, come uno
Marco Cedizio plebeio, riferì al Senato avere udito
di mezza notte, passando per la Via
Nuova, una voce maggiore che umana, la
quale lo ammoniva che riferisse ai
magistrati, come i Franciosi venivano a Roma. La
cagione di questo credo sia da essere
discorsa ed interpretata da uomo che abbia
notizia delle cose naturali e soprannaturali: il
che non abbiamo noi. Pure, potrebbe essere
che, sendo questo aere, come vuole alcuno
filosofo, pieno d’ intelligenze ; le quali per
naturale virtù prevedendo le cose future, ed
avendo compassione agli uomini, acciò si
possino preparare alle difese, gli avvertiscono
con simili segni. Pure, comunelle si sia,
si vede cosi essere la verità; e che
sempre dopo tali accidenti sopravvengono cose
istraordinarie e nuove alle provincie. L VII. — La plebe
insieme è gagliarda; di per se è debole. Erano
molti Romani, scudo seguita per la passata
de* Franciosi la rovina della lor patria,
andati ad abitare a Yeio, contea alla
constituzione ed ordine del Senato: il
quale, per rimediare a questo disordine, comandò
per i suoi editti pubblici che ciascuno,
infra certo tempo e sotto certe pene,
tornasse ad abitare a Roma. De’quali editti,
da prima per coloro contea a chi e*
venivano, si fu fatto beffe; dipoi, quando
si appressò il tempo dello ubbidire, tutti
ubbidirono. E Tito Livio dice queste parole :
Ex fcrocibus universtSj singtili metti suo
obedienfes fuere. E veramente, non si può mostrare
meglio la natura d’ una moltitudine in
questa parte, che si dimostri in questo
testo. Perchè la moltitudine è audace nel
parlare molte volte contra alle deliberazioni
del loro principe; dipoi, come veggono la
pena in viso, non si fidando Y uno
dell’ altro, corrono ad ubbidire. Talché si
vede certo, che di quel che si dica
uno popolo circa la mala o buona
disposizion sua, si debbe tenere non gran
conto, quando tu sia ordinato in modo
da poterlo mantenere, s’ egli è ben disposto; s’
egli è mal disposto, da poter provvedere
che non ti offenda. Questo s’intende per
quelle male disposizioni che hanno i popoli,
nate da qualunque altra cagione, che o per
avere perduto la libertà, o il loro principe stato
amato da loro, e che ancora sia vivo;
perchè le male disposizioni che nascono da
queste cagioni, sono sopra ogni cosa
formidabili, e che hanno bisogno di grandi
rimedi a frenarle : 1' altre sue indisposizioni
fieno facili, quando ci non abbia capi a
chi rifuggire. Perchè non ci è cosa, dall’
un canto, più formidabile che una
moltitudine sciolta e senza capo; e, dall’
altra parte, non è cosa più debole :
perchè, quantunque ella abbi 1’ armi in
mano, fia facile ridurla, purché tu abbi
ridotto da potere fuggire il primo impeto;
perchè quando gli animi sono un poco
raffreddi, e che ciascuno vede di aversi a
tornare a casa sua, cominciano a dubitare di
loro medesimi, e pensare alla salute loro, o con fuggirsi
o con l’accordarsi. Però una moltitudine così
concitata, volendo fuggire questi pericoli, ha
subito a fare infra sè medesima un capo
che la corregga, tenghila unita e pensi alla
sua difesa ; come fece la Plebe romana,
quando dopo la morte di Virginia si
partì da Roma, e per salvarsi feciono infra
loro venti Tribuni: e non facendo questo,
interviene loro scmj)re quel che dice L.
nelle soprascritte parole, che tutti insieme
sono gagliardi; e quando ciascuno poi comincia a
pensare al proprio pericolo, diventa vile e
debole. LVIIL — ì.a moltitudine è più savia e più
costante che un principe. Nessuna cosa
essere più vana e più inconstante che la
moltitudine: cosi L. nostro, come tutti
gli altri istorici affermano. Perchè spesso
occorre, nel narrare le azioni degli
uomini, vedere la moltitudine avere condannato alcuno
a morte, e quel medesimo di poi pianto e
sommamente desiderato: come si vede avere
fatto il Popolo romano di Manlio
Capitolino, il quale avendo CONDENNATO A MORTE,
sommamente dipoi desiderava. E le parole dell*
autore son queste: Populum brevi, posteaquam ab co
periculum nullum eral , dcsidcrium rjus tenuit.
Ed altrove, quando mostra gli accidenti che
nacquero in Siracusa dopo la morte di
Girolamo nipote di Ierone, dice: Hcec
natura mulliludinis est : aut umiliter servii ,
aut superbe domi • natur. Io non so
se io mi prenderò una provincia dura, e
piena di tanta difficoltà, che mi convenga
o abbandonarla con vergogna, o seguirla con carico; volendo
difendere una cosa, la quale, come ho
detto, da tutti gli scrittori è accusata.
Ma, comunehc si sia, io non giudico
nè giudicherò mai essere difetto difendere
alcune oppinioni con le ragioni, senza
volervi usare o la autorità o la forza.
Dico adunque, come di quello difetto di
che accusano gli scrittori la moltitudine,
se ne possono accusare tutti gli uomini
particolarmente, e massime i principi; perchè ciascuno
che non sia regolato dalle leggi, farebbe
quelli medesimi errori che la moltitudine
sciolta. E questo si può conoscere facilmente, perchè
e’ sono c sono stati assai principi, e de’
buoni e de’ savi ne sono stati pochi; io
dico de’ principi che hanno potuto rompere
quel freno che gli può correggere; intra i
quali non sono quegli re che nascevano
in Egitto, quando in quella antichissima
antichità si governava quella provincia con
le leggi; nè quelli che nascevano in
Sparta; nè quelli che a’ nostri tempi
nascono in Francia: il quale regno è
moderato più dalle leggi, che alcuno altro
regno di che ne’ nostri tempi si abbi
notizia. E questi re che nascono sotto
tali constituzioni, non sono da mettere
in quel numero, donde si abbia a considerare la
natura di ciascuno uomo per sè, e vedere
se egli è simile alla moltitudine: perchè a
rincontro loro si debbe porre una
moltitudine medesimamente regolata dalle leggi
come sono loro; e si troverà in lei
essere quella medesima bontà che noi
veggiamo essere in quelli, e vedrassi quella
nè superbamente dominare nè umilmente servire:
come era il Popolo romano, il quale
mentre durò la Repubblica incorrotta, non
servì mai umilmente nè mai dominò superbamente; anzi
con li suoi ordini e magistrati tenne il
grado suo onorevolmente. E quando era necessario
insurgerc contra a uno potente, lo faceva;
come si vede in Manlio, ne’ Dieci, ed
in altri che cercorno opprimerla : e quando
era necessario ubbidire a’ Dittatori ed a’
Consoli per la salute pubblica, lo faceva.
E se il Popolo romano desiderava Manlio
Capitolino morto, non è meraviglia; perchè e*
desiderava le sue virtù, le quali erano state
tali, che la memoria di esse recava compassione
a ciascuno; cd arebbono avuto forza di fare
quel medesimo effetto in un principe,
perchè 1* è sentenza di tutti li scrittori,
come la virtù si lauda e si ammira
ancora negli inimici suoi: e se Manlio,
infra tanto desiderio, fusse risuscitato, il
Popolo di Roma arebbe dato di lui il
medesimo giudizio, come ei fece, tratto che
lo ebbe di prigione, che poco di poi
lo condennò a morte; nonostante die si
vegga di principi tenuti savi, i quali
hanno fatto morire qualche persona, e poi
sommamente desideratala : come Alessandro, Clito ed altri
suoi amici ; ed Erode, Marianne. Ma quello
che lo istorico nostro dice della natura
della moltitudine, non dice di quella che è
regolata dalle leggi, come era la romana;
ma della sciolta, come era la siracusana:
la quale fece quelli errori che fanno
gli uomini infuriati e sciolti, come fece
Alessandro magno, ed Erode, ne’ casi detti.
Però non è più da incolpare la natura
della moltitudine che de’ principi, perchè tutti
egualmente errano, quando tutti senza rispetto
possono errare. Di che, oltre a quello che ho
detto, ci sono assai essempi, ed intra
gli imperadori romani, ed intra gli altri
tiranni e , principi; dove si vede tanta
incostanza e tanta variazione di vita, quanta
mai non si trovasse in alcuna moltitudine.
Conchiudo, adunque, contea olla comune oppimene,
la qual dice come i popoli, quando sono
principi, sono vari, mutabili, ingrati;
affermando che in loro non sono altrimente
questi peccati che si siano ne’ principi particolari.
Ed accusando alcuni i popoli ed i principi
insieme, potrebbe dire il vero; ma
traendone i principi, s’inganna; perchè un popolo
che comanda e sia bene ordinato, sarà
stabile, prudente e grato non altrimenti
che un principe, o meglio che un
principe, eziandio stimato savio: e dall’altra
parte, un priucipe sciolto dalle leggi,
sarà ingrato, vario ed imprudente più che
uno popolo. E che la variazione del
procedere loro nasce non dalla natura
diversa, perchè in tutti è ad un modo: e
se vi è vantaggio di bene, è nei popolo;
ma dallo avere più o meno rispetto alle
leggi, dentro alle quali l’uno e l’altro
vive. E chi considerrà il Popolo romano,
lo vedrà essere stato per quattrocento anni
iuimico del nome regio, ed amatore della
gloria e del bene comune della sua
patria: vedrà tanti essempi usati da lui,
clic testiiuoniauo 1’ una cosa e V altra. £
se alcuno mi allegasse la ingratitudine eh7
egli usò centra a Scipione, rispondo quello die di
sopra lungamente si discorse in questa
materia, dove si mostrò i popoli essere
meno iugraii de’ principi. Ma quanto alla
prudenza ed alla stabilità, dico, come uno
popolo è più prudente, più stabile e di
miglior giudicio che un principe. E uon
senza cagione si assomiglia la voce d7
un popolo a quella di Dio; perchè si
vede una oppinioue universale fare effetti
meravigliosi ne’ pronostichi suoi: talché pare
che per occulta virtù e’ prevegga il suo
male ed il suo bene. Quanto al
giudicare le cose, si vede rarissime volte,
quando egli ode due concionanti che tendino
in diverse parti, quando e’ sono di egual
virtù, che non pigli *ia oppinione
migliore, e che non sia capace di quella
verità ch’egli ode. £ se nelle cose
gagliarde, o che paiano utili, come di
sopra si dice, egli erra ; molte volte
erra ancora uri principe nelle sue proprie
passioni, le quali sono molle più che quelle
de’ popoli. Yedesi ancora, nelle sue
elezioni ai magistrati, fare di lunga
migliore elezione che uno principe; nè mai
si persuaderà ad un popolo, che sia
bene tirare alla degnila uno uomo infame e
di corrotti costumi: il che facilmente e
per mille vie si persuade ad un
principe. Yedesi un popolo cominciare ad
avere in orrore una cosa, e molti secoli
stare in quella oppinione: il che non
si vede in uno principe. E dell’ una
e dell’ altra di queste due cose voglio
mi basti per testimone il Popolo romano:
il quale, in tante centinaia d’anni, in
tante elezioni di Consoli e di Tribuni, non
fece quattro elezioni di che quello si
avesse a pentire. Ed ebbe, come ho detto,
tanto in odio il nome regio, che
nessuno obbligo di alcuno suo cittadino,
che tentasse quel nome, potette fargli
fuggire le debite pene. Yedesi, oltra di
questo, le città dove i popoli sono
principi, fare in brevissimo tempo augumenti
eccessivi, e molto maggiori che quelle che
sempre sono state sotto un principe ! come
fece Roma dopo la cacciata de’ re, ed
Atene da poi che la si liberò da
Pisistrato. 11 che non può nascere da
altro, se non che sono migliori governi
quelli de* popoli che quelli de* principi.
Nè voglio che si opponga a questa mia
oppinione tutto quello che lo istorico
nostro ne dice nel preallcgato testo, ed
in qualunque altro; perchè, se si
discorreranno tutti i disordini de’popoli, tutti
i disordini de* principi, tutte le glorie
de* popoli, tutte quelle de’ principi, si
vedrà il popolo di bontà e di gloria
essere di lunga supcriore. E se i principi sono
superiori a* popoli nello ordinare leggi,
formare vite civili, ordinare statuti ed
ordini nuovi ; i popoli sono tanto
superiori nel mantenere le cose ordinate,
eh’ egli aggiungono senza dubbio alla
gloria di coloro che l’ordinano. Ed in
somma, per epilegare questa materia, dico
come hanno durato assai gli stati de’
principi, hanno durato assai gli stati
delle repubbliche, e l’uno e l’ altro ha
avuto bisogno d’essere regolato dalle leggi :
perchè un principe che può fare ciò
che vuole, è pazzo; un popolo che può
fare ciò che vuole, non è savio. Se,
adunque, si ragionerà d' un principe obbligato
alle leggi, ed’ un popolo incatenalo
da quelle, si vedrà più virtù nel
popolo che nel principe: se si ragionerà
dell’ uno e dell’altro sciolto, si vedrà • meno
errori nel popolo che nei principe; e
quelli minori, ed aranno maggiori rimedi.
Perchè ad un popolo licenzioso e tumultuario, gli
può da un uomo buono esser parlato, e
facilmente può essere ridotto nella via buona
: ad un principe cattivo non è alcuno che
possa parlare, nè vi è altro rimedio che
il ferro. Da che si può far coniettura
della importanza della malattia dell’uno e
dell’altro: chè se a curare la malattia del
popolo bastano le parole, ed a quella del
principe bisogna il ferro, non sarà mai
alcuno che non giudichi, che dove bisogna
maggior cura, siano maggiori errori. Quando
un popolo è bene sciolto, non si temono
le pazzie che quello fa, nè si ha
paura del mal presente, ma di quello
che ne può nascere, potendo nascere infra
tanta confusione un tiranno. Ma ne’ principi
tristi interviene il contrario: che si teme il
male presente, e nel futuro si spera; persuadendosi
gli uomini che la sua cattiva vita
possa far surgere una libertà. Sì che
vedete la differenza dell’ uno e dell’
altro, la quale è quanto dalle cose che
sono, a quelle che hanno ad essere. Le
crudeltà della moltitudine sono contra a
chi ei temono clic occupi il ben comune
: quelle d’ un principe sono contro a chi
ci temono che occupi il bene proprio.
Ma la oppiti ione contro ai popoli
nasce perchè de’ popoli ciascuno dice male
senza paura e liberamente, ancora mentre che
regnano: de’ principi si parla sempre con
mille paure e mille rispetti. Nè mi pare
fuor di proposito, poiché questa materia mi
vi tira, disputare nel seguente capitolo di
quali confederazioni altri si possa più
fidare, o di quelle falle con una
repubblica, o di quelle fatte con ui>
principe. LIX. — Di quali confederazioni , o lega,
altri si può più fidare ; o di quella
fatta con una repubblica , o di quella fatta
con uno principe. Perchè ciascuno dì
occorre che P uno principe con l’altro, o V
una repubblica con l’altra, fanno lega ed
amicizia insieme ; ed ancora similmente si
contrae confederazione ed accordo intra una
repubblica ed uno principe mi pare di esaminare
qual fede è più stabile, e di quale si
debba tenere più conto, o di quella d’
una repubblica, o di quella d’ uno principe,
lo, esaminando tutto, credo che in molti
casi e’ siano simili. ed in alcuni vi
sia qualche disformità. Credo per tanto,
che gli accordi fatti per forza non
ti saranno nè da un principe nè da
una repubblica osservali; credo che quando
la paura dello stato venga, l'uno e
l'altro, per non lo perdere, ti romperà
la fede, e ti userà ingratiludine.
Demetrio, quel che fu chiamato espugnatore
delle cittadi, aveva fatto agli Ateniesi
infiniti benefici! : occorse dipoi, che sendo
rotto da’ suoi inimici, e rifuggendosi in Atene,
come in città amica ed a lui obbligata,
non fu ricevuto da quella : il che
gli dolse assai più che non aveva
fatto la perdita delle genti e dello
esercito suo. Pompeio, rotto che fu da
Cesare in Tessaglia, si rifuggì in Egitto a
Tolomeo, il quale era per lo addietro
da lui stato rimesso nel regno; e fu
da lui morto. Le quali cose si vede che
ebbero le medesime cagioni; nondimeno fu
più umanità usata e meno •ingiuria dalla
repubblica, che dal principe. Dove è,
pertanto, la paura, si troverà in
fallo la medesima fede. E se si troverà o
una repubblica o uno principe, che per
osservarti la fede aspetti di rovinare, può
nascere questo ancora da simili cagioni. E
quanto al principe, può molto bene
occorrere che egli sia amico d’ un
principe potente, che se bene non ha
occasione allora di difenderlo, ei può
sperare che col tempo e* lo restituisca
nel principato suo; o veramente che, avendolo
seguito come partigiano, ei non creda
trovare nè fede nè accordi con il
nimico di quello. Di questa sorte sono
stati quelli principi del reame di Napoli
che hanno seguite le parti franciose. E
quanto alle repubbliche, fu di questa sorte
Sagunto in Ispagna, che aspettò la rovina
per seguire le parti romane; e di questa
Firenze, per seguire nel 4512 le parti franciose.
E credo, computata ogni cosa, che in questi
casi, dove è il pericolo urgente, si
troverà qualche stabilità più nelle repubbliche,
che ne’ principi. Perche, sebbene le
repubbliche avessino quel medesimo animo e quella
medesima voglia che un principe, lo avere
il moto loro tardo, farà che le
porranno sempre più a risolversi che il
principe, e per questo porranno più a
rompere la fede di lui. Romponsi le
confederazioni per lo utile. In questo le
repubbliche sono di lunga più osservanti
degli accordi, che i principi. E potrebbesi addurre
essempi, dove uno miuinio utile ha fatto
rompere la fede ad uno principe, e dove
una grande utilità non ha fatto rompere
la fede ad una repubblica : come fu
quello partito che propose Temistocle agli
Ateniesi, a’ quali nella conclone disse che
aveva uno consiglio da fare alla loro
patria grande utilità ; ma non lo poteva
dire per non lo scoprire, perchè
scoprendolo si toglieva la occasione del
farlo. Onde il popolo di Atene elesse
Aristide, al quale si comunicasse la cosa,
e secondo dipoi che paresse a lui se
ne deliberasse: al quale Temistode mostrò
come I* armata di tutta Grecia, ancora
che stesse sotto la fede loro, era in
lato che facilmente si poteva guadagnare o
distruggere; il che faceva gli Ateniesi al
tutto arbitri di quella provincia. Donde
Aristide riferì ai popolo, il partito di
Temistocle essere utilissimo, ma disonestissimo :
per la qual cosa il popolo al tutto
lo ricusò. II che non arebbe fatto
Filippo Macedone, e gli altri principi che
più utile hanno cerco e più guadagnato con
il rompere la fede, che con verun
altro modo. Quanto a rompere i patti per
qualche cagione di inosservanza, di questo
io non parlo come di cosa ordinaria;
ma parlo dì quelli che si rompono per
cagioni istrasordinarie: dove io credo, per
le cose (lette, che il popolo facci
minori errori che il principe, e per questo
si possa Fidar più di lui che del
principe. LX. — Come il consolato e qualungue
altro magistrato in Roma si (lava senza
rispetto di età. E’ si vede per V
ordine della istoria, come la Repubblica
romana, poiché ’i consolato venne nella
Plebe, concesse quello ai suoi cittadini
senza rispetto di età o di sangue; ancora
cbe il rispetto della età mai non
fusse in Roma, ma sempre si andò a
trovare la virtù, o in giovane o in vecchio
cbe la fusse. Il che si vede per
il testimone di Valerio Corvino, che fu
fatto Consolo nell! Ventitré anni: e Valerio
detto, parlando ai suoi soldati, disse come
il consolato crai prcetnium virfulisj, non
sanguinis. La qual cosa se fu bene
considerata, o no, sarebbe da disputare assai. E
quanto al sangue, fu concesso questo per
necessità ; e quella necessità che fu in
Roma, sarebbe in ogni città che volesse
fare gli effetti che fece Roma, come
altra volta si è detto: per- i! chè
e’ non si può dare agli uomini
disagio senza premio, nè si può torre la
SPERANZA di conseguire il premio senza pericolo.
E però a buona ora convenne che la Plebe
avesse speranza di avere il consolato ; e
di questa SPERANZA si nutrì un tempo
senza averlo. Dipoi non bastò la speranza,
che e’ convenne che si venisse allo effetto.
Ma la città che non adopera la sua
plebe ad alcuna cosa gloriosa, la può
trattare a suo modo, come altrove si
disputò: ma quella elle vuole fare quel
che fe Roma, non ha a fare questa
distinzione. E dato che così sia, quella
del tempo non ha replica ; anzi è
necessaria : perchè nello eleggere uno giovane
in uno grado che abbi bisogno d’ una
prudenza di vecchio, conviene, avendovelo ad
eleggere la moltitudine, che a quel grado
lo facci pervenire qualche sua nobilissima
azione. E quando un giovane è di tanta virtù, che
si sia fatto in qualche cosa notabile conoscere
; sarebbe cosa dannosissima che la città
non se «e potesse valere allora, e che
la avesse ad aspettare che fusse
invecchiato con lui quel vigore deir animo,
quella prontezza, della quale in quella età
la patria sua si poteva valere : come
si valse Roma di Valerio Corvino, di
Scipione, di Pompeio e di molti altri che
trionfarono giovanissimi. Laudano sempre gli
uomini, ma noti sempre ragionevolmente, gli
antichi tempi, e gli presenti accusano: ed
in modo sono delle cose passate partigiani,
che non solamente celebrano quelle etadi che
da loro sono state, per la memoria che
ne hanno lasciata gli scrittori, conosciute ;
ma quelle ancora che, sendo già vecchi,
si ricordano nella loro giovanezza avere
vedute. E quando questa loro oppinionc sia
falsa, come il più delle volte è, mi
persuado varie essere le cagioni che a
questo inganno gli conducono. E la prima
credo sia, che delle cose antiche non
s’intenda al tutto lu verità; e che di
quelle il più delle vollesi nasconda
quelle cose che recherebbono a quelli tempi
infamia; e quelle altre che possono partorire
loro gloria, si remlino magnifiche ed amplissime.
Però che i più degli scrittori in
modo * alla fortuna de’ vincitori ubbidiscono, che
per fare le loro vittorie gloriose, non
solamente accrescono quello che da loro è
virtuosamente operato, ma ancora le azioni
de’ nimici in modo illustrano, che
qualunque nasce dipoi in qualunque delle
due provincie, o nella vittoriosa o nella vinta,
ha cagione di maravigliarsi di quelli
uomini e di quelli tempi, ed è forzato
sommamente laudargli ed amargli. Olirà di questo,
odiando gli uomini le cose o per timore o
per invidia, vengono ad essere spente due
potentissime cagioni delP odio nelle cose
passate, non ti potendo quelle offendere, e
non ti dando cagione d’ invidiarle. Ma
al contrario interviene di quelle cose che
si maneggiano e veggono ; le quali, pei* la
intera cognizione di esse, non ti essendo
in alcuna parte nascoste* e conoscendo in quelle
insieme con il bene molte altre cose
che ti dispiacciono, sei forzato giudicarle
alle antiche molto inferiori, ancora che
in verità le presenti molto più di
quelle di gloria e di fama meritassero:
ragionando non delie cose pertinenti alle
arti, le quali hanno tanta chiarezza in
sè, che i tempi possono torre o dar loro
poco più gloria che per loro medesime
si meritino ; ma parlando di quelle
pertinenti alla vita e costumi degli
uomini, delle quali non se ne veggono
sì chiari testimoni. Replico, pertanto, essere
vera quella consuetudine del laudare e biasimare
soprascritta ; ma non essere già sempre vero
che si erri nel farlo. Perchè qualche
volta è necessario che giudichino la verità ;
perchè essendo le cose umane sempre in
molo, o le salgono, o lescendono. E vedesi
una città o una provincia essere ordinata
al vivere politico da qualche uomo
eccellente; ed, un tempo, per la virtù
di quello ordinatore, andare sempre in
augumento verso il meglio. Chi nasce allora
in tale stato, ed ei laudi più li
antichi tempi che i moderni, s’ inganna ;
ed è causato il suo inganno da quelle
cose che di sopra si sono dette. Ma
coloro che nascono dipoi, in quella città o
provincia, che gli è venuto il tempo
che la scende verso la parte più rea,
allora non s’ ingannano. E pensando io come
queste cose procedino, giudico il mondo
sempre essere stalo ad un medesimo modo,
ed in quello esser stato tanto di
buono quanto di tristo ; ma variare questo
tristo e questo buono di provincia in provincia: come
si vede per quello si ha notizia di quelli
regni antichi che variavano dall’uno all’altro
per la variazione de’ costumi; ma il mondo
restava quel medesimo. Solo vi era questa
differenza, che dove quello aveva prima collocata
la sua virtù in Assiria, la collocò
in Media, dipoi in Persia, tanto che
la ne venne in Italia ed a Roma: e se
dopo 10 imperio romano non è seguito imperio
che sia durato, nè dove il mondo abbia
ritenuta la sua virtù insieme; si vede
nondimeno essere sparsa in di molte nazioni
dove si viveva virtuosamente; come era il
regno de’ Franchi, 11 regno de’ Turchi,
quel del Soldano; ed oggi i popoli della
Magna ; e prima quella setta Saracina che
fece tante gran cose, ed occupò tanto
mondo, poiché la distrusse lo imperio
romano orientale. In tutte queste provincie,
adunque, poiché i Romani rovinorono, ed in tutte queste
sètte è stata quella virtù, ed è ancora
in alcuna parte di esse, che si desidera,
e che con vera laude si lauda. E chi
nasce in quelle, e lauda i tempi passati
più che i presenti, si potrebbe ingannare;
ma chi nasce in Italia ed in Grecia,
e non sia divenuto o in Italia oltramontano o
in Grecia turco, ha ragione di biasimare i
tempi suoi, e laudare gli altri : perchè in
quelli vi sono assai cose, che gli
fanno meravigliosi ; in questi non è cosa
alcuna che gli ricomperi da ogni estrema
miseria, infamia e vituperio: dove non è osservanza di
religione, non di leggi, non di milizia;
ma sono maculati d’ ogni ragione bruttura. E
tanto sono questi vizi più detestabili,
quanto ei sono più in coloro che
seggono prò tribunali, comandano a ciascuno, e
vogliono essere adorati. .Ha tornando al
ragionamento nostro, dico che se il
giudicio degli uomini è corrotto in
giudicare quale sia migliore, o il secolo
presente o l’antico, in quelle cose dove
per l’antichità ei non ha possuto
avere perfetta cognizione come egli ha de’
suoi tempi ; non doverrebbe corrompersi ne’
vecchi nel giudicare i lempi della gioventù
e vecchiezza loro, avendo quelli e questi egualmente
conosciuti e visti. La qual cosa sarebbe
vera, se gli uomini per tutti i tempi
della lor vita l'ussero del medesimo
giudizio, ed avessero quelli medesimi appetiti :
ma variando quelli, ancora che i tempi nou variino,
non possono parere agli uomini quelli
medesimi, avendo altri appetiti, altri diletti,
altre considerazioni nella vecchiezza, che nella
gioventù. Perchè, mancando gli uomini quando
li invecchiano di forze, e crescendo di giudizio e
di prudenza; è necessario che quelle cose
che in gioventù parevano loro sopportabili e
buone, ineschino poi invecchiando insopportabili e
cattive ; e dove quelli ne doverrebbono accusare
il giudicio loro, ne accusano i tempi.
Sendo. ultra di questo, gli appetiti umani
insaziabili, perchè hanno dalla natura di potere
e voler desiderare ogni cosa, e dalla
fortuna di potere conseguirne poche; ne
risulta continuamente una mala contentezza nelle
menti umane, ed un fastidio delle cose
che si posseggono: il che fa biasimare i
presenti tempi, laudare i passati, e desiderare i
futuri ; ancora che a fare questo non
fussino mossi da alcuna ragionevole cagione. Non so,
adunque, se io meriterò d’ essere numerato
tra quelli che si ingannano, se in
questi mia discorsi io lauderò troppo i
tempi degli antichi Romani, e biasimerò i
nostri. E veramente, se la virtù che allora
regnava, ed il vizio che ora regna,
non fussino più chiari che il sole,
andrei col parlare più rattenuto, dubitando
non incorrere in quello inganno di che
io accuso alcuni. Ma essendo la cosa
si manifesta che ciascuno la vede, sarò
animoso in dire manifestamente quello che
intenderò di quelli e di questi tempi;
acciocché gli animi de’ giovani che questi
mia scritti leggeranno, possino fuggire questi, e
prepararsi ad imitar quegli, qualunque volta la
fortuna ne dessi loro occasione. Perchè gli
è offizio di uomo buono, quel bene che
per la malignità de’ tempi e della
fortuna tu non hai potuto operare. insegnarlo
nd altri, acciocché sendone molti capaci,
alcuno di quelli, più amato dal Cielo,
possa operarlo. Ed avendo ne’ discorsi del
superior libro parlato delle deliberazioni fatte
da* Romani pertinenti al di dentro della
città, in questo parleremo di quelle, che
’\ Popolo romano fece pertinenti allo augumento dello
imperio suo. I. — Quale fu più cagione
dello imperio che acquistarono i Romani , o la
virtùj o la fortuna. Molti hanno avuta
oppinione, intra i quali è Plutarco, gravissimo
scrittore, che ’1 Popolo romano nello acquistare lo
imperio fusse più favorito dalla fortuna
che dalla virtù. Ed intra le altre ragioni
che ne adduce, dice che per confessione
di quel popolo si dimostra, quello avere
riconosciute dalla fortuna tutte le sue
vittorie, avendo quello edificati più templi
alla Fortuna, che ad alcun altro Dio. E
pare che a questa oppinione si accosti
Livio; perchè rade volte è che facci
parlare ad alcuno Romano, dove ei racconti
della virtù, che non vi aggiunga la
fortuna. La qual cosa io non voglio
confessare in alcun modo, nè credo ancora
si possa sostenere. Perchè, se non si è
trovato mai repubblica che abbi fatti i
progressi che Roma, è nato che non si è
trovata mai repubblica che sia stata
ordinata a potere acquistare come Roma. Perchè la
virtù degli eserciti gli feciono acquistare
Io imperio; e l’ordine del procedere, ed il
modo suo proprio, e trovato dal suo primo
legislatore, gli fece mantenere lo acquistato:
come di sotto largamente in più discorsi
si narrerà. Dicono costoro, che non avere
mai ac*» cozzate due potentissime guerre in
uno medesimo tempo, fu fortuna e non virtù
del Popolo romano ; perchè e’ non ebbero
guerra con i Latini, se non quando egli
ebbero non tanto battuti i Sanniti, quanto
che la guerra fu da* Romani fatta in
difensione di quelli ; non combatterono con i
Toscani, se prima non ebbero soggiogati i
Latini, ed enervati con le spesse rotte
quasi in tutto i Sanniti: che se due
di queste potenze intere si fussero, quando
erano fresche, accozzate insieme, senza dubbio
si può facilmente conietturare che ne sarebbe seguito
la rovina della romana Repubblica. Ma,
comunelle questa cosa nascesse, mai non
intervenne che eglino avessino due potentissime
guerre in un medesimo tempo: anzi parve
sempre, o nel nascere dell’ una, l’altra si
spegnesse; o nel spegnersi dell’ una, l’altra nascesse.
11 che si può facilmente vedere per T
ordine delle guerre fatte da loro: perchè,
lasciando stare quelle che feciono prima
che Roma fusse presa dai Franciosi, si
vede che, mentre che combatterno con gli
Equi e con i Volsci, mai, mentre questi
popoli furono potenti, non si levarono
contro di lor uitre genti. Domi costoro,
nacque la guerra contea ai Sanniti; e
benché innanzi che finisse tal guerra i popoli latini
si ribellassero da’ Romani, nondimeno quando
tale ribellione segui, i Sanniti erano in
lega con Roma, e con il loro esercito
aiutorono i Romani domare la insolenza latina. I
quali domi, risurse la guerra di Sannio.
Battute per molte rotte date a’ Sanniti
le loro forze, nacque la guerra de’
Toscani; la qual composta, si rilevarono di
nuovo i Sanniti per la passata di Pirro
in Italia. Il quale come fu ribattuto, e
rimandato in Grecia, appiccarono la prima guerra con
i Cartaginesi: nè {ìrima fu tal guerra
finita, che tutti i Franciosi, e di là e di
qua dall’ Alpi, congiurarono conti a i Romani;
tanto che intra Popolonia e Pisa, dove è
oggi la torre a San Vincenti, furono con
massima strage superati. Finita questa guerra,
per ispazio di venti anni ebbero guerra
di non molta importanza; perchè non
eombatterono con altri che con i Liguri, c
con quel rimanente de’ Franciosi che era in
Lombardia. E così stettero tanto che nacque
la seconda guerra cartaginese, la qual per
sedici anni tenne occupata Italia. Finita
questa con massima gloria, nacque la guerra
macedonica ; la quale tìnita, venne quella d’
Antioco e d’ Asia. Dopo la qual vittoria,
non restò in tutto il mondo nè
principe nè repubblica che, di per sè, o
tutti insieme, si potessero opporre alle
forze romane. Ma innanzi a quella ultima
vittoria, chi considerrà l’ ordine di queste
guerre, ed il modo del . procedere loro,
vedrà dentro mescolate con la fortuna una
virtù e prudenza grandissima. Talché, chi
esaminasse la cagione di tale fortuna, la
ritroverebbe facilmente: perchè gli è cosa certissima,
che come un principe e un popolo viene
in tanta riputazione, che ciascuno principe e
popolo vicino abbia di per sè paura
ad assaltarlo, e ne tema, sempre interverrà
che ciascuno d essi mai lo assalterà,
se non necessitato ; in modo che e’
sarà quasi come nella elezione di quel
polente, far guerra con quale di quelli
suoi vicini gli parrà, e gii altri con
la sua industria quietare. I quali, parte
rispetto alla potenza suo, parte ingannati
da quei modi che egli terrà per
nddormentargli, si quietano facilmente; e gli
altri potenti che sono discosto, e che non
hanno coinmerzio seco, curano la cosa come cosa
longinqua, e che non appartenga loro. Nel
quale errore stanno tanto che questo
incendio venga loro presso : il quale
venuto, non hanno rimedio a spegnerlo se
non con le forze proprie; le quali
dipoi non bastano, sendo colui diventato
potentissimo. Io voglio lasciare andare, come i
Sanniti stettero a vedere vincere dal Popolo
romano i Yolsci e gli Equi; e per non
essere troppo prolisso, mi farò da’
Cartaginesi : i quali erano di gran potenza c
di grande estimazione quando i Romani combattevano con
i Sanniti e con i Toscani ; perchè tii già
tenevano tutta 1’ Affrica, tenevano ia
Stintigna e la Sicilia, avevano dominio in
parte della Spagna. La quale polenza
loro, insieme con V esser discosto ne’ confini
dal Popolo romano, fece che non pensarono
mai di assaltare quello, nè di soccorrere i
Sanniti e Toscani: anzi fecero come si fa
nelle cose che crescono, più tosto in
lor favore collegandosi con quelli, e cercando
l’amicizia loro. Nè si avviddono prima
del1’ errore fatto, che i Romani, domi
tutti i popoli mezzi infra loro ed i Cartaginesi,
cominciarono a combattere insieme dello imperio
di Sicilia e di Spagna. Intervenne questo
medesimo a’ Franciosi che a’ Cartaginesi, e cosi
a Filippo re de’ Macedoni, e ad Antioco; e ciascuno di
loro credea, mentre che il Popolo romano
era occupato con l’altro, che quell’ altro
lo superasse, ed essere a tempo, o con
pace o con guerra, difendersi da lui. In
modo che io credo che la fortuna che
ebbono in questa parte i Romani, 1’
arebbono tutti quelli principl che
procedessero come i Romani, c fussero di
quella medesima virtù che loro. Sarebbeci
da mostrare a questo proposito il modo
tenuto dal Popolo romano nello entrare
nelle provincie d’ altri, se nei nostro
trattato de’ principati non ne avessimo
parlato a lungo ; perchè in quello questa
materia è diffusamente disputata. Dirò solo
questo brevemente, come sempre s’ingegnarono avere
nelle provincie nuove qualche amico che
fusse scala o porta a salirvi o entrarvi, o
mezzo a tenerla : come si vede che per.
il mezzo de’ Capovani entrarono in Sannio, de’
Camertini in Toscana, de’ Mamertini in
Sicilia, de’ Saguntini in Spagna, di
Massinissa iti Affrica, degli Eloli in
Grecia, di Eumene ed altri principi in
Asia, de’ Massiliensi e deili Edui in Francia. E
così non mancarono mai di simili appoggi,
per potere facilitare le imprese loro, e nello acquistare
le provincie e nel tenerle. Il che quelli
popoli che osserveranno, vedranno avere meno
bisogno della fortuna, che quelli che ne
saranno non buoni osservatori. E perchè ciascuno possa
meglio conoscere, quanto potè più la virtù
che la fortuna loro ad acquistare quello
imperio ; noi discorreremo nel seguente capitolo
di che qualità furono quelli popoli con i
quali egli ebbero a combattere, e quanto erano
ostinati a difendere la loro libertà. 11. — Con
quali popoli i Romani ebbero a combattere , e come
ostinatamente quelli difendevano la loro libertà. Nessuna
cosa fece più faticoso a* Romani superare i
popoli d* intorno, c parte delle provincie
discosto, quanto lo amore che in quelli
tempi molti popoli avevano alla libertà; la
quale tanto ostinatamente difendevano, che mai
se non da una eccessiva virtù sarebbono
stati * soggiogati. Perchè, per molti essempi si conosce
a quali pericoli si mettessino per mantenere o
ricuperare quella ; quali vendette e’
facessino contra a coloro che V avessino loro
occupata. Conoscesi ancora nelle lezioni
delle istorie, quali danni i popoli e le
città riccvino per la servitù. E dove in
questi tempi ci è solo una provincia la
quale si possa dire che abbia in sè
città libere, ne* tempi antichi in tutte
le provincie erano assai popoli liberissimi.
Vedesi come in quelli tempi de’ quali
noi parliamo al presente, in Italia, dall’
Alpi che dividono ora la Toscana dalla
Lombardia, insino alla punta d’Italia, erano
molti popoli liberi; com’erano i Toscani, i
Romani, i Sanniti, e molti altri popoli che
in quel resto d’ Italia abitavano. Nè si
ragiona mai che vi fusse alcuno re,
fuora di quelli che regnarono in Roma, e
Porsena re di Toscaua; la stirpe del
quale come si estinguesse, non ne parla
la istoria. Ma si vede bene, come in
quelli tempi che i . Romani andarono a
campo a Veio, la Toscana era libera : e
tanto si godea della sua libertà, e tanto
odiava il nome del principe, che avendo
fatto i Veienti per loro difensione un re
in Veio, e domandando aiuto a' Toscani
contra ai Romani ; quelli, dopo molte
consulte fatte, deliberarono di non dare
aiuto a’Veienti, infino a tanto che vivessino
sotto ’1 re; giudicando non esser bene
difendere la patria di coloro che V avevano
di già sottomessa ad altrui. E facil cosa è
conoscere donde nasca ne’ popoli questa affezione
del vivere libero; perchè si vede per
esperienza, le cittadi non avere mai ampliato
nè di domiuio nè di ricchezza, se non
mentre sono state in libertà. E veramente
meravigliosa cosa è a considerare, a quanta grandezza
venne Atene per ispazio di cento anni,
poiché la si liberò dalla tirannide di
Pisistrato. Ma sopra tutto meravigliosissima cosa
è a considerare, a quanta grandezza venne Roma,
poiché la si liberò da’ suoi Re. La
cagione è facile ad intendere; perchè non
il bene particolare, ma il bene comune è
quello che fa grandi le città.
E senza dubbio, questo bene comune non è
osservato se non nelle repubbliche; perchè
lutto quello che fa a proposito suo, si
eseguisce; e quantunque e’ torni in danno di
questo o di quello privato, e’ sono tanti
quelli per chi detto bene fa, che lo
possono tirare innanzi contra alla disposizione
di quelli pochi che ne fussino oppressi.
Al contrario interviene quando vi è uno
principe; dove il più delle volte quello
che fa per lui, offende la città; e
quello che fa per la città, offende
lui. Dimodoché, subito che nasce una
tirannide sopra un viver libero, il manco
male che ne resulti a quelle città, è non
andare più innanzi, nè crescere più in
potenza o in ricchezze ; ma il più delle
volte, anzi sempre, interviene loro, che le
tornano indietro. E se la sorte facesse che
vi surgesse un tiranno virtuoso, il quale ,
per animo e per virtù d’ arme ampliasse
il dominio suo, non ne risulterebbe alcuna
utilità a quella repubblica, ma a lui proprio:
perchè e’ non può onorare nessuno di quelli
cittadini che siano valenti c buoni, che egli
tiranneggia, non volendo avere ad avere
sospetto di loro. Non può ancora le
città che egli acquista, sottometterle o farle
tributarie a quella città di che egli è tiranno:
perchè il farla potente non fa per
lui; ma per lui fa tenere lo Stato
disgiunto, e che ciascuna terra e ciascuna
provincia riconosca lui. Talché di suoi
acquisti, solo egli ne profitta, e non
la sua patria. E chi volesse confermare
questa oppinione con infinite altre ragioni,
legga Senofonte nel suo trattato che fa
De Tirannide. Non è meraviglia adunque, che
gli antichi popoli con tanto odio
perseguitassino i tiranni, ed nmassiiio il vivere
libero, e che il nome della libertà fusse
tanto stimato da loro: come intervenne
quando Girolamo nipote di lerone siracusano fu morto
in Siracusa, che venendo le novelle della
sua morte in nel suo esercito, che
non era molto lontano da Siracusa,
cominciò prima a tumultuare, e pigliare 1’
armi contro agli ucciditori di quello; ma
come ei sentì che in Siracusa si
gridava libertà, allettato da quel nome, si
quietò tutto, pose giti V ira contra a’
tirannicidi, e pensò come iti quella città
si potesse ordinare un viver libero. Non è
meraviglia ancora, che i popoli faccino
vendette istraordinaric contra a quelli che gli
hanno occupata la libertà. Di che ci
sono stali assai esempi, de’ quali ne
intendo referire solo uno, seguilo in
Coreica, città di Grecia, ne’ tempi della
guerra peloponnesiaca; «love sendo divisa quella
provincia in due fazioni, delle quali 1’
una seguitava gli Ateniesi, V altra gli
Spartani, ne nasceva che di molte città,
che erano infra loro divise, T una parte
seguiva F amicizia di Sparta, l’altra di
Atene: ed essendo occorso clic nella detta
città prcvalessino i nobili, e togliessino la
libertà al popolo, i popolari per mezzo degli Ateniesi
ripresero le forze, e posto le mani addosso
a tutta la nobiltà, gli rinchiusero in una
prigione capace di tutti loro; donde gli
traevano ad otto o dieci per volta, sotto
titolo di mandargli in esilio iti diverse
parli, e quelli con molti crudeli essempi
facevauo morire. Di che sendosi quelli che
restavano accorti, deliberarono, in quanto era a
loro possibile, fuggire quella morte ignominiosa
; ed armatisi di quello potevano, combattendo
con quelli vi volevano entrare, la entrata
della prigione difendevano; di modo che il
popolo, a questo romore fatto concorso, scoperse
la parte superiore di quel luogo, e quelli
con quelle rovine sufìbeorno. Seguirono ancora in
delta provincia molti altri simili casi orrendi
e notabili : talché si vede esser vero, che
con maggiore impeto si vendica una libertà
che ti è suta tolta, che quella che
li è voluta torre. Pensando dunque donde
possa nascere, che in quelli tempi antichi,
i popoli fussero più amatori della libertà
che in questi; credo nasca da quella
medesima cagione che fa ora gli uomini
manco forti : la quale credo sia la diversità
della educazione nostra dalla antica, fondata
nella diversità della religione nostra dalla
antica. Perchè avendoci la nostra religione
mostra la verità e la vera via, ci fa
stimare meno l’onore del mondo: onde i
Gentili stimandolo assai, ed avendo posto
in quello il sommo bene, erano nelle
azioni loro più feroci. Il che si può
considerare da molte loro constituzioni,
cominciandosi dalla magnificenza de’ sacrificii
loro, alla umilila de’ nostri ; dove è
qualche pompa più dilicata che magnifica,
ma nessuna azione feroce o gagliarda. Quivi
non mancava la pompa nè la magnificenza
delle cerimonie, ma vi si aggiungeva 1*
azione del sacrificio pieno di sangue e di
ferocia, ammazzandovisi moltitudine di animali :
il quale aspetto sendo terribile, rendeva gli
uomini simili a lui. La religione antica,
oltre di questo, non beatificava se non
gli uomini pieni di mondana gloria: come
erano capitani di eserciti, e principi di
repubbliche. La nostra religione ha glorificato
più gli uomini umili e contemplativi, che
gli attivi. Ha dipoi posto il sommo
bene nella umilila, abiezione, nello dispregio
delle cose umane: quell’ altra lo poneva
nella grandezza dello animo, nella fortezza
del corpo, ed in tutte le altre cose
atte a fare gli uomini fortissimi. E se la
religione nostra richiede che abbi in te
fortezza, vuole che tu sia atto a patire
più che a fare una cosa forte. Questo
modo di vivere, adunque, pare che abbi
rendutoil mondo debole, e datolo in preda
agli uomini scellerati; i quali sicuramente lo
possono maneggiare, veggendo come la università
degli uomini, per andare in paradiso, pensa
più a sopportare le sue battiture, che a
vendicarle. E benché paia che si sia
effeminato il mondo, e disarmato il cielo,
nasce più senza dubbio dalla viltà degli
uomini, che hanno interpretato la nostra
religione secondo l’ ozio, e non secondo la
virtù. Perchè, se considerassino come la
permette la esultazione e la difesa della
patria, vedrebbono come la vuole che
noi l’amiaino ed onoriamo, e prepariamoci
ad esser tali che noi la possiamo
difendere. Fanno adunque queste educazioni, e si false
interpretazioni, che nel mondo non si vede
tante repubbliche quante si vedeva aulicamente;
nè, per conscguente, si vede ne’ popoli
tanto amore alla libertà quanto allora :
ancora che io creda piuttosto essere
cagione di questo, che lo imperio romano
con le sue arme e sua grandezza spense
tutte le repubbliche e lutti i viveri
civili E benché poi tal imperio si sia
risoluto, non si sono potute le città
ancora rimettere insieme nè riordinare alla
vita civile, se non in pochissimi luoghi
di quello imperio. Pure, comunelle si
fusse, i Romani in ogni minima parte del
mondo trovarono una congiura di repubbliche
armatissime, ed ostinatissime atia difesa della
libertà loro. Il che mostra che '1
Popolo romano senza una rara ed estrema
virtù mai non le arebbe potute superare. E
per darne esseinpio di qualche membro,
voglio mi basti lo essempio de’ Sanniti : i
quali pare cosa mirabile, e Tito Livio lo
confessa, che fussero sì potenti, e 1’ arme loro
si valide, che potessero infino al tempo
di Papirio Cursore consolo, figliuolo del primo
Papirio, resistere a’ Romani (che fu uno
spazio di XLVI anni), dopo tante rotte,
rovine di terre, e tante stragi ricevute
nel paese loro; massime veduto ora quel
paese dove erano tante cittadi e tanti
uomini, esser quasi che disabitato : ed
allora vi era tanto ordine, e tanta
forza, eh’ egli era insuperabile, se da
una- virtù romana non fusse stato assaltato.
E facil cosa è considerare donde nasceva quello
ordine, c donde proceda questo disordine; perchè
tutto viene dal viver libero allora, ed
ora dal viver servo. Perchè tutte le
terre e le provincie che vivono libere in
ogni parte, come di sopra dissi, fanno i
progressi grandissimi. Perchè quivi si vede
maggiori popoli, per essere i matrimoni più
liberi, e più desiderabili dagli uomini : perchè
ciascuno procrea volentieri quelli figliuoli che
crede potere nutrire, non dubitando che il
patrimonio gli sia tolto; thè eT conosce
non solamente che nascono liberi e non
schiavi, ma che possono mediante la virtù
loro diventare principi. Veggonvisi le
ricchezze multiplicare in maggiore numero, e
quelle che vengono dalla cultura, e quelle
che vengono dalle arti. Perchè ciascuno
volentieri multiplica in quella cosa, e cerca
di acquistare quei beni, che crede
acquistati potersi godere. Onde ne nasce
che gli uomini a gara pensano ai privati
ed a’ pubblici comodi; e l’ uno e l’altro
viene meravigliosamente a crescere. II contrario
di tutte queste cosesegue in quelli
paesi che vivono scivi; c tanto più mancano
del consueto bene, quanto è più dura la
servitù. E di tutte" le servitù dure,
quella è durissima che li sottomette ad una
repubblica : E una, perchè la è più durabile, e
manco si può sperare d’ uscirne; Y altra,
perchè il fine della repubblica è enervare
ed indebolire. per accrescere il corpo suo,
tutti gli altri corpi. 11 che non la
un principe che ti sottometta, quando quel principe
non sia qualche principe barbaro, destruttore
de’ paesi, e dissipatore di tutte le
civilità degli uomini, come sono i principi
orientali. Ma s’ egli ha in sè ordini
umani ed ordinari, il più delle volte
ama le città sue soggette egualmente, ed a
loro lascia T arti tutte, e quasi lutti gli
ordini antichi. Talché, se le non possono
crescere come libere, elle non rovinano
anche come serve; intendendosi della servitù
in quale vengono le città servendo ad
un forestiero, perchè di quella d’ uno loro
cittadino
ne parlai di sopra. Chi considerrù,
adunque, tutto quello che si è detto, non
si meraviglierà della potenza che i Sanniti avevano
sendo liberi, e della debolezza in che e’
vennero poi servendo: e L. ne fa fede
in più luoghi, e massime nella guerra d’
Annibaie, dove ei mostra che essendo i
Sanniti oppressi da una legione d’ uomini che
era in Nola, mandorono oratori ad Annibale,
a pregarlo che gli soccorresse; i quali nel parlar
loro dissono, che avevano per cento anni
combattuto con i Romani con i propri loro
soldati e propri loro capitani, e molte volte
avevano sostenuto duoi eserciti consolari e duoi
consoli; e che allora a tanta bassezza
erano venuti, che non si potevano a pena
difendere da una piccola legione romana che
era. III. — Roma divenne grande città rovinando
le città circonvicine , e ricevendo i forestieri
facilmente aJ suoi onori. Crescit inlerea
Roma Albce ruinis. Quelli che disegnano che
una città faccia grande imperio, si debbono
con ogni industria ingegnare di farla piena
di abitatori ; perchè senza questa abbondanza di
uomini, mai non riuscirà di fare grande
una città. Questo si fa in duoi modi;
per amore, e per forza. Per amore, tenendo
le vie aperte e secure a’ forestieri
che disegnassero venire ad abitare in
quella, acciocché ciascuno vi abiti volentieri :
per forza, disfacendo le città vicine, e
mandando gli abitatori di quelle ad abitare
nella tua città. Il che fu tanto
osservato in Roma, che nel tempo del
sesto Re in Roma abitavano ottantamila
uomini da portare armi. Perchè i Romani
vollono fare ad uso del buono cultivatore;
il quale, perche una pianta ingrossi, e
possa pròdurre e maturare i fruiti suoi,
gli taglia i primi rami che la mette,
acciocché, rimasa quella virtù nel piede di
quella pianta, possino col tempo nascervi più verdi
e più fruttiferi. E che questo modo tenuto
per ampliare e fare imperio, fusse necessario e
buono, lo dimostra Io essempio di Sparta e
di Atene : le quali essendo due repubbliche
armatissime, ed ordinate di ottime leggi,
nondimeno non si condussono alla grandezza dello
imperio romano; e Roma pareva più tumultuaria, e
non tanto bene ordinata quanto quelle. Di
che non se ne può addurre altra cagione, che
la preallegata: perchè Roma, per avere
ingrossato per quelle due vie il corpo
della sua città, potette di già mettere
in arme dugentottantamila uomini; e Sparta ed
Atene non passarono mai ventimila per
ciascuna. Il che nacque, non da essere
il sito di Roma più benigno che
quello di coloro, ma solamente da
diverso modo di procedere. Perché Licurgo,
fondatore della repubblica spartana , considerando nessuna cosa
potere più facilmente risolvere le sue
leggi che la commistione di nuovi abitatori,
fece ogni cosa perchè i forestieri non
avessino a conversarvi: ed, oltre al non
gli ricevere ne’ matrimoni, alla civiltà, ed
alle altre conversazioni che fanno convenire
gli uomini insieme, ordinò che in quella
sua repubblica si spendesse monete di
cuoio, per tor via a ciascuno il desiderio
di venirvi per portarvi mercanzie, o portarvi
alcuna arte; di qualità che quella città
non potette mai ingrossare di abitatori. E perchè
tutte le azioni nostre imitano la natura,
non è possibile nè naturale che uno pedale
sottile sostenga un ramo grosso. Però una
repubblica piccola non può occupare città
nè regni che siano più validi nè più
grossi di lei; e se pure gli occupa,
gP interviene come a quello albero che
avesse più. grosso il ramo
che ’l piede," che sostenendolo con
fatica, ogni piccolo vento lo fiacca: come si
vede che intervenne a Sparla, la quale avendo
occupate tutte le città di Grecia, non
prima se gli ribellò Tebe, che tutte P
altre cittadi se gli ribellarono, e rimase
i! pedale solo senza rami. Il che non
potette intervenire a Roma, avendo il piè
si grosso, che qualunque ramo poteva
facilmente sostenere. Questo modo adunque di
procedere, insieme con gli altri che di
sotto si diranno, fece Roma grande e
potentissima. Il che dimostra L. in due
parole, quando disse: Crcscit intcrea Roma
Albce ruinis. IV. — Le repubbliche hanno tentili
tre modi circa lo ampliare. Chi ha
osservato le antiche istorie, Iruova come
le repubbliche hanno tre modi circa lo
ampliare. L* uno è stato quello che
osservorono i Toscani antichi, di essere una
lega di più repubbliche insieme, dove
non sia alcuna che avanzi l’ altra nè
di autorità nè di grado; e nello
acquistare, farsi 1’ altre città compagne, in
simil modo come in questo tempo fanno i
Svizzeri, e come nei tempi antichi feciono
in Grecia gli Achei e gli Etoli. E perchè
gli Romani feciono assai guerra con i
Toscani, per mostrar meglio la qualità di
questo primo modo, ini distenderò in dare
notizia di loro particolarmente. In Italia,
innanzi allo imperio romano, furono i Toscani per
mare e per terra potentissimi: e benché delle
cose loro non ce ne sia particolare
istoria, pure c’è qualche poco di memoria,
e qualche segno della grandezza loro; e si
sa come e* mandarono una colonia in
su ’l mare di sopra, la quale
chiamarono Adria, che fu si nobile, che
la dette nome a quel mare che ancora i
Latini chiamano Adriatico. Intendesi ancora,
come le loro arme furono ubbidite dal
Tevere per infìno ai piè dell’ Alpi,
che ora cingono il grosso di Italia;
non ostante che dugento anni innanzi che i
Romani crescessino in molte forze, detti
Toscani perderono lo imperio di quel paese
che oggi si chiama la Lombardia; la
quale provincia fu occupata da’ Franciosi : i
quali mossi o da necessità, o dalla
dolcezza dei frutti, e massime del viuo,
vennono in Italia sotto Bellovcso loro
duce; e rotti e cacciati i provinciali, si posono
in quel luogo, dove edificarono di molte
cittadi, e quella provincia chiamarono Gallia, dal
nome che tenevano allora ; la quale tennono
fino che da’ Romani fussero domi. Vivevano,
adunque, i Toscani con quella equalità , e procedevano
nello ampliare in quel primo modo che di sopra
si dice: e furono dodici città, tra le
quali era Chiusi, Yeio, Fiesole, Arezzo,
Volterra, e simili: i quali per via di lega
governavano lo imperio loro; nè poterono
uscir d’Italia con gli acquisti ; e di
quella ancora rimase intatta gran parte,
per le cagioni che di sotto
si diranno. V altro modo è farsi compagni j
non tanto però che non ti rimanga il
grado del comandare, la sedia dello imperio
ed il titolo delle imprese : il quale
modo fu osservato da’ Romani. 11 terzo
modo è farsi immediate sudditi, e non compagni;
come fecero gli Spartani e gli Ateniesi.
De' quali tre modi, questo ultimo è al
tutto inutile; come c’ si vide che fu
nelle sopraddette due repubbliche: le quali
non rovinarono per altro, se non per
avere acquistato quel dominio che le non
potevano tenere. Perchè, pigliar cura di
avere a governare città con violenza, massime quelle
che tassino consuete a viver libere, è una
cosa diffìcile e faticosa. E se tu non
sei armato e grosso d’ armi, non le
puoi nè comandare nè reggere. Ed a voler
esser così fatto, è necessario farsi compagni
che ti aiutino ingrossare la tua città
di popolo. E perchè queste due città non
feciono nè1’ uno nè I’ altro, il
modo del procedere loro fu inutile. E
perché Roma, la quale è nello esempio del
secondo modo, fece l’uno e T altro; però
salse a tanta eccessiva potenza. E perchè la è
stata sola a vivere cosi, è stata ancora
sola a diventar tanto potente : perchè, avendosi ella
fatti di molti compagni per tutta Italia, i
quali in di molte cose con eguali leggi
vivevano seco; e dall’ altro canto» come di
sopra è detto, sendosi riservato sempre la
sedia dello imperio ed il titolo del
comandare; questi suoi com-pagni venivano, che
non se ne avvedevano, con le fatiche e
con il sangue loro a soggiogar sè stessi.
Perchè, come cominciorono a uscire con gli
eserciti di Italia, e ridurre i regni in
provincie, e farsi soggetti coloro che per esser
consueti a vivere sotto i Re, non si
curavano d* esser soggetti; ed avendo governadori
romani, ed essendo stati vinti da eserciti
con ii titolo romano ; non riconoscevano
per superiore altro che Roma. Di modo
che quelli compagni di Roma che erano
in Italia, si trovarono in un tratto
cinti da’ sudditi romani, cd oppressi da
una grossissima città come era Roma ; e
quando e’ si avviddono dello inganno sotto
i! quale erano vissuti, non furono a tempo
a rimediarvi: tanta autorità aveva presa Roma
con le provincie esterne, e tanta forza si
trovava in seno, avendo la sua città
grossissima ed armatissima. E benché quelli suoi
compagni, per vendicarsi delle ingiurie, gli congiurassino
contea, furono in poco tempo perditori della guerra,
peggiorando le loro condizioni; perchè di
compagni, diventarono ancora loro sudditi. Questo
modo di procedere, come è detto, è stato
solo osservato da’ Romani: nè può tenere
altro modo una repubblica che voglia ampliare;
perchè la esperienza non te ne ha
mostro nessuno più certo o più vero. 11
modo preallegato delle leghe, come viverono i
Toscani, gii Achei e gli Etoli, e come
oggi vivono i Svizzeri, è dopo a quello de’
Romani il miglior modo; perchè non si
potendo con quello ampliare assai, ne seguitano duoi
beni: l’ uno, che facilmente non ti tiri
guerra addosso; l’altro, che quel tanto che
tu pigli, lo tieni facilmente. La cagione
del non potere ampliare, è lo essere
una repubblica disgiunta, e posta in varie
sedi: il che fa che difficilmente possono
consultare e deliberare. Fa ancora che non
sono desiderosi di dominare: perchè essendo
molte comunità a* participarc di quel
dominio, non istimano tanto tale acquisto,
quanto fa una repubblica sola, che spera
di goderselo tutto. Governansi, oltra di questo,
per concilio, c conviene che siano più
tardi ad ogni deliberazione, che quelli che
abitano dentro ad un medesimo cerchio.
Vedesi ancora per esperienza, che simile
modo di procedere ha un termine fisso,
il quale non ci è esempio che mostri
che si sia trapassato: e questo è di
aggiugnere a dodici o quattordici comunità ;
dipoi non cercare di andare più avanti :
percliè sendo giunti al grado che par
loro potersi difendere da ciascuno, non
cercano maggiore dominio ; sì perchè la necessità
non gli stringe di avere piò potenza; si
per non conoscere utile negli acquisti, per
le cagioni dette di sopra. Perchè gli
arebbono a fare una delle due cose; o
seguitare di farsi compagni, e questa
moltitudine farebbe confusione; o gli arebbono a
farsi sudditi : e perchè e’ veggono in
questo difficultà, e non molto utile nel
tenergli, non lo stimano. Pertanto, quando
e’ sono venuti a tanto numero che paia
loro vivere sicuri, si voltano a due cose:
P una a ricevere raccomandati, e pigliare protezioni ;
c per questi mezzi trarre da ogni parte
danari, i quali facilmente intra loro si
possono distribuire: 1* altra è militare per
altrui, e pigliar stipendio da questo e da
quello principe che per sue imprese gli
soldo ; come si vede che fanno oggi i
Svizzeri, e come si legge che facevano i
preallegati. Di che il* è testimone Tito
Livio, dove dice che, venendo a parlamento
Filippo re di Macedonia con Tito Quinzio
Flamminio, e ragionando d'accordo alla presenza
d’ un pretore degli Etoli ; in venendo a
parole detto pretore con Filippo, gli fu da
quello rimproverato la avarizia e la infidelità,
dicendo che gli Etoli non si vergognavano
militare con uno, e poi mandare loro uomini
ancora al servigio del nimico ; talché molte volte
intra dnoi contrari eserciti si vedevano le
insegne di Etolia. Conoscesi, pertanto, come
questo modo di procedere per leghe, è stato
sempre simile, ed ha fatto simili effetti.
Vedesi ancora, che quel modo di fare
sudditi è stato sempre debole, ed avere
fatto piccoli profitti; e quando pure egli
hanno passato il modo, essere rovinati
tosto. E se questo modo di fare sudditi è
inutile nelle repubbliche armate, in quelle che sono
disarmate è inutilissimo: come sono state ne’
nostri tempi le repubbliche di Italia.
Conoseesi, pertanto, essere vero modo quello
che tennono i Romani 5 il quale è tanto più
mirabile, quanto e’ non ee il’ era
innanzi a Roma essempio, e dopo Roma non è
stalo alcuno elio gli abbi imitati. E
quanto alle leghe, si trovano solo i
Svizzeri e la lega di Svevia che gli
imita. E, come nel fine di questa
materia si dirà, tanti ordini osservati da
Roma, così pertinenti alle cose di dentro
come a quelle di fuora, non sono ne*
presenti nostri tempi non solamente imitati,
ma non n’è tenuto alcuno conto ;
giudicandoli alcuni non veri, alcuni impossibili,
alcuni non a proposito ed inutili : tanto
che standoci con questa ignoranza, siamo
preda di qualunque ha voluto correre questa
provincia. E quando la imitazione de’ Romani
paresse difficile, non doverrebhe parere cosi
quella degli antichi Toscani, massime a’
presenti Toscani. Perchè, se quelli non
poterono, per le cagioni dette, fare uno
imperio simile a quel di Roma, poterono
acquistare in Italia quella potenza che
quel modo del procedere concesse loro. 11
che fu per un gran tempo securo, con
somma gloria d’ imperio e d’arme, e massima
laude di costumi e di religione. La
qual potenza e gloria fu prima diminuita
da’ Franciosi, dipoi spenta da’ Romani; e fu
tanto spenta, che, ancora che duemila anni
fa la potenza de’ Toscani fusse grande,
al presente non ce n’ è quasi memoria. La qual
cosa mi ha fatto pensare donde nasca
questa oblivione delle cose: come '
nel seguente capitolo si discorrerà. V. —
Che la variazione delle sèlle e delle lingue
insieme con l'accidente de' diluvi o delle
pesti j spegno la
memoria delle cose. A quelli FILOSOFI che hanno
voluto che’l mondo sia stato eterno, credo
che si potesse reificare, che se tanta
antichità fusse vera, e’ sarebbe ragionevole che ci
fusse memoria di più che cinque mila
anni; quando e’ non si vedesse come
queste memorie de* tempi per diverse
cagioni si spengano: delle quali parte
vengono dagli nomini, parte dal cielo.
Quelle che vengono dagli uomini, sono LE
VARIAZIONI DELLE SETTE E DELLE LINGUE. Perchè quando surge
una setta nuova, cioè una religione nuova,
il primo studio suo è, per darsi
reputazione, estinguere la vecchia; e quando egli
occorre che gli ordinatori delia nuova setta
siano di lingua diversa, la spengono
facilmente. La qual cosa si conosce
considerando i modi che ha tenuti la
religione cristiana contra alla SETTA GENTILE;
la quale ha cancellati tutti gli ordini,
tutte le ceremonie di quella, e spenta
ogni memoria di quella antica teologia.
Vero è che non gli è riuscito spegnere in
tutto la notizia delle cose fatte dagli
uomini eccellenti di quella : il die è
nato per AVERE QUELLA MANTENUTA LA LINGUA LATINA; il
che fecero forzatamente, avendo a scrivere questa legge
nuova con essa. Perchè, se V avessino potuta
scrivere con nuova lingua, considerato le
altre persecuzioni gli feciono, non ci
sarebbe ricordo alcuno delle cose passate. E
chi legge i modi tenuti da san Gregorio e
dagli altri capi della religione cristiana,
vedrà con quanta ostinazione e’ perseguitarono tutte
le memorie antiche, ardendo P opere de*
poeti e delli istorici, minando le immagini, e
guastando ogni altra cosa che rendesse
alcun segno della antichità. Talché, se a
questa persecuzione egli avessino aggiunto una
nuova lingua, si sarebbe veduto in
brevissimo tempo ogni cosa dimenticare. È da
credere, pertanto, che quello che ha voluto
fare la religione cristiana contra alla setta gentile,
la gentile abbi fatto contra u quella
che era innanzi a lei. E perchè queste
sètte in cinque o in seimila anni variarono
due o tre volle, si perdè in memoria
delle cose fatte innanzi a quel tempo. E se
pure ne resta alcun segno, si considera
come cosa favolosa, e non è prestato loro
fede : come interviene alla istoria di
Diodoro Siculo, che benché e’ renda ragione
di quaranta o cinquanta mila anni, nondimeno è
riputata, come io credo che sia, cosa
mendace. Quanto alle cause che vengono dal
cielo, sono quelle che spengono la umana generazione,
e riducono a pochi gli abitatori di parte
del mondo. E questo viene o per peste o per
fame o per una inondazione d* acque : e la
più importante è questa ultima, sì perchè
la è più universale, sì perchè quelli
che si salvano sono uomini tutti montanari
e rozzi, i quali non avendo notizia di
alcuna antichità, non la possono lasciare a’
posteri. E se infra loro si salvasse alcuno
che ne avesse notizia, per farsi riputazione
e nome, la nasconde, e la perverte a suo
modo ; talché ne resta solo a* successori
quanto ei ne ha voluto scrivere, e non
altro. E che queste inondazioni, pesti e fami
venghino, non credo sia da dubitarne; sì
perchè ne sono piene tutte le istorie,
sì perchè si vede questo effetto della
oblivione delle cose, sì perchè e’ pare
ragionevole che sia: perchè la natura, come
ne’ corpi semplici, quando vi è ragunato assai materia
superflua, muove per sè medesima molte
volte, e fa una purgazione, la quale è
salute di quel corpo ; così interviene in
questo corpo misto della umana generazione,
che quando tutte le provincie sono ripiene
di abitatori, in modo che non possono
vivere, nè possono andare altrove, per
esser occupati e pieni tutti i luoghi; e quando
la astuzia e malignità umana è venuta dove la
può venire, conviene di necessità che il
mondo si purghi per uno de’ tre modi
; acciocché gli uomini essendo divenuti pochi e
battuti, vivano più comodamente, e diventino
migliori. Era adunque, come di sopra è
detto, già tu Toscana potente, piena di
religione e di virtù ; aveva i suoi costumi
e la sua LINGUA PATRIA: il che tutto è
stato spento dalla potenza romana. Talché,
come si è detto, di lei ne rimane
solo la memoria del nome. Vi. — Come i
Romani procedevano nel fare la guerra. Avendo
discorso come i Romani procedevano nello
ampliare, discorreremo ora come e’ procedevano
nel fare la guerra ; ed in ogni loro
azione si vedrà con quanta prudenza ei
diviarono dal modo universale degli altri,
per fa-
cilitarsi la via a venire a una suprema grandezza.
La intenzione di chi fa guerra per
elezione, o vero per ambizione, è acquistare e
mantenere lo acquistato; e procedere in modo
con esso, che I’ arricchisca c non impoverisca
il paese e la patria sua. È necessario
dunquc, e nello acquistare e nel mantenere,
pensare di non spendere; anzi far ogni
cosa con utilità del pubblico suo. Chi
vuol fare tutte queste cose, conviene che
tenga lo stile e modo romano: il quale
fu in prima di fare le guerre, come
dicono i Franciosi, corte e grosse; perchè,
venendo in campagna con eserciti grossi,
tutte le guerre eh’ egli ebbono co’
Latini, Sanniti e Toscani le espedirono in
brevissimo tempo. E se si noteranno tutte
quelle che feciono dal principio di Roma
infino alla ossidione de’ Yeienti, tutte si
vedranno espedite, quale in sei, quale in
dieci, quale inventi di. Perchè l’uso
loro era questo: subito che era scoperta
la guerra, egli uscivano fuori con gli
eserciti all’ incontro del nimico, e subito
facevano la giornata. La quale vinta, i
nimici, perchè non fussc guasto loro il
contado affatto, venivano alle condizioni; ed i Romani
gli condennavano in terreni: i quali
terreni gli convertivano in privati comodi, o
gli consegnavano ad una colonia; la quale
posta in su le frontiere di coloro,
veniva ad esser guardia de’ confini romani,
con utile di essi coloni, che avevano
quelli campi, e con utile del pubblico di
Roma, che senza spesa teneva quella
guardia. Nè poteva questo modo esser più
seeuro, o più forte, o piu utile: perchè
mentre che i nimici non erano in su i
campi, quella guardia bastava : come e’ fussino
usciti fuori grossi per opprimere quella colonia,
ancora i Romani uscivano fuori grossi, e venivano
a giornata con quelli; e fatta e vinta la
giornata, imponendo loro più gravi condizioni,
si tornavano in casa. Così venivano ad
acquistare di mano in mano riputazione
sopra di loro, e forze in sè
medesimi. E questo modo vennono tenendo infino
che mutorno modo di procedere in guerra:
il che fu dopo la ossidione de’
Veienti ; dove, pei*potere fare guerra
lungamente, gli ordinarono di pagare i soldati,
che prima, per non essere necessario,
essendo le guerre brevi, non gli pagavano.
E benché i Rotflani dessino il soldo, e che per
virtù di questo ei potessino fare le guerre
più lunghe, e per farle più discosto la
necessità gli tenesse più in su’ campi ;
nondimeno non variarono mai dal primo
ordine di finirle presto, secondo il luogo
ed il tempo; nè variarono mai dal
mandare le colonie. Perchè nel primo ordine
gli tenne, circa il fare le guerre
brevi, olirà il loro naturale uso, T
ambizione de’ Consoli ; i quali avendo a
stare un anno, e di quello anno sei
mesi alle stanze, volevano finire la guerra
per trionfare. Nel mandare le colonie, gli
tenne 1’ utile e la comodità grande
che ne risultava. Variarono bene alquanto
circa le prede, delie quali non erano
cosi liberali come erano stati prima ; sì
perchè e* non pareva loro tanto necessario,
avendo i soldati lo stipendio; sì perchè
essendo le prede maggiori, disegnavano d*
ingrassaie di quelle in modo il
pubblico, che non lussino constretti a fare
le imprese con tributi della città. li *
quale ordine in poco tempo fece il
loro erario ricchissimo. Questi duoi modi,
adunque, e circa il distribuire la preda, e
circa il mandar le colonie, feciono che
Roma arricchiva della guerra j dove gli altri principi
e repubbliche non savie ne impoveriscono. E
ridusse la cosa in termine, che ad un
Consolo non pareva poter trionfare, se non
portava col suo trionfo assai oro ed
argento, e d’ ogni altra sorte preda, nello
erario. Cosi i Romani con i soprascritti
termini, e coti il finire le guerre presto,
sendo contenti con lunghezza straccare i nemici, e
con rotte e con le scorrerie e con accordi
a loro avvantaggi, diventarono sempre più ricchi
e più potenti. VII — Quanto terreno i Romani davano
per colono. Quanto terreno i Romani
distribuiisino per colono, credo sia molto
diffìcile trovarne la verità. Perchè io
credo ne dessino più o manco, secondo i luoghi dove
e* mandavano le colonie. E giudicasi che ad
ogni modo ed in ogni luogo la
distribuzione fusse parca : prima, per poter
mandare più uomini, sendo quelli diputati
per guardia di quel paese; dipoi perchè
vivendo loro poveri a caso, non era
ragionevole che volessino che I loro uomini
abbondassino troppo fuora. E Tito Livio
dice, come preso Veio e’ vi mandorno
una colonia, e distribuirono a ciascuno tre
iugeri e sette once di terra; che sono
al modo nostro. Perchè, oltre alle cose soprascritte,
e’ giudicavano che non lo assai terreno,
ma il bene coltivato bastasse. È necessario
bene, che tutta la colonia abbi campi
pubblici dove ciascuno possa pascere il suo
bestiame, e selve dove prendere del legname
per ardere ; senza le quali cose non
può una colonia ordinarsi. Vili. — La cagione
perchè i popoli si partono da * luoghi patriij cd
inondano il paese altrui. Poiché di sopra
si è ragionato del modo nel procedere della
guerra osservato da’ Romani, c come i Toscani
furono assaltati da* Franciosi ; non mi pare alieno
dalla materia discorrere, come e’ si fanno
di due generazioni guerre. L’una è fatta
per ambizione de* principi o delle repubbliche,
che cercano di propagare lo imperio; come
furono le guerre che fece Alessandro Magno,
e quelle che feciono i Romani, e quelle che
fanno ciascuno di, 1* una potenza con F
altra. Le quali guerre sono pericolose, ma
non cacciano al tutto gli abitatori d*
una provincia ; perchè e’ basta al
vincitore solo la ubbidienza de’ popoli, e
il più delle volte gli lascia vivere
con le loro leggi, e sempre con le
loro case, e ne’ loro beni. L’altra
generazione di guerra è, quando un popolo
intero con tutte le sue famiglie si
beva d’ uno luogo, necessitato o dalla fame
o dalla guerra, e va a cercare nuova sede e
nuova provincia; non per comandarla, come quelli di
sopra, ma per possederla tutta particolarmente, e
cacciarne o ammazzare gli abitatori antichi di
quella. Questa guerra è crudelissima e paventosissima. E
di queste guerre ragiona Salustio nel fine
dell’ Iugurtiuo, quando dice che vinto lugurta,
si senti il moto de’ Franciosi che venivano
in Italia : dove e’ dice che ’l Popolo
romano con tutte le altre genti combattè
solamente per chi dovesse comandare, ma con
i Franciosi si combattè sempre per la
salute di ciascuno. Perchè ad un principe o
una repub-
spegnere solo coloro che comandano ; ma a
queste popolazioni conviene spegnere ciascuno,
perchè vogliono vivere di quello che altri
viveva. I Romani ebbero tre di queste
guerre pericolosissime. La prima fu quella
quando Roma fu presa, la quale fu
occupata da quei Franciosi che avevano
tolto, come di sopra si disse, la Lombardia
a’ Toscani, e fattone loro sedia; della quale L.
ne allega due cagioni: la prima, come
di sopra si disse, che furono allettati
dalla dolcezza delle frutte, c del vino di
Italia, delle quali mancavano in Francia;
la seconda che, essendo quel regno francioso moltiplicato
in tanto di uomini, che non vi si
potevano più nutrire, giudicarono i principi di
quelli luoghi, che fusse necessario che una
parte di loro andasse a cercare nuova
terra; e fatta tale deliberazione, elcssono per
capitani di quelli che si avevano a
partire, Belloveso e Sicoveso, duoi re de’
Franciosi : de’ quali Belloveso venne in
Italia, e Si» coveso passò in Ispagna.
Dalla passata del quale Belloveso, nacque
la occupazione di Lombardia, c quindi la guerra che
prima i Franciosi fecero a Roma. Dopo questa,
fu quella che fecero dopo la prima
guerra cartaginese, quando tra Piombino e Pisa
ammazzarono più che dugentomila Franciosi. La
terza fu quando i Todeschi e Cimbri vennero
in Italia : i quali avendo vinti più
eserciti romani, furono vinti da Mario.
Vinsero adunque i Romani queste tre guerre
pericolosissime. Ne era necessario minore virtù a
vincerle; perchè si vede poi, come la virtù
romana mancò, e che quelle arme perderono
il loro antico valore, fu quello imperio
distrutto da simili popoli : i quali furono
Goti, Vandali c simili, che occuparono tutto
lo imperio occidentale. Escono tali popoli
de* paesi loro, rome di sopra si
disse, cacciati dalla necessitò: e la necessitò
nasce o dalla fame, o da una guerra ed
oppressione clic ne’ paesi propri è loro fatta;
talché e’ sono constretti cercare nuove
terre. E questi tali, o e’ sono grande
numero ; ed allora con violenza entrano
ne' paesi altrui, ammazzano gli abitatori,
posseggono i loro beni, fanno uno nuovo regno,
mutano il nome della provincia: come fece
Moisè, e quelli popoli che occuparono lo
imperio romano. Perchè questi nomi nuovi
che sono nella Italia e nelle altre
provincie, non nascono da altro che da
essere state nomate così da’ nuovi occupatoci
: come è la Lombardia, che si chiamava
Gallia Cisalpina: la Francia si chiamava
Gallia Transalpina, ed ora è nominata da’
Franchi, chè cosi si chiamavano quelli
popoli che la occuparono: la Schiavoniu si
chiamava Illiria, l’Ungheria Pannonia; l’Inghilterra
Britannia: c molte altre provincie che hanno mutato
nome, le quali sarebbe tedioso raccontare.
Moisè ancora chiamò Giudea quella parte di
Soria occupata da lui. E perchè io ho
detto di sopra, che qualche volta tali
popoli sono cacciati della propria sede per
guerra, donde -sono constretti cercare nuove
terre; ne voglio addurre lo essempio de’
Maurusii, popoli anticamente in Soria : i quali,
sentendo venire i popoli ebraici, e giudicando
non poter loro resistere, pensarono essere
meglio salvare loro medesimi, t* lasciare
il paese proprio, che per volere salvare
quello, perdere ancora loro; e levatisi con
loro famiglie, se ne andarono in Affrica,
dove posero la loro sedia, cacciando via
quelli abitatori che in quelli luoghi
trovarono. G così quelli che non avevano
potuto difendere il loro paese, poterono
occupare quello d’ altrui. E Procopio, che
scrive la guerra che fece Bellisario co’
Vandali occupatori della Affrica, riferisce aver
letto lettere scritte in certe colonne ne’
luoghi dove questi Maurusii abitavano, le
quali dicevano : S os Maurusii , qui fugimus a
facie Jesu latronis filii flava. Dove
apparisce In cagione della partita loro di
Soria. Sono, pertanto, questi popoli formidolosissimi, sendo
cacciati da una ultima necessità ; e s’
egli non riscontrano buone armi, non saranno
mai sostenuti. Ula quando quelli che sono
constretti abbandonare la loro patria non
sono molti, non sono sì pericolosi come
quelli popoli di chi si è ragionato;
perchè non possono usare tanta violenza, ma
conviene loro con arte occupare qualche
luogo, e, occupatolo, mantenervisi per via
di amici e di confederali : come si vede
che fece ENEA, Didone, i Massiliesi e simili ; i
quali lutti, per consentimento de’ vicini,
dove e’ posorno, poterono mantenervisi. Escono i popoli
grossi, e sono usciti quasi tutti de’ paesi
di Scizia ; luoghi freddi e poveri: dove,
per essere assai uomini, cd il paese
di qualità da non gli potere nutrire,
sono forzati uscire, avendo molte cose che
gli cacciano, e nessuna che gli ritenga. E
se da cinquecento anni in qua, non è
occorso che alcuni di questi popoli abbino
inondato alcuno paese, è nato per più
cagioni. La prima, la grande evacuazione
che fece quel paese nella declinazione
dello imperio; donde uscirono più di trenta
popolazioni. La seconda è che la Magna e 1’
Ungheria, donde ancora uscivano di queste
genti, hanno ora il loro paese bonificato
in modo, che vi possono vivere agiatamente;
talché non sono necessitati di mutare luogo. Dall’
altra parte, sendo loro uomini bellicosissimi,
sono come uno bastione a tenere che
gli Sciti, i quali con loro confinano, non
presumino di potere vincergli o passargli. E
spesse volte occorrono movimenti grandissimi da’
Tartari, che sono dipoi dagli Ungheri e da
quelli di Polonia sostenuti; e spesso si
gloriano, che se non fussino 1’ arme
loro, la Italia e la Chiesa arebbe molle
volle sentito il peso degli eserciti
tartari. E questo voglio basti quanto a’
prefati popoli. IX. Quali cagioni comunemente faccino
nascere le guerre intra i polenti. La
cagione che fece nascere guerra intra i
Romani ed i Sanniti, che erano stati in
lega gran tempo, è una cagione comune che
nasce infra tutti i principati potenti. La
qual cagione o la viene a caso, o la è
fatta nascere da colui che desidera muovere
la guerra. Quella che nacque intra i Romani
ed i Sanniti, fu a caso; perchè la
intenzione de’ Sanniti non fu, muovendo guerra
a’Sidicini, e dipoi a’ Campani, muoverla ai
Romani. .\Ia sendo i Campani oppressati, e ricorrendo a
Roma fuora della oppinione de’ Romani e de’
Sanniti, furono forzati, dandosi i Campani ai
Romani, come cosa loro difendergli, e pigliare
quella guerra che a loro parve non potere
con loro onore fuggire. Perchè e’pareva
benea’Romani ragionevole non potere difendere i
Campani come amici, eontra ai Sanuiti
amici, ma pareva ben loro vergogna non
gli difendere come sudditi, ovvero raccomandali;
giudicando, quando e’ non avessino presa
tal difesa, torre la via a tutti quelli
che disegnassino venire sotto la potestà
loro. Ed avendo Roma per fine lo
imperio e la gloria, e non la quiete,
non poteva ricusare questa impresa. Questa
medesima cagione dette principio alla prima
guerra conira a’ Cartaginesi, per la
difensione che i Romani presono de*
Messinesi in Sicilia: la quale fu ancora a
caso. Ma non fu
già a caso di poi la seconda guerra
che nacque infra loro; perchè Annibaie capitano
Cartaginese assaltò i Saguntini amici de’ Romani
in Ispagna, non per offendere quelli, ma
per muovere l’arme romane, ed avere
occasione di combatterli, c passare in Italia.
Questo modo nello appiccare nuove guerre è stato sempre
consueto intra i potenti, e che si hanno e
della fede, e d’altro, qualche rispetto. Perchè,
se io voglio fare guerra con uno
principe, ed infra noi siano fermi capitoli
per un gran tempo oservati, con altra
giustificazione e con altro colore assalterò io
un suo amico che lui proprio 5 sappiendo
massime, che nello assaltare lo amico, o ci
si risentirà, ed io arò V intento mio
di fargli guerra ; o non si risentendo, si
scuoprirà la debolezza o la infidelità sua
di non difendere un suo raccomandato. E 1’
una e I' altra di queste due cose è
per torgli riputazione, e per fare più facili i
disegni miei. Debbesi notare, adunque, e per
la dedizione de' Campani, circa il muovere
guerra, quanto di sopra si è detto; e
di più, qual rimedio abbia una città
che non si possa per sè stessa
difendere, e voglisi difendere in ogni modo da
quel clic l'assalta: il quale è darsi Uberamente
a quello che tu disegni che ti difenda;
come feciono i Capovani ai Romani, ed i
Fiorentini al ré Roberto di Napoli : il
quale non gli volendo difendere come amici,
gli difese poi come sudditi contra alle
forze di Castruceio da Lucca, die gli
opprimeva. X. — I danari non sono il nervo della
guerra j secondo che è la comune oppi ninne. Perchè
ciascuno può cominciare una guerra a sua
posta, ma non finirla, debbe uno principe,
avanti che prenda una impresa, misurare le
forze sue, e secondo quelle governarsi. Ma
debbe avere tanta prudenza, che delle sue
forze ei non s’inganni; ed ogni volta
s’ingannerà, quando le misuri o dai danari, o dal
sito, o dalla benivoienza degli uomini, mancando
dall’ altra parte d’ arme proprie. Perchè
le cose predette ti accrescono bene le
forze, ma le non te ne danno ; e per
sè medesime sono nulla ; e non giovano
alcuna cosa senza l’arme fedeli. Perchè i
danari assai, non ti bastano senza quelle;
non ti giova la fortezza de! paese; e
la fede ‘e benivoienza
degli uomini non dura, perchè questi non
ti possono essere fedeli, non gli potendo
difendere. Ogni monte, ogni lago, ogni
luogo inaccessibile diventa piano, dove i forti
difensori mancano. I danari ancora non solo
non ti difendono, ina ti fanno predare
più presto. Nè può essere più falsa
quella comune oppinione che dice che i
danari sono il nervo della guerra. La
quale sentenza è detta da Quinto Curzio
nella guerra che fu intra A'ntipatro
macedone c il re spartano: dove narra, che
per difetto di danari il re di Sparta
fu necessitato azzuffarsi, e fu rotto; che
se ei differiva la zuffa pochi giorni,
veniva la nuova in Grecia della morte
di Alessandro, donde e* sarebbe rimaso
vincitore senza combattere. Ma mancandogli i
danari, e dubitando che lo esercito suo per
difetto di quelli non Io abbandonasse, fu
constretto tentare la fortuna della zuffa:
talché Quinto Curzio per questa cagione
afferma, i danari essere il nervo della
guerra. La qual sentenza è allegata ogni giorno,
v da’ principi non tanto prudenti che
basti, seguitata. Perchè, fondatisi sopra quella,
credono che basti loro a difendersi avere
tesori assai, e non pensano che se ’1
tesoro bastasse a vincere, che Dario arebbe
vinto Alessandro, i Greci nrebbon vinti i Romani;
ne’ nostri tempi il duca Carlo arebbe vinti
i Svizzeri; e pochi giorni sono, il Papa ed
i Fiorentini insieme non arebbono avuta
difficultà in vincere Francesco Maria, nipote
di papa Giulio II, nella guerra di Urbino.
Ma tutti i soprannominali furono vinti da
coloro che non il danaro, ma i buoni
soldati stimano essere il nervo della
guerra. Intra le altre cose che Creso
re di Lidia mostrò a Solone ateniese, fu
un tesoro innumerabile ; c domandando quel che
gli pareva della potenza sua, gli rispose
Solone, che per quello non lo giudicava
più potente; perchè la guerra si faceva
col ferro e non con P oro, e che poteva
venire uno che avesse piu ferro di
lui, e torgliene. Olir’ a questo, quando, dopo
la morte di Alessandro Magno, una
moltitudine di Franciosi passò in Grecia, e
poi in Asia; e mandando i Franciosi oratori
al re di Macedonia per trattare certo
accordo ; quel re, per mostrare la
potenza sua e per {sbigottirli, mostrò loro
oro ed argento assai: donde quelli
Franciosi che di già avevano come ferma
la pace, la j uppono ; tanto desiderio in
loro crebbe di torgli quell’oro: e cosi fu
quel re spogliato per quella cosa che
egli aveva per sua difesa accumulata. 1
Yeniziani, pochi anni sono, avendo ancora
lo erario loro pieno di tesoro, perderono
tutto lo Stato, senza potere essere difesi
da quello. Dico pertanto, non l’ oro, come grida
la comune oppinione, essere il nervo della
guerra, ma i buoni soldati : perchè 1’
oro non è suflìzienle a trovare i buoni soldati,
ma i buoni soldati son ben sutlìzienti a
trovare l’ oro. Ai Romani, s’egli avessero
voluto fare la guerra più con i danari
che con ii ferro, non sarebbe bastato
avere tutto il tesoro del mondo,
considerato le grandi imprese che fcciono, e
le difficoltà che vi ebbono dentro. Ma
facendo le loro guerre con il ferro,
non patirono mai carestia dell' oro; perchè
da quelli cheli temevano era portato Toro
infino ne’ campi. E se quel re spartano per
carestia di danari ebbe a tentare la
fortuna della /uffa, intervenne a lui quello,
per conto de’danari, che molte volte è
intervenuto per altre cagioni; perchè si è
veduto che, mancando ad uno esercito le
vettovaglie, ed essendo necessitati o a morire di fame
o azzuffarsi, si piglia il partito sempre
di azzuffarsi, per essere più ono*revole, e
dove la fortuna ti può in qualche
modo favorire. Ancora è intervenuto molte volte,
che veggendo uno capitano al suo esercito
nimico venire soccorso, gli conviene o azzuffarsi
con quello e tentare la fortuna della zuffa
; o aspettando eh’ egli ingrossi, avere a combattere
in ogni modo, con mille suoi disavvantaggi.
Ancora si è visto (come intervenne ad
Asdrubale quando nella Marca fu assaltato
da Claudio Verone, insieme con l’altro
Consolo romano), che un capitano che è
necessitato o a fuggirsi o a combattere, come sempre
elegge il combattere ; parendogli in questo
partito, ancora che dubbiosissimo, potere vincere;
ed in quello altro, avere a perdere in
ogni modo. Sono, adunque, molte necessitati
che fanno a uno capitano fuor della sua
intenzione pigliare partito di azzuffarsi; intra
le quali qualche volta può essere la
carestia de’ danari : nè per questo si
debbono i danari giudicare essere il nervo
della guerra, più che le altre cose
che inducono gli uomini n simile necessità.
Non è, adunque, replicandolo di nuovo. 1’
oro il nervo della guerra; ma i buoni
soldati. Son bene necessari i danari in
secondo luogo, ina è una necessità che i
soldati buoni per sè medesimi la vincono;
perchè è inipossibile che a’ buoni soldati
manchino i danari, come che i denari pei* loro medesimi
truovino i buoni soldati. Mostra questo che
noi diciamo essere vero, ogni istoria in
mille luoghi; non ostante che Pericle
consigliasse gli Ateniesi a fare guerra con
tutto il Peloponneso, mostrando che e*
potevano vincere quella guerra con la
industria e con la forza del danaio. E
benché in tale guerra gli Ateniesi
prosperassino qualche volta, in ultimo la
perderono; e valsoti più il consiglio e gli
buoni soldati di Sparta, che la industria
ed il danaio di Atene. Ma L. è di
questa oppinione più vero testimone che
alcuno altro, dove discorrendo se Alessandro
Magno fusse venuto in Italia, s’ egli
avesse vinto i Romani, mostra esser tre
cose necessarie nella guerra ; assai soldati e
buoni, capitani prudenti, e buona fortuna : dove
esaminando quali o i Romani o Alessandro prevalessino
in queste cose, fa dipoi la sua
conclusione senza ricordare mai i danari.
Doverono i Capovani, quando furono ricfiiesti da’
Sidicini che prendessino T arme per loro
contea ai Sanniti, misurare la potenza loro
dai danari, c non dai soldati: perchè,
preso ch’egli ebbero partito di aiutarli,
dopo due rotte furono constretti farsi
tributari de’ Romani, se si vollono salvare. Non
è partito prudente fare amicizia con un
principe che abbia più oppinionc che forze. Volendo
Tito Livio mostrare lo errore de’ Sidicini
a fidarsi dello aiuto de’ Campani, e lo
errore de’ Campani a credere potergli
difendere, non lo potrebbe dire con più
vive parole, dicendo: Campani magie nomen
in auxilium Sidicinorunij quam vires ad
prcesidium atlulcrunl. Dove si debbe notare,
che le leghe si fanno co’ principi che
non abbino o comodità di aiutarti per la
distanzia del sito, o forze di farlo per
suo
disordine o altra sua cagione, arrecano più
fama che aiuto a coloro ehe se ne fidano:
come intervenne ne’ dì nostri a* Fiorentini,
quando, nel 147£t, il papa ed il re
di Napoli gli assaltarono; che essendo
amici del re di Francia, trassono di
quella amicizia magis nomcn , r/nam praesidium :
come interverrebbe ancora a quel principe, che
confidatosi di Massimiliano imperatore, facesse qualche
impresa; perchè questa è una di quelle
amicizie che arrecherebbe a chi la facesse
magis nomcn 9 quam prassi -ditinij come si
dice in questo testo, che arrecò quella de’
Capovani ai Sidicini. Errarono, adunque, in
questa parte i Capovani, per parere loro
avere più forze che non avevano. E così
fa la poca prudenza delti uomini qualche
volta, che non sappiendo nè potendo difendere
sè medesimi, vogliono prendere imprese di
difendere altrui : come fecero ancoro i
Tarentini, i quali, sendo gli eserciti romani
allo Incontro dello esercito de’ Sanniti,
mandorono ambasciadori al Consolo romano, a
fargli intendere come ci volevano pace
intra quelli duoi popoli, e come erano per
fare guerra centra a quello che dalla pace
si discostasse*, talché il Consolo, ridendosi di
questa proposta, alla presenza di detti
ambasciadori fece sonare a battaglia, ed al
suo esercito comandò che andasse a trovare
il nimico, mostrando ai Tarentini con 1’
opera, e non con le parole, di che
risposta essi erano degni. Ed avendo nel
presente capitolo ragionato dei parliti che
pigliano i principi al contrario per la
difesa d’ altrui, voglio nel seguente
parlare di quelli che si pigliano per
la difesa propria. XII. — Scegli è meglio , temendo di
essere assaltalo > inferire , o aspettare la guerra. lo
lio sentito da uomini assai pratichi nelle
cose della guerra qualche volta disputare,
se sono duoi principi quasi di eguali
forze, se quello più gagliardo abbi bandito
la guerra contra a quello altro, quale sia
miglior partito per Poltro; o aspettare il
nimico dentro ai confini suoi, o andarlo a
trovare in casa, ed assaltare lui: e ne
fio sentito addurre ragioni da ogni parte.
E chi difende lo andare assaltare altrui,
nc allega il consiglio che Creso dette a
Ciro, quando arrivato in su* confini de’
Massageli per fare lor guerra, la lor
regina Tarniri gli mandò a dire, che eleggesse
quale de' duoi partiti volesse; o entrare
nel regno suo, dovè essa Ip aspetterebbe; o
volesse che ella venisse a trovar lui. E
venuta la cosa in disputazionc, Creso,
contra alla oppinione degli altri, disse
che si andasse a trovar lei ; allegando che
se egli la vincesse discosto al suo
regno, che non gli torrebbe il regno,
perchè ella arebbe tempo a rifarsi; pia se
la vincesse dentro a’ suoi confini, potrebbe
seguirla in su la fuga, e non le
dando spazio a rifarsi, torli io Stato.
Allegane ancora il consiglio che dette
Annibaie ad Antioco, quando quel re disegnava
fare guerra ai Romani: dove ei mostrò
come i Romani non si potevano vincere se
non in Italia, perchè quivi altri si poteva
valere delle arme e delle ricchezze e degli
amici loro ; chi gli combatteva fuora d’
Italia, e lasciava loro la Italia libera,
lasciava loro quella fonte, che mai li
mancava vita a somministrare forze dove bisogna ;
e conchiuse che ai Romani si poteva prima
torre Roma che lo imperio; prima la
Italia che le altre provincie. Allega
ancora Agatocle. che non potendo sostenere
la guerra di casa, assaltò i Cartaginesi
clic glieuc facevano, e gli ridusse a domandare pace.
Allega Scipione, che per levare la guerra
d’ Italia, assaltò la Affrica. Chi parla
al contrario dice, che chi vuole fare
capitare male uno nimico, lo discosti da
casa. Allegane gli Ateniesi, che mentre che
feciono la guerra comoda alla casa loro,
restarono superiori; e come si discostarono, ed
andarono con gli eserciti in Sicilia, perderono la
libertà. Allega le favole poetiche, dove si
mostra che Anteo, re di Libia, assaltato
da Ercole Egizio, fu insuperabile mentre
che Io aspettò dentro a* confini del
suo regno; ma come e’ se ne discosto
per astuzia di Ercole, perdè lo Stalo e
la vita. Onde è dato luogo alla favola di
Anteo, che sendo in terra ripigliava le
forze da sua madre, che era la Terra;
e che Ercole avvedutosi di questo, lo levò
in alto, e discostollo dalla terra. Allegane
ancora i giudizi moderni. Ciascuno sa come
Ferrando re di .Napoli fu ne’ suoi
tempi tenuto uno savissimo principe: e venendo
la fama, duoi anni avanti la sua
morte, come il re di Francia Carlo
Vili voleva venire ad assaltarlo, avendo
fatte assai preparazioni, ammalò; e venendo a
morte, intra gli altri ricordi che lasciò
ad Alfonso suo figliuolo, fu che egli
aspettasse il nimico dentro al regno; e per
cose del mondo non traesse forze fuori
dello Stato suo, ma lo aspettasse dentro
aisuoi confini tutto intero; il che
non fuosservato da quello; ma mandato uno esercito
in Romagna, senza combattere perdè quello c
lo Stato. Le ragioni che, oltre alle
cose dette, da ogni parte si adducono,
sono : che chi assalta viene con maggiore
animo che chi aspetta, il che fa più
confidente lo esercito; toglie, oltra di
questo, molte comodità al nimico di potersi
valere delle sue cose, non si potendo
valere di quei sudditi che sieno
saccheggiati; e per avere il nimico in
casa, è constretto il signore avere più
rispetto a trarre da loro danari ed
affaticargli : sicché e’ viene a seccare
quella fonte, come dice Annibaie, che fa
che colui può sostenere la guerra. Oltre
di questo, i suoi soldati, per trovarsi ne*
paesi d’ altrui, sono più necessitati a
combattere; e quella nccessila fa virtù,
come più volte abbiamo detto. Dall’ altra
parte si dice ; come aspettando il nimico,
si aspetta con assai vantaggio, perchè
senza disagio alcuno tu puoi dare a quello
molti disagi di vettovaglia, e d’ ogni
altra cosa che abbia bisogno uno esercito :
puoi meglio impedirli i disegni suoi, per la notizia
del paese cheta hai più di lui: puoi
con più forze incontrarlo, per poterle
facilmente tutte unire, ma non potere già
tutte discostarle da casa: puoi sendo rotto
rifarti facilmente; sì perchè del tuo
esercito se ne salverà assai, per avere i
rifugi propinqui; si perchè il supplemento
non ha a venire discosto: tanto che tu
vieni arrischiare tutte le forze, e non
tutta la fortuna ; e discostandoti, arrischi
tutta la fortuna, e non tutte le
forze. Ed alcuni sono stati che per
indebolire meglio il suo nimico, Io
lasciano entrare parecchie giornate in su
il paese loro, e pigliare assai terre;
acciò che lasciando i presidii in tutte,
indebolisca il suo esercito, e possiulo
dipoi combattere più facilmente. Ma, per
dire ora io quello che io ne intendo,
io credo che si abbia a fare questa
distinzione: o io ho il mio paese armato,
come i Romani, o come hanno i Svizzeri; o io
l’ho disarmato, come avevano i Cartaginesi, o
come Y hanno i re di Francia e gli
Italiani. In questo caso, si debbe tenere
il nimico discosto a casa; perchè scudo la
tua virtù nel danaio e non negli uomini,
qualunque volta ti è impedita la via di
quello, tu sei spacciato; nè cosa veruna
te lo impedisce quanto la guerra di
casa. In essempi ci sono i Cartaginesi; i
quali mentre che ebbero la casa loro
libera, poterono con le rendite fare guerra
con i Romani; e quando la avevano assaltata, non
potevano resistere ad Agatoeie. I Fiorentini
non avevano rimedio ulcuuo con Castruccio
signore di Lucca, perchè ci faceva loro
la guerra in casa; tanto che gli
ebbero a darsi, per essere difesi, al re
Roberto di Napoli. Ma morto Castruccio,
quelli medesimi Fiorentini ebbero animo di
assaltare il duca di Milano in casa,
ed operare di torgli il regno: tanta
virtù monstrarono nelle guerre louginque, e tanta
viltà nelle propinque. Ma quando i regni
sono armati, come era armata Roma e come sono
i Svizzeri, sono più difficili a vincere quanto
più ti appressi loro: perchè questi corpi
possono unire più forze a resistere ad
uno impeto, che non possono ad assaltare
altrui. Nè mi muove in questo caso I’
autorità di Annibaie, perchè la passione e Y
utile suo gli faceva cosi dire ad
Antioco. Perchè, se i Romani avessino avute
in tanto spazio di tempo quelle tre
rotte in Francia* ch’egli ebbero in .Italia
da Annibaie, senza dubbio erano spacciati: perchè
non si sarebbono valuti de’ .residui degli
eserciti, come si valsono in Italia; non
arebbono avuto a rifarsi quelle comodità; nè
potevano con quelle forze resistere ai
nimico, che poterono. Non si trova che,
per assaltare una provincia, loro mandassino
mai fuora eserciti clic passassino cinquantamila
persone; ma per difendere la casa ne
misono in arme conira ai Franciosi, dopo
la prima guerra punica, diciotto centinaia
di migliaia. Nè arebbono potuto poi romper quelli
in Lombardia, come gli ruppono in Toscana;
perchè contro a tanto numero di ninnici
non arebbono potuto condurre tante forze sì
discosto, nè combattergli con quella comodità. I
Cimbri ruppono uno esercito romano in la
Magna, nè vi ebbono i Romani rimedio. Ma
come egli arrivorono in Italia, e che poterono
mettere tutte le loro forze insieme, gli
spacciarono. I Svizzeri è facile vincergli fuori
di casa, dove e’ non possono mandare
più che un trenta o quarantamila uomini;
ma vincergli in casa, dove e’ ne
possono raccozzare centomila, è difficilissimo.
Conchiuggo adunque di nuovo, che quel
principe che ha i suoi popoli armati ed
ordinali alla guerra, aspetti sempre in
casa una guerra potente e pericolosa, e non la vadia
a rincontrare: ma quello che ha i suoi
sudditi disarmati, ed il paese inusitato
della guerra, se la discosti
sempre da casa il più che può. E così
r uno e l* altro, ciascuno nel suo grado, si
difenderà meglio. XIII. — Che si viene di
bassa a gran fortuna più con la
fraude, che con la forza. Io stimo essere
cosa verissima, che rado, o non mai,
intervenga che gli uomini di piccola
fortuna venghino a gradi grandi, senza la
forza e senza la fraude; purché quel grado
al quale altri è pervenuto, non ti sia o
donalo, o lasciato per eredità. Xè credo
si truovi mai che la forza sola
basti, ma si troverà bene che la
fraude sola basterà: còme chiaro vedrà
colui che leggerà la vita di Filippo
di Macedonia, quella di Agatocle siciliano, e
di molti altri simili, che d’ infima ovvero
di bassa fortuna, sono pervenuti o a regno o
ad imperi grandissimi. Mostra Senofonte, nella
sua vita di Ciro, questa necessità delio
ingannare; consideralo che la prima ispedizione
che fa fare a Ciro contea il re di
Armenia, è piena di fraude, e come con
inganno, e non con forza, gli fa occupare
il suo regno; e non conchiude altro per
tale azione, se non che ad un principe
che voglia fare gran cose, è necessario
imparare a ingannare. Fagli, olirà di questo,
ingannare Ciassare, re de’ .Medi, suo zio
materno, in più modi; senza la quale
fraude mostra che Ciro non poteva pervenire
a quella grandezza che venne. Nè credo che
si truovi mai alcuno constiluito in bassa
fortuna, pervenuto a grande imperio solo con la
forza aperta ed ingenuamente, ma sì bene
solo con la fraude : come fece Giovanni
Galeazzo per tor lo Stato e lo imperio
di Lombardia a messer Bernabò suo zio. E
quei che sono necessitati fare i principi
ne’ principi! degli augumenti loro, sono
ancora necessitate a fare le repubbliche, infimo
che le sieno diventate potenti, e che basti
la forza sola. E perchè Roma tenne in
ogni parte, o per sorte o per elezione,
tutti i modi necessari a venire a grandezza, non mancò
ancora di questo. Nè potè usare, nel
principio, il maggiore inganno, che pigliare
il modo di sopra discorso da noi, di
farsi compagni ; perchè sotto questo nome
se li fece servi: come furono i Latini,
ed altri popoli all’ intorno. Perchè prima
si valse dell* arme loro in domare i
popoli convicini, e pigliare la riputazione dello
Stato: dipoi, domatogli, venne in tanto
augumento, che la poteva battere ciascuno.
Ed i Latini non si avviddono mai di
essere al tutto servi, se non poi che
viddono dare due rotte ni Sanniti, e
costrettigli ad accordo. La (piale vittoria,
come ella accrebbe gran riputazione ai
Romani eoi principi longinqui, clic
mediante quella sentirono il nome romano e
non l’armi; così generò invidia e sospetto
in quelli che vedevano e sentivano l’armi,
intra i quali furono i Latini. E tanto potè
questa invidia e questo timore, che non solo i
Latini, ma le colonie che essi avevano
in Lazio, insieme con i Campani, stati poco
innanti difesi, congiurarono contra al nome
romano. E mossono questa guerra i Latini nel
modo che si dice di sopra, che si
muovono la maggior parte delle guerre,
assaltando non i Romani, ma difendendo i Sidicini
contra ai Sanniti; a’ quali i Sanniti facevano guerra
con licenza de’ Romani. E che sia vero
che i Latini si movessino per avere conosciuto
questo inganno, lo dimostra L. nello bocca
di Annio Setiuo pretore latino, il quale
nel consiglio loro disse queste parole :
Nam, si ctìam mine sub umbra feederis
cequi servilutem pati possumus ctc. Yedesi
pertanto i Romani ne’ primi augumenti loro non
essere mancati eziam della fraude; la quale fu
sempre necessaria ad usare a coloro che di
piccoli principii vogliono a sublimi gradi salire
: la quale è meno vituperabile quanto è più
coperta, come fu questa de’ Romani. XIV. —
Ingannatisi molte volle gli uomini j credendo con
la umilila vincere la superbia. Vedesi molle
volte come la umilila non solamente* non
giova, ma nuoce, massimamente usandola con
gli uomini insolenti, che, o per invidia o
per altra cagione, hanno concetto odio
teco. Di che ne fa fede lo istorico
nostro in questa cagione di guerra intra i
Romani ed i Latini. Perchè, dolendosi i Sanniti con
i Romani, che i Latini gli avevano assaltati, i
Romani non vollono proibire ai Latini tal
guerra, desiderando non gli irritare: il
che non solamente non gli irritò, ma
gli fece diventare più animosi contro a
loro, e si scopersono più presto inimici.
Di che ne fanno fede le parole usate
da! prefato Annio pretore
latino nel medesimo concilio, dove dice: Tentaslis
patientiam negando mililem: (jais dubitai
cxarsisse eos ? Pcrtulerunt (amen hunc dolorem.
Excrcitus nos parare adversus Snmnilcs feederatos
suos audierunl, ncc mnverunt se ab urbe. I
Inde hcec illis tanta modestia j, ni si
a eonscienlia virium , et n os trarum , et suarum?
Conoscesi, pertanto, chiarissimo per questo
testo, quanto la pazienza de’ Romani accrebbe P
arroganza de’ Latini. E però, mai uno principe debbe
volere mancare del grado suo, e non
debbe mai lasciare alcuna cosa d’accordo,
volendola lasciare onorevolmente, se non quando
e’ la può, o e’ si crede che la
possa tenere : perchè gli è meglio quasi
sempre, sendosi condotta la cosa in termine
che tu non la possa lasciare nel modo
detto, lasciarsela torre con le forze, che
con la paura delle forze. Perchè se
tu la lasci con In paura, lo fai
per levarli la guerra, ed il più delle
volte non te la lievi: perche colui a
chi tu arai con una viltà scoperta concesso
quella, non starà saldo, rao ti vorrà
torre delle altre cose, e si accenderà più
contra di te, stimandoti meno; e dall'altra
parte, in tuo favore troverai i difensori
più freddi, parendo loro che tu sia o
debole, o vile: ma se tu, subito scoperta
la voglia dello avversario, prepari le
forze, ancoraché le siano inferiori a lui.
quello ti comincia a stimare; stimanti più
gli altri principi allo intorno; ed a tale
viene voglia di aiutarti, sendo in su P
arme, che abbandonandoti non ti aiuterebbe mai. Questo
si intende quando tu abbia uno inimico;
ma quando ne avessi più, rendere delle
cose che tu possedessi ad al •euno
di loro per riguadagnarselo, ancoraché fusse
di già scoperta la guerra, e per smembrarlo
dagli altri confederati tuoi inimici, fia
sempre partito prudente. XV. — Gli Stati
deboli sempre fieno ambigui nel risolversi : e sempre
le deliberazioni lente sono nocive.
in questa medesima materia, ed in questi
medesimi principi! di guerra intra i Latini
ed i Romani, si può notare come in
ogni consulta è bene venire allo individuo
di quello die si ha a deliberare, e non
stare sempre in ambiguo, nè in su lo
incerto della cosa. Il che si vede
manifesto nella consulta che feciono i
Latini, quando c’pensavano alienarsi da’ Romani.
Perchè avendo presentito questo cattivo umore
che ne’ popoli latini era entrato, i
Romani, per eertificarsi della cosa, c per
vedere se potevano senza mettere mano
all’arme riguadagnarsi quelli popoli, fecero loro intendere,
come e’ mandassero a Roma otto cittadini,
perchè avevano a consullare con loro. I
Latini, inteso questo ed avendo conscienza
di molte cose fatte centra alla voglia
de’ Romani, fcciono consiglio per ordinare
chi dovesse ire a Roma, e dargli commissione
di quello ch’egli avesse a dire. E stando
nel consiglio in questa disputa, Annio loro
pretore disse queste parole: Ad sumiuam veruni
nostrarum pertinerc arbitrar , ut vogilctis magis ,
quid agendum nobis, quam quid loqucndum
sii. Facile crii, cxphcatis consiliis j accommodarc
rebus nerba. Sono, senza dubbio, queste parole
verissime, e debbono essere da ogni principe e
da ogni repubblica gustate : perchè nella
ambiguità e nella incertit udine di quello
che altri voglia fare, non si sanno
accomodare le parole; ma fermo una volta
1’ animo, e deliberalo quello sia da
eseguire, è facil cosa trovarvi le parole,
lo ho notato questa parte più volentieri,
quanto io ho molte volte conosciuto tale
ambiguità avere nociuto alle pubbliche azioni,
con danno i* con vergogna della repubblica
nostra. E sempre mai avverrà, che ne* partiti ilubbii,
e dove bisogni animo a deliberargli, sarà questa
ambiguità, quando abbino ad esser consigliati e
deliberati da uomini deboli. Non sono meno
nocive ancora le deliberazioni lente e tarde, che
ambigue ; massime quelle che si hanno a
deliberare in favore di alcuno amico :
perchè con la lentezza loro non si
aiuta persona, e nuocesi a sè mede- simo. Queste
deliberazioni così fatte procedono o da debolezza
di animo e ili forze, o da malignità di
coloro che hanno a deliberare; i quali, mossi
dalla passimi propria di volere rovinare lo
Stato o adempire qualche suo desiderio, non lasciano
seguire la deliberazione, ma la impediscono e
la attraversano. Perchè i buoni cittadini,
ancora che vegghino una foga popolare
voltarsi alla parte perniciosa, mai impediranno
il deliberare, massime di quelle cose che
non aspettano tempo. Morto che fu Girolamo
liranno in Siracusa, essendo la guerra grande
intra i Cartaginesi ed i Romani, vennono i
Siracusani in disputa se dovevano seguire V
amicizia romana o la cartaginese. E tanto era
lo ardore delle parti, che la cosa
stava ambigua, uè se ne prendeva alcuno
partito; insino a tanto che Apollonide, uno
de’ primi in Siracusa, con una sua
orazione piena di prudenza, mostrò come non
era da biasmare chi teneva E oppinione ili
aderirsi ai Romani, nè quelli che volevano seguire
la parte cartaginese; ma era bene da
detestare quella ambiguità e tardità di
pigliare il partito, perchè vedeva al tutto
in tale ambiguità la rovina della
repubblica; ma preso che si fusse il
partito, qualunque e’ si fosse, si poteva
sperare qualche bene. Nè potrebbe mostrare
più Tito Livio che si faccia in
questa parte, il danno che si tira
dietro lo stare sospeso. Dimostralo ancora
in questo caso de’ Latini : perchè, sendo i
Latini ricerchi da loro gli stessine
neutrali, e che il re venendo in Italia
gli avesse a mantenere nello Stato e ricevere
in proiezione: e dette tempo un mese
alla città a ratificarlo. Fu differita tale
ratificazione da chi per poca prudenza
favoriva le cose di Lodovico: intantoehè,
il re già sendo in su la vittoria, e
volendo poi i Fiorentini ratificare , non fu la
ratificazione accettata ; come quello che conobbe i
Fiorentini essere venuti forzati, e non voluntari
nella amicizia sua. Il che costò alla
città di Firenze assai danari, e fu per
perdere lo Stato : come poi altra volta
per simile causa li intervenne. E tanto
più fu dannabile quel partito, perchè non
si servi ancora il duca Lodovico; il
quale se avesse vinto, arebbe mostri molti
più segni di inimicizia conira ai
Fiorentini, che non fece il re. E benché
del male che nasce alle repubbliche di
questa debolezza se ne sia di sopra
in uno altro capitolo discorso; nondimeno,
avendone di nuovo occasione per un nuovo
accidente, ho voluto replicarne', parendomi,
massime, materia che debba esser dalie
repubbliche simili alla nostra notala. XVI. —
Quanto i soldati ne’ nostri tempi si
disformino dalli anttcht ordini. ha più
importante giornata che fu mai fatta in
alcuna guerra con alcuna nazione dal Popolo
romano, fu questa che ei fece con i
popoli latini, nel consolato di Torquato e
di Decio. Perchè ogni ragione vuole, che
cosi come i Latini per averla perduta
diventarono servi, così sarebbono stati servi i
Romani, quando non la avessino vinta. E di
questa oppinone è L.; perchè in ogni parte
fa gli eserciti pari di ordine, di virtù,
di ostinazione c di numero : solo vi fa
differenza, che i capi dello esercito romano
furono più virtuosi che quelli dello
esercito latino. Yedesi ancora come nel
maneggio di questa giornata nacquero duoi
accidenti non prima nati, e che dipoi hanno
rari esempi: che de’ duoi Consoli, per
tenere fermi gli animi de’ soldati, ed
ubbidienti al comandamento loro, e diliberati al
combattere, 1’ uno ammazzò sè stesso, e I’
altro il figliuolo. La parità, che L. dice essere
in questi eserciti, era che, per avere
militato gran tempo insieme, erano pari di
lingua, d’ ordine e d’ arme: perchè nello
ordinare la zuffa tenevano uno modo
medesimo $ e gli ordini ed i capi degli
ordini avevano medesimi nomi. Era dunque
necessario, sondo di pari forze e di pari
virtù, che nascesse qualche cosa istraordinaria,
che fermasse e facesse più ostinati gli
animi dell’ uno che dell’altro: nella quale
ostinazione consiste, come altre volte si è
detto, la vittoria; perchè, mentre che la
dura ne’ petti di quelli che combattono,
mai non danno volta gli eserciti. E perchè la
durasse più ne’ petti de’ Romani che de’
Latini, parte la sorte, parte la virtù de’
Consoli fece nascere, che Torquato ebbe ad
ammazzare il figliuolo, e Decio sè stesso.
Mostra Tito Livio, nel mostrare questa
purililà di forze, tutto l’ ordine che
tenevano i Romani nelli eserciti e nelle zuffe.
Il quale esplicando egli largamente, non
replicherò altrimenti; ma solo discorrerò quello
che io vi giudico notabile, e quello che
per essere negletto da tutti i capitani di
questi tempi, ha fatto negli eserciti e nelle zuffe
di molti disordini. Dico, adunque, che per
il testo di Livio si raccoglie, come
lo esercito romano aveva tre divisioni principali,
le quali toscanamente si possono chiamare
tre schiere; e nominavano la prima astati,
la seconda principi, la terza triarii: e
ciascuna di queste aveva i suoi cavalli.
Nello ordinare una zuffa, ei mettevano gli
astatiinnanzi ; nel secondo luogo, per diritto,
dietro alle spalle di quelli, ponevano i principi
; nel terzo, pure nel mede»imo filo,
collocavano i triadi. I cavalli di tulli questi
ordini gli ponevano a destra ed a sinistra
di queste tre battaglie; le schiere de’
quali cavalli, dalla forma loro e dal
luogo, si chiamavano alce , perchè parevano come
due alie di quel corpo. Ordinavano la
prima schiera delli astati, che era nella
fronte, serrata in modo insieme che la
potesse spignere e sostenere il nimico. La
seconda schiera de’ principi, perchè non
era la prima a combattere, ma bene le
conveniva soccorrere alla prima quando fusse
battuta o urtata, non la facevano stretta, ma mantenevano
i suoi ordini radi, e di qualità che la
potesse ricevere in sè senza disordinarsi
la prima, qualunque volta, spinta dal
nimico, fusse necessitata ritirarsi. La terza
schiera de* triadi aveva ancora gli ordini
più radi che la seconda, per potere
ricevere in sè, bisognando, le due prime
schiere de’ principi e degli astati. Collocate,
dunque, queste schiere in questa forma,
appiccavano la zuffa : e se gli astati
erano sforzati o vinti, si ritiravano nella
ra-dila degli ordini de’ principi ; e
tuttiinsieme uniti, fatto di due schiere un
J corpo, rappiccavano la zuffa: se questi ancora
erano ributtati e sforzati, si ritiravano tutti
nella radila degli ordini de* trioni; e
tutte tre le schiere diventate un corpo,
rinnovavano la zuffa : dove essendo
superati, per non avere più da rifarsi,
perdevano la giornata. E perchè ogni volta
che questa ultima schiera de’ triarii si
adoperava, lo esercito era in pericolo, ne
nacque quel proverbio: Res redacta est ad
triarios ; che ad uso toscano vuol dire:
Noi abbiamo messo I’ ultima posta. I
capitani dei nostri tempi, come egli hanno
abbandonato tutti gli altri ordini, e della
antica disciplina ei non ne osservano parte
alcuna, cosi hanno abbandonata questa parte, la
quale non è di poca importanza: perchè chi
si ordina da potersi nelle giornate rifare
tre volte, ha ad avere tre volte
inimica la fortuna a volere perdere, ed ha
ad avere per riscontro una virtù che
sia atta tre volte a vincerlo. Ma chi
non sta se non in su M primo
urto, come stanno oggi gli eserciti
cristiani, può facilmente perdere ; perchè
ogni disordine, ogni mezzana virtù gli può
torre la vittoria. Quello che fa agli
eserciti nostri mancare di potersi rifare
tre volte, è lo avere perduto il modo
di ricevere I* una schiera uelP altra.
Il che nasce perchè al presente sf
ordinano le giornate con uno di questi
duoi disordini: o ei mettono le loro
schiere a spalle P una delP altra, e fanno
la loro battaglia larga per traverso, e
sottile per diritto; il che la fa più
debole, per aver poco dal petto alle
schiene. E quando pure, per farla più
forte, ei riducono le schiere per il verso
de’ Romani, se la prima fronte è rotta,
non avendo ordine di essere ricevuta dalla
seconda, s’ ingarbugliano insieme tutte, e rompono
sè medesime: perché se quella dinanzi è
spinta, ella urta la seconda; se la
seconda si vuol far innanzi, ella è
impedita dalla prima : donde che urlando
la prima la seconda, e la seconda la
terza, ne nasce tanta confusione, che
spesso uno minimo accidente rovina uno
esercito. Gli eserciti spagnuoli e franciosi
nella zuffa di Ravenna, dove mori monsignor
de Pois, capitano delle genti di Prandi
(la quale fu, secondo i nostri tempi, assai
bene combattuta giornata) s’ ordinarono con uno
de’ soprascritti modi; cioè clic l’uno e 1’ altro
esercito venne con tutte le sue genti
ordinate a spalle : in modo che non
venivano’ avere nè 1’ uno nè 1’ altro
se non una fronte, ed erano assai più
per il traverso cìie per il diritto.
E questo avviene loro sempre dove egli hanno la
campagna grande, come gli avevano a Ravenna :
perché, conoscendo il disordine che fanno
nel ritirarsi, mettendosi per un filo, lo
fuggouo quando e’ possono col fare la
fronte larga, coni’ t detto ; ma quando
il paese gli ristringe, si stanno nel
disordine soprascritto, senza pensare il rimedio.
Con questo medesimo disordine cavalcano per il paese
inimico, o se e’ predano, o se e’ fanno
altro maneggio di guerra. Ed a santo Regolo
in quel di Pisa, ed altrove, dove i
Fiorentini furono rotti da' Pisani ne’ tempi
della guerra che fu tra i Fiorentini e
quella città, per la sua ribellione dopo
la passata di Carlo re di Francia in
Italia, non nacque tal rovina d’ altronde,
clic dalla cavalleria amica; la quale sendo
davanti e ributtata da’ nimici, percosse nella
fanteria
fiorentina, e quella ruppe : donde tutto il
restante delle genti dierono volta : e messcr
Ciriaco dal Borgo, capo antico delle
fanterie fiorentine, ha affermato alla presenza
mia molte volle, non essere mai stato
rotto se non dalla cavalleria degli amici.
1 Svizzeri, che sono i maestri delle
moderne guerre, quando ei militano coi
Franciosi, sopra tulle le cose hanno cura
di mettersi in lato, che la cavalleria
amica, se fusse ributtata, non gli urti. E
benché queste cose paiano facili ad
intendere, e facilissime a farsi; nondimeno non
si è trovato ancora alcuuo de’ nostri
contemporanei capitani, che gli antichi ordini
imiti, e gli moderni corregga. E benché gli
abbino ancora loro tripartito lo esercito, chiamando
1’ una parte antiguardo, l’altra battaglia e
l’altra retroguardo; non se ne servono ad
altro che a comandargli nelli alloggiamenti: ma
nello adoperargli, rade volte è, come di
sopra è detto, che a tutti questi corpi
non faccino correre una medesima fortuna. E perchè
molti, per scusare la ignoranza loro,
allegano che la violenza delle artiglierie
non patisce che in questi tempi si
usino molti ordini degli antichi, vo-glio
disputare nel seguente capitolo que-sta materia,
ed esaminare se le artiglierie impediscono
che non si possa usare l’ antica virtù. XVII.
— Quanto si debbino sii inave dagli
eserciti ne' presenti tempi le artiglierie; e
se quella oppiatone che se ne ha in
universale j è vera. Considerando io, oltre alle
cose soprascritte, quante zuffe campali (chiamate
ne’ nostri tempi, con vocabolo francioso,
giornate, e dagl’ Italiani fatti d’arme) furono
fatte dai Romani in diversi tempi ; mi è
venuto in considerazione la oppinione universale
di molti, che vuole che se in quelli
tempi fussino state le artiglierie, non
sarebbe stato lecito a’ Romani, nè sì
facile, pigliare le provincie; farsi tributari i
popoli, come e’ feciono ; nè arebbono in
alcuno modo fatti si gagliardi acquisti. Dicono aiTcora,
che mediante questi instrumenti de’ fuochi,
gli uomini non possono usare nè mostrare
la virtù loro, come e’ potevano anticamente. E
soggiungono una terza cosa : che si viene
con piu diflìeultà alle giornale che
non si veniva allora, nè vi si può
tenere dentro quegli ordini di quelli tempi
; talché la guerra si ridurrà col tempo
in su le artiglierie. E giudicando non
fuora di proposito disputare se tali oppiuioui sono
vere, e quanto le artiglierie abbino cresciuto o
diminuito di forze agli eserciti, e se le
tolgano o danno occasione ai buoni capitani
di operare virtuosamente ; comiucerò a parlare quanto alla
prima loro oppinione : che gli eserciti
antichi romani non arebbono fatto gli
acquisti che feciono, se le artiglierie lussino
state. Sopra che, rispondendo, dico: come
e’si fa guerra o per difendersi, o per
offendere; donde si ha prima ad esaminare a
quale di questi duoi modi di guerra
le faccino più utile, o più danno. E
benché sia che dire fla ogni parte,
nondimeno io credo che senza comparazione
faccino più danno a chi si difende, che a
chi offende. La ragione che io ne
dico è, che quel che si difende, o
egli è dentro a una terra, o egli è in su’
campi dentro ad uno steccato. S* egli è
dentro ad una terra, o questa terra è
piccola, come sono la maggior parte delle
fortezze, o la è grande: nel primo caso,
chi si difende è al tutto perduto, perchè P
impeto delle artiglierie è tale, che non
trova muro, ancoraché grossissimo, che in pochi giorni
ei non abbatta; e se chi è dentro non
ha buoni spazi da ritirarsi c con fossi e
con ripari, si perde; nè può sostenere
1* impeto del nimico che volesse dipoi
entrare per la rottura del muro, nè a
questo gli giova artiglieria che avesse:
perchè questa è una massima, che dove gli
uomini in frotta e con impeto possono
andare, le artiglierie non gli sostengono.
Però i furori oltramontani nella difesa delle
terre non sono sostenuti: sou bene
sostenuti gli assalti italiani, i quali non
in frolla, ma spicciolati si conducono alle
battaglie, le quali loro, per nome mollo
proprio,
chiamano scaramuccio. E qucsli che vanno con
questo disordine e questa freddezza ad una
rottura d’ un muro dove sia artiglierie,
vanno ad una manifesta morte, c conira a
loro le artiglierie vogliono: ma quelli
clic in frotta condensati, e che runo
spinge l’altro, vengono ad una rottura, se
non sono sostenuti o da fossi o da ripari,
entrano in ogni luogo, c le artiglierie non gli
tengono; e se ne muore qualcuno, non
possono essere tanti che gl’ impedischino
la vittoria. Questo esser vero, si è
conosciuto in molte espugnazioni fatte dagli oltramontani
in Italia, e mas-
sime in quella di Brescia : perchè, sendosi
quella terra ribellata da’ Franciosi, e tenendosi
ancora per il re di Francia la
fortezza, avevano i Veneziani, per sostenere V
impeto che ila quella potesse venire nella
terra, munita tutta la strada di
artiglierie che dalla fortezza alla città scendeva,
e postane a fronte e ne’ fianchi, ed in
ogni altro luogo opportuno. Delle quali
monsignor di Fois non fece alcuno conto ;
anzi quello con il suo squadrone, disceso a
piede, passando per il mezzo di quelle,
occupò la città, nè per quelle si
sentì eli’ egli avesse ricevuto alcuno
memorabile danno. Talché, chi si difende in
una terra piccola, conte è detto, c trovisi
le mura in terra, e non abbia spazio
di ritirarsi con r ripari e con fossi, ed
abbiasi a fidare in su le artiglierie, si
perde subito. Se tu difendi tuta terra
gronde, e che tu abbia comodità di ritirarti,
sono nondiinanco senza comparazione più
utili le artiglierie a chi è di fuori, che
a chi è dentro. Prima, perchè a volere che
una artiglieria nuoca a quelli che sono di fuora,
tu sei necessitato levarti con essa dal
piano della terra; perchè, stando in sul
piano, ogni poco di argine e di riparo
che il nimico faccia, rimane sicuro, e tu
non gli puoi nuocere. Tanto che avendoti
ad alzare, e tirarti sul corridoio delle
mura, o in qualunque modo levarti da terra,
tu ti tiri dietro due difficoltà: la
prima, che non puoi condurvi artiglieria
della grossezza e della potenza che può
trarre colui di fuora, non si potendo
ne’ piccoli spazi maneggiare le cose grandi
; I’ altra, che quando bene tu ve la
potessi condurre, tu non puoi fare quelli
ripari fedeli e sicuri, per salvare detta
artiglieria, che possono fare quelli di
fuora, essendo in su M terreno, ed
avendo quelle comodità e quello spazio che
loro medesimi vogliono: talmentechè, gli è
impossibile a chi difende una terra, tenere
le artiglierie ne’ luoghi alti, quando
quelli che soli di fuora abbino assai
artiglierie e polenti; e se egli hanno a venire
con essa ne’ luoghi bassi, ella diventa in
buona parte inutile, come è detto. Talché
la difesa della città si ha a ridurre a
difenderla con le braccia, come anticamente
si faceva, e con la artiglieria minuta : di che
se si trae un poco di utilità
rispetto a quella artiglieria minuta, se ne cava incomodità
che contrappesa alia comodità della artiglieria ;
perchè, rispetto a quella,. si riducono le mura
delle terre, basse e quasi sotterrate ne’ fossi: talché,
com’e’ si viene alle battaglie di mano, o
per essere battute le mura o per
essere ripieni i fossi, ha chi è dentro
molti più disavvantaggi che non aveva
allora, E però, come di sopra si disse,
giovano questi instrumenti molto più a chi
campeggia le terre, che a chi è campeggiato.
Quanto alla terza cosa, di ridursi in
uno campo dentro ad uno steccato per
non fare giornata, se non a tua comodità o
vantaggio; dico che in questa parte tu
non hai più rimedio ordinariamente a difenderti
di non combattere, che si avessino gli
antichi; e qualche volta, per conto delle
artiglierie, hai maggiore disavvantaggio. Per- chè, se
il nimico ti giunge addosso, ed abbia
un poco di vantaggio del paese, come
può facilmente intervenire; e truovìsi più
alto di te; oche nello arrivare alio
tu non abbi ancora fatti i gini, e
copertoli bene con que luto, e senza che
tu abbi alcun ti disalloggia, e sei forzato
usci fortezze tue, e venire alla zuffa intervenne
agli Spagnuoli nel nata di Ravenna* i quali
essent nili tra il fiume del Ronco ed gine,
per non lo avere tirato U che
bastasse, e per avere i Frai poco il
vantaggio del terreno, constretti dalle
artiglierie usci fortezze loro, e venire alla zi dato,
come il più delle volte de sere, che
il luogo che tu avess con il campo
fusse più eminenti altri all’ incontro, c
che gli ar; sino buoni e sicuri, tale
che, r il sito e 1’ altre tue preparazio miro
non ardisse di assaltarti; in questo caso a
quelli modi c cainente si veniva, quando
uno il suo esercito in lato da non pi
sere offeso: i quali sono, co paese, pigliare
o campeggiare le terre tue amiche, impedirti
le vettovaglie; tanto che tu sarai forzato
da qualche necessità a disalloggiare, e venire a
giornata ; dove le artiglierie, come di sotto si
dirà, non operano molto. Considerato, adunque,
di quali ragioni guerre feciono i Romani, e
reggendo come ei feciono quasi tutte le
lor guerre per offendere altrui, e non per
difender loro; si vedrà, quando sieno vere
le cose dette di sopra, come quelli
arebbono avuto più
vantaggio, e piu presto arebbono fatto i loro
acquisti, se le fussino state in quelli
tempi. Quanto alla seconda cosa, che gli
uomini non possono mostrare la virtù loro,
come ei potevano anticamente, mediante la
artiglieria ; dico eh’ egli è vero, che
dove gli uomini spicciolati si hanno a
mostrare, eh’ e’ portano più pericoli che
allora, quandoavessino a scalare una terra, o
fare simili assalti, dove gli uomini non
ristretti insieme, ma di per sè 1’
uno dall’ altro avessiuo a comparire. E vero die
gli capitoni e capi degli stanno sottoposti
più al perii! morte che allora, potendo
esser con le artiglierie in ogni lu giova
loro lo essere nelle ultii «Ire, e muniti
di uomini fortissi dimeno si vede che P
uno c P questi duoi pericoli fanno ra danni
istraordinari : perchè munite bene non si
scalano, i con assalti deboli ad assaltarh volerle
espugnare, si riduce la una ossidionc, come
anticamen ceva. Ed in quelle clic pure pe si
espugnano, non sono molto i pericoli che
allora: perchè n cavano anche in quel
tempo a fendeva le terre, cose da trarre se
non erano si furiose, facevam all’ ammazzare
gli uomini, *il s fello. Quanto alla
morte de’ci de’ condottieri, ce ne sono,
in v tro anni che sono state le
guerre simi tempi in Italia, meno esempi,
che non era in dieci anni di tempo
appresso agii antichi. Perchè, dal conte Lodovico
della Mirandola, che morì a Ferrara quando i
Veniziani pochi anni sono as- saltarono quello
Stato, ed il Duca di Nemors, che morì
alla Ciriguuola, in fuori; non è occorso
che d’artiglierie ne sia morto alcuno;
percdiè monsignor di Pois a Ravenna mori di
ferro, e non di fuoco. Tanto che, se
gli uomini non dimostrano particolarmente la
loro virtù, nasce non dalle artiglierie, ma
dai cattivi ordini, e dalla debolezza degli
eserciti; i quali, mancando di virtù nel tutto,
non la possono dimostrare nella parte.
Quanto alla terza cosa detta da costoro,
che non si possa venire alle mani, fc
che la guerra si condurrà tutta in su
P artiglierie, dico questa oppinione essere al
tutto falsa; e così ila sempre tenuta da
coloro che secondo P antica virtù vorranno
adoperare gli eserciti loro. Perchè, chi
vuole fare uno esercito buono, gli
conviene, con eser<o veri, assuefare gli
uomini scostarsi al nimico, e venire
cmenare della spada, e al pig
il petto; e si debbe fondare ile
fanterie clic in su’ cavagli, gioni che
di sotto si diranno, si fondi in su i
fanti ed in i predetti, diventano al
tutto le inutili; perchè con più facilit terie
nello accostarsi al nimict fuggire il colpo
delle artiglieri) potevano anticamente fuggire degli
elefanti, de’ carri falcati riscontri inusitati,
clic le farmane riscontrarono ; contra sempre
trovarono il rimedio: più facilmente lo
arebbono tr<tra a queste, quanto egli è pi tempo
nel quale le artiglierie i nuocere, che
non era quello potevano nuocere gli
elefanti < Perchè quelli nel mezzo delb disordinavano;
queste solo in zuffa (i Spediscono: il
quale impedìmento facilmente le fanterie
fuggono, o con andare coperte dalla natura
del sito, o con abbassarsi in su la
terra quando le tirano. 11 che unclie
per esperienza si è visto non essere necessario,
massime per difendersi dalle artiglierie grosse ;
le quali non si possono in modo bilanciare,
o che se le vanno alte le non ti
truovino, o che se le vanno basse le non
ti arrivino. Venuti poi gli eserciti alle
mani, questo è più chiaro che la luce,
che nè le grosse nè le piccole ti possono
poi- offendere: perchè, se quello che ha 1’
artiglierie è davanti, diventa tuo prigione; s’
egli è dietro, egli offende prima 1’ amico
che te; a spalle ancora non ti può
ferire in modo che tu non lo possa
ire a trovare, e ne viene a seguitare l’effetto
detto. Nè questo ha molta disputa ; perchè
se ne è visto l’essempio de’ Svizzeri, i quali a
Novara, nel 4513, senza artiglierie e senza cavagli,
andarono a trovare lo esercito francioso munito
di artiglierie alle fortezze sue, e Io ruppon aver
alcuno impedimento da q la ragione è,
oltre alle cose sopra, clic l’artiglieria
ha biso sere guardata, a volere che la da
mura o da fossi o da argini gli manca
una di queste guani prigione, o la diventa
inutile : interviene quando la si ha a e con
gli uomini; il che gli ii nelle
giornate e zuffe campali. P le non si
possono adoperare, s quel modo che
adoperavano gl gli instrumenti da trarre; che levano
fuori delle squadre, p comhatlessino fuori dell i
ordini volta che o da cavalleria o erano
spinti, il refugio loro er alle legioni.
Chi altrimenti ne ! non la intende
bene, e fidasi s< cosa che facilmente lo
può in E se il Turco, mediante l’ ar conila
al Sofi ed il Soldauo h vittoria, è
nato non per altra virtù di quella,
che per lo spavento elle lo inusitato
roraore messe nella cavalleria loro. Conchiuggo
pertanto, venendo al fine di questo
discorso, l’ artiglieria essere utile in
uno esercito quando vi sia mescolata l’antica
virtù; ma senza quella, contea a uno
esercito virtuoso è inutilissima. XVIII. — Come
per V autorità de’ Romani j c per lo cssempio
della antica milizia, si debbe stimare più
lè fanterie che i cavagli.
E’ si può per molte ragioni e per
molti essempi dimostrare chiaramente, quanto i Romani
in tutte le militari azioni stimassino
più la milizia a piè che a cavallo, e sopra
quella fondassino tutti i disegni delle
forze loro: come si vede per molti
essempi, ed infra gli altri, quando si
azzuffarono con i Latini appresso il lago
Regiilo; dove già essendo inclinato lo
esercito romano, per soccorrere ai suoi
fecero discenti uomini da cavallo a piede, e f via,
rinnovata la zuffa, ebbon< toria. Dove
si vede manifeste Romani avere più
confidato in scudo a piede, che manleneiu vallo.
Questo medesimo termini in molte altre
zuffe, e sempre rono ottimo rimedio in gli
lort Nè si opponga a questo la < di
Annibaie, il quale veggendo i nata di
Canne, che i Consoli fatto discendere a piè
gli loro facendosi belle di simile parti Quatti
tnallem vinclos milii cquilcs ; cioè: io
arci più car gli dessino legati. La
quale < ancoraché la sia stata in bo uomo
eccellentissimo, nondimt ha a ire dietro alla
autorità, più credere ad una Repubblicf e a tanti
Capitani eccellentissin rono in quella, che
ad uno s<baie: ancoraché senza le auto siano
ragioni manifeste. Perchè 1’ uomo
a piede può andare in molti luoghi, dove uon
può andare il cavallo; puossi insegnarli
servare 1' ordine, e turbato che fusse,
come e’ lo abbia a riassumere: a’ cavagli è
diffìcile fare servare l’ordine, ed impossibile,
turbati che sono, riordinargli. Olirà di
questo, si trova, come negli uomiui, de’
cavagli che kanno poco animo, e di quelli
che ne hanno assai: e molte volte
interviene che un cavallo animoso è cavalcato
da un uomo vile, ed uno cavallo vile
da uno animoso; ed in qualunque modo
che segua questa disparità, ne nasce
inutilità e di- sordine. Possono le fanterie
ordinate facilmente rompere i cavagli, e difficilmente
esser rotte da quelli. La quale oppinione è
corroborata, oltre a molti essempi antichi e moderni,
dalla autorità di coloro che danno delle
cose civili regola : dove mostrano come in
prima le guerre si cominciarono a fare con i
cavagli, perchè non era ancora 1’ onlinc
delle fanterie; ma coi si ordinarono, si
conobbe subi loro erano più utili, che
quell per questo però che i cavalli i necessari
negli eserciti, e per perle, e per scorrere e
predai per seguitare i nimici quando in fuga, c
per essere ancora una opposizione ai
cavagli dej. sari: ma il fondamento e il n l’esercito,
c quello chesi debl mare, debbono essere le
fan infra i peccali de* principi ita1 hanno fatto
Italia serva de’ I n q ii ci è il
maggiore, clic ave poco conto di questo
ordine, volto tutta la loro cura alla cavallo.
Il quale disordine è na malignità de* capi, e
per la ign coloro che tenevano stato. Pere dosi
ridotta la milizia italiana, ticinque anni
indietro, in uo non avevano stato, ma
erano < pitali! di ventura, pcusorono s me
polessino mantenersi la riputazione stando armati
loro, e disarmati i principi. E perchè uno numero
grosso di fanti non poteva loro essere
continuamente pagato, e non avendo sudditi da poter
valersene, ed uno piccolo numero non dava
loro riputazione, si volgono a tenere
cavagli : perchè dugcnto o trecento cavalli che
erano pagati ad uno condottiere, lo
mantenevano riputato; ed il pagamento non
era tale, che dagli uomini che tenevano
stato non potesse essere adempiuto. E perchè
questo seguisse più facilmente, e per mantenersi più
in riputazione, levarono tutta l’ affezione e la
riputazione da’ fanti, e ridussonla in
quelli loro cavalli: e in tanto crebbono
questo disordine, che in qualunque grossissimo
esercito era una minima parte di fanteria.
La quale usanza fece in modo debole,
insieme con molti altri disordini che si
mescolarono con quella, questa milizia italiana,
che questa provincia è stata facilmente calpesta
(ia tutti gii oltramontani. >più
apertamente questo errore, mare più i cavalli
che le fantei uno altro essempio romano. E Romani
a campo a Sora, ed i usciti fuori della
terra una tu cavalli per assaltare il
campo, fece all’ incontro il Maestro de romano
con la sua cavalleria, e di petto, la
sorte dette che nel scontro i capi dell’
uno e dell’ alti
cito morirono; e restali gli alti*governo, e
durando nondimeno I i Romani per superare
più fac lo inimico, scesono a piede, e cc sono
i cavalieri nimici, se si voi fendere, a
fare il simile: e co questo, i Romani ne
riportarom toria. Non può esser questo eì maggiore
in dimostrare quanto virtù nelle fantericche ne’
cavag che se nelle altre fazioni i Con cevano
discendere i cavalieri i era per soccorrere
alle fanterie i tivano, e che avevano
bisogno ili aiuto; ma in questo luogo
e’ discesono, non per soccorrere alle
fanterie nè per eombattere con uomini a
piè de’ nimici, ma combattendo a cavallo co’
cavalli, giudicareno, non potendo superargli a
cavallo, potere scendendo più facilmente vincergli.
Io voglio adunque conchiudere, che una
fanteria ordinata non possa senza grandissima
diffìcultà esser superata, se non da
una altra fanteria. Crasso e Marc’ Antonio
romani corsone per il dominio de’ Parti
molte giornate con pochissimi cavalli ed
assai fanteria, ed all’ incontro avevano
innumerabili cavalli de’ Parti. Crasso vi
rimase con parte dello esercito morto.
Marc’ Antonio virtuosamente si salvò. Nondimanco, in
queste afflizioni romane si vede quanto le
fanterie prevalevano ai cavalli : perchè essendo
in un paese largo, dove i monti son
radi, ed i fiumi radissimi, le marine
longinque, e discosto da ogni comodità;
nondimanco Marc’ Antonio, al giudicio de’ Parti
medesimi, mente si salvò; nè mai ebbe tutta
la cavalleria pnrtica te ordini dello
esercito suo. Se rimase, chi leggerà bene
le s vedrà come e’ vi fu piuttosto che
forzato: nè mai, in tutti sordini, i Parti
ardirono di uri sempre andando costeggiando pedendogli
le vettovaglie, prò gli e non gli
osservando, lo et od una estrema miseria.
Io avere a durare più fatica in p quanto
la virtù delle fanterie lente ebe quella
de’ cavalli, : fussino assai moderni essenv rendono
testimonianza pieniss è veduto novemila Svizzeri i da
noi di sopra allegata, and frontale
diecimila cavalli ed fanti, e vincergli: perchè i
cf li potevano offendere: i fanti, ] gente
in buona parte guascoi ordinata, stimavano
poco. Yi ventiseimila Svizzeri andare a trovare sopra
Milano Francesco re di Francia, che aveva
seco ventimila cavalli, qua-♦ rantamila fanti e
cento carra d’artiglieria ; e se non vinsono
la giornata come a Novara, combatterono due
giorni virtuosamente; e dipoi, rotti che furono, la
metà di loro si salvarono. Presunse Marco
Regolo Attilio, non solo con la fanteria
sua sostenere i cavalli, ma gli elefanti; e
se il disegno non gli riuscì, non fu
però che la virtù della sua fanteria
non fusse tanta, che ei non confidasse
tanto in lei che credesse superare quella
difficoltà. Replico, pertanto, che a voler
superare i fanti ordinati, è necessario opporre
loro fanti meglio ordinati di quelli:
altrimenti, si va ad una perdita manifesta.
Ne’ tempi di Filippo Visconti, duca di
Milano, scesouo ili Lombardia circa sedicimila
Svizzeri: donde il Duca avendo per capitano
allora il Carmignuola, lo mandò con circa mille
cavalli e pochi fanti allo incontro loro.
Costui non sappiendo 1* 01 combatter loro,
ne andò ad inc< con i suoi cavalli,
presu me nd( subito rompere. Ma trovatogli
i avendo perduti molti de’ suoi u ritirò :
ed essendo valentissimo sappiendo negli accidenti
nuovi nuovi partiti, rifattosi di gente a
trovare; e venuto loro all’i fece smontare a
piè tutte le s d’ arme, e fatto testa
di quelle fanterie, andò ad investire i S quali
non ebbono alcun rimet chè, sendo le
genti d’arme de gnuola a piè e bene armate, facilmente
entrare infra gli 01 Svizzeri, senza patire
alcuna lei entrati tra questi, poterono- fu offendergli:
talché di tutto il ni quelli, ne
rimase quella parte per umanità del Carmignuola servata.
Io credo che molti co questa differenza
di virtù che I’ uno e 1’ altro di
questi ordir: tanta la infelicità di questi
tempi, che nè gli essempi antichi nè i
moderni, nè la confessione dello errore è sufficiente
a fare che i moderni principi si
rav-vegghino ; e pensino che a volere ren-dere
riputazione alla milizia d’ una pro-vincia o
d’ uno Stato, sia necessario ri-suscitare
questi ordini, tenergli appresso,dar loro
riputazione, dar loro vita, ac-ciocché a lui e
vita c riputazione ren-dino. E come e’diviano da
questi modi,così diviano dagli altri modi
detti disopra : onde ne nasce che gli
acquistisono a danno, non a grandezza d’uno Stato,
come di sotto si dirà.Cap. XIX. — Che
gli acquisii nelle re-pubbliche non bene
ordinate e che
secondo la romana virtù non procedono, sono
a rovina, non a esalta-
zione di esse. Queste contrarie oppinioni alla
verità, fondale in su’ mali essempi che
da que-sti nostri corrotti secoli sono
stati in-trodotti, fanno che gli uomini non
pen-sano a limare dai consueti modi. Quandosi
sarebbe potuto persuadere a uno ita-liano da
trenta anni in dietro, che die-cimila fanti
potessino assaltare in uiipiano diecimila
cavalli ed altrettanli, fanti, e con quelli non
solamente combattere,ina vincergli; come si
vede per lo essempio da noi più
volle allegato, a Novara? E benché le istorie
ne siano piene, /amen non ci arebbero
prestato fede; e se ci avessero prestato
fede, arebbero detto che in questi tempi
s’arma meglio, e che una squadra d’ uomini d’arme
sarebbe atta ad urtare uno scoglio, non
che una fanteria: e così conqueste false
scuse corrompevano il giudizio loro; nè
arebbero considerato, che Lucullo con pochi
fanti ruppe cento cinquanta mila cavalli di
Tigrane; e che tra quelli cavalieri era una
sorte di cavalleria simile al tutto agii
uomini d’arme nostri: c così questa fallacia è
stata scoperla dallo essempio delle genti
oltramontane. E come e’ si vede per quello essere
vero, quanto alla fanteria, quello che
nelle istorie si narra; così doverrebbero
credere esser veri ed utili tutti gli altri
ordini antichi. E quando questo fusse credulo,
le repubbliche ed i principi er rerebbero meno;
sariano più forti ad op-porsi ad uno
impeto che venisse loro ad-dosso; non
spererebbero nella fuga: e quelli che
avessino nelle mani un vivere civile, Io
saperebbero meglio indirizzare, o per la via
dello ampliare, o per la via del mantenere;
e crederebbero che lo accrescere la città
sua d’ abitatori, farsi compagni e non
sudditi, mandare colonie a guardare i paesi acquistati,
far capitale delle prede, domare il nimico
con le scorrerie e con le giornate e non
con le ossidioni, tenere ricco il pubblico,
povero il privato, mantenere con sommo studio
li esercizi militari, sono le vie a fhre
grande una repubblica, ed acquistare imperio. E
quando questo modo dello ampliare non gli
piacesse, penserebbe che gli acquisti per ogni
altra via sono la rovina delle repubbliche,
e porrebbe freno ad ogni ambizione; regolando
bene la sua città dentro con le leggi
e co’ costumi, proi- bendogli r acquistare e solo
pensando a difendersi, e le difese tenere
ordinate bene: come fanno le repubbliche della Magna,
le quali in questi modi vivono e sono vi v
ute libere un tempo. Nondi- meno, come
altra volta dissi quando di- scorsi la
differenza che era da ordinarsi per
acquistare a ordinarsi per mante- nere; è impossibile
che ad una repubblica riesca lo stare
quieta, c godersi la sua libertà e gli
pochi confini: perchè, se lei non molesterà
altrui, sarà molestata ella ; e dallo essere
molestata le nascerà la voglia e la
necessità dello acquistare; c quando non avesse
il nimico fuora, lo troverebbe in casa :
come pare necessario intervenga a tutte le grandi
cittadi. b se le repubbliche della Magna
possono vivere loro in quel modo, ed
hanno potuto durare un tempo; nasce da
certe condizioni che sono in quel paese,
le quali non sono altrove, - senza le
quali non potrebbero tenere simil modo
di vivere. Era quella parte della Magna
di che io parlo, sottoposta allo imperio
romano come la Francia e la Spagna:
ma venuto dipoi in declinazione 1* imperio,
e ridottosi il titolo di tale imperio in
quella provincia, comin-ciarono quelle ciltadi
più potenti, se-condo la viltà o necessità
degFimpera-dori, a farsi libere, ricomperandosi dallo imperio,
con riservargli un piccolo censo annuario;
tanto che, a poco a poco, tutte quelle
cittadi che erano immediate dello imperadore, e
non erano soggette ad alcuno principe, si
sono in simil modo ricomperate. Occorse in
questi medesi- mi tempi che queste cittadi
si ricomperavano, che certe comunità sottoposte
al duca d’Austria si ribellarono da lui;
tra le quali fu Filiborgo, c Svizzeri, e si- mili
; le quali prosperando nel principio, pigliarono
a poco a poco tanto augumento, che, non
che e’sieno tornati sotto il giogo d’
Austria, sono in timore a tutti i loro
vicini: e questi sono quelli che si
chiamano Svizzeri. É, adunque, questa provincia
compartita in Svizzeri, repubbliche (che chiamano
terre franche), principi ed imperadore. E la
cagione che, intra tante diversità di vivere, non
vi nascono, o, se le vi nascono, non vi
durano molto le guerre, è quel segno dell’
imperadore ; il quale, avvenga che non abbi
forze, nondimeno ha fra loro tanta
riputazione, eli’ egli è uno loro
conciliatore, e con T autorità sua, interponendosi
come mezzano, spegne subito ogni scandalo. E
le maggiori e le più lunghe guerre vi
siano state, sono quelle che sono seguite
intra i Svizzeri ed il duca d’Austria; e
benché da molti anni in qua lo
imperadore ed il duca d’Austria sia
una cosa medesima, non per tanto non
ha mai potuto superare l’audacia ilei
Svizzeri, dove non è mai stato modo
d’accordo, se non per forza. Nè il
resto della Magna gli ha porti molti aiuti;
sì perchè le comunità non sanno offendere
chi vuole vivere libero come loro ; sì
perchè quelli principi, parte non possono
per esser poveri, parte non vogliono per
avere invidia alla potenza sua. Possono
vivere, adunque, quelle comunità contente del
piccolo loro dominio, per non avere
cagione, rispetto aii’dulorità imperiale, di
disiderarlo maggiore: possono vivere unite dentro
alle mura loro, per aver il nimico
propinquo, e. che piglierebbe 1’ occasione
d’-oc-euparle, qualunque volta le discordassino. Che
se quella provincia fusse condizionata altrimenti,
converrebbe loro cercare d’ ampliare e rompere
quella loro quiete. E perchè altrove non
sono tali condizioni, non si può prendere
questo modo di vivere; e bisogna o ampliare per
via di leghe, o ampliare come i Romani. E
ehi si governa altrimenti, cerca non la
sua vila, ma la sua morte e rovina:
perchè in mille modi e per molte cagioni
gli acquisii sono dannosi; perchè gli sta
molto bene insieme acquistare imperio, c non
forze; e chi acquista imperio e non forze
insieme, conviene che rovini. Non può
acquistare forze chi impoverisce nelle guerre,
ancora che sia vittorioso; che ei mette
più che non trae degli acquisti: come
hanno fatto i Veniziani ed i Fiorentini, i
quali sono stati molto più deboli, quando V
uno aveva la Lombardia e V altro la Toscana, che
non erano quando 1’ uno era contento
del mare, e V altro di sei .miglia di
confini. Perchè tutto è nato da avere voluto
acquistare, e non avere saputo pigliare il
modo; e tanto più meritano biasimo, quanto
egli hanno meno scusa, avendo veduto il
modo hanno tenuto i Romani, ed avendo
potuto seguitare il loro essempio, quando i
Romani, senza alcuno essempio, per la
prudenza loro, da loro medesimi lo seppono
trovare. Fanno, oltra di questo, gli
acquisti qualche volta non mediocre dauuo
ad ogni bene ordinata repubblica, quando e’ si acquista
una città o una provincia piena di delizie,
dove si può pigliare di quelli costumi
per la conversazione che si ha con
quelli: come intervenne a Roma, prima, nello
acquisto di Capova; e dipoi, ad Annibale. E
se Capova fusse stata più longinqua dalla
città, che lo errore de* soldati non
avesse avuto il rimedio propinquo; o che
Roma fusse stata in alcuna parte corrotta;
era senza dubbio quello acquisto la rovina
della Repubblica romana. E L. fa fede di
questo con queste parole: Jam lune minime
salubris militari disciplina Capita j instrumentum
omnium nolupta- tunij dclinitos militimi animos
avertit a memoria patria, E veramente, simili città
o provincie si vendicano contra al vincitore
senza zuffa e senza sangue ; perchè,
riempiendoli de’ suoi tristi co- stumi, gli
espongono ad essere vinti da
qualunque gli assalta.
E Iuvenale non potrebbe meglio, nelle sue
salire, aver considerata questa parte, dicendo:
thè nei petti romani per gli acquisti delle
terre peregrine erano intrati i costumi peregrini
; ed in cambio di parsimonia e di altre
eccellentissime virtù, gala et luxuria incubuitj
victumque ulciscìtur orbem. Se, adunque, V
acquistare fu per esser perniziosi ai
Romani nei tempi che quelli con tanta
prudenza e tanta virtù procedevano, che sarà
adunque a quelli che discosto dai modi
loro pro- cedono ? e che, oltre agli altri errori
che fanno, di che se ne è di
sopra di- scorso assai, si vagliono dei
soldati o mercenari o ausiliari ? Donde ne
risulta loro spesso quei danni di che
nel se- guente capitolo si farà menzione. Gap.
XX. — Quale pericolo porti quel principe o
quella repubblica che si vale della milizia
ausiliare o merce- naria. Se io non avessi
lungamente trattato in altra mia opera,
quanto sia inutile la milizia mercenaria ed
ausiliare, e quanto utile la propria, io
mi disten-derei in questo discorso assai più
clic non farò ; ma avendone altrove parlato a
lungo, sarò in questa parte brieve. Nè
mi è paruto in tutto da passarla, avendo
trovato in L., quanto ai soldati ausiliari,
sì largo essempio ; per- chè soldati ausiliari sono
quelli che un principe o una repubblica
manda, capitanati c pagati da lei, in tuo
aiuto. E venendo al testo di L., dico che,
avendo i Romani, in diversi luoghi, rotti
due eserciti de’ Sanniti con li eserciti
loro, i quali avevano mandati al soccorso
de* Capovani; e per questo liberi i Capovani
da quella guerra ehe i Sanniti facevano
loro; e volendo ritornare verso Roma; ed
acciò che i Capovani, spogliati di presidio,
non diventassino di nuovo preda dei
Sanniti; lasciarono due legioni nel paese
di Capova, che gli difendesse. Le quali
legioni marcendo nell* ozio, cominciarono a
dilettarsi in quello; tanto che, dimenticata
la patria e la riverenza del Senato,
pensarono di- prendere T armi, ed insignorirsi di
quel paese che loro con la loro virtù
avevano difeso, parendo loro che gli abitatori non
fussino degni di possedere quelli beni che
non sapevano difendere. La qual cosa
presentita, fu dai Romani op- pressa e corretta:
come, dove noi par- leremo delle congiure,
largamente si mostrerà. Dico pertanto di
nuovo, come di tutte V altre qualità di
soldati, gli ausiliari sono i più dannosi.
Perchè in essi quel principe o quella repubblica che
gli adopera in suo aiuto, non ha autorità
alcuna, ma vi ha solo V autorità colui
che li manda. Perchè i soldati au- siliari
sono quelli che ti sono mandati da un
principe, come ho detto, sotto suoi
capitani, sotto sue insegne e pagati da
lui: come fu questo esercito che i Romani
mandarono a Capova. Questi tali soldati, vinto
eh’ egli hanno, il piùdelle volte
predano così colui che gli hacondotti,
come colui contea a chi e’ sonocondotti ; e
lo fanno o per malignità delprincipe che
gli manda, o per ambizionloro. E benché la
intenzione de’ Romaninon fusse di rompere
1’ accordo e leconvenzioni che avevano
fatte coi Capo-vani; nondimeno la facilità
che parevaa quelli soldati di opprimergli
fu tanta,che gli potette persuadere a
pensare ditorre ai Capovani la terra e
lo stato.Potrebbesi di questo dare assai
essempi;ma voglio mi basti questo, e quello
deiRegini, ai quali fu tolto la vita
e laterra da una legione che i Romani
viavevano messa in guardia. Debbe, adun-que,
un principe o una repubblica pi-gliare
prima ogni altro partilo, che ri-correre a
conti aì re nello Stato suo persua
difesa genti nusiliarie, quando eis’ abbia a
fidare sopra quelle ; perchèogni patto,
ogni convenzione, ancora chedarà, di’ egli
arà col nemico, gli saràpiù leggieri
che tal partito. E se si leg-geranno bene
le cose passate, c diseor-rerannosi le
presenti, si troverà, peruno che n’abbia
avuto buon fine, infi-niti esser rimasi
ingannati. Ed uno prin-cipe o una repubblica
ambiziosa nonpuò avere la maggiore
occasione di oc-cupare una città o una
provincia, cheesser richiesto che mandi gli
esercitisuoi alla difesa di quella.
Pertanto, co-lui che è tanto ambizioso che,
non so-lamente per difendersi ma per
offenderealtri, chiama simili aiuti, cerca
d’acqui-stare quello che non può tenere, e
cheda quello che gliene acquista gli
puòfacilmente esser tolto. Ma l’ ambizionedell’
uomo è tanto grande, che per ca-varsi una
presente voglia, non pensa almale che è
in brieve tempo per risul-targliene. Nè lo
muovono gli antichi es-sempi, cosi in
questo come nell’ altrecose discorse;
perchè, se e’ fussino mossida quelli,
vedrebbero come quanto piùsi mostra la
liberalità coi vicini, e d’es-sere più alieno
da occupargli, tanto piùti si gettano
in grembo: come di sotto,per lo
essempio de’ Capovani, si dirà.Gap. XXI. —
Il primo Pretore che i Ro-mani mandarono in
alcun luogoj fua Capova, dopo quattrocento
anni chZcominciarono a far guerra. Quanto i
Romani nei modo del pro- cedere loro circa
Y acquistare fossero differenti da quelli che
ne’ presenti tempi ampliano la iuri&dUionc
loro, si è assai di sopra discorso; e come
e’ lasciavano quelle terre, che non disfacevano,
vivere con le leggi loro, eziandio quelle
che non come compagne, ma come soggette si
arrendevano loro; ed in esse non lu- sciavano
alcun segno d’ imperio per il Popolo
romano, ma Y obbligavano ad alcune condizioni,
le quali osservando, le mantenevano nello
stato e dignità loro. E conoscesi questi modi
esser stati osservati infino che gli
uscirono d’ Ita- lia, e che cominciarono a ridurre i
re- gni e gli Stati in provincie. Di questo ne
è chiarissimo essempio, che il primo
Pretore che fusse mandato da loro in alcun
luogo, fu a Capova: il quale vi mandarono,
non per loro ambizione, ma perchè e’
ne furono ricerchi dai Capo-vani; i quali,
essendo intra loro discordia, giudicarono esser
necessario avere dentro nella città un
cittadino romano che gli riordinasse e riunisse.
Da questo essempio gli Anziati mossi, e
constretti dalla medesima necessità, domandarono ancora
loro un Prefetto; e Tito Livio dice in
su questo accidente, ed in 6U questo
nuovo modo d’ imperare, quod /aro non
solttm arma j sed jura romana pollebant. Yedesi,
pertanto, quanto qu$- sto modo facilitò I’
augumento romano. Perché quelle città, massime,
che sono use a viver libere, o consuete
governarsi per suoi provinciali, con altra quiete
stanno contente sotto uno dominio che non
veggono, ancora eli’ egli avesse in sè
qualche gravezza, che sotto quello che
veggendo ogni giorno, pare loro che ogni
giorno sia rimproverata loro la servitù.
Appresso, ne seguita un al-tro bene per
il principe: che non avendo i suoi ministri
in mano i giudizi, ed i magistrati che
civilmente o criminal- mente rendono ragione in
quelle cittadi, non può nascere mai
sentenza con ca- rico o infamia del principe; e
vengono per questa via a mancare molte cagioni «li
calunnia e d’ odio verso di quello. E che
questo sia il vero, oltre agli antichi esscinpi
che se ne potrebbono addurre, ee n’ è
uno essempio fresco in Italia. Perchè, come
ciascuno sa, scudo Genova stata più volte
occupata da’ Franciosi, sempre quel re,
eccetto che ne’ presenti tempi, vi ha
mandato un governatore francioso che in suo
nome la governi. Al presente solo, non
per elezione del re, ma perchè cosi
ha ordinato la ne- cessità, ha lasciato
governarsi quella città per sè medesima, e
da un gover- natore genovese. E senza dubbio, chi
ricercasse quali di questi duoi modi rechi
più sicurtà al re dell* imperio di essa,
e più contentezza a quelli popolari, senza dubbio
approverebbe questo ultimo modo. Oltra di
questo, gli uomini tanto più ti si
gettano in grembo, quanto più tu pari
alieno dallo occupargli ; e tanto meno ti
temono per conto della loro li- bertà,
quanto più sei umano e dome- stico con
loro. Questa dimestichezza e liberalità fece i
Capovani correre a chie- dere il Pretore ai Romani
: che se dai Romani si fusse mostro
una minima voglia di mandarvelo, subito sarebbono
ingelositi, c si sarebbono discostati da loro.
Ma che bisogna ire per gli essempi a
Capova ed a Roma, avendone in Fi-lenze
ed in Toscana? Ciascuno sa quanto tempo è
che la città di Pistoia venne volontariamente
sotto V imperio fioren-tino. Ciascuno ancora sa
quanta inimi-cizia è stata intra i Fiorentini, ed
i Pi-sani, Lucchesi e Sanesi : e questa diver-sità d’animo
non è nata perchè i Pi-stoiesi non prezzino
la loro libertà come gli altri, e non
si giudichino da quanto gli altri; ma
per essersi i Fio-rentini portoti con loro
sempre come fratelli, e con gli altri come
nimici. Questo ha fatto clic i Pistoiesi
sono corsi volontari sotto F imperio loro :
gli altri hanno fatto e fanno ogni forza
per non vi pervenire. E senza dubbio, i Fioren- tini
se, o per vie di leghe o di aiuto, avessero
dimesticati e non inselvatichiti i suoi vicini, a
quest’ora sarebbero si-gnori di Toscana. Non è
per questo che io giudichi che non si
abbia ad operare l’armi e le forze; ma
si debbono riser- vare in ultimo luogo,
dove e quando gli altri modi non bastino. Cap.
XXII. — Quanto siano false molte volte le
oppinioni degli uomini nel giudicare le
cose grandi. Quanto siano false molte volle
le op-
pinioui degli uomini, 1’ hanno visto e veggono
coloro che si trovano testimoni delle loro
deliberazioni: le quali molle volte, se non
sono deliberate da uomini eccellenti, sono
contrarie ad ogni verità. E perchè gli
eccellenti uomini nelle repubbliche corrotte, nei
tempi quieti massime, e per invidia c per
altre ambiziose cagioni, sono inimicati; si va dietro
a quello che da uno comune in- ganno è
giudicato bene, o da uomini
che più presto vogliono i favori che il bene
deir universale, è messo innanzi. Il quale
inganno dipoi si scuopre nei tempi avversi,
e per necessità si rifugge a quelli che
nei tempi quieti erano come dimenticati :
come nel suo luogo in questa parte
appieno si discorrerà. Nascono an cora
certi accidenti, dove facilmente sono ingannali
gli uomini che non hanno grande Esperienza
delle cose, avendo in sè quello accidente
che nasce molti ve* risimili, atti a far
credere quello die gli uomini sopra tal
caso si persuadono. Queste cose si sono
dette per quello che Numicio pretore,
poiché i Latini furono rotti dai Romani,
persuase loro; e per
quello che pochi anni sono si credeva per
molti, quando Francesco 1 re di Francia
venne ali’ acquisto di Milano, che era
difeso dai Svizzeri. Dico per- tanto, che,
essendo morto Luigi XII, e succedendo nel
regno di Francia Fran- cesco d’ Angolem, c
desiderando resti- tuire al regno il ducato
di Milano, stato pochi anni innanzi
occupato dai Sviz- zeri mediante il conforto
di Papa Giu-lio II, desiderava aver aiuti
in Italia che gli facilitassero l’ impresa ;
cd oltre ni Veniziani, che il re
Luigi s’aveva rigua- dagnati, tentava i Fiorentini e
Papa Leone X ; parendogli la sua impresa più fucile
qualùnque volta s’ avesse riguada-gnati costoro,
per essere le genti del re di Spagna
in Lombardia, ed altre forze dello
imperadore in ^Verona. Non cede Papa Leone
alle voglie del re, ma fu persuaso da
quelli che lo consigliavano (secondo si
disse), si stesse neutrale, mostrandogli in
questo partito consistere la vittoria certa:
perchè per la Chiesa non si faceva
avere potenti in Italia nè il re nè i
Svizzeri; ma volendola ridurre nell’antica
libertà, era necessario liberarla dalla servitù
dell’ uno e dell’altro. E perchè vincere 1’
uno e 1’ altro, o di per sè o tutti
due insieme, non era possibile 'r conveniva
che superassino 1’ uno l’altro, e che la
Chiesa con gli amici suoi urlasse quello
poi che rimanesse vincitore. Ed era
impossibile trovare migliore occasione che la
presente, sen-do 1’ uno e 1’ altro in
su’ campi, ed aven-do il Papa le sue
forze ad ordine da potere rappresentarsi in
sui confini di Lombardia, e propinquo all’
uno e l’altro esercito, sotto colore di
voler guardare le cose sue, e quivi tanto
stare che ve- nissero alla giornata; la
quale ragione- volmente, sendo Y uno e V altro esercito
virtuoso, doverrebbe esser sanguinosa per tutte
due le parti, e lasciare in modo debilitato
il vincitore, che fusse al Papa facile
assaltarlo e romperlo: e cosi ver- rebbe con sua
gloria a rimanere signore di Lombardia, ed
arbitro di tutta Italia. E quanto questa
oppiuione fusse falsa, si vide per lo
evento della cosa: perchè, sendo dopo una
lunga zuffa sufi supe- rati i Svizzeri, non
che le genti del Papa c di Spagna
presumessero assaltare i vincitori, ma si
prepararono alla fuga ; la quale ancora non
sarebbe loro giovata, se non fusse stato o
la umanità o la freddezza del re, che
non cercò la seconda vittoria, ma gli
bastò fare accordo con la Chiesa. Ha
questa oppinione certe ragioni che discosto
paiono vere, ma sono al tutto aliene
dalla verità. Perchè, rade volte accade che
M vincitore perda assai suoi soldati: perchè de5
vincitori ne muore nella zuffa, non nella
fuga ; e nello ardore del combattere, quando
gli uo- mini hanno volto il viso 1*
uno all* altro, ne cade pochi, massime
perchè la dura poco tempo il più
delle volte; e quando pur durasse assai
tempo, e de’ vincitori ne morisse assai, è tanta
la riputazione che si tira dietro la
vittoria, ed il ter- rore che la porta
seco, che di lunga avanza il danno
che per la morte de'suoi soldati avesse
sopportato. Talché, se uno esercito il
quale, in su la oppinione che e*
fusse debilitato, andasse a trovarlo, si
troverebbe ingannato; se già non fusse l’esercito
tale, che d’ogni tempo, e to- nanti alla
vittoria e poi, potesse com- batterlo. In questo
caso e’ potrebbe, se- condo la sua fortuna
e virtù, vincere e perdere; ma quello clic
si fusse az- zuffato prima, ed avesse
vinto, arebbe piuttosto vantaggio dall’altro. 11
che si conosce certo per la esperienza
de’ Lati- ni e per la fallacia che Nummo
pretore prese, e per il danno che ne
riportorno quelli popoli che gli crederono:
il quale, vinto che i Romani ebbero i
Latini, gri-dava per tutto il paese di
Lazio, che allora era tempo assaltare i
Romani de- bilitati per la zuffa avevano
fatta con loro; e che solo appresso i
Romani era rimaso il nome della vittoria,
ma tutti gli altri danni avevano sopportati
come se fussino stati vinti; c che ogni
poco di forza che di nuovo gli
assaltasse, era per spacciargli. Donde quelli
popoli che gli crederono, fecero nuovo
esercito, e su- bito furono rotti, e patirono
quel danno che patiranno sempre coloro che
ter- ranno simili oppinioni. Gap. XXIIL — Quanto i
Romani nel giudicare i sudditi per alcuno acci- dente
che necessitasse tal giudizio j fuggivano la
via del mezzo.
Jam Laiio is status crai rerum * ut ncque
pacem , ncque bcllum pati possnnt. Di tutti
gli stati infelici, è infelicissimo quello d’
un principe o d’ una repub- blica clic è
ridotto in termine che non
può ricevere la pace, o sostenere la guerra
: a che si riducono quelli che sono dalie
condizioni della pace troppo offesi ; e dall’
altro canto, volendo far guerra, convien
loro o gittarsi in preda di chi gli
aiuti, o rimanere preda del nimico. Ed a
tutti questi termini, si viene per cattivi
consigli, e cattivi pala- titi, da non avere
misuralo bene le forze sue, come di
sopra si disse. Perchè quella repubblica o
quei principe che bene le misurasse, con
difficultà si cou- durrebbe nel termine si
condussono i Latini: i quali quando non dovevano accordare
con i Romani, accordarono; e quando non dovevano
rompere loro guerra, la ruppono: e così
seppono fare in modo, che la inimicizia
ed amicizia dei Romani fu loro ugualmente
danno- sa. Erano, adunque, vinti i Latini ed al tutto
afflitti, prima da Manlio Torquato, e dipoi
da Cammillo: il quale avendogli costretti a
darsi e rimettersi nelle brac- cia de’ Romani, ed
avendo messo la guar- dia per tutte le
terre di Lazio, e preso da tutte gli
staticità ; tornato in Roma, riferì al
Senato come tutto Lazio era nelle mani' del
Popolo romano. E per- chè questo giudizio è
notabile, e ineritad’ essere osservato, per
poterlo imitare
quando simili occasioni sono date a’
principi, io voglio addurre le parole di
Li- vio poste in bocca di Cammillo; le
quali fanno fede e del modo che i Romani tennono
in ampliare, e come ne’ giudizi di Stato
sempre fuggirono la via del mezzo, e si
volsono agli estremi: perchè un governo non
è altro che tenere in modo i sudditi, che
non ti possano o debbano offendere. Questo
si fu o con assicurarsene in tutto,
togliendo loro ogni via da nuocerti; o con
beneficargli in modo, che non sia
ragionevole ch’egli- no abbino a desiderare di
mutar fortuna. li che tutto si comprende, e
prima per la proposta di Cammillo, c poi
per il giudizio dato dal Senato sopra
quella. Le parole sue furono queste: Dii
im- mortale s ita vos potentcs hujus constiti fecerunl,
ut sit Lalium, an non sii , in vostra
manu posuerint. Jtaque pacctn vobiSj quod
ad Lalinos allinei, parare in perpeluum,
vcl scevicndo, vel ig na- scendo potestis. Vultis
crudeliter consti- leve in dedilos, viclosque ?
licei delere omno I. aduni. Vultis, exemplo majorum,
auqcrc rem romanam , viclos in civita- lem
accipiendo ? materia crescendi per summam gloriam
suppeditat. Certe id fìrmissimum imperium est,
quo obedien- tes gaudenl. Illorum igitur anirnos
, dum cxpcctatione , slupenl, seti pana, seu benefìcio
prceoccupari opportet. A questa proposta successe
la deliberazione del Senato: la quale fu,
secondo le parole del Consolo, che recatosi
innanzi, terra per terra, tutti quelli eh’
erano di mo- mento, o gli beneficarono o gli
spenso- no ; facendo ai beneficati esenzioni, pri
vilegi, donando loro la città, e da ogni parte
assicurandogli ; di quelli altri dis- fecero le
terre, mandaronvi colonie, ri- dussongli in
Roma, dissiparongli tal- mente che con \9
arme e con il consiglio non potevano più
nuocere. Nè usorno mai la via neutrale
in quelli, come ho detto, di momento.
Questo giudizio deb- bono i principi imitare. A
questo do- vevano accostarsi i Fiorentini, quando nel
1502 si ribellò Arezzo, e tutta la Val
di Chiana : il che se avessino fatto, nrebbero
assicurato l’ imperio loro, e fatta grandissima
la città di Firenze, e datogli quelli
campi che per vivere gli mancano. Ma
loro usarono quella via del mezzo, la
quale è perniziosissima nel giudicare gli uomini;
e parte degli Aretini ne confinarono, parte
ne con- dennarono; a tutti tolsono gli
onori e gli loro antichi gradi nella
città; e la- sciarono la città intera. E se
alcuno cit- tadino nelle deliberazioni consigliava che Arezzo
si disfacesse ; a quelli che pareva esser
più savi, dicevano come sarebbe poco onore
della repubblica disfarla, perchè parrebbe che
Firenze mancasse di forze di tenerla. Le
quali ragioni sono di quelle che paiono e
non sono vere; perchè con questa medesima
ragione non si arebbe ad ammazzare uno
parricida, uno scellerato e scandaloso, sendo vergogna
di quel principe mostrare di non aver
forze da poter frenare uno uomo solo. E
non veggono questi tali che hanno simili
oppinioni, come gii uomini particolarmente, ed
una città tutta in-sieme pecca talvolta
contra ad uno Stato, che per esempio
agli altri, per sicurtà di sé, non ha
altro rimedio un principe che spengerla. E
l’onore con-siste nel sapere e potere castigarla
; non nel potere con mille pericoli tenerla: perchè
quel principe che non castiga chi erra,
in modo che non possa più errare, è
tenuto o ignorante o vile. Questo giudizio che i
Romani dettero, quanto sia necessario si
conferma ancora per la sentenza che dettero
de’ Privernati.
Dove si debbe, per ii testo di
Livio, no-tare due cose: 1’ una, quello
che di so-pra si dice, che i sudditi
si debbono o beneficare o spengere: Poltra,
quanto la generosità dell’ animo, quanto il
par- lare il vero giovi, quando egli è detto uel
conspetto degli uomini prudenti. Era ragunato
ii Senato romano per giudicare de’ Privernati, i
quali sendosi ribellati, erano di poi per
forza ritornati sotto la ubbidienza romana.
Erano mandati dal popolo di Priverno molti
cittadini per impetrare perdono dal Senato; ed essendo
venuti al conspetto di quello, fu detto
ad un di loro da un de’ Sena- tori,
quam pcenam merilos Privernales censeret. Al
quale Privernate rispose : E am y quam
merentur qui se libevtale dignos ccnsent.
Al quale il Consolo re- plicò : Quid si
pcenam remiltimus vobis, qualcm nos pacati i
vobiscum habituros speremus ? A che quello
rispose: Si bo~m tm dederitis , et fidelem
et perpetuarli ; si malam , haud diuturna
m. Donde la più savia parte del
Senato, ancora che molli se n’ alterassino,
disse: se audi •visse vocem el liberi
et viri ; nec credi posse Uhm popolum , aul
hominem, de nique in ea condilione cujus
eum pestìi -teat, diutius quam nccesse sii,
mansu rum. ibi pacem esse fidam , ubi
volun-tarii pacati svit , ncque eo loco ubi
scr-vitutem esse velini , / idem sperandovi esse.
Ed in su queste parole, deliberorno che i
Privcrnati fussero ciltadini roma- ni, e de’
privilegi della civililà gli ono- rarono, dicendo
: eos demum qui nihil prceterquam de
liberiate cogitant,dignos esse , qui Romani fiant.
Tanto piacque agli animi generosi questa
vera e ge- nerosa risposta; perchè ogni altra ri-
sposta sarebbe stata bugiarda e vile. E coloro
che credono degli uomini altri- menti, massime
di quelli che sono usi o ad essere o a
parere loro essere li- beri, se n’ingannano; e
sotto queslo inganno pigliano partiti non
buoni per sé, e da non satisfare a
loro. Di che nascono le spesse ribellioni e
le rovine degli Stati. Ma per tornare
al discorso nostro, conchiudo, e per questo e per
quello giudizio dato dai Latini: quando si
ha a giudicare cittadi potenti, e che sono
use a vivere libere, conviene o * spegnerle o
carezzarle ; altrimenti, ogni giudizio è vano. E
debbesi fuggir al tutto la via del
mezzo, la quale è pcr-niziosn, come la
fu a’ Sanniti quando avevano rinchiuso i Romani
alle forche Caudine; quando non volleno
seguire il parere di quel vecchio, che
consigliò che i Romani si lasciassero andare
ono-rati, o che s’ ammazzassero tutti ; ma pigliando
una via di mezzo disarman- dogli c mettendogli
sotto il giogo, gli lasciarono andare pieni
d’ ignominia e di sdegno. Talché poco dipoi
conobbero con lor danno la sentenza di
quel vec- chio essere stata utile, e la
loro dili-berazione dannosa; come nel suo luogo più
appieno si discorrerà.. XXIV. — Le fortezze
generalmente sono molto più dannose che utili.
Parrà forse a questi savi de* nostri tempi
cosa non bene considerata, che i Romani
nel volere assicurarsi dei popoli di Lazio
e della città di Priverno, non pensassino
di edificarvi qualche fortezza, la qual
fusse un freno a tenergli in fe- de; sendo,
massime, un detto in Firenze, allegato da*
nostri savi, che Pisa e P al- tre simili
città si debbono tenere con le fortezze. E
veramente, se i Romani fus- sino stati
fatti come loro, egli arebbero pensato di
edificarle; ma perchè egli erano d* altra
virtù, d’ altro giudizio, d’ altra potenza,
e’ non le edificarono. E mentre che Roma
visse libera, e che la seguì gli ordini
suoi e le sue vir- tuose constiluzioni, mai
n’edificò per tenere o città o provincie; ma
salvò bene alcune delle edificate. Donde ve- duto
il modo del procedere de’ Romani
in questa parte, e quello eie’ prìncipi de’
nostri tempi, mi pare da mettere in considerazione,
se gli è bene edificare fortezze, se le
fanno danno o utile a quello che I’
edifica. Dehbesi, adunque, considerare come le
fortezze si fanno o per difendersi
da’nimici, o per difen- dersi da’ soggetti. Nel
primo caso le non sono necessarie; nel
secondo dan- nose. E cominciando a render ragione perchè
nel secondo ^caso le siano dan- nose, dico
che quel principe o quella repubblica che
ha paura de’ suoi sud- diti e delta
ribellione loro, prima con- viene che tal
paura nasca da odio che abbiano i suoi
sudditi seco; l’odio, da’ mali suoi portamenti ;
i mali porta-menti nascono o da poter credere
te-nergli con forza, o da poca prudenza di
chi gli governa : ed una delle cose
clic fa credere potergli forzare, è l’ avere loro
addosso le fortezze; perchè i mali trattamenti,
clic sono cagione dell’ odio, nascono in
buona parte per avere quel principe, o
quella repubblica, le fortez- ze: le quali,
quando sia vero questo, di gran lunga
sono più nocive, che utili. Perchè in
prima, come è detto, le ti fanno essere
più audace e più violento nei sudditi; dipoi,
non ci è quella si- curtà che tu ti
persuadi : perchè tutte le forze, tutte le
violenze che si usano per tenere un
popolo, sono nulla eccetto che due; o che
tu abbia sempre da met- tere in campagna*
un buono esercito, come avevano i Romani; o
che gli dis- sipi, spenga, disordini, disgiunga,
in modo che non possino convenire ad of- fenderti.
Perchè se tu gP impoverisci, spoliatis arma
supersunt : se tu gli di- sarmi, furor arma
ministrai: se tu ammazzi i capi, e gli
altri segui d’ ingiu- riare, rinascono i capi,
come quelli det- P idra: se tu fai le
fortezze, le sono utili ne’ tempi di pace,
perchè ti danno più animo a far loro
male; ma ne’ tempi di guerra sono
inutilissime, perchè le so- no assaltate dal
nimico e da’ sudditi, nè è possibile che
le faccino resistenza ed all’uno ed
all’altro. E se inai furono disutili, sono
ne’ tempi nostri rispetto alle artiglierie ;
per il furore delle quali i luoghi piccoli,
e dove altri non si possa ritirare con
li ripari, è impossibile di- fendere, come di
sopra discorremmo. Io voglio questa materia
disputarla più tritamente. 0 tu, principe, vuoi
con que- ste fortezze tenere in freno il
popolo delia tua città; o tu, principe, o
tu, re- pubblica, vuoi frenare una città
occu-pata per guerra. Io ini voglio voltare al
principe, e gli dico: che tal fortezza per
tenere in freno i suoi cittadini non può
essere più inutile di quello eh’ ella è,
per le cagioni dette di sopra ; perchè la
ti fa più pronto c men rispettivo ad oppressateli
; e quella oppressione gli fa si esposti
alla tua roviua, e gli ac-cende in modo,
che quella fortezza che ne è cagione, non
ti può poi difendere. Tanto che un
principe savio e buono, per mantenersi buono,
per non dare cagione nè ardire a’ figliuoli
di diven-tare tristi, mai non farà
fortezza, ac-ciocché quelli non in su le
fortezze, ina in su la benivolenza degli
uomini si fondino. E se il conte Francesco
Sforza, diventato duca di Milano, fu riputato savio,
e nondimeno fece in Milano una fortezza ;
dico che iti questo caso ei non fu
savio, e V effetto ha dimostro, come tal
fortezza fu a danno, e non a sicurtà de’
suoi eredi. Perchè giudicando me-diante quella
viver sicuri, e potere of-fendere gli cittadini e
sudditi loro, non perdonarono ad alcuna
generazione di violenza; talché diventati sopra
modo odiosi, perderono quello Stato come prima
il nimico gli assaltò: nè quella fortezza
gli difese, nè fece loro nella guerra
utile alcuno, e nella pace avea loro fatto
danno assai. Perchè se non avessiuo avuto
quella, e se per poca prudenza avessino
maneggiati agramente i loro cittadini, arebbero
scoperto il pe- ricolo più presto, e sarebbonsene
riti- rati; ed orebbero poi potuto più
ani-mosamente resistere all’ impeto franciosoco’
sudditi amici senza fortezza, die con quelli
inimici con la fortezza: le quali non
ti giovano in alcuna parte; perchè, o le
si perdono per frali de di chi le guarda,
o per violenza di chi I’ assalta, o per
fame. E se tu vuoi che le ti gio- vino,
e ti aiutino a ricuperare uno Stato perduto,
dove ti sia solo rimaso la for- tezza ;
ti conviene avere uno esercito, con il
quale tu possa assaltare colui che t’ha
cacciato: e quando tu abbia questo esercito,
tu riavesti lo Stato in ogni mo- do,
eziandio che la fortezza non \i fusse
; c tanto più facilmente, quanto gli uomini ti
fussiuo più amici che non ti erano avendogli
mal trattati per l’orgoglio della fortezza. E
per isperienzn s’ è vi- sto, come questa
fortezza di Milano, nè agli Sforzeschi nè
a’ Franciosi, ne’ tempi avversi dell’ uno e
dell’ altro, non ha fatto a alcunb di
loro utile alcuno; anzi a tutti ha recato
danni e rovine assai. non avendo pensato
mediante quella a più onesto modo di
tenere quello Stato. Guido Ubaldo duca di
Urbiuo, figliuolo di Federigo, che fu ne’
suoi tempi tanto stimato capitano, sendo
cacciato da Ce* sarc Borgia, figliuolo di
papa Alessan- dro VI, dello stato; come
dipoi, per uno accidente nato, vi ritornò,
fece rovinare tutte le fortezze clic erano
in quella pro- vincia, giudicandole dannose. Perchè, sendo
quello amato dagli uomini, per rispetto di
loro non le voleva ; e per conto de’
nimici, vedeva non le poter di- fendere,
avendo quelle bisogno d’ uno esercito in
campagna, che le difendesse; talché si
volse a rovinarle. Papa Iulio, cacciati i
Bentivogli di Bologna, fece in quella città
una fortezza ; e dipoi faceva assassinare quel
popolo da un suo go- vernatore : talché
quel popolo si ribellò, e subito perde la
fortezza ; e cosi non gli giovò la fortezza
e 1* offese, intanto clic portandosi altrimenti,
gli arebbe giovato. Niccolò da Castello,
padre de’ Yi teili, tornato nella sua
patria donile era esule, subito disfece due
fortezze vi aveva edificale papa Sisto IV, giudican-
do, non la fortezza, ma la benivolenza del
popolo l’avesse a tenere in quello stato.
Ma di tutti gli altri essempi il più
fresco, il più notabile in ogni parte, ed
atto a mostrare la inutilità dello edi- ficarle e
1’ utilità del disfarle, è quello di
Genova, seguito ne’ prossimi tempi. Ciascuno
sa come, nel 1507, Genova si ribellò
da Luigi XII re di Francia, il quale
venne personalmente e con tutte le forze
sue a racquietarla ; e ricuperata che 1’ ebbe,
fece una fortezza, fortissima di tutte l’
altre delle quali al presente si avesse
notizia: perchè era per silo e per
ogni altra circonstanza inespugna-) bile, posta
in su una punta di colle che si
distende nel mare, chiamato dai Ge- novesi
Codefa ; e per questo batteva tutto il
porto, e gran parte della terra di Ge- nova.
Occorse poi, nel 1512, che sendo cacciate
le genti franciose d’ Italia,. Gc- novo,
nonostante la fortezza, si ribellò; e prese
lo stalo di quella Ottaviano Fre-
*goso, il quale con ogni industria, in termine
di sedici mesi, per fame la espugnò. E
ciascuno credeva e da molti» n* era
consigliato, che la conservasse per suo
rifugio in ogni accidente: ma esso, come
prudentissimo, conoscendo che non le fortezze,
ma la volontà degli uomini mantenevano i
principi in stato, la ro-vinò. E cosi,
senza fondare lo stato suo in su la
fortezza, ma in su la virtù e prudenza
sua, lo ha tenuto e tiene. E dove a
variare lo stato di Genova sole- vano
bastare mille fanti, gli avversari suoi l’
hanno assaltato con diecimila, e non T
hanno potuto offendere. Vedesi adunque per
questo, come il disfare la fortezza non
ha offeso Ottaviano, ed il farla non
difese il re di Francia. Per- chè, quando
e’ potette venire in Italia con l’
esercito, e’ potette ricuperare Ge- nova, non
vi avendo fortezza; ma quando e’ non potette
venire in Italia con l’cser-cito, e*
non potette tenere Genova, aven-dovi la
fortezza. Fu, adunque, di spesa al re
di farla, e vergognoso il perderla; a Ottaviano
glorioso il racquistarla, ed utile il
rovinarla. Ma vegnamo alle re- pubbliche che
fanno le fortezze noli nella patria, ma
nelle terre che le acqui- stano. Ed a
mostrare questa fallacia, quando e’ non
bastasse V essempio detto di Francia e di
Genova, voglio mi basti Firenze e Pisa :
dove i Fiorentini fecero le fortezze per
tenere quella città ; e non conobbero che
una città stata sempre inimica del nome
fiorentino, vissuta li- bera, e che ha alla
ribellione per rifu- gio la libertà, era
necessario, volendola tenere, osservare il modo
romano; o farsela compagna, o disfarla. Perchè la
virtù delle fortezze si vidde nella venula del
re Carlo; al quale si dettono o per poca
fede di chi le guardava, o per ti- more
di maggior male: dove, se le non fussino
state, i Fiorentini non arcbbero fondato 11
potere tenere Pisa sopra quelle, e quel
re non arebbe potuto per quella via
privare i Fiorentini di quella città; e gli
modi con li quali si fussi mantenuta
fino a quel tempo, sarebbero stati per
avventura sufficienti a conser- varla, e senza dubbio
non arebbero fatto più cattiva pruova che
le fortezze. Con- chiudo dunque, che per
tenere la patria propria, la fortezza è
dannosa ; per te- nere le terre che si
acquistano, le for- tezze sono inutili: e voglio
mi basti I’ autorità de’ Romani, i quali
nelle terre che volevano tenere con
violenza, smu- ravano, e non muravano. E chi contra questa
oppinione n’allegassi negli anti- chi tempi
Taranto, e ne’ moderni Bre- scia, i quali luoghi
mediante le fortezze furono ricuperati dalla
ribellione dei sudditi ; rispondo che alla
ricuperazione di Taranto, in capo d’ uno
anno, fu mandato Fabio Massimo con tutto lo
esercito, il quale sarebbe stato alto a ricuperarlo
eziandio se non vi fusse stata la
fortezza; e se Fabio usò quella via, quando
la non vi fusse stata dareb- be usata
un’altra, che arebbe fatto il medesimo
effetto. Ed io non so di che utilità
sia una fortezza che, a renderti la terra,
abbia bisogno, per la ricupe-razione d’
essa d* uno esercito consolare, e d’ un
Fabio Massimo per capitano. E che i Romani
1* avessino ripresa in ogni modo, si
vide per V essempio di Capova ; dove
non era fortezza, e per virtù dello
esercito la riacquistarono. Ma vegliamo a Brescia.
Dico, come rade volte occorre quello che è
occorso in quella ribellione, clic la
fortezza che rimane nelle forze tue, sendo
ribellata la terra, abbia uno esercito
grosso e propinquo, coiti’ era quel de’
Franciosi : perchè, essendo mon- signor di Fois,
capitano del re, con l’esercito a Bologna,
intesa la perdita di Brescia, senza
differire ne andò a quella volta, ed
in tre giorni arrivato a Brescia, per la
fortezza riebbe la terra. Ebbe, pertanto,
ancora la fortezza di Brescia, a volere
clic la giovasse, bi-sogno d’ un monsignor
di Fois, c d’ un esercito francioso che
in tre dì la soc- corresse. Sì clic F
esscmpio di questo, all’ incontro degli
essempi contrari, non basta ; perchè assai
fortezze sono state, nelle guerre de’
nostri tempi, prese e riprese con la
mcdesimu fortuna che si è ripresa e presa
la campagna, non so- lamente in Lombardia,
ma in Romagna, nel regno di Napoli, c
per tutte le parti d’ Italia. Ma, quanto
allo edificar for- tezze per difendersi da’ n
inaici di fuora, dico che le non sono
necessarie a quelli popoli nè a quelli regni
che hanno buoni eserciti; ed a quelli che
non hanno buoni eserciti, sono inutili:
perchè i buoni eserciti senza le fortezze
sono sufficienti a difendersi ; le fortezze senza
i buoni eserciti non ti possono difendere. E
que-sto si vede per isperienza di quelli
che sono stati e nei governi e nell* altre cose
tenuti eccellenti; comesi vede dei Romani e
degli Spartani: che se i Ro- mani non
edificavano fortezze, gli Spar-tani non
solamente si astenevano da quelle, ma non
permettevano d’ aver mura alla loro città;
perchè volevano che la virtù dell* uomo
particolare, non .altro difensivo, gli
difendesse. Dondechè, essendo domandato uno
Spartano da uno Ateniese, se le mura
d’ Atene gli parevano belle, gli rispose:
Si, se le fussino abitate da donne.
Quel principe, adunque, che abbi buoni
eserciti, quan- do in sulle marine alla
fronte dello Stato suo abbia qualche
fortezza che possa qualche dì sostenere lo
inimico infino che sia a ordine, sarebbe qualche volta
cosa utile, ma la non è necessaria. Ma
quando il principe non ha buono esercito,
avere le fortezze per il suo Stato o
alle frontiere, gli sono o dan- nose o inutili :
dannose, perchè facil- mente le perde, e perdute
gli fanno guerra ; o se pur le fussino
sì forti che M nimico non le potesse
occupare, sono lasciate indietro dallo esercito
nimico, evennono ad essere di nessuno
frutto:
perchè i buoni eserciti, quando non hanno gagliardissimo
riscontro, entrano neipaesi nitnici senza
rispetto di città o di fortezza che si
lascino indietro; come si vede nell*
antiche istorie, e come si vede fece
Francesco Maria, il quale ne’ prossimi tempi
per assaltare Urbino si lasciò indietro
dieci città ni miche, senza alcuno
rispetto. Quel principe, adunque, che può
fare buono esercito, può fare senza
edificare fortezza; quello che non ha V
esercito buono, non debbe edificare. Debbe
bene afforzare la città dove abita, e
tenerla munita, e ben di- sposti i cittadini di
quella, per poter sostenere tanto un impelo
nimico, o che accordo, o che aiuto esterno
lo liberi. Tutti gli altri disegni sono
di spesa ne’ tempi di pace, ed
inutili ne’ tempi di guerra. E così, chi
considererà tutto quello ho detto, conoscerà i
Romani, come savi in ogni altro loro
ordine, cosi furono prudenti in questo giudizio dei
Latini e de’ Privernati ; dove, non pensando a
fortezze, con più virtuosi modi e più savi
se ne assicurarono. Gap. XXV. — Che lo
assaltare una città disunita, per occuparla
mediante la sua disunione, è partito contrario. Era
tanta disunione nella Repubblica romana intra
la Plebe e la Nobiltà, clic i Veienti
insieme con gli Etrusci, me- diante tale
disunione, pensarono potere estinguere il nome
romano. Ed avendo fatto esercito, e corso
sopra i campi di Roma, mandò il Senato
loro contra Gii. Manlio e 2M. Fabio; i
quali avendo con- dotto il loro esercito
propinquo allo eser- cito de’ Veienti, non
cessavano i Veien- ti, e con assalti e con
obbrobri, offendere e vituperare il nome romano:
e fu tanta la loro temerità ed insolenza,
che i Ro- mani di disuniti diventarono uniti; e venendo
alla zuffa, gli ruppono e vin- sono. Vedesi
pertanto, quanto gli uomini s’ ingannano, come
di sopra discorrem- mo, nel pigliare
de’ parliti; c come molte volte credono
guadagnare una cosa, e la perdono.
Credeltono i Veienti assal- tando i Romani disuniti,
vincergli; c quello assalto fu cagione
della unione di quelli, e della rovina
loro. Perchè la cagione della disunione
delle repubbli- che il più delle volte è P
ozio e la pace; la cagione della unione è
la paura e la guerra. E però, se i Veienti
fussiuo stati savi, eglino arebbono, quanto
più disu- nita vedevano Roma, tanto più tenuta da
loro la guerra discosto, e con Parti della
pace cerco d’oppressargli. Il modo è cercare
di diventare confidente di quella città
ciré disunita; ed infino che non vengono
alP arme, come arbitro, maneg- giarsi intra
le parli. Venendo alParme, dare lenti
favori alla parte più debole; si per
tenergli più in su la guerra, e fargli
consumare; si perchè le assai forze non
gli facessero tutti dubitare che tu volessi
opprimergli, e diventar loro principe. E quando
questa parte è go-vernata bene, interverrà
quasi sempre che Y ara quel fine che
tu hai presup- posto. La città di Pistoia,
come in altro discorso e ad altro proposito
dissi, non venne alla Repubblica di Firenze con
altra arte che con questa; perchè, sendo
quella divisa, c favorendo i Fio- rentini or
Furia parte or l’altra, senza carico dell’
una e dell’ altra, la condus- sono in
termine, che, stracca di quel suo vivere
tumultuoso, venne sponta- neamente a gittarsi nelle
braccia di Fi- renze. La città di Siena
non ha mai mu- tato stato col favore de’
Fiorentini,' se non quando i favori sono stati
deboli e pochi. Perchè, quando e’ sono
stali assai e gagliardi, hanno fatto quella
città unita alla difesa di quello stato
che regge. Io voglio aggiungere ai
soprascritti un al- tro essempio. Filippo
Visconti, duca di Milano, più volte mosse
guerra ai Fio- rentini, fondatosi sopra le
disunioni loro, e sempre ne rimase perdente;
talché gli ebbe a dire, dolendosi delle sue
imprese, come le pazzie de’ Fiorentini gli avevano
fatto spendere inutilmente due milioni d’
oro. Restarono, adunque, co- me di sopra si
dice, ingannati i Veienli e gli Toscani da
questa oppinione, e fu- rono alfine in una
giornata superati dai Romani. IT così per
Io avvenire ne re- sterà ingannato qualunque
per simile via e per simile cagione crederà
oppres- sore un popolo. Cai». XXVI. — Il
vilipendio e V impro-perio genera odio conira a
coloro che r usano j senza alcuna loro utilità. lo
eredo che sta una delle grandi pru-denze
che usino gli uomini, astenersi o dal
minacciare, o dallo ingiuriare alcuno con le
parole: perchè 1’ una cosa e l’al- tra non
tolgono forze al nimico; ma l’una lo
fa più cauto; l’altra gli fa avere
maggiore odio contra di te, e pensare
con maggiore industria di of-fenderti. Yedesi
questo per lo essempio de* Veienti, de’
quali nel capitolo supe-riore si è discorso; i
quali alla ingiu-ria della guerra aggiunsono,
contra ai Romani, l’obbrobrio delle parole: dal quale
ogni capitano prudente debbe fare astenere i
suoi soldati ; perchè le son cose che
infiammano ed accendono il nimico alla
vendetta, ed in uessuna parte lo
impediscono, come è detto, alla offesa; tanto
che le sono tutte arme che ven- gono
contra a te. Di che ne seguì già uno
essempio notabile in Asia: dove Gabade,
capitano de’ Persi, essendo stato a campo ad
Amida più tempo, ed avendo diliberato,
stracco dal tedio della ossi- dione,
partirsi; levandosi già col campo, quelli
della terra venuti tutti in su le mura,
insuperbiti della vittoria, non perdonarono a
nessuna qualità d’ ingiu- ria, vituperando, accusando,
rimprove-rando la viltà e la poltroneria del
ni-mico. Da che Gabade irritato, mutò consiglio;
e ritornato alla ossidione, tan-ta fu la
indegnazione della ingiuria, che in pochi
giorni gli prese e saccheggiò. E questo medesimo
intervenne a’Veienti: a’ quali, coni’ è detto,
non bastando il far guerra a’ Romani,
ancora con le pa- role gli vituperarono; ed
andando in- iìno in su lo steccato
del campo a dir loro ingiuria, gl’ irritarono
molto più con le parole che con P
arme : e quelli soldati che prima combattevano
mal vo- lentieri, costrinsero i Consoli ad appic- care
la zuffa; talché i Veienti portarono la
pena, come gli antedetti, della con-tumacia
loro. Hanno adunque i buoni principi di
esercito, ed i buoni governa-tori di repubblica,
a far ogni opportuno
l imedio, che queste ingiurie e rimproveri non
si usino o nella città o nello eser- cito
suo, nè infra loro, nè contra il ni-mico:
perchè usati contra al nimico, ne nascono
gli inconvenienti soprascritti; infra loro,
farebbono peggio non vi si riparando, come
vi hanno sempre gli uomini prudenti
riparato. Avendo le le-gioni romane state
lasciate a Capova congiurato conil a a’ Capovani,
come nel
suo luogo si narrerà; ed essendone di questa
congiura nata sedizione, la quale fu poi
da Valerio Corvino quietata ; in- tra all*
altre conslituzioni che nella con- venzione si
fecero, ordinarono pene gra-vissime a coloro che
improverassino mai ad alcun di quelli
soldati tale sedizione. Tiberio Gracco, fatto
nella guerra di An- nibaie capitano sopra
certo numero di servi che i Romani, per
carestia d’uo- mini, avevano armati, ordinò,
intra le prime cose, pena capitale a qualunque rimproverasse
la servitù di alcuno di loro. Tanto
fu stimato dai Romani, co- me di sopra
s’è detto, cosa dannosa il vilipendere gli
uomini, ed il rimprove- rare loro alcuna
vergogna; perchè non è cosa che accenda
tanto gli animi loro, nè generi maggiore
sdegno, o da vero o da beffe che si
dica : ISam facetice aspcrcCj quando nimium
ex vero traxe rc, acretn sui memorianx
relinquunt. Cap. XXVII. — Ai principi e repubbli-che
prudenti debbe bastare vincere;perchè il
più delle volle j quando non basti j si perde. Lo
usare parole contra al nimico
pocoonorevoli, nasce il più delle volte
dauna insolenza che ti dà o la
vittoria ola falsa speranza della vittoria;
la qualefalsa speranza fa gli uomini ‘non
sola-mente errare nel dire, ma ancora nellooperare.
Perchè questa speranza, quandola entra ne’
petti degli uomini, fa loropassare il
segno, e perdere il più dellevolte quella
occasione d’ avere un benecerto, sperando
d’ avere un meglio in-certo. E perchè
questo è un terminedie merita considerazione,
ingannando-cisi dentro gli uomini molto
spesso, econ danno dello stato loro; e’
mi pareda dimostrarlo particolarmente con
es-sempi antichi e moderni, non si
potendocon le ragioni così distintamente
dimo-Digitized by Googlestrare. Annibaie, poi
ch’egli ebbe rottii Romani a Canne, mandò
suoi oratoria Cartagine a significare la
vittoria, echiedere sussidi. Disputossi nel
senatodi quello s’ avesse a fare.
ConsigliavaAnnone, un vecchio e prudente
cittadinocartaginese, che si usasse questa
vitto-ria saviamente in far pace coi
Romani,potendola avere con condizioni
onesteavendo vinto; e non s’aspettasse d’averlaa
fare dopo la perdita: perchè la in-tenzione
de’ Cartaginesi doveva essere,mostrare ai
Romani come e’ bastavan
a combattergli ; ed avendosene avutovittoria, non
si cercasse di perderla perla speranza d’
una maggiore. Non fupreso questo partito;
ma fu bene poidal senato cartaginese
conosciuto savio,quando 1’ occasione fu
perduta. AvendoAlessandro Magno già preso
tutto l’orien-te, la repubblica di Tiro,
nobile in quellitempi e potente per avere
la loro cittàin acqua come i Veniziani,
veduta lagrandezza d’ Alessandro, gli
mandaronooratori a dirgli, come volevano
esseresuoi buoni servitori e dargli quella
ub-bidienza voleva, ma che non erano giàper
accettare nè lui nè le sue genti
nellaterra : donde sdegnato Alessandro cheuna
città gli volesse chiudere quelleporte che
tutto il mondo gli aveva aper-te, gli
ributtò, e non accettate le condi-zioni loro,
vi mandò a campo. Era laterra in
acqua, e benissimo di vettova-glie e d’ altre
munizioni necessarie alladifesa munita: tanto
che Alessandro do-po quattro mesi s*
avvide, che una cittàgli toglieva quel
tempo alla sua gloriache non gli
avevano tolti molti altriacquisti ; e diliberò
di tentare 1* accordo,e concedere loro
quello che per loromedesimi avevano
domandato. Ma quellidi Tiro insuperbiti,
non solamente nonvolsero accettare l*
accordo, ina ammaz-zorono chi venne a
praticarlo. Di cheAlessandro sdegnato, con
tanta forza simise alla espugnazione, che
la prese edisfece, ed ammazzò e fece
schiavi gliuomini. Venne, nel 4512, uno
esercitospagnuolo in su 'I dominio fiorentinoper
rimettere i Medici in Firenze, e ta-glieggiare la
città, condotti da’ cittadinid’ entro, i quali
avevano dato loro spranza, che subito
fussero in su ’1 domi-nio fiorentino,
piglierebbono V arme inloro favore; ed
essendo entrati nel piano,e non si
scoprendo alcuno, ed avendocarestia di
vettovaglie, tentarono V ac-cordo: di che
insuperbito il popolo dFirenze, non lo
accettò-; donde ne nacquela perdita di
Prato, e la rovina di quelloStato. Non
possono, pertanto, i principiche sono assaltati
far il maggiore errore,quando 1* assalto è
fatto da uomini digran lunga più
potenti di loro, che ri-cusare ogni
accordo, massime quandogli è offerto: perchè
non sarà mai of-ferto si basso, che
non vi sia dentro inqualche parte il
bene essere di coluiche io accetta, e
vi sarà parte della suavittori?. Perchè
e’ doveva bastare al po-polo di Tiro,
clic Alessandro accettasse quelle condizioni
che egli aveva prima rifiutate; ed era
assai vittoria la loro, quando con Y armi
in mano avevano fatto condiscendere un
tanto uomo alla voglia loro. Doveva bastare
ancora al popolo fiorentino, e gli era
assai vittoria, se lo esercito spagnuolo
cedeva a qual- cuna delle voglie di quello, e
le sue non adempieva tutte: perchè la
intenzione di quello esercito era mutare lo
stato in Firenze, e levarlo dalla devozione di Francia,
e trarre da lui danari. Quando di tre
cose e’ ne avesse avute due, che son
1’ ultime; ed al popolo ne fusse re* stata
una, che era la conservazione dello stato
suo; ci aveva dentro ciascuno qual- che onore
e qualche satisfazione, nè si doveva il
popolo curare delle due cose, rimanendo
vivo ; nè doveva, quando bene egli avesse
veduta maggiore vittoria, e quasi certa,
voler mettere quella in al- cuna parte a
discrezione della fortuna, andandone Y ultima
posta sua: la quale qualunque prudente mai
arrischierà se non necessitato. Annibaie partito
iT Ita-lia, dove era stato sedici anni
glorioso, richiamato da’ suoi Cartaginesi a soc- correre
la patria, trovò rotto Asdrubale e Siface;
trovò perduto il regno di Nu- midia;
ristretta Cartagine intra i termini delle sue
mura, alla quale non restava altro rifugio,
che esso e T esercito suo : e conoscendo
come quella era 1’ ultima posta della
sua patria, non volle prima metterla a
rischio, di’ egli ebbe ten- tato ogni altro
rimedio; e non si ver- gognò di domandare
la pace, giudicando se alcuno rimedio aveva
la sua patria, era in quella, e non
nella guerra: quale sendogli poi negata,
non volle mancare, dovendo perdere, di
combattere; giudi- cando potere pur vincere ; o
perdendo, perdere gloriosamente. E se Annibaie, il
quale era tanto virtuoso ed aveva il suo
esercito intero, cercò prima la pace che
la zuffa, quando ci vide che per- dendo
quella, la sua patria diveniva ser-va ; che
debbe fare un altro di manco virtù e
di manco isperienza di lui? Ma gli
uomini fanno questo errore: che non sanno
porre termini alle speranze loro, ed in
su quelle fondandosi, senza mi*surarsi
altrimenti, rovinano.Cap. XXVIII. — Quanto sia
pericoloso
ad una repubblica o ad uno principe non
vendicare una ingiuria falla con-tro al
pubblico o conira al privalo. Quello che
facciano fare agli uomini gli sdegni,
facilmente si conosce per quello che
avvenne ai Romani, quando e’ mandarono i
tre Fabi oratori ai Fran- ciosi, che erano
venuti ad assaltare la Toscana, ed in particolare
Chiusi. Per- chè, avendo mandato il popolo
di Chiusi per aiuto a Roma, i Romani mandarono ambasciatori
a’ Franciosi, che in nome del Popolo
romano significassero a quelli, si astenessino di
far guerra ai Toscani. I quali oratori,
sendo in su M luogo, e più atti a
fare che a dire, venendo i Franciosi c i
Toscani alla zuffa, si mi- sero intra i
primi a combattere contra a quelli : onde ne
nacque che essendo conosciuti da loro,
tutto lo sdegno che avevano contra a’
Toscani, volsero con- tea ai Romani. 11
quale sdegno diventò maggiore, perchè, avendo i
Franciosi per loro ambasciadori fatto querela con
il Senato romano di tale ingiuria, e do- mandato
che in satisfazione del danno fussino dati
loro i soprascritti Fabi; non solamente non
furono consegnati loro, o in altro modo
castigati; ma ve- nendo i comizi, furono fatti
Tribuni con potestà eousolare. Talché, veggendo i
Franciosi quelli onorati che dovevano esser
puniti, ripresono tutto esser fatto in loro
dispregio ed ignominia; ed ac- cesi d’ ira
e di sdegno, vennero ad as- saltare Roma, e
quella presero, eccetto il Campidoglio. La
quale rovina nacque a* Romani solo per
la inosservanza della
giustizia; perchè avendo peccato i loro ambasciatori
conira jus gcntiunij e do-
vendo esser gastigati, furono onorati. Però è
da considerare quanto ogni re- pubblica ed
ogni principe debbe tenere conto di fare
simile ingiuria, non sola- mente contra ad
una universalità, ma ancora contra ad uno
particolare. Per- chè, se uno uomo è offeso
grandemente o dal pubblico o dal privato, e non
sia
vendicato secondo la satisfazione sua; se
e’ vive in una repubblica, cerca an- cora
con la rovina di quella vendicarsi ; se
e’ vive sotto un principe, ed abbia in
sè alcuna generosità, non si acquieta mai,
in fino che in qualunque modo si vendichi
contra di lui, ancora che egli vi
vedesse dentro il suo proprio male. Per
verificare questo, non ci è il più bello
nè il più vero essemrpio che quello di
Filippo di Macedonia, padre di Ales- sandro.
Aveva costui in la sua corte Pausania,
giovine bello e nobile, del quale era
innamorato Aitalo; uno de' pri- mi uomini che
fusse presso a Filippo; cd a\endolo più
volte ricerco che dovesse consentirgli, e
trovandolo alieno da si- mili cose, deliberò
di avere con inganno e per forza quello
che per altro verso vedeva non potere
avere. E fatto un so- lenne convito, nel
quale Pausania e molti altri nobili baroni
convennero, fece, poi- ché ciascuno fu pieno
di vivande e di vino, prendere Pausania ; e
condottolo allo stretto, non solamente per forza sfogò
la sua libidine, ma ancora, per maggiore
ignominia, lo fece da molti degli altri
in simile modo vituperare. Della quale
ingiuria Pausania si dolse più volte con
Filippo ; il quale, avendolo tenuto un
tempo in speranza di vendi- carlo, non
solamente non lo vendicò, ma prepose Attalo
al governo d’ una provincia di Grecia.
Donde Pausania, vedendo il suo nimico
onorato e non gastigato, volse tutto lo
sdegno suo non contra a quello che gli
aveva fatto in-giuria, ma conira a Filippo
che non P aveva vendicato: ed una mattina
so- lenne, in su le nozze della figliuola
di Filippo maritata ad Alessandro di Epiro, andando
Filippo al tempio a celebrarle, in mezzo di
due Alessandri, genero e figliuolo, l’ammazzò.
Il quale essempio è molto simile a quello
de’ Romani, no- tabile a qualunque governa: che
mai non debba tanto poco stimare un uomo, che
e’ creda, aggiungendo ingiuria sopra ingiuria,
che colui che è ingiuriato non pensi di
vendicarsi con ogni .suo peri-colo e particolar
danno. Cap. XXIX. — La fortuna accieca gli animi
degli uominij quando la non imolc che
quelli si opponghino a* di-segni suoi. Se
e’ si considerrà bene come proce-dono le
cose umane, si vedrà molte volte nascere
cose e venire accidenti a’ quali i cieli al
tutto non hanno voluto che si provvegga. E
quando questo eh’ io dico intervenne a
Roma, «love era tanta virtù, tanta
religione e tanto ordine; non è meraviglia
che gli intervenga molto più spesso in
una città o in una provincia che manchi
delle cose sopradette. E per-chè questo luogo è
notabile assai a di-mostrare la potenza del
cielo sopra le cose umane, Tito Livio
largamente e con parole efficacissime lo
dimostra ; di-cendo come, volendo il cielo a
qualche fine, che i Romani conoscessono la
po-tenza sua, fece prima errare quelli
Fa-bi che andarono oratori a’ Franciosi, e
mediante F opera loro gli concitò a far
guerra a Roma: dipoi ordinò, che per
reprimere quella guerra non si fa-cesse in
Roma cosa alcuna degna del Popolo romano;
avendo prima ordinato che Camillo, il quale
poteva essere solo unico rimedio a tanto
male, fusse man- dato in esilio ad Ardea:
dipoi venendo i Franciosi verso Roma, coloro
che per rimediare allo impeto de’Volsci, ed
altri finitimi loro inimici, avevano creato molte
volte un Dittatore, venendo i Franciosi non
lo crearono. Ancora, nel fare la elezione
de’ soldati, la feciono debole e senza
alcuna istraordinaria diligenza; e furono tanto
pigri a pigliare l’ arme, che a fatica
furono a tempo a scontrare i Franciosi sopra
il fiume d’ Allia, disco* sto a Roma dieci
miglia. Qui i Tribuni posero il loro campo,
senza alcuna con* sueta diligenza ; non
provvedendo il luogo prima, nou si
circondando con fossa e con steccato, non
usando alcuno rimedio umauo o divino ; e nello
ordi- nare la zuffa, fecero gli ordini rari
e deboli: in modo che nè i soldati uè
i capitani fecero cosa degna della romana disciplina.
Combattessi poi senza alcuno sangue; perchè e’
fuggirono prima che fussiuo assaltati, e la
maggior parte se ne andò a Veio, 1’
altra si ritirò a Ro- ma; i quali senza
entrare altrimenti nelle case loro, se ne
entrarono in Cam-
pidoglio; in modo che il Senato, senza peusare
di difender Roma, non chiuse, non che
altro, le porte; e parte se ne fuggi,
parte con gli altri se ne entra- rono
in Campidoglio Pure, nel difender quello
usarono qualche ordine non tu-multuario; perchè
e’ non lo aggravarono di genti inutili;
messonvi tutti i fru-menti che poterono,
acciocché potessino sopportare 1’ ossidione j e
della turba inutile de’ vecchi e delle
donne e de’ fan-ciulli, la maggior parte se
ne fuggi nelle
terre circunvicine, il rimanente restò in Roma
in preda de’ Franciosi. Talché, chi avesse
letto le cose fatte da quel popolo tanti
anni innanzi, e leggesse dipoi quelli tempi,
non potrebbe a nessun modo cre- dere che
fusse stato un medesimo po- polo. E detto
che Tito Livio ha tutti i sopraddetti
disordini, conchiude: Adeo obcoecat animo» fortuna ,
cum vini suam ingruentem refringi non vult.
Nè può essere -43ÌÙ vera «{«està
conclusione: on- de gli uomini che vivono
ordinariamente nelle grandi avversità 0 prosperità, me-
ritano manco laude 0 manco biasimo. Perchè il
più delle volte si vedrà quelli ad
una rovina e ad una grandezza es- scr
stati condotti da una comodità grande che
gli hanno fatto i cieli, dandogli oc-casione, o
togliendoli di potere operare virtuosamente. Fa
bene la fortuna que-sto, che la elegge
uno uomo, quando la voglia condurre cose
grandi, di tanto spirito e di tanta virtù,
che e’ conosca quelle occasioni che la gli
porge. Cosi medesimamente, quando la voglia con- durre
grandi rovine, la vi prepone uo-mini che
aiutino quella rovina. E se alcuno fusse
che vi potesse ostare, o la lo ammazza, o
la lo priva di tutte le facultà da
potere operare alcun bene. Conoscesi questo
benissimo per questo testo, come la fortuna
per far maggiore Roma, e condurla a quella
grandezza venne, giudicò fusse necessario batterla (come
a lungo nel principio del seguente libro
discorreremo), ma non volle già in tutto
rovinarla. E per questo si vede che la
fece esulare, e non morire, Cam- mino; fece
pigliare Roma, e non il Cam-pidoglio ; ordinò
che i Romani, per ri parare Roma, non
pensassino alcuna cosa buona; per difendere
il Campido-glio, non mancarono di alcuno
buono or-dine. Fece, perchè Roma fusse presa, che
la maggior parte de’ soldati che fu-rono
rotti ad Allia, se n’ andarono a Veio;
e così, per la difesa della città di Roma,
tagliò tutte le vie. E nell’ ordinar questo,
preparò ogni cosa alla sua ricupe- razione ;
avendo condotto uno esercito romano intero a
Veio, e Cammillo ad Ardea, da poter fare
grossa testa, sotto un capitano non
maculato d’ alcuna igno- minia per la '
perdita, ed intero nella sua riputazione,
per la ricuperazione della patria sua.
Sarebbeci da addurre in confirmazione delle
cose delle qual- che essempio moderno; ma
per non gli giudicare necessari, potendo
questo a qualunque satisfare, gli lascerò
indietro. Affermo bene di nuovo, questo essere verissimo,
secondo che per tutte ì’islo- rie si
vede, che gli uomini possono se- condare la
fortuna e non opporsegli; possono tessere gli
orditi suoi, e non rompergli. Debbono bene
non si abban- donare mai ; perchè non
sappiendo il fine suo, ed andando quella
per vie tra- verse ed incognite, hanno
sempre a spe-rare, e sperando non si abbandonare
in qualunque fortuna ed in qualunque tra-vaglio
si trovino.
Cap. XXX. — Le repubbliche c gli prin-cipi
veramente polenti non comperano l* amicizie
con danari, ma con la virtù e con la
riputazione delle forze. Erano i Romani assediati
nel Campi-doglio, ed ancoraché gli aspettassino
il soccorso da Veio e da Cammillo, sendo cacciati
dalla fame, vennono a compo- sizione con i
Franciosi di ricomperarsi certa quantità d'oro; e
sopra tale con-venzione pesandosi di già
l’oro, so-pravvenne Cammillo con V esercito suo
:il che fece, dice lo istorico, la
fortuna,ut Romani auro redempti non vivcrent.
La qual cosa non solamente è notabile in
questa parte, ma cziam nel processo delle
azioni di questa Repubblica ; dove si vede
che mai acquistarono terre con danari, mai
feciono pace con danari, ma sempre con
la virtù delle armi: il che non credo
sia mai intervenuto ad alcuna altra
repubblica. Ed intra gli altri segni per i
quali si conosce la po-tenza d’ uno
Stato, è vedere come e' vive con gli
vicini suoi. E quando e’ si go- verna in
modo che i vicini, per averlo amico, siano
suoi pensionari, allora è certo segno che
quello Stato è potente: ma quando detti
vicini, ancoraché in- feriori a lui, traggono da
quello danari, allora è segno grande di
debolezza di quello. Legghinsi tutte le
istorie romane, e vedrete come i Massiliensi, gli
Edui, Rodiani, lerone siracusano, Eumene e Massinissa
regi, i quali tutti erano vi- cini ai
confini dello imperio romano, per avere
l’amicizia di quello, concor- revano a spese ed a
tributi ne’ bisogni d’ esso, non cercando
da lui altro pre- mio che lo essere
difesi. Al contrario
si vedrà negli Stati deboli: e comin- ciandosi
dal nostro di Firenze, ne’ tempi passati,
nella sua maggior riputazione, non era
signorotto in Romagna che non avesse da
quello provvisione; e di più la dava ai
Perugini, ai Castellani, e a tutti gli
altri suoi vicini. Che se questa città
fusse stata armata e gagliarda, sa- rebbe tutto
ito per contrario: perchè tutti, per avere
la protezione di essa, arebbero dato danari
a lei, e cereo non di vendere la loro
amicizia, ma di com-perare la sua. Nè
sono in questa viltà vissuti soli i
Fiorentini, ma i Yiniziani, ed il re di
Francia; il quale, con uno tanto regno,
vive tributario de’ Svizzeri
e del re d’ Inghilterra. Il che tutto
na-sce dallo avere disarmali i popoli suoi, ed
avere piuttosto voluto, quel re e gli altri
prenominati, godersi un presente
utile di potere saccheggiare i popoli, e fuggire
uno immaginato piuttosto che vero pericolo,
che fare cose che gli as- sicurino, e
faccino i loro Stati felici in perpetuo. li
quale disordine se parto- risce qualche tempo
qualche quiete, è cagione col tempo di
necessità, di danni e rovine irrimediabili. E
sarebbe lungo raccontare quante volte i
Fiorentini, Ve- niziani, e questo regno, si
sono ricom- perati in su le guerre ; e
quante volte si sono sottomessi ad una
ignominia, che i- Romani furono una sola
volta per sottomettersi. Sarebbe lungo raccontare quante
terre i Fiorentini e Veniziatri hanno comperate;
di che si è veduto poi ii disordine, e
come le cose che si acquistano con 1’
oro, non si sanno difendere col ferro.
Osservarono i Ro- mani questa generosità e questo modo di
vivere, mentre che vissono liberi; ma
poiché egli entrarono sotto gli im- peradori,
e che gli imperadori comin- ciarono ad esser
cattivi, ed amore più P ombra che il
sole, cominciarono an- cora essi a ricomperarsi,
ora dai Parti, ora dai Germani, ora
da altri popoli convicitty: il che fu
principio della ro- vina di tanto imperio.
Procedevano, per- tanto, simili inconvenienti dallo
avere disarmati i suoi popoli: di che ne
re- sulta un altro maggiore, che quanto il nimico
più ti s’ appressa, tanto ti trova più
debole. Perchè chi vive ne’ modi delti
di sopra, traila male quelli sud- diti che
sono dentro all’ imperio suo, per avere
uomini ben disposti a tenere il nimico
discosto. Di questo nasce, che per. tenerlo
più discosto, ei dà provvi- sione a questi
signori e popoli che sono propinqui ai
confini suoi. Donde nasce che questi Stati
così fatti fanno uu poco di resistenza
in sui confini, ma comeii nimico gli
ha passati, ei non hanno ri- medio alcuno.
E non si avveggono, co- me questo modo del
loro procedere è conila ad ogni buono
ordine. Perchè il cuore c le parti vitali
d* uu corpo si hanno a tenere armate, e
non l’ estre- mità d’esso; perchè senza quelle
si vive, ed offeso quello si muore : c
questi Stati tengono il cuore disarmato, e
le maui c li piedi armati. Quello che
abbia fatto questo disordine a Firenze, si è
veduto, e vedesi ogni di: chè come uno
eser- cito passa i confini, e che gli entrano propinquo
al cuore, non ritrova più alcuno rimedio.
De’ Veniziani si vidde pochi anni fono
la medesima pruova; c se la lorp città
non era fasciata dal- P acque, se ne
sarebbe veduto it fine. Questa isperienza
non si è vista sì spesso in Francia,
per essere quello sì gran regno, eh*
egli ha pochi nimici supe-riori. Nondimeno,
quando gli Inghilesi, nel 1513, assaltarono
quel regno, tremò tutta quella provincia;
ed il re mede- simo, e ciascuno altro,
giudicava che una rotta sola gli potesse
torre lo Stato. Ai Romani interveniva il
contrario; per- chè quanto più il nimico si
appressava a Roma, tanto più trovava quella città
potente a resistergli. E si vidde nella ventila
d’ Annibaie in Italia, che dopo tre rotte,
c dopo tante morti di capi- tani e di
soldati, ei poterono non solo sostenere il
nimico, ma vincere la guerra. Tutto nacque
dallo avere bene armato il cuore, e delle
estremità tenere poco conto. Perchè il
fondamento dello stato suo era il popolo
di Roma, il nome la-tino, e V altre terre
compagne in Italia, e le loro colonie;
donde e' traevano tanti soldati, che furono
suftmenti con quelli a combattere, e tenere il
mondo. E che sia vero, si vede per la
domanda che fece Annone cartaginese a quelli
oratori d’ Annibaie dopo la rotta di Canne:
i quali avendo magnificato le cose fatte da
Annibaie, furono domandali da An-none, se
del popolo romano alcuno era venuto a
domandar pace, e se del nome latino e delle
colonie alcuna terra si era ribellata dai
Romani; e negando quelli l’ una e l’altra cosa,
replicò Annone: Questa guerra è ancora intera
come prima. Vedesi, pertanto, e per questo discorso,
e per quello che più volte ab bianio
altrove detto, quanta diversità sia dal
modo del procedere delle repub-bliche presenti, a
quello delle antiche. Vedesi ancora per
questo ogni di mira- colose perdite e miracolosi
acquisti. Per- chè, dove gli uomini hanno
poca virtù, la fortuna dimostra assai la
potenza sua; e perchè la è varia, variano
le repubbliche e gli Stati spesso; e varieranno sempre,
iniino che non surga qualcuno
che sia dell’ antichità tanto amatore, che la
regoli in modo, che la non abbi
ca-gione di dimostrare ad ogni girare di sole
quanto ella puote. Cap. XXXI. — Quanto sia
pericoloso credere agli sbandili. E’ non mi
pare fuori di proposito ra-gionare, intra
questi altri discorsi, quanto sia cosa
pericolosa credere a quelli che sono cacciati
della patria sua, essendo cose che ciascuno
di si hanno a prati- care da coloro che
tengono Stati: po- tendo, massime, dimostrare
questo con uno memorabile essempio detto da
Tito Livio nelle sue istorie, ancora che
sia foo- x ra di proposito suo.
Quando Alessandro Magno passò con Y esercito
suo in Asia, Alessandro di Epiro, cognato e
zio di quello, venne con genti in
Italia, chia- mato dagli sbanditi Lucani, i quali
gli dettono speranza che potrebbe mediatiti loro
occupare tutta quella provincia. Donde che
quello, sotto la lode e spe-ranza loro,
venuto in Italia, fu morto da quelli;
sendo loro promesso Hi ritor-nata nella
patria dai loro cittadini, se 10
ammazzavano. Debbesi considerare, pertanto, quanto
sia vana e la fede e le promesse di
quelli che si trovano privi della loro
patria. Perchè, quanto alla fede, si ha
ad estimare che qualunque volta possono per
altri mezzi che per 11 tuoi rientrare
nella patria loro, che iasceranno te ed
aceosterannosi ad altri, nonostante qualunque
promessa ti aves- sino fatta. E quanto alla
vana promessa
e speranza, egli è tanta la voglia estrema die
è in loro di ritornare in casa, che e’
credono naturalmente molte cose che sono
false, e molte ad arte ne aggiun- gono:
talché, tra quello che credono e quello
che dicono di credere, ti riem- piono di
speranza }. tulmentechè fonda-toti in su quella,
tu fai una spesa in vano, o tu fai
una impresa dove tu ro-vini. Io voglio
per cssempio mi basti Alessandro predetto, e
di più Temisto- cle ateniese; il quale
essendo fatto ri- bello, se ne fuggi in
Asia a Dario, dove gli promisse tanto,
quando ei volesse assaltare la Grecia, che
Dario si volse alla impresa. Le quali
promesse non gli potendo poi Temistocle
osservare, o per vergogna o per tema di
supplicio, av- velenò sè stesso. E se questo
errore fu fatto da Temistocle, nomo
eccellentissi- mo, si debbe stimare che tanto
più vi errino coloro che, per minor
virtù, si lasceranno più tirare dalla
voglia e dalla passione loro. Debbe, adunque,
un prin-cipe andare adagio a pigliare imprese sopra
la relazione d’ un confinato, per- chè il
più delle volle se ne resta o con vergogna,
o con danno gravissimo. E perchè ancora
rade volle riesce il pi- gliare le terre
di furto, e per intelli- genza che altri
avesse in quelle, non mi pare fuor di
proposito discorrerne nel seguente capitolo;
aggiungendovi con quanti modi i Romani le
acquistavano. Cap. XXXII. — In quanti modi i
Romani occupavano le terre. Essendo i Romani
tutti volti alla guer- ra, fecero sempre
mai quella con ogni vantaggio, e quanto
alla spesa, e quanto ad ogni altra cosa
che in essa si ricerca. Da questo
nacque che si guardarono dal pigliare le
terre per ossidione ; perchè giudicavano questo
modo di tanta spesa e di tanto scomodo,
che superasse di gran lunga la utilità
che dello acquisto si potesse trarre: e per
questo pensa-rono che fusse meglio e più
utile sog-giogare le len e per ogni altro
modo che assediandole; donde in tante
guerre ed in tanti anni ci sono
pochissimi essem- pi di ossidioni fatte da
loro. I modi, adunque, con i quali gli
acquistavano le città, erano o per espugnazione,
o per dedizione. La espugnazione era o per
forza e per violenza aperta, o per forza
mescolata con fraude. La violenza aperta
era o con assalto, senza percuo- tere le
mura (il che loro chiamavano aggredì urbem
coronaj perchè con tutto l’ esercito circondavano
la città, e da tutte le parti la
combattevano; e molte volte riuscì loro che
in uno assalto piglia-rono una città,
ancora che grossissima,
come quando Scipione prese Cartagine nuova
in (spaglia) : o, quando questo assalto non
bastava, si dirizzavano a rompere le mura
con arieti, o con al- tre loro macchine
belliche: o e’ facevano una cava, e per quella
entravano nella città (nel qual modo
presono la città de’ Veìenti) : o, per
essere eguali a quelli che difendevano le
mura, facevano torri di legname, o facevano
argini di terra appoggiati alle mura di
fuori, per ve-nire all’ altezza di esse
sopra quelli. Contea questi assalti, chi
difendeva le terre, nel primo caso circa
lo essere assaltato intorno intorno, portava più subito
pericolo, ed avea più dubbi rime-di: perchè
bisognandoli in ogni loco avere assai
difensori, o quelli ch’egli aveva non erano
tanti che potessero o supplire per tutto, o
cambiarsi ; o se potevano, non erano tutti
di eguale ani- mo a resistere, e da una
parte che fusse inclinata la zuffa, si perdevano
tutti. Però occorse, come io ho detto, che molte
volte questo modo ebbe felice suc-cesso. Ma
quando non riusciva al primo, non lo
ritentavano molto, per esser mo-do pericoloso
per lo esercito : perchè difendendosi in
tanto spazio, restava per tutto debile a
potere resistere ad una eruzione che quelli
di dentro avessino fatta, ed anche si
disordinavano e strac-cavano i soldati; ma per
una volta ed allo improvviso tentavano tal
modo. Quanto alla rottura delle mura, sì
op-
ponevano, come re’ presenti tempi, con ripari. E
per resistere alle cave, face-vano una
contraccava, e per quella si opponevano al
nimico, o con le armi o con altri
ingegni: intra i quali era que- sto, che
egli empivano dogli di penne, nelle quali
appiccavano il fuoco, ed ac- cesi gli
mettevano nella cava, i quali con il fumo e
con il puzzo impedivano l'entrata a'
nimici. E se con le torri gli assaltavano,
s' ingegnavano con il fuoco rovinarle. E quanto
agli argini di terra, rompevano il muro
da basso, dove l'ar- gine s'appoggiava, tirando
dentro la ter- ra che quelli di fuori
vi ammontavano; talché ponendosi di fuori
la terra, e le- vandosi di dentro, veniva a
non cre-scere 1' argine. Questi modi di
espugna-zione non si possono lungamente tentare: ma
bisogna o levarsi da campo, e cer-care per
altri modi vincere la guerra; come fece
Scipione, quando entrato in
Affrica, avendo assaltato litica e non gli riuscendo
pigliarla, si levò dal campo, e cercò di
rompere gii eserciti cartagi-nesi: ovvero
volgersi alla ossidione; come feciono a Vcio,
Capova, Cartagine e lerusalem e simili terre, che
per os-sidione occuparono. Quanto allo acqui-
stare le terre per violenza furtiva, oc-corre come
intervenne di Palepoli, cheper trattato di
quelli di dentro i Romani la occuparono. Di
questa sorte espugna-zione dai Romani c da
altri ne sono state tentate molte, e poche
ne sono riu-scite : la ragione è che ogni
minimo impedimento rompe il disegno, e gli impedimenti
vengono facilmente. Perchè, o la congiura si
scuopre innanzi che si venga all’atto : e scuopresi
non con molta diftìcultà, sì per la
infedelità di coloro con chi la è
comunicata, sì per la diffì- cullù del
praticarla, avendo a convenire con nimici, e con
chi non ci è licito, se non sotto
qualche colore, parlare. Ma quando la
congiura non si scoprisse nel
maneggiarla, vi surgono poi nel met-terla
in atto mille dilYicultà. Perchè, o se
tu vieni innanzi al tempo disegnato, o se
tu vieni dopo, si guasta ogni cosa : se
si lieva un rumore furtivo, come 1’
oche del Campidoglio : se si rompe uno
ordine consueto : ogni minimo erro-re ed
ogni minima fallacia che si piglia, rovina
la impresa. Aggiungonsi a que- sto le tenebre
della notte; le quali met- tono più paura a
chi travaglia in quelle cose pericolose. Ed
essendo la maggior parte degli uomini che
si conducono a simili imprese, inesperti
del sito del paese e de’ luoghi, dove
ei sono menati, si confondono, inviliscono,
ed implicano per ogni minimo e fortuito
accidente; ed ogni immagine falsa è per
fargli met-tere in volta. Nè si trovò
mai alcuno che fusse più felice in
queste espedizioni
fraudolente c notturne, che Arato Sicio-neo;
il quale quanto valeva in queste,tanto
nelle diurne ed aperte fazioni era pusillanime:
il che si può giudicare fusse più
tosto per una occulta virtù clic era
in lui, che perchè in quelle natu- ralmente
dovesse essere più felicità. Di questi
modi, adunque, se ne praticano assai, pochi
se ne conducono alla pruova,-
e pochissimi ne riescono. Quanto allo acquistare
le terre per dedizione, o le si danno
volontarie, o forzate. La vo-lontà nasce o per
qualche necessità estrin-seca che gli costringe a
rifuggirsi sotto; come fece Capova ai
Romani; o per de-siderio di esser governati
bene, sendo allettati dal governo buono che
quel prin-cipe tiene in coloro che se
gli sono vo-lontari rimessi in grembo ;
come fcrono i Rodiani, i Massiliensi ed altri
simili cittadini, che si deltono al Popolo
ro-'mano. Quanto alla dedizione forzata, o tale
forza nasce da una lunga ossidione, come
di sopra si è detto; o la nasce da una
continua oppressione di correrie, depredazioni,
ed altri mali trattamenti, i quali volendo
fuggire, una città si arren- de. Di tutti i
modi detti, ì Romani usa- rono più questo
ultimo che nessuno; ed attesono più che
quattrocento cinquanta anni a straccare i vicini
con le rotte e con le scorrerie, e pigliare
mediani! gli accor- di riputazione sopra di
loro, come altre volte abbiamo discorso. E
sopra tal modo si fondarono sempre, ancora
che gli ten-tassino tutti; ma negli
altri trovarono cose o pericolose, o inutili.
Perchè nella ossidione è la lunghezza e la spesa;
nella espugnazione, dubbio e pericolo; nelle
congiure, la incerlitudine. E vid-dono che
con una rotta d’esercito ini-mico acquistavano
un regno in un gior-no; e nel pigliare
per ossidione una città ostinata, consumavano
molti anni. XXXUI. — Come i Romani davano agli
loro capitani degli eserciti le commissioni
libere. lo stimo che sia da considerare,
leg-gendo questa liviana istoria, volendone far
profitto, tutti i modi del procedere del
Popolo e Senato romano. E infra P altre cose
che meritano considerazione, sono : vedere con
quale autorità ei man-davano fuori i loro
Consoli, Dittatori ed altri Capitani degli
eserciti ; de’ quali si vede V autorità
essere stata grandis-
sima, ed il Senato non si riservare al-tro
che P autorità di muovere nuove guerre, e
di confirmare le paci; tutte P altre cose
rimetteva nell’ arbitrio e potestà del
Consolo. Perchè, deliberata
eh* era dal Popolo e dal Senato una guerra,
verbigrazia contra ai Latini, tutto il
resto rimettevano nelP arbitrio del Consolo;
il quale poteva o fare uua giornata o non
la fare, e campeggiare questa o quell* altra
terra, come a lui pareva. Le quali cose
si verificano per molti essempi, e massime
per quello che occorse in una ispedizione
contra ai Toscani. Perchè, avendo Fabio Consolo vinto
quelli presso a Sutri, e disegnando con P
esercito dipoi passare la selva Cimino, ed
andare in Toscana; non so-lamente non si
consigliò col Senato, raa non gli ne
dette alcuna notizia, an-cora che la guerra
fusse per aversi a fare in paese
nuovo, dubbio e pericoloso. Il che si
testifica ancora per la dilibe-razione che
all’ incontro di questo fu fatta dal
Senato : il quale avendo inteso la vittoria
che Fabio aveva avuta, du-bitando che
quello non pigliasse partitodi passare per
le dette selve in Tosca-na, giudicando che
fusse bene non ten-tare quella guerra e
correre quel peri-colo, mandò a Fabio due Legati
u far-gli intendere non passasse in Toscana;
i quali arrivarono che vi era già pas-sato,
ed aveva avuta la vittoria, ed in cambio
di impeditoci della guerra, tor-narono
ambasciadori dello acquisto e della gloria
avuta. E chi considera bene questo termine,
lo vedrà prudentissima-mente usato : perchè,
se il Senato avesse
voluto che un Consolo procedesse nella guerra
di mano in mano, secondo che quello
gli commelteva, lo faceva meno circunspetlo e
più lento; perchè non gli sarebbe parato
che la gloria della vittoria fusse tutta
sua, ma che ne participasse il Senato
con il consiglio del quale ei si
fusse governato. Oltra di questo, il Senato
si obbligava a voler consigliare una cosa
che non se ne po-teva intendere; perchè,
nonostante che in quello fussino tutti
uomini esercita-tissimi nella guerra, nondimeno non essendo
in sul luogo, e non sappiendo infiniti
particolari che sono necessari sapere a voler
consigliar bene, areb-bono, consigliando, fatti
infiniti errori. E per questo e’ volevano
che ’1 Consolo per sè facesse, e che
la gloria fusse tutta sua; lo amore
della quale giudica- vano che fusse freno e
regola a farlo operar bene. Questa parte si
è più vo- lentieri notata da me, perchè io
veggio che le repubbliche de’ presenti tempi, come
è la veneziana e fiorentina, la intendono
altrimenti ; e se gli loro ca-pitani,
provveditori o commissari hanno a piantare una
artiglieria, lo vogliono
intendere, e consigliare. Il quale modo merita
quella laude che meritano gli altri, i
quali tutti insieme I’ hanno con- dotte ne’
termini che al presente si truovano. .LIBRO
TERZO. I. — A volere
che una sella o una repubblica viva lungamente ,
è neces-sario ritirarla spesso verso il suo principio. Egli
è cosa verissima, come tutte le cose del
mondo hanno il termine della vita loro.
Ma quelle vanno tutto il corso che è
loro ordinato dal cielo general- mente, che
non disordinano il corpo loro, ma tengonlo
in modo ordinato, o che non altera, o s'
egli altera, è a sa-lute, e non a danno suo. E
perchè io parlo de’ corpi misti, come
sono le re-pubbliche e le sètte, dico clic
quelle al-(eruzioni sono u salute, che le
riducono verso i principi! loro. E però quelle
sono meglio ordinate, ed hanno più lunga vita,
che mediatiti gli ordini suoi si pos sono
spesso rinnovare; ovvero che per accidente,
fuori di detto ordine, vengono a detta
rinnovazione. Ed è cosa più chiara che la
luce, che non si rinnovando que- sti corpi,
non durano. Il modo del rin- novargli è,
come è detto, ridurgli verso i principii suoi.
Perchè tutti i pri nei pi i delle
sètte, e delle repubbliche, e dei regni, conviene
che abbino in sè qual- che bontà, mediante
la quale ripiglino la prima riputazione, ed
il primo augu- mento loro. E perchè nel
processo del tempo quella bontà si
corrompere non interviene cosa che la
riduca al segno, ammazza di necessità quel
corpo. E que- sti dottori di medicina dicono,
parlando dei corpi degli uomini, quoti quolidie aggregatur
aliquidj quod quandoque indiget curalione. Questa
riduzione verso il
principio, parlando delle repubbliche, si fa o
per accidente estrinseco, o per prudenza
intrinseca. Quanto al primo, si vede come
gli era necessario che Roma fusse presa
dai Franciosi, a volere che la rinascesse; e
rinascendo, ripigliasse nuova vita e nuova virtù;
e ripigliasse la osservanza della religione e
della giu-
stizia, le quali in lei cominciavano a macularsi.
Il che benissimo si comprende per l’istoria
di, Livio, dove ei mostra che nel
trar fuori 1’ esercito contra ai Franciosi,
e nel creare i Tribuni con potestà consolare,
non osservarono al- cuna religiosa cerimonia.
Così medesi-mamente, non solamente non privarono i
tre Fabi i quali conira jus gcntium avevano
combattuto contra i Franciosi, ma gli crearono
Tribuni. E debbesi fa- cilmente presupporre, che dell’
altre con stituzioni buone ordinate da
Romolo, e ila quelli altri principi
prudenti, si co- minciasse a tenere meno conto
che non era ragionevole e necessario a tenere il vivere
libero. Veline, adunque, questa
battitura estrinseca, acciocché tutti gii ordini
di quella città si ripigliassero; e si
mostrasse a quel popolo, non so- lamente essere
necessario mantenere la religione e la giustizia,
ma ancora sti- mare i suoi buoni cittadini, e
far più conto della loro virtù, che
di quelli co- modi che e’ paresse loro
mancare me-diante 1’ opere loro. Il che
si vede che successe appunto; perchè,
subito Ripresa Roma, rinnovarono tutti gli
ordini del 1’ antica religione loro;
punirono quelli Fabi die avevano combattuto
conira jus genfìum ; ed oppresso stimarono tanto
la virtù e bontà di Cammillo, che posposto,
il Senato e gli altri, ogni in- vidia,
rimettevano in lui tutto il pondo di
quella Repubblica. È necessario, adun- que, come è
detto, che gli uomini che vivono insieme
in qualunque ordine, spesso si riconoschino, o
per questi ac-cidenti estrinsechi o per gli
intrinsechi. E quanto a questi, conviene che nasca o
da una legge la quale spesso rivegga il
conto agii uomini che sono in quel corpo;
o veramente da uno uomo buono che nasca
fra loro, il quale con gli suoi essempi
e con le sue opere virtuose, faccia il
medesimo effetto che l’ordine. Surge, adunque,
questo bene nelle re- pubbliche, o per virtù
d’un uomo o per virtù d’ uno ordine. E
quanto a questo ultimo, gli ordini che
ritirarono la Re-pubblica romana verso il
suo principio, furono i Tribuni della plebe, i
Censori, e tutte 1’ altre leggi che
venivano con tra all’ambizione ed alla insolenza
degli uomini. I quali ordini hanno bisogno d’
esser fatti vivi dalla virtù d’ un
cit- tadino, il quale animosamente concorra ad
eseguirli contra alla potenza di quelli che
gli trapassano. Delle quali esecu- zioni, innanzi
alla presa di Roma dai Franciosi, furon
notabili, la morte de’ figliuoli di Bruto,
la morte de’ dieci cit-tadini, quella di
Melio Frumentario: dopo la presa di Roma,
fu la morte di Man-lio Capitolino, la
morte del figliuolo di Manlio Torquato, la
esecuzione di Papi-rio Cursore conira a Fabio
suo maestro
de’ Cavalieri, la accusa degli Scipioni. Le
quali cose, perchè erano eccessive e notabili,
qualunque volta ne nasceva una, facevano
gli uomini ritirare verso il se- gno: e
quando le cominciarono ad es-ser più rare,
cominciarono ancora a dare più spazio agii
uomini di corrompersi, e farsi con maggiore
pericolo e più tu- multo. Perchè dalP una
all’altra di simili esecuzioni non vorrebbe
passare, il più, dieci anni: perchè,
passato questo tempo, gli uomini cominciano a
variare co’ co-stumi, e trapassare le leggi ; e
se non nasce cosa per la quale si
riduca loro a memoria la pena, e ritruovisi negli
animi loro la paura, concorrono tosto tanti
delinquenti, che non si possono più punire
senza pericolo. Dicevano, a questo proposito,
quelli che hanno go-vernato lo Stato di
Firenze dal 1434 infino al 1494, come
egli era necessario ripigliare ogni cinque
anni lo Stato; altrimenti, era difficile
mantenerlo : e chiamavano ripigliare lo Stato,
mettere quel terrore e quella paura negli uo- mini
che vi avevano messo nel pigliarlo, avendo
in quel tempo battuti quelli che avevano,
secondo quel modo di vivere, male operato.
Ma come di quella batti- tura la memoria
si spegne, gli uomini prendono ardire di
tentare cose nuove, e di dir male; c però è
necessario prov-vedervi, ritirando quello verso i suoi principii.
Nasce ancora questo ritira-mento delle
repubbliche verso il loro principio dalle
semplici virtù d’un uomo, senza dipendere
da alcuna legge che ti stimoli ad
alcuna esecuzione: nondiman co sono di
tanta riputazione e di tanto essempio, che
gli uomini buoni dispe-rano imitarle, e gli
tristi si vergognano a tenere vita contraria a
quelle. Quelli che in Roma particolarmente
feciono questi buoni effetti, furono Orazio Code,
Scevola, Fabrizio,* i duoi Deci, Regolo Attilio,
ed alcuni altri ; i quali con i loro essempi
rari e virtuosi facevano in Roma quasi il
medesimo effetto che si faces-sino le
leggi e gli ordini. E se le ese-cuzioni soprascritte,
insieme con questi particolari essempi, fussino
almeno se-guite ogni dieci anni in quella
città, ne seguiva di necessità che la
non si sarebbe mai corrotta: ma coinè e’
cominciarono a diradare 1’ una e V altra di
queste due cose, cominciarono a moltiplicare le
cor- ruzioni. Perchè dopo Marco Regolo non vi
si vidde alcun simile essempio: e ben- ché
in Roma surgessino i duoi Catoni, fu tanta
distanza da quello a loro, ed intra loro
dall’ uno all’ altro, e rimasono sì soli,
che non potettono con gli es- sempi
buoni fare alcuna buona opera; e massime P
ultimo Catone, il quale tro- vando in buona
parte la città corrotta, non potette con
lo essempio suo fare che i cittadini
diventassino migliori. E questo basti quanto
alle repubbliche. Ma quanto alle sètte, si
vede ancora queste rinnovazioni essere necessarie
per lo essempio della nostra religione;
la quale se non fusse stata ritirata
verso il suo principio da san Francesco c
da san Do- menico, sarebbe al lutto spenta.
Perchè questi, con la povertà e con ressempio della
vita di Cristo, la ridussono nella mente
degli uomini, che già vi era spen- ta : e furono
sì potenti gli ordini loro nuovi, cli’ei
sono cagione che la diso- nestà de’ prelati
e de’ capi della reli- gione non la rovini;
vivendo ancora po- veramente, ed avendo tanto
credito nelle confessioni con i popoli e nelle
predi- cazioni, che c’ danno loro ad intendere come
egli è male a dir male del male, e che
sia bene vivere sotto 1* ubbidienza loro, e
se fanno errori, lasciargli gasli gare a
Dio: e così quelli fanno il peg- gio che
possono, perchè non temono quella punizione
che non veggono e non credono. Ha, adunque,
questa rinnova- zione mantenuto, e mantiene questa re- ligione.
Hanno ancora i regni bisogno di rinnovarsi, e
ridurre le leggi di quelli
verso il suo principio. E si vede quanto buono
effetto fa questa parte nel regno di
Francia; il quale regno vive sotto le leggi
e sotto gli ordini più clic alcuno altro
regno Delle quali leggi ed ordini ne
sono mnntenitori i parlamenti, c mas- sime quel
di Parigi ; le quali sono da lui
rinnovate qualunque volta e’ fa una esecuzione
contra ad uno principe di quel regno, e
che ei condanna il re nelle sue
sentenze. Ed infino a qui si è mantenuto
per essere stato uno ostinato esecutore
contra a quella nobiltà : ma qualunque volta
e’ ne lasciasse alcuna impunita, c che le
venissino a multi- plicare, senza dubbio ne
nascerebbe o che le si arebbono a
correggere con disordine grande, o che quel
regno si
risolverebbe. Conchiudesi, pertanto, non esser
cosa più necessaria in un vivere comune, o
setta o regno o repubblica che sia, che
rendergli quella riputazione ch’egli aveva ne’
princi pii suoi; ed in-gegnarsi che siano
ol gli ordini buoni O i buoni uomini che
facciano questo effetto, e non l’ abbia a fare
una for/.a estrinseca. Perchè, ancora che qualche
volta la sia ottimo rimedio, come fu
a Roma, ella è tanto pericolosa, che non è in
modo alcuno da disperarla. E per dimostrare a
qualunque, quanto le azioni degli uomini
particolari facessino grande Roma, e causassimo
in quella città molti buoni effetti, verrò
alla narrazione e is- corso di quelli:
intra i termini de qua I. questo terzo
libro ed ultima parte d. questa prima
Deca si conchiudera. E benché le azioni
degli re bissino grand, e notabili, nondimeno,
dichiarandole la istoria diffusamente, le
lasceremo indie- tro; nè parleremo altrimenti di
loro, eccetto che di alcuna cosa che
«vessino operata appartenente alti loro privat, comodi
; e coniincierenci da BiutOj pa drc della
romana libertà. FI. — Come gli è cosa
sapientissima simulare in tempo la pazzia. Non
fu alcuno mai tanto prudenti1, -nè
tanto stimato savio, per alcuna sua egregia
operazione, quanto merita d’ es- ser tenuto lunio
Bruto nella sua simu- lazione della stultizia.
Ed ancora che Tito Livio non esprima
altro che una cagione che Io inducesse a
tale simula- zione, quale fu di potere più
sicura- mente vivere, e mantenere il patrimonio suo;
nondimanco, considerato il suo modo di
procedere, si può credere che simulasse
ancora questo per essere man- co osservato,
ed avere più comodità di opprimere i re e
di liberare la sua pa- tria, qualunque
volta gliene fussc data occasione. E che
pensasse a questo, si vide, prima, nello
interpretare l’oracolo di Apolline, quando simulò
cadere per baciare la terra, giudicando per
quello aver favorevoli gli Dii ai pensieri
suoi; e dipoi, quando sopra la moria Lucre-zia,
inira il padre ed il marito ed altri parenti
di lei, ei fu il primo a trarle il coltello
dalla ferita, e far giurare ai circonstanli,
che mai sopporterebbono che per lo avvenire
alcuno regnasse in Roma. Dallo essempio di
cgsIuì hanno ad imparare tutti coloro che
sono mal- contenti d’ uno principe; e debbono
pri- ma misurare e pesare le forze loro, e se
sono si potenti che possino scoprirsi suoi
nimici e fargli apertamente guerra, debbono
entrare per questa via, come manco
pericolosa e più onorevole. Ma se sono di
qualità che a fargli guerra aperta le forze
loro non bastino, deb- bono con ogni
industria cercare di far- segli amici ; cd
a questo effetto, entrare per tutte quelle
vie che giudicano esser necessarie, seguendo i
piaceri suoi, e pigliando diletto di tutte
quelle cose che veggono quello dilettarsi.
Questa dipie- sticliezza, prima, ti fa
vivere sicuro; e, senza portare alcun
pericolo, ti fa go-derc la buona
fortuna di quel principe insieme con esso
lui, e ti arreca ogni comodità di satisfare
all* animo tuo. Vero è ebe alcuni dicono
che si vorrebbe con gli principi non
stare sì presso che la rovina loro ti
coprisse, nè sì discosto che rovinando
quelli tu non fussi a tempo a salire
sopra la rovina loro: la qual via del
mezzo sarebbe la più vera, quando si
potesse conservare; ma per- chè io credo
che sia impossibile, con- viene ridursi ai
duoi modi soprascritti, cioè di allargarsi o
di stringersi con loro. Chi fa altrimenti,
e sia uomo per le qualità sue notabile,
vive in conti* novo pericolo. Nè basta
dire: io non mi curo d’ alcuna cosa,
non desidero nè onori nè utili, io mi
voglio vivere quie- tamente e senza briga; perchè
queste scuse sono udite e non accettate : nè possono
gii uomini che hanno qualità eleggere lo
starsi, quando bene lo eleg- gessino
veramente e senza alcuna am- bizione, perchè non
è loro creduto ; tal chè se si vogliono
star loro, non sono lasciati stare da
altri. Conviene adun- que fare il pazzo,
come Bruto ; ed assai si fa il matto,
laudando, parlando, veg- gendo, faccendo cose
eontra all* animo tuo, per compiacere al
principe. E poi- ché noi abbiamo parlato della
prudenza di questo uomo per ricuperare la
li- bertà di Roma, parleremo ora della sua severità
in mantenerla. Cap. HI. — Come egli è
necessariOj a voler mantenere una libertà
acquistata di nuovo 9 ammazzare i figliuoli di Bruto. Non
fu meno necessaria che utile la severità
di Bruto nel mantenere in Roma quella
libertà che egli vi aveva acqui-stala ; la
quale è di un essempio raro in tutte
le memorie delle cose: vedere il padre
sedere prò tribunali, e non solamente condennare
i suoi figliuoli a morte, ma esser presente
alla morte loro. E sempre si conoscerà
questo per coloro che le cose antiche
leggeranno: come dopo una mutazione di
Stato, o da repubblica in tirannide o da
tiran- nide in repubblica, è necessaria una esecuzione
memorabile contra a’ nimici delle condizioni
presenti. E chi piglia una tirannide e non
ammazza Bruto, e chi fa uno Stato
libero e non ammazza i figliuoli di Bruto,
si mantiene poco tempo. E perchè di sopra è
discorso questo luogo largamente, mi rimetto a quello
che allora se ne disse: solo ci addurrò
uno essempio stato ne’ dì no- stri, e nella
nostra patria memorabile. E questo è Piero
Soderini, il quale si credeva con la
pazienza e bontà sua superare quello appetito
che era ne’ fi- gliuoli di Bruto di
ritornare sotto un altro governo, e se ne
ingannò. E ben- ché quello, per la sua
prudenza, cono- scesse questa necessità J e che
la sorte e la ambizione di quelli che
lo urtava- no, gli desse occasione a spegnerli ;
non-dimeno non volse mai Y animo a farlo. Perchè,
oltre al credere di potere con la
pazienza e con la bontà estinguere i mali
umori, e con i premi verso qual- cuno consumare
qualche sua inimicizia; giudicava (e molte
volle ne fece con gli amici fede) che
a volere gagliardamente urtare le sue
opposizioni, e battere i suoi avversari, gli
bisognava pigliare straordinaria autorità, e rompere
con le leggi la civile equalità : la
qualcosa, ancora che dipoi non fusse da
lui usata tirannicamente, arebbe tanto sbigottito I’
universale, che non sarebbe mai poi concorso
dopo la morte di quello a ri-fare un
gonfaloniere a vita; il quale ordine egli
giudicava fusse bene uugu-mentarc c mantenere.
Il quale rispetto era savio e buono :
nondimeno, e’ non si debbe mai lasciare scorrere
un male rispetto ad un bene, quando
quel bene facilmente possa essere da quel
male oppressalo. E doveva credere che, aven- dosi a
giudicare* Y opere sue c la intenzione sua
dal One, quando la fortuna e la vita
lo avesse accompagnato, che poteva certificare
ciascuno, come quello aveva fatto, era per
salute della patria, e non per ambizione
sua ; e poteva re- golare le cose in mòdo,
che un suo suc- cessore non potesse fare
per male quello che egli avesse fatto
per bene. Ma lo ingannò la prima
oppinione, non cono- scendo che la malignità
non è doma da tempo, nè placata da
alcun dono. Tanto che, per non sapere
somigliare Bruto, ei perde, insieme con la
patria sua, lo Stato e la riputazione. E
come egli è cosa difficile salvare uno
Stato libero, cosi è difficile salvarne un
regio; come nel seguente capitolo si mostrerà. Cap.
IV. - — Non vive sicuro un prin-cipe in
un principato, mentre vivono coloro che ne
sono stati spogliali. La morte di Tarquinio
Prisco causata
dai figliuoli di Anco, e la morte di
Ser-vio Tulio causata da Tarquinio Super-bo,
mostra quanto difficile sia e peri-coloso
spogliar uno del regno, e quello lasciar
vivo, ancora che cercasse con meriti
guadagnarselo. E vedesi come Tarquinio Prisco fu
ingannato da pa-rergli possedere quel regno
giuridica-mente, essendogli stato dato dal Popolo, e
confermato dal Senato: nè credette che nei
figliuoli di Anco potesse tanto lo sdegno,
che non avessino a conten- tarsi di quello
che si contentava tutta Roma. E Servio
Tulio s’ ingannò, cre- dendo potere con nuovi
meriti guada-gnarsi i figliuoli di Tarquinio. Dimodo- ché,
quanto al primo, si può avvertire ogni
principe, che non viva mai sicuro del
suo principato, finché vivono coloro che ne
sono stati spogliati. Quanto al secondo, si
può ricordare ad ogni po- tente, che mai
le ingiurie vecchie non furono cancellate da’
benefizi nuovi; e tanto meno, quanto il
benefizio nuovo è minore che non è stata
l’ingiuria. E
senza dubbio, Servio Tulio fu poco
pru-dente a credere che i figliuoli di Tar quinio
fussino pazienti ad esser generi di colui
di chi e’ giudicavano dovere es-sere re. E
questo appetito del regnare è tanto grande,
che non solamente en-tra nei petti di
coloro a chi s’ aspetta il regno, ma
di quelli a chi non s’ aspet- ta: come
fu nella moglie di Tarquinio giovine,
figliuola di Servio; la quale, mossa da
questa rabbia, coutra ogni pietà paterna,
mosse il marito contro al padre a torgli
la vita ed il regno: tanto stimava
più essere regina, che figliuola di re !
Se, adunque, Tarquinio Prisco e Servio
Tulio perdettono il regno per non si
sapere assicurare di coloro a chi ei l avevano
usurpato, Tarquinio Superbo lo perdè per
non osservare gli ordini degli antichi re;
come nel se- guente capitolo si mostrerà.
V. — Quello che fa perdere uno regno
ad uno re che sia ereditario di quello. Avendo
Tarquinio Superbo morto Ser-vio Tulio, e di
lui non rimanendo eredi, veniva a possedere il
regno sicuramen-te, non avendo a temere di
quelle cose che avevano offeso i suoi
antecessori. E benché il modo dell’
occupare il regno fusse stato istraordinario
ed odioso;nondimeno, quando egli avesse osservato
gli antichi ordini degli altri re, sarebbestato
comportato, nè si sarebbe conci-tato il
Senato e la Plebe contra di lui
per torgli lo Stato. Non fu, adunque, costui
cacciato per aver Sesto suo figliuo-lo
stuprata Lucrezia, ma per aver rotte le
leggi del regno, e governatolo tiran-nicamente;
avendo tolto al Senato ogni autorità, e
ridottola a sé proprio; e quelle faccende
che nei luoghi pubblici con satisfazione
del Senato romano si facevano, le ridusse a
fare nel palazzo suo con carico ed
invidia suo ; talché in breve tempo egli
spogliò Roma di tutta quella libertà cl»’
ella aveva sotto gli altri Re mantenuta.
Nò gli bastò farsi nimici i Padri, che
si concitò an- cora contra la Plebe,
affaticandola in cose meccaniche, e tutte aliene
da quelloa che P avevano adoperata i suoi
ante-cessori: talché, avendo ripiena Roma di
essempi crudeli e superbi, aveva dispo-sti già
gli animi di tutti i Romani allaribellione,
qualunque volta ne avessino occasione. E se
lo accidente di Lucrezianon fusse venuto,
come prima ne fussc nato un altro,
arebbe partorito il me-desimo effetto. Perchè,
se Tarquinio fusse vissuto come gli altri
Re, e Sestosuo figliuolo avesse fatto
quello errore, sarebbero Bruto e Collatino
ricorsi aTarquinio per la vendetta contru a
Se-sto, e non al Popolo romano. Soppino
adunque i principi, come a quella ora e*
cominciano a perdere lo Stato, eh’ eicominciano
a rompere le leggi, e quelli modi e quelle
consuetudini che sonoantiche, e sotto le
quali gli uomini lungo tempo sono vivuti. E
se privati di’ eisono dello Stato, e'
diventassino mai tanto prudenti, che conoscessino
conquanta facilità i principati si tenghino da
coloro che saviamente si consiglia-no; dorrebbe
molto più loro tal perdi-ta, ed a maggiore
pena si condanne-rebbono, che da altri
fussino condan-nati. Perchè egli è molto più
facile es-sere amato da’ buoni che dai
cattivi, ed ubbidire alle leggi che volere
comandareloro. E volendo intendere il modo
aves-sino a tenere a fare questo, non hannoa
durare altra fatica che pigliare per loro
specchio la vita dei principi buo-ni; come
sarebbe Tiinoleone Corintio, Arato Sicioneo, e
simili: nella vitade’ quali ei troveranno
tanta sicurtà e tanta «atisfazione di chi
regge e di chiè retto, che doverrebbe
venirgli voglia di imitargli, potendo facilmente,
per leragioni dette, farlo. Perchè gli
uomini, quando sono governati bene, non cer-cano
uè vogliono altra libertà : come intervenne
ai popoli governati dai duoiprenominati ;
che gli costrinsono ad es-sere principi
mentre che vissono, ancorache da quelli
più volte fusse tentato di ridursi in
vita privata. E perchè in que-sto, e ne'
duoi antecedenti capitoli, si è ragionato
degli umori concitati contraa' principi, e
delle congiure fatte dai figliuoli di Bruto
contra alla patria, edi quelle fatte
contra a Tarquinio Pri-sco ed a Servio Tulio;
non mi parecosa fuori di proposito,
nel seguente capitolo, parlarne diffusamente, sendomateria
degna di essere notata dai prin-cipi e dai
privati. Cap. VI. — Delle congiure.E' non
mi è parso da lasciare indie-tro il
ragionare delle congiure, essendocosa tanto
pericolosa ai principi ed ai privali ;
perché si vede per quelle mollipiù
principi aver perduta la vita e lo Stato,
die per guerra aperta. Perchè ilpoter
fare aperta guerra con un prin-cipe, è
conceduto a pochi ; il poterglicongiurar contra,
è conceduto a ciascuno' DalP altra parte, gli
uomini privati nonentrano in impresa più
pericolosa nè più temeraria di questa;
perchè la èdifficile e pericolosissima in
ogni sua parte. Donde ne nasce, che
molte se netentano, e pochissime hanno il
line de-siderato. Acciocché, adunque, i principi imparino
a guardarsi da questi pericoli, e che i privati
più timidamente vi siniellino; anzi
imparino ad esser contenti a vivere sotto
quello imperio che dallasorte è stato loro preposto;
io ne par- lerò diffusamente, non lasciando
indietroalcun caso notabile in documento
del-1’ uno e dell’ altro. E veramente, quellasentenza
di Cornelio Tacito è aurea, che dice: che
gli uomini hanno ad ono-rare le cose
passate, ed ubbidire alle presenti ; e
debbono desiderare i buoniprincipi, e comunque si
siano fatti tol-lerargli. E veramente chi fa
altrimenti,il più delle volte rovina sè e
la sua patria. Dobbiamo, adunque, entrandonella
materia, considerare prima contra a chi si
fanno le congiure; e troveremofarsi o contra
alla patria, o contra ad uno principe;
delle quali due voglioche al presente
ragioniamo; perchè di quelle che si fanno
per dare una terraai nimici che la
assediano, o che abbino per qualunque cagione
similitudine conquesta, se, n’ è parlato di
sopra a suf- ficienza. E tratteremo in questa primaparte
di quelle contra al principe, e pri-ma
esamineremo le cagioni di esse: lequali
sono molte; ma una ne è impor-tantissima
più che tutte V altre. E que-sta è l’essere
odiato dall’universale; perchè quel principe che
si è concitatoquesto universale odio, è ragionevole che
abbi de’ particolari i quali da luisiano
stati più offesi, e che desiderino vendicarsi.
Questo desiderio è accresciutoloro da quella
mala disposizione univer- sale, che veggono
essergli concitata con-tra. Debbe, adunque,
un principe fug-gire questi carichi pubblici : e
come egliabbia a fare a fuggirli, avendone
altrove trattato, non ne voglio parlare
qui; per-chè guardandosi da questo, le semplici offese
particolari gli faranno meno guer-ra. L’ una,
perchè si riscontra rade volte in uomini
che stimino tanto una ingiu-rio, che si
menino a tanto pericolo per vendicarla; l’altra,
che quando pur eilussino d’animo e di
potenza da farlo, sono ritenuti da quella
benivolenza uni-versale, che veggono avere ad
uno prin-cipe. Le ingiurie, conviene che sianonella
roba, nel sangue, o nell’onore. Di quelle
del sangue sono più pericolose leminacce
che la esecuzione; anzi, le mi-nacce sono
pericolosissime, e nella ese-cuzione non vi è
pericolo alcuno: perchè chi è morto, non
può pensare alla ven-detta; quelli che
rimangono vivi, il più delle volte ne
lasciano il pensiero almorto. Ma colui
che è minacciato, e che si vede constretto
da una necessità o difare o di patire,
diventa un uomo pe-ricolosissimo per il
principe: come nelsuo luogo particolarmente
diremo. Fuora di queste necessità, la roba
e l’onoresono quelle due cose che offendono
più gii uomiui che alcun’ altra offesa, e dallequali
il principe si debbe guardare : per-chè e’
non può mai spogliare uno tanto,che
non gli resti un coltello da vendi-carsi:
non può mai tanto disonorareuno, che
non gli resti un animo ostinato alla
vendetta. E degli onori che si tol-gono
agli uomini, quello delle donne importa
più: dopo questo, il vilipendiodella sua
persona. Questo armò Pausa-sania contro a
Filippo di Macedonia;questo ha armato molti
altri contra a molti altri principi: e nei
nostri tempiIulio Belanti non si mosse a
congiurare contra Pandolfo tiranno di Siena,
se nonper avergli quello data, e poi
tolta per moglie una sua figliuola ; come
nel suoluogo diremo. La maggior cagione che
fece che i Pazzi congiurarono conteaa’
Medici, fu l’eredità di Giovanni Bon- romei,
la quale fu loro tolta per ordinedi
quelli. Un’altra cagione ci è, e gran-dissima,
che fu gli uomini congiurarecontro al
principe; la quale è il, disi-derio di
liberare la patria stata daquello occupata.
Questa cagione mosse Bruto e Cassio contro a
Cesare; questaha mosso molti altri contro
ai Palali, Dionisi, ed altri oceupatori
della patrialoro. Nè può da questo
umore alcuno tiranno guardarsi, se non con
diporrela tirannide. E perchè non si truovu alcuno
che faccia questo, si truovauo pochi che
non capitino male; donde nacque quel verso
di Iuvenale:« Adgcnerum Cereria sineccedeet
vulnere parici Descendunt reges, et sicca
morte tiranni. »1 pericoli che si portano,
come io dissi di sopra, nelle congiure,
sono grandi, portandosi per lutti i tempi;
perchè in tali casi si coire pericolo
nel maneg-giarli, nello eseguirli, ed eseguiti
che sono. Quelli che congiurano, o e’sonouno, o
e’ sono più. Uno non si può dire che
sia congiura, ma è una ferma dispo-sizione
nata in un uomo d’ ammazzare il principe.
Questo solo dei tre pericoliche si
corrono nelle congiure, manca del primo;
perchè innanzi alla esecu-zione non porta
alcun pericolo, non avendo altri il suo
segreto, nè portandopericolo che torni il
disegno suo all* orec-chie del principe.
Questa diliberazionecosi fatta può cadere
in qualunque uomo, di qualunque sorte,
piccolo, grande, no-bile, ignobile, famigliare e
non famiglia-re al principe; perchè ad
ognuno è le-cito qualche volta parlargli; ed a
chi è lecito parlare, è lecito sfogare T animosuo.
Pausanio, del quale altre volte si è parlato,
ammazzò Filippo di Macedoniache andava al
tempio, con mille armati d* intorno, ed
in mezzo intra il figliuoloed il
genero: ma costui fu nobile e co- gnito
al principe. Uno Spagnuolo poveroed
abietto, dette una coltellata in su M collo
al re Ferrante, re di Spagna : nonfu
la ferita mortale, ma per questo si vidde
che colui ebbe animo e comoditàa farlo. Uno
dervis, sacerdote turchesco, trasse d’ una
scimitarra a Baisit, padredel presente Turco:
non lo ferì, ma ebbe pur animo e
comodità a volerlo fare.Di questi animi
«fatti cosi, se ne truo- vano, credo,
assai che lo vorrebbonofare, perchè nel
volere non è pena uè pericolo alcuno ; ma
pochi che lo facci-no. Ma di quelli
che lo fanno, pochis- simi o nessuno che
non siano ammaz-zati in sul fatto: però
non si truova chi voglia andare ad
una certa morte. Malasciamo andare queste
uniche volontà, e veniamo alle congiure intra i
più.Dico, trovarsi nelle istorie, tutte le
con-giure esser fatte da uomini grandi, ofamigliarissimi
de! principe: perchè gli altri, se non
sono matti affatto, non pos-sono congiurare ;
perchè gli uomini de-boli, e non famiglial
i al principe, man-cano di tutte quelle
speranze e di tutte quelle comodità che si
richiede alla ese-cuzione d’ una congiura.
Prima, gli uo-mini deboli non possono
trovare riscon-tro di chi tenga lor fede;
perchè uno non può consentire alla volontà
loro,sotto alcuna di quelle speranze che fa
entrare gli uomini ne’ pericoli grandi;in
modo che, come e’ si sono allargati in
due o in tre persone, e’ trovano loaccusatore
c rovinano: ma quando pure ei fussino tanto
felici che mancassinodi questo accusatore,
sono nella esecu-zione intorniati da tale
difficultà, pernon aver V entrata facile al
principe, che gli è impossibile che in essa
ese-cuzione ei non rovinino. Perchè, se gli uomini
grandi, e che hanno Y entratafacile, sono
oppressi da quelle difficultà. che di sotto
si diranno, conviene che incostoro quelle
difficultà senza fine crc-schino. Pertanto
gli uomini (perchè dovene va la vita
e la roba non sono al tutto insani),
quando si veggono deboli, se neguardano; e
quando egli hanno a noia un principe,
attendono a biastemmarlo,cd aspettano che quelli
che hanno mag-giore qualità di loro, gli
vendichino. Ese pure si trovasse che
alcuno di que-sti simili avesse tentato
qualche cosa, sidebbe laudare in loro
la intenzione, e non la prudenza. Vedesi,
pertanto, quelliche hanno congiurato, essere
stali tutti uomini grandi, o famiglial i del
princi-pe; de’ quali molti hanno congiuralo, mossi
cosi da troppi benefìzi, comedalle troppe
ingiurie: come fu Peren-nio contra a
Commodo, Plauziano con-tro a Severo, Sciano
contra a Tiberio. Costoro tutti furono dai
loro imperadoricon stituiti in tanta ricchezza,
onore e grado, che non pareva che mancasseloro
alla perfezione della potenza altro che l’
imperio; e di questo non volendomancare, si
missono a congiurare con- ila al principe: ed
ebbono le loro con-giure tutte quel fine
che meritava la loro ingratitudine; ancora
che di que-ste simili ne’ tempi più
freschi ne avesse buon fine quella di
Iacopo d’Appianocontra a messer Piero Gambacorti,
prin-cipe di Pisa : il quale Iacopo,
allevato enutrito e fatto riputato da lui,
gli tolse poi lo Stato. Fu di queste
quella delCoppola, ne’ nostri tempi, contra
al re Ferrando d' Aragona ; il quale Coppolavenuto
a tanta grandezza che non gli pareva gli
mancasse se non il regno,per volere
ancora quello, perde la vita. E veramente,
se alcuna congiura contraa’ principi fatta
da uomini grandi do-vesse avere buon fine,
doverrebbé es-sere questa; essendo fatta da
un altro re, si può dire, e da chi
ha tanta co-modità di adempire il suo
desiderio: ma quella cupidità del dominare chegli
accieca, gli accieca ancora nel ma-neggiare
questa impresa ; perchè, sesapessino fare
questa cattività con pru-denza, sarebbe
impossibile non riuscisseloro. Debbe, adunque,
un principe che si vuole guardare dalie
congiure, temerepiù coloro a chi egli ha
fatto troppi piaceri, che quelli a chi gli
avesse fattetroppe ingiurie. Perchè questi
mancano di comodità, quelli ne abbondano; e lavoglia
è simile, perchè gli è così grande o maggiore
il desiderio del dominare,che non è quello
della vendetta. Deb-bono, pertanto, dare tanta
autorità agliloro amici, che da quella
al principato sia qualche intervallo, e che
vi sia inmezzo qualche cosa da
disiderare: al-trimenti, sarà coso rara se
non inter-verrà loro come ai principi
soprascritti. .Ma torniamo all’ ordine nostro.
Dico,che avendo ad esser quelli che
congiu-rano uomini grandi, e che abbino l’aditofacile
al principe, si ha a discorrere i successi
di queste loro imprese qualisiano stati, e
vedere la cagione che gli «ha fatti
essere felici ed infelici. E comeio dissi
di sopra, ci si trovano dentro in tre
tempi, pericoli: prima, in su ’lfatto, e
poi. Però se ne trovano poche che
abbiano buono esito, perchè gli èimpossibile
quasi passargli tutti felice-mente. E cominciando a
discorrere ipericoli di prima, che sono i
più impor-tanti; dico, come e’ bisogna
essere moltoprudente, ed avere una gran
sorte, che nel maneggiare una congiura la
non siscuopra. E si scuoprono o per relazio-ne, o
per coniettura. La relazione nasceda
trovare poca fede, o poca prudenza, negli
uomini con chi tu la comunichi.La
poca fede si truova facilmente, per-chè tu
non puoi comunicarla se noncon tuoi
fidati, che per tuo amore si mettino
alla morte, o con uomini chesiano
malcontenti del principe. De’ fidati se ne
potrebbe trovare uno o due; macome tu
Li distendi in molti, è impos-sibile gli
truovi: dipoi, c’bisogna beneche la
benevolenza che ti portano sia grande, a
volere che non paia loro mag-giore il
pericolo e la paura della pena. Dipoi gli
uomini s' ingannano il piùdelle volte dello
amore che tu giudichi che un uomo ti
porti, nè le ne puoimai assicurare,
se tu non ne fai espe- rienza: e farne
esperienza in questo èpericolosissimo: e sebbene
he avessi fatto esperienza in qualche altra
cosa perico-losa dove e’ ti fussono stali
fedeli, non puoi da quella fede misurare
questa,passando questa di gran lunga ogni
al-tra qualità di pericolo. Se misuri la
fededalla mala contentezza che uno abbia del
principe, in questo tu ti puoi facil-mente
ingannare: perchè subito che tu hai
manifestato a quel malcontento l’ani-mo tuo,
tu gli dai materia di conten- tarsi, e
convien bene o che 1’ odio siagrande, o
che 1’ autorità tua sia gran-dissima a
mantenerlo in fede. Di quinasce che
assai ne sono rivelate ed oppresse ne’
primi principii loro; e chequando una è
stata infra molti uomini segreta lungo
tempo, è tenuta cosa mi-racolosa: come fu
quella di Pisone con-tea a Nerone, e ne' nostri
tempi quellade’ Pazzi conira a Lorenzo e Giuliano
de' Medici; delle quali erano consapevolipiù
clic cinquanta uomini, c condus- sonsi alla
esecuzione a scoprirsi. Quantoa scoprirsi per
poca prudenza, nasce quando uno congiurato
ne parla pococauto, in modo che un
servo o altra terza persona intenda; come
intervenneai figliuoli di Bruto, che nel
maneggiare la cosa con i legali di
Tarquinio, fu-rono intesi da un servo, che
gli accusò: ovvero quando per leggerezza ti
vienecomunicala a donna o a fanciullo che tu ami,
o a simile leggieri persona ;come fece
Dinno, uno de* congiurati con Filota centra
ad Alessandro Magno, ilquale comunicò la
congiura a Nicomaco fanciullo amato da lui,
il quale subito lo disse a Ciballino suo
fratello, e Ci-bullino al re. Quanto a
scoprirsi perconieltura, ce tf è in
essempio la con-giura Pisoniana conira a Nerone;
nellaquale Scevino, uno de’ congiurati, il
dì dinanzi eh’ egli aveva ad ammazzareNerone,
fece testamento, ordinò che Me-lichio suo
liberto facesse arrotare unsuo pugnale
vecchio e rugginoso, liberò tutti i suoi servi e
dette loro danarifece ordinare fasciature
da legare ferite: per le quali conietture
accertatosi .Meli-chio della cosa, lo
accusò a Nerone. Fu preso Scevino, e con
lui Natale, un altrocongiurato, i quali
erano stati veduti parlare a lungo e di
segreto insieme ildi davanti; e non si
accordando del ragionamento avuto, furono forzati
aconfessare il vero; talché la congiura fu
scoperta, con rovina di tutti i con-giurati.
Da queste cagioni dello scoprire le
congiure è impossibile guardarsi, cheper malizia,
per imprudenza o per leg- gerezza, la non
si scuopra, qualunquevolta i conscii d’essa
passano il numero di tre o di quattro. E
come e’ ne è presopiù che uno, è
impossibile non riscon- trarla, perchè due non
possono esserconvenuti insieme di tutti i
ragiona- menti loro. Quando e’ sia preso solouno
che sia uomo forte, può egli con la fortezza
dello animo tacere i congiurati;ina conviene
che i congiurati non ab-bino meno animo di
lui a star saldi,e non si scoprire con
la fuga : perchè da una parte che P
animo manca, o dachi è sostenuto o da chi è
libero, la congiura è scoperta. Ed è raro
lo es-sempio addotto da Tito Livio
nella con-giura fatta contra a Girolamo re diSiracusa
; dove, sendo Teodoro uno de’congiurati
preso, celò con una virtùgrande tutti i
congiurati, ed accusò gli amici del re; e
dall’altra parte, tulli icongiurati confidarono
tanto nella virtù di Teodoro, che nessuno
si parti diSiracusa, o fece alcuno segno
di timore. Passasi, adunque, per tutti
questi peri-coli nel maneggiare una congiura
in-nanzi che si venga alla esecuzioned'essa: i
quali volendo fuggire, ci sono questi
rimedi. Il primo ed il più vero,anzi
a dir meglio, unico, è non dare tempo ai
congiurati di accusarti; eperciò comunicare
loro la cosa quando tu ia vuoi fare,
e non prima: quelliche hanno fatto cosi,
fuggono al certo i pericoli che sono
nel praticarla, e il piùdelle volte gli
altri ; anzi hanno tutte avuto felice fine:
e qualunque prudentearebbe comodità di governarsi
in que-sto modo, lo voglio che mi
basti ad-durre due essempi. Nelemato, non
po-tendo sopportare la tirannide di Ari-slotimo
tiranno di Epiro, ragunò in casa sua
molti parenti ed amici, e conforta-togli a
liberare la patria, alcuni di loro chiesono
tempo a deliberarsi ed ordi-narsi; donde Nelemato
fece a’ suoi servi serrare la casa,
ed a quelli che essoaveva chiamati, disse:
0 voi giurerete di andare ora a fare questa
esecuzione,o io vi darò tutti prigioni ad
Aristoti-mo. Dalle quali parole mossi coloro,giurarono;
ed andati senza intermissio-ne di tempo,
felicemente l’ ordine diNelemato eseguirono.
Avendo un Mago, per inganno, occupato il
regno de’Persi,ed avendo Orlano, uno
de’grandi uomini del regno, intesa e scoperta
la fraude,lo conferì con sei altri
principi di quello Stato, dicendo come egli
era da vendi-care il regno dalla tirannide
di quel Mago; e domandando alcuno di lorotempo,
si levò Dario, uno de’ sei chia- mati
da Orlano, e disse: 0 noi andre-mo ora a
far questa esecuzione, o io vi andrò ad
accusar tutti. E così d’ac-cordo levatisi, senza
dar tempo ad al- cuno di pentirsi,
eseguirono felicementei disegni loro. Simile a
questi duoi essempi ancora è il modo che
gli Etolitennero ad ammazzare Nabide, tiranno spartano
; i quali mandarono Alessame-no loro cittadino,
con trenta cavalli e dugento fanti, a
Nabide, sotto colore dimandargli aiuto; ed
il segreto solamente comunicarono ad Alessameno;
ed agli altri imposono che lo ubbidissino
in ogni e qualunque cosa, sotto pena diesilio.
Andò costui in Sparta, e non co-municò mai
la commissione sua se nonquando ei la
voile eseguire: donde gli riusci d’
ammazzarlo. Costoro, adunque,per questi modi
hanno fuggiti quelli pericoli che si
portano ne! maneggiarele congiure ; e chi
imiterà loro, sempre gli fuggirà. E che
ciascuno possa farecome loro, io ne
voglio dare lo essein- pio di Pisone,
preallegato di sopra. EraPisone grandissimo e
riputatissimo uomo, e famigliare di Nerone, e in
chiegli confidava assai. Andava Nerone ne’
suoi orli spesso a mangiare seco.Poteva,
adunque, Pisone farsi amici uomini d’animo,
di cuore, e di dispo-sizione atti ad una
tale esecuzione (il che ad uno uomo
grande è facilissimo);e quando Nerone fusse stato
ne* suoi orti, comunicare loro la cosa, e
conparole convenienti inanimirli a far quello che
loro non avevano tempo a ricusa-re, e che
era impossibile che non riu- scisse. E cosi,
se si esamineranno tutte1’ altre, si
troverà poche non esser po- tute condursi
nel medesimo modo: magli uomini per
lo ordinario poco inten-denti delie azioni
del mondo, spessofanno errori grandissimi, e
tanto mag-giori in quelle che hanno più
dello istraordinario, come è questa. Debbesi, adunque,
non comunicare mai la cosase non
necessitato ed in sul fatto; e se
pure la vuoi comunicare, comunicalaad un
solo, del quale abbi fatto lun-ghissima
isperienza, o che sia mossodalle medesime
cagioni che tu. Tro-varne uno così fatto è
molto più facileche trovarne più, e per
questo vi è meno pericolo; dipoi, quando
pure eiti ingannasse, vi è qualche rimedio
a difendersi, che non è dove siano con-giurati
assai: perchè da alcuno prudente ho sentito
dire che con uno si può par-lare ogni
cosa, perchè tanto vale, se tu non ti
lasci condurre a scrivere di tuamano, il
sì dell* uno quanto il no del- l’altro; e
dallo scrivere ciascuno debbeguardarsi come
da uno scoglio, perchè non è cosa che
più facilmente ti con-vinca, che lo scritto
di tua mano. Plau- ziano volendo fare
ammazzare Severoimperadore ed Antonino suo
figliuolo, commise la cosa a Saturnino tribuno;il
quale volendo accusarlo e non ubbi- dirlo, e
dubitando che venendo alla ac-cusa non
fusse più creduto a Plauziano che a lui,
gli chiese una cedola di suamano, che
facesse fede di questa cora-missione ; la
quale Plauziano , acce-cato dalla ambizione, gli
fece: donde seguì che fu dal tribuno
accusato econvinto ; e senza quella cedola, e certi
altri contrassegni, sarebbe statoPlauziano
superiore : tanto audacemente negava. Truovasi,
adunque, nella accusad’uno qualche rimedio,
quando tu non puoi esser da una
scrittura, o altricontrassegni, convinto: da che
uno si debbe guardare. Era nella congiura
Pi-soniana una femmina chiamata Epicari, 9tata
per lo addietro amica di Nerone;la
quale giudicando che fusse a propo-sito mettere
tra i congiurati uno capi-tano di alcune
triremi che Nerone teneva per sua guardia,
gli coipunicò la con-giura, ma non i
congiurati. Donde, rom-pendogli quel capitano la
fede ed accu-sandola a Nerone, fu tanta l’
audacia di Epicari nel negarlo, che Nerone,
rimasoconfuso, non la condennò. Sono, adun-que,
nel comunicare la cosa ad un solodue
pericoli : l’ uno, che non ti accusi in pruova;
l’altro, che non ti accusi con-vinto e
constretto dalla pena, sendo egli preso per
qualche sospetto o per qual-che indizio avuto
di lui. Ma nell’ uno e nell’altro di
questi duoi pericoli è qual-che rimedio,
potendosi uegare l’uno al- legandone l’odio che
colui avesse teco,e negare l’altro allegandone
la forza che lo costringesse a dire le
bugie. E,adunque, prudenza non comunicare la cosa
a nessuno, ma fare secondo quelliessenipi
soprascritti; o quando pure la comunichi, non
passare uno, dove se èqualche più
pericolo, ve n’è meno assai che comunicarla
con molti. Propinquo a questo modo è quando
una necessità ti constringa a fare quello
al principeche tu vedi che '1
principe vorrebbe fare a te, la quale sia
tanto grande chenon ti dia tempo se
non a pensare d’as* sicurarti. Questa necessità
conduce quasisempre la cosa al (ine
disiderato: ed a provarlo voglio bastino
duoi essempi.Aveva Commodo, imperadore, Leto ed Eletto,
capi de’ soldati pretoriani, intrai primi amici e
famigliaci suoi, ed aveva Marzia intra le
sue prime concubine edamiche; e perchè egli
era da costoro qualche volta ripreso de'
modi con iquali maculava la persona
sua e lo im-perio, deliberò di fargli
morire, e scrissein su una lista: Marzia,
Leto ed Eletto, ed alcuni altri che
voleva la notte se-guente far morire; e
questa lista messe sotto il capezzale del
suo letto. Ed essen-do ito a lavarsi, un
fanciullo favorito di lui scherzando per
camera e su pelletto, gli venne trovata
questa lista, ed uscendo fuora con essa
in mano, ri-scontrò Marzia; la quale gliene
tolse, e lettola, e veduto il contenuto d’essa,subito
mandò per Leto ed Eletto; e co-nosciuto
tutti tre il pericolo in qualeerano,
diliberarono prevenire; e, senza metter tempo
in mezzo, la notte seguenteammazzarono
Commodo. Era Antonino Caracalla, imperadore, con
gli esercitisuoi in Mesopotamia, ed aveva
per suo prefetto Macrino, uomo più civile
chearmigero; e, come avviene che. i prin- cipi
non buoni temono sempre che altrinon
operi contra di loro quello che par loro
meritare, scrisse Antonino a Ma-terniano suo
amico a Roma, che inten-desse dagli astrologi,
se gli era alcunoche aspirasse allo
imperio, e gliene av-visasse. Donde Materniano
gli riscrisse,come Macrino era quello che
vi aspira-• va; e pervenuta la lettera,
prima allemani di Macrino che dello
imperadore,e per quella conosciuta la necessità od’ammazzare
lui prima che nuova let-tera venisse da
Roma, o di morire,commise a Marziale centurione,
suo fida-lo, ed a chi Antonino aveva
morto pochigiorni innanzi un fratello, che
lo am-mazzasse: il che fu eseguito da
lui fe-licemente. Vedesi, adunque, che questa necessità
che non dà tempo, fa quasiquel
medesimo effetto che ’l modo da me
sopraddetto che tenne Nelemato diEpiro.
Vedesi ancora quello che io dissi quasi
nel principio di questo discorso,come le
minacce offendono più gii prin- cipi, e sono
cagione di più efficaci con-giure che le
offese : da che un principe si debbe
guardare; perchè gli uomini si hanno o a
carezzare, o assicurarsi di loro, e non gli
ridurre mai in termineche gli abbino a
pensare che bisogni loro o morire, o far
morire altrui.Quanto ai pericoli che si
corrono in su la esecuzione, nascono questi
o da va-riare l’ordine, o da mancare V animo a
colui che eseguisce, o da errore chelo
esecutore faccia per poca prudenza, o per
non dar perfezione alla cosa, ri-manendo
vivi parte di quelli che si di- segnavano
ammazzare. Dico, adunque,come e' non è cosa
alcuna che faccia tanto sturbo o impedimento a
tutte leazioni degli uomini, quanto è in
uno instante, senza aver tempo, avere a va-riare
un ordine, e pervertirlo da quello che si
era ordinato prima. E se questavariazione
fa disordine in cosa alcuna, lo fa
nelle cose della guerra, ed in cosesimili
a quelle di che noi parliamo; per-chè in
tali azioni non è cosa tanto ne-cessaria a
fare, quanto che gli uomini fermino gli
animi loro ad eseguire quellaparte che
tocca loro; e se gli uomini hanno volto
la fantasia per più giorniad un modo
e ad uno ordine, e quello subito varii, è
impossibile che non siperturbino tutti, e
non rovini ogni co-sa; in modo ch'egli è
meglio assai ese-guire una cosa secondo l'
ordine dato, ancora che vi si vegga
qualche incon-veniente, che non è, per
voler cancellare quello, entrare in mille
inconvenienti.Questo interviene quando e’ non
si ha tempo a riordinarsi; perchè quando siha
tempo, si può 1’ uomo governare a suo
modo. La congiura de’ Pazzi contraa Lorenzo e
Giuliano de’ Medici, è nota. L’ ordine dato
era, che dessino desinareal cardinale di
San Giorgio, ed a quel desinare ammazzargli:
dove si era di-stribuito chi aveva a
ammazzargli, chi aveva a pigliare il palazzo, e
chi correrela città e chiamare il popolo
alla libertà. Accadde che essendo nella
chiesa catte-drale in Firenze i Pazzi, i Medici
ed il Cardinale ad uno offizio solenne,
s’in-tese come Giuliano la mattina non vi desinava
: il che fece che i congiuratis’adunarono
insieme,^ quello che gli avevano a far in
casa i Medici, dilibe-rarono di farlo in
chiesa. Il che venne a perturbare tutto
l’ordine; perchè Gio-vambatista da Montesecco
non volle con-correre all’ omicidio, dicendo
non lo co-lere fare in chiesa: talché
gli ebbono a“mutare nuovi ministri in
ogni azione; iquali, non avendo tempo a
fermare l’ani-mo, feci ono tali errori, che
in essa ese-cuzione furono oppressi. Manca
l’animo a chi eseguisce, o per riverenza, o perpropria
viltà dello esecutore, lì) tanta la maestà
e la riverenza che si tira dietrola
presenza d’uno principe, eh’ egli è fa-cil
cosa o che mitighi o ch’egli sbigot-tisca uno
esecutore. A Mario, essendo preso da’ Minturnesi,
fu mandato uno ser-vo che lo ammazzasse ;
il quale spaventato dalla presenza di
quello uomo e dalla me-moria del nome suo
divenuto vile, per-de ogni forza ad
ucciderlo. E se que-sta potenza è in uno
uomo legato e prigione, ed affogato in
la mala fortuna,quanto si può temere
che la sia mag-giore in un principe
sciolto, con lamaestà degli ornamenti,
della pompa c della comitiva sua? talché
ti può questapompa spaventare, o vero con
qualche grata accoglienza raumiliare. Congiura-rono
alcuni contro a Sitalce re di Tra- cia;
deputarono il dì della esecuzione;convennono
al luogo deputato, dov’ era il principe;
nessuno di loro si mosseper offenderlo:
Unto che si partirono senza aver tentato
alcuna cosa e senzasapere quello che se
gli avesse impediti; ed incolpavano 1’ uno
1’ altro. Caddonoin tale errore più
volte ; tanto che sco-pertasi la congiura,
portarono pena diquel male che poterono e
non volleno fare. Congiurarono contra Alfonso
ducadi Ferrara due suoi fratelli, ed
usarono mezzano Giennes prete e cantore delduca;
il quale più volte a loro richiesta, condusse
il duca fra loro, talché gliavevano
arbitrio di ammazzarlo. Nondi-meno, mai nessuno
di loro non ardì difarlo; tanto che
scoperti, portarono la pena della cattività e
poca prudenzaloro. Questa negligenza non
potette na-scere da altro, se non che
convenne oche la presenza gli sbigottisse o
che qualche umanità del principe gli umi-liasse.
Nasce in tali esecuzioni inconve-niente o errore
per poca prudenza, oper poco animo;
perchè V una e 1’ altra di queste due
cose ti ’nvasa, e, portatoda quella
confusione di cervello, ti fa dire e fare
quello che tu non debbi. Eche gli
uomini invasino e si confondino, non lo può
meglio dimostrare Tito Livioquando descrive
d’ Alessameno elolo, quando ei volse
ammazzare Nabide spar-tano^ di che abbiamo
di sopra parlato; che, venuto il tempo
della esecuzione,scoperto che egli ebbe a’
suoi quello che af aveva a fare," dice
Tito Livioqueste parole: Collegi! et i psc
animunij confusimi tanice cogilatione rei. Perchègli
è impossibile eh* alcuno, àncora che di
animo fermo, ed uso alla morte de-gli
uomini e ad operare il ferro, non si
confonda. Però si debbe eleggere uo-mini
sperimentati in tali maneggi, ed a nessun
altro credere, ancora che tenutoanimosissimo.
Perchè, dello animo nelle cose grandi,
senza avere fatto isperien-za, non sia
alcuno che se ne prometta cosa certa.
Può, adunque, questa con-fusione o farti cascare
Panni di mano, o farti dire cose che
faccino il medesi-mo effetto. Lucilla, sorella
di Commodo, ordinò che Quinziano lo ammazzasse.Costui
aspettò Commodo nella entrata dello anfiteatro, c
con un pugnale ignudoaccosta ndosegli, gridò:
Questo ti manda il Senato: le quali
parole fecero che fuprima preso eh’
egli avesse calato il braccio per ferire.
Messer Antonio daVolterra, diputato, come
di sopra si disse, ad ammazzare Lorenzo
de* Medici,nello accostategli, disse: Ah
traditore! la qual voce fu la salute
di Lorenzo, ela rovina di quella
congiura. Può non si dare perfezione alla
cosa, quando sicongiura contro ad un
capo, per le ca-gioni delle: ma facilmente
non se le dàperfezione quando si
congiura contro a due capi; anzi è tanto
difficile, che gliè quasi impossibile eli»
la riesca. Per-chè fare una simile azione
in un mede-simo tempo in diversi luoghi, è
quasi impossibile; perchè in diversi tempinon
si può fare, non volendo che l’una guasti
1’ altra. In modo clic, se il con-giurare
contro ad uu principe è cosa dubbia,
pericolosa e poco prudente ;congiurare contro a
due, è al tutto vana e leggieri. E se non
fusse la riverenzadello istorieo, io non
crederei mai che fusse possibile quello che
Erodiano dicedi Plauziano, quando ei
commise a Sa-turnino centurione, che egli solo
am-mazzasse Severo ed Antonino, abitanti in
diversi luoghi: perchè la è cosa tantodiscosto
dal ragionevole, che altro che questa
autorità non me lo farebbe cre-dere.
Congiurarono certi giovani ateniesi contra a
Diocle ed Ippia, tiranni diAlene.
Ammazzarono Diocle; ed Ippia che rimase, Io
vendicò. Chione e Leo-nide, eradensi e discepoli
di Platone, congiurarono contro a Clearco e Satiro,tiranni:
ammazzarono Clearco; e Satiro che restò vivo,
lo vendicò. Ai Pazzi, piuvolte da noi
allegati, non successe di ammazzare se non
Giuliano. In modoche, di simili congiure
contro a più capi se ne dcbbe astenere
ciascuno, perchènon si fa bene nè a
sè nè olla patria nè ad alcuno: anzi
quelli che riman-gono , diventano più insopportabili
c più acerbi; come sa Firenze, Ateneed
Eraclea, state da ine preallegate. È vero
che la congiura clic Pelopidafece per
liberare Tebe sua patria , ebbe tutte le
diffìcultù; nondimenoebbe felicissimo fine:
perchè Pelopida non solamente congiurò contra a
duetiranni, ma contra a dieci; non sola-mente
non era confidente e non gli erafacile
1’ entrata ai tiranni, ma era ri-bello:
nondimeno ei potè venire iti Te-be,
ammazzare i tiranni, e liberare la patria. Pur
nondimeno fece lutto, conI’ aiuto d’
uno Carione, consigliere de’ ti-ranni, dal quale
ebbe 1’ entrata fucilealla esecuzione sua.
Non sia alcuno, non-dimeno, che pigli lo
essempio da co-stui : perchè come la fu
impresa impos-sibile, e cosa maravigliosa a riuscire,cosi
fu ed è tenuta dagli scrittori i quali
la celebrano come cosa rara, equasi
senza essempio. Può essere inter-rotta tale
esecuzione da una falsa im-maginazione, o da
uno accidente im-provviso che nasca in su M
fatto. Lamattina che Bruto e gli altri
congiurati volevano ammazzare Cesare, accadde, chequello
parlò a lungo con Gneo Popiiio Cenate, uno
de’ congiurati ; e vedendogli altri questo lungo
parlamento, du-bitarono che detto Popiiio non
rivelassea Cesare la congiura. Furono per
ten-tare d* ammazzare Cesare quivi, e nonaspettare
che fusse in Senato; ed areb-bonlo
fatto, se non che il ragionamentofini, e
visto non fare a Cesare moto alcuno
straordinario, si rassicurarono.Sono queste false
immaginazioni da con-siderarle, ed avervi con
prudenza ri-spetto ; e tanto più, quanto egli è
facile ad averle. Perchè chi ha la
sua con-scienza macchiata, facilmente crede che si
parli di lui: puossi sentire una pa-rola
detta ad un altro fine, che ti
fac-eia perturbare t’ animo, e credere cheia
sia detta sopra il caso tuo; e farti o
con la fuga scoprire la congiura date,
o confondere I' azione con accelerarla fuora
di tempo. E questo tanto più fa-cilmente
nasce, quanto ei sono molti ad esser
consci della congiura. Quanto agliaccidenti,
perchè sono insperati, non si può se
non con gli essempi mostrargli,e fare gli
uomini cauti secondo quelli, lulio Belanti
da Siena, del quale di so-pra abbiamo
futto menzione, per lo sdegno aveva contra
a Pandolfo, che gliaveva tolta la figliuola
che prima gli aveva data per moglie,
deliberò d’ am-mazzarlo, ed elesse questo
tempo. An-dava Pandolfo quasi ogni giorno a vi-sitare
un suo parente infermo, e nello andarvi
passava dalle case di lulio. Co-stui
adunque, veduto questo, ordinò d* avere i
suoi congiurali in casa ad ordine per
ammazzare Pandolfo nel pas-sare ; e messisi
dentro alP uscio armati,teneva uno alla
fenestra, che, passando Pandolfo, quando ci
fosse slato pressoall’ uscio, facesse un
cenno. Accadde che venendo Pandolfo, ed
avendo fallo coluiil cenno, riscontrò uno
amico che Io fermò; ed alcuni di
quelli che erano conlui, vennero a
trascorrere innanti, e veduto e sentito il
rornore d’arme, sco-persono l’agguato; in
modo che Pan- dolfo si salvò, e tulio coi
compagni s’ eh*bono a fuggire di Siena.
Impedì quello accidente di quello scontro
quella azione,e fece a Iulio rovinare la
sua impresa. Ai quali accidenti, perchè ei
sono rari,non si può fare alcuno
rimedio. È ben necessario esaminare tutti quelli
chepossono nascere, e rimediarvi. Restaci, al
presente, solo a disputare de’ pericoliche
si corrono dopo la esecuzione : i quali
sono solamente uno; e questo è,quando e’
rimane alcuno che vendichi il principe
morto. Possono rimanere,adunque, suoi fratelli, o
suoi figliuoli, o altri aderenti, a chi s’
aspetti il prin-cipato; e possono rimanere o per
tua. negligenza, o per le cagioni dette di
so-pra, che faccino questa vendetta: come intervenne
a Giovannandrea da Lampo-gnano, il quale,
insieme con i suoi con-giurati, avendo morto
il duca di Mi-lano, ed essendo rimaso
uno suo figliuolo c due suoi fratelli,
furono a tempo avendicare il morto. E
veramente, in questi casi i congiurati sono
scusati,perchè non ci hanno rimedio; ma
quando ei ne ripiene vivo alcuno per
poca pru-denza, o per loro negligenza, allora è che
non meritano scusa. Ammazzaronoalcuni congiurati
Forlivesi il conte Gi-rolamo loro signore,
presono la moglie,cd i suoi figliuoli, che
erano piccoli ; e non parendo loro poter
vivere sicuri senon si insignorivano della
fortezza, e non volendo il castellano darla
loro,Madonna Caterina (che così si chiamava la
contessa) promise a’ congiurati, se lalasciavano
entrare in quella, di farla consegnare
loro, e che ritenessino ap-presso di loro i suoi
figliuoli per ista- ticiii. Costoro sotto
questa fede ve la la-sciarono entrare ; la
quale come fu den-tro dalie mura rimproverò
loro la mortedel marito, e minacciógli d’
ogni qua-lità di vendetta. B per mostrare chede’
suoi figliuoli non si curava, mostrò loro
le membra genitali, dicendo cheaveva ancora
il modo a rifarne. Cosi costoro, scarsi di
consiglio e tardi av-vedutisi del loro errore,
con uno per-petuo esilio patirono pene
della pocaprudenza loro. Ma di tutti i
pericoli che possono dopo la esecuzione avvenire,non
ci è il più certo, nè quello che sia più
da temere, che quando il popolo èamico
del principe che tu hai morto: perchè a
questo i congiurati non hannorimedio alcuno,
perchè e’ non se ne pos- sono mai
assicurare. In essempio ci èCesare, il
quale per avere il popolo di Roma
amico, fu vendicato da lui; per-chè avendo
cacciati i congiurati di Ro-ma, fu cagione
che furono tutti in varitempi e in
vari luoghi ammazzati. Le congiure che si
fanno contro alla patriasono meno
pericolose per coloro che le fanno, che
non sono quelle che si fannocontro ai
principi: perchè nel maneg-giarle vi sono
meno pericoli che inquelle; nello eseguirle
vi sono quelli medesimi; dopo la
esecuzione, non veli* è alcuno. Nel
maneggiarle non vi è pericoli molti: perchè
un cittadino puòordinarsi alia potenza
senza manifestare l’animo e disegno suo ad
alcuno; e sequelli suoi ordini non gli sono
inter- rotti; seguire felicemente I* impresa sua;se
gli sono interrotti con qualche legge, aspettar
tempo, ed entrare per altra via.Questo s’
intende in una repubblica dove è qualche
parte di corruzione; perchèiu una non
corrotta, non vi avendo luogo nessuno
principio cattivo, nonpossono cadere in un
suo cittadino que- sti pensieri. Possono,
adunque, i cittadiniper molti mezzi e molte
vie aspirare al principato, dove ei non
portano peri-colo d’ essere oppressi: si
perchè le re-pubbliche sono più tarde
che uno prin-cipe, dubitano meno, e per
questo sono manco caute; sì perchè hanno
più ri-spetto ai loro cittadini grandi, e
per questo quelli sono più audaci e più animosi
a far loro contro. Ciascuno ha letto la
congiura di Catilina scritta daSalustio, e
sa come poi che la congiura fu
scoperta, Catilina non solamente stettein
Roma, ma venne in Senato, e disse villania
al Senato ed al Consolo: tantoera il
rispetto che quella città aveva ai suoi
cittadini. E partito che fu di Roma,e eh’
egli era di già in su gli eserciti, non
si sarebbe preso Lentolo e quellialtri, se
non si fussero avute lettere di lor
mano che gli accusavano manifesta-mente. Annone,
grandissimo cittadino in Cartagine, aspirando
alla tirannide,aveva ordinato nelle nozze d’
una sua figliuola di avvelenare tutto il
Senato,e dipoi farsi principe. Questa cosa in- tesasi,
non vi fece il Senato altra prov-visione
che d’ una legge, la quale po- neva
termine alle spese de’ conviti edelle
nozze: tanto fu il rispetto die gli ebbero
alle qualità sue. È ben vero, chenello
eseguire una congiura contra alla patria,
Vi è più difficoltà e maggioripericoli; perchè1
rade volte è che ba- stino le tue forze
proprie conspirandocontra u tanti; e ciascuno non
è prin-cipe d’ uno esercito, come era
Cesare oAgatocle o Cleomene e simili, che hanno ad
un tratto e con la forza occupata lapatria.
Perchè a simili è la via assai facile, ed
assai sicura; ma gli altri chenon
hanno tante aggiunte di forze, con-viene
che faccino la cosa o con ingannoed
arte, o con forze forestiere. Quanto allo
inganno ed all’arte, avendo Pisi-strato
ateniese vinti i Megarensi, e per questo
acquistata grazia nel popolo, uscìuna
mattina fuori ferito, dicendo che la
nobiltà per invklia P aveva ingiuria-to, e
domandò di poter menare armati seco per
guardia sua. Da questa auto-rità facilmente
salse a tanta grandezza, che diventò tiranno d’
Alene. PandolfoPetrucci tornò con altri
fuorusciti in Siena, e gli fu data la
guardia dellapiazza in governo, come cosa
meccanica, e che gli altri rifiutarono; nondiinaneoquelli
armati, con il tempo, gli dierono tanta riputazione,
che in poco tempone diventò principe.
Molti altri hanno tenute altre industrie ed
altri modi, econ ispazio di tempo e
senza pericolo vi si sono condotti. Quelli
che con forzaloro, o con eserciti esterni,
hanno con-giurato per occupare la patria, hannoavuti
vari eventi, secondo la fortuna. Catilina
preallegato vi rovinò sotto. An-none, di
chi di sopra facemmo men- zione, non
essendo riuscito il veleno,armò di suoi
partigiani molte migliaia di persone, e loro
ed eglino furono mor-ti. Alcuni primi
cittadini di Tebe per farsi tiranni
chiamarono in aiuto unoesercito spartano, e
presono la tirannide di quella città. Tanto
che, esaminatetutte le congiure fatte
contro alla pa-Iria, non ne troverai
alcuna, o poche,che nel maneggiarle siano
oppresse; ma tutte q sono riuscite, o sono rovi-nate
nella esecuzione. Eseguite che le sono,
ancora non portano altri pericoli,che si
porti la natura del principato in sé:
perchè divenuto che uno è tiranno,ha i suoi
naturali ed ordinari pericoli che gli
arreca la tirannide, alli qualinon ha
altri rimedi che di sopra si siano
discorsi. Questo è quanto mi èoccorso
scrivere delle congiure; e se io ho
ragionato di quelle che si fanno conil
ferro, e non col veleno, nasce che P hanno
tutte un medesimo ordine. Veroè che quelle
del veleno sono più pe-ricolose, per esser
più incerte: per-chè non si ha comodità
per ognuno; e bisogna conferirlo con chi la
ha ; equesta necessità del conferire ti
fa pe-ricolo. Dipoi, per molte cagioni, un
be-veraggio di veleno non può esser mor-tale:
come intervenne a quelli che am-mazzarono
Commodo, che, avendo quello ributtato il
veleno che gli avevano dato,furono forzati
a strangolarlo, se volleno che morisse. Non
hanno, pertanto, iprincipi il maggiore
nimico che la con* giura ; perchè fatta
che è una congiuraloro conira, o la gli
ammazza, o la gli infama. Perchè, se la
riesce, e’ muoio-no; se la si scopre, e
loro ammazzino i congiurati, si crede sempre
che lusia stata invenzione di quel
principe, per isfogarc 1* avarizia e la
crudeltà suaconira al sangue ed alla
roba di quelli eh’ egli ha morti. Non
voglio però man-care di avvertire quel
principe o quella repubblica contra a chi fusse
congiu-rato, che abbino avvertenza, quando una
congiura si manifesta loro, innanziche
faccino impresa di vendicarla, di cercare
ed intendere molto bene la qua-lità di
essa, e misurino bene le condi- zioni de’
congiurati e le loro ; c quandola truovino
grossa e potente, non la scuoprino mai,
infimo a tanto che sisiano preparati con
forze sufficienti ad opprimerla: altrimenti
facendo, scopri-rebbono la loro rovina.
Però debbono con ogni industria dissimularla,
perchèi congiurati veggendosi scoperti, cac-ciati da
necessità, operano sema ris-petto. In esseinpio
ci sono i Romani; i quali aveudo lasciate
due legioni disoldati a guardia de’
Capovani contra ai Sanniti, come altrove
dicemmo, con-giurarono quelli capi delle legioni
in-sieme di opprimere i Capovani: la qualcosa
intesasi a Roma, commessono a Rutilio nuovo
consolo che vi provve-desse: il quale, per
addormentare i con-giurali, pubblicò come il
Senato avevaraffermo le stanze alle legioni
capovane. Il che credendosi quelli soldati, e pa-rendo
loro aver tempo ad eseguire il disegno
loro, non cercarono di accele-rare la cosa
; e così stettono infino che cominciarono a
vedere che il Consologli separava 1’
uno dull’ altro ; la qual cosa generato
in loro sospetto, fece chesi scopersono, e
mandarono ad esecu-zionc la voglia loro.
Nè può esserequesto maggiore essempio nell’
una e nel-Y altra parte: perchè per questo
si vede,quanto gli uomini sono lenti
nelle cose dove ei credono avere tempo; e
quantoei sono presti dove la necessità
gli cac-cia. Nè può uno principe o una
repub-blica, che vuole differire lo scoprire una congiura
a suo vantaggio, usare ter-mine migliore che
offerire di prossimo occasione con arte ai
congiurati, accioc-ché aspettando quella, o parendo
loro aver tempo, diano tempo a quello o aquella
a castigargli. Chi ha fatto altri-menti, ha
accelerato la sua rovina:come fece il
duca di Atene e Guglielmo de* Pazzi. Il
duca, diventato tiranno diFirenze, ed
intendendo essergli congiu-rato contro, fece,
senza esaminare altri-menti la cosa, pigliare
uno de’ congiu-rali: il che fece subito
pigliare V anniagli altri e torgli lo
Stato. Guglielmo, sendo commessario in Val
di Chiananel 1501, ed avendo inteso
come in Arezzo erti congiura in favore
de* Vi-telli per tórre quella terra ai
Fiorentini, subito se uè andò in quella
città, esenza pensare alle forze de’ congiurati o
alle sue, e senza prepararsi di alcunaforza,
con il consiglio del Vescovo suo figliuolo,
fece pigliare uno de’ congiu-rati: dopo la
qual presura, gli altri subito presono 1’
armi e tolseno In ter-ra ai Fiorentini; e
Guglielmo, di com-tnessario, diventò prigione.
Ma quandole congiure sono deboli, si
possono e debbono senza rispetto opprimere. Nonè
ancora da imitare in alcun modo duoi termini
usati, quasi contrari 1’ uno al-I’
altro ; 1’ uno dal prenominato duca d’
Atene, il quale, per mostrare di cre-dere
d’ avere la benivolenza de’ cittadini fiorentini,
fece morire uno che gli ma-nifestò una
congiura: l’altro da Dione siracusano, il
quale, per tentare 1’ animodi alcuno
ch’egli aveva a sospetto, con-sentì a Callippo,
nel quale ei confidava,che mostrasse di
fargli una congiura contra. E tutti due
questi capitaronomale: perchè l’uno tolse
l’animo agli accusatori, e dettelo a chi volse
congiu-rare: l’altro dette la via fucile alta morte
sua, anzi fu egli proprio capodella
sua congiura; come per isperienza gli
intervenne, perchè Callippo potendosenza rispetto
praticare contra a Dione, praticò tanto, che
gli tolse lo Stato ela vita. Cap.
VII. — Donde nasce che le muta-zioni dalla
libertà alla servitù , e dallaservitù alla
libertàj alcuna n' è senza sangue , alcuna n* è
piena.Dubiterà forse alcuno donde nasca che
molte mutazioni che si fanno dallavita
libera alla tirannica e per contra-rio, alcuna
se ne faccia con sangue, al-cuna senza ;
perchè, come per le istorie si comprende,
in simili variazioni alcunavolta sono stali
morti infiniti uomini, alcuna volta non è
stato ingiurialo al-cimo: come intervenne
nella mutazione clic fece Roma dai Re
ai Consoli, dovenon furono cacciati altri
die i Tarquini, fuora delia offensione di
qualunque altro.Il che dipende da questo:
perchè quello stato che si muta, nacque
con violenza,o non ; e perchè quando e’
nasce con violenza, conviene nasca con
ingiuria dimolti, è necessario poi, nella
rovina sua, che gl’ ingiuriati si vogliono
vendicare;e da questo disiderio di vendetta nasce
il sangue e la morte degli uomini. Maquando
quello stato è causato da uno comune
consenso di una universalitàche lo lia
fatto grande, non ha cagione poi, quando
rovina detta universalità,di offendere altri
che il capo. E di que-sta sorte fu lo
stato di Roma e la cac-ciata de* Tarquini;
come fu ancora in Firenze lo stato de*
Medici, che poi nellerovine loro nel
1494, non furono offesi altri che loro. E
così tali mutazioni nonvengono ad esser
molto pericolose : ma son bene pericolosissime
quelle che sonofatte da quelli che si
hanno a vendica-re; le quali furono sempre
mai di sorte,da fare, non che altro,
sbigottire chi le legge. E perchè di questi
essempi ne-son piene l’ istorie, io le
voglio lasciare indietro.Cap. Vili. — Chi vuole
alterare una re-pubblicaj debbo considerare
il sogget-to di quella. E’ si è di sopra
discorso, come un tri-sto cittadino non può
male operare in una repubblica clic non
sia corrotta : laquale conclusione si
fortifica, oltre alle ragioni che allora si
dissono, con l’es*sempio di Spurio Cassio e
di Manlio Capitolino. 11 quale Spurio sendo
uomoambizioso, e volendo pigliare autorità istraordinaria
in Roma, e guadagnarsila Plebe con il
fargli molti benefizi, come era di
vendergli quelli campi che i Ro-mani avevano
tolti alt i Ernici; fu sco-perta dai Padri
questa sua ambizione,ed in tanto recata a
sospetto, r:lie par-lando egli al Popolo,
ed offerendo dìdargli quelli danari che
s’ erano ritratti de’ grani che il
pubblico aveva fatti ve-nire di Sicilia, al
tutto gli recusò, pa-rendo a quello che
Spurio volesse dareloro il pregio della
loro libertà. Ma se tal Popolo fusse
stato corrotto, non areb-be recusato detto
prezzo, e gli arebbe aperta alla tirannide
quella via che glichiuse. Fa molto
maggiore essempio di questo, Manlio Capitolino ;
perchè me-diante costui si vede quanta
virtù d’ani- mo e di corpo, quante buone
opere fattein favore della patria, cancella
dipoi una brutta cupidità di regnare: la
quale,come si vede, nacque in costui
per la invidia che lui aveva degli
onori eranofatti a Cammillo; e venne in
tanta cecità di niente, che nou pensando
al mododel vivere della città, non
esaminando il soggetto quale esso aveva,
non attoa ricevere ancora trista forma, si
mise a fare tumulti in Roma contra al Se-nato
e con tra alle leggi patrie. Dove si
conosce la perfezione di quella città,e la
bontà della materia sua : perchè nel caso
suo nessuno della Nobiltà, an-cora che
fussino acerrimi difensori l’uno deli’ altro,
si mosse a favorirlo ; nessunode’ parenti fece
impresa in suo favore: e con gli altri
accusati solevano com-parire sordidati, vestiti
di nero, tutti mesti, per cattare
misericordia in fa-vore dello accusato; e con
Manlio non se ne vide alcuno. I Tribuni
della plebe,che solevano sempre favorire le
cose che pareva venissino in benefizio delPopolo
; e quanto erano più contra ai Nobili,
tanto piu le tiravano innanzi; inquesto
caso si unirono coi Nobili, per opprimere
una comune peste. Il Popolodi Roma,
disiderosissimo dello utile pro-prio, ed amatore
delle cose che veniva-no contra alla
Nobiltà, avvenga clic facesse a Manlio assai
favori; nondi-meno, come i Tribuni lo citarono, e
che rimessono la causa sua al giudizio delPopolo,
quel Popolo, diventalo di difen*sore
giudice, sema rispetto alcuno locondennò a
morte. Pertanto io non credo che sia
essempio in questa istoria piùatto a
mostrare la bontà di tutti gli ordini
di quella Repubblica, quanto èquesto ;
veggendo che nessuno di quella città si
mosse a difendere un cittadinopieno d’ ogni
virtù, e che pubblicamente e privatamente aveva
fatte moltissimeopere laudabili. Perchè in
tutti loro potè più T amore della patria,
che nessuno-altro rispetto; e considerarono molto più
ai pericoli presenti che da lui di-pendevano,
che ai meriti passati: tanto che con
la morte sua e’ si liberarono..E Tito
Livio dice: Hunc ex itimi habuìt vii',
nisi in libera civilate natus esset,memorabili
Dove sono da considerare due cose: P una,
che per altri modis’ ha a cercare
gloria in una città cor-rotta, che in
una che ancora viva poli-ticamente; V altra
(che è quasi quel me-desimo che la prima) ,
che gli uomini nel proceder loro, e tanto
più nelle azioni grandi, debbono considerare itempi,
ed accomodarsi a quelli. E coloro cbe, per
cattiva elezione o per naturaleinclinazione, si
discordano dai tempi, vivono il più delle
volte infelici, ed hannocattivo esito
razioni loro; al contrario Y hanno quelli
cbe si concordano coltempo. E senza dubbio,
per le parole preallegate dello istorico si
può con-chiudere, che se Manlio fusse nato
ne’ tempi di Mario e di Siila, dove
già lamateria era corrotta e dove esso
arebbe potuto imprimere la forma dell’ ambi-zione
sua, arebbe avuti quelli medesimi seguiti e
successi cbe Mario e Siila, egli altri
poi, che dopo loro alla tiran-nide
aspirarono. Così medesimamente,se Siila e Mario
fussino stati ne’ tempi di Manlio,
sarebbero stati intra le primeloro imprese
oppressi. Perchè un uomo può bene
cominciare con suoi modi econ suoi
tristi termini a corrompere un popolo di
uno città, ma gli è impossi-bile che
la vita d* uno basti a corrom- perla in
modo che egli medesimo nepossa trai*
frutto; e quando bene e’fusse - possibile
con lunghezza di tempo che lofacesse,
sarebbe impossibile quanto al modo del
procedere degli uomini, chesono impazienti, e
non possono lunga- mente differire una loro
passione. Ap-presso, s’ ingannano nelle còse
loro, ecl in quelle, massime, che
disiderano assai:talché, o per poca pazienza o
per in-gannarsene, entrerebbero in impresacontea a
tempo, e capiterebbero male.Però è bisogno, a
voler pigliare auto-rità in una repubblica e
mettervi trista forma, trovare la materia
disordinatadal tempo, e che a poco a poco, e di generazione
in generazione, si sia con-dotta al
disordine: la quale vi si con-duce di
necessità, quando la non sia,come di
sopra si discorse, spesso rin-frescata di
buoni essempi, o con nuoveleggi ritirata
verso i principii suoi. Sa- rebbe, adunque, stato
Manlio un uomoraro e memorabile, se lusso
nato in una città corrotta. E però debbono
i citta-dini che nelle repubbliche fanno alcuna impresa
o in favore della libertà o infavore della
tirannide, considerare il soggetto che eglino
hanno, e giudicareda quello la dilficultà
delle imprese loro. Perchè tanto è diffìcile e
pericoloso volerfare libero un popolo che
voglia viver servo, quanto è voler fare
servo un po-polo che voglia viver libero. E
perchè di sopra si dice, che gli
uomini nellooperare debbono considerare la
qualità de’ tempi e procedere secondo quelli, neparleremo
a lungo nel seguente capi- tolo. Cap. IX. —
Come conviene variare coitempi , volendo sempre
aver buona fortuna.Io ho considerato più
volte come la cagione della trista e della
buona for-tuna degli uomini è riscontrare il modo
del procedere suo coi tempi: perché e’ sivede
che gli uomini nell’ opere loro pro-cedono
alcuni con impeto, alcuni conrispetto e con
cauzione. E perchè nel-l’uno e nell’ altro di
questi modi si pas-sano i termini convenienti,
non si po-tendo osservare la vera via,
nell’uno enell’ altro si erra. Ma
quello viene ad errar meno, ed avere
la fortuna pro-spera, che riscontra, come
io ho detto, con il suo modo il
tempo, e sempre maisi procede, secondo ti
sforza la natura. Ciascuno sa come Fabio
Massimo proce-deva con lo esercito suo
rispettivamente c cautamente, discosto da ogni impetoe
da ogni audacia romana; e la buona fortuna
fece, che questo suo modo ris-contrò bene
coi tempi. Perchè, sendo venuto Annibaie in
Italia, giovine e conuna fortuna fresca; ed
avendo già rotto il popolo romano due
volte; ed essendoquella repubblica priva
quasi della sua buona milizia, e sbigottita ;
non potettesortire miglior fortuna, che
avere un capitano il quale, con la
sua tardità ecauzione, tenesse a bada il
nimico. Nè ancora Fabio potette riscontrare tempipiù
convenienti ai modi suoi: di che nacque
che fu glorioso. E che Fabiofacesse questo
per natura e non per elezione, si vede,
che volendo Scipionepassare in Affrica con
quelli eserciti per ultimare la guerra,
Fabio la con-tradisse assai, come quello
che non si poteva spiccare dai suoi
modi e dallaconsuetudine sua; talché, se
fosse stato, a lui, Annibaie sarebbe ancora
in Italia,come quello che non si
avvedeva che gli erano mutati i tempi, e
che bisogna-va mutar modo di guerra. E se
Fabio fusse stato re di Roma, poteva facil-mente
perdere quella guerra : perchè non arebbe
saputo variare col proce-dere suo, secondo
che variavano i tempi : ma sendo nato
in una repubblica doveerano diversi
cittadini e diversi umori, come la ebbe
Fabio, che fu ottimo ne’tempi debiti a
sostenere la guerra, cosi ebbe poi Scipione
ne’ tempi atti a vin-cerla. Di qui nasce,
che una repubblica ha maggior vita, ed
ha più lungamentebuona fortuna che un
principato; per-chè la può meglio accomodarsi
alla di-versità de’ temporali, per la diversità de’
cittadini che sono in quella, che nonpuò
un principe. Perchè un uomo che sia
consueto a procedere in un modo,non si
muta mai, come è detto; e con-viene di
necessità, quando si mutano itempi disformi
a quel suo modo, che rovini. Piero
Soderini, altre volte preal-legato, procedeva
in tutte le cose sue con umanità e
pazienza. Prosperò eglie la sua patria
mentre che i tempi fu-rono conformi al modo
del procedersuo: ma come vennero dipoiìempi
dove bisognava rompere la pazienza e 1’ umi-lila,
non lo seppe fare; talché insieme con
la sua patria rovinò. Papa lulio 11procedette
in tutto il tempo del suo pon- tificato
con impeto e con furia ; e per-chè i tempi
l’accompagnarono bene, gli riuscirono le sue
imprese tulle. Ma sefossero venuti altri
tempi che avessero ricerco altro consiglio,
di necessità ro-vinava; perchè non arebbe
mutato nè modo nè ordine nel maneggiarsi. E
clicnoi non ci possiamo mutare, ne sono cagione
due cose: V una, che noi non cipossiamo
opporre a quello a che c’ in-clina la
natura ; 1* altra, che avendo unocon
un modo di procedere prosperato assai, non
è possibile persuadergli chepossa far bene a
procedere altrimenti: donde ne nasce che in
uno uomo la for-tuna varia, perchè ella
varia i tempi, ed egli non varia i modi.
Nascene an-cora la rovina della città, per
non si variare gli ordini delle repubblicheco’
tempi ; come lungamente di sopra dis-corremmo :
ma sono più tarde, perchèle penano
più a variare, perchè biso-gna che venghino
tempi che commovinotutta la repubblica; a
che un solo col variare il modo del
procedere non ba-sta. E perchè noi abbiamo
fatto inenzione di Fabio Massimo che
tenne a badaAnnibale, mi pare da discorrere
nel ca-pitolo seguente, se un capitano, volendofar
la giornata in ogni modo col nimico, può
essere impedito da quello, che nonla
faccia. Cap. X. — Che un capitano non puòfuggire
la giornata , quando V av-versario la vuol fare
in ogni moda.Cncus Sulpitius Diclator
advcrsus Gal-lo s bcllum trahcbal, nolens se
fot tuncecoturni Nere ad versus hostentj
qucm lem-pus dcteriorcm in dieSj et
locus alte-rnisi faccrct. Quando e’ seguita uno
er-rore dove lutti gli uomini o la maggiorparte
s' ingannino, io non credo che sia male
molte volle riprovarlo. Pertanto,ancora che
io abbia di sopra più volte mostro,
quanto le azioni circa le cosegrandi
siano disformi a quelle degli antichi tempi,
nondimeno non mi parsuperfluo al presente
replicarlo. Perchè, se in alcuna parte si
devia dagli anti-chi ordini, si devia
massime nelle azioni militari, dove al
presente non è osser-vata alcuna di quelle
cose che dagli an-tichi erano stimate
assai. Ed è natoquesto inconveniente, perchè,
le repub-bliche ed i principi hanno imposta que-sta
cura ad altrui; e per fuggire i pe-ricoli,
si sono discostati da questo eser-cizio: e
se pure si vede qualche volta un re
de’ tempi nostri andare in per -sona,
non si crede però che da lui na- scano
altri modi clic meritino più laude.Perchè
quello esercizio, quando pure Io fanno, lo
fanno a * pompa, e non peralcuna altra
laudabile cagione. Pure, questi fatino minori
errori rivedendo iloro eserciti qualche
volta in viso, te-nendo appresso di loro
il titolo del-V imperio, che non fanno
le repubbli-che, e massime le italiane; le
quali, *fidandosi d’ altrui, nè s’
intendendo in alcuna cosa di quello che
appartengaalla guerra; e dall’ altro canto,
volendo, per parere d* essere loro il principe,diliberarne,
fanno in tale diliberazione mille errori. E
benché d’ alcuno ne abbidiscorso altrove,
voglio al presente non ne tacere uno
importantissimo. Quandoquesti principi ociosi, o
repubbliche ef-feminate, mandano fuori un loro
capi-tano, la più savia commissione che
paia loro darli, è quando gl* impongono cheper
alcun modo non venga a giornata, anzi sopra
ogni cosa si guardi dallazuffa ; e parendo
loro in questo imitare la prudenza di
Fabio Massimo, clic dif-ferendo il combattere
salvò lo Stato a’ Romani, non intendono
che la mag-giore parte delle volte questa
commis-sione è nulla o è dannosa. Perchè sidebbe
pigliare questa conclusione: che un capitano
che voglia stare alla cam-pagna, non può
fuggire la giornata qualunche volta il
nimico la vuole farein ogni modo. E
non è altro questa commissione che dire :
fa* la giornata aposta del nimico, e
non a tua. Perchè a volere stare in
campagna, e non farla giornata, non ci è
altro rimedio si-curo che porsi cinquanta
miglia almenodiscosto al nimico; e dipoi
tenere buonespie, che venendo quello verso
di te,tu abbi tempo a discostarti. Uno
altropartito ci è; rinchiudersi in una
città:e P uno e P altro di questi due partitè
dannosissimo. Nel primo si lascia inpreda
il paese suo al nimico ; ed
unoprincipe valente vorrà più tosto
tentarela fortuna della zuffa, che
allungare la- guerra con tanto danno de’
sudditi. Nelsecondo partito è la perdita
manifesta;perchè conviene che, riducendoti conuno
esercito in una città, tu venga
adessere assediato, ed in poco tempo pa-tir
fame, e venire a dedizione. Talchéfuggire la
giornata per queste due vie,è dannosissimo.
Il modo che tenne Fa-bio Massimo di
stare ne’ luoghi forti, èbuono quando
tu hai si virtuoso eser-cito, che il
nimico non abbia ardire divenirti a trovare
dentro a’ tuoi vantag-gi. Nè si può
dire che Fabio Ila giornata, ma più
tosto che lafare a suo vantaggio. Perchè
sbuie fusse ilo a trovarlo, Fabio
1aspettato, e fatto giornata seAnnibale non
ardi mai di concon lui a modo di
quello. Tantigiornata fu fuggita cosi da
Acome da Fabio: ma se unol’ avesse
voluta fare in ogni moIrò non vi
aveva se non unorimedi; cioè i due
sopraddettigirsi. Clic questo eh’ io dico
sisi vede manifestamente con nsempi, e
massime nella guerraRomani feciono con
Filippo dinia, padre di Perse: perchèseudo
assaltato dai Romani,non venire alla zuffa;
e per ncnire, volle fare prima come
aveFabio Massimo in Italia; e si ;suo
esercito sopra la sommilmonte, dove si
afforzò assai, giuche i Romani non avessero
ardiiilare a trovarlo. Ma andativi c combat-tutolo,
lo cacciarono di quel monte; edegli
non potendo resistere, si fuggì conla
maggior parte delle genti. E quelche lo
salvò, che non fu consumato intutto,
fu la iniquità del paese, qual
feceche i Romani non poterono seguirlo.Filippo,
adunque, non volendo azzuf-farsi, ed essendosi
posto con il campopresso ai Romani,
si ebbe a fuggire;ed avendo conosciuto per
questa espe-rienza, come non volendo
combattere,non gli bastava stare sopra i
monti, enelle terre non volendo
rinchiudersi,diliberò pigliare l’altro modo, di
starediscosto molte miglia al campo
romano.Donde, se i Romani erano in una
pro-vincia, ei se ne andava nell’altra; ecosì
sempre donde i Romani, partivano,esso entrava. E
veggendo, al fine, comenello allungare la
guerra per questavia, le sue condizioni
peggioravano, eche i suoi soggetti ora da
lui ora daiminici erano oppressi, diliberò
di ten- lare la fortuna della zu(¥coi
Romani ad una gioriutile, adunque, non
comigli eserciti hanno questeaveva 1’
esercito di Fabicquello di Caio
Sulpizio:esercito sì buono, che ildisca venirti
a trovare <tezze tue ; e che il nimhtua
senza avere preso irei patisca necessità
delquesto caso il partito utgioni che
dice Tito Li'far lance commi lieve adìquem
lempus deterioraticus alicnuSj faccret. Matermine
non si può fuggse non con tuo
disonoreche fuggirsi, come feceessere rotto; e
con più vimeno s’ è fatto prova dese
a lui riuscì salvarsi, iad un altro
che non fuspaese come egli. Che
Annmaestro di guerra, nessuno mai non iodirà
; ed essendo allo ’neontro di Sèi- pione
in Affrica, s’egli avesse vedutovantaggio
in allungare la guerra, eiFarebbe fatto; e
per avventura, sendolui buon capitano, ed
avendo buonoesercito, lo arebbe potuto
fare, comefece Fabio in Italia: ma
non l’avendofatto, si debbe credere che
qualche ca-gione importante lo movesse. Perchè
unprincipe che abbi uno esercito
messoinsieme, e vegga che per difetto di
da- !> nari o di amici ei non
può tenere lun-gamente tale esercito, è matto
al tuttose non tenta la fortuna
innanzi che taleesercito si abbia a
risolvere: perchèaspettando, ei perde al
certo; tentando,potrebbe vincere. Un’altra cosa
ci èancora da stimare assai : la
quale è,che si debbe, eziandio perdendo,
volereacquistar gloria; e più gloria si ha
adesser vinto per forza, che per
altro in-conveniente che t’abbia fatto perdere.Sì
che Annibaie doveva essere constretto«la
queste necessità. E dìScipione, quando
Anuibaferita la giornata, e nonstalo l’animo
andarlo a tghi forti, non pativa, pevinto
Siface, e acquistateAffrica, che vi poteva
stacomodità come in Italia,terveniva ad
Annibaie, qV incontro di Fabio ; nèciosi,
che erano all’ inctzio. Tanto meno
ancoragiornata colui che con l’il paese
altrui ; perchè,trare nel paese del
niiviene quando il nimico scontro,
azzuffarsi seco; <campo ad una terra, si
più alla zuffa: come ne’ ttervenne al
duca Carlo di sendo a campo a Moratto,zeri,
fu da’ Svizzeri assa come intervenne all’
eseeia, che campeggiando P desimamentc da’
SvizzeriCap. XI. — Che chi ha a fare
con assaij ancora che sia inferiore, purché
possasostenere i primi impeli, vince. La potenza
de’ Tribuni della plebe nellacittà di Roma
fu grande, e fu necessaria, come molte
volte da noi è stato discorso;perchè
altrimenti non si sarebbe potuto por freno
all’ambizione della Nobiltà, la({«ale arebbe
molto tempo innanzi corrot-ta quella Repubblica,
che la non si cor-ruppe. Nondimeno, perchè
in ogni cosa, come altre volte si è
detto, è nascosoqualche proprio male, che fa
surgere nuo-vi accidenti, è necessario a questi connuovi
ordini provvedere. Essendo, per-tanto, divenuta
l’autorità tribunizia in-solente e formidabile alla
Nobiltà ed a tutta Roma, e’ ne
sarebbe nato qualcheinconveniente dannoso alla
libertà ro-mana, se da Appio Claudio non
fossestato mostro il modo con il
quale si avevano a difendere contro all’ ambizionede’
Tribuni: il quale fu sempre infra loro
qualci pauroso, o corruttibile, comun bene ; talmenteebèad
opporsi alla volontà che volessino tirare inn liberazione
contro alla i nato. Il quale rimediotemperamento
a tanta f molti tempi giovò a Ron ha fatto
considerare,volta e’ sono molli poter ad un
altro potente, an insieme siano molto più nondimanco
si debbpiù in quello solo ■, che in
quelli assai,gliardissimi. Perchè,» 1 ulte quelle
cose delle q più die molti previ infinite),
sempre occorripotrà, usando un poco sunire
gli assai, e quel gagliardo, far debole. liquesto
addurre antichi essempi, che ce ne
sarebbono assai j ma voglio mi ba-stino i
moderni, seguiti ne’ tempi no-stri. Congiurò
net 1484 tutta Italia con- .tra a’
Vinizianij e poiché loro al tutto erano
persi, e non potevano stare piùcon 1’
esercito in campagna, corruppono il signor
Lodovico che governava Mi*lano; e per tale
corruzione feciono uno accordo, ne! quale
non solamente deb-bono le terre perse, ma
usurparono parte dello Stato di Ferrara. E
cosi co-loro che perdevano nella guerra,
resta-rono superiori nella pace. Pochi annisono
congiurò contea a Francia tutto il mondo:
nondimeno, avanti che si ve-desse il
fine della guerra, Spagna si ribellò da’
confederati, e fece accordoseeo; in modo
che gli altri confederati furono constretti
poco dipoi ad accor-darsi ancora essi.
Talché, senza dubbio, si debbe sempre mai
fare giudizio,quando e’ si vede una
guerra mossa da molti contea ad uno,
che quello unoabbia a restar superio»di
tale virtù, che possa se impeti, e col
temporeggtempo. Perchè quando e’ porterebbe mille
perieoi venne ai Viniziani nclPavessero potuto
tempori esercito francioso, ed i guadagnarsi
alcuni dierano collegati contra, ai quella
rovina; ma non i armi da potere temporegc
per questo non aventi a separarne alcuno, rovi si
vidde che il papa, 1ebbe le cose
sue, si fece così Spagna : e molto v e V
altro di questi duebono salvato loro
lo Stai contea a Francia, per i grande in
Italia, se gli ;Potevano, adunque, i parte
per salvare il resti avessino fatto in
tempola non fusse stata necessità, ed
innanzi ai moti della guerra, era savissimo
par-tito; ma in su’ moti era vituperoso, e per
avventura di poco profitto. Ma in-uanzi a
tali moti, pochi in Yinegia de’ cittadini
potevano vedere il pericolo,pochissimi vedere
il rimedio, e nessuno consigliarlo. Ma, per
tornare al princi-pio di questo discorso,
conchiudo: che così
come il Senato romano ebbe rime-dio per
la salute della patria contra al-1'
ambizione de’ Tribuni, per essere mol-ti;
così arà rimedio qualunque principe che sia
assaltato da molti, qualunquevolta ei
sappia con prudenza usare ter- mini convenienti a
disunirgli.Cap. XII. — Come un capitano prudente debbo
imporre ogni necessità di com-battere ai
suoi soldati, e a quelli delti ninnici torta.Altre
volte abbiamo discorso quanto sia utile
alle umane azioni la necessità,ed a qual
gloria siano sul da quella; c come da
alcunisofi è slato scritto, le mani degli
uomini, due nobilissimi ia nobilitarlo, non
arcbbero o fellamente, nè condotte l’opa quella
altezza si veggono < dalla necessità non
fussero spconosciuto, adunque, dagli a talli
degli eserciti la virtù c sita, e quanto
per quellade’ soldati diventavano ostini battere;
facevano ogni oper soldati loro fussino costrettiE
dall’altra parte, usavano stria, perchè gli
nimiei se sino: e per questo molte volial
nimico quella via che lor vano chiudere ;
ed a’ suoi s< pri chiusono quella
che pcsciare aperta. Quello, adì disidera o
che una città si di natamente, o che
uno esercìpaglia ostinatamente comba sopra ogni
altra cosa, ingegnarsi dimettere ne’ petti
di chi ha a combat- lere, tale necessità.
Onde, un capitanopi udente, che avesse
ad andare ad una espugnazione d’ una
città, debbe misu-rai e la facilità o la
difficultà ilell’ espu- gnarla dal conoscere e
considerare qualenecessità costringa gli
abitatori di quella a difendersi: e quando vi
trovi assainecessità che gli constringa
alla difesa, giudichi la ispugnazioue difficile;
altri-menti la giudichi facile. Di qui nasce che
le terre dopo la ribellione sono piùdifficili
ad acquistare, che le non sono nel
primo acquisto: perchè nel princi-pio non
avendo cagione di temer di pena, per
non avere offeso, si arrendonofacilmente;
ma parendo loro, scndosi dipoi ribellate,
avere offeso, e per que- sto temendo la
pena, diventano difficili ad essere ispugnate.
Nasce ancora taleostinazione dai naturali
odii che hanno i principi vicini e repubbliche
vicinel’uno con l’altro: il che procede da ambizione
di dominare, e gelosia delloro Stato,
massimamente se le sono repubbliche, come
interviene in Tosca-na • la quale gara c
contenzione ha fatto e farà sempre difficile
la espugnatonep una dell’ altra. Pertanto,
chi considerila bene i vicini della città
di Firenze ed ivicini della città di
Yincgia, non si me- ra viglierà, come molti
fanno, che Firenzeabbia più speso nelle
guerre, ed acqui-stato meno di Yinegia:
perchè tuttonasce da non avere avuto i
NmUiani le terre vicine si ostinate alla
difesa, quantoha avuto Firenze, per esser
state tutte le ciltadi finitime a Yinegia
use a vi-vere sotto un principe, e non
libere; c quelli che sono consueti a
servire, sti-mano molte volle poco il
mutare pa-drone, anzi molte volte lo desiderano.Talché
Yinegia, benché abbia avuti i vicini più
potenti che Firenze, per averetrovate le
terre meno ostinate, le ha potute piu
tosto vincere, che non hafatto quella
scudo circundala da tutte città libere.
Debbe adunque un capitano,per tornare al
primo discorso, quando egli assalta una
terra, con ogni dili-genza ingegnarsi di
levare a* difensori di quella tale
necessità, e per conse-guenza tale ostinazione;
promettendo perdono, se gli hanno paura
della pe-na ; c se gli avessino paura della
li- bertà, mostrare di non andare contraal
comune bene, ma contra a pochi ambiziosi
della città: la quale cosa moltevolte
ha facilitato V imprese e 1’ espu-gnazioni delle
terre. E benché simili co-lori siano facilmente
conosciuti, e mas-sime dagli uomini prudenti; nondimenovi
sono spesso ingannati i popoli, i quali,
cupidi della presente pace, chiug-gono gli
occhi a qualunque altro laccio che sotto le
larghe promesse si ten-desse. E per questa
via infinite città sono diventale serve:
come intervennea Firenze nei prossimi tempi; e
come intervenne a Crasso ed allo esercito suo,il
quale ancora che conoscesse le vane promesse
de’ Parti, le quper tor via la
necessità \del difendersi, nondimam tenerli
ostinati, accecatidella pace che erano fall nimici:
come si vnde p leggendo la vita di
queltanto, che avendo i Sano convenzione dello
accordo zionc di pochi corso e picampi de’
confederali Rom dipoi mandati ambasciati chieder
pace, offerendo dcose predate, c di dare p tori
de’ tumulti e della \ributtati dai Romani:
e rinio senza speranza d’ acc Ponzio, capitano
allora de’ Sanniti, con una suazionc
mostrò, come i Roi in ogni modo guerra; e
l)<si desiderasse la pace, lafaceva
seguire la guerra ; sic parole : Juslum
est bi necessariuitij et pia arma , quibus
ni siin armis spes est : sopra la
qual ne- cessità egli fondò con gli suoi
soldatila speranza della vittoria. E per non avere
a tornare più sopra questa ma-teria, mi
pare da addurvi quelli essempiromani che
sono più degni (E annota-zione. Era
Caio Manilio con lo esercito alP incontro
dei Vcienti; ed essendoparte dello esercito
veicolano entrato dentro agii steccati di
Manilio, corseManilio con una banda al
soccorso di quelli; e perchè i Vcienti non
potessinosalvarsi, occupò tutti gli aditi
del cam-po: donde veggendosi i Veienti rin-chiusi,
cominciarono a combattere con tanta rabbia, eh’
egli ammazzarono Ma-nilio; ed arebbero tutto
il resto dei Romani oppressi, se dalla
prudenzad* uno Tribuno non fusse stato loro
aperta la via ad andarsene. Dove si
ve-de, come mentre la necessità costrinse i
Veienti a combattere, e* combatteronoferocissiraamente;
ma quando videro aperta la via, pensarono |elio
a combattere. Erano < sci egli Equi con
gli nc* confini romani. MandiI’ incontro i
Consoli. Talcl gliare la zuffa, lo esercito del
quale era capo Vettitrovò ad un
tratto rinchit steccati suoi occupali da P altro
esercito romano;eome gli bisognava o mor via
col ferro, disse ai suo ste parole:
Ile mecum ; n< valium , armati arinatis obi pareSj
qii(e ullùnum ac ma est, necessitate super ioresquesta
necessitò è chiama vio ultimum ac maximum millo
prudentissimo di tuiromani, sendo già
dentro i Yeienti con il suo esercito, il
pigliare quella e torre iultima necessità
di difende in modo che i Yeienti udir suno
offendesse quelli che fussino disar-mati; talché,
gittate Tarmi in terra, si prese quella
città quasi senza sangue.Il quale modo
fu dipoi da molli capi- tani osservato.Gap.
XIII. — Dove sia più da confidare , o in
uno buono capitano che abbial* esercito
debole, o in uno buono esercito che abbia
il capitano debole.Essendo diventato Coriolano
esule di Roma, se ne andò ai Volsci,
dove con-tratto uno esercito per vendicarsi
con-tro ai suoi cittadini, se ne venne a
Ro-ma ; donde dipoi si parti, più per pietà
della sua madre, che per le forze deiRomani.
Sopra il quale luogo Tito Li-vio dice,
essersi per questo conosciuto,come la
Repubblica romana crebbe più per la virtù
dei Capitani, che de’ sol-dati; considerato
come i Volsci per lo addietro erano stati
vinti, e solo poiavevano vinto che
Coriolano fu loro Capitano. E benché Liviopinionc,
nondimeno si v luoghi della sua istoria I; dati
senza capitano avergliose pruove, ed esser
sta e più feroci dopo la nr soli loro,
che innanzi clcome occorse nello esercì mani
avevano in Ispagna pioni ; il quale, morti
i <potè con la virtù sua n salvare
sè stesso, ma vin e conservare quella provipubblica.
Talché, discorre troverà molli essempi, dov dei
soldati ara vinto lamolti altri, dove
solo la pitan i ara fatto il medesi modo
che si può giudicarbisogno dell’ altro, e V
a Ecci bene da considerare sia più da
temere, o d’ uicito male capitanato, o capitano
accompagnato d cito. E seguendo in questo
1’ oppinioucdi Cesare, si debbe stimare
poco l’uno e l’altro. Perchè andando egli
in Ispa-gna contra ad Afranio e Petreio,
che avevano un buono esercito, disse chegli
stimava poco, quia ibat ad exercitum sino
duce, mostrando la debolezza deicapitani.
Al contrario, quando andò in Tessaglia
conira Pompeo, disse: Vadoad ducem sine
exerciiu. Puossi consi-derare un’ altra cosa : a
quale è più fa-cile, o ad uno buono
capitano fare un buono esercito, o ad uno
buono eser-cito fare un buono capitano.
Sopra che dico, che tale questione pare
decisa ;perchè più facilmente molti buoni
tro-veranno o inslruiranno uno, tanto chediventi
buono, che non farà uno molti. Lucullo,
quando fu mandato contra aMitridate, era
al tutto inesperto della guerra; uondimanco
quel buono eser-cito, dove erano assai
ottimi capi, lo feciono tosto un buon
capitano. Arma-rono i Komani, per difetto d’ uomini, assai
servi, o gli dieronon Sempronio Gracco, il qi tempo
fece un buono eseri ed Epaminonda, come alt
r<poich’egli ebbero tratta T trio della
servitù degli Spa: tempo feciono de’conladindati
ottimi, che poterono n sostenere la milizia
spartii cerla. Sì clic la cosa èV uno
buono' può trovare dimeno, un esercito buoni buono
suole diventare insricoloso; come diventò l’e cedonia
dopo la morte di come erano i soldati
velerancivili. Tanto che io credo da
confidare assai in uno abbi tempo a
instruire utdità di armargli, che in insolente,
con uno capo fatto da lui. Però è da
diiria e la laude a quelli caj solamente
hanno avuto a mieo, ma prima che
venghino alle manicon quello, è convenuto
loro instruire l’esercito loro e farlo buono:
perchèin questi si mostra doppia virtù, e tanto
rara, che se tale fatica fusse statadata
a molti, ne sarebbero stimati e ri- putati meno
ussai che non sono.Cap. XIV. — Le
invenzioni nuove che appariscono nel mezzo
della zuffa, ele voci nuove che si
odono, quali ef-fetti faccino.Di quanto momento
sia ne* conflitti e nelle zuffe un
nuovo occidente che na-sca per cosa che
di nuovo si vegga o oda, si dimostra
in assai luoghi, e mas-sime per questo
essempio che occorse nella zuffa che i
Romani fecero coi Vol-sci ; dove Quinzio
veggendo inclinare uno de’ corni del suo
esercito, cominciòa gridare forte, che gli
stessino saldi, perchè 1’ altro corno dello
esercito era vittorioso: con la qual
parola, avendo dato animo a’ suoi e sinimici,
vinse. E se tali ve cito bene ordinato
fanno in uno tumultuario e ni;fanno grandissimi,
pere mosso da siinil vento. Io durre uno
cssenipio ncne’ nostri tempi. Era la ( pochi
anni sono divisa Oddi e Buglioni Questi realtri
erano esuli: i qua elianti loro amici, ragun ridottisi
iu alcuna loro ta Perugia con il favor una
notte entrarono in senza essere scoperti, sper
pigliare la piazza. F città iu su
tutti i cani catene che la tengono sb;le
genti oddesche davani una mazza ferrata romjr di
quelle, acciocché i C£passare; e restandogli i quella
che sboccava iu pi;già levato il romore
all7 armi, ed essen- do colui che rompeva
oppresso dallaturba che gli veniva dietro,
nè potendo per questo alzare bene le
braccia perrompere per potersi maneggiare gli venne
detto: Fatevi indietro: la qualvoce andando
di grado in grado dicendo addietro,
cominciò a far fuggire gliultimi, e di mano
in mano gii altri, con tanta furia,
che per loro medesimisi ruppono; e cosi
restò vano il disegno degli Oddi, per
cagione di sì debole acci-dente. Dove è da
considerare, che non tanto gli ordini in
uno esercito sononecessari per potere
ordinatamente com- battere, quanto perchè ogni minimoaccidente
non ti disordini. Perchè, non per altro
le moltitudini popolari sonodisutili per la
guerra, se non perchè ogni rumore, ogni
voce, ogni strepitogli altera, e fagli
fuggire. E però un buon capitano intra gli
altri suoi ordinidebbe ordinare chi sono
quelli che ab- bino a pigliare la sua voce
e rimetterlaad altri, ed assuefare i suoi
soldati che non credino se non a quelli
suoi capi,che non dichino se non quel
che da lui è commesso ; perchè, non
osservata benequesta parte, si è visto
molte volte avere fatti disordini grandissimi.
Quantoal vedere cose nuove, debbe ogni
capi-tano ingegnarsi di farne apparire al-cuna,
mentre che gli eserciti sono alle mani,
che dia animo agli suoi e tolgaloagli
nimici; perchè, intra gli accidenti che ti
diano la vittoria, questo è effica-cissimo. Di
che se ne può addurre per testimone
Caio Sulpizio dittatore roma-no; il quale
venendo a giornata con i Franciosi, ormò
tutti i saccomanni egente vile del campo; e
quelli fatti sa- lire sopra i muli ed altri
somieri conarmi ed insegne da parere
gente a ca- vallo, gli mise dietro a un
colle, e co-mandò che ad un segno dato,
nel tempo che la zuffa fusse più
gagliarda, si sco-prissero e mostrassiusi a*
nimici. La qual cosa così ordinata e fatta,
dettetanto terrore ai Franciosi, che perita-rono
la giornata. E però un buon ca-pitano debbo
fare due cose: 1* una, di vedere con
alcune di queste nuove in-venzioni di
sbigottire il nimico; 1’ altra, di stare
preparato che essendo fattedal nimico
contro di lui, le possa sco- prire, c
fargliene tornar vane: comefece il re
d’india a Semiramis; la quale veggendo come
quel re aveva buon nu-mero d’elefanti, per
sbigottirlo, e per mostrargli che ancora essa
n’ era co-piosa, ne formò assai con
cuoia di bu-fali e di vacche, e quelli
messi sopra icammelli, gli mandò davanti;
ma cono- sciuto dal re 1’ inganno, gli
tornò nonsolamente quel suo disegno vano,
ma dannoso. Era Mamerco dittatore conteaa’
Fidenati, i quali, per isbigott ire lo esercito
romano, ordinarono che in sul-P ardore
della zuffa uscisse fuora di Fi-ttane
numero di soldati con fuochi insulle
lance, acciocché i Romani occupati dalla novità
della cosa, rompessino in-Ira lóro gli
ordini. Sopra clic è da no-tare, che quando
tali invenzioni hannopiù del vero che
del fìnto, si può bene allora
rappresentarle agli uomini, per-chè avendo assai
del gagliardo, non si può scoprire così
presto la debolezzaloro: ma quando Y hanno
pjp del fìnto che del vero, è bene o
non le fare, o,facendole, tenerle discosto,
di qualità clic le non possino essere
così presto sco-perte; come fece Caio
Sulpizio de* mu- lattieri. Perchè quando vi è
dentro de-bolezza, appressandosi, le si scuoprono tosto,
e ti fanno danno, e non favore;come feciono
gii elefanti a Semiramis, e a’ Fidenali i fuochi: i
quali benchénel principio turbassino un
poco l’eser- cito; nondimeno come e’ sopravvenne ilDittatore,
e cominciò a sgridargli, di- cendo che non si
vergognavano a fug-gire il fumo come le pecchie,
e che do- vessino rivoltarsi a loro, gridando:
Suisflammit deletc FidenaSj qnas veslris bc
-nefìctts placare non potuistis ; tornòquello
trovato ai Fidenati inutile, e re-starono
perditori della zuffa.Cap. XV. — Come uno c
non molti sia-no preposti ad uno esercito , e
coinèi più comandatovi offendono. Essendosi ribellati i
Fidenati, ed aven-do morto quella colonia
che i Romani avevano mandata in Fidene,
crearono iRomani, per rimediare a questo insulto,
quattro Tribuni con potestà consolare;de’ quali
lasciatone uno alla guardia di Roma, ne
mandarono tre contro ai Fi-denati ed i
Veienti: i quali per esser divisi intra
loro e disuniti, ne riporta-rono disonore, e non
danno. Perchè del disonore, ne furono
cagione loro; delnon ricevere danno, ne
fu cagione la virtù de* soldati. Donde i
Romani, veu-gendo questo disordine, ricorsono
alla creazione del Dittatore, acciocché unsolo
riordinasse quello che tre avevano disordinato.
Donde si conosce la inuti-lilà di
molti comandatoci in uno eser-cito, o in
una terra die s’abbia a di-fendere; e Tito
Livio 11011 lo può più chiaramente dire
che con le infrascritteparole! Tres Tribuni
potcsUitc consil- iari documento fucre , quam pluriumimperium
bello inutile esscl ; tendendo ad sua
quisque consilia , cutn aht ali advidereluvj
aperuerunt ad occasionem lo- cum hosti. E
beneliè questo sia assaicsscmpio a provare
il disordine che fanno nella guerra i più
comandatori,ne voglio addurre alcuno altro, e
mo-derno ed antico, per maggiore dichia-razione.
Nel 1500, dopo la ripresa che fece il
re di Trancia Luigi XII di Mi-lano,
mandò le sue genti a Pisa per restituirla
ai Fiorentini; dove furonomandali commessaci
Giovambatista Ri- dolfi e Luca iV Antonio
degli Albizi. Eperchè Giovambatista era
uomo di ri- putazione, e di più tempo, Luca
lasciavaal tutto governare ogni cosa a lui:
e se egli non dimostrava la sua ambizionecon
opporseli, la dimostrava col ta- cere, e con
lo stracurare e vilipendereogni cosa in. modo,
che non aiutava le azioni dei campo
nè coll’ opere nè colconsiglio, come
se fosse stato uomo di nessuno momento.
Ma si vidde poi tuttoil contrario
quando Giovambatista, per certo accidente
seguito, se n* ebbe a tor-nare a Firenze;
dove Luca, rimasto solo, dimostrò quanto
con V animo, con laindustria e con il
consiglio valeva : le quali tutte cose
mentre vi fu la com-pagnia erano perdute.
Voglio di nuovo addurre in confirmazione di
questo leparole di Tito Invio; il
quale referendo come essendo mandato dai
Romani con-tro agli Equi Quinzio cd Agrippa
suo collega, Agrippa volle che tutta 1* am-ministrazione
della guerra fusse ap-presso a Quinzio, e’
dice: Suluberri -mum in adminislralione magnarum
re-rum eilj summam imperii apud unumesse.
Il che è contrario a quello che oggi fanno
queste nostre repubbliche cprincìpi, (li
mandare ne’ luoghi, per mi- nistrargli meglio,
più d’ un commessa-rio e più d’ un capo:
il che fa una inestimabile confusione. E se
si cercassela cagione della rovina degli
eserciti italiani e franciosi ne’ nostri tempi,
sitroverebbe la potissima cagione essere stata
questa. E puossi conchiudere ve-ramente, come gli
è meglio mandare in una espedizione un uomo
solo di co-munale prudenza, che duoi valentissimi
uomini insieme con la medesima au- torità.Cap
XVf. — Che la vera viriti si va ne '
tempi difficili a trovare ; e ne3 tem-pi facili
non gli uomini virtuosi , ma quelli che per
ricchezze o per paren-tado prcvaglionO; hanno più
grazia. Egli fu sempre, e sempre sarà, chegli
uomini grandi e rari in una repub-blica nei
tempi pacifichi sono negletti ;perchè per
la invidia che s’ ha tiratodietro la
riputazione che la virtù d’essi ha dato
loro, si truova in tali tempiassai
cittadini che vogliono, non che esser loro
eguali, ma esser loro supe-riori. E di
questo n’ è un luogo buono in Tucidide istorico
greco; il quale mo-stra come sendo la
repubblica ateniese rimusa superiore in la
guerra pelopon-nesiaca, ed avendo frenato l’ orgoglio degli
Spartani, e quasi sottomessa tuttala Grecia,
satse in tanta riputazione, che la disegnò
d’ occupare la Sicilia.Venne questa impresa
in disputa in Atene. Alcibiade e qualche
altro citta-dino consigliavano che la si facesse,
come quelli che pensando poco al benepubblico,
pensavano all’ onor loro, di-segnando esser
capi di tale impresa.Ma Micia, che
era il primo intra i ri- putati d’ Atene,
la dissuadeva; e la mag-gior ragione che
nel concionare al po-polo, perchè gli fusse
prestato fede,adducesse, fu questa: clic
consigliando esso che non si facesse questa
guerra,ci consigliava cosa che non faceva
per lui; perchè stando Atene in pace, sa-peva
come v’ erano infiniti cittadini che gli
volevano andare innanzi; ma facen-dosi guerra,
sapeva che nessuno citta-dino gli sarebbe
superiore, o eguale.Vedesi, pertanto, come nelle
repubbliche è questo disordine, di fare poca
stimade’ valentuomini ne’ tempi quieti. La qua)
cosa gli fa indeguare in due modi:I’
uno per vedersi mancar del grado loro;
l’altro per vedersi fare compagnie superiori
uomini indegni e di manco sufficienza di
loro. 11 quale disordinenelle repubbliche
ha causato di molte rovine; perchè quelli
cittadini che ini-meritamenle si veggono
sprezzare, e co- noscono clic e’ ne sono
cagione i tempifacili c non pericolosi, s’
ingegnano di turbargli, movendo nuove guerre inpregiudizio
della repubblica. E pensan-do quali potessino
essere i rimedi, cene trovo due: l’uno,
mantenere i cit-tadini poveri, acciocché con le
ricchezze senza virtù non potessino corrompere ni
loro nò altri; l’altro, eli ordinarsiin
modo alla guerra, die sempre si po-tesse
far guerra, e sempre s’avesse bi-sogno di
cittadini riputati, come fe Ro-ma ne’ suoi
primi tempi. Perchè te-nendo fuori quella
città sempre eserciti, sempre v’ era luogo
alla virtù degli uo-mini ; nè si poteva
torre il grado .ad uno che lo
meritasse, e darlo ad unoaltro che non
lo meritasse. Perchè se pure lo faceva
qualche volta per er-rore, o per provare,
ne seguiva tosto tanto suo disordine e
pericolo, che laritornava subito nella vera
via. Ma le altre repubbliche che non
sono ordinatecome quella, e che fanno solo
guerra quando la necessità le constringe, nonsi
possono difendere da tale inconve- niente: anzi
sempre vi correranno den-tro; e sempre ne
nascerà disordine, quando quel cittadino negletto
e vir-tuoso, sia vendicativo, ed abbia nella città
qualche riputazione e aderenza. E se la
città (ti Roma un tempo se ne difese,
a quella ancora, poiché la ebbevinto
Cartagine cd Antioco (come al-trove si
disse), non temendo più diguerra, pareva
poter commettere gli eserciti a qualunque la
voleva ; non ri-guardando tanto alla virtù,
quanto alle altre qualità che gli dessino
grazia nelpopolo. Perchè si vede che
Paulo Emi-lio ebbe più volte la repulsa
nel con-solato, nò fu prima fatto Consolo
che surgesse la guerra macedonica ; la qualegiudicandosi
pericolosa, di consenso di tutta la città
fu commessa a lui. Sendonella città nostra
di Firenze seguite dopo il 1494 di
molte guerre, ed aven-do fatto i cittadini
fiorentini tutti una cattiva pruova, si
riscontrò la città, asorte, in uno
che mostrò in che ma-niera s’aveva a
comandare agli eser-citi; il quale fu
Antonio Giacomini: e mentre che si ebbe a
far guerre peri-colose, tutta P ambizione degli
altri cit-tadini cessò, e nella elezione del Com-messa
rio e capo degli eserciti non aveva competitore
alcuno ; ma come s’ ebbe ufare una
guerra dove non era dubbio alcuno, ed
assai onore e grado, ei vitrovò tanti
competitori, che avendosi ad eleggere tre
Commessa ri per campeg-giar Pisa, fu
lasciato indietro. E benché e* non si
vedesse evidentemente che male ne seguisse
al pubblico per non v’avere inandato
Antonio, nondimenose ne potette fare
facilissima coniettura; perchè non avendo più i
Pisani da di-fendersi nè da vivere, se
vi fusse stalo Antonio, sarebbero stati
tanto innanzistretti, che si sarebbero dati
a discre-zione de’ Fiorentini. Ma sendo loro as-sediati
da capi che non sapevano nè stringerli
nè sforzarli, furono tanto in-trattenuti, che
la città di Firenze gli comperò, dove
la gli poteva avere aforza. Convenne
che tale sdegno potesse assai in Antonio; e
bisognava che fussebene paziente e buono, a
non dispe- rare di vendicarsene o con la rovinadella
città, potendo, ocon i* ingiuria d’ alcuno
particolare cittadino; da chesi debbe una
repubblica guardare; come nel seguente capitolo
si discorrerà.Cap. XVII. — Che non si
offenda uno, e poi quel medesimo si mandi
in am-ministrazione e governo d* impor-tanza. Debbe
una repubblica assai conside-rare di non
preporre alcuno ad alcuna importantè
amministrazione, al qualesia stato fatto da
altri alcuna notabile ingiuria. Claudio Nerone,
il quale si part ìdallo esercito che
lui aveva a fronte ad Annibaie, e con parte
d’esso n’andònella Marca a trovare 1* altro
Consolo per combattere con Asdrubale avanti chesi
congiungesse con Annibaie ; s’ era trovato per
lo addietro in Ispagna afronte d’
Asdrubale, ed avendolo serrato in luogo con
lo esercito, che bisognavao che Asdrubale
combattesse con suo disavvantaggio, o si morisse
di fame,fu da Asdrubale astutamente tanto
in*trattenuto con certe pratiche d* accordo,che
gli usci di sotto, e totsegli quella occasione
d’ oppressarlo. La qual cosasaputa a Roma,
gli dette carico grande appresso al Senato
ed al Popolo, e dilui fu parlato
inonestamente per tutta quella città, non
senza suo grande di-sonore ed isdegno. Ma
sendo poi fatto Consolo, e inandato all*
incontro d’ An-nibale, prese il soprascritto
partito: il quale fu pericolosissimo; talmente
cheRoma stette tutta dubbia c sollevata, infino a
tanto che vennono le nuovedella rotta
d’ Asdrubale. Ed essendo do- mandato poi
Claudio per qual cagioneavesse preso si
pericoloso partito, dove senza una estrema
necessità egli avevagiocata quasi la
libertà di Roma ; ri- spose che V aveva
fatto perchè sapevache, se gli riusciva,
riacquistava quella gloria che s'aveva perduta
in Ispagua;e se non gli riuscivo, e che
questo suo partito avesse avuto contrario
fine, sa-peva come ei si vendicava contra a
(jucila città ed a quelli cittadini clicTavevano
tanto ingratamente ed indi-scretamente offeso. E
quando questepassioni di tali offese
possono tanto in un cittadino romano, e in
quelli tempiche Roma ancora era incorrotta,
si debbe pensare quanto elle possino in uncittadino
d’ una città che non sia fatta come
era allora quella. E perchè a si-mili disordini
che nascono nelle repub- bliche non si può
dare certo rimedio,ne seguita che gli è
impossibile ordi-nare una repubblica perpetua, perchèper
mille inopinate vie si causa la sua rovina.Cip.
XVIII. — Nessuna cosa è più de-gna d* un
capitano che presentire «parlili del nimico. Diceva
Epaminonda tebano, nessunacosa esser più
necessaria c più utile ad un capitano, che
conoscere le ^libera-zioni e partiti del nimico.
E perchè tale cognizione è diffìcile, merita
tanto piùlaude quello che adopera in
modo che le conicttura. E non tanto è
diffìcile in-tendere gli disegni del nimico,
eh’ egli è qualche volta diffìcile intendere leazioni
sue ; e non tanto le azioni sue che
per lui si fanno discosto, quanto lepresenti
e le propinque. Perché molte volte è accaduto,
che sendo durala unazuffa infino a notte,
chi ha vinto crede aver perduto, e chi
ha perduto credeaver vinto. 11 quale
errore ha fatto di- liberare cose contrarie
alla salute di co-lui che ha diliberato:
come intervenne a Bruto e Cassio, i quali
per questo er-rore perderono la guerra;
perchè, aven-do vinto Bruto dal corno suo,
credetteCassio, che aveva perduto, che tutto 1’
esercito fusse rotto ; e disperatosi perquesto
errore della salute, ammazzò «è stesso. Nei
nostri tempi, nella giornata che fece in
Lombardia a Santa Cecilia Francesco re di
Francia con i Svizzeri,sopravvenendo la notte,
credetleno quella parte dei Svizzeri che
erano rimasti in-teri aver vinto, non
sappiendo di quelli che erano stati rotti e
morti: il qualeerrore fece che loro
medesimi non si salvarono, aspettando di
ricombatterela mattina con tanto loro
disavvantag-gio ; e fecero ancora errare, e per taleerrore
presso che rovinare, F esercito del papa e
di Spagna, il quale in sula falsa
nuova della vittoria passò il Po, e se
procedeva troppo innanzi, re-stava prigione de’
Franciosi che erano vittoriosi. Questo simile
errore occorsene’ campi romani e in quelli
delli Equi. Dove, sendo Sempronio consolo conl’esercito
all’ incontro degli inimici, ed appiccandosi la
zuffa, si travagliò quellagiornata infino a
sera con varia fortuna dell’ uno e
dell’altro: e venuta la notte,sendo l’ uno e l’
altro esercito mezzo rotto, non ritornò
alcuno di loro ne’ suoialloggiamenti; anzi
ciascuno si ritrasse uc’ prossimi colli,
dove credevano esserpiù sicuri; e l’esercito
romano si di-vise in due parti : 1’
una n’ andò colConsolo, 1’ altra con
un Teinpanio cen-turione, per la virtù del
quale 1’ eser-cito romano quel giorno non
era stato rotto interamente. Venuta la mattina,il
Consolo romano senza intendere altro de’
nimici si tirò verso Roma ; il similefece
l’esercito degli Equi: perchè cia- scuno di
questi credeva che il nimicoavesse vinto, c
però ciascuno si ritrasse senza curare di
lasciare i suoi allog-giamenti in preda. Accadde
che Tempa-nio, eh’ era col resto
dello esercito ro-mano, ritirandosi ancora esso,
intese da certi feriti degli Equi, come i
capi-tani loro s’ erano partiti, cd avevano abbandonati
gli alloggiamenti: dondeche egli, in su
questa nuova, se ne en-trò negli
alloggiamenti romani, c salvò-gli; e dipoi
saccheggiò quelli degli Equi, e se ne tornò
a Roma vittorioso. Laqual vittoria, come si
vede, consistè solo in chi prima di
loro intese i disordinidel nimico. Dove si
debbe considerare, come e’ può spesso
occorrere che i ducieserciti che siano a
fronte V uno del-P altro, siano nel
medesimo disordine,e patischino le medesime
necessità; e che quello resti poi vincitore
che è ilprimo a intendere le necessità
dell’ al-tro. Io voglio dare di questo
un essem-pio domestico e moderno. Nel 1498, quando
i Fiorentini avevano uno eser-cito grosso in
quel di Pisa, e stringe- vano forte quella
città; della qualeavendo presa i Viniziani
la protezione, non veggeudo altro modo a
salvarla,diliberarono di divertire quella guerra, assaltando
da un’altra banda il domi-nio di Firenze; e
fatto uno esercito po-tente, entrarono per
la Val di Lamona,ed occuparono il
borgo di Marradi, ed assediarono la ròcca
di Castiglione, cheè in sul colle di
sopra. Il che sentendo i Fiorentini, diliberarono
soccorrer Mar-radi, e non diminuire le forze
avevano in quel di Pisa; e fatte nuove
fanterie,ed ordinale nuove genti a cavallo, le mandarono
a quella volta: delle qualine furono capi
Iacopo quarto d’ Appiano signore di Piombino,
ed il conte Rinuc-cio da Marciano.
Sendosi, adunque, con* dotte queste genti
in sul colle sopraMarradi, si levarono i
ninnici di ’ntorno a Castiglione, e ridussonsi
tutti nel bor-go: ed essendo stato P uno e
P altro di questi due eserciti a fronte qualchegiorno,
pativa P uno e l’altro assai di vettovaglie e
d’ogni altra cosa neces-saria : e non avendo
ardire P uno d* af-frontare P altro, nè
sappiendo i disor-dini P uno dell’altro, diliberarono
in una sera medesima P uno e P altro dilevare
gli alloggiamenti la mattina ve-gnente, e
ritirarsi in dietro; il Mili-ziano verso
Berzighella e Faenza, il Fiorentino verso
Casaglia e il Mugello. Ve-nula adunque la
mattina, ed avendo cia-scuno de’ campi cominciato
ad avviare*i suoi impedimenti; a caso una donna si
partì dal borgo di Ùarradi, e venneverso
il campo fiorentino, secura per la vecchiezza
e per la povertà, disiderosadi vedere certi
suoi che erano in quel campo: dalla
quale intendendo i capitanidelle genti
fiorentine, come il campo vi-niziano
partiva, si fecero in su questanuova
gagliardi; e mutato consiglio, come se gli
avessino disalloggiati i ni-nnici, ne andarono
sopra di loro, e scris-sero a Firenze avergli
ributtati, e vintala guerra. La qual
vittoria non nacque da altro, che dallo
aver inteso primadei nemici, come e’ se
ne andavano: la quale notizia se fusse
prima venuta dal-r altra parte, arebbe
fatto conira ai no-stri il medesimo effetto.Cap.
XIX. — Se a reggere una molti-tudine è più
necessario lo ossequioche la pena. Era la
Repubblica romana sollevata per le inimicizie de’
Nobili e de’ Plebei: nondimeno, soprastando loro
la guerra, mandarono fuori con gli eserciti
Quin-zio ed Appio Claudio. Appio, per essere crudele
e rozzo nel comandare, fu maleubbidito da’
suoi; tanto che quasi rotto si fuggì
della sua provincia. Quinzio,per esser
benigno e di umano ingegno, ebbe i suoi
soldati ubbidienti, e ripor-to mie la vittoria.
Donde e’ pare elle sia meglio, a governare
una moltitudine,essere umano che superbo,
pietoso che crudele. Nondimeno, Cornelio Tacito,
alquale molti altri scrittori acconsentono, in
una sua sentenza couchiude il con-trario,
quando dice : In molliludine regenda plus
pana, quam obsequiumvaici. E considerando come
si possa sal- vare I’ una e l’altra di
queste oppinio-ni, dico: o clic tu bai a
reggere uomini che ti sono per l’ordinario
compagni,o uomini che ti sono sempre soggetti. Quando
ti sono compagni, non si puòinteramente
usare la pena, nè quella se- verità di
che ragiona Cornelio: e perchèla Plebe
romana aveva in Roma eguale imperio con
la Nobiltà, non poteva unoche ne
diventava principe a tempo, con crudeltà e
rozzezza maneggiarla. £ moltevolle si vide
che miglior frutto feciono i Capitani romani
che si facevano amaredagli eserciti, e che
con ossequio gli maneggiavano, che quelli
che si face-vano straordinariamente temere; se
già e’ non erano accompagnati da una ec-cessiva
virtù, come fu Manlio Torquato. Ma chi
comanda ai sudditi, de’ qualiragiona
Cornelio, acciocché non diven- tino insolenti, e
che per troppa tua fa-cilità non ti
calpestino, debbe volgersi più tosto alla
pena che allo ossequio.Ma questa ancora
debbe esser iu modo moderata, che si
fugga l’odio; perchèfarsi odiare non torna
mai bene ad al- cuno principe. Il modo
del fuggirlo èlasciar stare la roba de’
sudditi: perchè del sangue, quando non vi
sia sottoascosa la rapina, nessuno principe
ne è disideroso se non necessitato, c que-sta
necessità viene rare volte; ma seti» dovi
mescolata la rapina, viene sempre,nè
mancano mai le cagioni ed il disi* derio
di spargerlo: come in altro trat-tato sopra
questa materia s’ è larga- mente discorso. Meritò,
adunque, piùlaude Quinzio che Appio ; e la
sentenza di Cornelio dentro ai termini
suoi, cnon ne* casi osservati da
Appio, merita d* essere approvata. E perchè
noi ab-biamo parlato della pena e dello osse- quio,
non mi pare superfluo mostrare,come uno
essempio d’ umanità potè ap- presso ai
Falisci più che V armi.Cap. XX. — Uno
essempio df umanità appresso ai Falisci
potette più d* ogniforza romana.Essendo
Cammillo con V esercito in-torno alla città
de* Falisci, e quella as-sediando,un maestro
di scuola de’ più nobili fanciulli di
quella città, pensandodi gratificarsi Cammillo
ed il Popolo romano, sotto colore di
esercizio usciendocon quelli fuora della
città gli con-dusse lutti nel campo innanzi
a Cani-inilio, e, presentatigli, disse, come
me-diami loro quella terra si darebbe nellesue
mani. Il quale preseute non sola-mente non
fu accettato da Cammillo,ma fatto spogliare
quel maestro, c lega-togli le mani di
dietro, e dato a cia-scuno di quelli fanciulli
una verga in inano, lo fece da quelli
con di molte bat-titure accompagnare nella
terra. La qual cosa intesa da quelli
cittadini, piacquetanto loro l’ umanità ed
integrità di Cammillo, che senza voler più
difendersi,diliberarono di dargli la terra.
Dove è da considerare, con questo vero
essem-pio, quanto qualche volta possa più nelli
animi degli uomini un atto umanoe pieno
di carità, che un atto feroce e violento;
e come molte volte quelle pro-vincie e
quelle città che le armi, gl’ instru- menti
bellici ed ogni altra umana forzanon
ha potuto aprire, uno essempio ti* umanità
c di pietà, di castità o diliberalità, ha
aperte. Di che ne sono nelle istorie,
oltre a questo, molti altriessempi. E vedesi
come 1* armi romane non potevano cacciare
Pirro d’ Italia, ene lo cacciò la
liberalità di Fabrizio, quando li manifestò Y
offerta die avevafatta ai Romani quel
suo famigliare, d’avvelenarlo. Vedesi ancora,
come a Sci-pione Afifricano non dette tanta
riputa-zione in Ispagna la espugnazione diCartagine
nuova, quanto gli dette quello essempio di
castità, d’ aver fenduta lamoglie giovine,
bella ed intatta al suo marito; la
fuma della quale azione glifece amica
tutta l’Ispagna. Vedesi ancora questa parte
quanto la sia disideratadai popoli negli
uomini grandi, c quanto sia laudata dagli
scrittori ; e da quelliche descrivono la
vita dei principi, e da quelli che
ordinano come debbonovivere. Intra i quali
Senofonte s' affatica assai in dimostrare
quanti onori, quantevittorie, quanta buona
fama arrecasse a Ciro l’essere umano ed
affabile; c nondare alcuno essempio di sè
nè di su-perbo, nè di crudele, nè di
lussurioso,nè di nessuno altro vizio che
macelli la vita degli uomini. Pur nondimeno,veggendo
Annibaie con modi contrari a questi avere
conseguito gran fama egrandi vittorie, mi.
pare da discorre* re nel seguente capitolo,
donde questonacque.Cap. XXI. — Donde nacque
che Annibaie con diverso modo dì procedere
daScipionCj fece quelli medesimi effetti in
Italia che quello in I spugna.Io stimo
che alcuni si potrebbono meravigliare veggendo
qualche capitano,nonostante eh’ egli abbia
tenuta contra-ria via, aver nondimeno fatti
simili ef-fetti a coloro che sono vissuti
nel modo soprascritto : talché pare che la
cagionedelle vittorie non dipenda dalle predette cause;
anzi pare che quelli modi nonfi
rechino nè più forza nè più fortuna, potendosi
per contrari modi acquistaregloria e riputazione.
E per non mi par-tire dagli uomini
soprascritti, e perchiarir meglio quello che
io ho voluto dire; dico come e’ si
vede Scipioneentrare in Ispagna, c con
quella sua umanità e pietà subito farsi
amica quellaprovincia, e adorare ed ammirare dai popoli.
Vedesi, all* incontro, entrare An-nibaie in
balia, e con modi tutti con-trari, cioè con
violenza e crudeltà erapina ed ogni ragione
d’ infedeltà, fa-re il medesimo effetto che
aveva fattoScipione in Ispagna; perchè ad
Annibaie si ribellarono tutte le città d’
Italia, tuttii popoli lo seguirono. E pensando
donde questa cosa possa nascere, ci si
veggonodentro più ragioni. La prima è,
che gli uomini sono disiderosi di cose
nuove;in tanto che cosi desiderano il
più delle volte novità quelli che stanno
bene, comequelli che stanno male : perchè
come altra volta si disse, ed è il
vero, gli uomini sistuccano nel bene, e
nel male s’ afflig-gono. Fu, adunque,
questo disiderio apri-re le porle a ciascuno
che in una pro-vincia si fa capo d’
una innovazione; es’ egli è forestiero, gli
corrono dietro; s’ egli è provinciale, gli
sono intorno,angumentanlo e favoriscono: lalmente- cliè,
in qualunque modo che egli pro-ceda, gli
riesce il fare progressi grandi in quelli
luoghi. Oltre a questo, gliuomini sono
spinti da due cose princi-pali ; o dallo
amore, o dal timore: tal-ché cosi gli
comanda chi si fa amare, come colui
che si fa temere; anzi, ilpiù delle
volte è seguito ed ubbidito più chi si
fa temere, che chi si fa amare.Imporla,
pertanto, poco ad un capitano, per
quaiunehe di queste vie ei si cam-mini,
purché sia uomo virtuoso, e che quella
virtù lo faccia riputato intra gliuomini.
Perchè, quando la è grande, come la fu
in Annibaie ed in Scipione,ella cancella
tutti quelli errori che si fanno per
farsi troppo amare, o perfarsi troppo
temere. Perchè dell’ uno c delP altro
di questi duoi modi possono nascere
inconvenienti grandi, ed atti a far rovinare
un principe : perchè co-lui che troppo
disidera esser amato, ogni poco che si
parte dalla vera via,diventa disprezzabile:
quell’ altro che disidera troppo d’ esser temuto,
ognipoco ch’egli eccede il modo, diventa odioso.
E tenere la via del mezzo, nonsi può
appunto, perchè la nostra natura non ce
io consente: ma è necessarioqueste cose che
eccedono mitigare con una eccessiva virtù,
come faceva Anni-baie e Scipione. Nondimeno
si vede co-me l’ uno e l’ altro furono
offesi da questiloro modi di vivere, e
così furono es-saltati. La essudazione di
tutti due s’èdetta. La offesa quanto a
Scipione fu, che gl» suoi soldati in
Ispagna se gliribellarono insieme con
pai*te degli suoi amici: la qual cosa
non nacque da altroche da non lo
temere; perchè gli uomini sono tanto
inquieti, che ogni poco diporta clic
si apra loro all’ambizione, dimenticano subito
ogni amore ch’egliavessero posto al
principe per la umanità sua; come fecero i
soldati ed amicipredetti: tanto che
Scipione, per rime- diare a questo inconveniente,
fu con-stretto usare parte di quella crudeltà che
egli aveva fuggita. Quanto ad Au-nihaie,
non ci è essempio alcuno parti- colare, dove
quella sua crudeltà e pocafede gli nocesse:
ma si può bene pre- supporre che Napoli e
molte altre terre,che stettero in fede
del Popolo romano, stessero per paura di
quella. Vedcsibene questo, che quel suo
modo di vi- vere impio, lo fece più
odioso al Popoloromano, che alcuno altro
nimico che avesse mai quella Repubblica: in
modoche dove a Pirro, mentre che egli era con
lo esercito in Italia, manifestaronoquello
che lo voleva avvelenare, ad An- nibaie
mai, ancora che disarmalo edisperso,
perdonarono, tanto che lo fe- ciono morire.
Nacquero, dunque, adAnnibaie, per essere
tenuto impio e rom-pitore di fede e
crudele, queste incomo-dità; ma gliene risultò
all’ incontro una comodità grandissima, la quale
è am-mirata da tutti gli scrittori: clic nel suo
esercito, ancoraché composto divarie generazioni
d’ uomini, non nacque mai alcuna dissensione,
nè infra loromedesimi, nè contra di
lui. Il che non potette derivare da
altro, che dal ter-rore che nasceva dalla
persona sua: il quale era tanto grande,
mescolato conla riputazione che gli dava
la sua vir-tù, che teneva gli suoi
soldati quieti eduniti. Conchiudo, adunque,
come e’ non importa molto in qual
modo un capi-tano si proceda, purché in
esso sia virtù grande, che condisca bene
l’uno e l’al-tro modo di vivere: perchè,
come è detto, nell’uno e nell’ altro è difetto epericolo,
quando da una virtù istraor- dinaria non
sia corretto. C se Annibaiee Scipione, l’uno
con cose laudabili, l’altro con detestabili,
feciono il mede-simo effetto; non mi
pare ila lasciar indietro il discorrere
ancora di duoicittadini romani, che
conseguirono con diversi modi, ma tutti
duoi laudabili,una medesima gloria. Cap. XXII. —
Come la durezza di Man-lio Torquato e T
umanità di Valerio' Corvino acquistò a ciascuno
la mede-sima gloria. E* furono in Roma in
un medesimotempo due capitani eccellenti, Manlio Torquato
e Valerio Corvino: i quali dipari virtù, di
pari trionfi e gloria, vis-sono in Roma; e
ciascuno di loro, inquanto s’ apparteneva
al nimico, con pari virtù l’acquistarono;
ma quantos’apparteneva agli eserciti ed agl’
in-trattenimenti de’ soldati, diversissima-mente procederono:
perchè Manlio con ogni generazione di
severità, senza in-termettere ai suoi soldati o
fatica, o pe-na, gli comandava: Valerio, dall’ altraparte,
con ogni modo e termine umano, e pieno d’
una famigliare dimestichezzagl’ intratteneva. Perchè
si vede, che per aver 1’ ubbidienza
dei soldati, 1’ uno ani'mazzo il
figliuolo, e 1’ altro non offese mai
alcuno. Nondimeno, in tanta diver-sità di
procedere, ciascuno fece il me-desimo frutto, e
contro a’ nimici, ed infavore della
Repubblica e suo. Perchè nessuno soldato non
mai o detratto lazuffa, o si ribellò da
loro, o fu in alcuna parte discrepante
dalla voglia di quel! i ;quantunque gl’
imperii di Manlio fussino si aspri, che
tutti gii altri imperii cheeccedevano il
modo, erano chiamati man liana imperia.
Dove è da considerareprima donde nacque che
Manlio fu co- stretto procedere sì rigidamente;
l’al-tro, donde avvenne che Valerio potette procedere
si umanamente; l’altro, qualcagione fe che
questi diversi modi faces-sero il medesimo
effetto; ed in ultimo,quale sia di
loro meglio e più utile imita-re. Se alcuno
considera bene la natura diManlio dall’ora
che Tilo Livio nc comin-cia a far menzione,
lo vedrà uomo fortissi-mo, pietoso verso il
padre e verso la pa-tria, e reverentissimo a’
suoi maggiori.Queste cose si conoscono
dalla morte di quel Francioso; dalla difesa
del padrecontea al Tribuno; e come avanti ch'egli
andasse alla zuffa del Francioso, ein’andò
al Consolo con queste parole: Injussu tuo
adversus hoslem nunquampugnalo, non si
ccrtam victoriam vi- dcam. Venendo, adunque,
un uomo cosìfatto a grado che comandi,
desidera di trovare tutti gli uomini simili
a sè; e l’animo suo forte gli fa
comandare cose forti; e quel medesimo, comandate
chele sono, vuole si osservino. Ed è una regola
verissima, che quando si coman-da cose
aspre, conviene con asprezza farle osservare:
altrimenti, te ne tro-veresti ingannato. Dove è
da notare, clic a voler essere ubbidito, è
necessariosaper comandare : e coloro sanno co- mandare,
che fanno comparazione dellaqualità loro a
quelle ili dii ha a ubbi- dire; e quando vi
veggnino proporzio-ne, allora comandino; quando
spropor-zione, se ne astenghino. E però dicevaun
uomo prudente, che a tenere una repubblica
con violenza, conveniva fusseproporzione da
chi sforzava a quel ch’ero sforzato. E qualunque
volta questa pro-porzione v’ era, si poteva
credere che quella violenza fusse durabile:
ma quan-do il violentato era più forte
del violen-tante, si poteva dubitare che
ogni giornoquella violenza cessasse. Ma
tornando al discorso nostro, dico che a comandarele
cose forti, conviene esser forte; e quello
che è df questa fortezza e che lecomanda,
non può poi con dolcezza farle osservare.
Ma chi non è di questa for-tezza d’animo,
si debbe guardare da-gl’imperii istraordinari, e
negli ordi-nari può usare la sua umanità:
perchè le punizioni ordinarie non sono impu-tate
al principe, ma alle leggi ed agli ordini.
Debbesi, adunque, credere che Manlio fosse
costretto procedere si ri-gidamente dagli
istraordinari suoi im-perii, ai fjuali lo
inclinava la sua natu-ra: i quali sono
utili in una repubblica,perchè e’ riducono
gli ordini di quella verso il principio
loro, e nella sua an-tica virtù. E se una
repubblica fussc si felice, eh* ella avesse
spesso, come disopra dicemmo, citi con
io esseinpio suo le rinnovasse le leggi; e
non solo la ri-tenesse che la non
corresse alla rovi-na, ma la ritirasse
indietro; la sarebbeperpetua. Si che Manlio
fu uno di quelli che con l’asprezza de’
suoi i inperii ri-- tenne la disciplina
mUitarc in Roma, constretto prima dalla
natura sua, dipoidal desiderio che aveva s’
osservasse quello che il suo naturale
appetito giiaveva fatto ordinare. Dall’
altro canto, Valerio potette procedere umanamente,come
colui a cui bastava s’ osservassino le cose
consuete osservarsi negli esercitiromani. La
qual consuetudine, perchè era buona, bastava
ad onorarlo, c nonera faticosa ad
osservarla, e non neces-sitava Valerio a punire i
transgressori;si perchè e’ non ve n’ erano;
sì perchè quando e* ve ne Tassino
stati, imputa-vano, come è detto, la punizione
loro agli ordini, c non alla crudeltà del
prin-cipe. In modo che, Valerio poteva far nascere
da lui ogni umanità, dalla qualeei
potesse acquistare grado con i solda-ti, e la
contentezza loro. Donde nacque,che avendo
l’uno e l’altro la medesima ubbidienza, poterono,
diversamente ope-rando, fare il medesimo effetto.
Possono quelli che volessero imitar costoro, ca-dere
in quelli vizi di dispregio e d* odio che
io dico di sopra d’ Annibaie e diScipione:
il che* si fugge con una virtù eccessiva
che sia in te, e non altrimenti.Resta
ora considerare quale di questi modi di
procedere sia più laudabile. Ilche credo
sia disputabile, perchè gli scrittori lodano l’
un modo e l’ altro.Nondimeno, quelli che
scrivono come un principe s’ abbia a governare,
siaccostano piu a Valerio che a Manlio ; c
Senofonte, preallegato da me, dandodi molti
essempi della umanità di Ciro, si conforma
assai con quello che dicedi Valerio
Tito Livio. Perchè, sendo fatto Consolo
contro i Sanniti, e venendo ildì che doveva
combattere, parlò ai suoi soldati con
quella umanità con la qualeei si
governava ; e dopo tal parlare, Tito Livio
dice queste parole: Nonalias militi
familiarior dux fuit , inter infimos militimi
omnia hauti gravatemunia obcuntlo. In ludo
praterea mili-tari, cum velocitatis viriumquc in
ter secequales cer lamina ineuntj comiler
faci-lis vincere ac vinci, nulla eodcm ; necqucmquam
aspcrnari parem qui se offer-ret ; factis
benignus prò re; clic ti shauti minus
libertalis aliena , quam sua dignilatis memor ;
et (quo nihil popu-lariit8 est) quibus
artibus pelierat magi-strati^, iisdem gerebat.
Parla medesi-mamente di Manlio Tito Livio
onorévol-mente, mostrando che la sua severitànella
mol te del figliuolo fece tanto ub-bidiente
l' esercito al Consolo, che fucagione delia
vittoria che il Popolo ro-mano ebbe contro
ai Latini ; ed in tantoprocede in
laudarlo, che dopo tal vit-toria, descritto
eh’ egli ha tutto 1’ ordinedi quella
zuffa, e mostri tutti i pericoli che ’1
Popolo romano vi corse, e le dif-ficoltà
che vTTurono a vincere, fa questa conclusione:
che solo la virtù di Manliodette
quella vittoria ai Romani. E facen-do
comparazione delle forze dell’ uno .edell’
altro esercito, afferma come quella parte
arebbe vinto che avesse avuto perConsolo
Manlio: talché, considerato tutto quello che
gli scrittori ne parlano, sa-rebbe difficile
giudicarne. Nondimeno, per non lasciare questa
parte indecisa,dico, come in un cittadino
che viva sotto le leggi d’ una
repubblica, credosia piu laudabile c meno
pericoloso il procedere di Manlio; perchè
questo modotutto è in favore del pubblico,
e non risguarda in alcuna parte all’ ambizioneprivata;
perchè per tale modo non si può
acquistare partigiani, mostrandosisempre aspro a
ciascuno, ed amando solo il ben comune;
perchè chi fa que-sto, non s’ acquista
particolari amici, quali noi chiamiamo, come
di soprasi disse, partigiani. Talmentechè, simil modo
di procedere non può esser piùutile
nè più desiderabile in una repubblica; non
mancando in quello l’ utilitàpubblica, e non
vi potendo essere alcun sospetto della
potenza privata. Ma nelmodo di procedere
di Valerio è il con-trario: perchè se bene
in quanto alpubblico si fanno i medesimi
effetti, nondimeno vi surgono molte dubitazioni,per
la particolar benivolenza che colui s’
acquista con i soldati, da fare in unlungo
imperio cattivi effetti contra alla libertà. E
se in Publicola questi cattivieffetti non
nacquero, ne fu cagione non essere ancora
gli animi dei Romani cor-rottile quello non
esser stato lun-gamente e continovamente al governoloro.
Ma se noi abbiamo a considerare un
principe, come considera Senofonte,noi ci
accosteremo al tutto a Valerio, e lasceremo
Manlio; perchè un principedebbe cercare nei
soldati e nei sudditi 1* ubbidienza e 1’
amore. 1/ ubbidienzagli dà lo essere
osservatore degli ordini, Tesser tenuto virtuoso:
lo amore glidà P affabilità, P umanità, la
pietà e quell' altre parli che erano
in Valerio,e che Senofonte scrive essere
state in Ciro. Perchè lo essere un
principe ben^voluto particolarmente, ed avere
lo eser-cito suo partigiano, si conforma contutte
P altre parti dello Stato suo: ma in
un cittadino che abbia P esercito suopartigiano,
non si conforma già questa parte con P
altre sue parti, che P hannoa far vivere
sotto le leggi, ed ubbidire ai magistrali.
Leggesi intra le cose an-tiche della
Repubblica viniziana, come essendo le galee
viniziane tornate inVinegia, e venendo certa
differenza intra quelli delle galee ed il
popolo, dondesi venne al tumulto ed all’
armi; nè si potendo la cosa quietare
nè per forzadi ministri, nè per
reverenza de’ citta-dini, nè timore di
magistrati; subitoche a quelli marinari apparve
innanzi un gentiluomo che era 1’ anno
davantistato capitano loro, per amore di
quello si partirono e lasciarono la zuffa. Laqual
ubbidienza generò tanta sospizioue al Senato,
che poco tempo dipoi i Vini-ziani, o per
prigione o per morte, se ne assicurarono.
Conchiudo pertanto, ilprocedere di Valerio
essere utile in uno principe, e pernizioso
in un cittadino;non solamente alia patria,
ma a sè: a lei, perchè quelli modi
preparano la viaalla tirannide; a sè,
perchè in sospet-tando la sua città del
modo del proce-dere suo è costretta assicurarsene
con suo danno. E così, per il contrario,
af-fermo il procedere di Manlio in un
prin-cipe esser dannoso, ed in uno cittadinoutile,
e massime alla patria: ed aneora rare volte
offende; se già questo odioclic ti
tira dietro la tua severità non è accresciuto
da sospetto che 1’ altre tuevirtù per
la gran riputazione ti arrecas-sino: come
di sotto di Cammillo si di-scorrerà. Cap.
XXIH. — Per quale cagione Cammillo fosse
cacciato di Roma.Noi abbiamo conchiuso di
sopra, come procedendo come Valerio, si
nuoce allapatria ed a sè; c procedendo come Manlio,
si giova alia patria, e nuocesiqualche
volta a sè. Il che si pruova assai
bene per lo essempio di Cammillo,il
quale nel procedere suo simigliava più.
tosto Manlio che Valerio. DondeTito Livio,
parlando di lui, dice, come ejus virlutem
mililes odorante et mira-banlur . Quello che
lo faceva tenere me-raviglioso, era la
sollicitudine, la pru-denza, la grandezza dell’
animo, il buono ordine che lui servava
nello adoperarsie nel comandare agli eserciti:
quello che lo faceva odiare, era essere
piu se-vero nel gastigargli, che liberale
nel ri-munerargli. G Tito Livio ne adduce diquesto
odio queste cagioni: la prima, che i danari
che si trassero de* benidei Veienti
che si venderono, esso gli applicò al
pubblico, e non gli divise conla preda : V
altra, che nel trionfo ei fece tirare
il suo carro trionfale da quattrocavagli
bianchi, dove essi dissero che per superbia
ei s’ era voluto agguagliareal sole :
la terza, che fece voto di dare ad
Apolline la decima parte della predadei
Veienti, la quale, volendo satisfare al
voto, s’ aveva a trarre dalle mani deisoldati
che l’ avevano di già occupata. Dove si
notano bene e facilmente quellecose che
fanno un principe odioso appresso il
popolo; delle quali la princi-pale è privarlo
d’ uno utile. La qual co-sa è di
importanza assai; perchè le coseche hanno
in sè utilità, quando I’ uomo n* è
privo, non le dimentica mai, edogni
minima necessità te ne fa ricorda-re; e
perchè le necessità vengono ognigiorno, tu
te ne ricordi ogni giorno. L’altra cosa è
lo apparire superbo edenfiato; il che
non può essere più odioso ai popoli, e
massime ai liberi. E ben-ché da quella
superbia e da quel fasto non ne nascesse
loro alcuna incomodi-tà, nondimeno hanno in
odio chi l’usa: da che un principe si
debbe guardarecome da uno scoglio; perchè
tirarsi odio addosso senza suo profitto, è altutto
partito temerario e poco pru-dente. Cap. XXIV. —
La prolungazionedegl* imperi fece serva Roma. Se
si considera bene il procederedella
Repubblica romana, si vedrà due cose essere
state cagione della resolu-zione di quella
Repubblica: l’una fu-rono le contenzioni che
nacquero dallalegge agraria; l’altra la
prolungazione degli imperi: le quali cose
se fussinostale conosciute bene da
principio, e fattivi debiti rimedi, sarebbe
stato il vi-ver libero più lungo, e per
avventura più quieto. C benché, quanto alia pro-lungazione
dello imperio, non si vegga che in
Roma nascesse mai alcuno tu-multo; nondimeno
si vedde in fatto, quanto noce alla
città quella autoritàche i cittadini per
tali diliberazioni pre-sono. E se gli altri
cittadini a chi eraprorogato il magistrato,
fussino stali savi e buoni come fu Lucio
Quinzio,non si sarebbe incorso in questo
incon-veniente. La bontà del quale è d’ unoessempio
notabile; perchè, sendosi fatto intra la
Plebe ed il Senato convenzioned’ accordo,
ed avendo la Plebe prolun-gato in uno
anno V imperio ai Tribuni,giudicandogli atti a
poter resistere al-l’ambizione dei Nobili, volle
il Senato,per gara della Plebe e per
non parere da meno di lei, prolungare
il consolatoa Lucio Quinzio: il quale al
tutto negò questa diliberazionc, dicendo che i
cat-livi essempi si volevano cereare ili
spe-gnergli, non di accrescergli con uno al-tro
più cattivo essempio; e volle si fa-cessino
nuovi Consoli. La qual bontà eprudenza
se fusse stata in tutti i citta-dini
romani, non arebbe lasciata intro-durre quella
consuetudine di prolungare i magistrati, e da
quella non si sarebbevenuto alla
prolungazione delti imperi: la qua! cosa,
col tempo, rovinò quellaRepubblica. Il
primo a eli i fu proro-gato l’imperio, fu Publio
Pilone; ilquale essendo a campo alla città
di Pa-lepoli, e venendo la line del
suo conso-lato, e parendo al Senato ch’egli
avesse in mano quella vittoria, non gli
manda-rono il successore, ma lo fecero
Procon-solo; talché fu il primo Proconsolo. Laqual
cosa, ancora che mossa dal Senato per
utilità pubblica, fu quella che conil
tempo fece serva Roma. Perchè, quanto più i
Romani si discostaron con le ar-mi, tanto
più pareva loro tale proroga-zione necessaria, e
più P usarono. Laqual cosa fece due
inconvenienti: l’uno che meno numero di
uomini si eserci-tarono negl’imperi; e si venne
per questo a ristringere la reputazione inpochi:
l’altro, che stando un cittadino assai
tempo comandatole d’ uno eserci-to, se lo
guadagnava, e facevaselo par-tigiano; perchè quello
esercito col tem-po dimenticava il Senato, e
riconosceva quello capo. Per questo Siila e
Mario po-terono trovare soldati che contea
al bene pubblico gli seguitassino : per
questo Ce-sare potette occupare la patria.
Che se mai i Romani non avessiuo prolungati
imagistrati e gli imperi, se non venivano si
tosto a tanta potenza, e se fussinostati
più tardi gli acquisti loro, sarebbe-ro
ancora venuti più tardi nella servitù.Cap.
XXV. — Della povertà di Cincinnato , e di
molti cittadini romani.; Noi abbiamo ragionato
altrove, come la più ulil cosa che si
ordini in un vi-ver libero è che si
mantenghino i citta-dini poveri. E benché iti
Roma non ap-parisca quale ordine fusse
quello che facesse questo effetto, avendo,
massime,la legge agraria avuta tanta
oppugna-zione; nondimeno per esperienza si vid-de,
' che dopo quattrocento anni che Roma era
stata edificata, v’era una gran-dissima povertà
;**nè si può credere che altro ordine
maggiore facesse questo ef-fetto, che vedere
come per la povertà non t’ era impedita
la via a qualunquegrado ed a qualunque
onore, e come s’ andava a trovare la virtù
in qualun-que casa l'abitasse. 11 qual modo
di vivere faceva manco disperabili le ric-chezze.
Questo si vede manifesto; per-chè essendo
Minuzio consolo assediatocon lo esercito
suo dagli Equi, si empiè di paura
Roma, che quello esercito nonsi perdesse;
tanto che ricorsero a creare il Dittatore,
ultimo rimedio nelle lorocose afflitte. E
crearono Lucio Quinzio Cincinnato, il quale
allora si trovava«ella sua piccola villa,
la quale lavora-va di sua mano. La
qual cosa con pa-role auree è celebrala da
Tito Livio, di-cendo: Opera precium est
audire, quiomnia prue divifiis Humana spera
uni,ncque honori magno locum, neque tir-tuli
putanl esse, nisi effuse affluant opes.
Arava Cincinnato la sua piccolavilla, la
quale non trapassava il termi-ne di quattro
iugeri, quando da Romavennero i Legati del
Senato a signifi*Carli la elezione della
sua dittatura, eda mostrarli in quale
pericolo si trovava la romana Repubblica.
Egli, presa la suatoga, venuto in
Roma e ragunato uno esercito, n’andò a liberar
Minuzio; edavendo rotti e spogliati i nimici, e
libe-rato quello, non volle che 1’ esercito
as-sediato fusse partecipe della preda, di-cendogli
queste parole: Io non voglioche tu
participi della preda di coloro de’ quali
tu sei stato per essere preda;— e privò
Minuzio del consolato, e fe-eclo Legato,
dicendogli: Starai tanto inquesto grado,
che tu impari a sapere essere Consolo. —
Aveva fatto suo Maestrode’ cavalli Lucio
Tarquiuio, il quale per la povertà militava
a piede. Notasi, co-me è detto, T onore che
si faceva in Roma alla povertà; e come
ad uno uo-mo buono e valente, quale era
Cincin-nato, quattro iugeri di terra bastavanoa
nutrirlo. La quale povertà si vede co-me
era ancora nei tempi di Marco Re-golo;
perchè sendo in Affrica con gli eserciti,
domandò licenzia al Senato perpoter tornare
a custodire la sua villa, la quale gli
era guasta da’ suoi lavora-tori. Dove si
vede due cose notabilissi-me : 1* una la
povertà, e come vi sta-vano dentro contenti, e
come bastava a quelli cittadini trarre
della guerra ono-re, e l’ utile tutto lasciavano
al pub-blico. Perchè, s’ egli avessero pensatod’arricchire
della guerra, gli sarebbe dato poca briga,
che i suoi campi fus-sino stati guasti.
L’ altra è, considerare la generosità dell’
animo di quelli citta-dini, i quali
preposti ad uno esercito, saliva la
grandezza dell’animo loro so-pra ogni principe;
non stimavano i re, non le repubbliche ;
non gli sbigottivanè spaventava cosa
alcuna; e tornati dipoi privati, diventavano
parchi, umili,curatori delle piccole facultà
loro, ubbi-dienti ai magistrati, reverenti alti
loromaggiori: talché pure impossibile che uno
medesimo animo patisca tanta mu-tazione. Durò
questa povertà ancora to-sino ai tempi di
Paulo Emilio, che fu-rono quasi gli ultimi
felici tempi di quella Repubblica, dove un
cittadino checol trionfo suo arricchì Roma,
nondi-meno mantenne povero sè. E cotanto sistimava
ancora la povertà, che Paulo nell’ onorare
chi s’ era portato benenella guerra, donò a
un suo genero una tazza d’ oriento, il
quale fu il primooriento che fusse
nella sua casa. E potrebbesi con un
lungo parlare mostrarequanti migliori frutti
produca la po-vertà che la ricchezza, e
come V una haonorato le città, le
provincia, le sètte; c l’altra V ha rovinate;
se questa ma-teria nou fusse stata molte
volte da al-tri uomini celebrata.C\p. XXVI. —
Come per cagione di femmine si rovina
uno Slato.Nacque nella città d’ Ardea intra
i pa-trizi e i plebei una sedizione per ca-gione
d’ un parentado, dove avendosi a maritare
una. femmina erede, la doman-darono parimente
un plebeo ed un nobile; e non avendo
quella padre, i tu-tori la volevano congiugnere
al plebeo, la madre al nobile: di che
nacque. tantotumulto, che si venne all’
armi ; dove tutta la Nobiltà s’ armò in
favore delnobile, e tutta la Plebe in
favore del plebeo. Talché essendo superata
la Ple-be, s’ uscì d’ Ardea, e mandò
ai Yolsci per aiuto: i nobili mandarono a Roma.Furono
prima i Volsci, e, giunti intorno ad Ardea,
s’accamparono. Sopravvenne-ro i Romani, e rinchiusone i
Volsci in- fra ia terra e loro; tanto che
gli co;slrinsono, essendo stretti dalla
fame, a darsi a discrezione. Ed entrati i Romaniin
Ardea, e morti lutti i capi della se-dizione,
composono le cose di quellacittà. Sono
in questo testo più cose da notare.
Prima si vede, come le donnesono
state cagioni di molte rovine, ed hanno
fatti gran danni a quelli che go-vernano
una città, ed hanno causato di molte
divisioni in quella : e, come si èveduto
in questa nostra istoria, V eccesso fatto
contra a Lucrezia tolse lostato ai
Tarquini; quell’ altro fatto contra a Virginia
privò i Dieci dell’ auto-rità loro. Ed
Aristotele intra le prime cose che mette
della rovina dei tiranni,è V avere ingiuriato
altrui per conto di donne, o con stuprarle,
o con violarle,o corrompere i matrimoni ; come di
questa parte, nel capitolo dove noi trat-tammo
delle congiure, largamente si parlò. Dico,
adunque, come i principiassoluti ed i governatot
i delle repubbliche non hanno a tenere poco
contodi questa parte ; ma debbono considerare i
disordini clic per tuie accidentepossono
nascere, e rimediarvi in tempo che il
rimedio non sia con danno e vi-tuperio
delio Stato loro o della loro re? pubblica:
come intervenne agli Ardenti,i quali per
avere lasciato crescere quella gara intra i
loro cittadini, si condusso-tio a dividersi
infra loro; e volendo riunirsi, ebbono a mandare
per soccorsiesterni : il che è un gran
principio d’una propinqua servitù. Ma vegniamo
all’ al-tro notabile del modo del riunire
le città, del quale nel futuro capitolo
parleremo.C*r. XXVII. — Come e* si ha a
unire una città divisa ; c come quella oppi-nionc
non è vera , che a tenere le città bisogna
tenerle disunite.Per lo essempio dei
Consoli romani che riconciliarono insieme gli
Ardeati,si nota il modo come si debbe
comporre una citta divisa: il quale non è
altro,nè altrimenti si debbe medicare, clic ammazzare
i capi de’ tumulti. Perchégli è necessario
pigliare uno de’ tre modi : o ammazzargli,
come fecero co-storo ; o rimuovergli della città;
o far loro far pace insieme, sotto obblighi
dinon si offendere. Di questi tre modi, questo
ultimo è più dannoso, men cer-to e più
inutile. Perchè gli è impossibile, dove sia
corso assai sangue, o al-tre simili ingiurie,
che una pace fatta per forza duri,
riveggendosi ogni di in-sieme in viso; ed è
difficile che si asten-gano dallo ingiuriare V
uno V altro, po-tendo nascere infra loro
ogni dì, per la conversazione, nuove
cagioni di querele.Sopra che non si
può dare il migliore essempio che la
città di Pistoia. Era di-visa quella città,
come è ancora, quin-dici anni sono, in
Panciatichi e Cancel-lieri ; ma allora era in
sull’ orme, ed oggi V ha posate. E dopo
molte disputeinfra loro, vennero al sangue,
alla rovina delle case, al predarsi la
roba, ead ogni altro termine di
nimico. Ed i Fiorentini, che gli avevano a
comporre,sempre vi usarono quel terzo modo;
e sempre ne nacquero maggiori tumultic maggiori
scandali: tanto che, strac-chi, si venne al
secondo modo, di ri-muovere i capi delle
parli; de’ quali al-cuni messono in prigione,
alcuni altriconfinarono in vari luoghi:
tanto che 1’ accordo fatto potette stare,
ed è statoinfino a oggi. Ma senza dubbio
più si-curo saria stato il primo. Ma perchèsimili
esecuzioni hanno il grande ed il generoso,
una repubblica debole non lesa fare,
ed ènne tanto discosto, che a fatica
la si conduce al rimedio secondo.E questi
sono di quelli errori che io dissi
nel principio, che fanno i principidei
nostri tempi, che hanno a giudicare le cose
grandi; perchè doverebbouo vo-ler vedere, come
si sono governati co-loro che hanno avuto a
giudicare auti-canìcole simili casi. Ma la
debolezza de’ presenti uomini, causala dalla
deboleeducazione loro e dalla poca notizia delle
cose, fa che si giudichino i giudiziantichi
parte inumani, parte impossibili. Ed hanno
certe loro moderne oppinionidiscoste al
tutto dal vero; corn’è quella che dicevano
i savi della nostra città,un tempo è:
che bisognava tener Pistoia con le parti j e
Pisa con le fortezze ; e non s’avveggono,
quanto runa e l’ altra di queste due cose è
inutile. Io voglio lasciare le fortezze,
perchè di sopra ne parlammo a lungo; e vogliodiscorrere
la inutilità che si trae dai tenere
le terre, che tu hai iu governo,divise.
In prima, c impossibile che tu ti mantenga
tutte due quelle parti amicheo principe o
repubblica che le governi. Perchè dalla
natura è dato agli uominipigliar parte in
qualunque cosa divisa, e piacergli più questa
che quella. Tal-ché, avendo una parte di
quella terra malcontenta, fa che lu prima
guerra cheviene, tu la perdi ; perchè
gli è impos-sibile guardare una città che
abbia ini mici fuori e dentro. Se la
è una re-pubblica che la governi, non ci è
il piùbel modo a far cattivi i tuoi
cittadini cd a far dividere la tua città,
clic averein governo una città divisa;
perchè cia-scuna parte cerca d’aver favori,
ciascu-na si fa amici con varie corruttele
: tal-ché ne nasce due grandissimi inconve-nienti;
l’uno, che tu non to gli fai mai amici,
per non gli poter governar bene,variando
il governo spesso, ora con l’uno, ora
con l’altro umore; l’altro,clic tale studio
di parte divide di neces-sità la tua
repubblica. Ed il Biondo,parlando dei
Fiorentini c de’ Pistoiesi, ne fa fede,
dicendo: Mentre che i Fio-ventini disegnavano
di riunir PistoiaJ divisano se medesimi.
Pertanto, si puòfacilmente considerare il
male che da questa divisione nasca. Nel
1501, quan-do si perdè Arezzo, c tutto Val
di Tevere e Val di Chiana, occupatoci daiVitelli
e dal duca Valentino, venne un monsignor di
Lant, mandato dal re diFrancia a fare
restituire ai Fiorentini tutte quelle terre
perdute; e trovandoLant in ogni castello
uomini die, nel visitarlo, dicevano che
erano della partedi Marzocco, biasimò assai
questa divi-sione: dicendo, che se in
Francia uuodi quelli sudditi del re
dicesse d’essere della parte del re,
sarebbe gastigato,perchè tal voce non
significherebbe al-tro, se non che in
quella terra fussegente nimica del re ; e
quel re vuole che le terre tutte
siano sue amiche, uni-te, e senza parti. Ma
tutti questi modi e queste oppinioni diverse
dalla veritànascono dalla debolezza di chi
sono si-gnori; i quali, veggendo di non potertenere
gli Stati con forza e con virtà, si voltano
a simili industrie: le quali qual-che volta
nei tempi quieti giovano qual-che cosa; ma
come e’ vengono l’avver-sità ed i tempi
forti, le mostrano la fallacia loro. Gap.
XXVIII. — Che si debbe por mentealle
opere de* cittadini , perchè molte volte sotto
un'opera pia si nascondeun principio di
tirannide. Essendo la città di Roma aggravata dalla
fame, e non bastando le provvi-sioni pubbliche a
cessarla, prese animo uno Spurio Melio,
essendo assai riccosecondo quelli tempi, di
far provvisione di frumento privatamente, e pascernecon
suo grado la Plebe. Per la qual cosa egli
ebbe tanto concorso di popolo insuo
favore, che ’l Senato pensando al-P
inconveniente che di quella sua libe-ralità
poteva nascere, per opprimerla avanti che
la pigliasse più forze, glicreò un
Dittatore addosso, e fecelo morire. Qui è da
notare, come molle volteP opere che paiono
pie c da non le potere ragionevolmente
dannare, diventanocrudeli, e per una repubblica
sono pericolosissime, quando non siano a buo-n*
oi a corrette. E per discorrere questa cosa
più particolarmente, dico che unarepubblica
senza cittadini riputati non può stare, nè
può governarsi in alcunmodo bene. Dall’
altro canto, la ripu-tazione de’ cittadini è
cagione della ti-rannide delle repubbliche. E
volendo re-golare questa cosa, bisogna talmenteordinarsi,
che i cittadini sieno riputati di riputazione
che giovi, c non nuoca,alla città ed
alla libertà di quella. E però si
debbe esaminare i modi con iquali ei
pigliano riputazione j che sono in effetto
due: o pubblici o privati. Imodi pubblici
sono, quando uno consi-gliando bene, e operando
meglio in be-nefìzio comune, acquista
riputazione. A questo onore si debbe aprire
la via aicittadini, e proporre prèmi ed
ai con- sigli ed all’ opere, talché se n’abbinoad
onorare e satisfare. E quando queste riputazioni
prese per queste vie, sianoschiette e
semplici, non saranno mai pericolose: ina
quando le sono preseper vie private,
che è l’altro modo preal-legato, sono
pericolosissime ed in tuttonocive. Le vie
private sono, facendo be-nefizio a questo ed a
quell’ altro privato,con prestargli danari,
maritargli le fi-gliuole, difendendolo dai
magistrali, efacendogli simili privati favori, i
quali si fanno gli uomini partigiani, e dannoanimo
a chi è cosi favorito di poter corrompere
il pubblieoe sforzar le leggi.Debbe,
pertanto, una repubblica bene ordinata aprire
le vie, come è detto, achi cerca
favori per vie pubbliche, e chiuderle a chi
li cerca per vie private;come si vede
che fece Roma: perchè in premio di
chi operava bene per il pubbli-co, ordinò i
trionfi c tutti gli altri onori che la
dava ai suoi cittadini ; ed in dannodi
chi sotto vari colori per vie private cercava
di farsi grande, ordinò l’accuse;e quando
queste non bastassero, per èssere accecato
il popolo da una speziedi falso bene,
ordinò il Dittatore, il quale con il
braccio regio facesse tornare den-tro al
seguo chi ne fusse uscito, come la
fece pei* punir Spurio Melio. Ed unache
di queste cose si lasci impunita, è atta
a rovinare una repubblica; perchèdifficilmente
con quello essempio si ri-duce dipoi in
la vera via.Cap. XXIX. — Che gli
peccali dei popoli nascono dai principi.Non
si dolghino i principi d’ alcuno peccato che
faccino i popoli €11’ egli ab-biano in
governo ; perchè tali peccali conviene che
naschino o per sua negli-genza, o per esser
lui macchialo di simili errori. E chi
discorrerà i popoliche nei nostri tempi
sono stati tenuti pieni di ruberie e di
simili peccati, ve-drà che sarà al tutto
nato da quelli che gli governavano, che
erano di similenatura. La Romagna, innanzi
che in quella fossero spenti da papa
Alessan-dro \ 1 quelli signori che la comanda-vano,
era uno essempio d’ ogni seclle-ratissima
vita, perchè quivi si vedeva per ogni
leggiere cagione seguire occi-sioni e rapine
grandissime. Il che na-sceva dalla tristizia
di quei principi $non dalla natura
trista degli uomini, come loro dicevano.
Perchè sendo quelliprincipi poveri, e volendo
vivere da ric-chi, erano forzati volgersi a
molte ra-pine, e quelle per vari modi
usare. Ed intra Poltre disoneste vie che e’
tene-vano, facevano leggi, e proibivano alcuna azione;
dipoi erano i primi che davanocagione della
inosservanza d’ esse, nè inai punivano gli
inosservanti, se nonpoi quando vedevano
esser incorsi assai in simile pregiudizio;
ed allora si vol-tavano alla punizione, non
per zelo della legge fatta, ma per
cupidità di riscuo-ter la pena. Donde
nascevano molti inconvenienti, e sopra tutto
questo: che ipopoli si impoverivano, e non
si cor-reggevano; e quelli che erano impove-riti, s’
ingegnavano contra ai meno po-tenti di loro
prevalersi. Donde surgevanotutti questi mali
che di sopra si dicono, de’ quali era
cagione il principe. E chequesto sia vero,
lo mostra Tito Livio quando ei narro,
che portando i Legatiromani il dono della
preda dei Veienti ad Apolline, furono presi
dai corsari di Lipari in Sicilia, e
condotti in quella terra : ed inteso
Timasiteo loro principe che dono era
questo, dove egli andavae chi lo mandava,
si portò, quantunque nato a Lipari, come
uomo romano, emostrò al popolo quanto
era impio oc-cupare simil dono; tanto che,
con il con-senso dell* universale, ne
lasciò andare i Legati con tutte le cose
loro. E le pa-role dello istorieo sono
queste: Tima-sitheus muhitudinem religione impleviljguoe
seniper regenti est similis. E Lorenzo dei
Medici, a con Orinazione di questasentenza,
dice :u E quel che fa il signor,
fanno poi molti ; Chè nel signor son
tutti gli occhi volti. „Cap. XXX. —
Ad uno cittadino che t co-glia nella sua
repubblica far di suaautorità alcuna opera
buona , è neces-sario prima spegnere /* invidia: c co-me,
venendo il nimico j s' ha a ordi-nare la
difesa dJ una città. Intendendo il Senato
romano come laToscana tutta aveva fatto
nuovo deletto per venire a' danni di Roma;
e corne iLatini e gli Ernici, stati per lo
addietro amici del Popolo romano, s’ erano
acco-stati coi Volaci, perpetui nimici di Roma ;
giudicò questa guerra dovere esserpericolosa. E
trovandosi Cnnimilio tribuno di potestà
consolare, pensò che sipotesse fare senza
creare il Dittatore, quando gli altri
Tribuni suoi collegllivolessino cedergli la
somma dello imperio. Il che detti Tribuni
fecero volonta-riamente: nec quicquam (dice Tito
Livio) de majestate sua delractum crcdcbant,rjund
ma j està li ejus concessissent. Onde Cammillo,
presa a parole questa ubbi-dienza, comandò che
si scrivessino tre eserciti. Del primo
volse esser capo lui,per ire eontra i
Toscani. Del secondo fece capo Quinto
Servilio, il quale vollestesse propinquo a
Roma, per ostare ai Latini ed agli
Ernici, se si movessino.Al terzo esercito
prepose Lucio Quinzio, il quale scrisse per
tenere guardata lacittà, e difese le porte
e la curia, in ogni caso che nascesse.
Oltre a questoordinò che Orazio, uno de’
suoi colleglli, provvedesse 1* arme, ed il
frumento, el’ altre cose che richieggono i tempi della
guerra. Prepose Cornelio, ancorasuo collega,
al Senato ed al pubblico consiglio,
acciocché potesse consigliarele azioni che
giornalmente s’ avevano a fare ed eseguire.
Iu questo modo furo-no quelli Tribuni, in
quelli tempi, per la salute della patria
disposti a coman-dare e ad ubbidire. Notasi per
questo testo, quello che faccia uno uomo
buonoe savio, e di quanto bene sia cagione, c
quanto utile ei possi fare alla sua
pa-tria, quando, mediante la sua bontà e virtù,
egli ba spenta l’ invidia ; la qualeè molte
volte cagione che gli uomini rton possono
operar bene, non permet-tendo detta invidia
che gli abbino quella autorità la quale è
necessaria averenelle cose d’ importanza.
Spegnesi questa invidia in duoi modi: o per
qualcheaccidente forte e difficile, dove ciascuno veggendosi
perire, posposta ogni ambi-zione, corre
volontariamente ad ubbidire a colui che crede
che con la suavirtù lo possa
liberare: come intervenne a Cammillo; il quale
avendo dato disè tanti saggi d’ uomo
eccellentissimo, ed essendo stato tre volte
Dittatore, edavendo amministrato sempre quel
grado ad utile pubblico, e non a propria uti-lità,
aveva fatto che gli uomini non te-mevano
della grandezza sua ; e per essertanto
grande e tanto ripututo, non sti-mavano cosa
vergognosa essere inferio-re a lui. E però dice
Tito Livio saviamente quelle parole: JSep
quicquam eie.In un altro modo si
spegne l’invidia, quando o per violenza o per
ordine na-turale muoiono coloro che sono stati tuoi
concorrenti nel venire a qualcheriputazione ed a
qualche grandezza ; i quali veggendoti riputato
più di loro, èimpossibile che mai
acquieschino, e stiano pazienti. E quando sono
uomini eh»siano usi a vivere in una
citta corrotta, dove la educazione non
abbia fattoin loro alcuna bontà, è
impossibile che per accidente alcuno mai si
indichino;e per ottenere la voglia loro, e
satisfare alla loro perversità d’animo, sarebberocontenti
vedere la rovina della loro patria. A
vincer questa invidia non ci èaltro
rimedio che la morte di coloro che
l’hanno; e quando la fortuna ètanto
propizia a quell’ uomo virtuoso, che si
muoiano ordinariamente, diventasenza scandalo
glorioso, quando senza ostacolo e senza offesa
ei può mostrarela sua virtù: ma
quando ei non abbi questa ventura, gli
conviene pensare perogni via torsegli
dinanzi; e prima che ei facci cosa alcuna,
gli bisogna teneremodi eli* ei vinca
questa difTìcultà. E chi legge la Bibbia
sensatamente, vedràMoisè essere stato sforzato, a
volere che le sue leggi e gli suoi
ordini andasseroinnanzi, ad ammazzare infiniti
uomini, ì quali, non mossi da altro che
da in-vidia, si opponevano a* disegni suoi. Questa
necessità conosceva benissimofrate Girolamo
Savonarola; conoscevala ancora Pietro Soderini,
gonfaloniere diFirenze. V uno non potette
vincerla, per non avere autorità a poterlo
fare (chefu il frate), e per non
essere inteso be-ne da coloro che lo
seguitavano, che nearebbono avuto autorità.
Nondimeno per lui non rimase, e le sue
prediche sonopiene d’ accuse dei savi
del mondo, e di invettive contro a loro;
perchè chiama-va così questi invidi, e quelli
che si opponevano agli ordini suoi. Quell’ altrocredeva
col tempo, con la bontà, con la fortuna
sua, con beneficarne alcuno, spe-gner questa
invidia ; vedendosi d* assai fresca età, e
con tanti nuovi favori chegli arrecava
il modo del suo procedere, che credeva
poter superare quelli tantiche per invidia
se gli opponevano, senza alcuno scandalo,
violenza e tumulto : enon sapeva che M
tempo non si può aspettare, la bontà
non basta, la fortu-na varia, e la
malignità non trova dono che la plachi.
Tanto che V uno e l’altrodi questi due
rovinarono, e la rovina loro fu causata da
non aver saputo opotuto vincere questa
invidia. 1/ altro notabile è 1’ ordine che
Cammillo dettedentro e fuori per la salute
di Roma. E veramente, non senza cagione,
gli isto-rici buoni, com’ è questo nostro, metto-no
particolarmente e distintamente certicasi, acciocché i
posteri imparino come gli abbino in simili
accidenti a difen-dersi. E debbesi in questo
testo notare, che non è la più pericolosa
nè la piùinutile difesa, che quella
che si fa tu-multuariamente e senza ordine.
E que-sto si mostra per quello terzo esercito che
Carminilo fece scrivere per lasciarloin
Roma a guardia della città : perchè molti
arebbero giudicato e giudichereb-bono questa
parte superflua, scudo quel popolo per 1’
ordinario armato e belli-coso; e per questo, che
non gli biso-gnasse di scriverlo altrimente,
ma ba-stasse farlo armare quando il bisogno venisse.
Ma Cammillo, e qualunche fussesavio come
era esso, la giudica altri-mente; perchè
non permette mai cheuna moltitudine pigli
1’ arme, se non cou certo ordine e
certo modo. E però, iusu questo essempio,
uno che sia preposto a guardia d’ una
città, debbe fug-gire come uno scoglio il
fare armare gli uomini tumultuosamente; ma dcbbcprima
avere scritti e scelti quelli che voglia s’
armino, chi gli abbino a ubbi-dire, dove a
convenire, dove andare; ed a quelli che non
sono scritti, comanda-re che stiano ciascuno
alle case sue a guardia di quelle.
Coloro che terrannoquesto ordine in uiia
città assaltata, fa-cilmente si potranno
difendere: chi faràaltrimenti, non imiterà
Cammillo, e non si difenderà.Gap. XXXI. — Le
repubbliche forti e gli uomini eccellenti
ritengono in ognifortuna il medesimo animo
e la loro medesima dignità.Intra 1* altre
magnifiche cose che il nostro istorico fa
dire e fare a Cammil-lo, per mostrare come
debbo esser fatto un uomo eccellente, gii
mette in boccaqueste parole: iSec mi
hi diclattira ani mo8 fecilj nec exilium
ademil. Per lequali parole si Yede,
come gli uomini grandi sono sempre io
ogni fortunaquelli medesimi ; e se la
varia, ora con esaltargli ora con
opprimergli, quellinon variano, ma tengono
sempre P ani- mo fermo, ed in tal modo
congiuntocon il modo del vivere loro,
che fncil-mente si conosce per ciascuno,
la for-tuna non aver potenza sopra di loro.
Altrimenti si governano gli uomini de-boli;
perchè invaniscono ed inebriano nella buona
fortuna, attribuendo tuttoil bene che gli
hanno a quelle virtù che' non conobbero
mai. D’onde nasce chediventano insopportabili
ed odiosi a tutti coloro che gli hanno
intorno. Da chepoi dipende la subita
variazione della sorte; la quale come
veggono in viso,caggiono subito nell’ altro
difetto, e diventano vili ed abietti. Di
qui nasce chei principi così fatti pensano
nella avversità più a fuggirsi che a difendersi,come
quelli che per aver male usata la buona
fortuna, sono ad ogni difesa im-preparati.
Questa virtù e questo vizio, eh’ io dico
trovarsi in uno uomo solo, sitrova
ancora in una repubblica: ed in fessempio
ci sono i Romani ed i Vini-ziani. Quelli
primi, nessuna cattiva sorte gli fece mai
divenire abietti, nè nessu-na buona fortuna
gli fece mai essere in-solenti; come
si vidde manifestamentedopo la rotta eli’
egli ebbouo a Canile, e dopo la vittoria
eli’ egli ebbono con-tea ad Antioco; perchè
per quella rot-ta, ancora che gravissima
per esserstata la terza, non invilirono
mai; e mandarono fuori eserciti; non vollenoriscattare
i loro prigioni contra agli or-dini loro;
non mandarono ad Annibaieo a Cartagine a chiedere
pace : ma, la-sciate stare tutte queste
cose abiette in-dietro, pensarono sempre alla
guerra ; armando, per carestia d’ uomini, i
vec-chi ed i servi loro. La qual cosa
conosciuta da Annoile cartaginese, come disopra
si disse, mostrò a quel Senato quanto poco
conto s’ aveva a teneredella rotta di
Canne. E così si vidde come i tempi
difficili non gli sbigottiro-no, nè gli
renderono umili. Dall’ altra parte, i tempi
prosperi non gli feceroinsolenti; perchè
mandando Antioco oratori a Scipione a chiedere accordo,avanti
che fussino venuti alla giornata, e eh'
egli avesse perduto, Scipione glidelle
certe condizioni della pace; quali erano
che si ritirasse dentro alla Siria,ed
il resto lasciasse nello arbitrio de’ Romani.
Il quale accordo ricusando Antio-co, e venendo
alla giornata, e perdendola, rimandò ambasciadori a
Scipione,con commissione che pigliassero tutte quelle
condizioni erano date loro da)vincitore: ai
quali non propose altri patti che quelli
s’avesse offerti innanziche vincesse;
soggiungendo queste parole: quod Romani j si
vincunluVj nonminuunlur animi s ; ncc si vincimi
insolescere solent. Al contrario appunto diquesto
s’è veduto fare ai Yiniziani: i quali
nella buona fortuna, parendo loroaversela
guadagnata con quella virtù che non
avevano, erano venuti a tanta inso-lenza, che
chiamavano il re di Francia figliuolo di
San Marco; non stimavanola Chiesa ; non
capivano in modo alcuno in Italia; e
avevansi presupposto nel-1’ animo d’ aver a
fare una monarchia simile alla romana.
Dipoi, come la buo-na sorte gli
abbandonò, e eli’ egli eb*bero una mezza
rotta a Vaila dal re diFrancia, pcrderono
non solamente tutto lo Stato loro per
ribellione, ma buonaparte ne dettero ed
al papa ed al redi Spagna per viltà
ed abiezione d’animo;ed in tanto
invilirono, che mandarono nmbasciadori allo
imperadore a farsi(libatori; e scrissono al papa
lettere piene di viltà, e di sommissione permuoverlo
a compassione. Alla quale in* felicità pervennero
in quattro giorni, edopo una mezza
rotta: perchè avendo combattuto il loro
esercito, nel ritirarsivenne a combattere ed
essere oppresso circa la metà; in modo
che, l’uno de’provveditori che si salvò,
arrivò a Verona con più di venticinquemila
soldati,intra piè e cavallo. Talmentechè, se a Vinegia
e negli ordini loro fusse stataalcuna
qualità di virtù, facilmente si po-tevano
rifare, e dimostrare di nuovo ilviso alla
fortuna ed essere a tempo o a vincere, o a
perdere più gloriosamente,o ad avere accordo
più onorevole. Ma la viltà dell’ animo
loro, causata dalla qualità de’ loro ordini
non buoni nelle cose della guerra, gli
fece ad un tratto per-dere lo Stato e
1’ animo. E sempre intervewà così a
qualunque si governi come loro. Perchè
questo diventare in-solente nella buona fortuna
ed abiettonella cattiva, nasce dal modo
del proceder tuo, e dalla educazione, nella qualetu
sei nudrito: la quale quando è debole c
vana, ti rende simile a sè: quan-do-è stata
altrimenti, ti rende ancora d’ un’ altra
sorte; e facendoli miglioreconoscitore del mondo,
ti fa meno rallegrare del bene, e meno
rattristare delmale. E quello che si dice
d’ un solo, si dice di molti che
vivono in una repubblica medesima; i quali
si fanno di quella perfezione, che ha
il modo del vivere di quella. E benché
altra volta sisia detto, come il
fondamento di tutti gli Stali è la buona
milizia ; e come dove non è questa, non
possono essere nè leggi buone, nè alcuna
altra cosa buona ; non mi pare superfluo
replicarlo : perchè ad ogni punto nel
leggere questa istoria si vede apparire
questa necessità; e si vede come la milizia
nonpuote essere buona, se la non è
«ecci-tata; e come la non si può esercitare,se
la non è composta di tuoi sudditi. Perchè
sempre non si sta in guerra, nèsi
può starvi ; però conviene poterla cser-, citare
a tempo di pace: e con altri checon
sudditi non si può fare questo esercizio,
rispetto alla spesa. Era Cammilloandato,
come di sopra dicemmo, con l’esercito
conira ai Toscani; ed avendoi suoi soldati
veduto la grandezza dello esercito dei
nimici, s’ erano tutti sbigot-titi, parendo
loro essere tanto inferio-ri da non poter
sostenere l’ impeto diquelli. E pervenendo questa
mala dispo-sizione del campo agli orecchi
di Cam-millo, si mostrò fuora, ed andando
par-lando per il campo a questi ed a quellisoldati,
trasse loro del capo quella op-pinione; e
nell’ultimo, senza ordinarealtrimenti il campo,
disse: Quod qinsque didicit, aiti consucvilj
facict. E chi con-sidererà bene questo termine, e
le pa-role disse loro, per inanimarli a ire
con-tro al nimici, considererà come e’ non si
poteva nè dire nè far fare alcuna diquelle
cose ad uno esercito che prima non
fusse stalo ordinato ed esercitatoed in
pace ed in guerra. Perchè di quelli soldati
che non hanno imparato a farcosa alcuna,
non può un capitano fidar-si. e credere che
faccino alcuna cosa chestia bene; e se
gli comandasse un nuo-vo Annibaie, vi
rovinerebbe sotto. Per-chè, non potendo un
capitano essere mentre si fa la giornata
in ogni parte,se non ha prima in
ogni parte ordinato di potere avere uomini
che abbino lospirito suo, e bene gli
ordini ed i modi del procedere suo,
conviene di necessitàche ci rovini. Se,
adunque, una città sarà armata ed ordinata
come Roma; cche ogni dì ai suoi
cittadini, ed in par*ticolare ed in
pubblico, tocchi a fareisperienza c della virtù
loro, e delia po-tenza della fortuna; interverrà
sempreche in ogni condizione di tempo
e’ siano dei medesimo animo, e manterranno lamedesima
loro degnila: ma quaudo e’ sia-no
disarmati, e che si appoggerannosolo olii
impeti della fortuna, e non alla propria
virtù, varieranno col variare diquella, e
daranno sempre di loro quello essempio che
hanno dato i Viniziani.Gap. XXXII. — Quali
modi hanno tentili alcuni a turbare una pace.Essendosi
ribellate dal Popolo romano Circe» e V elitre,
due sue colonie, sottosperanza d’ esser
difese dai Latini; ed essendo dipoi vinti i
Latini, e mancandodi quelle speranze;
consigliavano, assai cittadini che si dovesse
mandare a Romaoratori a raccomandarsi al Senato :
il qual partilo fu turbato da coloro cheerano
stali autori della ribellione, i quali temevano
che tutta la pena non si vol- tasse
sopra le teste loro. E per tor via ogni
ragionamento di pace, incitarono la moltitudine
ad armarsi, ed a correr sopra i confini romani.
E veramente,quando alcuno vuole o che uno popolo o
un principe levi al tutto 1’ animo dauno
accordo, non ci è altro modo più vero
nè più stabile, che fargli usarequalche
grave scelleratezza contro a co-lui con il
quale tu non vuoi che l’ac-cordo si
faccia : perchè sempre lo terrà discosto
quella paura di quella pena chea lui
parrà per lo errore commesso aver meritata.
Dopo la prima guerrache i Cartaginesi
ebbono coi Romani, quelli soldati che dai
Cartaginesi eranostati adoperati in quella
guerra in Si*cilia ed in Sardigna,
fatta che fu la pa-ce, se ne andarono
in Affrica; dovè non essendo satisfatti del
loro stipendio, mos-sono l’armi contra ai
Cartaginesi; e fatti di loro due capi,
Nato e Spendio,occuparono molte terre ai
Cartaginesi, e molte ne saccheggiarono. I Cartagine-si,
per tentare prima ogni altra via che la
zuffa, mandarono a quelli ainbascia-dore
Asdrubale loro cittadino, il quale pensavano
avesse alcuna autorità conquelli, essendo
stato per lo addietro lor capitano. Ed
arrivato costui, e volendoSpendio e .Muto
obbligare tutti quelli sol-dati a non sperare
d’ aver mai più pacecoi Cartaginesi, e
per questo obbligarli alla guerra; persuasono
loro, ch’egliera meglio ammazzare costui,
con lutti i cittadini cartaginesi, quali erano
ap-presso loro prigioni. Donde, non sola-mente
gli ammazzarono, ma con millesupplizii in
prima gli straziarono ; ag-giungendo a questa
scelleratezza unoeditto, che tutti i Cartaginesi
che per lo avvenire si pigliassino, si
dovessino insimil modo oecidere. La qual
dilibera-zione ed esecuzione fece quello esercitocrudele
ed ostinato contra ai Cartagi-nesi. Gap.
XXXlll. — Egli è necessario , a vo-ler vincere una
giornalaj fare lJ eser-cito confidente ed
infra lorOj e con ilcapitano. A volere che
uno esercito vinca una giornata, è necessario
farlo confidente,in modo che creda dovere
in ogni modo vincere. Le cose che lo
fanno confi-dente sono: che sia armato ed
ordinato bene; conoschinsi l’uno 1’ altro. Nè puònascer
questa confidenza o questo ordi-ne, se non
in quelli soldati che sononati e vissuti
insieme. Conviene che ’l capitano sia
stimato, di qualità che con-fidino nella
prudenza sua: e sempre confideranno, quando lo
vegghino ordi-nato, sollecito ed animoso, e che
tenga bene e con riputazione la maestà del grado
suo: c sempre la manterrà, quan-do gli
punisca degli errori, e non gli affatichi
invano; osservi loro le promes- se; mostri
facile la via del vincere; quelle cose
che discosto potessino mo-strare i pericoli, le
nasconda, le alleggerisca. Le quali cose
osservate bene, sonocagione grande che P
esercito confida, e confidando vince. Usavano i
Romani difar pigliare agli eserciti loro
questa confidenza per via di religione:
donde na-sceva, che con gli augurii ed
auspizii creavano i Consoli, facevano il dcletto,partivano
con li eserciti, e venivano alla giornata: e
senza aver fatto alcuna diqueste cose,
non inai arebbe un buon capitano e savio
tentata alcuna fazione,giudicando d’ averla
potuta perdere facilmente, se i suoi soldati
non avesseroprima inteso gli dii essere
dalla parte loro. E quando alcuno Consolo, o
altroloro capitano, avesse combattuto contra agli
auspizii, P arebbero punito; comee* punirono
Claudio Pulero. E benché questa parte in
tutte P istorie romanesi conosca, nondimeno
si pruova più certo per le parole che
Livio usa nellabocca di Appio Claudio;
il quale, dolen-dosi col popolo della
insolenza de’ Tri-buni della plebe, e mostrando
che me-diatiti quelli, gli auspizii e 1’ altre
cosepertinenti alla religione si corrompeva-no,
dice così : Etudaut nttnc licet reli -gionem.
Quid cnim interest , si pulii non pasccnlur , si
ex cavea tardine rxierint ,si occinuerit
avis ? Parva sunt hcec ; sed parva isla non
contemnendoj major e*nostri maximam Itane
Rcmpublicam fe-cerunt. Perchè in queste
cose piccole èquella forza di tenere
uniti e confidenti i soldati: la qual cosa è
prima cagioned’ ogni vittoria. Nondi manco,
conviene con queste cose sia accompagnata lavirtù:
altrimenti, le non vogliono. I Pre- nestini,
avendo contra ai Romani fuoriil loro
esercito, se n* andarono ad al-loggiare in
sul fiume d’ Allia, luogo do-ve i Romani
furono vinti da* Franciosi ; il che
fecero per metter fiducia nei lorosoldati,
e sbigottire i Romani per la fortuna del
luogo. E benché questo loropartito fusse
probabile, per quelle ra-gioni che di
sopra si sono discorse ;nientedimeno il
(ine della cosa mostrò, che la vera
virtù non teme ogni mini-mo accidente. Il
che l’ istorico benissi-mo dice con queste
parole, in bocca po-ste del Dittatore, che
parla così al suo Maestro de’ cavagli :
Vides tu, fortunaillos fvelos ad Alliam
conscdisse ; al tu, frelus armis animisque,
invade medianiacietn. Perchè una vera
virtù, un ordi-ne buono, una sicurtà presa
da tantevittorie, non si può con cose
di poco momento spegnere; nè una cosa vanafa
lor paura, nè un disordine gli offen-de:
come si vede certo, che essendo dueManlii
consoli contra ai Volsci, per aver mandato
temerariamente parte del cam-po a predare, ne
seguì che in un tem-po e quelli che
erano iti, e quelli cheerano rimasti, si
trovarono assediati; dal qual pericolo non
la prudenza deiConsoli, ma la virtù de’
propri soldati gli liberò. Dove Tito Livio
dice questeparole: Militimi, etiam sine reclorc ,
sta -bilia virtus lutala est. Non voglio
lascia-re indietro un termine usato da Fabio, sendo
entrato di nuovo con V esercitoin Toscana,
per farlo confidente; giudi-cando quella tal
fidanza esser più ne-cessaria per averlo
condotto in paese nuovo, e contra a ninnici
nuovi : che,parlando avanti la zuffa ai
soldati, e detto eli* ebbe molte ragioni,
mediantele quali e’ potevano sperare la
vittoria, disse che potrebbe ancora loro
dire certecose buone, e dove e’ vedrebbono
la vit-toria certa, se non fusse pericoloso
il ma-nifestarle. Il qual modo come fu
savia-mente usato, così merita d’essere imitato. XXXIV.
— Quale fama o voce o oppiatone fa che
il popolo comincia a favorire un cittadino: e
se ei di-stribuisce i magistrati con maggior prudenza
che un principe. Altra volta parlammo come
Tito Manlio, clic fu poi detto Torquato,
salvò Lu-ciò Manlio suo padre da una
accusa clic gli aveva fatta Marco Pomponio
tribuno della plebe. E benché il modo del
salvarlo fusse alquanto violento ed
istraor-dinario, nondimeno quella Oliale pietà verso
del padre fu tanto grata all’uni-versale,
che non solamente non nc furipreso,
ma avendosi a fare i Tribuni delle legioni,
fu fatto Tito Manlio nelsecondo luogo.
Per il quale successo, credo che sia
bene considerare il modoche tiene il
popolo a giudicare gli uo-mini nelle
distribuzioni sue; e che perquello noi
veggiamo, se egli è vero quanto di sopra
si conchiuse, che il popolo siamigliore
distributore che un principe. Dico, adunque,
come il popolo nel suodistribuire va
dietro a quello che si dice d’uno per
pubblica voce e fama, quandoper sue opere
note non lo conosce al-trimenti; o per
presunzione o oppinioneche s’ ha di 1 ni.
Le quali due cose sono causate o dai
padri di quelli tali, cheper esser
stati grandi uomini e valenti nelle città,
si crede che i figliuoli deb-bino esser
simili a loro, infino a tanto che per l’
opere di quelli non s’intendeil contrario;
o la è causata dai modi che tiene quello
di chi si parla. I modimigliori che
si possono tenere, sono : avere compagnia
d’uomini gravi, di buoni co-stumi, e riputati
savi da ciascuno. E per-chè nessuno indizio
si può aver mag-giore d’uii uomo, che
le compagnie con quali egli usa;
meritamente uno che usacon compagnia
onesta, acquista buon nome, perchè è impossibile
che non ab-bia qualche similitudine con
quella. 0 veramente s’ acquista questa pubblicafama
per qualche azione istraordinaria e notabile,
ancora che privata, la qualeti sia
riuscita onorevolmente. E di tutte tre queste
cose che danno nel principiobuoua
riputazione ad uno, nessuna la dà maggiore
che questa ultima : perchèquella prima de’
parenti e de’ padri è sì fallace, che
gli uomini vi vanno arilento ; ed in
poco si consuma, quando la virtù propria
di colui che ha ad es-sere giudicato
non I’ accompagna. La seconda che ti
fa conoscere per via dellepratiche tue, è
miglior della prima, ma è mollo inferiore
alla terza ; perchè, in-fino a tanto che
non si vede qualche segno che nasca
da te, sta la riputa-zione tua fondata
in su V oppili ione, la quale è facilissima
a cancellarla. Maquella terza, essendo
principiata e fon-data in su le opere lue,
ti dà nel prin-cipio tanto nome, che
bisogna bene che tu operi poi molte
cose contrarie a questo, volendo annullarla.
Debbono, adun-que, gli uomini che nascono
in unarepubblica pigliare questo verso, ed
in- gegnarsi con qualche operazione istraor-dinaria
cominciare a rilevarsi. Il che molti a Roma
in gioventù feciono o conil promulgare una
legge che venisse in comune utilità ; o con
accusare qualchepytente cittadino come transgressore delle
leggi; o col fare simili cose nota-bili c
nuove, di che s’ avesse a parlare. Nè solamente
sono necessarie simili coseper cominciare a
darsi riputazione, ma sono ancora necessarie
per mantenerlaed accrescerla. Ed a voler
fare questo, bisogna rinnovarle; come per
tutto iltempo della sua vita fece
Tito Manlio: perchè, difeso eh’ egli ebbe
il padretanto virtuosamente e straordinariamen-te, e
per questa azione presa la primareputazione
sua, dopo certi anni com-battè con quel
Francioso, e morto glitrasse quella collana
d’oro che gli dette il nome di
Torquato. Non bastò questo,che dipoi, già
in età matura, ammazzò il figliuolo per
aver combattuto senzalicenza, ancora ch’egli
avesse superato il nimico. Le quali tre
azioni allora glidettono più nome e per
tutti i secoli lo fanno più celebre, che
non lo fece alcunotrionfo, alcuna vittoria,
di che egli fu or-natoquanto alcun altro
Romano. E la ca-gione è perchè in quelle
vittorie Manlio ebbe moltissimi simili; in
queste partico-lari azioni n’ebbe o pochissimi o
nessuno. A Scipione maggiore non arrecaronotanta
gloria tutti i suoi trionfi, quanto gli
dette l'avere, ancora giovinetto, insul
Tesino difeso il padre; e l’aver, dopo la
rotta di Canne, animosamente con laspada
sguainata fatto giurare più gio-veni
romani, che ei non abbandonerei)-bono
Italia, come di già intra loro ave-vano
diliberato: le quali due azioni fu-rono
principio alla riputazione sua, e gli
fecero scala ai trionfi della Spagnae dell’
Affrica. La quale oppinione da lui fu
ancora accresciuta, quando ei ri-mandò la
figliuola al padre e la moglie al marito
in Ispagna. Questo modo delprocedere non è
necessario solamente a quelli cittadini che
vogliono acqui-star fama per ottenere gli
onori nella loro repubblica, ma è ancora necessa-rio
ai principi per mantenersi la riputazione
nel principato loro : perchè nessuna cosa
gli fa tanto stimare, quanto dare di
sè rari esempi con qualche fatto o detto
raro, conforme al bene comune, il quale
mostri il signore o magnanimo o liberale o
giusto, e che sia tale che si riduca
come in proverbio intra i suoi soggetti.
Ma, per tornare donde noi cominciammo questo discorso,
dico come il popolo quando ei comincia a
dare un grado ad un suo cittadino,
fondandosi sopra quelle tre cagioni soprascritte,
non si fonda male; ma quando poi gli
assai essempi de’ buoni portamenti d’uno lo
fanno più noto, si fonda meglio, perchè
in tal caso non può essere che quasi
mai s’ inganni, lo parlo solamente di
quelli gradi che si danno agli uomini
nel principio, avanti che per ferma
isperienza siano conosciuti, o che passano da
una azione ad un’altra dissimile: dove, e
quanto alia falsa oppinione, e quanto alla corruzione,
sempre fanno minori errori che i principi. E
perchè e’ può essere che i popoli s’
ingannerebbono della fama, della oppinione e
delle opere d’ uno uomo stimandole maggiori
che in verità non sono; il che non
interverrebbe aduno principe, perchè gli
sarebbe detto, e sarebbe avvertito da chi
lo consiglias-se : perchè ancora i popoli non
manchino di questi consigli, i buoni ordi-natori
delle repubbliche hanno ordinalo che, avendosi a
creare i supremi gradinelle città, dove
fusse pericoloso mettervi uomini insufficienti, e
reggendosila voglia popolare esser diritta a
creare alcuno che fusse insuffiziente, sia lecitoad
ogni cittadino, e gli sia imputato a gloria,
di pubblicare nelle concioni i di-fetti di
quello, acciocché il popolo, non mancando
della sua conoscenza, possameglio giudicare. E
che questo si usasse a Roma, ne rende
testimonio la ora-zione di Fabio Massimo,
la quale ei fece al Popolo nella
seconda guerra punica,quando nella creazione
dei Consoli i favori si volgevano a creare
Tito Otta-cilio;e giudicandolo Fabio insuffiziente a
governare in quelli tempi il consolato, gli
parlò contro, mostrando la insuffi*ziciua
sua ; tanto che gli tolse quel grado, e
volse i favori del Popolo a chi più lo
meritava che lui. Giudicano, adunque, i popoli
nella elezione a’ magistrati secondo quei
contrassegni che degli uo- mini si possono
aver più veri; e quando ei possono esser
consigliati come i principi, errano meno che i
principi; e quel cittadino che voglia cominciare
ad avere i favori del popolo, debbe con
qualche fatto notabile, come fece Tito Manlio, guadagnarseli.
XXXV. — Quali perìcoli si portino nel farsi
capo a consigliare una cosa ;e quanto ella
ha più dello straordinario, maggiori
pericoli vi si corrono. Quanto sia cosa
pericolosa farsi capo d’ una cosa nuova
che appartenga a molti, e quanto sia
difficile trattarla ed a condurla ; e condotta, a
mantenerla, sarebbe troppo lunga e troppo alta
maleria a discorrerla: però, riserbandola a luogo
più conveniente, parlerò solo di quelli
pericoli che portano i cittadini, o quelli
che consigliano uno principe a farsi capo
d’ una diliberazione grave ed importante, in
modo che tutto il consi-glio d’ essa
sia imputato a lui. Perchè, giudicando gli
uomini le cose dal fine, tutto il
male che ne risulta, s’ imputa all’autore
del consiglio; e se ne risulta bene, ne è
commendato: ma di lunga il premio non
contrappesa il danno. Il pre-sente Sultan
Sali, dello Gran Turco, essendosi preparato
(secondo che uè ri- feriscono alcuni che
vengono de’ suoi paesi) di fare l’ impresa
di Soria e di Egitto, fu confortato da
un suo Rascia, quale ei teneva ai
confini di Persia, d’an-dare contea al
Sofi: dal quale consiglio mosso, andò con
esercito grossissimo a quella impresa; ed
arrivando in paese larghissimo, dove sono
assai deserti e le fiumare rade, e
trovandovi quelle diflìculta che già fecero
rovinare molli eserciti romani, fu in modo
oppressalo da quelle, che vi perdè per
fame e per peste, ancora che nella guerra
fusse superiore, gran parte delle sue genti
: tal- ché irato contro all’autore del consiglio, l’ammazzò.
Leggesi, assai cittadini stati confortatori d’
una impresa, e per avere avuto quella
tristo fine, essere stati man- dati in
esilio. Fecionsi capi alcuni cittadini romani,
che si facesse in Roma il Consolo
plebeo. Occorse che il primo che uscì
fuori con gli eserciti, fu rotto ; onde
a quelli consigliatori sarebbe avvenuto qualche
danno, se non fusse stata tanto gagliarda
quella parte, in onore della quale tale
diliberazione era venuta. È cosa adunque
certissima, che quelli che consigliano una
repubblica, e quelli che consigliano un principe,
sono posti intra queste angustie, che se
non con-sigliano le cose che paiono loro
utili, o per la città o per il
principe, senza ri-spetto, ei mancano dell’
uffìzio loro; se le consigliano, egli
entrano nel pericolo della vita e dello
Stato: essendo lutti gli uomini in questo
ciechi, di giudi-care i buoni e cattivi consigli
dal fine. E pensando in che modo ei
potessino fuggire o questa infamia o questo pericolo,
non ci veggo altra via che pi- gliar
le cose moderatamente, e non ne prendere
alcuna per sua impresa, e dire V oppinione
sua senza passione, e senza passione con
modestia difenderla : in modo che, se la
città o il principe la segue, (die la
segua volontario, e non paia che vi venga
tirato dalla tua importunità. Quando tu
faccia così, non è ragione- vole che un
principe ed un popolo del tuo consiglio
ti voglia male, non essendo seguito contra
alla voglia di molti : perchè quivi si
porta pericolo dove molti han- no contradetto, i
quali poi nello infelice fine concorrono a
farti rovinare. E se in questo caso si
manca di quella gloria che si acquista
nell’ esser solo contra molti a consigliare
una cosa, quando ella sortisce buon fine,
ci sono al riucontro due beni : il
primo, di mancare del pericolo ; il
secondo, che se tu con- sigli una cosa
modestamente, e per la contradizione il tuo
consiglio non sia preso, e per il consiglio
d’altrui ne seguiti qualche rovina, ne
risulta a te grandissima gloria. E benché la
gloria che s’acquista de’ mali che abbia o la tua
città o il tuo principe, non si possa godere,
nondimeno è da tenerne qualcheconto. Altro
consiglio non credo si possa dare agli
uomini in questa parte: per-chè consigliandogli
che tacessino, e non dicessino I’ oppinione
loro, sarebbe cosainutile alla repubblica o
ai loro principi, e non fuggirebbono il
pericolo ; perchèin poco tempo diventerebbono
sospetti: e ancora potrebbe loro intervenire co-me a
quelli amici di Perse re dei Macedoni,
il quale essendo stato rotto daPaulo
Emilio, c fuggendosi con pochi amici, accadde
che nel replicar le cosepassate, uno
di loro cominciò a dire a Perse molti
errori fatti da lui, che eranostati
cagione della sua rovina; al quale Perse
rivoltosi, disse: Traditore, si chetu hai
indugiato a dirmelo ora ch’io non ho più
rimedio; e sopra queste pa-role, di sua
mano l’ammazzò. E cosi colui portò la pena
d’essere stato chetoquando ci doveva
parlare, e d’aver parlato quando ei doveva
tacere; nè fuggiil pericolo per non
avere dato il consiglio. Però credo che
sia da tenere edosservare i termini
soprascritti. XXXVI. —
La cagione perchè « Fran-ciosi sono stali e
sono ancora giudicati nelle zuffe da
principio più cheuomini j e dipoi meno che
femmine. La ferocità di quel Francioso che
pro-vocava qualunque Romano appresso al Piume
Aniene a combatter seco, dipoila zuffa
falla intra lui e Tito Manlio, mi fa
ricordare di quello che Tito Liviopiù
volte dice, che i Franciosi sono ne principio
della zuffa più che uomini, enel
successo di combattere riescono poi meno
che femmine. E pensando dondequesto nasca,
si crede per molti che sia la natura
loro così fatta: il che credosia
vero; ma non è per questo, che questa
loro natura che gli fa feroci nelprincipio,
non si potesse in modo con I* arte
ordinare, che la gli mantenesseferoci
infino nell’ ultimo. Ed a voler provare
questo, dico come e’ sono di treragioni
eserciti: V uno dove è furore ed ordine;
perchè dall’ ordine nasce il furo-re e la
virtù, come era quello dei Romani: perchè
si vede in tutte l’ istorie,clic in
quello esercito era uno ordine buono, che
v’ aveva introdotto una di-sciplina militare
per lungo tempo. Perchè in uno esercito
bene ordinato, nes-suno debbe fare alcuna
opera se non regolato: e si troverà per
questo, chenello esercito romano, dal
quale, avendo egli vinto il mondo, debbono
prendereessempio tutti gli altri eserciti,
non si mangiava, non si dormiva, non
si mer-calava, non si faceva alcuna
azione o militare o domestica senza l'ordine delconsolo.
Perchè quelli eserciti che fanno altrimenti,
non sono veri eserciti; c sefanno alcuna
pruova, la fanno per furore e per impeto,
non per virtù. Mudove è la virtù
ordinata, usa il furore suo coi modi e co’
tempi; nè diflicultàveruna lo invilisce, nè
gli fa mancare l'animo: perchè gli ordini
buoni glirinfrescano l’ animo ed il furore,
nutriti dalla speranza del vincere; la qualemai
non manca, infìno a tanto che gli ordini
stanno saldi. Al contrario inter-viene in
quelli eserciti dove è furore c non ordine,
come erano i franciosi : iquali tuttavia
nel combattere mancavano; perchè non riuscendo
loro col primoimpeto vincere, e non essendo
sostenuto da una virtù ordinata quello loro
furorenel quale egli speravano, nè avendo
fuori di quello cosa in la quale ei
confidassi-no, come quello era raffreddo,
mancavano. Al contrario i Romani, dubitandomeno
dei pericoli per gli ordini loro buoni,
non diffidando della vittoria, fer-mi ed
ostinali combattevano col medesimo animo e con
la medesima virtùnel fine che nel
principio: anzi, agitati dall’ arme, sempre s’
accendevano. Laterza qualità d’eserciti, è,
dove non è furore naturale, nè ordine
accidentale:come sono gli eserciti nostri
italiani de’ nostri tempi, i quali sono al
tuttoinutili; e se non si abbattono ad uno esercito
che per qualche accidente sifugga, mai
non vinceranno. E senza addurne altri essempi,
si vede ciascunodi come ei fanno
pruove di non avere alcuna virtù. E perchè
con il testimonio di Tito Livio ciascuno
intenda come debbe esser fatta la buona
milizia,e come è fatta la rea; io voglio
addurre le parole di Papirio Cursore,
quando eivoleva punire Fabio maestro de’ cavalli,
quando disse: Nano hominum y nanoDeorum
verecundiam hubcat ; non cdù da impcralorum^
non auspicio, obser-ventar: sine commenta , vagì
tnililcs in pacato , in hostico errcnt; immcmoressacramenti
, se ubi velini exauctorenl /infrequentia
deserant tigna ; ncque con -veniant ad edictum,
nec discernant interdiuj nodo ; (equo,
iniquo loco, jussu,injussu imperatorie pugncnt ;
et non sigila, non ordines serventi lalroctntimodo,
cieca et fortuita, prò solcami et sacrala rnilitia
sit. Puossi per questotesto, adunque,
facilmente vedere, se la milizia de’ nostri
tempi è cieca e fortuita,o sacrata e solenne j e
quanto le manca ad esser simile a quella
die si può chiamarmilizia ; e quanto ella è
discosto da. essere furiosa ed ordinala come
la roma-na, o furiosa solo come la franciosa. XXXVII.
— Se le piccole battaglieinnanzi alla
giornata sono necessarie, e come si debbe
fare a conoscere unnimico nuovo , volendo fuggire
quelle. E’ pare che nelle azioni degli
uomini,come altre volte abbiamo discorso, si tvuovi,
oltre all’ altre diftìcultà, nel vo-ler
condurre la cosa olla sua perfezione, che
sempre propinquo al bene siaqualche male,
il quale con quel bene sì facilmente
nasce, che pare impossibilepoter mancare
dell’ uno volendo I’ altro. E questo si
vede in tutte le cose chegli uomini
operano. E però s’ acquista il bene con
diftìcultà, se dalla fortunatu non se’
aiutato in modo, che ella con la sua
forza vinca questo ordinario enaturale
inconveniente. Di questo mi ha fatto
ricordare la zuffa di Manlio Tor-quato e
dei Fraucioso, dove Tito Livio dice: Tanti
ca dimicatio ad universibelli eventtim
momenti fuitj ut Gallorum excrciluSj relictis
trepide castri s,in Tiburlem agrum , inox in
Campaniam transierit. Perchè io considero dall’
uncanto, che un buon capitano debbe fuggire
al tutto di operare alcuna cosa che,essendo
di poco momento, possa fare cattivi effetti
nel suo esercito: perchècominciare una
zuffa dove non si opel ino tutte le
forze e vi si arrisichi tuttala fortuna, è
cosa al tutto temeraria; come io dissi
di sopra, quando io dan-nai il guardare
de’ passi. Dall’ altra parte io considero
come capitani savi, quandoei vengono all’
incontro d’ un nuovo nimico, e che sia
riputato, ei sono neces-sitati, prima che
venghino alia giornata, far provare con
leggieri zuffe ai lorosoldati tali nimici;
acciocché cominciandogli a conoscere c maneggiare, perdinoquel
terrore che la fama e la riputazione aveva
dato loro. E questa partein un capitano è
importantissima ; perchè ella ha in sé
quasi una necessità cheti constringe a
farla, parendoti andare ad una manifesta
perdita, senza averprima fatto con piccole
isperienze deporre ai tuoi soldati quello
terrore chela riputazione del nimico aveva
messo negli animi loro. Fu Valerio Corvinomandato
dai Romani con gli eserciti contro ai
Sanniti, nuovi nimici, e cheper lo addietro
mai non avevano provate 1* arme 1’
uno dell’ altro; dove diceTito Livio,
che Valerio fece fare ai Romani coi
Sanniti alcune leggieri zuffe:jV© eos novum
bellutn , ne novus hoslis . lerreret. Nondimeno è
pericolo grandis-simo, che restando i tuoi
soldati in quelle battaglie vinti, la paura
e la viltà noncresca loro, e ne
conseguitino contrari effetti ai disegni tuoi;
cioè che tu glisbigottisca, avendo
disegnalo d’ assicurarli: tanto che questa è
una di quellecose che ha il male
sì propinquo al bene, e tanto sono
congiunti insieme, che gliè facil cosa
prendere l’ uno credendo pigliar P altro. Sopra
che io dico, che• un buon capitano
debbo osservare con ogni diligenza, che non
surga alcunacosa che per alcuno accidente
possa torre Panimo alP esercito suo. Quello
che glipuò torre P animo è cominciare a perdere;
e però si debbe guardare dallezuffe
piccole, e non le permettere se non con
grandissimo vantaggio e concerta speranza di
vittoria ; non debbo fare impresa di
guardar passi, dovenon possa tenere tutto
l’esercito suo: non debbe guardare terre,
se non quelleche perdendole di necessità
ne seguisse la rovina sua; e quelle che
guar-da, ordinarsi in modo, e con le guardie
d’ esse e con l’esercito, clic trat-tandosi
della espugnazione di esse, ei possa
adoperare tutte le forze sue;P altre debbe
lasciare indifese. Perchè ogni volta che si
perde una cosa che siabbandoni, e P
esercito sia ancora insieme, e’ non si
perde la riputazione dellaguerra, nè la
speranza di vincerla: ma quando si perde
una cosa che tu haidisegnata difendere, e
ciascuno crede che tu la difenda, allora è
il danno e la per-dita ; ed hai quasi,
come i Franciosi, con una cosa di piccolo
momento perduta laguerra. Filippo di
Macedonia padre di Perse, uomo militare e
di gran condizione ne’ tempi suoi, essendo
assaltato dai Romani; assai de’ suoi paesi,
i qualiei giudicava non potere guardare,
abbandonò e guastò scoine quello che, peressere
prudente, giudicava più pernicioso perdere la
riputazione col non potere difendere quello
che si metteva a difendere, che lasciandolo
in preda alnimico, perderlo come cosa
negletta. I Romani, quando dopo la rotta
di Cannele cose loro erano afflitte,
negarono a molti loro raccomandati e sudditi
li aiuti,commettendo loro che si
difendessino il meglio potessino. I quali partiti
sonomigliori assai, che pigliare difese, e poi non
le difendere: perchè in questo par-tito si
perde amici e forze; in quello, amici solo.
Ma tornando alle piccole zuffe, dico che
se pure un capitano è costretto per la novità
del nimico far qualche zuffa, debbe farla
con tanto suo vantaggio, che non vi
sia alcun pericolo di perderla : o
veramente far come Mario (il che è migliore
partito), il quale andando contro ai
Cimbri, popoli ferocissimi, che venivano e
predare Italia, e venendo con uno spavento
grande per la ferocità e moltitudine loro,
e per avere di già vinto un esercito
romano ; giudicò Mario esser necessario, innanzi
che venisse alla zuffa, operare alcuna cosa
per la quale l’ esercito suo deponesse quel
terrore che la paura del nimico gli
aveva dato; e, come prudentissimo capitano,
più che una volta collocò l’esercito suo
in luogo donde i Cimbri con 1* esercito
loro dovessino passare. E così, dentro alle
fortezze del suo campo, volle che i suoi
soldati gli vedessino, ed assuefacessino gli
occhi alla vista di quello nimico ;
acciochè, vedendo una moltitudine inordinata, piena di
impedimenti, con arme inutili, e parte disarmati,
si rassicurussino, e diventassino disiderosi
della zuffa. 11 quale partito come fu
da Mario saviamente preso, così dagli altri
debbe essere diligentemente imitato, per non
incorrere in quelli pericoli che io di
sopra dico, e non avere a fare come i
Franciosi, qui ob rem parvi ponderis trepidi
iti Tiburietn agrum et in Campaniam
transierunt. E perchè noi abbiamo allegato in
questo discorso Valerio Corvino, voglio,
mediatiti le parole sue, nel seguente capitolo,
come debbe esser fatto un capitano, dimostrare. XXXVIII. — Come debbe
esser fatto un capitano nel quale V
esercito suo possa confidare. Era, come di
sopra dicemmo, Valerio Corvino con 1’
esercito contea ai Sanniti, *nuovi nimici
del Popolo romano: donde che, per
assicurare i suoi soldati, e per fargli conoscere
i nimici, fece fare ai suoi certe leggieri
zuffe j nè gli bastando questo, volle
avanti alla giornata parlar loro, e mostrò
con ogni efficacia quanto e' dovevano
stimare poco tali nimici, al-legando la
virtù de’ suoi soldati e la propria. Dove
si può notare, per le parole che
Livio gli fa dire, come debbe essere fatto
un capitano in chi I’ esercito abbia a
confidare j le quali parole sono queste: Tutti
ctiam intuerì cujtis ductu auspi- cioque
ineunda pugna sii: ulritm qui audtcndus
dumlaxat magnifìcus adhor- tator sit, ver
bis tantum ferox , operimi mililarium expers ; an
qui, et ipsc tela frodare, procedere ante
signa, versavi media in mole pugna sciai.
Facla mea, non dieta vos militcs sequi
volo ; nec disciplinavi modo, sed cxcmplum ctiam a
me potere , qui hac dextra tnihi tres consulalus,
summamque laudem pepcri. Le quali parole
considerate bene, insegnano a qualunque, come ei
debbe procedere a voler tenere il grado del
capitano : e quello che sarà fatto altrimenti, troverà,
con il tempo, quel grado, quando per
fortuna o per ambizione vi sia con- dotto,
torgli e non dargli riputazione; perchè non i
titoli illustrano gli uomini, ma gli uomini
i titoli. Debbesi ancora dal principio di
questo discorso consi-derare, che se i capitani
grandi hanno usato termini istraordinari a fermare gli
animi d’uno esercito veterano quando coi
nimici inconsueti debbe affrontarsi ; quanto
maggiormente si abbia ad usare l’ industria
quando si comandi uno esercito nuovo,
che non abbia mai veduto il nimico in
viso. Perchè, se lo inusitato nimico allo
esercito vecchio dà terrore, tanto maggiormente
lo debbe dare ogni nimico ad uno
esercito nuovo. Pure, s’ò veduto molte
volte dai buoni capitani tutte queste
diflìcultù con somma pru- denza esser vinte:
come fece quel Gracco romano, ed Epaminonda
tebano, de’quali altra volta abbiamo parlato,
che con eserciti nuovi vinsono eserciti veterani ed
esercitatissimi. I modi che tenevano, erano:
parecchi mesi esercitargli in bat-taglie fìnte;
assuefargli alla ubbidienza ed all’ ordine: e da
quelli dipoi, con massima confidenza, nella
vera zuffa gli adoperavano. Non si debbe,
adunque, diffidare alcuno uomo militare di non poter
fare buoni eserciti, quando non gli manchi
uomini ; perchè quel principe che abbonda
d’ uomini e manca disoldati, debbe
solamente, non della viltà degli uomini, ma
della sua pigrizia e e poca prudenza dolersi. XXXIX.
— Che un capitano debbe esser conoscitore
dei eiti. Intra 1’ altre cose che
sono necessarie ad un capitano d’ eserciti, è
la cognizione dei sili e de’ paesi; perchè senza questa
cognizione generale e particolare, un capitano d’
eserciti non può be-ne operare alcuna cosa.
E perchè tutte le scienze- vogliono pratica a
voler per- fettamente possederle, questa è una che ricerca
pratica grandissima. Questa pratica, ovvero
questa particolare cognizione, s’ acquista più
mediatiti le cacce, che per verun altro
esercizio. Però gli antichi scrittori dicono,
che quelli ^roi che governarono nel loro
tempo il mondo, si nutrirono nelle selve e
nelle cac- ce; perchè la caccia, oltre a
questa cognizione, ti insegna infìttile cose che sono
nella guerra necessarie. E Senofonte, nella
vita di Ciro, mostra che andando Ciro
od assaltare il re d’ Armenia, nel
divisare quella fazione, ricordòa quelli suoi,
che questa non era altro che una di
quelle cacce le quali mollevolte avevano
fatte seco. E ricordava a quelli che
mandava in aguato su i monti, che gli
erano simili a quelli eh’ andavano a tendere le
reti in su i gioghi; eda quelli che
scorrevano per il piano, che erano simili a
quelti che andavano a levare del suo
covile la fera, acciocché, cacciata, desse
nelle reti. Questo si dice per mostrare
come le cacce, secondo che Senofonte
appruova, sono una immagine d’ una guerra:
e per questo agli uomini grandi tale
esercizio è onorevole e necessario. Non si può
ancora imparare questa cognizione de’ paesi
in altro comodo modo che per via di
caccia; perchè la caccia fa a colui che
1’ usa sapere come sta particolarmente quel
paese dove ei 1* esercita. E fatto che
uno s’ è familiare bene una regione,
con facilità comprende poi tulli i paesi
nuovi j per-chè ogni paese ed ogni membro
di quelli hanno insieme qualche conformità, in modo
clic dalla cognizione d’ uno facilmente si
passa alla cognizione dell’ altro. Ma chi
non ne ha ancora bene pratico uno,
con difficoltà, anzi non mai se non
con un lungo tempo, può conoscer 1’
altro. E chi ha questa pratica, in unvoltar
d’ occhio sa come giace quel piano, come
surge quel monte, dove arriva quella valle,
e tutte l* altre simili cose, di che
ei ha per lo addietro fatto una ferma
scienza. E che questo sia vero, ce lo
mostra Tito Livio con lo essempio di
Publio Decio; il quale essendo Tribuno de’
soldati nello esercito che Cornelio consolo
conduceva contro ai Sanniti, ed essendosi
il Consolo ridotto in una valle, dove l’
esercito dei Romani poteva dai Sanniti
esser rinchiuso, evedendosi in tanto
pericolo, disse al Consolo : Vtdes tuj Aule
Corneli, cacume»iilud supra hostcm ? arx ilici
est spei salutisquc nostra, si eam fquoniam
caarcliquerc SamnitesJ impigre capimus. Ed innanzi
a queste parole dette da Decio,Tito Livio
dice: Publtus Dcctus, tribùnus militimi , unum
editum in saltu collenij immincnteni
hostium castns , adilu arduum impedito agmini,
expeditis hauddifficilcm. Donde, essendo stato
mandatosopra esso dal Consolo con tremila
soldati,ed avendo salvo l’esercito romano j e
dise-gnando, venendo la notte, di partirsi e
sal-vare ancora sè ed i suoi soldati, gii
fa direqueste parole: Ite niecum, ut
dum lucisaliquid superest, quibus locts
hostesprcesidia ponant, qua palcat hinc exitus,exploremus.
Hcec ornnta sagulo militariamiclus, ne
ducem circuire hostes no-larentj perlustrarli.
Chi considererà,adunque, tutto questo testo,
vedrà quantosia utile e necessario ad un
capitanosapere la natura de’ paesi: perché
seDecio non gli avesse saputi e
conosciuti,non arebbe potuto giudicare qual
utilefaceva pigliare quel colle allo
esercitoromano; uè arebbe potuto conoscere
didiscosto, se quel colle era accessibile
ono ; e condotto che si fu poi sopra
esso,volendosene partire per ritornare al
Con-solo, avendo i nimici intorno, non arebbedal
discosto potuto speculare le vie
delloandarsene, e li luoghi guardati dai ni-mici.
Tanto che, di necessità conveniva,che Decio
avesse tale cognizione per-fetta: la qual
fece che con il pigliarequel colle,
ei salvò l’esercito romano;dipoi seppe,
scndo assedialo, trovare lavia a salvare sè
e quelli che erano statiseco.Cap. XL. —
Come, usare la fraudenel maneggiare la
guerra è cosa gloriosa.Ancoraché usare la
fraude in ogniazione sia detestabile,
nondimanco nelmaneggiar la guerra è cosa
laudabile egloriosa; e parimente è laudato
coluiche con fraude supera il nimico,
comequello che M supera con le forze. E
ve-desi questo pei* il giudizio che
ne fannocoloro che scrivono le vite
degli uominigrandi, i quali lodano Annibaie e
gli* altri che sono stati notabilissimi in
si-mili modi di procedere. Di che per
leg-gersi assai essempi, non ne replicheròalcuno.
Dirò solo questo, che io nonintendo
quella fraudo essere gloriosa,che ti fa
rompere la fede data ed i pattifatti;
perchè questa, ancora che la tiacquisti
qualche volta stalo e regno, co-me di sopra
si discorse, la non ti acqui-sterà mai
gloria. Ma parlo di quella fraudoche
si usa con quel nimico che non
sifida di te, e che consiste proprio
nelmaneggiare la guerra : come fu quellad’Annibale,
quando in sul lago di Peru-gia simulò
la fuga per rinchiudere ilConsolo e lo
esercito romano; e quando,per uscire di
mano di Pabio Massimo,accese le corna
dello armento suo. Allequali fraudi fu
simile questa che usòPonzio capitano dei
Sanniti, per rin-chiudere 1’ esercito
romano dentro alleforche Caudine-. i( quale
avendo messolo esercito suo a' ridosso dei
monti, mandòpiù suoi soldati sotto vesti
di pastori conassai armento per il
piano; i quali sen--do presi dai Romani, e
domandati doveera l’esercito dei Sanniti,
convennerotutti, secondo 1’ ordine dato da
Ponzio,a dire come egli era allo assedio
di No-terà. La qual cosa creduta dai
Consoli,fece eh’ ei si rinchiusero dentro
ai balzicaudini; dove entrati, furono
subito as-sediati dai Sanniti. E sarebbe stata que-sta
vittoria, avuta per fraude, glorio-sissima a
Ponzio, se egli avesse seguitatii consigli
del padre ; il quale voleva chei Romani o
si salvassino liberamente, osi ammazzassino
tutti, e che non si pi-gliasse la via
del mezzo, qu ce neque ami-co* parai , ncque
inimicos tollil. La qualvia fu sempre
perniziosa nelle cose diStato; come di
sopra in altro luogo sidiscorseC*p. XLi. —
Che la patria si debbo di-fendere o con
ignominia o con glo-ria; ed in qualunque
modo è ben di-fesa.Era, come di sopra
s’è dello, il Con-solo e l’esercito romano
assedialo daiSanniti: i quali avendo proposto
ai Ro-mani condizioni ignominiosissime; comeera,
volergli mettere sotto il giogo, edisarmati
mandargli a Roma: e per que-sto stando i Consoli
come attoniti, e tuttol’esercito disperato; Lucio
Lentolo le-gato romano disse, che non gli
parevache fusse da fuggire qualunque
partitoper salvare la patria: perchè,
consisten-do la vita di Roma nella vita
di quelloesercito, gli pareva da salvarlo
in ognimodo; e che la patria è ben
difesa inqualunque modo la si difende, o
conignominia, o con gloria : perchè
salvandosiquello esercito, Roma era a tempo a
cancel-lare l’ignominia: non si salvando,
ancorache gloriosamente morisse, era perdutaKoma
e la libertà sua. E così fu segui-tato il
suo consiglio. La qual cosa me-rita d’
esser notata ed osservata da qua-lunque
cittadino si truova a consigliarela patria
sua: perchè dove si diliberaal tutto
della salute della patria, nonvi debbe
cadere alcuna considerazionenè di giusto nè
di ingiusto, nè di pie-toso, nè di
crudele, nè di laudabile, nèdi ignominioso;
anzi, posposto ogni al-tro rispetto, seguire
al tutto quel par-tito che li salvi
la vita, e mantenghile lalibertà. La
qualcosa è imitata con i detti econ i fatti
dai Franciosi, per difendere lamaestà del
loro re e la potenza del lororegno;
perchè nessuna voce odono piùimpazientemente
che quella che dicesse:il tal partito è
ignominioso per il re;perchè dicono che
il loro re non puòpatire vergogna in
qualunque sua dili-berazione, o in buona o in
avversa for-tuna: perchè se perde o se
vince, tuttodicono esser cosa da re.Cap.
XLII. — Che le promesse fatteper forza
non si debbono osservare.♦ »Tornati i Consoli
con 1’ esercito di-sarmato e con la
ricevuta ignominia aRoma, il primo che
in Senato disseche la pace fatta a
Cuudo non si do-veva osservare, fu il
consolo Spurio Po-stumio; dicendo, come il
Popolo romanonon era obbligato, ma eh’
egli era beneobbligato esso, e gli altri
che avevanopromesso la pace : e però il
Popolo vo-lendosi liberare da ogni obbligo,
avevaa dar prigione nelle mani dei
Sannitilui e tutti gli altri che V avevano
pro-messa. E con tanta ostinazione tenne questa
conclusione, che il Senato ne fu contento;
e mandando prigioni lui e gli altri in
Sannio, protestarono ai Sanniti,la pace non
valere. E tanto fu in questo caso a
Postumio favorevole la fortuna, che i Sanniti
non lo ritennero; e ritornato in Roma,
fu Postumio appresso.ai Romani più glorioso
per avere perduto, che non fu l’onzio
appresso ai Sanniti per aver vinto. Dove
sono da no-tare due cose ; 1* una,
che in qualunque azione si può acquistar
gloria, perchènella vittoria s’ acquista
ordinariamente; nella perdita s’ acquista o col
mostrare tal perdita, non esser venuta per
tua colpa, o per far subito qualche azione virtuosa
che la cancelli : 1’ altra è, che non
è vergognoso non osservare quelle promesse che
ti sono state fatte promettere per forza ;
e sempre le promesseforzate che riguardano
il pubblico, quando e’ manchi la forza,
si romperanno, e fia senza vergogna di chi
le rompe. Di che si leggono in tutte
l’ istorie variessempi, e ciascuno dì ne’
presenti tempi se ne veggono. E non
solamente non siosservano intra i principi
le promesse forzate, quando e* manca la
forza ; ma non si osservano ancora tutte
\* altre promesse, quando e’ mancano le
cagioni che le fanno promettere. Il che
se è cosa laudabile o no, o se da un
principe si debbono osservare simili modi o no, largamente
è disputato da noi nel nostro trattato del
Principe; però al presente lo taceremo. XLIII. —
Che gli uomini che nascono in una provincia
, osservano per lutti i tempi quasi quella
medesima natura.Sogliono dire gli uomini
prudenti, e non a caso nè immeritamente,
che cbi vuol veder quello che ha ad
essere, consideri quello che è stato; perchè
tutte le cose del mondo, in ogni
tempo, hanno il proprio riscontro con gli
antichi tempi. Il che nasce perchè essendo
quelle operate dagli uomini che hanno ed
ebbero sempre le medesime passioni, conviene di
necessità che le sortischino il medesimo
effetto. Vero è, che le sono P opere
loro ora in questa provincia più virtuose
che in quella, ed in quella più che
in questa, secondo la forma delia educazione
nella quale quelli popoli hanno preso il
modo del viver loro. Fa ancorafacilità
il conoscere le cose future per le
passate; vedere una nazione lungo tempo
tenere i medesimi costumi, essendo o continovamente
avara, o continovamente fraudolenta, o avere alcun
altro si* mile vizio o virtù. E chi leggerà
le cose passale della nostra città di
Firenze, e considererà ancora quelle che
sono ne*prossimi tempi occorse, troverà i popoli tedeschi
e franciosi pieni d’ avarizia, disuperbia, di
ferocia e di infcdelità; perchè tutte queste
quattro cose in diversi tempi hanno offeso
molto la nostra città. E quanto alla poca
fede, ognuno sa quante volte si dette
danari al re Carlo Vili, ed egli
prometteva rendere le fortezze di Pisa, c
non mai le rendè. In che quel re
mostrò la poca fede, e la assai avarizia
sua. Ma lasciamo andare queste cose
fresche. Ciascuno può avere inteso quello
che segui nella guerra che feceil
popolo fiorentino contea ai Visconti duchi
di Milano; che essendo Firenze privo degli
altri espedienti, pensò dicondurre T iroperadore
in Italia, il quale con la riputazione e
forze sue assaltassela Lombardia. Promise l’
imperadore venire con assai gente, e far
quella guerra contra ai Visconti, e difendere
Firenze dalla potenza loro, quando i Fiorentini gli
dessino centomila ducati per levarsi, e centomila
poi che fusse in Italia. Ai quali
patti consentirono i Fiorentini; e pagatogli i
primi danari, e dipoi i secondi, giunto che
fu a Verona, se ne tornò indietro senza
operare alcuna cosa, causando esser restato
da quelli che non avevano osservato le
convenzioni erano fra loro. In modo che,
se Firenze non fusse stata o constretla
dalla necessitào vinta dalla passione, ed
avesse letti e conosciuti gli antichi
costumi de’borbari,non sarebbe stata nè
questa nè molte altre volte ingannata da
loro; essendoloro stati sempre a un modo,
ed avendo in ogni parte e con ognuno
usati i me-desimi termini. Come e' si vede eh’ e’
fecero anticamente ai Toscani ; i qualiessendo
oppressi dui Romani, per essere stati da
loro più volte messi in fuga erotti;
e veggendo mediami le loì* forze non poter
resistere aìr impeto di quelli;convennero
con i Franciosi che di qua dall' Alpi
abitavano in Italia, di dar lorosomma
di danari, e che fussino obbligati congiugnere
gli eserciti con loro,ed andare contea
ai Romani: donde ne seguì che i Franciosi,
presi i danari,non volleno dipoi pigliare l’
arme per loro, dicendo averli avuti non
per farguerra coi loro nimici, ma
perchè s’astenessino di predare il paese
toscano. E così i popoli toscani, per l’
avarizia e poca fede dei Franciosi,
rimasono ad untratto privi de' loro
danari, e degli aiuti che gli speravano da
quelli. Talché sivede per questo essempio
dei Toscani antichi, e per quello de’
Fiorentini, iFranciosi avere usati i medesimi
termini; e per questo facilmente si può
con-ielturare, quanto i principi si possono fidare
di loro. XLIV. — E' si ottiene con V impetoc
con lJ audacia molte volte quello che con
modi ordinari non si otterrebbe mai. Essendo i
Sanniti assaltati dallo esercito di Roma, e
non polendo con l’esercito loro stare alla
campagna a petto ai Romani, diliberarono,
lasciate guardate le terre in Sannio, di
passare con tutto V esercito loro in
Toscana, la qualeera in triegua coi
Romani; e vedere permtal passata, se ei
potevano con la presenza dello esercito
loro indurre i Toscani a ripigliar 1’ arme ;
il che avevano fregato ai loro
ambasciadori. E nel parlare che feeiono i Sanniti
ai Toscani, nel mostrar, massime, qual
cagione gli aveva indotti a pigliar 1*
arme, usarono un termine notabile, dove
dissono : Rebollasse j quod pax sci'vicnlibus gravior t
quam liboris bcllum esset. E cosi, parie con
le persuasioni, parte con la presenza dello
esercito loro, gli indussono a pigliar 1*
arme. Dove è da notare, che quando un
principe disidera d’ ottenere una cosa da
un altro, debbe, se l’ occasione lo
patisce, non gli dare spazio a diliberarsi, e
fare in modo ch’ei vegga la necessità
della presta diliberazione: la quale è quando
colui che è domandato vede che dal negare o
dal differirene nasca una subita e
pericolosa inde-gnazione. Questo termine s’ è
vedutobene usare nei nostri tempi da
papalulio con i Franciosi, eda monsignordi
Fois capitano del re di Francia
colmarchese di Mantova : perchè papa
luliovolendo cacciare i Bentivogli di Bologna,e
giudicando per questo aver bisognodelle
forze franciose, e che i Yinizianistessino
neutrali j ed uvendone ricercoF uno e I’
altro, e traendo da loro ri-sposta dubbia e
varia j diliberò col nondare lor tempo
far venire I’ uno e l’al-tro nella sentenza
sua : e, partitosi daRoma con quelle
tante genti cli’ei potòraccozzare, n’ andò
verso Bologna, eda’Viniziani inandò a dire
che stessinoneutrali, ed ai re di
Francia che glimandasse le forze. Talché,
rimanendotutti ristretti dal poco spazio di
tempo,e veggeudo come nel papa doveva na-scere
una manifesta indegnazione difle-rendo o negando,
cederono alle vogliesue; ed il re gli
mandò aiuto, ed i Vi*uiziani si steltono
neutrali. Monsignordi Fois, ancora, essendo
con l’esercitoili Bologna, ed avendo intesa
la ribel-lione di Brescia, e volendo ire
alla ri-cuperazione di quella, aveva due
vie ;F una per il dominio del re,
lunga etediosa; l’altra brievc per il
dominiodi Mantova: e non solamente era
neces-sitato passare per il dominio di
quelmarchese, ina gli conveniva entrare
percerte chiuse intra paludi e laghi, di
cheè piena quella regione, le quali con
for-II acuì avelli, Discorsi. — 1. 49lezzo
cd altri modi erano serrate c guar-dale da
lui. Onde che Pois, diliberalod* andare
}>er la più corta, e per vin-cere ogni
di (Tic ulta nè dar tempo al
mar-chese a diliberarsi, ad un tratto mossele sue
genti per quella via, cd al mar-chese
significò gli mandasse le chiavi diquel
passo. Talché il marchese, occu-pato da
questa subita diliberazione, glimandò le
chiavi: le quali mai gli arebbemandate
se Pois più lepidamente si fusscgovernato,
essendo quel marchese in legaeoi papa e
coi Viniziani, ed avendo uusuo figliuolo
nelle mani del papa; lequali cose gli
davano molte oneste scusea negarle. Ma
assaltato dal subito par-tito, per le
cagioni che di sopra si di-cono, le
concesse. Cosi feciono i Toscanieoi Sanniti,
avendo per la presenza del-T esercito di
Sannio preso quelle armeche gli avevano
negato per altri tempipigliare.Cap. XLV. —
Qual sia miglior partitonelle giornale , o
sostenere lf impetode* nimicij c sostenuto
urtargli ; ov-vero dapprima con furia
assaltargli.Erano Decio e Fabio, consoli
romani,con due eserciti all’ incontro degli
eser-citi dei Sanniti e dei Toscani; e
venendoalla zuffa ed alla giornata insieme,
è danotare in tal fazione, quale di
due di-versi modi di procedere tenuti dai
dueConsoli sia migliore. Perchè Decio
conogni impeto e cor» ogni suo sforzo
as-saltò il nimico; Fabio solamente lo so-stenne,
giudicando V assalto lento es-sere più utile,
riserbando l' impeto suonell’ ultimo, quando
il nimico avesseperduto il primo ardore
del combat-tere, e come noi diciamo, la sua
foga.Dove si vede, per il successo della
eosa,che a Fabio riuscì molto meglio il
di-segno che a Decio : il quale si
straccònei primi impeti ; in modo che,
veden-do la banda sua piuttosto in
volta diealtrimenti, per acquistare con la
mortequella gloria alla quale con la
vittorianon aveva potuto aggiungere, ad
imita-zione del padre sacrificò sè stesso perle
romane legioni. La qual cosa intesada
Fabio, per non acquistare manco ono-re
vivendo, che s’avesse il suo
collegaacquistato morendo, spinse innanzi
tuttequelle forze che s’ aveva a tale
necessitàriservate ; donde ne riportò una
felicis-sima vittoria. Di qui si vede che
’l mododel procedere di Fubio è più
sicuro epiù imitabile. Cap. XLVI. — Donde
nasce che una fa-mìglia iìi una città
tiene un tempo imedesimi costumi. E’
pare clic non solamente 1’ una
cittàdall* altra abbi certi modi ed
institutidiversi, e procrei uomini o più duri
opiù effeminati; ma nella medesima cittàsi vede
tal differenza esser nelle fumi-glie I’
una dall’ altra. H che si riscontraessere
vero in ogni città, e nella cittàili
Roma se ne leggono assai essempi
:perché e’ si vede i Manlii essere
statiduri ed ostinati, i Pubi icoli uomini
be-nigni ed amatori del popolo, gli
Appiiambiziosi e ni mici della Plebe: e cosimolte
altre famiglie avere avute ciascunale
qualità sue spartite dall’ altre. La
qualcosa non può nascere solamente dal
san-gue, perchè e’ conviene eh’ ei varii me-diante
la diversità dei matrimoni; maè necessario
venga dalla diversa educa-zione che ha una
famiglia dall’ altra.Perchè gl’ importa
assai che un giova-netto dai teneri anni
cominci a sentirdire bene o male di una
cosa; perchèconviene che di necessità ne
faccia im-pressione, e da quella poi regoli
il mododel procedere in tutti i tempi
della vitasua. E se questo non fosse,
sarebbe im-possibile che tutti gli Appii avessinoavuta
la medesima voglia, c Rissino statiagitati
dalle medesime passioni, comenota Tilo
Livio in molti di loro: e perultimo,
essendo uno di loro fatto Censore, ed
avendo il suo collega alla finede*
diciotto mesi, come ne disponeva lalegge,
deposto il magistrato, Àppio nonlo volle
deporre, dicendo che lo potevatenere cinque
anni secondo la primalegge ordinata dai
Censori. E benchésopra questo se ne
facessero assai con-cioni, e se ne generassino
assai tumulti,non pertanto ci' fu mai
rimedio che vo-lesse deporlo, conira alla
volontà delPopolo e della maggior parte del
Senato.E chi leggerà P orazione che gli
fececontro Publio Sempronio tribuno dellaplebe,
vi noterà tutte l’ insolenze oppiane,e tulle
le bontà ed umanità usale da in-finiti
cittadini per ubbidire alle leggi edagli
auspicii della loro patria.Cap. XLVII. < —
Che un buon cittadinoper amore della
patria debbo dimen-ticare l* ingiurie private.Era
Manlio consolo con l’esercito con-ira ai
Sanniti* ed essendo stato in unazuffa
ferito, e per questo portando legenti sue
pericolo, giudicò il Senato es-ser necessario
mandarvi Papirio Cur-sore dittatore, per sopplire
ai difetti delConsolo. Ed essendo
necessario che ’lDittatore fusse nominato
da Fabio, ilquale era con gli
eserciti in Toscana; edubitando, per
essergli nimico, che nonvolesse nominarlo;
gli mandarono i Se-natori due ambasciadori a
pregarlo, che,posti da parte gli privati
odii, dovesseper benefìzio pubblico nominarlo.
Il cheFabio fece, mosso dalla carità
della pa-tria; ancora che col tacere e con
mol-ti altri modi facesse segno che
talenominazione gli premesse. Dal qualedebbono
pigliare essempio tutti quelli,che cercano
d* essere tenuti buoni cit-tadini.Cap.
XLVJII. — Quando si vede fareuno errore
grande ad un nimico ,si debbe credere
che vi sia sono in-ganno.Essendo rintaso
Fulvio Legato nelloesercito che i Romani
avevano in To-scana, per esser ito il
Consolo per al-cune cerimonie a Roma; i Toscani,
pervedere se potevano avere quello
allatratta, posono un aguato propinquo
aicampi romani, e mandarono alcuni sol-dati con
veste di pastori con assai ar-mento, e gli
feciono venire alla vista dello esercito
romano: i quali così tra-vestiti si accostarono
allo steccato delcampo; onde il Legato
meravigliandosidi questa loro presunzione, non
gli pa-tendo ragionevole, tenne modo
ch’egliscoperse la fraude; e cosi restò il
di*>igno de Toscani rotto. Qui si
può co-moramente notare, che un capitano
dieserciti non debbe prestar fede ad
unoerrore che evidentemente si vegga fareal
nimico: perchè sempre vi sarà sottofronde,
non sendo ragionevole che gliuomini siano
tanto incauti. Ma spesso ildisiderio del
vincere acceca gli animidegli uomini, che
non veggono altro chequello pare facci
per loro. I Franciosi avendo vinti i Romani
ad Allia, e venendo a Roma, e trovando le
porte aperte e senza guardia, stettero tutto
quel giorno e la notte senza entrarvi,
temendo di fraude, e non potendo credere
clic fusse tanta viltà c tanto poco
consiglio ne’ petti romani, che gli
nbbandonassino la patria. Quando nel 4508
s’andò per gli Fiorentini a Risa a campo,
Alfonso del Mutolo, cittadino pisano, si
trovava prigione dei Fiorentini, e promise che
s’egli era libero, darebbe una porta di
Pisa all’esercito fiorentino. Fu costui libero.Dipoi,
per praticare la cosa, venne molte volte a
parlare coi mandati dc’commissari; e veniva
non di nascosto, ma scoperto, ed
accompagnato da’ Pisani; i quali lasciava da
parte, quando parlava eoi Fiorentini. Talmentechè
si poteva conietturare il suo animo doppio
; perchè non era ragionevole, se la pratica fussc
stata fedele, eh’ egli 1’ avesse trattata
sì alla scoperta. .Ma il disiderio che s*
aveva d’ aver Pisa, accecò in modo i Fiorentini,
che condottisi con l’ ordine suo alla porta
a Lucca, vi lasciarono più loro capi ed
.altre genti con disonore loro, per il
tradimento doppio che fece detto Alfonso. Una
repubblica, a volerla mantenere libera, ha
ciascuno di bisogno di nuovi provvedimenti ; e
per guali meriti Quinto Fabio fu chiamato Massimo.
E di necessità, come
altre volte s’ è «letto, che ciascuno
dì in una città grande 'taschino' accidenti
che abbino bisogno elei medico ; e secondo
che gli importano più, conviene trovare il
medico più savio. E se in alcune città
nacquero mai simili accidenti, nacquero in
t\oma e strani ed insperati; come fu quello
quando e’parve cha tutte le donne
romane avessino congiurato contra ai loro
maritid’ ammazzargli : tante
se ne trovò clicgli avevano avvelenati, e
tante eh’ ave-vano preparato il veleno per
avvelenar-gli. Come fu ancora quella congiura
de’Baccanali, clic si scopri nel tempo
dellaguerra macedonica, dove erano già
in-viluppati molti migliaia d’ uomini e didonne;
e se la non si scopriva, sarebbestata
pericolosa per quella città ; o sep-pure i Romani
non fussino stati con-sueti a gasligare le
muititudiui degli uo-mini erranti: perchè, quando
e’ non sivedesse per altri infiniti
segni la gran-dezza di quella Repubblica, e
la potenzadelle esecuzioni sue, si vede
per la qua-lità della pena che la
imponeva a chi errava. Nè dubitò far morire
per via digiustizia una legione intera
per volta,ed una città tutta; e di
confinare ottoo diecimila uomini con condizioni
straor-dinarie, da non essere osservate da
unsolo, non che da tanti: come intervennea
quelli soldati che infelicemente ave-vano combattuto
a Canne, i quali con-finò in Sicilia, c impose
loro che nonalkergassino in terre, e che
mangias-sino ritti. Ma di tutte 1’
altre esecuzioniera terribile il decimare
gli eserciti, dovea scorte da tutto uno
esercito era mortod’ogni dieci uno. Nè
si poteva, a gasli-gare una multit udine,
trovare più spa-ventevole punizione di questa.
Perchè quando una moltitudine erra, dove
nonsia 1’ autore certo, tutti non si
possonogastigare, per esser troppi; punirneparte
e parte lasciare impuniti, si fa-rebbe torto a
quelli che si punissino, egli impuniti
arebbono animo di errareun’ altra volta.
Ma ammazzare la decimaparte a sorte, quando
lutti la meritano,0,1 ' è punito si duole
della sorte; ehinon è punito, ha paura
che un’ altravolta non tocchi a lui, c guardasi
di er-rare. Furono punite, adunque, le vene-fiche
e le baccanali secondo che meri-tavano i peccali
loro. K. benché questi morbi in una
repubblica faccino cattivieffetti, non sono a
morte, perchè semprequasi s’ ha tempo a
correggerli : ma nons’ ha già tempo
in quelli che riguardanolo Stato, i quali
se non sono da un pru-dente corretti,
rovinano la città. Eranoin Roma, per
la liberalità che i Romaniusavano di donare
la civilità a’ forestieri,nate tante genti
nuove, che le comin-ciavano avere tanta
parte ne’ suffragi,che ’l governo cominciava a
variare, epartivasi da quelle cose e da
quelli uo-mini dove era consueto andare. Di
cheaccorgendosi Quinto Fabio che era Cen-sore,
messe tutte queste genti nuoveda chi
dipendeva questo disordine sot-to quattro Tribù,
acciocché non potessino, ridotte in si
piccioli spazi,corrompere tutta Roma. Fu
questa cosaben conosciuta da Fabio, e
postovi sen*za alterazione conveniente rimedio;
ilquale fu tanto accetto a quella
civi-lità, che meritò d’esser chiamato
Mas*sirno.FI .v E. INDICE.Niccolò Machiavelli a Zanobi
Buondel-monti e Cosimo Rucellai salute. Pag.
1Libro Primo. .I. Quali siano stati
universalmente iprincipii di qualunque città, e
qualefosse quello di Roma 9II. Di quanto
spezie sono le repubbliche,e di quale fu
la Repubblica Romana. 1$III. Quali
accidenti facessino creare inRoma i Tribuni
della plebe; il chefece la Repubblica
più perfetta ... 30IY. Che la
disunione della Plebe e delSenato romano'
fece libera e potentequella Repubblica ; . . . 33Y.
Dove più securamente si ponga laguardia
della libertà, o nel Popolo one’ Grandi; e
quali hanno maggiorecagione di tumultuare, o
chi vuoleacquistare o chi vuole mantenere. . .
37VI. Se in Roma si poteva ordinare
unoStato che togliesse via le
inimicizieintra il Popolo ed il Senato
43VII. Quanto siano necessarie in una
Re-pubblica le accuse per mantenere lalibertàPag.
53Vili. Quanto lo accuse sono utili
allerepubbliche, tanto sono perniziose
lecalunnie. hiIX. Come egli ènecessario
esser soloavolere ordinare una repubblica
dinuovo, oal tutto fuori delli antichisuoi
ordini riformarla 68X. Quanto sono laudabili i
fondatorid’una repubblica o d’uno regno,
tantoquelli d’ una tirannide sono vitupera-bili
74XI. Della religione de’ Romani 8*2XII. Di
quanta importanza sia teneroconto della
religione, e come la Italiaper esserne
mancata mediante la Chie-sa romana, è rovinata
89XIII. Come i Romani si servirono
dellareligione per ordinare la città, e per seguire
le loro imprese e fermare itumulti . .
9.~>XIV. I Romani interpretavano gli auspicii
secondo la necessità, o con la prudenza
mostravano di osservare la religione, quando
forzati non 1‘ osser-vavano; e se alcuno
temerariamentela dispregiava, lo punivano 100dio
alle cose loro afflitte, ricorsonoalla religione
~Un popolo USO a vivere sotto unprincipe,
se per qualche accidente diventa libero,
con difficult-à mantienela libertà. . ^ag.
^XVII. Uno popolo corrotto, venuto in
li-bertà, si può con dit'ticnltà grandissima
mantenere libero LLHXVIII. In che modo
nelle città corrotte si potesse mantenere
uno Stato libero,essendovi; o non essendovi,
ordinarveloXIX. Dopo uno eccellente principe si
puòmantenere un principe debole; madopo un
debole, non si può con unaltro debole
mantenere alcun regno. 1*20XX. Due
continove successioni di principi virtuosi fanno
grandi effettivecome le repubbliche bene
ordinatehanno di necessità virtuose successioni: e
però gli acquisti ed augu-menti loro
sono grandi ~ •XXI. Quanto biasimo meriti
quel prin-cipe e quella repubblica che
mancad"armi proprieXXII. Quello che sia
da notare nel casodei tre Orazi
romani, e dei tre CuriazalbaniXXIII. Che
non si debbe mettere a pericolo tutta la
fortuna e non tutte le forze; e per questo,
spesso il guardare i passi è dannoso Le repubbliche bene
ordinatecostituiscono premii e pene a' loro cittadini,
nè compensano mai P uno con r altro Pag.
143XXV. Chi mole riformare nno Stato antico
in una città libera, ritenga almeno V ombra
desmodi antichi Un principe nnoro, in
nna cittào provincia presa da Ini, debbo
faro ogni cosa nnova ♦ . 14yXXVII. Sanno
rarissime volte gli nomi-ni essere al tutto
tristi o al tatto buoni. IniXXVIII. Per
qual cagione i Romani fu-rono meno ingrati
agli loro cittadini che gli Ateniesi 153XXIX.
Quale sia più ingrato, o un po-polo, o un
principe Quali modi debbe usare un prìncipe o
nna repubblica per fuggirò questo vizio
della ingratitudine; e qnali quel capitano o quel
cittadino per non essere oppresso da quella Che
i capitani romani per errore commesso non
furono mai istraordi- nariamente puniti; nè
furono inai an-cora puniti quando, per la
ignoranza loro o tristi partiti presi da
loro» ne fussino seguiti danni alla
repubblica, lfil Una repubblica o nno principenon
dobbe differire a beneficare gli uomini nelle
sue necessitati. Quando uno inconveniente è cresciuto
o in uno Stato o contra ad uno Stato, è
più salutifero partito temporeggiarlo che urtarlo
P&g» XXXIV. L'autorità dittatoria fece tene,e
non danno, alla repubblica romana :o come
lo autorità che i cittadini si toPgono,
non quelle che sono loro dai suffragi
liberi date, sono alla- vita ci^vile
pernicioseXXXV. La cagione perchè in Roma
la creazione del decemvirato fu nociva alla
libertà di quella repubblica, non ostante
che fosse creato per suffragi pubblichi e liberi Non
debbono i cittadini che hanno avuti i maggiori
onori, sdegnarside' minoriXXXVII. Quali scandali
partorì in Roma la legge agraria: e come
fare una legge in una repubblica che
risguardi assai indietro, e sia contra ad
unaconsuetudine antica della città,
èscandolosissimoXXXVIII. Le repubbliche deboli
sonomale risolute, e non si sanno delibe-rare; e
se le pigliano mai alcuno par-tito, nasce
più da necessità che daelezioneXXXIX. In
diversi popoli si veggonospesso i medesimi accidenti
. . rrr~. mXL. La creazione del decemvirato
inRoma, e quello che in essa è da
no-tare: dove si considera, intra
moltealtre cose, come si può salvare persimile
accidente, o oppressare una re-pubblica Pag.
200XLI. Saltare dalla urailità alla superbia, dalla
pietà alla crudeltà, senza debiti mezzi, è
cosa imprudente ed inutile. Quanto gli
uomini facilmente si possono corrompere . Quelli
che combattono per la gloria propria, sono
buoni e fedeli soldati Una moltitudine
senza capo èinutile: e non si debbe
minacciare prima, e poi chiedere P autorità È
cosa di malo esempio non osservare una
legge fatta, e massimedallo autore d'essa: e
rinfrescare ogni dì nuove ingiurie in una
città, è a chi la governa dannosissimo Gli
uomini salgono da un' ambizione ad
un'altra; e prima si cercanon essere
offeso, dipoi di offendere altrui Gli uomini,
ancora che si ingannino ne’ generali, nei
particolari non si ingannano XLYIII. Chi vuolo
che uno magistrato non sia dato ad un
vile o ad un tristo, lo facci domandare o
ad un troppo vile e troppo tristo, o ad uno
troppo nobile e troppo buono XLIX. Se
quelle città che hanno avuto il principio
libero, come Roma, hanno difficoltà a trovare
leggi che le mantenghino; quelle che
lo hanno immediate servo, ne hanno quasi
una impossibilita L. Non debbo uno consiglio o
uno magistrato potere fermare le azioni della città
LT. Una repubblica o uno principe debbo mostrare
di fare per liberalità quello a che la
necessità lo constringe LII. A reprimere la
insolenza di uno che sorga in una
repubblica potente, non vi è piu securo e
meno scando- loso modo, che preoccuparli
quelle vie per lo quali o’vieno a quella
potenza. LIII. Il popolo molte volto
desidera la rovina sua, ingannato da una
falsa spezie di bene : e come le grandi speranze
e gagliardo promesse facilmente lo muovono 25S LIV.
Quanta autorità abbia uno uomo grande a
frenare una moltitudine LY. Quanto facilmente
si conduchino le cose in quella città
dove la moltitu-dine non è corrotta: e che
dove è eqnalità, non si può faro
principato;e dove la non è, non si
può far re-pubblica 26SLVI. Innanzi
che seguino i grandi acci-denti in una
città o in una provin-eia, vengono segui
che gli pronosti-cano, o Domini che gli
predicono. Pag. 279LV1I. La plebe insieme è
gagliarda; diper se è debole 260LVIII. La
moltitudine è più savia e piùcostante che
un principe 283altri si può più fidare; o
di quellafatta con una repubblica, o di
quellafatta con nno principe 294LX. Come il
consolato o qualunque altro magistrato in Roma
si dava senzarispetto di età 299Libro
Secondo.I. Quale fu più cagione dello
imperioche acquistorono i Romani, o la virtù,o la
fortuna 310 .II. Con quali popoli i Romani
ebbero acombattere, e come ostinatamentequelli
difendevano la loro libertà. . . 31SIII.
Roma divenne grande città rovi-nando le
città circonvicine, e rice-vendo i forestieri
facilmente a' suoionori 333IV. Le repubbliche
hanno tenuti tre modicirca lo ampliare 335lingue,
insieme con 1~ accidente de-1 diluvi o delle
pesti, spegno la memo-ria dello cose, .
34.r>VI. Come i Romani procedevano nel
farela guerra Pag. 350VII. Quanto terreno i
Romani davanoper colono 355Vili. La cagione
perchè i popoli si par-tono da’ luoghi patrii,
ed inondano ilpaose altrui 356IX. Quali
cagioni comunemente faccinoX. I danari non sono
il nervo dellaguerra, secondo elio è la
comune op-pinone 367 XI. Non è partito
prudento fare amici-zia con un principe che
abbia piùoppinione che forze 374assaltato,
inferire, o aspettare laguerra 37fiXIII. Che si
viene (li bassa a gran for-tuna più con
la fraude, che con laforza t 385XIV. Ingannansi
molte volto gli uomini,credendo con la
nmilità vincere la su-perbia 389XV.
Gli Stati deboli sempre fieno ambi-gui nel
risolversi: e sempre le deli-berazioni lente sono
nocive 392XVI. Quanto i soldati ne’ nostri tempi si
disformino dalli antichi ordini . 398XVII.
Quanto si debbino stimare daglieserciti ne’
presenti tempi le artiglie-rie ; e se
quella oppinione che se neha in
universale, è vera Pag. iiLZXYIII. Come per
I’ autorità de* Romani,e per lo essempio
della antica mili-zia, si debbe stimare più
le fanterieche i cavagli . 421XIX. Che gli
acquisti nelle repubbli-che non bene ordinate e
che secondola romana virtù non procedono,
sonoa rovina, non a esaltazione di esse .
431XX. Quale pericolo porti quel principeo
quella repubblica che si vale dellamilizia
ausiliare a mercenaria . . . . 441XXI. Il primo
Pretore che i Romanimandarono in alcun
luogo, fu a Capo-va, dopo quattrocento anni
che co-minciarono a far guerra 445XXII. Quanto
siano false molte volte leoppinioni degli
uomini nel giudicarele cose grandi 450XXIII.
Quanto i Romani nel giudicarei sudditi per alcuno
accidente che ne-cessitasse tal giudizio,
fuggivano lavia del mezzo 455XXIY. Le
fortezze generalmente sonomolto più dannose
che utili 464XXV. Che Io assaltare una
città disu-nita, per occuparla mediante la
suadisunione, è partito contrario. . . . .479XVI.
Il vilipendio e l’improperio ge-nera odio contra
a coloro che l’usa-no, senza alcuna loro utilità
482XXVII. Ai principi e repubbliche pru-denti
debbe bastare vincere ; perchè ilpiù delle
volte, quando non basti, siperde Pag.
4S0*XXVIII. Quanto sia pericoloso ad
unarepubblica o ad uno principe non ven-dicare
una ingiuria fatta contra alpubblico o contra
al privato 492XXIX. La fortuna accieca gli
animi de-gli uomini, quando la non vuole
chequelli si opponghino a’ disegni suoi .
49(5XXX. Le repubbliche e gli principi ve-ramente
potenti non comperano l' ami-cizie con danari,
ma con la virtù econ la riputazione
delle forzo .... 502XXXI. Quanto sia
pericoloso credere agli sbanditi 509XXXII. In
quanti modi i Romani occu-pavano le terre
512XXXIII. Come i Romani davano agliloro
capitani degli eserciti le commis-sioni libere
519Libro Terzo. I. A volere che una setta o
una repub-blica viva lungamente, è necessarioritirarla
spesso verso il suo principio. 524II.
Come gli è cosa sapientissima simu-lare in
tempo la pazzia 535III. Come egli è
necessario, a volermantenere una libertà
acquistata dinuovo, ammazzare i figliuoli di
Bru-to Pag- 538IV. Non vive sicuro
un principe in unprincipato, mentre vivono
coloro chene sono stati spogliati 541V.
Quello che fa perdere uno regno aduno
re che sia ereditario di quello .
544VI. Delle congiure 547VII. Donde nasce
che le mutazioni dallalibertà alla servitù,
e dalla servitùalla libertà, alcuna n1 è
senza sangue,alcuna n" è piena 595Vili. Chi
vuole alterare una repubbli-ca, debbo considerare
il soggetto diquella 591IX. Come conviene
variare coi tempi,volendo sempre aver buona
fortuna . 603X. Che uu capitano non
può fuggire lagiornata, quando 1’
avversario la vuolfare in ogni modo 608XI.
Che chi ha a fare con assai, an-cora
Che sia inferiore, purché possasostenere i
primi impeti, vince. . . . 617XTI. Come un
capitano prudente debboimporre ogni necessità
di combattereai suoi soldati, e a quelli
delli minicitorla golP0Ye 8*a Più confidare, o
innuo buono capitano che abbia l;eser-cp°
debole, o in uno buono esercitoche abbia
il capitano debole . XIV Le invenzioni
nuove che appari-scono nel mezzo della
zuffa, e le vocinuove che si odono,
quali effetti fac-cino Pag. 633XV.
Come uno e non molti siano pre-posti ad
uno esercito, o come i piùcomandatori offendono 630XVI.
Che la vera virtù si va ne'
tempidifficili a trovare; e ne* tempi facilinon
gli uomini virtuosi, ma quelliche per
ricchezze o per parentado pre-vagliono, hanno
più grazia 642XVII Che non si offenda
uno, e poiquel medesimo si mandi in
ammini-strazione e governo d’ importanza . . 648XVIII.
Nessuna cosa è più degna d' uncapitano, che
presentire i partiti delnimico 650 XIX. Se a
reggere una moltitudine èpiù necessario lo
ossequio che la pena. 656XX. Uno
essempio d'umanità appresso ai Falisci potette
più d' ogni forza romana XXI. Donde nacque
che Annibaie condiverso modo di procedere
da Sci pio-ne, fece quelli medesimi
effetti inItalia che quello in IspagnaXXII.
Come la durezza di Manlio Tor-quato e
l’umanità di Valerio Corvinoacquistò a ciascuno
la medesimagloria. . 669XXIII. Per quale
cagione Cammillo fnssecacciato di Roma
....... Pag^ 679XXIV. La prolungazione
degl1 imperifece serva Roma . .... . 7
681XXV. Della povertà di Cincinnato, e
dimolti cittadini romani 681XXVI. Come per
cagione di femmine sirovina uno Stato .
689XXVII. Come e' si ha a nnire una
cittàdivisa; e come quella oppinione nonè vera,
che a tenere le città bisognatenerle disunite
XXVIII. Che si debbe por mente alle opere
de’ cittadini, perchè molte volte sotto
un’opera pia si nasconde un principio di
tirannide XXIX. Che gli peccati dei popoli
nascono dai principi. XXX. Ad uno cittadino
che voglia nella sua repubblica far di
sua autorità alcuna opera buona, è necessario
prima spegnere T invidia: e come, venendo il
nimico, s’ha a ordinare la difesad’ una
città XXXI. Le repubbliche forti o gli uomini
eccellenti ritengono in ogni fortuna il
medesimo animo e la loro medesima dignità
710XXXII. Quali modi hanno tenuti alcuni a
turbare una paco XXXIII. Egli è necessario, a
voler vincere una giornata, fare T esercito conattente
ed infra loro, e con il capittano
XXXIV. Quale fama o voce o oppinione fa che
il popolo comincia a favorire un cittadino: e
se ei distribuisce I magistrati con maggior
prudenza che un principe, XXXV. Quali pericoli
si portino nel farsi capo a consigliare una
cosa ; e quanto ella ha più dello
straordinario, maggiori pericoli vi si corrono .
XXXVI. La cagione perchè i Franciosi sono stati
e sono ancora giudicati nelle zuffe da
principio più che uomini, e dipoi meno che
femmine . XXXVII. Se le piccolo battaglie
innanzi alla giornata sono necessarie, e come si
debbo fare a conoscere un nimico nuovo,
volendo fuggire quelle . XXXVIII. Come
debbe esser fatto un capitano nel quale
1’ esercito suo possa confidare XXXIX. Che
un capitano debbe esser conoscitore dei siti
XL. Come usare la fraudo nel maneggiare
la guerra è cosa gloriosa. . .XLI. Che
la patria si debbe difendere o con
ignominia o con gloria; ed in qualunque
modo è ben difesa XLII. Che le promesse
fatte per forza non si debbono osservare
XLIII. Clie gli uomini che nascono in una
provincia, osservano per tutti I tempi
quasi quella medesima natura XL1Y. E’
si ottiene con l'impeto e con 1’ audacia
molte volte quello che con modi ordinari
non si otterrebbe mai . XLV . Qual sia
miglior partito nelle gior-nate, o sostenere
l'impeto de' nimici, e sostenuto urtargli; ovvero
dapprima con furia assaltargli XLVI. Donde
nasce che una famiglia in una città
tiene un tempo i medesimi costumi XLYII. Che
un buon cittadino per amore della patria
debbe dimenticare P ingiurie private XLVIII.
Quando si vede fare uno errore , grande
ad un nimico, si debbe credere die vi
sia sotto inganno. XLIX. Una repubblica, a
volerla mantenere libera, ha ciascuno di bisogno di
nuovi provvedimenti; e per qualimeriti Quinto
Fabio fu chiamato Massimo Tito Livio.
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