Sunday, June 2, 2024

Grice e Reghini

 Derivo l’espressione di «corrente tradizionalista romana» dal po¬ 

deroso (e ponderoso) lavoro di P. DI VONA, Evola e Guénon. Tradizio¬ 
ne e civiltà, Napoli 1985, pp. 179-210, in cui, nel VI cap., intitolato ap¬ 
punto Il tradizionalismo romano, l’A. studia la «corrente romana del 
tradizionalismo, ad opera di Reghini, Evola e De Giorgio». È evidente 
che col termine «corrente» noi non intendiamo riferirci (se non in singo¬ 
li casi, che ben preciseremo) ad una linea di pensiero omogenea, bene 
organizzata in un gruppo unitario e compatto dalle caratteristiche co¬ 
muni, ideologicamente e politicamente parlando, ma ad una tendenza 
che potè assumere aspetti e sfaccettature diverse, come proprio i casi di 
Reghini, Evola e De Giorgio (e non sono certo gli unici) sono a dimo¬ 
strare. 


17 








zioni (8) e che non mancherà di ulteriori sviluppi. 

In questa sede sarà sufficiente fare rapido riferi¬ 
mento a quell’epoca gravida di grandi e decisive tra¬ 
sformazioni che fu il Rinascimento italiano. È so¬ 
prattutto nel corso del XV secolo che tradizioni oc¬ 
culte, sopravissute per secoli nel più grande segreto, 
paiono ricevere nuova linfa e l’impulso ad una nuo¬ 
va manifestazione dal contatto con personalità del¬ 
l’Oriente europeo di altissima rilevanza intellettuale, 
come quella di Giorgio Gemisto Pletone, il grande 
rivitalizzatore della filosofia platonica negli ultimi 
anni dell’Impero d’Oriente e fondatore di un cena¬ 
colo esoterico a Mistra, la medievale erede dell’anti¬ 
ca Sparta, all’interno del quale, oltre a conservare 
testi dell’antichità pagana (come le opere dell’impe¬ 
ratore Giuliano, che vi venivano trascritte), si cele¬ 
bravano veri e propri riti e si elevavano inni in onore 
degli dèi olimpici (9). 

La figura e la funzione di Giorgio Gemisto Pleto¬ 
ne sono ancora troppo poco note in generale e, in 
Italia, non ancora studiate (10). In genere, ci si limi- 


(8) Cfr. ad esempio: R. DEL PONTE, Sulla continuità della tradizio¬ 
ne sacrale romana, parti I e II, in «Arthos», voi. V, numeri 21 e 25 
(1980-82), pp. 1-13, 275-281; parte III, voi. VI, n. 29(1985), pp. 149-157; 
vedi anche: Q. AURELIO SIMMACO, RelazionesuH’altare della Vitto¬ 
ria, con un’introduzione di R. del Ponte su Simmaco e isuoi tempi. Edi¬ 
zioni del Basilisco, Genova 1987. 

(9) Si tenga conto che nel sud del Peloponneso sono attestati, a livello 
popolare, culti nei confronti degli dèi classici sino al IX secolo della no¬ 
stra era. 

(10) In lingua italiana mancano ancora del tutto studi approfonditi. 


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ta a citare, a proposito di lui, la sua partecipazione 
al Concilio di Firenze e l’istituzione dell’Accademia 
Platonica Fiorentina, che ebbe sede nella villa di Ca- 
reggi (o «delle Cariti», o «Muse»), concepita da Co¬ 
simo il Vecchio e realizzata da Lorenzo il Magnifico 
su suggestione del Pletone. Ma gli effetti dovettero 
essere ancora più interessanti e gravidi di conseguen¬ 
ze, se si considerino i legami, ad esempio, fra Gior¬ 
gio Gemisto Pletone e Sigismondo Pandolfo Mala- 
testa. Signore di Rimini: colui che ne sottrarrà il ca¬ 
davere agli Ottomani (1464), i quali avevano occu¬ 
pato Mistra nel 1460, onde deporlo pietosamente in 
un’arca marmorea del suo famoso «Tempio Malate¬ 
stiano». Lo stesso Malatesta dovette pure essere in 
rapporto con la ben nota «Accademia Romana» di 
Pomponio Leto (11), propugnatore, scrive il von Pa- 
stor, del «romanesimo nazionale antico». Il capo 


Ci si dovrà pertanto limitare a rimandare a: B. KIESZKOWSKI, Studi 
sul platonismo del Rinascimento in Italia (vedi soprattutto cap. II), 
Sansoni, Firenze 1936; P. FENILI, Bisanzio e la corrente tradizionale 
del Rinascimento, in «Vie della Tradizione», X, 39 (1980), pp. 139-147 
(ci viene comunicato ora, che a cura dello stesso P. Fenili è in corso di 
stampa un’antologia di brani di Pletone, dal titolo «Paganitas», lo 
squarcio nelle tenebre, per Basala Editore di Roma). Di recente, ci è ca¬ 
pitato di leggere in un’insolita pubblicazione, una rivistina satirica di si¬ 
nistra, un reportage da Mistra singolarmente informato e documentato 
su Gemisto Pletone e la sua scuola (cfr. P.LO SARDO, La repubblica 
dei Magi. Da Sparta alla Firenze del '400, in «Frigidaire», 56-57, luglio- 
agosto 1985, pp. 55-63). 

(11) Per mezzo del Platina (definito da Pomponio pater sanctissi- 
mus), 1 ’Accademia Romana intratteneva rapporti col Malatesta, il quale 


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dell’Accademia Romana, riporta il von Pastori 

«spregiava la religione cristiana ed usciva in vio¬ 
lenti discorsi contro i suoi seguaci... venerava il ge¬ 
nio della città di Roma. (...) Quale rappresentante 
di queU’umanesimo, che gravitava verso il pagane¬ 
simo, si schierarono ben presto attorno a Pompo¬ 
nio un certo numero di giovani, spiriti liberi dalle 
idee e dai costumi mezzo pagani. (...) Gli iniziati 
consideravano la loro dotta società come un vero 
collegio sacerdotale alla foggia antica, con alla te¬ 
sta un pontefice massimo, alla quale dignità fu 
elevato Pomponio Leto» (12). 

Si noti che sembra certa l’adesione alla cerchia del 
Leto del principe Francesco Colonna, Signore di Pa- 
lestrina, l’antica Praeneste, dai più ritenuto l’autore 
della celeberrima Hypnerotomachia Poliphili, un te¬ 
sto molto citato, ma molto poco letto e soprattutto 
compreso, dove, in ogni modo, una sapienza ermeti¬ 
ca si sposa all’esaltazione, non tanto filosofica. 


fu notoriamente nemico dei papi e ammiratore del movimento pagano 
di Mistra (cfr. F. Masai, Pléthon et le platonisme de Mistra, Paris 1956, 
p. 344, nota. L’opera del Masai è a tutt’oggi la più completa esistente 
sulla dottrina e la figura di Giorgio Gemisto Pletone). Si noti che il Pla¬ 
tina fu allievo a Firenze dell’Argiropulo, discepolo di Pletone, e che un 
altro antico discepolo, il Cardinal Bessarione, si prodigò per la liberazio¬ 
ne da Castel Sant’Angelo dei membri dell’Accademia Romana nel 1468, 
dopo che furono accusati dal papa Paolo II — non senza fondamento 
— di «paganesimo». 11 Masai (op. cit., p. 343) si domanda se l’Accade¬ 
mia Romana «non fosse in qualche modo una filiale di quella di 
Mistra». 

(12) L. von PASTOR, Storia dei Papi, voi. II, Roma 1911, pp. 308-309. 


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quanto mistica, del mondo della paganità romano¬ 
italica, culminante nella visione di Venere Genitrice. 

Se si rifletta al fatto che Francesco Colonna, rea¬ 
lizzatore fra il 1490 e il 1500 del nuovo imponente 
palazzo gentilizio eretto sulle rovine del tempio di 
Fortuna Primigenia (ancora oggi ben identificabili 
nelle strutture originali), vantava discendenza diret¬ 
ta dalla gens Julia e quindi da Venere (13), si potrà 
allora intravedere come l’apporto vivificante della 
corrente sapienziale reintrodotta in Italia da Gemi¬ 
sto Pletone si fosse incontrato col retaggio gentilizio 
di una tradizione antichissima, gelosamente custodi¬ 
to nel silenzio dei secoli col tramite di alcune fami¬ 
glie nobiliari italiane, in ispecie laziali, generosa¬ 
mente fruttificando: nel senso di spingere ad un rin¬ 
novamento tradizionale non solo l’Italia, ma persi¬ 
no, ad un certo momento, lo stesso papato, se avven¬ 


ti 3) Risulterà forse sorprendente apprendere come i Colonna posse¬ 
dessero ancora fino ai nostri giorni (è documentato almeno sino al 
1927) il «feudo» originale di Giulio Cesare, Boville (Frattocchie d’Alba- 
no). Sempre fino al 1927 era visibile nel giardino Colonna al Quirinale 
l’aitare antico dedicato al Vediove della gens Julia (notizie ricavate da: 
P. COLONNA, I Colonna, Roma 1927, pp. 5-6). Tolomeo 1 Colonna 
ostentava il titolo di Romanorum consul excellentissimus e Julia stirpe 
progenitus (cfr. P. FEDELE, s.v. Colonna, in «Enciclopedia Italiana», 
X, 1931). Ha compiuto un’attenta analisi deWHypnerotomachia Poli¬ 
phili (editio princeps nel 1499, presso Manuzio) come opera di France¬ 
sco Colonna, M. CALVESI, Il sogno di Polifilo prenestino, Roma 1980. 
Si veda anche: OLIMPIA PELOSI, Il sogno di Polifilo: una quéte del¬ 
l’umanesimo, ed. Palladio, s.l. 1978. A.C. Ambesi, in considerazione 
della dimensione iniziatica dell’opera di Francesco Colonna, la conside¬ 
ra come un’anticipazione cifrata del movimento dei Rosacroce (/ Rosa¬ 
croce, Milano 1982, pp. 76 e sgg.). 


21 








ne che poco mancò che salisse al soglio pontificio 
quel cardinale Giuseppe Bassarione che fu discepolo 
diretto di Giorgio Gemisto Pletone, da lui giudicato, 
come scrisse in una lettera privata ai figli del mae¬ 
stro dopo la sua morte, «il più grande dei Greci do¬ 
po Platone» (14). 


Ma altri tempi tristi dovevano giungere, tempi in 
cui sarebbe stato più prudente tacere, come dimo¬ 
strò il bagliore delle fiamme in Campo dei Fiori, av¬ 
volgenti nell’anno di Cristo 1600 il corpo, ma non 
l’animo, di Giordano Bruno, rivivificatore generoso, 
ma impaziente, di dottrine orfico-pitagoriche, che 
trovavano analoga eco — frutto di una linfa non 
mai del tutto estinta nell’Italia Meridionale — nella 
poesia e nella prosa dell’irruente frate calabrese 
Tommaso Campanella, lui pure oggetto di odiose 
persecuzioni. 

Bisognerà giungere sino all’unità d’Italia, parzial¬ 
mente realizzatasi nel 1870 con la fine della millena¬ 
ria usurpazione temporale dei papi, per trovare una 
situazione mutata. A questo punto bisogna chiarire 
una volta per tutte, con la maggiore evidenza, che 
dal punto di vista del tradizionalismo romano l’uni¬ 
tà d’Italia — indipendentemente dai modi con cui 


(14) Si dovrà ricordare che il Bessarione raccolse cum pietate nel suo 
studio le opere e i manoscritti del maestro, in particolare alcuni fram¬ 
menti apertamente pagani delle Leggi, dotandone poi la Biblioteca 
Marciana da lui fondata, a Venezia. 


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potè in effetti verificarsi (modi spesso arbitrari e 
prevaricatori della dignità e delle sacrosante autono¬ 
mie di diverse popolazioni italiche) e dall’azione di 
certe forze sospette (Carboneria, massoneria e sette 
varie) che per i loro fini occulti poterono agevolarla 
— era e rimane condizione imprescindibile e necessa¬ 
ria per ritornare alla realtà geopolitica dell’Italia au- 
gustea (e dantesca): quindi per propiziare il rimani¬ 
festarsi nella Saturnia tellus di quelle forze divine 
che ab origine a quella realtà geografica — consa¬ 
crata dalla volontà degli dèi indigeti — sono legate. 

È un dato che si dovrà tenere ben presente, per 
meglio intendere certi fatti che avremo modo di 
esporre in seguito. 


Intanto, negli ultimi anni del XIX secolo è nell’a¬ 
ria qualcosa di nuovo e antico insieme, che verrà av¬ 
vertito dalle anime più sensibili. 

Fra queste, il grande poeta Giovanni Pascoli, con 
un equilibrio ed una compostezza veramente classi¬ 
ci, valendosi di una sensibilità non inferiore a quella 
con cui in quegli stessi anni conduceva l’esegesi di 
certi lati occulti della dantesca Commedia, con il se¬ 
guente sonetto (e col corrispondente testo in esame¬ 
tri latini, da noi non riprodotto) celebrava in una 
semplice aula scolastica la solennità del 21 aprile 
1895: 


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«L’aratro è fermo: il toro d’arar sazio, 
leva il fumido muso ad una branca 
d’olmo; la vacca mugge a lungo, stanca, 
e n’echeggia il frondifero Palazio. 

Una mano sull’asta, una sull’anca 
del toro, l’arator guarda lo spazio: 
sotto lui, verde acquitrinoso il Lazio; 
là, sul monte, una lunga breccia bianca. 

È Alba. Passa l’Albula tranquilla, 

sì che ognun ode un picchio che percuote 

nell’Argileto l’acero sonoro. 

Sopra il Tarpeio un bosco al sole brilla, 
come un incendio. Scende a larghe ruote 
l’aquila nera in un polverio d’oro» (15). 

Allo scadere del secolo, nel 1899, è un fatto nuovo 
di ordine archeologico il punto di riferimento im¬ 
portante ed essenziale per il secolo che sta per aprir¬ 
si: la scoperta nel Foro da parte dell’archeologo Gia¬ 
como Boni (un nome che non dovremo scordare) del 
cippo arcaico sotto il cosiddetto Lapis Niger (VI sec. 
a.C.), in cui l’iscrizione in caratteri antichi del termi¬ 
ne RECHI ( = regi) attesta documentariamente l’ef¬ 
fettiva esistenza in Roma della monarchia e, con 
quanto ne consegue, la sostanziale fondatezza della 
tradizione annalistica romana, trasmessa nel corso 
di innumerevoli generazioni, dai primi Annales Ma¬ 
ximi dei pontefici sino a Tito Livio e, al termine del- 


(15) G. PASCOLI, Antico sempre nuovo. Scritti vari di argomento 
latino, Zanichelli, Bologna 1925, p. 29. 11 lettore esperto potrà notare 
come in pochi versi il poeta abbia saputo sapientemente concentrare 
particolari nomi evocativi di determinate realtà primordiali dell’Urbe. 


24 


l’Impero d’Occidente, alle ultime gentes sacerdotali 
ed a quegli estremi devoti raccoglitori e trasmettitori 
della sapienza delle origini, come poterono essere un 
Macrobio ed un Marziano Capella nel V secolo. 

È come se, fisicamente, una parte di tradizione ro¬ 
mana si esponesse improvvisamente alla luce del so¬ 
le a smentire l’incredulità e l’ipercriticismo della 
scuola tedesca, che, in nome di un presunto realismo 
scientifico, aveva respinto in blocco le più antiche 
memorie patrie, e soprattutto dei suoi squallidi se¬ 
guaci italiani, come quell’Ettore Pais che nella sua 
Storia di Roma (ristampata innumerevoli volte fino 
in piena epoca fascista) aveva negato ogni tradizione 
da una parte, costruendo dall’altra fantastici castelli 
in aria, senza alcuna base, né storica, né filologica. 

Risulta che Giacomo Boni fu in corrispondenza 
con un altro principe romano, pioniere degli studi 
islamici e deputato al parlamento nei banchi della 
sinistra: Leone Caetani duca di Sermoneta, principe 
di Teano, marito di una principessa Colonna. 

Suo nonno, Michelangelo Caetani, era stato l’au¬ 
tore di un fortunato opuscolo di esegesi dantesca sin 
dal 1852, dove si sosteneva l’identità di Enea col 
dantesco «messo del cielo» che apre le porte della 
Città di Dite con «l’aurea verghetta» degli iniziati di 
Eieusi (16): quello stesso che nel 1870, già vecchio e 
quasi cieco, fu il latore a Vittorio Emanuele II dei 


(16) Cfr. M. CAETANI di SERMONETA, Tre chiose nella Divina 
Commedia di Dante Alighieri, II ed., Lapi, Città di Castello 1894. 


25 









risultati del plebiscito che sanciva l’unione di Roma 
all’Italia. 

Proprio Leone Caetani sarebbe stato l’autorevole 
tramite attraverso cui si sarebbero manifestate al¬ 
l’interno della Fratellanza Terapeutica di Myriam 
(operativa proprio negli anni della scoperta del La¬ 
pis Niger) fondata da Giuliano Kremmerz (cioè Ciro 
Formisano di Portici) — che la definì talvolta come 
Schola Italica — determinate influenze derivanti 
dall’antica tradizione romano-italica se, come scrive 
l’esoterista Marco Daffi {alias il conte Libero Ric- 
ciardelli) (17) è lui il misterioso «Ottaviano» (altro 
riferimento alla gens Julia!) autore nel 1910, nella ri¬ 
vista «Commentarium» diretta dal Kremmerz, di un 
articolo sul dio Pan e di una lettera di congedo dalla 
redazione in cui egli riafferma in tali termini la pro¬ 


ti?) «Sotto tale pseudonimo si nascondeva persona veramente auto¬ 
revole, autorevolissimo collega di ricerche ermetiche di Kremmerz tanto 
da potere essere ritenuto portavoce di sede superiore (...) Don Leone 
Caetani, Duca di Sermoneta, Principe di Teano» (M. DAFFI, Giuliano 
Kremmerz e la Fr+Tr+ di Myriam, a cura di G.M.G., Alkaest, Genova 
1981, pp. 62 e 84). Gli scritti firmati da «Ottaviano» in «.Commenta¬ 
rium» sono tre: La divinazionepantéa (n. 1 del 25 luglio 1910), Per Giu¬ 
seppe Francesco Borri (n. 3 del 25 agosto 1910), Gnosticismo e inizia¬ 
zione (n. 8-10 di novembre-dicembre 1910). In quest’ultimo scritto, con¬ 
sistente in una lettera di congedo come collaboratore della rivista, si ri¬ 
manda all’opera di un altro personaggio che, come «Ottaviano», doveva 
riconnettersi allo stesso ambiente iniziatico gravitante alle spalle dell’or¬ 
ganismo kremmerziano: l’avvocato Giustiniano Lebano, autore di un 
curioso libretto intitolato Dell’Inferno: Cristo vi discese colla sola ani¬ 
ma o anche col corpo? (Torre Annunziata 1899), in cui nuovamente si 
accenna al «ramoscello dorato del segreto, ossia la voce mistica di con¬ 
venzione» (p. 66) che Enea presenta a Proscrpina. 


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pria fede pagana: 


«... non sono che pagano e ammiratore del paga¬ 
nesimo e divido il mondo in volgo e sapienti (...) 
volgo, che i miei antenati simboleggiavano nel ca¬ 
ne e lo pingevano alla catena sul vestibolo del Do- 
mus familiae con la nota scritta: Cave canem; ca¬ 
ne perché latra, addenta e lacera» (18). 

In quegli stessi anni (a partire dal 1905) era co¬ 
minciata l’attività pubblicistica ed iniziatica di Ar¬ 
turo Reghini (1878-1946). La sua importanza fra i 
più autorevoli esponenti europei della Tradizione, e 
del filone romano-italico in particolare, risiede cer¬ 
tamente non tanto nel tentativo, vano e fatalmente 
destinato all’insuccesso, per quanto disinteressato, 
di rivitalizzare la massoneria al suo interno (19), 
quanto nell’attenzione da lui portata allo studio ed 


(18) OTTAVIANO, Gnosticismo e iniziazione, cit., p. 210. 

(19) Tentativo che si concretizzò soprattutto con la creazione del Rito 
Filosofico Italiano, fondato nel 1909 dal Reghini, Edoardo Frosini ed 
altri (il 20 ottobre 1911 vi sarà accolto come membro onorario Aleister 
Crowley...), ma dall’esistenza effimera, dal momento che sin dal 1919 si 
fuse con la massoneria di Rito Scozzese Antico ed Accettato di Piazza 
del Gesù. 11 Reghini seguirà le sorti e le direttive di Piazza del Gesù di 
Raoul Palermi, molto favorevole nei confronti del fascismo, sino ai 
provvedimenti contro le società segrete del 1925. Giovanni Papini ha de¬ 
dicato alcune pagine nel contempo pungenti e commosse ad Arturo Re¬ 
ghini di cui fu amico negli anni giovanili, cosi concludendo: «Arturo 
Reghini visse, povero e solitario, una vita di pensiero e di sogno: anch’e¬ 
gli difese e incarnò, a suo modo, il “primato dello spirituale’’. Nessuno 
di quelli che lo conobbero potrà dimenticarlo» (Passato remoto (1885- 
1914), ed. L’Arco, Firenze 1948, p. 129). 


27 







alla riscoperta della tradizione classica e romana, 
che gli era stato dato in compito di rivitalizzare «in 
segreto», così come egli stesso si esprime in una let¬ 
tera inviata ad Augusto Agabiti e pubblicata nel nu¬ 
mero di aprile 1914 di «Ultra»: 

«sai bene come il nostro lavoro, puramente meta¬ 
fisico e quindi naturalmente esoterico, sia rimasto 
sempre e volontariamente segreto» (20). 

In tal modo il Reghini ben si inseriva nel filone 
della corrente tradizionalista romana, in quella sua 
variante che si può legittimamente definire «orfico- 
pitagorica» (21), col contributo di numerosi scritti, 
soprattutto sulla numerologia pitagorica, sparsi fra 
molti articoli e opere impegnative, come Per la resti¬ 
tuzione della geometria pitagorica (1935; rist. 1978), 
I numeri sacri della tradizione pitagorica massonica 
(postumo 1947; rist. 1978), Aritmosofia (postumo 


(20) A. REGHINI, La «tradizione italica», in «Ultra», Vili, 2 (aprile 
1914), p. 69. 

(21) Allo stesso modo, di tradizione ermetica «egizio-ellenistica» si 
potrebbe parlare per il filone essenzialmente seguito dalla corrente 
kremmerziana. È chiaro come nessuna di queste correnti possa preten¬ 
dere di identificarsi con il filone centrale deWa tradizione romana (come 
vorrebbero, ad esempio, certi continuatori del Reghini dei nostri giorni), 
rappresentandone, semmai, corollari concentrici ed espressioni validis¬ 
sime, ma essenzialmente periferiche. Il nucleo della tradizione romana 
è altra cosa: può includere tutto ciò, ma al tempo stesso ne è al di sopra 
nella sua essenza originaria. Per cercare di comprendere la cosa, si dovrà 
riflettere sul simbolismo e sulla funzione del dio Giano, non per caso 
divinità unica e propria della sacra terra laziale. 


28 


1980) ed il tuttora inedito Dei numeri pitagorici (22). 

Con questa attività egli avrebbe perseguito la mis¬ 
sione affidatagli da un’antica scuola iniziatica di tra¬ 
dizione pitagorica della Magna Grecia (23) allorché, 
ancora giovane e studente a Pisa, fu avvicinato da 
colui che sarebbe divenuto il suo maestro spirituale: 
Amedeo Rocco Armentano (24), calabrese, ufficiale 
dell’esercito all’epoca in cui lo conobbe il Reghini. 

Ad Amedeo Armentano (1886-1966) apparteneva 


(22) Di recente, per il quarantesimo anniversario della scomparsa del 
Reghini (1986), è stata edita una raccolta di suoi scritti vari: Paganesi¬ 
mo, pitagorismo, massoneria, ed. Mantinea, Fumari 1986, a cura del¬ 
l’Associazione Pitagorica, un gruppo costituitosi solo nel giugno 1984 
con un poco iniziatico «atto notarile» (sic), ma che vanta diretta discen¬ 
denza dal gruppo del Reghini. La raccolta è stata purtroppo eseguita 
con dilettantismo, senza criteri ed inquadramenti storico-filologici e gli 
scritti reghiniani (uno addirittura incompleto) non seguono nè un ordi¬ 
ne logico, nè cronologico. Il saggio suW Interdizione pitagorica delle fa¬ 
ve si potrà leggere ora completo in «Arthos» n. 30 (1986, ma stampato 
1987). 

(23) DIOGENE LAERZIO (Vili, 56) ricorda come il pensiero di Pi¬ 
tagora avesse trovato accoglienza presso gli Italioti della Magna Grecia: 
«Come dice Alcidamante tutti onorano i sapienti. Così i Pari onorano 
Archiloco, che pur era blasfemo, e i Chii Omero, che era d’altra città (...) 
e gli Italioti Pitagora» (Die fragmente der Vorsokratiker, a cura di H. 
Diels-W. Kranz; trad. ital. Bari 1981, v. I). 

(24) Per alcune notizie su Armentano (ed una sua foto), cfr. R. SE- 
STITO, A.R.A., il Maestro, in Ygieia, bollettino interno dell’Associazio¬ 
ne Pitagorica, 111, 1-4 (1986), pp. 1-3. Di Armentano si vedano le Massi¬ 
me di scienza iniziatica, commentate dal Reghini in vari numeri di 
«Atanòr» ed «Ignis» (1924-25). Negli anni Trenta Armentano lasciò l’I¬ 
talia per il Brasile, dove morì. È sintomatico come anche «Ottaviano» 
in quel periodo si sarebbe allontanato dall’Italia stanziandosi a Vancou¬ 
ver in Canada. 


29 







quella misteriosa «torre in mezzo al mare. Una ve¬ 
detta diroccata, su di uno scoglio deserto» (25) dove, 
con gran dispiacere di Sibilla Aleramo, il giovane 
protagonista del romanzo Amo, dunque sono (Mon¬ 
dadori, Milano 1927), «Luciano» {alias Giulio Pari¬ 
se), avrebbe dovuto «diventare mago» in compagnia 
di un amico non nominato, vale a dire proprio il 
Reghini. 

Fu proprio nella torre di Scalea, in Calabria, che 
il Reghini rivide nell’estate 1926 il testo della tradu¬ 
zione italiana deirOccw//flr Phylosophia di Agrippa, 
a cui premise un ampio saggio di quasi duecento pa¬ 
gine su E.C. Agrippa e la sua magia. Vi scriveva, fra 
l’altro: 


«E perciò, in noi, il senso della romanità si fonde 
con quello aristocratico e iniziatico nel renderci 
fieramente avversi a certe alleanze, acquiescenze e 
deviazioni. Forse si avvicina il tempo in cui sarà 
possibile di rimettere un po’ a posto le cose, e noi 
speriamo che ci venga consentito, una qualche vol¬ 
ta, di riportare alla luce qualche segno dell’esoteri¬ 
smo romano. Quanto alla permanenza di una 
“tradizione romana”, si vorrà ammettere che se 
una tradizione iniziatica romana pagana ha potu¬ 
to perpetuarsi, non può averlo fatto che nel più as¬ 
soluto mistero. Non è quindi il caso di interloquire 
con affermazioni e negazioni» (26). 


(25) S. ALERAMO, Amo, dunque sono, cit., p. 15. Cfr. p. 50: «Lu¬ 
ciano, Luciano, e tu vuoi essere mago! M’hai detto d’aver già operato 
fantastiche cose, fantastiche a narrarsi, ma realmente accadute». 

(26) A. REGHINI, E.C. Agrippa e la sua magia, in: E.C. AGRIPPA, 


30 


Il 1914 è un anno molto importante, sotto diversi 
aspetti, per i tentativi di rivivificazione della tradi¬ 
zione italica. Nel numero di gennaio-febbraio 1914 
di «Salamandra», in un articolo dal titolo fortuna¬ 
to, poi ripreso da Evola, Imperialismo pagano, il Re¬ 
ghini coglieva occasione, scagliandosi contro il par¬ 
lamentarismo ed il suffragio universale che favoriva 
cattolici e socialisti, di riaffermare l’unità e l’immu¬ 
tabilità della tradizione pagana in Italia, che, sempre 
ricollegata nella sua visione al pitagorismo, si sareb¬ 
be trasmessa attraverso le figure di alcuni grandi ini¬ 
ziati sino ai nostri giorni (27). In ottobre, dalle pagi¬ 
ne di «Ultra», precisava nello stesso tempo, in un 
importante articolo dottrinario, che: 

«Il linguaggio e la razza non sono le cause della 
superiorità metafisica, essa appare connaturata al 
luogo, al suolo, all’aria stessa. Roma, Roma caput 
mundi, la città eterna, si manifesta anche storica¬ 
mente come una di queste regioni magnetiche del¬ 
la terra. (...) Se noi parleremo del mito aureo e so¬ 
lare in Egitto, Caldea e Grecia prima di occuparci 
della sapienza romana, non è perché questa derivi 
da quella, ché il meno non può dare il più» (28). 


Lm Filosofia occulta o la Magia, voi. I, rist. Mediterranee, Roma 1972, 
pp. XCIII-XClV, nota. 

(27) L’articolo fu poi ripubblicato in «Atanòr», I, 3 (marzo 1924), 
pp. 69-85 (oggi nella ristampa anastatica a cura dell’omonima casa edi¬ 
trice di Roma). 

(28) A. REGHINI, Del simbolismo e della filologia in rapporto alla 
sapienza metafisica, in «Ultra», Vili, 5 (ottobre 1914), p. 506. 


31 








Intanto, nella notte del solstizio d’inverno del 
1913, si era verificato un insolito episodio, gravido 
di future conseguenze: in seguito a misteriose indi¬ 
cazioni, nei pressi di un antico sepolcro sull’Appia 
Antica era stato rinvenuto, a cura di «Ekatlos» (29), 
accuratamente celato e protetto da un involucro im¬ 
permeabile, uno scettro regale di arcaica fattura e i 
segni di un rituale. 

«Ed il rito — riporta «Ekatlos» (30) — fu celebra¬ 
to per mesi e mesi, ogni notte, senza sosta. E noi 
sentimmo, meravigliati, accorrervi forze di guerra 
e forze di vittoria; e vedemmo balenar nella sua lu¬ 
ce le figure vetuste ed auguste degli “Eroi” della 
razza nostra romana; e un “segno che non può fal¬ 
lire” fu sigillo per il ponte di salda pietra che uo¬ 
mini sconosciuti costruivano per essi nel silenzio 
profondo della notte, giorno per giorno». 

«Il significato, le vere intenzioni e le origini di tali 


(29) Lasciamo ogni responsabilità circa l’identificazione di «Eka¬ 
tlos» con il principe Leone Caetani, già da noi incontrato, all’anonimo 
autore (si tratta, peraltro, certamente di C. Mutti, fanatico integralista 
islamico) di una postilla alla parziale traduzione francese della rivista 
evoliana «Krur» (TRANSILVANUS 1984, A propos de l’article d’Eka- 
tlos, seguito da una Note sur Leone Caetani, in: J. EVOLA, Tous les 
écrits de «Ur» & «Krur», 111 [Krur 1929], Arché, Milano 1985, pp. 475- 
486). Ancor più lasciamo all’autore di tali tristi note (in cui ancora una 
volta si dimostra come tra fanatismo religioso e via iniziatica esista un 
divario invalicabile) la pesante responsabilità delle poco ragguardevoli 
espressioni usate nei confronti del benemerito principe romano. 

(30) EKATLOS, La «Grande Orma»: la scena e le quinte, in «Krur», 
I, 12 (dicembre 1929), pp. 353-355, oggi in: GRUPPO di UR, Introdu¬ 
zione alla Magia, voi. Ili, Roma 1971, pp. 380-383. 


32 


riti pongono un problema», osserva il Di Vona (31), 
«ma il loro fine immediato fu esplicito, e come tale 
è stato dichiarato. (...) Esso fu compiuto nel dovuto 
modo da un gruppo che si propose di dirigere verso 
la vittoria italiana la I Guerra Mondiale». 

Ma l’episodio ha un seguito: il 23 marzo 1919 
(giorno in cui cade la festa romana del Tubilustrium, 
o consacrazione delle trombe di guerra) fu fondato 
a Milano, nella famosa riunione di Piazza Sansepol- 
cro, il primo Fascio di Combattimento (dal 1921 de¬ 
nominato Partito Nazionale Fascista). Fra gli astanti 
vi fu chi, emanazione dello stesso gruppo che aveva 
riesumato l’antico rituale, preannuncio a Benito 
Mussolini: «Voisarete Console d’Italia». E fu la stes¬ 
sa persona che, qualche mese dopo la Marcia su Ro¬ 
ma, il 23 maggio 1923, vestita di rosso, offrì al Capo 
del Governo un’arcaica ascia etrusca, con «le dodici 
verghe di betulla secondo la prescrizione rituale le¬ 
gate con strisce di cuoio rosso» (32). 

Con tale atto dal sapore sacrale, come è evidente. 


(31) P. DI VONA, Evola e Guénon, cit., p. 202. 

(32) EKATLOS, art. cit., p. 382, nota. La notizia è riportata con altri 
particolari nel «Piccolo» di Roma del 23-24 maggio 1923, p. 2 [cfr. Ap¬ 
pendice 1]. Particolare curioso: la sera stessa del 23 maggio Mussolini 
parti in aereo alla volta di Udine, onde potere inaugurare il giorno dopo, 
24 maggio, anniversario dell ’entrata in guerra, il monumentale cimitero 
di Redipuglia, alla presenza del Duca d’Aosta. La sera del 24, sulla via 
del ritorno verso Roma, l’aereo fu costretto, da un inspiegabile guasto, 
ad un atterraggio di fortuna nei pressi di Cerveteri, cioè l’antica etrusca 
Cere, donde forse proveniva l’arcaico fascio. 


33 











le correnti più occulte portatrici della tradizione ro¬ 
mana avrebbero voluto propiziare una restaurazione 
in senso «pagano» del fascismo. 

Altri episodi concomitanti concorrono a rafforza¬ 
re questa supposizione. Dopo essere stata composta 
proprio nel 1914, fra il 21 aprile ed il 6 maggio 1923 
(altre significative coincidenze di date), fu rappre¬ 
sentata sul Palatino la tragedia Rumori: Romae sa- 
crae origines (il solo terzo atto), col beneplacito e la 
presenza plaudente di Benito Mussolini. La tragedia 
(o, meglio, alla latina, il Carmen solutum) risulta 
opera di un certo «Ignis» (pseudonimo sotto cui si 
celerebbe l’avvocato Ruggero Musmeci Ferrari Bra¬ 
vo), che risulta godere di appoggi assai influenti, co¬ 
me quello di Ardengo Soffici [cfr. Appendice 11], e 
appare, specialmente in quel terzo carmen che fu re¬ 
citato, più che una semplice rappresentazione sceni¬ 
ca, un vero e proprio atto rituale: un rito di consa¬ 
crazione, certamente denotante nell’autore, o nei 
gruppi restati nell’ombra di cui egli era emanazione, 
una conoscenza non solo filologica della tradizione 
romana (si pensi che in intermezzi scenici vengono 
cantati, al suono di flauti, i versi ianuli e iunonii dei 
Fratres Arvales), ma anche di certi suoi lati occulti, 
come lascia intendere il rito di incisione su lamine 
auree dei nomi arcani deU’Urbe e l’esegesi, voluta- 
mente incompleta, dei significati del nome di Roma. 

Quest’azione, occulta e palese, sulle gerarchie fa¬ 
sciste affinché i simboli da esse evocate, come l’aqui¬ 
la o il fascio, non restassero puro orpello di facciata, 
continuerà sino al 1929, che è anche l’anno in cui 


34 


Rumon verrà pubblicata, in splendida edizione uffi¬ 
ciale, dalla Libreria del Littorio, con i frontespizi or¬ 
nati di caratteri arcaici romani, disegnati apposita¬ 
mente nel 1923 da Giacomo Boni, lo scopritore del 
Lapis Niger già da noi incontrato, il quale avrà il pri¬ 
vilegio poco dopo, alla sua morte (1925), di essere 
inumato sul Palatino stesso (33). 

Ancora noteremo come sintomatica l’uscita, nello 
stesso 1923, della Apologia del paganesimo (Formig- 
gini, Roma) di Giovanni Costa, futuro collaboratore 
delle iniziative pubblicistiche di Evola [cfr. Appendi¬ 
ce III]. 

Fra il 1924 e il 1925 uscirono le due riviste «di stu¬ 
di iniziatici» «Atanòr» ed «Ignis», dirette da Arturo 
Reghini, e in cui iniziò una collaborazione il giovane 
Evola: affronteranno con un rigore ed una serietà 
inconsuete, per l’eterogeneo ambiente spiritualista 
dell’epoca, tematiche e discipline esoteriche di parti¬ 
colare interesse: vi comparvero, per la prima volta in 
Italia, scritti di René Guénon, fra cui a puntate, pri¬ 
ma ancora che in Francia, L'esoterismo di Dante. È 
peraltro evidente come il contenuto di queste riviste 
non avesse un valore puramente speculativo, come 
dimostrano gli scritti di «Luce» suirO/7M5 magicum 
(Gli specchi - Le erbe) negli ultimi due numeri di 


(33) Fu proprio Giacomo Boni che, risalendo ai modelli d’origine, mi¬ 
se a punto il prototipo del fascio romano (oggi al Museo dell’Impero) 
per il Regime Fascista: è quello che compare sulle monete da due lire di 
quel periodo (cfr. V. BRACCO, L’archeologia del Regime, Volpe, Roma 
1983). 


35 









«Ignis», che preludono a quelli del successivo Grup¬ 
po di Ur. Ma intanto l’auspicata svolta in senso pa¬ 
gano da parte del fascismo sperata dalla corrente 
tradizionalista romana non solo stenta a verificarsi, 
anzi è messa pericolosamente in forse dalle mene de¬ 
gli ambienti cattolici e clericali. Nel n. 5 del maggio 
1924 di «Atanòr» Reghini con parole di fuoco de¬ 
preca alcune espressioni pronunciate da Mussolini 
in occasione del Natale di Roma: 

«Il colle del Campidoglio, egli ha detto, "‘dopo il 
Golgota, è certamente da secoli il più sacro alle 
genti civiir. In questo modo l’On. Mussolini, in¬ 
vece di esaltare la romanità, perviene piuttosto ad 
irriderla ed a vilipenderla. (...) Noi ci rifiutiamo di 
subordinare ad una collinetta asiatica il sacro colle 
del Campidoglio». 

E nel n. 7 di luglio, dopo il delitto Matteotti: 

«... ecco un clamoroso delitto politico viene a 
sconvolgere la vita della nazione, ad agitare gli ani¬ 
mi. (...) Investito da popolari e da ogni gradazione 
di democratici, a Mussolini non resterebbe che 
battere la via dell’imperialismo ghibellino, se non 
esistesse un partito che già lo sta esautorando... 
tengano ben presente i nostri nemici che, nono¬ 
stante la loro enorme potenza e tutte le loro pro¬ 
dezze, esiste ancor oggi, come è esistita in passato, 
traendo le sue radici da quelle profondità interiori 
che il ferro e il fuoco non tangono, la stessa catena 
iniziatica pagana e pitagorica, inutilmente e seco¬ 
larmente perseguitata». 

L’ordine del giorno Bodrero e le successive leggi 


36 


sulle società segrete tolgono ulteriore spazio all’atti¬ 
vità pubblicistica del Reghini, che peraltro conflui¬ 
sce, fra il 1927 e il 1928, nel «Gruppo di Ur», for¬ 
malmente diretto da Julius Evola. 

A noi qui non interessa tanto esaminare il lavoro 
di ricerca esoterico svolto dal Gruppo di Ur, cui par¬ 
teciparono, come è noto, personalità appartenenti 
alle principali correnti esoteriche operanti in quegli 
anni in Italia, dai pitagorici ai kremmerziani, dagli 
steineriani (antroposofi) ai cattolici eterodossi come 
il De Giorgio, quanto sottolineare come in quella se¬ 
de dovesse essere stato, almeno in parte, ripreso il 
programma di influenzare per via sottile le gerarchie 
del fascismo, nel senso già voluto dal gruppo mani¬ 
festatosi nel 1913 con la testimonianza di «Ekatlos» 
(che, non lo si dimentichi, viene riportata proprio 
nel terzo dei volumi che raccolgono le testimonianze 
di tutto il gruppo — in apparenza slegata da esse — 
successivamente apparse col titolo di Introduzione 
alla Magia). In un inserto per i lettori comparso nel 
n. 11-12 di «Ur» (1927), Evola poteva scrivere: «... 
possiamo dire che una Grande Forza, oggi più che 
mai, cerca un punto di sbocco in seno a quella bar¬ 
barie, che è la cosidetta “civilizzazione” contempo¬ 
ranea — e chi ci sostiene, collabora di fatto ad una 
opera che trascende di certo ciascuna delle nostre 
stesse persone particolari». 

Del resto, molti anni più tardi, Evola stesso di¬ 
chiarerà piuttosto esplicitamente nella sua autobio¬ 
grafia spirituale che l’intento del Gruppo era stato 
quello, oltre a «destare una forza superiore dr servi- 


37 









re d’ausilio al lavoro individuale di ciascuno», di far 
sì che «su quella specie di corpo psichico che si vole¬ 
va creare, potesse innestarsi per evocazione, una vera 
influenza dall’alto», sì che «non sarebbe stata esclu¬ 
sa la possibilità di esercitare, dietro le quinte, un’a¬ 
zione perfino sulle forze predominanti nell’ambien¬ 
te generale» (34). Un’indagine ben più approfondi¬ 
ta, come si vede, meriterebbe di essere svolta sugli 
evidenti tentativi di rivitalizzazione, all’interno del 
Grupo di Ur (35), delle radici esoteriche e dei conte¬ 
nuti iniziatici della tradizione romana: a parte i con¬ 
tributi dello stesso Evola (che firmerà come «EA» e, 
pare, anche come «AGARDA» e «lAGLA»), di cui 
ricordiamo l’importante saggio (nel HI volume) Sul 
«sacro» nella tradizione romana, ancora una volta 
fondamentale resta l’apporto del Reghini (che firma 
come «PIETRO NEGRI»): egli, nella relazione Sul¬ 
la tradizione occidentale, sulla scorta di un’attenta 
esegesi delle fonti antiche (soprattutto Macrobio) e 
di personali acute intuizioni, nonché di probabili 
«trasmissioni» iniziatiche, non esiterà ad indicare 
nel mito di Saturno il «luogo» ove è racchiuso il sen¬ 
so e il massimo mistero iniziatico della tradizione 


(34) J. EVOLA, Il cammino del cinabro, Milano 1972 (li ed.), p. 88. 

(35) Un esame generale, storico-bibliografico, sul Gruppo di Ur è sta¬ 
to da me compiuto in lingua tedesca, come studio introduttivo alla ver¬ 
sione tedesca del I volume di Introduzione alla Magia (Ansata Verlag, 
Interlaken 1985). Si tratta del notevole ampliamento, riveduto e corret¬ 
to, di un mio precedente studio già apparso in «Arthos» n. 4-5 
(1973-74). 


38 


romana, un’indicazione utilizzata e sviluppata ulte¬ 
riormente nel nostro recente Dèi e miti italici. 

Intanto, nella seconda metà del 1927, una serie di 
articoli polemici sui nuovi rapporti tra fascismo e 
chiesa cattolica, che Evola aveva pubblicato in «Cri¬ 
tica fascista» di Bottai e in «Vita Nova» di Leandro 
Arpinati, e la successiva comparsa, nella primavera 
del 1928, di Imperialismo pagano, che quegli articoli 
raccoglieva e sviluppava, riversarono proprio sul 
Gruppo di Ur pesanti attacchi clericali, fra cui è in¬ 
teressante segnalare quello particolarmente violento 
e ambiguo, del futuro papa Paolo VI, Giovanni Bat¬ 
tista Montini, allora assistente centrale ecclesiasti¬ 
co della Federazione Universitari Cattolici Italiani 
(F.U.C.I.), che aveva come organo culturale la rivista 
«Studium» (redazione a Roma e a Brescia). Dalle 
pagine di «Studium» il Montini accusava «i maghi» 
riuniti attorno a Evola di «abuso di pensiero e di pa¬ 
rola (...) di aberrazioni retoriche, di rievocazioni fa¬ 
natiche e di superstiziose magie» (36). 


(36) G.B.M., Filosofia: una nuova rivista, in «Studium», XXIV, 6 
(giugno 1928), pp. 323-324. Oltre che del futuro Paolo VI (certamente 
il più nefasto fra i papi di questo secolo), apparvero in «Studium» anche 
gli attacchi del futuro ministro democristiano del dopoguerra Guido 
Gonella {Un difensore del paganesimo, ivi, gennaio 1928, pp. 28-31; // 
nuovo colpo di testa di un filosofo pagano, ivi, aprile 1928, pp. 203- 
208), cui Evola replicò — dopo averlo definito «un tale il cui nome 
esprime felicemente che vesti gli si confacciano più che non quelle della 
romana virilità» — nell'«Appendice Polemica» di Imperialismo paga¬ 
no. Contro Imperialismo pagano (le nostre citazioni sono tratte dalla 
ristampa del 1978, presso Ar di Padova) si scomodò tutto Ventourage 
del giornalismo clericale, da «L’Osservatore Romano» a «L’Avvenire», 


39 










Imperialismo pagano fu l’ultimo deciso, inequivo¬ 
cabile e tragico appello da parte di esponenti della 
«corrente tradizionalista romana», prima del triste 
compromesso del Concordato, affinché il fascismo, 
come si esprimeva Evola, «cominciasse ad assumere 
la romanità integralmente e a permearne tutta la co¬ 
scienza nazionale», così che il terreno fosse «pronto 
per comprendere e realizzare ciò che, nella gerarchia 
delle classi e degli esseri, sta più su: per comprendere 
e realizzare il lato sacro, spirituale, iniziatico della 
Tradizione» (p. 162). A questo scopo Evola non ri¬ 
sparmiava taglienti critiche alle gerarchie del 
Regime: 


«Il fascismo è sorto dal basso, da esigenze confuse 
e da forze brute scatenate dalla guerra europea. Il 
fascismo si è alimentato di compromessi, si è ali¬ 
mentato di retorica, si è alimentato di piccole am¬ 
bizioni di piccole persone. L’organismo statale che 
ha costituito è spesso incerto, maldestro, violento, 
non libero, non scevro da equivoci» (p. 13). 


Di più: Evola, nel 1928, prevedeva addirittura gli 


al «Cittadino» di Genova, nonché tutta la pubblicistica fascista fautrice 
dell’intesa col Vaticano, da «Educazione fascista» a «Bibliografia fasci¬ 
sta», sino alla stessa bottaiana «Critica fascista» che aveva ospitato i 
primi articoli evoliani. 


40 


esiti e gli sviluppi della Seconda Guerra Mondiale: 


«L’Inghilterra e l’America, focolari temibili dei 
pericolo europeo, dovrebbero essere le prime ad 
essere stroncate, ma non occorre di certo spendere 
troppe parole per mostrare che esito avrebbe una 
simiie avventura sulla base dell’attuale stato di fat¬ 
to. Data la meccanizzazione della guerra moder¬ 
na, le sue possibilità si compenetrano strettamente 
con la potenza industriale ed economica delle 
grandi nazioni...» (pp. 88-89). 

Era dunque necessario che il fascismo, che «bene 
o male ha messo su un corpo. Ma... non ha ancora 
un'anima» (p. 13), si rivolgesse senza esitazioni a 
quella della Roma precristiana prima che fosse trop¬ 
po tardi, sì da «eleggere l'Aquila e il fascio e non le 
due chiavi e la mitria a simbolo della sua rivolu¬ 
zione» (p. 138). 

«Nostro Dio può essere quello aristocratico dei 
Romani, il Dio dei patrizi, che si prega in piedi e 
a fronte alta, e che si porta alla testa delle legioni 
vittoriose — non il patrono dei miserabili e degli 
afflitti che si implora ai piedi del crocifisso, nella 
disfatta di tutto il proprio animo» (p. 163). 

L’il febbraio 1929 il governo di Mussolini firma¬ 
va a nome del Re d’Italia, dal 1870 considerato dai 
papi un «usurpatore», il cosiddetto Coneordato con 
la Chiesa Cattolica (37) e nasceva il monstrum giuri- 


(37) Che il cosiddetto Concordato abbia sortito un effetto a dir poco 
nefasto sulle sorti, non solo dello stesso fascismo (come le vicende stori- 


41 








dico della Citta del Vaticano (38). Veniva con ciò 
tolta ogni speranza residua di azione all’interno de¬ 
gli ambienti ufficiali, sia da parte di Evola che di Re- 
ghini e di altri autorevoli esponenti, restati per lo più 
in ombra, del «tradizionalismo romano»: alcuni di 
loro, come già si è accennato in nota, abbandonaro¬ 
no per sempre l’Italia per il Nuovo Continente nel 
corso degli anni Trenta. 


Restava il «programma minimo» indicato ancora 
da Evola in Imperialismo pagano, secondo cui il fa¬ 
scismo avrebbe dovuto: 

«promuovere studi di critica e di storia, non parti- 
giana, ma fredda, chirurgica, sull’essenza del cri¬ 
stianesimo (...). Contemporaneamente dovrebbe 
promuovere studi, ricerche, divulgazioni sopra il 
lato spirituale della paganità, sopra la sua visione 
vera della vita» (p. 125). 


che successive ben presto dimostrarono, avvalorando i timori di Reghini 
e di Evola), ma della stessa Italia del dopoguerra, lo sperimentiamo an¬ 
cora oggi sulla nostra pelle, dopo che un quarantennale dominio 
clericale-borghese ha provveduto, quasi in ogni campo, ad addormenta¬ 
re la coscienza delle «masse» ed a stroncare, con un autentico «terrori¬ 
smo di Stato», qualsiasi velleità di reazione delle minoranze coscienti 
della necessità di mutare uno stato di cose ormai incancrenito. 

(38) «Mussolini non si era reso conto che prima di lui uomini non so¬ 
lo autoritari, ma dal potere assoluto — gli Ottoni, gli Svevi, perfino 
Carlo V ecc. — si erano dovuti pentire di ogni intesa, patto e transazio¬ 
ne con la Santa Sede. (...) ogni intesa tra Santa Sede e Stato italiano 
avrebbe significato unicamente il riconoscimento giuridico della validità 


42 


Chi avesse pensato che la «Scuola di Mistica Fa¬ 
scista», fondata significativamente poco dopo la 
«Conciliazione», nell’aprile 1930 nell’ambito del 
G.U.F. di Milano per opera di Nicolò Giani, avrebbe 
svolto una funzione del genere, avrebbe dovuto ben 
presto ricredersi amaramente. In realtà, il sentimen¬ 
to religioso dichiarato di quella che avrebbe voluto 
costituire Vélite politico-intellettuale del fascismo si 
configurava con precisione come cattolico. Lo di¬ 
chiara, in una maniera che non potrebbe essere più 
esplicita, lo stesso fratello del «Duce», Arnaldo 
Mussolini, in un discorso tenuto alla Scuola nel 
1931: 


«La nostra esistenza deve essere inquadrata in una 
marcia solida che sente la collaborazione della 
gente generosa e audace, che obbedisce al coman¬ 
do e tiene gli occhi fissi in alto, perché ogni cosa 
nostra, vicina o lontana, piccola o grande, contin¬ 
gente od eterna, nasce e finisce in Dio. E non parlo 
qui del Dio generico che si chiama talvolta per 
sminuirlo Infinito, Cosmo, Essenza, ma di Dio 
nostro Signore, creatore del cielo e della terra, e 
del suo Figliolo che un giorno premierà nei regni 
ultraterreni le nostre poche virtù e perdonerà, spe¬ 
riamo, i molti difetti legati alle vicende della no¬ 
stra esistenza terrena» (39). 


dei principii su cui si fonda l’ingerenza della Chiesa nelle questioni del¬ 
lo Stato italiano» (N. SERVENTI, Dal potere temporale alla repubblica 
conciliare. Volpe, Roma 1974, p. 42). 

(39) Cfr. «11 Popolo d’Italia» del 1° dicembre 1931. Sulla «Scuola di 
Mistica Fascista», si veda: D. MARCHESINI, La scuola dei gerarchi, 
Feltrinelli, Milano 1976. 


43 










E il filosofo Armando Carlini, discutendo della 
nuova mistica, ravvisava la nota più originale del fa¬ 
scismo proprio nel suo presupposto «religioso, anzi 
cristiano, anzi cattolico» (40); perché «il Dio di 
Mussolini vuol essere quello definito dai due dogmi 
fondamentali della nostra religione (...): il dogma 
trinitario e quello cristologico» (41). 

Quel programma che abbiamo detto «minimo» 
cercherà Evola più tardi in parte di compiere con 
l’organizzare il lavoro di alcuni suoi insigni collabo¬ 
ratori attorno al «Diorama filosofico», la pagina 
speciale che, con uscita irregolare e alterna, quindi¬ 
cinale e mensile, curò per dieci anni, dal 1934 al 
1943, all’interno del quotidiano cremonese di Fari¬ 
nacci, «11 Regime Fascista». La tematica della tradi¬ 
zione romana, esaminata nei suo simboli, nei suoi 
miti, nella sua forza spirituale, ritorna qui frequen¬ 
temente negli scritti dello stesso Evola, di Giovanni 
Costa (già da noi incontrato), di Massimo Scaligero 
e di diversi collaboratori stranieri, come Edmund 
Dodsworth (appartenente alla famiglia reale britan¬ 
nica) e lo storico tedesco Franz Altheim. Analoghe 
collaborazioni sono fornite dall’allora giovane An¬ 
gelo Brelich, in quell’epoca sconosciuto, ma destina¬ 
to nel dopoguerra a ricoprire degnamente l’impor- 


(40) A. CARLINI, Mistica fascista, in «Archivio di studi corporati¬ 
vi», voi. XI (1940), p. 299. 

(41) ID., Saggio sul pensiero fUosofico e religoso del fascismo, Roma 
1942, p. 56. 


44 


tante cattedra, che fu del Pettazzoni, di Storia delle 
Religioni nell’Università di Roma, e da Guido De 
Giorgio, già collaboratore di «Ur» e di altre iniziati¬ 
ve evoliane. Nel contesto della corrente da noi defi¬ 
nita del «tradizionalismo romano» il De Giorgio oc¬ 
cupa una posizione piuttosto anomala e tale che il 
Reghini avrebbe visto con sospetto: egli infatti con¬ 
cepisce in Roma la sede eterna, geografica e storica, 
ma soprattutto metafisica, in grado di unire in sé 
stessa la religione pagana e il cristianesimo, tesi ela¬ 
borata soprattutto ne La tradizione romana, uscita 
postuma solo nel 1973 (42). D’altra parte, è lo stesso 
De Giorgio a ribadire con sorprendente sicurezza la 
persistenza del culto di Vesta in un misterioso cen¬ 
tro, nascosto e inaccessibile: 

«Il fuoco di Vesta (...) arde inaccessibilmente nel 
Tempio nascosto ove nessuno sguardo profano sa- 


(42) L’uscita alle stampe di questa edizione (presentata come Ed. Fla- 
men, Milano 1973) offre contorni alquanto misteriosi. In ogni caso, il 
manoscritto dell’opera sarebbe stato consegnato all’autore della nota 
introduttiva, «ASILAS» (che corrisponderebbe ad uno degli ispiratori 
del «Gruppo dei Dioscuri» e nel contempo autore di due dei fascicoli 
omonimi [si veda poi]), da un antico componente del Gruppo di Ur, che 
noi sappiamo corrispondere al «TAURULUS» del 1929, cioè Corallo 
Reginelli, tuttora vivente. 

L’uscita della Tradizione romana, in ogni modo, è stata 1 ’occasione 
per una salutare riflessione sul tema da parte dell’ambiente tradizionali¬ 
sta nella prima metà degli anni Settanta, sia da parte cattolica (si veda¬ 
no il bollettino «Il rogo», operante fra il 1974 e il 1976 e la successiva 
rivista «Excalibur»), sia da parte propriamente «pagana» (si veda la no¬ 
stra recensione dell’opera del De Giorgio, confortata da un parere di 
Evola, in «Arthos» n. 8: essenziale come punto di ripresa del discorso 
sulle origini della tradizione romana). 


45 











prebbe penetrare e a lui deve l’Europa intera la sua 
vita e il prolungamento della sua agonia. Da questo 
fuoco occulto partono scintille che alimentano le 
crisi e risollevano periodicamente l’esigenza del ri¬ 
torno alla Romanità attraverso le varie vicende di 
cui s’intesse la storia delle nazioni europee conside¬ 
rata geneticamente, internamente e non sul piano li¬ 
mitatissimo della contingenza dei fatti e degli 
uomini» (43). 


Queir immane conflitto, già previsto da Evola nel 
1928, e che anche il De Giorgio giudicava del tutto 
inefficace, «se non addirittura letale per lo spirito e 
il nome di Roma» (44), avrà in effetti come risultato 
più manifesto, per i fini dello studio che qui andia¬ 
mo conducendo, di occultare del tutto le fila della 
corrente di pensiero di cui siamo andati ripercorren¬ 
do la trama. 

Solo verso la fine degli anni Sessanta è proprio la 
ristampa dell’evoliano Imperialismo pagano (e la 
scelta pare significativa), curata nel 1968 dal «Cen¬ 
tro Studi Ordine Nuovo» di Messina (45), a tentare 


(43) G. DE GIORGIO, op. di., p. 245 (vedi anche pp. 239 e 243). 

(44) ibidem, p. 296. 

(45) L’edizione, ciclostilata, con copertina stampata in azzurro, venne 
tolta subito dalla circolazione in quanto non autorizzata da Evola: la si 
può considerare oggi una vera rarità bibliografica. 


46 


di riannodare i termini di un antico discorso: 

«L’angoscioso grido d’allarme rivolto dall’Autore 
in quel lontano 1928 a Benito Mussolini per met¬ 
terlo in guardia contro il ventilato proposito della 
cosiddetta “Conciliazione’)) — si afferma nell’a¬ 
nonima introduzione — «risuona oggi con inusi¬ 
tata attualità e fa si che Imperialismo pagano ven¬ 
ga guardato come un oracolo». 

Ed è proprio provenendo dalle fila di «Ordine 
Nuovo», un’organizzazione che lo stesso Evola ha 
tenuto in buona considerazione (46) — almeno fino 
a che, sul finire del 1969, la sua ala borghese¬ 
modernista, condotta da Rauti, non confluì nel 
MSI (47) — che comincia ad agire, tra la fine degli 
anni Sessanta ed i primi anni Settanta, il «Gruppo 
dei Dioscuri», con sede principale a Roma e dirama¬ 
zioni a Napoli e Messina. Pare assodato che all’in¬ 
terno del «Gruppo dei Dioscuri» venissero riprese 


- (46) Cfr. J. EVOLA, Il cammino del cinabro, cit., p. 212: «L’unico 
gruppo che dottrinalmente ha tenuto fermo senza scendere in compro¬ 
messi è quello che si è chiamato AeWOrdine Nuovo». 

(47) L’interesse dei «tradizionalisti romani» nei confronti di «Ordine 
Nuovo» si esaurisce sin dall’inizio degli anni Settanta, allorché, da una 
parte, la frazione rautiana rientrata nei ranghi del MSI si isterilì in fatui 
ed estenuanti «giochi di potere» (!?) all’interno del partito e in decla¬ 
mazioni populistico-giovanilistiche (non a caso la cosiddetta «Nuova 
Destra» proviene quasi esclusivamente da quell’ambiente torpido ed 
ambiguamente compromissorio), dall’altra, la frazione «movimentista» 
ed extraparlamentare condotta da Clemente Oraziani ed altri si smarrì 
nelle velleità inconcludenti e pericolose della «lotta di popolo», con 
conseguente ed inevitabile suo annientamento da parte del Potere vero... 


47 











tematiche e pratiche operative già in uso nel «Grup¬ 
po di Ur» ed è perlomeno probabile che lo stesso 
Evola ne fosse al corrente. 

Fatto sta che nei quattro «Fascicoli dei Dioscuri», 
usciti in quel torno di tempo, l’idea di Roma da una 
parte e di un Centro nascosto dall’altra, a cui il tra¬ 
dizionalismo dovrebbe far riferimento, ritornano 
con grande evidenza. 

Per l’anonimo autore del primo «Fascicolo dei 
Dioscuri», intitolato Rivoluzione tradizionale e sov¬ 
versione (Centro di Ordine Nuovo, Roma 1969), il 
più grande dei meriti di Evola è quello: 

«di avere rammentato il destino di Roma quale 
portatrice dell’Impero Sacro Universale e di avere 
tratto da tale verità le necessarie conseguenze in 
ordine alle idee-forza che devono essere mobilitate 
per una vera rivoluzione tradizionale» (p. 20). 

Qualche anno dopo, al termine del terzo «Fasci¬ 
colo» intitolato Impeto della vera cultura (tradotto 
poi anche in francese nel 1979), il mito di Roma vie¬ 
ne additato come l’unico che sia in grado di condur¬ 
re ad una superiore unità gli sforzi di tutti i tradizio¬ 
nalisti italiani: 

«a tutti i tradizionalisti, anziché proporre uno dei 
tanti miti soggetti a rapido e facile logoramento, si 
può ricordare la presenza di una forza spirituale 
perennemente viva e operante, quella stessa che il 
mondo classico ed il medio-evo definirono l’AE- 
TERNITAS ROMAE» (p. 18). 


48 


Il «Gruppo dei Dioscuri» ebbe notevole impor¬ 
tanza come cosciente riconnessione alle precedenti 
esperienze sapienziali e come indicazione, per taluni 
elementi particolarmente sensibili dell’area della de¬ 
stra radicale, di possibili indirizzi e sbocchi futuri 
del «tradizionalismo romano», anche se la partico¬ 
lare via operativa scelta e, soprattutto, la mancata 
qualificazione di taluni componenti, porterà ben 
presto alla distruzione dall’interno del Gruppo stes¬ 
so, di cui non si sentirà più parlare già prima della 
metà degli anni Settanta (ci viene detto che frange 
disperse del gruppo continuerebbero a sussistere so¬ 
prattutto a Napoli). È tuttavia da supporre che alcu¬ 
ni dei gruppi periferici, sia pure trasformati, ne ab¬ 
biano continuato il retaggio se, ad esempio, a Messi¬ 
na nel 1975, molto probabilmente nell’ambito di al¬ 
cuni dei vecchi membri del «Gruppo dei Dioscuri» 
viene elaborato un testo dottrinale ed operativo, a 
circolazione interna, sotto forma di «lezioni» di un 
maestro a un discepolo, piuttosto interessante. La 
via romana degli dèi: 

«Diremo anzitutto dell’essenza della tua religiosi¬ 
tà, fornendo alla tua mente profonda gli argomen¬ 
ti per una serie di esercizi di meditazione affinché 
con saldo cuore, tu possa prepararti all’assolvi¬ 
mento del rito» (48) [cfr. anche Appendice IV]. 


(48) N.N., La via romana degli dèi. Istituto di Psicologia Superiore 
Operativa, Messina 1975 (ciclostilato ad uso interno), p. 1. 


49 











E certamente non priva di connessioni genetiche 
col gruppo romano appare la sortita, improvvisa, 
verso la fine degli anni Settanta, nella stessa Messi¬ 
na, del «Gruppo Arx», successivamente editore del 
periodico «La Cittadella» e degli omonimi quader¬ 
ni, in cui senza alcuna attenuazione i possibili itine¬ 
rari di approccio alla «via romana degli dèi» sono 
indicati attraverso la cosciente riappropriazione del- 
Vanimus romano-italico, rivissuto nel rito stesso, e 
nel rigetto, sostanziale e formale, di ogni adesione a 
forme anche esteriori del culto cristiano. 


Quanto segue è storia dei nostri giorni, dal mo¬ 
mento che proprio con l’inizio degli anni Ottanta vi 
è stata una nuova cosciente ripresa del moderno 
«movimento tradizionalista romano», una cui rima¬ 
nifestazione «pubblica» si estrinsicherà in una data 
ed in un luogo alquanto significativi. Infatti nel 
1981, il 1° marzo (data in cui iniziava l’anno sacro 
romano), a Cortona (donde in epoca primordiale 
Dardano, figlio di Giove, si sarebbe mosso alla volta 
della Troade) si tenne un importante Convegno di 
studi sulla Tradizione italica e romana (49), che, a 


(49) Gli Atti sono stati pubblicati nel numero speciale triplo di «Ar- 
thos» n. 22-24, daU’omonimo titolo, di pp. 192. Per una sintetica analisi 
sulla diversa valenza del termine «italico» nei vari interventi, cfr. R. 
DEL PONTE, Che cos’è la tradizione italical, in «Vie della Tradizio¬ 
ne», XV, 57 (gennaio-marzo 1985), pp. 1-3. 


50 


parte l’emergenza di differenti prese di posizone dei 
tradizionalisti presenti, ebbe il merito di riproporre 
la questione — non puramente dottrinale o formale 
— di una cosciente riconnessione aWaurea catena 
Saturni della tradizione indigena da parte di chi, pur 
in quest’epoca di totale dissoluzione di ogni valore, 
intenda coscientemente riassumere il fardello delle 
proprie radici etniche e spirituali. Successivamente 
ad un nuovo Convegno, tenutosi nel dicembre 1981 
a Messina, sul Sacro in Virgilio (50), la rielaborazio¬ 
ne dottrinale e la ridefinizione concettuale dei valori 
difesi dagli attuali esponenti del «tradizionalismo 
romano» (di cui è parte cospicua anche l’apparire 
alle stampe di alcune collane di libri specifiche) (51) 
si è spostata su un piano più interiore, ma la loro 
presenza è destinata a riaffiorare a livello di influen¬ 
za sottile e indiretta di gruppi o ambienti eticamente 
sensibili di un’area superante i limiti stessi del mon¬ 
do della «destra politica». 

Il futuro dimostrerà se la funzione di questa mi¬ 
noranza (ben cosciente di esserlo) si limiterà ad una 


(50) Gli Atti sono stati pubblicati in buona parte nel numero speciale 
di «Arthos» n. 20 (uscito successivamente al n. 22-24), daH’omonimo 
titolo, di pp. 72. 

(51) Ci limiteremo a ricordare la collana «1 Dioscuri» per le ECIG di 
Genova, in cui figurano L’oltretomba dei pagani di C. Pascal, il mio 
Dèi e miti italici. La religiosità arcaica dell ’Eliade di N. D’Anna e Arca¬ 
na Urbis di M. Baistrocchi (in stampa); o quella di «Studi Pagani» del 
Basilisco di Genova, in cui sono comparsi testi di antichi (Giuliano Au¬ 
gusto, Giamblico, Simmaco, Porfirio) e di moderni (Guidi, De Angelis, 
Beghini, Evola ecc.). 


51 









pura e semplice azione di testimonianza, sia pure 
«scomoda» per molte cattive coscienze. Il «mito ca¬ 
pacitante» di Roma, come l’antica fenice, è destina¬ 
to a risorgere continuamente dalle sue ceneri, poiché 
riposa nella mente feconda degli dèi archegeti di 
questa terra. 


Appendici documentarie 


52 


53 






I 


Da: «Il Piccolo» di Roma, 23-24 maggio 1923, 

p. 2: 

«Il Fascio littorio a Mussolini» 

Il giorno 19 scorso, presentata dall’esimia prof.a 
Regina Terrazzi, fu dall’on. Mussolini ricevuta la 
dott.a prof.a Cesarina Ribulsi, che offriva al Presi¬ 
dente del Consiglio come augurio per la data del 
XXIV Maggio un fascio littorio da lei esattamente 
ricostruito secondo le indicazioni storiche e icono¬ 
grafiche. 

L’ascia di bronzo è proveniente da una tomba 
etrusca bimillenaria ed ha la forma sacra col foro 
per la legatura al manico: alcuni esemplari simili so¬ 
no conservati nel nostro Museo Kircheriano. 

Le dodici verghe di betulla, secondo la prescrizio¬ 
ne rituale, sono legate con stringhe di cuoio rosso 
che formano al sommo un cappio per poter appen¬ 
dere il fascio, come nel bassorilievo per la scala del 
Palazzo Capitolino dei Conservatori. 

Il fascio ricomposto con elementi antichissimi e 
nuovissimi è stato offerto al Duce come simbolo del¬ 
la sua opera organica di ricostruzione dei valori del¬ 
la nostra stirpe allacciando le vetuste origini alle for¬ 
me più vibranti dell’attività gagliarda e rinnovata 
che prende le mosse dal XXIV Maggio 1915. 

La rudezza espressiva del Fascio è ingentilita dal 
contrasto tra il verde della patina bronzea e il rosso 


55 







del cuoio che ricorda la stessa armonica tonalità che 
producono le colonne di porfido presso la porta di 
bronzo àcWheroon di Romolo, figlio di Massenzio, 
al Foro Romano. 

L’offerta era accompagnata da una epigrafe latina 
dedicatoria composta dall’offerente, la quale nel¬ 
l’Università Popolare fascista svolge una fervida 
opera di propaganda di romanità viva. 

Il Duce gradì l’augurio ed il voto accogliendoli 
colla sua consueta serena nobiltà, non senza un se¬ 
gno della vivacità del sorridente suo spirito latino: 
«Lei mi ha dato una lezione di storia» — osservò in 
tono scherzoso. Singolari parole in bocca di chi dà 
e darà non poco a fare agli storici futuri. 

(La notizia è riportata in una rubrica dedicata a 
«I solenni riti del XXIV Maggio», senza indicazione 
di paternità). 


56 


II 


Da: IGNIS, Rumori. Sacrae Romae origines, tra¬ 
gedia in cinque carmi. Editrice Libreria del Littorio, 
Roma 1929. 

pag. non numerata, IV dopo il frontespizio: 

LETTERA DI ARDENGO SOFFICI A S.E. 
MUSSOLINI 

Mio caro Presidente, (...) permettimi ti dia, scritte 
e sottoscritte anche da me, che ne resto garante, al¬ 
cune prove di pregi eccezionali della tragedia, che, in 
fondo, in un vero poema epico delle origini, è l’esal¬ 
tazione di oggi della nostra stirpe. Comincio da un 
mio giudizio, già a te noto; Rumori è tragedia roma¬ 
na che può stare a paro col Giulio Cesare di Shake¬ 
speare (...) ti fo osservare che il titolo di Poeta di Ro¬ 
ma, dato da Jean Carrère ad ignis, si è dato solo a 
Virgilio e ad Orazio: Augusto, vive, oggi, tra noi tut¬ 
ti in ispirito, più per questi due poeti, da lui protetti, 
che per la sua politica imperiale. 

E tu vedi come Rumori sia stato giudicato, prima 
ancora che esistessero l’idea e la forza fascista, tra¬ 
gedia degna di Roma (...) quando competenti — dai 
nostri a Carrère, ed a me che sono l’ultimo al giudi¬ 
zio del 1923 — corrono all’iperbolico per lodare Ru¬ 
mori di ignis bisogna concludere che ci si trova da¬ 
vanti ad un’opera d’arte somma, e per fortuna no¬ 
stra, d’arte italiana — opera che è, anche per se stes- 


57 







sa, di alto significato politico, e di spirito fascista 
(...) Mi rileggo, e mi credo, caro Presidente ed amico 
carissimo, di averti scritto una lettera storica. Fai 
che non sia stata scritta invano, ma invece il tuo no¬ 
me vada unito a quello della tragedia Rumori, al 
poema di Roma e degno di Roma: e di questo lega¬ 
me in avvenire, spero che tu possa essere un po’ gra¬ 
to al tuo affezionato amico e devoto 

ARDENGO SOFFICI 

pag. successiva non numerata: 

IL MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI 
Caro Soffici, 

bisogna assolutamente far marciare Rumori. 11 
Governo appoggia fervidissimamente l’iniziativa 
perché essa rientra nel grande quadro della rinascita 
nazionale. 

Saluti fascisti e cordialissimi. 

f.to MUSSOLINI 

Roma, 7 marzo 1923 


pagg. CLXV-CLXVI (Carme terzo): 

AUGURE 

Manifesto è dunque: amor — essere — ROMA. 
Se tutte move, ed incende, le create cose... 
legge si è — Amor — dell’universo vita... 
così, un tanto Nome, a noi predice: 


58 


dono di regno e potestà sovra ogni terra, 
e dello spirito, e d’imperio. 

Confirmato si è, per te, prodigioso il vaticinio. 

Non pronunciati mai più sien i Nomi occulti... 
su la Città terribili chiamerebbero fortune... 

Li trasmettano, oralmente, i Pontefici ai Pontefici. 
Né mai più, tu, l’eccelso pronuncia Nome palese, 
se concluso non avrai, prima, il solco sacro. 
Permesso e commesso mi è: Nunziare, allora, 
in gran letizia, al Popolo... quel Nome 
che licito non più mi è dire 

quando, già per tre volte, qui, in tre diversi suoni, 
de la gran Madre nostra il Nome risonò. 

{Dispiega le dita della sinistra, ad una ad una, per nu¬ 
merare i significati del nome). 

Di significati cinque: 

È... ’l Nome palese, latore, con l’occulto: 

Chiama la Città: Valentia... Ròbure... Virtù! 
e ancor: Madre... Mamma... Alma Nutrice! 

Vostra — nei nomi vostri — oh Re! suoi fondatori... 
Come del grande Rumon: URBE: la Città del 
Fiume! 

{Pausa) 

Ammirate! se gli Dei saputo abbiano addensare, 
in così breve Verbo, sì pieni... tanti arcani. 

Mirifici! donando Nomi nove: 

in quattro occulti ed un — Medio — palese, 

e quando, nove, siamo al Rito. 


59 





Ili 


Da: G. COSTA, Apologia del paganesimo, A.F. For- 
mìggini Editore, Roma 1923, pagg. 69-70: 

Il pagano è, per definizione, buono. Né un greco, 
né un romano avrebbero concepito che l’uomo po¬ 
tesse esser qualcosa di diverso da ciò, che in lui liti¬ 
gassero per così dire due nature, che la manifestazio¬ 
ne esterna fosse diversa dall’interna, che né nella vi¬ 
ta individuale, né in quella sociale vi fossero mezzi 
termini, transazioni, compromessi. Esso è quello 
che naturalmente è, cioè buono, come ideale supre¬ 
mo della vita, come dovere, come necessaria fatalità 
insita nelle cose umane. Egli vive quindi la vita inte¬ 
ramente, dolorosamente, gioiosamente a un tempo, 
con un pragmatismo sano e forte che non ammette 
ipocrisie, doppiezze, scuse. 

Solamente all’uomo cosiddetto moderno è stato 
concesso, per virtù di dottrine religiose e culturali 
che si sono formate a lui d’intorno, una distinzione 
ed una separazione del suo essere intimo, spirituale, 
psicologico, dal suo essere apparente, esteriore, ma¬ 
teriale. All’antico quando di questa scissione appar¬ 
ve per un momento la possibilità, egli ne cacciò da 
sé l’idea, ne biasimò perfino la concezione. 

La concezione pagana della vita ha fatto perciò 
l’uomo tutto d’un pezzo, ne ha affermato il caratte¬ 
re, ne ha provocato 1 ’azione. Ecco perché la vita nel 
paganesimo ha avuto tutto il suo massimo sviluppo 
ed è stata accettata non come un male, ma come un 


60 


bene che bisognava con interezza di carattere vivere 
interamente e sanamente per sé e per gli altri. 

pag. 91: 

Per stabilire l’equilibrio l’uomo deve tornare al 
paganesimo poiché il cristianesimo si è mostrato di¬ 
vina opera cui le sue spalle non sanno sottostare. 

Ma paganesimo è sincerità e l’uomo deve ritorna¬ 
re ad essere sincero. Il cozzo a cui l’ha costretto per 
due millenni il suo desiderio di seguire il messaggio 
cristiano e la sua manifesta impotenza di non saper¬ 
lo fare, deve risolversi in armonia se egli vuol sanare 
in sé l’eterno dissidio. Lo spirito e la carne debbono 
avere il medesimo valore ed il loro prevalere non può 
essere determinato che da circostanze speciali di in¬ 
dividuo, di momento e di luogo che l’uomo può in- 
travvedere, non deve violare con convinta testardag¬ 
gine. L’equilibrio di queste forze, l’esteriore e l’inte¬ 
riore, quindi, deve essere nella dottrina, come nella 
vita, assoluto. 


61 









IV 


Da: Im via romana degli dèi, ciclostilato anonimo, 
Messina 1975 pagg. 41-42: 

L'immagine di un dio è lo stemma della Forza che 
essa rappresenta. A tutti i fini pratici tali immagini 
sono personae, perché qualsiasi cosa possano essere 
nella realtà esse sono state personalizzate e forme di 
pensiero sono state proiettate su un altro piano (...) 

Alcune di queste immagini e le loro attribuzioni 
sono così antiche e sono state costruite con tanta 
ricchezza di lavoro sottile da essere capaci di rico¬ 
struirsi da se stesse, durante l’eventuale lavoro di 
meditazione, che l’allievo può fare su una divinità. 
Resta un minimo «invito», un minimo stimolo, per¬ 
ché il meccanismo scatti e l’immagine si ricompon¬ 
ga, sia pure su un piano semplicemente psichico. 
Così, della limatura di ferro, dispersa su un piano, 
si raccoglie intorno ad un magnete che venga posto 
in mezzo. Se il magnete è forte esso attirerà i granelli 
anche se essi sono pochi e molto distanti... 


62 



AMKDKO R(K ( () ARMKM ANO 
(im - 


da «Ygieia», 111, 1-4 (dicembre 1986) 


63 











Arturo Reghini 
(1878-1946) 


64 


0 Piscio littorio a Mussolini 

n florno If »cor*o. pr^eniaU dalla tsl- 
bjU prof.» Rcidna Trmiizl. fa rtalTon. Maa. 
aOltnl rlotwta la doti.» pmf.» Osarina RI- 
baiai cba offriva al Proatdanta dr’. Conti¬ 
guo romo aufurln la data de) XXIV 
Mabfio «n falcio littorio da lei eaattamcDte 
licoatndto lecoudo la lodicaslonl atorictie 
e leooograflclia. 

l.‘aicla di bronra k prorenlenU dm aoa 
tomba etmaca hlmtneoarta ed ba la forma 
aorra eoi foro per la Vantura hi manico: 
alcool eaamplan slmili sono coosenrat: :.«! 
nostro Ma.*«o Klrcberiamo. é 

La dodict verace di l>ctulla. ascondo la 
prescrizione rit'iale. sono legala con tiri¬ 
sele ^ cuoio rosso cba formano al tonimo 
ua cappio per poter appendere fi fascio, 
conta nel ba.MorUiero per la acala del Pa 
lazzo Capitolino dd Conaenalori. 

Il Fascio ricomposto con elementi antl- 
fhlHilmt a nuoTltaUnl k stato offerto al 
Dora come simbolo della saa opera onra- 
ntea di rieoatruztona del valori della no- 
Mra attrpa allacciando le veia«ie origini 
alla fonn* più vibranti dell'attività ga- 
giarda a rinnovata cha prendo la mosse 
^ XXIY Maggio 19t8 
Là rudezza espressiva dal Fascio è in- 
gantlHta dal contrasto tra (I verde della 
patind bronsea e U rosso del molo che ri¬ 
corda la stes.aa armonica tonalità che pm- 
doeono le colonne di porfido presso la por¬ 
ta di bronzo deD'brroon di Itomdlo, figlio 
41 Massenzio al Foro Romano. 

L'oflerla efa accompagnata da ani epl- 
graia latina dedicatoria composta dall'or- 
farente. la quale nell'UntvcnUtà Popolare 
faartsta avolga una fervida opera di pro- 
pafgada di romani Ih viva. 

n Duca gradi raugorto a fi voto acro- 
Mlaodoll colla sua consueta serena nobiltà. 
2«m senza tm segno della vivacità del sor> 
ridaots ano spirito latino: • Let mi ba dato 
nna testone di storia • — osservò In tono 
aehanoao. Btngolart parole In bocca di r.hl 
db a darà non poca a fare agli storici fu- 
tnrl 


Riproduzione da «11 Piccolo». 
V. pag. 55. 


65 




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